NARDI # SAGGI SULL ARISTOTEL ISMO PADOVANO DAL SECOLO 3 T1S3 DD0b3fllS 7 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA CENTRO ARISTOTELICO BRUNO NARDI SAGGI SULL'ARISTOTELISMO PADOVANO . DAL SEGOLO XIV AL XVI G. C. SANSONI - EDITORE FIRENZE UNIVERSITÀ DEGLI STl^DI DI PADOVA STUDI SULLA TRADIZIONE ARISTOTELICA NEL VENETO Volume I UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA CENTRO ARISTOTELICO BRUNO NARD I SAGGI SULL'ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SEGOLO XIV AL XVI G. e. SANSONI - EDITORE FIRENZE Questo volume è stato pubblicato a cura e sotto gli auspici del Centro per lo studio della tradizione aristotelica nel Veneto e del Comitato per la storia dell' Università di Padova PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Stampato in Italia AL LETTORE Ho aderito di buon animo a che venissero riuniti in questo volume, per comodo degli studiosi che ne fanno ricerca, quattor- dici saggi sull'Aristotelismo padovano e particolarmente su queir interpretazione del pensiero aristotelico che prende il nome dall'arabo « Averrois che 7 gran commento feo », sparpagliati, come numerosi altri loro confratelli, in varie riviste ormai non più facilmente accessibili. Questi saggi abbracciano un periodo assai lungo di ricerche dal igi2 al ig^ó, e nel loro insieme offrono un quadro sufficientemente completo, per monografie che si richiamano fra loro, della filosofìa a Padova dai tempi di Pietro d'Abano, a principio del Trecento, a quelli di Giacomo Zabarella e di Francesco Piccolomini, alla fine del Cinquecento , quando ormai, a Padova e altrove, V Aristotelismo comincia a volgere decisamente al tramonto, per il nascere delle nuove scienze della natura e del nuovo metodo di ricerca scientifica e filosofica. Fuori della presente raccolta, già abbastanza pingue, son ri- masti i saggi stille opere inedite del Pomponazzi, meno quello relativo alla miscredenza di Nicoletto Vernia, perché essi po- tranno essere riuniti a suo tempo in un volume a parte, ed altresì quello sulla letteratura e cultura veneziana nel Quattrocento, apparso nel volume La civiltà veneziana del Quattrocento della Fondazione Cini, che potrà meglio figurare insieme ad altri, che vado preparando , sulla filosofia veneziana del Rinascimento. Nella formazione del presente volume non è stato sempre rispettato l'ordine cronologico nel quale i saggi qui compresi sono apparsi, per il bisogno di contemperarlo con la successione storica degli argomenti trattati. Ad ogni modo, sono stati sempre indicati in nota la data e il luogo ove ciascuno ha visto la luce la prima volta. Inoltre, ritengo opportuno avvertire che tutti sono stati più o meno leggermente ritoccati, e qualcuno in modo assai notevole. AL LETTORE Quello che mi ha guidato in queste non agevoli ricerche, non è stato, cerne forse taluno potrebbe pensare, il gusto delle notizie erudite, pur sempre indispensabili alla ricerca storica, sibbene il bisogno di prospettare le particolari condizioni e circostanze d'ambiente culturale in cui certi problemi filosofici eran posti, fra il secolo XIV e il XVI, dagli aristotelici padovani, e lo sforzo da questi sostenuto per trovarne una soluzione e per eva- dere da abitudini mentali e pregiudizi che alla soluzione di quei problemi s'opponevano. Su alcuni di siffatti problemi discussi e ridiscussi mille volte nel corso di quasi quattro secoli, era naturale che avessi a fer- marmi con insistenza e abbondanza di citazioni, perché chi legge avesse modo di rendersi conto, quasi toccando con mano, dell' imprecisione e non di rado dell' avventatezza di talune af- fermazioni da parte di non pochi storici che la storia delle idee non hanno mai preso sul serio, contenti troppo spesso di luoghi comuni e vacue generalità: Per oppormi appunto a questo an- dazzo e per restituire ai pensatori sui quali mi sono fermato i lineamenti della loro umana fisionomia, m' è parso non fossero da sdegnare notizie particolari e perfino aneddoti che rasentano il pettegolezzo, ma intanto rivelano curiosi tratti del loro carattere morale e aprono uno spiraglio su quell'ambiente scolastico, per tanti aspetti così diverso di quello d'oggi. La distinzione poi che s' è preteso di fare tra filosofia e cul- tura s è rivelata inconsistente, non solo quando s' è tentato di giustificarla , col definire in termini rigorosamente logici il concetto di cultura come diverso da quello di filosofia, ma più ancora quando, in omaggio a quella: pretesa distinzione, nel tracciare la storia del pensiero d'un epoca, s' è tenuto conto quasi esclusivamente dei pionieri e si sono disprezzate forme di pensiero meno avanzate e, diciamo pure, piii umili, come, ad esempio, per il Rinascimento, le credenze magiche ed astrolo- giche, condivise da dotti non meno che dal popolino, e le opinioni intorno al potere delle streghe e al loro commercio col diavolo, cui davan credito, non meno del volgo, insigni « cherci e letterati grandi e di gran fama », non che giuristi e teologi i quali s'ar- gomentavano d' estirparne la mala semenza con gli esorcismi e col rogo. Così del Rinascimento s' è mostrato solo un aspetto, mettiamo pure il migliore e più, seducente, ma unilaterale e in- completo, per aver relegato nell'ombra il « rovescio della meda- glia », cioè quelle forme di pensiero che persistevano non solo AL LETTORE VII nelle masse popolari e incolte, ma altresì nei ceti borghesi di media cultura, nella nobiltà, nelle corti principesche e nel clero. Eppure anche siffatte convinzioni rappresentano particolari maniere di raffigurarsi la vita e il mondo e costituiscono an- ch'esse modi di pensare la realtà, che, per quanto arretrati, furon condivisi dall' enorme maggioranza degli uomini nel periodo che si dice del Rinascimento. Altrettanto si dica della distinzione fra « ciò che è vivo e ciò che è morto » del pensiero del passato, quasi che potesse morire quel che non è mai stato vivo, e che vivere non fosse un correre alla morte, cioè un continuo rinnovarsi. Singolarmente penosa appare infine l'ansia che per il con- cetto, la natura, il metodo, le sorti della storia e per il valore del giudizio storico dimostrano taluni che, chiusi nella loro specola teoretica, senza scomodarsi colla ricerca e la critica dei documenti e delle testimonianze, indispensabili al giudizio sto- rico, pretenderebbero di dedurre a priori gli eventi della storia universale. Sì, lo sappiamo, per interpretare il linguaggio dei documenti e delle testimonianze ci vuol cervello; e per cervello intendo la « categoria », cioè la capacità a inserire il fatto accer- tato nella trama logica del pensiero. Ma la « categoria è vuota senza V intuizione », e la mola del pensiero frulla a vuoto se dalla tramoggia non cala giù il buon grano falciato nei campi arsi dal sole, battuto vagliato e seccato sull'aia. Sì che a ragione pareva al Vico « aver mancato per metà così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l'autorità de' filologi, come i fi- lologi che non curarono d'avverare le loro autorità con la ra- gione dei filosofi ». B. N. INDICE Al Lettore p. v I. La teoria dell'anima e la generazione delle forme secondo Pietro d'Abano » i II. Intorno alle dottrine filosofiche di Pietro d'Abano » 19 I. Le prime accuse e i processi per eresia .... » ig IL Gli « errata » di P. d'Abano secondo S. Champier » 27 III. Eresia di P. d'Abano, secondo il Ferrari: Dio e il mondo, Scienza e Fede » 38 IV. La Psicologia di P. d'Abano e gli errori storici del Ferrari » 59 V. Conclusione. Il pensiero scientifico di Pietro d'Abano in rapporto alla Teologia » 69 III. Paolo Veneto e l'averroismo padovano » 75 IV. La miscredenza e il carattere morale di Nico- letto Vernia » 95 V. Ancora qualche notizia e aneddoto su Nicoletto Vernia » 115 VI. La mistica averroistica e Pico della Mirandola . « 127 VII. Appunti intomo al medico e filosofo padovano Pietro Trapolin » 147 Vili. I Quolibeta de I nielli gentil s di Alessandro AchiUini » 179 IX. Appunti suU'averroista bolognese Alessandro AchiUini » 225 X. Un altro sigieriano dei primi del Cinquecento: Geronimo Taiapietra » 281 XI. Un'importante notizia su scritti di Sigieri a Bo- logna e a Padova alla fine del sec. XV ... » 313 XII. Marcantonio e Teofilo Zimara: due filosofi Galati- tinesi del Cinquecento » 321 XIII. Il commento di Simplicio a De anima nelle con- troversie della fine del secolo XV e del secolo XVI » 365 XIV. La fine dell'Averroismo » 443 Indice onomastico e doxografico » 457 BRUNO NARDI SAGGI SULL'ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI I LA TEORIA DELL'ANIMA E LA GENERAZIONE DELLE FORME SECONDO PIETRO D'ABANO * I. - Il già celebre e oggi invece quasi sconosciuto medico e filosofo padovano, Pietro d'Abano, vien classificato ordinaria- mente dai rari storici moderni della filosofia medievale che si degnano consacrargli qualche linea, fra gli averroisti: da qual- cuno è, anzi, presentato come fondatore dell'averroismo al- l'università di Padova. Ma, cosa strana, dell'averroismo dell' Abanese tacciono affatto gli antichi storici che pur lo fanno passare come astrologo, mago, eretico, e che a queste accuse, riguardanti le dottrine di lui, ne aggiungono ben altre riferentisi al carattere personale, per quanto queste ultime abbiano l'aspetto di favole se non, spesso, di denigrazioni evidenti. Scorrendo la monografia che gli consacra S. Ferrari ', il sospetto che l'averroismo del medico d'Abano non fosse una pretta leggenda, si accrebbe in me a tal segno che decisi di consultare per conto mio il Conciliator differentiariini phi- losophormn et praecipiie medicorum. Sennonché, essendo l'opera relativamente rara e trovandomi da quattro anni quasi sempre all'estero, non mi fu così facile procurarmela; quando, nel- l'essere a Bonn m'abbattei in un'edizione senza data, ma che porta in testa questa nota manoscritta: impressus.... Me codex est Venetiis a. 1483 per Jo. Herbart de Selgenstadt, alemanmmi. Mentre andavo trascrivendo i passi più impor- tanti dal punto di vista filosofico, quasi quasi non sapevo credere a me stesso, finché non li ebbi collazionati con altre * Già apparso nella « Riv. di Filos. Neoscolastica», I\', 1912, pp. 723-37, Solo qualche lieve ritocco. I / tempi, la vita, le dottrine di Pietro d'Abano. Saggio storico-filo- sofico di Sante Ferrari, Genova, 1900. 2 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI edizioni e specialmente con quella del 1476, di cui, oltre le copie possedute a Padova, a Firenze, a Torino ecc., una si trova con mia grande sorpresa proprio nella Capitolare di Pescia. Dico che non sapevo credere a me stesso, perché i passi, a cui il Ferrari rimanda, lungi dal rivelare le preoccupazioni averroistiche che egli, con critica bizzarra, crede scoprire ad ogni pie sospinto attraverso le dichiarazioni di Pietro d'Abano, dimostrano, al contrario, che questi aderiva espHci- tamente e senza riserve o esitazioni di sorta ad un'altra teoria intorno all'anima, che era l'antitesi perfetta di quella del filosofo arabo di Cordova. Quei passi sono così chiari che il Ferrari stesso si sente imbarazzato e suda due camicie per interpretarli a rovescio, come fa. Dovrei forse dubitare della buona fede di lui ? Certo, nell'opera erudita del Ferrari si rivela qua e là un gusto matto di sorprendere nel filosofo da lui studiato atteggiamenti e pose d'eretico che agli occhi del- l'autore lo rendono più simpatico. E quando gli fanno difetto i documenti e le dichiarazioni esplicite, ricorre a stravaganti congetture o a insinuazioni ridicole. Ma io ritengo il Ferrari un perfetto galantuomo, e per dubitare della sua completa buona fede non ho motivi sufficienti. Penso invece che gli manchi l'esatta conoscenza del pensiero medievale; in ma- niera che egli non sa comprendere nel loro giusto significato certe dottrine, le quali non si possono capire se non in rapporto ai movimenti d' idee a cui mettono capo. Ora, infatti, sostiene che Pietro d'Abano fu accusato di materialismo; più tardi, invocherà la stessa condanna per dimostrare che questi non era sincero quando dichiarava prava la teoria averroistica dell'unità dell' intelletto. Ora gongola di gioia perché Pietro, nel riferire l'opinione del Commentatore, la lascia passare senza una nota di biasimo; una pagina, dopo, ti verrà a dire che la nota di biasimo, che l'Abanese quest'altra volta invece ha affibbiato agli averroisti, va presa per « .... un'ostentazione a ufficio di scudo » ! E via di questo passo -. - Op. cit., pp. 340-353. Il Ferrari avrebbe fatto bene, invece di ri- mandare alle opere di Pietro d'Abano, che il lettore non sa procurarsi con tanta facilità, di offrire estesamente citazioni più abbondanti e meno laconiche. Il pubblico poi che si occupa di queste materie sa- prebbe, credo, fare a meno, e quanto a me molto volentieri, della tra- duzione che il Ferrari sostituisce ai passi citati, i quali nel loro latino scolastico sono molto meno oscuri. LA TEORIA DELL ANIMA 3 Confesso la verità. Arrivato in fondo al capitolo dove il Ferrari parla della « Psicologia genetica e metafisica », non sono mai riuscito a raccapezzarmi sulla vera dottrina del medico-filosofo d'Abano. La quale, pertanto, se si piglia in mano il Conciliator, è abbastanza chiara, nelle sue linee gene- rali, ed è ben diversa da quello che il Ferrari va fantasticando. Ecco qui uno dei passi più importanti e nello stesso tempo meno ambigui. Alla differentia 48 ^ si discute la questione se il seme umano sia o no animato. E, a proposito di questo problema, il medico padovano espone la sua teoria sullo svi- luppo dell'embrione e sull'origine e natura dell'anima. Egli dice: Rector autem huius tain divini operis [cioè dello sviluppo embrio- nale] virtus est dieta informativa ab anima parentis decisa, per im- pulsionem coeuntis incitata, quam Galenus de virtutibus nahiralibus, secundo, ca. 2, appellat summam artem praesidem et intellectivam sine mente, Aristoteles autem intellectum vocatum sive intel- lectivam divinam, ceu ei Haly ascripsit. Nominavit autem eam Aristoteles intellectum vocatum, ad differentiam intellectus po- tentionalis et agentis pars existentium animae intellectivae, ut terfio de anima inquit: Dico autem intellectum quo anima opinatur et sapìt, ad differentiam intellectus quem ponebat Anaxagoras chaos dieta ex eodem consimilia sequestrantis. Et ideo apparet hic erroneus intellectus lacobitarum me persequentium tam- quam posuerim animam intellectivam de potentia educi mate- riae; differentia 9; cum aliis mihi 54 ascriptis erroribus. A quorum nianibus gratia dei et apostolica m.ediante me laudabiliter evasi. Da qua quidem virtute, ló. animalium, Avicenna: ' Virtus infor- mativa est illa quae dat vitam et est proportionalis virtuti su- percoelestium '. Arrestiamoci a precisare il significato di questo passo. L'Abanese parla qui non dell'anima umana, ma della virtù i il formativa, la quale più sotto è così descritta sulla scorta del De animalibtis, XVI, e. i, di Avicenna: Virtus informativa est illa quae dat vitam et est proportio- nalis virtuti supercoelestium, et ista virtus facit similia secundum quid virtutibus supercoelestibus quousque sit possibile illam recipere vitam, et est dispersa per universam substantiam cor- poris sive sit humiduin sive siccum: et in spermatis substantia est potentia potens recipere hanc virtutem et est spiritus primus deferens calorem coelestem et ipse est causa omnium partium sper- matis. Estque haec virtus a corpore abstracta, cui etiam ab Arist. accipiens commentator. j° metaphy. i^Comm. 37]: Arist. dixit 4 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI in libro de animalibus, quod ipsa sit similis intellectui in hoc, quod non agit per instrumentum corporale et membrum pro- prium. La teoria della virtù informativa, qui esposta, è tratta dal secondo libro del De generatione animaliuni d'Aristotele 3 e la si ritrova quasi negli stessi termini presso S. Tommaso 4. Siccome, per altro, i Giacchiti di Parigi credettero che Pietro intendesse parlare dell'anima umana, per questa ragione, com'egli dichiara, lo accusarono dell'errore d'Alessandro d'Afrodisia e di Galeno, l'ultimo dei quali sosteneva che l'anima fosse la stessa complexio del corpo organizzato \ e il primo che r intelletto materiale o possibile dovesse farsi consistere in una certa virtìt. risultante « ex universa illa temperatura vel constitutione » propria dell'organismo umano ^. Lo accusa- vano, dunque, dell'errore opposto all'averroismo e contro il quale il celebre commentatore dello Stagirita aveva aspra- mente polemizzato a più riprese. A quest'accusa aveva dato certamente motivo l'appellarsi che Pietro faceva a Galeno e al di lui fidelissimus interpres, Haly ben Rodoam. Questi aveva saputo trovare presso Aristotele, non si sa come, la teoria dell' intellectus vocatus, della cui provenienza aristotelica il Nostro, con quella sua espressione: « ceu ei Haly ascrip- sit », sembra tutt'altro che convinto. L' intellectus vocatus è la traduzione letterale del ó xixXoù\j.tvoc, voui; del De gene- ratione animalium 7, Basandosi su di essa, Haly sosteneva che r intelletto separato di Aristotele, distinto dall'anima individuale e identico al voij? d'Anassagora, fosse la stessa virtù informativa, ossia l'influenza degli astri la quale per mezzo del seme paterno presiede allo sviluppo e all'organiz- 3 Cap. 3, 736 b. 29 sgg. : tkxvtwv (xév yùp év tcò oTuéppiaTi ÈvuTrdcpxei OTTEp TTOiEÌ yóvifxa elvai xà CTTrép[xaTa xò xaXou(i,evov -!>£p(i.óv. xoùxo 8'où TTup, oùSè xotauxY] SuvafjLit; Icttiv, àXkà xò l[jiTrepLXajjt.pavó(XEvov èv T(p CTTÉpfxaxi, jcai èv xo) à9p(óSEi. TTVEUjj'.a xal rj Èv xw TTVsufAaxt <pÙCTti; (kvài.oyoq oùaa xo) xcov òcaxpcDV oxoij^eÌco. 4 Summa Theol., I, q. 118, a. I, ad ^.m 5 Thomas Aq., Cantra gentes, II, 63. ^ Vedasi il passo dell' Afrodisio citato da Averroè, De Anima, III, comm. 5. Cfr.: Thomas Aq., /. e, cap. 62. 7 II, e. 3, 737* 4 sgg.: xò Sé TTiQ yovYjc; acopia èv ó) auMccnépy^erixi TÒ CTTiéppia xó Triq, ■\[^uy^iy.9iq àp/rj^ xò (xév /coptoxòv ov cy (jiaxo^ OCToic È[jt.7T£ptXa(jt(3àv£xai xò ■8'eìov. xoiouxoi; S'écxìv ò xaXouuevo(; vouc. LA TEORIA DELL ANIMA 5 zazione dell'embrione 8. Anche Pietro dice che la virtù infor- mativa è a corpore abstracta, ma nel senso che essa non è forma sostanziale del corpo ove agisce {virhts naturalis), e che per agire non ha bisogno di un organo determinato 9. Dalla confusione dei termini a cui dava origine il modo di parlare di Haly e di Galeno (coi quali l'Abanese, come me- dico, doveva avere speciale famiharità, e che, perciò, era por- tato a citare di preferenza) presero motivo gli avversari per accusare il maestro padovano di materialismo. A torto, però. Poiché egli, come risulta, oltreché dalla sua formale protesta, anche dai passi che stiamo per citare, aveva ben chiaramente distinto l'anima razionale dalla virtù ch'c dal cuor del generante, come pensava anche l'Alighieri 'o. Siccome quest'ultima è ordinata alla formazione dell'orga- nismo umano nel seno materno, « dicendum quod virtus corrumpitur informativa cum embrionem plasmaverit ». Ma come e quando cessa di aver ragione d'essere, siffatta virtù ? Ascoltiamo il nostro medico-filosofo: Quidam vero dixerunt ipsam corrumpi, cum anima introdu- citur intellectiva, ita ut omnes embrionis operationes sint ipsius [cioè della virtù informativa'] ; quod conantur ex Aristotele, // de generai, animai., persuadere. Quod equidem licet falsum appareat ex praefatis, sententiae videtur ipsius omnifariam repugnare, cum velit embrionem primitus vita vivere plantae ut vegeta- tiva; demum animali, puta, sensitiva; deinceps vero intellectiva. Informativa enim, quod et nomen ostendit, non hoc agit, verum informationis cum aliis ad hoc suffragantibus actum solum exercet. Propter quod communiores [ed alla teoria di costoro aderisce il Nostro] dixerunt quod, existente informativa, iam adest etiam nutritiva, sicut ostensum ex Aristotele. Qua quidem recedente et embrione usque ad materiam primam deducto, sensitiva anima ^ Allo stesso modo Averroè, nel commento i8 al dodicesimo libro della Metafisica, tentava d' interpretare le idee separate di Platone nel senso dell' influsso che i corpi celesti esercitano suUe cose inferiori per mezzo de' loro rivolgimenti e della luce. 9 Thomas Aq., S. Th., I, q. ii8, a. i, ad ym: «et ideo non oportet quod ista vis activa {la virtù iìi formativa) habeat aUquod organum in actu, sed fundatur in ipso spiritu incluso in semine.... in quo etiam spirita est quidam calor ex virtute coelestium corporum, quorum etiam virtute agentia inferiora agunt ad speciem ». IO Purg., XXV, 59. Le stesse differenze, rilevate da me a proposito di questa dottrina, fra Dante e Tommaso d'Aquino, si possono osser- vare anche fra Dante e Pietro d'Abano {Sigieri di Brabante nella Div. Comni. e le fonti della filosofìa di Dante, Estr. dalla « Riv. di Filos. Neoscol. », Spianate, 1912, p. 43). 6 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SFXOLO XIV AL XVI priori supervenit corrupta, virtutem habens vegetandi et nu- triendi; hac denique ut prior ad materiam deducta primam pro- pter alterationes ad haec praecedentes anima introducitur, priori abolita, intellectiva duabus potentiis praedictis et intellectiva fulcita. Quibus videtur Avicenna, decimo sexto animalium, [e. i], consentire et tempus denotans, quo immittitur ipsa, inquiens; ' Cum cor et cerebrum inveniuntur, cum eis anima coniungitur rationalis '. Quod secundum genetalicos quarto existit mense. Sol enim tunc dominatur embrioni, principatum et animam de- notans rationis. Et subdit: ' Et separatur ab ipso anima sensibilis naturalis; quae interdum erit materialis et aliquando non mate- rialis, verumtamen nondum erit adliuc discreta, immo velut in ebrio et in epileptico, sed completur ab extrinseco intellectum conferente. Ceterae autem virtutes complentur corpore et corporeis rebus ' ". Per voler capir bene quest'ultima opinione, bisogna metterla in rapporto con quelle di altre scuole medievali. « Aliqui dixe- runt », narra Tommaso d'Aquino, « quod operationes vitae, quae apparent in embryone, non sunt ab anima eius sed ab anima matris, vel a virtute formativa, quae est in semine, quorum utrumque falsum est.... Et ideo dicendum est, quod anima praeexistit in embryone, a principio quidam nutritiva, postmodum autem sensitiva et tandem intellectiva. Dicunt ergo quidam, quod supra animam vegetabilem, quae primo inerat, supervenit alia anima quae est sensitiva, supra illam iterum alia, quae est intellectiva. Et sic sunt in homine tres animae, quarum una est in potentia ad aliam, quod supra impro- batum est. Et ideo alii dicunt, quod illa eadem anima, quae primo fuit vegetativa tantum, postmodum per actionem virtutis, quae est in semine, perducitur ad hoc ut ipsa eadem fiat sensitiva; et tandem ipsa eadem perducitur ad hoc, ut ipsa eadem fiat intellectiva, non quidem per virtutem activam seminis, sed per virtutem superioris agentis, scilicet Dei de foris illustrantis. Et propter hoc dicit Philosophus, quod intellectus venit ab estrinseco ^^; sed hoc stare non potest.... Et ideo dicendum est, quod, cum generatio unius semper sit corruptio alterius, necesse est dicere, quod tam in homine, quam in animalibus aliis, quando perfectior forma advenit. II Conciliator , differentia 48, pr. 4. I- Si paragonino le due qui riferite opinioni con altre affini esposte nel mio: Sigieri di Brabante nella Div. Comm. e le fonti di filosofìa di Dante, cit., cap. V. LA TEORIA DELL ANIMA 7 fu corruptio prioris ; ita tamen quod sequens forma hahet quidquid habehat prima et adhuc amplius. Et sic per multas generationes et corruptiones pervenitur ad ultimam formam substantialem, tam in homine quam in aliis animalibus.... Sic igitur dicendum est, quod anima intellectiva creatur a Deo in fine generationis humanae, quae simili est et sensitiva et nutritiva, corruptis formis praeexistentibus » 13. Pietro d'Abano affronta le obiezioni mosse alla teoria che egli ha comune con Tommaso, e nel risolverle si mostra tanto d'accordo con quest'ultimo, che certe risposte del filosofo padovano si direbbero prese di sana pianta dagli scritti del- l'Aquinate. Ecco le obiezioni: Sed circa praedicta dubitare contingit: cur non mox a prin- cipio introducitur anima intellectiva, ut semita natura procedat breviori, pluralitatis respuens peccatum ? Adhuc: si embrio re- ducitur bis, ut datum est, usque ad materiam primam et cor- rumpitur, corruptionis utique apparet hic modus magis quam generationis; ac dispositiones, praecedentes introductionem formae in materiam, videntur ipsum debihtare prius et exterminare, perducentes eundem ad corruptionem; sicut cum quis morti iam natus accedit, primo imbecillitatur, deinceps corrumpitur: quod hic non percipitur, immo vigorari continue perpenditur in amplius. Alle quali risponde così (e con ciò fa sua l'opinione sopra- riferita) : Dicendum, quod natura semper quod melius est operatur et per breviora, cum ejus sapientiae non sit finis. Ad horum igitur primum dicendum, quod natura paulatim et latenter ex imper- fectis tendit in ea quae sunt perfecta; et quod forma juxta Pla- tonem non imprimitur nisi secundum dispositiones et meritum materiae.... Ad aliud dicendum, quod, quia id evenit in instanti, non percipitur, cum mutatione introducitur et non motu Physi- corimi. Quod et sentire apparet Aristoteles, volens, de generatione et corruptione , primo, ipsam fieri, cum hoc totum transmutatur in hoc totum, quod non esset, nisi ad materiam primam perve- niretur; ahoquin siquidem non esset generatio, verum potius alteratio, subiecto permanente. Adhuc: nisi prima corrumpe- retur forma, altera enti eveniret existenti in actu : quod autem sic occurrit, est accidens. Similiter et cum esse sit a forma substantiali, habens quidem plures formas, et plura esse haberet; ut et nihil hic vere unum existeret '4. 13 Summa TheoL, I, q. 118, a. 2, ad 2m. Cfr. il mio Dante e cultura medievale, 2^ ed., Bari, Laterza, 1949, pp. 262-276. ^4 Conciliator, l. e. 8 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Per questi due ultimi argomenti, il nostro filosofo aderisce perfino ad una dottrina tomistica speciale, e cioè alla celebre teoria dell'unità della forma 15. Cosicché, lungi dal riscontrare in lui mal represse tendenze averroistiche, siamo dinanzi ad una teoria chiara ed organica, la quale si oppone nel modo più radicale al monopsichismo del commentatore arabo d'Ari- stotele. Da chi è cagionata l'anima ragionevole la quale, come abbiamo veduto, sopravviene al termine dello sviluppo em- brionale, e sostituisce le forme precedenti, ormai corrottesi perché non bastanti piìi allo scopo ? — Alla differentia yi, l'Abanese in un lungo passo del quale ci occuperemo in seguito, tratta della causa producente le forme sostanziali; e a propo- sito di tale problema dice, riassumendo, così: Propter quod, sciendum, ut ex his veritas magis habeatur, quod mixtio concurrit elementaris certa et agens imprimens extrinsecum ut ea introducitur in susceptivum forma cum suis virtutibus occultis ex merito bonae complexionis, praeparantis miscibilia perfecte ad receptionem ipsius,... ita quod, quantum mixtio fuerit perfectior propter miscibilium bonam contermina- tionem et contemperatior, tanto nobilior introducetur et vir- tuosior [forma], adeo quod in mixtione hominis, propter eius nobilitatem et complexionis temperantiam, forma introducitur ab extra. Donavit namque deus homini temperatiorem complexionem quae in hoc mundo sit possibihs inveniri,... quod et eius temperatissimus indicat tactus et ejusdem corporis rectitudo^ Elementa namque cum ad mixtionem ejus perveniunt, sunt magis depurata et a sorde seu labe contrarietatis sequestrata; sunt, enim, comparatione aliorum mixtionis, vekit aurum ad alia metalla fornace examinatum.... Et ideo meretur non solum formam per virtutem coelestem ex elementis suscitatam recipere; verum etiam ab extra, quoniam solus intellectus venit ab extrin- seco, de animai, general., 2, et ab agente nobilissimo ut deo glorioso et supremo. Est etiam aliarum formarum nobilissima,, divinitate eius participans quamplurime, juxta illud psalmistae: 15 Cfr. : Thomas Ao., Summa Theol., I, q. 76, a. 4. Per la storia della teoria, vedasi De Wulf, Le tratte de unitate formae de Gilles de- Lessines, Texte inédit et elude, Louvain 1901 (nella collezione Les Phi- losophes Belge s). Del resto, del tomismo del nostro Abanese su questo punto, come anche sulla dottrina del principiuni indivìduationis (il quale, dice, « sumitur ex materia secundum quod sub determinata fuerit quantitate », o ancora « sub dimensionibus signatis »), si è accorto perfino il Ferrari, op. cit., pp. 244-245. LA TEORIA DELL ANIMA 9 minuisti eum paulo minus ab angelis. Unde Algazel in sermonibus de anima: Cum cominixtio elementoruni fuerit pulchrioris et perfectioris aequalitatis qua nihil possit inveniri subtilius et pul- chrius, sicut est sperma hominis, tunc fiet ad recipiendum a datore formarum, formam formis pulchriorem, qua anima extat humana. Un altro passo importante lo togliamo dalla differentia j. L'autore vuol render ragione del modo onde da noi si pensa l'universale: Dicendum quod universale habet duplex esse: unum quidem in intellectu iam possibili in actum aliquando deducto; aliud se- cundum se, prout a multis particularibus est quaedam forma communis per intellectum abstracta. Haec {sic) enim species et similitudines rerum abstrahit a particularibus etiam signatis et reponit in intellectum possibilem; scilicet, congregans unam quandam naturam communem natam inesse vel dici de pluribus, iuxta illud Porphirii : « Participatione speciei plures homines sunt unus homo »; et demum projiciens lumen suum super intellectum possibilem facit ipsum praedictam naturam intelligere (habet enim se ad eum sicut lumen ad colores) et sic intellectus con- surget in actu ; et tandem adeptus seu accommodatus, diffe- rentia 5J. Cum igitur secundum se natura illa communis vel species remaneat universalis ab obiecto perfecta poterit de ea fore scientia. Videtur enim quod intellectualis natura sit in ge- nere suo sicut sol in genere corporeo. Scimus enim solem fore unum numero et individuum et lucem quae in ipso dupliciter consideratam. Si enim consideretur prout est in eo forma solis est una numero; si vero accipiatur secundum quod ab eo est manans, sic universaliter est omnium illuminativa diaphanorum tam perviorum quae facit lucida secundum actum, quam non perviorunr quae reddit colorata: et sic multa agit et facit. Noster enim intellectus secundum quod est aliquid naturae animae, dicitur individuus] tamen prout emittit actiones intelligendi , esse in virtute notatur universali : et hoc modo universalia sunt in ipso, quoniam sic est abstractivus et denudativus formarum, sicut lux corpo- ralis colorum. Licet ergo individuus ponatur secundum quod est forma hominis, tamen secundum suam potestatem, in quantum est poientia lucis spiritualis, universalis est; nam etiam univer- salia sunt in intellectu sicut forma in materia, vel accidens in subiecto. Ens enim in anima potius est intentio rei quam res. Et ideo, sicut non individuatur corporaliter per esse quod habet in luce corporali, ncque etiam specificatur eo quod esse in luce convenit omni colori secundum quod est in actu color; ita et intentio rei non specificatur nec individuatur per hoc quod est in luce incorporea intellectuali, sed manet universalis. IO l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Tutto ciò è chiaro; né può dubitarsi a questo riguardo della persuasione dell' Abanese. Il quale non manca di rispondere ad un'obiezione importante, con parole però, che per quanto piane ad intendere, prese nel contesto, pure hanno dato nel naso al Ferrari, il quale ci scuopre sotto i segni mal celati del- l'eretico che vuol salvarsi dalle unghie dell' inquisizione. Ecco obiezione e risposta: Contingit autem circa hoc dubitare: cum nihil agat ultra suam speciem, intellectus igitur individuus speciem non poterit universale-m concreare. — Dicendum, quod id prave ponentes uni- tatem intellectus non sic angit, sed veritatem plurahtatis ipsius profitentes cum lege. Et ideo dicunt quod intellectus tripliciter homini counitur: uno, quidem, ut natura dans esse, et ideo indi- viduus; aliter, ut potentia per quam est operatio intelligendi, et sic universalis est virtus (Id tamen videtur contra Aristotelem, 3 phys. et 2 meiaph., negantem passionerà nunquam plus subiecto fore abstractam) ; quod et per se dicam verificati : virtus enim visiva materialis obiecto suscitata et medii dispositione coexten- ditur in immensum; tertio modo, ut forma acquisita ex multis intellectibus. Quia igitur haec diffìcilior est tractatio quam ne- gocium praesens exquirat, nunc tantum sufficiat dixisse i^. Si metta questa risposta in rapporto coi passi dianzi citati, e ci si convincerà facilmente che, se il prave ponentes rivela l'uomo che parla secondo un credo religioso, l'equivalente filosofico di quella frase, proprio quale ce lo suggeriscono le dottrine psicologiche di Pietro d'Abano, dovrà essere un perperam., un falso o qualcosa del genere. — Riportiamo un altro non inutile passo relativo alla funzione intellettuale (che, trattandosi di libri che non vanno per le mani di tutti, è sempre bene abbondare di citazioni) : .... speculativa vero est virtus quae informatur a forma uni- versali nuda a materia. Duplex autem haec extitit: et potentia et actu. Potentia quoque triplex est. Quaedam enim absolute, remota non parum ab actu, materialis dieta, velut infantis po- tentia ad scribendum. Est et alia, minus distans hac ab actu, potentialis nominata, ceu pueri potentia ad scribendum cum instrumenta cognoverit scripturae. Tertia vero est adhuc propior hac actui, perfectionis dieta, cum scriptor non scribit perfectus, ut tactum [dlff.] 48. Quibus quidem potentiis triplex proportionatur intellectus, ut materialis, nullam habens formam, sed subiectum existens omnis ut ipsius potentia prima. Est et alius relatus po- 16 Conc, diff. 3. Cfr. ; Fkrrari, op. e, p. 350, nota i. LA TEORIA DELL'ANIMA II tentiae secundae, ut cum in potentia materiali habente de intel- ligibilibus per se nota, ex quibus acceditur ad intelligibilia se- cunda ex eis nota (prima namque sunt propositiones priores per se ad habentem venientes, 4 nietaph., ceu de quolibet esse aut non esse, ac omne totum majus sua parte); et hic intellectus est potentialis dictus ut ejus potentia. Tertius quoque est dictus perfectionis intellectus, qui potest actu cum voluerit intelligere. Et hic triplex potest ab Aristotele intellectus potentialis dici. Cum autem is actu intelligit, intelligens se intelligere, intellectus est appellatus in effectu, et tunc sibi coniungitur et unitur in- tellectus dictus accommodatus ab extrinseco, A [vicenna], primo de Anima [e. 5], vel acquisitus ut ab intelligentia quam posuit agentem, metaph., 9, [e. 3]. Et ideo intellectum non posuit alium agentem ani- mae partem, sicut neque Plato cum posuerit is per se universalia subsistere '7. Intellectus autem qui naturam habet actus secundum Aristotelem, est agens « animae pars existens humanae » se habens ad potentiaiem ut lumen ad colores. Ipse namque materialibus immersa et dispositionibus individualibus coniuncta ut species earum extrahit et reponit in possibilem intellectum et super eundem projiciens lumen actu reddit intelligibilem. Commentator quo- que, ieriio de anima, [comm. 36], volens dare modum conjungendi nos cum separatis ut intelligamus ea, ponit quod intellecta in nobis sunt duplicia: vel naturaliter ut primae propositiones sive intellectus in habitu ; aut voluntarie sicut intellecta ex illis primis propositionibus acquisita. Et prima quidem intellecta facta sunt ab intellectu agente. Intellecta vero acquisita fiunt in nobis ex intellectu primarum propositionum et agente. Intellectus hic consurgens est speculativus factus voluntarie ex intellectu in habittt et primis propositionibus et agente. Et in hac siquidem actione ex duobus his intellectibus, intellectus in habitu est sicut materia vel instrumentum, sed agens ut forma aut effìciens. Cum igitur intellectus materialis actu intelligit, formatur speculativo et agente, postremo efficitur intellectus in actu separatus continuatus et proprie cutn omnia speculativa intellecta in nobis fuerint facta. Cum autem ita fuerit, intelliget omnia entia. Et homo secundum hunc modum, inquit Themistius, assimilatur deo in hoc quod est omnia entia quodammodo. Et o quam mirabilis est iste ordo, et quam extraneus iste modus essendi ! Et id quidem in « sermonum ^7 II Ferrari traduce, non si sa perché: « Aristotile non pose un intel- letto agente diverso dal resto dell'anima; come neppure Platone, avendo questi opinato che si rivelino gli universali sussistenti per sé » {op. cit., p. 347). Che significhi un simile pasticcio nella mente del Ferrari, io non riesco a indovinare. È evidente che in quella proposizione si pari- di Avicenna, del quale appunto è la teoria dall'intelligenza agente come principio attivo eterno dell'atto dell' intellezione. Avendo costui messo fuori dell'anima siffatto principio attivo, come Platone vi aveva messo gì' intelligibili sussistenti e irradianti la nostra mente, non sentì il bi- sogno d'ammettere con Aristotele, un intelletto agente che fosse una potenza dell'anima umana. Mi pare che così il discorso corra molto meglio. Ma vedi anche sotto, p. 41. 12 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI editione » latius declaravi.... Intellectus in actu vel accomodatus seu acquisitus principans extat tantum et servitus omnifariam » \_nientre gli altri gradi d' intellezione , inferiori a questo, gli sono subordinati'] ^^. Che cosa precisamente sia l' intellectus accommodatus o acquisitus è spiegato da Avicenna e da Averroè nei luoghi citati da Pietro. Tuttavia è certo che, pur prendendo la nozione dagli arabi e da Temistio, come fa, questi ne trasforma il significato, come già avevano fatto S. Tom- maso '9 e altri Scolastici. Parrebbe che dovesse trattarsi di atto nuovo e più perfetto, il quale sopravviene alla conoscenza volgare; o, se si vuole, di uno sviluppo ulteriore, di un perfe- zionamento del conoscere dovuto a un influsso esterno al- l'uomo, forse alla luce divina, forse alle rationes aeternae ecc. Checché sia di ciò e dell' intellectus agens che coopera alla formazione di questo supremo grado del sapere umano, è certo che la teoria dell'anima secondo Pietro d'Abano con- corda essenzialmente colla psicologia di Tommaso meglio che con quella di ogni altro scolastico, ed è, perciò, il rovescio del così detto monopsichismo averroistico. Essa riposa su questi cardini: i) la forma sostanziale del composto umano è unica, ed essa è l'anima intellettiva di cui l' intelletto possibile ed agente son parte; 2) l'anima umana è creata da Dio, e non deriva per gene- razione, né si sviluppa dalla materia; 3) all'atto della sua unione col corpo, le forme anteriori si corrompono, ed essa le sostituisce essendo dotata di potenza vegetativa e sensitiva; 4) l'anima umana è individualizzata in quanto forma del composto umano, mentre è capace di abbracciare l'universale in quanto possiede la facoltà d' intendere. 2. - Un punto molto significativo per giudicare della filosofia di Pietro d'Abano, è la teoria della produzione delle forme sostanziali nei corpi sublunari. La differentia loi si occupa i8 Conci., diff. ^y. 19 Summa TheoL, 1, q. 79, art. io. Ma v. sotto, il saggio VI. LA TEORIA DEL.L ANIMA I3 ampiamente della quistione, e vai la pena di citare lo squar- cio più importante: Efficiens vero causa duplex: una quidem particularis et est caliditas spiritualis ex putredine consurgens aliqua [si tratta della causa della generazione cosiddetta spontanea dei vermi], unde aphorisrnoriim [particiila] tertia: — Putredo sola non est suf- ficiens generare animai, sed calore sufficienti indiget. — Et Se- rapio 20; ' Causa vermium prima est putredo '. Et sanior hoc no- mine caliditas est ex putredine et proprie calor coelestis: diff. 48. Altera quoque universalis multipliciter est opinata a multis. Quia quidam, ut platonici, posuerunt formas dari a secundis diis, dicentes deum deorum sementem eis generationis, hyle videlicet, indidisse; unde Thimaei secundo: — Huius universi generis sementem faciam vobisque tradam; vos cetera exequi par est, ita immortalenr coelestemque naturam mortali textu extrinsecus ambiatis iubeatisque nasci cibumque provideatis et incrementa detis. Ac post dissolutionem id foenus quod credide- ratis recessione animi et corporis recipiatis. — Ouare 12 Metaph., Commentator: — Plato suis verbis obscuris dixit: creator creavit angelos manu, deinde praecepit eis creare alia niortalia; et remansit ipse sine labore in quiete. Ouod tamen dixit, non ad litteram intelligendum -'. Aristoteles vero voluit fore formas ex sole et orbe declivi, sicut etiam Themistius testatur. Unde Commentator: — Dicentes ^o Condì., diff. 71: «quidam antiquorum huiusmodi formas specifìcas cum earum proprietatibus occultis poseurunt ex elementis et eorum qualitatibus solummodo derivari. Quod etiam fortassis videtur Aristo- teles Probleinatum priwa [particula], sapere, diff. 60. In hanc quoque opinionem visus est incidere Johannes Serapio in Antidolario inquiens: — Similitudo propter quam attrahitur ras non est nisi per qualitatem quandam complexionis elementorum. His etiam satis consentire vi- detur Averroes Colliget, 5.... Hanc autem opinionem intantum videtur Alexander Peripateticus suscitasse qui etiam animam tiumanam posuit ex mixtione consurgere elementorum.... Adfiuc, rationibus ostendi potest et signis formas hujusmodi specifìcas et earum virtutes ab alio praeterquam ab elementorum mixtione causari ». 21 Ibid., diff. 71 : «Et ideo fuerunt alii qui praeter elementorum mixtio- nem aliud principium posuere extrinsecum, unde formae specifìcae et suae causentur virtutes. Qui etiam inter se diversitatem receperunt non parvam. Plato namque posuit substantias separatas, quas ideas appellavit, liujusmodi formas causare et universaliter omnem naturam et cognitionem, videns particularia in omnium transmutatione et fluxu, metaph. I. Haec autem positio sic intellecta in pluribus locorum annullata ab Aristotele invenitur; licet ipsam Commentator aliqua- liter expositione, 12 metaph., [comm. 18], satagat sustinere, audiendo per ideas impressiones a superius factas in haec interiora per motum et lucem. Ipsa tamen ut sibi imponitur stare non potest ». Si veda a questo proposito anche la differentia 3. Al t. e. 18 del commento averroistico Pietro attinge in tutto questo lungo tratto della diffenvtia loi. 14 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI aliquod agens esse et generationem, sunt diversificati. Quidam namque ipsorum latitationem posuerunt formarum, ut Anaxagoras cum Empedocle et Democritus reprobatus Celi et mundi quarto [t. e. 42-43]. Alii vero creationem. Nonnulli Inter hos extiterunt medii. Qui autem latitationem ponunt, quodlibet in quolibet confir- mant; et quod agens solum res extrahit et ipsas ab invicem di- stinguit; et quod generatio est exitus rerum ab invicem: quae intellectum divinum dicunt operari magis omnia segregan- tem ex chaos quodam quod fingunt confuse. Qui autem ponunt creationem rerum, dicunt agens creare totum ens de novo ex nihilo; et quod non eget materia in quam agat, sed totum creat. Imaginatio enim creationis formarum induxit homines dicere formas esse et datorem formarum. Et induxit loquentes trium legum, quae hodie sunt, dicere aliquid fieri ex nihilo. Et cum nullum tale agens hoc perciperent, dixerunt agens oìnnia entia producere sine medio; et quod actio unius agentis uno pertransit instanti in actiones contrarias similes infinitas, ita ut negent ignem comburere et aquam humectare, dicentes omnia huju- smodi creatione indigere; unde et communiter dicunt corpus non creare, neque aliquam inducere dispositionem, adeo quod homo, cum movet lapidem expellendo, non est movens, sed agens illud creat motum. Et negaverunt j^ropter hoc potentiam esse. Et error, ut subdit, horum est manifestus; unde Johannes Christianus opinatus est quod possibilitas non est nisi in agente. — Et hoc fortassis est quod scribitur lohannis initio: Omnia per ipsiim facta sunt, et sine ipso factum est nihil. Horum autem medii in duas videntur opiniones partiri. Quarum una in duas sequestratur, ut universe sint quinque. Omnes tamen hae tres intermediae in hoc conveniunt, quia po- nunt gnerationem transmutationem fore in substantia, ad diffe- rentiam Anaxagorae, et quod nihil generetur ex nihilo, videlicet quod necessarium est in generatione subiectum. esse. Et quod generatum non fit nisi ab eo quod sui generis in forma. Una tamen istarum trium sentit, quod agens creat formam et ponit eam in materiam. Et vult quod hoc agens duobus in- veniatur modis: abstractum a materia, et interdum coniunctum velut ignis ignem faciens et homo hominem generans; quod autem est abstractum generat animalia et plantas non a simili entes. Et haec sententia extat Themistii et forte Alpharabii, quamvis dubitet hoc ponere in his quae propagatione generantur. Fuit et alia opinio, quod agens id non est in materia omnino et vocat ipsum datorem formarum. Et A[vicenna] fuit de illis cum Algazele ipsius mimo, apparens nono eius Metaph. Sumens enim illud secundi de generatione, quod idem manens idem semper sit natum facere idem. Ait enim magister primus quod a stabili in quantum stabile non est nisi stabile. Sed primus semper idem et stabilis permanet, ideo solum unum immediate proveniet ab ilio, ita ut se ipsum intelligens producat primam intelligentiam cum celo primo, deinde illa intelligens[se] secundam cum illius celo, et deinceps, ita ut intelligentia lunae se intelligens producat quan- LA TEORIA DELL ANIMA 15 dam intelligentiam dictam agentem, gubernantem quae sunt in activorum et passivorum spera simplicium et compositorum --. Tertia fuit Aristotelis sententia, cui innitendum est quia se- cundum Alexandrum minoris est ambiguitatis omnium senten- tiarum et magis conveniens ut sit vera, cum nihil sine probatione dicat forti, difjer. 56. Et est, quod agens non facit nisi compo- situm ex materia et forma. Quod fìt movendo materiam et ipsam transmutando, donec quae in ipsa extat in potentia egrediatur forma in actum. Extrahit namque agens quod est in potentia ad actum, et quasi congregat inter potentiam et actum, idest inter materiam et formam, secundum quod potentiam extrahit in actum non destruendo subiectam potentiam recipiens. Et tunc resultant in composito duo: materia scilicet et forma. Et haec sententia creationi assimilatur utcumque, scilicet in quantum id, quod est in potentia, fìt in actu; sed differt a creatione, quia non venit per formam, sed ex non forma in actum. Et similiter latitationem similatur aliqualiter formarum ponenti. Et omnes dicentes creationem, vel latitationem, aut congregationem et segregationem, ut Empedocles, cui etiam utcumque assimilatur, hoc quidem intendebant; sed non potuerunt ad illud pertingere. Est igitur intentio Aristotelis, quod simile fit a simili, aut ex fere simili, et non quod simile agat per se et per suam formam sensibilem; sed est dicere quod extrahit si- mile ex potentia in actum et non agens inducens in materiam aliquid extrinsecum; et sicut hoc inventum est in substantia, ita et in accidentibus. Calidum enim non inducit in corpus ca- lidum calorem extrinsecum, sed facit calidum in potentia esse calidum in actu. Et sic in qualitate et motu locali, quod non perveniunt ab extrinseco; sed ex potentia materiae suscitantur in actum, unde ignis generatur a motu sicut ab igne. Et sic gene- rans extrahit quod est in potentia materiae gignendae ad actum, ut sit generatum in actu. Et omne extrahens aliquid ex potentia in actum, necesse est ut sit in eo aliquo modo id quod extrahitur, non quod sit omnino ipsum. Virtù tes namque quae sunt in se- minibus, quae faciunt animata, non sunt animatae in actu sed in potentia, sicut domus quae est in anima aedificatoris est domus in potentia et non in actu. Et ideo Aristoteles, secitndo de generai, animai., has virtutes assimilavit virtutibus artificialibus divinis, quae dicuntur intelligentiae. Haec igitur est Aristotelis sententia, sola veritati consona, cum ad ipsam non sequantur quae ad alias opiniones impossibilia. Quarum quidem defectus insinuetur per brevia, cum praesentis non extet speculationis. Quae namque est Platonis de diis secundis formas imprimen- tibus, in pluribus locis Metaphisicae sub nomine idearum est impugnata -3. Similis fere videtur quae Themistii, si est ut sibi -- Cfr. differentia ji. -3 Cfr. ihid. e difj. 3. IO l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Commentator imponit. Quem tamen opinor sanum cum Aristo- tele habuisse intellectum, sicut etiam sonare possunt eius sermones a Commentatore recitati. Tenentes similiter latitationem forma- rum annullati sunt ab Aristotele non parum, cum generationem salvare non possint, facientes formas ex quodam chaos indistincte prodire. Unde in primo de generai, et corrupt., [t. e. i], dicit pro- priam Anaxagoram, huius positionis didascalum, vocem ignorasse, cum ponens unum subjectum generatione aliud ab alteratione sentiret esse. Tenentes vero creationem, etsi verissimi lege sint, in philosophia tamen non sunt admittendi, cum et ipsam levem faciant omnino, ac primam quasi causam multiplicibus vexant laboribus, decorem non minus et ordinem et per consequens perfectionem removentes, secundum peripateticos, ab universo. — A[vicenna] etiam ordinem tollens, agens fere frustrat parti- culare principaliter dearticulativum. Sententiam etiam depravans Aristotelis, cum idem, secundum eundem, sit disponens mate- riam et formas suscitans ex eadem, ut apparuit ex eo: homo enim hominem generat et sol, de phybico anditu, 2, [t. e. 26]. Neque etiam illius valet motivum: quoniam, etsi prima permaneat eadem realiter causa, rationibus tamen idealibus quibusdam ponitur non conveniens ipsam modo aliquo permutari; ea tamen permutationem non suscipiente, sed effectu, ceu tradunt cum phi- losophis tractantes quae dei. Tutta questa lunga disquisizione è tolta, ora ampliandola ora riassumendola, dal commento 18 d'Averroè al XII libro della Metafìsica aristotelica ^4. Pietro d'Abano dichiara in- sieme al commentatore arabo di aderire su questo punto alla teoria d'Aristotele. Questo riferirsi all' interpretazione aver- roistica della dottrina d'Aristotele sull'origine della forma sostanziale negli esseri che cangiano, è caratteristico del tempo del nostro Abanese. Lo pseudo Duns Scoto, suo coetaneo, nel De rerum principio ^5 riassume ugualmente il pensiero averroi- stico e lo fa proprio. Anch'egli, come il medico e filosofo di Padova, rigetta la teoria, attribuita a Giovanni Filopono, della creazione immediata introdotta per spiegare i fenomeni naturali. Questa teoria è verissima dal punto di vista religioso {in lege), in quanto si vuol significare che Dio è creatore e conservatore dell'universo, e che tutte le cose agiscono in virtù dell'azione divina la quale influisce su ogni atto delle cause seconde ; ma ciò è fuor di luogo in philosophia [naturali] , -4 Cfr. : AvERROis Metaph., XII, com. 18, nonché VII, comm. 31. -5 q. 5, art. i, n. i e sgg. L'opera è stata restituita a frate Vitale du Four. LA TEORIA DELL ANIMA I7 quando si tratta appunto di mettere in evidenza la causalità efficiente delle cose create, e non d'appoggiare tutto sulle spalle di Dio, riducendo a zero l'attività degli esseri mondani ^8. Ecco qual' è il senso della frase che ha scandolezzato il Ferrari, In questa rivendicazione della causahtà efficiente degli es- seri del mondo sublunare, contro la metafisica astrologica d'Avicenna, dalla quale neppure Tommaso d'Aquino era riuscito a liberarsi interamente, consiste il merito della filo- sofia dello Scoto e di Pietro d'Abano -7. Su che portano allora le accuse d'astrologo e di mago, che sono le più antiche (e forse le più giustificate) e pesano ancora sulla fama del maestro padovano ? Avrò forse occasione di occuparmi fra non molto di questa quistione, come dell'altra degli errori veri o immaginari di lui. Per ora basti aver ri- chiamato l'attenzione su due punti importanti delle sue dot- trine, i quah fraintesi porterebbero a caratterizzare indebi- tamente r insieme del suo sistema filosofico. 26 Cfr. : DuNS Scoto, Oxon. 2, d. i, q. 4, n. 28. « A deo et" per deum Constant omnia », proclama l'abanese, e Sante Ferari lo sa (op. vit., p. 249). Dice Enrico di Gand in un passo molto significativo della sua Summa Theo!., art. VII, q. i: « Philosophia considerat unumquodque ex causis proximis et propriis sibi : ista vero {cioè la teologia) ex causis primis et maxime ex causa prima omnium, secundum quod dicit Augu- stinus. De Trinitate, lib. Ili, cap. II, III, IV. Est iste proprius modus hujus scientiae, scilicet resolvere omnes causas in causam Primam sim- pliciter. Modus autem proprius Philosophiae est reducere omnes in cau- sam proxiniam, « et non in causam Primam », nisi mediante causa alia corporali ». 27 Cfr. il mio Sigieri di Br. nella Div. Comm., pp. 28-9. II INTORNO ALLE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D'ABANO * I. — Le prime accuse e i processi per eresia. I. Primi sospetti d'eresia contro Pietro d'Abano a Parigi. Persecuzioni da parte dei Giacobiti per 55 errori. Il suo rilascio. — 2. Il secondo e il terzo processo a Padova. Tommaso di Strasburgo e la sua testi- monianza. Negò Pietro d'Abano la risurrezione dei morti ? — 3. Ac- cusa di aver negato l'esistenza dei demoni. Fu egli accusato di ne- cromanzia e di magia ? — 4. Le altre accuse. I. - I primi sospetti d'eresia contro Pietro d'Abano, — il tanto calunniato e incompreso medico e astrologo padovano con- temporaneo di Dante —, furon sollevati mentr'egli si trovava a Parigi, prima del 1304, per opera dei frati domenicani del con- vento di San Giacomo, in mano dei quali era l'inquisizione. Pietro stesso nel Conciliator fa menzione di cinquantacinque errori che a lui erano ascritti dai Giacobiti, e ci fa sapere che per questi errori attribuitigli ebbe a sostenere lunghe molestie {longis vexavere temporibus). Di che cosa precisamente lo si accusasse, non sappiamo. Sappiamo, però, che delle accuse da lui mentovate, una si riferiva al problema dell'origine del- l'anima umana. Per un equivoco, avendo egli identificato con Haly ben Rodoam 1' « intellectus vocatus » (ó xaXoufjievot; wuq) di Aristotele colla « virtù informativa » di Galeno, di Avicenna e di Averroè, — la quale è dal cuor del generante e presiede allo sviluppo embrionale —, gl'inquisitori, accesi di zelo, ma poco intelligenti, credettero che egli, con Galeno e con Ales- sandro d'Afrodisia, sostenesse « animam e potentia educi * Apparso già nella Nuova Rivista Storica, IV, 1920, pp. 81-97. 464-481; V, 1921, pp. 300-313. 20 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI materiae » ^. L'altro errore di cui lo si accusava, ed al quale accenna l'Abanese stesso, non è ben chiaro: non possiamo af- fermare se lo si accusasse di interpretare troppo liberamente un passo biblico, oppure di avere ammesso i cicli e i ritorni pe- riodici di Tolomeo, i quali presuppongono l'eternità del mondo 2. Sebbene degli altri cinquantatrè capi d'accusa non ci sia stato detto niente da lui, qualche lume intorno ad alcuni di essi ce lo potrebbe fornire un documento del tempo, già stu- diato dallo Hauréau, e che il Ferrari ha avuto il merito di sfruttare in parte per la biografia di Pietro d'Abano 3 : parlo della Consolatio Venetorum, attribuita a Raimondo Lullo e recante, nel manoscritto parigino che ce la conserva, la data del 1298. Quel tal Pietro Veneto, che si duole a cagione della sconfitta toccata ai Veneziani da parte dei Genovesi, e piange sulla sorte del fratello caduto prigioniero, e impreca alla sorte, è ben Pietro d'Abano, come il Ferrari ha affermato. Ma la certezza di ciò, più che dalle circostanze ricordate nel dialogo consolatorio, si ha proprio dal predicozzo che l'autore rivolge al dolente, e che il Ferrari giudica, con un certo disprezzo, non disforme dall' indole nota del Lullo scrittore. Quel predicozzo, in cui il Lullo « mira a provare che la fortuna non esiste, che le stelle non hanno influenza sulle vicende umane », va di- ritto al cuore della dottrina astrologica del nostro filosofo padovano, quale ci è nota dal Conciliator e dal Lucidatoi' '^; quel predicozzo consolatorio prende occasione da un fatto che aveva ferito il sentimento patrio e fraterno di Pietro, ma non si arresta lì e tende a colpire un concetto, una dottrina, per la quale non è inverosimile che l'Abanese venisse fin d'al- lora sospettato d'eresia dagl' inquisitori parigini, se più tardi la stessa censura gli sarà rivolta da Giovanni e dal nipote Gian Francesco Pico della Mirandola e da Sinforiano Champier. 1 Conciliator controversiarum qiiae inter philosophos et rnedicos ver- santiir, Petro Abano, Patavino, philosopho ac medico clarissimo, auctore. Venetiis, apud luntas, M.DLXV. Diff. 48. Cfr. : il precedente saggio, p. 3. 2 Conciliator, diff. 9. Cfr. sotto, p. 48. 3 S. Ferrari, Per la biografica e per gli scritti di P. d'A. Note ed ag- giunte al volume / tempi, la vita, le dottrine di P. d'A. (Memoria pub- blicata dalla R. Accad. dei Lincei, Anno CCCXV, 1918, Serie V, voi. XV, fase. VII), pp. 26-29. 4 Per quest'ultima opera, che esiste manoscritta a Parigi nella Bi- bliothèque Nationale e a Roma nella Vaticana, cfr. Ferrari, Per la biografia etc, pp. 68-75, e A. Favaro, in «Atti del R. Ist. Veneto -di S. L. ed A. », Anno Acc. 1915-16, t. LXXV, p. II, pp. 515-27. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D ABANO 21 Non risulta da nessun documento che di queste accuse si mischiassero le autorità universitarie di Parigi, come quando si portava un giudizio su di una dottrina nuova; ma par ve- rosimile che esse partissero dagl' inquisitori, i quali d'autorità ordinaria avevan l' incarico di tener d'occhio, di vigilare e giu- dicare coloro che fossero sospetti di professare dottrine già riprovate dalle competenti autorità della Chiesa. Ad ogni modo, l'accusa non fu provata; e le spiegazioni che Pietro fornì delle sue dottrine, nonché l' intervento papale, lo fecero uscire incolume dalle mani dei Giacobiti : « a quorum manibus — racconta egli stesso — grafia dei et apostolica mediante, me laudabiUter evasi » 5. E altrove: «In hoc autem me aliqui protervi nolentes aut potius impotentes audire, gratis longis vexavere temporibus: a quorum manibus me meaque veritas laudabiliter eripuit praefata; demum mandato etiam super- veniente apostolico » 6, 2. - Anche meno sappiamo delle accuse specifiche, che for- maron la materia del secondo processo per eresia intentatogli a Padova dopo il suo ritorno da Parigi. Lo Scardeone, che fìssa questo processo al 1306, afferma solo che l'Abanese « haereseos et necromantiae a Petro Regiensi medico delatus est; factus ei inimicus ex aemulatione scientiae et famae » 7. Ma se sotto il nome d'eresia siano da comprendere dottrine astrologiche od altro egli non dice per nessuno dei due pro- cessi dinanzi all' inquisizione di Padova. Del resto, le notizie dello Scardeone risultano assai poco documentate e vagliate. Se non che, per quel che si riferisce all'ultimo processo, del 1315, egli accenna ad una testimonianza importante: voglio dire il racconto dell'agostiniano Tommaso di Strasburgo dottore e generale del suo ordine, un « religioso di fama », di- rebbe il Ferrari, « che tenne alte dignità ecclesiastiche, che seppe di Pietro certi atteggiamenti e che assistè all' innocuo rogo testimone oculare » 8. Il frate dissertando, in una que- stione dei suoi Commentaria in quatuor Hbros Sententiarum 9, 5 Conciliator, diff. 48. 6 Conciliator , diff. 9. 7 Bernardini Scardeonis, De antiq. urbis Pai avvi, lib. II, classis IX. ^ Ferrari, Per la biografia, etc, pp. 34-35. 9 Thomae de Argentina, Commentaria in IV Hbros setitentiariim, Genuae, 1585. Lib. IV, dist. 39, a. 4, f. 171. 22 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL X\^I intorno alla riserrezione, prende occasione, a parlare della morte apparente e a riferirci quello che sa o si diceva sul conto di Pietro d'Abano : « Sicut referunt aliqui valde periti in arte medicinae, quaedam est infirmitas quae tenet homi- nem per tres dies.... ita sopitum in omnibus sensibus, quod cuilibet intuenti videtur esse mortuus.... Et ex hac opinione quidam haereticus, nomine Petrus de Apono, qui expeditissimus fuit medicus, accepit occasionem deridendi miracula Christi et sanctorum, quantum ad suscitationem mortuorum. Dixit enim quod tales suscitati non erant vere mortui, sed infirmi praedicta infirmitate. Et si dicebatur sibi de Lazaro qui erat quatriduanus in monumento.... ipse respondet quod illud dictum de Lazaro verificabatur per synedochen, ita quod pars accipiebatur prò toto. Fuerunt enim, ut ipse dixit, solum tres dies naturales; numerabantur tamen quatuor, quia erat ibi pars primae diei et pars quartae dici, quae duae partes aequipollent uni dici.... Sed isti mentita est iniquitas sua, et recepit mercedem erroris sui. Nam ego fui praesens, quando in civitate Paduana ossa sua prò his et aliis suis erroribus fuerunt combusta ». Che valore ha questa testimonianza ? È evidente che bi- sogna in essa distinguere due parti: l'una riguarda il fatto del rogo delle ossa, al quale il nostro teologo dice di essersi tro- vato presente; nell'altra, si attribuisce a Pietro una dottrina, non si sa se sull'autorità degl' inquisitori, di cui il frate do- veva esser buon amico, o di chi altri, non certo sulla diretta conoscenza degli scritti del maestro padovano. Ora, se noi siamo propensi a credergli quanto la fatto di cui fu testimone, abbiamo buone ragioni per fare delle riserve quanto all'attri- buzione della dottrina. Pietro stesso, infatti, accenna nel Conciliator 'o alla quistione cui si riferisce Tommaso di Stra- sburgo : « Quod amplius firmatur per Avicennam dicentem : Accidit ut homo in apoplexia incurrat, et non sit differentia Inter ipsum et mortum, et non appareat aliquid anhelitus; deinde reviviscit et sanatur. Et nos plurimos vidimus tales.... Propter secundum huius sciendum, quod ideo voluit Halyabbas dilationem actus 72 horarum (etsi quidam librorum prave ac etiam contra Rasim, in Continente, et Avicennam, 70 habeant), quoniam 72 horae tres dies constituunt integros.... Et propterea IO Diff. 182, propter III. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D ABANO 23 Ioannis illud ii, cum Lazarus fuerit morte quatriduanus ac etiam foetens, quae nequeunt in apopletico reperir! , miraculo magis ascrivendum quam naturae ». L'accusa, dunque, di aver senz'altro deriso i miracoli di Cristo e dei santi, circa la risurrezione dei morti, quale ci vien riferita dall'agostiniano in contradizione col passo citato deìCon- ciliator, ha tutta l'aria di essere una dicerìa derivata da quell'au- reola di leggenda che comincia a recingere la figura del filosofo anche prima della morte; una dicerìa che dovette troppo fa- cilmente trovar credito presso gli zelanti inquisitori già mal disposti verso di lui. E forse il nostro medico aveva deriso la facile credulità popolare del suo tempo, comune anche a certi teologi, nel prestare ascolto ai troppo frequenti racconti di morti risuscitati, che abbondano nelle vite di santi e nei ser- moni del medio evo. Una volta formulata l'accusa, il fatto della morte improvvisa che gli tolse di discolparsi, come aveva fatto a Parigi, accrebbe certamente l' ardire dei malevoli avversari, i quali, venuta loro a mancare la preda viva, sfo- garono il loro zelo contro il cadavere. Checché sia di ciò, anche la seconda parte della testimo- nianza di Tommaso da Strasburgo rimane un utile documento delle accuse che formaron la materia criminosa di questo terzo processo, imbastito dagl' inquisitori contro Pietro d'Abano. 3. - Fu l'Abanese accusato dagl' inquisitori di Padova anche di magìa e di necromanzia ? Lo Scardeone, come ab- biamo visto, l'afferma; e la fama di mago e necromante, che ben presto avvolse Pietro di un velo di leggenda, potrebbe farcelo credere; la voce anzi fu accolta perfino dall'autore del- l'epigrafe che il comune di Padova fece scolpire sopra una delle quattro porte del palazzo della Ragione nel 1420, quando gli atti del processo esistevano ancora. Ma Pietro Pomponazzi e Gian Francesco Pico della Mirandola, che erano in grado di giudicare direttamente delle dottrine di lui, misero in guardia contro le dicerie popolari. Anzi il Pico in un passo importante del De rerum praenotione, sfuggito al Ferrari, scrive: « Circum- fertur.... de Petro Aponensi, quem Conciliatorem dicunt, quod daemonibus imperitabat. Ipse autem acta in eum vidi ab inquisitore haereticae pravitatis formata, cum impietatis esset accusatus, inter quae opponebatur quod daemones esse negabat nec ullo pacto in rerum reperire natura credebat . 24 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Respondebat autem, uti in ipsis quaestionibus legebatur, quo se ab hoc crimine expurgaret, fuisse olim se, dum esset Constantinopoli, ad foeminam quae hac ipsa necromantia pollere credebatur, ut de occultis quibusdam sciscitaretur, duosque discipulos suos citabat testes, subdens consonum videri se non interrogasse nisi credidisset. Quantum ergo distat ut necromantes fuerit, qui contrariorum vitiorum habi- tus sit, et muHerculam etiam de rebus arcanis consuluerit, superstitionibus ahis deditus. Sane fuit Aponensis, tametsi necromantiae non vacaverit, ut nobis ostendetur adversus magiam septimo hbro disputabimus » '^ Sebbene gh ultimi due periodi del discorso siano alquanto oscuri, come ognun sente, per la punteggiatura evidentemente sbagliata e forse per l'omissione tipografica di qualche frase, nel complesso la testimonianza del Pico è chiara: Pietro d'Abano fu accu- sato d'empietà agli inquisitori per avere, tra l'altro, negata l'esistenza dei demoni. Non dovè essere accusato di magia nera, né di necromanzia, perché il Pico, che afferma di aver veduti gli atti del processo, col relativo interrogatorio del- l' imputato, non solo non sa niente di quell'accusa, ma la esclude positivamente, facendo osservare che a Pietro s' im- putava giusto l'errore contrario. Era fondata l'accusa di aver negato l'esistenza di demoni ? Gian Francesco Pico ci attesta che Pietro se ne difendeva ricor- dando il fatto di essere una volta ricorso ad una necroman- tessa, e citando a sua discolpa due suoi discepoli come testi- moni. Che cosa dovevano provare i due discepoli ? la verità dell'affermazione riguardante la visita alla necromantessa, a testimoniare intorno all' insegnamento di lui a Padova ? Il testo non è molto chiaro, a meno che si supponga un viaggio recente a Costantinopoli in compagnia dei due allievi. Io inclino a credere, che questi dovessero piuttosto provare che r imputato, loro maestro, non aveva mai, nel suo insegna- mento, professata la dottrina di cui lo si accusava. Ad ogni modo è certo che nel Conciliator l'esistenza dei demoni è am- messa esplicitamente, come sa bene anche il Ferrari; né di una qualunque negazione si ha traccia negli scritti a noi noti. Come dunque spiegarci l'accusa ? Scrive il Ferrari: « Se il rim- provero di Gian Francesco Pico ebbe un fondamento, converrà " De rerum praenotione, lib. IV, cap. g (in Opera, Basileae, 1573). LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D'ABANO 25 credere che Pietro negò il diavolo delle credenze cattoliche, o lo concepì in modo suo indipendente, quello che gli parca filosofico » I-. Ora il Pico, anzi tutto, non rimprovera niente, ma narra: narra, cioè, per sfatare l'accusa di necromante, che Pietro fu accusato di un errore opposto alla necromanzia. Con questo, però, non dice che l'accusa fosse vera. Certo essa dove fondarsi su qualcosa. Ma, senza seguire il Ferrari, che, secondo il suo costume, dà senz'altro ragione agi' inqui- sitori, a me sembra che quell'accusa, di aver negato l'esistenza dei demoni, possa spiegarsi molto ovviamente colle dottrine e tendenze dell' Abanese, delle quali diremo nelle pagine che seguono. Questi, senz'essere necromante né mago, è un astro- logo persuaso e convinto, il quale crede all' influenza degli astri e delle loro congiunzioni non solo sulle vicende della natura, ma perfino sugli eventi umani. Molti fenomeni insoliti o strani che nella letteratura ascetica e religiosa del tempo venivano attribuiti all'azione del diavolo, egli tenta spie- garli per mezzo dell' influenza degli astri, o coli' ammettere l'esistenza di forze naturali a noi finora sconosciute, « unum- quodque enim individuum a sua constructione materiali.... et a superis habet virtutes et proprietates occultas ad quas intellectus pervenire non potest humanus » 'ì. Egli perciò ritiene antiscientifico il vezzo dei teologizzanti, d' introdurre ad ogni momento il miracoloso e il soprannaturale nello spie- gare i fenomeni della natura. Così, ad esempio, in un luogo importante del Conciliator, egli cerca di render ragione del fascino, escludendo da esso l'intervento demoniaco: « Di- cendum quod praedicta immissio quam amans in amantem immittit (collo sguardo), aut odiens in oditum, nihil, ut dictum, confert visioni, sed quaedam fit immutatio intentionis quae fortassis impressionem causat in vires phantasticas eius cui immittitur. Sciendum autem quosdam, interpretantes sermo- nes sapientum imaginum, dicere ipsas et sibi comparia effì- caciam habere secundum quod ars movetur a natura, in quam sicut in superius principium ordinatur. Cum enim quid boni aut pravi debeat alieni ex astralitate nativitatis suae 12 Ferrari, I tempi, la vita, le dottrine di Pietro d'Abano, p. 132 in nota. 13 Concili atoi-, diff. 182, propter III. Così farà più tardi anche Pietro Pomponazzi, nel De incantationibus, Basilea, 1556, pp. 2, 115-224, con espresso riferimento a Pietro d'Abano. 26 l'aristotelismo padovano dal. secolo XIV AL XVI contingere, hoc incitat artem ad construendum imagines vel aliquid simile, cuius gratia videtur hoc imperitis evenire. Sed quia hoc videtur esse a casu respectu artis, et quod nihil operetur, cum etiam videamus tales imagines indifferenter ex parte subiecti et temporis impressiones causare, cum tamen quod natum sit indifferens et ordinatum, unde quis ab hac secedet positione. Propter quod theologizzantes dixe- rant, hoc ex vigore magis contingere daemommi, se artibus im- plicantium talibus. Quare dicunt simphcibus et praecipue muhercuhs plus quam prudentibus hic effectus consurgere; has etenim amplius possunt astutioribus decipere. Quia tamen haec persuasio a spiritibiis sumpta praesentis non est methodi, dicendum forsitan magis erit quod, materia stellis propor- tionali » 14 etc. Analogamente, in un altro luogo della stessa opera, sul quale ritorneremo ^\ egli rigetta l'opinione di coloro che ogni fenomeno e avvenimento nel mondo della natura attribuiscono all' immediata azione creatrice di Dio, d'accordo in questo con Duns Scoto e Tommaso d'Aquino. E come per quest'ul- tima opinione non è mancato chi l'accusi (a torto, però, come vedremo) di aver negato la potenza creatrice divina (non ci consta se anche di siffatta accusa fosse chiamato a rispondere dinanzi agi' inquisitori), è verosimile che, dall'essersi egli burlato della facile credulità di certi teologizzanti, che scor- gevano il diavolo nascosto dietro ogni cesto di lattuga, si passasse senz'altro ad attribuirgli di aver negato l'esistenza stessa dei demoni. La spiegazione mi sembra naturale e conforme ai costumi inquisitoriali del tempo, oltre ad accordarsi colle dottrine a noi note dell'Abanese. Il quale, se fosse vissuto, avrebbe certamente potuto far tacere i malevoli o zelanti accusatori, come li aveva messi a posto già ben altre due volte. 4. - Ma se è certo che Pietro d'Abano non fu accusato di necromanzia e di magìa nera, non è da escludere, a priori, che, fra gli errori a lui attribuiti, alcuni non riguardassero l'astrologia e la magìa così detta bianca; la quale, pur senz'es- sere condannata in teoria, veniva in pratica guardata con 14 Conciliator, diff. 64, propter IV, ad 13. Cfr. sotto, pp. 35-37. 15 Cfr. sotto, pp. 43-46. LA DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D ABANO 27 sospetto per le applicazioni che se ne facevano e per le super- stizioni a cui dava luogo. Ciò, anzi, apparirà tanto più vero- simile, quanto meno si dimentichino i pregiudizi di lui in- torno alla praecantatio e all'arte notoria ^^. Se non che è perfettamente inutile abbandonarsi a conget- ture più o meno fondate e magari ingegnose su questo argo- mento, quando ci manca perfino l'ombra di una testimonianza storica. Ci basti osservare per ora che il « prò his et aliis suis erroribus» di Tommaso da Strasburgo i" e V (finter quae oppo- nebatur » del passo citato di Gian Francesco Pico ^^, sembrano lasciarci intravedere che gli errori attribuiti, a Pietro dagl'in- quisitori non dovevano limitarsi alla derisione delle risur- rezioni di morti e alla negazione dei diavoli. Del resto, il non conoscere quali e quante furono le accuse mossegli, importa fino a un certo punto; visto che anche quelle che noi conosciamo, hanno l'aria di fraintendimenti o di esa- gerazioni delle vere dottrine professate dal maestro padovano. Per portare un giudizio sereno intorno alle quali, dobbiamo oggi contentarci dell'esame attento dei suoi scritti d' indubbia autenticità, sforzandoci d' intenderli in relazione alle dottrine del tempo. II. — Gli « ERRATA » DI P. d'Abano secondo S. Champier. I. Giudizio di G. Francesco Pico della Mirandola sulle dottrine di Pietro d'Abano. — 2. Le cribrationes dello Champier. — 3. Classificazione delle dottrine censurate dallo Champier, relative alle diverse parti deVi' Astrologia Iitdiciaria. Dottrine relative aW Introdiictoria. — 4. Dottrine relative all'Astrologia de revolittionibus. — 5- de nativi- tatibus. — 6. de interrogationibus. — 7. de electionibus. — 8. Censura speciale della dottrina intorno alla creazione. Valore del giudizio dello Champier sulle opinioni di Pietro d'Abano. I. - Degli scritti di Pietro d'Abano due sopratutto, il com- mento ai Problemi di Aristotele, e l'opera massima, per la quale andò celebre, il Conciliator, furono oggetto di esame e di critiche. Un trattato De erroribus Petri Aponi in proble- matibus Aristotelis fu scritto, nel Cinquecento, da Antonio Ludovico o Luiz ^ ; ma il contenuto di esso e la natura delle cri- i^ Cfr. sotto, p. 36. ^7 Cfr. sopra, p. 22. ^8 Cfr. sopra, p. 23. I Cfr. Ferrari, P. d'A., p. 439. 2» L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI tiche all'opera dell'Abanese son rimasti ignoti tanto a me che al Ferrari per esser andati a vuoto i tentativi di pro- curarci l'opera. Un giudizio importante sulle dottrine del nostro tìlosofo nel Conciliator è quello di Gian Francesco Pico della Mirandola. Questi, in un altro luogo dell'opera sua già citata, De rerum praenotione, dopo aver detto che Pietro fu uomo « plurimae lectionis minimique iudicii », osserva che « plura reliquit signa cur superstitiosus crederetur in libro praesertim quem appel- lavit Conciliatorem. Cuius libri differentia 156, de praecanta- tionibus multa in utramque partem agens, eis tribuit pluri- mum, illique absurdissimae et impiae superstitioni favet, placari Deum astronomica oratione.... Pro experimentis affert multa, inter quae eucharistiae nostrae verba et divina, ut inquit, artis notoriae nomina et pleraque magicae artis cantamina » -. 2. - L'edizione giuntina del Conciliaior, del 1520, e molte edizioni venete posteriori recano in appendice all'opera un trattatello di Annotamenta , errata et castigationes in Petri Aponensis opera, per Simphorianum Champerium, Lugdu- nensem, Serenissimi ducis Calabrum et Lotharingorum mediciim primarium 3. Queste crihrationes, come sono anche chiamate, hanno la pretesa di formare un corpo diviso in tre parti, chia- mate libri. Ma in realtà si tratta di due scritti mal riuniti insieme. Il primo libro, che porta in testa una dedica a Ettore Dalli, si rivela subito non saprei dire se abbozzo o tentativo di enumerazione incompleta, oppure un riassunto dei prin- cipali errata del Conciliator, ai quali lo Champier fa seguire immediatamente le sue castigationes. Gli errata di questo primo libro si riferiscono alle differenze loi, 113, e 156; e fra essi sono le superstizioni già segnalate da Gian Francesco Pico, che lo Champier, nel proemio, ricopia alla lettera. Il - De rerum praenotione, VII, e. 7. Gian Francesco Pico a torto at- tribuisce a Pietro d'Abano la pretesa esperienza personale dell'effi- cacia dell'orazione astronomica. Nel passo a cui si riferisce il Pico, è citata invece una testimonianza di Albumasar, il quale afferma di aver fatta quella esperienza. Ma l'errore era già stato commesso dallo zio, Giovanni Pico, Disp. adv. astrologiam divin., a cura di E. Garin. Fi- renze, 1946. IV, e. 8, p. 476; cfr. Ferrari, P. d'A., pp. 372-373 è 454)- 3 Cfr. Ferr.^ri, Per la biografìa etc, pp. 42, e 48-49. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D'ABANO 29 secondo e il terzo libro, che recano in fronte un'altra dedica al fratello Cristoforo Champier e a Francesco Dalais, formano invece un'enumerazione assai piìi completa e ordinata degli errata et somnia dell' Abanese; e nel terzo libro son ripetuti tutti gli errori già segnalati nel primo, prova evidente che si tratta di due scritti riuniti, ma non fusi tra loro. Poiché nessun criterio logico di classificazione ha guidato lo Champier nella sua rassegna, vediamo di raggruppar noi le varie dottrine censurate, a fine d' intender meglio queste e la natura delle censure. 3. - Ed anzitutto bisogna osservare che il tenore e lo spi- rito di quasi tutte le dottrine di Pietro, censurate dallo Cham- pier, è sempre lo stesso: tutte si riconnettono ad un concetto astrologico che cercheremo di chiarire. Per questo a me pare che la migliore classificazione sistematica degli errori enume- rati dallo Champier sia quella che possiamo fondare sul con- cetto medievale dell'astrologia giudiziaria e sulla distribuzione di questa in diverse parti. Nel nostro tentativo ci può util- mente servir di guida lo S-peculum astronomiae attribuito ad Alberto Magno 4. Non so se l'operetta sia autentica: ma, chiunque ne sia l'autore (è certo che essa fu scritta prima che venissero tradotti in latino gli ultimi due libri della Meta- fisica aristotelica), è pur sempre un documento prezioso del- l'atteggiamento e del pensiero di un teologo di fronte alla libertà di ricerca reclamata dai fautori della scienza ara- bica, da una parte, e al soverchio zelo teologico, dall'altra. Or ecco il concetto che l'autore dello Speculum si è fatto dell'astrologia giudiziaria dal suo punto di vista teologico: Secunda magna sapientia, quae astronomia dicitur, est scientia iudiciorum astrorum, quae est ligamentum naturalis philoso- phiae et mathematicae ». Siffatta scienza non deroga in niente, per se stessa, alla sapienza divina, cioè alla teologia; che anzi essa insegna a ricondurre tutti quanti gli avvenimenti del mondo inferiore alla causalità dei corpi celesti, i quali sono strumenti e intermediari della causalità divina nel mondo, e a far cono- scere l'ordine che governa l'universo, « quam universi ordina- 4 In Opera, Lugduni, 1651, t. V. Ma in alcuni codici lo scritto è attribuito a Maestro Filippo de Thoriaco, che fu cancelliere dell' Uni- versità di Parigi dal 1280 al 1284. Cfr. L. Thorndike, A hisiory of Magic a. exper. science. II, Oxford, 1923, p. 715. 30 I. ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI tionem nulla scientia humana perfecte attingi! sicut scientia iudiciorum astrorum 5. Ed ecco com'è divisa: « Dividitur itaque ista scientia in duas partes, quarum prima est introductoria et versatur circa principia iudiciorum » 6. I principi onde si traggono i giudizi astrologici sono accennati nel capitolo che segue immediata- mente dopo, e consistono nelle proprietà naturali dei segni celesti. A questa parte introduttiva dell'astrologia giudiziaria si riferiscono le seguenti dottrine di Pietro d'Abano ritenute erronee dallo Champier: « Dicendum, secundum Aristotelem et Commentatorem, quod Deus nihil potest in haec inferiora absque medio, cum omnis actio hic mediante motu et transmutatione perficiatur, ita ut periodus a supernis corporibus in hac inferiori materia inducta non habeat permutare, cum ad id sequatur quaedam inordi- natio, ac defectus et mutabilitas in primo, tanquam non sapienter primitus omnia producenti, denotetur inesse. Quae enim per- fecta ratione lìrmata sunt, permutati non possunt « 7. « [Aristoteles] in libro de mundo: Deus, secundum poetam residet in supremo vertice universi, cuius virtute praecipue fo- vetur corpus quod prope est, et deinceps quod post illud con- sequenter usque ad loca nostra prope terram. Et quae super terra videntur nimium distantia a commodo divino, infirma esse et piena multi turbinisi non enim effectus virtutem suae causae continet et repraesentat perfecte; propter quod et varietas pau- latim occurrit, ut et in toto apparet quod et varietas paulatim occurrit, ut et in toto apparet ordine universi, a primo per media infima descendendo. Primus etenim simplex et immobilis mo- nens, ac incorruptibilis omnino, reliquis autem adsunt compo- sitio, mobilitas et corruptio » ^. « Omnis mundanae geniturae conditio ex planetis eorumque signis tanquam ferrum ex lapide magnetis dependet » 9. « Corpora superiora non solum motu operantur et lumine, sed fortunio et infortunio et virtutibus quibusdam specificis appropriatis, quae sine medio imprimunt immutatione sensibili » 'o. Il senso metafisico di tutte queste e di altre proposizioni è chiaro: la causa prima che, come direbbe Dante, « sta d'un 5 Speculum, cap. 2. ^ Ib., cap. 3. 7 Conciliator, diff. 113, propter IV, ad 3 (Champier, III, 5). 8 Ib., ad ult. (Champier, III, 7). 9 Ib., diff. 9, propter III (Champier, II, 5). '0 Ib., diff. 12, pr. II (Champier, II, io). LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D ABANO 3I modo », cioè è immutabile, non può esercitare la sua azione sul mondo delle cose caduche e periture, se non per mezzo di una serie di cause intermediarie; le quali, siccome possono, per r indisposizione della materia, restare impedite, produ- cono solo degli effetti contingenti ". Gli astri colle lor varie nature e proprietà sono appunto queste cause intermediarie, prestabilite da Dio, di tutti gli avvenimenti che accadono nel mondo infralunare. Benché secondo Pietro d'Abano que- st'ordine gerarchico di cause sia sospeso alla libera volontà creatrice, pure, come vedremo, è nel pensiero di lui un rima- suglio del vecchio e ben noto concetto neo-platonico passato, attraverso gli arabi, nell'occidente latino ^-. Il fatto che si ritrova anche in Dante è la prova migliore che la dottrina, per quanto ardita, non aveva agli occhi di molti contempo- ranei (fatta eccezione di Tommaso d'Aquino) niente di eretico. Ma su ciò dovremo ritornare. Il nostro Abanese, dunque, non solo è convinto che le sfere celesti esercitino un influsso continuo sugli avvenimenti e sulle vicende del mondo sotto la luna, come pensavano con- cordemente tutti i più grandi dottori della scolastica, compresi Tommaso d'Aquino e Bonaventura da Bagnorea; ma inoltre egli crede, sulla scorta degh astrologi arabi, che ogni fenomeno mondano sia alla mercè degli astri come il ferro è alla mercè del magnete che lo attira. E questo influsso celeste non era, per lui, soltanto generale e indeterminato, ma particolare e diverso in ogni momento, per ogni singola cosa e per ogni punto della superficie terrestre, che necessariamente ha un proprio zenith, come si diceva, diverso dagli altri punti della terra; cosicché sembrava vero a lui quello che si trova scritto nei libri ermetici, che ogni più piccolo granello di sabbia del mare ha il suo astro e va soggetto ad un suo proprio influsso stellare 13 ; e quello altresì che si legge nel Centiloquio di Tolomeo : «vultus huius saeculi subiecti sunt vultibus caelestibus» m. Era appunto questo concetto che giustificava agli occhi dei medievali l'astrologia giudiziaria. La quale non è né mendace, né oziosa — esclama Pietro — ma utile, anzi necessaria al " Cfr. Paradiso, VII, 67-69; XIII, 61-78. '2 Cfr. sotto, pp. 40-43. 13 Conciliator, diff. 23, pr. Ili (Champier, II, 15); diff. loi, pr. I (Champier, III, 3). '4 Conciliator, diff. io, pr. III. 32 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI medico. E, basandosi su quei principi, egli ha la pretesa di provare, nella Differenza decima del Conciliator e nella prima del Lucidator, il carattere scientifico e la nobiltà dell' indagine astrologica, la quale, d'altra parte, non afferma nulla « quod leges molestet divinas », né si perde in vaneggiamenti dietro alle superstizioni dell'arte magica e della necromanzia '5. 4. - La seconda parte dell'astrologia giudiziaria, sappiamo dallo Spectdum 16^ « expletur in exercitio iudicandi. Et haec iterum divisa est in quatuor partes », che noi chiameremo ca- pitoli. Il capitolo primo s' intitola de revolutionibus, e si suddivide rispettivamente in tre sezioni, «de CXX coniunctionibus pla- netarum et eorum eclipsibus, de revolutione annorum mundi, de temporum mutatione»!?, A questo capitolo si riferiscono in tutto o in parte le dottrine censurate nei seguenti luoghi dallo Champier: lib. II, i, 3, 4, 11, 12, 13, 15, 16; lib. Ili, i, 3, 4. Fra esse alcune sono maggiormente degne di nota per la ripercussione che hanno su concetti teologici del tempo di Pietro d'Abano; ed è su queste che ci soffermeremo un mo- mento. Secondo i principi fondamentali della metafisica dell'Aba- nese, tutti gli avvenimenti che accadono nel mondo infralu- nare, son preparati e governati, come abbiamo già visto, dalla causalità che su questo mondo esercitano le sfere celesti coi loro segni e colle loro rivoluzioni; le quali, secondo la dot- trina tolemaica derivata dagli stoici, dovrebbero ripetersi in capo ad ogni 36.000 anni, per dar luogo ad un ritorno periodico degli avvenimenti già accaduti per l'addietro infinite volte '8. Né solo i fenomeni del mondo fisico sottostanno all' influenza dei corpi celesti; ma anche i temperamenti e le disposizioni fisiologiche (complessioni) e morali, proprie del corpo e del- l'animo, dipendono dallo speciale influsso dei sette pianeti, ciascun de' quali governa un'età della vita umana ed ha sotto la sua protezione un'arte od una professione speciale 19. A 15 Cfr. Ferrari, Per la biografia etc, pp. 74-75. ^6 Speculum, e. 3. 17 Ib., cap. 6. 18 Cfr. Conciliator, diff. 9 e 16; Problematuni expositio, partic. XVII, probi. 3 (Champier, II, 12). 19 Conciliator , diff. 7 (Champier, II, 2) ; diff. 26, pr. I (Champier, II. 16). LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D ABANO 33 questa legge non si sottraggono in una certa misura nemmeno gli avvenimenti miracolosi. Così è detto che « ex coniunctione Saturni et Io vis in principio Arietis.... totus inferior mundus commutatur; itaque non solum regna sed et leges et pro- phetae consurgunt in mundo, significative saltem, seu cau- saliter in quibusdam » -°. Cristo, nato appunto sotto quella congiunzione, fu temperatissimo nella costituzione del suo corpo ottimamente complessionato 21. Invece, « cum Mars mundum gubernaret, factum est diluvium...; sub ducatu lunae dispartitae sunt linguae, subversa est Sodoma et Go- morra, factus est transitus a filiis Israel de Aegypto, et multa alia apparuerunt iudicia » -2. In un altro luogo del Conciliator, l'autore sembra accogliere la dottrina di Avicenna, che spiega per mezzo dell' influsso celeste i poteri sovrumani e le virtù meravigliose dei profeti ^3. Che tali applicazioni di principi astrologici alle dottrine teologiche non implicassero necessariamente, ai tempi del- l'Abanese, la negazione assoluta di queste, e quindi l'eresia, si ricava dal fatto che, non solo l'autore dello Speculum le ammette, ma Dante, in parte almeno, le fa sueM. ^ elio Specu- lum, -5 si legge che la causalità efficiente degli astri è soggetta « voluntati.... conditoris qui ab initio providit sic », di modo che l'ordine da lui stabilito « ab ipso solo averti potest ». Ora è appunto la causa prima (« natura iubente divina », come dice espressamente l'Abanese -^ che ha disposto fin da principio, « formans librum universitatis », i moti e le congiunzioni degli astri, affinché significassero gli avvenimenti naturali e quelli miracolosi, scritti a caratteri eterni, anzi il loro accadere, nel libro della natura. Le riserve « significative saltem » e il « causaliter in quibusdam » ^7, che abbiamo letti poco sopra, significano che Pietro l' intendeva appunto così. 20 Conciliator, diff. 9, pr. Ili (Champier, II, 3). Cfr. i miei Saggi ■di filosofia Dantesca. Milano-Genova-Roma-Napoli, 1930, pp. 55-57. 21 Conciliator, diff. 20, pr. Ili; cfr. diff. 18 (Champier, II, 13). Cfr. Saggi di filos. Dani., p. 56. 22 Conciliator, diff. 9 (Champier, II, 4). -3 Conciliator, diff. 135, pr. Ili (Champier, III, 8). -4 Cfr. Farad., XIII, 67-84; Convivio, IV, 5 e 23; B. Nardi, Saggi, cit., pp. 45-61. 25 Cap. II. -6 Conciliator, diff. 18. 27 Conciliator, diff. 9. Cfr. sotto, p. 54. 34 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Per essere stati significati, predetti e preparati dalle con- giunzioni celesti, gli eventi miracolosi non cessavano di esser tali. Pietro d'Abano, anzi, dichiara che l'astrologia « confert.... scientiae metaphysicae, eo quod docet ex posterioribus eius finem intentum et subiectum investigare; per corpora namque coelestia potissime in cognitionem devenimus principii primi: unde Apostolus, ad Romanos, primo: invisibilia Dei per ea quae facta sunt, ex creatura mundi intellecta, conspiciuntur))^^. 5. - Strettamente connesso con quello de revolutionibus è il capitolo che tratta de nativitatibus. « Nativitatum pars — e' informa l'autore dello Sfecidum -9, — docet in nativitate eorum quorum significatores nutritionis liberi fuerint, eli- gere locum hylech ex luminibus et parte fortunae; ex gradu quoque ascendentis, et ex gradu coniunctionis atque prae- ventionis quae fuerit ante nativitatem, eligere quoque alcho- codem ex dominis quatuor dignitatum ipsius loci hylech » etc. — A questa parte dell'astrologia si possono ricondurre le dottrine censurate dallo Champier ai numeri 2, 6, 13, 14 e 17 del libro secondo delle Cribraiiones. Della ricerca del- VHylech e dell' Alchocodem, Pietro parla diffusamente nella Differenza XXI del Conciliator, trattando della lunghezza della vita e delle sue cause. Nella differenza X, è formulata la tesi, spesso ribadita, che « omnis pianeta, secundum diver- sitatem nativitatis et revolutionis, uni existit fortuna, alii vero infortuna » 3°. Altrove è detto che perfino due gemelli, per il differente zenith di ciascun di loro nel grembo materno, ricevono influssi diversi; onde canta Lucano: « Stant gemini fratres, fecundae gloria matris, Quos eadem variis geniierunt viscera fatis ». 3^ Ma anche la scienza de nativitaiibus è ritenuta legittima e inoffensiva per la fede, dall'autore dello Speculum^'^, purché non si pretenda che 1' influenza degli astri sopprima il libero 28 Conciliator, diff. io, pr. III. -9 Cap. 7. 30 Champier, II, 14. 31 Conciliator, diff. 23 (Champier, II, 15; cfr. Lucano, Phavs., Ili, 603 sg. 32 Cap. 12. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D ABANO 35 arbitrio dell'uomo. Ora per Pietro d'Abano la volontà umana riman libera, non solo di fronte alla causalità efficiente degli astri, che determinano solo una certa inclinazione risultante dalle disposizioni organiche, ma perfino di fronte alla pre- scienza divina 33. 6. - Le altre dottrine, censurate dallo Champier, possono agevolmente raggrupparsi intorno agli ultimi due capitoli dell'astrologia, che s' intitolano rispettivamente de interroga- tionihus e de electionihus . Del primo si legge nello Spectiltimì'i: «Pars.... interroga- tionum docet indicare de re de qua facta fuit interrogatio cum intentione radicali, utrum scilicet perfìciatur an non; et si sic, quid sit causa illius et quando erit hoc; et si non, quid prohibet, si non fìat, et quando apparebit quod fieri non debeat ». A questa parte dell'astrologia si riferiscono alcune delle dottrine di Pietro già accennate, e concernono la ricerca della lunghezza della vita, del sesso, del destino e della fortuna. La legittimità di siffatte ricerche dipendeva dall' ipo- tesi generale circa l' influsso dei corpi celesti e delle loro con- giunzioni sulle vicende del mondo inferiore e sulla « com- plexio » del corpo umano, nonché dall'avere ammesso che i fenomeni celesti significassero ed annunziassero quelli terrestri. E poiché r ipotesi era generalmente ritenuta vera, l'autore dello Specuhim non dura molta fatica a difendere anche questa parte pratica dell'astrologia giudiziaria, che, a suo giudizio, può conciliarsi col libero arbitrio dell'uomo (la quistione del libero arbitrio, giova osservarlo, è di capitale importanza nella filosofia medievale), se è vero che questo non sia menomato dalla provvidenza e dall'onniscienza divina. y. - Assai più cauto si fa l'autore dello Specitkmiy>, quando viene a parlare del capitolo de electionihus. Egli intanto di- stingue la ricerca, invero innocente, dell' « bora laudabilis in- cipiendi aliquod opus », affinché l'opera da intraprendere abbia felice risultato, pur senza tentare di modificare il corso o r influenza del cielo, dai tentativi, per mezzo d' immagini 33 Cfr. Ferrari, P. d'A., pp. 355-356. 34 Cap. 13. 35 Capp. 10 e 14. 36 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI e di scongiuri, di modificare favorevolmente le influenze ce- lesti per la buona riuscita dell'opera che s' intraprende. Che la prima ricerca non abbia niente d' illogico, dati i presupposti astrologici che noi conosciamo, o di temerario dal punto di vista della dottrina teologica del tempo, è evidente. Perciò l'autore dello Speculum non solo la ritiene legittima, ma di- chiara che sia opportuno, come pensa anche Pietro d'Abano, conoscer l'ora favorevole al concepire, al prender medicine e alle operazioni chirurgiche 36. Per quel che riguarda invece la costruzion delle immagini a fine di modificare l' influsso ce- leste, egli stima necessario far molte riserve: «Parti.... electio- num dixi supponi imaginum scientiam, non quarumcunque, sed astronomicarum. Quoniam imagines sunt tribus modis. Est enim unus modus imaginum abominabilis, qui significa- tione et invocatione exigit.... Est alius modus aliquantulum minus incommodus, detestabilis tamen, qui fit per inscrip- tionem characterum, per quaedam nomina exorcizando.... Tertius autem est modus imaginum astronomicarum, qui eli- minat istas spernendas suffumigationes et invocationes, et non habet neque exorcizationes, ncque characterum inscrip- tiones admittit, sed virtutem nanciscitur solummodo a figura caelesti ». Posta tale distinzione, mentre egli condanna gli esorcismi, gì' incatesimi e la necromanzia, pensa di non po- tersi arrogare il diritto di condannare o di negar l'efficacia delle immagini astronomiche. D' immagini astronomiche, ammesse dall'autore dello Spe- culum, si parla nella già citata differenza X e nella CI del Conciliator. Ma Pietro d'Abano sembra andar più oltre ed ammettere anche quel genere di pratiche condannate dall'au- tore dello Speculum^i. Si tratta per altro d'un equivoco. Egli crede al fascino, all'arte notoria, alla pvaecantatio e alla magia (e questo deve, senza dubbio, aver contribuito a crear la sua fama di mago e di necromante) ; ma intanto spiega i fenomeni e i resultati ottenuti con queste arti, sforzandosi di traspor- tarli sul terreno della magia bianca, allora ritenuta lecita dai teologi. 36 Conciliator, diff. io (Champier, II, 8). 37 Conciliator, diff. 135 e 156. Champier, III, 8, g, io. Intorno alle interessanti varianti del numero 8 nelle varie edizioni del Conciliator, cfr. Ferrari, Per la biografia etc, pp. 48-9. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D'ABANO 37 Così egli ammette l'efficacia del fascino e degl' incante- simi, come r ammetteva Avicenna e come due secoli dopo l'ammetterà il Pomponazzi, ma esclude da essi ogni carattere sovrannaturale e segnatamente l' intervento di demoni 38, pur senza negar l'esistenza di essi. Per lui, l'anima di certi uomini è fornita, per uno speciale influsso celeste, di virtù eccezionali, e si comporta, nel modificare le influenze astrali sulla terra, come le immagini artificiali costruite dagli antichi sapienti dell' India 39. — La praecantatio è utile al medico, come gli è necessaria la fiducia da parte dell' infermo 40. Ma le parole dell' incantesimo verbale desumono la loro efficacia dalla virtù celeste, come dalle disposizioni favorevoli delle costel- lazioni deriva l'efficacia, secondo Albumasar, della preghiera astronomica 41. L'efficacia, insomma, di tutte queste pratiche è desunta dall'astrologia: siamo fuori del dominio della magia nera. 8. - Una censura speciale dello Champier riguarda anche una dottrina la quale non ha niente che fare con le dottrine di carattere prettamente astrologico, che abbiamo riferite; ma che, anzi, sotto un certo aspetto, è opposta a quelle: in- tendo la dottrina della produzione delle forme nel mondo infralunare. Essa suona così: « Ponentes.... creationem, etsi verissimi in lege sint, in philosophia tamen non sunt admit- tendi, cum ipsam levem faciant omnino, ac primam quasi causam multiplicibus vexent laboribus; decorem non minus et ordinem et per consequens perfectionem removentes, secun- dum Peripateticos, ab universo «42. Lo Champier pretende che, con siffatta dottrina, l'Abanese venga a contradirsi, « quia simul stare non possunt, quod lege sint verissimi, et tamen admictendi non sint in philosophia; quia omne verum conso- nat ». Dove non sai se egli accusi il filosofo di aver negato la creazione, o di avere ammessa la dottrina averroistica della doppia verità. Ma nell'uno come nell'altro caso, ha frainteso senz'altro il pensiero di Pietro d'Abano, come avremo modo di dimostrare nel paragrafo che segue. 38 Conciliator, diff. 135. 39 Ibid. 40 Ibid. 4' Conciliator, diff. 156. 42 Conciliator, diff. loi (Champier, III, 2; cfr. I, 3). Cfr. soprap. 14 e 16. 38 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI In realtà, di tutte le dottrine censurate dalla Champier, tre appena sono tacciate di eresia e segnate di un biasimo spe- ciale, e cioè: i) quella, ora accennata, intorno alla creazione; 2) l'avere Pietro affermato che Dio non possa operare nel mondo infralunare se non per mezzo d' intermediari; 3) l'aver ritenuta efficace la praecantatio. Ora la prima dottrina è stata, come vedremo, semplicemente fraintesa da lui; la seconda è esagerata, poiché così come l'Abanese la intende, non suonava affatto eretica ai tempi di lui; quanto alla terza, egli non si è accorto come la praecantatio e le altre pratiche affini avessero perduto in Pietro d'Abano quel loro carattere originario deri- vante dalla magia nera che le rendeva singolarmente sospette. Se lo Champier avesse esaminato il Conciliaior coll'animo scevro dai pregiudizi di una scuola teologica che aveva già perduto per sempre il senso della libertà nel campo scientifico, quel senso di libertà che si era così poderosamente affermato nel secolo XIII ; se egli, dico, avesse studiato l'opera del medico- filosofo con quel senso di tolleranza che rivela il teologo autore ■dello SpectUum, e non colla grettezza sospettosa degl' inquisi- tori parigini e padovani, avrebbe potuto forse risparmiarsi quasi tutte le sue censure e castigationes. Notevole, per altro, che nemmeno lo Champier, che con tanto zelo si dette la pena di spulciare l'opera ritenuta peri- colosa, abbia formulato le accuse ben altrimenti gravi che, con altro scopo, ha sollevato contro Pietro d'Abano il suo moderno biografo. Sante Ferrari. III. — Eresie di P, d'Abano, secondo il Ferrari: Dio E il mondo, Scienza e Fede. 1. L'averroismo di P. d'A. secondo il Ferrari. — 2. Dottrina della crea- zione; lo schema neo-platonico; il concetto di creazione mediata. — 3. Eternità della materia ? — 4. Il problema circa l'eternità del mondo. — 5. La pretesa tendenza al panteismo. — 6. Il miracolo. — 7. La doppia verità. I. - L'ultimo processo alle dottrine filosofiche di Pietro d'Abano è quello intentato ad esse nella voluminosa e farragi- nosa biografia scritta intorno al nostro filosofo da Sante Fer- rari. Anzi che colla serena comprensione dello storico, si di- rebbe che questo autore si sia accinto allo studio del pensiero dell' Abanese colla stessa parziahtà dello Champier e, quasi LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D ABANO 39 direi, colla stessa mentalità degl' inquisitori parigini e pado- vani: coll'aggravante di una minore disposizione a intenderlo, derivante dalla scarsa conoscenza, che ha il Ferrari, di una filosofia così complessa e ricca di motivi come quella medie- vale K La scarsa conoscenza del pensiero medievale, che verremo documentando, si rivela subito, fin dal primo tentativo col quale il Ferrari vorrebbe caratterizzare la dottrina filosofica di P. d'Abano, ora asserendo che questi inclina e simpatizza per l'avverroismo ^, ora sforzandosi d' inquadrarne il pensiero nel movimento d' idee noto sotto il nome di « averroismo la- tino » 3. All'averroismo più o meno latino avrebbe inclinato il maestro padovano: i) per la negazione della creazione dal punto di vista filosofico, per avere ammessa la materia eterna, la ne- cessità d' intermediari tra la causa prima e i fenomeni del mondo infralunare, e l'eternità del mondo; 2) per una non ben precisata tendenza al panteismo e per un certo naturalismo che lo porta a negare la possibilità dei miracoli; 3) per aver professata la dottrina della doppia verità; 4) e finalmente per la dottrina dell' intelletto separato. In questo paragrafo discuteremo il giudizio del Ferrari sui primi tre punti ; al quarto punto riserveremo il paragrafo che segue, giacché ne vale la pena. 2. - Alla fine del paragrafo precedente, abbiamo visto che lo Champier segnala come errore, et horrendus, l'af- fermazione di Pietro d'Abano, che la dottrina della creazione, pur essendo vera dal punto di vista teologico, è da rigettarsi da quello filosofico. L' interpretazione sbagliata che lo Cham- pier colla sua censura dava di un passo male inteso, diventa ^ Un esempio caratteristico dell' incapacità a comprendere e a giu- stificare, nel loro genuino significato storico, le idee del passato, è il capitolo che il Ferrari dedica a P. d'A. astrologo. Egli riassume pur- chessia le dottrine astrologiche del Nostro, ma non le spiega; anzi, ad un certo punto non sa far di meglio che uscire in questa goffa escla- mazione : « Piaccia al nostro lettore che non ci smarriamo in tali labi- rinti del pensiero umano che mettono avvilimento e pietà» (P. d'A., V- 375) ! 2 Pietro d'Abano, p. 348 e sgg. 3 Per la Biografia, etc, p. 92-98. L'accusa d'averroismo, per altro, risale, sebbene non precisata come presso il Ferrari, per lo meno al Renan e al Tiraboschi. 40 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI addirittura una mostruosità storica sotto la scorrevole penna del Ferrari. Udiamo, infatti, qual concetto questi si sia fatto della rela- zione tra la divinità e il mondo secondo la mente di Pietro: « Le azioni del mondo superiore sulla terra e su noi vengono infine da Dio; salvoché le une producendosi per una serie di mezzi, sono coordinate a questi e ne hanno la misura, la co- stanza, la prevedibilità, oltre che sono relativamente ad essi inevitabili; onde le possiamo in certo modo ridurre alle qua- lità degli elementi, anche se non vediamo precisamente il come; le altre si esercitano senza movimenti, absque medii alteratione, o da Dio stesso o dalle stelle imprimenti una spe- ciale virtù, com' è nel caso del magnete, la cui virtù attrattiva è collegata, lo attesta l'esperienza, col polo artico. L'opera divina è del resto palese nell'ordine universale e nella finalità che governa il cosmo. I platonici (non si dice Platone) 4 ripo- sero le cause universali in divinità secondarie, specie di mini- stri alla prima, che danno le forme alle cose, onde Averroè disse che Platone in un modo alquanto oscuro aveva asserito che il creatore fé' gli angeli e ordinò poi loro di creare le altre cose mortali, il che veramente non si dee prendere alla lettera. Aristotile le forme delle cose terrestri volle, secondo che pa- reva anche a Temistio, fossero generate dal sole e dal suo giro. Alcuni ammisero che le forme fossero nella nostra terra la- tenti, quali Anassagora, Empedocle, Democrito. Altri parla- rono di creazione. I primi traggono le cose dal caos, i secondi vogliono invece che Dio le produca dal nulla. E quest'ultima opinione induxit loquentes trium legum, quae hodie sunt, dicere aliquid fieri ex nihilo.... adeo quod diciint quod homo cum moveat lapidem expellendo, non est movens, sed agens illud creai motum.... Di tali sentenze possiamo leggere in Giovanni Filopono.... Ma tra le due opinioni opposte e' è luogo per due intermedie, anzi per tre, che convengono nell'ammettere due tesi: la ge- nerazione essere un tramutarsi delle sostanze, e niente pro- dursi dal niente. Convengon in ciò, ma si discostano poi nel 4 L'osservazione è meravigliosa ! Neanche a farlo a posta, Pietro cita subito il Timeo, nominando espressamente Platone: « Quare, 12. Metaph. [comm. 44], Commentor: ' Plato suis obscuris verbis dixit quod creator creavit angelos manu....'». Cfr. sopra, p. 13. Del resta alla diff. 71 si legge: «Plato namque posuit substantias separatas,_ quas ideas appellavit ». LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D ABANO 4I modo di pensare l'agente. L'una pone che l'agente crei la forma e la dia alla materia, sia poi esso congiunto o no con materia: opinione di Temistio e lino a un certo punto di Alf arabi. La seconda nega che l'agente sia affatto legato alla materia e lo chiama dator delle forme, come pensarono Algazel ed Averroè 5. La terza è quella di Aristotele, che l'Afrodisio giu- dicò non ambigua, e alla quale non si può non assentire; l'agente non fa se non il composto di materia e forma, mo- vendo la materia finché ne esca in atto la forma che vi giace in potenza.... La sentenza aristotelica in qualche cosa somi- glia a quella dei creazionisti e in qualche cosa ne differisce.... ma è la sola vera, perché sol essa non porta a conseguenze im- possibili, come vi portano le opinioni di Platone e di Anas- sagora, che furono da Aristotele combattute vittoriosamente. Coloro che invocano la creazione, etsi verissimi lege sint, in philosophia tamen non sunt admittendi » ^. Dopo questa che vorrebbe essere una parafrasi, invero molto libera, di un importantissimo passo del Conciliator, il Ferrari scrive ancora: «L'essenza della materia rende inevi- tabile l'uso di qualche mezzo o strumento, per certe produ- zioni, a Dio stesso. In altre parole Dio produce e governa i cieli, gli angeli, le anime, ma nulla poi potrebbe fare nei regni inferiori delle cose corporee senza il loro mezzo, per la troppa distanza tra i due termini. Gli è così che per una serie di me- diazioni, e con armonia meravigliosa discende alle infime cose terrestri l'azione divina, passandosi per gradi dalle cose incorruttibili, anzi dall'imo semplice ed immobile agli esseri composti, variabili corruttibili » i. Parrebbe, dunque, a sentire il Ferrari, i) che Dio, sorgente prima di tutte le azioni del mondo celeste su quello terrestre, avesse di fronte a sé un principio eterno di passività che sa- rebbe poi la materia; 2) che questa materia fosse eterna al pari di Dio e non prodotta ^ ; 3) che l'azione divina sul mondo '^ Leggasi Avicenna, e non Averroè, il quale ha sempre combattuta la teoria del « dator formarum ». Le edizioni hanno solo un' A., che ovunque è abbreviazione d'Avicenna. Il Ferrari un'altra volta legge Aristotele, arruffando tutto il senso di un passo importantissimo della diff. 57. Cfr. P. d'A., p. 347. V. anche sopra, p. 11. 6 P. d'A., pp. 249-251. Il luogo del Conciliator qui parafrasato è stato riportato per esteso sopra, p. 16. 7 Ib., p. 251. 8 P. d'A., p. 351. 42 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI corruttibile non potesse in nessun modo esercitarsi se non attraverso una serie di mezzi, che sono i cieli, gli angeli e le anime. Se gì' inquisitori parigini e padovani, che se n' inten- devano, avessero lette queste cose negli scritti del maestro d'Abano, non avrebbero aspettato ad arrostire un cadavere, né r imputato sarebbe sfuggito loro dalle mani. Il fatto, in- vece, è che il pensiero genuino di lui è ben diverso dall'esposi- zione che ne fa il Ferrari. Vediamo dunque di chiarirlo. Secondo lo schema neo-platonico di Alfarabi e di Avicenna 9, riassunto anche dall' Abanese, dalla prima causa, che è mo- tore immobile e quindi « idem et stabilis permanet », non può derivare ciò che è molteplice e mutevole ; ma « solum unum immediate », cioè la prima intelligenza col primo cielo. Da questa è prodotta la seconda intelligenza col secondo cielo; e così di seguito, di grado in grado, secondo un ordine di ema- nazione discendente, fino all' intelligenza lunare, la quale produce la così detta « intelligenza agente », « gubernantem quae sunt in activorum et passivorum spaerà simplicium et compositorum», cioè tutte le forme del mondo infrahmare ^°. Pietro d'Abano accetta in parte questo schema, ma v' intro- duce profonde modificazioni. Egli pone, tra la causa prima e la materia, una serie d' in- termediari che gli servono a spiegare, come a Dante ", la con- tingenza nel mondo inferiore; ma in nessun luogo afferma che la materia sia eterna, come vorrebbe farci credere il Ferrari, per il quale eterna vuol poi dire non creata. E sebbene dica, « secundum Aristotelem et Commentatorem, quod Deus nihil potest in haec [interiora] operari absque medio «i^, è evidente che egli intende parlare, non di una necessità di natura e 9 Pietro d'Abano come gli scolastici del suo tempo mette con Avi- cenna anche Algazele. In realtà questi scrisse un'esposizione delle dottrine di Alfarabi e di Avicenna, alla quale teneva dietro la sua confutazione fatta dal punto di vista della teologia mussulmana ortodossa. Fino ai tempi del Nostro solo la prima parte era tradotta in latino; la Destructio philosophorum si conobbe assai più tardi. Di qui l'abbaglio. Cfr. M. Asin Palacios, Algazel, Zaragoza, igoi, pp. 141-143. Il Duhem tuttavia crede che quando Algazele scrisse la prima parte dell'opera, egli accet- tasse quelle dottrine neo-platoniche che rifiutò poi nella Destructio (Duhem, Le système du monde etc, Paris, 1914, t. IV). 10 Conciliator, diff. loi. Cfr. sopra, pp. i4-iS- 11 Farad., XIII, 61-78; XVII, 37-38; VII, 67-69. Cfr. il mio saggio Dante e P. d'A. (nei Saggi di filos. dant., pp. 50-55). 12 Conciliator, diff. 113, pr. IV. LA DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D'aBANO 43 assoluta, ma di una necessità conseguente a quella a perfecta ratio )) che è poi la stessa sapienza divina, la quale ha volon- tariamente stabilito l'ordine mondano; ordine che è sospeso alla volontà divina la quale è immutabile. Ma se la causa prima ha fissato l'ordine cosmico, nel quale gli eventi del mondo infralunare dipendono dal moto e dalle ^'a^iazioni che accadono nei corpi celesti, intermediari tra i due estremi dell'atto puro e della pura potenza —, non ne segue logica- mente che non possa, in quanto è superiore a quest'ordine da sé stabilito, derogarvi. Anzi troviamo esplicitamente as- serito il contrario: « Potest.... primus sua mera benignitate, cum sit agens supernaturale, per voluntatem, absque motu et transmutatione in haec in inferiora operari, quicquid dicat peripateticus))i3. Ora se Pietro può pensare ad un intervento diretto, anche se fuori dell'ordine naturale, della causa prima sul mondo della generazione e corruzione, vuol dire che la necessità degl' intermediari, affermata da lui sulla scorta di Aristotele e del Commentatore, non è la necessità assoluta dei platonici arabi, per i quali è sempHcemente impossibile, cioè <:ontradditorio, che dall'uno, immutabile ed eterno possa derivare immediatamente quello che è molteplice, diverso e perituro. 3. - In nessun luogo poi delle opere dell' Abanese si trova, come abbiamo detto, il benché minimo accenno, sia pure indiretto, alla dottrina dell'eternità della materia come prin- cipio indipendente ed opposto all'attività della prima causa. Ma per intender meglio l'assurdo storico che al maestro pa- dovano attribuisce il Ferrari, è necessario porci più da vicino il quesito se Pietro neghi davvero senz'altro la creazione, o se invece non avanzi per avventura un suo concetto o modo d' intendere la produzione degli esseri da parte di Dio. Il passo della differenza CI, incriminato dallo Champier e già da noi riferito, non implica la negazione pura e semplice della creazione, ma va inteso in relazione al problema, proposto dal nostro autore, circa la produzione delle forme sostan- ziali nel mondo della natura corruttibile. D'accordo con lo spendo Duns Scoto 14 e con Tommaso d' Aquino i\ l'Abanese 13 Ib., diff. 156, p. III. 14 De rerum principio, q. 5, a. i. ^5 Summa theologica, I, q. 45, a. 8; q. 65, a. 4. 44 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AI, XVI combatte la tesi tipicamente occasionalistica di Giovanni Filopono e di alcuni filosofi arabi, secondo i quali la causa pri- ma è quella che produce, alla maniera dei moderni occasiona- listi, tutti gli esseri nuovi e le loro azioni scambievoli imme- diatamente {sine medio), «ita ut negent ignem comburere et aquam humectare, dicent es omnino huiusmodi creatione indigere. Unde et communiter dicunt corpus non creare, nec aliquam inducere dispositionem; adeo quod dicunt, quod homo, cum moveat lapidem expellendo, non est movens, sed agens illud creat motum. Et negaverunt propter hoc poten- tiam esse))J6. È contro costoro i quali negano alle sostanze corporee la facoltà di agire e che mescolano, come dice Tom- maso, la creazione alle operazioni della natura, che si riferisce la critica dell'Abanese: « Ponentes.... creationem, etsi veris- simi in lege sint » — in quanto tutte le operazioni della natura si riducono, in ultima analisi, all'azione della causa prima — « in philosophia tamen non sunt admittendi ». In altri termini, Dio ha stabilito un ordine di cause naturali, attive e passive, sospeso alla sua perenne azione creatrice. La scienza razionale umana, la philosophia , a differenza della scienza rivelata di- vina qual' è la theologia, ha appunto lo scopo di rintracciare que- st'ordine naturale fra causa ed effetto, ricercando la cagione prossima o, come si direbbe oggi, l'antecedente immediato e costante dei fenomeni fisici e non la causa prima se non dopo aver risalito l'ordine delle cause seconde. Tale è anche il punto di vista di tutti i più grandi scolastici, in particolare di Tom- maso d'Aquino 17, di Duns Scoto '8 e di Enrico di Gandi9. In- trodurre speculazioni teologiche mentre si vuol rintracciare l'ordine cosmico delle cause, è affatto intempestivo e dan- noso per la scienza. La quale ha un proprio suo modus o me- todo di ricerca, diverso da quello della teologia. È dunque assurdo pretendere di ricavare dal passo riferito, che ha un senso ben chiaro e limitato, una negazione pura e semplice della dottrina della creazione. Senza dire poi che siffatta pretesa è in evidente contrasto col concetto da Pietro nettamente affermato, che la causa '6 Conciliator, diff. loi. Cfr. Averr., Metaph., XII, comm. 18, e qui sopra, p. 14. ^7 Cantra gentiles, II, cap. 4. Cfr. sotto, la Conclusione a questo saggio. j8 Oxon., II, S. I, q. 4, n. 28. '9 Summa theol, a. VII, q. i. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO d'aBANO 45 prima, in quanto è superiore all'ordine naturale, può agire sul mondo inferiore immediatamente; e coll'affermazione co- stante della causalità prima della divina natura, da cui di- pende la causalità degl' intermediari (e questo lo riconosce anche il Ferrari, per il quale i cieli, gli angeli e le anime son prodotti immediatamente da Dio), talché l'Abanese potrà affermare : « a Deo et per Deum Constant omnia » 20. Fra la causa prima e il mondo di sotto la luna, sta una serie di cause intermedie, che sono i cieli coi loro motori. In nessun luogo il nostro medico e filosofo ci dice se questi intermediari son prodotti tutti immediatamente dalla causa prima, oppure se derivino l'uno dall'altro secondo il ben noto schema neo- platonico. Non abbiamo nessun indizio per attribuirgli que- st'ultima opinione, sebbene fosse appoggiata perfino dall'au- torità del neo-platonico libretto De causi s, tenuto a quei tempi in gran conto dai teologi e dai filosofi. Perciò eviteremo di proporre e discutere ipotesi perfettamente inutili. Quanto alle cose del mondo infralunare, è evidente che il principio aristotelico del simile a simili, ossia della generazione univoca o sinonima, invocato da Pietro d'Abano contro la dottrina avicen- nistica del «dator formarum»-', conduce, quando sia svolto a fil di logica, ad ammettere o l'eternità, non solo della materia, ma di tutte le specie del mondo infralunare, come voleva appunto Averroè, oppure a proclamare la necessità della creazione immediata dei primi « agenti univoci », come voleva Tommaso d'Aquino 22^ almeno quanto agli animali perfettivi. L'Abanese non si pone mai la quistione dell'origine del mondo inferiore nel suo complesso; ma il suo pensiero possiamo indovinarlo, indirettamente, dal modo com'egli si pone il problema del- l'eternità del mondo. Ogni volta che egli accenna a questo problema, lo fa sempre in modo da non pregiudicarlo, e si mostra dubbioso intorno alla soluzione di esso, non precisamente per dei motivi teolo- gici, ma dal punto di vista strettamente razionale. Ora questo atteggiamento sarebbe stato assurdo, se egli avesse negata la creazione; poiché in tal caso l'eternità del mondo ne sarebbe •° Problematuni expositio, part. XXX, probi. 4. 21 Conciliator, diff. loi. 22 Summa theoL, I, q. 65, a. 4. 23 Cfr. Problem., X, 13. 46 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI risultata necessariamente dal punto di vista della filosofia^ Invece, in un luogo dei Problemi 24, commentando un noto pas- saggio pseudo-aristotelico che implica l'eternità del mondo,, il nostro autore si compiace di ricordare il luogo de Topici, ^5 ov' è detto « quod quaedam sunt probabilia, de quibus utrum sit ita vel aliter, verisimiles ad utramque partem habemus rationes, ut utrum mundus sit aeternus vel non ». 4. - Ma per giudicare con quaji metodi sbrigativi il Ferrari proceda nell'attribuire una dottrina a Pietro d'Abano, giovi udirlo un momento: «Un analogo giudizio, e con esitanze minori, dobbiamo recare sull'altra quistione riguardante ancora un rapporto tra Dio e il mondo, quella se il cosmo abbia avuto o no principio. Una propensione alla tesi dell'eter- nità si manifesta nell' interpretazione dei Problemi, quando da Alcmeone ivi citato si dichiara ammesso un avanti al mondo solamente nel senso di una anteriorità relativa, come con- segue dal ripetersi dei cicli nell' ipotesi cosmogonica del Cro- toniate. E più apertamente si manifesta nel Conciliator, là dove si agita la questione se la natura umana dall'antichità ad oggi sia degenerata. Già a un certo punto Pietro esce in queste espressioni: Et ideo, sive ponatur mundum secundum veritatem legis nostrae incepisse, seti infinitas circulationes secundum peripateticos praecessisse, è da ammettere ad ogni modo che alle decadenze periodiche succedono periodici ri- sollevamenti. Ma oltre a ciò egli poi argomenta, come se la natura rimettesse a un certo punto nella specie decaduta il vigore del risorgimento prima che precipiti a definitiva ro- vina, e ciò con ritorni senza confine nel passato e nell'avvenire. Inoltre, nei Problemi di nuovo, quando riporta ed illustra l'opi- nione aristotelica della eternità del mondo, egli s'avvede bensì e confessa che questa sentenza veritati orthodoxae /idei adver- satiir non parimi, ma non dice che sia falsa. Tutt'altro. L' in- tonazione del trattato, e di quello che segue prossimamente, fa credere che l'opinione dei peripatetici fosse anche la sua. Esponendo poco oltre un dissenso tra Avicenna ed Averroè, de' quali il primo sostenne che anche gli animali superiori possano generarsi per altra via dall'ordinaria, e che così av- -4 ib., p. XVII, 3. 25 I, e. II, 104 b 5-10. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D ABANO 47 venne appunto dopo i diluvi e le catastrofi telluriche, e il secondo nega la produzione insolita, negando eziandio che mai vi sia stato tal diluvio che non abbia lasciato sulla terra un qualche luogo di rifugio, Pietro parla in guisa che appare che egli parteggi per Averroè, anche se noi dice aperto» -6. Il lettore che non conosca i testi ai quali il Ferrari rimanda, chiosandoli a modo suo, senza riportarli, gli crede sulla parola e passa oltre. Merita tanta fiducia il Ferrari ? Vediamo. Intanto la famosa « propensione alla tesi dell'eternità » nel libro dei Problemi, è una pura e semplice fantasia del chiaro professore. Nel luogo a cui egli si riferisce -i, l'eternità del mondo era già supposta dal testo preso a commentare, ed era stata dichiarata dall'Abanese uno dei « probabilia, de quibus utrum sit ita vel aliter, verisimiles ad utrumque partem habe- mus rationes ». Si trattava, quindi, di sapere se e come — sup- posta l'eternità del mondo e la circolarità degli eventi mondani ripetentisi infinite volte col ritornare degli stessi movimenti e influssi astrali — possa logicamente parlarsi di un prhis e di un posterius in questo circolo eterno. Presupposta è parimente, la tesi dell'eternità del mondo, nell'altro luogo dei Problemi, al cui commento intende rife- rirsi il Ferrari -^. Ivi il ben noto principio aristotelico della generazione univoca, « a simili simile », riposa appunto sul- l'affermazione che la serie degli « agenti univoci sia infinita, e che, quindi, come intendeva Averroè, la generazione e il mondo non avessero un principio nel tempo. L'Abanese anche qui, non fa altro che esporre e dichiarare con fedeltà il pensiero del suo autore, soffermandosi un istante a dichiarare che quella dottrina « veritati orthodoxae fidei adversatur non parum ». — « Ma non dice che sia falsa », osserva il Ferrari. E falsa, ri- spondo, dal punto di vista strettamente razionale non si po- teva dire che fosse. Tommaso d'Aquino l'aveva cantato ben chiaro ai murmitranles del suo tempo: la tesi che il mondo abbia avuto un cominciamento nel tempo, è verità di fede, ma non può dimostrarsi colla ragione, visto che la contra- dittoria non è assurda 29. Ma forse il Ferrari a queste cose non 26 P. d'A., pp. 252-253. 27 Problem., XVII, 3. 28 Problem., X, 13. 29 De aeternitate mundi cantra murninraìites opusculitm (in Opitsc. e testi filosofici, scelti e annotati, Bari, Laterza, 191 5, I). 40 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SFXOLO XIV AL XVI bada, oppure egli, come è stato fin qui d'accordo cogl' inqui- sitori, è ora buon amico dei « murmurantes ». Che poi tale supposta « propensione alla tesi dell'eternità » si manifesti anche più apertamente nel Conciliato^, è un'altra fandonia del Ferrari. Nella differenza a cui questi si riferisce 30, è agitato il problema: Utrum natura humana sit debilitata ab eo quod antiquitus, necne. L'Abanese lo risolve nel senso di una presente decadenza, e vuol dimostrare la sua tesi « via astro- nomica et philosophica ». Ma egli si trova di fronte la tesi peripatetica dell'eternità del mondo; quindi l'obiezione: «Si natura in generatione semper procederet debilitando, iamdu- dum.... generatio cessavisset, secundum peripateticos aeter- nitatem mundi asserentes ». E poiché egli non si è posto il problema dell'eternità, è logico che tenti di risolvere l'obiezione osservando che, anche nell' ipotesi dell'eternità (« sive ponatur mundum.... incepisse, seu infinitas circulationes.... praeces- sisse»), sono concepibili decadenze e risollevamenti periodici che si avvicendano. Con questo la quistione dell'eternità resta impregiudicata. L'autore mira soltanto a sbarazzare il terreno della discussione da un problema ingombrante. Il problema è posto invece esplicitamente, a proposito anche questa volta dei cicli periodici di Tolomeo e della presente decadenza della stirpe umana, nell'operetta astronomica De motti octavae spaerae 3^, rimasta fino a poco fa sconosciuta e rinvenuta da Duhem in un manoscritto della Biblioteca Na- zionale di Parigi e dal Ferrari in un codice vaticano. Ma anche questa volta l'autore, dopo aver riferite le diverse opinioni prò e contro, non risolve il problema e, come ammette lo stesso Ferrari, finisce col tormentoso (?) interrogativo: « Hec est itaque dissonantia que circa producendum ac principium extat universi, in nullo presentem impediens considerationem ; quomodolibet enim ponatur motus eius et diversitas, tamen tanta nutu dei existent (?) praefati » 32. Ora il dubbio stesso, se si vuol chiamarlo così, intorno al- 30 Conciliator, diff. io. 31 Cfr. Ferrari, Per la biogr. etc, p. 89. 32 Così il Cod. Pai. lat. 1171 (Bibl. Yat.), f. 320 ra. Ma il Pai. lat. 1377. f- 5ra legge: «Hec est igitur dissonantia que circa prodiictionem ac principium extat universi in nullo presentem impediens conside- rationem; quomodolibet enim ponitur motus eius et diversitas, inde causa existit prefata ». LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI^PIETRO d'aBANO 49 l'eternità del mondo, dal punto di vista strettamente razionale, rivela una cosa con certezza: che l'Abanese non si è mai so- gnato di negare la creazione. Poiché, se è vero, come pensava Tommaso d'Aquino, che, anche ammessa la creazione, non è ancora evidente che il mondo debba avere un principio nel tempo, la reciproca è semplicemente assurda: negata la crea- zione, il mondo risulta necessariamente eterno. 5. - Ma in nessun altro luogo il Ferrari ha formulato nella maniera piìi audace e più contradittoria il concetto del rap- porto tra Dio e mondo, come nei due brani che riportiamo. « Ogni ordine di finiti — scrive il prof. Ferrari — ci riconduce all' idea dell' infinito e di Dio. I due termini si adeguano press'a poco nella mente di Pietro, il quale, considerando il mondo come spazialmente limitato, tratta l' infinito che ne è la su- prema causa come divino.... Non volendo egli invescarsi nelle panie teologiche e distinguendo bene il dominio della scienza da quello della fede, non discute (?!) l'ammissione del Dio, ma designa con questo norne la potenza, che tutte le parti- colari a noi note sostiene e trascende, riguardandolo tutt'al piti come semplice, eterno, immutabile, in continuo atto, puro in- telletto, senza parlare d'altri attributi; per la qual cosa gli ba- stano da un lato il nome e gli argomenti di Aristotile, dal- l'altro il consenso di tutte le grandi religioni. È manifesto che nell'animo di Pietro non manca il sentimento religioso; ma è pur manifesto ch'egli è convinto dell' insufficienza del nostro pensiero a scrutare l'ultima ragion delle cose, e ch'egli venera pertanto col nome di Dio l' infinita causa, da cui ri- pete l'armonia del cosmo e la sua finalità; ma non si domanda se quella causa sia conscia, o se la finalità sia voluta. La tendenza del suo pensiero è insomma panteistica meglio che teistica e cristiana, sebbene egli siasi provato di accomodare le inclina- zioni sue con le esigenze della fede imperante, un po' per forza d' imitazione, un po' per l' istinto di conservazione » (!) 33. E altrove 34 : « Con troppa naturalezza e disinvoltura egli parla più volte di Dio e di religione; con tanta energia egli ribatte in più luoghi le sentenze materialistiche dell' Afrodisio, che si può, si deve, credere sincera l'ammissione della divinità. Salvoché l' intervento di essa o diretto o indiretto (e in questo 33 P. d'A., pp. 248-249. 34 ib., pp. 351-352. 4 50 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI secondo caso presentato in guisa, che par si tratti dell'opera di organi, o che le forze distinte siano proprietà dell'ente sommo) in tutte le produzioni dell'universo, perché l'attuarsi d'un essere richiede l'esistenza d'un essere superiore, ci mei te innanzi un panteismo anziché, come parrebbe talvolta dai nomi, il teismo che il domma imponeva. Fors'anche il filosofo della natura, che non s'atteggiava a giudice di teologia, omise di proposito d'addentrarsi in queste ricerche, fin nel segreto del suo pensiero (?!); certo è però che la tendenza delle sue dot- trine è chiaramente per il panteismo. L'esigenza di questo, si può dire, è già data con l'affermazione dell'eternità della materia «. C'è da restare sbalorditi: tante sono le contradizioni, le banah insinuazioni, le affermazioni ora timide ora categoriche ma sempre senza un'ombra di prova ! Che sia da pensare della pretesa eternità della materia, sappiamo di già, e non torne- remo più su questa stramberia del Ferrari. Vediamo piuttosto quanta coerenza ci sia nelle sue affermazioni. Da una parte^ gli sembra che l' intervento della causa prima, diretto o indi- retto, ci metta innanzi « un panteismo », e cioè, se non si tratta di una metafora, la perfetta immanenza della causa divina nell'attuarsi e nel divenire del mondo; ma dall'altra, egli ci fa sapere che Dio è la potenza che tutte le altre a noi note sostiene e trascende e che Pietro d'Abano lo riguarda « come semplice, eterno, immutabile, in continuo atto, puro intelletto ». Quasi che questi attributi non si opponessero all' immanenza e non fossero quelli stessi che al « motore immobile » dell'aristote- lismo, concetto trascendente quanto quello delle idee plato- niche, attribuiva la teologia medievale ! Ma Pietro non si domanda — osserva il Ferrari — se la causa prima sia conscia e personale o se la finalità del mondo sia voluta da questa. Non se la domanda — è facile rispondere — per due ragioni. In primo luogo, perché non era nell' indole delle sue ricerche approfondire davvantaggio il concetto della natura divina. Nei commenti di Tommaso d'Aquino al De caelo o alla Physica, per esempio, non se ne dice di più di quel che ne dica il nostro medico. In secondo luogo, egli non se lo domanda, perché lo sa e lo suppone. Ha forse dimenticato il Ferrari il luogo 35 35 Conciliator, diff. 156, pr. III. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D'ABANO 5I ov' è detto che Dio niente intende « actualiter extra, sed in- telligens seipsum intelligit omnia, cum ea reluceant in seipso ut in causa » ? Non è forse in queste parole la precisa affer- mazione tomistica della trascendenza e della personalità della causa prima ? E dovrà dubitarsi se l'ordine mondano e la finalità di esso sian voluti da Dio, mentre ci è detto che Dio, « cum sit agens voluntarium, per suum intellectum omnia, ut ei placet, disponens est»? 36. Dio conosce tutte le cose in quanto ne è causa: « non enim contemplatur ipsa prout sunt materialia et villa, verum modo nobiliori et altiori, quo intel- ligit se talium causam existere » 37. Egli inoltre è provvidenza che nessuna cosa lascia fuori dell'ordine da sé stabilito; è previdenza che fin dall'eternità ha dipinto nel suo cospetto il corso degli eventi mondani ; e « non tamen eius praescientia seu praevisio rebus necessitatem condonat », come dicono con Boezio tutti i teologi scolastici; « quia enim ipse omnia produxit sine motu, et comprehendit sine motu et tempore indivisibili » 3^, Si tratta, coni' è facile intendere, di fugaci accenni ad un concetto complesso della divinità, non esposto con tutta l'am- piezza analitica propria di un trattato di teologia: ma in compenso essi son chiari, s' integrano e s' illuminano a vi- cenda. Dov' è dunque la tendenza al panteismo che il Ferrari scopre « chiaramente » nelle dottrine di Pietro d'Abano ? 6. - Dio è la causa prima del mondo : da lui derivano tutte le cose, e tutte a lui tendono come a fine supremo. Come causa efficiente, esso non le crea tutte immediatamente, ma alcune ne produce per mezzo di una serie di cause intermedie, che, come sappiamo, sono i cieli, secondo lo schema neo-platonico che abbiamo appreso dall'autore del De causis e dal Paradiso dantesco. L'ordine cosmico è stato stabilito « perfecta ratione » dalla mente ordinatrice di Dio che tutto dispone con saggezza. E siccome è proprio del saggio non cambiar consiglio, ne ri- sulta che l'ordine cosmico è immutabile e necessario, sì, ma di quella immutabilità che non è cieca e fatale, ma conseguente all' immutabilità del decreto divino. Tale è il pensiero genuino di Pietro d'Abano intorno a Dio, checché ne dica il Ferrari. 36 Ib., diff. 113, pr. IV, ad. 3. Cfr. diff. 156. 37 Ib.. difif. 156. 38 Ib., diff. loi, pr. IV. 52 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI È concepibile in siffatta dottrina il miracolo ? Abiamo veduto 39 che, secondo Tommaso di Strasburgo, l'Abanese era accusato di aver deriso i miracoli di Cristo e dei santi, quanto alla resurrezione dei morti. Il Ferrari4o ri- tiene che la possibilità stessa dei miracoli è messa in forse nel pensiero di Pietro, anche se questi non lo dice apertamente: « Se miracoli si danno, gli è nel senso degli avvenimenti in- soliti, inesplicabili a noi: in verità essi ricadono nell'ordine universale; che Iddio non opera arbitrariamente né sollecito della sorte dei singoli individui, ma per atto uguale e continuo e cioè per leggi eterne e razionali ». Certo, se il miracolo consistesse nell'operare arbitraria- mente da parte di Dio, contro l'ordine universale e le leggi da se stabilite, il Ferrari avrebbe ragioni da vendere. Anche Tommaso d'Aquino 41, non che Pietro d'Abano, nega il miracolo così puerilmente concepito. Ma non è in tal modo che va inteso il miracolo, secondo il pensiero dei migliori fra i teologi medievali. Esso non è una violazione arbitraria delle leggi di natura, che implichi mutabilità nei divini decreti, ma causalità esercitata direttamente dalla causa prima, oltre la capacità di azione delle cause naturali; non contra, ma praeter leges naturales; e l'intervento divino stesso è preveduto e decretato dall'eternità. Messa così la quistione nei suoi ter- mini storici, si può dire che P. d'Abano ponga in dubbio la possibilità dei miracoli ? Se il concetto che Pietro s' è formato della divinità fosse davvero quello panteistico che gli attribuisce il Ferrari, non ci sarebbe da esitare un minuto nel rispondere alla quistione: in tal caso il miracolo apparirebbe senz'altro inconcepibile. Ma noi sappiamo che quel concetto è stato falsato. Noi sap- piamo che Pietro, pur diffidando delle pretese risurrezioni di morti, faceva le sue brave riserve quanto alla risurrezione di Lazzaro 42, e non abbiamo motivo di sospettare della sua sincerità, dal momento che quelle riserve si accordano perfet- tamente col concetto che egli si è fatto dell'ordine mondano € della potenza di Dio come « agens supernaturale per volun- 39 Cfr. sopra, pp. 21-23. 4° Cfr. P. d'A., pp. 252-253, 264. 41 Siimma theol., I, q. 105. 42 Cfr. sopra, p. 22. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO d'ABANO 53 tatem))43. La possibilità del miracolo non solo non è negata, ma esplicitamente, risolutamente affermata nella dottrina di lui. Invece è vero che, pur senza escludere la possibilità, rico- noscendo anzi l'esistenza di alcuni avvenimenti miracolosi, l'Abanese cerca, dal suo punto di vista scientifico, di stu- diarli nella connessione cogli altri avvenimenti naturali fra i quali sono necessariamente incastrati. Ed è precisamente qui dove egli dà prova di quella audacia e temerità per cui lo riprese Gian Francesco Pico 44. Il Ferrari, per aver voluto esa- gerare la reale portata delle dottrine del medico padovano, ne ha falsato anche questa volta i caratteri e il significato storico. Vediamo dunque di precisare anche questo punto della filosofia di lui. Il sostituirsi del pensiero cristiano alla filosofia greca fu caratterizzato dall'affermarsi di quella intuizione del divino operante e immanente nella natura e nella storia, per cui la natura stessa colle sue leggi parve a S. Agostino un continuo, ininterrotto miracolo. Dal nuovo punto di vista, tutti gli avve- nimenti dell'universo venivan considerati in rapporto alla causa prima, e si saltava spesso, nello spiegarli, la serie delle cause seconde che costituiscono l'ordine cosmico. La filosofia e le scienze elaborate con tanto sforzo di riflessione e acume d' indagine dai greci e dagli arabi rimasero per secoli scono- sciute o troppo mal note nell'occidente latino prima del se- colo XII. Col penetrare dell'enciclopedia aristotelica e delle opere arabiche nel mondo latino, prima e dopo il 1200, ri- sorgono i problemi filosofici e scientifici che acquistano un significato nuovo per il contrasto tra le due concezioni del mondo che venivano a trovarsi di fronte: quella filosofica o greco-arabica, e quella teologica o cristiana. Il pensiero teo- logico tradizionale subisce così una crisi profonda, che salta agli occhi a chiunque confronti gli scritti dei padri con quelli dei dottori scolastici: a fianco della teologia rinascono la filosofia e le scienze, nelle quali si cerca la spiegazione razionale dei fenomeni della natura per via di cause naturali, si afferma l'esistenza di leggi naturali e si comincia ad esser più cauti, pri- ma di proclamar miracoloso un fatto che può esser soltanto straordinario e insolito. 43 Conciliaior, diff. 156, pr. III. 44 De rerum praenotione, VII, e. 7; v. sopra, p. 2^. 54 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Frutto dell' intuizione teologica della natura e della storia era stata appunto la facile disposizione, diventata comune nel medio evo, a vedere in ogni fatto insolito l'opera di un agente sopra o preternaturale. Ora è in relazione alla troppo corriva credulità popolare e alla pigrizia dei teologi nel tra- scurare la ricerca delle cause naturali dei fenomeni e nel far di Dio un « asylum ignorantiae », che va giudicato il pensiero di Pietro d'Abano intorno ai miracoli, se non vogliamo fal- sarne il significato storico. Egli non nega — l'abbiamo detto — né la possibilità né l'esistenza di miracoli. Tuttavia, da uomo di scienza com' egli è, tenterà arditamente di mettere in luce la parte che, anche nell'avvenimento miracoloso, spetta alle leggi naturali, le quali sono, sì, sorpassate, ma non mai interamente violate. Così egli dirà che « ex coniunctione.... Saturni et lovis in principio Arietis.... totus mundus inferior commutatur; itaque non solum regna sed et leges et pro- phetae consurgunt in mundo » 45. Ma con questo non vuol già dire che quella congiunzione celeste sia causa totale ade- guata del sorgere della vera religione e dei veri profeti inviati da Dio; ma solo questo, che Dio fa coincidere l'evento sovran- naturale coll'ottima disposizione degli elementi di cui le con- giunzioni celesti son causa e preannuncio. Che questo sia il suo pensiero, si ricava dall' affrettarsi che egli fa a soggiun- gere: «Significative saltem » (nel caso di Mosè e di Cristo, « seu causaliter in quibusdam » (nel caso di Alessandro Magno e di Maometto). L'ottima disposizione dei segni celesti è causa di quella « iustitialis complexio » e di quella « temperantia » perfetta degli elementi corporei, che è soggetta all'azione divina (« natura iubente divina »!) la quale suscita il profeta. E questa « temperantia » degli elementi egli riconoscerà anche in Cristo ; ma logicamente chiamerà « mendaces » i Marabei e Gentile da Foligno perché costoro avevano osato di spìe- gare le azioni miracolose di Mosè, di Cristo e d' Elia, unica- mente per mezzo delle ottime qualità corporee 46. In fondo il pensiero di Pietro coincide con quello del suo grande contem- poraneo. Dante, là dove questi fa dipendere i rivolgimenti sociali dalla fortuna, che non è altro se non 1' « aspectus su- 45 Cfr. sopra, pp. 32-33; Duhem, op. cit:, IV, p. 234, e i miei Saggi di filos. dant., pp. 55-57. 46 Cfr. Conciliator, diff. 20, pr. III. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D'ABANO 55 percaelestium » di Pietro d'Abano; e quando lo stesso poeta vuole che il circolar delle costellazioni fosse cagione dell'ottima disposizione della terra sotto lo scettro di Roma, come pre- parazione e avviamento al cristianesimo 47. Allo stesso modo va intesa la dottrina dell'Abanese quando egli riferisce il diluvio al governo di Marte, la confusione delle lingue, la distruzione di Sodoma e Gomorra, il passaggio del Mar Rosso al governo della Luna 48. Né si vede perché non si debba pren- dere sul serio la riserva che egli pone alla dottrina di Avi- cenna, che tentava di spiegarsi soltanto coli' influsso astrale il potere che ha l'anima dei profeti sulle altre anime e sugli stessi elementi della natura 49. 7. - Al discorso sui miracoli possiamo ricondurre le consi- derazioni del Ferrari intorno alla « doppia verità » 5°. Le nuove traduzioni che si fecero intorno e dopo il 1200 furono, come abbiamo già osservato, la causa del conflitto tra il pensiero greco-arabico e quello cristiano venuti a tro- varsi improvvisamente di fronte. Si chiamò teologia la dottrina cristiana del mondo, basata sulla rivelazione evangelica in- terpretata per dodici secoli dal pensiero dei padri e dal ma- gistero della Chiesa. L' insieme, invece, delle dottrine greco- arabiche derivate principalmente da Aristotele, il philosophns, il « maestro di color che sanno », e dai suoi commentatori, si chiamò philosophia. Alla filosofia intesa in questo senso ristretto (poiché a rigore anche la teologia medievale fu una filosofia), facevan capo le scienze. E si disse che la filosofia aveva come criterio e metodo di ricerca il solo lume di ragione, mentre la teologia desumeva i suoi principi dalla parola ri- velata. In realtà, si trattava di un conflitto storico che ri- sorgeva. La sapienza greca, la vana sapienza mondana, sconfitta dal cristianesimo quando questo disse al mondo la nuova parola che Platone e Aristotele non avevan saputo dire al- l'umanità travagliata, — risollevava ora il capo per far va- lere i diritti della ricerca scientifica che il pensiero teologico 47 Convivio, IV, 5, 23; Farad., XIII, 67-84. Cfr. il mio Dante e P. d'A. 48 Conciliaior, diff. 9. 49 Ib., diflf. 135, pr. III. 50 P. d'A., p. 392 sgg. 56 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI aveva praticamente disconosciuti. E ai popoli cristiani del- l'occidente, digiuni di scienza, sfoggiava le sue conoscenze della natura, la sua matematica, la sua astronomia, la sua me- dicina, la sua psicologia, e suggeriva i mezzi per sottomettere le forze naturali e trarne profìtto. Conquista, intanto, e crea- zione dello spirito umano erano anch'essi i nuovi dommi cristiani, la nuova concezione della vita e del mondo, cioè la teologia. Ma un'altra concezione della vita e del mondo implicava la scienza greco-arabica. Fu così inevitabile e fatale il conflitto tra le due filosofìe, la nuova filosofìa cri- stiana e l'antica filosofia greca, la theologia e la philosophia. A questo conflitto storico si riconnette la così detta « dottrina della doppia verità», quale si affermò nella coscienza degli scolastici. Dei quali, salvo i pochi che si ostinarono a chiuder le porte al nuovo pensiero greco-arabico, quasi tutti sentirono quel conflitto. Ma mentre la maggior parte cercò in qualche modo di risolverlo, subordinando la scienza alla fede, per utilizzare in vantaggio di questa il prezioso materiale scientifico che veniva messo innanzi e non poteva più esser ragionevolmente disconosciuto, — altri, usciti dalla scuola delle arti e che, per r indole dei loro studi, non si occupavano di teologia, si ponevano e risolvevano i problemi scientifici e filosofici nell'ambito e in conformità del pensiero greco-arabico. Con questo essi non pretendevano, e non potevano logicamente pretendere, che la loro soluzione di quei problemi fosse asso- lutamente vera, ma si contentavano di affermare che era vera nell'ambito del pensiero greco-arabico, e cioè necessaria posti i principi della « philosophia «. Alle obiezioni dei teologi, essi rispondevano appunto che il giudizio da loro espresso valeva «in philosophia»: in fatto di teologia si dichiaravano incom- petenti. Ma che per loro quella della « philosophia » non fosse la verità assoluta, è chiaro dal soggiungere che essi facevano, di ritenere poi il contrario come credenti. Questo, bene in- tesi, quando costoro erano sinceri. Poiché è noto come, per alcuni, la distinzione della duplice verità era un pretesto per salvarsi dalla taccia d'eretici; e la quistione, di logica che era, divenuta così quistione pratica, di morale. In conclusione, una vera e propria professione di fede in due verità contradittorie non ci fu mai, né ci poteva essere, perché è assurdo che ci fosse. È vero, invece, che alcuni pre- LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D'aSaNO 57 sere partito per la ragione contro la fede; altri svalutarono la ragione e si salvarono dal dubbio gettandosi in braccio alla fede; altri infine si limitarono alla trattazione dei problemi speciali delle scienze e della filosofia coi metodi propri di queste, e si dichiararono incompetenti di fronte ai problemi teologici. L'affermazione della duplice verità fu ora tendenza fideistica e scettica ad abbassare la ragione impotente a raggiungere verità più alte; ora negazione palliata della fede e della teo- logia; ora dichiarazione d' incompetenza in materie teologiche, da parte di specialisti, e rivendicazione di libertà scientifica. In Pietro d'Abano non fu certo negazione d'eretico. Non troviamo in lui nessuna dichiarazione come quella attribuita da Tommaso d'Aquino 5 ^ al suo avversario Sigieri: «Per ra- tionem concludo de necessitate.... firmiter tamen teneo op- positum per fidem» ; e nessuna delle proposizioni che il Ferrari 5^ ricorda, delle 219 colpite dal vescovo di Parigi nel 1277, è difesa dal Nostro. Come medico, astrologo e filosofo della natura, eglisi limitò a trattare quistioni scientifiche coi metodi e coi criteri del- la scienza greco-arabica, e cercò di evitare, per quanto gli fosse possibile, l'urto contro le dottrine teologiche: esempio, l'atteg- giamento suo di fronte al problema dell'eternità del mondo, di- nanzi al quale gli averroisti prima di lui non conobbero le sue esitazioni e titubanze. Tuttavia quando, tra le dottrine teologi- che e le spiegazioni naturalistiche che egli suggeriva dei fatti miracolosi, avvertiva qualche contrasto, non asseriva mai che la tesi filosofica fosse indubbiamente e assolutamente vera, non sentenziava mai : « per rationem concludo de necessitate » ; il che sarebbe valso forse a infirmare implicitamente qua- lunque protesta di adesione alla fede. Egli non nega, come abbiam visto, il fatto miracoloso, lo limita solo in parte, sfor- zandosi di determinare quello che in esso spetta alle cause naturali; non nega la risurrezione miracolosa di Lazzaro, ma deride la facile credulità di quei che vedono risurrezioni anche nei casi di morte apparente; non nega l'esistenza né l'azione dei demoni, ma si fa beffa dei teologizzanti che ricor- rono al diavolo per ispiegare il fascino e la magia; Cristo, Elia e i profeti suscitati da Dio sono, sì, strumenti diretti della "^i Tractatìts de imitate intellectits cantra averroistas, ed. crit. di L. W. Keeler. Roma, 1936, cap. V, § 123; cfr. la mia traduz. e commento. Firenze, Sansoni, 1938, p. 187. 52 P. d'A., pp. 396-97. 58 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI causalità divina soprannaturale, ma questi strumenti sono stati preparati col concorso di cause naturali, e possiedono, per la privilegiata influenza degli astri su di essi, virtù già superiori alle comuni, quali si sono rivelate anche in uomini che, secondo il pensiero teologico, non ebbero niente di mira- coloso, come Alessandro Magno e Maometto. Parrebbe tuttavia che la dottrina della duplice verità fosse esplicita affermata in due passi del Coiiciliator. Il primo è quello relativo alla creazione, e noi ne conosciamo già il senso preciso: « ponentes creationem », cioè coloro che in ogni fatto naturale, vedono un'operazione divina, « etsi verissimi sint in lege », cioè, per quanto essi abbiano ragione da un punto di vista teologico (giacché la teologia mira appunto a ricon- durre tutti i fenomeni naturali all'azione della causa prima), «non sunt admittendi in philosophia», poiché questa cerca ilmo- do particolare e proprio di produzione di ciascun fenomeno 53. Qui non siamo di fronte a due verità di cui una escluda l'altra, ma che posson benissimo conciliarsi fra loro. L'altro passo, al quale abbiamo accennato in principio, è meno chiaro, perché non si sa bene a che cosa la dichiarazione di Pietro si riferisca, se alla libera interpretazione di un passo biblico poco prima citato, o all'ipotesi tolemaica dei periodi di decadenza e di rinascita 54. Ma in nessuno dei due casi 1' autore aveva in- nanzi una dottrina filosoficamente certa per lui. Nel primo caso, egli aveva osato fare osservare che il detto del Salmista a proposito della durata della vita umana, sebbene fosse vero ai tempi dello scrittore, « non verificatur hodie commu- niter et usquequaque ». Nel secondo caso, l' ipotesi tolemaica era resa necessaria, subordinatamente alla supposizione del- l'avversario che obiettava ponendosi dal punto di vista del- l'eternità del mondo. Pietro non dice di ritener vera l' ipotesi dell'avversario, che anzi aveva dichiarato di non volerla di- scutere, ma l'accetta per ribattere « ad hominem » la sua obiezione 55. Che fosse così, lo attesta il fatto che egli riuscì a difendersi dalle accuse dei Giacobiti e ne andò libero anche per r intervento papale, intervento che diffìcilmente gli sa- rebbe stato accordato, se l'accusa d'eresia avesse avuto un solido fondamento. 53 Cfr. sopra, pp. 41 e 44. 54 Conc, diff. 9. 55 Ib. LA DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D'aBANO 59 IV. — La psicologia di P. d'Abano e gli errori storici DEL Ferrari. I. Due sviste del Ferrari. — 2. Unità e origine dell'anima umana. — 3. L'intelletto agente e possibile son potenze dell'anima umana che è forma del corpo. — 4. Il preteso averroismo di P. d'A. — 5. L'intelletto come forma dell'uomo e come potenza separata. — 6. Immortalità dell'anima umana. 1. - Una propensione particolare all'averroismo avrebbe dimostrata Pietro d'Abano, secondo l'avviso del Ferrari, nella dottrina concernente l'anima umana. Di questo punto mi sono già occupato un'altra volta, ed ho avuto occasione di mostrare il bel granchio chiappato dal professore genovese ^. Rileggendo in seguito il capitolo del Ferrari sulla psicologia del nostro filosofo, mi sono accorto che i granchi presi da lui son due: non solo Pietro d'Abano non è averroista, ma il Ferrari inoltre ha capito a rovescio l'averroismo, confonden- dolo coll'alessandrismo. Mi si permetta, dunque, di ritornare sull'argomento e di completare quanto ebbi a dire nel breve cenno intorno alla teoria dell'anima secondo la mente del- l'Abanese. 2. - Si chiede il Ferrari: «Tutte le funzioni che sogliamo attribuire all'anima, appartengono a un soggetto immate- riale ? e qual è e d'onde viene questo soggetto ? » -. Ora ve- diamo la risposta che egli dà a queste due quistioni così chiare : « Nella differenza XLVIII, al terzo capo, descritto il formarsi del feto dal germe, Pietro soggiunge in tono ammirativo: Rector autem huius tam divini operis virtus est dieta infor- mativa ab anima parentis decisa in actum per impulsionem coeuntis incitata, quam Galenus appellat summam artem prae- sidem et intellectivam sine mente. E procede distinguendo l' in- telligenza d'un'anima, d'un soggetto razionale, dalla intelli- genza diacosmica di Anassagora; poi difendendosi dai Giaco- biti, i quali fra l'altro l'avevano accusato, badisi bene, di trarre l'anima intellettiva dalla materia; asserendo infine che alla 1 Vedasi in questo voi. il saggio I. Il Ferrari [Per la biogr., p. 14) dichiara di avere sdegnato di occuparsi della mia precedente critica, e sembra intanto confermare il suo primo punto di vista. 2 P. d'A.. p. 341. 6o l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI virtù informativa sopraggiunge quella del nutrimento, indi la sensitiva, e che la informativa, non avendo ancora (?) un suo organo, è già (?) in qualche modo immateriale e divina. L'anima, diremo così, vegetale, che plasma gli organi e li nutre, si esaurisce nel preparare il corpo alla sensibihtà, come alla sua volta l'anima sensibile cessa di essere, quando la sua opera è piena, e subentra l'anima intellettiva; non per questo cessano le funzioni della vita anteriore, che s' imperniano- nella nuova forza avvivatrice, la quale riassomma in sé le virtù antecedenti. Non si tratta più di soggetti che persistano l'uno accanto all'altro, il che farebbe contro l'unità dell' in- dividuo, ma nemmeno di modi varianti nell'anima primitiva, altrimenti il senso e la ragione sarebbero nell'uomo non più che una qualità accidentale. Di qui si ricadrebbe nel mate- rialismo, di là in quello sbaglio di certi interpreti di Aristotile che ne falsano il concetto, deducendo dal persistere della virtù informativa da lui voluto, ch'egli abbia ammesso anche la pluralità simultanea delle forme e la gradazione loro ... » 3. Sebbene il Ferrari non abbia capito il concetto di « virtù informativa », si può dire che nel riassumere la sostanza del pensiero dell'Albanese sia stato in certo qual modo felice. Solo vorrei chiedergli: crede che Pietro in questo luogo del Conciliator esponga davvero un'opinione che è anche sua, come pare evidente, o che invece chiarisca una dottrina di altri alla quale egli in cuor suo non crede ? La domanda può sembrare impertinente, ma è lecita e doverosa, visto che più tardi il Ferrari solleverà dubbi i quali faranno andare in fumo tutto quel che ha detto ora. Parrebbe, dunque, dal modo di parafrasare di lui, risolta la prima delle due quistioni, e cioè che al termine dello svi- luppo embrionale, tutte le funzioni (la vegetativa, la sensitiva e r intellettiva) che sogliamo attribuire all'anima, apparten- gano ad un unico soggetto immateriale. Con questo però non è ancora risolta la seconda quistione: d'onde venga questo soggetto. Ed è proprio ad essa che si riferiva l'accusa dei Giacobiti. Poiché la virtù vegetativa e sensitiva son tratte dalla potenza della materia, mercè l' in- flusso celeste e la virtù informativa (e non, come pretende il 3 Ibid., p. 342. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO d'aBANO 6i Ferrari, dal « dator delle forme ») 4, potrebbe nascere il dubbio, che Pietro dalla potenza della materia traesse anche l'anima intellettiva. Tanto più che, parlando della virtù informativa, che è « virtus naturalis » dal cuor del generante, secondo Galeno, Averroè, Avicenna, Tommaso e Dante, egli l'aveva denominata, colle espressioni enfatiche di Halyabbas, « intel- lectus vocatus », « intellectiva divina », in modo da rendere possibile l'equivoco. I Giacobiti lo accusavano, insomma, dell'errore opposto all'averroismo, e cioè di materiaUsmo 5. Avevano ragione gì' inquisitori ? Era fondata l'accusa ? Il Ferrari nota che Pietro « n'esce colla distinzione, altrove fatta e qui richiamata all'uopo, tra potenza prima e seconda, atto primo e secondo » ^. E non s'accorge che quella distin- zione nasce dalla dottrina aristotelica secondo l' interpreta- zione di Avicenna e di Tommaso d'Aquino, che l'Abanese fa sua nel risolvere il problema dell'origine dell'anima umana. L' intelletto o anima intellettiva sopravviene, alla fine dello sviluppo embrionale, « ab extrinseco et ab agente nobilissimo ut deo glorioso et supremo », ed è quello stessissimo intelletto che succede al corrompersi delle facoltà inferiori che esso contiene già virtualmente in sé ". 3. - Tutto ciò è chiaro, perspicuo, non certo nella parafrasi del Ferrari, ma nel testo del Conciliatr. Purtroppo il Ferrari, arrivato a un certo punto, ingarbuglia talmente le quistioni diverse e le confonde in modo che finisce per non raccapezzarsi più. Parlando dello sviluppo della vita psicologica e di quel passaggio della mente dalla potenza all'atto che, secondo un principio generale della metafisica aristotelica, richiede un doppio principio di moto, attivo e passivo, il Ferrari viene a spiegarci com' è possibile distinguere un intelletto passivo ed uno attivo, materiale l'uno, attuale l'altro. E soggiunge: « Rimane però difficile a rappresentarsi come questo intel- letto, che trasforma la vita anteriore e ne riassorbe in sé il 4 Ibid., p. 343. La dottrina di Avicenna del «dator formarum », secondo la quale le forme del mondo infralunare non son tratte dalla potenza della materia, ma date dall' intelligenza agente, è ampiamente combattuta da Pietro (cfr. Conciliator , diff. loi e 71) ; cfr. sopra, pp .14-15 . 5 Cfr. sopra, pp. 4-5. 6 P. d'A., p. 342. Cfr. sotto, p. 63. 7 Conciliator, diff. 48 e 71. V. sopra, p. 8. 6-2 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI principio (al fine dell'unità della coscienza, o della personalità),^ possa contemporaneamente contrapporlesi (???) come agente a paziente » 8. Parrebbe, dalle parole del Ferrari, che l' intel- letto che viene « ab extrinseco », si contrapponga alla vita anteriore, cioè all'anima sensitiva, come agente a paziente; e che la vita sensitiva, contrapposta a questo intelletto ve- nuto di fuori, sia essa stessa l' intelletto paziente o possibile, mentre l' intelletto che le si contrappone, sia l' intelletto agente 9. In questo caso la difficoltà nell' intendere il genuino pensiero di Pietro c'è, sì, sfido io! ma non dipende da oscurità che si annidi in questo punto negli scritti di lui, bensì dal guazzabuglio, anzi dallo scempio che il Ferrari ne ha fatto colla sua vandalica chiosa. L' intelletto possibile e l'agente sono per Pietro d'Abano due potenze dell' anima intellettiva venuta per creazione dal di fuori i". Colla sua interpretazione il Ferrari, senza nemmeno accorgersene, ha inteso la dot- trina di lui, né più né meno degl' inquisitori di Parigi, nel senso di quella d'Alessandro d'Afrodisia, da Pietro espressamente e a più riprese combattuta. Altro che averroismo ! L'avventura non poteva essere più amena. Continua poi il Ferrari: «Ma quali che siano le obiezioni possibili, così è certo che concepiva la cosa d'Abanese. E chi ne volesse un'altra prova ritorni con noi un istante alla dif- ferenza LVII, a mezzo il capo terzo » ". Perché l'erudizione del Ferrari non faccia velo all' intelligenza del lettore, riproduco il testo incriminato nella sua integrità, rifacendomi anzi un poco più indietro dal punto preso a parafrasare da lui. Dopo aver detto della virtù vegetativa e sensitiva e delle loro ri- spettive suddivisioni e sottospecie, Pietro continua: Si vero absque [cioè, se « circa intentionem seipsam exercet hanc abstrahendo a forma et appenditiis materiae «], sic [est] 8 P. d'A., pp. 346-347. 9 Cfr. sotto, p. 64. '° È vero che egli parla anche di un «intellectus passivus» (Problem., XIV, 4) che identifica coli' « imaginatio corruptibilis ». Ma questo è distinto dall' intelletto possibile propriamente detto, e corrisponderebbe, secondo Averroè e Tommaso d'Aquino, al Tra'&ETixò); voùc; (fQ-(x.pz6i; De anima aristotelico (III, e. 5, 430» 25), che sarebbe poi la fantasia. Cfr. la mia introduzione a S. Tommaso d'Ag., Trattato sull'unità del- l'intelletto. Firenze, Sansoni, 1938, p. 22. Ji In realtà il passo parafrasato dal Ferrari si trova nel Conciliator, diffi. 57, pr. I. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D'aBANO 63 virtus rationalis vel humana quae est perfectio praetacti organici corporis cum deliberatione vel meditatione, universalia susci- piens. Et haec [est] duplex: una quidem speculativa et altera activa quae principium est movens ad actiones cogitationis sin- gulas ». E dopo aver suddistinto questa « virtus activa ratio- nalis », ritorna a parlare della prima: « Speculativa vero est virtus quae informatur a forma universali nuda a materia. Duplex autem haec existit: et potentia et actu. Potentia quoque triplex est. Quaedam enim absolute, remota non parum ab actu, nia- terialis dieta, velut infantis potentia ad scrivendum. Est et alia, minus distans hac ab actu, potentialis nominata, ceu pueri po- tentia ad scribendum cum instrumenta cognoverit scripturae. Tertia vero est adhuc proprior hac actui, perfectionis dieta, cum scriptor non scribit perfectus.... Quibus quidem potentiis triplex proportionatur intellectus, ut materialis, nullam habens formam sed subiectum existens omnis, ut ipsius potentia prima. Est et alius, relatus potentiae secundae ut cum in potentia materialis habente de intelligibilibus per se nota, ex quibus acceditur ad intelligibilia secunda ex eis nota...; et hic intellectus est poten- tialis dictus, ut eius potentia. Tertius quoque est dictus perfe- ctionis intellectus, qui potest actu, cum voluerit, intelligere. Et hic triplex potest ab Aristotele intellectus potentialis dici. Cum autem is actu intelligit, intelligens se intelligere, intellectus est appellatus in effectu, et tunc sibi coniungitur et unitur intel- lectus dictus accommodatus ab extrinseco [Avicenna, I De animai, vel acquisitus ut ab intelligentia quam posuit [Avicenna] agen- tem.... 12 Et ideo intellectum non posuit alium agentem animae partem, sicut neque Plato, cum posuerit is per se universalia subsistere. Intellectus autem qui naturam habet actus, secundum Aristotelem, est agens, animae pars existens huìnanae, se habens ad potentialem ut lumen ad colores. Ipse namque materialibus iinmersa et dispositionibus individualibus coniuncta, ut species eorum, extrahit et reponit in possibileni intellectum et super eundem proiiciens lumen actu reddit intelligibilem. Dal passo qui riferito risulta nella maniera più limpida: i) che r intelletto possibile lungi dall'essere la facoltà sensi- bile, è una potenza compresa sotto la « virtus rationalis spe- culativa )) ; 2) che perfino 1' intelletto agente (a più forte ragione dunque il possibile) è parte dell'anima umana, e ciò contro Avicenna che ammetteva 1' « intelligentia agens separata », e contro Platone per il quale gli universali sono per sé sussi- stenti. Il Ferrari, invece, arrivato alla fine dell'arcibarocca parafrasi che ha fatto di questo passo così chiaro, sentenzia colla più accademica flemma che « nella mente » del nostro " Cfr. sopra, pp. ii-i: 64 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI autore prevale la teoria averroistica ! E che cosa intenda per averroismo il Ferrari, abbiamo già indovinato. Ma egli ce lo dirà ora più chiaramente. 4. - Egli si chiede '3 : « La sostanza di cui nell'uomo l' intel- letto è l'attività, sembra veramente dopo tutto ciò qualche cosa d' immateriale ?» E risponde: « Pietro d'Abano potrebbe aver creduto che fosse, ma per fede cristiana o per altro senti- mento, non per effetto dei suoi commenti ad Aristotile o delle argomentazioni. La sostanzialità e l' immortalità, dal sin qui detto, dovrebbero essere ascritte al solo intelletto agente, o essenzialmente a lui..., il complesso delle altre funzioni che r intelletto accentra in sé nella formazione della nuova anima, è tutto di cose caduche. L'anima dei bruti non è una sostanza immateriale, né imperitura. Or Vumanità dipendendo tutta à.'aR'intelletto agente, è questo che conta anche per l'essenza '4 », Il Ferrari non s'accorge che tutto ciò, se fosse vero, sarebbe del più puro alessandrismo, che non avrebbe niente che vedere colla dottrina di Averroè, il quale (sta scritto fin sui boccali di Montelupo) « fé, disgiunto dall'anima il possibile intelletto ^s». Del resto, noi sappiamo ormai che, per l'Abanese, anche r intelletto agente di Aristotele non è affatto separato, come pretendevano l'Afrodisio ed Avicenna, seguiti da alcuni sco- lastici, ma « animae pars existens humanae », di quell'anima intellettiva che, venuta per creazione « ab extrinseco », sì tosto come l'articolar del cerebro è perfetto, si sostituisce alle precedenti forme vegetativa e sensitiva, e che è, quindi, tutta intera atto del corpo. 5. - Ma vi sono altri luoghi del Conciliator dov' è parso al Ferrari di scorgere una forte tendenza all'averroismo. Il primo è nella differenza LVIII. Parlando della virtù motrice dell'or- 13 P. d'A., p. 347. 14 Ib.. p. 348. ~ 15 Dante, Purg., XXV, 61-66. La controversia averroistica riguardava r intelletto possibile. E Tommaso d'Aquino, che fu il più strenuo avver- sario dell'averroismo, osserva che, se gli averroisti si fossero contentati di concepir separato solo l' intelletto agente, la loro teoria, per quanto falsa, non sarebbe assurda: «Forte.... de agente hoc dicere, aliquam rationem haberet, et multi philosophi [anche tra gli scolastici] hoc posuerunt » {Traci, de unitale intellectus , cantra averroistas, e. IV, § 86, e la mia nota a questo luogo, e quanto si legge in «Giorn. Crit. d. Filos. Ital. », XX, 1939, pp. 360-362. Cfr. Quaestio dispuf. de anima, a. 5). LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D'ABANO 65 ganismo vivente, non è affatto vero che Pietro s'aiuti col pa- ragone degli astri a metter d'accordo il suo concetto del cer- vello coll'altro del cuore. Esposto il processo circolare onde r impressione esterna verso i centri interni suscita una rea- zione motiva di questi verso l'esterno, egli sente il bisogno, per fare intendere la natura del moto animale, di distinguere le varie specie di moto, che sono due: il moto naturale e quello violento. Il moto naturale è attivo o passivo. Attivo, è quello proprio degli animali; passivo, quello dei leggieri e dei gravi e delle sfere celesti. Ma ecco il passo originale che, per fortuna, è ben chiaro: « Motus etiam multiplex existit. Naturalis quidem, cuius principium est ab intra, sive passivum sit, ut gravium et levium...; haec enim non habent, proprie, principium activum intra, verum magis inditum ab extra; gravibus enim et levibus generans mo- tum indidit, quod extra permanet...; caelestia etiam moventur per principium separatum quod est in eis, [Averrois], tractatu De substantia orbis; ipsum namque est ab eis separatum essen- tialiter [contro coloro che ammettevano l'animazione dei cieU], coniunctum tamen secundum virtutem et in eis situatum; per quem fortassis modum ponitur caelum [ab Aristotele], // caeli et mundi, animatum fore [animato cioè impropriamente] ; aut secundum plurimos [Avicenna e coloro che, contro Averroè, ammettevano un'animazione dei cieli in senso proprio], per eius animam cui exterior intelligentia virtutem influit suam [per quem modum arbitratus est Comm.entatoy, substantiam quandam separatum [1' intelletto possibile !] hominis cogitativam impri- mere et infliiere) '6 ». Il cenno fugace, contenuto in questa parentesi, alla dottrina averroistica fa sussultare il cuore del Ferrari, che osserva su- bito : « L'opinione del grande commentatore passa senza una nota di biasimo; potremmo anzi dire che è lodata (?!) per il solo fatto che la sua citazione serve a rischiare una tesi gra- dita all'autore » ^7. Quale tesi ? Quella avicennistica dell'ani- mazione dei cieU ? Ma l'autore non si pronunzia su di essa, sebbene la dica molto comune a suo tempo. Il vero è che, nel testo citato, si fa appena un paragone oggettivo tra il modo di agire dell' intelligenza separata sull'anima della sfera (se- condo Avicenna), e la dottrina di Averroè circa l'azione del- *6 Lo scempio che di questo passo ha fatto il Ferrari, riassumendolo, è indescrivibile. 17 P. d'A., p. 349. 66 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI r intelletto possibile separato sulla virtù fantastica dell' uomo che dicesi « cogitativa ». È falso che la citazione serva a rischiare una tesi gradita all'autore. Ma più comico è quel che vien dopo. Udiamo il Ferrari: « Le presunzioni crescono » (quali fondate presunzioni abbiamo visto !) « almeno da questa parte, e più ancora crescono quando si confronta l'altro luogo riflettente lo stesso tema in principio quasi dell'opera. Dove Pietro parla della natura della scienza e dell'universale, si sofferma eziandio a dar ragione dal valore dei concetti, che sarebbe nullo, se non rispondessero nelle varie menti. Il concetto, in quanto è vero, è uguale per tutti; e dunque la facoltà conoscitrice del vero è qualche cosa di comune, di obiettivo, di universale «i^. H qual discorso vor- rebbe essere ricavato da un passo che il Ferrari, secondo il suo costume, parafrasa, e che io invece preferisco riportare nella sua nitida chiarezza originale: « Noster.... intellectus secundum quod est aliquid naturae animae, dicitur indivi- duus; tamen prout emittit actiones intelligendi esse in virtute notatur universali: et hoc modo universalia sunt in ipso, quoniam sic est abstractivus et denudativus formarum, sicut lux corporalis colorum. Licet ergo individuus ponatur secun- dum quod est forma hominis, tamen secundum suam pote- statem, in quantum est potentia lucis spiritualis, universalls, est; nam etiam universalia sunt in intellectu sicut forma in materia, vel accidens in subiecto))i9. Il concetto qui espresso non ci è affatto nuovo. Anche su questo punto Pietro d'Abano fa sua la tesi tomistica contro l'averroismo, e il suo discorso procede spedito, senza le altalene e le tergiversazioni eclet- tiche che vi scorge il Ferrari: l' intelletto è individuale in quanto è parte dell'anima che è forma dell'uomo; ma è universale, in virtute, per la sua capacità ad elevarsi sopra la materia. Ma l'Abanese si fa un'obiezione: « Contingit autem circa hoc dubitare: cum nihil agat ultra speciem, intellectus igitur individuus speciem non poterit universalem concreare ». Il tenore dell'obiezione stessa fa supporre che egli avesse accet- tata la dottrira esposta nei luoghi ora citati. Ma udiamo come risponde alla difficoltà: « Dicendum quod id prave ponentes unitatem intellectus non sic angit, sed veritatem pluralitatis i8 Ibid. ^9 Conciliator, diff. 3. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO d'aBANO 67 ipsius profitentes cum lege » -o. L'osservazione è verissima; sono anzi gli averroisti stessi che fanno quell'obiezione alla dottrina opposta professata dall'Abanese ^i. Qual meraviglia, che non ne siano imbarazzati ? Pietro, per altro, il quale finora ha esposta e fatta sua la dottrina dei « veritatem plu- ralitatis ipsius [intellectus] profitentes cum lege », accenna anche al modo di eludere l'obiezione averroistica: «Et ideo dicunt quod intellectus tripliciter homini counitur : uno quidem modo, ut natura dans esse, et ideo individuus; aliter ut po- tentia per quam est operatio intelligendi, et sic universalis est virtus (id tamen videtur contra Aristotelem.... negantem passionem nunquam plus subiecto fore abstractam) ; quod et per se dicam verificari: virtus enim visiva materialis obiecto suscitata et medii dispositione, coextenditur in immensum » ecc., che è la precisa risposta tomistica alla difficoltà. Tuttavia, siccome la quistione è trattata qui incidentalmente, e poiché la trattazione di essa avrebbe portato troppo in lungo la paren- tisi aperta, l'Abanese conclude: «Quia igitur haec difficilior est tractatio quam negocium praesens exquirat, nunc tantum sufiìciat dixisse ». Giunti a questo punto, siamo in grado, mi pare, di apprez- zare il giudizio generale del Ferrari sulla teoria esposta, giu- dizio in cui, non solo è ribadita la confusione tra averroismo e alessandrismo, ma dove la fantasia di lui si fa pindarica: « Per più parti egli [Pietro] ritorna adunque a quell'unità delle intelligenze che insegnarono l'Afrodisio e Temistio, ri- 20 Conciliator, 1. e. — Il Ferrari qui osserva, non si sa perché: «Farmi che non ci sia mestieri d'altre parole per scorgere ch'ei propendeva per l'avverroismo ». E in nota rincalza: « Io credo che il prave e il veritatem non faran velo al giudizio di alcuno, ma saranno presi per una osten- tazione con ufficio di scudo. Se no, domanderei: ma perché fu dunque accusato ? » ecc. ecc. (P. d'A., p. 350). O bella ! ma fu accusato, e in- giustamente, dell'errore opposto all'averroismo. Curioso poi quel Fer- rari: se l'Abanese ricorda appena di sfuggita una sentenza di Averroè senza censurarla, è avverroista perché la lascia passare senza una nota di biasimo; se la biasima e la dichiara prava, la sua è un'ostentazione con ufficio di scudo!... 21 « Mirum est.... ponere potentiam separatam et substantiam uni- tam », dice Sigieri di Brabante [De anima intectiva, ed. Mandonnet, Louvain, 1908, pp. 152-153). Ma su questo argomento son tornato di poi,, nell'articolo Alberto Magno e S. Tommaso, in « Giorn. Crit. d. Filos. Ital. », XXII, 1941, pp. 41-43, e nello studio La posizione d'Al^ berto Magno di fronte all'averroimo, in « Riv. di Storia della Filosofìa »^ II, 1947, pp. 210-213. 68 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI ponendone la comune sorgente in Dio, e che press'a poco tutti i grandi filosofi e i poeti ammisero da Anassagora in poi. Sal- voché di mezzo c'era stato il realismo grossolano de' Padri della chiesa latina [per es. S. Agostino !] in psicologia, che aveano ripreso la quistione calcando sull'antitesi di corpo e d'anima [e chi più di Averroè aveva opposto tra loro l' intel- letto e l'organismo umano ? !]. Ei volle uno speciale soggetto all'attività intellettiva, come lo richiese Averroè per la ra- gione impersonale !... » -2. 6. - Come abbiamo visto, il Ferrari si era posto anche il problema dell' immortalità personale ; problema che ora viene ad avere una soluzione conforme al concetto che egli si è fatto della natura dell'anima umana 23 : « Nell'anima razionale.... ci troviamo di fronte ai due termini d'una distinzione reale: di qua, i dati della percettività e della fantasia sensibih, di là r intelletto agente. Or quelli e la rispettiva facoltà andrebbero perduti collo spengersi degli organi; così dovrebbe avvenire, e così Pietro insegna che avviene, aggiungendo a chiare note, vedemmo, che pur quella parte dell' intelletto corrompesi, la quale ha una specie di organo interno nella facoltà immagi- nativa. Resta r immortalità dell' intelletto agente ; ma questo non ha nulla di personale. Esso non è che la presenza nell'or- ganismo vivente di quella ragione che illumina e pervade tutte del pari le anime umane ». E poco prima aveva detto, riferendosi a un passo dei Problemi : « Se anche l' intelletto possibile non ha alcun organo corporeo, tuttavia si corrompe anch'esso e disperde, quando gli vien meno coll'organismo il substrato dell' immaginativa su cui si erigeva ». Se il Ferrari non avesse a sua scusa una perfetta ignoranza della storia della filosofia, dovrei parlare d' impudenza. Il passo dei Problemi -4 suona così: «Etsi intellectus possibilis.... nullum habeat organum in corpore..., corrupto quodam inte- riori, ut organo imaginationis, intelligere et considerare emar- cescunt ». Non 1' intelletto possibile perisce, ma la funzione, l'atto dell' intendere, in conformità del principio della psico- 22 p. ci' A., p. 350. 23 Ibid., p. 351. M Partic. XIV, 4. Del resto il concetto, anche nella sua enuncia- zione verbale, è d'Aristotele, De anima, I, e. 4, 4086 24-29, e se ne può vedere il commento tomistico, lezione io*. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO d'aBANO 69 logia aristotelico-tomistica, che non vi è atto d'intendere senza fantasma. O che non ha letto il Pomponazzi, il padovano Fer- rari ? Dopo questo scempio della storia, egli ha ancora il coraggio di scrivere : « Non si dica perciò che Pietro negasse l' immor- talità dell'animo autocosciente ! ». Ma come ? ! Sicuro : « Se questo non era definitivamente sottratto alla morte per ne- cessità metafisica, potrebbe egli aver pensato che fosse per altre ragioni» 25. Così, a forza di dire e disdire, l'equivoco si distende su questa come sulla quistione conclusiva, se dunque Pietro d'Abano appaia un materiaHsta ^^. Domanda superflua se l'Abanese fu un averroista o semplicemente incUnò all'aver- roismo; legittima, invece, ma facilissima ad esser soddisfatta, se con Alessandro d'Afrodisia egli distinse l' intelletto pos- sibile, corruttibile e materiale, da quello agente che è la luce divina la quale resta estranea alla mente umana e separata per natura dall'anima. Se non che Pietro d'Abano non fu né averroista né alessandrista ; egli fu, in psicologia, un aristotelico al modo di Tommaso d'Aquino. V. — Conclusione. - Il pensiero scientifico di Pietro d'Abano in rapporto alla teologia. Giunto alla fine di questo breve studio, che tendeva a dis- sipare false o esagerate o tendenziose interpretazioni delle dottrine filosofiche del grande medico padovano, sento il dovere, a sgravio di coscienza, di precisar meglio il giudizio che, a mio parere, s' ha da portare sul pensiero autentico di lui; giudizio che, forse, il tono polemico dei capitoli precedenti potrebbe fare apparire non meno esagerato ed ingiusto di quelli da me discussi. In altre parole, non vorrei che mi toc- casse di far la figura di quegli avvocati i quali, nel patrocinare la causa del loro protetto, si accalorano sino a far di questo un modello di tutte le virtù, qualche cosa come sarebbe a dire uno stinco di santo. Non a questo io intendevo. Se a me pare enorme il giudizio che il Ferrari pronunciò, accogliendo l'opinione di Michelangelo 25 P. d-A., p. 351. 26 Ihid. 70 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Zorzi', — che ve ne fosse d'avanzo, ne' suoi libri men contesta- bili, per condannar Pietro come eretico, — non per questo riten- go che il pensiero dell'Abanese sia conforme in tutto allo spirito delle scuole teologiche dei suoi tempi; e segnatamente mi guar- derei bene dal farne un tomista, come il Ferrari mi ha rimpro- verato -, sebbene con Tommaso egli si trovi d'accordo su più d'una dottrina e in particolare nel modo di concepire l'origine e la natura dell'anima umana. Eretico non fu Pietro d'Abano, e d'eresie formali, dal punto di vista della teologia medievale, nei suoi scritti a noi noti, non v' è traccia 3. Ma se nessuna delle dottrine, che abbiamo passate in rassegna, può dirsi formalmente eretica, tale cioè da meritare la condanna inflitta alle sue ossa, ve ne sono due, nondimeno, che l'eresia contenevano in germe, un'eresia latente, che non doveva tardar molto a diventare aperta e formale. La prima consiste nell'affermare, che la scienza umana possiede un proprio metodo e propri principi razionali diversi da quelli della teologia, e che nella ricerca delle cause dei fe- nomeni naturali non s' hanno da introdurre concetti teologici e agenti soprannaturali. La seconda di queste due dottrine vuole che, anche ciò che teologicamente è detto miracolo, non accada del tutto fuori dell'ordine naturali, e Dio si giovi, pur nell'effettuazione del miracolo, del concorso delle cause naturali e quasi inserisca il fatto meraviglioso nella serie degli agenti naturali; cosicché anche dei fatti, che la teologia attri- buisce all'azione diretta di Dio, sia possibile, entro certi li- miti, una spiegazione scientifica. Se non che dell'eresia che si annidava in queste due dot- trine strettamente connesse fra loro, Pietro d'Abano non è. 1 P. d'A., p. 131. Al giudizio del Ferrari s'è ispirato anche il Gen- tile, La filosofìa italiana (nei Generi letterari del Vallardi), lib. II, cap. I. Noto invece con piacere, che importanti riserve sull'averroismo di P. d'A., ha fatto il Baumgartner nella lo^ ediz. dell' Ueberweg [Grundriss der Gesch. der Philos., II, Philos. dar patrist. u. scholast. Zeit. (io* ed. hrgg. von Dr. Matthias Baumgartner), Berlino, 1915, pp. 546-547). 2 In una nota del suo scritto più volte citato. Per la biografia ecc., p. 14, ove sdegna nominarmi. 3 E d'altra parte non abbiamo nessun indizio d'un insegnamento essoterico di Pietro diverso dall'acroamatico, quale Aulo Gelilo e Ci- •cerone attribuivano ad Aristotele. Sì che il problema che si pone il Ferrari, P. d'A., p. 438, perché le opere del nostro non furon messe all' Indice, appare inconsistente. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D ABANO 7I in fondo, più colpevole di Tommaso d'Aquino e della maggior parte dei teologi della seconda metà del secolo XIII. Parlando della dottrina della duplice verità, abbiamo visto quale ne fosse l'origine e il signiùcato storico. Dopo che il pensiero greco-arabico si fu rivelato nell'occidente latino per mezzo delle traduzioni condotte a termine nei primi decenni del secolo XIII, si finì, in capo a pochi anni, e a malgrado dei ripetuti divieti, da parte delle autorità ecclesiastiche, per accoglierlo, pur con le dovute riserve e cautele. Una volta in possesso della ricca enciclopedia che poneva innanzi ai cupidi sguardi dei latini, avidi di sapere, un così ricco materiale scientifico, fino allora sconosciuto, e che allargava gli oriz- zonti alla loro conoscenza del mondo della natura, non si potè fare a meno di ammettere la legittimità della ricerca scientifica accanto a quella teologica. Nacque così la distin- zione tra filosofia e teologia: l'una, espressione del pensiero greco-arabico e fondata sulla ragione umana; l'altra, basata sulla verità divina della rivelazione cristiana 4. La Phtlo- sophia humana, dice Tommaso (e cito lui solo per tutti), con- sidera le cose create in se stesse, secondo la loro propria ed in- trinseca natura, e le loro proprietà; la teologia, invece, ossia la doctrina /idei christianae, le riguarda in quanto sono da Dio e in quanto risulta in esse una qualche somiglianza colla divina natura e sono ordinate a Dio come a fine ultimo di tutte le cose ?. Inoltre, le due discipline differiscono, egli dice, perché (si noti) « per alia et alia principia traduntur » 6; ossia, com' è ripetuto altrove 7, per il « diversus cognoscendi modus ». Il filosofo, infatti, « argumentum assumit ex propriis rerum causis », secondo che le verità filosofiche « sunt cognoscibilia lumine naturalis rationis»; il teologo, invece, desume il suo modo di argomentare « ex causa prima », secondo che le verità teologiche « cognoscuntur lumine divinae revelationis ». San Tommaso, è vero, dopo aver distinto filosofia e teologia, ragione e fede, subordina poi il primo termine di ciascuno di questi binomi al secondo; ma la stessa distinzione dimostra che egli riconosce la legittimità della ricerca scientifica e dei metodi propri ed intrinseci di questa. Anche subordinata, 4 Cfr. sopra, pp. 44, 53, 56-58. 5 Cfr. Cantra gentiles, II, e. 4. 6 Ibid. 7 S. iheoL, I, 9, i, a. i, ad 2 um. 72 l'aristotelismo padovano L>AL secolo XIV AL XVI anche ancilla e jamula della teologia, la filosofia è riconosciuta indipendente da quella e autonoma entro la propria cerchia di ricerche naturali. Così, non ostante tutti i tentativi più o^ meno ingegnosi per unificarle, quella filosofia e quella teologia non rimanevano meno distinte, se non opposte, per i loro metodi propri di ricerca e per il loro spirito. In questa distinzione, accettata da tutti i teologi medievali del tempo di Pietro d'Abano, era il germe latente dell'eresia di cui a torto si vorrebbero render responsabili solo i veri o pretesi averroisti. Una volta proclamata la legittimità della ricerca razionale e filosofica, per mezzo di metodi propri e di- versi da quelli teologici, quale autorità teologica in terra avrebbe potuto più mettere un freno a coloro che, intrapreso il cammino della ricerca scientifica, intendevano percorrerlo fino in fondo ? ^. E infatti, si era appena riconosciuta quella distin- zione, che fu subito avvertito il contrasto tra filosofia e teo- logia, contrasto che venne sentito più o meno da tutti i pensa- tori scolastici, da Sigieri di Brabante come da Tommaso d'Aquino, da Pietro d'Abano come da Duns e da Dante Ali- ghieri; e tutti cercarono di risolverlo con particolari e diversi atteggiamenti spirituali. Il contrasto, da prima latente, doveva portare, e portò, al con- flitto fra i rappresentanti delle due principali facoltà degl'istitu- ti universitari, quella delle arti e medicina e quella di teologia. Nella facoltà delle arti si leggevano e si commentavano i libri d'Aristotele e le trattazioni di Avicenna, d'Averroè, di Galeno, di Tolomeo e di numerosi altri autori greci ed arabi. E vi ri- fiorirono così, e si accrebbero, l'antica astrologia, la matema- tica, la medicina, l'alchimia e la magia, tutte insomma le scienze create o sviluppate dal genio greco ed arabico. Che queste scienze fossero infestate da inveterati pregiudizi meta- fisici, non toglie che il loro sviluppo abbia concorso in larga misura allo sviluppo del sapere scientifico e al progresso dello spirito umano. Per mezzo di esse si inaugurò nell'occidente cristiano il metodo della ricerca filosofica, s' iniziò la libera indagine delle cause naturali dei fenomeni del mondo ter- 8 E di porre un freno si tentò più volte, ordinando, come a Parigi nel 1272, agli scolari della facoltà delle arti di astenersi dal determinare cantra fidem quando avessero da discutere di un problema che /idem videatur attingere simulque philosophiam. Cfr. Carthularium University Parisiensis, I, 499. LE DOTTRINE FILOSOFICHE DI PIETRO D ABANO 73 restre. Al pregiudizio teologico si sostituì, è vero, quello astro- logico. Ma l'errore di aver riposto le cause dei fenomeni na- turali in influenze astrologiche, non è poi così grave e imperdo- nabile, se esso significava anzitutto libera ricerca di cause naturali, affermazione di leggi ed esclusione dell'arbitrario dal mondo dell'esperienza. E intanto quell'astrologia, quell'al- chimia, la vecchia medicina e la stessa magìa venivano racco- gliendo da ogni parte ed accumulando preziose osservazioni ed esperienze, che, nella Rinascenza, dovevano portare al supe- ramento dei vecchi pregiudizi e concetti metafisici, e contri- buire direttamente al rinnovamento della scienza. Al quale non si sarebbe mai giunti, senza l' inaugurazione di quel metodo razionale, la cui legittimità era stata procla- mata all'unanimità dagli stessi teologi scolastici, non solo in teoria ma anche in pratica. Vediamo infatti Tommaso d'Aquino esporre con intera libertà e senza prevenzioni le dottrine di Aristotele, fino a dichiarare, contro il parere dei vecchi teologi, che l'eternità del mondo non implica contradizione e che la tesi della creazione nel tempo non può dimostrarsi colla sola ragione. E Alberto di Colonia insieme al pensiero aristotelico esponeva quello degh altri peripatetici, greci ed arabi, pur notando che non di rado esso cozzasse coi dommi cristiani. Ora all'esempio di Alberto si richiamavano espressamente o tacitamente Pietro d'Abano e Sigieri di Brabante, quando dichiaravano di trattare «de naturalibus naturaliter », senza farla da teologi 9. De naturalibus naturaliter: ecco il programma di quegli ambienti laici, che erano le facoltà delle arti; laici, s' intende, solo per i metodi dell' indagine scientifica e filosofica in con- trapposizione con quelli della teologia. Di questi ambienti laici Pietro d'Abano incarna perfettamente lo spirito. In questo spirito è la sua vera, la sua unica eresia; un'eresia inconsa- pevole che s'era già insinuata nella coscienza di tutti coloro che avevan fatto buon viso al rinascente pensiero aristotelico, e che era penetrata fino nelle scuole di teologia io. Senza pre- stargli dottrine eterodosse che negli scritti a noi noti egli ha 9 Cfr. il mio studio La posizione d'Alberto Magno di fronte all'aver- roismo, cit., pp. 197 sgg. 10 La filosofia, infatti, questa povera ancella della teologia, aveva il compito di stabilire i praeambida /idei e dichiarare il contenuto delle formule dommatiche. Le opere teologiche della Scolastica, compresa 74 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI espressamente riprovate, senza attribuirgli quel continuo sdoppiamento di coscienza che piace a chi, per il gusto di farne un eretico, ne farebbe volentieri un ipocrita, pronto ad af- fermare il contrario di quello che in cuor suo pensa, per sal- vare la pelle dal rogo; — le sue audacie dottrinali, dal punto di vista della teologia imperante, sono evidenti: maggiore di tutte quelle intorno ai miracoli e ai fatti meravigliosi. Pietro d'Abano è lo scienziato forse più caratteristico di quel periodo di cui Tommaso d'Aquino fu il maggior teologo, e Dante Alighieri, il sommo poeta. Per la vasta erudizione, pur senza essere un rinnovatore e un precursore, rappresenta la scienza della fine del secolo XIII e del principio del XIV, in tutti i suoi molteplici aspetti, in ogni sua tendenza. L' idea centrale della scienza di lui è un' idea astrologica. E i creatori della leggenda popolare di un Pietro mago, sebbene non co- gliessero i veri caratteri della sua magìa (magìa bianca, ben differente dalla necromanzia), ci hanno tramandato un' im- magine dell'uomo, che forse è meno difforme di quel che non si creda, dalla sua storica personalità. la grande Summa dell' Aquinate, son impregnate di razionalismo; ra- zionalismo che si afferma nettamente in Raimondo Lullo. L'ancella cominciò ben presto a farla da padrona ! Ili PAOLO VENETO E L'AVERROISMO PADOVANO * Se Pietro d'Abano non fu un avverroista nel senso vero e proprio della parola, avveroista fu invece l'eremitano Paolo Nicoletti da Udine, detto comunemente Paolo Veneto, il quale professò a Padova un tipo d'avveroismo guardingo, che forse «gli vi portò da Oxford e da Parigi, se pure non v'era già arrivato da Bologna, e che risente della lettura dell'opera di Sigieri di Brabante, De intellectu ad jratrem Thomam ', op- pure degli scritti di Tommaso di Wilton impugnati a Bologna, ottantacinque anni prima, dal francescano Guglielmo di Alnwick -. Paolo \'eneto era andato a studiare a Oxford, insieme a un suo fratello germano, maggiore di lui, fra Paolo Fran- -cesco, anch'egli eremitano, alla fine d'estate 1390, e v'era * Dal voi. Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano. Roma, Edizioni Italiane, 1945, pp. 115-132, salvo una modificazione fino al quinto capoverso. ' Cfr. Sigieri di Brab. ecc., pp. 18-23. Che l'averroismo padovano abbia origini bolognesi è ipotesi verosimile; ma non si può escludere un'origine oltremontana. Che poi Averroè fosse tenuto in gran conto a Padova assai prima di P. Veneto, è provato dagli affreschi di Giusto de' Menabuoi nella cappella Cortelieri nella chiesa degli Eremitani, anteriori al 1370, e dei quali ci resta la descrizione di Hermann Schedel di Norimberga che era studente a Padova dal 1463 in poi. Giunto aveva raffigurato Averroè insieme agli eremitani maestro Alberto da Padova e al beato Giovanni da Bologna. Cfr. J. v. Schlosser, Giusto's Fresken in Padua n. die Vorlàufern der Stanza della Segnatura, in « Jahrbuch der Kunsthistor. Sammel. des allerhòch. Kaiserhauses », Wien, 1896, XVII, pp. 17, 45, 47, 94; S. Bettini, Giusto S. M. e l'arte del Trecento. Padova, 1944, P- n?- Paolo doveva ben conoscere quegli affreschi. 2 A. Maier, Wilhelm v. Alnwicks bologneser Quaestionen gegen Aver- roismus [1323), in « Gregorianum », XXX, 1940, pp. 265-308. 76 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI rimasto almeno un triennio 3. Il soggiorno di Paolo in In- ghilterra non era rimasto ignoto ad Antonio Cittadini da Faenza, che a Ferrara, nel 1476, dettò un commento polemico dei Logica minora dell'eremitano, in principio del quale si legge: Ferunt autem quidam non auctoritate indigni, hunc libellum in Britannia, ubi olim et dialecticae et philosophiae studia flo- ruerunt, in antiquissimis litteris compertum esse, ut ex illis con- staret, prius opusculum hoc extructum fuisse quam Paulus Ve- netus natus esset. Quod eo magis a non nulhs creditur, quod certuni est Paulum apud Britanos visendorum gymnasiorum gratia aliquando commoratum esse, ac postea in Italiani rever- tentem multos libros secum detulisse, quorum auctores Italis penitus erant incogniti 4. Più tardi soggiornò anche « in tlorentissima universitate Parisina », ove fra Paolo espose gli Antepraedicamenta di Aristotele 5. Nel 1408, egli era lettore nella facoltà delle Arti a Padova, e quivi compose quella Summa naturalium nella quale è esposta la dottrina del libri fisici e della Metafisica d'Aristotele, con sobrie discussioni dei problemi agitati nelle scuole ^. Notevole in questa Summa il trattato, diviso in 42 capitoli, concernente il De anima, perché in esso ritroviamo le tesi fon- damentali del De intellectu di Sigieri. Ma di questo scritto aristotelico Paolo Veneto ci ha lasciato un'assai più ampia esposizione che non saprei dire in quale anno redatta, ma forse non di molto posteriore alla Summa naturalium 7. 3 Reg. Re. mi Barth. Veneti, nell'Archivio della Curia generalizia degli Eremitani in Roma Dd. 3, f. 132 v. Cfr. il mio studio sulla Lette- ratura e cultura veneziana del Quattrocento, nel voi. « La civiltà Vene- ziana del Quattrocento ». Firenze, Sansoni, 1957, PP- ^^^ ^ i35"36- 4 Cod. Urb. lat. 1381, f. 2 r. 5 Ghiotta notizia, segnalatami dal prof. Giulio F. Pagallo, in una annotazione al Cod. 452 della Bodleniana di Oxford (cfr. Catal. di H.O. CoxE, P. Ili, Oxford, 1854, p. 775). 6 La data di composizione della Summa naturalium è fissata al 1408 dal codice marciano che ne contiene solo tre parti. Cfr. G. Valentinelli, Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Veneiiarum, t. IV, Venezia, 1872, p. 24, Lat., Classe XII, cod. 23. 7 Come non molto posteriore è 1' Expositio super odo libros Physi- eorum Aristotelis necnon super comento Averois cum dubiis eiusdem, la quale porta la data del 30 giugno 1409. Cfr. P. Duhem, Le niouvement absolu et le mouvement relatif. Extrait de la « Revue de philosophie ». Montligeon (Orne), 1907, p. 143. Le stesse variazioni che il Duhem ri- PAOLO VENETO E L AVERROISMO PADOVANO 77 Anche in questa seconda opera l' influsso esercitato sull'ere- mitano dal trattato dell'averroista belga contro San Tommaso, è decisivo, come possiamo convincerci dalla lettura dei se- guenti brani che per comodità del lettore riferiamo. Nell'esposizione del testo 23 del II libro De anima, frate Paolo Nicoletti si pone, « ad maiorem dictorum evidentiam », alcuni « dubia », il secondo dei quali verte sul problema « Utrum in eodem animali plures possint esse anime totales », che egli risolve nel modo che segue, non senza aver prima confutate altre soluzioni ^ : Circa liane materiam, siint plures modi dicendi. Primus modus est, quod piante non habent nisi unam animam totalem, scilicet vegetativam; bruta duas, scilicet vegetativam et sensitivain; homines vero tres, videlicet vegetativam, sensitivam et intel- lectivam; non tamen simul generantur, sed successive per tempus, ita quod primo generatur vegetativa, deinde sensitiva, tertio leva tra quest'opera e la Summa naturalium, si posson notare anche fra quest'ultimo scritto e il commento Super libros Aristotelis de anima, che senza dubbio rivela una maggiore complessità e maturità di pen- siero. Nel commento al t.c. 11 del III libro, a proposito del quesito se gli universali « sint in rerum natura », l'autore dichiara d'averne trat- tato quanto basta « in alio opere et in prologo physicorum ». È pro- babile che, dopo l'esposizione sommaria delle dottrine fìsiche e meta- fìsiche dello Stagirita, il Nicoletti si sia accinto a commentare le singole opere aristoteliche alle quali si riferiva la Summa, cominciando, come sappiamo, dagli otto libri della Fisica e proseguendo poi col De caelo, col De generatione et coruptione, coi libri Meteorologici, col De anima e colla Metafisica. Una vera biografìa filosofica di Paolo Veneto non è concepibile senza aver tolto in esame tutte queste opere che da parte del Momigliano sono state piuttosto ricordate che vedute e lette. Tornato a Padova nel 1428, dopo le peripezie che lo avevano costretto a lasciare questa città nel 1420 o forse qualche anno prima o dopo, l'eremitano s'accinse a commentare di nuovo il De anima, come ci attesta fra Matteo da Ripalta, piacentino, allora studente nello studio padovano. Questi si procurò nel corso del 1429 una copia dell'esposizione completa del- l'opera aristotelica, poiché il maestro che con tanto grido era tornato a leggerla non andò oltre il capitolo « de gustabili » (libro II, t. e. 101-104, cap. IO del testo greco, 422» 8-422Ò 15), essendo stato colto dalla morte all'alba del 15 giugno dello stesso anno. Valentinelli, t. IV, p. 57. 8 Pauli Veneti, In libros de anima explanatio cimi textu incluso singulis locis, maxima qiiidem diligentia a vitijs mendis atque erroribus quibus hacteniis ex ignavia impressorum scatebat purgata ac pristine in- tegritati restituta etc. E nel colophon : Scriptum super librimi de anima. . . . ex proprio originali diligenter emendatum per clarissimum. artium ac medicine doctorem. D. magistrum Hieronymum Surianum, filium pre- stantissimi quondam artium ac medicine doctoris, Domini magistri lacobi. de Surianis de Arimino.... Venezia, Eredi di Ottaviano Scoto, i nov. 1504, libro II comm. al t. e. 23, fol. 46, col. 4-47, col. 2. 78 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI post completarti organizationem membrorum generatur intel- lectiva 9 Hic modus dicendi est superfluiis.... Secundus modus dicendi est, quod in quolibet vivente est solum una anima totalis; et quod est ordo in productione anima- rum, quia fetus primo vivit vita piante, deinde vita animalis; tamen tales anime simul non manent in eodem, sicut nec due figure, sed in adventu secunde corrumpitur prima, et in adventu tertie corrumpitur secunda 1°. Iste modus est impossibilis, quia tunc aliqua forma per se ageret ad corruptionem sui ipsius..., Tertius modus dicendi est, quod in nullo nisi in homine sunt plures forme substantiales seu anime totales, scilicet sensitiva et intellectiva, quarum prima educitur de potentia materie per agens naturale, secunda autem creatur a deo, non obstante quod ita bene inhereat sicut prima, adducendo illud philosophi, 16 de animalibus: « intellectus venit deforis»". — Sed hec opinio in- cludit contradictionem, quia si anima intellectiva inheret materie, ergo educitur de potentia materie et generatur ad generationera corporis animati et corrumpitur ad corruptionem eiusdem. Item hec opinio non est naturalis, quia ponit intellectum creari; et Aristoteles una cum commentatore ponit ipsum perpetuum et eternum. Deinde, si anima intellectiva inheret materie, ergo in- tellectio et volitio sunt subiective in materia; quod est centra philosophum et commentatorem ponentes potentias rationales esse abstractas a corpore, et consequenter actus illarum. Quartus modus, quem solum puto rationalem, est iste, quod pianta habet solum unam animam totalem, scilicet vegetativam, compositam ex partibus diversarum rationum; et consequenter animai imperfectum simpliciter, quod non habet aliquem sensum exteriorem nisi sensum tactus, nec aliquem motuin ad locum, sed solum motum dilatationis et constrictionis, habet etiam solum unam animam, scilicet sensitivam, que propter sui imper- fectionem supplet vices anime vegetative, ita quod in ostrea vel spongia marina eadem anima est sensitiva et vegetativa. Animai autem perfectum habet duplicem animam, scilicet partialem vegetativam, in carne vel osse vel in aliquo proportionali, et 9 Questa teoria è la seconda delle opinioni da me elencate in Giorn. Crii, della Filos. Ital., XII, 1931, pp. 437-438, ed è ricordata da Dante, Purg., IV, 1-6, come « quello error che crede ch'un 'anima sovr 'altra in noi s'accenda ». 10 Questa dottrina, già accolta dal francescano fra Giovanni della RocheUe, fu difesa, com' è noto, da S. Tommaso. Cfr. lo stesso Giorn. Crii., pp. 441-442, sesta opinione. 11 Questo «tertius modus», che è una teoria intermedia fra quella tomistica e quella schiettamente averroistica, non è altro che la nona delle opinioni da me elencate, professata da Alberto Magno, da Gio- vanni Peckam e da Dante. Cfr. Giorn. Crii., pp. 445-456; ib., XIII, 1932, pp- 45-56 e 81-102; come pure il mio voi. Dante e la cultura me- dievale, Bari, Laterza, 1949, pp. 271 sgg. Questa è anche la tesi di En- rico Bate; cfr. Sigieri, nel pens., p. 177. PAOLO VENETO E L AVERROISMO PADOVANO 79^ nnam sensitivam totaleni, ut equus vel asinus. Homo autem, preter partiales animas, habet duas totales: cogitativam sensi- tivam, generabilem et corruptibilem, inherentem et informantem, et intellectivam perpetuam et eternam, informantem et non inherentem '-. Da siffatta teoria risultano alcune conseguenze a mò di corollari : .... Tertio sequitur quod homo non est homo precise per ani- mam cogitativam, nec precise per animam intellectivam, sed per ambas simili.... Cogitativa enim denominat hominem esse animai, et intellectiva denominat hominem esse rationalem; sed homo est diffinitive et convertibiliter animai rationale; ergo ambe anime concurrimt ad constitutionem hominis. Quo dato, opor- tet concedere quod, sicut genus est prius differentia et potentiale ad illam, sicut universaliter minus perfectum ad maius perfectum, ita cogitativa est prior intellectiva in homine et potentialis ad '2 Nella Summa philosophie natura! is o naturalium (Venezia. Eredi di Ottaviano Scoto, « Anno a salutifera incarnatione tertio et quingen- tesimo supra millesimum. Idibus Martijs »), V parte. De anima, cap. V, fol. 68, col. 4: « Tertia conclusio: Necesse est in homine esse plures animas totales. Probatur: nam sol et homo generant hominem, 2° physi- corum (t. e. 26); ergo homo generatur; sed terminus generationis est forma accipiens novum esse, ut colligitur ex sententia philosophi, 5° phi- sicorum (t. e. 7); ergo aliqua forma hominis generatur; sed non intel- lectiva, 3° de anima (t. e. 5); ergo sensitiva generatur. — Item, philo- sophus, primo celi (t. e. 102) : « omme genitum aliquando corrumpetur »; ergo homo aliquando corrumpetur; sed non intellectiva, 3° de anima (t. e. 19); ergo sensitiva. Et ita necesse est ponere in homine duas ani- mas: unam intellectivam, ingenerabilem et incorruptibilem, secundum philosophum, et aliam sensitivam, generabilem et corruptibilem, quam Commentator vocat, 3° de anima (t. e. 5), cognitivam (sic, leggi cogi- tativam). — Quarta conclusio: Impossibile est in aliquo vivente non intellectivo esse plures animas totales. Patet, quoniam si in plantis vel in brutis ponerentur plures anime totales, una necessario super- flueret, quoniam illa que est maioris perfectionis totum actuaret, sicut illa que est minoris perfectionis, et omnes operationes eius exerceret, ex quo in ea fundantur omnes potentie inferioris anime. Dicatur ergo quod in plantis est solum una anima totalis, que est tota in toto et pars in parte, et hec est vegetativa; in animalibus autem imperfectis est solum una anima totalis, et illa est sensitiva, supplens vicem anime vegetative, que etiam extenditur ad extensionem subiecti; et in ani- malibus perfectis sunt plures vegetative [partiales] et una sensitiva totaUs, multiplicata ad omnem partem etherogeneam. Sed in homi- nibus, preter formas partiales vegetativas, sunt due totales, scilicet sensitiva multiplicata ad partes etherogeneas, et intellectiva non mul- tiplicata ad aliquam partem illius individui, sed bene ad omnia indi- vidua speciei humane, eo quod intellectus est unus in omnibus homi- nibus, iuxta intentionem Aristotelis et determinationem Commenta- toris, 3" de anima (t. et e. 5) ». 8o l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI illam 13. — Quarto sequitur quod idem individuum est diversarum specierum essentialium. Patet, quia homo per animam cogita- tivam sensitivam est alicuius speciei generis animalium, immo supreme speciei, quia, secluso intellectu, per cogitativam homo habet discursum quodammodo rationalem, ratione reminiscentie reperte in eo et non in aho; licet enim memoria reperiatur in aliis animalibus, non tamen reminiscentia ; neque reminiscentia competit homini ratione intellectus, sed ratione cogitative vir- tutis, quia reminiscentia est passio anime sensitive, secundum Aristotelem, in libro de meìnoria et reminiscentia H. Item, quia intellectus humanus est pura potentia in genere intelligentiarum, per commentatorem, tertio huius, et per consequens est primus gradus illius generis ^5, ideo per intellectum constituit primam speciem intellectivoruni, sicut per cogitativam constituit ultimam speciem generis animalium. Nec est inconveniens duos gradus specificos esse immediatos, quia species sunt sicut numeri, 8 ine- taphysice (t. e. io). Et si concluditur ex eodem fundamento, quodlibet mixtum esse diversarum specierum essentialiter, ra- tione forme mixti et forme elementi, negetur consequentia, quia forma elementi non se habet respectu forme mixti nisi materialiter et potentialiter per modum dispositionis prefinientis in ma- teria formam mixti; ideo non dat mixto nomen specificum nec diffinitionem essentialem. Sed anima cogitativa non se habet tanquam dispositio prefiniens animam intellectivam, cum eque simul inducantur in corpore, nec una potest naturaliter esse sine alia. Cogitativa tamen dicitur esse prior intellectiva et potentialis ad illam propter suam imperfectionem ^^. Come è facile vedere, già in questo luogo dell'esposizione del libro secondo del De anima, la tesi caratteristica di Sigieri, 13 Anche Sigieri, come sappiamo, affermava che la cogitativa è or- dinata « in intellectivam », talché « nec potest intellectus informare ma- teriam non informante cogitativa..., nec potest cogitativa informare materiam non informante intellectu »; cfr. Sigieri nel pens., p. 18. 14 Cap. 2, 453^ 14 sgg. « Quella parte dove sta memora » chiama l'anima sensitiva anche Guido Cavalcanti, nella canzone « Donna mi prega», tutta pervasa di dottrina averroistica ; cfr. il mio voi. Dante e la cult, medievale,'^ pp. 104-105, 137. Gli averroisti negavano si la me- moria che la reminiscenza all'intelletto; cfr. il mio voi. Nel mondo di Dante, Roma, Edizioni di « Storia e Letteratura », 1944, pp. 373-374- 15 Altra tipica tesi di Sigieri che Paolo Veneto svilupperà, come ve- dremo fra breve. 16 Allo stesso modo anche nella Summa naturalium, 1. e. fol. 69, col. I : « Ad secundum dicitur, quod anima intellectiva non adv-^enit enti in actu substantiali, quia eque primo adveniunt corpori sensitiva et intellectiva. Item, dato quod sensitiva precederet tempore intel- lectivam, adhuc advenit enti in potentia, quia forma sensitiva hominis dicitur potentialis ad ulteriorem actum; non autem anima intellectiva. Hec ergo est differentia inter formam substantialem et accidentalem, quia forma accidentalis advenit enti in actu ultimato, forma autem substantialis advenit enti in potentia, licet non in pura potentia ». PAOLO VENETO E L AV^ERROISMO PADOVANO Ol che r intelletto, pur essendo in sé una sostanza separata unica per tutta la specie umana, s'unisce ai singoli con un vincolo sostanziale, sì da potersi dire forma, atto e perfezione dell'uomo, è accennata in modo esplicito '7. Ma 1' influsso del brabantino sull'udinese è ancora più evidente nell'esposizione del terzo libro, del pari che nei capitoU 35-37 della quinta parte della Summa naturalium. In quest'ultimo scritto, frate Paolo tratta anzitutto della passività o passibilità dell' intelletto umano, formando queste quattro conclusioni: Quarum prima est ista: Intellectus humanus nullam habet de se in actu speciem intelligibilem, sed ad quamlibet talem est penitus in potentia.... Secunda conclusio: Intellectus non est aliqua una natura sed solum habet possibilitatem recipiendi omnes formas ma- teriales.... Pertia conclusio: Intellectus possibilis humanus ante intellectio- nem nullatenus est actu.... Quarta conclusio : Intellectus humanus est immaterialis et incorporeus et immixtus.... '8. Tutte e quattro queste conclusioni ritornano, con una leg- gera variazione nel loro ordine, in principio dell'esposizione del terzo libro De anima '9; ma qui alla terza conclusione, che corrisponde alla seconda della Summa, il maestro pado- vano ricollega il problema dell'unità dell' intelletto che nella Summa è discusso a parte nel capitolo 37. 17 Tanto nella Summa naturalium, 1. e, f. 68, col. 4, Secunda conclusio, quanto nell'esposizione del De anima, 1. e, f. 47, col. 3, combatte la tesi sostenuta un tempo a Oxford da Roberto Kilwardby e da Tom- maso di Wilton, e accolta anche da Giovanni di Jandum, che « in aliquo vivente possit esse multitudo formarum iuxta pluralitatem predicato- rum essentialium «. Della qual tesi nell'esposizione del De anima egli dà questo riassunto : « Tenentes pluralitatem formarum in eodem iuxta multitudinem predicatorum quiditativorum, dicunt quod prima forma Sortis est illa qua ipse est substantia, et secunda qua est corpus, et tertia qua est corpus animatum, et quarta qua est animai, et quinta qua est homo, et sexta qua est Sortes; et ita de individuis aliarum spe- cierum; et imaginantur isti quod, quantum ad animam sensitivam, omnia animalia sunt eiusdem rationis substantialis, a qua sumitur hoc genus « animai »; et secundum formas ulteriores specifìcas, sunt homines, equi et canes diversarum rationum substantialium; concedentes omnes tales formas realiter distingui et fundari in materia inhesive, ordine essentiali, secundum quod taha predicata invicem essentiahter ordi- nantur. Ista opinio est impossibilis ». 18 Summa naturai., pars V, e. 35, f. 87, col. 2. 19 In libros de anima, III, ad t. e. 1-5, f. 128, col. 3-130, col. 3. 82 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Sul modo di concepire la passività dell' intelletto possi- bile e il concorso dell' intelletto agente e del fantasma al- l'atto dell' intendere, l'eremitano riferisce quattro opinioni,, l'ultima delle quali è quella d'Averroè: Quarta opinio est Averroys intellectui possibili nihil nisi passi- bilitates assignantis, fantasmati vero activitatem tanquam par- ticulari agenti, et intellectui agenti tanquam agenti universali; ita quod ad primas intellectiones et species intelligibiles concurrit fantasma tanquam agens particulare, et intellectus agens tanquam agens vniiversale; ad omnes autem conseguentes se habet intel- lectus agens sicut causa particularis, fantasma autem sicut causa sine qua non, intellectus autem possibilis solum recipit et nun- quam agit -°. Da questa opinione il nostro dichiara di dissentire, non per quel che concerne le prime intellezioni, nelle quali l' intelletto possibile è totalmente in potenza, e quindi del tutto passivo, sibbene per quel che concerne le intellezioni successive, alle quali, essendo già attuato dalle prime, è in grado di concor- rere attivamente, « semper tamen virtute intellectus agentis ». Di qui la conclusione formulata piti oltre, che cioè: Intellectus ante actuationem speciei intelligibilis aliter est in potentia quam post actuationem eius 21. Dopo aver affermato l'essenziale passività dell' intelletto possibile, fra Paolo si pone nella Summa naUiralmni il quesito del rapporto da stabihre tra questo intelletto e il corpo umano, intorno al quale « tam Inter veteres quam modernos multa discrepantia fuit » ^-. E prima di tutto ricorda quod Plato posuit intellectum uniri corpori, non ut formam materie, sed ut motorem mobili, eo modo quo nauta unitur navi et intelligentia orbi, non per modum informationis, sed per con- tactum virtutis (alium) a contactu corporeo. 20 7è., ad t. e. 5, fol. 131, col. 3. Il problema fu a lungo discusso fra le varie scuole nella scolastica della decadenza, senza che ci si rendesse ben conto della sua gravità, poiché è problema che investe tutta la filosofia antica fino a Kant: come salvare l'immanenza dell'atto del conoscere, se esso ha bisogno d'una causa esterna che la produca nel soggetto conoscente ? 21 Iv., ad t. e. 8, fol. 133, col. 2. ^2 Summa naturai., V, e. 36. i PAOLO VENETO E l'aVERROISMO PADOVANO 83 Quanto ad Averroè, il nostro eremitano ne espone il pen- siero in questi termini: Secundo notandum ex intentione Commentatoris, ij de anima (comm. 5 et 36), quod corporalis natura compatitur secum spiri- tualem naturam, et non cedit ei organum fantasticum seu imagi- native virtutis, cum sit quid corporale, intellectus autem quid spirituale; organum predictum non cedit intellectui, et per con- sequens illa eadem intentio que informat virtutem imaginativam, informat intellectum materialem...; et hoc dico quia intellectus copulatur nobis per formam suam. Copulatur enim nobis per intentiones imaginatas, que sunt eedem cum intentionibus exi- stentibus in intellectu possibili; et ita unitur homini per fanta- smata intellecta in actu. Intentiones enim imaginative, per Com- mentatorem, ut informant virtutem imaginativam, plurificantur, quia sunt ibi cum conditionibus materie; sed ut informant in- tellectum possibilem fiunt una intentio in ipso, quia non recipit cum conditionibus materie. Et ideo inquit Commentator, quod copulatur nobis intellectus per continuationem intentionis in- tellecte, quia eadem est intentio informans intellectum et virtutem imaginativam 23. Siffatta interpretazione del pensiero del commentatore di Cordova anzi che da Sigieri è suggerita invece da Egidio Ro- mano, al quale il confratello veneto s'appella esplicitamente nel commento al De anima: Secunda opinio fuit Averoys dicentis quod intellectus humanus non unitur corpori ut forma, sed per fantasmata intellecta in actu. Ad quod declarandum, est notandum primo secundum eum in hoc tertio, iuxta expositionem Egidij, quod corporalis natura compatitur secum spiritualem naturam etc. -4. All'opinione d'Averroè, Paolo aggiunge quella di Giovanni di Jandun che, a mio parere, egH non ha ben compreso. Ecco ad ogni modo com'egli la riassume: Tertia opinio fuit Ioannis de ianduno dicentis quod intellectus, secundum Commentatorem, unitur corpori humano, non ut forma dans esse, sed ut motor mobili dans operari, eo modo quo unitur intelligentia orbi et nauta navi; concedens consequenter quod datur duplex homo: unus qui componitur ex corpore et anima cogitativa; et alius qui componitur ex intellectu et toto residuo; 23 Ib. 24 In libros de anima, 1. e. f. 133, col. 4. Cfr. Egidio Romano, Do intell. pass, cantra Averr., Venezia, 1500, II parte, fol. 92 col. 1-9. 84 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI quibus proportionaliter respondet duplex intelligere, scilicet universale et particulare ; homo sumptus primo modo, solum particularia intelligit; et sumptus secundo modo intelligit solum universalia ^5. A queste tre opinioni egli oppone la tesi d'Aristotele, se- condo il quale l' intelletto è vera forma sostanziale dell'uomo, cui dà essere ed operare ^6. Ma com'egli intenda il pensiero dello Stagirita su questo punto, c'è detto nella Summa naturalium '^v. Tertia conclusio : Anima intellectiva non unitur corpori humano per inherentiam. Patet tripliciter: primo quia ipsa est ingene- rabilis et incorruptibilis, iij de anima (t. e. 20) ; modo nulla forma inheret materie per transmutationem, scilicet materie que non generatur et corrumpitur, ut colligitur a philosopho, primo de genevatione, et a Commentore, in libro de substantia orbis (cap. 4). Secundo, quia intellectus est impassibilis et intransmutabilis, iij de anima; sed nulla forma inheret materie nisi per transmu- tationem et passionem. Tertio, quia anima intellectiva est indi- visibilis et impartibilis per carentiam partium integralium; nam quelibet forma inherens materie suscipit conditiones intrinsecas materie secundum quas inheret; cum ergo conditio materie, secundum quam forma inheret, sit habere partes integrales, licet non partem extra partem, quia hec est conditio quantita- tis, etc. Quarta conclusio: Anima intellectiva unitur homini substan- tialiter per informationem, ita quod est forma substantialis cor- poris humani, non solum dans operari, sicut intelligentia orbi, sed etiam esse specificum et essentiale. Probatur: differentia specifica constituens aliquam speciem sumitur a forma illius speciei, sicut apparet ex intentione philosophi, io metaphysice (t. e. 25), dicentis quod contraria consequentia materiam non faciunt differentiam in specie, sed contraria consequentia formam; modo differentia propria hominis est « rationale »; ergo sumitur a forma humana; sed «rationale » sumitur ab eo quod est intel- lectivum; ergo intellectus vel anima intellectiva est forma cor- poris humani. — Item, « rationale » ponitur in diffinitione eius non tanquam additamentum, sed tanquam differentia eius, ut ponit Porphyrius et Aristoteles ; ergo " rationale » est de essentia hominis; sed nihil est per se rationale nisi per aniinam intellecti- ^5 Ib., fol. 134, col. I, cfr. Sigieri, pp. 100-102. -6 Ib., fol. 134, col. 1-2: «Quarta opinio fuit Aristotelis dicentis in- tellectum esse veram formam substantialem hominis.... Ideo est di- cendum cum Aristotele et alijs perypateticis veris, quod intellectus est iorma substantialis hominis, dans sibi esse et operari ». ^7 Parte V, cap. 36. PAOLO VENETO E l'aVERROISMO PADOVANO 85 vam; ergo etc. Unde ex diffinitione anime data a phylosopho, ij de anima, convincitur hanc conclusionem esse de intentione sua. Arguitur enim sic: Anima intellectiva secundum ipsum est anima; ergo «est actus primus corporis »; patet consequentia a dififinito ad diffinitionem ; ergo est forma substantialis; patet consequentia secundum phylosophum, ij de anima (t. e. 6), eo quod actus primus est forma substantialis corporis; et nonnisi corporis humani; ergo etc. — Deinde anima intellectiva est illud «quo primo intelligimus »; ergo est forma substantialis hominis; patet consequentia, quia non est alia ratio ad probandum ani- mam vegetativam esse formam substantialem corporis vege- tantis, et animam sensitivam esse formam corporis sensitivi; ergo etc. L'anima intellettiva dunque è, sì, forma dell'uomo, in quanto gli dà l'essere e l'operare di uomo, ma non perché sia inerente al suo corpo alla stessa maniera delle altre forme naturali. Su questa differenza Paolo Veneto ritorna anche nel commento al De anima -^: Intelligenda est differentia inter informare et inherere: quo- niam informare est dare alteri esse actuale et hoc dicit perfectio- nem in forma, imperfectionem in materia, quia dare dicit perfectio- nem; sed inherere est ab alio sustantificari, et hoc dicit perfectio- nem in materia et imperfectionem in forma, quoniam sustanti- ficare dicit perfectionem, et sustantificari imperfectionem dicit, scilicet dependentiam a subiecto. Ex isto notabili..., sequitur quod anima intellectiva, licet informet corpus humanum, non tamen inheret illi, quia non dependet ab eo; quocumque enim tali corpore dato, ante illud fuit et post illud erit anima intellectiva, cum illud generetur et corrumpatur, anima autem intellectiva sit eterna.... Ouatuor rationibus arguitur animam intellectivam non inherere materie; quarum prima est ista: anima intellectiva non educitur de potentia materie; ergo sibi non inheret.... Se- cunda ratio: anima intellectiva est prior materia; ergo non inheret illi.... Tertia ratio: anima intellectiva est impassibilis et intransmu- tabilis; ergo non inheret materie.... Quarta ratio: anima intellectiva est indivisibilis et inpartibilis per carentiam partium integralium, secundum philosophum et commentatorem, in hoc tertio (t. e. 6) ; ergo non inheret materie. Anima sensitiva o cogitativa ed anima intellettiva son dunque, per il maestro padovano, due forme totali che costi- tuiscono l'uomo nella sua natura di animale ragionevole. Ma pur essendo due forme distinte, sono unite da un intimo ^^ In libros de anima, III, ad t. e. 6, f. 132, col. 2-3. 86 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI legame talmente stretto, che l'una è fatta per l'altra e l'una completa l'altra. Per questa ragione il Nifo, più che due anime le diceva 29 due semianime costituenti, per la lo- ro sostanziale unione, una sola anima umana; che è an- che il pensiero di Dante, il quale ad esprimerlo si serve della immagine del « calor del sole che si fa vino, giunto all'omor che dalla vite cola » 30. La tesi di fra Paolo è dunque identica in sostanza alla tesi professata da Sigieri nel trattato in ri- sposta a quello dell' Aquinate contro gli averroisti ; ma d'ac- cordo col brabantino il maestro padovano non è nella pretesa d'attribuire questa tesi al commentatore di Cordova; anzi egli riconosce che è vero il contrario: Cominentator tamen diceret intellectum per se subsistere, et ipsum non uniri materie ut formam; sed non sui ipsius {sic, leggi: sum ipsius) opinionis 3'. Ma se il nostro eremitano dissente da Sigieri su questo par- ticolare, non dissente affatto da lui nel ritenere che, pur es- sendo forma dell'uomo, l' intelletto possibile è unico per tutti gli uomini. E nella Summa naturalium 32 ritiene sia questo il pensiero non soltanto d'Averroè, bensì quello d'Aristotele: Unde secundum philosophum, primo et tertio de anima, na- tura nihil facit frustra et non abundat in superfluis, nec deficit in necessariis; cum igitur natura alicui speciei non dederit nisi unum individuum, et alteri plura, hoc est ideo, quia una species in uno individuo potest se perpetuo preservare, et non alia; ut species angelica que perpetuo preservatur in una intelligentia, et non species humana; sed ita est quod species anime intellective potest se preservare perpetuo in uno individuo, quia anima in- tellectiva est perpetua et eterna sicut aliqua intelligentia celestis, ergo frustra et preter intentionem nature ponuntur plures anime intellectuales solo numero differentes. — Item, intellectus venit de foris, secundum philosophum, xvj libro de animalibus: aut ergo per creationem, iuxta opinionem fidei; aut per motum a corporibus celestibus, iuxta opinionem Platonis; aut per introitum unius corporis, aliud relinquendo, iuxta opinionem Pictagore; aut per novam actuationem unius corporis humani, aliud non relinquendo: nullus trium priorum modorum potest assi- gnari, quia intuenti libros Aristotelis notum est ipsum oppositum 29 Vedi Sigieri... nel pens., pp. 13-20. 30 Purg., XXV, 76-78. 31 In libros de anima, 1. e. fol. 132, col. 3. 32 Parte V, cap. 37, fol. 88, col. 3. PAOLO VENETO E l'aVERROISMO PADOVANO 87 opinari; ergo est dare quartum modum; et cum in eodem corpore non possint esse plures anime intellective simul, secundum omnes opiniones, sequitur quod unicus est intellectus in omnibus homi- nibus secundum intentionem Aristotelis. E più oltre: Quarta conclusio: Intellectus non numeratur numeratione individuorum, sed est unicus in omnibus hominibus. Probatur: pluralitas individuorum in eadem specie non est nisi per mate- riam, per philosophum, j celi (t. e. 92), vij et xij metaphysice (VII, t. e. 28; XII, t. e. 49), ubi probat quod non possunt esse plures intelligentie separate solo numero differentes, per hoc medium : quecunque conveniunt in eadem specie et differunt numero, habent materiam; sed anima intellectivam non habet materiam scilicet ex qua, nec in qua per inherentiam; ergo etc. Unde arguitur sic: anima intellectiva est ingenerabilis et incor- ruptibilis, iij de anima (t. e. 20), et non contingit dare multitu- dinem infinitam, j celi (t. e. 68) et iij physicorum (t. e. 40), et species sunt eterne, j posteriorum (t. e. 56) et vii] physicorum (t. e. 57); ergo unica est anima intellectiva omnium. Patet con- sequentia, quia, si anima intellectiva mutatur mutatione indivi- duorum speciei humane, aut ergo per generationem et corruptio- nem, ut posuit Alexander, et hoc non, quia repugnat prime parti antecedentis ; aut per multiplicationem finitam animarum re- cedentium et advenientium, ut posuit Plato vel Pictagoras, et hoc iterum non, quia omnes sciunt oppositum scripsisse Aristo- telem; aut per generationem vel creationem et incorruptibili- tatem, ut ponit fides, et hoc iterum non, quia repugnat secunde et tertie parti antecedentis; ergo oportet dare unicum intellectum in omnibus hominibus, secundum opinionem et intentionem Ari- stotelis. La stessa tesi Paolo Veneto sostiene anche nell'esposizione del De animaci, ma con una piccola variazione: nella Summa, la teoria dell'unico intelletto in tutti gli uomini è detta sen- 33 In libros de anima. III, ad t.c. 5, fol. 130, col. 3: « Secundo notan- dum, secundum Commentatorem, eodem commento, quod Illa natura (intellectus) non est hoc aliquid, nec corpus nec virtus in corpore, quo- niam, si ita esset, tunc reciperet formas secundum quod sunt diverse et individuales; et si ita esset, tunc forme existentes in illa essent in- tellecte in potentia, et sic non distingueret naturam formarum secun- dum quod sunt forme, sicut est dispositio in formis individualibus, sive in spiritualibus sive in corporalibus. Intentio commentatoris est, quod intellectus humanus non sit aliquid singulare vel individuum, ex quo non est corpus nec virtus in corpore; quoniam materia est ratio individuationis, a qua separatur intellectus humanus sicut et quelibet intelligentia celi. Tria ergo inconvenientia adducit, concesso quod intellectus sit hoc aliquid. Primum inconveniens est, quod intellectus 88 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI z'altro rispondere al pensiero d'Aristotele « iuxta impositionem Commentatoris » ; nel commento invece è presentata sempli- cemente come « intentio » e « opinio Commentatoris » : segno che sul vero pensiero d'Aristotele s'era forse affacciato qualche dubbio alla mente del maestro padovano. Un'altra tesi tipica di Sigieri consiste, come sappiamo, nel ritenere che l' intelletto agente, tanto per Aristotele quanto per il suo commentatore arabo, sia Dio. Nella Summa naturalium 34, fra Paolo ritiene: quod intellectus agens et possibilis non separantur ab anima intellectiva, sed sunt differentie illius non substantiales..., sed accidentales.... Intellectus agens est coniunctus anime intellective per inherentiam et fantasmatibvis per presentiam et indistantiam. Per altro nella risposta « Ad primum (argumentum) » egli accenna anche alla tesi di Sigieri, ma senza aderire ad essa: Commentator autem vult intellectum possibilem esse essen- tiam anime intellective, et intellectum agentem esse primam cavi- sam, vitaliter immutantem ipsum intellectum possibilem; sed hanc opinionem non teneo ad presens. Invece, quando scriveva l'esposizione al De anima, egli era ormai convinto che la tesi di Sigieri fosse la sola vera, non soltanto dal punto di vista della filosofia aristotelica, ma al- tresì da quello teologico: Dubitatur, si intellectus agens et possibilis differunt tam inter se quam ab assentia anime, utrum sint substantie vel accidentia. In hac materia fuerunt quatuor opiniones. Prima fuit Avi- cenne et Algacelis, dicentium intellectum agentem et possibilem esse substantias invicem separatas loco et subiecto, ita quod se- cundum eum {sic) intellectus possibilis est forma hominis, et intellectus agens est decima intelligentia appropriata decime spere, a qua nostra felicitas dependet; sicut ergo iste unus sol non reciperet nisi formas individuales et secundum quod sunt diverse... Secundum inconveniens: quod species intelligibiles essent intentiones intellecte in potentia et non in actu; quod est falsum, cum sint univer- sales et depurate a conditionibus materialibus.... Tertium inconve- niens: quod intellectus non poneret differentiam inter formas univer- sales et singulares, sive ille forme corporales sive spirituales ». E dopo aver riferite quattro obiezioni « contra commentatorem », comincia la sua risposta con queste sintomatiche parole: « Responsurus prò opinione Averroys, dico...... 34 Parte V, cap. 38, fol. 89, col. 1-4. PAOLO VENETO E L AVERROISMO PADOVANO 09 totum universum illuminat, per cuius illuminationem possunt omnes oculi videre, sic, dicebant illi, est aliqua una substantia separata irradians super fantasmata omnium hominum, per cuius irradiationem possunt omnes homines intelligere. Hec opinio est in parte defectuosa, quia postquam intellectus factus est in actu nos intelligimus quandocumque volumus, secundum quod posuit supra Commentator et habetur ad expe- rientiam; sed talis substantia separata non videtur irradiare supra fantasmata quandocunque volumus, sicut nec sol illuminat oculum quandocunque volumus; cum ergo non intelligamus absque intellectu agente, ergo intellectus agens non est talis intelligentia separata 35. Siffatta critica della tesi d'Avicenna, ci fa presentire come la pensi il nostro su quest'argomento: se invece di identifi- care r intelletto agente colla decima intelligenza celeste, che è r infima delle intelligenze separate, Avicenna l'avesse iden- tificato con Dio, questo certamente irradia della sua luce i fantasmi « quandocumque volumus ». Il difetto insomma di questa teoria consiste nell'avere identificato l' intelletto agente con un intelletto particolare, anzi che con un intel- letto veramente universale. Dopo di che, Paolo Veneto espone e critica come seconda opinione quella d' Egidio, di S. Tommaso e di tutti quegli antichi scolastici che ritenevano l' intelletto possibile ed agente facoltà accidentali dell'anima. La terza opinione, da lui ri- ferita parimente rifiutata, è quella di Giovanni Eucliph, ossia Giovanni WycHf, il cui ricordo doveva essere ancora ben vivo a Oxford, quando vi giunse il nostro eremitano 56. Indi prosegue: 35 In libros de anima, III, ad t. e. 19, fol. 142, col. 4. 36 La terza opinione è così riassunta (fol. 142, col. 4-143, col. i): « Tertia opinio fuit Ioannis Eucliph dicentis intellectum possibilem et intellectum agentem esse potentias anime inteUective, non tamen esse substantias nec accidentia; sicut enim dicunt theologi quod pater, filius et spiritus sanctus sunt tres persone realiter distincte, non tamen tres substantie nec tria accidentia, sed una substantia que est deus, ita intellectus agens et intellectus possibilis et voluntas sunt tres po- tentie realiter distincte, non tamen tres substantie, nec tria accidentia, sed una substantia que est anima intellectiva ; et sicut pater non est filius, nec spiritus sanctus, et tamen est ille idem deus qui est filius et spiritus sanctus, ita intellectus agens non est intellectus possibilis nec voluntas, et tamen est intellectus agens illa eadem anima intel- lectiva numero, que est voluntas et intellectus possibilis. Opinio ista non est tenenda phylosophice nec theologice » etc. 90 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Quarta opinio, que tenenda est, fuit Aristotelis ponentis in- tellectum agentem et possibilem esse virtutes et potentias anime non subtantiales nec accidentales, sed intellectum possibilem esse accidens proprium et inseparabile anime intellective, quo recipit omnes formas speculativas, sicut materia prima per suam accidentalem potentiam recipit omnes forinas naturales. Intel- lectuin vero agentem voluit esse substantiam primam, coniunctam intellectui possibili non per modum forme informantis nec inhe- rentis, sed per modum forme et habitus presentis et indistantis; nec aliqua intelligentia, preter primam que deus est, potuit esse intellectus agens, quia, sicut potentialitati prime materie respondet actus purissimus in quo sunt active omnes forme naturales que sunt in prima materia passive, ita potentialitati anime intellective competere (correspondere ?) agens primum, in quo sunt effective omnes forme speculative, que passive sunt in anima intellectiva, mediante intellectu possibili 37. Si enim aliqua intelligentia depen- dens esset intellectus agens, per istam non posset intellectus pos- sibilis intelligere primam causam, quia intellectus agens abstrahit intellecta et agit ea, secundum Commentatorem ; modo nulla intelligentia inferior potest abstrahere causam primam nec in illam aliquo modo agere, ratione independentie (suedependentie ?) et imperfectionis. Et hec opinio non solum est physica, sed etiam a theologis tenetur. Nel commento al De anima, dunque, ogni riserva è sciolta, e fra Paolo giudica la dottrina che identifica l' intelletto agente colla causa prima, cioè con Dio, non soltanto conforme al pensiero d'Aristotele e d'Averroè, ma senz'altro vera in se stessa e tenuta dai filosofi, non meno che da non pochi teologi. La tesi di Sigieri, intorno alla quale aveva avuto dei dubbi, aveva finito per prendere il sopravevnto nel suo animo. Altrettanto non possiamo dire d'un'altra tesi del braban- tino, strettamente connessa con quella che concerne l' intel- letto agente, la teoria cioè della beatitudine per mezzo del congiungimento della mente umana coli' intelletto divino. Su questo punto Sigieri aveva fatta sua l' interpretazione che il Commentatore di Cordova, nella celebre digressione inserita nel commento 36 del III libro De anima, dava del 37 Allo stesso modo per Dante, Conv., IV, xxi, 5, l'anima in vita tratta per virtù celestiale dalla potenza del seme, « incontanente pro- dutta, riceve da la vertù del motore del cielo lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato da la prima Intelligenza è ». Sul qual passo, cfr. B. Nardi, Dante e la cultura medievale, pp. 267 sgg., e Giorn. Crit. filos. Hai., XIII, 1933, pp. 54-56. PAOLO VENETO E l'aVERROISMO PADOVANO QI pensiero d'Aristotele. Anche l'eremitano sa bene come la pensasse Averroè : Commentator autem dicit iij de annna (t. e. 5 et 36), quod, cum intellectus possibilis fuerit intellectus adeptus, idest actuatus omnium specierum materialium, intelligit intellectum agentem per essentiam propriam 38. Ma neppur questa volta egli è dell'avviso dell'arabo; e postosi il quesito « Qualiter intellectus noster intelligit sub- stantias separatas », lo risolve affermando che l' intelletto umano conosce le sostanze immateriali « non per se et directe, sed indirecte et reflexe per cognitionem motus celi» 39. Così nella Summa naturalium. Ma nell'esposizione del De anima è anche più esplicito, se fosse possibile. Postosi di nuovo il problema « Utrum intellectus possit intelligentias separatas cognoscere », fa questa osservazione che è presa alla lettera dal commento di S. Tommaso: Istam questionem non solvit hic philosophus, dicens se deter- minaturum alibi, scilicet in libro metaphysice...; hec questio tamen non invenitur soluta per ipsum, quia complementum illius scientie nondum ad nos pervenit, vai quia nondum est totus liber translatus, vel forte morte preoccupatus librum non complevit 40. Ciò non di meno egli espone qual fosse il pensiero d'Averroè e in che differisse da quello degli altri interpreti della dottrina d'Aristotele. Ma giunto alla fine della discussione, egli ci fa sapere « quod hec opinio iam non tenetur a theologis vel phi- losophis », e ripete « quod intelligentie separate cognoscuntur ab intellectu possibili non per se et directe..., sed indirecte et reflexe per cognitionem motus celi » 41. Da quanto precede, mi pare risulti in modo da non lasciar dubbio, che Paolo Nicoletti, quando nel 1408 insegnava a Padova, aveva od aveva avuto tra mano per lo meno lo scritto di Sigieri in risposta al trattato tomistico De unitale intel- lechis. Questa e verosimilmente altre opere del brabantino circolavano già fra i maestri dello studio padovano, o fu il 38 Summa naturai. ,Y, e. 41, f. 91, col. 3. 39 76., cap. 42, f. 92, col. i. 40 In libros de anima. III, ad t. e. 36, fol. 152, col. i, Cfr. S. Tom- maso, De anima, III, lez. 12. 41 Ib., fol. 153, col. I. 92 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI nostro eremitano a portarvele, forse da Oxford o da Parigi ? Non saprei che dire, perché tanto l'una che l'altra suppo- sizione, in mancanza di dati sicuri, è ugualmente ammissibile. Ulteriori ricerche nella letteratura manoscritta concernente i maestri che professarono a Padova e a Bologna nei secoli XIV e XV, potranno gettare qualche luce sulle correnti d' idee che fervevano in quei due centri d'intensa vita intellettuale 4^. Per il momento, a noi basti di ricordare quel maestro Taddeo da Parma, il quale insegnava a Bologna intorno al 1320, e che nel suo commento al De anima accoglieva la tesi difesa da Sigieri nelle Quaestiones de anima intellectiva'iì. Ma Taddeo, più che l'opera del brabantino sembra aver letto le Quae- stiones di Giovanni di Jandun, le quali ebbero in Italia dal secolo XIV al XVI la più larga diffusione e furono trascritte e stampate in parecchie edizioni, discusse con vivacità e qualche volta fraintese. Fraintesa in particolare sembra es- sere stata da Paolo Veneto, e da altri la dottrina intorno al modo come l'anima intellettiva è forma del corpo, la quale, come già sappiamo è in sostanza quella di Sigieri, cui espHci- tamente accennava. Il bisogno di togliere alla dottrina aver- roistica quello che essa aveva d'eretico, dopo che il concilio di Vienne aveva definito esser l' intelletto forma del corpo umano, dovette invogliare gli averroisti italiani a procurarsi quegli scritti nei quali Sigieri s'era difeso contro le obiezioni di S. Tommaso, e nei quali, senza rinunziare alla tesi dell'unico intelletto avea tentato di dimostrare com'esso s'unisse al- l'uomo con tale intimo e sostanziale legame, da potersi dire forma dell' individuo umano cui s'attribuisce l'atto dell' in- tendere. L' insegnamento di Paolo Nicoletti a Padova è una inequivocabile testimonianza che gli scritti di Sigieri non erano ignoti. Un'altra cosa questo insegnamento ci attesta: che la dot- trina averroistica poteva esser liberamente discussa ed esposta a Padova, fin dal primo decennio del secolo XV, senza che chi se ne faceva sostenitore incorresse nella taccia d'eretico; tanto vero che frate Paolo non sente neppure il bisogno di 42 Cfr. sotto, il saggio XI. 43 Cfr. Sofia Vanni Rovighi, Le Quaestiones de anima di Taddeo da Parma. Testo e introduzione. Milano, Soc. Ed. « Vita e pensiero », 195 I, P- 35 sgg. l'AOLO VENETO E L'AVERROISMO PADOVANO 93 ripetere la solita formale protesta, che altri averroisti avevano cura di non omettere, cioè che essi trattavano dallo spinoso argomento come filosofi e non come teologi. E forse perché gli averroisti padovani usavano senza parsimonia di questa libertà, il vescovo Barozzi d'accordo coli' inquisitore locale proibì « quovis quaesito colore » le dispute intorno all'unità dell' intelletto. Ma il divieto riguardava la diocesi di Padova, e non, per esempio, Bologna e Pavia, ove si continuò a dispu- tare con grande spregiudicatezza. IV LA MISCREDENZA E IL CARATTERE MORALE DI NICOLETTO VERNIA * Non mi stancherò mai dal ripetere, per coloro che han l'animo sgombro da pregiudizi, che una vera e propria dot- trina della « doppia verità » nel medio evo e nel Rinascimento non fu mai sostenuta da alcuno '. Molti invece furon quelli che, contro il concordismo tomistico, posero in rilievo l'oppo- sizione di fatto fra la teologia e la filosofia, ' intendendo per filosofia la dottrina della natura congegnata in sistema da Aristotele, detto perciò il « filosofo « per eccellenza, e svilup- pata dai suoi commentatori greci ed arabi. Il primo a rendersi conto, in modo chiaro ed esphcito, di questa opposizione, fu Alberto Magno. Il quale, non solo dichiarava apertamente che « theologica cum physicis principiis non conveniunt » -, ma giungeva fino a sostenere, non doversi far caso dei miracoli che Dio opera oltre il potere della natura, quando si tratta di conoscere quello che è il corso degli eventi naturali 3. Perciò, egli che s'era proposto « totam Aristotelis scientiam prò.... viribus explanare », dichiarava di rifuggire dall' interpreta- zione che del pensiero aristotelico davano i dottori latini: « quoniam in istarum quaestionum determinatione omnino * Dal «Giorn. Crit. di Filos. Ital. », XXX, 1951, pp. 103-118. 1 Vedasi quanto ho detto sopra, pp. 55-58, 71-75, e in Dante e la cultura medievale, 2* ed. Bari, Laterza, 1949, pp. 208-209, nonché quanto ne ha scritto E. Gilson, Etudes de philos. médiév., Strasbourg, 1921, PP- 5i'75; id., Dante et la philosophie, Paris, 1939, p. sgg. 2 A. Magno, Metaphys., XI, tr. 3, e. 7. 3 A. Magno, De gener. et corrupt., I, tr. i, cap. 22, ad t. e. 14. Cfr. la mia nota La posizione di Alberto Magno di fronte all'averroismo, in « Riv. di Storia d. Filos. », II, 1947, p. 197 sgg. q6 l'aristotelismo padovano dal SFXOLO XIV AL XVI abhorremus doctorum latinorum verba » 4 ; fra i quali è sicu- ramente il suo confratello italiano, frate Tommaso d'Aquino 5. La pretesa « teoria della doppia verità » non fu dunque una « teoria « né una « dottrina », ma la semplice constata- zione del disaccordo o contrasto fra la filosofia aristotelica e il pensiero cristiano. Ed era perfettamente logico che gli esposi- tori del pensiero aristotelico diffidassero dei tentativi concor- distici di Tommaso e d'altri teologi, e preferissero attenersi neir interpretazione d'Aristotele ai principii fondamentali della sua metafisica, senza preoccupazioni teologiche, sia che le conclusioni cui giungevano s'accordassero o no coi dogmi della fede, avendo per altro cura di dichiarare che quello che affermavano come filosofi, cioè come interpreti d'Aristotele, non riguardava né intaccava la verità di fede, cui essi prote- stavano di credere come fa ogni buon cristiano 6. Dal punto di vista logico e oggettivo, questo atteggiamento degli averroisti era perfettamente coerente e non impHcava in sé niente di contradittorio, e tanto meno costituiva quel- l'eresia che Tommaso d'Aquino e alcuni altri teologi vi scor- sero. Il che compresero bene non pochi altri teologi ai quali il tenta- tivo tomistico di cristianeggiare la filosofia aristotelica, per an- corare ad essa il dogma, non parve né di buon gusto né di 4 A. Magno, De anima, III, tr. 2, e. i, ad t. e. 2 ; La posizione d'A. M., p. 215. Il Pomponazzi, che rifugge del pari da questo « fratrizzare, idest miscere diver.-a brodia » [Phys. Vili, t. e. 76, Bibl. Nation. di Pa- rigi, cod. lat. 6533, f. 568r), loda anche lui Alberto Magno, perché a dif- ferenza degli altri «fratres omnes», cioè d'Egidio, di Tommaso, di Scoto e di Gregorio da Rimini, s'è astenuto dal « frateggiare », mescolando filosofìa e teologia. Sicché « isti fratres truffadini, dominichini, fran- ceschini vel diabolini habent bene rationem comburendi Albertum, quia omnes questiones sunt contra fìdem nostram licet dicat in fine, quod ita dicit quia ut philosophus loquitur, et philosophica non sunt miscenda cum theologicis; et dicit quod in theologia aliter sentit; et dicit quod est fatuum miscere eredita cum physicis; me autem vellent comburere» {Phys., Vili, t. e. 85. Arezzo, Fraternità de' Laici, m. 389, f. 317»'. Cfr. cod. Parig. cit., f. 584^). 5 Cfr. il mio articolo Alberto Magno e S. Tomìiiaso, in « Giorn. Crit. d. Filos. Ital. », XXII, 1941, p. 36 sgg., e La posiz. di A. M., pp. 200, 210, 219. 6 Non va confusa con questa tesi la dottrina, svolta più tardi da Gior- dano Bruno, e anch'essa d'origine averroistica, la quale attribuisce alle « verità di fede » un valore puramente pratico, che il filosofo accetta solo come tale. Dell'origine e dello sviluppo di questa teoria ho parlato n «Giorn. Crit. d. Filos. Ital.», XXX, 1951, p. 363 sgg. J MISCREDENZA E CARATTERE DI NICOLETTO VERNIA 97 buon augurio. E in particolare lo compresero gì' inquisitori che sorvegliavano con occhio sospettoso le manifestazioni dell'eretica pravità. A questi ultimi importava mediocremente di sapere come la pensassero Aristotele e Averroè sull'eternità del mondo o sull'unione dell'intelletto all'uomo: essi invece volevano essere rassicurati sui sentimenti personali dei com- mentatori cristiani d'Aristotele intorno a questi argomenti. E per esserlo, bastaron loro, a quanto pare, le pubbliche di- chiarazioni che, neir insegnamento e nei loro scritti, gli ari- stoteli si facevano premura di non dimenticare. Ciò spiega come l'averroismo e l'alessandrismo abbiano potuto avere una vita abbastanza florida sino alla fine del secolo XVI; e com'essi fossero apertamente professati a Pa- dova, a Bologna ed altrove senza che per questo corresse sangue, come fantasticava Francesco Orestano 2. Ch' io sappia, neppure una goccia ne fu versato, a meno che non fosse dal naso nell'ardor delle dispute. E nella libera discussione, entro e fuori le aule universi- tarie, a Padova e a Bologna, e non per editti restrittiva, l'ari- stotelismo nelle sue varie tendenze esaurì la propria vitalità, quando si comprese che i problemi da esso posti erano inso- lubih, per esser mal posti. Ma, intanto, quella che s'usa chia- mare « dottrina della doppia verità », aveva ottimamente compiuto la sua funzione storica, di assicurare un'assai ampia libertà d' indagine e di critica, di cui il pensiero del Rinasci- mento s' è avvantaggiato ^. A questo punto nasce per altro un dubbio perfettamente legittimo e stimolante: erano poi sinceri, averroisti e alessan- dristi, quando dichiaravano di limitarsi ad esporre quello che, a loro avviso, era il pensiero d'Aristotele, ossia la « ve- rità filosofica », senza aderirvi, ma anzi ripudiandola, e di credere alla verità della fede ? oppure si beffavano in cuor loro degli inquisitori, mettendosi al riparo, per mezzo di quelle dichiarazioni, contro le pene canoniche comminate agli eretici ? Un dubbio siffatto solleva problemi delicati, di difficilissima 7 Riesame della « Beatrice svelata », in « Studi su Dante », IV, Milano, Hoepli, 1939, p. 24; cfr. il mio voi. Nel mondo di Dante, Roma, 1944, PP- 355-56. 8 B. Nardi, Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, pp. 89-90. Si veda anche la voce Averroismo nel II voi. déW' Enciclope- dia Cattolica. 9» L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI soluzione. Intanto si deve constatare che, in generale, gì' in- quisitori si mostraron piuttosto propensi a credere alla sin- cerità di quelle dichiarazioni e a lasciare che, nel foro inte- riore, ognuno s'aggiustasse con Dio come meglio credeva. Non tutti, però: che noi sappiamo della citazione di Sigieri, di maestro Bernieri di Nivelles e di maestro Gosvino de la Chapelle da parte dell' inquisitore di Francia, il 23 novem- bre 12769; del processo intentato a Biagio Pelacani, maestro a Pavia, dal vescovo di questa città, il 16 ottobre 1396 '°; e dell'editto emanato il 6 maggio 1489 dal vescovo di Padova e dall' inquisitore del luogo, col quale si vietava ai maestri e agli scolari ogni pubblica disputa intorno alla dottrina averroistica dell' intelletto. Quanto al primo caso, sappiamo tuttavia che Sigieri e i compagni interposero appello alla curia papale avverso la sentenza dell' inquisitore di Francia, né risulta che questa fosse confermata. Il processo contro Biagio Pelacani dev'essere stato motivato da espressioni veramente ardite « contra fìdem catholicam et sanctam ec- clesiam », come quelle che s' incontrano nelle Quaestiones sul De anima conservateci nel Codice Chigiano O. IV. 41, e discusse nel 1385 quando Biagio insegnava a Padova ". Il maestro si dichiarò « male contentus » del linguaggio da lui tenuto, e dopo aver chiesto perdono « de commissis », il ve- scovo di Pavia « restituit eum ad lecturam et salarium so- lita » 12. L'editto invece di Pietro Barozzi, vescovo di Padova, e dell' inquisitore fra Martino da Lendinara merita più lungo discorso. Insegnava allora nello studio padovano, come lettore or- dinario di filosofia naturale, Nicolò Vernia da Chieti, che per la sua piccola statura era chiamato ed egli stesso si firmava Nicoleto, come Pietro Pomponazzi, suo alunno, sarà detto, per la stessa ragione, il Pereto (Nicoletto e Perette son forme italianizzate della schietta forma dialettale padovana Nicoleto e Pereto). Addottorato in filosofia naturale a Padova il 30 maggio 1458, dopo avere studiato la logica a Venezia sotto 9 Cfr. Riv. di Storia d. Filos., 1947, P- 120 sgg. 1° Anneliese Maier, Die Vorlàufer Galiìeis in 14. Jahrhundert, Roma, 1949, p. 279. " Ib., pp. 280, 285, 288 sgg. 12 Ih., p. 279. MISCREDENZA E CARATTERE DI NICOLETTO VERNIA QQ Paolo dalla Pergola, occamista, e la filosofia nello studio pa- tavino sotto Gaetano da Thiene, averroista, conseguì da veccliio anche la laurea in medicina, il 29 dicembre 1496. Nell'ottobre 1468, quando successe a Gaetano da Thiene come ordinario di filosofia naturale, doveva trovarsi sulla quarantina, se nel testamento fatto il 3 agosto 1499, due mesi prima della morte, accenna alla sua età decrepita. In questo testamento, pubbUcato da P. Ragnisco ^3, accade di leggere una dichiarazione, nella quale il testatore, nell' im- minenza della morte che sentiva avvicinarsi, vuol purgarsi dell'accusa che pesava su di lui, d'aver fatta sua la dottrina averroistica dell'unità dell'intelletto: Ego Magister Nicoletus Vernias Theatinus antedictus, publice legens in florentissimo Gymnasio Patavino ordinariam philoso- phiam naturalem sine aliquo concurrente, quam legi per annos triginta tres elapsos, ac disputavi ac tenui quod opinio unitatis intellectus Averrois fuerit opinio AristoteHs, et post niultos annos, duni vidissem et graecos et arabes doctissimos, repperi non solum dictam opinionem alienam esse a fide nostra et veritate, sed etiam ab intellectu AristoteHs, prout in quadam mea quaestione intulata Reverendissimo Dominico Grimani ad plenum declaro; et hoc feci prò removendo nialas opiniones, qiias /orlasse habnerunt auditores mei; nani Deum testor quod numquam credidi tali opi- nioni, et cum sim in aetate decrepita, et considerans quod oinnes morimur secundum naturalem cursum, et videns incertitudinem temporis, diei et horae, et deliberans disponere supra rebus meis, ut possim consequi vitam aeternam in altera vita promissam bonis iuxta legem nostram, et, prout in supradicta quaestione declaravi, etiam iuxta opinionem philosophorum hic non potest esse vita beata, sed tantum misera.... m. Fra coloro che s'eran formata una cattiva opinione di maestro Nicoleto, oltre ad alcuni suoi scolari, era certamente anche il vescovo Pietro Barozzi'S. Fine spirito d'umanista e, come molti 13 Documenti inediti e rari intorno alla vita ed agli scritti di Nicoletto Vernia e di Elia del Medigo, in « Atti e memorie dell'Accad. di Scienze Lettere ed Arti in Padova », Anno 292 (1890-1891), N. S., voi. VII, disp. 3», p. 280. 14 E cosi, a che serviva tutta la sua speculazione filosofica intorno alla copulatio o continiiatio dell' intelletto possibile con l' intelletto agente, in cui avrebbe dovuto consistere la felicitas dell' Etica Nico- machea in questa vita ? 15 Intorno al quale è da vedere 1' introduzione di Franco Gaeta, Il Vescovo di Padova P. Barozzi e il trattato « De factionibus extinguendis. Fondazione Cini, Venezia-Roma, 1958. lOO L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI patrizi veneziani suoi contemporanei, animato di religioso ardore, il Barozzi fu vescovo di Padova dal 1478 alla sua morte nel 1507. Pastore di anime e maestro di vita cristiana in una città dotta, sede d'un rinomato studio al quale affluivano scolari da tutte le parti d' Italia e d'oltralpe, non potè mo- strarsi indifferente alle rumorose dispute la cui eco si dif- fondeva lontano. Quel battagliare intorno al vero pensiero d'Aristotele, del suo commentatore arabo e degli interpreti greci, gli pareva che inaridisse le sorgenti della vita e del pensiero cristiano. Inoltre, l'accanimento che molti dei di- sputanti mettevano nel sostenere le interpretazioni d'Ari- stotele più lontane dal comune modo di pensare dei cre- denti, doveva alimentare in lui il sospetto, suscitato da voci che correvano, che qualche maestro dello studio patavino, mentre si dava l'aria di essere un semplice espositore della dottrina peripatetica, in realtà avesse finito per farla sua propria fino a negare i premi e le pene nella vita futura. L'editto episcopale e inquisitoriale, pubblicato nelle scuole di Padova il 6 maggio 1489, dopo aver citato alcuni passi scritturali, proseguiva: Et rursum [memores] eorum que ad Colossenses magis ad rem de qua in presentiam agimus accomodate scribit [Apostolus], dicens : ' Videte ne quis vos decipiat per philosophiam et inanem fallaciam secundum traditionem hominum, secundum elementa mundi et non secundum Christum '. Et scientes sic Inter disputan- dum solere animos perturbar!, ut interdum homines quod falsum esse sciebant, prò vero suscipiant et defendamt.... Volentesque ut et hi qui philosophiam discunt, sic discant ut christianam philosophiam, que longe omnium prestantissima est, non dedi- scant, et hi qui docent, dum se philosoplios esse meminerunt, non obliviscantur se etiam christianos existere, ac venena disputa- tionum malarum iuxta epulas philosophice discipline non ponant.... Et postremo existimantes eos qui de unitate intehectus disputant ob eam potissimum causam disputare quod, sublatis ita tum premiis virtutum tum vero supphciis vitiorum, existimant se liberius maxima queque flagitia posse committere: mandamus ut nullus vestrum, sub pena excomunicationis late sententie quam si contrafeceritis incurratis, audeat vel presumat de uni- tatis intehectus quovis quesito colore publice disputare ^^. Non si trattava, com' è chiaro, della scomunica lanciata personalmente contro il Vernia, che della dottrina dell'unità 16 Ragnisco, Documenti, pp. 278-279. MISCREDENZA E CARATTERE DI NICOLETTO VERNIA lOI dell' intelletto era, in quel momento a Padova, il piìi risoluto assertore; ma di un provvedimento che riguardava lui ed altri, e che sopratutto denunciava una pericolosa moda d' in- sincerità e doppiezza che s'andava affermando ed era nociva non meno al costume morale che alla pietà religiosa. Può darsi che, vietando ogni discussione sull'argomento dell'unità dell' intelletto, il Barozzi e frate Martino abbiano spiegato uno zelo eccessivo ; ma la mala opinione che gli alunni avevano concepito di taluni maestri e le voci che sul conto di essi cor- revano, giustificano almeno in parte il severo ammonimento. Poiché a questo in fondo si ridusse l'editto episcopale; né si sa che esso desse luogo a processi, né che alcun maestro fosse ridotto al silenzio. Anzi è noto, al contrario, che Pietro Trapolino, alunno di Nicoleto, continuò a professare pubbli- camente il suo moderato averroismo anche dopo la promul- gazione dell'editto. E lo stesso fecero altri. Due soltanto, eh' io sappia, s'affrettarono a cambiare in- dirizzo ai loro pensieri e a recitare la loro palinodia: Agostino Nifo da Sessa e Nicoletto Vernia da Chieti, in gara tra loro. Il Nifo, com'egli stesso e' informa ^7, aveva cominciato averroista della corrente sigieriana; e, prima di abbandonare definitivamente questa posizione, deve aver giocato d'astuzia da quell'uomo scaltrissimo che era. Alla fine del De intelledu e del commento al De animae heatiUidine , pretende d'aver portato a termine queste due opere a Padova nel 1492. Ma io penso che su questa affermazione bisogni fare molta tara: poiché nella dedica del De inielleciu a Sebastiano Badoèr, nell'edizione veneta del 1503, che è la più antica che si co- nosca, il Nifo dice in sostanza d'aver rimaneggiato l'opera, costituita originariamente da una Quaestio de intellectu, che gli avversari gli avevano impedito di pubblicare, avendolo accusato d'eresia. Da questa accusa era riuscito a discolparsi, a quanto pare, per l' intervento del Barozzi stesso, del Ba- doèr e di teologi e filosofi amici che ne presero le difese. Nella redazione del 1503, l'autore non esita a confessare d'essersi indotto a « pristinam mutare sententiam » ; e questo non sol- tanto per ciò che concerne la forma primitiva dell'opera, giacché egli ammette: « placuit quaedam tollere, mutare alia. 17 D» intellectu, Venezia, 1503, I, tr. 2, capp. 8-9. I02 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI addere plurima » '8, Rabberciato alla meglio il De intellectu e rifattasi una verginità filosofica, egli tentava, lontano da Pa- dova, quella fortuna che non manca mai di arridere agli uomini della sua prolifica specie. Il Vernia era noto in tutta Italia, attraverso i suoi numerosi discepoli, come uno dei più decisi averroisti. Per noi è un po' ditficile oggi ricostruire, nel suo insieme, la sua dottrina in- torno ai diversi problemi agitati nelle scuole del tempo, perché non sappiamo dove sono andati a finire i suoi scritti, se dati alle fiamme da lui stesso prima di morire, oppure se lasciati insieme alla sua biblioteca al monastero di S. Bartolomeo in Vicenza, ovvero al figlio adottivo Nicoletto della Scrofa, o ad altri. Nonché le opere scritte di suo pugno, non ci son pervenute nemmeno le reportationes degli scolari che pur non dovettero mancare. Ci restano soltanto, eh' io sappia, i seguenti scritti a stampa elencati dal Ragnisco: I. la Quaestio '^ « Dicaveram tibi anno superiori questionem meam de intellectu.... Eamque, ne labores iuventutis mee perditum irent, imprimendam esse curavissem, nisi emuli affuissent, qui me hereseos accusassent. Ac malui ad hoc tempus pervenire morando, quam huiuscemodi criminis culpam subire. lam cessant accusationes: emulorum iniquitas, sic mea fide postulante, in propatulo est. Ergo suo tribuant commodo, si quam utilitatem accepere qui me insidiis persequuti sunt, discantque interea diligentius legere que volunt criminari, ut cautius egisse videan- tur. Sed valeant isti, satisque mihi sit Petrum Barotium episcopum patavinum, christianorum nostre etatis decus et splendorem, te cui non minus in fide quam in philosophia tribuo, et quamplurimos alios tum theologos tum philosophos iudices ac censores habuisse, qui semper innocentie mee testes eritis. Tractaveram hanc nobilissimam mate- riam et de fontibus omnium antiquorum phylosophorum exhaustam, recenti stilo, quod omnes fere commendare visi sunt, preter paucos, quorum precipuus fuit Hieronymus Malclavellus, tunc privatus scholaris, nunc nostre academie diligens ac iustus moderator; qui ut est rectus ingenio, acer iudicio, splendidus in omnibus atque liber, numquam ubi de honore ac utilitate amicorum suorum agit, assentari novit. Hic cohortatus est me, ut universum opus in capitula secarem, asserens antiqua stilo esse antiquo tractanda. Hac unica huiusce viri ratione persuasus, licet alias adduxerit quarum illi copia est, pristinam mutavi sententiam : placuit quedam tollere, mutare alia, addere plurima. Nihil delevi quod sit contra fidem catholicam; non enim potest destrui quod factum non invenitur ». Seb. Badoèr morì il 30 giugno 1498 (cfr. i Diarii di M. Sanudo, I, 1004). La dedica dunque e il rabberciamento dell'opera sono anteriori a questa data, e probabilmente dello stesso periodo nel quale il Nifo aveva preparato anche l'edizione dei Col- lectanea sul De anima, usciti anch'essi nel 1503, presso la stessa officina veneziana de Quarengiis. Sembra pertanto che l'edizione del De intel- lectu, ricordata e perfino citata da taluno come uscita a Venezia nel 1495, non sia mai esistita ! MISCREDENZA E CARATTERE DI NICOLETTO V'ERNIA I03 an ens mobile sii totitis philophiae naturalis suhiectum '9 del 1480; - 2. il prologo alla Fisica col titolo De divisione philosophiae; - 3. la Quaestio an medicina nohilior ac praestantior sii iure civili ^° del febbraio 1482 ; - 4. la Quaestio an caelum sit animatum del novembre 1491, nell' infelice riportazione di uno scolaro che forse è Alessandro Sermoneta ^^ ; - 5. Quaestio an deniur universalia realia --, terminata il 17 febbraio 1492; - 6. la Quae- 19 Stampata a Padova, nel 1480, nel volume di commenti d'Egidio Romano, di Marsilio di Inghen e d'Alberto di Sassonia al De generatione et corruptione, ed anche nell'edizione scotina della stessa opera (Venezia, 1521, fol. 129V-131V). Nell'edizione padovana precede la dedica a En- rico Languardo, vescovo di Acerenza e Matera. Ragnisco, Documenti, pp. 276-77; Id., Nicoletta Vernia. Studi storici sulla filosofia padovana della 2» metà del sec. decimoquinto, in « Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti », t. 38°, serie VII, t. II, 1890-1891, p. 625. ^° Questa Quaestio e lo scritto precedente si trovano in principio del volume: Gualterii Burley, Expositio in libros odo de physico auditu Aristotelis stagerite, emendata per me nicoletum verniam thea- tinum puhlice et ordinarie legentem.... Venetiis, 1482, 15 aprile (La Quaestio è stata ristampata di recente da E. Garin, La disputa delle Arti nel Quattrocento, voi. IX dell' « Ediz. Naz. dei Classici del Pen- siero Italiano», Firenze, Vallecchi, 1947, PP- 111-123). Precede la de- dica a Sebastiano Badoèr, censore di Venezia, il quale, come il Vernia, era stato discepolo di Paolo dalla Pergola, ed era un convinto scotista, qual erasi rivelato a Nicoleto, per averlo questi udito argomentare con vigore in una pubblica disputa in occasione d'un capitolo generale di Frati Minori tenuto a Venezia. In questa dedica il Vernia accenna anche ad una amplissima quaestio de inchoatione formarum che avrebbe dovuto trovarsi nello stesso volume, ma che poi è stata omessa. L'ar- gomento per altro è ripreso con certa ampiezza nella Quaestio an dentur universalia realia, di cui sotto. 21 Pubblicata dal Ragnisco, Documenti, pp. 285-291. ^^ In principio del raro volume Urbanits Averoista philosophus sumnius ex almifico Servoritin Divae Mariae, comentorum omnium Averoys super librum Aristotelis de physico audita expositor clarissimus. Per probum virum Bernardinum Tridinensem de Monteferrato. Venetiis, 1492. Questa importante opera dell'averroista bolognese dell'Ordine dei Serviti, la quale nel prologo dell'edizione stampata porta la data del 1334 (ma v. sotto, p. 318), era stata ritrovata, coperta di polvere e corrosa dalle tarme, nella biblioteca bolognese dell' Ordine, dal priore generale dei Serviti, frate Antonio Alabanti, che, compresone il pregio, tanto più che anch'egli si professava averroista, ne scrisse, il 7 maggio 1492, al \'ernia, come quello che aveva sempre difeso le parti d'Averroè, onde averne il parere per un'eventuale stampa; e all'uopo gli mandò lo scritto d'Urbano perché l'esaminasse: «Ad te igitur li- bellus noster confugit: tu eum paterno amplectaris amore; et tandem tua censura maturoque Consilio examinatum censeas si dignus est ut in claram lucem professoribus perypatheticis ad doctrinamque Averoys aspirantibus emergere possit, ad nosque rescribere digneris. Quod si feceris, ut speramus et oramus, non minus tibi et Urbanus noster, operis conditor, quam Averoys et qui eius doctrinam sequuntur, inter I04 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI stio de gravibus et levihus, senza data^s; - 7. Del 1481 è la Quaestio, rimasta sconosciuta al Ragnisco, An celum sit ex materia et forma constitutum vel non, che termina: «Et sic est finis huius questionis compilate per me Nicolettum verniam theatinum Padue philosophiam publice legentem.... Anno domini. M.cccc.lxxxj. Ultimo mensis Julii », e che si trova in principio della rara edizione veneziana, curata dallo stesso Vernia, del commento d'Averroè alla Fisica, del 1483, ove occupa ben dodici colonne in-folio. Tutti questi scritti sono schiettamente averroistici ; e seb- bene non riguardino alcuno dei problemi scabrosi pei quali gli averroisti eran tenuti in sospetto, tuttavia non è difficile qua e là imbattersi in espressioni rivelatrici dello spirito del loro autore. Si prenda, ad esempio, la prima quaestio ricordata qui sopra. Dapprima, secondo lo schema familiare al Vernia, sono addotte le « opiniones ab Aristotele et suo commenta- tore deviantes », e in primo luogo quella di Tommaso che egli, nativo di Chieti, si compiace di chiamare suo compatriota, poiché suddito anche lui dello stato napoletano. Tommaso appunto aveva sostenuto, in principio del suo commento alla Fisica, « ens mobile et non corpus mobile, contra Albertum merito cognomine magnum, esse totius philosophiae naturalis subiectum ». Poi ricorda le critiche mosse da Egidio Romano ^1(05 ego quoque minimus accedo, ingentem immortalemque semper gratiam habebimus » (nel voi. cit., secondo foglio non numerato). E il maestro padovano gli rispondeva il 29 dello stesso mese, dando del- l'opera e dell'autore questo giudizio : « Vir ille (ut dicam quod sentio) cum omnibus bis, qui Averoym ad haec usque tempora secuti sunt, certare mihi visus est et plurimos etiam vincere. Nemini vero (ut mea quidem fert opinio) cedit. Cum enim Averoys verba sensusque perobscu- ros aperire illustrareque aggreditur, nihil illius explanatione enoda- tius, nihil clarius, nihil denique absolutius dici potest. Quaestiones vero quae in naturali phylosophia et plurimae et gravissimae occurrunt, nequaquam dissimulat. Sed ut est acri iudicio praeditus, ita acute subti- literque solvit, ut ad rei perfectionem nihil addi posse videatur » {ih). E mentre approva il disegno della stampa, informa che a Padova nella biblioteca di S. Giovanni in Verdara, esisteva un altro codice dell'opera d' Urbano, attribuito fino allora a Giovanni Marcanova (cfr. sotto, pp. 317-318), e promette che, per far meglio conoscere il commento del servita, terrà un corso sulla Fisica. La quaestio del Vernia sugli universali occupa quattro fogli non numerati, prima del commento di Urbano, ossia 12 colonne intere e 2 mezze colonne. 23 Nel voi. Acutissime questiones super libros de physica auscultatione ab Alberto de Saxonia edite, Venezia, 1504, f. 92va-94vb, con dedica al filosofo e medico Gerardo Bolderio da Verona. MISCREDENZA E CARATTERE DI NICOLETTO VERNIA I05 alla tesi tomistica, e il giudizio di Giovanni di Jandun sul- l'Aquinate, ritenuto « melior expositor inter latinos, unde per excellentiam dicitur expositor, sicut Averrois commen- tator ». Incappa infine nella tesi degli scotisti Giovanni Ca- nonico e Antonio Andrès, i quali s'eran permessi di criticare Aristotele. Contro tanta audacia egli insorge ripetendo il giudizio, comune a tutti gli averroisti, sullo Stagirita: Ad illa respondet Ioannes Canoniciis, et similiter Antonius Andreas, concedendo Aristotelem male dixisse et insufficienter ipsum philosophiam tradidisse; philosophus enim tanquam sacri- legus insufficienter et erronee tradidit nt)bis philosophiam natu- ralem, ut Antonius inquit. Sed minor de istis, quod cum tam pauca reverentia centra philosophorum principem loquantur; ncque unquam invenio Albertum Magnum, sanctum Thomam aut doctorem subtilem talia contra Aristotelem dixisse. Unde beatus Hieronymus, de eo loquens, scribens ad Eustochium, De vita nionachonim , ait: ' Absque dubitatione prodigium fuit gran- deque miraculum in tota natura, cui, ut pergit, pene videtur infusum quicquid naturaliter capax est genus humanum ' 24. Cui concordat Averrois, 3. De anima, dicens: ' Ipse fuit regula in natura et exemplar quod natura invenit ad ostendendum ul- timam perfectionem possibilem in materiis. Venendo poi alla soluzione del problema, il filosofo chietinf) sostiene « de intentione aristotelis et sui commentatoris aver- rois cordubensis fuisse, quod corpus mobile est subiectum in scientia naturali ». Ancora più tipico è il caso della Quaestio aii medicina iio- bilior ac praestaiitior sii iure civili. È notevole, anzi tutto, che egli abbia lasciato in pace i canonisti, strettamente imparen- tati coi teologi, gente, gli uni e gli altri, con la quale è prudente non aver briga. Per dimostrare, dunque, la tesi affermativa, che cioè la medicina è da più del diritto civile, il nostro si rifa -4 Lo stesso passo dell'opera pseudo geronimiana m' è accaduto di trovar citato nel De pietate Aristotelis erga Deiim et ìioinines di Fortunio Liceto (Udine, 1645, libro II, cap. 22), amico e collega di Galileo a Pa- dova. Costui, al pari di Alfonso Tostado, vescovo di Avila, In librum paradoxorum (Venetiis, 1508, V, cap. 132, fol. 68ra), e di Giovanni Genesio Sepulveda, da Cordova {Opera, Madrid, 1780, t. Ili, Epist., VII, lettera al teologo Fedro Serrano, del 10 maggio 1554), pensava, se non proprio a una canonizzazione, che fosse almeno altamente verosimile la salvezza eterna di Aristotele. Al quale però il Tostado ,da buon umanista, unisce le anime di Socrate, di Platone e di siffatti filosofi, che Cristo avrebbe liberato discendendo al limbo. I06 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI al concetto, comunemente ammesso, che la medicina nella sua parte teorica rientra nella « filosofia naturale » ed è scienza speculativa; il che non può dirsi dal diritto civile. Ora nella speculazione intorno alla natura Aristotele aveva fatto con- sistere il fine ultimo e la perfezione suprema dell'uomo, a cui si giunge soltanto mediante l'apprendimento delle scienze speculative, coronato dal congiungimento o copulatio con r intelletto agente. Ex quo sequitur, hominem equivoce dici de homine rationali et iurista, cum iurista non sit nisi equivoce, cum inrista ultimo fine hominis sit privatus. Et hoc est quod Averrois dicit in pro- logo libri Physicorum, quod homo equivoce dicitur de homine perfecto per scientias speculativas et de homine ignorante eas, sicut dicitur equivoce de homine vero et picto ^^ Ci sarebbe da chiedersi se mastro Nicoleto non fosse per caso in vena di scherzare, per dar la baia ai colleghi della facoltà di diritto: ma purtroppo egli non fa che ripetere cosa di cui tutti gli averroisti erano convintissimi; anzi taluni di essi, come Alessandro Achillini e Tiberio Bacilieri^^^ pensavano che al raggiungimento della suprema perfezione e della feli- cità cui l'uomo aspira, bastassero i libri bene interpretati di Aristotele e d'Averoè, che quelli ritenevano aver conqui- stato il più alto grado di felicità di cui l'uomo è capace in questa vita, non ostante i sorrisi ironici degli alunni, e quelli del Pomponazzi -i. Al cospetto della morte, come abbiamo visto, -5 Nel citato voi. del Burley sulla Fisica, Venezia, 1482, f. 3vb. Il passo d'Averroè in principio al prologo della Fisica, al quale accenna il Vernia, è questo: « Declaratum est in scientia considerante in opera- tionibus voluntariis, quod esse hominis secundum ultimam perfectionem ipsius et substantia eius perfecta est ipsum esse perfectum per scien- tiam speculativam; et ista dispositio est sibi felicitas et sempiterna vita. Et in hac scientia manifestum est, quod praedicatio nominis hominis perfecti a scientia speclativa, et non perfecti, sive non ha- habentis aptidinem quod perfici possit, est aequivova, sicut nomen hominis quod praedicatur de homine vivo et de homine mortuo, sive praedicatio hominis de rationali et lapideo ». 26 Cfr. il mio Sigieri nel pens., p. 151. -7 Accade spesso al mantovano di fare dell'ironia sulla «copulatio» degli averroisti « qui continuo prandent cum deo et qui habent intel- lectum adeptum » (comm. al I delle Meteore, del nov. 1522. Parigi, Bibl. Nat. cod. lat. 6535, f. i2or). E del Bacilieri riferisce: «Ideo Ti- berius iactatus solum sibi defìcere quatuor digitos, ad hoc ut felicitatem istam pertingat » (Comm. al XII della Metaph., Arezzo, Frat. Laici, ms. 389, f. 248r. Cfr. Parigi, e. s., cod. lat. 6537, f. 139V). MISCREDENZA E CARATTERE DI NICOLETTO VERNIA IO7 ([uesta convinzione abbandonava il filosofo chietino, persuaso ormai, col volger degli anni, che non solo secondo la fede, ma « etiam iiixta opinionem philosophorum, hic non potest esse vita beata, sed tantum misera ». Evidentemente nella sua giovinezza anch'egli, come molti, aveva ignorato la man- zoniana preghiera allo Spirito divino: «Dona i pensier che il memore ultimo dì non muta ». Averroista era il Vernia anche nella soluzione del problema se il cielo è animato, e di quello «sul moto dei gravi e leggeri «^s. Anzi, su quest'ultimo argomento, mentre perfino molti aver- roisti avevano finito per scostarsi dalla dottrina d'Aristotele e avevano accolta la teoria nominalistica degli impetus, il Vernia segna un ritorno puro e semplice alla tesi dello Sta- girita, seguita da Averroè, da Sigieri e da pochi altri 29. La Quaestio an denhir universalia realia è invece un tenta- tivo di mostrare l'accordo tra Averroè e Alberto Magno sulla dottrina, convenientemente interpretata, della « inchoatio formarum » ; poiché gli universali di cui qui si parla, non sono le intentiones primae et secundae dei dialettici, ma le idee con- siderate come cause della realtà, gli universalia physica, come li chiama il Vernia, ossia le forme delle cose 3°. 28 Nel voi. cit. delle Acutissime questiones di Alberto di Sassonia, pp. 92 t'a-94 vb. ^9 Cfr. A. Maier, Zwei Grundproblenie der scholastichen Philosophie. Roma, Ediz. di Storia e Letter., 1959, p. 295. 30 Nel voi. di Urbano Averroista, cit., col. 6: «Ex quo patet error illorum qui dicunt inchoativum secundum commentatorem et Albertum esse potentiam subiectivam [materie], cum, ut visum est, sit potentia formalis distincta a potentia materie, que est in substantia forma substantialis, imperfecta tamen, cum omnis potentia materie taUs, quam ponunt, si distincta ab ea et sit accidens Ex quo sequitur dari universalia realia ad mentem veriorum philosophorum peripatheti- corum, tum Grecorum, tum Arabum, tum latinorum; cum tales essentie sint universalia physica et in re, ut visum ». Il primo di tali universali fisici è per il ^'ernia la « forma corporeitatis » di Avicenna, coeterna alla materia. In proposito, abbiamo questa informazione nel commento del Pomponazzi al De substantia orbis di Averroè (Cod. Reg. lat. 1279, fol. yr). «Credo quod haec responsio fuerit Nicholeti; quia etiam ipse tenebat ad mentem commentatoris formas corporales de praedica- mento substantiae materiae primae esse coaeternas. Et tunc glosabat ipse commentatorem, hic dum dicit quod materia non habet formam quae reponat eam in esse specifico et ultimo, quia si materia prima baberet formam ultimam specificam, tunc non posset ipsa materia aliam formam recipere, quia, cum ultimo non detur ultimum, ipsa forma esset in actu completo, nam infra formam ultimam specificam non sunt [ nisi ] individua; et in hoc commentator dissentit ab Avi- Io8 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Anche in questa Quaestio, terminata il 17 febbraio 1492, non mancano accenni alla dottrina averroistica dell' intel- letto ; ma sono accenni più cauti 31. L'editto episcopale era stato promulgato evidentemente per qualche cosa. Nel settembre del 1492 a Colze nel vicentino, mastro Nicoleto dovette pen- sare al modo di dissipare i sospetti d'eresia che gravavano su di lui, e, sebbene affetto da oftalmia, prese la penna e cominciò a buttar giù una specie di confutazione dell'averroismo. Nacquero così le Quaestiones de pluralitate intellectus cantra falsani et ah omni ventate remotam opinionem Averroys et de animae felicitate. L' idea di quest'opera gli fu suggerita (« non iniussa cano ! ») da frequenti esortazioni del doge di Venezia, Agostino Barbadigo, e dallo stesso Pietro Barozzi, che, se da una parte lo minacciava di scomunica, dall'altra cercava di adescarlo con buone promesse. La composizione dello scritto non dovette procedere molto rapida. Poiché soltanto nel- l'estate del 1499 l'opera fu presentata ai revisori ecclesiastici e al vescovo per la stampa r-. I revisori, frate Antonio Trombetta, Vincenzo Merlino e Maurizio Ibernico, prodigarono all'autore le più ampie lodi, e il vescovo Barozzi se ne dichiarò pienamente soddisfatto. Tuttavia, anche nel dare atto del nuovo atteggiamento assunto, ricorda le voci che un tempo correvano sul conto di lui, e non osa dichiararle infondate; anzi lo stesso paragone che egli fa del chietino con S. Paolo, il quale di persecutore del nome cri- stiano era divenuto un ardente difensore della fede, sem- brerebbe insinuare il contrario: cenna qui ponebat talem formarti specificam ultimam; sed commen- tator dicit, quod talis corporeitas non est forma specifica completa, sed est forma generica imperfecta; et sic dicebat ipse [Nicholetus] quod materia prima habet istam formam genericam sibi coaeternam, et in ipsa etiam formam elementorum ». 31 Così, per esempio, in principio della 4* colonna: «Et tu nota hoc prò Averoy, quod anima intellectiva non dat esse corpori humano; sed hoc quod dicitur est mendatium purum, ut in 3° ' De anima ' de- clarabo ». E più oltre (a metà della stessa colonna) : « Unde intellectiva anima apud ipsum non creatur, sed est eterna; et in hoc Albertus, et bene sicut fidelis christianus, ei adversatur, volens ipsam de novo fieri per creationem, et hoc secundum Aristotelem ». 32 La quale apparve soltanto postuma nel volume già cit. delle Acidissime questiones super libros de physica auscuUatione ab Alberto DE Saxonia edite, Venezia. A. Calcedonio da Pesaro, M. D.iiii., ff. 83 y-92 ra. i MISCREDENZA E CARATTERE DI NICOLETTO VERNIA IO9 Cum prius et disputando et docendo unum esse in omnibus intellectum sic explicaveris, ut totam pene Italiani errare feceris, ut aiunt malivoli tui et minuti philosophi, ut in epistula tua ais, etsi istud non senseris, fuisti forte causa ut alii hoc sentirent. Nunc opusculum composuisti, quo sentire te contrarium non solum dicis verum etiam probas. Quod cum diligentia vidimus et approbamus.... Quo circa, sive ita senseris sive non, opusculum istud componere precium fuit, ut error pessimus illius maledicti Averroys extirparetur.... Nihil hac mihi re gratius, nihil iis qui te audiverant utilius, nihil tibi, qui apud miiltos ob eam rem infamiam non mediocreni excitaveras, honorificentius. Per purgarsi di questa non mediocre infamia e per impedire che si parlasse di un voltafaccia, mastro Nicoleto insisteva nel dichiarare che la difesa un tempo da lui assunta dell'averroismo non muoveva da intima adesione alla dottrina dell'unità del- l' intelletto, ma era fatta soltanto « disputandi ac acuendi ingenii gratia » 33. Era sincero in questa sua protesta, rinnovata con solennità anche nel suo testamento ? Per il vescovo e per l' inquisitore questo non aveva importanza: ad essi bastava il fatto che, comunque l'avesse pensata un tempo, ora il sospettato aveva fatto lodevole ammenda del passato col suo ultimo scritto contro l'averroismo. Ma tra i suoi alunni d'un tempo ve n'era sicuramente qual- cuno che, assistendo ai funerali e alla tumulazione di lui nella chiesa di S. Bartolomeo a Vicenza, e ripensando al carattere del maestro, doveva sorridere di questa commedia e ripensare in cuor suo alla novella di Ser Ciappelletto. Nicoleto Vernia non era precisamente quello che si dice un cuor di leone. Nello stesso suo testamento revoca, come giu- ridicamente nulla, una donazione de' suoi beni alla moglie, fatta sotto la minaccia di morte da parte del cognato Pietro de Salvato. Nel i486, era stato richiamato all'ordine dal Senato, perché pare facesse i suoi comodi, leggendo senza concorrente e tra- scurando di studiare «con grande lagnanza degli scolari» 34. Il Nifo, già suo alunno, ci narra di lui due episodi che pos- sono servire a lumeggiarne il carattere. Il primo è meglio 33 Nella dedica al card. Domenico Grimani [ib., f. 83r). Cfr. sopra, p. 99. 34 Ragnisco, Nic. Vernia, pp. 622-623. Cfr. qui sotto il saggio successivo. no L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI riferirlo in latino; Cum Nicoletus Theatinus, praeceptor noster, sua aetate peri- pateticus eximius, ludibriis ludificationibusqiie oblectaretur, plu- rima jecisse multi norunt. Et inter prima, cum Veronam peteremus, ut baptizaremus puerum cuiusdam communis discipuli, et post crepusculum ad urbem applicaremus, essetque caupo prohibitus recipere iudaeos, qui extra urbem hospes erat, nobis hospitium conferentibus dixit: — Te recipere non possum, quia prohibitus sum, — demonstrans Nicoletum; — te autem possum — , annuens me. Interrogantibus quare respondit: — Quia Iudaeos hospitari prohibitus sum. — At praeceptor subiecit: — Audi, amice, a secretis. — Et mox penem praeputiumque ostendit. Quem cum vidisset, hospitatus est nos. Il Nifo aggiunge che la mattina dopo, sopraggiunti alcuni della città ad incontrarli e a riverirli, l'oste chiese umilmente scusa, mentre mastro Nicoleto non si stancava di raccontare a tutti, uomini e.... donne, il piccante episodio 35. L'altro aneddoto si può raccontare anche in volgare, seb- bene sia assai più sconcio del primo, se è vero. Narra dunque il Nifo che, rimasta vacante a Padova una cattedra di diritto canonico, per la morte del titolare. Agostino Barbadigo, che era allora capitanio della città, era sollecitato dagli studenti a corpirla con un dottore di diritto canonico siciliano. Il Bar- badigo annunziò che aveva già pronto l'uomo che faceva al caso, e questi era mastro Nicoleto. — Ma Nicoleto è un filo- sofo, — osservarono quelli —, e di diritto canonico non se n'intende — -. Montato su tutte le furie, il magistrato li manda a farsi impiccare, e chiamato a sé Nicoleto gli propose di legger diritto canonico al mattino, per 300 ducati d'oro, e di conti- nuare a legger filosolia nel pomeriggio. Il maestro non si pe- ritò di accettare, effondendosi in ringraziamenti. Se fin qui la faccenda era abbastanza sporca, il peggio vien dopo. Gli studenti malcontenti andarono da Nicoleto a pregarlo di voler far capire lui stesso al Barbarigo che il diritto canonico non era il fatto suo. — Che io vada a fare una dichiarazione del genere ad un uomo che mi giudica sommo in ogni ramo dello scibile ? — Gli studenti non si scoraggiarono e lo tenta- rono per un altro verso: si che non molto dopo, « munusculis 35 A. NiPHi, Opuscula moralia et politica cum G. Naudaei de eodem auctore iudicio, Parigi, 1645, De re aulica, I, e. 87, p. 335. MISCREDENZA E CARATTERE DI NTCOLETTO VERNIA III non mediocribus acceptis ab illis studentibus », si presentò al Barbadigo e con ogni rispetto lo pregò di liberarlo da un carico che, data l'età, pesava troppo sulle sue spalle [36. Chi oserebbe insinuare che l' idea di conferire a lui una seconda cattedra (e un secondo stipendio) fosse ispirata al Barbadigo dal Vernia stesso ? Ma non meno interessante, per la religiosità e F indole mo- rale di lui, è quel che apprendiamo dalle lezioni del Pompo- nazzi, che, al pari del Nifo, del chietino fu alunno e collega e, da ultimo, successore sulla cattedra di Padova. Il ricordo del vecchio maestro padovano e del suo carattere faceto e bizzarro accompagnò il mantovano per tutta la vita. Così nella lezione 27 del commento al De sensu et sensato 37, tenuta nel febbraio 1525, tre mesi prima della morte, accennando al modo superfi- ciale col quale Pietro d'Abano aveva trattato un quesito in- torno ai sapori, dice: « eo modo quo dicebat Nicolettus, prae- ceptor meus, sicut mus super farinam et gatta super car- bones ». Un'altra volta, a proposito del noi usato spesso da Averroè, ricorda: «Dicebat Nicoletus: advertendus est sermo; loquitur da papa, ponendo numerum pluralem38)). Nelle le- zioni sul terzo della Fisica, narra che il Vernia aveva spacciata come sua un'opinione che era invece di Gaetano da Thiene, come si vide dopo la stampa di questo : « Magister Nicoletus attribuebat sibi hanc opinionem. Impresso Gaetano, latro inventus est» 39. Un'altra volta accennando alla a via nomina- lium », il Pomponazzi aggiunge: «imo merdalium, ut dicebat Nicholetus) » 40. In principio del commento al VII della Fisica, del nov. 1517, accenna a un dissidio tra gli scolari sui libri di quest'opera che il maestro avrebbe dovuto leggere: Unde lepidissinms vir nicholetus qui, curti versaretur discordia inter scolares (sicut modo versatur inter vos), an scilicet primi an ultimi libri physicorum essent legendi, dixit: Non timeatis, quia ego unica lectione legam omnes 4or primos 41. 36 ib., p. 336. 37 Bibl. Nation. di Parigi, Cod. lat. 6536, f. sgr. 38 Ib., Cod. lat. 6537, In XII Metaphys., f. 135V. 39 Arezzo, Bibl. della Fraternità de' Laici, Ms. 389, Super j° Physi- corum, i. 3o6r. 40 Ih., Ms. 389, Super I Phys., f. 28v. 41 Bibl. Nat. Parigi, cod. lat. 6533, f. 284r. 112 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Nello stesso commento, in una lezione del gennaio 1518, intorno ai sottili accorgimenti di Averroè per salvare Aristo- tele, narra del suggerimento dato dal Vernia a uno scolaro ignorante che doveva affrontare un esame: Credo ergo quod commentator voluit dicere hoc; sed sibi accidit ut cuidam scholari patavii, qui volens disputare, et nihil sciebat, fuit ad Niccoletum, qui eum doceret. Volebat enim iste scolaris ingredi collegium, et non poterat nisi disputaret. Quare magi- ster Nicoletus dixit: — Dabo tibi unam responsionem ad omne argumentum; distingue enim et dicas: Tuum argumentum tenet propter quia, et mea conclusio propter quid. Et ita vult dicere Averrois.... Tamen possemus dicere ad omnia illa argumenta.... Oportet enim scaramuzare quandoque 4-. Sempre nelle lezioni sul VII della Fisica, incontriamo un altro aneddoto, ove il Vernia è alle prese con Francesco di Nardo, in una disputa di moda, « de intentione et remissione formarum », che concerneva la dottrina dei « calculatores », particolarmente invisi al Pomponazzi: Et ubi Aristoteles in hoc loco {Phys., VII, t. e. 32) fuit parcus, Entisbery in suo tractatu et Calculator fecerunt de hoc magnos tractatus. Aristoteles enim dimisit hec, quia ille compositiones et ille truffe spectant ad matematicum; et calculatores latenter vincunt ph^dosophos; interponunt enim geometricalia. Sed philo- sophus, ut phylosophus est, non se intromittit ad hec. Et isti calculatores sophiste appellantur; quare non se debent intro- mittere in phylosophia, sed in geometria. Unde erat magister Franciscus neritonius, (erat enim vir doctissimus) , et in uno ca- pitulo fratrum erat etiam Nicholettus, protesto ignorantissimus, et arguebat domino francisco neritonio in illa disputatione, et in calculatione argumentabatur; et dominus franciscus nesciebat respondere, quia mathematica ignorabat. In hoc enim argumento erat quater fortassis totum alphabetum. Dominus tamen fran- ciscus intrepide respondit sibi, quod Nicholetus fecerat ut conti- gerat in suo capitulo cuidam fratri, cui prior comiserat ut predi- caret de conceptione virginis. Cum venisset tempus predicandi, dixit ille bonus vir qui debebat predicare illa die : O domini audi- tores, ista materia de conceptione est tante difficultatis, quod non poteritis numquam eam percipere. Itaque, rogo vos, ut loco istius dimittatis me narrare ystoriam sancti Alexandri, quam 42 Arezzo, ms. 390, f. lygr. Allo stesso episodio il Pomponazzi aveva accennato anche nelle lezioni In I de anima (nel cod. della Bibl. Na- zionale di Napoli, Ms. Vili, D. 81 fol. 97v), che sono dell'autunno 1503, ed ivi fa il nome dello studente somaro, che pare sia un Baldassarre da Chiusi. MISCREDENZA E CARATTERE DI NICOLETTO VERNIA II3 promptissime capietis. Sic etiain, dixit dominus franciscus, con- tigit domino Nicoleto : qui dum in hac materia quam posuimus disputandam nihil intelligeret, incepit nobis cum suis argumentis calculatoriis narrare ystoriam beati Alexandri ! 43. Ben più grave è quanto il Pomponazzi narrava agli scolari, in una lezione sul secondo libro del De caelo, tenuta a Bologna il 28 novembre 1519. Stava esponendo il testo 17, e poiché taluni dicevano che Dio e le intelUgenze celesti « prima in- tentione agunt propter se «, mentre le cose generabili e cor- ruttibili « prima intentione faciunt propter alia et secundario propter se », ha il coraggio di dire apertamente che non è vero: Non videtur verum; imo videtur totum oppositum; quia quicquid homines faciunt, [faciunt] primo propter se, secundario vero propter alios. Verbi gratia, homines student: prima intentio eorum est hicrari scientiam et fieri perfecti et eiusmodi; secun- dario vero ut illustrent domuin suam et patrem etc. Unde Ari- stoteles numquam somniavit, quod deberet fieri bonum ut iretur in paradisum, et evitari malum ne iretur in infernum; sed bene dicit quod debemus exponere vitam prò patria et eiusmodi, et potius mori quam committere peccatum, ut acquiramus illarn virtutem, sciHcet fortitudinem. Ergo quicquid homo facit, prima intentione facit propter se, ut in omnibus discurrere potestis. Ideo videtur fatuitas philosophorum dicere hoc de genera- biUbus, scilicet quod primo agant propter alia, et secundario propter se. Unde Nicoletus, vir lepidus, qui non credebat, ut ita dicam, dal tecto in su, cum sepissime audiret beatum Bernardinum de Feltro predicantem et in suis predicis dicentem : ' O tu, attende tibi; o tu, attende tibi, mulier luxuriosa ' 44, bonus Nicolettus emebat bonos pullastros, fasianos, et si quis diceret illi: ' Quid vis tacere, o Nicholette ? ', respondebat: ' Volo attendere mihi '. Item rapinabat et eiusmodi, et si dicebatur illi: ' Quid vis facere ? ', dicebat: 'Attendere mihi volo'. Omnia ergo faciebat propter se 45. Lo stesso ritratto morale del « buon Nicoleto », il Pompo- nazzi tracciava negh stessi termini agli scolari bolognesi in una lezione sul primo delle Meteore tenuta il 15 novembre 1522: 43 Arezzo, 1. e, f. i68r. 44 Bernardino da Feltre predicò la quaresima a Padova nel 1492 (cfr. Wadding, Annui., XV, p. 7, XV), e di nuovo vi fu nel 1494. quando « Patavium.... profectus, in Ecclesia Cathedrali, assumpto ilio trito suo themate ' Attende tibi ', egregie populum de rebus saluti maxime necessariis instruxit « [Ib., 66, XIV). 45 Parigi, Bibl. Nat., Cod. lat. 6534, f. 131. 114 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Erat Padue quidam frater sancii Francisci de observantia, qui dicebatur frater Bernardinus de Feltro, qui predicabat et in predicatione semper dicebat: ' Attende tibi, attende tibi '. Unde Nicolettus, qui legebat Padue, emebat perdices, capones et multa bona. Inde ipse erat malus homo, et prò uno quadrante perdidisset hominem, et nullum habebat prò amico. Unde, eundo ad predicam, accepit illud verbum ' attende tibi ' suo modo, scilicet: attende tibi, idest sguazza et triumpha. Ideo emebat perdices etc.46. Tale è il ritratto morale del Vernia quale fu conosciuto dal Peretto: miscredente, crapulone, rapinatore, che per un quat- trino avrebbe rovinato un uomo, senza amici. Così giudicava il Pomponazzi l'autore delle Quaestiones sulla pluralità de- gl' intelletti e sull' immortalità dell'anima, nel quale ai revi- sori ecclesiastici deputati dal Barozzi e al Barozzi stesso era parso di ravvisare il campione stesso dalla fede, che aveva debellato definitivamente l'averroismo e l'alessandrismo ! Tuttavia non va dimenticato che dall'estate del 1496 al- l'autunno del 1499 il Peretto era stato assente da Padova, in seguito a dimissioni dalla cattedra da lui occupata e sulla quale era stato sostituito dal Nifo 47. Ora è sicuramente in questi anni che la crisi filosofica e religiosa del Vernia, ini- ziatasi nel corso del 1492, venne a maturazione, se vera crisi ci fu in un uomo così lepido e astuto. E la testimonianza del Pomponazzi non può aver valore per gli anni in cui il man- tovano lo perse di vista. Del resto, queste oscillazioni tra una spregiudicatezza quasi scettica e il bisogno di conformarsi all'ambiente religioso e di accettarne il formalismo, è tutt'altro che alieno dall' indole, piena di contradizioni, di un uomo dell'età di papa Borgia» 46 Ib., Cod. lat. 6535, f. jòyc. 47 Cfr. C. Oliva, Note snW insegnamento del Pomponazzi, in «Giorn. Crit. d. Filos. Ital. », VII, 1926, p. 181. ANCORA QUALCHE NOTIZIA E ANEDDOTO SU NICOLETTO VERNIA * Ritengo che questo ameno e spregiudicato maestro, prima che a Padova, si recasse adolescente a Venezia, in casa del Patrizio Sebastiano Badoèr, nei cui « lari era stato educato » il suo conterraneo e parente Nicolò Manupello da Chieti ', che, addottorato in artibus a Padova il 22 aprile 1444 -, vi s'addottorò anche in medicina il 18 settembre 1450 3. Altri- menti non si spiegherebbe come, nella dedica dell'esposizione del Burleo alla Fisica d'Aristotele (Venezia, 1482), egli po- tesse dire d'essersi affezionato al Badoèr « a teneris annis », e come mostrasse di conoscere così a fondo la storia leggen- daria di questa famiglia. Dal testamento fatto a Padova il lunedì 2 novembre 1478, e pubblicato da Paolo Sambin, si conosce il nome del padre, per esser detto « clarissimus artium et medicine doctor dominus magister Nicolaus filius honorabilis viri ser Antonii de civi- tate Theatina » 4. E lo stesso si legge nell'atto di donazione * Dal « Giorn. Crit. d. Filos. Ital. », XXXIV, 1955, pp. 496-503- La nota su Cristoforo da Recanati è inedita. I Expositio excel. mi philosophi Giialterij de burley anglici in libros odo de physico anditn Aristotelis stagirite emendata per me nicoletum verniam theatinimi publice et ordinarie philosophiam in gimnasio patti- vino legentem Venetiis. M.cccc. Ixxxii. die quintadecima mensis aprilis, dedicata a Sebastiano Badoèr, « censore del comune di Venezia »: Del Manupello si legge appunto nella dedica: « affinis ac conterraneus meus clarissimus phisicus et mediciis Nicholaus manupellus Thea- tinus in tuis laribus fuit educatus ». ^ G. Erotto e G. Zonta, Ada graduum academicorum Gynnasii Patavini, ab anno MCCCCVI ad annum MCCCCL, Padova, 1922, n. 1825. 3 Ib., 2437. 4 P. Sambin, Intorno a N. V., in Rinascimento, III, 1952, p. 265, docum. I. Il6 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI de' suoi libri al monastero di S. Giovanni in Verdara, del giovedì i6 gennaio 1483 (se il 16 gennaio di quell'anno, e non piuttosto il 17, fosse caduto in giovedì 5). Dai quali due docu- menti si rileva che il buon Nicoletto si lasciava passare come « artium et medicinae doctor », quando dottore di medicina non era ! Nella stessa dedica al Badoèr si legge : « cum enim sub disci- plina clarissimi philosophi pauli pergulensis essem, a quo etiam tu eruditus fuisti, pluries ab eo audivi te summum philosophum atque theologum evasisse, nullumque esse qui te in docrina francisci de marronis subtilisque doctoris lohannis scoti antecelleret ». Orbene: Paolo da Pergola il 19 marzo 1442 era reggente delle scuole annesse in Venezia alla chiesa di S. Giovanni Elemosinarlo a Rialto, nel quale anno egli era anche piovano di questa chiesa; e reggente di queste scuole restò fino alla sua morte nel 1455 ; fu sepolto nella chiesa di cui era piovano 6, Tanto Sebastiano Badoèr quanto il giovane Nicoleto, e, suppongo, anche Nicolò Manupello, sono stati sotto la disciplina di Paolo a Venezia. Questa scuola merita d'esser meglio conosciuta, sia per gì' insigni maestri che, dopo il pergolese, vi insegnarono, sia perché nella seconda metà del Quattrocento e per tutto il Cinquecento essa fu una specie di succursale dello Studio pa- tavino, nella quale molti giovani veneziani cominciavano gli studi di logica e di filosofia, che poi andavano a completare a Padova, ove s'addottoravano. Così appunto sappiamo aver fatto anche il giovane chietino, il quale, da Venezia, forse dopo la morte del pergolese, si recò a Padova, ed ivi, dopo essere stato qualche tempo sotto la disciplina di Gaetano da Thiene, conseguì il dottorato in artihus, ma non in medicina, il 30 maggio 1458, primo promotore lo stesso maestro Gaetano 7. Dopo questa data, non si hanno di lui altre notizie fino al- l' inizio dell'anno scolastico 1465-1466, quando fu assunto alla lettura straordinaria di filosofia. Dalla dedica del Vernia 5 Ib., p. 266, docum. III. 6 A. Segarizzi, in Atti dell' Istit. Veneto s. 1. a., LXXV, 1915-1916, p. 646 sgg. e la breve notizia dello stesso in Nuovo Arch. Veneto, N. S., LXV, 1917, p. 232. Cfr. anche il mio studio già cit. Letter. e cultura veneziana del Quattrocento, pp. 111-118. 7 P. Silvestro da Valsanzibio O. F. M. Cap., Vita e dottrina di Gae- tano di Thiene, Padova, 1949, pp. 13-14- I ANCORA QUALCHE NOTIZIA SU NICOLETTO VERNIA II7 stesso ad Enrico Languardo, arcivescovo di Acerenza e Ma- tera, del volume di commenti di Egidio Romano, di Marsilio di Inghen e d'Alberto di Sassonia al De generatione et corruptione, stampato a Padova nel 1480, veniamo a sapere che dodici anni prima, quindi nel 1468, era stato chiamato « ad legendum philosophiam in locum quondam Gaetani Thienei philosophi celeberrimi » ; carriera abbastanza rapida che mal si spieghe- rebbe senza l'appoggio di potenti patroni ch'egli aveva a Venezia. L' intervento di questi patroni a suo favore si fece palese, del resto, nel maggio del 1469, con l'edificante episodio che traggo dagli atti del «Sacro Collegio dei Medici e Filosofi» di Padova ^, a solazzo dei « laudatores temporis acti », i quali vanno dicendo che certe soperchierie avvengono soltanto ai nostri giorni. Ecco dunque l'episodio. Ma, prima di narrarlo, bisogna sa- pere che al Sacro Collegio dei Medici e Filosofi, che aveva un numero limitato di membri, erano aggregati solo medici e filosofi padovani e veneziani, in numero limitato, dopo aver conseguita la laurea in artihus e in medicina, e a seconda della disponibilità dei posti. Da sapersi è altresì che soltanto ai membri del Collegio spettava di farsi « promotori » dell'ammissione di coloro che ne fossero degni al « tentativum » e al « privatum examen » per il conseguimento del titolo di dottore « in artibus » e in medicina e al primo « promotore » toccava il privilegio di conferire le insegne del grado al neo-dottore, previo il giura- mento di rito. Coloro che non fossero cittadini padovani o veneziani, ma fossero maestri nello Studio di Padova da molti anni, sì che non avessero più bisogno di essere « ballo- tati » periodicamente, potevano essere aggregati al Collegio, in seguito al parere favorevole dei membri di questo e con le cautele previste dagli statuti. Ora sentite questa. Un bel giorno, e precisamente il mercoledì 31 maggio 1469, il priore del Sacro Collegio dei Medici e Filo- sofi di Padova, che era il dottore « in artibus » Maestro Cri- stoforo da Recanati (de rechaneto) 9, udito il parere dei con- siglieri, convoca il Collegio in assemblea straordinaria e tiene * Arch. ant. dell' Univ. di Padova, S. Coli, de' Med. e Filosof., voi. 312. b. 49r. 9 Su lui, v. Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, parte II, p. 104. Il8 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI ai convenuti questo discorso: Famosissimi doctores, causa convocationis excellentiarum ve- strarum est ista, quia die heri quidam officialis Magnifici domini pottestatis padue mihi mandavit, ex parte prefati magnifici domini pottestatis, quatenus hodie convocare facerem collegium ad instanciam d. M. Nicoleti, et, in executione literarum serenis- simi ducalis domini] dicto d. M. Nicoleto, assignare debere locum in collegio cum conditionibus prout in dictis literis continentur, et quod unusquisque super hoc dicat apparere suum ^°. L' intervento della Signoria veneziana a favore del filosofo chietino metteva in serio imbarazzo il Collegio, geloso dei suoi diritti e privilegi. Forestiero, laureato nelle arti da appena ii anni, lettore di filosofia a Padova da appena quattro, il Vernia veniva imposto dall'autorità politica centrale, senza che il Collegio fosse stato nemmeno interpellato prima, e senza una ragione di particolari benemerenze che gli dessero la precedenza su altri. Che modo di procedere era questo ? Vero è che anche Maestro Cristoforo da Re e anati era entrato a far parte del Collegio, di cui egli era priore, nel maggio 1464, mentr'era « legens ordinarie philosophiam naturalem », per l' intervento e l'imposizione dallo stesso governo veneziano e senza il gra- dimento del Collegio stesso ". IO Arch. Ant. dell'Univ. di Padova, voi. 312, f. 4gr. " Maestro Cristoforo Rappi (secondo C. Benedettucci, Biblioteca recanatese, Recanati, 1884, p. 124) da Recanati era nato il 4 ottobre (giugno, sec. il Benedettucci) 1423, ma s'era addottorato in artibus a Padova, il 3 febbraio 1454 (Arch. della Curia Vescovile di Pa- dova, Diversovitìu, voi. 28, f. 23 v). Non mi risulta la data esatta del dottorato in medicina, che sicuramente ebbe luogo pochi anni dopo. Ma il 25 giugno 1462 ebbe dal Senato veneziano un aumento di stipendio come professore di filosofìa naturale da molti anni nello studio patavino, allo scopo di impedire che egli accettasse un invito fattogli dal vicedomino di Ferrara; « que res universis scolaribus studii ipsius molestissima est, non sine incomoditate et iactura nostri do- mini], quia si recederet, omnes qui illum audiunt, eum sequerentur » (Arch. di St. di Venezia, Senato-terra, Reg. 5, f. 12 r). Di queste buone disposizioni del Senato a suo riguardo il Recanati non tardò ad ap- profittare; poiché sotto la data del 18 maggio 1464 si legge {Ib., f. 79 r) : « In studio nostro paduano, ut notum est, reperitur Clarissimus doctor magister Christophorus Recanatensis, legens ordinarie philosophiam naturalem. Qui, ut litere Rectorum nostrorum et rectoris Universitatis Artistarum padue testantur, neminem in Italia habet parem. Et qui vehementer optai prò honore suo cooptari in collegio Artistarum et me- dicorum padue, in locum scilicet primi qui deficiet, et multi prestan- tiorum doctorum ipsius collegii hoc velie et cupere videantur. Vadit ANCORA QUALCHE NOTIZIA SU NICOLETTO VERNI A IIQ Ma sentiamo come l'estensore del verbale continua a rias- sumere il discorso dell'avveduto priore: Sed sibi videtur, quod ( durum. est centra stimulum calci- trare » [Actiis, IX, 5; XXVI, 14]. Et quod ipse non vult in hac re nisi quod vult totum coUegium, ad quod omnino oportet super hoc providere: aut quod ipse d. M. Nicolletus acceptetur in dicto colle- gio iuxta tenorem literarum, aut quod colligantur duo experti qui sint doctores dicti collegii, et quod ipsi accedant ad Magnifìcos dominos pretores [sic, 1. rectores] padue et etiam ad Serenissi- mum dominium, ad deffendendum iura collegi] contra dictum M. pars, ut dictus magister christophorus, quo, hoc gradu honoris auctus, animatior et promptior reddatur ad perseverandum in sua lectura, Auctoritate hiiius consilii cooptetur in dicto Collegio, in locum scilicet primi qui quoquo modo deficiet. De parte, 88; de non, 12; non sinceri 2 ». Ritengo che di parere contrario dovesse essere Ser Vitale Landò, dot- tore e milite, non che « Sapiens terre firme », il quale ammoni « quod serventur promissiones facte collegio doctorum medicorum et artistarum padue », evidentemente col rispettarne i privilegi e gli statuti. Anche allora il Collegio aveva pestato i piedi e masticato amaro, ma poi aveva finito per rassegnarsi. Simili ingerenze del governo ve- neziano nelle faccende del Collegio non erano una novità: che anche quando di Lauro Quirini, veneziano e « doctor artium » da cinque anni, pose la sua candidatura per essere accolto nel Collegio padovano, ove i veneziani avean diritto a un certo numero di posti, la decisione si trascinò per oltre un mese, finché la domanda fu respinta con 9 « ba- lote » contro 8 (Arch. Ant. dell' Univ. di Padova, Sacro Coli, degli Artisti, voi. 309, ff. 122 v-r27 V, 15 apr. i maggio -1845). Dopo la morte di maestro Gaetano da Thiene (18 luglio 1465), Crist. da Recanati fu chiamato dal Senato veneto con voto unanime del 9 sett. 1465 (Senato-terra, Reg. 5, f. 134 v) a succedergli nella prima lettura ordinaria di filosofia. Morì il 30 marzo (gennaio, sec. il Bene- dettucci) 1480 a 56 anni, e fu sepolto nella chiesa delle monache di S. Francesco dell' Osservanza, « in vico pontis Altinatis », in un'arca di pietra « cum doctoris effigie dormientis », e un epistaffio che lo rac- comandava ai posteri come « medico celeberrino et philosophorum inclyto, quem universae Italiae Gymnasia peripateticae scholae prin- cipem luxerunt » (lac. Salomonius, Insc. ript. Urbis patav. Padova, 1701, p. 211, n. 20). Io, purtroppo, non conosco se non le Quaestiones recollectae super Calciilationes sub magistro Chistophoro de Recaneto, huius artis principe, die sabbati mensis novembris 1469, in festo sanctae Catharinae ». Ma il Coxe, Catal. Mss. Bibl. Bodl., Ili, Oxonii, 1854, segnala l'esistenza di un'esposizione Magistri Christofoli de Reganato super de celo et niundo ad instanciam Magistri.... Yeronimi de Cam- marino, e forse anche sul De physico auditu (n. 279, col. 644-45), non- ché di certe pillulae magistri Christophori Rechanatensis (n. 488, 5, col. 810). È un po' poco per giudicare delle lodi che gli tributarono i con- temporanei. Ad ogni modo, è inesatto quello che scrive il Facciolati, Fasti Gymnasii Patav., II, p. 104, che egli « primus averroi auctori- tatem in Gymmasio Patavino conciUasse dicitur, eius commentarla in philosophando unice secutus ». Prima di lui c'erano stati Paolo Veneto e Gaetano da Thiene, di cui il recanatese era stato discepolo. I20 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Nicoletum, et petere quod diete littere revocentur, tanquam impetrate et concesse contra formam statutorum dicti collegi],, ipso collegio et iuribus suis inauditis. Et super hoc factis multis sermonibus et arengationibus, prefatus dominus prior posuit ad partitum, quod quibus placet quod acceptetur in collegio d. M. Nicolectus iuxta tenorem lite- rarum Serenissimi domini], ponat suffragia sua in pisside rubea; quibus vero placuerit quod defensentur iura collegi] contra dictum Magistrum Nicoletum [per] expertos dicti collegi], ponat balotam suam in pisside viridi. Et facto scrutinio cum bussolis et balotis, invente fuerunt balote quinque in pisside rubea, in favorem dicti M. Nicoleti, et balote xv] in pisside viride, quod defensentur iura collegi] contra dictum Magistrum Nicoletum ^~. Cinque contro sedici costituisce un bello scacco per ser Nicoletto. Tuttavia è notevole che cinque membri del Collegio si mostrassero disposti, fin dal primo momento, a incassare il colpo, non ostante l'affronto al corpo. Lo facevano per sim- patia verso il filosofo chietino, o perché eran persuasi anch'essi che « durum est contra stimulum calcitrare » ? Si trattava ora di eleggere coloro che dovevano assumersi la difesa dei diritti del Collegio al cospetto dei rettori della città e del go- verno della Serenissima. Deinde posuit [prior] ad partitum, de consensu dominorum consiliariorum, quod quibus placet quod elligantur d. M. Nicolaus de Sancta Sophia, d. M. Ioannes Michael [de Bredepalea], d. M. lacobus [f. q. mag. Gratiadei] de Veneti]s et d. M. Ioannes Petrus de carari]s, qui accedant ad Magnificos pretores [/. rectores] padue et ad Serenissimum dominium Venetiarum, ad deffen- dendum iura et statuta dicti collegi] contra d. M. Nicoletum et literas per ipsum impetratas, ponat balotam suam in pisside rubra; quibus vero non placet, ponat balotam suam in pisside viride. Et facto scrutinio invente sunt balote xx] in pisside rubra, et balote due in pisside viridi negante. Et sic fuerunt ellecti. In questo verbale v' è un piccolo dettaglio che potrebbe fa- cilmente sfuggire. Il messo del podestà aveva detto, a nome di questo, che fosse riunito il Collegio e che ogni membro di- cesse la sua intorno alla faccenda : « et quod unusquisque super hoc dicat apparere suum ». E l'estensore del verbale ci assicura che furono fatti dai convenuti molti « discorsi e ar- ringhe » in proposito e a sproposito. Gli animi della maggio- 12 Arch. ant. delI'Univ. di Padova, voi. 312, f. 49 v. I ANCORA QUALCHE NOTIZIA SU NICOLETTO VERNIA 121 ranza s' infiammarono nel denunciare l'affronto fatto al Sacro Collegio e ai suoi statuti, e infiammati.... si suggestionavano a vicenda sino a prendere le decisioni che presero quel merco- ledì 31 maggio. Ma tornato a casa, ognuno di quelli che avevano gridato piti forte contro la soperchieria che si perpetrava da parte della Serenissima Signoria, si sarà messo a riflettere che anche le mura della chiesa di S. Urbano, ov'eran raccolti, avevano orecchie, e probabilmente più d'uno si sarà morsa, un po' tardi, la lingua. Fatto sta che il venerdì 2 giugno il Sacro Collegio fu di nuovo convocato dallo stesso priore, non più nella chiesa di S. Urbano, ma « in palatio Episcopali, hora xxij ». Il priore si fece eco delle considerazioni che due giorni di riflessione avevano ma- turato nell'animo dei suoi magnanimi colleghi, e parlò un lin- guaggio più circospetto. Illico et immediate prefatus prior dixit: famosissimi domini doctores, vos vidistis Mandatum mihi factum nomine collegij [/. Potestatis], ut accipere debeamus omnino in collegio, in exe- cutione literarum ducalium, d. M. Nicoletum, prout in literis ducalibus continetur. Mihi videtur, ne videamur esse inobedientes et rebelles Hteris Serenissimi domini] Venetiarum, quod bonum esset ipsum d. M. Nicoletum acceptare in dicto collegio ad ul- timum locum, cum protestacione quod non intendimus ipsum acceptare in preiudicium iurium et statutorum nostrorum, et quod reservamus nobis ius prosequendi iura nostra centra dictum d. M. Nicoletum et petendi revocationem dictarum literarum tanqviam indebite, collegio nostro inaudito, concessarum et com- missarum dicto d. M. Nicoleto. Et ita satisfaciemus Voluntati Serenissimi dominij impune et absque alio inconvenienti et schan- dalo dicti collegij. E COSÌ fu deciso. Un paio di settimane dopo, e precisamente dal martedì 20 giugno ^3, «Nicoletus» comincia a figurare in coda alle liste dei membri del Collegio; poi, man mano che altri membri entrano a farne parte, il suo nome dall'ultimo posto passa al penultimo, e, su su, in una ventina d'anni di- venta uno dei primi, e comincia ugualmente a figurare in quelle dei promotori nei verbali di dottorato. Della protesta e della riserva cui accennava il priore del Collegio, l'egregio 13 Ib., f. 52 V. 122 l'aristotelismo PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI dottore in artihus Maestro Cristoforo da Recanati, non si parlò più, ritenendosi che il fatto ricadesse sotto l' impero di quello che i giuristi pisani chiamavano 1' « ius mengicum seu gengicum de praescriptione », e che molti filosofi molto filo- soficamente ritengono un « precipitato storico della giustizia eterna » ! Nove anni dopo, esattamente il lunedì 2 novembre 1478, il povero Nicoletto, sano per grazia di nostro Signor Gesù Cristo « mente et sensu », era tuttavia « corpore languescens »; e pare si trattasse di malattia piuttosto seria, se in quel giorno provvide a far testamento, disponendo dei suoi averi a fa- vore del monastero di S. Giovanni in \'erdara a Padova '4. Da questo documento confrontato col testamento del 1499, pubblicato dal Ragnisco ^S appare che nel 1478 egli a Padova abitava « in contrata burgi Capellorum » e non ancora « in contrata S. Lucie», come nel 1483, se questa data è esatta ^^, né ancora «in contrata putei Bonelli», come nel 1499 '7; risulta parimente che non era ancora cittadino di Vicenza, che non disponeva dei possessi di Colze, e non si sa se ancora avesse avuto a che fare con la famiglia vicentina Dalla Scrofa. Questi rapporti sono strettamente connessi con l'acquisto poco chiaro della cittadinanza vicentina e della villa di Colze, quando i suoi guadagni erano aumentati assai. Su tutti questi punti potrebbero far luce ricerche negli archivi notarili di Padova e di Vicenza. Ad ogni modo, parrebbe che le sue fortune cominciassero a prosperare, scapolato alla morte, dopo il 1481; ed anche al- lora con l'appoggio di autorevoli patroni. Dal primo dei tre documenti pubblicati da R. Persiani ^^, si rileva che l'amba- 14 Cfr. P. Sambin, /. e. Sui rapporti del Vernia coi canonici Regolari Lateransi del monastero di S. Giovanni in Verdara a Padova gette- ranno luce le ricerche dello stesso Sambin sulla biblioteca di questo monastero. Uno studio sulla tomba del Vernia e sui rapporti di lui con gli stessi Canonici Lateranensi del monastero di S. Bartolomeo a Vi- cenza sta per dare in luce negli Atti dell'Accademia vicentina, il prof. Antonio della Pozza, direttore della Bertoliana. 15 In «Atti e Memorie» dell'Accad. di Se. Lett. ed Arti di Padova, Anno 292, 1890-1891, N. S., voi. VII, disp. 3^, p. 280. V. sopra, p. 000. 16 Poiché il 16 genn. 1483, non cadeva in giovedì, come nel docum. Ili pubblicato dal Sambin, ma in mercoledì. Quindi o è sbagliato l'anno, oppure il giorno. 17 Ragnisco, /. e, p. 284. 18 In La Riv. Abruzzese di Se, Leti, ed Arti, Vili, 1893, pp. 211-212. ANCORA QUALCHE NOTIZIA SU NICOLETTO VERNIA I23 sciatore napoletano, Dott. Aniello Arcamona, s'adoprava in quest'anno presso il Senato veneziano, perché il famoso dot- tore Maestro Nicoletto da Chieti, che da più anni leggeva a Padova la filosofia ordinaria « cum maxima elegantia et suf- ficientia ac contentamento omnium », fosse confermato in detta lettura « ita ut non subiaceat de cetero ulli ballottationi ». Era già aggregato al collegio ! La domanda fu accolta con 122 voti favorevoli, e uno solo contrario. Molto più importante è il secondo documento pubblicato dallo stesso Persiani, del 13 dicembre 1487. Da esso si rileva che ser Nicoletto, ottenuta la stabilità a vita, aveva messo su boria, e «sub pretextu quod non habeat ccncurrentem sibi parem, obtinuit pridem a dominio nostro litteras, per quas ei concessum fuit ut legere possit bora extraordinaria, quo fit quod venit eo modo carere concurrente ». Quanto al credersi superiore ad ogni altro professore che fosse a Padova, e magari sotto la cappa del cielo, il Vernia fu buon maestro ad Agostino da Sessa, che si riteneva « il primo homo dil mondo », com'ebbe a dichiarare al console veneziano a Napoli, Lunardo Anselmi '9. In questo sì il maestro che lo scolaro eran ben lontani dalla modestia del Peretto man- tovano che preferiva di confessare con Socrate : « Hoc unum scio, quod nihil scio » -°. Ed anche questa volta ser Nicoletto era riuscito ad otte- nere r insolito privilegio con lettera della Signoria veneziana. Ma egU non aveva fatto i conti con gli studenti, che, per quanto chiassosi, erano anche allora i migliori giudici della capacità dei loro professori. E gli studenti appunto protestarono per r immeritato privilegio e per la flagrante violazione degli statuti accademici da parte di coloro che avrebbero dovuto esserne i vigili tutori. L' istituto della concorrenza a Padova esigeva che per ogni materia professata i lettori ordinari fossero due, e che leggessero e commentassero gli stessi testi negli stessi giorni e alla stessa ora. Gli studenti potevano ascoltare la lezione dell'uno o dell'altro concorrente, scambiandosi poi gli appunti e le impressioni, e avviare discussioni, sollevando obiezioni 19 M. Sanuto, Diarii, VII, 678. 20 Giorn. Crii. d. Filos. Hai., XXXIII, 1954, pp. 91-92 e 341-342. 124 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI alla fine della lezione, e continuando le discussioni, avviate entro l'aula, al circolo dei filosofi, che più tardi ebbe la sede sotto il portico del podestà, a pochi passi dal Bò. L' intento perseguito con l' istituto della concorrenza era quello di obbli- gare i professori a tenersi al corrente ed a studiare : « Et hoc ut fiant dihgentissimi coactique sint studere, et ex conse- quenti satisfacere habeant scolaribus audientibus ». Ora Mastro Nicoletto, ottenuto il privilegio di leggere senza concorrente, « hora extraordinaria », scelta a suo piacimento, dice il documento pubblicato dal Persiani, « minime curat studere, fitque negligens cum magna murmuratione scolarium, qui, hanc ob causam, relieto studio, venerunt ad presentiam nostri domimi et indolentes {sic, 1. dolentes) supplicantur ut forma et continentia ipsorum statutorum superinde loquen- tium sibi observetur ». Non saprei se fra quei cari studenti v'era anche il Pomponazzi, il quale si laureò in artihus appena qualche mese prima che il Senato obbligasse il maestro chie- tino a rispettare gli statuti sul fatto della concorrenza e a rinunziare al privilegio abusivamente concessogli (13 dicem- bre 1487). Ultimo aneddoto della vita padovana del Vernia è il suo dottorato in medicina avvenuto un po' alla chetichella il 29 dicembre 1495. L' 8 settembre dello stesso anno, dopo trent'anni d' insegnamento della filosofia naturale, in ricono- scimento dei suoi meriti, la Signoria veneziana, con l'appro- vazione di tutto il Consiglio, gli aveva finalmente concesso il raro privilegio che un tempo era stato concesso, per le loro benemerenze, a Gaetano da Thiene e a Maestro Cristoforo da Recanati, di leggere senza concorrente. Parrebbe che ormai non dovesse avere altra aspirazione che quella di portare a compimento le Quaestiones de pluralitate intellectus contra falsam et ah onini ventate remotam opinionem Averroys, per riguadagnarsi la stima del vescovo di Padova e per ottem- perare all' invito del doge Agostino Barbarigo, dimostrando falsi e calunniosi i sospetti, che si susurravano « in angulis », di una sua adesione all'averroismo. Doveva essere sulla set- tantina. Eppure alla distanza di trentasette anni dal dottorato in artihus non esitava a sottoporsi agli esami per conseguire il titolo di dottore in medicina. Promotori furono i suoi col- leghi Giovanni Aquilano, Lorenzo da Noale e Girolamo da Verona; testimoni i patrizi veneziani Lorenzo Donato e Vin- { ANCORA QUALCHE NOTIZIA SU NICOLETTO VERNIA I25 cenzo Quirini, e i maestri dello Studio Pietro Pomponazzi e Antonio Francanziano -^ Che cosa l'avrà spinto a procacciarsi il titolo di medico a quell'età ? e a che cosa poteva giovargli ? La risposta forse potremo trovarla in questa notizia che si legge nei Diarii di Marin Sanudo --, « a di 2 zener » [1499]. Vene li miedigi di collegio di questa terra [Venezia], expo- nendo, conzò sia che a tempo di le vachation maestro Zuan de l'Aquila, maestro Nicoleto, maestro Hironimo da Verona et maestro Gabriel Zerbi, medici, legevano a Padoa, venissero a miedegar in questa terra; per tanto chiedevano, nel tempo ste- vano dicti medici qui, facessero le angarie come Ihoro, sì da pagar il medico in armada etc. E li fu concesso, et cussi per la Signoria, consulente collegio, fo terminato in scriptura. Ecco a che cosa doveva servire la laurea in medicina: ad andare « a miedegar » a Venezia durante le vacanze, facendo concorrenza ai medici del luogo, sia col fatto di essere maestri di medicina dello Studio patavino, sia perché questi padovani non facevano « le angarie » che dovevano fare i medici vene- ziani « sì da pagar il medico in armada ». Lo stipendio di 180 fiorini non pareva abbastanza al filosofo chietino, che, al dire del Pomponazzi, «prò uno quadrante perdidisset hominem» -3, e doveva invidiare i guadagni che i colleghi medici traevano, nel periodo delle vacanze, a Venezia, dall'esercizio della loro arte. Due di essi, Giovanni Aquilano e il veronese Girolamo della Torre, erano stati suoi promotori, ed entrambi godevano di onorata nominanza a Padova e altrove per la loro perizia nel « miedegar », sì che la loro opera era molto ricercata. Ma di gran lunga più celebre era Gabriele Zerbi, anch'esso vero- nese, anatomista e avversario di Iacopo Berengario da Carpi, ■che gli muove gravissime accuse, forse infondate o almeno esagerate. Appena sei anni più tardi, nel 1505, morì di morte •efferata, nel viaggio di ritorno dalla Turchia, ove la sua fama di medico era giunta, recatavi dai veneziani. 21 Padova, Arch. d. Curia Vesc, Acta graduum, voi. 44, f. 290 r. V. sotto, p. 162. " I, 314- 23 V. sopra, pp. 114. 120 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Coiraiuto compiacente di questi e altri colleghi, il 29 di- cembre 1495, il filosofo chietino ebbe dunque le insegne di dottore in medicina, conferitegli da Giovanni Aquilano, e quattro anni dopo lo troviamo a Venezia « a miedegar », in sieme a Giovanni Aquilano, a Gerolamo da Verona e Ga- briele Zerbi, ai quali la piacevole compagnia del faceto filo- sofo non doveva riuscire ingrata. Ma bel gioco dura poco. Ed il primo ad abbandonare il quartetto fu proprio maestro Nicoletto, il quale fece appena in tempo a preparare per la stampa il libro che lo faceva tor- nare nelle buone grazie del Barozzi. Il 3 agosto 1499, a Vicenza, dettava le sue ultime volontà, e due mesi dopo trovava pace nella tomba presso i Canonici Regolari Lateranensi della stessa città -4. 22 Sotto al bel monumento sepolcrale che ora trovasi nella cap- pella dell' Ospedale Civile di Vicenza, e già da me riprodotto in « Giorn. Crit. d. Filos. Ital. », XXXVI, 1955, pp. 496-97, si legge questa iscri- zione, in cui è fatta speciale menzione della sua ultima opera: « Ni- co[letus], Phi[losophus] Cla[rissimus], De animi plu[ralitate] ac fel[i- citate] edito libro, Pat[avina] in Acca[demia] anni[s] XL flor[uit]. Obiit III Nonas Octobris M. CCCC. LXXXXVIIII. VI LA MISTICA AVERROISTICA E PICO DELLA MIRANDOLA = Comunemente, quando si parla oggi d'averroismo, vien fatto di pensare alla dottrina dell'unità dell' intelletto possibile per tutta la specie umana; la quale dottrina vien designata, con un vocabolo moderno che si direbbe coniato apposta per ac- crescere la confusione, «pampsichismo». Ma rari sono coloro che dell'averroismo mettono in evidenza quella tipica dottrina mistica che fu uno degli argomenti maggiormente discussi, fra gli averroisti e i loro avversari, dalla fine del secolo XIII a tutto il XVI. E, ciò che è più strano, ne tacciono sia il Man- donnet che il Van Steenberghen nelle loro massicce diffuse monografìe dedicate a Sigieri di Brabante. Eppure la mistica averroistica era stata fatta oggetto di ampia discussione da parte di S. Alberto Magno, di S. Tommaso e di Sigieri. Sebbene non fosse stato ancora tradotto in latino il trattatello De animae beatitudine, essi conoscevano bene il commento e l'ampia disgressione d'Averroè sul testo XXXVI del terzo libro del De anima, assai più importante di quel piccolo trattato, e per chiarezza e per compiutezza. In questo testo del De anima, s'accenna al problema, se è possibile che l' intelletto unito al corpo arrivi a conoscere le sostanze separate. Ivi Aristotele promette che questo argo- mento sarà discusso più tardi ' ; a noi per altro non è giunto alcuno scritto dello Stagirita, nel quale il problema ora ac- cennato sia risolto. S. Tommaso, dopo aver dubitato che Aristotele, sorpreso dalla morte, fosse mai pervenuto a trat- * Dal volume Umanesimo e Machiavellismo dell' « Archivio di Filo- sofia », Padova, Editoria Liviana, 1949. I Arist., De Anima, III, t. e. 36, e. 7, 43ib 18-19. 128 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI tare delle sostanze separate -, finì per credere che il problema fosse risolto dallo Stagirita in un'opera non ancora tradotta in latino che gli era stata mostrata 3. Anche Alberto Magno, che a questo problema dedica il suo trattato De intellectu et intelligibili, ritiene che quest'opera, rimasta sconosciuta a lui, era ben nota a molti dei discepoli d'Aristotele, i quali si sarebbero ispirati ad essa in quei numerosi scritti che Alberto ben conosceva e nei quali credette di trovare il fior fiore del- l' insegnamento aristotelico 4. Neil' intento di chiarire il pensiero di Aristotele su questo punto, commentatori greci come Alessandro d'Afrodisia e Temistio, o arabi come Alf arabi, Avicenna ed Abu Baker Avenpace, avevano cercato negli scritti dello Stagirita quale, a loro avviso, dovesse essere la soluzione di quel problema, conforme ai principi della filosofia peripatetica. Averroè, venuto dopo costoro, aveva intrapreso, nel detto commento al testo XXXVI del terzo del De anima, una vivace critica delle loro teorie, in parte rigettandole e in parte sforzandosi di correggerle. Alessandro d'Afrodisia aveva ritenuto che l'uomo potesse arrivare alla conoscenza del mondo immateriale mediante la « copulatio » dell' intelletto potenziale con l' intelletto agente. L' intelletto potenziale è, per l'Afrodisio, una semplice pre- parazione o disposizione dell'organismo vivente di vita sen- sibile. L' intelletto agente invece è la causa prima di tutte le cose, la quale, irraggiando la luce dell' intelligibilità sulla ma- teria, la plasma e trae dalla potenzialità di essa tutti gli esseri del mondo corporeo. Questi imprimono le loro qualità dapprima sui sensi esterni ; e per mezzo di queste prime impressioni susci- tano l'attività dei sensi interni e particolarmente dell' imma- ginativa. L'attività conoscitiva degli animali inferiori al- l'uomo s'arresta qui. Ma l'organismo umano, sviluppatosi sotto l'azione dell' intelletto agente, è dotato d'un principio vitale più perfetto che tende più su. V è in esso una capacità o disposizione che, per quanto le- gata all'organismo vivente, lo porta ad aprirsi una veduta sul 2 S. Tommaso, De anima, III, lez. 12 in fine. 3 S. Tommaso. De imitate intellectus cantra averr., ed. L. W. Keeler, Roma, Pontificia Univ. Gregoriana, 1936, Cap. I, 42, p. 27. 4 Alb. Magno, De intellectu ed intelligibili, I tr. i, e. i. MISTICA AVERROISTICA E PICO DELLA MIRANDOLA 129 mondo intelligibile. Questa capacità o disposizione è ciò che Aristotele avrebbe chiamato l' intelletto in potenza. Soltanto la luce inteUigibile dell' intelletto agente, la quale avvolge € vivifica tutta la natura, può trarre all'atto questa pura potenziaHtà. Ma la luce divina dell' intelletto agente attua r intelletto potenziale per gradi : prima per mezzo degl' intel- ligibili astratti dai fantasmi dell' immaginativa ; poi per mezzo delle scienze speculative ; finalmente, quando l' intelletto umano è intelletto in atto o in abito, l' intelletto agente, cioè la luce divina, lo riempie di sé, lo informa e lo rende capace di contemplare in se stesso il mondo divino dei puri spiriti. Siccome in questo stato l' intelletto contempla Dio per mezzo di Dio stesso, esso è detto « intelletto acquisito ». La teoria d'Alessandro, con la sua graduale ascesa della mente umana a Dio, che nell'ultimo grado della sua elevazione finisce per essere deificata, sembra aver sedotto Averroè. Il quale, per altro, ne scorge acutamente le difficoltà. Se il punto di partenza di questa ascesa verso il divino è l' intel- letto in potenza, e se questo è semplice attitudine dell'anima sensitiva essenzialmente legata all'organismo del quale su- bisce le vicende, bisognerebbe ammettere che una virtù or- ganica, generabile e corruttibile, vincolata cioè dalle condi- zioni dello spazio e del tempo, fosse capace d'elevarsi alla conoscenza di ciò che è universale, libero cioè dallo spazio e dal tempo, ossia dalle condizioni della sensibilità o, come si diceva nel medio evo, della materia. Si può bene intendere, fino ad un certo punto, che la causa prima operi, come causa agente, sul mondo materiale e sull'intelletto potenziale; ma non si riesce a capire in che modo l' intelletto agente possa farsi forma d'una virtù organica e renderla simile a sé. L' « in- telletto acquisito» è concetto che non è punto chiaro. In quanto « acquisito » parrebbe qualcosa di diverso dal soggetto che lo acquista; ma non si vede come un soggetto corruttibile possa acquistare e far suo l'eterno. Per queste ragioni parve ad Averroè che l' intelletto poten- ziale non dovesse essere « ncque corpus ncque virtus in corpo- re »; in altri termini, la natura di siffatto intelletto vuol essere sciolta da ogni intrinseco legame colla materia. Sostanza se- parata esso stesso, l' intelletto possibile diviene capace di quella ascesa al mondo delle sostanze separate, mediante la « copulatio » coir intelletto agente. 9 130 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Anche Abu Nasar Alfarabi s'era fermato a meditare sul problema posto da Aristotele e sulla soluzione che ne aveva dato Alessandro. E nella sua opera intorno all' Etica Nico- machea, avendo accettata la dottrina del commentatore greco suir intelletto possibile, s'era limitato a considerare l' intel- letto agente come causa attiva del passaggio di quello dalla potenza all'atto, e non come forma che s'unisce ad esso. In- vece, nel trattato De intellectu et intelligibili , Alfarabi ammise che r intelletto possibile, già pienamente attuato dagl' intel- ligibili tratti del mondo sensibile, diventa soggetto d'una più intima unione coli' intelletto agente, dal quale riceve una più copiosa illuminazione che gli dischiude la vista del mondo sovrasensibile. In questa unione coli' intelletto agente, cui serve di preparazione l'acquisto delle scienze speculative, e che anche Abu Nasar chiama « intelletto acquisito « {intel- lectus adeptus), consiste la suprema perfezione della mente umana e la beatitudine finale dell'uomo 5. Ma Averroè e' in- forma, nel De animae beatitudine ^, che il povero Abu Nasar, giunto al fine de' suoi giorni con la ferma convinzione di po- tere arrivare a questo alto grado di perfezione, cui s'era appa- recchiato procacciandosi tutto il sapere a lui accessibile, come s'accorse che non c'era arrivato, ebbe a dichiarare im- possibile e vana l'aspirazione a congiungersi con le sostanze separate, ritenendo ormai favole da vecchierelle le descri- zioni puramente immaginarie che taluni facevano dell'uomo pervenuto a tale sovrumana altezza. Quest'umile riconoscimento della limitatezza del sapere umano fatto da Alfarabi, ormai sul passo estremo, non aveva per altro scoraggiato Abu Baker Avenpace. Il quale, dice Averroè 7, s'adoperò a lungo a risolvere l'arduo problema, senza perderlo di vista un batter d'occhio. Oltre che nel suo commento al De anima, Avenpace tratta di questo argomento in « molti altri suoi libri », di due dei quali conosciamo i titoli: 5 Alpharabii, De intellectu, nell'edizione di Avicenna, Opera.... per canonicos emendata. Venezia, eredi di Ottaviano Scoto, 1508, fol. 68, col. 4. Il trattatello è stato ristampato nella traduzione latina da E. GiLSON, in Archives d' hist. doctr. et litt. au moyen 8ge, 1929. Cfr. B. Nardi, introduzione a S. Tommaso d'Aquino, Trattato sull'unità del- l'intelletto contro gli averroisti, Firenze, Sansoni, 1938, p. 32. 6 Capp. 3-4; cfr. A. Nifo, In Averrois de animae beatitudine, Venezia, eredi dì O. Scoto, 1520, I, testo 59, e II, t. 11. 7 Avere., De Anima, III, comm. 36, digress., parte II e III. MISTICA AVERROISTICA E PICO DELLA MIRANDOLA I3I r Epistula de perfectione 8, e il Tractatus de copulatione. Anche la teoria di questo pensatore si ricollega strettamente a quella di Alessandro e d'Alfarabi, per quanto concerne la natura dell' intelletto potenziale e nel ritenere che alla conoscenza delle sostanze separate si possa giungere per mezzo del sapere speculativo, ossia della progressiva attuazione dell' intelletto, in potenza. L'atto col quale l' intelletto umano dal sapere scientifico s'eleva alla conoscenza dei puri intelligibili separati, potrebbe dirsi un atto di superastrazione, col quale dai con- cetti astratti, ricavati dalla realtà sensibile, si astrae quella pura essenza intelligibile che è semplice e identica per tutte le menti: «Et cum philosophus ascenderit alia ascensione, considerando in intellecto inquantum intellectum, tunc in- telliget substantiam abstractam » 9. Sembra, per altro, che Abu Baker si mostrasse alquanto perplesso in merito a questa suprema ascesa, che dovrebbe coronare gli sforzi di chiunque è giunto in possesso di tutto lo scibile filosofico; e che egli, nell'Epistola de perfectione, la ritenesse possibile non tanto per lo sforzo della natura umana, quanto piuttosto per un aiuto divino: « intellectio istius intellectus est de possibilitate divina, non de possibilitate naturae » '". Ad ogni modo, la maggiore difficoltà, che travaglia anche la teoria di Alf arabi e d'Avenpace, consiste nel punto di par- tenza, cioè nell'aver considerato l' intelletto potenziale gene- rabile e corruttibile, come l'aveva ritenuto Alessandro d'Afro- disia. Non così possiamo dire di Temistio. Per questo parafraste bizantino d'Aristotele, com' è stato inteso da Averroè, l' in- telletto potenziale è immateriale, uno ed eterno, al pari del- l' intelletto agente che n' è la forma. Il problema che concerne Temistio, è un altro. Se l' intelletto potenziale è uno e inge- nerabile, ed uno e ingenerabile è l'intelletto agente; e se il primo è tratto dalla potenza all'atto e diventa intelletto spe- culativo per r informazione del secondo, non si riesce a vedere come il concorrere di due cause eterne possa dar luogo ad un effetto generabile e corruttibile, qual' è il mio individuale atto d' intendere, susseguente, in particolari contingenze di 8 MuNK, Mélanges de philosophie juive et arabe, Parigi, 1859, p. 393 sgg. 9 AvERR., /. e, parte III. '0 AVERR., ib. 132 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI tempo e d'ambiente, al non intendere, e diverso dall'atto col quale altri intende quel che non intendo io. Nel pieno con- giungimento dell' intelletto potenziale con l' intelletto agente consiste anche per Temistio il più alto grado di perfezione raggiungibile dall'uomo; ma il bizantino non spiega perché questo congiungimento avvenga soltanto alla fine e non al principio dello sviluppo intellettuale dell'uomo; egli cioè non spiega perché l' intelletto agente, fin dal primo momento della sua unione all' intelletto possibile, non attua tutta intera la potenzialità di quest'ultimo, se è vero che gì' intelligibili, come pensa Temistio con Platone, anzi che tratti dalle imma- gini sensibili, sono irraggianti dall' intelletto agente su quello potenziale. A risolvere le difiìcoltà contro le quali urtava da un lato la teoria d'Alessandro e dall'altro quella di Temistio, il com- mentatore di Cordova pose questi fondamenti. Anzi tutto, l'intelletto che è soggetto del pensare, in quanto questa fun- zione conoscitiva si differenzia dal sentire, non può essere <( ncque corpus ncque virtus in corpore », quale è invece, per lui, la capacità di sentire, essenzialmente legata all'or- ganismo. Perciò r intelletto possibile, che è appunto questo soggetto, dovrà essere una sostanza separata, e come tale unica per tutta la specie umana. Ma a differenza delle altre sostanze separate che per sé sono sempre in atto, e nelle quali l' intendere coincide con l'essere, l' intelletto umano, come aveva detto Aristotele, non ha altra natura che quella d'essere in potenza ". Mentre le altre intelhgenze separate sono eter- namente attuate da puri intelligibili che ne costituiscono la natura, la mente umana è ordinata a intendere la realtà del mondo sensibile. Ma nella realtà sensibile il suggello ideale è come oscurato dalla sua unione alla materia, ed ha bisogno d'esserne liberato per riacquistare la sua intelhgibilità. La prima funzione dell' intelletto agente è appunto quella di rendere all' idea immersa nella materia la sua intelligibilità. Come la luce solare diffondendosi sulle cose ne suscita i colori, che nell'oscurità erano invisibili, così la luce dell' in- telletto agente, riflessa dalle immagini della fantasia, le rende intelhgibili, cioè capaci d'attuare la potenza dell' intelletto possibile. Nel coadiuvare il processo d'astrazione dell' idea II Arist., De anima. III, t. e. 5, e. 4, 429 a 21-22. MISTICA AVERROISTICA E PICO DELLA MIRANDOLA I33 dall' immagine sensibile, l' intelletto agente s'unisce all' in- telletto potenziale come causa agente. Ma esso coopera al- tresì all'atto dell' intendere come forma, poiché l' intelligibile che attua l' intelletto potenziale è reale soltanto nella luce dell' intelletto agente. Ciò spiega perché l' intelletto possibile, pur essendo in se stesso una sostanza immateriale e separata, ha bisogno d'es- sere eternamente unita a degli organismi umani, che gli for- niscano le immagini sensibili, senza delle quali esso, come spesso ripete Aristotele ^-, niente potrebbe intendere. Dall' immaginativa, dunque, la mente umana trae i suoi primi intelligibili. Ma la sua potenza è infinita come quella della materia prima: priva di ogni particolare determinazione, scevra d'ogni mescolanza, la mente umana è in potenza a diventare idealmente tutte le cose ^3. A trarre all'atto tutta e sempre la infinita potenza della mente umana, non sono suf- ficienti i pochi intelligibili che il singolo può profcacciarsi me- diante la sua individuale esperienza del mondo sensibile. Perciò r intelletto potenziale ha bisogno d'essere unito a una moltitudine infinita di individui che, sparsi su tutta la terra, gli forniscono incessantemente quelle immagini, senza delle quali r intelletto nulla può intendere. L'eternità dell' intel- letto possibile postula, quindi, la eternità della specie umana. E questa forma un'unità indissolubile in quanto ordinata al perfezionamento dell' intelletto. Ma se possiamo dire che in tal mondo, cioè per la coopera- zione di tutto intero il genere umano, la potenzialità dell' in- telletto è tutta e sempre in atto, quanto all'acquisto e al pos- sesso del sapere speculativo e pratico, assai rari sono che s'elevano fino alla contemplazione delle sostanze separate nella perfetta unione coli' intelletto agente. Abbiamo visto che nel passaggio dell' intelletto umano dalla potenza all'atto dell' intendere un qualsiasi intelhgi- bile, r intelletto agente prima s'unisce ad esso come causa agente del processo d'astrazione dell' intelligibile stesso dalla rappresentazione immaginativa, indi lo stesso intelletto agente s'unisce all' intelletto possibile come forma, in quanto 12 Arist., De anima, III, t. e. 30, e. 7, 431 a 16; t. e. 32,431 b 2; t. e. 39, e. 8, 432 a 8. 13 Arist., ib.. Ili, t. e. 4, e. 4, 429 a 18; t. e. 17-18, e. 5, 430 a 10-15^ 134 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI per mezzo di quel!' intelligibile attua e determina la poten- zialità della mente umana. Ma questa unione è soltanto parziale, perché limitata a quel particolare intelligibile. Quando la mente umana, per via d'astrazione, si sarà procacciato il possesso di tutti gì' intelligibili con l'acquisto di tutte le scienze, allora l' intelletto agente si troverà unito totalmente come forma all'intelletto in potenza; dalla perfetta unione d'un intelletto coll'altro risulta quello che già Alessandro, Al- farabi e Avenpace avevano chiamato « intelletto acquisito » {intellectus adeptus). E l'uomo che con lo sforzo della medita- zione è pervenuto a questo segno, ben si può dire che abbia raggiunta quella somiglianza con Dio, la quale consiste, se- condo Temistio '4, in questo, « che, al pari della mente divina, anche la mente umana è in certo modo tutte le cose ». Ma che cosa sia con precisione, per Averroè, l' intelletto agente, non è ben chiaro; e fra gli stessi averroisti e' è gran dissenso su questo punto. Che alcuni lo ritengono un prin- cipio intrinseco all'anima razionale; altri, al pari di Avicenna, ne fecero una sostanza separata; altri ancora giudicarono che, su quest'argomento, Averroè fosse d'accordo con Ales- sandro d'Afrodisia, il quale, come sappiamo, identificò l' in- telletto agente con Dio. Naturalmente, secondo che s'accoglie l'una o l'altra di queste interpretazioni, la mistica averroistica si colora di riflessi assai diversi, come vedremo. Per il momento basti osservare, che il carattere essenziale di questa mistica è di essere una mistica prettamente intellettualistica, poiché essa è il prodotto di una dottrina speculativa elaborata per mezzo della ragione ragionante, ed è estranea ad ogni stimolo affettivo. Soltanto in Avicenna, e più tardi anche nel filosofo ebreo Moisè Maimonide, siffatta mistica, pur mantenendo il suo es- senziale carattere intellettualistico, comincia a compenetrarsi di elementi religiosi, quali il dono della profezia, nonché il potere di operare miracoli e di mutare perfino il corso degli eventi naturali, concessi all'uomo privilegiato la cui mente sia arrivata a congiungersi col mondo degli spiriti celesti, per mezzo dell' intelletto agente. Averroè non si spinse tant'oltre, e guardò sempre con diffidenza a siffatti derivati dell' insegna- mento d'Apollonio di Tiana. ^4 De anima, ed. Heinze. Berlino, 1899, pp. 24 MISTICA AVERROISTICA E PICO DELLA MIRANDOLA I35 Questa mistica averroistica attirò l'attenzione d'Alberto Magno, spinto dalla sua acuta brama di sapere a frugare in ogni pili riposto angolo dello scibile. E mentre Tommaso d'Aquino condannava le dottrine intorno alla copulatio come deviazioni dalla retta interpretazione del pensiero d'Aristotele e come assurde dal punto di vista strettamente filosofico, il suo confratello e maestro tedesco ne prendeva apertamente la difesa, anche se queste dottrine, come in molti altri casi, fos- sero da rigettare come contrarie alla fede, giacché è risaputo che non di rado « theologica non conveniunt cum physicis principiis » '5. Anzi, nel commento al De anima, dopo aver di- chiarato che nell'esposizione delle dottrine che concernono r intelletto egli intende attenersi alla maniera di pensare dei peripatetici, e di aborrire da quella dei « dottori latini » '6, postosi il problema della conoscenza delle sostanze separate da parte dell' intelletto umano, ripudia dal punto di vista filosofico la teoria di coloro i quali sostengono, come fa anche Tommaso, che le sostanze separate si conoscono « per opera, sicut per effectum venitur in causam per intellectum » '"; e non soltanto è del parere che questi latini « non convenerunt in positionibus suis et in dictis Peripateticorum, sed diverte- runt in unam quandam alteram viam et induxerunt alia prin- cipia et alias positiones » ^^, ma dichiara senza ambagi di tro- varsi d'accordo quasi in tutto con Averroè e di discordare da lui soltanto in poche cose. Una cosa, intorno alla quale Alberto dichiara di dissentire da Averroé, è questa: per Averroé l'intelletto agente è una sostanza separata, diversa dalla sostanza dell'anima razionale; per il domenicano, invece, l' intelletto agente è facoltà e parte della stessa anima. Ma questa divergenza è di secondaria im- portanza, poiché r intelletto agente che è parte dell'anima non è capace di compiere la sua funzione d' intelletto agente, se non in quanto è perennemente congiunto con la luce della prima intelligenza agente, che è Dio, e della quale è un ri- 15 Alb. Magno, Metaph., XI, tr. 3, e. 7; cir. Rivista di storia della filosofia, II, 1947, p. 199- 16 Alb. Magno, De Anima, III, tr. 2, e. i; cfr. Riv. di st. d. filos., cit. p. 215. 17 Alb. Magno, De anima, III, tr. 3, e. io; cfr. Giorn. crit. d. filos. ital., XXII, 1941, p. 41. 18 Ib. 136 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI flesso. A parte questa divergenza, Alberto dichiara esplici- tamente di far sua la tesi averroistica sulla « copulatio » e suir « intellectus adeptus » che ne risulta : Et sic, cum [intellectus possibilis] acceperit omnia intel- lecta, habet lumen agentis in formam sibi adhaerentem ; et.... tunc adhaeret intellectus agens possibili sicut forma; et hoc sic com- positum vocatur a Peripateticis intellectus adeptus et divinus; et tunc homo perfectus est ad operandum opus illud quod est est opus suum inquantum homo; et hoc est opus quod operatur Deus; et hoc est perfecte per seipsum contemplari et intelligere separata.... Mirabilis autem et optimus est iste status intellectus adepti sic; per eum enim homo fit similis quodammodo Deo, eo quod potest operari sic divina et largiri sibi et aliis intellectus divinos- et accipere omnia intellecta quodammodo ^9. Ma se per Alberto l' intelletto agente, cui l' intelletto pos- sibile s'unisce per formare insieme ad esso 1' « intelletto acqui- sito » o « adeptus », è una parte dell'anima, e non, come per Averroé, una sostanza superiore a questa, è evidente che il moto ascensivo della mente umana non può fermarsi all' « in- tellectus adeptus » e in questo non può consistere la suprema perfezione dell'uomo. È possibile un'ulteriore ascesa, fino al congiungimento con le intelligenze che muovono i corpi ce- lesti e con la prima intelligenza mostrice. Questo supremo grado di perfezione è costituito da quello che Alberto chiama,^ coi « più antichi fra i filosofi », « intellectus assimilativus ». Est autem intellectus assimilativus, in quo homo, quantum possibile sive fas est, proportionaliter surgit ad intellectum di- vinum, qui est lumen et causa omnium. Fit autem hoc, cum per omnia in effectu factus intellectus perfecte adeptus est seipsum et lumen agentis, et ex omnium luminibus et notitia sui extendit se in luminibus intelligentiarum, ascendens gradatim ad intellec- tum simplicem divinum; devenit ergo ex lumine sui agentis in lu- men intelligentiae, et ex ilio extendit se ad intellectum Dei ^°. Questo « intelletto assimilativo », che rende l'uomo simile a Dio, è ciò che Avicenna chiama « virtus sancta », la quale è 19 Alb. Magno, /. e, cap. 11; cfr. Giorn. crit., cit., pp. 44-46. ^0 Alb. Magno, De intell. et intellig., II, e. 9; cfr. Riv. d.st. difilos. cit. p. 218. MISTICA AVERROISTICA E PICO DELLA MIRANDOLA I37 la più alta fra le virtù dell'anima 2'. Per mezzo di esso, l'uomo partecipa della divinità: lungitur igitur illi ultimo et lumini suo et, mixtus illi lumini, aliquid participat divinitatis; propter quod dicit Avicenna, quod, aliquando illi lumini vere permixtus, futura praeordinat et prae- dicit, et quasi Deus quidam esse perhibetur. Iste igitur est in- tellectus assimilativus.... Qui autem simplici primo et divino intellectui comunctus est, divinus est et optimus in scientiis et virtutibus, ita quod, sicut dixit Homerus, non videtur viri mortalis filius esse, sed Dei. Et ideo dicit Hermes Trismegistus in libro De natura Dei deorum, quod homo nexus est Dei et mundi, quia per huiusmo- di intellectum coniungitur Deo -^. In questo stato, l'uomo acquista un potere sovrumano sugli altri uomini e sulle cose della natura, e può operare miracoli e prevedere il corso futuro degli avvenimenti -3. Del che Al- berto è talmente persuaso, che nel commento al De somno et vigilia dedica tutto un trattato, ispirato ad Alfarabi, ad Avi- cenna, ad Averroé, ad Isacco Israelita, e soprattutto a Moisè Maimonide, per spiegare in che modo e per quali vie, nel sonno e nella veglia, secondo la dottrina dei « peripatetici », l'uomo arriva ad acquistare virtù profetiche; e tutto ciò, ben inteso, prescindendo dal dono della profezia di cui parlano i teologi e che è dovuto ad un' ispirazione sovrannaturale. Pervenuta al congiungimento con Dio, l'anima « stat sub- stantiata et formata in esse divino, in esse perfecta », così che non ha più bisogno, per conoscere, dell'amminicolo dei sensi, ma vede tutto nella luce divina. E questo, proclama Alberto 24, è il vero fondamento e l'unica prova della sua ca- pacità a vivere immortale, priva del corpo. Non mi dilungherò a dimostrare quale influenza questa mi- stica averroistica e intellettualistica abbia esercitato su En- rico Bate, autore della Speculum divinorum, e su alcuni do- menicani tedeschi, come Ulrico di Strasburgo, Teodorico di Vriberg, Bertoldo di Mosburg e sullo stesso maestro Eccardo 21 Avicenna, De anima, V, e. 6. -2 Alb. Magno, De ititeli, et intellig., II, e. 9; cfr. Riv. d. st. d. filos., cit. p. 219. 23 Alb. Magno, ib., e. 11. 24 Ib., e. 12. 11,8 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI di Hochheim, che pure ha una sua personahtà così spiccata- mente originale, e come questa influenza si sia prolungata su certa mistica tedesca posteriore; parlerò invece della dottrina di Sigieri, che, secondo una assai verisimile notizia trasmes- saci dal Nifo, fu discepolo d'Alberto. Nel trattato, oggi perduto, De intellectii, che Sigieri di Bra- bante scrisse in risposta al De imitate intellectus contra aver- roistas di Tommaso, il maestro brabantino sviluppava l'ardito concetto, appena accennato da Averroé nel primo commento al secondo libro della Metafisica. Se vi sono delle sostanze separate, e la mente umana non potesse conoscerle, aveva detto il commentatore di Cordova, la loro esistenza sarebbe vana, come vana sarebbe la luce del sole, se non esistesse nessun occhio per contemplarla. Sigieri e molti suoi seguaci, a quanto ci attesta il Nifo, spiegavano questo laconico argomento come segue: « Essi presuppongono i a primo luogo, che se l' intelletto potenziale non può intendere le intelligenze superiori, queste non possono intendere Dio; poiché una forma che non è atta ad essere ricevuta da quel soggetto che, in un dato genere, ha la massima capacità ricettiva, non può esser ricevuta da quel soggetto che, nello stesso genere, ha una capacità ricettiva minore. Ora l' intelletto potenziale è ricettivo al massimo grado fra le sostanze separate. Dunque, se la Prima Intelligenza non può essere ricevuta nell' intelletto potenziale, non può esserlo neppure in alcuna delle intelligenze separate. Sicché, se di fatto r intelletto potenziale non può intendere Dio, ne segue che nessuna delle intelligenze intermedie lo possa intendere. Inoltre, Sigieri presuppone che nessuna intelligenza intermedia possa intendere l'altra, se non può intendere la Prima. Quindi argomenta così: nessuna intelligenza intermedia che non possa intendere 1' Intelligenza suprema, può intendere alcuna delle intelligenze inferiori a questa. Ma, per il primo presupposto, nessuna intelligenza intermedia può intendere la Prima: dunque nessuna intelhgenza intermedia può intendere né se stessa né le altre. Esse quindi resteranno semplicemente ignote a se stesse, alle altre, e perfino alla Prima intelligenza, poiché questa niente conosce fuori di sé»-'. Per evitare quest'assurdo, bisogna dunque ammettere che l' intelletto umano può in- ^i Si veda il nio Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, Roma, Edizioni Italiane, 1945, pp- 22-24. MISTICA AVERROISTICA E PICO DELLA MIRANDOLA I39 tendere le sostanze separate e prima di tutte la Prima Intelli- genza, cioè Dio. Ma il Nifo ci fa sapere che Sigieri aveva scritto anche un Lihellus de felicitate, per dimostrare che la beatitudine nella quale, secondo 1' Etica Nicomachea, consiste il fine della vita, si ottiene soltanto « per copulationem intellectus agentis cum intellectu potentiae ». Ma, a differenza di quel che pensava Alberto Magno, che, come abbiamo visto, riteneva l' intelletto agente una parte dell'anima razionale, Sigieri lo identifica con Dio : « intellectus agens est Deus ; felicitas est intellectus agens: ergo felicitas est Deus»--. L'intelletto umano tende dunque al congiungimento con Dio; e in questo congiungi- mento, Dio informa di sé la mente potenziale, e le comunica la propria beatitudine, sì che l'uomo n' è quasi deificato: Amplius arguii (Subgerius) fortius : id, quo felicitantur dii omnes est suprema hominis et omnium felicitas; sed Deus est quo omnes felicitantur, quoniam omnes intellectus felicitantur intelligendo Deum; sed intellectio qua Deus intelligitur est ipse Deus. Ergo Dee omnia felicitantur.... Ergo Deus formaliter est felicitas. Rursum, quo felicitatur Deus felicitantur alii intelle- ctus et omnia.... Sed Deus non felicitatur nisi Dee... Ipso ergo Deo omnia felicitantur 23. Intellectus hominis essentia Dei felicitatur, quemadmodum Deus essentia Dei 24. Inutile ricordare che anche la « felicitas » di cui parla Si- gieri è la « felicitas » filosofica dell'averroismo, alla quale l'uomo perviene mediante l'acquisto delle virtìi etiche e dianoetiche, e che non ha niente che fare con la visione beatifica dei teo- logi, anche se per avventura fra l'una e l'altra dottrina sono talvolta avvenuti scambi di elementi concettuali. Questa mistica averroistica che ho voluto delineare nei suoi capisaldi essenziali e nelle sue principali tendenze, fu oggetto di interminabili discussioni, fra gli averroisti e i loro avversari, a Bologna e a Padova, fino a tutto il secolo XVI. E mentre, fra gli stessi averroisti, gli uni accettavano la dottrina di Giovanni di Jandum che riteneva l' intelletto agente parte dell'anima intellettiva, Alessandro Achillini a Bologna rin- novava la dottrina sigieriana, che l' intelletto agente dovesse -2 Iv., p. 25. 23 Ib., p. 24. 24 Ib., p. 25. 140 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI identificarsi con Dio. A queste discussioni prese parte anche Pico della Mirandola; il quale, tra le XLI Conclusiones se- cundum Avenroem, ben quattro ne formulò attinenti all'ar- gomento della « copulatio », e tutte e quattro concepite nella spirito sigieriano: I. — Possibilis est prophetia in somnis per illustrationem in- tellectus agentis super animam nostrani. 3. — Felicitas ultima hominis est, cum continuatur intellectus- agens possibili, ut forma. Quam continuationem et Latini ali! quos legi et maxime Ioannes de Gandavo perverse intellexit; qui, non solum in hoc, sed ferme in omnibus quaesitis philoso- phiae, doctrinam Avenrois corrupit omnino et depravavit. 17. - Quaelibet intelligentia praeter Primam non intelligit ni- si Primam. 25. - Exemplum Aristotelis in secundo Metaphysicae, de ni- cticorace respectu solis, non denotat impossibilitatem sed diffi- cultatem, alioquin natura aliquid ociose fecisset. Quest'ultima conclusione si riferisce al primo commento di Averroé al secondo libro della Metafisica, ove Aristotele af- ferma che la mente umana dinanzi alle cose che per natura sono maggiormente intelligibili, quali sono appunto le so- stanze separate, si trova nelle condizioni del pipistrello che non può sostenere la luce del sole. Questo paragone, secondo S. Tommaso, denoterebbe per Aristotele l' impossibilità in cui versa la mente umana, di conoscere in sé stesse le intelligenze separate. Per Averroé, invece, esso denoterebbe soltanto la difficoltà che la mente umana incontra per fissare lo sguardo in quei sommi intelligibili. Per quale ragione, inoltre, sarebbe inutile l'esistenza stessa di tali sostanze, se la mente umana non potesse conoscerle, abbiamo già udito da Sigieri. Che anche per il Pico l' intelletto agente sia Dio, si rivela sia dal rimprovero che egli muove a Giovanni di Jandun, d'aver depravato il pensiero d'Averroé, sia dal confronta che noi possiamo fare tra la terza conclusione « secundum Averroem », che abbiamo riferita, e la settima delle XV con- clusioni «secundum Plotinum », che suona così: Felicitas hominis ultima est cum particularis intellectus no- ster totali primoque intellectui piene coniungitur. Orbene: anche a me sembra che, proprio dalle sue medita- zioni sulla dottrina averroistica della « copulatio », Pico della MISTICA AVERROISTICA E PICO DELLA MIRANDOLA I4I Mirandola sia stato condotto ad elaborare uno dei suoi più profondi concetti: quello della « dignitas hominis ». Eugenio Garin, tanto benemerito degli studi pichiani, sì da potersi ritenere oggi il più acuto e informato fra quanti hanno tentato di penetrare nel pensiero del mirandolano, scrive che «la medietà della natura umana [fra gli estremi del- l'universo] non va, secondo Pico, cercata nel fatto che essa riunisce i vari elementi, bensì in quanto attua quel che nel mondo è potenza, riunisce quel che nella realtà è disperso. La comune concezione, che chiama l'uomo microcosmo, perché, con analogia più o meno ardita, si può stabilire un paralleto fra l'uomo e il mondo, gli sembra ingenua in quanto, fermandosi ad una statica giustapposizione, perde il valore del vero uomo, dello spirito, che è veramente tutto il mondo in quanto lo abbraccia nel pensiero» -5. Poi, dopo avere accennato ad analoghe critiche che Proclo e Moisè Maimonide avevano rivolto al comune modo d' intendere il concetto del micro- cosmo, continua: «Con analoghi accenti Pico si allontana da chi considera l'uomo ' mundi copulam, imo hymenaeum ' in modo del tutto esteriore, e, accogliendo la critica di Mai- monide, si avvicina, insieme, a certe tendenze averroizzanti, che nell'uomo vedono il solo mezzo per cui gli intelligibili si attuano, attuando insieme intelletto agente e materiale ' quod non est alia species quae apprehendat intelligihibiUa nisi homo '«^ó. E più oltre, con maggior precisione: «Mentre tutte le cose sono, hanno una natura limitata, determinata...; l'uomo non è nulla, ma si fa tutto, in quanto sa tutto; e sa tutto, in quanto si fa tutto ; mentre in ogni ente ' operari sequitur esse ', nell'uomo ' esse sequitur operari.... '. Qui è l' infinità dell'uomo che, ' divino camaleonte ' si fa pianta e sasso, o, neir insaziabile brama di tutto sapere, s' innalza a Dio.... Chi dubitasse dell' indiamento dello spirito umano nel pen- siero, non ha che da rileggere la expositio quinta dell' Heptaplus, dove Pico affannosamente si sforza di porre una distinzione fra uomo e Dio, senza mai riuscire a determinarla troppo nettamente » -7. ^5 E. Garin, Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina, Firenze, F. Le Monnier, 1937, P- 200. 26 Ib., p. 201. 27 Ib., pp. 201-202. 142 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Il Garin, che tutto questo ha veduto con grande acume, ha subodorato anche le « tendenze averroizzanti « alle quali il mirandolano « si avvicina ». Ma non le ha meglio indivi- duate; che, se avesse tentato di farlo, egli certamente si sa- rebbe accorto alla prima, che il Pico, per ciò che concerne le tesi ora accennate, è averroista puro semplice, anzi averroista della corrente di Sigieri. La tesi infatti che l' intelletto umano non ha alcuna natura determinata, tranne quella di essere in potenza a diventare tutte le cose, accennata da Aristotele, è una tipica tesi sigie- riana, che 1' averroista brabantino difende nella terza delle Quaestiones naiurales di Lisbona e nella nona della Quaestiones de anima intellediva, e che a tempo del Pico sarà sostenuta da Alessandro Achillini -8. Sostanza puramente potenziale « in genere intelligibilium » e quindi, come abbiamo visto, « maxime receptivum », esso può diventare idealmente o intenzional- mente, come si esprimono i medievali, tutte le cose, dal sasso a Dio. Reduce dalla pubblica disputa tenuta al Capitolo generale dei domenicani a Ferrara per la Pentecoste del 1494, il Pico si recò a Bologna in compagnia del Nifo, ove l' Achillini di- sputò, al Capitolo generale dei francescani, i suoi Quoliheta de ìntelligentiis (v. sotto, pp. 179 e 319). Parlando della « felicitas », ossia dello stato in cui la mente umana si trova congiunta con l' intelletto agente, cioè con Di( , diceva l' averroista bolognese: Causa autem finalis [felicitatis] est ut homo et materialia Dee uniantur: materialia enim, secundum esse eorum reale, non sunt Dee unibilia; sed secundum esse eorum spirituale, quod est esse intellectuin speculativum, praepai"ando intellectum possi- bilem ut Deum recipiat, Dee uniuntur; et sic ad finem suum redeunt reditione completa. Ex hoc sequuntur aliqua; primum, quod eadem res, quae est Deus gloriosus, est causa formalis, qua dominatur homo felix et causa efficiens dans formam. Patet secundo, quomodo materialium homo est finis, quia in homine uniuntur materialia immaterialibus; et sic patet quomodo homo est nexus superio- rum cum inferioribus, ultra hoc quod forma hominis sit intelli- gentia.... Et sic patet quam longe relegata est materia a Deo, quia ipsa, propter potentialitatem suam, non potest informare intel- 28 Cfr. il mio Sigieri... nel pen^^., p. 74. MISTICA AVERROISTICA E PICO DELLA MIRANDOLA I43 lectum; unitur tamen materia Dee, quia aliqua materia informa- tur intellectu qui informatur Dee; et successive omnis prima mate- ria informatur intellectu, apud, Averroim; sed aliae materiae aliis formis materialium informantur; et sic patet quantum liomini felici rerum materialium natura debet -9. Come si vede, dunque, l'accordo del mirandolano con gli averroisti della corrente sigieriana è completo. Ma se la mi- stica averroistica sedusse assai per tempo il giovane filosofo, questi non dovette tardare a rendersi conto che in quel mi- raggio di felicità, intellettualisticamente concepito, v'era qualcosa di freddo e di artificioso, che non riusciva a soddi- sfare le aspirazioni alimentate nell'anima da quindici secoli di vita cristiana. Gli averroisti, persuasi, come Alberto Magno, che « theologica non conveniunt cum physicis principiis », avevan finito per chiudersi nel loro « aristotelismo », ed osten- tavano un superbo disdegno verso i teologi da loro derisi. Il Pico invece, nel suo ardore di tutto sapere, aveva intra- preso assai di buon'ora studi teologi, e già quando pubblicò le sue Conclusiones, si sentiva in grado di discutere intorno a scabrosi argomenti di teologia « secundum opinionem pro- priam », ciò che gli averroisti si sarebbero guardati bene dal fare. Ma fu soprattutto nel periodo del suo ritiro sui colli fiesolani, dopo la peripezia della condanna e dell'arresto, che egli svolse il suo averroismo in senso platonico e cristiano. Il frutto migliore delle sue meditazioni ci è stato tramandato dall' Hepiaplus, cioè « il sette per sette », poiché i sette libri o « expositiones », corrispondenti ai sette giorni mosaici, sono alla loro volta divisi in sette capitoli. La settima « expo- sitio » riguarda appunto la « felicitas », che risponde al riposo che Dio si concesse dopo sei giorni di operosità. Nel proemio a questa settima esposizione, il mirandolano distingue due specie di « felicità »: una naturale, che è quella di cui parlano i filosofi, e l'altra sovrannaturale, alla quale si può giungere soltanto colla grazia. Ed è proprio qui che egli s'accorge del sorriso ironico degli averroisti, e sente il bisogno di rintuz- zare il loro scherno: ^9 A. AcHiLLiNi, Quolibeta de inielligeniiis, IV, dub. 3; cfr. qui sotto, pp. 214-2^0 (il passo è citato anche dal Garin, p. 204). Si vedano anche i Collectanea del Nifo al De anima (III, ad t. e. 36) e il commento dello stesso suessano al De anime beatitudine, II, comm. 23 e 24. 144 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Verum quoniam mihi videor videre sciolos, dixerim an vap- pas potius et nebulones, qui se vocant philosophos cum nihil sint minus, ridentes statim et gratiam et felicitatem supernatu- ralem, quasi vana haec nomina et aniles fabulae sint, volui bre- viusculam hac de re cum illis disputationem sicuti proemium facere septimi libri, rem et seorsum omnibus utilem et neces- sariam valde operi quod suscepimus, ubi altissimis philsophiae radicibus nixam et stabilitam stare sententiam theologorum di- lucide comprobemus 3°. E più oltre gli accade di ricordare le opinioni dei filosofi intorno alla « felicitas » : De homine autem, etsi diversi diversa senserint, omnes ta- men intra humanae facultatis angustias se tenuerunt, vel in ipsa tantum veri vestigatione, quod Academici, vel. in adeptione po- tius per studia philosophiae, quod Alpharabius dixit, felicitatem hominis determinantes. Dare aliquid plus visi Avicenna, Aver- rois, Abubacher, Alexander et Platonici, nostrani rationem in intellectu, qui actu est, aut aliquo superiore, nobis tamen co- gnato, quasi in suo fine firmantes, sed neque hi hominem ad suum principium nec ad suum finem adducunt. Quas eorum di sputationes atque sententias nec reprobo nec aspernor, si de na- turali se tantum felicitate dicere videantur 31. Non riprova né disprezza queste dottrine dei filosofi sulla beatitudine naturale e sul congiungimento della mente umana con Dio; ma intanto egli dichiara che né gli angeli né l'uomo possono colle sole loro forze arrivare al perfetto e pieno con- giungimento con Dio come primo principio e fine ultimo, perché nessuna cosa è capace di raggiungere da sé quello che è più alto e più perfetto della natura di quella cosa 3^. Per rag- giungere Dio, bisogna che Dio stesso si doni. Con ciò quel nesso fra il mondo materiale e il mondo spirituale, fra l'uni- verso e Dio, che la mistica averroistica della « copulatio » pensava d'avere scoperto nell'uomo giunto al termine del suo sviluppo intellettuale, se non è spezzato, è certo molto rallen- tato e corre il rischio di dissolversi. A renderlo veramente indissolubile è balenato all'acuta mente del signore della Mirandola il concetto cristiano dell' in- 3° G. Pico Mirandola, De hominis dignitate. Heptaplus De ente et uno e scritti vari a cura di E. Garin, Firenze, Vallecchi, 1942, p. 326. 31 Ib., p. 330. 32 Ib., pp. 330-332. MISTICA AVERROISTICA E PICO DELLA MIRANDOLA I45 carnazione. Nell'unione ipostatica del Verbo colla natura umana si raggiunge davvero quella « copulatio » dell'uomo con Dio, per cui Dio si fa uomo e l'uomo è Dio in senso rigoroso, senza il « quodam modo » che era stato costretto a metterci Averroé. Si può dire che tutti e sette i libri dell' Heptaplus si chiu- dono con l'esaltazione di Cristo, cui sono dedicati tutti i settimi capitoli di ogni libro. Cristo è certo il mediatore fra Dio e l'uomo dopo il peccato ; ma se egli solo poteva redimere l'uomo peccatore, nel disegno divino Cristo fu, indipendentemente dal peccato d'Adamo, il « primogenitus omnis creaturae in quo condita sunt universa ». Supremus omnium et princeps homo, quo mundi corrupti- bilis natura pregressa sistit pedem et receptui canit. Quemadmodum autem inferiorum omnium absoluta con- summatio ut homo, ita omnium hominum absoluta est consum- matio Christus; quod si, ut dicunt philosophi, ab eo quod in uno- quoque genere est perfectissimum ad ceteros eiusdem ordinis quasi a fonte omnis perfectio derivatur, dubium nemini est a Christo homine in omnes homines totius bonitatis perfectionem derivar!; illi sciUcet uni datus Spiritus non ad mensuram, ut de plenitudine eius omnes acciperemus 33. Leggendo certe espressioni dell' Heptaplus, vien fatto di pensare che per il Pico, prima che nell'opera della redenzione. Cristo debba avere una funzione essenziale in quella della creazione, come avevano ritenuto Alessandro di Hales, Al- berto Magno, Duns Scoto e la sua scuola. E in verità fra le Conclusiones in theologia numero XXIX, secundum opinionem propriam a communi modo dicendi theologorum satis diversam, ve n' è una, la quindicesima, che si cela fragrante e pudi- bonda tra le altre, e non mi pare abbia mai finora attirato l'attenzione. Essa suona proprio così: « Si non peccasset Adam, Deus fuisset incarnatus, sed non crucifìxus ». La mistica fran- cescana correggeva e perfezionava, nella mente del Pico, la mistica averroistica. Marsilio Ficino, che per l'averroismo non ebbe mai simpatia, svolgendo per altro i più riposti motivi religiosi del plato- nismo, aveva anch'egli scoperto nella natura dell'uomo una specie d' istinto verso la perfetta unione con Dio come ter- 33 Ib., p. 220. 10 146 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI mine di tutti gli umani desideri, pace e riposo dell'anima, un bisogno insomma d'indiamento. Ed aveva pure scoperto che soltanto in Cristo e per Cristo l'uomo si fa veramente divino. Non mi consta che egli abbia mai sostenuto, in modo esplicito, la tesi suir incarnazione di Dio, che la « mente eroica » del mirandolano si proponeva di difendere. Ma nel De Christiana religione, che completa la Theologia platonica, a dimostrare la convenienza, e quasi direi la morale necessità, dell' incarna- zione del Verbo, il Ficino adduce (cap. XVI) argomenti che prescindono affatto dalla colpa d'Adamo, e che, in sostanza, son quelli messi innanzi da Alessandro di Hales, da Alberto Magno e da Duns Scoto a favore della tesi cara al Pico. Per gli stessi argomenti quella tesi pareva anche a S. Bonaven- tura « magis consonare iudicio rationis » 34. Il concetto cristiano dell' Uomo-Dio, mentre dischiudeva nuovi orizzonti alla filosofìa antica, apriva così la via al pen- siero moderno. 34 In III Sent., dist. i, a. 2, q. 2. I VII APPUNTI INTORNO AL MEDICO E FILOSOFO PADOVANO PIETRO TRAPOLIN * Del medico e filosofo padovano Pietro Trapolin, prima precettore, poi collega sulla cattedra e amico di Pietro Pom- ponazzi, dopo quel che ne aveva detto Francesco Fiorentino nella sua monografia su quest'ultimo (Firenze, 1868), era ac- caduto anche a me di occuparmi per chiarire la posizione di lui di fronte all'averroismo. E l'avevo fatto sulla scorta del codice Marciano, mss. lat. CI. VI, 301, e di quello della Comu- nale di Perugia, n. 408. Il primo di essi contiene le lezioni sul De anima, nella riportazione del mantovano Benedetto del Tiriaca, ma in modo frammentario e lacunoso, per la per- dita di molti fogli di uno o più fascicoli dei quali sono state riunite insieme le reliquie a formare l'attuale volume mar- ciano. Il secondo è invece una riportazione più sobria dello stesso corso di lezioni tenute nel 1491-1492 {Giorn. Crii. d. Filos. ItaL, XXIX, 1950, 428-435). L'uno e l'altro sono suf- ficienti a darci un' idea abbastanza precisa della posizione tenuta dal Trapolin intorno ad alcune delle controversie su- scitate dall' interpretazione del pensiero d'Aristotele ; ma sol- tanto su alcune. Oltre a queste due riportazioni dell'esposi- zione del De anima, ebbi a segnalare allora anche il fragmento parigino (Bibl. Nation., ms. lat. 6537, ff. 233r-268v) di un'espo- zione per quaestiones degli Aphonsmi d' Ippocrate. P. O. Kristeller {Two unpuhl. Questions on the Soni of P. Pompo- nazzi, in « Medievalia et Humanistica », fase, octavus, 1955, p. 78) segnala il ms. Ambr. N. 336 sup., ove sono trascritte di mano di Tommaso Campeggi da Bologna, figlio delgrande giu- * Dalla Miscellanea in onore di Roberto Cessi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1958, voi. II, pp. 21-46, con notevoli aggiunte e variazioni. 148 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI rista Giovanni Zaccaria, la Quaestio de equali ad pondus e quel- la De restauratione humidi radicalis, due argomenti di moda che venivano discussi dai lettori di Theorica, quando commen- tavano certe parti del Canon di Avicenna (noto di passaggio che i fogli del codice Ambrosiano sono disordinati). Il Trapolin discute con una certa ampiezza le opinioni intorno ai due tempi, senza recare per altro gran che di nuovo. Si parla anche di una stampa, De restauratione humidi radicalis, che si dice dedicata al Cardinal Domenico Grimani; ma non sono riu- scito a trovarla, per quanto ne abbia fatto ricerca. Conosco invece le quattro questioni, lacunose e incomplete. De morbo gallico, nella raccolta di vari trattati che portan questo titolo (Venetiis, apud lord. Zirletum, 1566, t. II, pp. 44-57). D'altri scritti per ora non ho notizia. Tuttavia il desiderio di fare un po' di luce nell'ambiente universitario padovano, negli anni che a Padova studiò e insegnò il Pomponazzi, m' ha portato a raccogliere alcune no- tizie di qualche importanza, che qui riunisco per invogliare qualcuno che ne abbia l'agio, che a me finora è mancato, a frugare a fondo nei documenti che il dente edace del tempo non ha ancora distrutto. La prima volta che s' incontra il nome di Pietro Trapolin è in un documento dell'Archivio della Curia vescovile di Pa- dova [Ada graduum, voi. 32, fol. 38r), relativo alle ordinazioni sacre del 13 marzo 1465. In quel giorno, appunto, i tre fratelli, Girolamo, Alberto e Pietro, furono ammessi alla prima ton- sura clericale, richiesta, credo, per ottenere feudi dalla mensa vescovile. Pietro morto, a quanto pare, lo stesso giorno (6 giugno 1509) che le milizie dell' imperatore Massimiliano entrarono in Padova, all'età di 58 anni e 20 giorni, non aveva ancora compiuto i quattordici anni. Maggiori di lui erano gli altri due fratelli; maggiore di tutti doveva essere Girolamo, che il 14 agosto 1472 s'addottorò «in artibus liberalibus... ; nemine penitus discrepante », ed ebbe le insegne del grado dal primo promotore. Maestro Sigismondo Polcastro o Por- castro (Arch. Curia Vesc. di Padova, voi. 36, f. 64r). Girolamo Trapolin è il destinatario della lettera che Andrea Brenzio o della Brenta, già professore di retorica a Padova, gì' indirizzò da Roma, e che trovasi nell'edizione romana del 1482 circa della traduzione del De natura hominis di Ippocrate, che i filosofi ritenevan, sì, gran medico, ma ignaro di dialettica. I APPUNTI INTORNO A PIETRO TRAPOLIN 149 Alberto, di cui diremo piìi oltre, è detto « profondissimo filo- sofo » che « teneva alquanto dell'epicureo » dal vicentino Luigi da Porto ; ma a me non risulta che sia mai ricordato col titolo di dottore; il che proverebbe, che per esser filosofi e profon- dissimi non è strettamente necessario il titolo accademico (non curo qui di sapere se, viceversa, il titolo accademico contribuisca a creare i profondissimi filosofi). I tre cherichetti erano figli del nobile cavaliere padovano, Francesco Trapolin, capo d'una famiglia ragguardevole che traeva origine, a quanto sembra, dal vicino borgo di Vigodar- zere. Un Trapolin era stato, nella prima metà di quel secolo podestà di Este. Uberto Trapolin era professore di diritto a Padova fra il 1430 e il 1439, e due suoi figli, Lanzarotto e Pietro, eran dottori «in utroque », come si ricava dagli Ada graduum pubblicati dal Erotto e dallo Zonta. Avremo inoltre ad accennare all'avo di Alberto e. Pietro implicato nel tenta- tivo di Marsilio da Carrara di ricuperare Padova nel 1435. Le loro case eran nella contrada di S. Leonardo « ab intra », come risulta da un rogito del 13 marzo i486 (Padova, Arch. di Stato, Sez. Arch. Notar., voi 1575, f. 249), segnalatomi dall'amico Prof. Paolo Sambin, e dall' « Estimo del 1418 » (voi. 260, presso l'Arch. di Stato di Padova). Nella polizza n. 29 di questo Estimo, presentata il 16 aprile 1482, « per d. petrum trapolinum », a nome « de li heredi cum inventario de misser francesco trapolino », si denuncia al primo posto « una casa dentro di San lunardo dove habita cula sua famegia » ; seguono poi altri immobili fuori Padova, ad Altichiero, Campo S. Piero, Vigodarzere e altrove. Il possesso di una « casa dentro San Lunardo, dove abita la sua fameia » era stato denunciato del resto dallo stesso « Spectabilis Miles D. Franciscus trapo- linus» il 18 giugno 1471 (ib., poi. n.33). Ma la denunzia del 1492, presentata a nome degli eredi, «per ser Albertum de Trapolinis», ci fa sapere che questa casa dov' egli abitava con la famiglia era « grande » (Ib., poi. n. 34). Nella stessa casa dei Trapolin, aveva abitato anche Uberto TrapoUn, già ricordato, il quale nell'aprile 1437, dichiarava d'abitare « cum familia.... in contrata Sancti leonardi ab intra », di avere possessi in Altichiero, Vigodarzere ecc., e « filios septem quorum quatuor sunt femmine » (ib., poi. n. 30). Anzi nella polizza n. 41, del g aprile 1464, dei « beni stabeli de miss. Liberto Trapolin et de francesco suo fiollo », è dichiarato: « Item, a uno fiollo che ha sie' fioli maschi 150 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI e femene ». Se non si tratta d'un caso d'omonimia, alquanto strano, questo Francesco di Uberto, parrebbe il padre di Pietro e dei suoi fratelli. In questa grande casa avita, abitava ancora Pietro col fratello Nicolò il 14 dicembre 1500, quando fecero entrambi da testimoni nel contratto di nozze del Pomponazzi (Bru- nacci, P. Pomponatiiis , « Raccolta d'opuscoli » del Calogerà, XLI, p. 3), e vi continuarono ad abitare la vedova di Pietro e alcuni figli di lui almeno fino all'ottobre 1515 (Padova, Arch. Not. Ili, 12-13, not. Alvise Zupon, voi. 2864, f. 6oor, atti del 13 e ig ottobre 1515). Ma mentre Nicolò del quondam Magnifico Cavalier Francesco, il 23 giugno 1501 risulta abi- tare ancora « in contrata S. Leonardi » (Notar. A. Zupon, ib., voi. 2863, f. iSgr-iQor), un altro fratello dei predetti, « nobilis dominus Robertus de trapolinis Magnifici et Insignis equitis domini Francisci », il 12 maggio 1500 era andato ad abitare « in contrata domi » (Arch. di Stato, sez. Arch. Notar. Not. Giov. Ant. da Mirano, IV, 139-140, voi. 2687, f. 496r), Così, più presto o più tardi, possiamo supporre che abbian fatto anche altri dei cinque fratelli, via via che s'ammoglia- vano e costituivano una propria famiglia. Nato alla fine di giugno 1451, Pietro s'addottorò in artihus, quasi undici anni dopo il fratello Girolamo. L' 8 febbraio 1483, ottenutane due giorni prima la « grazia » dal Collegio pado- vano dei medici e filosofi, sostenne il consueto « tentativum » preliminare nella chiesetta di S. Urbano. Questa chiesetta, oggi scomparsa insieme all'ospizio che la fiancheggiava, era una dipendenza dell'abazia benedettina di Fraglia, i cui mo- naci avevano qui un piede a terra, quando avevano bisogno di recarsi in città. Essa sorgeva all'altezza di piazza delle Erbe (o, come si diceva un tempo, del Vino), entro il quadrato compreso tra la piazza stessa e via S. Martino e Solferino, e tra le vie Squarcione e dei Fabbri. Entro i cortili delle nuove case se ne vede ancora qualche resto, che ho potuto ritrovare grazie alle cortesi e preziose indicazioni del Rev.mo Canonico dott. Antonio Barzon, solerte ricercatore delle memorie citta- dine, che l'ala del tempo tende a spazzare via. Questa chie- setta appunto, che non avea clero beneficiato con cura d'anime, era stata concessa a sede delle riunioni del Collegio de' medici e filosofi, e qui si tenevano i « tentativi », cioè le prove e di- scussioni che precedevano di uno o pochi giorni il dottorato. i APPUNTI INTORNO A PIETRO TRAPOLIN I5I Nella prima metà del Quattrocento, il Collegio soleva tenere le sue sedute nella chiesa di S. Martino davanti al palazzo del Podestà; e nella seconda metà del Trecento nella chiesa di S. Canciano. Superato questo esame, Pietro si presentò, l'ultimo lunedì di carnevale ii febbraio, al « privatum examen » nella con- sueta aula del palazzo vescovile, ove la prova ebbe luogo la sera « hora XXI », al termine della quale gli furon conferite le insegne di «doctor artium». (Arch. ant. dell' Univers. di Pa- dova, Sacro Coli, de' Filosofi, n. 316, ff. 7r-8r). Fra i suoi promotori erano Pietro Roccabonella, Alessandro Sermoneta» Giovanni Aquilano, e Nicoletto Vernia da Chieti. Sarebbe difficile trovare una ragione per spiegare come mai egli abbia conseguito il titolo di « doctor artium » solo a trentun anno compiuto da un pezzo, mentre l'età normale era dai venti ai venticinque. Probabilmente suo padre, il nobile cavalier Francesco, l'avrà avviato ad altra carriera, facendogli ritardare gli studi di filosofia e medicina. Prima di addottorarsi, Pietro doveva già essersi sposato con Maria Roselli, nipote del celebre giurista aretino Antonio, e forse gli era nato il primo figlio, nel quale rinnovò il nome del padre già morto, e che il 20 ottobre 1501 s'addottorò alla sua volta in artibus. Sappiamo che un altro figlio, Giulio, gli nac- que nel 1485. Padovano, egli aveva ormai i requisiti per essere accolto nel Collegio dei Filosofi patavini. Ma tre anni dopo, il 1° di- cembre i486, egli venne in possesso anche del titolo di « doctor medicinae » {Ih., ff. io3r-io4v), promotori Paolo dal Fiume, Francesco Benzi, Pietro Roccabonella, Giovanni Aquilano e Lorenzo da Noale. Iscritto pertanto al Sacro Collegio dei Medici e Filosofi di Padova, troviamo che, il giovedì 15 no- vembre 1487, egli fu estratto priore del Collegio stesso, e il sabato iP dicembre insediato {Ih., ff. I39v-i4ir). Ormai la vita di Pietro Trapolin era legata a quella del Collegio e della Facoltà delle arti e medicina di Padova, come insegnante e come promotore al dottorato in filosofia e medicina dei gio- vani che v'aspirassero. E fra coloro che v'aspiravano, era Pietro Pomponazzi, un giovane mantovano, di piccola statura, che stava per compiere venticinque anni. Lo s' incontra per la prima volta « artium scholaris » il 12 gennaio 1484, come testimone nel dottorato 152 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI in medicina di Assolone de Sparainis da Cesena (Padova, Arch. Curia Vescov., Acta grad., voi 42, f. 17V) ; poi il 6 giu- gno 1485, ancora « artium scholaris », come testimone nel dottorato in medicina di Federico Romano {Ib., f. 99V). Si dice che il lunedì 23 aprile 1487 fosse ammesso anch'egli al tentativo « in artibus », nella chiesa di S. Urbano, a ore 22, sotto i promotori Pietro Roccabonella, Girolamo Polcastro, figlio di Sigismondo, già ricordato, Giovanni Aquilano e Pietro Trapolin e che il 26 dello stesso mese, a ore 20, in chiesa del Duomo, subisse il « privatum examen », giurasse, e fosse ad- dottorato nelle arti. Ma siccome non ho potuto vedere i ver- bali dei relativi atti, lascio la responsabilità di tutto questo all'Abate Francesco Dorighello, Laureati della Università di Padova (ms. in quella Bibl. Univers., n. 43, I, f. 32or). Il quale per altro al f. 3i9r, aveva messo alla stessa data (anno, giorni e ore) il « tentativo nelle arti » di Gian Pietro da Mantova, o Gian Pietro Bonevitis da Mantova, che è il padre del celebre giurista Marco Mantova cui l'Ammannati eresse il grande mausoleo che si vede nella chiesa degli Eremitani. Ma poi aveva cancellato con una linea a diagonale. Così anche nel- l'altra opera, Memorie dei professori e letterati di Padova (ms. in quella Bibl. Civica, n. 938, p. 37) aveva detto di Gian Pietro da Mantova le stesse cose che nei Laureati dice del Pomponazzi; poi anche questa volta aveva cancellato, anno- tando fra parentesi: « Questi è Pietro Pomponacio da Mantova ». In base a quali documenti il dotto e diligente abate abbia eliminato questa confusione non sono in grado di dire; poiché mii consta che negli atti del Sacro Collegio dei Filosofi, già cit., n. 316, ff. 118V-119V, i verbali del 23 aprile {tentativum in artihiis) e del 26 detto {examen in artibus) parlano di Jo. Petrus de Mantua. Del quale esiste un bel busto attribuito a G. del Carino, nella Galleria Franchetti, alla Cà d'Oro in Ve- nezia (cfr. la guida di G. Fogolari, 2^ ediz. Roma, 1950, pp. 9 e 31)- Checché sia di ciò, è certo tuttavia che il Pomponazzi era già dottore in artibus il 19 giugno 1487, poiché con questo titolo è testimone nel dottorato in artibus di Agostino Lunardi da Ravenna {Acta grad., voi. 44, f. 9r). Il martedì 23 ottobre 1487, egli figura ugualmente come testimone, insieme a Gio- vanni da Schio, a Onofrio Fontana e a Sebastiano dell'Aquila, tutti e quattro « artium doctores », nel dottorato che il suo APPUNTI INTORNO A PIETRO TRAPOLIN I53 condiscepolo ed amico, il generoso patrizio veneziano Do- menico Grimani, figlio del magnifico Antonio e futuro cardi- nale, conseguì anch'egli in artibus nel privatum examen so- stenuto alla presenza del nuovo vescovo di Padova, Pietro Barozzi, promotori i dottori collegiati Pietro Roccabonella che gli conferì le insegne del grado, Paolo dal Fiume, Giov. Aquilano, Lorenzo da Noale, Girolamo della Torre da Verona, Corradino da Bergamo, Girolamo Polcastro e, ultimo, Nico- letto Vernia da Chieti. L' indomani, 24 ottobre, appena lau- reato, il Grimani, insieme ad Antonio Pizamano di Marco, anch'egli patrizio e dottore, faceva da testimone nel dotto- rato in iure civili di Girolamo Malchiavelli da Vicenza, figlio del giurista Francesco, essendo promotore Giason dal Maino (Arch. d. Curia Vesc, 1. e, voi. 44, f. 42r; Arch. dell'Univ., Sacro Coli, de' Filos. e Medici, n. 316, ff. I35v-i37r). E poiché ho fatto cenno a Maestro Nicoletto come promo- tore del dottorato in artibus del Trapolin e del Grimani, non starò a ripetere quanto di lui è stato detto di sopra nei saggi IV e V. Basterà ricordare, com'egli, con l'appoggio di com- piacenti amici che aveva nel Senato veneziano, fosse riuscito a sottrarsi all'obbligo di avere un concorrente e come dallo stesso Senato veneziano si meritasse un energico rabbuffo e un severo richiamo al rispetto degli statuti scolastici dello studio padovano. Così maestro Nicoletto dovette piegare il capo e accettare la concorrenza di Pietro TrapoHn, dottore in artibus et medicina, mentre egli, addottorato solo in artibus ventinove anni prima, con tutta la sua spocchia non aveva ancora conseguito il titolo di dottore in medicina. Maestri entrambi di filosofia, rappresentavano nello studio padovano l'averroismo che aveva già avuto a rappresentanti, dai primi del Quattrocento in poi. Paolo Veneto, Gaetano da Thiene, Cristoforo da Recanati e forse altri ancora specialmente fra ì medici. L'averroismo, sia a Padova che a Bologna e a Pavia, era entrato con la diffusione del commento d'Averroè ai libri fisici e alla Metafisica d'Aristotele; ed era ormai invalsa la consuetudine, nei tre Studi dell' Italia settentrionale, di leg- gere, insieme al testo di Aristotele, il commento dell'arabo di Cordova che lo accompagnava. Compito del lettore era quello di chiosare il testo aristotelico e di mostrare se Averroé l'aveva capito, o se, per avventura, non fosse da preferire all'esposizione 154 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI averroistica quella di altri espositori, per esempio, di Alessandro d'Afrodisia, di S.Tommaso d'Aquino, di Duns Scoto, o d'altri ancora. Averroisti si dissero coloro i quali, nell' esposizione della dottrina d'Aristotele, seguivano il commento di Averroè come quello che pareva meglio calzare col testo. Le dispute fra costoro e i loro avversari furono certamente aspre e talvolta clamorose. A renderle tali contribuì il fatto che molti teologi, da S. Tommaso in poi, perseguivano il proposito concordisti- co di dimostrare che la fede e la teologia (che non sono precisa- mente la stessa cosa, se Dio vuole) s'accordano pienamente con la scienza e la filosofia; e per filosofia intendevano quella aristotelica. Ora questo intento concordistico era reso impos- sibile dall' interpretazione che del pensiero d'Aristotele davano gli averroisti. Quindi una reciproca accusa. Da un lato, gli avverroisti accusavano specialmente i tomisti di fraintendere di continuo la dottrina aristotelica per la bella soddisfazione di mostrare che essa s'accordava in tutto e per tutto con la fede cristiana, sì da doversi domandare che bisogno c'era della rivelazione se, tre secoli prima di Cristo, Aristotele aveva donato all'uma- nità un sistema così completo di verità sulle cause prime dell'essere e sui destini umani. Dall'altro lato, i teologi, sì tomisti che scotisti, accusavano gli avveroisti di depravare il pensiero d'Aristotele allo scopo di accentuarne il contrasto con la fede e d' impedirne l'accordo. Anzi, essi suggerivano il sospetto, che gli averroisti facessero questo, perché condivi- devano in segreto le dottrine da loro attribuite ad Aristotele, L'accusa d'eresia risale a S. Tommaso ed è ripetuta dal Pe- trarca. Per difendersene gli averroisti protestavano che il loro compito era quello di interpreti d'Aristotele e che sul terreno della « filosofia », cioè dell' interpretazione del pen- siero aristotelico, essi intendevano rimanere, reclamando piena libertà di discussione. In generale, gì' inquisitori si acquetarono a queste proteste degli averroisti, tanto più che non pochi teologi da un pezzo avevano apertamente condannato la pretesa tomistica di «face- re de Aristotele haeretico omnino catholicum ». Anzi, a dir vero, i più spinti averroisti bisogna cercarli tra siffatti teologi. Così io ritengo che nel Rinascimento meritassero a buon diritto l'appellativo di averroisti Giovanni di Baconthorpe e Gregorio da Rimini, il primo anzi quello di « princeps aver- APPUKTI INTORNO A PIETRO TRAPOLIN I55 roistarum », perché sostenevano, spingendosi ben oltre Sigieri di Brabante e Tommaso di Wilton, che secondo Aristotele giustamente interpretato da Averroé, le intelligenze e le sfere celesti non son prodotte dal primo motore come da causa efficiente. E sebbene gli averroisti, chiarita la portata del loro inse- gnamento, fossero in generale lasciati indisturbati, non man- carono quelli che porgevano attento orecchio alle diatribe, nel chiuso delle aule scolastiche o nelle pubbliche dispute, per cogliere frasi o atteggiamenti suscettibili di ravvivare e dar consistenza ai vaghi sospetti di miscredenza. Questo appunto accadeva a Padova, nella primavera del 1489, quando il nuovo vescovo, Pietro Barozzi, allarmato dal clamore delle dispute intorno all'unità dell' intelletto, d'ac- cordo con r inquisitore fra Martino da Lendinara, vietò ogni pubblica discussione su quell'argomento, sotto pena di sco- munica. Nel decreto del 6 maggio di quell'anno è affermato appunto, che coloro i quali più s'agitavano per l'unità del- l' intelletto fossero mossi da motivi pratici di libertinaggio : Et postremo, existiinantes eos qui de unitale intellectus di- sputant, ob eam potissimuni causam disputare, quod, sublatis ita tum premiis virtutum tum vero suppliciis vitiorum, existi- mant se liberius maxima queque flagitia posse committere, man- damus ut nullus vestrum, sub pena excommunicationis late sen- tentie quam, si contrafeceritis, incurratis, audeat vel praesumat de unitale intellectus, quovis quesito colore, publice disputare. Il vescovo e l' inquisitore sapevano bene che la tesi del- l'unità dell' intelletto era attribuita dagli averroisti ad Ari- stotele. Ciò non di meno, essi vietano ogni pubblica discussione su questo argomento, anche se fosse vero, come pretende Averroé, che l'unità dell' intelletto fosse dottrina ricavata da Aristotele. Ma su questo punto il Barozzi e fra Martino am- moniscono ad esser cauti, perché questo Averroé era uomo dotto, sì, ma scellerato, « a quo et Avicennam hispalensem, medicorum prestantissimum, bithinie (ut multi putant) regem, veneno enectum., et quem ab Avicenna (priusquam moreretur) interfectum tradunt » (Curia vesc. di Padova, Acta grad., voi. 44, f. I24t) ; parole molto ingarbugliate, ma che accennano ad una nota leggenda della quale parla M. Steinschneider {Die hebr. Uebersetz. des Miti., pp. 677-78), e che fa non poca meraviglia trovare ricordata in un documento episcopale. 156 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Comunque il divieto del Barozzi non riguardava le dispute entro le aule scolastiche, nel corso delle lezioni, bensì le di- spute pubbliche tenute al circolo dei filosofi o per le chiese^ come soleva usarsi, e in circostanze che rivestivano speciale solennità, con intervento delle autorità e del pubblico, dispute queste ultime assai frequenti nel periodo di cui mi vado occu- pando. Che nelle lezioni scolastiche e nelle riportazioni che ne possediamo, anche a Padova continuò a discutersi come al- trove, con grande spregiudicatezza, sia sull'unità dell' intel- letto e suir immortalità dell'anima, come sull'eternità del moto e del mondo. Sebbene l'editto vescovile non accenni a persone, si sa per altro che particolarmente sospetto al prelato era Nicoletto Vernia, sulla cui miscredenza come sul carattere bizzarro forse correvan già aneddoti sul tipo di quelli raccontati dal Pomponazzi, come fu narrato sopra nel saggio IV. Certo è che coloro i quali maggiormente si adoprarono a dissipare i sospetti del Barozzi sono, in gara tra loro, proprio Nicoletto da Chieti e il suo degno discepolo. Agostino Nifo- da Sessa. Non Pietro Trapolin, il cui moderato averroismo non dette ombra di sorta ad alcuno. Concorrente del Vernia che aveva dovuto piegarsi all'or- dine del Senato veneziano, non si sa che il Trapolin avesse urti con lui. Ma egli s' intendeva meglio col giovane maestro Pietro Pomponazzi, già suo alunno ed ora suo collega ed amico, come il Vernia invece s' intendeva molto meglio col Nifo, per certa boria e affinità di carattere. Il Pomponazzi era stato chia- mato alla lettura straordinaria di filosofia nell'autunno del 1488, poiché in un decreto del senato veneziano dell' 8 settembre 1495 (Venezia, Arch. di Stato, Sen. terra, Reg. 12, f. loSv-iogr) si tro- va che a questa data « legit philosophiam annis septem ». Il 26 marzo 1492 egli era ancora straordinario di filosofia, e come tale figura tra i testimoni del dottorato in medicina di Bernar- dino Speroni, padre di Sperone e già da dieci anni dottore in artibus e « publice legens in celeberrimo studio paduano » (Arch. della Curia vesc. di Padova, Acta grad., voi. 44, f. I93r; Arch. dell' Univ. di Padova, Sacro Coli, de' Medici e Filos.," n. 317, f. 66v sgg.). Ma il 28 settembre 1492, il senato vene- ziano (Venezia, Arch. di Stato, Senato terra, Reg. 11, f. 124V), in riconoscimento della buona prova data dal maestro manto- vano, e con la motivazione che egli era « vir laudatissimus », J APPUNTI INTORNO A PIETRO TRAPOLIN I57 gli aumentava lo stupendio da 50 a 80 fiorini, il che significava promuoverlo alla lettura ordinaria di filosofia « secundo loco ». Poco dopo, anche Pietro Trapolin, che percepiva lo sti- pendio di 137 fiorini, cominciò a lagnarsi che non gli basta- vano al mantenimento della numerosa famiglia, e un bel giorno chiese licenza di trasferirsi a Ferrara, ove gli promet- tevano condizioni migliori. Il 5 febbraio 1492, stile veneto (quindi 1493), il Senato veneziano, per trattenerlo, « quia persona dicti doctoris ob eius doctrinam est admodum ne- cessaria predicto gymnasio nostro paduano », decreta gli siano corrisposti 200 fiorini annui (Ib., Reg. 11, f. 138 v). Così il Trapolin restò. Non sempre però la minaccia d'andar- sene riusciva a commuovere l'avarizia veneziana. E alcuni che vi ricorsero, come nel 1525 lo spagnolo Giovanni Mon- tesdoch, furon lasciati andare con Dio. Quanto alla numerosa famiglia da mantenere, oltre ad al- cuni fratelli che ancora convivevan con lui, sappiamo che egli aveva perlomeno quattro figliuoli maschi: Francesco, Giulio, Alessandro e Antonio, non che una femmina. Alba, ottenuti dal matrimonio con la nobil donna Maria, figlia del padovano Francesco Roselli del fu Antonio, il noto giurista sepolto nella chiesa del Santo. Il maggiore di loro, nel 1493, non do- veva aver varcato di molto i dodici anni. Cinque figli da sfa- mare e da vestire, senza contare altri carichi, non sono un peso indifferente. Ma con decreto dello stesso senato (Reg. 12, f. 42r) in data 15 febbraio 1493, more veneto (dunque 1494), in seguito alla morte di maestro Antonio da Rimini, il Trapolin passò alla lettura ordinaria di medicina pratica, con lo stesso salario di 200 fiorini; dalla quale, se non v' è un errore di trascrizione del decreto nel Registro, sarebbe passato alla lettura straor- dinaria di Teorica della medicina, come si legge nello stesso Registro 12, f. 109V, alla data del 17 settembre 1595: Dominus autem petrus trapolinus qui legit extraordinariam Theoricae medicinae ad secundum locum in concurrentiam D. Ga- brielis ^erbo, cum summa satisfactione totius studi] patavini, auctoritate huius Consilij confirmetur ad lecturam predictam cum salario florenorum 250 dari solito lecturae predictae secundi loci. E il 19 settembre fu dato avviso ai Rettori di Padova, perché fosse provveduto in conformità. L'usanza che, prima 158 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI d' insegnar medicina, un maestro insegnasse la filosofia na- turale e magari la logica, è tutt'altro che infrequente, ed è anzi conseguenza dello stretto rapporto che la medicina an- tica aveva con la filosofia della natura. È risaputo, del resto, che i tutti i più celebri filosofi arabi erano anche medici. A Padova, Pietro Roccabonella, che nel 1450 insegnava filosofia, passò all' insegnamento della medicina nel 1459 ; nel 1464 ritornò a insegnar filosofia e nel 1472 di nuovo medicina. Cristoforo da Recanati, successo a Gaetano da Thiene nel 1465, passò a medicina nel 1467. Paolo dal Fiume che leggeva fi- losofia nel 146 1, fu trasferito a medicina nel 1468. Gabriele Zerbo cominciò a insegnar medicina nel 1492, dopo avere insegnato filosofia per un decennio. E potrei continuare per un pezzo. Col passaggio di Pietro Trapolin all' insegnamento della medicina, concorrente del Vernia avrebbe dovuto essere il Pomponazzi. Sappiamo però che maestro Nicoletto s'ado- prava, con gli appoggi che aveva a Venezia, per esser liberato alfine, più che dal peso, dall' incubo addirittura della concor- renza. E tanto fece che vi riuscì, ottenendo 95 voti favore- voli, con decreto del senato veneziano in data 8 settembre 1495 (vedi sopra pp. 123-124). Alla proposta erano stati con- trari ben '3^'] senatori, mentre 9 voti eran risultati nulli. In questo decreto sono più cose che meritano di fermare la nostra attenzione. Anzi tutto, è ribadito il concetto che il privilegio concesso a Maestro Nicoletto da Chieti, d' insegnare senza concorrente, ha carattere eccezionale, essendo stato concesso nel passato solo a due insigni maestri come Gaetano da Thiene e Cristoforo da Recanati. Al Vernia veniva con- cesso « ob maximam scientiam et doctrinam philosophie », per avere insegnato questa disciplina nello studio di Padova « per annos triginta et ultra ». Inoltre, in questo decreto si stabilisce, che, in luogo del con- corrente che soleva darsi al Vernia, venga nominato a quella lettura « Magister Petrus de Mantua, vir doctissimus, qui legit philosophiam annis septem », coll'annuo salario di cento fiorini. A concorrente poi di maestro Pietro Pomponazzi è deputato Agostino Nifo da Sessa, « etiam doctissimus et qui legit philo- sophiam annis tribus » (dunque dal novembre 1492), col sa- lario di 80 fiorini all'anno ; in modo che il salario pagato al Pom- ponazzi e quello pagato al Nifo, sommati insieme, non rag- APPUNTI INTORNO A PIETRO TRAPOLIN I59 giungono la somma del salario pagato al concorrente di maestro Nicoletto, cioè al Trapolin, che riscuoteva 200 fiorini. Fu così che il buon Peretto Mantovano si trovò tra i piedi il Nifo, che cordialmente detestava per l'aria di gran saccente che si dava e la non poca arroganza. Non son riuscito a vedere alcun documento che m' indi- casse la data esatta del suo dottorato. Ma se egli fu assunto alla cattedra straordinaria di filosofia nell'autunno del 1492, si può arguire che si fosse addottorato sui vent'anni fra il 1490 e il 1491, promotore il Vernia, cui era così fortemente legato e al quale tanto somigliava, più che per lo spirito fa- ceto, per la prontezza ai raggiri. Come straordinario, potrebbe darsi che egli fosse stato incaricato di tenere anche un corso di filosofia morale, se non ne tenne uno privato di propria iniziativa, come diremo. Con la nomina a concorrente del Pomponazzi, egli era promosso ordinario « secundo loco ». Soltanto nell'ottobre del 1496, quando occupò il posto lasciato vacante dal Peretto, come vedremo, si trovò promosso ordi- nario « primo loco ». Di questa singolare figura di lestofante mi sono dovuto oc- cupare più volte, a dimostrare com'egli abbia mentito con gran disinvoltura, qual'era solito, quando ha voluto farci credere che il De intellettu pubblicato per la prima volta nel 1503, fosse stato composto prima della fine d'agosto del 1492, e che a questa data debba farsi risalire il suo distacco dall'averroismo sigeriano da lui un tempo professato, anzi che in questo di- stacco egli abbia preceduto il Vernia (cfr. sotto, p. 311), mentre vi sono scritti impressi assai dopo il 1492, come il commento alla Destntctio destnictionum di Averroé, stampato nel 1497 e dedicato al Card. Grimani, e il commento al XII della Meta- fisica dedicato ad Antonio Giustinian e stampato nel 1505, che sono ancora saturi di spirito sigeriano. Del resto, la più bella smentita gli è data da Girolamo Avanzo che fece il dottorato in artibus, insieme a Girolamo dal Muro Nuovo, il 29 luglio 1494, compromotori, per l'Avanzo, Lorenzo da Noale, Giovanni Aquilano, Girolamo da Verona, Gabriele Zerbo e Pietro Trapolin, e, per il Muro Nuovo, Gio- vanni Aquilano, Girolamo da Verona, Girolamo Polcastro, lo Zerbo e il Trapolin; primo promotore, per ambedue, Mae- stro Nicoletto da Chieti. Maestro Agostino Nifo da Sessa, « magister artium doctor, extraordinariam philosophiae le- l6o l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI gens», era il primo dei sei testimoni (Arch. d. Curia Vesc, cit., voi. 44, f. 247r). Orbene: l'umanista veronese Girolamo Avanzo, nella rara stampa In Valer inni Catulhim et in Pria- peias emendationes: et.... prò Magnifico Francisco aurichalcho oratio: ac ad divam Cassandrani elegia. Eiusdem de landihus philosophiae moralis oratio et gratiarum actio ad Marcum Cazzo ìium et M. Antonium mauroceniim (Ioannes de Cerato de Tridino. Venetiis. MCCCCXCV), segnalatomi dairamico Carlo Dionisotti, fa anzi tutto questo elogio dei due giovani amici e compatrioti. Agostino del Bene e Girolamo Bagolino, adducendo la testimonianza di Nicoletto Vernia: Utinam mecum essent Augustinus Beneus ac Hieronymus Bagolinus, iuvenes mihi urbe studiis moribus aetate pares, apud quos poetica sapientia et philosophica scientia de principatu decertant. His nihil amabilius, nihil eruditius invenio. Horum qui graecas lectiones intelligit, dubitat nempe Veronae an Athenis nati et eruditi sint. Huius rei locupletissimum est testimonium Nico- letus Theatinus, qui, dum Arabuni praescripta fastiditus sit, Augustini ac Hieronymi traductione interpretatione ac narra- tione absque graecis litteris graecorum omnium philosophorum dogmata probe tenet ac sapienter in dies edocet (f. a. jj. dedica ad Agostino Moravo di Olmùtz, in data 6 ott. 1493). Ov' è chiara l'allusione al nuovo orientamento antiaverroi- stico del Vernia dopo il decreto del 1489 da parte del vescovo di Padova, P. Barozzi. Ma- nell' Exordium philosophiae moralis (f. b.ii) l'Avanzo ritorna a fare l'elogio di Nicoletto e del Nifo: . Num divinum senem Nicolletum, virbis Theatinae sidus splen- didissimum, civitatis Vincentinae amorem ac delicias, Patavinae Achademiae columen eximium, virtutis minime fucatae magi- strum atque legitimae philosophiae antistitem, uniuscuiusque divinitatis secretarium emeritum declarassent Veneti patres, nisi eundem Religionis nostrae acerrimum assertorem perspi- cerent ?...». Tale appariva Maestro Nicoletto all'umanista veronese nel novembre 1494, quando il filosofo chietino attendeva ad am- mantarsi d'un po' di platonismo di moda e a rifarsi una ver- ginità filosofica con le sue Quaestiones de plnralitate intel- lectus contra falsam et ab omni verifate remotam opinionem Averroys et de animae felicitate. Il Nifo, invece, nell'autunno del 1494, quando l'Avanzo tenne la sua prolusione al corso di filosofìa morale nello Studio padovano, alla presenza dei APPUNTI INTORNO A PIETRO TRAPOI.IN l6l due rectores veneziani della città, il podestà Marino Gazzoni e il capitani© M. Antonio Morosini, era ritenuto ancora da lui un Averroè redivivo: Num amantissimo convictori meo Angustino de Suessa, iuveni (qui quattuor supra vigiliti annos nondum viderit) primariam phi- losophiae lectionem designassent ? Esto dum aptissime disserit, dum publice Peripatheticorrum praescripta enarrat, passim acclametur, vel renatum Aristotelem vel magni Averrois animam ex Pythagorae sententia in hunc migrasse, nisi praeter naturales scientias, in quibus eminet, Ethicorum quoque volumina (quibus per biennium me paene foelicem reddidit) sponte profìteretur. E appunto per purgarsi da questa fama di Averroè redivivo che lo inseguiva ancora alla fine del 1494, e per la quale taluni lo avevano accusato d'eresia e gli avevano impedito di pubbli- care una certa sua Quaestio de intellectu, egli dovette adoprarsi, negli anni successivi, a dissipare i sospetti su di lui concepiti, onde riguadagnarsi il favore del Barozzi, rielaborando quella Quaestio sino a farne l'attuale trattato antiaverroistico De intellectu, che con disinvoltura datò da Padova « 26 augusti 1492 », ma che, così come l'abbiamo, fu pubblicato solo nel 1503. L'Avanzo e' informa che egli aveva preso gran gusto anche ad un corso sull' Etica Nicomachea che il Nifo aveva profes- sato « sponte » per un biennio. Che cosa significhi propria- mente quello « sponte » non saprei. Forse si tratta di un corso privato che il suessano aveva tenuto di sua iniziativa per attirarsi il favore degli alunni; cosa che non di rado anche altri maestri facevano, tenendo corsi in ore libere o, come suol dirsi, rubate, su richiesta degli alunni. Nel 1495, dunque, quando il Trapolin era passato all' inse- gnamento della medicina, nelle aule di filosofia discettavano maestro Nicoletto « sine concurrente », il Peretto mantovano in concorrenza col Nifo. Ma il Vernia, sebbene ormai vecchio e all'apice della sua carriera, doveva covare in cuore una se- greta gelosia per i suoi rivah, che si fregiavano del titolo di « artium et medicinae doctores » (lo stesso Pomponazzi aveva conseguito il titolo di dottore in medicina non molto tempo prima del 9 marzo 1496), mentr'egli, addottorato « in artibus » fin dal 1458, non aveva ancor pensato ad affrontare la prova per conseguire il titolo di dottore in medicina. Quell' anno 1495 si chiudeva appunto con lo spettacolo, non comune, d'un vecchio maestro che insegnava filosofia da oltre tren- 11 l62 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI t'anni e ora chiedeva ai colleghi la « grazia » d'essere ammessa al « tentativo )> e quindi al « privatum examen » per ottenere il dottorato in medicina. Ecco il verbale di quest'ultimo atto,, rimasto ignoto al Ragnisco il quale, confondendo col Vernia Nicolò Manupello, egli pure da Chieti e parente del Vernia, riteneva che questi si fosse laureato in filosofìa il 22 aprile 1444 e in medicina forse nel 1458: A nativitate Domini nostri Jesu Christi 1496 {sic). Indictione 14, die martis 29 decembris, in loco solito examinum. Privatum examen et Doctoratus in facilitate Medicinae Cla- rissimi Artium doctoris Domini Nicoleti Verniatis, theatini, ordinariam philosophiae legentis absque concurrente, examinati per Sacrum collegium Artium et Medicinae doctorum, corani ve- nerabili Domino presbytero Antonio de Malgarinis, cathedralis ecclesiae paduanae Mansionario, in hac parte Vicario, in assi- stentia spectabihs domini Leonardi Butironi, Rectoris, appro- bati unanimiter et concorditer ac nemine penitus discrepante, sub promotoribus Domino Joanne Aquilano qui de dit insignia prò se ac Dominis Laurentio de Noali et Hieronymo de Verona. [Testes]. D. Laurentius Donato, Camerarius. D. Vicentius Quirino, artium scholaris. D. M. Petrus de Mantua / D. M. Antonius T^achantianus \ In questo atto da me veduto (Arch. d. Curia Vesc, voi. 44, cot., f. 2gor) e gentilmente trascrittomi dal Rev.mo Mons. A. Barzon, il dottorato in medicina di Maestro Nicoletto è fissato al martedì 29 die. 1496. Ma che si tratti d'un semplice lapsus dell'estensore è provato dal fatto che l'atto immedia- tamente precedente (f. 289V) è del 23 dicembre 1495, e il f. 29ir porta la data del 2 gennaio 1496. Inoltre, il 29 dicem- bre 1496, cadeva in giovedì, e non martedì come il 29 dicem- bre 1495. Infine, il 29 dicembre 1496 il Pomponazzi non pc- teva fare da testimone, perché nell'ottobre aveva lasciato Padova, e vi fece ritorno solo dopo la morte del Vernia nel 1490, Ma forse non si tratta di errore, bensì dell'aver computato il principio del 1496 « a nativitate Domini », cioè dal 25 di- cembre. Notevole nell'atto riferito è poi la presenza, fra i testimoni, di Lorenzo Donato e di Vincenzo Quirini. Il primo era un pa- trizio veneziano, e a lui, questore a Padova, il Nifo, alunno del Vernia, dedicherà, nel 1497, il prologo d'Averroè alla Fisica, stampato in fine del commento dello stesso Nifo alla APPUNTI INTORNO A PIETRO TRAPOLIN 163 Destructio destructionum dello stesso Averroè. Del secondo, al quale il Nifo a Padova e da Salerno ostentava il suo partico- lare e interessato attaccamento, faremo cenno piìi giti. Ma potrebbe anche darsi che il motivo che spinse il filosofo chietino ad addottorarsi in medicina fosse un altro. Leggiamo infatti nel Sanudo (II, 314) che i medici veneziani il 2 gennaio 1499 si lagnarono in Collegio perché Giovanni Aquilano, (( maistro Nicoleto », Girolamo da Verona e Gabriele Zerbo, medici che leggevano a Padova, durante le vacanze andavano « a miedigar in questa terra », cioè, a Venezia, e non applica- vano ai clienti le « angarie » di legge che dovevano far pagare i medici di Venezia, a prò del medico dell'armata (v. sopra, pp. 125-126). Pare che a quei tempi l'esercizio della medicina desse guadagni più vistosi della filosofia; e a « maistro Nico- leto » dovevano far gola. Ma col 1496 comincia per la filosofia padovana un periodo di crisi che coincide con la partenza del Peretto. Questi, messo a dura prova dalla concorrenza del Nifo, dovette sentirsi spronato ad accogliere un invito che gli era fatto, di andare a stabilirsi alla corte di Alberto Pio, a Carpi. E nella prima metà d'ottobre 1496 egli rinunziò alla cattedra e chiese licenza d'an- darsene, adducendo a motivo i suoi personali interessi. Questo risulta dal decreto del Senato veneziano, in data 16 di quel mese (Venezia, Arch. di Stato, Senato terra, Reg. 12, f. ijjr) : Renuntiavit niiper eximius doctor D. Petrus de mantua lecturae ordinariae philosophiae gymnasij nostri patavini, cuius retinebat primum locum; et hoc impulsus privatis suis negotijs. Sicché i sapienti del Consiglio e della Terra ferma, nella necessità di provvedere per l'anno scolastico 1496-1497 alla cattedra rimasta vacante, nominarono a succedergli Ago- stino Nifo, (( qui erat concurrens ipsius. D. Petri de mantua secundo loco », promovendolo al primo, col salario di 90 fiorini, e dandogli come concorrente, « ad secundum locum », il fa- moso e a tutti gratissimo dottore Antonio Fracanzano, vicen- tino, « de cuius sufficientia et doctrina litterae Rectorum no- strorum Paduae dant amplum testimonium », coll'annuo salario di 80 fiorini. Ma il Nifo non valeva il Pomponazzi, e d'altra parte risulta che nel corso dell'anno scolastico 1497-1498, non sappiamo per quali ragioni, se per motivi di stipendio o per attriti co] 164 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Fracanzano, ad un certo momento tagliò la corda. Sì che il Senato veneziano, in seguito a rapporto del rettore degli Ar- tisti di Padova, considerando che maestro Nicoletto « ob suam ingravescentem etatem continue non potest legere, quamvis ob eius sufficientiam est valde gratus omnibus scolaribus, et quoniam illam lectionem alias legebat D. Augustinus de sessa cum florenis 90 in anno, vir apprime sufficiens et gratus illis scolaribus, qui libenter veniret ad legendum », decide che il Nifo sia condotto di nuovo con fiorini 120, ed abbia a con- corrente lo stesso Fracanzano (Ib., Reg. 13, f. ^yr, ig giugno 1498). Questi s'era addottorato in artibus nel maggio 1489; nel- l'autunno del 1492 era stato assunto alla lettura della logica, e questa cattedra occupava ancora il 21 luglio 1494 (Padova, Arch. della Curia, Acta grad., voi. 44. f. 246V); nel 1495 aveva conseguito la laurea in medicina, e quindi assunto alla cat- tedra straordinaria di filosofia che occupava il 29 dicembre 1495 (Arch. d. Curia, 1. e, f. 290r). L'anno successivo, fu pro- mosso, come abbiamo visto, alla cattedra ordinaria « secundo loco ». Ben poco ci è noto anche del suo indirizzo filosofico. Di scritti di lui a stampa non conosco che le otto « Quesiiones in consecutiones Stradi ac de sensu composito et diviso, pubbli- cate nel volume del faentino Benedetto Vittori, In Tysberum de sensu composito ac diviso cum eiusdem collectaneis in sup- positiones Pauli Veneti. Nec non Tractatus Alexandri Sermo- nete, Bernardini Petri de Landìtciis, Pauli Pergulensis et Baptiste da Fabriano in eundeni Tysberum. Item qiiestiones Frachan- ciani Vicentini in consecittiones etc. (Venetiis, impensa heredum q. Oct. Scoti. 5 dicembre 1517, ff. 56ra-65v), e dedicate ad Alessandro Sermoneta. Esse appartengono senza dubbio al periodo nel quale il Fracanzano fu lettore di logica. Di opere manoscritte ne conosco invece due. Una è nel cod. Ashburn 1048, nella Laurenziana di Firenze, ff. ir-38v con questo titolo: Excellentissimi Doctoris Domini Antonii fracantiani Vicentini de casu et fortuna fatoque quaestiones incipiunt (9 capitoli, oltre il proemio). L'altra è nel codice Vat. lat. 10728, e porta questa intestazione: Tractatus proportionalitatum Domini antonii fracantiani Vicentini di ff. io. È divisa in tre trattati ed è scritta di mano d'un allievo, che probabilmente è Girolamo Accorumboni o Accoramboni da Gubbio. Ecco APPUNTI INTORNO A PIETRO TRAPOLIN 165 quanto scrive questo alunno : « Finis Tractatus proportionum Fracantiani, praeceptoris mei, qui legit patavii ordinariam philosophiae ; obiit mo cccccvi, die 28 aprilis. Ego vero eram tum bacchalarius ordinarius in studio patavino. Pontifex erat prope bononiam cum exercitu, ut dominum iohannem expel- leret ». Niente son riuscito a sapere del commento inedito In VII Physicorum di cui parlano i Memorabili di Giovanni da Schio (ms. nella Bibl. Bertoliana di Vicenza, lettera F) e che era posseduto dal canonico Fulvio Querengo. Interessante è quanto riferisce Marin Sanuto (II, 485), come il 24 giugno 1499 furon ricevuti a Venezia in Collegio « maestro de Star- niti » (? !) teatino et maestro Gabriel Zerbo, doctori, lezeno a Padoa in philosophia et medicina, insieme col retòr di scolari artista, con commission dil collegio di doctori; et forno alditi in contraditorio con maestro Antonio Fraganzan, dotor vicentin, leze in philosophia, qual non voria haver conco- rente inferior a lui, né vorìa essi doctori esso in nel collegio di doctori. Or fo gran parole, et scrito ai retòri di Padoa, dagi Information >>. Non conosco l'esito di questa bega; ma è certo che l' inse- gnamento della filosofia a Padova versava in gravi condi- zioni. Il Nifo se n'era andato, e non farà più ritorno a Padova, ove non gli mancavano gli appoggi di potenti amici, ma dove aveva dovuto cozzare altresì contro l'avversione di maestri e scolari. Il 4 ottobre poi era morto maestro Nicoletto, che il 3 agosto a Vicenza aveva fatto l'ultimo suo testamento, e con lui spariva dalla scena padovana la figura forse più nota fra gli stu- denti di filosofia e più popolare per le sue bizzarrie (v. sopra, sag- gi IV e V) . Nessun maestro di qualche rilievo occupava più le cat- tedre di filosofia. Di ciò ebbe a preoccuparsi il Senato veneziano nella seduta del 31 ottobre (Senato terra, Reg. 13, f. 97r). A succedere al Vernia fu perciò richiamato « Magister Peretus de Mantua, vir singulari doctrina preditus et studentibus gratus », per la durata di due anni, con 180 fiorini di salario »; per concorrente gli fu assegnato il Fracanzano, « vir doctis- simus, qui iam per annos septem legit » (dunque dall'autunno del 1492, quando fu nominato lettore di logica) ; e poiché il vicentino ricusava l'ufficio di concorrente col salario di 80 fiorini, fu deciso di portarlo a 130, onde « possit legere contentus et facere bonam concurrentiam ». Alla cattedra straordinaria di filosofia fu accettato il bolognese Tiberio Bacilieri, disce- l65 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI polo, amico e collega di Alessandro Achillini, del quale portò a Padova le dottrine. Egli aveva dovuto lasciare la città natale, in seguito alla sospensione per un quinquennio inflittagli da quel Collegio dei medici e filosofi (cfr. sotto, pp. 226-27). E forse il Bacilieri dovette fare da concorrente al Peretto, quando il Fra- canzano entrò per tre anni al seguito del nuovo cardinale Marco Corner, che, elevato alla sacra porpora a diciott' anni, aveva an- cora bisogno d'andare «a Padoa a studia» (M. Sanuto, II, 929). Ma ritornato sulla sua cattedra il Fracanzano nel 1502, e ri- preso il suo posto di concorrente del Pomponazzi, il Baci- lieri l'anno successivo lasciò Padova per Pavia (cfr. il mio voi. Sig. di Brah. nel pens. del Rinasc. ital., pp. 132-152). Nella stessa delibera del 31 ottobre 1499 si trova ancora: Demum legit in dicto Gymnasio iam annos sexdecim [dunque dall'anno scolastico 1483-1484, quando il Trapolin salì sulla cat- tedra di filosofia quale straordinario] Magister Petrus trapolino, qui iam est senex et onustus ingenti numero filiorum, et habet flo- renos 250 de salario in anno, quod exiguum est respectu laborum quos sustinet in legende. Ideo captum sit quod dicto magistro Petro addantur floreni quinquaginta, ita quod habeat de salario trecentos in anno et ratione anni, attento presertim quod eius concurrens [che era Gabriele Zerbo] habet fiorenos sexcentos de salario in anno. Con questa delibera del Consiglio veneziano che vigilava sulle sorti dello Studio patavino la crisi della filosofia pado- vana era avviata a una felice soluzione. Intanto venivan su ottimi elementi nuovi, alunni dei vecchi maestri, che, appena addottorati e taluno anche prima, sa- livano giovanissimi sulla cattedra. Così il 17 agosto 1499, s'addottorò /;/ artihus Lorenzo dal Molino, da Rovigo, già alunno del Pomponazzi e del Trapolin che al giovane dottore conferì le insegne, e nel verbale di dottorato troviamo anno- tato che egli era già stato deputato « ad lecturam dialecticae » (Arch. d. Curia Vesc, voi. 46, f. 71). Il 21 maggio 1500, s'era addottorato in artihus il veronese Gianfrancesco Burana {Ib., voi. 47, f, 106), e un anno dopo lo troviamo ordinario di logica {Ib., f. i62r). Il veronese Bernardino Plumazio, già alunno del Nifo, fu chiamato « ad extraordinariam philoso- phiae lecturam » {Ib., f. 248r). Anche Francesco Trapohn, al quale conferì le insegne di dottore in artibus il padre, il 6 ottobre 1501, troviamo che « electus est ad lecturam publicam APPUNTI INTORNO A PIETRO TRAPOLIN 167 logice » [Ih., f. i68r). L'anno scolastico 1503-1504 fu promosso straordinario di filosofia naturale. E dopo la laurea in medi- cina, conseguita il 4 marzo 1506, anche questa volta « promo- tore.... D. Petro Trapolino genitore suo qui dedit insignia » (e fra i testimoni era Gaspare Contarini), passò alla seconda scuola di medicina, collega del padre e, come questo, colle- giato. Il 14 novembre 1500 s'addottorò in artibns Giacomo Filippo delle Pelli Negre da Troia in Puglia, promotore Pietro Trapolin, ed anche egli era già stato eletto « ad moralem philo- sophiam publice legendam » {Ih., voi. 47, f. 135). Il 1° febbraio 1501 s'addottorò in medicina Girolamo Bagolino, di cui ab- biamo udito l'elogio fatto da Girolamo Avanzo [Ih., f. 146 v) e del quale è ben nota la carriera scolastica. Il 6 agosto s'ad- dottorò in artihus M. A. Zimara, promotore ancora P. Trapolin, e l'anno seguente cominciò a insegnare prima logica, poi fi- losofia [Ih., f. i62r). Il 5 nov. 1502 conseguì il dottorato in artihus Girolamo Fracastoro, anch'egli già « ad lecturam logice deputatus » {Ih., f. 225r). Proprio in questi anni, affluiscono a studiar filosofia a Pa- dova giovani delle più ragguardevoli famiglie patrizie vene- ziane. Primi fra tutti Vincenzo Quirini, Marco Gradenigo, Girolamo Taiapietra, Santo Moro, Cristoforo Marcello, Ga- spare Contarini, Nicolò Tiepolo, Antonio Surian, M. A. Con- tarini, Lorenzo Venier. Il Quirini, ancora « artium scholaris », figura in vari atti di dottorato come testimone fin dal 1495; ma recatosi a Roma, vi sostenne le « conclusion » nella chiesa dei Santi Apostoli, il 29 maggio 1502, presenti Pietro Bembo e l'oratore veneziano Marin Zorzi, e fu addottorato in artihus da papa Alessandro VI. Il suo esempio seguirono anche il Taiapietra e il Tiepolo, addottorati essi pure a Roma, dopo avervi disputato le loro brave « conclusion », il primo nella primavera del 1506, il secondo nell'estate 1507, da Giulio II (M. Sanudo, III, 278; VII, 116; P. Bembo, Opp., t. Ili, Ve- nezia 1729, p. 3i4r). Invece Cristoforo Marcello, che il 17 ot- tobre 1500 aveva sostenute ai Frari, a Venezia, « alcune con- clusion » (M. Sanudo, III, 978), s'addottorò in artihus a Pa- dova, promotore P. Trapolin, il 20 ottobre 1501, e gli fecero da testimoni M. A. Foscarini, vescovo di Città Nova e ancora studente di diritto canonico, Girolamo Barbarigo, primicerio di S. Marco, e Pietro Pomponazzi (Arch. di Curia Vesc, voi. 47, f. lògr). Del dottorato in artihus di Andrea Mocenigo, discepolo l68 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI del Pomponazzi, trovo questo verbale {Ib., f. 256): Anno Nativitatis dominicae 1503, indictione sexta, die Sabati XII Augusti. Privatum examen in Artibus, in loco solito exami- num, per Venerandum Collegium Artium et medicinae doctorum, et comprobatio unanimiter et concorditer ac nemine penitus discrepante, in assistentia Spectabilis. D. Pauli Zerbo Rectoris, coram Reverendo d. Ludovico de rugerijs vicario. Et deinde in medio cathedralis ecclesiae, assistentibus M. cis et CI. imis dominis Thoma Mocenigo praetore, patruo, et Paulo Trivisano equiti, praefecto urbis, avunculo, et aliorum praestantissimorum docto- rum scholarium civium et praelatorum corona, per R.mum D. Epi- scopum, eius domino Vicario recitante, pronuntiatus fuit Doctor in Artibus M. cus et doctissimus vir. D. Andreas Mocenigo, natus M. ci et CI. mi D. Leonardi, fili] olim Serenissimi principis Vene- tiarum D. Joannis Mocenici, post longas lucubrationes et scho- lasticos labores et publicas disputationes ac varia virtutis et doctrinae suae experimenta. Cui tradita fuerunt insignia per Excell.mum artium et medicinae doctorem, D. Magistrum Pe- trum trapolinum prò se ac Dominis Magistris Ioanne de Aquila, Symone Estensi, Hieronymo de foelicibus ac Bernardino Spirono. Testes: D. Laurentius Venerio, D. Antonius Suriano, D. Gaspar Contareno, artium scholares. È notevole che anche qui s'accenni a pubbliche dispute, tenute verosimilmente a Padova e a Venezia, delle so- lite « conclusion ». L' 11 settembre dello stesso anno, s'ad- dottorò in artibus Marco Gradenigo, ed ebbe a testimoni il Magnifico G. Batt. Memo, suo zio e podestà di Padova {Ib., f. 258r). Il 4 luglio 1504, s'addottorò in artibus Sebastiano Foscarini, promotore Bartoloneo da Montagnana {Ib., f. 287r) ; un anno dopo, il 14 giugno 1505, fu eletto lettore di filosofia nelle scuole di Rialto a Venezia, al posto di Antonio Giustinian nominato ambasciatore, e questa cattedra egli tenne fino alla sua morte nel 1552 (M. Sanudo, VI, 185). L' 8 agosto dello stesso 1504 s'addottorò parimente in artibus Lorenzo Venier, « el Gobeto », del quondam Marino procurator di S. Marco, e gli furon testimoni Giorgio Corner, padre del Cardinale e podestà di Padova, Paolo Trevisan, capitanio, Antonio Surian e Girolamo Polani (Arch. Cur. vesc. cit., f. 29or). Prima del dottorato a Padova, egli aveva tenuto le sue « conclusion », il 12 giugno, ai Frari in Venezia, disputando per più giorni con Lorenzo Bragadin, lettore di filosofia, con Giovanni Ba- doèr, dottore e cavaliere, con Marin Zorzi, anch'egli dottore, e con alcuni frati (M. Sanudo, VI, 31). Il 21 maggio 1505 fu APPUNTI INTORNO A PIETRO TRAPOLIN 169 la volta di Santo Moro di Marino, che ebbe a testimoni Alvise Molin, podestà di Padova, Angelo Trevisan, capitanio, i due celebri scotisti francescani Antonio Trombeta e Maurizio Ibernico, lettori nelle scuole del Santo, e Pietro Pomponazzi (Arch. Cur. Vesc, cit., f. 417^). L' 11 maggio anch'egli aveva tenuto «le conclusion ai Frari, qual'è impresse» (M. Sanudo, VI, 163). E finalmente Antonio Surian, nipote del patriarca dello stesso nome, dopo una disputa pubblica di due giorni a Padova e di un giorno ai Frari a Venezia [Giorn. Crii. d. Filos. Hai., XXXI, 1950, p. 312), il 9 luglio 1506 ebbe le insegne di dottore in artibus da Bernardino Speroni, « prò se ac Dominis Magistris Ioane de Aquila, Benedicto de Odis, Petro Trapolino, Victore Maripetro, Antonio de Faenza, Francisco ab Equis, Petro de Mantua, Antonio Carrano et Carolo de lanua com- promotoribus suis » (Arch. Cur. Vesc, cit., f. 371 v). Dal qual verbale appare che Pietro Pomponazzi, forestiero, era stato, dopo quindici anni di soggiorno padovano, aggregato al Col- legio dei medici e filosofi di Padova, Dallo stesso Archivio della Curia Vescovile, (voi. cit., f. 38ór) si rileva che xA.ntonio « D. Petri Trapolini », il 19 dicembre 1506, ricevve la prima tonsura dalle mani del vescovo Pietro Barozzi, il quale venne a morte di lì a poco, il io gennaio 1507. Questo figlio del Trapolino fu avviato allo studio del diritto, e, dopo alcuni anni di vita dissipata, rimessosi sulla buona strada, professò Decretali e Diritto Civile a Padova fra il 1526 e il 1528. Ma morì giovane il 6 settembre 1529, se sono esatte le notizie raccolte dal Facciolati {Fasti Gymnasii Pata- vini, parte III, pp. 106, 109, 128, 130, 131). Divenuto un fiorente centro di intesa vita intellettuale, lo studio di Padova attirava, oltre la nobiltà veneziana e stu- denti di molte parti d' Italia, molti studenti d'oltralpe, spe- cialmente dalla Germania e dalla Polonia. Fra coloro che vi sostarono per più anni, è da ricordare Nicolò Copernico, che, già studente di diritto e quasi certamente anche delle Arti a Bologna fra il 1496 e il 1500, a Padova fu studente di me- dicina dall'autunno del 1501 forse sino alla primavera del 1505, e a Padova certo non può aver trascurato lo studio della matematica e dell'astronomia. A Padova avevano insegnato queste scienze il Peurbach e il Regiomontano, ossia Giovanni Muller di Kònigsberg, e dipoi Francesco Capuano di Manfredonia, i quali avevano discusso 170 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI le osservazioni di Tolomeo e quelle di Albategni in rapporto ad una revisione, che si rendeva ogni giorno più necessaria, delle Tavole Alfonsine. Si parla anche della fama di profondo matematico goduta da Pietro Trapolin, considerato niente- meno che « il primo matematico del suo tempo », sì che per questa sua fama accorrevano a Padova, « avidi d'ascoltarlo, scolari d'ogni nazione » (G. Vedova, Biogr. d. Scrittori Padovani, II, p. 361). Alunno del Trapolin e del Pomponazzi era stato il mantovano Benedetto del Tiriaca che s'addottorò in artihus il 20 dicembre 1494, promotore il Trapolin che gli conferì le insegne, e testimone il Peretto suo concittadino. Dal 1498 al 1506 egli tenne la cattedra di matematica e astronomia con tanto plauso che, avendo dato le dimissioni, bandito il concorso per dargli un successore, quando gli studenti seppero i nomi degli aspiranti a quella lettura presero ad agitarsi e chiesero che il Tiriaca fosse richiamato sulla cattedra, come fu fatto con deliberazione del Senato veneziano in data 7 settembre 1508. È arduo pensare che fra il 1501 e il 1505 il giovane Copernico, che era tra i ventotto e i trent'uno anni d'età, non l'abbia avvicinato e si sia disinteressato dell' in- segnamento del giovane maestro di forse due o tre anni più anziano. Un confronto dei ritratti dell'astronomo polacco, e spe- cialmente dell'autoritratto, col giovane matematico seduto e intento a tracciare un disegno nel quadro del Giorgione « i tre filosofi », m' ha indotto a credere che questo giovane sia pro- prio Copernico, studente a Padova. Volgendo le spalle a To- lomeo e all'arabo Albategni, egli è rappresentato dal pittore di Castelfranco Veneto, al centro ideale e prospettico del quadro, nell'atto di scrutare la natura che ha dinanzi e di volgere le spalle ad un sapere che stava per tramontare. Il 20 aprile 1506 Pietro Trapolin era a Venezia, presente alle solenni esequie fatte a Marco Antonio Sabellico nella chiesa di S. Stefano. Gian Battista Egnazio fece l'orazione funebre dell'amico umanista deceduto (M. Sanuto, Vili, 329). Il Pomponazzi, circondato dalla stima e dall'affetto dei suoi alunni e dei colleghi, il 15 ottobre 1504, aveva rinnovato l' in- gaggio « per tres annos de firmo et unum de respectu » ; e in quell'occasione il Senato gli aveva portato lo stipendio dai 180 ai 250 fiorini, motivando l'aumento con la singolare dot- trina del filosofo e coi bisogni della numerosa famiglia da À APPUNTI INTORNO A PIETRO TRAFOLIN I7I mantenere (Venezia, Arch. di Stato, Sen. terra, Reg. 15, f. 37r). Quanto alla numerosa famiglia, sappiamo che sotto Natale del 1500 egli s' era sposato con Cornelia di Francesco Dondi dell' Orologio, dalla quale aveva avuto una o forse già due figliolette. Per parlare di numerosa famiglia, bisogna pensare che egli avesse a carico altri parenti. Tanto più che lo stesso motivo del bisogno in cui versava per la famiglia numerosa sarà addotto dal Peretto per chiedere un nuovo aumento di lì a tre anni, in occasione del rinnovo dell' ingaggio. Lo sti- pendio questa volta gli fu portato a 370 fiorini, e il manto- vano s'impegnò «per annos septem proximos » (Ib., f. 185V). Le cose dello Studio patavino procedevano dunque a gontie vele, e quando, nel novembre 1506, ad Alessandro Achillini costretto a fuggire da Bologna, per la caduta dei Bentivoglio dei quali era fautore, fu offerta la cattedra di filosofia natu- rale, « secundo loco », che era stata del Fracanzano, morto, come abbiamo visto il 28 aprile ; si che il bolognese si trovò ad essere per un biennio concorrente del Pomponazzi. E in di- sputa tra loro al circolo dei filosofi, al portico pretorio, fra il palazzo della ragione e il Bò, li ritrasse ambedue al vivo Paolo Giovio, il quale nel 1506 era alunno del Peretto, e a Padova rimase fino alla primavera del 1507, quando fece ritorno a Pavia. Ma la serenità che Bologna invidiava a Padova non durò a lungo e un violento uragano si abbatté su questa, nel 1509, quando, per il furore « totius fere Europae virium in Rem Venetam conspirantium », come con bella frase si legge sulla tomba del doge Loredan nella chiesa di San Zane e Polo, Venezia corse pericolo mortale e le milizie imperiali occupa- rono Padova il 6 giugno. Sembra che proprio lo stesso giorno dell'entrata dei tedeschi in Padova, morisse, non saprei in quali circostanze, Pietro Trapolin, in età di 58 anni e venti giorni. E fu certo ventura per lui che, giacendo nella pace del chiostro di S. Francesco, ov'era la tomba della famiglia Tra- pohna (nella stessa chiesa riposa il Roccabonella), non ebbe a vedere lo scempio della città, il saccheggio della sua casa e la sciagura dei suoi congiunti ed amici. All'avvicinarsi del nemico, il 5 giugno, i rettori della città e il consiglio cittadino, formato di 16 deputati, discussero a lungo se arrendersi o resistere. « Et parlò Alberto Trapolin, che si voleno tenir per la Signoria, e non si dar al re di romani, si non vedono mazor 172 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAI, SECOLO XIV AL XVI exercito eh' 1 nostro a preso Padoa, ben non voleno danno, ni el nostro campo entri in Padoa », dice M. Sanuto. (Vili, 352). Ma le difese veneziane eran deboli, e Padova cadde. Vi fu un principio di saccheggio, ma una grida rassicurò i cittadini; fu formato un governo provvisorio di otto notabili padovani, e l'ordine fu ristabilito (M. Sanudo, Vili, 366-7). Di questo governo fece parte anche Alberto Trapolin, Bertuzzi Baga- roto, lettore di diritto canonico e Lodovico Conte. Qualche settimana dopo il numero di otto deputati fu portato a sedici. Insieme ai predetti fece parte di questo nuovo governo prov- visorio anche un altro dottore padovano, Giacomo da Lion (M. Sanudo, Ih., 439). L'ordine relativo che regnava in Padova consentì che i professori dello Studio continuassero a svolgere i loro corsi e a fare esami. Così mi risulta che il Pomponazzi il 2 luglio 1509 era promotore nel dottorato di Alvise da Brescia (Arch. ant. dell' Univ., Sacro Collegio dei medici e filosofi, n. 220, f. 30 v). Ed altri esami si tennero anche nei giorni successivi. Ma i veneziani mal si rassegnavano alla perdita di Padova, anche perché sapevano che non pochi padovani non se la pren- devano poi tanto calda per Venezia, e ricordavano che nel tentativo di Marsilio da Carrara, del 1435, non pochi l'avevano favorito, e la Signoria per dare un esempio memorabile, aveva fatto impiccare nel 1437 una sessantina di persone, fra le quali l'avo di Alberto e di Pietro Trapolin. Perciò si affret- tarono a ricuperare la città, affidando l' impresa ad Andrea Gritti. Entrate in Padova, il 17 luglio, le milizie veneziane si dettero a saccheggiare, nei giorni seguenti, le case dei fratelli Trapolin e di altri padovani, compromessi o sospetti, mentre Alberto, col fratello Roberto e con Ludovico Conte, s'asser- ragliò nel palazzo del Capitanio, ove fatto prigione fu mandato a Venezia, coi suoi compagni, per render conto del suo con- tegno verso la Signoria. È appunto col ritorno dei veneziani che cominciarono i maggiori guai per Padova. Nell'elenco delle case saccheggiate che menziona M. Sanudo (Vili, 523, 453), figurano quelle dei fratelli Alberto, Roberto e Nicolò Trapolin, e quella di Francesco loro nipote, e figlio del u quon- m dam maistro Pietro, medico ». La stessa casa di maestro Pietro, ove viveva la vedova Maria, coi figli Giulio, Alessandro ed Alba, non fu risparmiata, e pare che in questo saccheggio andassero distrutti per intero le opere manoscritte e i corsi APPUNTI INTORNO A PIETRO TRAPOLIN I73 di lezioni da lui tenute. M. Sanudo poi e' informa (IX, 52) che il 14 agosto anche « Julio Trapolin, fo fiol di missier Piero », fu fatto prigioniero e dal capitanio di Padova spedito a Ve- nezia con altri 14 compagni per esser giudicato. Ma anche ripresa dai Veneziani, Padova rimaneva sotto la minaccia degli imperiali che ne occupavano i dintorni imme- diati e alla fine di settembre tentarono di fare di nuovo irru- zione in città. Soltanto ai primi di ottobre i tedeschi levarnoo il campo. Intanto l'università aveva ricevuto un fiero colpo: maestri e studenti nel mese di luglio ed agosto cominciarono a prendere il largo, e taluni non vi ritornarono piìi, altri soltanto più tardi. Fra quelli che non ritornarono, è il Peretto Mantovano, nonostante l' ingaggio per sette anni preso da lui un anno prima. A dir il vero, il 3 aprile gli era morta la moglie ed era rimasto con due bimbette ancora in tenera età. Nel luglio o nell'agosto, forse dopo essersi in fretta riammogliato con Ludovica del nobile Pietro da Montagnana, cittadino pado- vano che ritengo abitasse nella contrada di S. Lucia, lasciò Padova con la famiglia, forse per riparare a Mantova, portando con sé il ricordo dello Studio patavino, delle battaglie che v'aveva combattuto, degli alunni che a lungo gli attestarono la loro devozione, primi fra tutti Lazzaro Bonamico da Bas- sano, Gaspare e Marcantonio Contarini, e dei colleghi, e in particolare di quello che era stato suo maestro e poi caro amico, Pietro Trapolin. Invece Marcantonio Zimara da S. Pietro in Galatina già alunno e poi fiero avversario del Pom- ponazzi, dopo aver girovagato in patria, a Salerno e a Napoli, vi fece ritorno per tre anni solo nel 1525. Non è esatto per altro che lo Studio venisse chiuso per otto anni, fino al 1517, poiché dagli Ada graduimi dell'Archivio della Curia Vescovile risulta che, per esempio, 1' 8 maggio 15 io fece il dottorato in artibiis Matteo Binno de' Tomasi figlio di Maesto Jacopo chirurgo veneziano, ed ebbe le insegne da Nicolò Genua (voi. 49, f. 4V) ; il 2 dicembre 1511 s'addottorò ugualmente in artibus Girolamo Oldoino, e fra i testimoni era Marcantonio Genua figlio del dottore Nicolò (f . 84V) ; il 13 ottobre 1512 ebbe le insegne di dottore pure in artibus il Magnifico e generoso Francesco del fu Chiarissimo Ga- briele Morosini, promotore lo stesso Nicolò Genua, e testi- moni i Magnifici Giambattista Spinelli partenopeo, dottore. 174 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI cavaliere, conte di Cariato e oratore massimo di Sua Maestà Cattolica, Pietro Duodo, podestà di Padova, Alvise Emo, Capitanio, nonché i Reverendi Leonardo Contarini, dottore in artibus, in teologia e in decreti, e Girolamo Giustinian, canonico patavino (f. I2ir). Ed altri dottorati ebbero luogo,, come può vedersi negli stessi Ada della Curia Vescovile e in quelli più volte ricordati dell'Archivio antico dell' Uni- versità, per quanto lacunosi. Certo è, per altro, che la at- tività dello Studio, sia per il minor numero degli alunni, sia per scarsità di buoni maestri, fu assai ridotta fino alla ripresa del 1518. Nel quale anno, al io giugno (voi. 52, senza numero dei fogh), troviamo il dottorato in artibus di Spero- nello figlio dello Spettabile ed esimio dottore Bernardino Speroni, nobile padovano, presenti come testimoni i Ma- gnifici Paolo Donato, podestà, e Marcantonio Loredan, de- gnissimo capitanio, non che i tre nobili veneziani Almorò Donato, Pietro Venier, Giacomo Loredan. Dopo la deportazione a Venezia dei fratelli Alberto e Ro- berto Trapolin, del loro nipote Giulio, lìglio di Pietro, e degli altri che s'erano compromessi nei fatti di Padova, « più di 100 per sospetto, oltra li ritenuti» (M. Sanudo, IX, 73), fu fatto il processo a carico di Alberto Trapolin « fratello di misier Piero dotor excellentissimo, el qual Alberto era di XVI al governo di Padoa, homo di gran inzegno, et anche suo avo fo apicato a Padoa a tempo di la novità di misier Marsilio di Carrara dil 1437 », di Lodovico Conte, « fato cavalier per r imperator presente novitev », di Bertuzi Bagaroto, « dotor, qual lezeva publice in iure canonico a Padova et havia 300 ducati a l'anno di la Signoria, era richo e famoso », e di Gia- como da Lion « dotor, el qual fé' la oration a l' imperator (cioè poco dopo il 6 giugno; l'orazione è riportata da M. Sa- nudo, Vili, 468-469) quando se deteno padoani, ne la qual dice gran mal de' venitiani ». Il Consiglio dei X con la Zonta fu implacabile con questi quattro padovani, che vennero im- piccati il sabato, 1° dicembre 1509. M. Sanudo, IX, 358-359, che ci dà alcuni particolari della loro impiccagione, e' informa anche che i loro beni furono confiscati, e aggiunge: « Restane a spazar li altri padoani »! Della fine d'Alberto Trapolin e dei suoi compagni parla anche il vicentino Luigi da Porto, che assistè al supplizio {Lettere storiche.... dall'anno i^og al 1528.... per cura di B. APPUNTI INTORNO A PIETRO TRAPOLIN 1 75 Bressan. Firenze, Le Monnier, 1857, lettera ad Antonio Sa- vorgnan, del 18 dicembre 1509, pp. 147-153). Del Trapolin dice « che era profondissimo filosofo e teneva alquanto del- l'epicureo », sì che « pareva che non accettasse con tanta ri- verenza, né con tanto desìo le cose sante dette da' religiosi con quanto gli altri facevano; ma taciturno, ovvero dicendo alcuna fiera parola contro i Viniziani, aspettava l'ora del fine suo». E dinanzi alle forche, «voltato messer Bertucci al Trapelino disse: ' Ecco il legno della nostra croce '. ' Ecco — rispose egli — il luogo dove la nostra innocente vita da una ingiusta morte sarà terminata ' ». Pare invece che Roberto e Nicolò, altri fratelli di Pietro, e il figlio di questo, Giulio, se la cavassero a buon mercato. Poiché di Nicolò ci vien narrato (Papadopoli, Hist. gymnasii patav. t. II, 210, n. 85) che andò in Germania al seguito dell' Imperatore Massimiliano, da cui ebbe onori, e quindi si mise al servizio di Carlo V, prese parte all'espu- gnazione di Tunisi, della quale scrisse la storia; infine si ricon- ciliò, già vecchio, con Venezia, e potè ritornare a Padova, ove morì a 94 anni nel 1559. Di Roberto Trapolin consta (Padova, Arch. di Stato, Estimo 1518, voi. 288 (289), Polizze della Città, Polizza 49, presentata il 29 sett. 1518) che nel 15 18 si trovava ad « bavere 5 fioli, 4 menori, de li quali.... tre fiole da maridare ». e che egli era « confinato in Venetia, dove sto — egli diceva — cum spesa, né posso veder li fatti miei et convegno pagar uno fator et ogni cosa me va in ruina ». Il 31 luglio 1543 egli era già morto poiché, Trapolin de' Tra- polin suo figlio presenta a nome degli eredi, a questa data, la prescritta dichiarazione all'ufficio dell'estimo. Di Giulio con- sta che nell'ottobre 1515, insiem.e al fratello Alessandro, ebbe procura dalla madre. Maria del fu Francesco de' RoselH, nella causa che questa aveva intentato per l'eredità paterna. Gli stessi Giuho e Alessandro compaiono ancora insieme alla madre nel contratto di nozze, del 7 giugno 1518, della loro sorella Alba col nobile padovano Gaspare del fu Daniele Buzacarini, abitante nella contrada di S. Agnese (Padova, Arch. di Stato, Sez. notar., Not. Alessandro Bragadin, voi 1391, f. 48ir). Ma Giulio morì a 44 anni nel 1529, cioè l'anno stesso in cui sarebbe morto l'altro fratello, Antonio, secondo il Fac- ciolati, e fu sepolto a S. Francesco, insieme al padre, prima che la tomba di famiglia dei Trapolin divenisse proprietà dei 176 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI nobili De Lazzara, figli di Marina Trapolina, che non è detto in quali relazioni di parentela fosse col filosofo e i suoi eredi (lac. Salomonio, Urbis patav. Inscriptiones, Padova, 1701, p. 343, n. 102). Alessandro invece era ancora vivo nel 1548, quando, insieme a M. Antonio e Pietro, nipoti del filosofo, provvide a far trasportare nella chiesa dei Carmini le ossa del padre e della madre e di altri suoi maggiori, in una tomba che avesse da accogliere lui e tutti i suoi, come si legge nel- r iscrizione riportata dagli storici di Padova (PapadopoU, Hist. gymnasii patav., I, p. 293, n. 30); anzi, dalla già citata Polizza 49 dell' Estimo del 1518 risulta ancor vivo il 3 mag- gio 1569. E Francesco Trapolin, che sull'esempio paterno insegnò a Padova prima la logica, indi la filosofia naturale, e di poi la medicina ? I documenti padovani tacciono di lui, dopo il sac- cheggio della sua casa nel luglio 1509. Può darsi ci sia qualcosa di vero nella notizia raccolta anche dal Portenari, Della jelic. di Padova, p. 251, che egli andasse a legger medicina a Firenze. G. Cesare Scaligero, De subtilitate, CLII, dist. i, pretende di sapere che « Francesco Trapolin, precettore di Pietro Pom- ponazzi, che anche un'altra volta lo Scaligero chiama suo precettore, morì per aver mangiato un intingolo ove la do- mestica aveva messo della cicuta invece di prezzemolo. Se non che precettore del Pomponazzi non fu Francesco Trapolin, ma Pietro, il padre. Lo Scahgero, o meglio Giulio di Benedetto Bordone, addottorato in artihus a Padova il 22 giugno 1519, mostra, anche per questa confusione, di riferire dopo molti anni una voce raccolta per sentito dire. Certo è invece, per l'attestazione dell'Estimo citato (Polizza 51), che la « nobele Madonna Maria Trapolina » era, nel settembre 1518, « tu- trize et gubernatrice de i fioli del q. messer Francesco Tra- polin, q. m. piero.... )>. A questa data dunque Francesco era morto. E forse suo figlio, se non di Alessandro o di Giulio, potrebbe essere quel Pietro Trapolin che figura come nipote nell'epigrafe sepolcrale dei Carmeni e fa denuncia dei suoi beni all'ufficio dell' Estimo il 30 marzo 1569 (Polizza 52, f. 7). Costui è sicuramente l'autore delle 21 lettere originaH scritte fra il 7 aprile 1556 e il 2 marzo 1574, a Gian Francesco Mus- sato nel Ms. 619, 2, della Biblioteca del Seminario di Padova. A questo figliuolo Pietro Trapolin aveva trasmesso, col con- ferimento delle insegne dottorali in filosofia, e in medicina il APPUNTI INTORNO A PIETRO TRAPOLIN I77 meglio della sua arte, ed egli avrebbe dovuto custodirne l'ere- dità spirituale. Invece l'oblio colse il figlio anche prima del padre. Poiché se di quello resta appena il nome nelle carte sbiadite della Curia Vescovile e dell'Archivio antico dell' Uni- versità di Padova, di questo ci son pervenuti almeno i pochi frammenti menzionati in principio, insieme alla gloria d'es- sere stato ricordato dal suo grande discepolo ed amico Pietro Pomponazzi come suo precettore (Prologo al De incantatio- nihiis) : « Dicisque ulterius te quandam responsionem alias a Petro Therapolino patavo, nostro communi praeceptore, audivisse, quam ipse Alberto ascribebat.... ». Queste parole sono rivolte a Ludovico Panizza, cui il Pe- retto indirizzava la sua opera; sebbene dalle stampe non ap- paia, è attestato però dal codice Ambrosiano di essa. Ludo- vico Panizza, mantovano, era studente a Padova negli ultimi anni del Quattrocento e nei primi del Cinquecento; e nel voi. 47, più volte citato, di quella Curia Vescovile (f. 278V), c'è anche il verbale del dottorato « in artibus et Medicinis D. M.ri Ludovici panicia Mantuani, filij D. Dominici de panici] s », ov' è detto che dell'uno e dell'altro grado accademico « habuit insignia a D. M.ro Petro trapolino ». Fra i testimoni figura al primo posto Pietro Pomponazzi, « artium doctor, ordina- riam philosophiam legens ». Il Paniza è autore di tre opere a stampa: di una Qnestio de phlebotomiis fiendis (Venetiis, per Bernardinum Benalium, M. D. XXXII), dedicata al duca Federico Gonzaga, e di un Commentarium de venae sectione per sex egregios et praeclaros iudices diindicatum, cui si trova ag- giunto dello stesso autore il Lihellus de minoratione ex visce- ribtts.... ad Herndem Gonzagam Principem iustissimum et Cardinalem amplissinitmi (Venetiis, MDXLV). Quest'ultimo volume ha in principio un bel ritratto dell'autore e una ta- vola raffigurante i sei medici e filosofi in atto di giudicare e approvare la sua opera. Nella Qnestio de phlebotomiis , scritta contro un chiarissimo medico del quale non è indicato il nome, accade al Panizza di ricordare l'antico maestro che gli aveva conferite le insegne dottorali. Accennando ad Avicenna che fu il migliore seguace d'Aristotele, dal quale discorda solo «in paucissimis admodum rebus», egli continua (f. e. 4r; Sectio II, cap. 7): Ideo Trapolinus, preceptor meiis, sue etatis philosophorum ac medicorum gloria, autoritate Girardi bolderii Veronensis, 12 lyS l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI hanc dicebat profitentibus arteni: ' Insequimini Avicennam, primo; insequimini Avicennam, secundo; insequimini Avicen- nam, tertio ! '. E un po' più giù (f. g. 2v cap. 24), a proposito d'un'argo- mentazione « subtilissima et tota.... metaphisicalis », osserva: Ex quo non mirum si medici ista non intellexere, artifices sensitivi grossique cum sint; stat enim in abstractis a materia.... Sed ex sententia perspicui speculatoris Petri trapolini, artifices huius artis res tales e suis expellere mentibus tenentur, cum me- dicina sit de immersis in materia et quandoque feculenta et turpi. Ma se il Paniza ricorda il Trapolin come insigne medico, M. Antonio Genua, figlio di Nicolò che del Trapolin era stato collega per molti anni, continuò a ricordarlo (sicuramente l'aveva conosciuto da ragazzo) anche come filosofo di tendenze moderatamente averroistiche, insieme al Pomponazzi, nel commento al De anima, stampato postumo (a Venezia nel 1576), ma composto almeno un ventennio prima. Altre notizie su questo maestro, amico e collega del Peretto Mantovano non sono riuscito a rintracciare, ed ho riunite quelle che ho trovato per chi, come dicevo e come mi auguro, vorrà intraprendere più ampie ricerche sullo Studio patavino nel Rinascimento. Intanto son lieto di potere annunziare che altre notizie e documenti sulla famiglia Trapolin, coinvolta nelle vicende di Padova al momento della guerra per la lega di Cambrai, il lettore potrà trovare nella A Criticai Edition of the « Lettere Storiche » 0/ Litigi da Porto, a cura di Cecil H. Clough, in corso di stampa presso 1' University Press di Oxford. vili I QU OLI BETA DE INTELLIGENTIIS DI ALESSANDRO ACHILLINI * I. - Se a Padova il decreto episcopale del 6 maggio 1489, vietava di disputare « quovis quaesito colore », sotto qualsiasi pretesto, della dottrina averroistica dell' intelletto, meno che per combatterla, e maestro Nicoletto da Chieti e il suo discepolo Agostino Nifo da Sessa si affrettavano a recitare la loro palinodia, e la penna a impugnare l'averroismo brandiva anche lo scotista francescano Antonio Trombetta i, a Bologna, sotto la liberale signoria dei Bentivoglio, Alessandro Achillini potè liberamente discutere, al capitolo generale dei francescani tenuto in questa città, sotto il generalato di Francesco San- * Dal voi. Sigieri di Brab. nel pens. del Rinasc. Ital., cit., pp. 45-90. I II francescano frate Antonio Trombetta, ordinario di Metafìsica invia Scoti a Padova, aveva scritto, prima del Vernia, un Tvactatiis de humana- ruiìi animarmn plurificatioiie coìitra Averroistas, che sarà poi pubblicato a Venezia, per Bonetum Locatellum, nel 1498, col quale scendeva in lizza in difesa della proibizione del vescovo P. Barozzi. Il Wadding, Scriptoves Ordinis Minornni, Roma, 1906, p. 30, e' informa che taluni, anzi che col nome volgare di Trombeta o Trombetta, preferivano « cultu quodam latino » di chiamarlo con quello di Tubefa; e Antonio Tubefa è chiamato anche nell'epitaffio sepolcrale nella chiesa di S. Antonio a Padova, che il Wadding riporta. Sul finire delle Questione s de pliiritate etc, cominciate nel settembre 1492 e pubblicate nel 1499 (v. sopra, p. 108), il Vernia scriveva (f. 92) : « Si quis vero, per resolutionem ad immediata et per divisionem ad minima, argumentationes contra Averroym, in hoc quinto [commento] philosophice discipline depra- vatorem, videre desiderat, videat, opus contra ipsum reverendi sacre pagine magistri Antoni] Trombetta, philosophi integerrimi et theologi excellentissimi, provincie sancti Antoni] Patavini ministri meritissimi. Nam frustra visum est mihi tangere que ab eo mihi amicissimo sunt optime declarata ». E il Trombetta, che è il primo dei tre revisori del- l'opera del \ ernia, rende testimonianza, a sua volta, al sapere del col- lega e alla fede di lui, si da procacciargli l'approvazione del sospettoso Barozzi. l8o l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI sone, il primo giugno 1494, presenti forse il Nifo e Giovanni Pico della Mirandola, i suoi Quoliheta de intelligentiis ^, in difesa della sua interpretazione sigieriana della dottrina aver- roistica, portata alcuni anni più tardi a Padova dal suo « fìdus Achates », Tiberio Bacilieri, e da lui stesso, e a Padova pro- fessata da Geronimo Taiapietra e da Lorenzo Venier 3, quando ormai il Nifo, che n'era stato propugnatore fin dai primi anni del suo insegnamento padovano -, l'aveva apertamente ri- pudiata. In quest'opera l'Achillini è sigieriano da principio alla fine, sebbene egli, secondo un costume molto diffuso, non faccia mai il nome dell'averroista brabantino né d'alcun altro, tranne si tratti di Aristotele o d'Averroè o d'altra auto- rità pari a queste. E, cosa notevole, le opere di Sigieri cui egli attinge, sono quelle stesse dalle quali il Nifo prende le citazioni che ho riferito nel volume su Sigieri di Brahante nel pensiero del Rinascimento Italiano: il che si presterebbe a varie con- getture. Come sappiamo, le tesi difese da Sigieri nel suo trattato De intellectu, scritto in risposta al De imitate intellectiis di S. Tom- maso, erano queste: i) r intelletto possibile è, in sé stesso, l' infima delle so- stanze separate, ed è unico per tutta la specie umana 4; 2) l'anima intellettiva dell'uomo risulta dall'unione del- l' intelletto possibile, separato ed eterno, colla «cogitativa» che 2 Alexandri Achillini bononiensis de intelligentiis quolibeta in quibus quid commenta[for] et Aristoteles senserint et in quo a veritate deviaverint continetur. Anno domini Mcccclxxxxiiij Kalendis iuniis in capitulo generali minorum edita et impressa Bononie impensis Bene- dicti Hectoris [Faelli] Bononiensis, illustrissimo Ioanne secundo Ben- tivolo reipublice Bononiensis habenas felicitar moderante. La seconda edizione, fatta presso lo stesso editore Faelli, porta la data del 5 marzo 1506, ed è dedicata al conte Annibale Rangoni, che giovinetto aveva udito l'Achillini disputare intorno agli argomenti trattati nel libro ed aveva preso attiva parte alle dispute. Intorno al Rangoni, cfr. G. Ti- RABOSCHi, Biblioteca Modenese, t. IV, 1783, pp. 252-256. 3 Per il Taiapietra, vedi più oltre il saggio X. Per Lorenzo Venier, allievo del Bacilieri, è da vedere il volume di Nicolò Bonet, Metaphys., naturai. Philos., Praedicam., necnon Theol. natur. Recogn. ... per magnif. dom. Laurentium Venerium.... Venetiis, Eredi di Ottav. Scoto, 1505, con lettera del Bacilieri al Venier, e dedica di questo al doge Leonardo Loredan. Le note marginali del Venier risentono dell' insegnamento del suo maestro bolognese. 4 Nifo, De intellectu, I, tr. 3, e. 18; tr. 4, e. io; II, II, tr. 2, e. 11; De anime beatit., I, comm. 53; cfr. Sigieri ìiel pens., pp. 16, 18-19. I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » l8l è la più alta delle facoltà di cui sia dotata l'anima sensitiva dei singoli 5 ; 3) in questa unione coi singoli l' intelletto, uno in sé, acquista un'esistenza individuale e molteplice, pari al numero dei singoli ^ ; 4) mercé questa unione, l'anima intellettiva può dirsi forma sostanziale «inerente» all'uomo, e non soltanto forma «assistente»; sì che da essa l'uomo trae il suo essere specifico di animale ragionevole 7 ; 5) r intelletto possibile è pura potenza priva di ogni atto sostanziale; soltanto grazie all'azione dell'intelletto agente la sua potenza è gradualmente attuata 8; 6) r intelletto agente è Dio ; ma esso può dirsi parte della anima umana in quanto concorre all'atto dell' intendere umano e alla fine dello sviluppo intellettuale dell'uomo s'unisce all'intelletto possibile come forma 9; 7) r intelletto umano può arrivare a conoscere le sostanze separate e Dio per unione intenzionale colla loro essenza '". Nel « libello » De felicitate, poi, l'averroista del Brabante aggiungeva quest'altre tesi: 8) nell'atto intellettuale col quale l' intelletto possibile intende nella sua essenza V intelletto agente, cioè Dio, con- siste formalmente la suprema felicità dell'uomo in questa vita" ; 9) al pari dell' intelletto umano, anche le altre intelli- genze separate conseguono la loro beatitudine nell'atto col quale intendono l'essenza divina i- ; 5 NiFO, De iutell., I, tr. 3, e. 18; De anima, comm. ad III, t. e. 5;. cfr. Sigieri, pp. 15-ig. 6 NiFO, De intell., I, 3, e. 18 e 26; De a>iima, comm. ad III, t. e. 5: cfr. Sigieri, pp. 15-20. 7 NiFO, De ititeli., l, tr. 2, e. 8; tr. 3, e. 18 e 26; De anima, comm. ad III, t. e. 5; cfr. Sigieri, pp. 15-20. 8 NiFO, De intell., I, tr. 3, e. 18; tr. 4, e. io; De anima, collect. ad III, t. e. 14; cfr. Sigieri, De anima intell., IX (Mandonnet, Sig. de Brabant et l'averr. latin, llème partie, Louvain, 1908, p. 171), e la quarta delle sei Qitaestiones naturales edite dallo Stegmùller, in Rech. de tìiéol. anc. et méd., III, 1931, pp. 179-180. Cfr. Sigieri, pp. 17, 21, 28. Vedasi anche Giorn. Crit., XX, 1939, pp. 467-471. 9 NiFO, De intell., I, tr. 4, e. io; II, tr. 2, e. 17; cfr. Sigieri, pp. 24-26. 10 NiFO, De intell., II, tr. 2, e. 11; De anime beatit., I, comm. 53; V. Sigieri, p. 21. " NiFO, De intell., II, tr. 2, e. 2; De anime beat., II, comm. 21; V. Sigieri, pp. 24-27. 12 NiFO, De intell., II, tr. 2, e. 2 e 17; De anime beatit., II, comm. 21; De anima, collect. ad III, t. e. 14; v. Sigieri, pp. 25-27. 102 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI io) sì per r intelletto umano, sì per le altre intelligenze separate, «intellectio qua Deus intelligitur est ipse Deus» '3. Ora tutte queste tesi son difese dall' Achillini nei suoi Qtioli- heta de intelligentiis; anzi la massima parte di quest'opera del maestro bolognese è dedicata alla trattazione di questi dieci punti svolti negli scritti di Sigieri, dei quali il Nifo ci ha ri- velato l'esistenza; il che m' ha recato, quando ho potuto ren- dermene conto, non poca sorpresa. La trattazione dell'Achillini verte intorno a questo problema fondamentale : « Utrum latitudo intellectuum sit uniformiter difformis ». Per intendere l'esatto signiiìcato di questo pro- blema, giova ricordare alcune cose. È noto che Anassagora, a spiegare l'origine del movimento fisico che separa i semi delle cose dal \ny\La. nel quale eran tutti confusi, e per dar ragione dell'ordine che s'osserva nella natura, sentì il bisogno di porre una mente ordinatrice, «non mista perché dominasse ))i4. Ma parve a Platone e ad Aristotele che, pur avendo affer- mato un così operoso principio, Anassagora non ne traesse tutto il vantaggio che poteva e non gli attribuisse quella causalità che gli sarebbe spettata nell'ordinamento delle cose. Perciò, il primo ad ogni specie di cose nel mondo sensibile fece corrispondere una propria idea nel mondo del pensiero; ed il secondo pose tante menti separate quanti, a suo modo di vedere, sono i movimenti celesti. Anzi che un solo intelletto, abbiamo così per Aristotele una gerarchia d' intelhgenze, com- prese fra due termini estremi: l'intelletto umano in basso, e la mente del primo Motore immobile, puro pensiero, al vertice. Come le idee dei generi e delle specie hanno una maggiore o minore estensione, così questi intelletti hanno una maggiore o minore capacità d' intendere, in rapporto alla funzione che ad essi è riservata come motori; poiché non va mai dimenti- cato che solo per mezzo del movimento Aristotele, al pari di Anassagora, era giunto ad affermare l'esistenza d'una prima Mente motrice dell'universo e di altre menti intermedie fra quella e il mondo della generazione, aventi l'ufficio di adattare r impulso che viene dal primo Motore, a particolari fini su- bordinati al fine supremo. Perciò la prima Mente è intelli- genza al massimo grado, mentre gli altri intelletti, giù giù ^3 Luoghi cit. nella nota preced. 14 ARisT., De anima, III, e. 4, 429^ 19. I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 183 di cielo in cielo, fino all' intelletto umano, possiedono una capacità d' intendere sempre più limitata. Rappresentandosi r intelligenza a guisa d'una qualità, per esempio, d'un colore, di cui s' hanno molti gradi d' intensità, da quello piìi cupo a quello più chiaro, gli scolastici dal secolo XIV al XVI solevano chiamare latitudo l'estensione compresa fra la cosa che pos- siede quella data qualità nel minimo grado, e la cosa che la possiede nel grado più alto e più intenso: perciò la latitudo dell'intelligenza non è altro, come dice l'Achilliniis, se non la gerarchia stessa degl' intelletti, avente il grado più basso o più dimesso nell' intelletto umano, e il grado più alto o più intenso neir intelletto divino. Chiedersi se la latitudo degl' intelletti sia « uniformiter difformis », significa per lui domandarsi se le varie intelligenze differiscon fra loro per gradi uguali op- pure no 16. Ma per risolvere siffatto problema, è necessario vedere qual' è la natura propria dei singoli intelletti compresi nella 15 « Latitudo intellectuum est ipsi intellectus ordinati secundum quod ex se sunt ordinabiles ». De intelligentiis, quol. I, in Alex. Achil- LiNi, Bononiensis, philophi celeberrimi. Opera omnia in iDium collecta.... cum annotationibus excell. doctoris Pamphili Montij, Bononiensis, scholae Patavinae publici professoris. Venetijs, apud Hieronymum Scotum, MDXLV, fol. i, col. i. A questa edizione mi riferisco anche nelle citazioni successive, per ragioni di comodità. 16 In un trattatello De latitudinibus formarum, più volta stampato dal i486 in poi sotto il nome di Nicolò d'Oresme, si leggono in principio queste definizioni che giova tener presenti : « Latitudo uniformis est illa que est eiusdem gradus per totum ». « Latitudo difformis est que non est eiusdem gradus per totum ». Questa si divide come segue: « Latitudo secundum se totam difformis est cuius nulla pars est uni- formis »; « latitudo non secundum se totam difformis est illa cuius aliqua pars est uniformis». La «latitudo uniformiter difformis» è una sotto- specie della « latitudo secundum se totam difformis », ed è precisamente quella « cuius est equalis excessus graduum Inter se equaliter distan- tium » {Tractatus de latidinibus formarum secundum Reverendum dodo- rem magistrum Nicholaum Horen, Venezia, 1505, [fol. 27]). Sul- l'autore di questo piccolo trattato, l'eremitano Iacopo di San Martino, detto anche Iacopo da Napoli, il quale riassunse e schematizzò, non del tutto fedelmente, un più ampio trattato di Nicolò d'Oresme, come sul sommento di Biagio Pelicani da Parma che insegnò anche a Padova e a Bologna, e in generale sul tentativo di costituire verso la metà del sec. XIV un metodo matematico per il calcolo dell' intensità delle qua- lità non solo corporee ma anche spirituah, completa luce ha fatto la Dott. Anneliese Maier, nella sua opera An der Grenze von Scholastik iind Naturwissenschaft. Roma, Ediz. di Storia e Letter., 1952. pp. 257-384, che è uno dei più seri e documentati contributi allo studio della filosofia della natura nel secolo XIV, condotto con rara conoscenza delle fonti manoscritte, e perfetta intelligenza dei problemi trattati. 184 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI latitudo di quella perfezione o qualità che dicesi intelligenza: e segnatamente se il primo e più alto intelletto sia intelligenza infinita. Nel qual caso, è evidente che la latitudo dell' intelli- genza sarebbe infinita. Occorre pertanto chiedersi in primo luogo se il primo Mo- tore, cioè Dio, muova l'universo con vigore o virtù intensiva- mente infinita, e sia perciò di vigore intensivamente infinito. Per intendere il significato del qual problema, è necessario ricordare che l'argomento principale, col quale Aristotele era salito a Dio, è quello del moto, come abbiamo già osservato: Dio è essenzialmente il primo Motore immobile dell' universo, è l'universo è il mosso. Ora l'universo, per Aristotele come pei Pitagorici, è una sfera di raggio finito, avente per centro assoluto la terra e per limite esterno il cielo delle stelle fisse. Finito nella mole, il mondo si muove con moto finito in ve- locità, e infinito soltanto in durata, poiché l'universo è eterno. Dall' intensità del moto dell'universo non si può dunque ar- guire ad un' infinità intensiva della virtù o vigore con cui Dio- muove il mondo. Ed infatti Averroè dice espressamente in più luoghi 17, che v' è proporzione tra l' intensità di vigore nel movente e la velocità del mosso; sì che un'azione d'intensità infinita e d' infinito vigore non può esser ricevuta in un corpo di grandezza finita. Se il primo Motore movesse il cielo con virtù intensivamente infinita, questo dovrebbe muoversi con velocità infinita in un solo istante. S. Tommaso credette di potersi sottrarre alla conclusione cui era giunto Averroè, con- cedendo che tutto ciò è vero dei motori naturali che mettono nel muovere tutta la forza di cui sono capaci; ma non è vero dei motori che agiscono con intelletto e libera volontà, qual è Dio. Il primo Motore dell'universo, per l'Aquinate, appunto perché dotato d' intelligenza e di libero volere, comunica al mondo quel tanto di movimento che meglio si conviene, in rapporto al fine che si propone di raggiungere e alla capacità limitata del mosso; ma questo non implica che vi sia una proporzione necessaria tra la quantità di movimento ricevuta dal mondo e la virtù del primo Motore, l' infinità della quale può dimostrarsi per altra via i^. 17 AvERR., Phys., Vili, comm. 79; De caelo, II, comm. 38-39, 63, 71 ; Metaph., XII, 41; De substantia orbis, cap. 3. 18 S. Tommaso, Phys., Vili, lez. 21, ad t. e. 79. I I « QUOLIBETA DE INTELLIGEN TIIS » 185 La proposizione 29^ delle 219 condannate a Parigi nel 1277, suona così: Quod Deus est infinitae virtutis in duratione, non in actione, quia talis infinitas non est nisi in corpore finito, si esset. E di nuovo la proposizione 62^: Quod Deus est infinitae virtutis, non quia facit aliquid de nihilo, sed quia continuat motum infinitum '9. La condanna di queste due proposizioni è sicura prova che, anche su questo punto, gli averroisti parigini accettavano r interpretazione che Averroè aveva dato del pensiero d'Ari- stotele. Era di questo avviso anche Sigieri ? « De ista quae- stione », — e' informa Giovanni di Jandun -o — « credunt magni viri in philosophia, Philosophum et maxime Commen- tatorem veritati catholicae adversari ». Che egli alluda a S. Tommaso non è possibile, poiché l'Aquinate scagionava Ari- stotele da quest'accusa d'opporsi alla verità della fede su quest'argomento. Doveva dunque trattarsi d'averroisti. Ora « vir magnus in philosophia » è titolo che troviamo dato a Sigieri. Parrebbe dunque che Sigieri accettasse l' interpreta- zione averroistica della dottrina aristotelica in proposito. Il che è confermato anche dall'ultima citazione che del bra- bantino abbiamo trovato nel De primi Moforis infinitate del Nifo. A quanto ci fa sapere il suessano, Sigieri e Giovanni di Baconthorpe « petunt.... primum Motorem esse universi mobilis celestis formam perficientem et non constitutam » e che esso è « prima illius perfectio », sì da potere affermare che, almeno per accidens, si muove insieme al cielo -i. Siccome la quistione concerneva direttamente l'onnipotenza di Dio e la sua trascendenza, s'era accesa in proposito un'ap- passionata e interminabile controversia che si protrasse fin oltre il secolo XVI, poiché troppo premeva ai teologi aver dalla loro parte Aristotele. Soltanto quando si comprese che la filosofìa aristotelica non era tutta la filosofia, l'ardore della controversia cominciò a venir meno --. 19 Denifle e Chatelain, Chart. univ. Paris., I, 544 sg. -0 Quaestiones super Averrois sermonem de substantia orbis, q. 12. -I V. Sigieri, p. 41. 22 Giovanni di Jandun, oltre che nelle Quaestiones sul De substantia or- bis, discute il problema « utrum primum Principium sit infiniti vigoris » lS6 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI L'Achillini, da quel buon averroista ch'egli è, ci dà del problema questa soluzione: « Primum, mens Philosophi fuit deum esse finiti vigoris. Secundum, ad oppositum est veritas ». Provata la prima parte della tesi, riferisce le obiezioni « centra Philosophum », alle quali fa seguire la risposta d'Aristotele. Ma nel far questo, che è un procedimento generale seguito in tutti e cinque i Quolibeta, l'Achillini si mette al riparo da ogni accusa d'eresia con questa tipica dichiarazione, fatta una volta per sempre : « Ad haec praemitto quod ubi Philosophum introducam respondentem, non teneo responsionem illam»^!. Dopo ben cinque fitte colonne di serrate schermaglie dialet- tiche e di citazioni di testi, sì da darci l' impressione che egli la pensi proprio come Aristotele e il suo « ottimo commen- tore », eccolo a dichiararci: Sed quia haec opiiiio in phiribus errat, ut patet consideranti ea in quibus introducitur Philosophus respondens, ideo, ea di- missa, pone secundum dictum principale : Deus est infiniti vigoris in essendo et operando in tempore et actione. Ex quo sequitur infinitam esse intellectuum latitudinem 24. E le prove di questa tesi ? Nessuna, tranne quel patet, che non è affatto una prova. Seguono invece quattro obiezioni anche nelle Quaestiones sulla Metafisica (XII, q. 15) e in quelle sulla Fisica (Vili, q. 22) : e tutte e tre le volte con molta ampiezza. Lo stesso problema è ventilato da Duns Scoto, Qiiodl., q. 7, da Giov. di Bacon- thorpe. In I Seni., dist. 44-45, da Gregorio da Rimini, In I Seni., dist. 42, q. 3, a. I, e più tardi, ma anche con maggior copia, dal Nifo, dall' Achil- lini, da Tommaso de Vio, detto il Cardinal Gaetano, che nella sua Subti- lissima quaestio de Dei gloriosi infinitate intensiva, terminata a Pavia, il IO settembre 1499, credo abbia raggiunto il primato della prolissità (è stampata in appendice al commento tomistico della Fisica, Ve- nezia, 1573, pp. 316-335), si da superare lo stesso Elia del Medigo, detto altresì Helias Cretensis, il quale tratta di quest'argomento nella sua interminabile De primo Motore acutissima quaestio (in appendice alle Quaestiones di G. di Jandun sulla Fisica, Venezia, 1552, f. 133, col. 1-4) e nelle Annotationes in dictis Averrois super libros Physicorum- {ib., fol. 153, col. 4,-f. 155, col. 4). Vedasi anche M. A. Zimara, Theoremata, 61, e Fr. Piccolomini, De caelor. motoribus, 33-35. Giordano Bruno, nel primo dialogo De l'infinito, universo e mondi (in Dialoghi italiani, Sansoni, Firenze, 1958,, pp. 387-88), accenna all' « importantissimo ar- gomento, per il quale — dice Elpino — è stato ridutto Aristotele a negar la divina potenza infinita intensivamente ». La soluzione che del problema affaccia Filoteo, il quale dall' infinità di Dio ha dedotto r infinità dell'universo, consiste nel cambiarne i termini, si da mo- strarlo definitivamente superato. 23 AcHiLLiNi, De intell., ql. I, f. i, col. 2. 24 Ih., f. 2, col. 2-3. I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 187 contro quest'asserto, alle quali il filosofo bolognese fa del suo meglio per rispondere in una mezza colonna, osservando, alla fine, che « rationes philosophorum super dictis ab eis fundantur; ideo non difficile est eas solvere» =5. Ma intanto non le risolve. A questa che è la quaestio principale del primo Quolibetum. tengon dietro tre duhia, coi quali si tende a precisar meglio il concetto aristotelico-averroistico di Dio e a porre in evidenza taluni postulati della soluzione data al problema principale. Il primo di questi dubbi consiste nel chiedersi « utrum tantum deum deus intelhgat », cioè se Dio conosca soltanto sé stesso oppure anche le cose inferiori ad esso e segnatamente quelle del mondo sublunare. Anche su questo punto l'Achillini è averroista: Respondeo per duo dieta. Primuni: opinio Aristotelis est, quod sic. Secundum: illa opinio non est vera -6. La prima affermazione è provata con ben sei gruppi di argo- menti, che in tutto assommano a venticinque. La conclusione dei quali è la seguente: Ex his de mente Philosophi habentur quinque; Primum, deus intelligit se et non aliud. Et si dixeris: verum est recipiendo, sed aliter non -7; dicam quod non potest aliquid intelligere aliud a se, nisi recipiendo; ideo non potens recipere, non potest intel- ligere aliud. Productio autem vilium non infert passionem in agente; ideo quamvis deus non intelligat vilia, producere tamen potest. Secundum, aliae intelligentiae in actu intelligunt se et perfectius se et nihil vilius eis. Tertium, intellectus possibilis ^5 Ib., f. 2, col. 3. 26 Fol. 2, col. 3. 27 Così appunto dicevano i teologi: Dio non intende le altre cose di- verse da sé, nel senso che la mente divina sia attuata da un qualche altro intelligibile diverso dalla sua stessa essenza, e dinanzi al quale esso sia in potenza; Dio conosce le altre cose conoscendo se stesso, e quindi senza niente ricevere. La condanna che il vescovo di Parigi, Stefano Tempier, fece nel 1270 di tredici proposizioni averroistiche, e che è il primo sicuro documento dell' esistenza d'una corrente averroi- stica a Parigi, colpisce queste due proposizioni: «Quod Deus non co- gnoscit singularia « e « Quod Deus non cognoscit alia a se >>. Cfr. De- NiFLE e Chatelain, I, pp. 486-487. Tuttavia, leggendo attentamente il commento d'Averroè, Metaph., XII, comm. 51, e la Desfriictio de- structionum, disp. VI, dub. 3-4, nasce il sospetto che il suo pensiero non sia stato ben compreso. Si veda in proposito, Giov. di Baconthorpe, In I Sent., dist. 35 e 39; M. A. Zimara, Theoremata, 83. l88 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI intelligit se viliora et nobiliora. Quartuin, nullus intellectus, nisi forte possibilis, intelligit aliquid extra se. Quintum, deus est simpliciter primo notum; sed primum principium complexum, de quo quarto Metaphysicae, commento octavo, est notissimum nobis 28. Ai venticinque argomenti coi quali è provata la tesi averroi- stica, se ne contrappongono sedici ; ma, mentre i primi restano insoluti, ai secondi è data una soluzione dal punto di vista averroistico. Dopo di che l'Achillini s'affretta a concludere: Sed propter multa falsa, quae sequuntur ad hanc positionem, eam cum auctoritatibus eius dimittamus. Tenemus igitur quod Deus cognoscit omnia; ex quo sequitur quod non omnis intellectus intelligens aliud a se patitur ab eo. Sequitur secundo, quod non omnis intellectio, qua materialia intelliguntur, est collecta ab intellectu agente ex singularibus. Ex his duobus fundamentis solvuntur rationes philosophorum, quia super oppositis corol- lariorum fundantur 29. Il secondo diibium concerne la causalità efficiente del primo Motore. Aristotele 3° aveva detto che la prima Intelligenza muove le intelligenze preposte al movimento dei singoli cieli, come bene supremo da esse conosciuto e desiderato, ossia come fine ultimo cui tutte le cose tendono. Il problema che pone il maestro bolognese, « utrum prima Forma, quae est ultimus Finis, sit primus Motor », verte non sull' attrattiva che Dio esercita sugli esseri in quanto « amor che muove il sole e le altre stelle », bensì sul movimento rotatorio della prima sfera mobile. Secondo un' interpretazione del pensiero d'Aristotele e del suo commentatore di Cordova, Dio muove i cieli soltanto per mezzo d'un motore appropriato, cioè d'un' in- telligenza, la quale è mossa dal desiderio di assomigliare al primo Motore 31. Secondo un'altra interpretazione, invece, Dio muove il primo cielo mobile immediatamente v- ; e poiché il primo mobile rapisce col suo impeto tutti gli altri cieli, ne 28 ACHILLINI, fol. 3, col. 2. 29 Fol. 4, CI. 30 Metaph., XII, e. 7, 10720 2-4 (t. e. 37). 31 Giov. DI Jandun, Quaestiones sup. Metaph., XII, q. 17, Quaest. sup. Phys., Vili, q. 21. 32 Cfr. M. A. ZiMARA, Quaestio de triplici cansalitate intelligentiae (in appendice alle Quaestiones di G. di Jandun sulla Metafisica, Venezia, 1525, fol. 170, col. 2-4); Theoremata, 61. I « QUOLIBETA DE IXTELLIGENTIIS » 189 viene che il primo Motore esercita su tutto l'universo una vera e propria azione di causa efficiente e non soltanto di causa finale. Sigieri, a quanto sappiamo dall'ultima citazione del Nifo, ri- teneva che il primo Motore fosse addirittura forma e perfe- zione del cielo, a tal segno che si muove per accidens insieme ad esso ; nel che egli non faceva se non ripetere una dottrina d'Averroè, il quale in più luoghi insiste sul concetto che il primo Principio è tale in quanto è fine, forma e motore del- l'universo 33. L'Achillini risolve il dubbio, dimostrando con quattordici argomenti che Dio imprime al mondo un movimento effettivo come primo Motore di esso; né questa volta ha bisogno di distinguere tra l'opinione di Aristotele e la verità, poiché « Philosophus in hoc quaesito non recedit a veritate », quanto all'asserto della causalità efficiente ; ma osserva che si discosta dal vero in un particolare: « sed bene in circumstantia: quia dictum est de mente eius, quod Deus est motor immediate et appropriate movens caelum, et quod nulla alia intelligentia ab ipso movet primum caelum; sed hoc non est verum etc.))34. Ed infatti la tesi, che il moto del primo cielo derivi immedia- tamente da Dio, si basa sul concetto che Dio è forma del primo cielo. Ora questo concetto è schiettamente averroistico, ed è uno dei presupposti della teoria che dalla finita grandezza del moto celeste deduce, come abbiamo visto, il vigore finito del primo Motore. Questo necessario reciproco rapporto tra Dio e il mondo si scorge anche meglio nella discussione del terzo dubbio : « Utrum Deus libere moveat caelum ». Neil' interpretazione averroi- stica del pensiero d'Aristotele, se Dio è necessario a spiegare l'esistenza del moto, e, diciamo pure, l'esistenza del mondo stesso, è altrettanto vero che, posta l'esistenza del primo Mo- tore e della prima Causa efficiente, questa e quello agiscon come natura anzi che come libera volontà creatrice. « Sigieri non sembra aver concepito la possibilità d'una vera libertà creatrice, che a lui pare esclusa tanto dall' immutabilità divina quanto dalla necessità delle specie »3\ Posto Dio come 33 AvERR., Metaph., X, comm. 7; XII, comm. 5-6, 36, 38, 41, 44; De subst. orbis capp. 1-2. 34 AcHiLLiNi, fol. 4, col. 4. 35 F. Van Steenberghen, Les oetivres et la doctrine de Siger de Bra- bant, Bruxelles, 1938, p. 128; Sig. de Brab. d'après ses oeuvres inédites, igo L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI prima Causa motrice del mondo, questo ne risulta necessaria- mente, come la conseguenza dalle premesse d'un sillogismo. Aristotele aveva ben fermato la sua attenzione sugli eventi che si dicon contingenti e fortuiti; ma anzi che dedurre la contingenza di tutti gli esseri creati dall'essenziale libertà del pensiero divino, aveva imposto allo stesso pensiero divino e all'atto creatore la necessità del suo astratto formalismo logico, e la contingenza e il caso aveva limitato al mondo su- blunare, spiegando l'una e l'altro per mezzo del concetto delle '( cause impedibili » e dell' « indisposizione della materia » che spesso è sorda a rispondere all' intenzione dell'arte. Pur tra- scendente o « separato », il primo Motore resta così prima forma e prima perfezione dell'universo, al quale è intimamente unito non come forma « constituta per subiectum », bensì come forma « constituens subiectum » 36. Per dimostrare la tesi, che secondo Aristotele Dio muove il cielo per sua natura e non liberamente, sì da poter non muo- verlo o mutarne la velocità e la direzione, l'averroista bolo- gnase argomenta così: tutto ciò che si muove per un principio essenziale che è in esso, si muove per sua natura; ma questo è il caso del cielo; dunque esso è mosso naturalmente 37. Se il primo Motore potesse non muovere oppure muovere in modo diverso da quel che fa, il mondo potrebbe esser diverso da quello che è, e anche non essere. Ma tutte queste conseguenze sono impossibili per Aristotele, che dall' immutabilità del primo Motore deduce la necessità e l'eternità dell'universo, come d'un effetto connaturale e inseparabile dalla sua causa. Puro atto senza alcuna potenza, Dio causa dall'eternità il II voi., Louvain, 1942, p. 607. Tale è il pensiero di Siglari in tutti gli scritti intestati a lui dai codici. Per attribuirgli con qualche fondamento la tesi opposta, bisogna supporre che siano sue le Quaestiones sulla Fisica edite dal Delhaye (cfr. Giorn. Crii., XXIV, 1943, pp. 85-90). Ma per farlo manca ogni serio indizio esterno, e le prove interne sono troppo deboli. 36 Si veda il passo del Nifo riportato in Sigieri.... p. 41. Su questa distinzione ricavata da diversi luoghi di Averroè, cfr. dello stesso Nifo il commento al De anima, III, ad t. e. 5, già riferito in Sigieri, p. 15. Vedasi anche l'Appendice nello stesso volume, pp. 175-176. 37 AcHiLLiNi, Quol. I. dub. 3, fol. 5, e. i « Omne quod movetur per principium quod est in eo, movetur per naturam, octavo Physicorum, t. e. 27. Intelligo in subiecto maioris: per se primo, et non secundum accidens; et tunc patet propositum ex diffinitione naturae, secundo Phy- sicorum, t. e. 3. Sed caelum movetur per principium etc, ut vult Com- mentator Aristotelem declarasse in principio septimi Physicorum, etc. ». I '( QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » IQI mondo con ordine e moto necessario. Dal che « sequitur nullam esse in rebus libertatis contingentiam, ad quas non concurrit homo » ; poiché la ragione della contingenza dell'umano ar- bitrio consiste nel modo di conoscere, essenzialmente discor- sivo, che è proprio dell'uomo; di guisa che la mente umana, procedendo per composizione e divisione di concetti, « potest aftìrmativam vel negativam [partem] concludere, et conse- quenter ad utramque partem possibilis est assensus ». Or questo non accade né nelle altre intelligenze superiori all'umana, né, tanto meno, nella prima Intelligenza 38. Necessario a render ragione della realtà dell'universo, dei movimenti celesti e di ogni accadere, il primo Motore d'Ari- stotele non ha altra realtà, per l'averroista, all' infuori di questa, né altra ragione di essere che questa: senza il mondo da esso causato e mosso, il primo Motore non sarebbe nulla. Perciò Dio e mondo formano un binomio indissolubile, come amore e cuor gentile nella canzone guinizelliana, come il sole e il suo risplendere: ch'adesso che fo il sole sì tosto lo splendore fo lucente, né fo avanti il sole. Contro questa dottrina del Filosofo, qual'era intesa ed espo- sta dal Commentatore di Cordova, l'Achillini riferisce ben diciotto argomenti, avendo però cura di farci sapere che cosa gli averroisti rispondevano. Dopo di che conclude, secondo il suo costume : His praetermissis, ad veritatem revertamur, et dicamus Deiim ad extra mere libere et contingenter agere. Concedanius insuper quod in Deo esse et agere sunt idem, et tamen non, si necesse est Deum esse, necesse est Deum agere ad extra. Dicamus tertio quod, licet necessitas sit melior conditio essendi, non tamen est melior conditio operandi ad extra. Ncque immutabilitas divina toUit novitatem in effectu, quia ab aeterno determinavit Deus agere nunc. Ideo contra philosophos dicamus, quod ab antiqua vohmtate potest aliquid novi poni in esse, sine mutatione operan- tis, aut remotione impedimenti etc. Addo insuper, licet necesse sit Deum esse productivum ad extra, non tamen necesse est ipsum producere ad extra. Concedo etiam nullam rem quae est Deus esse contingentem ; dimitto naturam assumptam, et tamen de 38 ib., fol. 5, col. 1-2. ig2 L ARISTOTELISMO PADOV'ANO DAL SECOLO XIV AL XVI Dee formabiles sunt propositiones per accidens et contingentes, propter connotationem extrinseci. Neque propter hoc quod Deus multa producibilia potest producere, quorum nullum producet, concedendum est potentiam divinam frustrari, quia reduci potest et in aliquo illius generis reducta est in actum 39. Con queste proteste di attaccamento all' insegnamento teologico, ha termine il primo qiiolibetum che tratta dell' in- telletto del primo Motore, la cui latitudo è dunque finita com' è finita la grandezza del mondo e del movimento. L'opposizione fra la tesi averroistica e quella teologica non è che un aspetto particolare fra la concezione aristotelica del mondo e l' intui- zione cristiana. Per Aristotele, come l'espone Averroè, Dio è principio teleologico e causa prima efficiente della natura; la natura alla sua volta è effetto necessario ed eterno dell'at- tualità divina. Dio è principio in quanto dà origine a un prin- cipiato; esso è l'atto che precede logicamente ogni potenza. L'ordine cosmico riflette la necessità e l' immutabilità della sua prima causa. Dio insomma è complemento necessario della natura ed è esso stesso natura: è la stessa natura intellettua- lizzata, cioè considerata platonicamente sub specie aeternitatis. Neil' intuizione cristiana del mondo, invece. Dio è spirito, cioè libera volontà creatrice, infinita potenza, infinita sapienza, infinito amore. Il mondo e' è, ma potrebbe non esserci, o esser diverso; e c'è, per un atto di liberalità divina. La necessità delle leggi di natura non è assoluta, ma relativa al decreto della volontà divina che liberamente le ha stabilite e può mutarne il corso. Così la contingenza è alla radice stessa del- l'ordine cosmico; il miracolo è affermazione e prova della con- tingenza della natura e delle leggi fisiche. Con siffatta dottrina il cristianesimo liberava l'uomo dalla tirannia del fato cui dovea piegarsi la volontà dello stesso Giove. Al posto degli inesorabili decreti dell' Ananche si sostituiva la libera e onni- potente volontà di Dio, che ha dato all'uomo il potere di coo- perare ai suoi eterni disegni. Libero e artefice del proprio de- stino, l'uomo si sente così simile a Dio. Dopo quello che Agostino e lo Pseudo Dionigi e Pier Da- miani e il Cardinal Cusano avevano speculato intorno alla natura divina, mentre nel rinnovato platonismo cristiano del Rinascimento covavano i germi che sarebbero esplosi nei 39 Iv., fol. 5, col. 4-f.6, col. i. I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS )) I93 dialoghi De la causa e De V infinito, la dottrina averroistica su Dio, anzi che un progresso, dove sembrare la ricaduta in una delle più anguste forme di naturalismo già da molto tempo sorpassate. Ad un superamento definitivo occorreva, per altro, eliminare quella ristretta visione cosmologica alla quale il concetto di Dio era legato, e che è merito delle nuove scoperte astronomiche aver per sempre dissipato. 2. - Il secondo qiiolihetum tratta delle intelligenze separate, intermedie fra 1' Intelligenza divina e l' intelletto possibile, proprio della specie umana. Queste intelhgenze son sostanze separate preposte ciascuna al moto d'uno dei cieli inferiori alla prima sfera, che è mossa immediatamente dal primo Motore. L'Achillini comincia coll'affermare che, secondo la dottrina d'Aristotele, siffatte intelligenze non sono state prodotte, e per conseguenza sono eterne; ma che, secondo la verità della fede, è tutto il contrario. La prima parte della tesi è dimostrata con quattordici argomenti; con altrettanti la seconda; colla differenza, che gli argomenti in favore della prima parte non hanno risposta, mentre degli argomenti in contrario abbiamo la soluzione. Per quel che concerne la dottrina d'Aristotele, il lettore poco esercitato potrebbe rilevare una divergenza tra l'averroista bolognese e Sigieri su questo punto: che, mentre quello dice le intelligenze celesti non prodotte, questo al contrario le dice tutte causate immediatamente o mediatamente da Dio che dà l'essere a tutte le cose 40. In realtà, la divergenza è soltanto nel modo d'esprimersi e non nel pensiero. Perché le intelligenze celesti non si posson dire prodotte ? Perché non sono state tratte dalla potenza all'atto, quasi che ci fosse una loro potenza ad essere, la quale precedesse, anche soltanto logicamente, il loro atto di essere. Esse sono natural- 40 Sigieri di Brab., Impossibilia, I (ed. Mandonnet, Sig. de Brab. et l'averr. latin au XlIIème siede, Ilème Partie, Louvain, 1908, pp. 76-77) ; De necess. et conting. caus. (Mandonnet, pp. 111-112); Aletaph., II, 8 (ediz. a cura di Cornelio A. Graiff, Sig. de Brab. Questions sur la Me- taphysiqiie. Texte inédit. Louvain, Édit. de 1' Institut Super, de Phi- losophie, 1948, pp. 46-51), III, 7-8 {ib., pp. 93-103). Cfr. Van Steen- BERGHEN, S. d. B. d'après ses oeuvres inédites, voi. II, p. 606. 13 194 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI mente e necessariamente, per il fatto stesso che esiste la prima Causa che le fa essere, a quel modo che l'esserci il sole fa sì che ci sia lo splendore. Esse son certamente causate dalla prima Intelligenza, ma non prodotte alla maniera delle cose che possono essere e non essere. L'atto non s'aggiunge in esse alla potenza, né l'essere sopravviene all'essenza: sono puri atti per loro natura, ed atti eterni, come eterno e necessario è l'Atto primo che le causa 41. Strettamente connesso con questo problema è il primo dei tre duhia: «. Utrum ponenda sit creatio ». Anche a questo quesi- to il giovane maestro bolognese risponde, essere opinione d'Ari- stotele che non si dà creazione; ma soggiunge che la tesi dello stagirita non è vera. Secondo la dottrina aristotelica, la causa agente ha sempre bisogno d'una materia su cui esercitare la sua azione, e dalla cui potenza trae quello che essa produce. Ora la creazione implica una produzione dal nulla, senza pas- saggio dalla potenza all'atto 4^. Allo stesso modo Sigieri, par- lando dell'anima intellettiva (e il discorso vale per tutte le intelligenze e altresì per i corpi celesti), afferma che, sebbene essa possa dirsi fatta, nel senso che è causata e dipende, al pari delle intelligenze celesti, dal primo principio d'ogni essere, tuttavia non può dirsi che è stata fatta dal niente, ma anzi che essa « de se est semper ens, ab alio tamen », poiché « in eius ratione seu defìnitione est semper esse, cum careat ma- teria ». Se non che, pur essendo « de se, seu de sui ratione, semper ens », non ha questo suo essere « ex se effective, sed ab alio ». Per questa ragione, essa è certamente causata ed essenzialmente dipendente da Dio, « sed non est verum eam esse factam ex nihilo » 43. 41 AcHiLLiNi, Quol. II, f. 2, col. I : « Orane agens extrahit id quod est in potentia ad actum: sed in intelligentiis non est potentia extrahi- bilis ad actum (intelligo de potentia distante ab actu, et de actu infor- mativo eorum aut potentiali, ex quo et alio fiat una intelligentia) : ergo in eis non est agens. Ratio tota est Commentatoris, 12 Metaph., comm. 44. Ex hoc sequitur quod intelligentiae non componuntur ex esse et essentia, tamquam ex doubus principiis intrinsece componen- tibus intelligentiam ». 42 AcHiLLiNi, Quol II, dub. I, fol. 7, col. 4. 43 Sigieri, De anima iniellect., V (ed. Mandonnet, pp. 160-161). AcHiLLiNi, ib., fol. 8, col. 2: « Potentiale non potest esse sine actu. Est autem deus actus vitalis intelligentiarum et finis, et caeli est forma et finis, corruptibilibus autem dat esse et conservat movendo. Primo enim Metheororum : Est autem ex necessitate continuus iste superioribus I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS )) £95 Ancor più evidente è l' influenza della dottrina di Sigieri sulla soluzione del secondo dubbio che l' Achillini si pone : « Utrum intelligentiae inferiores intelHgant superiorem ». L'averroista italiano formula in proposito tre tesi, il significato delle quali ci è chiarito da un luogo dei CoUectanea del Nilo sul De anima 'i'^, riferito da me altra volta. Colla prima tesi egli si op- pone alla teoria di coloro che, al dire del Nifo, il quale sicura- mente riassume da Sigieri citato un po' più oltre, sostenevano che « Deus multiplicat lumen quod est quoddam accidens spirituale existens in mentibus intelligentiarum, per quod elevantur intellectus illi ad intelligere primum » ; la qual teoria il Nifo nel commento al De anime beatitudine attri- buisce a S. Tommaso e la combatte appoggiandosi a Sigieri 45. La prima tesi dell'Achillini, dunque, suona come segue: Primum: intelligentia inferior non intelligit superiorem per aUquod accidens, ut species, actus, vel habitus etc. Probatur primo, quia in intelligentiis non est aliquod accidens. Patet quo- libeto 3. — Secando, omne compositum est novum; sed in in- teUigentiis non est novitas; ergo neque compositio. Maior est Commentatoris, 12 Metapliysicae, comm. 39, sive sit compositura substantiale, sive accidentale, sive in intelHgentiis, sive non; ea enim probat ibi Commentator, quod intellectio non est accidens in deo; coehim autem, quia subiectum est accidenti, novitatem habet, sciUcet motum, 8 Pliysicoriim, comm. 15. — Tertio, si sic, cum secunda intelHgentia intelHgat se per essentiam, 3 De anima, comm. 13, perfectior esset intellectio secundae de se, quam in- tellectio secundae de prima, et sic secunda intelligentia esset felix cognoscendo se, et non primam; vel intelligentia duas intel- lectiones habens felicitaretur intellectione imperfectiori. — Quarto, lationibus, ut omnis eius virtus gubernetur inde. Ideo, primo remoto, omnia destruuntur; ideo duodecimo Metaphysicae, textu et commento 38; Ex tali igitur principio caelum et natura dependet. Et primo Caeli, commento 100: A primo quidem ente datum est esse et vivere; bis quidem clarius, bis vero obscurius. Et in libro De substantia orbis,, versus finem: Ex quo verificatur, quod dator continuationis motus est dator esse omnibus aliis entibus ». Così anche nelle Qiiestiones sulla Metaphysica, ed. CTraiff, luoghi citati. Invece l'autore delle Quaestiones super libros Physicorum , edite dal Delhaye come opera di Sigieri. sostiene senza alcuna esitazione la tesi « quod necessarium est aliquid fieri ex nihilo » (I, q. 24, pp. 53-54), sebbene ritenga che alcuni esseri non sian prodotti da Dio immediatamente. È un altro punto sul quale il dissenso dagli scritti di sicura appartenenza a Sigieri è troppo evidente. Per attribuire queste Quaestiones al maestro brabantino occorrerebbe una qualche testimonianza sicura che non s' ha, fino ad oggi, 44 III. ad t. e. 14; cfr. Sigieri.... nel pens., pp. 27-28, 45 V. Sigieri, pp. 26-27. 196 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI si sic, tunc scientia earuin non esset scitum; consequens est centra determinata quolibeto primo, et tertio De anima, comm. 14: « Intellectus in formis abstractis est idem cum intellecto » ; et incidentaliter 8 Physicorum, comm. 40 : « In abstractis intellectus et intellectum [idem] sunt. — Quinto, quia tunc intellectio, qua secunda intelligentia intelligeret primam, et intellectio qua se- cunda intelligentia intelligeret se, essent alterius generis, quia una esset substantia et alia accidens 46. Risulta da questa prima affermazione, che l'atto col quale le intelligenze inferiori conoscono la prima Intelligenza, cioè Dio, è un atto sostanziale al pari di quello col quale conoscon se stesse. Anche in questo l'Achillini è d'accordo con Sigieri, per il quale l' intendere è perfezione essenziale dell' intelletto possibile, sì che « ponere.... substantiam esse in actu in genere intellectualis naturae et non intelligentem in actu, est ponere contraria et impossibilia vel incompossibilia » 47. La seconda tesi dell' Achillini consiste nel negare che le intelligenze inferiori conoscano la prima Intelligenza come loro causa, in quanto avvertono che la loro natura ha essere da quella 48. Così appunto pensavano taluni filosofi, come rife- risce il Nifo: Dixerunt quod intelligentia interior intelligit superiorem per essentiam inferioris; essentia enim inferioris est causata ab in- tellectu superiori, et omne causatum ducit in cognitionem cause; ergo intellectus interior per essentiam sui intelligit superiorem. Oportet enim imaginari essentiam inferiorem esse obiectum ade- quatum sui intellectus; et sic tanquam obiectum adequatum intelligitur solum a semet. Et quoniam illa essentia est effectus 46 Achillini, Quol. II, dub. 2, fol. 8, col. 3. 47 Sigieri, Quaestiones naturales (ed. F. Stegmùller, Nenaitfgcf. Quaestionen des Sig. v. Br., in Rech. de Théol. ancienne et médiév., Ili, 1931 pp. 179-180); De anima intell., IX (ed. Mandonnet, p. 171). Cfr. Giorn. Crii. d. FU. Ital., XX, 1939, pp. 467-471. Un'attività acci- dentale dell' intelletto è invece l' intendere per l'anonimo autore delle Questiones in libros Arist. de anima, II, q. 8 (ed. Van Steenberghen, Sig. d. Br. d'après ses oeurres inédites, I voi., pp. 67-69), III, q. 8 (pp. 135-137); ma quanto più il chiaro editore s'affanna a dimostrare che l'autore di esse è Sigieri, tanto più evidente appare che non lo è. Si noti poi che nella terza delle Quaestiones naturales edite dallo Steg- mùller, il maestro brabantino insegna che l' intelletto possibile ha il suo atto primo ed essenziale per l'unione all' intelletto agente, e che questo e quello son due sostanze separate; la qual dottrina ha non poca importanza per quello che siamo per dire. 48 Achillini, fol. 8, col. 3. 1 I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » I97 superioris, etiam continet saltem instrumentaliter essentiam su- perioris; et sic intellectus ille per essentiam illius secundario intelligit superiorem. Il Nifo stesso riferisce quattro dei « molti argomenti » che Sigieri opponeva a siffatta teoria 49. Gli stessi argomenti quasi alla lettera oppone alla stessa teoria anche l'Achillini: Secundum dictum : intelligentia inferior non intelligit superio- rem per essentiam inferioris. — Probatur primo, quia tunc scientia non esset scitum. Patet consequentia, quia tunc secunda esset scientia ipsi secundae de prima etc. — Secundo, nulla res distincta a perfectiori est sufficienter repraesentativa perfectioris; sed secunda non est ita perfecta sicut prima; ergo etc. — Tertio, si sic, tunc non dependeret intelligentia inferior in suo intelligere a prima; et sic secunda esset actus purus, quia non esset poten- tialis respectu alicuius perfectivi eius formaliter. — Quarto, quia tunc intelligentia inferior beatiiìcaretur in seipsa tanquam in obiecto repraesentativo omnium intelligibilium ab ea, aut felici- taretur in obiecto secundarie cognito. — Quinto, quia tunc aliqua cognitio dei dependeret; quia omnis intelligentia inferior dependet; et omnis intelligentia inferior esset cognitio dei per te. — Sexto, quia tunc nulla esset compositio in intelligentiis, nisi forte ex perfectione et defectu eius; de qua non loquor nunc. — Septimo, quia non salvaretur efììcientia dei super motu proveniente ab inferioribus intelligentiis 5°. Anche per quel che concerne la terza tesi, l'Achillini ripete alla lettera quello che, secondo il Nifo, si leggeva « in quodam tractatu intelligentiarum et beatitudinis » di Sigieri: Tertium dictum: intelligentia inferior intelligit superiorem per essentiam superioris. — Probatur primo a sufficienti divi- sione. — Secundo, quia in abstractis intellectus et intellectum sunt idem. — Tertio, quia intelligentiae abstractae perficiuntur per se invicem; ergo una est alterius forma, et non nisi quia una est alterius scientia vel amor. Antecedens patet, 12 Metaph., commento 44 : « Perfectio uniuscuiusque moventium unumquemque orbium perficitur per primum motorem omnium »; sed non ef- fective, ncque materialiter, sed finali perfectione coincidente cum forma. — Quarto, necesse est in omni intelligentia intelli- gente aliud esse aliquid simile formae et aliquid simile materica; et si non, non esset multitudo in formis abstractis, tertio De anima, commento 5 ; quia, posita multitudine, una est potentialis alteri. Est autem secunda simile materiae, ideo recipiens, et prima si- 49 Nifo, De anima, Venezia, 1522, III, coUect. ad t. e. 14, f. 171, col. 3. 50 AcHiLLiNi, /. c; Nifo, /. e; cfr. Sigieri, pp. 27-28. 19^ l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI mile formae, ideo recepta. — Quinto, in intelligentiis est compo- sitio, et non est alia quani ex intelligente et intellecto, deside- rante et desiderato; ergo etc. Maior patet, 12 Metaph., com- mento 51: Quod est minoris compositionis est nobilius in ilio genere, donec deveniatur ad simplex. Patet minor, 12 Metaph., com- mento 44: «Tantum illic est causa et causatum», secundum quod intellectum est causa intelligentis. Sed intellectum non est causa efEectiva intelligentis, ncque materialis, ncque finalis tantum, sed formalis et finalis simul, vel formalis tantum. Ideo subdit Commentator, « non inconvenire unum esse causam plurium, secundum quod a pluribus intelligitur », perfectius tamen a per- fectioribus, et imperfectius ab imperfectioribus. Et hoc patet Commentatore, 3 De anima, commento 5 : « Essentia primae formae est quidditas eius; aliae autem formae diversantur in quidditate et essentia, quoquo modo ». Loquitur Commentator de essentia, ut fecerat 2 De anima, comm. 147: Pomum « est indivisibile subiecto, et divisibile secundum essentiam diversam in eo, secundum quod habet colorem, odorem et saporem », licet in multis sit differentia etc. Ex hoc patet intelligentiarum compo- sitio, quae cum aliis est, et earum simplicitas, quia non compo- sitio ex aliis; ideo, 3 De anima, comin. 9: « Res abstractae sunt simplices, et non compositae. Ex his habetur quod, cum supe- riores intelligentiae sint in inferioribus, adhuc potest intelligentia interior intelligere superiorem, non intelligendo tamen aliquid extra se. Patet etiam quod, cum intelligentia superior sit intel- lectio inferiori, quod potest superior principiare motum productum ab inferiori, eo modo quo intellectio est principium operationis ab intelligentia productae » i'. Giunto alla fine della discussione, l'Achillini si domanda se una tale teoria non contradica alla verità teologica; e ri- sponde di no, anzi dichiara di trovarla in tutto conforme a quello che la fede insegna in proposito 5% E veramente anche S. Tommaso è del parere che, nell'atto della visione beatifica, l'essenza divina non è soltanto oggetto conosciuto, « id quod intelligitur », ma altresì forma intelligibile per mezzo della quale la stessa essenza divina è conosciuta, « forma.... qua intelligitur» 53. Questa forma attua bensì l'intelletto umano reso capace per grazia, ma l'attua solo idealmente, « in in- telligendo », non sostanzialmente, poiché l' intelletto umano ha già un suo atto sostanziale anteriore all'unione beatifica coll'essenza divina 54. Non così per l'Achillini e per Sigieri* 51 AcHiLLiNi, /. e, col. 3-4; NiFO, /. c, 3-4; cfr. Sigieri, p. 28. 52 ACHILLINI, fol. 9, col. 3. 53 S. Tommaso, S. theol., Suppl., q. 92, a. i. ^'4 Ib. I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » IQQ Questi non fanno alcuna distinzione fra l'ordine naturale e lo stato soprannaturale concesso per grazia, fra la conoscenza che compete alle intelligenze separate per loro natura e la visione beatifica di cui parlano i teologi. Inoltre, l' intendere delle intelligenze create, tanto nell'ordine naturale quanto nell'ordine soprannaturale, è, per l'Aquinate, una operazione accidentale che s'aggiunge alla loro natura sostanziale già costituita in atto 55, e il loro stesso intelletto è una potenza altra dalla loro essenza 56. Per l'Achillini e per Sigieri, invece, l'essenza stessa di qualsiasi intelletto, sì di quello umano come di quelli celesti, come vedremo anche meglio in seguito, con- siste in un atto sostanziale d' intendere, dovuto alla loro vmione coli' intelletto agente che, per essi, è Dio. Fra l' intel- letto umano e le intelligenze celesti v' è solo questa differenza, che r intelletto agente s'unisce al primo per gradi, e comple- tamente solo al termine del suo sviluppo; alle seconde invece è eternamente unito come forma che attua tutta insieme la loro capacità. GÌ' intelletti inferiori a Dio hanno essere sol- tanto in quanto intendono la prima Intelligenza, che sola è da sé e per sé. Dio così è il sole del mondo intelhgibile ; le altre intelligenze ne sono lo splendore. In questo eterno rag- giare dalla prima Luce intelligibile e in questo eterno riflet- terla per diversi gradi, consiste l'essere delle menti inferiori alla prima Mente. Per questo nell' intelletto non v' è memoria, che è ritorno del passato. Siffatto ritorno del passato non è concepibile là dove è solo un eterno presente senza mutamento. I teologi medievali, compreso S. Tommaso, potevano attribuire agli angeli la memoria, in quanto attribuivano ad essi un conoscere puramente naturale e accidentale distinto dal conoscere « in Verbo » ; non gli averroisti, pei quali le intelligenze conoscono solo in quanto sono informate dall'essenza divina. Ed è sicu- ramente sotto r influenza di questa dottrina averroistica che Dante rimprovera ai teologi di avere attribuito la memoria agli angeli^?; che è un'altra delle tante tracce dell'influsso dell'avveroismo sul pensiero del nostro poeta. 55 S. Tommaso, 5. rheol., I, q. 54, art. 1-2. 56 Ib., a. 3. 57 Par., XXIX, 76-81. Si veda in proposito, B. Nardi, Nel mondo di Dante, Roma, 1944, pp. 372-374. 200 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Il Quolihetum concernente le intelligenze celesti si chiude con un terzo duhiuni, nel quale l'averroista bolognese si chiede se le intelligenze intermedie distino dalla prima Intelligenza con certo ordine, ossia seguendo una qualche proporzione: «Utrum ordine quodam recedant intelligentiae mediae a prima». Il problema è risolto da lui coll'affermazione che così è per Aristotele, non però secondo verità 58. Anche questo è un problema tipicamente averroistico, e trae origine da quel passo del commento d'Averroè al dodi- cesimo della Metafisica, che dice: Quoniam vero ordinatio istorum moventiiuTi a primo motore oportet ut sii secundum ordinem stellarum et orbium in loco, manifestum est etiam; prioritas enim in loco eorum et in magni- tudine facit eos priores in nobilitate 59. Qual fosse il pensiero di Sigieri su questo argomento, non sappiamo. Ma conosciamo quello d'un averroista a lui abba- stanza vicino e che, come il brabantino, insegnava a Parigi nella scuola delle Arti; voglio dire Giovanni di Jandun. Questi discute il problema « Utrum motores corporum celestium sint ordinati secundum ordinem corporum celestium in magni- tudine et in loco » nelle Qiiaestiones sulla Metafisica, e lo ri- solve in senso affermativo ^°. La soluzione che del problema ci dà il bolognese, è sostan- zialmente identica a. quella dell'averroista di Jandun: posto che v' è tra le intelligenze celesti un ordine gerarchico fondato sul differente grado di perfezione, egli stabilisce una corri- spondenza fra questo e l'ordine dei cieli, in quanto essi si differenziano per grandezza e velocità: Primus est ordo secundum gradum perfectionis essentialis earum (intelligentiarum) sic quod, quanto una intelligentia est perfectior alia, tanto est primo propinquior, non tainen secundum proportionem geometricam; patet quolibeto 5. Hic autem ordo, qui rationes formales intelligentiarum consequitur, causa est aliorum ordinum qui sequuntur. — Secundus est ordo caelorum secundum magnitudinem eorum, secundum quam caelum maius continet caelum minus. Perfectiore igitur intelligentia caelum maius regitur et gubernatur. Oportet enim informabile corre- 58 AcHiLLiNi, Quol. II, dub. 3, fol. 9, col. 2. 59 AvERR., Metaph., XII, comm. 44. 60 IoANNis DE Ianduno, Quaestìofies in Metaph., XII, q. 19. I « OUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 20I spendere formae sic, quod altieri caelo altior intelligentia api)ro- priatur.... — Tertius est ordo velocitatis in motu. Caelum enim maius velociori motu movetur, distinguendo inter movere et cir- cuire. Huius sententiae fundamentum ponit Commentator, se- cando Caeli, commento 58 : super (semper ?) eorum intelligen- tiarum intellectus est fortior et desiderium est fortius; ideo ab eis motus est velocior 61. Se il cielo è il soggetto informabile e l' intelligenza è la sua forma, e se le intelligenze non hanno altra funzione che quella di motori dei diversi cieli, ne segue che dal numero dei cieli e dei moti celesti si debba dedurre, come aveva insegnato Aristotele (>-, il numero delle intelligenze. Ora cieli in senso vero e proprio possono dirsi soltanto quelli in cui brillano una o più stelle. Perciò otto e soltanto otto sono le intelli- genze motrici. La più alta di esse è Dio, che muove immedia- tamente il cielo delle stelle fisse, « quod secum rapit alia corpora caelestian^B. Le altre sette muovono ciascuna uno dei cieli planetari, nell'ordine stabilito dagli astronomi. L'Achil- lini, come respinge con Averroè la teoria degli eccentrici e degli epicicH, così sembra rifiutare il nono cielo, comunemente ammesso sull'autorità di Tolomeo: « Or bis stellatus est finis corporum quae sunt intra, quoniam extra ipsum nihil est»; esso è il primo e più perfetto di tutti gli altri cieli ; « ideo caelum stellatum deo informatur » 64. Se non che i moti planetari non sono, per Aristotele, m^oti semplici; sibbene la risultante di più movimenti che richiedono più sfere. Così Aristotele, a render ragione del moto di ogni pianeta, aveva dovuto, sull'esempio di Eudosso, scindere ogni cielo planetario in un gruppo di più sfere, ciascuna delle quali aveva un diverso movimento. Dalla composizione dei loro moti risultava il moto apparente del pianeta. Una sola intelligenza, secondo l'avviso dell' Achillini, presiede al moto 61 Achillini, Quol. II, dub. 3, fol. 9, col. 2. Il passo d'Averroè nel luogo citato suona cosi : « Quod igitur magis propinquum fuerit primo orbi, habebit maius desiderium, quoniam propinquitas in loco illic est similis propinquitati essentiarum ad invicem, quae est propinquitas in scientia et in inteUectu rationali; quanto enim. magis intellectus primi moti erit fortior, tanto magis desiderium erit perfectius; et quanto magis desiderium erit perfectius, tanto motus eius erit velocior ». 62 Metaph., XII, t. e. 43-48, e. 8, 1073» 37-1074» 16. 63 Achillini, fol. io, col. i. 64 Achillini, fol. 9, col. 3. 202 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI di Ogni pianeta ; ma ognuna delle sfere che formano quel gruppo planetario è mossa da una sua particolare anima che è causa efficiente di moto, mentre l' intelligenza che presiede al gruppo è soltanto causa finale a cui le anime celesti obbediscono 65. Si hanno così otto intelligenze: la prima è Dio, motore del cielo stellato e quindi di tutto l'universo: ad essa obbediscono le sette intelligenze planetarie, più o meno nobili secondo che sono più o meno vicine al primo Motore. Ciascuna delle sette intelligenze planetarie presiede a un gruppo d'anime celesti, quanti sono i moti dei quali il moto di ogni pianeta è la risultante. Tutto questo, pensa il filosofo bolognese, si ricava da Ari- stotele e dal suo commentatore di Cordova: ma secondo la verità della fede, fra la prima Intelligenza, che è infinita, e le intelligenze inferiori, non può stabilirsi alcuna proporzione, poiché queste, per quanto più o meno perfette, sono tutte ugualmente distanti dall' infinità della Prima. Ciò non di meno, anche secondo la fede, esiste fra le intelligenze angeliche un ordine basato sulla loro diversa perfezione. Con questa osservazione, mentre sta per mettere il piede sulla soglia della teologia, « in ianuis theologiae », l'Achillini pone fine al se- condo quolibeto. Ma mentre il filosofo averroista sentiva il dovere di arre- starsi sul limitare della teologia, il teologo al contrario non sentiva ritegno di portare l'abito del ragionamento filosofico sul terreno della verità rivelata e di contaminare, come spesso avveniva, i dogmi della fede colle lucubrazioni della filosofia. Tale è il caso, fra i molti che si verificarono dal secolo XIII in poi, della speculazione teologica intorno agli angeli. L'angelologia ebraico-cristiana era solidamente costituita nei suoi capisaldi teorici, come ne' suoi elementi rappresentativi e fantastici, assai prima del suo incontro colla filosofia aristo- telica. Ma poi che, per opera dei filosofi maomettani ed ebrei l'aristotelismo prese contatto colla rivelazione, e a poco a poco alla primitiva e rozza cosmologia biblica si soprappose quella dotta dei greci ^^^ anche l'angelologia subì un'uguale contaminazione. « Omnes gentes quae concedunt Deum esse, 65 ACHILLINI, fol. IO, col. I. ^^ Cfr. il molto interessante e istruttivo studio di G. Ricciotti, La cosmologia della Bibbia e la sua trasmissione fino a Dante, Brescia, « Mor- celliana », 1932. I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 203 conveniunt in hoc, quod caelum est locus Dei et aliorum spi- rituum qui vulgariter dicuntur Angeli», osservava Averroè^?; e come lui pensavano Avicenna, Isacco Israeli e Moisè Maimo- nide. Il problema da risolvere, per i teologi cristiani, era quello di trovare nella gerarchia angelica, fissata dallo pseudo Dio- nigi Areopagita o da S. Gregorio Magno, il posto preciso ove collocare le intelligenze motrici d'Aristotele e dei suoi commen- tatori. Così, mentre Tommaso assegna la funzione di intel- ligenze motrici ad alcuni angeli dell'ordine delle Virtù, il do- menicano Maestro Teodorico di Vriberg fa delle intelligenze di cui parlano i filosofi, un ordine a parte che precede l'ordine costituito dalle anime dei cieli e quello degli angeli ^^. Per Dante, le intelligenze motrici dei cieli sono quelle stesse « le quali la volgare gente chiamano Angeli» 69; ma non tutti gli Angeli, sibbene quelli che, in ciascuna gerarchia ed ordine, sono stati deputati alla vita attiva, cioè al governo del mondo, anzi che alla pura vita contemplativa 7°. E secondo la nobiltà dei diversi cieli essi appartengono a gerarchie e ordini diversi?' ; sì che il poeta, al pari degli averroisti, può stabilire un rapporto tra la perfezione dei cieli e quella degli ordini angelici disposti in nove cerchi concentrici intorno a Dio: Li cerchi corporai sono ampi ed arti secondo il più e '1 men della virtute che si distende per tutte lor parti. Maggior bontà, vuol far maggior salute; maggior salute maggior corpo cape, s'elli ha le parti igualmente compiute. Dunque costui che tutto quanto rape l'altro universo seco, corrisponde al cerchio che più ama e che più sape. Per che, se tu alla virtù circonde la tua misura, non alla parvenza, delle sustanze che t'appaion tonde, tu vederai mirabil conseguenza di maggio a più e di minore a meno in ciascun cielo, a sua intelligenza 7^. 67 De caelo, I, comm. 22. Cfr. C. Baeum ker, Witelo, in Beitr. z. Gesch. d. Philosophie d. Mittelalters, III, 2, 1908, pp. 537 sgg. 68 E. Krebs, Meister Dietrich, in Beitr. z. Gesch. d. Philos.d. Miti., V, 5-6, 1906, pp. 88*-9i*. 69 Dante, Convivio, II, iv, 2. 70 Ib., II, IV, 10-13. 71 Ib., II, v, 13-15. 73 Par., XXVIII, 64-7S. 204 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Così non ragionava certamente Tommaso; così ragionavano invece Averroè e gli averroisti, pei quali le intelligenze motrici son forma delle rispettive sfere, come forma del cielo stellato è Dio stesso. 3. - Il terzo quolibeto tratta dell' intelletto possibile, che occupa r inlìmo posto tra gì' intelletti e costituisce la « tertia et ultima pars latitudinis intellectuum ». A proposito di esso l'Achillini stabilisce questa tesi: « Intellectus possibilis est intensissimum materialium et remississimum abstractorum », ossia è la più intensa delle forme unite alla materia e la meno attiva delle forme separate 73. Poiché, come vedremo, l' intel- letto umano, per lui, è una sostanza separata, unica per tutta la specie umana, e, nello stesso tempo, forma sostanziale degl' individui ai quali è unito per sua natura. Intorno a questa tesi, son discussi quattro dubia, il primo dei quali concerne la teoria d'Alessandro d'Afrodisia, esposta e combattuta da Averroè 74, secondo la quale l'intelletto pos- sibile sarebbe una virtù organica tratta dalla potenza della materia. L'averroista bolognese confuta questa dottrina con undici argomenti tolti dagli scritti del commentatore arabo. Ma se r intelletto possibile non è una « virtus materialis », al modo delle forme che hanno essere solo per la materia a cui sono unite e dalla quale sono individuate, se esso ha una sua propria realtà indipendente dalla materia, ne consegue che in se stesso sia unico per tutti gli uomini. Questa è ap- punto la tesi che l'Achillini sostiene d'accordo con Averroè, discutendo il secondo dubbio : « Utrum [unum] intellectum. possibilem habeat omnis homo » 75. Fra gli argomenti a sostegno della tesi averroistica vi sono questi, desunti dalla natura della conoscenza intellettuale: Si sic [cioè, si intellectus possibilis esset multiplicatus ad nu- merum hominum), contingeret ut res intellecta apud te et apud me sit unum in specie et duo in individuo; ratio patet supra. — Secundo, si sic, procederetur in infinitum in coiiceptibus; quia 73 AcHiLLiNi, f. IO, col. 1-2. 74 De anima, III, comm. 5, digress. pars. III. Cfr. S. Tommaso, Trat- tato sull'unità dell'intelletto contro gli averroisti, Firenze, Sansoni, 1938, pp. 19-20, 40-42. 75 AcHiLLiNi, fol. IO, col. 4-f. II, col. I. I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 2O5 conceptus essent numero diversi, et ab omni per se intelligibili numeraliter multiplicato abstrahibilis est conceptus; ideo ab illis conceptibus essent alii conceptus abstrahibiles ; patet supra. — Tertio, unus est conceptus essentialis omnium individuorum eiusdem speciei; ergo unus est intellectus possibilis omnium ho- minum. Questi tre argomenti non sono in sostanza che uno solo, cioè quello di cui già facevano uso gli averroisti, coi quali polemizza Tommaso nel De unitate intellectus, e a capo dei quali era Sigieri: Adhuc autem ad munimentum sui erroris aliam rationem inducunt. Quaerunt enim utriim intellectum in me et in te sit unum penitus, aut duo in numero et unum in specie. Si unum intellectum, tunc erit unus intellectus. Si duo in numero et unum in specie, sequitur quod « intellecta habebunt rem intellectam « : quaecumque enim sunt duo in numero et unum in specie, sunt unum intellectum, quia est una quidditas per quam intelligitur; et sic procedetur in infinitum, quod est impossibile. Ergo impos- sibile est quod sint duo intellecta in numero in me et in te; est ergo unum tantum, et unus intellectus numero tantum in omnibus 1^. 76 S. Tommaso, Traci, de un. intell. cantra averr.,ed. Keeler, Roma, 1936, § 106, pp. 68-69; cfr. il mio commento alla traduzione di questo opuscolo tomistico, Firenze, Sansoni, 1938, p. 175, nota 2. L'argomento che deriva da Averroè {De anima, III, comm. 5, digress. pars V, sol. ^ae quaestionis), è ampliato da Egidio Romano nel suo trattato De plur. inteìlectus possibilis, Venezia, 1500, parte I, fol. girò, ed è la sesta delle ragioni colle quali Averroè « positionem suam roborat et vult osten- dere quod intellectus, qui dicitur possibilis, est unus numero », in questo modo: «Si potest estendi quod una et eadem species intelligibilis in- format omnes intellectus, tunc sequitur quod sit unus intellectus in omnibus numero. Unde licet non sequeretur quod eadem res videretur ab oculo omnium hominum, si unus esset oculus omnium, bene tamen valeret quod, si una species informaret oculum cuiuslibet hominis, quod unus esset oculus cuiuslibet hominis. Ergo a simili: si igitur una species informat intellectum omnis hominis, omnes homines habent unum intellectum. Quod autem una species informet intellectum omnis hominis, patet; nam possibile est quod plures homines intelligant la- pidem. Tunc ergo quero: aut est per imam ^peciem lapidis, aut per aliam et aliam. Si per unam, habeo intentum; si per aham et aliam, tunc ille due species oportet quod differant numero, et communicent in forma, cum ducant in cognitionem unius naturae. Sed quotiescunque aliqua dicunt differentiam in numero seu in specie, tunc nullum eorum habet intellectum in actu, et habet tantum intellectum comm.unem; ideo nulla illarum specierum est in intellectu in actu, sed habebunt intellectum communem. Et tunc quero de ilio intellectu comuni, cum possit intelligi, utrum intelligatur per eandem speciem vel per aliam; sed non est abire in infinitum; standum est igitur in primis, quod una species potest informare intellectum plurium hominum et pari ra- 206 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Nel corso della discussione delle obiezioni contro la tesi dell'unità, l'Achillini inserisce addirittura un brano di Sigieri, che noi conosciamo attraverso una citazione del Nifo e che questi dice preso dal trattato De intellectn, « misso Thome in responsione ad illum Thome» 77. Giova riportarlo, per un con- fronto con quanto scrive il suessano: Ad, haec supponamus quod iste terminus « homo » significat compositum ex corpore et intellectu, et quod « homo » est per se unum, directe reponibile in praedicatione substantiae, sub « ani- nali », intrinsece denoininatum intellectione etc. Secundo, non potest intellectus informare materiam non informante cogitativa quia non stat materia sino forma constituta in esse per eam; et non potest intellectus informare sine sua proxima dispositione et ultima, quae est cogitativa. Et sic patet cogitativam ordinari in intellectivam, quamvis cogitativa non sit forma generica. Ex quo patet quare operatio cogitativae et intellectus possibilis se co- mitantur, ut tangit Commentator, 2 De anima, comm. 15. Ncque potest cogitativa informare, non informante intellectu, quia, dato informabili ultimate disposito et informativo, ponitur in- formatio. Est autem materia informata cogitativa informabile propinquum et ultimate dispositum ad recipiendum intellectum; et sic potest una forma substantialis esse dispositio ad aliain, dummodo illa forma praeparans non sit materiae ratio recipiendi. Hucusque nihil mali dictum est78. Tertio, praemittendum apud Averroim quod intelligentiae sunt haec et individuae individua- tione non repugnante esse universali, quia esse earum in anima et extra animam est idem, 3 De anima, comm. 9, et 7 Metaphy- sicae, commento 41: «In abstractis non differt quidditas ab eo cuius est ». Est autem intellectus possibilis de genere intelligen- tiarum, ideo non repugnat intellectum dare esse hoc, quamvis etiam sit universalis. Ideo concedo Sortem habere suum esse hoc ab intellectu. Sed a materia, divisa informabili cogitativa. tione omnium; igitur omnes homines habent unum intellectum numero »^ Appare evidente da questo testo d' Egidio e da quello di Tommaso, come si sia ingannato il Fiorentino, di solito attento e accurato, quando ha creduto di ravvisare nel terzo argomento dell'Achillini, qui sopra riportato, « due mutazioni sostanziali » dell'averroismo {Pietro Pom- ponazzi. Studi storici su la scuola bolognese e padovana nel sec. XVI. Firenze, 1868, pp. 254-255). Il « conceptus essentialis omnium indivi- duorum eiusdem speciei » è l' intellectum, cioè il votjtÓv aristotelico, l'universale che è certamente unico per tutti gì' individui d'una stessa specie. Dall'unità dell' intellectum Averroè e, con lui, l'Achillini dedu- cono l'unità dell' intellectus possibilis. 77 Nifo, De intellectu, 1, tv. 3, e. 18; cfr. Sigieri, p. 18. 78 Questa frase che nel riassunto del Nifo manca, è evidentemente un'osservazione dell'Achihini, e mostra che questi ha un testo dinanzi a sé. I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 20/ informante mediante dimensionibus, oritur possibilitas multi- plicationis individuorum sub eadem specie; quae omnia, secundum Commentatorem, propter esse universale intellectus, informari possunt ilio et ab ilio sumere suum esse hoc et unum, et verius unum quam bruta a sensu, quia mediantibus dimensionibus unitur sensus materiae, sed non intellectus 79. Parrebbe dal confronto di questo brano con quanto ci è fatto sapere dal Nifo, che l'Achillini abbia fatto sua una pa- gina dello scritto di Sigieri in risposta al De unitale intellectus dell' Aquinate. Come vedremo più oltre, non è questo l'unico caso da rilevare. Dopo aver sostenuta con sedici argomentazioni la tesi dell'unità dell' intelletto possibile, attribuita ad Aristotele, ed aver risolto le quattro obiezioni contro di essa, il bolognese conclude affermando che la tesi d'Aristotele e d'Averroè è falsa, e, contro il metodo finora seguito, fa vedere che cosa si può rispondere ai sedici argomenti a prò di essa. Indi passa a discutere un terzo dubbio, e cioè « Utrum intel- lactus possibilis sit pure potentialis ». Il problema era stato posto almeno due volte da Sigieri di Brabante, e tutte e due le volte risolto allo stesso modo: l'intelletto possibile, prima dell'atto dell' intendere, non ha alcun atto, né può dirsi so- stanza se non in potenza. Affermare, come facevano Tommaso ed altri, che esso sia una sostanza in atto « in genere intellectua- lis naturae », prima dell'atto d' intendere, « est ponere con- traria et impossibilia vel incompossibilia»8o; per questa ra- gione appunto Aristotele aveva detto e quod intellectus ante intelligere nullam naturam habet nisi istam quod possibilis»^'. L' intelletto possibile diviene atto e sostanza « in genere intellectualis naturae », soltanto per l'azione su di esso del- l' intelletto agente, che è una sostanza separata, la quale, come ormai sappiamo, per Sigieri è Dio. Identica è la soluzione che di questo problema dà l'Achil- lini: r intelletto possibile è sostanza puramente potenziale « in genere intelligibilium»^'-, e quello che lo trae dalla potenza 79 AcHiLLiNi, fol. II, col. 2-3. ^0 Sigieri, Qiiaestiones naturales, ed. Stegmùller, III, pp. 179-180. ^i Sigieri, De anima intellectiva, ed. Mandonnet, IX, p. 171. Cfr. Giorn. Crii. d. Filos. Hai., XX, 1939, pp. 467-471. 8i AcHiLLiNi, Quol. Ili, dub. 3, fol. 12, col. i-fol. 13, col. 4. 2o8 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI l'atto è r intelletto agente che, anche per 1' averroista ita- liano, come vedremo esaminando il quarto quolibeto, è Dio: Componitur enim intellectus possibilis agenti; tali tamen com- positione quod remanent dnae substantiae separatae in actu. Ideo, 3 De anima, comm. 20, istae substantiae sunt duae uno modo, et unum alio modo. Sunt enim duae per diversitatem actio- nis; et sunt unum, quia intellectus materialis perficitur per agen- tem. Et secundo De anima, comm. 74, et 3 De anima, comm. 36, omnis actio attributa alieni propter aliqua duo existentia in eo, necesse est ut unum sit materia et aliud forma; sed nos intelli- gimus per intellectum agentem et possibilem, 3 De anima, comm. 18; et sic aliquo modo intellectus agens est forma nobis, ut patet 3 De anima, comm.. 36. Se r intelletto possibile non è un atto prima d' intendere, ma semplice potenza, ne segue che l' intellezione che attua questa potenza, sia essa l'atto sostanziale dell' intelletto, poiché la pura potenza non è mai soggetto immediato d'ac- cidenti. Perciò l'atto d' intendere, del pari che l'abito della scienza, è perfezione essenziale dell' intelletto possibile e atto che costituisce la sua sostanza quando pensa e ragiona ^3. Anche in questo egli è perfettamente d'accordo con Sigieri ^4 Unico per tutta la specie umana, l' intelletto possibile è eternamente congiunto coli' intelletto agente che ne attua la potenza, e possiede, grazie a questo congiungimento, un atto di pensiero eterno in cui consiste la sua stessa natura. Di abiti e di atti accidentali si può parlare non in rapporto all' intelletto in sé, ma solo in rapporto ai fantasmi sensibili ai quali l' intelletto possibile s'unisce nei singoli individui della specie umana. Questo, s' intende, dal punto di vista averroistico, in quanto s'ammette un unico intelletto per tutti gli uomini. Ma ciò non è più vero, se si rifiuta come falsa la tesi dell'unicità dell' intelletto possibile. L'ultimo dubbio del terzo quolibeto verte sul problema: « Utrum intellectus possibilis sit forma dans esse hominem ». Giacomo Zabarella, un secolo più tardi, faceva le sue mera- viglie perché l'Achillini, dopo aver sostenuto l'unità dell' in- telletto, non avesse visto la contradizione che e' è ad affer- mare che lo stesso intelletto, unico per tutta la specie, è forma ACHILLINI, fol. 13, col. I. Cfr. Sigieri, nei luoghi cit. I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 209 informante, e non soltanto assistente, sì da costituire l'uomo nel suo essere di uomo ^5. Ma il filosofo padovano non sapeva che anche in questo il bolognese segue da presso il maestro brabantino. Del quale è appunto la tesi, a quanto e' informa il Nifo 86, che r intelletto, pur essendo unico in sé stesso, è « forma costituens hominem et hunc hominem : hominem in esse specifico, et hunc hominem in esse hoc ». Anzi il Nifo ci fa sapere che Sigieri, nell'opera della quale il suessano riferisce alcuni tratti che son riportati alla lettera anche dall'Achillini, come abbiamo visto a proposito del secondo dubbio di questo terzo quolibeto, riteneva, al pari del bolognese, dottrina con- forme alla mente d'Averroè quella che afferma esser l' intel- letto possibile forma sostanziale dell'uomo. Come Sigieri, anche l'averroista italiano poneva nell'uomo due forme: la cogitativa tratta dalla potenza della materia, e l' intelletto. Ma la prima è ordinata al secondo, e questo è complemento e perfezione di quella 87 ; sì che la materia già informata dalla cogitativa è 1' « informabile ultimate dispositum ad recipien- dum intellectum))88, che ne è la forma ultima. Il Nifo ad espri- mere questo intimo e sostanziale rapporto fra la cogitativa e r intelletto possibile, s'era servito del termine di « semianime o semiforme ». Il termine nell'Achillini non s' incontra, e non credo s' incontrasse nemmeno nello scritto di Sigieri al quale il suessano si riferiva: ma il concetto e' è, sì nell'uno che nell'altro 89. Forma sostanziale che dà all'uomo il suo specifico essere di 85 Iacobi Zabarellae, Liber de mente hiimana (nel voi. De rebus naturalibus, Venezia, 1590, pp. 641-684, e nei Commentarii in tres Arist. libros de anima, Venezia, 1605, dopo il commento al t. 11, del libro II), cap. 3 e II. 86 De inteUectu, I, tr. 2, e. 8, tr. 3, e. 18; De anima. III, comm. ad t. e. 5; cfr. Sigieri.... nel pens., pp. 14-20. Anche il Card. Gaetano, nel suo commento al De anima, stampato a Firenze, lui vivente, nel 15 io, dopo aver detto che Averroè separò l'anima intellettiva dal corpo, osserva in margine che questo è « contra alexandrum achiUinum, quolibeto 30, et subgerium in tractatu ad S. Thomam, qui volunt quod intellectus uniatur secundum esse, apud averroem, et sit unicus » (III, cap. 2, fol. 59, col. 3). 87 ACHILLINI, fol. 15, col. I. 88 AcHiLLiNi, fol. II, col. 3. 89 In Sigieri anzi il concetto s' incontra fin nelle Quaestiones super iertio de anima del Merton College, cod. 292; cfr. «Giornale Crit. d. Filos. Ital. », XXXI, 1950, pp. 317-25. Lo stesso concetto appare anche nelle Quaestiones de anima intellettiva, ed. Mandonnet, Vili, p. 170. 14 2 IO L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI uomo, r intelletto non è per altro « forma constituta in esse per materiam », sì da dipendere da questa, come accade per le forme che son tratte dalla potenza della materia, poiché ha un proprio essere di forma separata al pari delle intelli- genze celesti, che pur son forme dei rispettivi cieli 9°. Ed anche in questo concetto l'accordo dell'Achilhni coll'averroista belga è perfetto. Forma e perfezione del primo cielo Dio, forma e perfezione dei cieli inferiori al primo le intelligenze motrici, forma e perfezione dell'uomo l' intelletto possibile, che è l' infima delle intelligenze. Resta ora da vedere come Dio sia forma anche degl' intelletti e ragione di ogni intelligibilità. 4. - Il quarto quolibeto è dedicato all' intelletto agente. Se r intelletto possibile è pura potenza, l' intelletto agente è puro atto senz'ombra di potenza; perciò esso possiede, fra tutti gì' intelletti, il massimo grado d' intensità nell' intendere. Esso dunque è Dio. La identità dell' intelletto agente con Dio, che il Nifo attesta essere stata sostenuta da Sigieri, è dimo- strata dall' Achillini con questi argomenti: Primo, omnis felicitas est deus; sed intellectus agens est feli- citas; ergo etc. Maior et minor in secundo dubio et tertio decla- rantur. — Secundo, omnis intellectus qui est. omnia facere est deus; sed intellectus agens est intellectus qui est omnia facere, 3 De anima, textu comm. 18, etc. Patet maior, quia esse omnia facere est ad omnia receptibilia in intellectu possibili, ad hoc ut in eo recipiantur, effective concurrere, vel est ad omnia facti- bilia effective concurrere, vel omnia facere, idest purus actus; et quomodocumque intelligatur, soli deo competit. — Tertio, illud cuius substantia est sua operatio omnimode, est deus; sed intel- lectus agentis substantia est illius operatio omnimode, 3 De anima, comm. 19: «Et est in sua substantia actio », idest, non est in eo potentia ad aliquid. — Quarto, omne quod est primum educens formam de materia, est deus; patet ex quolibeto primo. Sed in- telligentia agens est primum educens etc, 2 De aniìna, comm. 59. — Quinto, omne quod animae nostrae infundit intellectum, est intellectus agens; sed deus animae nostrae infundit intellectum. Patet maior, quia intellectum speculativum facit intellectus 90 Achillini, fol. 15, col. 2; cfr. Quol. Ili, dub. 3, contra, ad i, fol. 12, col 3. Nifo, De intell., 1, tr. 2, e. 8; De anima, III, comm. ad t. 5; V. Sigieri, pp. 14-20. I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 211 agens esse in intellectu possibili, faciendo de potentia intellectis actu intellecta. Minor est Aristotelis exemplum, 3 Rhetoy'icorum: « Intellectui deus lumen accendit in anima ». Ex hoc patet quare Commentator, 3 De anima, comm. 20, dixit se differre a Themistio, in modo ponendi intellectum agentera, et convenire cum Alexandre; quia Themistius voluit intellectum agentem non esse Deum, quia animae nostrae est pars; sed Alexan- der voluit intellectum agentem esse deum: patet ex 3 De anima, comm. 36, ubi Commentator, recitando opinionem Alexandri dixit: « Intellectu s agens est prima causa agens intellectum ma- terialem))9i. Il primo di questi argomenti è preso da Sigieri?-, come ve- dremo anche meglio fra poco. Il secondo e il terzo son ricavati dal testo aristotelico del De animai, ov' è detto che è proprio dell' intelletto agente rendere intelligibili tutte le cose, e che lo stesso intelletto agente è atto per sua natura, senza alcuna mescolanza, sì che « non intende ora sì ed ora no », ma intende sempre, senza intermissione; le quali cose son proprie sol- tanto di Dio. Importante poi è l'osservazione concernente la dichiarazione di Averroè, il quale approva Alessandro d'Afro- disia, per avere identificato l' intelletto agente colla causa prima che trae dalla potenza all'atto l' intelletto possibile o hylico. Dopo di che l'Achillini riporta ben nove obiezioni che so- levano farsi alla tesi da lui sostenuta; l'ultima delle quali è questa: « Nono, sequitur deum esse partem animae nostre, quod non videtur etc», giacché Aristotele 94 aveva detto che tanto r intelletto agente quanto quello possibile bisogna che siano due èv t-^ ^u/y^... Sia9opaL Alla quale obiezione il bo- lognese risponde semplicemente così: «Ad nonum, declaratum est supra quomodo deus est pars animae nostrae, et quomodo non )). Ed infatti in un passo del quolibeto III, dub. 3, che abbiamo già riferito altra volta 95, egli aveva detto che, pur essendo l' intelletto possibile ed agente due sostanze diverse, s'uniscono nell'atto dell' intendere di guisa che in qualche modo « intellectus agens est forma nobis ». 91 AcHiLLiNi, Quol. IV, dub. I, f. 16, col. I. V. sopra, il saggio VI. 92 NiFO, De intell., II, tr. 2, e. 17; cfr. Sigieri, p. 25. 93 II, e. 5, 43oa 15, 18, 22. 94 De anima. III, t. e. 17, e. 5, 4303- j^ 95 V. sopra, p. 208. 212 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Ma in che modo Dio s'unisca all' intelletto umano come forma, è detto più ampiamente nella discussione del secondo dubiuni del IV quolibeto, ove si pone lo stesso problema che s'era posto Sigieri nel Libey de felicitate 9^, « Utrum felicitas sit deus », e lo risolve allo stesso modo del brabantino. Dio è il fine supremo di ogni intelligenza, nel cui conseguimento consiste la beatitudine, perché Dio è ciò che è « simpliciter perfectum quod secundum se est eligibile semper », è « opti- mum, pulcherrimum, delectabilissimum », è quello che « nullo indiget » ed è « principium honorum et causa ipsorum ». Sol- tanto Dio, dunque, « est felicitas sibi aut aliis intelligentiis aut homini, quia solum ipse est perfectissimum intelligibile et appetibile propter se », e solo in lui « eminenter reperitur ratio obiecti intellectus et voluntatis » 97, Si dirà che la felicità è un atto che è in noi, mentre Dio non è in noi. L'Achillini risponde che, come nel primo quoli- beto aveva concesso « deum esse intellectionem intelligentia- rum, nunc conceditur deum esse intellectionem intellectus possibilis et hominis » 9^. Ma s'obietta ancora: Tertio, nullum obiectum operationis quae est felicitas est illa operatio quae est circa illud obiectum; patet ex differentia Inter obiectum operationis et operationem. Sed deus est obiectum operationis quae est felicitas; patet io Ethicorum, cap. io: « Per- fecta felicitas est operatio speculativa optimorum ». Ergo etc. A questa obiezione l'Achillini risponde negando la mag- giore : Ad tertium negatur maior, quia sufficit inter operationem et obiectum distinctio rationis. Dico igitur quod felicitas (non in- telligo polica[m] quae est usus virtutis, septimo Politicorum, sed contemplativa [m], quae secundum Philosophum, decimo Ethicorum, cap. 8, est secundum nobilissimum habitum qui est sapientia, et secundum eundem, septimo Politicorum, est melior quam politica) non est actus qualitativus inhaerens intellectui aut voluntati: quia si sic, tunc non tenderent intellectus et vo- luntas in félicitatem tamquam in ultimum finem. Secundo, quia ille actus non est perfectissimum. Tertio, quia oporteret ponere ¥> NiFO, De intell., II, tr. 2, e. 2 e 17; cfr. Sigieri, pp. 24-26. 97 AcHiLLiNi, fol. 16, col. 3-4. 98 ACHILLINI, fol. 16, col. 4. I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 213 duas felicitates: imam formalem et intrinsecam, et aliam obiecti- vam et extrinsecam ; et sic Aristotelem et Commentatorem indi- stincte processisse in aequivoco, cum dixeriint felicitatem esse ultimum fineni et operationem animae. Quarto, quia ex quolibeto tertio non datur accidens inhaerens intellectui. Concludo igitur quod tantum una est felicitas, et quod ea omnia vere felicitabilia felicitantur; et ista est deus. Hanc sententiam ponit Commen- tator, IO Etliicoritm, capite 8: in Deo esse felix est in speculatione sui, in nobis esse felix est in eo in quo est sibi, prout nobis est possibile 9"). Allo stesso modo Sigieri sosteneva che, come « Deus Deo per essentiam beatificatur », così l' intelligenza a lui più vi- cina « essentia Dei ut forma felicitatur », « et consequenter omnes residui intellectus; adeo quod intellectus hominis essentia Dei felicitatur, quemadmodum Deus essentia Dei»ioo. Sebbene distinti nella loro natura, l' intelletto causato non potrebbe intendere Dio, se Dio non lo informasse di sé, giacché, tanto per l'Achillini quanto per Sigieri, « intellectio qua Deus intelligitur est ipse Deus»; l'operazione colla quale Dio è inteso da parte dell'intelletto causato e l'oggetto inteso formano, nell'atto dell' intendere, una cosa sola. In quest'atto, Dio, informando di sé gì' intelletti inferiori, fa ad essi dono di se stesso. « Ex quo patet — osserva il bolognese — quod felicitas est optimum deorum donum, quia non est donum excellentius quam donare seipsum, et praesertim si donatum sit perfectissimum entium. Hinc apparet quam commode potuit Aristoteles, 13 De animalibus, substantiam hominis divinam appellare » '"i. Principio di siffatta beatitudine è, pertanto, il congiungi- mento della mente um.ana con Dio nell'atto dell' intendere. Perciò la felicità consiste formalmente in un atto d' intelli- genza, poiché solo nell'atto dell' intendere avviene il congiun- gimento dello spirito causato coli' intelletto primo : la beatitu- dine è il più alto grado della vita speculativa, come con Ari- stotele aveva detto Averroè 'o-. A questo punto giova chiarire qual era il pensiero di Si- gieri intorno ad una questione dibattura specialmente fra i 99 ACHILLINI, fol. IO, col. 4-fol. 17, col. I. 100 NiFo, /. c; V. Sigieri, p. 25. loi AcHiLLiNi, fol. 16, col. 4. Cfr. Arist., De part. animai., IV, e. IO, 686» 27-28. "•- Eth. Xiconi., X, comm. al e. 8, 11 jS 20 sgg.; De anima, III,comm. 36. 214 I' ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI teologi. Questi solevano chiedersi se l'esser beato si fonda, come dice Dante ^°3, nell'atto che vede oppure in quel ch'ama; in altri termini, se la heatitudo risieda formalmente in un atto di conoscenza del quale è soggetto l' intelletto, ovvero in un atto d'amore che risiede nella volontà. Ed è noto che, mentre i teologi del vecchio indirizzo agostiniano e i francescani po- nevano la beatitudine in un atto di volontà al quale precede la conoscenza, Tommaso e la sua scuola la facevano consi- stere essenzialmente in un atto d' intelligenza, d'accordo in questo cogli averroisti, al quale atto d' intelligenza tien dietro l'atto d'amore da parte della volontà. Se non che l'una e l'altra teoria presuppongono una troppo netta distinzione fra l' in- telhgenza e il volere. Sigieri supera il problema, negando la distinzione reale fra queste due « facoltà ». Ciò risulta da un importante luogo del Nifo, che prima m'era sfuggito. Dopo aver riassunto « que ex libello Subgerii.... excipiun- tur"4)), intorno al problema dell'identità della beatitudine con Dio, il Nifo prosegue: Ut igitur positio huius philosophi intelligatur, oportet accipere quod sicut unum precise est intellectum et volitum sub diversis rationibus, intellectum quidem ut perficiens intellectum ipsum absolute, volitum ut perficiens illum sub indifferentia fuga aut consensus; ita una numero est intellectio et volitio, sed differunt quoniam intellectio est intellectum absolute, volitio est intellectum ut acceptum vel fugitum; sic unamet res est voluntas et intel- lectus 105 : intellectus quidem, ut perficitur ac formatur ab intel- ligibili sub ratione forme absolute; voluntas autem ut perficitur ratione fuge vel prosequele, ut superius diximus. Ergo intellectus et voluntas sunt unamet res simpliciter absolute, licet sint di- verse rationes; et inde videmus Aristotelem et Averroem nuUam facere differentiam inter ea, nec tractatus diversos, nec capitula diversa, ut in libro De anima visum est. Ex quo sequitur, quod unamet felicitas est intellectio et vo- litio, ac unainet essentia est intellectum et volitum; est enim in abstractis intellectio rei idem quod ipsa res, ac volitio rei idem etiam cum re volita. Ergo si Deus erit felicitas. Deus erit intel- lectio et volitio insimul; et etiam simul est volitio quod felicitas, et intellectio quod volitio et felicitas etc. Amplius sequitur quod ociosa est questio querens utrum fe- 103 Pa»'., XXVIII, 109-111. '04 Nifo, De intelL, II, tr. 2, e. 17; cfr. Sigieri, p. 26. i°5 Così anche I'Achillini, Quol. Ili, dub. 3, fol. 13, col. 4: «Ad primum, voluntas et intellectus sunt idem re, licet secundum esse vel rationem differant ». I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 2I5 licitas principalius sit intellectio quam volitio, an econtra; cum volitio et intellectio non differant nisi nomine vel ratione; nisi questio fiat sub ratione respectiva hoc modo, scilicet utrum fe- licitas sit Deus sub ratione qua intellectio, an Deus sub ratione qua volitio vel amor ^°(>. A questa felicità, dichiara l'Achillini, noi tendiamo per na- tura, né può darsi che il desiderio naturale resti inappagato in tutta la specie. Perciò, considerato in rapporto alla specie umana che è eterna, anche l' intelletto umano, come insegna Averroè, è eternamente felice, perché eternamente congiunto con Dio e colle intelligenze separate '07. Ma non felici son tutti gli uomini, singolarmente presi, poiché non tutti arrivano, in questa vita, a questo segno. Giacché per l'Achillini, come per Sigieri, si tratta appunto della felicità alla quale è concesso all'uomo d'arrivare in questa vita, mediante l'acquisto della scienza: « Felicitatem autem in alia vita, quam non potuerunt philosophi naturali ratione inquirere, theologis relinquimus considerandam » ^°^. Ma può l'uomo arrivare in questa vita a conoscere le so- stanze separate ? Tale il problema che il nostro bolognese si pone subito dopo, col terzo dubbio. Nella soluzione di esso egli fa uso dell'argomento di Sigieri, riferito dal Nifo e da Francesco de' Silvestri: Secundo, si impossibile esset intellectum possibilem intelligere substantias abstractas, ociose egisset natura, quia fecisset, quod est in se naturaliter intellectum, non intellectum ab aliquo. Ratio est Averrois, secundo Metaphysucae, comm. primo. Suppono in hac ratione, quod omnis intellectio conveniens intellectui pos- sibili convenit homini, sic quod non est possibile quod intellectui competat, quin homini conveniant: hoc voluit Aristoteles, primo De anima, textu commenti 64, et hoc proposito negato, clauditur via Commentatori ad ostendendum caelum intelligere. Ideo, si possi- bile est substantias separatas intelligi ab intellectu possibili, possi- bile est substantias separatas intelligi ab homine. Hoc stante, arguo sic : Ouandocumque est aliqua forma non apta recipi in maxime receptivo alicuius generis, illa non est receptibilis in minus reciptivo illius generis; sed intellectus possibilis in genere intelligentiarum est maxime receptivus; patetexquolibeto tertioio9; 106 Nifo, ib., e. 18. 107 AcHiLLiNi, fol. 17, col. I. Cfr. AvERR., De awf/Ma, III, comm. 36. 1°^ ACHILLINI, ib. i°9 V. sopra, pp. 207-208. 2l6 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI ergo, si primam formam non est possibile intellectum possibilem recipere, non est possibile alium intellectum recipere primam. formam; et sic iam frustrarentur intelligentiae mediae ab hoc fine, qui est deum gloriosum intelligere. Tunc ultra: quandocumque intellectus abstractus non potest intelligere interiora, ut quolibeto primo dictum est esse de mente Averroismo; sed nulla intelli- gentia media potest primam intelligere, ut ex ratione superiori sequitur; ergo nulla intelligentia potest intelligentiam mediam intelligere; sed ncque deus potest intelligentias medias intelligere, secundum Averroim, ut patet quolibeto primo; neque intellectus possibilis potest eas intelligere per te; ergo intellectum naturaliter in se non est intellectum ab aliquo. Patet consequentia de intel- ligentiis mediis: quia non a Deo, qui est supra; non a seipsis, ut sequitur; neque ab intellectu possibili, qui est infra, per te intelliguntur; et non est alius intellectus ab istis. Et sic patet alia ociositas in natura et maxima; et sic patet quod, quamvis non sit homo finis intelligentiarum, tamen, si non sunt intelli- gibiles ab homine, frustrantur a suo fine; et sic ociose sunt in- telligibiles etc. Ilaec omnia ex modis intelligendi dei, intelli- gentiarum et intellectus possibilis supra declaratis sunt evidentia'". Passando ad esporre i fondamenti filosoiìci sui quali si basa la tesi che attribuisce all' intelletto umano il potere di ele- varsi a conoscere le sostanze separate, l'averroista bolognese distingue, come aveva già fatto Giovanni di Jandun "2, la conoscenza speculativa acquisita per mezzo dello studio delle discipline filosofiche, dalla conoscenza intuitiva, « qua cogno- scimus substantias separatas per earum essentias proprias » ; e in quest'ultima fa consistere la felicità suprema dell'uomo. Sì che la beatitudine non è raggiunta coll'acquisto delle scienze speculative, ma dopo il loro apprendimento. L'acquisto per altro delle scienze è una condizione indispensabile e sufficiente a rendere la mente umana preparata e disposta al congiungi- mento coir intelletto agente, che sappiamo ormai esser Dio. Ma, oltre a ciò, è necessario che alla perfetta conoscenza spe- culativa tenga dietro la pratica delle virtù morali: Cum igitur fuerit homo secundum virtutes morales sufficienter habituatus, sic quod cessaverit discordia inter sensitivum appe- titum et intellectivum; sic quod rationi regimen tributum erit 11° AcHiLLiNi, Quol. I, dub. I. Questo luogo, nella stampa veneziana, è evidentemente difettoso. "I AcHiLLiNi, Quol. IV, dub. 3, fol. 17, col. 1-2; NiFO, De intell., II, tr. 2, e. II ; In Averroys de anime beatitudine , I, comm. 53; cfr. Sigieri, pp. 22-23. "2 De anima. III, q. 36; Metaph., II, q. 4. I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 217 sine intrinseco repugnanti; sic quod veruni erit dominium ra- tionis super viribns sensitivis, tunc continuabitur intellectus possibilis, secundum quod est felix, homini et denominabit homi- nem felicem. Ex quo patet quod quia in habituatione hominis secundum virtutes et scientias magnum tempus vitae hominis labitur "3. Unito al corpo umano da un legame intrinseco, l' intelletto possibile trae dall'esperienza sensibile le forme immerse nella materia e rese immateriali per un processo d'astrazione. Quando, attuato da queste forme divenute intelligibili e dal- l'abito delle scienze filosofiche, l' intelletto umano si trova congiunto coli' intelletto agente nell'atto della beatitudine, alla stessa beatitudine parteciperanno in tal modo le cose del mondo materiale, fatte intelligibili; sì che l'uomo verrà ad essere anello di congiunzione fra il mondo superiore e il mondo inferiore, « nexus superiorum cum inferioribus, ultra hoc quod forma hominis sit intelligentia » "4. Anzi, siccome Dio nell'atto della beatitudine è forma dell' intelletto beato, e questo è forma del corpo umano, ne segue che anche la stessa materia partecipa alla beatitudine; di guisa che attraverso l'uomo la beatitudine si diffonde su tutto il mondo inferiore "5. Ma poiché l' intelletto agente è la suprema Intelligenza, cioè Dio, mentre l' intelletto possibile è l' infima, questo non può unirsi immediatamente alla prima Intelligenza, sibbene mediante le intelligenze intermedie. Sì che nell'atto stesso e, potremmo dire, coll'atto stesso col quale s'unisce all'uomo r intelletto agente come forma, s'uniscono all' intelletto pos- sibile anche le altre intelligenze ad esso superiori già informate dalla prima Intelhgenza: Cum intellectus agens sit suprema intelligentia, et intellectus possibilis sit intima, non potest naturaliter uniri intellectus agens intellectui possibili immediate, quia aliae intelligentiae naturaliter mediant. Ideo oportet quod aeque cito, sicut incipit intellectus agens esse forma et intellectio istius hominis, incipiat quaelibet alia intelligentia media informare hunc hominem. Ex hoc pate- bunt apud Aristotelem et Commentatorem novem gradus feli- citatis, sicut novem sunt apud eos intellectus felicitabiles, quorum 113 AcHiLLiNi, fol. 18, col. I. "4 76. "5 Ib., fol. 18, col. 2. Per questa teoria della beatitudine, v. sopra il saggio VI, dedicato alla mistica averroistica. 2 IO L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI prinius et maximus dee convenit, nonus vero et intìmus intellectui possibili, medij vero medijs intelligenti] s aptantur ordinate etc, quia intellectus cognoscens deuni per plura media remissius cognoscit et imperfectius. Ideo prima, quae est sua cognitio per essentiam, se perfectissime cognoscit. Secunda autem intelli- gentia recipiendo cognoscit primam, licet immediate eam recipiat. Tertia vero mediante secunda; et sic gradatim descendendo "6. In questo senso dice Sigieri, come ci attesta il Nifo, che r intelletto possibile dell'uomo, « ut habet esse intentionale, est materia omnium intellectuum separatorum » "7. Nell'ultimo dubbio di questo quarto quolibeto, l'Achillini riassume e schematizza quanto ha detto in questo stesso quo- libeto e nel terzo, circa il congiungimento {copulatio, continuatio) dell'uomo coli' intelletto. I congiungimenti, a dir vero, son tre, e non uno solo: il primo è quello dell'intelletto possibile col corpo umano di cui è forma ; il secondo è quello dell' in- telletto agente coli' intelletto possibile ; il terzo è il congiungi- mento dell' intelletto agente coll'uomo. Il primo congiungimento è duplice. Anzi tutto, l' intelletto possibile s'unisce all'uomo secundum esse, cioè come forma sostanziale che dà all'uomo il suo essere specifico di uomo, e ciò fin dal momento in cui l'uomo comincia ad essere uomo. Indi s'unisce a lui secundum operationem, quando l'uomo comincia a far uso dell' intelligenza "8, Questo duplice con- giungimento era già esplicitamente distinto da Sigieri, secondo la testimonianza del Nifo "9. Anche il congiungimento dell' intelletto agente coli' intel- letto possibile è duplice : dapprima l' intelletto agente s'unisce all' intelletto possibile come causa agente dell' intendere, concorrendo all'astrazione del concetto dall' immagine o fantasma sensibile, e promovendo lo sviluppo intellettuale per mezzo delle scienze; indi, al termine dello sviluppo intellet- tuale, s'unisce all' intelletto possibile, acconciamente disposto e preparato, come forma che ne attua tutta la potenzialità e gli dà la beatitudine '=o. Siffatta distinzione è d'Averroè '^i. "6 Ib., fol. i8, col. 2. "7 Nifo, De intelL, I, tr. 3, e. 18; cfr. Sigieri, p. 19. "8 AcHiLLiNi, Ib., fol. 19, col. 3. 119 De intelL, 1, tr. 3, e. 26; De anima, III, comm. ad t. 5; cfr. Si- gieri, pp. 15 e 20. 121 AcHiLLiNi, ib., col. 3-4. 120 AvERR., De anima. III, comm. 36. I " QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 219 Ed essa vale anche per il congiungimento dell' intelletto agente con l'uomo. Giacché dapprima l' intelletto agente, trovando l' intelletto possibile già unito secundum esse al corpo di quest'uomo particolare (per esempio, di Socrate), illumina della sua luce i fantasmi della cogitativa di lui, di- versi dai fantasmi di altri uomini, e ne trae quelle specie in- telligibili che sono intese in questo particolare momento da Socrate. Piìi tardi, quando l' intelletto di Socrate, conve- nientemente attuato dagl' intelligibili tratti dalla sua parti- colare cogitativa, si sarà arricchito di una sempre più varia e complessa esperienza, l' intelletto agente gli dischiuderà, se n' è degno, il mondo splendente della pura luce che emana da sé, come da sole d'ogni intelligibilità '-^ Come in Sigieri, così anche nell'Achillini s'avverte lo sforzo per superare la difficoltà maggiore dell'averroismo, già avvertita dallo stesso filosofo di Cordova, consistente nel bisogno di conciliare l'universalità del conoscere e il valore della personalità umana individuale. La grande obiezione che S. Tommaso fa, dal punto di vista strettamente filosofico, alla dottrina d'Averroè, è appunto questa: posta l'unità dell' intelletto, come può esser vera la proposizione : « hic homo intelligit » ? "3 Alla fine del diibimn « utrum felicitas -^it deus >>, l'Achillini si domanda se l'uomo che in questa vita abbia avuto il pri- vilegio d'arrivare a congiungersi coli' intelletto agente come a sua forma, può perdere volente o nolente questa sua beati- tudine. La sua risposta è incerta e imbarazzata, anche perché concerne uno dei più scottanti problemi che, non molti anni dopo, sollevò gran clamore di dispute, voglio dire il problema dell' immortalità personale. Già S. Tommaso avea notato che, tolta tra gli uomini ogni diversità d' intelletto, ne segue che, dopo la morte, niente rimanga della coscienza indivi- duale'=4. L'averroista bolognese, pur ritenendo con Sigieri che r intelletto possibile è forma del corpo umano, e che nel suo atto d' intendere è essenzialmente legato ai fantasmi della cogitativa, pensa che all'eternità dell' intendere e della bea- titudine non sia necessario un legame col singolo, bastando il 122 ACHILLINI, fol. ig, col. 4. 1^3 Cfr. la mia introduzione a S. Tommaso, Trattato sull'ìtniià dell'in- telletto, pp. 43-50. 1-4 Tratt. sull'unità dell' intelL, § 2, p. 96. 220 l'aristotelismo PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI legame colla specie, la quale nella successione dei molteplici individui dura eterna: Testatur enim Aristoteles, quinto Ethicorum, capite 13: u Multa enim et natura existentium scientes et operamur et patimur, quorum nulluni neque voluntariuni neque involuntarium est, puta senescere vai mori ». Conditio enim suae naturae, quam scit esse mortalem, non patitur nolle, et quia mors non est finis neque bonum, 2 Physicotum, textu et commento 23, ideo non vult felix mortem. Neque desiderio naturali permanentiam sempiternam appetit in individuo, sed in specie, secundo De anima, comm. 34, et primo Physicoruni, comm. 81. Et propter hoc in proem.io octavi Physicorum dixit Commentator, fortunitatem ultimam esse se- cundum fatuos vitam aeternam. IMulta autem mala felicitas hominis compatitur, quae felicitati dei aut intelligentiarum re- pugnant. Est enim, inter veros felicitatis gradus, humanus intì- mus. Ideo, primo Ethicorum, capite 14: « Sapientem omnes exti- mamus fortunas decenter terre ». Felicitatem autem in alia vita, quam non potuerunt philosophi naturali ratione inquirere, theo- logis relinquimus considerandam 125. Il Pomponazzi, sebbene abbia dell' intelletto possibile un concetto così diverso da quello dell'Achillini, sul tema dell' im- mortalità personale è perfettamente d'accordo con lui: tranne che per il mantovano solo l' intelletto agente è veramente im- mortale per essere una sostanza separata, come volevano anche Temistio e gli averroisti ^'^. 5. - Visti quali sono i diversi gradi d' intelligenza, compresi fra la mente Prima che è puro atto e l' intelletto possibile che in sé è pura potenza, l'Achillini affronta il problema che s'era posto da principio, e cioè « utrum latitudo intellectuum sit uniformiter difformis ». Un siffatto problema era nato, come dicevamo, dal tentativo di applicare a misurare i gradi d' intensità dell' intelligenza il metodo delle calcidaiiones matematiche, che s'usa per misurare l' intensità delle quahtà materiali, come la velocità, il colore, la temperatura e via dicendo. Qualcosa di simile è stato tentato nella psicologia moderna per misurare l' intensità della sensazione ; e già 1*5 AcHiLLiNi, Quol. IV, dub. 2, fol. 17, col. I. 126 p Pomponazzi, De immortai . animae, cap. io. I e QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 221 Nicolò d' Oresme aveva esteso il metodo al calcolo del dolore e del piacere ^-7. Appiglio a porsi siffatto problema nei riguardi dell' intelli- genza dev'essere stato quel che si legge nel Liber de causis, che è un estratto della Elenientatio theologica di Proclo: In primis Intelligeiitiis est virtiis magna, quoniam sunt vehe- mentioris unitatis, quam Intelligentiae secundae universales inferiores; et in Intelligentiis secundis inferiores sunt virtules debiles, quoniam sunt minoris unitatis et pluris multiplicitatis. Quod est quia Intelligentiae quae sunt propinquae Uni puro, sunt maioris quantitatis et maioris virtutis; et Intelligentiae quae sunt longinquiores ab ipso, sunt minoris quantitatis et debilioris virtutis. Et quia Intelligentiae propinquae Uni puro sunt maioris quantitatis, accidit inde ut formae quae procedunt ex Intelli- gentiis primis procedant processione universali unita; et nos quidem abbreviamus et dicimus, quod formae quae veniunt ex Intelligentiis primis in secundas, sunt debilioris processionis et vehementioris separationis i-^. Allo stesso modo Alberto Magno: Omnes.... formae ab ipsa totius universitatis natura largiuntur; quo autem magis ab ea elongantur, eo magis nobilitatibus suis et bonitatibus privantur; et quo minus recedunt eo magis no- biles sunt et plures habent bonitatum potestates et virtutes 1^9. Siffatto modo d'esprimersi sembra fatto a posta per invo- gliare ad applicare il metodo del calcolo matematico all' in- telligenza. E l'Achillini, dopo essersi chiesto se la latitudo degli intelletti sia « uniformiter difformis », si pone altresì il quesito « utrum quarumcunque intelligentiarum perfectio at- tendatur penes appropinquationem summo ». Esula dall' in- tento che ci siamo proposti in questa ricerca, il seguirlo nella critica che egli fa della pretesa di stabihre un rapporto quanti- tativo fra i vari gradi d' intelligenza, e perciò ci hmitiamo a segnalare la soluzione negativa che egli dà dei due problemi, a chi avesse ancora in proposito delle fìsime del genere 13°. 127 A. Maier, An der Grenze, pp. 324-325; cfr. altresì a pp. 258-259. 128 Liber de causis, prop. X; cfr. Proclo, Institutio theologica, CLXXVII (l'opuscolo era stato tradotto in latino da Guglielmo di Moerbeke nel 1268, col titolo di Elenientatio theologica). "9 Alberto Magno, De intellectu et intelligibili, I, tr. i, e. 5. 130 ACHILLINI, Ouol. V, fol. 20, col. I-fol. 21, COl. 2. 222 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Dalle pagine che precedono sembra intanto potersi con- cludere che solo la prima Intelligenza è fonte di sapere e di luce intellettuale. S. Tommaso agli averriosti che dall'univer- salità del conoscere avevano preteso di dedurre l'unità del- l' intelletto per tutti gli uomini, obiettava che, se mai, se ne dovrebbe concludere, secondo il loro modo di vedere, « che debba esservi un solo intelletto non soltanto per tutti gli uomini, ma in tutto l'universo; sì che il nostro intelletto non è soltanto una qualsiasi sostanza separata, ma è Dio stesso «'ji. L'Aquinate aveva ragione. Né Sigieri e l'Achillini gli danno torto : che per essi Dio è l' intelletto agente che effettua sì nella mente umana sì nelle intelligenze celesti l'atto dell' in- tendere e s'unisce all'una e alle altre come forma, a tal segno da fare in qualche modo una sola sostanza con ciascuna di quelle. Soggetto assoluto di pensiero e sorgente d'ogni intelli- gibilità. Dio causa col suo intendere altri intelletti, nei quali l'atto dell' intender divino si particolarizza per gradi, fino all' intelletto della specie umana che, informando i vari corpi dotati di sensibilità, mentre comunica ad essi la sua superiore individualità spirituale, ne assume l' individualità contin- gente e caduca, per farla partecipe dell'atto divino del cono- scere. Si rileva altresì dalle pagine precedenti, che l' interpreta- zione sigeriana del pensiero aristotelico doveva apparire al- l'Achillini un' interpretazione organica, sistematica in tutti i suoi particolari, e sostanzialmente diversa da quella tomi- stica ispirata dal bisogno di abbreviare la distanza fra la « filo- sofia » e la fede, quasi che la fede non avesse in se stessa una filosofìa che la giustificava appieno. Liberi da questa preoccu- pazione apologetica, gli averroisti potevano discutere in piena indipendenza di spirito e con grande spregiudicatezza intorno a quello che era il genuino pensiero d'Aristotele, s'accordasse o non s'accordasse colla fede. Giustamente dice il Laurent, parlando del domenicano Bartolomeo Spina avversario del Pomponazzi : « Per lui che non ha subito l' influsso del rinnovamento che 1' Umanesimo ha introdotto nella teologia, affermare che Aristotele nega r immortalità dell'anima, equivale ad affermare che tale 131 S. Tommaso, Traci, de unit. intelL, ed. Keeler, § 107; cfr. la mia traduzione e relative note, Firenze, Sansoni, 1938. I « QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS » 223 dimostrazione è filosoficamente impossibile. Basta leggere alcune pagine del suo lavoro per rendersi conto dei principi che han diretto le sue critiche. Il vecchio binomio: Aristo- tele = Verità, è il sottinteso, starei per dire, d'ogni riga del suo volume.... Non bisogna perciò stupirsi delle invettive che lo Spina rovescia sui suoi avversari: i termini più virulenti ricorrono sotto la sua penna» n-. E la stessa osservazione il Laurent ripete a proposito del tomista del cinquecento, Fran- cesco Silvestri da Ferrara '33, Trasportiamo questa osservazione all' inizio della polemica averroistico-tomitica, e sarà finalmente chiarito il significato della così detta « teoria della duplice verità », della quale qualche storico della filosofia s' è scandalizzato anche più di quel che non abbian fatto nel passato gì' inquisitori del- l'eretica pravità, talora, se non sempre, meno irragionevoli di certi storici della filosofia '34. Che l'aver rivendicato il diritto alla libertà della ricerca storica nell' interpretazione del pen- siero aristotehco, prima che all' influsso dell'umanesimo, si deve all'averroismo. E anche in questo l'Achillini è buon discepolo di Sigieri, nel tenere cioè costantemente distinto il pensiero del Filosofo dalla verità della fede. La quale, forse, ha subito maggior danno che non van- taggio dall' impegno che taluni hanno messo a mostrarne la troppo intima aderenza ad un particolare sistema filosofico. 132 M.-H. Laurent, Le Commentaire de Cajétan sur le « De anima », in principio a Thomas De Vio Cardinalis Caietanus, Scripta Philo- sophica: Comment. in De anima Aristotelis, ed. l. Coquelle, voi. I, Roma, Angeliciim, 1938, p. XLIII. 133 Ih., p. XLIX. 134 Intorno al significato storico della dottrina della « doppia verità », si veda quel che ne ha scritto il Gilson, Études de philosophie medievale, Strasbourg, 1921, pp. 51-75; Dante et la philosophie, Paris, IQ39, pp. 258 sgg. ; cfr. (:ui sopra, pp. 55-58, ji-j^, 95- )8, e il mio volume Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, 1949, pp. 207-211, nonché 1' in- troduzione a S. Tommaso, Trattato sull'unità dell' intelletto, pp. 82-83. IX APPUNTI SULL'AVERROISTA BOLOGNESE ALESSANDRO ACHILLINI * Quando, un decennio fa, ebbi ad occuparmi dell'avver- roista bolognese Alessandro Achillini, lo feci unicamente per i suoi Quoliheta de intelligentiis e per le tracce evidenti in essi di dottrine sigieriane i. Ma per il momento non mi detti cura di far ricerche sul curricolo della sua vita, bastandomi la data del 1494, quando i Quoliheta furono disputati nel capitolo generale dei frati minori tenuto quell'anno a Bologna e per l'occasione stampati. Successivamente ho raccolto alcuni dati biografici che credo utile far conoscere a chi voglia occuparsi a fondo di questo non comune maestro bolognese, tenuto ai suoi tempi in altissima considerazione, e degno anc'oggi d'esser ricordato sotto diversi aspetti. I. - Secondo le notizie raccolte da Serafino Mazzetti, di solito accurato e preciso, nel suo Repertorio di tutti i professori antichi e moderni della famosa università.... di Bologna 2, A. Achillini, figlio di Claudio che dicesi fosse oriundo di Bar- berino in Val d' Elsa 3, e coprì più volte cariche pubbliche, sarebbe nato a Bologna il 20 ottobre 1463. Questa data presa dal Tractatus astrologicus di Luca Gaurico, non sempre bene informato, dovrebbe però essere anticipata di due anni se- * Dal « Giorn. Crit. d. Filos. Ital. », XXXIII, 1954, PP- 67-108. 1 B. Nardi, Sig. di Brab. nel pensiero del Rinascimento italiano, Roma, 1945, pp. 45-90 (vedi saggio precedente). 2 Bologna, 1848, n. 15, p. 11. • 3 B. Carrati, Genealogie di famiglie nob. bolognesi, Bologna, Ar- chiginnasio, Ms. B. 699, tav. 2. 15 226 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI condo la cifra degli anni ch'egli aveva quando venne a morte il 2 agosto 1512, quale si trova nell'elogio che di lui si legge nel Libro segreto del Collegio delle Arti e di Medicina e che riferiremo più giù. Ma la cifra di XXXXXI anni è corretta su rasura e con altro inchiostro. Inoltre il fratello Giovanni Fi- loteo Achillini, nel suo Viridario 4, compiuto nel 1504, ci assi- cura che Alessandro, in quell'anno, in cui egli stava scrivendo il X canto del poema, aveva varcato d'un lustro « il mezzo ca- min )) della vita. Parrebbe dunque che il Gaurico avesse ragione. 11 Mazzetti inoltre e' informa che fu laureato in filosofìa e medicina il 7 settembre 1484, e che lo stesso anno cominciò a insegnar logica a Bologna, nel quale insegnamento durò fino al 1487. L'anno innanzi, a 23 anni d'età, era stato ritratto da Francesco Francia ^. Dall'autunno 1487 all'estate del 1494, insegnò filosofìa; dall'autunno 1494 all'estate del 1497 passò a medicina; ma dal novembre 1497 all'ottobre 1506 resse en- trambe le cattedre, cosa non comune, spiegabile solo col fa- vore di cui godeva presso i colleghi e presso i Bentivoglio dei quali fu sempre caldo fautore. D'un insegnamento tenuto dal- l'Achillini a Padova, prima di questo momento, non mi pare dunque si possa parlare. Il Gaurico accenna anche ad un soggiorno abbastanza lungo dell' Achillini a Parigi, del quale purtroppo non abbiamo altra testimonianza, e d'altra parte non si riesce a trovare un periodo della sua vita nel quale collocarlo. A Bologna ebbe sicuramente ad alunno il bolognese Tiberio Bacilieri o de Bazaleriis, il quale fu approvato « in artibus )> il lunedì 3 luglio 1492 ^ e « in artibus et medicina » il 4 febbraio 1496, « nemine discrepante ». Fra i promotori al dottorato era l'Achillini che « dedit insignia » al neo dottore 7. Il 9 di- cembre 1499, il Bacilieri fu aggregato in sopranumero ai col- 4 II Viridario di Gioanne Philotheo secondo figliolo di Claudio Achillino Bolognese. Impresso in Bologna per Hieronymo di Plato Bo- lognese, nel M.D.XIII. Sotto la f. m. di N. S. Leone Decimo, 24 di- cembre. Dedica al Papa. Fol. 184 v sg. I vv. che riguardano Alessandro son riportati più giii, p. 251. 5 II disegno del Francia è posseduto dagli Uffizi di Firenze. Fotogr. Alinari, più volte riprodotta. Se l'Ach. era nato nel 1463, il disegno è del i486; se no, di qualche anno prima. 6 Libro Segreto del Collegio [delle Arti e della Medicina']: dall'anno- 1481 al 1500 (Bologna, Archivio di Stato, busta 217); f. 91 r. Dal libro dei Partiti. XI, f. 902, 24 die. 1493 (Arch. di Stato), risulta che il Baci- lieri riscuoteva già 100 lire bolognesi annue «prò stipendio lecture ».. 7 Ib.. f. 41 r. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 227 legi bolognesi delle arti e della medicina ^. Ma non era passato un anno dalla sua aggregazione, che fu sospeso per un quin- quennio dall'uno e dall'altro collegio, con decisione del 9 luglio 1500 confermata cinque giorni dopo, « propter nonnulla demerita et facinora.... facta et commissa ». Fra questi « fa- cinora » pare fossero anche « parole ignominiose e turpi » nei riguardi dei suoi colleghi. La punizione fu inflitta con otto fave bianche contro una nera. Fra i votanti era anche l'Achillini 9. Questa la ragione perché il Bacilieri proprio in quest'anno dovette lasciar Bologna, e recarsi a Padova 'o, e quindi a Pavia ove rappresentò l'averroismo della corrente sigieriana che aveva assimilato alla scuola dell' Achillini". Il i» ottobre 1505, scaduto il quinquennio della sospensione, egli fu riammesso a far parte dell'uno e dell'altro collegio, per unanime consenso, senza che ci fosse bisogno di porre ai voti la proposta '-. I Quolibeta de intelligentiis, preparati per la disputa del 1494, rappresentano dunque il pensiero filosofico dell'Achil- lini nel primo periodo del suo insegnamento della filosofia naturale prima che passasse all' insegnamento della medi- cinateorica. In quest'opera, come ormai sappiamoci, si ritrovano, inserite negli schemi del metodo calcolatorio, divenuto di moda anche a Bologna come a Padova, tutte le tesi fonda- mentali dell'averroismo, concernenti Dio, le altre intelligenze separate, e in particolare l' intelletto possibile e la copulatio di questo con 1' intelletto agente; tesi tutte, specialmente quelle riguardanti l' intelletto umano, desunte dai tre scritti di Si- gieri, che, secondo l'attestazione del Nifo, si leggevano ancora alla fine del secolo XV. Ma qui accade di doverci porre un piccolo problema. Nessun dubbio sulla data di pubblicazione dei Qnolibeta dell'Achil- lini, che nel 1494, trentunenne, si esibiva campione della dottrina sigieriana in una pubblica disputa alla quale erano intervenuti dotti di varie tendenze. È per caso in questa cir- costanza che Giovanni Pico e il Nifo si trovarono a far viaggio 8 Ib., f. 54 r- 9 Ib., f. 57r-v; ff. 59 r-62 v. 'o V. sotto, p. 288. " Cfr. il mio Sigieri, cit., pp. 132-152. '^ Libro Segreto, cit.; n. 3, dall'anno 1504 a tutto il 1575, f. 4 r. '3 Cfr. saggio prec. 228 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI insieme, diretti a Bologna, disputando tra loro come l'unità del- l'intelletto potesse conciliarsi con l' individualità e la sopravvi- venza dell'anima del singolo '4? Il Nifo ci fa sapere di essere stato averroista sigieriano prima del 1492, e pretende d'aver composto nell'estate di quest'anno, poco più che ventunenne, il Tractatus de intellectu nel quale la dottrina sigieriana è combattuta. Ho già espresso piìi volte i miei dubbi sulla veri- dicità del Nifo, il quale aveva troppo interesse ad acconciare il racconto della sua vita in modo da meritarsi le grazie del vescovo di Padova, Pietro Barozzi^S. Il piccolo problema che vorrei porre, e che non sono in grado di risolvere, è questo: chi portò a Padova o a Bologna gli scritti di Sigieri ricordati dal Nifo ? Fu Paolo Veneto che certamente dimorò a Oxford e a Parigi ? Fu Giovanni Pico ? Fu l'Achillini stesso, se mai fosse vero, come pretende il Gaurico, che anch'egli soggiornò a Parigi ? Del resto, gli scambi fra le due università italiane e quella parigina erano frequenti, e, come sappiamo di fran- cesi che durante il Quattro e il Cinquecento erano venuti a studiare a Padova e a Bologna, sappiamo del pari che Pietro e Lorenzo Pasqualigo, patrizi veneziani, erano stati a studio a Parigi, e il primo anzi nel 1494 vi aveva sostenuto, ventiduenne, ben due mila conclusioni i^. 2. - Nell'estate del 1498, quando all' insegnamento della medicina teorica aveva riunito quello della filosofìa naturale, l'AchilUni fece stampare la sua seconda opera De orhihus in quattro libri '7. Nel primo libro ritroviamo tutte le grandi tesi della fisica celeste di Aristotele, nella più rigida interpre- tazione averroistica, fino al punto che è ritenuta assurda la teoria tolemaica degli eccentrici e degli epicicli, che aveva 14 A. Nifo, In libriim Destvuctio Destructionum Averrois comment., I, dub. 8; cfr. ib., IV, dub. 7; cfr. sotto, pp. 31Q, 376-77 e 451. 15 V. sopra, pp. 101-102 e sotto, p. 311, n. 52. 16 V. sotto, p. 289. 17 « Hoc secundum opus in quatuor libros divido ». Il che esclude l'esistenza di quel trattato De proportionibiis niotuum, che secondo lo Hain, n. 71, sarebbe stato stampato a Bologna « per Benedictum Hecto- ris 1494 ». Questo trattato, composto più tardi, usci postumo, come diremo più giù, nel 15 15. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 229 SÌ il grande merito di salvare le apparenze dei moti planetari assai meglio che non la teoria delle sfere concentriche, ma che mal si conciliava coi principi della fisica aristotelica. E l'Achil- lini, come in generale tutti gli averroisti, ci teneva alla fedeltà ai testi che egli s'era assunto l' impegno di esporre. Nel se- condo libro di quest'opera si parla invece delle intelligenze motrici, cioè di Dio, primo motore immobile, e quindi dei motori preposti al governo di ciascun cielo. A questo punto il maestro bolognese si chiede se, oltre alle inteUigenze separate, esistano altresì dei dèmoni. La credenza nei dèmoni e nelle loro opere prodigiose non era diffusa, alla fine del Quattro- cento, soltanto nel popolino, ma anche nei ceti colti, presso i quali la demonologia cristiana era rincalzata da quella neo- platonica. L'Achillini nel suo rigido averroismo non sa con esattezza ove collocare siffatte nature ibride, di spiriti imbe- stiati, e quale funzione propriamente assegnare ad esse. Am- messa per fede, l'esistenza dei dèmoni è relegata tra le opi- nioni volgari i8. E quanto ai fatti meravigliosi che ad essi vengono attribuiti, il bolognese è d'avviso si possano spiegare con l'arte umana o per mezzo di cause naturaH, a dir vero, non meno meravigliose, come farà più tardi il Pomponazzi, e come aveva fatto molto prima Pietro d'Abano. Dopo questa parentesi, egli torna a parlare dell' immuta- bilità di Dio, ingenerabile, incorruttibile, inalterabile, non soggetto a movimento locale né a mutamento di pensiero, poiché tutto atto senza potenza. Di questa divina immuta- bihtà partecipano anche le altre intelligenze celesti, sebbene in queste sia qualche potenzialità, in quanto ogni intelUgenza di sotto subisce l'azione di quella di sopra, sì che questa è intelletto agente per rapporto a quella che vien dopo, e quella che vien dopo può dirsi intelletto possibile per rapporto alla precedente, come già sapevamo dai Qiioliheia de intelligentiis '9. Primo intelletto agente che immediatamente o mediatamente informa di sé tutte le intelligenze inferiori, è Dio. Ma le intel- Ugenze inferiori sono informate da quelle di sopra senza su- bire cangiamento nel tempo, bensì con atto eterno, che fa i8 De orbibus, II, diib. i, fol. 37 rb (secondo l'edizione degli Opera omnia, curata da Panfilo Monti, Venezia, 1545, alla quale per comodità mi richiamo) . '9 Ib., dub. 2, Secundo principaliter, Septimum dictum, fol. 39 va. Cfr. Qiiol. de intell., V, dub. 3, f. 18 rb; e qui sopra, pp. 197-198 e 217. 230 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI dire talora ad Averroè che esse sono atti puri senza potenza, cioè puro intendere senza mutamento. Ultima delle intelligenze è l' intelletto umano che propria- mente si disse possibile o potenziale, poiché non ha altra na- tura che quella di essere in potenza. Questo intelletto, unico per tutta la specie umana e forma che dà all'uomo il suo essere specifico di uomo, non passa dalla potenza all'atto del cono- scere se non è coadiuvato dall'esperienza sensibile. In quanto passa dal non conoscere al conoscere le cose del mondo sen- sibile, che sono il suo oggetto proprio, esso è soggetto a mu- tamento o alterazione. Questa alterazione era intesa comu- nemente come modificazione dell' intelletto stesso ad opera delle specie intelligibili o rappresentazioni in esso delle cose conosciute. L'Achillini respinge questa teoria, appoggiandosi a un famoso testo del VII della Fisica aristotelica -o, che aveva già richiamato l'attenzione d'Averroè, e coglie l'occasione per ribadire un concetto già da lui affermato alla fine del terzo Qttolib. de iìitelligentiis -i. Aristotele aveva detto che nella parte intellettiva dell'anima non si dà né generazione né alterazione vera e propria: l'atto conoscitivo non importa un mutamento qualitativo intrinseco all' intelletto, ma una semplice variazione del rapporto fra questo e le forme del mondo sensibile che la mente conosce in sé stesse senza bi- sogno che una rappresentazione o « specie intelligibile », di- stinta dalla realtà conosciuta e dal soggetto conoscente, venga a inserirsi fra l'una e l'altro. Un mutamento qualitativo e intrinseco subiscono invece le facoltà sensitive e con esse la cogitativa, cui l' intelletto s'unisce nell'atto d'apprendere le forme del mondo sensibile. L' intelletto in sé stesso è immu- tabile, come i principi logici e come le forme a priori di Kant; senza di che nessun giudizio certo sarebbe possibile; il muta- mento e l'alterazione sono soltanto nel contenuto del cono- scere, e soltanto per denominazione estrinseca s' attribuiscono all' intelletto. Perciò l'Achillini distingue con Sigieri l' intel- letto dall'anima razionale: quello è unico in sé stesso per tutta la specie umana; questa invece, risultando dall'unione del- l' intelletto con la cogitativa, è individuale al pari di quest'ul- tima e diversa in ogni uomo; e a questa, propriamente, e non -° T. e. 20, e. 3, 247 b I sgg. -^ Diib. 3, f. 13 ra: Hic aliquantulum morabimur. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 23 1 a quello, spetta la funzione raziocinativa e discorsiva, consi- stente appunto nell'applicazione delle immutabili forme del pensiero alla mutevole esperienza sensibile. Merito dell' Achil- lini è appunto questo, che a lui spetta per altro in quanto ha ripreso un motivo di alcuni pensatori della prima metà del secolo XIV --, d'aver capito che la dottrina delle specie intelligibili finisce per offuscare la conoscenza della realtà, ricacciata al di là della rappresentazione che attua il soggetto conoscente. L'atto conoscitivo è possibile solo in quanto il reale conosciuto è presente per se stesso al soggetto che l'ap- prende. Vero è che, per l'Achillini, le cose del mondo fisico hanno un « esse reale » fuori del soggetto che le pensa, e non possono essere in questo se non per il loro « esse intentionale »; di guisa che lo sdoppiamento fra realtà in quanto appresa e realtà in sé risorge e rende plausibili le obiezioni che altri aristotelici e averroisti ebbero a rivolgere al filosofo bolognese. E primi fra tutti il Pomponazzi e Marcantonio Zimara. Il Pomponazzi si dichiarò « contra modernos pedagogos, qui tenent secundum Averroem quod intellectus possibilis nihil de novo recipit », fin dal 1500, mentre commentava a Padova il De anima -3. I «moderni pedagoghi» dai quali dissentiva erano il Nifo, l'Achillini e il suo fido Achate, Tiberio Bacilieri, che, per le ragioni accennate più su, era diventato collega del mantovano nello studio patavino. Questo è confermato da una nota in margine al codice napoletano che ci ha tramandato il commento del Peretto: « Nota contra socios Achillinum Tybe- riumque bononienses » -4. Più tardi, mentre commentava a Padova la stessa opera aristotelica, nel corso dell'anno scola- stico 1504-1505, il maestro mantovano dedicò una quaestio speciale a esporre e combattere « opinionem noviter repertam quae tenet nullo pacto dari species intelligibiles ». Veramente questa opinione non era proprio « noviter reperta », come 22 Vedasi il mio libretto Soggetto e oggetto del conoscere nella filosofia antica e medievale, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1952, pp. 25-55. 23 Bibl. Naz. di Napoli, mss. Vili. D. 81, f. 52 r, e Vili. E 42, f. 195 r. -4 Ib. La nota nel ms. napoletano Vili. D. 81, f. 52 r parrebbe di mano di Antonio Surian che trascrisse il testo della riportazione, di cui forse è autore quel Marco da Otranto che è Marcantonio Zimara, il quale ne avrebbe fatto copia a Basilio Troiano e questi a Gian Bene- detto Caravegi da Crema, dal quale l'ebbe il Surian {ib., f. 76 r). 232 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI del resto ben sapeva il Pomponazzi ^s; ma nuova poteva sem- brare per il modo come la presentavano e per il vigore col quale la difendevano i due «pedagoghi» bolognesi. Ma nuova o no, il Peretto non esitava a giudicarla « abominevole, fatua e bestiale » : Et dico primo quod opinio ista est abominabilis, fatua et be- stialis et nihil boni ab ea potest capi. Ego enim nihil intelbgo de opinione ista. Isti contra se adducunt duo miUia auctoritatum et totam ecclesiam doctorum, ipsosque glosantes totaliter dilaniant et lacerant. Vide in scriptis suis ~^. Che il mantovano non avesse presa per il suo verso e non avesse capito l'opinione d'Averroè e dell' Achilhni, non è da stupire, dato l'orientamento del suo pensiero quale doveva rivelarsi anche meglio in seguito. Così anche nell'esposizione del VII della Fisica, fatta a Bologna nell'anno scolastico 15 17-15 18, giunto al commento del testo 20, sul quale si fon- davano gli averroisti della corrente dell'Achillini, torna a ripetere : Ista est pars dignissima in qua aut ego erro aut omnes aiii maxime erraverunt; sed credo quod potius iUi decipiantur quam ego; sed in hoc constituam vos iudices. In ista ergo parte commen- tator ponit unum documentum, ex quo traxit Burleus, quod est de mente commentatoris, cum anima sit unica in omnibus hominibus, ipsam nihil capere {ins capit) de novo, ncque acquirere [ms aquirit) scientiam per species de novo advenientes, sed scientia est substantia animae. Et non possum [non] mirari de istis mo- dernis, qui faciunt se inventores et autores huius viae, cum vi- deant Burleum ante se de hoc iam expresse loqui. Imo, ante Burleum Henricus de Gandavo tenuit hoc idem esse de mente commentatoris; et etiam Thomas ascribit hoc commentatori, Hcet propter aham rationem 27. Non meno aspro, contro l' interpretazione che l'Achillini aveva sostenuta del pensiero d'Averroè, è il giudizio di Mar- 1 25 Infatti nel ms. napoletano Vili, E. 42, f. 1951, si legge: «Pro quo, domini, debetis scire quod insurgit nova phylosophia, immo an- tique; quare Burleum videatis: expresse super textu commenti 2oi septimi physicorum dicit intellectum speculativum esse eternum et non dari species intelligibiles commentatoris; hec etiam tenet augustinus sessa, Alexander Achylinus et multi alii insequentes i tos.... ». 26 Ms. napol. VIII. D. 31, f. 83 r. 27 In VII de phys. auditu, Bibl. Nation. di Parigi, ms. lat. 6533, f. Jj 330 r (ad t. e. 20); cfr. ms. 45 della Biblioteca del Collegio Campana di 9 Osimo, f. 201 V. i APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 233 c'antonio Zimara da Otranto, in una sua quaestio « Utrum ad mentem Averroys intellectus possibilis recipiat species intelligibiles subiective ». Esposta e criticata la dottrina del- l'Achillini, della quale vorrebbe far rilevare l'assurdità dal punto di vista aristotelico ed averroistico, egli conclude: Et in veritate opinio istius hominis adeo est erronea, ut me pudeat amplius arguere centra ipsvim. Ipse enim ignorat adhuc quomodo forma materialis generatur. Item habet fateri quod formae materiales secnndum suum esse formale accipiantur in sensibus interioribus, quia non est maior ratio quare in intellectu possibili materiales formae sint secundum esse formale, et non in ipsa cogitativa et imaginativa. Quantum autem ista sint incon- venientia, non solum sapientibus, sed etiam yulgaribus sunt novissima [1. notissima]. Unde licet mihi dicere de isto homine, quod dixit commentator de Avicenna, in tertio Celi, comm. 67, quod videlicet parvitas exercitationis ipsius viri in naturalibus et bona confidentia in proprio ingenio deduxit ipsum ad maximos errores^S. A risolvere le obiezioni mosse alla tesi dell'Achillini bisogna tener costantemente presente la distinzione fra anima razio- nale e intelletto in sé. L' intelletto possibile, in sé considerato e in quanto unico per tutta la specie umana, non è modificato da alcuna rappresentazione che gli venga dal mondo sensibile. Invece, in quanto unito alla cogitativa individuale di Socrate e di Calila, con la quale forma l'anima razionale composta di ciascuno individuo umano, esso è certamente soggetto a mu- tazione e ad alterazione, non per il mutare di qualcosa in esso, ma per il mutare dell' immagine sensibile che è nella cogitativa cui è unito. Che se l'Achillini dice l' intelletto pos- sibile pura e nuda potenza senz'atto di sorta, prima dell'atto d' intendere, questo va inteso per rapporto all' intelletto -8 M. A. Zimara de sancto Petro de Galatinis Terrae Hj^drunti, ar- tium doctoris, Quaestio qua species intelligibiles ad mentem Averrois defenduntur ad Magnificum patritium \'enetum Antonium Surianum; s. 1., a cura di Francesco Storella, pridie idus lanuarii 1554. La stessa « quaestio » fu pubblicata dal francescano Girolamo Girelli, professore di teologia nello studio di Padova, in principio del suo Tractatus adversus quaestionem M. A. Zimarae de speciebus intelligibilibus ad mentem an- tiqiioritm Averrois praesertim. Venetiis, 1561. Il passo riportato è al f . 7 V. Il Girelli, che aveva studiato a Padova, ov'era stato alunno del Pomponazzi, cita l'Achillini (f. 23 r e 26 v), ma si rifa specialmente a Enrico di Gand e al carmelitano inglese Giovanni di Baconthorpe, noti avversari delle «species intelligibiles». V. sotto, p. 328. 234 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI agente che è tutto atto senza potenza ed è la scienza in atto, al cui possesso tende l' intelletto possibile. Il III libro del De orhihus s'apre col settimo dubbio del- l'opera: « an intelligentia sit forma dans esse caelo ». Anche su quest'argomento l'Achillini si sforza di mantenersi fedele ad Averroè: ogni cielo è composto di materia e di forma; il corpo sferico di esso è la materia, l' intelligenza motrice è la sua forma. Per questa unione ciascun cielo è un animale vi- vente, non di vita vegetativa o sensitiva, come pretendeva Avicenna, ma di vita intellettuale. Le sfere celesti sono perciò quegli animali immortali ed eterni di cui parlano Aristotele nel IV' dei Topici -9 e Porfirio nella sua Isagoge alle Categorie 3°. Animali viventi di vita intellettuale, l'atto dell' intendere e del volere si predica dei cieli, di cui le intelligenze son forme sostanziali, a quel modo che si predica dell'uomo di cui è forma sostanziale l' intelletto possibile, che è l' infima delle intelligenze separate. Sebbene i corpi celesti siano dotati di spazialità e di movi- mento al pari dei corpi del mondo inferiore, essi son « corpi spirituali », immuni da composizione di materia e di forma, poiché il loro essere è costituito dall'unione immediata con la propria intelligenza. Questo concetto averroistico di una « cor- poreità spirituale e immateriale», che piacque anche al Ficinosi, fu oggetto di lunghe controversie fra gli averroisti e le altre scuole aristoteliche, e fra gli averroisti stessi. Dio è la prima delle intelligenze separate; e come ognuna di queste è forma sostanziale del proprio cielo, ch'essa avviva di vita intellettuale e a cui imprime movimento, così anche Dioè forma sostanziale del primo cielo mobile al quale, insieme al primo moto, imprime la propria perfezione intellettuale 3^ Con ciò il bolognese non fa che sviluppare un concetto già chiaro nella sua precedente opera, Quol. de intelligentiis, I, dub. 2. L' idea di Dio, quale emerge da siffatto modo di ve- dere, è r idea di un Dio strettamente legato al mondo finito ^9 Arist., Top., IV, e. 2, i22b 14: tcov ^cóoiv xà jjièv ■8-VY]Tà xà •^'à-B-àvaTa. 30 Porfirio, Isagoge et in Arist. Categor. comni. ed. A. Busse, nei Commentaria in Arist. graeca, voi. IV, De differentia, p. io, 11 sgg. 31 Argmn. in Platon. Theol. ad Laurent. Medicen [in Opera, Basilea, 1561, t. I, Epist. lib. II, p. 707). 3- De orbibìts, III, dub. i, f. 47 rb-vb. i APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 235 di Aristotele, come forma e motore non mosso della prima sfera celeste, e anima del primo « corpo spirituale » che contiene e racchiude entro di sé le altre sfere animate e immortali, fino al cielo lunare, che racchiude nella sua concavità la « sphaera activorum et passivorum », ossia i quattro elementi e quelle cose che, sotto r influenza celeste, «di lor si fanno». Forma e motore di un mondo finito, è evidente che di siffatto Dio non si può dimostrare l' infinità né l'onnipotenza né la libera azione creatrice. Del resto, per ciò che concerne l'animazione dei cieli, v'erano teologi disposti ad ammetterla. L'Achillini lo sa bene; ma os- serva che da parte dei teologi esistono difficoltà non facilmente superabili ad accogliere simile teoria. Per essi, infatti. Dio creò le intelligenze « in statu merendi et demerendi ; viatrices enim aliquantulum fuerunt », durante quella « morula » con- cessa loro da Dio per potere scegliere liberamente il bene o il male 33. Ora che cosa sarebbe accaduto se l'anima del primo cielo avesse peccato ? Il primo cielo sarebbe stato dannato. Eppure esso avrebbe dovuto accogliere i beati, a meno che Dio non avesse preparato per sé e per i santi un altro luogo più adatto, o che non avesse predestinato l' intelligenza di quel cielo alla beatitudine eterna ! Ma il maestro bolognese taglia corto su questo e altri problemi sottili e imbarazzanti: per lui, secondo la verità della fede, non può ammettersi che Dio sia unito come forma ad un cielo; ciò ripugna alla sua infinità e al potere che ha di trarre le cose dal nulla 34. Tutto questo, per altro, riguarda i teologi e non la filosofia, se per filosofia s' ha da intendere, come quasi tutti allora in- tendevano, il sistema aristotelico della natura, cosa che non tutti gli storici della filosofia han sempre avvertito. E problema tutto teologico è quello discusso nel dubbio ottavo dell'opera, che è il 2° del terzo libro, intorno alla crea- zione dal niente e al cominciamento o novitas del mondo nel tempo. In oltre venti fittissime e uniformi colonne in-folio, interrotte da appena due capoversi, la dottrina teologica della creazione del mondo nel tempo è sottoposta ad una serrata e minutissima critica che ne dimostra l' inconciliabilità coi 33 Cfr. Dante, Par., XXIX, 49-51. 34 De orb., f. 47 vb. 236 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI principi più Certi della metafisica aristotelica 35, per termi- nare, al solito, dopo tanto sforzo, con questa dichiarazione: « Tenendum est autem deum creasse mundum et non ab aeterno, et ab aeterno ipsum potuisse creare.... »! 36. Segue il nono quesito o dubbio, « utrum caelum sit finitae magnitudinis in actu », intorno al quale l'Achillini, fedele ad Aristotele e ad Averroè, mostra di non tenere in alcun conto il tentativo fatto da alcuni teologi del secolo XIV, di dedurre la possibilità d'un universo infinito dalla infinità e onnipotenza di Dio; che anzi dalla limitatezza del- l'universo aristotelico egli è condotto a limitare la potenza divina. Perciò egli si contenta di osservare : « Quod si theo- logus concedat deum posse lacere corpus infinitum, oportet ipsum dicere has difiìnitiones quantitatum non esse diffini- tiones absolute, sed quantitatum finitarum, quemadmodum oportet ipsum concedere, quod acquale vel inacquale non est passio quantitatis, sed est passio propria quantitatis finitae » 37 ; nel che consentono appieno il Cusano e il Bruno. Nel decimo quesito col quale si conclude il terzo libro, il maestro bolognese esclude la possibilità di altri mondi fuori di quello descritto da Aristotele, che ha per centro la terra e per limite la convessità della prima sfera di cui è forma so- stanziale Dio stesso. Anche nel quarto libro troviamo ribadite le grandi tesi del- l'aristotelismo averroistico intorno alla natura celeste presa nel suo complesso. Sferico è il cielo, perché corpo perfettissim.o cui non può competere se non la perfettissima delle figure geometriche, qual è appunto la sferica 38. Ed è formato di natura luminosa che consegue alla luce intellettuale dell' in- telligenza che l'anima e lo muove, diminuendo d' intensità giù giù, di grado in grado, fino alla sfera lunare, la cui lumino- sità propria è appena percettibile nelle ecclissi di luna 39. Ampio sviluppo maestro Alessandro dà al quesito concernente l'eter- nità del moto celeste, connesso con quello dell'eternità del mondo e dibattutissimo insieme a questo, nei commenti al- 35 Ib., f. 5irb: «ad quartum, stando in principiis philosophorum, rationes militant; sed negatis eorum principiis, tiinc cessai disputatio ». 36 Ib., i. 52ra. 37 Ib., f. 52ra. 38 Ib., IV, dub. I, f. 54ra-vb. 49 Ib., dub. 2, f. 54vb-55rb. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 237 l'ottavo della Fisica 4°. Circolare ed eterno, il moto delle sfere celesti riflette l'eterna circolarità del pensiero delle intelli- genze motrici: « Quia igitur intellectio intelligentiae exit ab intelligente et revertitur super idem ut intellectum est, ideo intellectio est principium motus circularis, quoniam in cir- culo exit corpus ab a, ut a principio, et revertitur in idem a, ut in terminum, per arcum circuii»! 41. L'ultimo quesito del De orèzèiis, concerne l' influenza celeste sul mondo infralunare. In nessun'altra trattazione quanto in questa dell'Achillini appare evidente come le dottrine astrologiche sull' influenza dei cieli avevano finito per pren- dere consistenza metafisica nel sistema aristotelico della na- tura, nel quale le sfere celesti, coi loro motori intellettuali, e il mondo elementare, contenuto nel concavo dell'orbe lu- nare, son solidali e quasi direi complementari fra loro, legati come sono da un legame di causalità 42. « Si caelum staret, ignis in stupam non ageret, quia Deus non esset », suonava una proposizione condannata dal vescovo di Parigi nel 1277 43. E l'Achillini: se il movimento celeste s'arrestasse, non solo il fuoco non s'apprenderebbe alla stoppa e allo zolfo, ma addi- rittura « tunc non essent ignis, stupa aut sulfur»; e ciò per la ragione « quod in primo instanti quietis caeli resolverentur omnia inferiora in materiam primam, quia desineret caelum esse conservans interiora...; aut in nihil omnia redirent. Ideo supra dictum est, quam repugnat naturae vacuum, aut materiam esse sine forma, tam repugnat caelum quiescere. Ideo Aver- roes, 12. Mataphysicae, comm. 41, auctoritate Aristotelis, 9. Meìaph., [t.J e. 16, [e. 8, io5ob 22 sgg.) : ' Non est timendum caelum quiescere ' 44. Meno male ! Ma nel trattare della causalità che il mondo celeste esercita su tutte le cose del mondo inferiore, il bolognese è indotto a porsi il problema della libertà umana. Sigieri45 e Giovanni di 40 Ib., dub. 3, f. 55rb-57ra. 41 Ib., dub. 4, f. 57ra-vb. 42 Su questo legame fra il cielo e il mondo inferiore, cfr. Averroè, De caelo, I, comm. 22; Aristotele, Meteor., I, e. i, 338b 22; e. 2, 339* 21 sgg. 43 Denifle e Chatelain, Chart. Univers. Paris., 1, p. 552. Cfr. «Giorn. Crit. d. Filos. Ital. », XXIX, 1951, p. 379. 44 De orb., IV, dub. 5, f. 59rb. 45 Cfr. F. Van Steenberghen, Sig. de Brab. d'après ses oeuvres inédites, voi. II, Siger dans l' hist. de l'Aristotélisme, nella collez. Les philosophes belges, t. XIII, Louvain, 1942, pp. 624 e 663-665. 238 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Jandun 46 se l'eran posto assai prima, e l'avevan risolto allo stesso modo. L' influenza dei corpi celesti non s'esercita in modo diretto se non sui corpi infralunari. Sull' intelletto e la volontà umana questa influenza non s'esercita se non indiretta- mente, nella misura che lo spirito umano è legato al corpo. Ma per se stessa quest' influenza non s'esercita sull'atto del giudicare e del volere, che può resistere ad ogni influenza indiretta. Ora la nostra libertà trae origine dal giudizio della ragione, che per sé è immune da ogni diretto influsso celeste. Al qual proposito l'Achillini coglie l'occasione per chiarire l'equivoco che nasce dal confondere la libertà umana con la contingenza, la quale nel linguaggio aristotelico è ben altra cosa. La libertà è propria del giudizio che non è determinato dall'oggetto appreso; la contingenza deriva invece da indi- sposizione della materia « che a risponder molte volte è sorda »; la prima è propria dell'uomo; la seconda spazia in tutta la natura sublunare, ove l' impronta del suggello celeste è osta- colata dalla cera mortale 47, Ma anche in questo l'Achillini non dice niente di nuovo. Lo stesso concetto della libertà, più che svolto, è appena ac- cennato. 3. - Poco dopo la pubblicazione del De orbi bus a mezzo della stampa, il maestro bolognese preparava l'edizione di alcuni rari opuscoli pseudo aristotelici insieme ad altre cose non meno rare, fra le quali egli inserì anche un suo trattatello De univer- salibus, la cui composizione è probabile risalga agli anni in cui leggeva logica fra il 1484 e il 1487. Nacque così l'Opus septisegmentatum stampato nel 1501, a spese dell'editore 46 Phys., vili, q. 6. 47 De orb., 1. e, f. 58vb: « Ex potentiali in genere intelligibilium na- scitur libertas, sed ex potentiali in genere sensibilium nascitur contin- gentia. Hoc voluit Philosophus, 6. Metaph., textu comm. 5, in transla- tione graeca: quare materia erit causa praeterquam ut in pluribus aliter accidentis.... Quod igitur dixi in primo opere, Quolibeto [de in- telligeutiis] primo, [dub. 3, nell'ediz. del 1494] : ' Sequitur secundo nul- lam esse in rebus contingentiam ad quas non concurrit homo ', passum est ab impressura defectum, non apponendo ' libertatis ' » [prima di ' contingentiam ']. Ma nell'edizione del 1506 e in quella del 1508, l'au- tore ebbe cura di correggere l'errore. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 239 bolognese Benedetto d' Ettore Facili. La stampa riuniva in- sieme queste rarità: Pseudo Aristotele, De secretis secretorum, De regum regimine, De sanitatis conservatione, De physionomia. De signis tempestatum, ventorum et aquarum, De mineralibus; poi il fragmento De intellectu di Alessandro d'Afrodisia nella traduzione medievale di Gerardo da Cremona, il De animae beatitudine di Averroè, cui tien dietro l'opuscolo De universa- lihus dell' Achillini stesso; infine l'epistola d'Alessandro il Macedone ad Aristotele, De mirahilihus Indiae. L'anno seguente deve aver curato, presso lo stesso editore Ijolognese, l'opuscolo De primo et ultimo instanti di Walter Burley, a spiegazione del quale egli aggiunse una breve nota: Alex. Achillini Bon. Examinatio huius quadrate figure et ad- dictio oblunge (f. A 5), cui seguono (f. A 6-B 6) le Proportiones di Alberto di Sassonia (Bononie.... per Ben. Hectoris, die XXIII Aug. MCCCCCII. La rara stampa è posseduta dalla Bibl. Nationale di Parigi, Rés. V. 810). Nel 1503 curava altresì la stampa del libretto di Agostino Trionfo da Ancona, agostiniano. De cognitione animae et eitis 'itentiis, cui l' Achillini aggiungeva una Quaestio de sensihilibns noribus di Maestro Prospero da Reggio, egli pure agosti- .: .no, « excerpta et sumpta ex quaestionibus ab eo Parisius J'.putatis supra prologo primi magistri sententiarum » (Bo- logna, presso Giovanni Antonio de' Benedetti, 31 maggio 1503) ; e poco dopo quella della Destructio in arborem porphy- rianam dello stesso Trionfo, presso lo stesso stampatore de' Benedetti (io luglio 1503). Nello stesso anno e presso lo stesso editore, die in luce la Quaestio de subiecto physionomiae et chyromantiae, o anche De Chyromantiae principiis et physio- nomiae, dedicata a Bartolomeo Coclite e premessa all'opera di questo, Chyromantiae ac physionomiae anastasis cum ap- probatione magistri Alex. Achillini, uscita a Bologna presso il de' Benedetti nel 1504 e dedicata ad Alessandro Bentivoglio, figlio del signore di Bologna, Giovanni IL Due altre quae- stiones, una De potestate syllogismi, l'altra De subiecto medicinae, dedicate all'alunno Virgilio Porto da Modena, l' Achillini stampò a Bologna, presso lo stesso Giovanni Antonio de' Benedetti, nel 1504. Questo Virgilio Porto era ancora alunno dell 'Achillini e ne aveva raccolto le lezioni su quei due argomenti. Nel 1505 si addottorò, e nel nuovo anno scolastico cominciò a leggere 240 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI medicina teorica a Bologna fino al 1525, quando passò a me- dicina pratica; ma il 6 agosto 1527 venne a morte ancor gio- vane 48. Ecco la dedica affettuosa del maestro : Alexander Achillinus Virgilio Porto Mutinensi, discipulo haud penitendo, foelicitatem. Nostra quaedam fragmenta (ut moris eorum est), Virgilii mi amantissime, diligentem eorum collectorem adeunt. Tu enim urbanitate et virtutibus et doctrina is es, quem inter caeteros nobis dilectos elegi, apud quem aptissime reponantur; te enim semper cognovi nostri nominis studiosum. Logicalia quidem alios docebis; medicinalia vero exacte (ut assoles) contempla- beris: ex quibus non minus gloriae, Alexandre tuo aurigante, te iam comparaturum existimo, quam hactenus ex poeticis mu- neris (/. numeris) adeptus sis. Haec igitur nostris aliis, quae apud te sunt, adiungas. Vale, et libenter res nostras perlege. 4. - L' II settembre 1505, presso lo stesso de' Benedetti, uscì il De elementis che si può dire formi, insieme al De intelli- gentiis e al De orbibiis, la terza parte di un'opera complessiva, la quale abbraccia tutto il sistema aristotelico-averroistico della natura, ossia tutta intera la sfera cosmica, avente la terra per centro e per periferia il cielo delle stelle fisse. Consa- pevole dell' importanza dell'opera, l'Achillini dedicò il De elementis «all'invittissimo principe e padre della patria, Gio- vanni II Bentivoglio », con una lettera che è documento im- portantissimo per stabilire i legami che univano il filosofo al signore di Bologna. Neil' « explicit » di questa e dell'opera precedente l'Achil- lini, anzi che col nome d'Alessandro, comincia a sottoscri- versi « il figlio di Claudio Achillini », arieggiando alla lontana la maniera degli arabi. A rendere piìi solenne l'edizione del De elementis, il giovane Porto fece scattare il suo estro poetico e dettò questo epigramma, che si legge sul frontespizio, e in cui il nome di Claudio Achillini è ricordato nel momento che per la prima volta, per quanto io sappia, al figlio veniva dato l'appellativo di nuovo Aristotele: Cum modo legisset titulum natura libelli huius, Achillaeo est obvia facta seni, 48 Su di lui, V. TiRABOSCHi, Bibl. Moden., IV, pp. 226-228. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 24I atque ait: O nimium foelix hoc pignore, Claudi, quam melius dici Nicomachus poteras. Un altro epigramma scrisse per la stessa stampa Ludovico Boccadiferro, che traduce va il suo cognome in quello meno plebeo di Siderostomo. Anch'egii era discepolo dell' Achillini, e più tardi ne continuerà l' insegnamento averroistico a Bologna, ma con assai minore vigore speculativo. Il De elementis è diviso in tre libri. Nel primo si parla dei mutamenti e delle vicissitudini che accadono nel mondo sublu- nare e della materia che n' è il soggetto. In 28 diibia son di- scussi tutti i problemi concernenti l'esistenza della materia prima, la sua natura di soggetto indeterminato e potenziale del divenire fisico, la sua conoscibilità, i suoi rapporti con la forma, con le dimensioni, e il concetto di privazione. Niente di particolarmente notevole, tranne questi tre punti: primo, il sscondo dubbio «an Sorte non existente, Sortes non sit homo», che richiama l'attenzione sulla discussione che fa di questo problema anche Sigieri di Brabante, nella Quaestio utrum haec sii vera: 'Homo est animai', nullo homine existente '^^; secondo, il sesto dubbio, ove si nega la tesi che attribuiva alla materia una forma sostanziale di corporeità da essa inse- parabile; terzo, il dodicesimo dubbio, ove si sostiene che la materia prima è ingenerabile e incorruttibile e perciò eterna, checché ne pensassero altri con Avicenna. Il II libro tratta degli elementi e della loro mescolanza. Al qual proposito il bolognese riprende in esame l'annoso pro- blema se nei « misti » restino in atto o soltanto in potenza le forme elementari, ritorna sulla « forma corporeitatis » che Avicenna voleva inseparabile dalla materia, e fa un fugace accenno alla famosa « colcodea « dello stesso Avicenna, « quae est decimus intellectus in descendendo a deo, et est formarum datrix in concavo lunae assistens ad regulandam activorum et passivorum sphaeram et ipsam conservandam » 5°. Altro 49 De elementis, I, diib. 2, f. gava. P. Mandonnet, Sig. de Brab. et l'averr. latin au XI Ile siede, seconda parte: testi inediti. Nella coli. Les philos. belges, t. VII, Louvain, igo8, pp. 65-70. 50 De eleni., II, art. 2, f. ii2rb. SuU'origine e il significato della pa- rola « Colcodea », dopo quanto ne aveva scritto Alfonso Nallino, son ritornato in « Giorn. Crit. d. Filos. It. », XXXIV, 1955, p. 188, per dimostrare che essa entrò in circolazione coli 'edizione del Conciliator di Pietro d'Abano (Venezia, 1483). 16 242 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI tema è quello, allora di grande attualità, se e come le forme sostanziali siano capaci d'accrescimento e di diminuzione, di maggiore o minore intensità (art. 3"). Più importante, sebbene non nuovo, è quello che egli dice della generazione degli or- ganismi viventi, e in particolare dell'uomo (art. 4° e 50). Tutte le forme degli esseri corporei, da quelle elementari a quelle animali, son tratte dalla potenza della materia. Ma mentre le forme elementari permangono nei « misti », attenuate nelle loro proprietà, come aveva detto Averroè, la «forma mixtionis » resta soltanto potenzialmente nel vegetale, e come l'anima vegetativa si corrompe all'apparire dell'anima sensitiva, nella quale rimane potenzialmente o virtualmente. L'Achillini in questo non si dilunga molto da S. Tommaso e da Pietro d'Abano. In certi momenti, anzi, egli sembra accogliere la tipica dot- trina tomistica dell'unità della forma sostanziale. Con due strappi però: uno, di minore importanza, concerne la per- manenza delle forme elementari nei « misti » ; l'altro, assai maggiore, riguarda l'unione dell' intelletto col singolo. A rammendare quest'ultimo strappo che compromette l'unità della coscienza umana, l'AchilHni s'adopra con ogni accorgimento dialettico, pur mantenendosi fermo sulla tesi averroistica fondamentale : l'unità dell' intelletto. È interes- sante seguirlo nel suo tentativo. Lo sviluppo dell'organismo umano s' inizia con una fase puramente vegetativa, come aveva detto Aristotele. Principio delle funzioni vegetative nell'embrione è la così detta « anima vegetativa », all'apparire della quale la precedente « forma mixtionis » si corrompe. Così, nella seconda fase dello sviluppo embrionale, alla forma vegetativa subentra quella sensitiva, mentre la prima si corrompe. Ma qui l'Achillini si domanda: — Allora dovremmo dire che prima d'essere animale, l'em- brione nella prima fase è stato pianta ? — No — egli risponde ; — perché altro è esser pianta, altro è vivere a mo' di pianta, come dice appunto Aristotele 51. L'anima vegetativa d'una pianta è termine della nascita di quella pianta, ed è quindi forma determinata e perfetta nella sua specie; la forma ve- getativa nell'animale, invece, è forma indeterminata e imper- fetta; più che punto d'arrivo, è preparazione e avviamento 51 Ib., art. 4, f. i24vb. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 243 ad un grado più alto di vita; questa è in via, direbbe Dante 5^, quella è già a riva. In questo concetto del passaggio dall' indeterminato al determinato parrebbe dovesse cercarsi la chiave per intendere come r intelletto, unico in sé, s'unisce all'anima sensitiva a costituire l' individuo umano particolare. Ed è concetto ari- stotelico che mitiga alquanto la crudezza dell'altro concetto, essere le forme sostanziali come i numeri e come le figure della geometria, di cui non si dà aqcrescimento o diminuzione senza cambiamento di specie. Aristotele appunto, nel De ge- neratione animalium, II, e. 3, aveva detto che nel processo genetico non nascono insieme l'animale e l'uomo, né l'animale e il cavallo 53. Dal che parrebbe che l'animale, che precede l'uomo e il cavallo, dovesse essere non una forma determi- nata e specifica, ma una forma generica e indeterminata, la quale tende là a determinarsi in cavallo, qua in uomo. Venendo a parlare appunto del processo genetico umano (art. 50), il maestro bolognese si chiede « an in ipso (homine) animam intellectivam expectet sentitiva » 54. E per risolverlo, ricorda anzitutto quali, a suo modo di vedere, ne sono i due presupposti : Unum, quod intellectus sit forma informans materiam, dans esse hominem. Aliud, quod prius tempore sit anima sensitiva in materia, quam intellectus possibilis. Quorum primum in libro De intelligentiis declaravi 55, et etiam in libro De orbihus, [II, dub. VI], quaestione de motu intellectus. Ouibus addo, quod ambo illa asseruntur ab Aristotele, 2. De genevatione animalium, [cap. 3], dicente: ' Sed quamobrem talem animam prius haberi necesse sit, ex his quae De anima disseruimus apertum est. Sen- sualem autem, qua animai est, tempore procedente, recipi et rationalem, qua homo est, certum est. Quest' « anima sensitiva » che precede l'apparire dell' intel- ligenza, è una forma generica e indeterminata che prepara l'avvento di un'altra forma più determinata, per la quale l'uomo comincia già a distinguersi dal cavallo e dagli altri animali; e questa è la cogitativa. La cogitativa è nell'uomo 52 Purg., XXV, 54. 53 Arist., De gen. animai., II, e. 3, 736b 2. 54 De elem., II, art. 5, f. i26ra. 55 Si veda sopra, pp. 208-209. 244 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI quello che negli altri animali si dice estimativa, ed è, insieme air immaginativa, alla memorativa e al (( sensus communis », uno dei così detti sensi interni. Come l'estimativa negli ani- mali, anche la cogitativa (che talora è chiamata essa pure esti- mativa) ha la funzione di distinguere e giudicare sensibilmente le percezioni particolari e quello che v' è nelle cose apprese di utile e di dannoso. Per questo essa è chiamata anche «ratio particularis » ; ma è facoltà sensibile, legata all'organismo, tanto che i medici e anatomisti antichi e medievali le assegna- vano come organo il « ventricolo medio » del cervello, mentre all' immaginativa assegnavano quello anteriore, e alla memora- tiva quello posteriore. Ma oltre alla funzione ora accennata, la cogitativa umana ne ha un'altra, per la quale si distingue sostanzialmente dall'estimativa degli altri animali: essa è ordinata a preparare quelle immagini sensibili, o fantasmi, quasi riassunto di tutto il mondo dell'esperienza sensibile, che r intelletto farà oggetto di elaborazione mentale, scien- tifica, traendo fuori dalle rappresentazioni particolari il con- cetto universale. Mentre nell'animale inferiore all'uomo l'anima sensitiva per mezzo dell'estimativa si può dire sia giunta a riva, ed abbia raggiunta la più alta perfezione di cui è capace, non così è della cogitativa umana, la quale, per quest'ultima sua funzione preparatoria all'atto dell' intendere, è ordinata per sua natura a congiungersi con l' intelletto possibile. Questo alla sua volta, nella gerarchia delle intelligenze se- parate, è quello che tiene l' infimo grado, perché, pura potenza d' intendere, è ordinato, per iniziare il suo passaggio all'atto, ossia per divenire intelletto in atto, all'apprensione intelligi- bile delle forme del mondo sensibile, di cui la cogitativa gli somministra le rappresentazioni particolari. Perciò non si può dire che la cogitativa sia la vera forma del- l'uomo, come pure dicevano molti averroisti 56, e che per essa l'uomo si distingua dagli altri animali. O se vogliamo, essa è forma, sì, ma incompleta. E questo perché la cogitativa umana 56 Fondandosi su un famoso detto d'Averroè, De anitna, III, comm. 20 : ■« Et per istum intellectum [queni vocat Aristoteles passibilem-, e che Averroè denomina cogitativa] differt homo ab aliis animalibus ». Al qual detto gli averroisti sigieriani ne opponevano però un altro, tratto dal primo commento allo stesso terzo libro del De aniìiia: « Cum per hanc virtutem [rationalem] difterat homo ab aliis animalibus, ut dictum est in multis locis ». APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLTNI 243 non è ancora giunta a riva; a riva essa giungerà quando sarà unita all' intelletto possibile, che, alla sua volta, è ordinato per sua natura ad essere eternamente unito alla cogitativa umana, negl' infiniti individui della specie. V è insomma tra la cogitativa umana e l' intelletto possibile un vincolo sostan- ziale, per cui l'una è ordinata per natura all'altro, e recipro- camente, ed entrambi si completano a vicenda. Forma com- pleta dell'uomo, sia in universale, quanto alla specie, sia in particolare, quanto ai singoli, è dunque l' intelletto possibile unito alla cogitativa; e non solo forma assistente, ma vera forma informante che dà all'uomo l'essere di uomo e ne fa il soggetto dell' intendere. A prima vista potrebbe parere, e certe espressioni potrebbero indiirci a crederlo, che l'anima cogitati^•a, tratta dalla potenza della materia, e l' intelletto possibile, venuto dal di fuori, fossero due nature, due quiddità diverse, due forme, anzi due anime. Ed effettivamente esse stanno nell'uomo a rappresen- tare due modi di conoscenza che all'Achillini, come ad Ari- stotele e a Platone, son parse irriducibili: Duo igitur svint principia cognoscendi in ncibis reperta: unum universaliter, et est intellectus, et est incorporeus, inorganicus, incorruptibilis; aliud vero singulariter, et est sensus, et est virtus in corpore et organica et corruptibilis, et est anima cogitativa 57, Ma poiché la cogitativa è forma incompleta ed è ordinata ad unirsi all' intelletto, e questo alla sua volta è complemento di quella, possiamo ben dire che dalla loro unione risulta un'anima composta, come aveva detto Sigieri 58, la quale è tutta intera forma dell'uomo. Tuttavia, poiché la cogitativa è forma incompleta che riceve il suo ultimo complemento dal- l'unione con r intelletto, possiamo dire ugualmente che 1' in- telletto termina il processo della generazione umana, e che esso ha da ritenersi forma dell'uomo a più forte ragione che non l'anima cogitativa: Quamvis in homine duae species colligentur, ibi est tantum intellectus, qui est ultima forma, qua homo est homo. Cogitativa igitur forma non est ultima, sed ordinatur in intellectum. Non tamen est homo unus per simplicem formam, sed per composi- 57 De ehm., II, art. 5, f. lijrb. S^ Cfr. sopra, p. 206. 246 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI tissimam; nullum enim est mixtiim homine compositius. Habet igitur homo duo esse: unum est esse inateriale a cogitativa; reliquum vero est esse divinum ab intellectu possibili 59. Perciò l'Achillini nei QuoUbeta de intelligentns, ai quali più volte si riferisce nel secondo libro del De elementis, aveva detto : Non potest intellcctus informare materiam, non informante cogitativa, quia non stat materia sine forma constituta in esse per eam.... Neque potest cogitativa informare, non informante intellectu, quia, dato informabili ultimate disposito et informativo, ponitur informatio. Est autem materia informata cogitativa in- formabile propinquum et ultimate dispositum ad recipiendum inteilectum ^°. Le quali parole, secondo la testimonianza del Nife, son tolte alla lettera dall'opera di Sigieri, De intellectu ad fratrem Thomam ^i. Il terzo ed ultimo libro del De elementis abbraccia dician- nove quaestiones , intorno alle proprietà degli elementi, e cioè alla quantità e alle loro qualità, al movimento, alla gravità, alla figura e al luogo proprio di ciascuno. E poiché le teorie dello Heytesbury, o Heutisbery, come lo chiamavano, e quelle del Suisset, o meglio Swineshead, erano venute a scompi- gliare le idee dei maestri bolognesi non meno che di quelli padovani, anche l'Achillini s' impegna in una prolissa discus- sione del problema di moda, se di ogni cosa naturale si dia un massimo e un minimo 6=, sul quale nel corso delle sue lezioni e in trattati speciali ebbe a soffermarsi più volte anche il Pomponazzi, imprecando ai calculatores forestieri e nostrani ^3. A questo problema tien dietro una non meno prolissa discus- 59 De elem., 1. e, f. i2gra. ^° V. sopra, p. 206. 6^ NiFO, De intellectu et daemonibus, I, tr. 3, e. 18; cfr. il mio Si- gieri, cit., pp. 17-18. ^2 De elem.. Ili, dub. i, f. 230va sgg. ^3 Pomponazzi, De maxima et minimo ad Laurentium Molinum, Ms. Ambrosiano R. 96 sup., f. i52r (vecchia numeraz. f. 39r) ; In I Phys., Parigi, Bibl. Nation., ms. lat. 6533, f. 49 Gr sgg.; Arezzo, Bibl. Frat. de' Laici, ms. 389, f. 42V sgg. (il Pomponazzi prende di mira par- ticolarmente il suo concittadino Pietro da Mantova), nonché le due opere a stampa De reactione e Tractatus penes quid intensio et re- missio formarum attendatur. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 247 sione sul quesito « utrum aliquid moveat se ». E sebbene l'au- tore dichiari di voler trattare di ogni specie di movimento, celeste o elementare, animato o inanimato, sostanziale o accidentale, corporale o spirituale, egli s' intrattiene più a lungo intorno al moto naturale degli elementi e dei «misti» e specialmente alla gravità e « leggerezza », ritenute con Ari- stotele e Averroè forme sostanziali dei corpi, all'azione del cielo, del « luogo naturale », del generante e di ciò che rimuove r impedimento al cadere o all'elevarsi di un corpo 64. Le stesse idee averroistiche, che l'Achillini sosteneva a Bologna, aveva sostenuto a Padova il Pomponazzi, nell'anno 1500, commen- tando r Vili della Fisica 65. Ad un certo momento il maestro bolognese accenna anche al moto violento dei proiettili. E come il Pomponazzi, sostiene egli pure che il proiettile lan- ciato «movetur a medio» e combatte la tesi dell' « impetus » difesa dai «parisienses»66^ cioè da Giovanni Buridano, da Ni- cola d'Oresme, da Alberto di Sassonia, detto Albertuccio o Alberto il piccolo, per non condonderlo con Alberto Magno, e altresì da Marsilio di Inghen, e portata a Bologna da maestro Biagio da Parma che d'Albertuccio era stato alunno a Parigi ^7. Seguono altri diciassette quesiti intorno ai quattro elementi e alle loro qualità sostanziali. La soluzione di essi è quella averroistica. Ma l'ultimo, il diciannovesimo, ha un' impor- tanza speciale per il tempo in cui è posto : « Dubitatur decimo- nono, utrum terra sit ubique habitabilis ». Il problema se l'era già posto Pietro d'Abano prima del 1310, nella diff. LXVII del suo Conciliator, e l'aveva discusso con ampiezza, ricor- dando i viaggi di Marco Polo e la relazione di frate Giovanni cordigliere, cioè del francescano Giovanni del Pian del Car- 64 De eleni., Ili, dub. 2, f. I34ra sgg., e specialmente sulla gravità e nerezza, f. i36rb. 65 Bibl. Naz. di Napoli, ms. Vili. D. 81, f. 1311: Questio Magistri Petri Pomponatii.... de motu gravium et leviiim, quam fecit Magister Petrus dum legeret librum 8. Physicoriun anno domini 1500. Sullo stesso argomento il mantovano ritornò nel commento all' Vili della Fisica del 1518, Arezzo, Bibl. Frat. de' Laici, ms. 389, f. 3iiv-3i2r, ove combatte la « solutio de impulsu que communiter tenetur a pari- siensibus » (ad t. e. 82). 66 De elem., 1. e, f. I35va « Secunda est opinio Parisiensium.... ». 67 A. Maier, Zz£^ei Grundprobletne der scholastischen Naturphilosophie: das Problem der intensiven Grosse; die Impetustheorie. 2* ediz. Roma, 1951, pp. 1 13-313, e per Biagio Pelacani da Parma in particolare, pp. 270-274. 240 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI pine 68. L'Achillini conosce e cita il Conciliator, ma di mala voglia e senza entusiasmo: Quod autem sub aequinoctiali continue habeantur ficus, aut quod aer sit ibi temperatissimae dispositionis, aut quod aninialia ibi habitantia temperatam habeant complexionem, aut quod pa- radisus terrestris ibi sit: sunt res quas experientia naturalis nobis non ostendit ^9. Il che è ben detto per il paradiso terrestre, ma non per le altre cose ricordate, delle quali 1' « experientia naturalis » di arditi viaggiatori e missionari era cominciata da un pezzo. Il filosofo bolognese, che pur sapeva qualcosa di ciò che co- storo narravano di aver visto e toccato con mano, senza avere il coraggio di negarlo, si contenta di dire che è cosa che non riguarda i filosofi intenti alla ricerca del perché, bensì gli « storiografi » cui spetta d' indagare se un fatto è o non è : « Pro malori parte veritas illarum (causarum) ex historia ' quia est ' dante, petenda est ; ideo haec historiographis re- linquantur, et praesertim de Marco Veneto aut Dominico Indiano loquentibus » 70. Chi sia questo Domenico Indiano non saprei dire. Ma coloro che avevan parlato e scritto del- l' India e delle terre australi eran più d'uno. Negli anni stessi in cui l'Achillini componeva il De elementis, s'aggirava per r India e le terre australi Ludovico de Varthema, che pare,, e non senza buon fondamento, fosse oriundo bolognese. 5. - Il 5 marzo 1506, uscì « per Benedictum Hectoris Biblio- polam Bononiensem » la seconda edizione dei Quoliheta de intelligentiis , cui l'autore premise diciotto dubia sollevati dal conte Annibale Rangoni, al quale l'edizione era dedicata, in- sieme con le soluzioni di essi. Questi diciotto dubia nelle edi- zioni successive sono stati rimandati in fine dell'opera. Tutti questi scritti hanno, in complesso, carattere stretta- 68 Che « cordelarius )) (in francese cordelier) significhi «francescano» o « cordigliere », è sfuggito a Sante Ferrari, in quel suo volumaccio, pieno di tanti spropositi, I tempi, la vita, le opere di Pietro d'Abano, p. 276, del quale ho parlato a lungo sopra, nei primi due saggi, eil ove « cordelarius » è diventato un cognome, Cordellari ! 69 De eleni., Ili, dub. 19, f. i49rb. 70 Ib. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 249 mente filosofico, se per filosofia s' intende, come s' intendeva allora, la teoria della natura completata dalla metafisica. Le stesse questioni De suhiecto physiononiiae et chiromantiae e De suhiecto medicinae , ben poco hanno che riguardi da vicino la medicina propriamente detta. Tuttavia dalle Anotomicae annotationes , pubblicate postume dal fratello Giovanni Fi- loteo, nel settembre 1520, e delle quali parleremo più oltre, si può ricavare che maestro Alessandro, il quale dal 1494 reggeva una delle cattedre di Medicina Teorica, fu condotto a discutere di anatomia e di fisiologia 7". In queste Annotationes infatti egli accenna più volte ad osservazioni da lui fatte nel 1502 (f. i6v), nel 1503 (ff. 5v, 15V, 16) e nel 1506 (f. 12 v). Lo studio bolognese, da quando l'Achillini assunse l' insegna- mento della Medicina Teorica ebbe quasi sempre tre maestri deputati « ad lecturam Chyrurgiae », che di solito aveva per testo fondamentale V Anatomia del Mondino, sulla guida del quale si conducevano le dissezioni dei cadaveri o « anotomie », che, alla fine del Quattrocento e nei primi del Cinquecento, si facevano con speciale messa in scena, pari a quella non meno solenne per la confezione della Triaca. A queste « anotomie » assistevano maestri e scolari e per l'occasione si sospendevano per otto o dieci giorni le lezioni. Siccome l'Achillini non fu mai deputato « ad lecturam chyrurgiae », è verosimile che egli, come maestro di Teorica, abbia preso parte a qualcuna delle abbastanza frequenti « anotomie » tenute negli anni da lui stesso indicati e in altri ancora ~-. Nell'anno scolastico 1502-3, fra i maestri deputati a leggere 71 A. Pazzini, La scoperta della membrana timpanica, nella rivista // Valsalva, IX, 1933, pp. 298, scrive: «L'Achillini lesse anatomia nell'università di Bologna nel 1497, ma per breve tempo. Nel 1501 ri- prese la cattedra e la tenne fino al 1508 ». La notizia è inesatta per più versi. Una cattedra d'anatomia a Bologna allora non esisteva. Di ana- tomia si occupavano il professore di Teorica, quando faceva lezione su un testo di anatomia, per es. su talune parti del Canon di Avicenna o su alcuni trattati di Galeno ecc., e il professore di Chirurgia. L'Achil- lini fu sempre professore di Teorica dal 1494 al 1506, e dall'ottobre 1508 al 1512. 7* Oltre a queste « anotomie » pubbliche, ve n'erano del resto anche di private che i maestri facevano per proprio conto, quando ne avevano la possibilità, a scopo d' indagine scientifica. Cfr. G. Martinotti, L' in- segnamento dell'anatomia a Bologna prima del sec. XIX, in Studi e me- morie per la Storia dell'univ. di Bologna, voi. II, Bologna, 191 1, p. 30 sgg. Ma l'autore non dà esempi per il periodo dell'Achillini, né dice che fossero frequenti. 250 L ARISIO'IELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Chirurgia, insieme a Domenico della Lana, che già insegnava da vari anni, e a Biagio de' Mercuri, ucciso il 5 novembre 1505, compare nello studio bolognese la figura di Jacopo o Beren- gario da Carpi, detto semplicemente il Carpo. Questo illustre maestro, che godeva della protezione d'Alberto Pio, signore di Carpi, commentando il Mondino, ebbe a correggerlo su molti punti, e dominò la chirurgia bolognese del suo tempo, cui aprì nuove vie, fino alla sua partenza per Ferrara nel 1527. A pro- posito della scoperta del martello e dell' incudine nell'orecchio medio, gli storici della medicina sono incerti se attribuirla all'Achillini o al Carpo, e sembrano quasi insinuare che vi fosse rivalità fra i due colleghi bolognesi. Il certo è che l'Achil- lini nelle Annotationes non ne fa cenno; e d'altra parte il Carpo, nei Commentaria cum amplissimis additionihus super Anatomia Mundini, stampato a Bologna, « per Hieronymum de Benedictis. Pridie Nonas Martii. M.D.XXI », quando il collega era morto da quasi nove anni, trattando nel comm. XXXVII (fol. 477r) di questi due ossicini, lungi dall'attri- buirsene la scoperta, e' informa che « sunt aliqui qui volunt quod illa ossicula moveant aerem intra stantem et panni- culum praedictum ». E anche nelle Isagogae hreves et exactis- simae in anatomiam humani corporis (seconda ediz. del 1530, s. 1., pp. 230-32), lo stesso Carpo torna a parlare dei «duo ossicula » e delle varie opinioni per intenderne la funzione. Se se ne discuteva, ed altri avevano opinioni diverse da quella di maestro Jacopo, è segno che questi « duo ossicula » erano stati notati da qualche tempo, forse in qualcuna delle « ano- tomie » tenute dallo stesso chirurgo, e alle quali un maestro di Teorica, qual era l'Achillini, non poteva rimanere estraneo 73 Giacché è risaputo come nel corso appunto di queste « ano- tomie » e nelle discussioni inevitabili a cui davano occasione, furon notate discordanze, le quali ogni giorno cresce van di numero, fra l'esperienza e le trattazioni anatomiche di Ga- leno, di Avicenna, del Mondino o di Ugo da Siena, e si venne rinnovando la scienza anatomica. Nel 1506, Alessandro Achillini godeva dunque a Bologna della più alta considerazione come filosofo e come medico e 73 Del resto l'attribuzione di questa scoperta all'Achillini si fa ri- salire a ciò che ne dicono Eustachio Rudio e Giulio Casserio piacentino. Cfr. G. N. Pasquali Alidosi, / dottori bolognesi di teol. filos. medie, e d'arti liberali dall'anno 1000 per tutto marzo 1623, Bologna, 1623, p. 8. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 25I del favore dei Bentivoglio che gareggiavano coi signori di Ferrara e d' Urbino e coi Medici nel proteggere gli studi, le arti e i begli ingegni 74, Per Natale del 1504, il fratello Giovanni Filoteo Achillini portava a termine il suo enfatico e strampa- lato poema intitolato Viridario, stampato a Bologna, nel 1513, « per Hieronymo di Plato Bolognese », e dedicato a « Gioanne de Medici Cardinale, bora Leone sommo Pontifice ». Nel canto X, Giovanni Filoteo tesse le lodi di Bologna; prima delle donne e dei gentiluomini illustri, poi degli studi che dan fama a Felsina. Fra i dotti bolognesi due ne indica in particolare: l'uno è Giovanni Zaccaria Campeggi, allora giurista di gran fama, che dopo avere insegnato il diritto a Pavia e a Padova, s'era fermato definitivamente a Bologna (a meno che Gio- vanni Filoteo non intenda del figlio di lui, Lorenzo, che, insieme al padre, teneva la cattedra straordinaria di diritto civile, egli pure giurista di grido e futuro cardinale, cui saranno affidate importanti e delicate missioni diplomatiche) ; l'altro è Alessadro Achillini, che il poeta, suo fratello minore, esalta con orgoglio e ammirazione (ff. i84v-i85r) : Dui lumi chiari, ciascaduii divino: lune il Campeggio, laltro lo Achillino. Di luna legge e laltra quel Campeggio, si come e voce e ver, porta corona. Ne gli altri studii lo .\chillino veggio, che Theologia sparge in ogni zona. lalta philosophia laudar non deggio, che fama, e de laltre arti, il Mondo introna. Me glorio, godo, e laudo il Creatore che a questo unico son fratel minore. Chi legge e intende lopre sue superne, dove e insudato in la sua gioventute, gli darà laudi gloriose e eterne. Hor pensi, pervenendo a senettude, le lucubration, calami e lucerne scranno al letto et al lettor salute. Di un lustro a punto il mezzo camin varca, sei debito farà Ih orrenda Parca. Che maestro Alessandro fosse dottissimo in filosofia e nelle altre arti lo sapevamo ; ma che egli si fosse addentrato anche in 74 Nel bimestre settembre-ottobre 1491, e in quello di novembre- dicembre 1504, fu anche del consiglio degli Anziani. Catalogus omnium doctoriini collegiatorum in artibus liberalibus et in facilitate medica, Bo- logna, 1664, p. 22. 252 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI un campo così diverso come quello degli studi di teologia, ci sarebbe facilmente sfuggito, se il fratello poeta non avesse richiamato l'attenzione su questo aspetto della sua cultura. A dir vero, più volte, leggendo taluni dei suoi scritti, m'era accaduto d' imbattermi, senza farci troppo caso, in brani che, ben considerati, attestano nell'autore buona conoscenza delle cose teologiche, pari certamente a quella di Tiberio Bacilieri, il quale, averroista alla maniera dell'Achillini, non esitava a dichiararsi pronto, se il papa l'avesse gradito, a in- terrompere l'esposizione d'Aristotele e, «relieto lumine na- turali, propositiones creditas magna cum facilitate et bre- vitate resolutissimas reddere » 1^. Il 19 maggio del 1506 l'Achillini avrebbe dovuto essere presente come compromotore all'esame di dottorato che quel giorno dovevano subire maestro Guglielmo Spinola da Modena, che per un biennio era già stato Rettore dello studio « et optime se habuerat in officio », e maestro Guido da Pesaro. Dovette invece farsi rappresentare da un collega, perché « tunc temporis iverat Romam, ut interesset disputationibus fìendis in capitulo generali fratrum minorum tam observanti- norum quam conventualium, grafia sui honoris, studiique nostri ac almae civitatis bononiae » 7^. Nel saggio che segue, si dirà quanto basta di questa disputa avvenuta il 6 giugno 1506 in casa e sotto la protezione del Cardinale Domenico Grimani. Il patrizio veneziano Geronimo Taiapietra prota- gonista di questa disputa, al capitolo generale dei frati minori tenuto a Roma, giostrava in difesa di quel- l'averroismo sigieriano che l'Achillini, dodici anni prima, aveva difeso durante un altro capitolo generale di francescani a Bologna. L' invito deve essere stato rivolto all'Achillini 75 Nella dedicatoria a Giulio II della Lectura in tres libros de anima di Tib. Bacilieri, Pavia, 1508. Cfr. il mio Sig. d. Brab. nel pensiero ecc., p. 136. A convincerci della buona conoscenza che all'Achillini non do- veva mancare deUe cose teologiche, oltre ai molti luoghi nei quali egli mette in rilievo, su vari argomenti, il dissenso irriducibile tra filosofi e teologi, basta ricordare i brevi accenni alla libertà degli angeli {De orò., ITI, dub. I, f. 47rb), alla grazia infusa {ib., dub. 2, f. 5ira), alla duplice natura in Cristo [De eleni., II, art. 2, f. ii2rb), al peccato originale e alla giustificazione {ib., art. 5, f. i29rb), alla transustanziazione e al- l' identità del corpo di Cristo nel sepolcro {ib., i29rb-vb) e simili. 76 Libro segreto del collegio, cit., n. 3, f. 6r. Cfr. L. Mùnster, Aless. Achillini, in Riv. di Storia delle Scienze Mediche e Naturali, XXIV, 1933. P- 75- APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 253 dal Card. Grimani, per desiderio del Taiapietra stesso, cui doveva stare a cuore d'avere al suo fianco, nel pubblico ci- mento, un maestro di tanta autorità, del quale condivideva il pensiero. Però fu un peccato che maestro Alessandro fosse assente da Bologna quel 19 maggio, poiché maestro Geronimo de Bombaxia, priore per quel trimestre del Collegio di medicina, annota di suo pugno nel Libro Segreto del Collegio stesso: « Et eadem die habuimus opulentam colationem a docto- ratis»; usanza non del tutto infrequente, e fatta oggetto, a quanto mi consta, anche di speciali norme regolamentari. 6. — Nell'autunno dello stesso anno l'Achillini, che era priore del Collegio (carica già da lui coperta altre volte), dovette provvedere alla sua incolumità personale, all'appressarsi delle milizie papali: « Erat enim tunc temporis universa urbs in sagis ob terorem summi pontificis, qui magnis et gallorum et italorum copiis ad eam approperabat, ut urbem suam libe- ram in liberiorem redigeret; quod sibi sviccessit fuga opti- matum bentivolorum, qui tunc ei preerant, suscepta ». Come fautore dei Bentiviglio, egli il 7 novembre era fuggito a Pa- dova, mentre nella carica di priore gli era successo maestro Chiaro Francesco de' Genuli 77. L' II novembre Giulio II faceva il suo ingresso in Bologna, e i maestri dello studio andavano a rendergli omaggio: Die xi'^ novembris, Beatissimus sumnius pontifex iullius papa secundus honorificentissime ingressus est praetorium fori bono- niensis, tanquam Dominus benemeritissimus; et nostra collegia iverunt obviani ei pedestres usque ad mansionem prope positam strale maioris, cum vestibus et biretis rosaceis et banale de variis, et beatitudinem suam associavimus usque ad sanctum petrum. Sic enim consue visse alios collegiatos factitare, a Domino Paris de grassis, Magistro ceremoniarum, accepimus 78. Fuggito da Bologna, l'Achillini era accolto come maestro nella seconda cattedra ordinaria di filosofia naturale, a Pa- dova. Ivi appunto lo troviamo come concorrente del Pompo- 77 Libro segreto, n. 3, f. yr. Cfr. L. Mùnster, p. 16. 78 Libro segreto, ib. 254 I- ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI nazzi che occupava la prima cattedra, come risulta dal titolo dalla reportatio del corso di lezioni che il Peretto Mantovano tenne nell'anno scolastico 1506-1507 sul De substantia orbis di Averroè: Expositio libelli de substantia orbis ex. mi ac tempestate nostra naturalis philosophiae luminis Magistri petri pomponacci Man- tuani. Patavij. M.D.VII. xx mensis Februarij, dum primum locum ordinariae philosophiae, ad concurentiam ex. mi allexandri achiUini bononiensis, publice profìteretur 79. Sebbene il Facciolati pretenda di sapere che maestro Ales- sandro era stato professore a Padova nel quadriennio 1484- 1488, e che in quest'ultimo anno aveva avuto per antago- nista il Pomponazzi, la notizia è smentita dai rotuli bolognesi e dagli altri documenti del Collegio delle Arti e di Medicina che danno presente a Bologna l'Achillini ininterrottamente dal 1484 al 1506. Invece è certo che il mantovano, che iniziò il suo insegnamento padovano solo nel 1489, ebbe a concor- rente, quando ritornò a Padova nel 1499, l'alunno e socio dell' Achillini, Tiberio Bacilieri, lino alla partenza di lui per Pavia, e, partito questo, il Fracanziano. Prima dunque che con l'Achillini, il Pomponazzi s'era scontrato col di lui « fido Achate », che del suo Enea non era per altro che una pallida e sbiadita ombra ^o. Soltanto dunque nei due anni scolastici 1506-1508 il Pe- retto si trovò ad avere per concorrente l'Achillini, del quale già conosceva il pensiero. Ma a giudicarne dal contenuto dell' Expositio libelli de substantia orbis, i dissensi fra i due, per quanto senza dubbio notevoli, non paion tali da do- ver degenerare in risse. Anzi, non ostante i dissensi, vi sono nell'esposizione pomponaziana molte pagine che il bolo- gnese avrebbe potuto sottoscrivere a piene mani. Così, per esempio, quando il mantovano combatte la teoria avicenniana della « forma corporeitatis » coeterna alla materia (fol. yv sgg.) ; o quando tratta della dottrina averroistica delle « dimensiones interminatae » anteriori ad ogni forma corporea (f . I3r) ; o quando nega con Averroè che le sfere celesti siano animate da un'anima sensitiva, distinta dall' intelligenza motrice, come pretendeva ugualmente Avicenna (f. i/r). Anche sul 79 Cod. Vat. Regin. lat. 1279, f. ^r. 80 V. sotto, p. 288. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 255 grosso problema An caeluni sit compositum ex materia et jorma (ff. i8r-24r), il Pomponazzi si sforza di mostrare come le varie opinioni in contrasto si possan difendere e come si possan risolvere gli argomenti che ad ognuna si obiettano. Il suo ari- stotelismo e il suo averroismo insomma non hanno la rigidità intransigente del pensiero dell'Achillini. Col quale il manto- vano era in sostanza d'accordo anche nel dubitare della di- pendenza delle intelligenze e dei corpi celesti dalla causalità efficiente del primo motore (f. 28r-30v), e altresì della infinità intensiva del vigore col quale questo muove l'universo (f. 33V-34V). La vera e profonda differenza fra l'uno e l'altro maestro, trovatisi di fronte a Padova, è questa. L'Achillini accetta integralmente l' interpretazione averroistica d'Aristotele, an- che là dove altri aveva visto discordanze fra il testo e il com- mento e nel pensiero stesso d'Averroè aveva notato non poche contradizioni, onde le molte opinioni sul vero pensiero dello stagirita e le diatribe fra gli stessi averroisti, ciascuno dei quali aveva in serbo il suo modo di risolvere quelle discor- danze e contradizioni. Quello del bolognese rappresenta uno dei sistemi più coerenti d' interpretazione del pensiero d'Ari- stotele, dal punto di vista rigidamente averroistico. Per mezzo di sapienti accorgimenti logici, suggeriti dalla più scaltrita arte dialettica, per via di impensati ravvicinamenti di testi e di sottili distinzioni, le contradizioni spariscono, i contrasti sono conciliati, le obiezioni mosse dai dissenzienti risolte, le dubbiezze dissipate. Di guisa che il sistema aristotelico- averroistico, costruito con procedimenti deduttivi che mentre scimmiottano quelli della geometria in realtà si risolvono in una caricatura del metodo matematico, ostenta una compat- tezza in tutte le sue parti, sì da dare l' illusione della raggiunta certezza, in cui l'animo si quieta e non sente più l'acre puntura del dubbio. In questa superba convinzione di essere ormai arrivato « al segno che si tien gran miracol di natura », e pros- simo alla copiilatio con l' intelletto agente, l'Achillini non aspira orm.ai ad altro che ad assomigliare ad Aristotele, del quale dice con Averroè : « qui divinus potius quam humanus ; quoniam a M. D. annis cifra non est inventus error in eius dictis alicuius momenti; naturae enim consiliarius extitit»! 8', 8i De phys. auditu, f. óyvb. 256 l'aristotelismo tal C vano dal secolo XIV AL XVI Al Pomponazzi, al contrario, questa balda sicurezza dell' in- fallibilità d'Aristotele e d'Averroè era venuta meno. Egli non soltanto afferma « quod Aristoteles non fuit deus et ipse non novit omnia» 82, ed ugualmente «quod Commen- tator erravit neque ipse est deus «^3, ma spesso dichiara di non riuscire a intenderli, che preferirebbe esser discepolo che non maestro, talvolta anzi non esita a qualificare pazzesche, dal punto di vista della stessa ragione umana, le loro dottrine. Ma il più spesso, da quell'uomo faceto che era, più che incapo- nirsi a dissolvere gli argomenti dei suoi avversari (cosa non facile senza accettarne taluni presupposti, il che l'avrebbe con- dotto ad invischiarsi in un perpetuo circolo vizioso, senza via d'uscita), preferiva motteggiare con essi e svignarsela con qualche piacevole e magari salace barzelletta. Esempi: nel febbraio 1520, stava esponendo il secondo libro del De cado, e precisamente il commento averroistico al testo 34, là dove si pretende di poter dimostrare con arzigogoli sillogistici che il mondo « non potuisset esse nec maior nec minor, secundum philosophos », perché esso ha da esser proporzionato alle di- mensioni dell'uomo, « cum mundus sit propter hominem ». Questo modo di argomentare stuzzica la vena umoristica del Peretto: Modo, si mundus esset maior, homo non posset vivere; nam si haberetis thalamum maximum, non possetis vivere, quia ibi esset nimis frigus. Unde si Sanctus Petronius esset in decuplo maior, organum, quod nunc habetur, non posset sentiri per totum. Similiter, si mundus esset maior, sol esset nimis parvus, et sic non posset calefacere, et sic corrumperetur homo. Similiter, si esset minor, nimis sol calefaceret, et ita non possent esse plures celi. Mundus ergo non potest esse maior neque minor; et est sicut dicebat illa bona mulier, quod virga bene manebat in vulva sua, et quod virga non oportebat quod fuisset nec maior nec minor, nec grossior nec subtilior, nec curtior nec longior; ita quod era, ut dicitur, a punto. Et hoc respondent fatui philosophi ad istam dubitationem 84. E perché, mentre il moto violento dei proietti è più intenso da principio e poi va rallentando, il moto naturale dei gravi e dei leggieri « est in fine velocior » ? La ragione ve la dà Averroè : ^2 Arezzo, Bibl. Laici, ms. 390, f. 41V; cfr. Parigi, Bibl. Nation., ms. lat. 6534, f. I3r. 83 Arezzo, ms. cit., f. 47V; Parigi, ib., ms. lat. 6533, f. 53V. 84 Parigi, ib., ms. lat. 6534, f. 6ov. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 257 Et ponit conimentator huius rationem: v. gr., grave descen- dens in fine velocius est quam in principio, quia confortatur ex desiderio finis et termini; ideo intenditur desiderium, et intento desiderio intenditur virtus motiva et motus. Exemplum do vobis: quando vos itis ad amicam et appropinquatis illi, antequam figatis priapum, vos mandate fuor el seme in sulle cosce. Similiter, quando aliquis est clericus, non desiderat papatum; sed quando incipit liabere sacerdotia magna, incipit desiderare episcopatum, postea cardinalatum, et tunc, quando est cardinalis, magnopere papatum desiderat, quia illi est propinquus. Et ita dicit commentator....85. Alla fine di novembre 1522, stava commentando il primo delle Meteore, e precisamente il capitolo della pioggia, della rugiada, della grandine, della neve e della brina. Seguendo passo passo il testo aristotelico e prendendo in esame le varie opinioni così poco convincenti intorno alle cause del riscalda- mento e raffreddamento, della siccità e dell'umidità, esce in queste dichiarazioni: Ego multos annos consideravi ista, et ex toto mihi non sati- sfacio, et volo addiscere 2as dubitationes quas nescio solvere, et solutionem relinquo istis meis sociis qui cenant cum deo et omnia sciunt.... Domini, ego dico vobis sicut dicebat Petrarca: ' Così ben io potessi con lingua ' exprimere quaelibet mente concipio.... Domini et filij mei, dicam vobis veruni: certe quo ad nostrum saeculum, multum laudo fratres sancti Hieronymi, idest li lesuati, quoniam non student et nihil faciunt nisi dicant ' Pater noster ' et 'Ave Maria'. Et ita contenti vivunt et sine molestia. Et quantum ad alium saeculum, magis laudo, et mallem habere conditiones Socratis, qui ad hoc devenit et dixit hoc: 'Unum scio, quod nihil scio ', quam conditiones Aristotelis, quem credo quod multa finxerat se scire, quae tamen ipse ignoraret. Dico vobis quod ista nescio solvere. Solvant qui continuo prandent cum deo qui habent intellectum adeptum ^6. I soci che pranzano e cenan con Dio e san tutto, sono evi- dentemente quegli averroisti che, come l'Achillini e il Baci- lieri, ritenevano fosse concesso al filosofo di giungere, in questa vita, al termine dello sviluppo filosofico e al congiungimento coir Intelletto agente, nel quale consiste il pieno appagamento del desiderio umano di sapere. Paolo Giovio si trovava a Padova, sui ventiquattro anni, di- scepolo del Peretto, quando questi ebbe per concorrente l'Achil- 8? Ib., f. i64r. **^ Parigi, ib., ms. lat. 6535, f. i2or-v. I 258 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI lini fuggito da Bologna; sì che quello che egli racconta dell'uno e dell'altro è testimonianza di quanto ebbe ad osser- vare. Al grande cacciatore di aneddoti non pareva vero di tra- mandarci qualche fugace impressione, colta a volo, intorno ai personaggi del tempo, nei quali s'era imbattuto. Egli infatti niente ci dice dell'insegnamento dell' Achillini a Bologna. Ce lo rappresenta a Padova, averroista che gode fama di solido e ben digesto sapere, mentre il Pomponazzi, astioso rivale ^7, mosso da ambizione, gli vuota la scuola. Un po' trasandato nel ve- stire e nel portamento, ma con fronte sempre raggiante, si- curo di sé, eccolo là al portico pretorio, nel circolo dei dotti, mentre nel rozzo gergo scolastico affronta l'avversario e cerca d' irretirlo entro le maglie dei suoi bifronti e cornuti enti- memi ^^, E talora sembra averlo abbattuto col vigore delle sue stoccate; ma il più delle volte quello sfugge alla presa delle armi dialettiche, l' impeto dei colpi vibrati cade nel vuoto,, stornato da una facezia o da un motto salace, « salsa dicaci- tate », che suscitava, in chi assisteva a quelle giostre di sillo- gismi, le più scroscianti risate. Negli anni del soggiorno padovano l'Achillini attese a riunire in un sol volume le opere che aveva stampate separatamente a Bologna e che abbiamo elencate fin qui. La prima edizione degli Opera omnia fu fatta a Venezia a spese degli eredi di Otta- viano Scoto, ed apparve il 29 luglio 1508. Essa comprendeva i Quolibeta de intelligentns, il De orbibus, il De universalibus,. il De elementis 89 e le questioni De principiis chiromantiae et phvsionomiae, De potestate syìlogismi e De subiecto medicinae. 87 II Capparoni, Profili bio-bibliografici di medici e naturalisti celebri italiani dal sec. XV al sec. XVIII. Roma, 1926, p. 12, dice addirittura che a Padova l'Achillini « ebbe a soffrire l' invidia del Pomponazzi con il quale sostenne non lievi dispute, avendolo ad avversario poco cortese e corretto ». Tutto questo mi pare che aggravi un po' troppo il racconto del Giovio. 88 Paolo Giovio, Elogia virorum literis illustrium. Basilea, 1577, pp. 71-72 e p. 86. In questa edizione dell'opera del Giovio si trova quel ritratto dell'Achillini che il Mlinster (1. e, p. 15) riproduce di seconda mano, dichiarando di non sapere donde provenga. Un ritratto del filosofo bolognese il Giovio doveva possedere nel suo museo a Como. Una copia di esso, se non proprio l'originale, si trova ora nel ballatoio della sala Fagnani presso la Bibl. Ambrosiana di Milano, somigliante all' immagine degli Elogia. Altro ritratto dell'Achillini è posseduto dal museo dell' Università di Bologna. 89 La dedica al Bentivoglio naturalmente fu omessa. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 259 7. - La partenza di questo insigne maestro aveva lasciato un gran vuoto nello studio bolognese, e le autorità accade- miche, che non riuscivano a colmarlo, lo sollecitarono a ritor- nare sulla sua cattedra, minacciandolo dell'ammenda di cin- quecento ducati d'oro e di pene anche più gravi, ove non avesse ottemperato all'ordine 9°. Così egli il 14 settembre 150S fece ritorno in patria, ove riprese la sua attività normale di dottore dei due collegi delle Arti e di Medicina, e il duphce insegnamento della filosofia naturale e della medicina teorica; tanto poco il nuovo regime papale si preoccupava dell'opposi- zione che avrebbe potuto venirgli dalla filosofia. Al periodo del ritorno a Bologna appartiene il trattato De distinctionibus, edito quivi, « per Ioannem Antonium de Benedictis..., Anno domini 1510. Die 5. Octobris ». L'opera concerne i concetti trascendentali di ente, uno, vero, buono, e quelli di essenza, di cosa, di identico e distinto, della distin- zione reale e della distinzione concettuale, delle formalità scotistiche, della relazione e dei suoi fondamenti, dell'ana- logia e dell'uso di questi concetti; di guisa che la trattazione ci dà, di scorcio, un sommario di tutto il pensiero metafisico dell'Achillini intento a salvare e a conciliare la dottrina d'Averroè con quella dei maggiori maestri. Nel 1509, come 90 Da una lettera dei Quaranta riformatori dello Studio bolognese, in data 11 sett. 1507 (pubblicata da B. Podestà, Di alcuni docum. ined. riguardanti P. Pomponazzi, in «Atti e Mem.» della R. Deput. di Storia Patria per le provincie di Romagna, Anno VI, Bologna, 1868, p. 142, nota), appare che i riformatori avevano già prima fatte le loro rimo- stranze, perché s'era assentato senza licenza. L'Achillini s'era scusato « cum dire che ne fu concessa hcentia dal M. co Sr. Confaloniero d' Justi- tia » e che senza di ciò non sarebbe mai partito. Ma i Quaranta repU- carono che la licenza non era stata né richiesta né concessa nella forma valida. Perciò s'affrettasse a far ritorno, se non voleva esser multato di 500 ducati d'oro o colpito con altre gravissime pene « nelle quali incorrono li nostri doctori che partono da Bologna senza licentia per andare a legere fora nelli externi studi ». Tuttavia l'AchiUini non ri- tornò che un anno dopo. Nel Lib. Partitorutn (Arch. di Stato di Bologna, voi. 13, f. 136V), al 14 sett. 1508, si trova che con 19 su 19 fave bianche «I conduxerunt Ex.m Artium et Medicinae Doctorem, D. M.m Alex, de Achilinis ad legendum in Studio Bononie » col salario di 900 lire bolo- gnesi, integre e privilegiate, e alla condizione di leggere Teorica ordi- naria al mattino e Filosofìa ordinaria la sera. La formula « conduxe- runt » vuol dire che si tratta di un nuovo ingaggio. 26o l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI maestro di Teorica, commentò la prima fen del IV libro del Canon di Avicenna 91. Ripreso il corso delle lezioni, egli si dette nel 1511 a esporre il De physico auditu di Aristotele. Ma l'esposizione fu inter- rotta dagli eventi bellici di quell'anno. È noto come il grande capitano Gian Giacomo Trivulzio, al servizio del re di Francia, il 23 maggio di quell'anno avesse ripreso Bologna al papa e come avesse riaperte le porte al ritorno dei Bentivoglio. Ma Giulio II, fatta lega con gli Spagnoli, non tardò a usare dei servigi di questi per far bombardare la città e ridurla all'ob- bedienza della Chiesa. Sorpreso dagli avvenimenti, il maestro continuò a far lezione finché gli alunni, per fuggire all'assedio, non disertarono lo studio 9^. Il 5 febbraio del 1512, penetrato di sorpresa in città Gaston de Foix obbligò gli Spagnoli a sbloccare Bologna. Ma dopo la battagha di Ravenna dell' 11 aprile, perduto l'appoggio francese, i Bentivoglio dovettero di nuovo prendere il largo. Com'era suo costume, l'Achillini avrebbe fatto volentieri a meno di pubblicare questo frammento di esposizione del De physico auditu. Ed infatti egli non aveva mai pubblicato nessun commento a scritti d'Aristotele o d'altri, bensì tratta- zioni originali sebbene ispirate al pensiero d'Aristotele e d'Aver- roè. Perciò mi sorprende assai quello che Ladislao Miinster scrive 93 degli Opera omnia nell'edizione del 1508 curata dal- l'autore stesso: « Si tratta in gran parte di opere d'Aristotele, di Alessandro Afrodisiaco (! ! !), d'Averroè ecc. provviste di commenti dell' Achillini ». Ma ch'egli, non che scorsa, non abbia mai visto in faccia questa edizione, è provato dal fatto 91 Nel cod. latino 14 (io) dell' Università di Bologna si trova, tra altre cose dell' Achillini, una Expositio supra prima 41 Avicennae, da- tata 7 settembre 1509. L. Frati, Indice dei codici latini conservati nella R. Bibl. Univers. di Boi., Firenze, 1909, p. io. V. sotto, p. 269. 92 II Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, I, p. 51, dice, senza per altro citare la fonte, come «l'anno 1512, alli 15 Gennaio, tenendosi una radunanza di Teologi, di Dottori legisti e d'altri Uomini insigni, per consultare se si dovea ricevere il Legato proposto a Bologna dal Conciliabolo di Pisa (cioè il Cardinale San Severino, fatto legato di quella radunanza e Governatore di Bologna), gli aderenti a' Benti- voglio sostenevano l'affermativa, e fra essi Alessandro Achillini piià d'ogni altro aringo con grande arte ed impegno per sostenerla. E se non potè ottenere l' intento, ne venne però, che fu determinato di non ricevere né questo né quello destinato allora dal Pontefice Giulio II ». 93 0 Riv. di St. delle Se. Med. e Naturah », XXIV, 1933, p. 71. I APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 201 che fra le opere incluse in questa edizione pone il De physico auditu, stampato la prima volta nel 1512, e il De niotimm proportione, di cui diremo più giù. L'Achillini, dunque, per sua esplicita dichiarazione, non pensava affatto a dar in luce una nuova esposizione dell'opera aristotelica, parendogli che bastassero quelle greche, latine ed arabe che correvan per le mani di tutti. In ciò fu imitato dal Pomponazzi, che non pensò mai a dare alle stampe alcuno dei numerosi commenti ad Aristotele, lasciati inediti nelle riportazioni dei suoi alunni. Quello che decise il bolognese a desistere dal suo proposito, è quanto egli stesso scrive in principio del frammento: Fugeram olim Peripateticorum principis Aristotelis librorum interpretationes notis mandare, quoniam expositores tum Graeci, tum Arabes, tum Latini, evolvere ipsos cupientibus textum Ari- stoteUs piane aperuerunt. Difficultates autem circa sententias Aristotelis et Averrois contingentes, ex libris a me editis non dif- ficile erat comprehendere. Sed quia varii auditores varia fragmenta philosophica, me legente, varie collegerant, et me inscio meo nomine publicaverant, non passus sum ut, quae nostra non erant, prò nostris haberentur. Ideo coactus sum haec scripta, tum ap- ponendo tum variando tum rescindendo, diligentius repurgare, ut ipsa, manu propria elaborata, proprium auctorem recogno- scerent v4. E alla fine dell'opera: Hucusque (cioè fino al principio del libro II, t. e. i) nos pro- secuti sunt audientes. Quod si amplius durassent, noster labor longior fuisset. Et haec nostra recognoscens, fragmenta esse vo- luissem, sed fractionum fragmenta sunt, quoniam eis commi- nutiva fractio supervenit, Hispanis Bononiam armis impeten- tibvis et moenia machinis deicientibus 95. Per giocondità del lettore aggiungerò che nel II volume della Storia dell'università di Bologna di Luigi Simeoni (Zani- chelli, Bologna 1940, p. 51) si legge che Alessandro Achilhni, 94 Alex. Achillini, Expositio primi Physicoriitn. E infine: Expli ciiint fragmentorum fractiones physicales ab Alex. Ach. Bon. ordinariam Theorice de mane publice docente. Impresse per Hieron. de Benedictis civem bonon. Anno Domini M.D.XII, f. iv. Questa avvertenza è stata omessa nell'edizione degli Opera omnia curata da Panfilo Monti nel 1545. 95 Ib., f. 33rb, e nell'edizione del Monti, f. gorb. 202 l'aristotelismo PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI se non scopritore, fu almeno « il primo descrittore degli ossi- cini dell'orecchio nel suo De physico auditu ». Con che il Si- meoni parrebbe credere che in questa opera l'Achillini si occupi dell'anatomia dell'orecchio ! E questa doveva essere un'opinione ben radicata in lui, se anche poche pagine dopo scrive che il bolognese fu « celebre tanto come dialettico..,, quanto come anatomico e medico », e che « le opere che di lui possediano.... che trattano tanto De universalibiis come De physico auditu..., mostrano questo doppio carattere» (p. 57). Ora nel De physico auditu non si parla affatto di cose atti- nenti all'anatomia, bensì di quello di cui Aristotele parla in quest'opera e, fra l'altro, anche degli universah, ma dell'organo dell'udito proprio no. Un'altra opera composta dall' Achillini in questi ultimi anni della sua vita e lasciata inedita è il De proportione motuum. L'argomento riguarda il rapporto che Aristotele, nel VII della Fisica9^, aveva stabilito tra la forza, la resistenza e la velocità del movimento, e il tentativo da parte di Tommaso Bradwar- dine, di Nicola d'Oresme e degli altri « calculatores » di tra- durlo in un rapporto matematico. Le dottrine di costoro, por- tate in Italia da Biagio Pelacani da Parma, « Parisius docto- ratus », avevano suscitato vive controversie tra coloro che accettavano la novità delle « calculationes » e gli averroisti che alle nuove dottrine furono piuttosto ostili. L' Achillini si mostra pienamente informato dello stato della questione, allora dibattutissima anche a Padova e a Bologna. Conosce e cita il commento del Campano alla Geometria di Euclide, l'Aritmetica di Giordano de Nemore, i trattati calcolatori di Tommaso Bradwardine, del Swineshead, dello Heytesbury, di Nicola d'Oresme, d'Albertuccio ossia d'Alberto di Sassonia, di Paolo Veneto, di Giovanni Marliani « in sua quaestione subtili de proportionibus », insomma tutta la letteratura del- l'argomento, che noi oggi ben conosciamo attraverso le dotte e dihgenti ricerche della Dott. Anneliese Maier97. Intento del maestro bolognese era quello di salvare le regole delle propor- zioni formulate da Aristotele e da Averroè nel VII della Fisica e di accordarle con le teorie calcolatorie, a differenza di quello 96 Cap. 5, 249b 27-25ob 8 (t. e. 35-39)- 97 Die Vorlàufer Galileis im 14. Jahrhundert, Roma, 1949, pp. 79-215; An der Grenze von Scholastik u. Naturwissenschaft, Roma, 1952, pp. 257-384. I APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 263 che pensava potesse farsi, pochi anni dopo la morte di lui, il Pomponazzi 98. L'opera non potè essere pubblicata dal filosofo bolognese perché prevenuto dall' improvvisa morte. Lo Hain, n. 71, registra quest'opera dell' Achillini col titolo De distyibiitionihus ac proportione motuum, e la dà stampata a Bologna, « per Benedictum Hectoris », nel 1494. Ma il Gesamtkatalog, I, p. 79, dichiara l'esistenza di questa edizione « zweifelhaft ». Io la direi semphcemente inventata. Per due ragioni: primo, perché nell'opera sono citati il De orbibtis e il De elementis sicura- mente posteriori al 1494; secondo, perché il fratello Giovanni Filoteo che nel 15 15 ne curò l'edizione postuma, la dà come inedita, nella dedica a Leone X: « Itaque Alexandri ipsius auctoris nomine (quando ipse funere praeventus acerbo non potuit) ea sanctitati tuae nuncupatim dico » 99. Ma il 2 agosto 15 12, coli 'animo profondamente amareggiato per gli avvenimenti che avevano turbato la serenità dello 98 « Aliqui ergo ducti inani gloria voluerunt salvare Aristotelem ; Inter quos fuit Ioannes Marilianus, qui construxit tractatum in quo intendebat salvare Aristotelem; et aliqui fecerunt tractatum centra Marilianum.... Et totus mundus apud me non salvaret Aristotelem, et Aristoteles sibimet contradicit, et videbitur aperte errasse, et una re- gula alteri contradicit. Fortassis enim quod decipior; sed iudicabitis vos per dieta Aristotelis, quod non potest salvari. Aristoteles etiam fuit homo et decipi potuit, sicut etiam possibile est me decipi » (P. Pomponazzi, In ynm. Phys., ad t. e. 39, ms. aretino, Bibl. de' Laici, 390, f. 180V sgg.). Giunto alla fine della sua riportazione, l'alunno, che dal cod. della Kungl. Biblioteket di Stoccolma, Va. 24 (cfr. « Giom. Crit. Filos. It. », XXXVII, 1958, p. 354) appare essere quel Magister Hieronymus Bonus o de Bono, da Bologna, laureato in Artibus et Medicina il 13 ott. 1519 (Libro Segreto del Collegio, cit., f. 32v), annota: <( Preceptor in destruendo Aristotelem oblocutus est in tantum quod fere omnibus tedio fuit, tot et tantis modis argumenta ista prolixissime formaverat, et monstravit quibus modis et quot viis potuit, argumenta ista apud eum concludere et insolubilia fore. Quapropter multum excitavit ingenia scholarium in volendo Aristotelem tueri ab istis argumentationibus. Tu omnia et adhuc meliora accipias ex Bendano, hic in questione propria, ex quo omnia hec accepit preceptor; et adde ex tractatu Achillini ». Questa annotazione nel cod. 45 del Collegio Campana di Osimo (f. 222r) è chiusa entro le sigle H.us.... B.us. Nel Cod. parigino, Bibl. Nation., ms. lat. 6533, f. 358V, si legge invece: « Verum magister Benedictus Victorius de Faventia conatus est de- fendere Aristotelem, et licet legeret medicinam extraordinariam hora 19, tamen defensionem prò Aristotele scolaribus quibusdam in scriptis dedit, et ego hic scripsi ut patet ». E segue la Defensio Aristotelis in ultimo capitulo ji Phisicorum (f. 359r-36iv) del maestro faentino. 99 Alex. Achillini Bonon., De proportionibus niotuum, Bologna, Girol. de' Benedetti, 15 15, agosto, f. 2r. 264 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI studio bolognese, il celebre maestro averroista venne improv- visamente a morte, mentre l'anno prima era giunto a Bo- logna il Pomponazzi, a reggere una delle cattedre di lilosofia naturale, e su di lui, dopo la scomparsa dell' Achillini, comin- ciarono a convergere gli sguardi degli studenti bolognesi. La morte di maestro Alessandro fu pianta come il più lut- tuoso evento cittadino. Il necrologio che di sua mano scrisse, nel Libro Segreto del Collegio delle Arti e di Medicina, maestro Federico Gambalunga, che per molti anni gli era stato col- lega, ci riempie ancora di stupore, perché unico negli annali dello studio bolognese; di nessun altro maestro si dice quello che fu detto allora dell' Achilhni, in sì grande concetto lo te- nevano i contemporanei, quasi fosse un dio "o; Egregius artium et medicine doctor, D. M.r Alexander Achil- linus obijt quarto nonas augusti. Heu dies, dies inquani infausta nimium, non modo Bononie, verum etiam universe genti. Eam enimvirbs haec litterarijque omnes, quorum ingenia quasi phoebe^o^ ab illius uberrimi fontis splendore lumen accipiebant, iacturam passi sunt, qualem vix Roma Cesaris vel Ciceronis obitu, vel maxime ^o^ tunc quum apud Cannas infaeliciter pugnatum est, vix Graecia ex philosophorum principis, vix Chous ex medicinae parentis lete pertulit. Talis enim tantusque erat, ut cunctis vi- vendi esset exemplar. Unde non iniuria omnium oculi in ipsum coniecti erant. Omnes ipsum intuebantur. Omnes admirabantur. Omnes denique tanquam deum colebant, venerabanturque : ' Deus, deus inquam nobis ' ^°'i. Nam, ut de moribus taceam, quibus Laelium superabat, — erat enim beneficus, comis, iucundus, hylaris amicis, inimicis autem non asper, nemini nocebat, tri- buebat autem suum unicuique, quod proprium est iustitiae, utebatur pietate in parentes deosque mirifica, favebat bonis,. malos autem modeste incusabat, — quid de litteratura, qui quasi Crisippus in dyalecticis, in physicis Aristoteles, in Methaphysicis 100 Poi. igr. Questo necrologio che L. Thorndike, A ìiistory of magic, a. experim. science, voi. IV, New York, 1941, p. 39, chiama « very fulsome » (e non so proprio perché, sebbene « fulsome » voglia dire tante cose !), non è stato pubblicato da Michele Medici, come afferma il Thorndike, ma da L. Miinster, l. e, pp. 55-56, con alcuni gravi errori, come vedremo subito. i°i II Miinster traduce; «i quali come da Phoebo(!) ricevevano dallo splendore...... Ma Phoebe, non è Febo, sibbene sua sorella Feba (cfr. Dante, Mon., I, XI, 5) o Diana, cioè la luna ! Di questo elogio ho dato la traduzione nel settimanale romano di cultura Idea, V, n. 36, del 6 sett. 1953. 102 II Miinster traduce: «o tutt'al pivi per la malaugurata battaglia». l'^S Mi parrebbe una reminiscenza virgiliana, BiicoL, V, 64: «Deus, deus ille, Menalca ». APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 265 Plato, quasi Galenus in medicina ? Ita denique in omni scientiarum genere valuit, ut esset ex consensu eruditorum omnium extra omnem ingenii aleam positusio4. Fuit enim in ipso mira vigilantia, mira solertia, mirum exercitium. jNam die noctuque studebat, legebat, disputabat dicebatque, et equidem omnia docte copiose subtiliterque, quasi natura i°5 loqueretur. Ereptus est autem agens annum xxxxxi 106 Heu, fortuna invida, atrox, inconstans, indignorum fautrix. Heu, mors crudelis, non potuisti huic uni indulgere, qui, si vixisset, archana dei mortalibus declarasset, novissetque homines in vitam revocare ? Celebratum est autem eius funus tertio nonas augusti maximo doctorum scolarium ceterorumque comitatu. Astabant circa ca- daver mulieres maestae. Astabant affines, Egregiorumque docto- rum nostra collegia. Discipuli ceterique, qui tanquam splendidis- simum probitatis speculum litterarumque patrem flebant, pul- lati 107 omnes. Denique tota huius civitatis facies tristem sese prae- ferebat, quae semper gaudebit talem virum habuisse, dolebitque sibi fuisse abreptum, donec funditus delebitur. Constitutum sibi fuit sepulcrum in aede divi Martini bono- niensis, ubi decantata fuere officia prò eo. Cuius anima requiescat in pace. Amen. Il solenne corteo funebre, partendo dalla casa degli Achil- lini, sita all'angolo di via degli Usberti con via de' Parisi o di S. Colombano (verosimilmente l'odierno numero 16; cfr. G. N. Pasquali Alidosi, Nomi delle strade vie borghi et vicoli che sono nella città di Bologna. Bologna, 1624, pp. 30-31. Via de' Parisi doveva chiamarsi anche « via delli Achillini », come parrebbe da uno strumento notarile del i» dicembre 15 18 nell'Arch. di Stato di Boi., S. Martino Magg. 31-3513, n. 37), raggiunse, attraversando il borgo Galliera, la chiesa di S. Martino presso il chiostro dei Carmelitani scalzi. Il sepolcro era sicuramente nella cappella degli Achillini con altare dedicato un tempo ai SS. Biagio e Cristoforo, poi a S. Barbara, e in questi ultimi tempi di nuovo a S. Biagio. La cappella resta ancora, un po' in dietro all'altare maggiore. 104 II Miinster legge: «extra omnes ingeniorii (?) aleas positas »; e traduce: «da esser posto al di sopra di ogni altro ingegno». i°5 II Miinster ha letto : « quidnam » ; e perciò traduce : « di qualsiasi cosa parlasse ». i"6 Questa cifra è corretta su rasura da qualcuno che riteneva l'Achil- lini nato nel 1461. i"7 II Miinster ha letto «pulsati», e ha tradotto «commossi», anzi che « vestiti a lutto ». Di altre inesattezze di traduzione non tengo conto. 266 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI fra il coro e la sagrestia. In questa tomba di famiglia nel 1640 fu sepolto anche il pronipote Claudio Achillini di manzoniana memoria e ai suoi tempi celeberrimo. Ma poi la cappella fu venduta e passò ad altri proprietari. Di tutto questo ha la- sciato sicura memoria lo scrittore carmelitano Pellegrino An- tonio Orlandi nei Monumenta di S. Martino Maggiore, del 1723, che si conservano mss. nella Bibl. Comunale dell'Archi- ginnasio (Ms. B. 964, pp. 116 e 121; Ms. B. 996, pp. 109 e 114). Nei due esemplari v' è alla fine la mappa della chiesa con numeri che rimandano a didascalie in margine. Il n. 13 indica con esattezza l'ubicazione della piccola cappella e permette di ri- trovarla. Ma nessuna traccia v' è oggi di tombe o d' iscrizioni sepol- crali che le ricordino. Né tanto meno v' è traccia dell'epi- taffìo riferito da alcuni storici, i quali intorno ad esso han fatto non poca esilarante retorica. Dà la stura Ernesto Renan ^°^. Parendogli che l' Achillini non rivelasse nei suoi scritti quella libertà di pensiero che altri averroisti avevano ostentato, « il se mentre beaucoup plus libre — dice il Renan, — dans sa hautaine épitaphe à San Martino Maggiore de Bologne»: Hospes, Achillinum tumulo qui quaeris in isto, falleris: ille suo iunctus Aristoteli, Elysium colit, et quas rerum hic discere causas vix potuit, plenis nunc videt ille oculis. Tu modo, per campos dum nobilis umbra beatos errat, die longum perpetuumque vale. Nel qual giudizio sembra convenire anche Francesco Fio- rentino 109. Il Miinster si contenta d' informarci che le parole di codesto epitaffio scolpito sulla tomba in S. Martino, erano state dettate dall' Achillini "». Invece il Garin i" eil Calcaterra"^ ripigliano il concetto della « hautaine épitaphe ». « Nell'epi- taffio che dettò per la sua tomba nella Chiesa di San Martino Maggiore.... suona ardita la sua fede nell'aristotelismo, che era fede nella scienza, nella indagine chiara e senza legame i°8 Averroès et l'Averroisme, 3me ed., Paris, 1866, p. 362. 109 P. Pomponazzi, Firenze, 1868, p. 262. ^1° L. e, p. 22. I" La filosofia (nella Storia dei Gen. Letter. del Dott. Francesco Va lardi), voi. II, Milano, 1947, pp. 4-5. "2 Alma Mater Siudiorìim, Bologna, Zanichelli, 1948, p. 163. APPUNTI SU ALKKSANEFO ACHILLIKI 267 alcuno che l' impacciasse.... Non v' è, in questi distici, traccia di preghiera» (Garin). «A questo desiderio di razionahtà, in lui più forte della fede, trasmessagli dai padri, è ispirata la figurazione, con cui, componendosi l'epitaffio pel sepolcro, amò contemplarsi di là dalla morte: Hospes, Achillinum.... Anche sulle soglie della morte, dunque, l'Achillini attestava che l'apice della felicità sarebbe stato per lui poter finalmente conoscere le ragioni supreme delle cose, che nella vita aveva appena intraveduto, seguendo le disquisizioni del sommo tra i filosofi, Aristotele» (Calcaterra). Ma, benedetta gente, ci voleva proprio tanto ad « accertare il vero » ? Bastava togliere in mano gli Elogia virorum literis illustrium di Paolo Giovio, e si sarebbe visto che quello non era un epitaffio, né fu mai scolpito sul sepolcro del filosofo in S. Martino, e tanto meno fu dettato dall'Achillini stesso. Si tratta invece di un epigramma bene indovinato, il nome del cui autore. Giano Vitale, è fatto dal Giovio, e lo si ritrova fra i carmi latini di quel poeta nelle Delitiae CC. Italorum Poetarum di Ranuccio Ghero, o meglio di Giano Gruferò, Pars altera, 1608, p. 1439 "3. Un altro epigramma sulla tomba dell' Achillini scrisse anche, prima del 1525, quel poetastro di mestiere che fu il Cavalier Casio "4: Del giovene Alessandro Achillino, altro Aristotel, l'ossa son coperte, ma l'opre stan tra Philosophi aperte. Felsineo fu, anci pur fu divino. I biografi antichi dell'Achihini riportano anche un altro epigramma, quasi sonasse elogio del filosofo, senza accorgersi che vorrebbe annientarlo. Ne è autore quel frate umanista, non privo di spirito, che fu canonico regolare di S. Agostino e si firmava Joannes Latomus Berganus, cioè lohan Steenhawer "3 Intorno a Giano Vitale, cfr. G. Tumminello, G. V. umanista del sec. XVI, in « Arch. Stor. Sicil. », N. S., Vili, 1883. A Bologna il Vitale fu sicuramente dal 1552 forse fino alla morte, prima del 1560, insieme al prolegato Girolamo Sauli, vescovo di Genova. L'epigramma dovette essergli ispirato da una visita aUa tomba del filosofo averroista in S. Martino. "4 Libro intitulato Cronica, ove si tratta di Epitaphii, d'Amore e di Virtute, composto per il Magnifico Hieronimo Casio de Medici, Cava- liero Laureato et del Felsineo Studio Reformatore. M.D.XXV, f. 34V. 268 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI di Berg-op-Zoom, ov'era nato nel 1522 o 1524. Per l'edizione dell'opera del Giovio fatta a Basilea nel 1577, egli scrisse tanti epigrammi quanti sono i medaglioni delineati dallo sto- rico di Como. Quello concernente Alessandro Achillini suona così: Quisquis Averroem censes habere cerebrum falleris; haud est me passus habere nieum. Regula non fallit: propter quod quodlibet unum, taliter atìectum est, sed magis illud erat. Se Averroè avesse avuto cervello, non avrebbe impedito che io avessi il mio. La regola non falla, ed è regola aristotelico- averroistica : «propter quod unumquodque, et illud magis»! E difatti l'Achillini non ebbe altra ambizione che quella di dimostrare che Averroè aveva ben compreso Aristotele, non quella di risolvere col proprio cervello i problemi che intorno alla realtà s'era posto il filosofo di Stagira. 8. - Un uomo come l'Achillini, morto nel pieno vigore della sua attività di filosofo e di teorico della medicina, è ben na- turale che dovesse lasciare molte opere abbozzate o appena delineate, schemi di lezioni, appunti, eccetera. Dov' è andato a finire tutto questo ? L'Alidosi, che nelle sue affermazioni in generale è assai bene informato, accenna ad « altre sue opere manoscritte come: Expositio de substantia orbis, De mixtis, Tractatus super diiodecim (sic, verosimilmente: duodecimum) Metaphysicae, Rethonca Aristotelis per eum correcta. Et un trattato dell'anima, scritto di sua mano, eh' è di carte 114» "5. Il Mùnster segnala l'esistenza nell' Universitaria di Bologna di cinque « opuscoli » manoscritti di Alessandro Achillini, «forse autografi, ma certamente dell'epoca»"''. Questi scritti erano già stati segnalati da L. Frati, ed io ho voluto vederli. Si tratta di cinque quadernetti riuniti in volume, ciascuno con copertina propria, con propria numerazione, e con un titolo sulla copertina di ciascuno, scritto da una stessa mano, diversa da quella che ha scritto il contenuto di ognuno. Il "•^ G. N. Pasquali Alidosi, / dottori bolognesi, cit., pp. 8-9; cfr. P. A. Orlandi, Notizie degli scrittori bolognesi.... Bologna, 1714, p. 43. "6 L. e, p. 72; cfr. L. Frati, op. cit., p. no. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 26g primo di questi fascicoli porta questo titolo sulla copertina: Expositio Alexandri Achilini super prima 41 Avicene piilchra; e nel retto della prima carta: y^ septemhris ijog. Prima 4Ì. Sono brevi appunti con schemi di qitaestiones, che dovevano servire all'Achillini ritornato da Padova per un corso di le- zioni sulla prima fen del quarto libro del Canon di Avicenna. Ma questi appunti non vanno oltre la metà del fol. 5r. Seguono altri cinque fogli bianchi. Per il contenuto niente di notevole che distingua il pensiero dell'autore da quello delle scuole di medicina del suo tempo. Può darsi che questi appunti siano autografi. — Il secondo fascicoletto porta questa iscrizione sulla copertina: Tahìtla Alexandri Achilini in medicina. Nel- r interno il nome dell'Achillini non è fatto. Si tratta dell'enun- ciato di una serie di quaestiones riguardanti alcuni testi usati nell'insegnamento della medicina teorica: In afforismonim prima pariicula (in tutto 40 quaestiones) ; in 2^ particula (43 qq.) ; in 3^ particula (15 qq.) ; iìi 4^ partictda (20 qq.) ; in 6^ particida (i sola q.). Seguono poi 48 qq. sulla prima jen del primo libro del Canon di Avicenna; 19 qq. sulla prima parte della Tedine di Galeno; 60 sulla 2^ parte; 12 sulla 3^; indi ancora 13 qq. sulla prima jen del quarto libro del Canon. La scrittura è un po' più larga di quella del primo fascicolo, ma non molto dissimile. — Il 30 quadernetto di 6 fogli, di cui l'ultimo è bianco, ha questo titolo sulla copertina: Qnoddam consilium in medicina Alexandri Achilini pidchrtim, ma nel- r interno il nome dell'Achillini manca, e il titolo suona così: Qnoddam consilium de regimine itinerancium. Esaminando la scrittura, mi sembra sicuramente del sec. XIV; tanto poco quel consilium è autografo. Del che s' è accorto anche il Miinster. — Il 40 fascicolo porta in copertina e all' interno questo ti- tolo: Auctoritates Galeni collecte per Al. A eh., ed ha questa annotazione in principio: «Liber de questionibus (o meglio de complexionibus) antecedit hunc librum». In queste venti pagi- ne, quasi certamente autografe, il maestro bolognese ha sunteg- giato i primi cinque libri dell'opera di Galeno, De simpl. me- dicamentorum temperamentis, che, com' è noto, ne ha 11. — Il 5° e ultimo quadernetto porta sulla copertina questo ti- tolo: Multa ex Entishari Sophisla. L'esame del contenuto, invece, ci attesta trattarsi di annotazioni a questioncelle in margine all' Expositio di Paolo Veneto in lihros Posterio- rum Analyticorum . In complesso questi manoscritti bolognesi 270 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI niente ci offrono di notevole per una migliore conoscenza del pensiero dell'Achillini, Lynn Thorndike"7, alla sua volta, ci dà i titoli di altri scritti inediti del bolognese, contenuti nel codice dell'Ambrosiana di Milano, segnato A. 236 inf., cioè: i. Alcuni trattatelli di logica, l'ultimo dei quali Aggregator [o meglio Agregatum] piurium in logica Alex. Achillini; 2. Nonnulla circa prohe- miuni Aristotelis et Averrois in libris Physicomm; 3. Non- millae qtiaestiones in philosophia naturali; 4. Utrum ossa nutriantur medulla; 5. Utrum hyle sit generabile et corruptibile ; 6. Utrum proiectum moveatur a proiiciente post separationem ab eo; 7. Utrum dementa sini materia prima; 8. Expositio dictorum Averrois in libris Physicorum; g. De intensione et remissione formarum. Tuttavia questi titoli non bastano a darci un' idea esatta della composizione del volume ambrosiano. Il quale è for- mato da fascicoli distaccati di manoscritti diversi. Comincia con 2 quinterni (C, D) e un quaderno (E). Seguono alcuni duerni (A, B, Bb, C....) e il duerno A porta la numerazoine f. io5r.... fino al f. I48r-v. Col fol. 149 comincia la numerazione moderna a matita, di fogli evidentemente d'altra provenienza. Nel complesso il ms. ambrosiano, in questa prima parte, cioè sino al f. 178, contiene quaestiones di logica, su Porfirio, sulle Categorie, sul Perihermeneias; poi di nuovo (ff. 113V-150V) riassunti della Isagoge porfiriana e di parti delle Sunimulae di Pietro Ispano; indi (f. I54r-v) frammenti di dottrine calcolatorie ; seguono alcune pagine sulla dimostrazione e sulle conseguenze e VAggregatum piurium in logica alexandri Achilini (ff. I55r-i78). Si tratta di lezioni e di appunti per lezioni, in gran parte di mano dell'Achillini, con correzioni e note marginali, appartenenti sicuramente al periodo in cui r Achillini insegnava logica (1484-1487), Invece tutto il ri- manente del codice contiene frammenti e note di lezioni sulla filosofia naturale. Al f. I95r, in alto a destra, v' è questa anno- tazione: " 1495, Julij 30 ». La quaestio « Utrum ossa nutriantur medulla» (f. 20or-204r), di mano diversa, non sembra dell'Achil- lini. Al f. 205r, sotto il titolo «Si anima sit unita» o piuttosto «unica», v'è un elenco importantissimo, che pare autografo, di J'7 L. e, p. 49, n. 2Ì APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 27I quaestiones riguardanti l'unione dell'anima intellettiva al corpo umano. Al f. 22 ir e 222r, due brevi frammenti di un commento al De anima del 1507. Gran parte anche di questi frammenti sulla filosofìa naturale sembra autografa, ma neppur essi recano alcuna luce per una migliore conoscenza del pensiero del bolognese. Inedito, come abbiamo visto, era rimasto anche il De pro- portione motuum, pubblicato postumo dal fratello Filoteo. E le famose opere anatomiche di cui tanto si parla da parte degli storici della medicina ? Secondo Pietro Capparoni "^^ queste opere sarebbero tre: i. De humani corporis anatomia. Venetiis 1516 in foL; Bononiae, per Hieronymum de Bene- dictis 1520 in 4°; Venetiis, apud loh. Ant. et Fr. de Sabio 1521; 2. In Mundini anatomiam adnotationes cimi praefat. seu de- dicai. Io. Philothei Achillini; extat in Fasciculus medicinae Io. de Ketam. Venetiis, typis Caes. Arrivabeni 1522 in fot., a carte 47; Bononiae, typis Hier. de Benedictis 1524; 3. Anno- tationes anaiomicae. Bonon., Hier. de Benedictis 1520. Dal Capparoni dipende probabilmente il Biographisches Lexicon der hervorrag. Aertzte dello Kirsch (I, pp. 16-17), che cita per altro il Mazzuchelli e il Fantuzzi. Ma il Mazzuchelli aveva parlato di due, e non di tre opere, e contro il parere del Mangeti e del Mercklin s'era detto convinto che anche queste due in realtà non fossero che una sola "9. Il Fantuzzi '-0 poi non fa che ripetere il Mazzuchelli; e né l'uno né l'altro fanno motto del- l'edizione di Venezia del 15 16 in jol. Il dubbio del resto fu chiarito in una dotta memoria letta all'Accademia delle Scienze di Bologna il 7 maggio 1844 da Francesco Mondini e pubbli- cata postuma neir 8° volume dei Novi Commentarii dell'Acca- demia (Bologna, 1846, pp. 488-489). Di questa memoria trasse profìtto Michele Medici, Compendio storico della scuola anatomica di Bologna (Bologna, 1857, P- 5^)> P^^ ribadire la scoperta del Mondini, che le altre pretese opere anatomiche non erano che una sola, pubblicata con titoli diversi nelle varie edizioni, e per correggere l'errore accolto anche dal De Renzi, pur così informato. Tuttavia, io non ho voluto prestar fede neanche al Mondini e al Medici, e ho voluto rer.- "8 L. e, p. 13. "9 Mazzuchelli, Gli scrittori d'Italia, t. I, p. 102. '2*' G. Fantuzzi, op. cii., pp. 54-55. 272 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI dermi conto de visti della curiosa vicenda i-'. Ho potuto così constatare che la prima edizione è quella che vide la luce a Bologna il 24 sett. 1520, a cura di Giovanni Filoteo Achillini, col titolo di Anotomicae annotationes , nella stamperia di Ge- ronimo de' Benedetti, con dedica a Panfilo Monti, che di maestro Alessandro era stato alunno, ed ora teneva la cat- tedra ordinaria di medicina teorica, « Bononiensis Gymnasii splendor immortalis », nientemeno ! Questa dedica porta la data del 12 settembre dello stesso anno, ed ha nel frontispizio la ben nota xilografia, sormontata dal nome « Magnus Alexander Achillinus » ; sotto il ritratto di lui, tre distici di Annibale Camillo da Correggio, « Artium et Medicine discipulus ». La dedica parrebbe escludere che vi fossero edizioni anteriori. La stessa opera, col titolo De humanis corporis anatomia, uscì a Venezia nel 1521, per Io. Ant., et fratres de Sabio, con la stessa dedica di Giovanni Filoteo a Panfilo Monti. Terza stampa della stessa opera è quella che apparve nel FascicuUts medicinae di Giovanni de Ketam, ediz. veneziana « per Caesarem Arrivabenum », del 1522. In questa edizione l'opera dell' Achilhni forma il trattato X della raccolta, subito dopo V Anatomia del Mondino, e porta questo titolo: Anno- tationes anathomie Alex. Achil. honon.; ed anch'essa ha la de- dica del 1520 a P. Monti. Dell'edizione di Venezia, 1516, in fol. secondo il Capparoni, in 4° secondo lo Hirsch, nessuna traccia, sebbene altri la ricordino per sentita dire. Delle edi- zioni posteriori a quella del 1522 non mi sono occupato. Il colmo in questo pasticcio pseudo erudito è raggiunto dal Miinster ^^z^ il quale, dopo aver parlato della prima e della seconda opera secondo l'ordine del Capparoni e dello Hirsch, aggiunge di suo che le Annotai, anatomicae del 1520 pare non siano un nuovo trattato, bensì l'unione delle due precedenti! '23. I-' Esempio tipico non so se di disinvoltura o d' improntitudine let- teraria, da parte di troppi scrittori, avvezzi a copiacchiare come scola- retti e a spacciare per certo quello che hanno appreso soltanto per sentito dire. ^^^ L. e, p. 72. 1^3 Curioso è il caso di A. Pazzini. Nello studio già segnalato, che è del 1933, sebbene parli di «scritti anatomici» (p. 298), egU con questa espressione parrebbe tuttavia intendere le sole Adnotationes anato- micae che nel Fascicuhis medicinae del Ketam sarebbero state pubbli- cate, dice lui, col titolo in Mundini Anatomiam adnotationes. Invece nella Storia della medicina, voi. I, Soc. Editr. Libr., Milano, 1947, p. 614, J APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 273 Queste Anotomicae annotationes che il maestro bolognese aveva lasciato tra le sue carte, non costituiscono propria- mente un'opera di anatomia umana da dare alle stampe, ma lo schema forse d'un'opera che egli andava preparando e per la quale raccoglieva osservazioni che gli era accaduto di fare nel corso di diverse dissezioni anatomiche predisposte da lui stesso o insieme ad altri colleghi. Queste dissezioni avevano lo scopo di riconoscere nell'organismo umano quello che si legge in Galeno o in Avicenna, nel Mondino o in Ugo da Siena. Nel corso di queste ricognizioni accade talora all'Achil- lini di notare errori commessi dagli anatomisti precedenti, e discordanze fra quello che leggeva negli scritti di costoro e quello che gli rivelava l'esperienza. Spesso egli ha cura di descriverci il procedimento col quale egli conduceva la dis- sezione, e di suggerire il modo più adatto per mettere a nudo, senza lederlo, quell'organo o tessuto che si ha in animo di studiare. L'opera, come dicevo, è semphcemente abbozzata; ma anche in questo stato, essa costituisce un notevole docu- mento di quello che s'andava maturando nelle scuole di chi- rurgia. Mentre le rumorose dispute intorno al modo d' in- tendere i testi classici dell'anatomia recavano assai scarsa luce per una esatta rappresentazione della struttura dell'or- ganismo umano, gì' impetuosi torrenti di parole s'arrestavano, le ire si placavano, quando gli occhi dell'anatomista e di coloro che gli facevan corona nell'anfiteatro, si fissavano su quello che il coltello metteva a nudo, e la luce dell'esperienza rive- lava qualcosa di nuovo e d' insospettato. Il che del resto avvenne, nel secolo XVI, non solo nel campo dell'anatomia, ma in tutte le ricerche concernenti la natura, e non per in- flusso dell'umanesimo e del platonismo, ma per un processo di critica interna, quasi direi di autocombustione, in seno alle scuole aristoteliche. Galileo stesso vien dall'aristotelismo in via di dissoluzione. Il Rinascimento è frutto dell'approfon- dirsi e dell'estendersi dell'esperienza in tutti i campi del sa- pere naturale. Com' è noto, Panfilo Monti nel 1545, mentr'era professore vedo che è ritornato all'errore del Capparoni e dello Hirsch. Se avesse dato un'occhiata alla memoria del Mondini e all'opera di M. Medici, oltre alla correzione di questo errore, vi avrebbe trovato forse qualcosa che poteva giovargli anche per l'argomento da lui trattato, riguar- dante la scoperta della membrana timpanica. 18 274 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI a Padova, raccolse in un volume gli Opera omnia dell' Achil- lini, cioè tutte le opere che il maestro bolognese stesso aveva dato alle stampe, più il De proportione motuuni; e il volume, edito da Geronimo Scoto a Venezia, fu dedicato al patrizio veneziano e chiarissimo filosofo Sebastiano Foscarini. Perché ne lasciò fuori le Anotomicae a?inotationes ? Non certo perché egli non le ritenesse autentiche; ma verosimilmente perché gh parvero, come sono, opera frammentaria, piii schema e ma- teria di opera che opera completamente delineata; o forse anche perché quelle note gli parvero ormai sorpassate e di scarso valore, dati i rapidi progressi che l'anatomia in quegli anni andava facendo. Sì che agli occhi dell'alunno editore l'opera dell' Achilhni degna d'essere presa ancora in considerazione e tramandata e meditata era opera di filosofo. E questa sola egli intese tra- mandarci con l'edizione da lui curata 1-4. Con le Annoiationes il Monti trascurò altresì gì' inediti che non dovevano mancare sia tra le carte del maestro, o dispersi in riportazioni di scolari. 9. - Se ora ci chiediamo quale è stato il giudizio complessivo degli storici sull'opera globale dell'Achillini, dobbiamo con- statare, anzitutto, che troppi son coloro che ne hanno parlato per sentito dire. E questo tanto tra gh storici della filosofia quanto tra quelli della medicina. Di costoro evidentemente non è da tener conto. Come non è da tener conto di giudizi come quello del Munster '^s, il quale da ciò che dell'Achilhni narra a modo suo il Giovio, è indotto a rappresentarcelo come « schizzoide >> ! Il primo che ha parlato dell'averroista bolognese dopo averne scorse le opere, se non tutte, almeno i Qitoliheta de intelligentiis, fu, tra gli storici della filosofia, Francesco Fio- rentino nel suo Pomponazzi del 1868, pp. 252-262. E a quel che ne disse allora l'onesto Fiorentino si rifanno su per giù gli storici posteriori, trascurando però taluni giudizi di questo e altri esagerandone fino a renderli irriconoscibili. Che l'Achil- lini fosse un averroista, tutti a un di presso s'accorsero; ma 1^4 Tuttavia le Anotomicae annotationes non furon mai del tutto di- menticate e il nome dell'Achillini vien ricordato da anatomisti po- steriori, anche quando le sue opere filosofiche erano ormai cadute del tutto in oblio. 125 L. e, p. 59. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 275 se averroista di più o meno stretta osservanza pareva dubbio. La tesi che l' intelletto possibile, forma immateriale e incor- ruttibile, infima delle intelligenze celesti, è unica per tutta la specie umana, è certamente tesi averroistica. Ma pareva al Fiorentino che il bolognese si discostasse dallo schietto aver- roismo, perché questo riteneva 1' intelletto forma assistente e non informante dell'uomo, l'Achillini invece ammetteva che r intelletto umano, pur essendo unico per tutta la specie, è vera forma informante che dà all'uomo il suo essere di uomo. Se non che lo storico calabrese non pare s'accorgesse che con que- sta seconda tesi, senza rinnegare la prima, la dottrina averroi- stica non era affatto parzialmente abbandonata, ma anzi approfondita; e che, grazie a questo approfondimento, veni- vano a cadere tutte o gran parte di quelle obiezioni che si facevano alla tesi averroistica, di spezzare l'unità del soggetto umano cui s'attribuisce l'atto d' intendere. E già prima, Si- gieri e Tommaso di Wilton, Paolo Veneto e Giovanni Pico, coetaneo del bolognese, avevano interpretato il pensiero d'Averroè alla stessa maniera; e questo non per motivi di fede, ma per eliminare dalla dottrina aristoteUco-averroistica un assurdo evidente sul quale speculavano gli avversari del- l'averroismo; tanto vero che l'anima razionale che yien detta informare l'uomo, resta in sé unica per tutta la specie umana. Non è pertanto esatto l'affermare che ogni seguace d'Averroè riteneva l' intelletto « forma assistente » dell'uomo e non « forma dans esse ». Il Fiorentino è stato colpito anche da un passo del De eie- mentis (II, art. 5, verso la fine), ove si parla dell'unione del- l' intelletto con l'anima sensitiva dell'uomo, come abbiamo visto più su, e dove l'Achillini torna ad esporre con nuovi particolari la sua dottrina sigeriana già esposta nei Quolibeta de intelligentiis. Ad un certo momento si domanda: « Quo- modo stat opinio Aristotelis cum fide ?» — giacché tanto l'inter- pretazione che dà del pensiero dello Stagirita Averroè, quanto quella che ne dà Alessandro d'Afrodisia, secondo la ragion naturale, discordan dall' insegnamento della fede. E il nostro averroista risponde: Il fatto che entrambe discordin dalla fede, significa che tutte e due son false, e che su questo punto, come su altri non pochi, bisogna che noi credenti abbando- niamo il filosofo; ma dovendo scegliere a lume di ragione tra quelle due interpretazioni, entrambe false, quella che ha I 276 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI miglior verisimiglianza, sceglieremo quella d'Averroè, perché, sostenendo questi che l'anima è forma informante che dà all'uomo l'essere di uomo, viene a dire che l' intelletto, nel- l'atto di unirsi all'uomo, termina il processo della genera- zione umana e quindi ha in qualche modo un cominciamento nel tempo, come appunto insegna la fede. In tutto questo non vedo né incertezza né spossatezza da parte dell' Achillini; né tanto meno che egli si senta spinto «ad accettare l'averroismo dopo averlo dichiarato falso «'^ó. L'opposizione tra molte tesi difese da Aristotele e la verità cristiana era comunemente ammessa, da quando Alberto Magno aveva proclamato che « theologica cum Physicis prin- cipiis non conveniunt»'-?, e che al filosofo che voglia trattare delle cose naturali secondo i principi della ragion naturale, non deve importare dei miracoli della fede '-8. È vero che Tom- maso, combattendo l' interpretazione averroistica del pen- siero d'Aristotele, s'era adoprato ad accordar questo col pen- siero cristiano. Ma questo concordismo tomistico non era parso né di buon gusto né di buon augurio, non solo ad aver- roisti come Sigieri, discepolo in questo d'Alberto Magno, ma nemmeno ad alcuni teologi che s'erano ribellati al tentativo « de Aristotele haeretico facere omnino catholicum ». E molti, non solo maestri in artibus, ma anche teologi e commentatori delle Sentenze di Pietro Lombardo, dalla fine del secolo XIII al secolo XVI, ritennero perfettamente fondata sul testo aristotelico e legittima l' interpretazione averroistica, salvo quando questa discordava da quella di altri commentatori autorevolissimi, come Alessandro, Filopono od altri special- mente greci. Ora ai tempi dell'Achillini e del Pomponazzi, a Bologna come a Padova, era obbhgo di leggere e discutere il testo ari- stotelico e il commento d'Averroè. Averroisti si dissero tutti quelli che, rifiutando il concordismo tomistico, d' ispirazione avicenniana, mostravano ripugnanza a « miscere diversa brodia))i29, e, per quello che concerneva il pensiero aristotelico, s'attenevano al commento averroistico. Il che non implicava ^'^^ Fiorentino, ib., p. 259. 127 Metaphys., XI, tr. 3, e. 7. 1-8 De gen. et corr., I, tr. i, cap. 22, ad t. e. 14. Cfr. «Rivista di Storia d. Filos. », II, 1947, PP- ^97 ^gg. V. sopra, p. 95. ^29 V. sopra, p. 96. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 277 affatto che essi dovessero accettare le dottrine d'Aristotele quali erano esposte da Averroè, come loro proprio pensiero. Gli averroisti potevano quindi con perfetta coerenza dichia- rare che la dottrina dell'eternità del mondo e dell'unità del- l' intelletto era dottrina vera e necessaria nel sistema del pen- siero aristotelico; ma che questa dottrina era falsa secondo la fede che s' ispira al \"angelo e non ai libri d'Aristotele. Il che è perfettamente vero anche per noi. Questo non hanno ancora compreso taluni storici della filo- sofia. Uno dei quali '3", dopo aver detto che «enger an dem averroistischen Aristotehsmus schloss sich Alex. Achilhni an (aus Bologna, war Professor der Philosophie u. Medizin, zuerst in Padua (!), seit 1509 (!) in Bologna, wo er um 1518 (!) starb).... », aggiunge: « So weit Aristoteles von dem christlichen Glaubensstandpunkt (z. B. hinsichtlich der Schòpfung der Welt) abweicht, ist er ini Sinne der Kirchlichen Lehre zu kor- rigieren » (la sottolineazione è mia e.... pour cause). Il qual giudizio vien trasportato di sana pianta nella massiccia Storia della filosofia di N. Abbagnano (voi. II, I, U.T.E.T., 1948, p. 70) : « In realtà la sua preoccupazione [dell' Achillini] co- stante è quella di correggere la dottrina aristotelica nel senso dell' insegnamento ecclesiastico » (anche questa sottolineazione è mia) '31. Ma egli v'aggiunge qualcosa di suo, che aggrava '30 Ueberweg-Moog, Die Philos. der Neuzeit bis zuyn Ende des X Vili. Jahrh., Berlin, 1Q24, p. 28. E già prima E. Renan, Averroès et l'averr., 3* ed., Parigi, 1S66, p. 361: " Tout en reconnaissant que sur ces deux points (l'unite des àmes et 1' immortalité collective) la doctrine d' Aver- roès est conforme à Aristote, Achillini rejette expressement ces théories comme opposées à la foi ». E cita H. Ritter, Gesch. der neneren Philos., I parte, p. 383 sgg., citato anche dal Fiorentino. '3' La stretta aderenza dell'Abbagnano al Moog appare anche da quel che l'uno e l'altro dicono dello Zimara. Scrive il secondo: « Noch strenger hielt am Averroismus fort M. Ant. Zimara (aus Neapel.... gestorb. 1532).... In ihnen (Schriften) suchte auch er den Averroismus mit Kirche zu vereinen. Die Einheit des menschlichen Intellektes wird von ihm als Einheit der allgemeinen Erkenntnisprinzipien gedeutet ». E l'Abbagnano: «e lo stesso [di spogliare l'aristotelismo e l'averroismo dei loro caratteri originari in omaggio ad una preoccupazione dogma- tica] accade nelle dottrine del napoletano M. A. Zimara [ma se era di S. Pietro in Galatina presso Otranto, tanto che a Padova lo chiamavano l'Otranto o l'Otrantino !] (morto nel 1532), anch'egli professore a Pa- dova, il quale interpretava l'unità dell' intelletto, sostenuta dall'aver- roismo, come l'unità dei principii universali della conoscenza ». Dello stesso avviso pare sia anche G. Saitta, // pens. ital. nelV Umanesimo e nel Rinasc, voi. II, Bologna, 1950, pp. 379-80: « Le sue Contradictiones \ 278 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI assai l'errore dell'autore tedesco: «L'aristotelismo e l'aver- roismo sono stati qui spogliati dei loro caratteri originari, in omaggio ad una preoccupazione dogmatica ». Preoccupazione che l'Achillini, al pari degli altri averroisti, non mostra mai d'avere, anche quando, constatata l'opposizione fra Aristotele e il dogma, dice esser dovere del credente, che tale voglia rimanere, di ripudiare Aristotele, non di correggerlo, che vor- rebbe dire travisarlo. In questo i nostri vecchi erano onesti e coerenti. L'ottimo E. Garin 132 ricorda la breve preghiera che si legge in principio del De elementis: « Luminum clarissima lux, qua ac solutiones ex dictis Aristotelis et Averrois parlano dell'unità dell' in- telletto di tutti gli uomini come l'unità dei principii universali del conoscere ». Il Moog e l'Abbagnano non citano alcuna fonte della loro affermazione. Il Saitta invece cita le Contradictiones dello Zimara, senza però indicare un punto preciso. Ma egli non deve averle lette: che lo ritengo troppo intelligente, se le avesse lette, da lasciarsi scap- pare simile afferm_azione. E allora ? Allora il Moog, l'Abbagnano e il Saitta derivano, direttamente o per via indiretta, il loro giudizio dal libro del Renan, Averroès et l'averroisme, ove appunto accade di leg- gere (ed. cit., p. 375): «L'unite de l' intellect est adoptée dans le sens de l'unite des principes communs de l'esprit, mais ouvertement rejetée en ce sens qu' il n'y aurait qu'un seul principe substantiel de la raison humaine ». E il Renan cita le Solutiones contradicionum, Averrois Opera, t. XI dell'ediz. di Venezia 1560, fol. 177V-188V (più semplice e più comodo era citare le stesse Solutiones contrad. super III de anima, contr. XVI). Se il Moog, l'Abbagnano e il Saitta si fossero presa la briga di andare a vedere questo luogo dello Zimara, avrebbero potuto con- statare, con non poca sorpresa, che il Renan quel giorno doveva essere febbricitante o ubriaco o fortemente distratto, giacché l'averroista otrantino in quel luogo dice esattamente il contrario. Ivi lo Zimara, che s'era proposto di conciliare un'apparente contradizione fra due affermazioni d'Averroè, riporta un brano del commento di Temistio al De anima, ove si legge appunto ; « Unde enim communes illae animi conceptiones praenotionesque communes omnibus haberentur ? Unde indigentia illa impressaque omnium mentibus primorum notitia con- stitisset, natura duce, nulla ratione, nulla doctrina ? Unde postremo intelligere mutuo et intelligi vicissim possemus, nisi iiniis singularis intellectus fttisset, quem communem omnes homines haberemus ? ». Pla- tone, osserva lo Zimara, con un simile ragionamento aveva dimostrato l'esistenza deUe idee. Temistio ed Averroè lo usano per dimostrare l'unità dell'intelletto; se no, bisognerebbe ammettere che la scienza nell'alunno si generasse da quella del maestro a quel modo che, secondo Aristotele, il fuoco si genera dal fuoco. « Hoc autem sequitur secundum ponentes pluralitatem inteUectus, ut ipse (Averroès) opinatur.... ». Niente di più si legge nell'opera dello Zimara, il quale non si chiede affatto se questa dottrina s'accordi o meno con la fede. A lui basta chiarire il pensiero d'Aristotele e del suo commentatore, eliminando le contradizioni. V. anche sotto, pp. 350-351. 132 L. e. APPUNTI SU ALESSANDRO ACHILLINI 279 omnes aliae veritates illiistrantur, me per umbras materiae tutum ab errore per Filium hominis ducas in te ipsum ». E l'accenno a una breve preghiera è anche in principio del De physico aiiditu: «Deus illuminatio mea sit. Primo dubi- tatur.... ». L'uso di dar principio ad un'opera, ed anche alla lezione, nel nome di Dio, era un tempo costume di ogni buon cristiano non meno che di ogni fedele maomettano. Perciò non parrà strano di trovare che anche il Pomponazzi al suo corso di lezioni sul De substantia orhis, cominciato il 20 feb- braio 1507, premettesse una « oratiuncula accomodata », della quale però il raccoglitore delle lezioni non riporta il tenore 133. Né si creda che questo fosse formaHsmo o ipocrisia. Nella maggior parte dei casi, non vi sono serie ragioni per du- bitare della sincerità di chi si protestava buon cristiano, senza per questo rinunziare alla sua libertà d' interprete del pensiero aristotelico; libertà che, a mio avviso, non che nuo- cere ha giovato molto alla fede, non costretta violentemente negli artificiosi schemi d'un sistema filosofico ormai in via di dissoluzione. E così maestro Alessandro, l'averroista Alessandro Achil- lini, poteva riposare tranquillo nella chiesa di S. Martino, a Bologna, come tredici anni più tardi il Peretto mantovano in quella di S. Francesco nella sua città natale, sotto le grandi ali del perdono di Dio. 133 Cod. Vat. Regin. lat. 1279, f. 3r. X UN ALTRO SIGIERIANO DEI PRIMI DEL CINQUECENTO GERONIMO TAIAPIETRA * Di averroisti della corrente di Sigieri di Brabante nel Ri- nascimento italiano m'era accaduto d' incontrare, alcuni anni addietro, Giovanni Pico della Mirandola, Alessandro Achillini, Agostino Nifo negli anni della sua giovinezza, Ti- berio Bacilieri e Antonio Bernardi della Mirandola '. Ma il grup- po dei sigieriani doveva essere più numeroso, e ad esso parreb- be che avesse aderito, in un momento del suo sviluppo intel- lettuale, anche il Pomponazzi, come mi propongo di dimo- strare a suo tempo. Ma fu, da parte del Peretto, l'ultimo tentativo di salvare l'esegesi averroistica d'Aristotele; dopo di che, s'orientò decisamente verso l'alessandrismo. Invece un altro convinto sigieriano dei primi anni del Cin- quecento è il patrizio veneziano Geronimo di Cà Taiapietra o Taiapiera. Costui, figlio del quondam Quintin di Cà Taia- pietra, dopo essere stato per otto anni a studiare a Padova, richiamato in famiglia per dedicarsi alla vita pubblica, come si conveniva ad un giovane del suo rango sociale, s'accostò al cardinale Domenico Grimani del titolo di S. Marco e pa- triarca d'Aquileia, non che munifico protettore degli studi e degli studiosi -, per averne appoggio. Fu senza dubbio per suggerimento del Grimani che il giovane Taiapietra si preparò a un pubblico cimento per coronare col dottorato in filosofia la carriera di studi intrapresa a Padova e terminata con la * Dal ((Giorn. Crit. d. Filos. Ital. », XXXI, 1952, pp. 306-330. ' Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, Roma, Edizioni Italiane 1945. ^ P. Paschini, Domenico Grimani cardinale di S. Marco, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1943. 262 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI licentia docendi, ossia col titolo di magister artium. L'occa- sione di una pubblica disputa s'offrì con la convocazione, per la fine della primavera del 1506, del capitolo generale dell' Ordine dei frati minori, del quale il Grimani era cardinal protettore. L'uso di siffatte dispute in occasione di capitoli generali dei vari ordini religiosi era una veneranda usanza, vecchia d'oltre due secoli. Sollecitato dunque dal Grimani, il Taiapietra si recò a Roma per dar saggio del suo sapere. La pubblica discussione ebbe luogo in una solenne riunione di dotti tenuta nella residenza abituale del cardinale a Roma, il giorno di sabato 6 giugno 1506 3. L' indomani mattina, domenica della Trinità, il gio- vane dottorando fu presentato a papa Giulio II, perché si degnasse conferirgli il titolo di dottore in ariibiis. La ceri- monia è così ricordata nei suoi diari da Paride Grassi 4, maestro delle cerimonie del papa. Dopo la messa cantata del cardi- nale Arboreo e la creazione da parte del papa di un milite aurato, dice il Grassi: [f. 2i6v] Creatio doctoris in artibus per papani in capella. Cum adhuc papa sederet, superveneruiit Cardinalis de Grimanis et orator venetus qui rogarunt papam, ut dignaretur quendam dominum magistrum [Hieronymum Taiapietra] doctorem in artibus creare, qui, ut testificati sunt, bene se gessit in disputa- tionibus cum fratribus ordinis minorum qui venerant ad capitulum generale etc. Et sic sua Sanctitas absolute, idest sine cerimoniis, ipsum genuflexum creavit [f. 2i7r] doctorem hoc modo, videlicet: papa ante doctorandum genuflexum hec verba dixit, videlicet: Intelleximus a Cardinali de Grimanis et ab oratore veneto quod sis in artibus exscellens et doctus, quodque in disputationibus pri- dianis que apud edes suas habite fuerunt te laudabiHter exhi- bueris; propterea nos, tam ad predictorum relationem, quam etiam ad intuitum tue virtutis et meritum, creamus te doctorem in artibus, dantes tibi omnia privilegia que alii in quibuscumque studiis et universitatibus habere consueverunt, in nomine patris et tìlii et spiritus sancti '. Quo facto ipse doctor osculato pede pape, illi gratias agens, recessit. Et Cardinalis de Grimanis et orator predicti gratias etiam pape egerunt. Il venerdì successivo, 12 giugno, la notizia del fatto era già arrivata a Venezia, poiché Marin Sanudo "^ la registra sotto 3 Fra i presenti alla disputa era l'Achillini. V. sopra, pp. 252-53. 4 Cod. Vat. lat. 4739, f. 2i6v-2i7r. 5 Diarii, voi. 6, col. 352. IL SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIETRA 283 ■questa data con parole che attestano la fedeltà del cronista: Item, come a dì.... sier Hironinio da dia' Taiapiera, quondam sier Quintino, tene le conclusion in chaxa dil cardinale Grimani. Et el cardinal episcopo di Urbin disputò contro una, dicendo l'era ereticha; il cardinale Grimani la mantenne, et vinse; et così a dì.... il papa lo dotoroe. Siccome la notizia giunta da Roma non indicava il giorno esatto della discussione e quello del conferimento del titolo dottorale, l'onesto Sanudo lascia i due spazi in bianco. In compenso ci trasmette due notizie preziose: quella dell'obie- zione che il cardinale Gabriele Gabrielli, vescovo di Urbino, ebbe a fare a una tesi sostenuta dal Taiapietra, perché, a suo parere, « l'era ereticha », e quella dell' intervento del Gri- mani in favore del suo protetto. Del resto, prima della fine del mese il neo dottore era già di ritorno a Venezia; poiché negli stessi Diarii di Marin Sanudo si legge 6. A dì 28 [giugno 1556]. Fo gran conscio. Vene uno dotor nuovo, vestito de scarlato, si ha dotorato a Roma, sier Hironimo da cha' Taiapiera, quondam sier Ouintin. l'o fato podestà de Verona, et niun non passò. Da questo momento egli entra nella carriera amministra- tiva e poUtica, e non so se si sia più occupato di filosofìa. Nei Diarii del Sanudo il suo nome ricorre spesso, ma sempre per le cariche ricoperte in servigio dello stato veneziano. Ciò potrebbe spiegare perché il nome di Geronimo Taiapietra sia sfuggito anche al diligentissimo Luigi Ferrari che l'omette sì nella prima che nella seconda edizione del suo grande Ono- masticon. Né in fondo avrebbe interessato molto neppur me, se il suo nome non fosse legato a un suo libro del quale ritengo valga la pena dire qualcosa. Questo libro s' intitola: Sunima divinarum ac naturalium difficilium quaestionum Romae in capitiilo generali fratrum minorum per Hieronymum Taiapietra, patritium Venetum, puhlice discussarum. E fu stampato a Venezia « a domino Pincio Mantuano. Anno Domini M.CCCCC.VI. die VI Aprilis ». Il libro fu pubblicato dunque il 6 aprile, cioè due mesi prima ^ Ih., col. 260. 2S4 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI della discussione, che evidentemente era stata preparata per tempo dal cardinal Grimani, cui la Summa è dedicata. Recandosi a Roma, il Taiapietra portava con sé il volume, come programma della pubblica discussione che doveva aver luogo il 6 giugno. Così aveva fatto Giovanni Pico, pubbli- cando nel i486 le novecento Condusiones per la disputa che avrebbe dovuto tenersi a Roma nel gennaio 1487; così aveva fatto anche Vincenzo Querini, altro patrizio veneziano, quando s'apprestava a discutere, parimenti in Roma, le sue Condu- siones, « in Ecclesia Sanctorum Apostolorum, die XXIX Mali » del 1502 7. L'opera, come dicevo, è dedicata dall'autore al cardinale Domenico Grimani. Nella dedica il Taiapietra accenna al distacco forzato dallo studio patavino: .... quum mihi mine redeunduni esset ad meos, qui me in patriam ex celebratissimo gymnasio patavino, in quo octo iam perpetuis annis vitam non minus honestam quam studiosam duxi, centra propriam ferme voluntatem revocabant. A Padova dunque aveva dovuto recarsi al principio del- l'anno scolastico 1497-98, quando v'era ancora Agostino Nifo da Sessa. Costui, alunno di Nicoletto Vernia, aveva cominciato a insegnare a Padova appena ventunenne, durante l'anno accademico 1491-92, nella seconda scuola di filosofìa straordinaria, ove professava la dottrina averroistica di Si- gieri di Brabante. Nel 1495 era stato promosso alla seconda scuola ordinaria come concorrente del Pomponazzi, col quale debbono essere cominciati fin d'allora i litigi. E quando nel 1496 il mantovano si dimise dall' insegnamento, il Nifo fu chiamato a succedergli. In questi anni egli, ambiziosissimo e astuto, mentre si dava da fare per schivare l'accusa d'eresia, combattendo l'averroismo prima da lui professato 3, per non 7 V. sotto, il saggio XIII, p. 400. 8 Nifo, De intellectu, I, tr. 2, e. 9: « Longo tempore Averroy va- cavi et, ut dixi, hanc opinionem (di Sigieri) sequebar ad mentem eius»; In lib. Destr., Ili, dub. 2: « Peccatum meum longo tempore». Dalle indicazioni cronologiche fornite dal Nifo stesso in quest'ultimo scritto, Disp. XIV, dub. I, quaestio 3 in fine, e dub. 3, quaestio 5, parrebbe che ciò vada riferito al periodo prima del 1494. Dalle quali indicazioni si dovrebbe dedurre che egli fosse nato nel 1470, oppure verso la fine del 1469, come nelV Arbole de casa Nipho (nel voi. ms. Historia e docu- menti della famiglia Nifo, posseduto da Benedetto Croce, p. 212). IL SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIETRA 285 inimicarsi il vescovo Pietro Barozzi, anzi per procacciarsene la benevolenza, come faceva nello stesso tempo quella vecchia volpe di maestro Nicoletto 9, era riuscito a circuire molti giovani delle più ragguardevoli famiglie patrizie veneziane che a Padova venivano per fare i loro studi e procacciarsi il titolo di « dotor » tenuto in gran conto dal governo della Se- renissima e quasi direi indispensabile per l'accesso a talune cariche dello stato. Suoi discepoli erano stati Vincenzo Que- rini, Geronimo Bernardo e Antonio Giustinian, l'amicizia dei quali si compiace spesso di ricordare ^°. A Francesco Bra- gadin, patrizio veneto, dice egli stesso d'aver dedicate certe sue Quaesiiones de anima " che non mi risulta fossero mai stampate; a Lorenzo Donato dedica nel 1497 l'edizione da lui curata del prologo d'Averroè alla Fisica '-; a Sebastiano 9 V. sopra, i saggi IV, V e VII. I'' Tutti e tre son ricordati nei Collectanea s\x\De auima, III, t. e. 36, e nel commento alla Desimciio, prol. I, dub. 8, XIV, dub. 3. Da quest'ul- timo luogo si rileva che tanto Geronimo quanto il padre erano morti prima del gennaio 1497, quando il commento alla Destritctio fu stampato. Nel luogo citato dei Collectanea, oltre che ai tre patrizi veneziani ri- cordati, raccomanda il suo libro anche a Pietro Campesano, medico e filosofo di Bassano che in quegli anni doveva studiare a Padova. Egli è il padre del poeta di Bassano Alessandro Campesano (G. B. Vergi, Notizie intorno alla vita e alle opere degli scritt. d. città di Bass., e. I, Venezia, 1775, pp. 16-17). " Collect., prohemium: «In questionibus meis libri de anima in- scriptis domino Francisco Bragadeno patricio Veneto)'. Marin Sanuuo, Diarii, II, col. 579-580, ricorda una disputa avvenuta in Venezia nel- l'aprile 1499 alla presenza del patriarca intorno ad alcune tesi pericolose, e fra coloro che intervennero ad essa menziona Giorgio Pisani, Marco Dandolo, Marin Zorzi, Nicolò Michiel, Piero Pasqualigo, dottori, Pietro Corner, lacomo Michiel, Francesco Bragadin « doctissimi in philo- sophia ». Nota invece la mancanza di « sier Antonio Zustinian, dotor, che leze philosophia ». Su Francesco Bragadin, v. Zeno, « Giorn. di letter. », t. V, pp. 369, 362-364. 12 Scrive E. Garin a propo ito dei primi scritti del Nifo {Rinasci- tnento, II, 1951, p. 63): «Innanzi all'edizione della Fisica, che reca la data del 1495, v' è una lettera di ringraziamento a Lorenzo Donato.... In uno degli esemplari da me esaminati la dedica, del 1495. è sul verso di una carta che sul recto reca una lettera con cui il Nifo presenta per l'approvazione il suo commento alla Destructio destritctionum, compi- lato fra il 1494 e il gennaio '97 ». E più oltre: « Ad ogni modo esce nel '95 l'edizione curata dal Nifo della Fisica col commento d'Averroè » (p. 65). Dove il Garin abbia trovato che questa edizione della Fisica del 1495 sia stata curata dal Nifo, io non so. So invece che la lettera del Nifo, anzi del Niffus de Suessa a Maestro Nicolò Grassetto, francescano e inquisitor dell'eretica pravità (vedetelo divotamente genuflesso ai pie' della Vergine, a Padova, nella chiesa del Santo, di fronte alla tomba di Antonio Trombetta), è sicuramente posteriore alla stampa del 206 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Badoèr il De intellectu, sostanzialmente rimaneggiato e pub- blicato per le stampe nel 1503, quando aveva ormai detto addio a Padova e prima ancora all'averroismo i?; per Gero- nimo Bernardo compone il De sensu agente, compiuto il 14 giugno 1495, ma pubblicato nel 1497, quando il Bernardo era morto, e dedicato a G.B. Spinelli, patrizio partenopeo m; al Giustinian dedica il commento In XII Metapysicae pubbli- cato nel 1505, ma composto assai prima su preghiera di Ge- ronimo Bernardo, il cui nome il Nifo accoppia sempre a quello del Giustinian; a Santo Moro, altro giovane patrizio che aveva commento alla Desiriictio, non solo perché si riferisce a questa, ma perché è stampata nel recto di un mezzo foglio facente parte dell'ul- timo quinterno di questo volume; l'altra metà contiene due pagine della Destnictio (quinterno q, fol. I2ir-v). Il verso poi del mezzo foglio, al cui recto è la lettera al Grassetto, reca il prologo di Averroè alla Fi- sica e la dedica di questo prologo al pretore Lorenzo Donato, per la ragione che gli editori del '95 l'avevano omesso. Niente di più. 13 V. sopra, p. 102. Alla fine del trattato stampato si legge: «Et sic consumatus est liber de intellectu. 26. Augusti, 1492. In Patavino studio ». Ora che nel 1492 il Nifo abbia scritto una Quaestio de intellectu (cfr. la dedica del De intellectu a Seb. Badoèr, neU'ediz. del 1503) è verosimile; ed è verosimile che l'avesse scritta in senso sigieriano, tanto che gli emuli poterono accusarlo d'eresia, com'egli stesso ci fa sapere. Ma che questa Quaestio sia identica col trattato pubblicato nel 1503, è difficile crederlo, dopo quel che egli stesso confessa a Sebastiano Badoèr : « Placuit quedam tollere, mutare alia, addere plurima » ! Troppo interesse aveva il Nifo a voler far credere che fin dal suo primo anno d' insegnamento s'era liberato dall'averroismo inviso al Barozzi. Vuo- le il Garin un esempio della fede che merita il Nifo ? Eccoghelo. Nell'edizione dei Collectanea ch'egli aveva pronta il 12 settembre 1498, e che vide la luce per la stampa col titolo In librum de anima Aristotelis et Averrois commentatio , a Venezia, « per Petrum de Quarengiis Bergomensem. Studio et impensa domini Alexandri Calcidonij, Pisaurensis. M.ccccc.iij. Die x. Maij », dedicando l'o- pera a Baldassar Miliani, patrizio partenopeo, il Nifo vede un segno particolare d'amicizia neU'essersi il Calcidonio addossate le spese della stampa del volume: « quod et noster Alexander Calcedonius, communis amicus, tui et mei amoris omni solertia sumptibusque prò his edere instituit ». Ebbene, nella ristampa degli stessissimi Collectanea nel 1522 (Suessa, Super libros de anima, Venetiis), in fine della prefazione che vi appose, questo barabba osa scrivere: «Quantum igitur inique Alex. Calcidonius Collectanea nostra publicaverit quantumve venenose, ex bisce patet. Ego enim publicare illa non destinaveram, nisi nono pressis anno » ! che e frase oraziana adattissima a imbrogliare anche meglio le carte. Ma V. anche più oltre, p. 370, n. 8. ^4 L'opera fu pubblicata, come « codicilus » al commento della De- structio, nel 1497. Che al momento della pubblicazione tanto Geronimo Bernardo che suo padre fossero morti, risulta dalla frase dello stesso Nifo in fine del commento alla Destructio: «quorum animae in perpe- tuum gaudeant », confermata dalla dedica del commento In XII Me- tapysicae al Giustinian. IL SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIETRA 2S7 avuto alunno a Padova negli ultimi anni, dedica il commento al De beatitudine animae di Averroè, rimaneggiando un vecchio scartafaccio del periodo averroistico, di mano del suo alunno veronese Bernardino Plumazioij; al cardinale Domenico Gri- mani dedica nel 1497 il commento alla Destructio destnictionum , servendosi, per insinuarsi nell'animo del cardinale, dell'am.i- cizia d'un tal prete Prosdocimo familiare del Grimani; più tardi nel 1504 gli dedicherà anche il trattato De primi motoris infinitate; e nello stesso anno dedicherà a Vincenzo Querini il De diehus cniicis. Ma non ostante tutte queste amicizie e protezioni, non potè sottrarsi ai « latrati », com'egli più volte si duole, dei suoi colleghi e avversari. Non saprei se per questa o per altra ragione, nel 1497, si allontanò da Padova. Il Facciolati '^ per altro informa che « revocatus est anno MCDXCVIII, stipendio argenteorum CXX » ; il che lascerebbe supporre che fra le ragioni del malcontento vi fosse anche quella dello scarso stipendio. Sappiamo di professori che correvano là dov'erano megUo pagati, e che spesso la minaccia di andarsene era un buon mezzo per farsi aumentare lo stipendio. Ma il Facciolati ci fa sapere che, non ostante questo aumento, il Nifo « anno vertente rursus abiit », in cerca di miglior fortuna, o sempli- cemente per sposarsi con Angela Laudi da Sessa. A Padova non tornò più, sebbene siamo informati che nell'ottobre 1503 e nel gennaio 1504 egli s'adoprava per tornarvi 17. Vi tornò invece nell'ottobre del 1499, dopo la morte di Nicoletto Vernia, il Peretto mantovano, cioè il Pomponazzi, '5 Anche quest'opera porta in fine la dichiarazione: «Compievi Patavii. M.ccccxcii. xiv Maij ». Santo Moro si addottorò a Padova nel maggio 1505 (M. Sanudo, Diarii, VI, col. 163). Quando il Nifo gli dedica l'opera, sa che l'antico scolaro di Padova «nunc... naturae mundique interpretem gravissimum evasisse ». Io non conosco altre edizioni anteriori a quella scotina di Venezia del 1524. Di Geronimo Bernardo dice (I, comm. 56) : « accepi verba haec ut iacent in codice meo, quem felix illa Hieronymi Bernardi memoria olim mihi misit ». Vi sono non pochi rimandi al trattato De inteUectii, e non di rado nella stesura che esso ebbe dopo la revisione ! 16 Fasti gymn. patav., 1, parte II, p. 109. 17 M. Sanudo, Diarii, V, col. 171, 766. Anzi sotto la data del 25 marzo 1504 (col. 972) si legge: k Item, ave lettere de l'orator nostro in corte, che domino Agustino Sexa, qual è li, vengi a lezer a Padoa, et li ha dimandato. Par contento venirvi, et è facto più docto di quello era, et ha studiato in grecho ». 26» L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI dopo due anni d'assenza '8, per restarvi ininterrottamente fino all'assedio della città nel 1509. V'erano poi maestro Pietro Trapolin, averroista moderato, che dall' insegnamento della filosofia naturale era passato a medicina teorica, frate Antonio Trombetta francescano e fra Geronimo da Monopoli dome- nicano, che insegnavano in concorrenza la metafisica, l'uno ad mentem Scoti, l'altro ad mentem Thomae. Dal 1500 all'estate del 1503 era venuto a Padova il bolognese Tiberio Bacilieri, alunno e poi collega di Alessandro Achillini del quale condi- videva le idee '9, forse a sostituire Antonio Fracanziano che in seguito ad una lite fra maestri aveva lasciato lo studio pado- vano ed aveva seguito a Roma il nuovo cardinale Marco Corner -0. Ma nell'ottobre del 1503 il Fracanziano torna a Padova ad occuparvi la seconda cattedra di filosofia ordinaria, in concorrenza col Pomponazzi, mentre maestro Tiberio, che diceva mancargli appena quattro dita per arrivare alla piena e perfetta copulatio con l' intelletto agente -", aveva accolto r invito di recarsi a Pavia. Sotto la guida di siffatti maestri il giovane Geronimo Taia- pietra aveva fatto i suoi studi a Padova; e con lui c'erano negli stessi anni, su per giù, Andrea Mocenigo, figlio di Leonardo e nipote del doge Giovanni; Gaspare Contarini,il futuro cardina- le; Antonio Surian, nipote del patriarca di Venezia dello stesso nome; Santo Moro, e altri rampolli delle più illustri famiglie pa- trizie veneziane. Maestri e scolari vivevano uniti da uno stesso spirito goliardico non scompagnato da febbrile ansia di sapere. Nel dicembre del 1500, il Peretto, che marciava ormai verso la quarantina, pensò bene di accasarsi con una gentil donna padovana figlia di Francesco Dondi dell' Orologio. Ed ecco i^ Cfr. Facciolati, Fasti, 1. e; C. Oliva, Note suW insegnamento di P. Pomponazzi, III, in « Giorn. crit. d. Filos. Ital. », VII, 1926, pp. 181-183. '9 Facciolati, ib., p. iii. V. sopra, pp. 226-27. Il 6 ag. 1501, era pre- sente ai dottorati in artibìts di M. Ant. Zimara e di Girol. Oleari, col titolo di «extraordinarius philosophiae >> (Arch. d. Curia Vesc. di Padova, Acta grad., voi. 47, f. i62r). 20 Fr. Franceschetti, La famiglia dei conti Fracanzani di Verona, Vicenza ed Este con notizie dei loro antenati ecc. Bari, presso la Direz. del Giorn. Araldico, 1896, pp. 30-31. 21 Pomponazzi, In XII Metaphys., ad t. e. 17: «Ideo Tiberius iactatus solum sibi defìcere quatuor digitos ad hoc ut foelicitatem istam pertingat » (Arezzo, Bibl. Fraternità de' Laici, Ms. 389, f. 248r; Cod. Ambros. A. 52 inf., f. 2o8r) . IL SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIETRA 289 Andrea Mocenigo intonare per l'occasione nn epitalamio in latino, ove tra molte reminiscenze mitologiche si leggono questi due distici molto confidenziali rivolti, s' intende, allo sposo 22 ; Ista dies omnes reliquos divellit amores : paecipit haec soli perpetuoque vaces. Substulit ista dies sectari fornice tetra scorta suburbano, substulit ista dies.... Ma la giocondità della vita studentesca nel rumoroso e gaio ambiente dello studio patavino non distoglieva questi giovani patrizi veneziani dallo scopo per cui erano venuti sulle rive del Bacchigliene tra le « antenoree mura». E Marin Sanudo 23 ci fa sapere che 1' 11 maggio 1505, « zorno di Pasqua di mazzo, da poi disnar, sier Santo Moro di sier Marin, studia a Padova, tene le conclusion ai Frari, qual è impresse. Arguì molti, videlicet domino Laurentio Bragadin, leze in philosophia [a Venezia], sier Piero Pasqualigo 24, dotor, cavalier, sier Marin Zorzi, dotor, e altri, et poi andò a Padoa et si dotoroe ». Ugualmente il Sanudo al 26 marzo 1506 annota che « in questo zorno, in la chiesia di Frari, fo tenuto le conclusion per sier Antonio Surian, quondam sier Michiel, nepote del patriarcha nostro, qual studia a Padoa. Vi fu il reverendissimo patriarcha, e l'orator di Franza e molti patricii invidati e dotori»-s. Con -2 Io. Brunatius, Poìììponatius, nella Raccolta di opuscoli scient. e filos., t. XLI, Venezia, 1749, pp. 34-35. -3 Diarii, VI, col. 163. 24 Di Piero Pasqualigo riferisce il Sanudo, ib., I, col. 631, sotto il 22 maggio 1497, che a Roma « haveva tenuto conclusion publice et si aveva facto uno honor grandissimo et hora sta dotorado nomine pon- tificis dal cardinal di San Zorzi ». E sotto il 19 giugno 1498 {ib., col. 964) : « Vene da Milan in questa terra Pietro Pasqualigo, dotor, patricio veneto, stato.... et si trovò a Milan al tempo dil capitolo general di frati minori dove tene le conclusion publiche. Vi fu el ducha con li oratori, et fu molto comendato, come si have lettere di Marco Lupomano orator nostro nel conscio di pregadi. Questo avia studiato a Paris, et è giovane di età de anni 2.... et è doctissimo ». Il Degli Agostini, Not. storico- critiche intorno la vita e le opere degli scrittori veneziani, t. II, Venezia, 1754. P- 304. dice che Piero nel 1494 a 22 anni sostenne a Parigi due mila conclusioni. Anche il fratello Lorenzo Pasqualigo aveva studiato a Parigi (Sanuco, ib., col. 51). -5 M. Sanudo, Diarii, VI, col. 324. La cronaca di questa disputatio è fatta dallo stesso Surian in una pagina del volume in cui ricopiava le lezioni tenute dal Pomponazzi sul De anima nel 1500 e nel 1504 (Ms. della Bibl. Naz. di Napoh, Vili. D. 81, f. 76V, già descritto da P. O. Kristeller, in « Revue intern. de philosophie », V, 1951, 15, pp. 148- 19 290 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI questa pubblica disputa anche il Surian conquistava il titolo di « dotor », come appare da quanto il Sanudo ricorda sotto la data del 12 luglio -6. E sarei quasi tentato di credere che, allo scopo di conseguire il dottorato, anche Vincenzo Querini affrontasse a Roma la solenne disputa cui accennavo e alla quale assistè anche Pietro Bembo, egli pure patrizio veneziano, cavalier ma non « dotor « qual era invece suo padre. Quello di stampare le Conclusiones per la pubblica disputa non mi consta che fosse un obbligo; ma si sa che Giovanni Pico le aveva stampate nel i486, il Querini le aveva stampate, « impresse » le aveva Santo Moro, e anche il Taiapietra si af- 149), ed è importante perché c'introduce nel bel mezzo dell'ambiente scolastico padovano: « Que disputatio a me habita fuit Patavii per biduum 1505, more veneto, die vero 22° marcii. Et prima die argu- mentatus est dominus Bernardus de Portenarijs, florentinus patritius, Artistarum rector; 2° loco R. dominus Cristophorus Marcellus, patritius venetus, prothonotarius apostolicus; 3° magister Antonius Trombeta ordinarius Metaphysice, Patavii legens; 4" Dominus magister Hie- ronymus de Monopoli, ordinis Thomistarum, ordinariam Metaphysice legens [cfr. Quètif-Echard, Scriptores Ord. Praed., II, p. 76]; 5° Do- minus magister Antonius faventinus ordinariam theorice medicine le- gens; 6° Dominus magister Franciscus de Caballis, brixiensis, ordi- nariam practice medicine legens. Et disputatio hec habita fuit in aede cathedrali, in choro penes altare maius, coram R.mo domino D. Petro Barocio, episcopo patavino, et magnificis Andrea Griti, pretore, Paulo Pisani equite, prefecto Padue, R.mo D. Hieronymo Barbadico primi- I cerio Sancti Marci. Duravit disputatio usque ad 24 — horam satis fe- 1 liciter die dominico, et fuit dominica quadragesime quarta. 1^ die (et fuit habita in salis magnis), primo argumentatus est Dominus magi- ster Mauricius ordinis Minorum hybernicus, preceptor, ordinariam theologie legens; 2° Dominus magister Gaspar perusinus ordinis Thomi- starum [cfr. QuÈTiF-EcHARD, 1. c, p. 24], Ordinariam theologie pro- fessus et profitens; 3° Dominus magister Petrus Trapolinus, patavinus,, ordinariam theorice medicine legens; 4° Dominus Petrus mantuanus,. olim preceptor; 5" Dominus Antonius Fracancianus, vicentinus, ordi- narius philosophie, ambo professi et profìtentes. Et disputatio fuit mane Venetiis autem die 26 marcij, die Jovis, in aede S. Francisci Minorum; et interfuit R.mus Patriarca, patruus meus, R.mus D. D. ar- chiepiscopus spalatensis, D. Bernardus Zane, R.mus Marcus Antonius Foscarenus, episcopus Emonensis [cioè di Città Nova in Istria], R.mus D. D. Dominicus episcopus Chisamensis, suffraganeus R.mi D. Pa- triarche. Argumentatus est in primis Dominus Sebastianus Foscharenus, doctor, legens lecturam physice Venetiis; 2° loco R.mus D. D. Bernardus Zane, archiepiscopus Spalatensis; 3° loco Dominus Andreas Mozenigus, doctor; 4" D. magister Petrus de Cruce ordinis Minorum, regens ibi; 5° Dominus Santes Maurus, doctor etc. Et fuit dies felicissima. Quare Deo semper honor et gloria ». 26 M. Sanudo, ib., col. 373. IL SIGIEKIANO GERONIMO TAIAPIETRA 29I frettò a presentarle stampate. Più tardi, so di Matteo Bin, le cui « conclusiones », dedicate a Nicolò Michiel, Procurator di S. Marco, furon discusse a Venezia nel dicembre 1510-7; e so pure di Giulio Ruggiero, discepolo a Padova di M. An- tonio Genua, che stampa le sue Positiones , cioè le sue tesi, dedicandole al cardinale Ercole Gonzaga, per la disputa che doveva aver luogo a Padova nella chiesa di S. Antonio nel luglio 1557 ^8 ; e l'esempio suo sarà seguito due anni dopo da un altro discepolo del Genua, M. Antonio Mocenigo 29, nipote di Vincenzo Diedo patriarca di Venezia, per la disputa che doveva aver luogo, come nel caso di Antonio Surian, a Venezia e a Padova. Non conosco il contenuto delle tesi o « conclusion » soste- nute dal Surian e dal Moro; conosco invece quello delle Con- clusiones del Querini e del Bin, delle Positiones del Rug- giero e dei Panidoxa theoremataque del Mocenigo. Il Querini, discepolo del Nifo quando questi aveva già abbandonato l'averroismo, si dichiara apertamente contro Averroè come aveva fatto il maestro. Invece averroista è il Bin; e anche il Ruggiero e il Mocenigo sostengono apertamente la dottrina averroistica del Genua combinata con quella di Simplicio. Allo stesso modo il Taiapietra è un risoluto so- stenitore dell'averroismo della corrente sigieriana, del quale, dopo la partenza del Nifo da Padova, era stato sostenitore Tiberio Bacilieri. Ciò apparirà meglio dall'esame del conte- nuto della sua opera. Un'aperta professione d'averroismo accade d' incontrare tìn sulla soglia del libro, cioè nel proemio intitolato anch'esso al Grimani. Dopo avere accennato ad Aristotele come « regula *7 La rara stampa veneziana della Casa G. Tacuino, è posseduta dal British Museum, 1172, h. i (i). All'amico Carlo Dionisotti son debitore della cortese segnalazione e del microfilm. ^8 Positiones hasce de vero et bono Julius Rugerius ad disceptandum proposuit. In quibus si quid a religione ac summa veritate dissentire lector animadvertet , id non ex animi sententia, sed ex Aristotelis ac veterum Philosophorum placitis pronunciatum sciat. Venetiis mdlvii, f. yor Finis. Disputabuntur triduo Patavij in tempio D. Antoni], mense Julij, Die..., Hora.... Nella sezione ottava «de homine quatenus intel- ligit et speculatur » (fol. 54V sgg.), accade d'incontrare tutte le tesi dell'averroismo Simpliciano del Genua, coli' idea della « progressio » dell'unico intelletto « ad secundas vitas » nei diversi corpi umani ecc. Cfr. sotto, XIII, p. 388 sgg. 29 V. sotto, XIII, p. 3 9 ^gg.. 292 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI in natura » secondo il noto concetto d'Averroè 3°, il giovane filosofo veneziano continua: Post queni prinius floruit Averroes cordubensis, qui ex graecis expositoribus velut ex optimis quibusdam fontibus philosophiam non tam hausisse quam expressisse visus est. Eos enim insequi et incessere delectatus est apprime, unde is solus est qui condigne et recte apud omnes commentatoris nomen adeptus fuit; tantum enim est ex agro fertili messem tacere. Hinc est, ut qui Averroem exacte legerit, et suis quaeque locis singulatim singula contu- lerit, eius doctrinam facile percipiet ab optimis manasse aucto- ribus. Quid enim aliud est commentator Averroes quam Alexander, Themistius, Simplicius, ac demum ipsemet Aristoteles transpo- situs ? Ouamobrem et nos divino beneficio confisi, non vana si- militer gloriae cupiditate impulsi, et absque ulla prorsus invidia, sed solum utilitatem aliquam studiosis afterre anhelantes, penes horum virorum sententiam quarumdam diftlcilium quaestionum summam seu compendium ordinare suscepimus: ea enim beni- volentia perypatheticos prosequor omnes, et praesertim summum Aristotelem eiusque magnum commentatorem Averroem, omnium philosophantium vere duces, ut si quid ex illorum disciplinis de- prompserim, quod utile, pulchrum lionestumque putem, id quippe omnibus communicatum esse velim, quo omnes literati una mecum ipsorum rapiantur amore eosque digna veneratione pro- sequantur et colant. Verum nos, divini Platonis De legibus imitati, ut scilicet ne cuivis liceat, quae aediderit, aut privatim ostendere, aut in usum publicum concedere, antequam super id publici et idonei con- stituti iudices ea viderint et probarint (quod maxime observant venerabiles illi magistri parisienses), opus hoc nostrum in stu- diosorum communem usum concedere ullo pacto voluimus, ante- quam gravssima amplissimi Venetiarum prothoflaminis censura et lima castigetur; cuius quidem titulis et laudibus (nisi defraudetur) solum ipsemet accedit religiosissimus antistes Antonius Surianus; simulque nisi prius in clarissimorum virorum conventu et corona opus hoc manutenerem et tutatus essem. E il « prothoflamen » di Venezia, cioè il patriarca Antonio Surian, zio di quell'altro Antonio Surian, che era stato disce- polo a Padova del Pomponazzi e del Fracanziano, e che del Peretto ci ha tramandato le lezioni sul De anima del 1500 e del 1504, contenute nel codice della Bibl. Naz. di Napoli, Vili. D. 81, studiato dal Kristeller, il buon patriarca di Ve- nezia, dicevo, dopo aver letta l'opera del Taiapietra, lungi dallo scandolezzarsi di questa aperta esaltazione d'Averroè, 3° De anima. III, comm. 14. IL SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIKTRA 293 che avrebbe fatto fremere il vescovo di Padova, Pietro Ba- rozzi, gli scrive questa candida letterina che si legge in fondo al volume: Filii [sic) diarissime, praeclarum opus tuum, in quo Aristotelis peripatheticorum principis et Averrois eius fidi et luculentissimi commentatoris sensum diligenter et ad unguem examinasti, non mediocri gaudio voluptateque lectitavi, eo quod te philosophum praestantissimum noverim, tum et ortodoxae matri ecclesiae obsequentissimum. Quo fit ut te quam maximis prosequamur laudibus, magnisque honoribus te decorandum extollendumque censeamus. Exinde enim persuaves et amenissimos tibi fructus acquires, nec modicam saeculo utilitatem, patriaeque nostrae gloriam allaturus es. Vale. Eppure l'averroismo dell'opera non concerne soltanto una o due tesi che vi siano difese quasi di passaggio, ma domina tutto intero il volume, dalla prima all'ultima pagina; salve sempre, s' intende, le solite proteste d'obbligo, chiaramente espresse o sottintese, che l'autore cioè non persegue altro intento che quello di esporre qual è il genuino pensiero d'Ari- stotele e del suo fedele commentatore, senz'alcun pregiudizio per la fede e per gì' insegnamenti della Chiesa. L'opera si divide in due libri : il primo concerne otto problemi dibattutissimi nelle scuole di filosofìa, alla soluzione dei quali son dedicati altrettanti trattati, e in ciascuno di essi un capitolo è consacrato alla esposizione della vera dottrina del Filosofo e del suo fedelissimo interprete, mentre altri son riservati a combattere più le obiezioni dei « cacoaverroisti », com'egli li chiama (lib. II, tr. i, e. 7), che non quelle degli avversari dell'averroismo. Nel primo trattato si discute il problema se unico sia il principio di tutte le cose, o possa esser molteplice; e nel quinto capitolo « philosophi et commentatoris vera positio inducitur cum suis rationibus et fundamentis ». Nel secondo trattato, si parla della immaterialità e semplicità divina; e nel cap. 14 « philosophi et commentatoris vera po- sitio inducitur ». Nel terzo trattato si dimostra la tipica tesi averroistica « Deum tantum seipsum, idest essentiam pro- priam intelligere ac intueri »; e nel cap. 11 « vera positio philo- sophi et commentatoris in hac materia ponitur ». Nel trattato quarto si pone il quesito « an primus motus, qui est diurnus, sit immediate a Deo glorioso », e si critica la tesi dell'aver- roista Giovanni di Jandun, il quale sosteneva che Dio non può 294 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI muovere il primo mobile se non per mezzo della prima intelli- genza; nel cap. 6 poi è esposta la vera opinione del filosofo e del SUO commentatore su questo argomento. Nel trattato quinto è presa in esame la vexata quaestio, se Dio sia causa efficiente delle cose eterne, cioè delle intelligenze e dei cieli, poiché delle cose corruttibili non v' è dubbio che esse non pos- sono esser prodotte immediatamente da Dio. È noto che il teologo agostiniano Gregorio da Rimini riteneva che, secondo Aristotele, Dio è causa finale ultima delle intelligenze e dei cieli, ma non causa efficiente del loro essere 31. Il Taiapietra, d'accordo con Sigieri -, è del parere che, pur essendo coe- terne a Dio, sì le intelligenze motrici che i cieli incorruttibili son tratti all'esistenza da lui per via di vera causalità effi- ciente, e in proposito intraprende una lunga disquisizione che dura per diversi capitoli contro il teologo agostiniano; giacché è bene si sappia che, per quanto riguarda l' interpretazione del pensiero d'Aristotele, vi furono teologi che si spinsero anche più in là di taluni averroisti. Nel cap. 13 è esposta la vera dottrina del filosofo e del commentatore « cum suis ra- tionibus et fundamentis », che è poi la dottrina sigieriana. Nel trattato sesto, è discusso un altro problema oggetto di lunga contesa, fin dai tempi di Sigieri, se cioè Dio nel muo- vere il mondo si palesi di virtù intensivamente infinita ossia, come soleva dirsi, di infinito vigore. Dopo aver combattuto r interpretazione che d'Aristotele avevan dato S. Tommaso, Alberto Magno e Duns Scoto e quella di alcuni averroisti che, a suo giudizio, falsavano il pensiero d'Aristotele e d'Averroè, l'autore passa ad esporre, nel cap. io, la « vera positio » del- l'uno e dell'altro, riaffermando la sua fiducia nel commen- tatore : Quum inter tot celebres philosophos, nullus adhiic posterio- rum philosophantium aut priorum, praeter Aristotelem, inventus sit qui commentatori Averroi in rebus naturalibus aut divinis exponendis equipolleat, unde merito nomen magni et certe maximi commentatoris est assequutus, ideo, primae philosophiae princi- piis innitendo, in hoc quesito ad mentem philosophi et commen- 31 Lectura in II Sent., dist. i, q. i; cfr. Giov. di Baconthorpe, In II Sent., dist. i, q. i; Giov. di Jandun, Meiaphys., II, q. 5; id., ■Quaestiones sup. De siibst. orbis, q. 14. 32 Cfr. F. Van Steenberghen, Sig. de Brab. d'après ses oeiivres inédites, II voi., Louvain, 1942, p. 606. V. sopra, p. 103. IL SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIETRA 295 tatoris dicimus infinitum, ut proposito attinet, alias infiniti di- stinctiones omittendo, dupliciter intelligi posse: vel secundum tempus et durationem, vel secundum virtutem et vigorem; quo- rum unum vocant latini infinitum extensive, et alterum intensive. Pro quo sciendum quod si primum principium secundum primum modum infinitum intelligatur, hoc utique ad mentem philosophi et commentatoris concedendum est, quoniam primus motor motu locali uno et continuo movet per infinitum tempus; et sic etiam, secundum eos, quaelibet intelligentia est infinita; quae- libet enim intelligentia movet, secundum Aristotelem, orbem proprium motu locali circulari infinito. Potest et secundo modo intelligi primum principium esse infinitum in qualitate actionis, scilicet in vigore; et hoc pacto negat philosophus et commen- tator. Ma rendendosi conto che un'affermazione sì grave poteva sonare sgradita alle orecchie dei teologi, il nostro s'affretta a dichiarare: Sed quamvis isti, philosophus scilicet et commentator, sic dicant, nihilominus tamen dico secundum fidem et veritatem, quod deus, qui est primum principium, est virtutis infinitae, scilicet in qualitate actionis, ita quod quantum est de se potest velocitare motum in infinitum, immo movere in instanti, nec est limitata sua virtus ad actionem determinatam ; et hoc absque omni ambiguitate verum est, non tamen potest convinci aut comprehendi ex sensatis; et ideo non est mirum si philosophus ac caeteri antiquorum naturales, sensata tantum insequentes, illud minime comprehenderunt. Quum enim deus ipse naturae sit auctor, potest utique plus facere quam possit natura vel natura- liter comprehendi, quoniam quemadmodum ipse omnia excedit in infinitum, sic etiam profecto in agendi potentia. Iccirco iuxta illud quod primo Esaias et postmodum Paulus dixerunt, propter ista et alia quae oculus non vidit nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit, sacrosantae ecclesiae sanctissimis doctoribus sine aliqua haesitatione credendum est, et absque aliqua demon- stratione aut sensuum experientia etc. E la stessa dichiarazione ripete, come d'uso, tutte le volte che gli accade di toccare un problema intorno al quale vi sia conflitto fra la filosofìa e la teologia. Nel settimo trattato si chiede se il numero delle intelUgenze motrici debba dedursi dal numero dei movimenti e delle sfere celesti, oppure se ve ne siano di non addette al moto dei cieli; e nel cap. 4 è esposta al solito l'opinione del filosofo e del com- mentatore, che il Taiapietra ancora una volta toglie a difen- dere. Inoltre nel cap. 12, è esposta la vera opinione del filosofo 296 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI e del commentatore, che la nobiltà delle intelligenze va posta in relazione con la maggiore ampiezza e altezza delle sfere da esse mosse. Nell'ottavo ed ultimo trattato del primo libro, si dibatte l'annoso problema, se la materia di cui constano i cieli sia « eiusdem rationis cum materia horum inferiorum » ; e di nuovo nel cap. 12 viene esposta e difesa come vera la dottrina d'Averroè, la quale combacia perfettamente con quella del principe dei filosofi, e vi si dice che la materia dei cieli non è in potenza a diverse forme, ma soltanto a diverse posizioni locali. Il secondo libro si divide in sei trattati. Il primo dei quali verte sulla natura dell'anima umana e precisamente sul pro- blema « utrum humana et rationalis anima sit una vel plures, dans esse homini et immortalis». Fin dal primo capitolo di que- sto trattato, l'autore ci palesa candidamente qual è il suo inten- to: anzitutto rigetterà tutte le opinioni che più s'allontanano da Aristotele e da Averroè; poi riferirà quelle che più si avvici- nano al loro pensiero : « Demum veram philosophi et commen- tatoris addemus sententiam ab ea quascunque amovendo cavillationes, ut eius veritas clarior appareat.... ». Ed egli non meno candidamente spera che dalla sua fatica verrà non poco giovamento alla restaurazione della filosofìa, che al co- mune giudizio degli averroisti pareva in quei tempi non poco decaduta: Unde speramus laborem hunc nostrum non modo rem peri- patheticam, idest Averroycam, adiuvaturum esse, verum etiam aucturum, quum forte scriptum hoc non tantum erit causa de- clarandi rem obscuram et latentem multum in philosophia, sed etiam aliis, hoc est bene dispositis, initium fiet vel occasio Iabo- randi in doctrina philosophi et commentatoris, et ad communem utihtatem quamphira scitu nobilissima scribendi. Et sic forte in Italia reviviscet philosophia, quae temporibus meis, M.D.V., cum philosophis pessum ivit, adeo ut hac tempestate pauci vel nulli reperiantur philosophi; sunt autem in precio triviales, nebulones et sophistae 33; sperandum est tamen naturam ali- 33 È un lagno che Averroè aveva fatto dei filosofi del suo tempo, nel famoso prologo alla Fisica; ed è curioso vedere come gli averroisti della fine del Quattrocento e dei primi del Cinquecento lo ripetano pei loro tempi. V insiste in particolare il Pomponazzi, parafrasando sia il prologo al primo libro della Fisica sia quello al terzo (Cod. lat. della Bibl. Naz. di Parigi, n. 6533, f. 6v e lagr; Arezzo, Fratern. de' Laici, ms. 3QO, f. (x-jv, e ms. 300, f. igir. Cfr. «Giorn. Crit. d. Filos. Ital. », XXX, 1951, pp. 371-372). IL SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIETRA 29/ quando nostri misertam iri, et nobis integram redituram philo- sophiam et philosophos; natura namque non deficit in necessariis neque abundat in superfluis. Iccirco laborandum est prò viribus ut ad nos redeat niater nostra pliilosophia. Con questa speranza nel cuore, che la filosofia aristotelico- averroistica minacciata da un lato dal concordismo tomistico che la svisava, e dall'altro dalla retorica umanistica che la disprezzava e dileggiava, il nostro giovane averroista si ac- cinge a difendere quella che era apparsa la più ostica delle tesi averroistiche, qual' è quella dell'unità dell' intelletto. Ed anzitutto egli espone e combatte, sulla scorta d'Averroè, la dottrina di Alessandro d'Afrodisia, intorno alla quale si dif- fonde per ben sei lunghi capitoli (2-7). Nel cap. 4 accade d' in- contrare questa allusione all'ambiente filosofico padovano: « Conantur quidam alexandrei et acutissimi viri prò Alexandro ad rationes Averroys et auctoritates Aristotelis respondere.... >>. Giusto un anno prima, nel 1504, il Pomponazzi, che stava com- mentando a Padova il terzo del De anima, s'era posto il pro- blema dell' immortalità dell'anima, e pur dichiarandosi an- cora propenso a ritener possibile una soluzione positiva del problema secondo la ragione, aveva dimostrato in che modo la tesi d'Alessandro avrebbe potuto sostenersi. Forse allu- dendo al Pomponazzi, il Taiapietra nel rintuzzare le ragioni degli alessandristi osserva : « Etsi Alexandrea opinio lumini tantum innitendo naturali non minus forte substentabilis sit 34 iuxta fundamenta sua, quam et averroyca, hoc nihilo- minus in loco ipsum ad intentionem philosophi minime lo- quentem fuisse proculdubio ostendemus » (cap. 5). Nel qual passo è quanto mai significativa la distinzione fra ciò che è sostenibile « lumini tantum innitendo naturali », e ciò che è sostenibile «ad intentionem philosophi». A prescindere dai fran- cescani che di questa distinzione facevano largo uso, essa è una novità nella storia dell'aristotelismo; Aristotele non ha visto tutto quanto si può vedere col lume di ragione; la ra- gione umana può spaziare forse oltre i confini del mondo ari- 34 Come appunto diceva il Pomponazzi, commentando il terzo libro del De anima nel 1504 (Vedasi P. O. Kristeller, Two impubi. Que- stions on the Soul of P. Pomponazzi, in « Medievalia et Humanistica », Vili, 1955, pp. 87-90, 94), quando il Taiapietra era ancora studente a Padova. 29o L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI stotelico : è un' idea sulla quale insiste più volte il Pompo- nazzi e che doveva ferire a morte l'autorità di cui Aristotele, «maestro e duca de l'umana ragione ))3s, aveva finora goduto. Dopo la critica della tesi alessandrista, il nostro espone e confuta la dottrina di Abubacher, « Averroys socius )>, di Aven- pace, « eius magister «, quasi fossero due persone diverse, di Avicenna e di Alfarabi (cap. 8) ; e qui eccolo nel cap. 9, in quo Aristotelis et Averroys vera positio ponitur in hac materia cum suis motivi s, ad esporci l' interpretazione sigieriana del pensiero di questi due filosofi: Clini binas hiicusqne illustrivim peripatheticorum opiniones ostenderimus, qiias tamqnam impossibiles omnino ad, mentem philosophi reliquimus, superest videre et de tertia, quae est Averroys se unicum ad intentionem Aristotelis loqui pollicentis. Aliorum autem sapientum opiniones hoc in tractatu non inda- gamur. Item quia intentio nostra in praesentiarum non est de omnibus loqui, sed tantum manifestare quae fuit opinio commen- tatoris, et quorundam errorem refellere, qui temporibus nostris nonnulla monstra in hac materia (ut finxerunt de intentione Averroys) enixi sunt. Tum etiam, ut sententia est philosophi, thopicorum primo, capite IX, quolibet proferente contraria opi- nionibus sapientum sollicitum esse stultum est. De anima igitur disceptantes quadrifariam circa ipsius in- coeptionem loqui poterant: primo, quod quandoque producta fuit in materia, quandoque corrupta: quem modum sequutus est Alexander aphrodiseus, ut disputavimus in pracedentibus abunde satis, in quo quidem tamquam demonstratum nobis palam est, rationalem animam non a corpore incipere, neque in corpus desinerei illam quoque prò parte insequi visi sunt arabum sapientes, ut supra piane constat. Secundo, quod novum acceperit esse, quod nunquam perditura sit: et hic dicendi modus Platonis est, cui contradicit philosophus et commentator, Divinorum XII, tex. co. XXXIX; et primo Coeli, tex. co. CXX; alioquin natura possibilis verteretur in necessariam; nullum enim novum est perpetuum. Tertio, quod nullum eius fuerit initium, sed dissi- panda quandoque foret: et is quoque modus impossibilis est; omne namque aeternum a parte ante est etiam aeternum a parte post, et econtra, ut sententia est philosophi et commentatoris, ibidem, primo Coeli et mundi 3^; nec aliquis hominum dudum id percepit, quod quum perscrutata non sit dignum, absque auctore 35 Dante, Conv., IV, vi, 8. 36 T. e. 104-109 (e. IO, 27gb 32-280=1 31). A questo principio del De coelo fa appello il card. Bessarione, In calimin. Platonis, III, e. 22, so- stendo che, per Aristotele, se l'anima è immortale ed eterna a parte post, deve esserlo anche a parte ante, con tutti gli assurdi che dal punto di vista aristotelico ne seguirebbero, se l'anima intellettiva fosse IL SIGIERIANO GEKOXn.O TAIAPIF.TRA 209 dimissum fuit. Quarto, quod, ncque quandoque cadet, nec exor- dium ulluni aliquando acceperit: si igitur rationalis anima nec incepit cum corpore, nec in corpus desinet, sed semper fuit et aniplius semper erit immortalis ac substantia semper existens simplex et immixta, humano orbi secundum esse unita, non tamen corruptibilis nec alterabilis secundum eius substantiam, opinio redditur Aristotelis scilicet et Averroys et multorum tam anti- quorum quam modernorum peripatheticorum, ut Themistii, Theophrasti, Pythagorae et caeterorum eiusdem sectae. Id igitur in quo veriores scilicet peripathetici concurrunt, est rationalem animam nec incipere cum corpore, nec etiam incipere ab aliquo corporis, nec desinere in potentiam corporis, nec in corpus ipsum, sed esse semper qviid immortale divinum et impatibile. \'erum id in quo discreti et differentes sunt isti viri, hoc porro loco a me perscrutandum non expectetur: tum quia prò nunc tantum philosophi et commentatoris opinionem venamur, ex qua ad caeteras quascumque discrimen colligere poterimus; tum quia praeter opinionem opus nostrum multum excresceret. Hanc sententiam comprobant Aristotelis auctoritates mul- tae; quarimi quae adversus Alexandrum iam adductae sunt nobis sufficiant. Motiva autem philosophorum sunt multa, et primum quod ad hoc movit Averroym, fuit ratio fortis quae ex libro De substantia orbis piane colligitur, quoniam nulla forma inducta in materia non mediantibus interminatis dimensionibus et non per dispositiones qualitativas et quantitativas praecedentes, simul accipit esse cum toto. Sed rationalis anima hominis huiusmodi est. Ergo etc. Amplius amne quod est dominus suorum actuum est abstractum et immortale. Sed anima humana intellectiva talis est. Ergo etc. Maior utique evidens est ex se: quod enim non habet dominium suorum actuum, ad unam tantum partem determinatur; que- madmodum ad delectabile appetitus sensitivus; et talis procul- dubio est materiae immersus. Minoris autem veritas inductive declaratur: nam si uni vero philosopho vel religioso offeratur inoltre moltiplicata col numero degli uomini. Si che il Bessarione ne aveva concluso: «Igitur alterum de his duobus dicat necesse est: aut enim unum eundemque intellectum omnibus esse, aut una cum corpore animam interire ». E se egli poteva ritenere [ib., e. 27) che nessuno era riuscito finora a dimostrare la falsità della tesi averroistica dell'unità dell' intelletto, secondo i principi della filosofia aristotelica, il Pompo- nazzi, che, pur ritenendo perfettamente aristotelica questa dottrina, la considerava stoltezza {fatuitas), almeno fin dal 1504 (cfr. Kristeller, 1. e, p. 93, e il ms. napol. Vili. E. 42, f. i86r), troncò nell'inverno 1515-1516 le sue precedenti esitazioni, e prese a sostenere con risolu- tezza la tesi che, pur essendo quello dell' immortalità dell'anima un « problema neutrum », tutti i principi formulati da Aristotele, e se- gnatamente quello stabilito in questo luogo del De caelo, sembrano concludere alla mortalità dell'anima. Pochi mesi dopo scrisse il trattatello De immortalitate aniniae. Ma sullo sviluppo del pensiero del Perette intor- no a questo argomento, cfr. «Giorn. Crit.», XXXII, I953. PP- 45 e 175. 300 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI puella, appetitus tunc tendit in fornicationem, quia delecta- bile; intellectus autein reicit et fugit, quia malum et propter offensionem dei proximique. Ecce igitur qualiter hominis intel- lectiva anima domina est suorum actuum, quia scilicet potest delectabile fugere vel persequi; non sic autem appetitus ipse. Et haec fuit ratio divini Platonis in Phaedone, ibi inter omnes efficacior, quam olim ab eo accepit platonicus Plotinus, in tractatu de immortalitate animae, quam etiam adducit divus Albertus in libro De origine animae. Et fuit haec ratio apud aliquos tantae effìcaciae et auctoritatis, ut palam dixerint, quod qui conatur hanc solvere rationem fatuus est. Rursum, quod intelligit omnia tam materialia quam imma- terialia est iinmateriale, et per consequens immortale; haec enim se consequuntur, ut constat in intelligentiis; sed intellectiva hominis anima omnia comprehendit, tam scilicet materialia quam etiam iinmaterialia ; igitur immaterialis est, et ex consequenti immortalis. ]\Iaioris primam partem innuit philosophus, iii. De anima, tex. co. iiii, quum dixit, quod omne recipiens debet esse denudatimi a natura rei receptae. Secunda etiam pars patet; alioquin rationalis anima esset organica, et sic determinata ad unum, cuius tamen oppositum in nobismetipsis comprehendimus. Minorem vero in nobis proculdubio quottidie experimur. Quare etc. Et confirmatur, nam anima nostra intellectiva universaliter et abstracte intelligit; ergo et ipsa est abstracta et immortalis; secus ipsa esset aut aliquis quinque sensuum, aut sextus sensus, et sic per consequens non iniiversaliter intelligeret ; quod apud perypatheticos est valde absurdum et manifeste falsum. Adhuc, si ista rationalis anima non est abstracta et immortalis, tunc aut est complexio, aut forma superaddita complexioni; sed non primum, quia tunc esset accidens, quod nullus sanae mentis fateretur; minus etiam secundum; sequeretur enim ipsam esse organicam et extensam, et sic fìeret determinata ad unum que- madmodum et caeteri sensus, cuius tamen oppositum in nobis manifeste percipimus omnia et universaliter percipientes. His ita prealibatis, inquiunt veriores perypathetici hunc intel- lectum materialem esse formam perpetuam ex utroque latere, loquendo praecipue ad intentionem philosophi et commentatoris, unicamque omnibus hominibus inesse, ac minime generabilem aut corruptibilem nec eductam de potentia materiae. Amplius opinantur ipsam facere per se unum cum homine constituto in esse per cogitativam; et ponunt quod intellectus ipse non potest informare materiam non informante cogitativa; non enim stat materia absque forma constituta in esse per eam ; nec potest intellectus informare sine sua proxima et ultima dispositione, quae quidem est cogitativa respectu intellectus; unde, esto quod cogitativa ipsa non sit forma generica, ordinatur nihilominus in intellectum propter ipsius essentialem ordinem ad ipsum. Nec econverso potest cogitativa informare materiam et ipso quoque non informante intellectu; positis enim informabili ultimate disposito et ipso informativo, necessario et ipsa insurgit infor- \ IL SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIETRA 3OI niatio 37. Est autem materia informata cogitativa informabile propinquum et ultimate dispositum ad humanum recipiendum intellectum; et sic potest una formia substantialis ad aliam esse dispositio, dummodo forma illa praeparans non sit materiae ratio recipiendi. Adduntque post haec hunc eumdem intellectum primo et ade- quate informare totum orbem humanum; secundario vero illius partes, ut scilicet sunt individua hominis. Nec intellectui humano, quamvis sit unicus et individuus, pluribus dare esse aeque primo hominibus, utputa Socrati, Fiatoni, Ciceroni et sic de aliis, re- pugnat; in via namque philosophi et commentatoris constat intelligentias esse individua, ut xii. Primae Pìiilosophiae et in libris De coelo; et illa eadem esse cum suismet quidditatibus; unde intellectus materialis, quum sententia commentatoris, se- cundo Physice auscultationis , infima sit intelligentiarum, erit et ipsa individuum et sua quidditas; septimo enim Methaphysicae, comm. xli, et iii. De anima, comm. ix et x, in abstractis a ma- teria non differt quidditas ab eo cuius est. Intellectus igitur ma- terialis individuum erit et singularis; ob id tamen nihil prohibet, licet intellectus ipse sit etiam quidditas universalis, dare esse hoc et singulare homini, ut iam dictum est. Et sic apparet quo- modo esse hominis, in eo quod homo, est ultimo per hunc intel- lectum, et quomodo difterentia hominis, in eo quod homo, su- mitur ultimate ab hoc eodem intellectu ; et sic quoque individuum ipsum humanum, idest constitutum ex cogitativa tanquam ex materiali, et ex ipso intellectu tanquam ex formali, utputa Sortes vel Plato, habent esse hoc ad ipso intellectu ultimate. A materia autem divisa informabili cogitativa dimensionibus mediantibus informante, nascitur possibilitas multiplicationis individuorum sub eadem specie; quae omnia propter esse universale ipsius intellectus, ut supra diximus, informari possunt ab ilio, et ab eodem sumere esse suum verum hoc et unum. Et breviter autumant intellectum ipsum primo esse formam adequatam totius suae sphaerae humanae; secundario vero par- tium sphaerae, ut particularium hominum, hoc scilicet pacto quod, inquantum quidditas, partiri possit per materias informatas dimensionibus et cogitativis, inquantum autem individuum, est id esse per quod individuum hominis est hoc ultimate. Dicuntque praeterea opinionem esse Averroys, ut intellectus uniatur homini non tantum ut ars et motor instrumento et or- gano, sed etiam secundum operationem et esse. Yocant autem aliquid alteri vmiri secundum esse, quando illud habet esse et nomen ab eo; non autem audiunt esse prò operatione, iuxta illud ' vivere viventibus est esse ', nec prò esse educto de po- 37 Questa tesi si trova alla lettera nei Quolibeta de intelligentiis di Alessandro Achillini (v. sopra, pp. 206 e 246,), e il NiFO, De intellectu, I, tr. 3, e. 18, la dice tolta dal trattato De intellectu di Sigieri (cfr. il mio Sig. di Brab. nel pens. ecc., p. 18 e p. 73). 302 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI tentia niateriae; sed per esse intelligunt informationem quam corpori tribuit intellectus. Dicunt etiam quod, quando aliqua forma unitur alicui mate- riae, duo debemus considerare: primum, prout ipsa forma ma- teriam constituit in esse, scilicet prout forma materiam informat eique nomen et difììnitionem concedit simul, prout ipsa forma a materia sustinetur ac ab ea dependet in esse et conservari secun- dum suum genus causae, ac etiam ab ea in operari dependet; secundum autem prout aliqua forma aliquod subiectum sive materiam in esse constituit, ipsa tamen per subiectum vel ma- teriam in esse non constituitur, sicut se habet intelligentia et orbis; et huiusmodi asserunt se habere rationalem animam ad hominem, sive ad orbem humanum et suas partes, ut iam dictum est. Dat ante intelligere hanc distinctionem Averroys, Physicorum primo, comm. Ixiii, ubi ait: ' Et quia coelum caret hoc subiecto, ideo caret forma quae substentetur per hoc subiectum, et fuit necesse ut forma eius sit liberata ab hoc subiecto, et non habet constitutionem per corpus codeste, sed corpus codeste consti- tuitur per illam, ut scies alibi ' etc. Ex quibus apparet aliquam esse formam subiectum suum tantum constituens, non autem per illud constituta, sicut est de forma codi et de anima intel- lectiva in proposito nostro; alia vero est forma constituens su- biectum suum in esse, ac per illud ipsa quoque in esse constituta» Hoc idem dicitur in vili. Physicae auscultationis, ex comm. lii.... Illud idem etiam et in capite ii. De substantia orbis.... Hanc eandem sententiam possumus sumere a commentatore iii. De anima^ comm. V. et comm. xx, non minus quam a Themistio, ibidem in Paraphrasi sua de anima. Caeterum quod ista sit opinio commenta- toris Averroys, ex verbis suis intdligi potest. Ait enim.... Nel cap. IO, il Taiapietra riferisce le obiezioni che a lui facevano gli altri averroisti, i quali ritenevano che per Averroè r intelletto è separato dall'uomo, sì che « intentio fuit commen- tatoris, quod intellectus possibilis, licet sit unicus in omnibus hominibus, non tamen proprie dat esse, sed operationem, eo modo quo dicunt aliqui intelligentiam uniti coelo, non dando ei perfectiones primas, sed tantum secundas, et hoc modo anima ipsa intellectiva unitur homini, secundum commen- tatorem, mediantibus scilicet fantasmatibus ». Ed anzi tutto riferisce cinque obiezioni ricavate dalle opere dei vecchi aver- roisti. A queste ne aggiunge ben ventisette che gli movevano i contemporanei, irritati dal vedere la dottrina d' Averroè interpretata in modo così diverso dal consueto : « ex modernis autem inveniuntur quos adeo positio nostra in via commen- tatoris fastidit, quod, ut eam penitus delerent, omne quasi possibile induci contra illam attulere », Nel riferire questi 27 IL SIGIERIANO GERONIMO TAIATIETRA 303 argomenti, egli usa sempre il plurale « dicunt », « volunt » etc. Ma giunto alla fine del capitolo, abbandona il plurale e addita un certo dottore contemporaneo di cui però non fa il nome: « Ex his potissime vult iste doctor colligere positionem hanc contradicere fundamentis Averroys expresse, ut supra dictum est. Et fortius et uberius instetit iste homo in hac materia, quam aliquis alter quem ego unquam viderim. Et iudicio meo multum laboravit hic vir, sed frustra.... ». E nel capitolo successivo, rispondendo a queste obiezioni, torna ad accennare a costui {ad vigesimum septimum) : «■ Et certe sum admiratus de isto homine qui aliquas tam frivolas rationes aduxerit ». Quasi con certezza si può ritenere che questo dottore averroista che inveiva contro quello che egli riteneva un travisamento del pensiero d'Averroè, fosse Marcantonio Zimara?^. Ad ogni modo è indubbio che la controversia non era tra averroisti e antiaverroisti, ma tra averroisti e averroisti, cioè tra primi cugini, se non proprio tra fratclh carnali. Ed erano maestri dello studio patavino: «Sed post hos invenio aliquos qui in gymnasio publico patavino se magnos philosophos faciunt, voluntque per urbem digito ostendi ac ab omnibus observari; sed quo iure non video » (/&.). Alla spocchia di questi « chaco- averroyci expositores » il Taiapietra oppone la sua superba "1^ Cfr. sotto, p. 340. Marcantonio Zimara, che nel 1505 de- dicava ad Andrea Mocenigo, discepolo del Pomponazzi (v. sopra, p. 289) la Quaestio de principio individuationis , le Annotationes in Ioannem Gandavenseni super Quaestionibits Metaphysicae e la Quaestio de triplici causalitate intelligentiae (in appendice alle Ouaesiiones di Giov. di Jandun sulla Metafisica, Venezia, 1505), era quello che meglio rappresentava l'averroista combattuto dal Taiapietra (v. sotto, p. 34 ) sgg.). Non è tuttavia da escludere che egli si riferisse direttamente al Pomponazzi, che, discutendo dell' immortalità dell'anima, nel 1504, aveva combattuta la dottrina sigieriana in questi termini (cfr. Kri- steller, 1. e, p. gì) : « Alia est opinio quorundam se averroistas existi- mantium, qui dicunt quod anima ita se habet ad corpus sicut forma ad materiam. Vult autem opinio ista quod fuerit de intentione Averrois, animam intellectivam esse formam dantem esse ipsi corpori. Formarum autem dantium esse aliquae sunt constitutae in esse per subiectum et eductae de potentia subiecti et insunt ex mutua dependentia ei; aliae vero sunt quae nec sunt constitutae in esse per subiectum, nec sunt eductae de potentia subiecti, nec insunt ei ex mutua dependentia, tamen dant esse ipsi subiecto. Et talis forma praesupponit corpus organizatum actu existens, et [non] inducitur absque disposinone praevia, sed praesupponit omnes conditiones requisitas ». Le stesse cose nel ms. napol. Vili. E. 42, f. i84r. Cfr. « Giorn. Crit. Filos. Ital. »,. XXXVII, 1958, p. 346. 304 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI certezza di essere nel vero : « Et haec et tanta dixi, quia hanc viam ad mentem commentatoris caeteris subtiliorem et pro- babiliorem esse existimo, ac ab omni contradictione remo- tiorem » (cap. 11). E più oltre: «Et ista est resoluta doctrina philosophi, et panis non est tradendus canibus » (ib.). Nel mio studio sulla diffusione del commento di Simplicio al De anima e sulle ripercussioni ch'esso ebbe nelle contro- versie della fine del secolo XV e di quello successivo, ho di- mostrato che i primi a trarne profìtto furono Giovanni Pico della Mirandola e il Nifo, e come l'uno e l'altro, ma special- mente il secondo, avessero trovato in Simplicio una conferma del loro averroismo di marca sigieriana 39. La quale opinione è condivisa dal nostro, che nel cap. XII così scrive: Post haec omnia invenitur una alia opinio quae Simplicio ascri- bitur, qui ex intellectu et cogitativa aggregai animam rationalem, quasi ex istis compositam, quae, si recte intelligatur, ad iiostram opinionem reducitur. Puto enim quod, quum ipse fuerit unus ex bonis Aristotelis expositoribus (ut omnes graeci latinique philosophi de ipso testantur), voluerit cogitativam realiter di- stingui ab intellectu ; verum quoquo modo rationalis anima ex cogitativa et intellectu componi dicitur, prò quanto cogitativa omnino habet introitum in essendo animam hominis licet non ulti- mate, et distinguendo ipsum, ac ipsum in specie non ultimate reponendo. Et confirmatur hoc, quia quae ad invicem quoquo modo vel vere componuntur, ad invicem et distinguuntur. NTon autem credo Simplicium tenere cogitativam et intellectum esse idem realiter, secundum tamen gradus distinctos, quoniam tunc realiter essent plures intellectus generabiles et corruptibiles, sicut de cogitativis evenit. Et hanc sententiam confirmat Averroys, duodecimo Methaphysicae, comm. xxxviii, ubi ait: ' Et ex hoc quidem apparet bene quod Aristoteles opinatur, quod forma hominum, in eo quod sunt homines, non est nisi per continua- tionem eorum cum intellectu qui declaratur in libro de anima '. Unde patet quod Averroys vult quod differentia hominis, in- quantum homo, ultimate sit ab intellectu. Hoc idem sentit Aver- roys in Libro destruc. desiruc, [disp. i], in solutione dubii xxxiii, et viii ibidem. Quare etc... Et sic etiam verificatur quod intel- lectus is non est actus corporis, idest non est forma educta de potentia materiae ab agente scilicet naturali, ut testatur philo- sophus; ob id tamen nihil prohibet quod intellectus ipse sit actus corporis, idest forma informans corpus et dans esse corpori, ut supra iam diximus.... Et ex his habetur haec Simplicii positio in via peripatheticorum optime tirmata. 39 Vedansi più oltre i saggi XIII e XIV. IL SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIETRA 305 Indi il giovane maestro, dopo aver fatto vedere in che la tesi d'Averroè sull' intelletto possibile differisca dalla dottrina di Temistio e di Plotino (cap. 13), e dopo aver risolte le obie- zioni degli altri averroisti e degli avversari dell'averroismo (capp. 14-18), torna ad insistere che la sua maniera d' inten- dere il pensiero d'Averroè concorda in tutto e per tutto con quanto asserisce il commentatore di Cordova e, con lui, pen- sano i migliori averroisti, a capo dei quali è Sigieri (cap. ig) : Ecce ergo qvio modo vult ipse (Avwroes) intellectum, inquan- tum quidditas, partiri per materias informatas dimensionibus et cogitativis; inquantum vero est individuum, esse id per quod individuum hominis est hoc. Intellectus ergo, ut habet esse reale, est forma suo orbi; ut autem habet esse intentionale et univer- sale, est materia omnium intellectuum separatorum. Et ista vi- detur esse plana sententia Averroys in hoc quaesito, ut de mente eius tenent praeclarissimi viri et maxime, inter alios, Subgerius, praecipuvis averroysta. Et iste fuit discipulus Alberti et contem- poraneus Thomae, et qui, in quodam suo tractatu De intellecttt adversus Thomam, opinatur, in via Averro^'S et philosophi, in- tellectum materialem esse formam perpetuam ex utroque latere. Dal modo come si parla qui di Sigieri, è evidente che il Taiapietra aveva presente il trattato De intellectu del Nifo che era stato stampato a Venezia nel 1503. Ma mentre questi s'era già separato dell'averroismo professato a Padova nei suoi primi anni d' insegnamento, il giovane filosofo veneziano è ancora perfettamente averroista, e si direbbe che dalle opere del Nifo abbia attinto soltanto quel che gli serviva per cono- scere il pensiero dell'averroista brabantino, del quale si fa- ceva difensore e propugnatore dinanzi al capitolo generale dei frati minori a Roma, contro le argomentazioni del Nifo stesso ch'egli rintuzza. Il secondo trattato del secondo libro ha per oggetto 1' « ul- tima prosperitas et beatitudo », ossia 1' £ÙSai!J.ovia aristotelica, intorno alla quale dissertarono a lungo gli averroisti. Sigieri, a quanto riferisce il Nifo, ne aveva parlato in un libretto De felicitate, ed aveva sostenuto in proposito forse le sue più ardite tesi 40. Per Aristotele il fine supremo dell'uomo, in quanto uomo, consiste nel pieno appagamento del desiderio che la 40 Nifo, De intellectu, II, tr. 2, e. 17; De beatitudine animae, II, com- mento 21. Vedasi il mio Sigieri, cit., pp. 22-28, e qui sopra, pp. 215-16. 20 306 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI mente ha di sapere, cioè di conoscere la realtà, non solo nelle sue manifestazioni contingenti, ma nelle sue cause e ragioni eterne. Occorre quindi che la mente risalga, al di là del mondo sensibile e di quel che nasce e muore, all'eterno e immuta- bile, al mondo metafisico, al cui centro è il principio di ogni intelligibilità e il fine ultimo cui le cose tutte tendono. Ma può r intelligenza umana, legata com' è alla sfera della sensibilità, giungere a conoscere in se stessa la pura realtà ideale di Dio e delle intelligenze motrici intorno a lui ? Aristotele non dà una soluzione chiara di questo problema; e perciò i suoi com- mentatori greci ed arabi l'avevano cercata nel pensiero pla- tonico e neoplatonico, elaborando quella tipica dottrina della copiilatio della mente umana con l' intelletto agente, della quale si fece un necessario complemento dell'etica aristote- lica. Se r intelletto umano non fosse capace d' innalzarsi a conoscere in se stesse le sostanze separate, aveva detto Averroè nel commento i al secondo della Metafisica, il desi- derio umano di conoscere la verità sarebbe vano, ed inutile sarebbe l'esistenza di tali sostanze che noi non potremmo mai arrivare a conoscere nella loro vera natura. È certo in- teressante veder posto il desiderio umano di conoscere a fondamento dei nostri giudizi intorno alla realtà. Ma a ciò non badarono i pensatori medievali. I quali si sforzarono piut- tosto d' intendere come la conseguenza fosse dedotta dalle premesse, contro S. Tommaso che negava la legittimità di questa deduzione 4'. In che modo giustificasse la legittimità della deduzione Sigieri, è fatto conoscere dal Nifo, al quale s' ispira anche questa volta il giovane patrizio veneziano nel riecheggiare che fa la dottrina sigieriana: Onod si foret hominibus omnino impossibile (conoscere in se stesse le sostanze separate e Dio)..., tane natura ociose egisset; fecisset enim id, qnod est in se naturaliter intellectum, non com- prehensum ab aliquo, et sic esset frustra, quemadmodum si fe- cisset solem non comprehensum ab aliquo visu. Hanc sequellam diversi diversimode deducunt; quidam enim eam sic deducere consueverant. Supposito primo quod omnis intellectio, conve- niens intellectui possibili, non conveniat quin etiam homini competat, hoc expresse sensit philosophus, primo De anima, Lxiiii, quicquid dicant alii; hoc quippe supposito negato, aufertur omnis via commentatori ad probandum coelum intelligere; quare 41 S. Tommaso, In Metaphys., II, lect. i. IL SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIETRA 307 si possibile est substantias separatas intelligi ab intellectu possibili, possibile est quoque substantias separatas intelligi ab hoc homine. Quo stante, tunc arguunt sic. Quandocumque aliqua reperitur forma apta non recipi in maximo receptivo alicuius generis, illa eadem non est receptibilis in minus receptivo eivisdem generis. Sed intellectus possibilis in genere intelligentiarum est maxime receptivus, ut constat iii. De anima 42. Igitur si primam formam non est possibile intellectum possibilem recipere, ncque etiam est possibile alium intellectum primam ipsam recipere formam. Unde omnes frustrarentur intelligentiae mediae ab hoc scilicet line, qui est deum gloriosum et sublimem intelligere. \'erum quandocumque intellectus abstractus non potest intelligere su- periora, ipse non potest intelligere inferiora; sed nulla intelli- gentia media potest primam intelligere, ut iam deductum est; igitur nulla intelligentia media potest et intelligentiam mediam intelligere ; sed neque deus " potest intelligentias medias intelli- gere, ut Divinovum xii, de mente Averroys 43 concluditur. Et neque intellectus noster possibilis, ut fatentur adversarii, eas intelligere potest. Igitur intellectus possibilis, naturaliter in se intelligibilis, non est ab aliquo comprehensus; sic patet ociositas maxima in natura. Ex quo habetur quod, nisi abstracta intelli- gerentur a nobis, essent utique ociosa. Et haec fuit deductio Subgerii 44, viri in familia averroyca non obscuri (Lib. II, tr. 2, e. 3)- Ma il Taiapietra sa che non tutti gli averroisti convengono nel modo di argomentare di Sigieri; dal quale dissente in parti- colare Giovanni di Jandun: Alii autem, ut Ioannes Gandavensis in Quaestionihus suis de anima, quaestione trigesima septima 45, aliter deducunt. Et ipsi accipiunt primo quod substantiae separatae comparantur ad in- tellectum nostrum ut formae natae intelligi; intellectus vero noster comparatur eis ut subiectum natum recipere illas comprehen- sive et spiritu aliter; quod ex verbis Averro3^s multis viis probari potest. Primo, namque intellectus possibilis ultimus est abstracto- rum; sed semper infìmus intellectus est materia superioris, infima enim intelligentia perficitur a superiori sicut materia perficitur a forma, ut dicunt philosophi. Et confirmatur: quoniam vilius est potentia respectu nobilis, et nobile est tanquam actus respectu vilis; igitur, quemadmodum substantiae separatae sunt natae ntelligi secundum earum naturas, ita noster intellectus est natus 42 Arist., De anima, III, t. e. 5 (e. 4, ^zgz, 21-24) e 14 (429b 30sgg.). 43 Poiché secondo Averroè, Metaphys., XII, comm. 51, Dio conosce soltanto se stesso e non le cose inferiori a sé. 44 Cfr. NiFO, De intell., II, tr. 2, e. 11; De beat, an., I, comm. 53. 45 O meglio, « trigesima sexta ». Ma anche questa svista è nel Nifo, De intell., 1. e. 3o8 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI perfici ab eis secundum suani naturain. Amplius, intellectus pos- sibilis est materia omnium abstractorum et omnium intelligi- bilium; sed. materia non corruptibilis ab ipsis formis est apta et potens suscipere omnes formas; intellectus igitur noster potest recipere omnia intelligibilia. Accipiatur igitur prò constanti, quod intelligentiae sint potentes intelligi ab intellectu nostro potentia quidem naturali; et similiter intellectus noster potest intelligere illas potentia naturali, sicut et ipsa materia potentia naturali potest omnes suscipere formas. Quo stante, arguit modo Ioannessic: intellectus possibilis, corpori continuus, est receptivus et passivus intellectionis abstractarum [intelligentiarum] ; ergo habet naturalem potentiam recipiendi intellectiones earum, per earum scilicet essentias; ergo, si aliquando per cognitionem non at- tinget eas, tunc natura egisset ociose, quoniam fecisset illam poten- tiam naturalem intellectus nostri ad illas capessendas, quae tamen in actum nunquam adduceretur. Et quod haec sit Aver- roys ratio, declarat ibidem Ioannes exemplo eius. Et sic patet quomodo Ioannes deducit illam sequellam, exponendo totam potentiam intelligendi ex parte nostri intellectus, et non ex parte intelligentiarum, ut fecit Subgerius, qui totam intelligendi po- tentiam ad substantias separatas convertit {ib.). La stretta dipendenza dell'averroista veneziano dal Nife, si rivela oltre che dai testi citati, anche da un particolare ca- ratteristico, là dove s'accenna (cap, 5) a quell'esposizione del pensiero averroistico che « veriores averroyci.... exceperunt a filio Averroys in tractatu suo De intellectu » 46. Ma comunque interpretata, la dottrina averroistica sulla « copulatio » e sulla « felicitas Averroistarum », di cui era solito beffarsi il Perette, è evidentemente contraria all' in- segnamento teologico. Perciò il Taiapietra s'affretta ad ag- giungere : Verum quicquid dicatur principiis innitendo naturalibus ad mentem philosophi et commentatoris, nihilominus secundum veram theologorum sententiam dicimus nullam generi humano in hac vita contingere posse foelicitatem et beatitudinem, sed illam ei servari post mortem in alio statu. Viatori enim non potest 46 NiFO, De intell., I, tr. 4, e. 12: «Amplius, filius Averroys in tractatu de intellectu»; II, tr. 2, e. 5: « Declaravit has tres demonstrationes filius Averroys in tractatu de intellectu», cfr. ib., e. ii; a anche nei Collectanea III, ad t. e. 36: «et hanc domonstrationem dedit Alpheeh Averroys filius in tractatu quem edidit ad instantiam patris, et eam multum laudavit »; e più oltre: « et si inspicies librum Alpheeh Averrois filij »; e ancora più giù: « Et in commentariis, quos scripsi in libro feli- citatis Averroys et eius filii ». IL SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIETRA 309 inesse foelicitas nisi in patria, nec etiam abstracta ab eo cognosci possunt cognitione matutina, sed tantum vespertina, ut sacri nostri recte sentiunt theologi (cap. 5). Con siffatta dichiarazione, egli ha ottenuto il duplice scopo, di rassicurare i teologi sulle proprie intenzioni, e di poter di- scutere con tutta libertà intorno al vero pensiero del filosofo e del commentatore. E di questa libertà, procacciata a prezzo di quella dichiarazione, approfitta nel modo piìi ampio, atte- nendosi al famoso commento 36 del terzo libro del De anima. Anzi tutto, coll'esporre e criticare la dottrina di Alessandro intorno al modo come l' intelletto umano giunge ad unirsi con r intelletto agente, che per l'Afrodisio è Dio (capp. 6-11), e quella di Avenpace e di Temistio (capp, 12-14); poi con lo spiegare e difendere la tesi che ad essi oppone Averroè, « qui inter omnes philosophos post Aristotelem perfectior fuit et subtilior » (cap. 15). Nei capp. 17 e 18 il Taiapietra combatte r interpretazione che del pensiero d'Averroè dava Giovanni di Jandun, il quale « opinatus est quod foelicitas nostra con- sistat in actu sapientiali, et sit sapientia quae habetur Divi- normn xii, a textu commenti xxix usque in finem ». Come si vede la fehcità in siffatta teoria era a portata di mano: per quanto astrusa, la Metafisica aristotelica non è poi inintelli- gibile, e sopra tutto abbastanza facile a capire è la parte del XII libro che parla appunto delle sostanze separate che muo- vono i cieli, e della pura mente di Dio. Ma il possesso delle scienze speculative non basta alla suprema felicità dell' in- telletto umano, occorre l' inerenza formale del primo vero nella mente umana, la cui potenza resti così tutta attuata. Il possesso delle scienze speculative è condizione per giungere a questa beatitudine dell' intelletto, non il fine ultimo cui aspira la mente umana, che riposa solo nel possesso del vero eterno « fuor del qual nessun vero si spazia ». Ora a questo possesso s'arriva soltanto con la coptilatio o continiiatio del- l' intelletto possibile con l' intelletto agente, sì che la poten- zialità del primo sia tutta sommersa e assorbita nell'attualità del secondo : Ipse (commentator) , commento xxxvi (3ÌÌ De anima) totiens allegato, inquit quod in adeptione illa nos intelligimus omnia et sumus sicut dii, et quod ille modus intelligendi non -currit cursu scientiarum cogitativarum, quae habentur per discursum, sed 3IO l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI est per substantiam intellectus agentis, in quo omnia intuitive cognoscimus. Convincitur ergo ad intentionem commentatoris, quod ea in cognitione intuitiva nos utique foelicitamur; non autem in illa quae in Metaphysica per demonstrationem habetur {ib., cap. i8). Del tutto aderente all' interpretazione sigieriana del pen- siero d'Averroè, quale ci è nota per l'esposizione che ne fa il Nifo 47 e che concorda con quanto pensava Alessandro Achil- lini 48, è anche l' interpretazione che della « vera dottrina » del commentatore ci dà il Taiapietra: Superest modo circa ambiguitatem hanc magni commenta- toris afferre sententiam, quam omnes viri sublimes in philosophia ac in secta averroyca primarii nobiscum integre et perfecte sen- tiunt. Opinamur enim itaque foelicitatem esse deum. Nam as- sumpta foelicitatis diffinitione prò maiori, tunc si addatur haec minor, videlicet: sed deus est ultimus finis, optimus, propter se eligibilis, ad nullum aliud ordinabilis, cuius gratia omnia eli- guntur, bonus et perfectus, pulcherrimus, delectabilissimus, per se sufficiens, honorabilis, principium et causa omnium bonorum; ex his ergo optime convincitur, quod deus est foelicitas. Foeli- citas enim, quia rationem totius boni amplectitur, omnem quietat voluntatem; quia vero rationem totius entis continet, universum saciat intellectum. Sed in nullo nisi in deo verius reperiuntur ratio totius boni et totius entis. Ergo etc 49. Et hoc forte, et sine forte, balbutiendo intellexerunt vetustiores ; nec valet quod dicunt quidam moderniores, quod bene concluditur deum esse foelicitatem simpliciter, sed non homini propriam.... Sed profecto hoc nihil est, ut piane ostendimus in superiori capite: hanc enim conclusionem habent Averroes et Aristoteles expresse, x. Nicho- machiae, capite vii, scilicet quod deus est foelicitas sibi et aliis intelligentiis et etiam homini 5°. Solum enim ipse est perfectis- siinum intelligibile et appetibile propter se; in eo enim eminenter reperitur ratio obiecti intellectus et voluntatis, immo solum ipse est eminenter omnia bona continens. Et confirmatur, quoniam id quo foelicitantur dii omnes est suprema hominis et omnium foelici- tas; sed deus est quo omnes foelicitantur; omnes enim intellectus foelicitantur intelligendo deum; sed intellectio qua ipse deus intelligitur est ipse deus; igitur omnia deo foelicitantur. Et haec ratio tota est philosophi, x. Nichomachiae, cap. x. Quare conclu- ditur quod deus, ipse formaliter est foelicitas. Amplius, quo foe- 47 Cfr. il mio Sigieri, p. 24. 48 V. sopra, pp. 213-215. 49 Alla lettera dal Nifo, De intellectu, II, tr. 2, e. 2. 50 Allude forse al passo àeWEtìi. Nicom., X, e. 7, ii77b 30-32, forse meglio al cap. 8, ii78b 21-32, e al cap. 9, ii79a 23-32. IL SIGIERIANO GERONIMO TAIAPIETRA 3II licitatur deus, foelicitantur et alii omnes intellectus, ut expressa est sententia philosophi, Divinorum xii, et praecipue commen- tatoris, ibi, comm. xxxviii. Sed deus non foelicitatur nisi dee, ut inquit vii. Politicoruni : ' deus foelix quidem est et beatus, propter nullum autem extrinsecorum bonorum, sed propter seipsum ipse'51. Deo, ergo, nedum homo, sed omnia foelicitantur. Sed nihil foelicitatur nisi foelicitate. Deus igitur ipsa est foelicitas. Et ex hiis verifìcantur omnia verba Aristotelis in toto libro Ethi- coriim, ubi de foelicitate sermonem habet (cap. ig). Giunto alla fine del secondo trattato, il giovane filosofo, rendendosi ben conto che siffatta felicità è irraggiungibile al- l'uomo in questa vita, torna ad avvertire il lettore che tutto quello che abbiamo udito da lui su questo argomento, ad altro non mirava se non a chiarire qual è in proposito il vero pen- siero d'Aristotele e d'Averroè: Hoc enim, in explanandis auctoribus, expositoris officium esse consuevit, ita quod, quid ipse velit auctor, et determinet et ad verbum interpretetur, etiam si illud falsum sit, ut auctorum integrae et non manchae, fideles et non depravatae sententiae circa quaeque apud omnes recipiantur5-. His autem sacri nostri 51 Poi. (ediz. Immisch. Leipzig, Teubner, 1929), VII, e. i, i323b 24 sgg. 52 Così anche il Nifo nella lettera all' inquisitore Nicolò Grassetto, della quale è stato fatto cenno sopra p. 285, nota 12 : «in exponendis enim auctoribus, commentatoris officium solet esse, quid ipse auctor velit ac sentiat, etiam si id interdum minime verum sit, interpretari ». Di questo che è non solo diritto ma dovere di ogni interprete onesto, si valsero tutti gli averroisti per esporre con la massima libertà il pensiero d'Ari- stotele e dei suoi interpreti. Ma il Nifo, per entrare nelle buone grazie dell'inquisitore, aggiunge: « Itaque ut in illis quae ad philosophiam pertinebant, philosophi ac interpretis munere functi, ipsum auctorem exposuimus; ita in his quae fidei catholicae contraria erant, ultra expo- sitoris terminos evagati (quemadmodum hominem christianum decebat), ipsi auctori contradicimus eiusque opiniones ac dieta omnia theolo- gorum nostrorum auxilio confutavimus » (quello che il Taiapietra e in generale gli averroisti non fanno). Del che l'inquisitore gli dà atto: « placetque mihi quod in philosophia, christianae fidei non immemor, in plurimis philosophos redargueris, nihilque in toto opere invenerim quod castigatione dignum censeam » (in fine del volume che contiene il commento del Nifo alla Desfritctio e il De sensu agente, nell'ediz. ve- neziana del 1497). Di questo zelo nel redarguire e confutare le dottrine dei filosofi ancora di più che nel commento alla Destriictio, il Nifo fa mostra nel De intellectit, riveduto e corretto per l'edizione del 1503, ove è evidente il proposito di rifarsi una verginità filosofica antiaver- roistica, adoprandosi a far credere che il suo distacco dall'averroismo risalga al 1492 e preceda quello del suo maestro Nicoletto Vernia: « Hec sunt que preceptor defendit ad mentem Platonis et Aristotelis 312 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI theologi iuxta christianam nostrani religionem multa addunt, quae nos ex testimonio prophetarum credimus; et ideo ea tantum asserta esse volumus, non quaerentes ad liaec aliquam rationem, sed quantum ortodoxa ecclesia praecipit, procul dubio asseveramus. Itaque, ut philosophum decet ac peripatheticum hoc in tractatu quae ad philosophiam pertinebant, more phisici interpretis, declaravimus, ubi non parum boni fecisse arbitramur, quum multa in naturali philosophia obscura et latentia iuxta senten- tiam philosophi et eius magni commentatoris Averroys in lucem ediderimus et ea bene dispositis aperte propalavimus (cap. 21). A questo secondo trattato ne seguono altri quattro, concer- nenti rispettivamente quattro argomenti di filosofia naturale fieramente controversi tra gli aristotelici delle varie tendenze, e cioè : « Utrum nec ne apud philosophum plures substantiales formae ad invicem realiter distinctae in substantiali composito sint ponendae » (tr. Ili) ; « Utrum ad intentionem philosophi dementa remaneant formaliter in mixto » (tr. IV) ; « Utrum simplex elementum alterari possit et a se » (tr. V) ; « De quo- rumcunque simplicium sive mixtorum primo ac proprie dicto elemento » (tr. VI) ; e su tutti e quattro questi argomenti il Taiapietra difende con risolutezza ed energia la dottrina d'Averroè come quella che combacia perfettamente coli' in- segnamento di « quello glorioso filosofo al quale la natura più aperse li suoi segreti», come pensava Dante 53. Ma di sif- fatti argomenti il nostro palato, che ha assaporato Hume e Kant, non ha più il gusto, che non hanno perduto invece i neotomisti, ai quali è giusto che queste pagine siano segnalate. Tale il programma che l'allievo dei maestri padovani aveva preparato per la solenne disputa romana del 6 giugno 1506. A parte l'accenno abbastanza vago che Marin Sanudo fa del- l'obiezione del cardinal Gabrielli ad una delle tesi sostenute dal dottorando, perché « l'era ereticha », non sappiamo a quali altri assalti dovette tener testa il giovane averroista veneziano; sappiamo soltanto che egli giostrò da bravo e che il giorno appresso « il papa lo dotoroe ». O tempora ! in eo libello quem inscripsit De animorum pluralitate, quem confecit compluribus annis post nostrum De intellectti librum » (Nifo, De anima, edizione del 1522, comm. al t. 5 verso la fine). Eppure il Nifo sapeva bene che il Vernia, nella dedica dell'opera al card. Domenico Grimani, aveva dichiarato di avere scritto anch'egli il suo trattato nel 1492. Cfr. sopra, p. 108. 53 Conv., Ili, V. 7. XI UN' IMPORTANTE NOTIZIA SU SCRITTI DI SIGIERI A BOLOGNA E A PADOVA ALLA FINE DEL SEC. XV * Nel volume su Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinasci- mento italiano, ebbi a riunire alcune importanti testimonianze intorno a due e forse tre scritti dell'averroista brabantino, che si leggevano ancora a Bologna e a Padova alla fine del se- colo XV. Queste testimonianze si trovano per la massima parte nel De intellectn et daemonibiis di Agostino Nifo, il quale pre- tende d'avere scritto quest'opera a Padova nel 1492, quando già s'era distaccato dall'averroismo sigieriano cui egli aveva prima aderito. E pare che in quegli anni, se non proprio nel 1492, prima certo del 1497, egli avesse scritto davvero una Quaestio de intellectu in senso sigieriano, e che in seguito, fra il 1496-98, per evitare la taccia di eresia e guai maggiori, rielaborasse quella Quaestio, sino a farne il trattato De in- tellectu, stampato per la prima volta nel 1503, e dedicato a Sebastiano Badoèr morto appunto nel 1498: che di edizioni anteriori non esistono tracce (cfr. sopra, p. 286). In tal mo- do il Nifo cercava di far credere che egli aveva preceduto il suo maestro Nicoletto Vernia nell'abbandono dell'averroismo (cfr. sopra, p. 311, n. 52). Nel De intellectu e nel commento al De animae beatitudine di Averroè, il Nifo si riferiva a due opere di Sigieri o, com'egU scriveva, « Sugerius », « Suggerius », « Subgerius, vir gravis, secte Averro3^stice fautor, etate Expositoris [cioè di S. Tom- maso] , discipulus Alberti », « Subgerius contemporaneus Tho- me ». Queste due opere sono un « tractatus de intellectu, * Dal «Giorh. Crit. d. Filos. Ital. », XXXV, 1956, pp. 204-209. 314 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI tertio loco inscriptus, qui fuit missus Thome, prò responsione ad tractatum suum contra Averroim », e un « liber de feli- citate » che pare identico col « tractatus intelligentiarum et beatitudinis », ricordato dallo stesso Nifo nei suoi Colledanea sul De anima, nell'edizione veneziana del 1503 e in quella del 1522, nelle quali « Subgerius » è diventato « Subiegius » (si vedano le citazioni nel mio volume, pp. 18-30). Ma nel suo trattatello De primi motoris infinitate, portato a termine nel 1504, quando da cinque anni aveva lasciato Padova, il Nifo sembra attribuire a Sigieri un terzo trattato « de motore primo et materia celi» (cfr. il mio voi. cit. p. 41). L'espressione « in tractatu suo de intellectu, tertio loco inscripto » potrebbe intendersi di un volume di scritti sigie- riani, ove il « tractatus de intellectu » si trovasse trascritto al terzo posto fra altre opere dell'averroista belga. Delle varie dottrine attribuite a questo Sugerius o Subgerius dal Nifo, due giova qui ricordare: quella che tende a mettere in evidenza il procedimento deduttivo onde Averroè aveva concluso che, se l' intelletto umano non potesse intendere le sostanze separate, queste sarebbero inutili {ociosae. Cfr, sopra, pp. 215-16) ; e l'altra che afferma che ogni intelligenza in- feriore « intelligit sviperiorem per essentiam superioris », ossia in quanto l' intelligenza superiore l' informa di sé intenzio- nalmente e s'unisce ad essa (v. sopra, pp. 195-198). Orbene: quanto alla prima di queste due tesi, sappiamo che il domenicano Francesco Silvestri da Ferrara, nel suo commento alla somma Contra gentiles (III, cap. 45, n. 5), l'attribuisce a « Rugerius in tractatu suo de intellectu, misso Beato Thomae prò responsione ad tractatum suum contra Averroistas ». In un primo momento, avevo pensato (vedasi il mio voi. cit., p. 23) che il Silvestri dipendesse dal Nifo e che « Rugerius » fosse un errore di stampa per « Sugerius ». Però avevo aggiunto : « ma può darsi che egli citi da un mano- scritto in cui il nome di Sugerus. era già stato mutato in Rtigerius. Qualche luce viene ora a gettare su questa, che non è affatto una quisquiglia, l' importante notizia nella quale mi sono imbattuto scorrendo il codice Marciano (Lat., CI. VI, 271 = 2882), che contiene le Annotationes in jo UJjro de anima lectae in hoc anno qui fuit 1521, die vero iovis quae fuit 2^ mensis ianuarij, ah excellentissimo ac celeberrimo domifio Ioanne de SCRITTI DI SIGIERl ALLA FINE DEL SEC. XV 3I5 Mofìtedocha hyspano, unum (sic) trium sui temporis philoso- phoriim peritissimo, trascritte fra il 1523 e il 1524 dal padovano Aurelio Tedoldi, dottore nelle arti, « ad laudem dei — dic'egli — et meae amicae quam maxime amo » (f. 256 v) ! i. Giovanni Montesdoch, spagnolo, aveva studiato a Bologna, e nello studio bolognese aveva insegnato filosofia naturale in concorrenza col Pomponazzi fino all'anno scolastico 1514-15, e per alcuni anni aveva letto anche la Metafisica. Ma in seguito a contrasti che ritengo egli avesse col Pomponazzi -, lasciò Bologna e andò a insegnare a Roma. Da Roma appunto, per un ingaggio vantaggioso propostogli dall'ambasciatore veneto Marco Minio, passò a insegnare filosofia naturale a Padova, verso la fine del 1520, o i primi di gennaio dello stesso anno 1520 (secondo lo stile veneziano; quindi 1521), iniziando il corso delle lezioni con la lettura del commento averroistico al De anima. Nella lez. 43^, sul t. e-. 14 del terzo libro, egli venne a porsi appunto il dibattuto problema, come un' intel- ligenza inferiore conosca le intelligenze superiori ad essa. Dopo aver riferite varie opinioni, egli accennava a quella « moderna » sostenuta dall'Achillini, che l' intelligenza in- feriore conosce quella superiore « per essentiam superioris ». Siffatta tesi, osservava il Montesdoch, può dirsi « moderna » solo in quanto alcuni moderni, come l'Achillini, se la sono appropriata. Ma prima di loro e' è stato Ruggiero : 1 Cosi anche nel Marciano lat., CI. VI, 273 = 2884, che contiene le lezioni dello stesso Montesdoch sul primo e il secondo della Fisica, del 1523-24, il Tedoldi che le stava trascrivendo nel 1526, interrompe la 16* lez. sul secondo libro, con questa informazione autobiografica (f. 365r) : « Et sic sit finis huius lecturae nostrae prò praesenti anno 1522, quae fuit die mercuri] 8^ mensis augusti et hora ii'^ ad laudem dei et beatae mariae [atque amicae meae quam maxime amo, quia hodie] hora 19^ [habui eam in brachiis meis.... 1». Le parole tra parentesi quadrate son coperte d' inchiostro e solo alcune appena leggibili. Sotto è un quadrato che doveva contenere un motto o un piccolo disegno. Ma anch'esso è stato coperto d' inchiostro nero. E alla fine della lezione 66» sul primo libro del De caelo, commentato dal Montesdoch nel 1522 (Cod. Marciano lat., CI. VI, 272 = 2883), il Tedoldi, che la stava co- piando nella primavera del 1524, annota (f. 272V) : « Sed quia hora est nimis tarda, et quia maxime crucior amore meae amicae, ideo valde fessus cogor non amplius scribere ». 2 Tanto che, lasciata Bologna da un pezzo, il Montesdoch conservava ancora del Peretto un ricordo disgustoso. Nel commento infatti al proemio della Fisica (lez. 6*, f. i6r) fa menzione di lui come « nimis monstruosus », e troppo grossolani ne dichiara i ragionamenti: « dicit rationes nimis grossas ». 3l6 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Alia positio et opinio est quae est opinio non moderna, dato quod moderni eam sibi tribuant. Sed ante eos fuit Rogerius; fuit magnus vir, cuius opera non habentur impressa, nec vidi ea nisi in bibliotheca sanati dominici de bononia, et ea etiam vidi romae in sanato Ioanne de viridario. Fuit etiam opinio Ioannis de ripa; tamen Alexander Achillinus sibi eam tribuit, quomodo 2^ intelligentia intelligat primam (Ms. Maraiano cit., f. 138V) 3. Che questo « Rogerius » sia il « Sugerius » o « Subgerius » di cui parla il Nife non v' è dubbio. Ma l' importanza di questa informazione del Montesdoch consiste nell' averci egli indicato dove aveva visto le opere di questo « Rogerius » sostenitore della dottrina che l'Achillini spacciava per sua. Queste opere non ancora stampate, bensì manoscritte, erano state viste da lui a Bologna, nella biblioteca del convento domenicano di S. Domenico, e dipoi a Padova, nella biblioteca del mona- stero di S. Giovanni in Verdara dei Canonici Lateranensi. Veramente nel ms. Marciano si legge : « et ea etiam vidi romae in sancto Ioanne de viridario w ; ma è evidente che al posto di « romae » deve leggersi « paduae » (supponendo che il nome di Padova fosse scritto con l' iniziale maiuscola, l'errore di let- tura si spiega facilmente) ; a meno che non debba leggersi « romae [et] in sancto Ioanne de viridario ». Quanto al codice veduto a S. Domenico di Bologna, par- rebbe trattarsi di quello usato da Francesco Silvestri che, come abbiamo visto, ne ritenne autore, anch'egli, « Rogerius», che si ha ragione di ritenere identico a « Sugerius ». Questo codice non figura affatto nei cataloghi di S. Domenico pubbli- cati dal p. M.-H. Laurent [Fabio Vigili et les hibliothèques de Bologne au début du xvie siede d'après le ms. Barb. latin 3185, 3 E nella lez. 30^ (f. q^v) lo stesso Montesdoch aveva detto: «Una est opinio Ioannis de ripa, cuius opera sunt bononiae in conventu sancti lacobi, qui est fratrum Eremitarum. Et ipse bene intellexit opinionem averrois in hoc loco, sicut aliquis alius.... Omnia autem [ab] Ioanne de ripa accepit Alexander Achilinus ». Come risulta dall'opera del p. Laurent, citata più oltre, il commento al primo delle Sentenze, cui qui si allude, era posseduto non solo dalla biblioteca del convento di S. Gia- como (p. 132, nn. 77 e 79), ma altresì da quella di S. Domenico (p. 27, n. 92) e da quella di S. Francesco (p. no, n. 21). In questo scritto (quaest. 2) non solo Giovanni da Ripatransone si dilunga in ben quattro articoli sul tema qui accennato, ma ci offre un'ampia esposizione del suo modo d' intendere la dottrina averroistica sulle intelligenze sepa- rate e suir intelletto umano, molto vicina e spesso identica a quella di Sigieri. SCRITTI DI SIGIERI ALLA FINE DEL SEC. XV 317 in «Studi e Testi», 105. Città del Vaticano, 1943). Dove è an- dato a finire e come è scomparso ? Siccome esso fu visto dal Silvestri, che nel 1516, proprio a Bologna nel convento di S. Domenico, aveva portato a termine il suo commento alla somma Cantra gentiles, e dal Montesdoch, si può pensare che esso sia stato fatto sparire come opera d'averroista inviso ai domenicani, che l'averroismo ritenevano una pericolosa eresia, a differenza di altri, per esempio degh eremitani e dei carme- litani, assai meno ligi al tomismo. Tanto più che nel 1494 Alessandro Achillini, come ricorda il Montesdoch, aveva fatte sue le dottrine dell'averroista brabantino, pur evitando di nominarlo, nella pubblica disputa tenuta al capitolo generale dei frati minori, nella primavera avanzata di quell'anno (v. sopra, pp. 195-98) 4. Quanto all'esemplare che il Montesdoch dichiara d'aver visto nella biblioteca di S. Giovanni in Verdara, a Padova, ho avuto il sospetto che esso potesse essere una copia di quello di Bologna, ordinata da Giovanni Marcanova, negli anni che questi insegnava a Bologna, e quindi passata al monastero di Verdara insieme alla biblioteca di lui. Ma dallo studio di L. Si- ghinolfi, che della biblioteca del Marcanova ha pubblicato r inventario (nei « Collectanea variae doctrinae » in onore di Leone S. Olschki, Monaco di Baviera, 1921, pp. 187-222), non risulta. Questo per altro non vorrebbe dir molto, perché spesso r inventario è assai generico e contiene non pochi nu- meri di opere anonime, fra le quali potevano ben trovarsi incastrate quelle di Sigieri. Al notaio premeva più di elencare il numero dei volumi che non il loro effettivo contenuto, con- tentandosi d'un' ispezione molto superficiale, che spesso rende difficile riconoscere l'esatta natura di opere appena accennate con titoli piuttosto vaghi, anche senza contare i non pochi errori di trascrizione commessi dal Sighinolfi. Si potrebbe pensare, è vero, che gli scritti di Sigieri fossero entrati per altra via che non fosse quella del legato testamen- tario del Marcanova. Ma è sicuro che essi non figurano nel- l'elenco che il Tomasini redasse dei manoscritti di Verdara nelle Bibliothecae Patavinae maniiscriptae puhlicae et privatae 4 Ma potrebbe anche darsi che l'opera di Sigieri restasse scono- sciuta o fosse dimenticata dal Vigili, poiché il suo catalogo è lungi dall'essere completo. 3l8 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI (Udine, 1639), ^ nemmeno in quello manoscritto della Marciana (Ital., ci. XI, 323 = 7107); sì che bisogna rassegnarsi a pen- sare che, già prima del secolo XVII, gli scritti di Sigieri fos- sero ormai spariti anche dalla biblioteca dei Canonici regolari Lateranensi di Padova. In questa biblioteca, ch'era assai ricca, non mancavano com- menti ad Aristotele e trattazioni concepiti, queste e quelli, secondo lo spirito averroistico. V'era, fra l'altro, l'ampia esposizione del servita Urbano Averroista sul commento d'Averroè alla Fisica, che il Marcano va aveva fatto copiare a sue spese a Bologna, nel 1456, in due grossi volumi corretti e postillati di sua mano. Quando, nel 1492, a Venezia, l'opera d' Urbano fu data alle stampe su un vecchio codice bolognese per volontà del priore generale dei Serviti, Antonio Alabanti, dietro suggerimento di Nicoletto Vernia, questi s'accorse e fece notare che il codice trovato dall 'Alabanti conteneva la stessa esposizione alla Fisica, che nella copia di S. Giovanni in Verdara era attribuita al Marcanova (cfr. sopra pp. 103-104). Ma l'osservazione del Vernia passò inosservata; e anche quan- do dal monastero padovano il codice passò alla Marciana, nei cataloghi di questa l'opera d' Urbano restò attribuita al Marca- nova, sebbene nelV explicit sia detto (Lat., CI. VI, cod. 104, colloc. 2815, f. 58orv) che il nome dell'autore non si conosce: « cuius nomen non habetur « 5. Ed alla stessa biblioteca di S. Giovanni in Verdara e ai Ca- nonici regolari Lateranensi, che abitavano quel monastero, era particolarmente affezionato l'averroista maestro Nicoletto Vernia, il quale, gravemente ammalato, il 2 novembre 1478, faceva testamento a loro favore e, qualche anno dopo, faceva ad essi donazione dei suoi libri (vedasi sopra, p. 115). Per quella volta la negra Parca lo risparmiò, lasciandogli ancora più d'un ventennio, per il piacere dei suoi colleghi ed alunni, per le sue filosofiche speculazioni e per diverse marachelle non precisamente filosofiche. Ma quando sentì ^ A proposito dell'opera d' Urbano, che nel prologo dell'edizione del 1492 si dice cominciata il primo d'aprile 1334 (cfr. sopra, p. 103), gioverà avvertire che il p. R. M. Taucci, de' Serviti, / maestri della fac. teolog. di Bologna, in « Studi stor. sull' Ord. dei Servi di Maria », I. 1933. PP- 31-34. osservando che l'unico maestro servita di nome Urbano fiorì nell'ultimo decennio del sec. XIV e nei primi quattro decenni del sec. XV, propone di correggere la data 1334 in 1434. SCRITTI DI SIGIERI ALLA FINE DEL SEC. XV 3I9 che la morte stava ormai per ghermirlo, il 3 agosto 1499 dettava le sue ultime volontà, in Vicenza, lasciando ancora tutti i suoi libri, « omnes libros graecos et latinos », ai Canonici re- golari Lateranensi del monastero di S. Bartolomeo di quella città, perché fossero posti nella loro biblioteca, e chiedeva altresì d'esser sepolto nella loro chiesa (v. sopra, pp. 108 e 126). Nella biblioteca di S. Giovanni in Verdara, a Padova, par- rebbe dunque che il Nifo, discepolo del Vernia, avesse letto le tre opere da lui citate e attribuite al « grande averroista » Sugerius o Subgerius, ov'egli dichiara d'avere attinta la dot- trina, un tempo da lui seguita, sul modo come l'intelletto possibile, unico per tutti gli uomini, s'unisce ai singoli e può dirsi vera forma « dans esse homini » (v. sopra, pp. 208-10). Lo stesso Nifo, nel commento alla Destructio destructionum, apparso per la stampa nel gennaio 1497, accenna ad una di- scussione avuta col conte della Mirandola, mentre « in corbula » si recavano a Bologna (I, 8 ; v. sotto, p. 376). Ritengo che questo viaggio avvenisse gli ultimi giorni di maggio 1494. Per la Pente- coste di quell'anno, in occasione del capitolo generale dei frati predicatori tenuto a Ferrara, c'era stata una solenne disputa pubblica alla presenza del duca Ercole I, e il giovane dome- nicano Tommaso de \'io, venuto apposta da Padova ove inse- gnava Metafisica, s'era trovato di fronte Giovanni Pico della Mirandola, il quale gli aveva mosso niente meno che cento obiezioni (cfr. Mortier, Histoire des Maitres Généraux de l'ordre des fr. Precheurs. t. V, Paris, 1911, p. 143). Pochi giorni dopo, verso la fine del mese di maggio, anche i frati minori aduna- rono a Bologna il loro capitolo generale e, secondo il costume, diramarono inviti ai maestri e ai dotti delle città vicine che avessero desiderato partecipare alla disputa pubblica che si sarebbe tenuta, more solito, in quell'occasione. A Bologna sarebbe sceso in lizza uno dei maestri dello studio che già cominciava a far parlare di sé per la sua serrata dialettica e per certa nuova maniera d' intendere l'averroismo. L' invito doveva solleticare il battagliero conte della Mirandola e il Nifo, che verosimilmente era accorso da Padova alla disputa nella quale era campione un suo collega. E penso che tutti e due insieme sian partiti da Ferrara per trovarsi alla disputa che il jo giugno, seconda domenica dopo Pentecoste, l'Achil- lini avrebbe tenuto a S. Francesco in Bologna. E quale non dev'essere stata la sua sorpresa nel sentire che 320 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI maestro Alessandro Achillini discettava intorno alle Intelli- genze, da quella del Primo Motore che è puro atto, giù giù fino air intelletto possibile umano che è pura potenza, e con grande risolutezza e abilità dialettica faceva sua la dottrina averroistica di quel « Sugerius », del quale anch'egli aveva letto gli scritti che a Padova si conservavano in S. Giovanni di Ver- dara, ove ritengo li avesse visti e letti anche il Signore della Mirandola. Questa risolutezza del collega bolognese deve averlo tanto più meravigliato, che a Padova il decreto vescovile del 1489 aveva assai limitato la libertà di giostrare sull'unità dell' intelletto umano, ed egli e il Vernia si vedevan costretti a dissipare i sospetti che si nutrivano su loro come averroisti. Nel trattato De intellectii, scritto dal Nifo col proposito fin troppo palese di rifarsi una verginità antiaverroistica, in gara con maestro Nicoletto, si direbbe ch'egli prendesse di mira i Quolibeta de inielligentiis, pur senza nominare l'autore di essi, delle cui dottrine svelava la fonte negli scritti di Sigieri, dal- l'Achillini taciuta. XII MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA: DUE FILOSOFI GALATINESI DEL CINQUECENTO Il nome di Marcantonio Zimara, largamente diffuso nel se- colo XVI, è strettamente legato alla storia dell'aristotelismo, e in particolare di quella corrente che fu l'averroismo, anzi di uno speciale indirizzo di questo in contrasto con altri indi- rizzi che si reclamavano ugualmente da Averroè, il Commen- tatore per eccellenza d'Aristotele, l'arabo Averrois di Cordova « che il gran commento feo ». Invece il nome del figlio di lui, Teofilo, è rimasto presso che sconosciuto, fra gli storici della filosofia italiana. Peggio : uno di questi che di recente ha dedi- cato al pensiero italiano del Rinascimento tre grossi volumi, Giuseppe Saitta, essendogli accaduto di metter la mano, senza volerlo, sul massiccio e diffuso commento di Teofilo Zimara, « Marci Antonii F. », al De anima, ha attribuito quest'opera al padre, ignorando l'esistenza del figlio. E fin qui poco male. Ma egli s' è spinto assai più in là ; che non pare si sia reso conto che, mentre Marcantonio è un averroista schietto e tutto d'un pezzo, il figlio al contrario combatte apertamente l'averroismo e propugna un platonismo cristia- neggiato, che, divenuto di moda tra gli umanisti dopo Marsilio Ficino, si proponeva di conciliare Aristotele, liberato dal- l'esegesi averroistica, con Platone, con Plotino, con Proclo e con Simplicio. E questo è il male peggiore che poteva capi- tare a Teofilo, che cioè il grosso volume dedicato al cardinale Guglielmo Sirleto, e dal quale s'attendeva qualche fama, non solo gli fosse tolto, ma ne fosse travisato il pensiero, col ravvicinarlo all'averroismo. * Già pubblicato negli «Atti del IV Congresso Storico Pugliese». («Archivio Storico Pugliese», Vili, 1955). Sono stati apportati alcuni notevoli ritocchi. 21 322 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Ma anche intorno a Marcantonio Zimara accade di leggere nei libri di storia della filosofia grossi spropositi, che mi pro- pongo di correggere, raccogliendo quello che di certo si sa in- torno a lui e al figlio e intorno alle loro opere. Ben inteso, non si tratta di richiamare l'attenzione dello storico su due astri di prima grandezza o, come si direbbe oggi, su due fi- gure di primo piano nel complesso panorama del nostro Ri- nascimento: si tratta soltanto di mettere nella giusta luce due onesti pensatori che, pur senza elevarsi gran che sulla coltura del loro tempo, meritano di non esser dimenticati, perché di quella coltura sono eminentemente rappresentativi. I. - Marcantonio Zimara. Di lui sappiamo con certezza che il 30 luglio 1501, a ore 13, sosteneva a Padova la discussione preliminare al dottorato in artibus, ossia fece il tentativum nella chiesa di S. Urbano, ove da un cinquantennio soleva riunirsi il « Sacro Collegio degli Artisti e Medici»; e che una settimana dopo, il venerdì 6 agosto, a ore 20, nell'aula solita d'esami in Vesco- vato, sostenne il privatum examen e conseguì il grado di dottore in artibus. Il filosofo e medico Pietro Trapolin gli conferì le insegne del grado a nome del Sacro Collegio. Tutto questo è perfettamente documentato dagli atti del Collegio stesso (voi. 319), nell'Archivio antico dell' Università di Padova, e dagli Ada graduum presso l'Archivio di quella Curia vescovile (voi. 47, f. i62r). Da notare: presenti come testimoni al giu- ramento e al dottorato erano Pietro Pomponazzi e Tiberio Bacilieri; il primo ritornato da poco a Padova, ove insegnava filosofia naturale come ordinario primo loco, il secondo ve- nuto via da Bologna per contrasti coi colleghi, e straordinario della stessa materia. In questi atti. Marcantonio è detto figlio « quondam Nicolai Zimara de Sanctopetro de Galatina terre Hydrunti ». Altra cosa certa è ch'egli potè fare gli studi di filosofia a Padova grazie all'aiuto dello zio materno Pietro Bonuso, prelato della chiesa di S. Pietro in Galatina, al quale il 1° ot- tobre 15 13 dedicò l'edizione dei Subtilissima Hervei Natalis Britonis Quodlibeta undecim cum odo ipsius profundissimis tradatibus , da lui curata per l'editore veneziano Giorgio Arri- vabene. Anche nella dedica della Quaestio de primo cognito MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 323 (Venezia, 1508) a Marcantonio Contarini, figlio di Carlo, ac- cenna espressamente a questo zio : « Petro Bonusio, pro- presuli, avunculo, qui me semper eque ac filium carum habuit fovitque, cuique non minus quam parenti mee animam hanc debere me libens profiteor ». Baldassar Papadia i lo dice nato da povera e oscura gente intorno al 1470: e cita in proposito un' Epistola ms. di Fran- cesco M. Vernaleone, che esisteva a suo tempo presso i Signori Caroti. Sulla scorta della Quaestio de regressu E xcellen fissimi Domini Marci Antonii Zimarea (nell'Ambrosiana di Milano, Cod. S. Q. +. II. 36, ff. 232V-236V), fui indotto, nella prima edizione di questo saggio, a supporre un primo soggiorno pa- dovano, anteriore al 1490, perché l'autore di quella Quaestio accenna più volte a discussioni avute con Maestro frate Fran- cesco da Nardo, che insegnava Metafisica a Padova «in via Tho- mae», mentre frate Antonio Trombeta insegnava la stessa disci- plina « in via Scoti », e che morì il 17 luglio 1489 (cfr. A. G. Erotto e G. Zonta, La facoltà teologica di Padova. Padova, 1922, pp. 195-197): «Ad argumenta praeceptoris magistri Francisci de Nardo, dico...; sed advertatis quod praeceptor meus antequam ingrederetur ad scolas ad legendum, allo- cutus fui eum supra hoc, ....et dixit mihi » (f. 135V). Ma pili tardi, visto il codice della Nazionale di Napoli, Vili. E. 42, che contiene il commento del Pomponazzi ai primi due libri del De anima datato 1514, ma certamente dell'anno scolastico 1508-1509, e il commento dello stesso Peretto al terzo libro, del 1504, m'accorsi con mia sorpresa che quella Quaestio, attribuita allo Zimara nel codice Ambrosiano, non è affatto di questo, sibbene del suo maestro, il mantovano Pietro Pomponazzi, che più volte ricorda d'essere stato di- scepolo del tomista di Nardo. Quindi cade l' ipotesi di un sog- giorno dello Zimara a Padova, prima di quello indicato dal Papadia, il quale dice che lo zio materno, Pietro Bonuso, « r inviò adulto a Padova ». Forse intorno al 1495 o poco dopo. Fra i venticinque e trent'anni, egli poteva dirsi veramente adulto. E se a Padova giunse quando erano già morti Fran- cesco da Nardo e Pietro Roccabonella, vi trovò tuttavia maestri provetti che godevano già di gran fama o giovani che erano sulla via di procurarsela: il faceto Nicoletto Vernia, I Memorie storiche della città di Galatina, Napoli 1792, pp. 57-58. 324 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI averroista spregiudicato, finché il vescovo di Padova, Pietro Barozzi, col decreto del 6 maggio 1489 non l'obbligò a ravve- dersi, Pietro Trapolin, anch'egli averroista, ma ben più mo- derato e guardingo, gli scotisti Antonio Trombeta e Mau- rizio Ibernico, il Peretto Mantovano che già rivelava una spiccata tendenza a ribellarsi all'averroismo di moda, il vi- centino Antonio Fracanziano, concorrente del Pomponazzi, Tiberio Bacilieri che a Padova professava l'averroismo di marca sigieriana del quale a Bologna era acerrimo propu- gnatore Alessandro Achillini. Agostino Nifo aveva lasciato con gran disdegno lo Studio patavino fin dall'estate del 1499, non sappiamo se malcontento dello stipendio o per dissensi coi colleghi. E il 4 ottobre dello stesso anno il Vernia moriva, e la sua cattedra venne appunto coperta col richiamo del Peretto, cui fu dato a concorrente il Fracanziano. Di questi maestri, il Trapolin fu primo promotore del dot- torato in artihus del « Sanpetrinate », come lo Zimara amava chiamarsi; ma di lui non ho trovato cenno, né in bene né in male, nelle opere dell'alunno \ Del Pomponazzi invece parla spesso; sebbene il rispetto per il precettore non gì' impedisca di combatterlo su varie dottrine, e di pigliarlo di mira più volte in modo assai vivace nella Tabula dihicidationum in dictis Aristotelis et Averrois, e particolarmente nella Quaestio de immortalitate animae. Del Bacilieri combatte la tesi che identifica l' intelletto agente con Dio, che egli attribuisce, come fa anche il Pomponazzi, ai « bononienses ». Al Trom- beta accenna anche alla fine delle Annotiones sul settimo della Metafìsica di Giovanni di Jandun : « in his omnibus subtilissime repraehenditur Ioannes a praeceptore meo Ma- gistro Antonio Trombeta nostre aetatis in metaphysicae speculationibus viro emeritissimo»; nei Theoremata, iii: « An- tonius Trombeta excellens in scientia divina et preceptor meus venerandus » ; e nella Quaestio an gravia et levia etc. del ms. Magliabechiano, XI, 67, segnalatomi dall'amico Eu- genio Garin: « quantumcumque, ut dicebat magister meus Trombeta, Franciscus de Neritono dixerit » (f. 23r). Che egli poi avesse a maestro anche Maurizio Ibernico è attestato dal francescano Girolamo Girelli sulla fine del suo trattato De speciebus intelUgibilibus diretto contro lo Zimara: « Ipse 3 Su di lui, V. sopra, il saggio VII. MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 325 autem forte erravit propter amorem magistri sui, qui fuit Mauritius Hibernicus ». Non sappiamo con certezza quand'egli cominciò a insegnare come lettore pubblico; poiché le lezioni In primuni Posteriorum del Cod. Ambros. D. log inf., ff. i7r-29r, potrebbero essere state tenute privatamente o anche pubblicamente in anni precedenti al dottorato in filosofia, come mi risulta essere intervenuto a Padova per il mantovano Benedetto del Triaca (1494), per Lorenzo dal Molino di Rovigo (1499) e per Fran- cesco Trapolin, figlio di Piero (1501). In fine della nona le- zione sul primo libro degli Analitici Posteriori (f. 28r) accade di leggere questo curioso invito in versi: Scire volunt onines, niercedem solvere nemo: hoc dixit noster qui claret in orbe Zimarra. In catedra manens, dixit prò omnibus una: solvite, precor, omnes, si vultis doceri. In domino testor, magnum sumpsisse laborem; hac prò doctrina, propriam vendidisse casellam. E in margine : « Quare vobis dico : si librum Posteriorum vultis ut aperiam, solvite, praecor, omnes ». Ma non dovette passar molto dalla laurea, che fu assunto alla « lettura » straordinaria di filosofia naturale. Intanto, per procacciarsi da vivere e poter continuare gli studi, curò per gli eredi di Ottaviano Scoto l'edizione delle Quaestiones in duodecim II. Metaphysicae di Giovanni di Jandum, arric- chendola di citazioni e note marginali. L' edizione scotina, licenziata il 1° di febbraio 1505, oltre alle note marginali, recava in appendice alcune opere originali che possiamo con- siderare tra le prime del nostro, anteriori a questa data. La prima è una diffusa Quaestio de principio individua- tionis ad intentionem Averrois et Aristotelis, di ben venti co- lonne. Essa è dedicata « Magnifico ac excellenti artium Doctori domino Andreae Mocionigo Patricio Veneto ». Questo (( M.cus et Doctissimus vir, D. Andreas Mocenico, natus M.ci et Cl.mi D. Leonardi, filli olim Serenissimi prin- cipis Venetiarum D. Jo. Mocenici », era stato proclamato dottore in artihus, il sabato 12 agosto 1503, nella cattedrale di Padova, con grande solennità, come s'addiceva al suo alto rango, « assistentibus M.cis et Cl.mis dominis Thoma Mo- cenigo praetore, patruo, et Paulo Trivisano equite praefecto 326 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI urbis [Paduae], avunculo, et aliorum praestantissimorum doctorum, scholarium, civiiim et praelatorum corona, per Rev.um D. Episcopum [il bellunese Pietro Barozzi], eius domino Vicario recitante ». E ciò dopo essere stato esaminato « per Venerandum Collegium artium et medicinae Doctorum », e « post longas lucubrationes et scholasticos labores et publicas disputationes ac varia virtutis et doctrinae suae experimenta ». Primo promotore del dottorato era stato Pietro Trapolin, che anche questa volta conferì al neo dottore le insegne del grado. Nella dedica lo Zimara parla del nodo d' indissolubile amicizia che lo legava al Mocenigo. In realtà erano stati am- bedue alunni del Trapolin e del Pomponazzi, insieme al « go- beto » Lorenzo Venier, ad Antonio Surian e a Gaspare Con- tarini, « artium scholares », i quali nel verbale del dottorato del Mocenigo figurano da testimoni (v. sopra, p. i68). Nella stessa dedica il nostro accenna al turbamento del suo animo per le notizie che gli giungevano da S. Pietro in Gala- tina, saccheggiata dal ritorno nel 1504 delle milizie spa- gnole per cacciarne le francesi: « Pluribus profecto quam pro- miseram magnifìcientiam vestram speculationibus donassem, nisi iniqua fortuna patriam meam Sanctum Petrum de Gala- tinis, hispanis militibus populationi dedisset ». Alla Quaestio de principio individuationis tengon dietro le Annotationes in Ioannem Gandavensem super Quaestionihus Metaphysicae eleganter discussae in via Aristotelis et sui magni commentatoris Averrois, anch'esse dedicate ad Andream Mo- cionigum. Su molti punti lo Zimara aveva ripreso con sem- plici note marginali il modo come Giovanni di Jandun espone il pensiero d'Averroè. Ma su altri punti le sue riserve esige- vano maggiore spazio che non fosse quello d'una breve nota; perciò aggiunse al volume questa seconda appendice, ove espone con ben maggiore ampiezza le ragioni del suo dissenso dall'averroista di Jandun, la cui interpretazione della dottrina averroistica aveva suscitato aspre critiche da parte degli averroisti padovani e bolognesi, tanto che Giovanni Pico della Mirandola giudicava che egli, « ferme in omnibus quaesitis philosophiae, doctrinam Averrois corrupit omnino et depra- vavit » {Conclus. secundum Avenroem, 3). Intento di queste Annotationes è dunque quello di stabilire qual è il vero pen- siero del commentatore di Cordova. Ma nel far ciò, il filosofo di Galatina si diffonde talora sino a riesaminare a fondo l'ar- MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 327 gomento discusso e a scrivere un vero e proprio trattato, come fa a proposito della questione 12^ del terzo libro, in una disquisizione di ben oltre 26 colonne. Una terza appendice è formata dalla Quaestio de triplici causalitate intelligentiae , concernente la natura, la dipendenza e la finalità delle intelligenze celesti « secundum Aristotelis et sui Commentatoris Averrois sententiam », problema dibattu- tissimo dal secolo XIII al XVI, intorno al quale lo Zimara, come già Sigieri di Brabante, difende la causalità efficiente di Dio contro quegli averroisti che, come l'eremitano Gre- gorio da Rimini, la negavano. Una frase in principio: «vidi plures tempore meo, 1502, philosophantes », parrebbe indi- care che la Quaestio fu scritta in quest'anno. Con questo volume, stampato nel 1505 e che si diffuse ra- pidamente in tutta Europa, Marcantonio Zimara di San Pietro in Galatina in terra di Otranto si presentava agli stu- diosi di filosofia come un interprete agguerrito e acuto del pen- siero d'Aristotele e del suo grande e fedele commentatore Averroè, in un momento quando il suo maestro e dipoi avver- sario, il mantovano Pietro Pomponazzi, non aveva ancora stampato una sola riga. Non tutti accettarono, si capisce, l'esegesi dell'Otrantino, com'era chiamato a Padova, anzi molti presero a impugnarla, su questo o quell'argomento; ma a nessuno era consentito ignorarla. Nello stesso anno in cui curò l'edizione della Metafisica dell'averroista di Jandun, ne preparò altresì quella delle Quae- stiones super Parvis Naturalibus, per lo stesso editore vene- ziano, dedicandola a Bartolomeo Montagnana, iunior, pro- fessore di medicina nello Studio patavino e appartenente a una celebre famiglia di medici padovani. La qual dedica m' indurrebbe quasi a sospettare, che egli si stesse preparando al dottorato in medicina, adulando con lodi sperticate, come era d'uso, un membro del « Sacro Collegio degli Artisti e Medici », che aveva il diritto di farsi « promotore » della « gra- zia », del « tentativo » e infine dell' « esame privato », nonché quello di conferire le insegne dottorali al candidato. In appendice a questo volume, lo Zimara stampò la Quaestio de moventis identitate et moti ad intentionem peripateticorum subtiliter et resolute Patavii discussa, e la dedicò al giovane « Giovanni Cristoforo Capitani, figlio del chiarissimo medico Pietro», per riconoscenza dell'appoggio che ne aveva avuto: 328 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI « cui denique quicquid dignitatis in Patavino gymnasio nuper assecutus sum, uni acceptum refero ». Dello stesso periodo, perché ricordata nelle Solutiones del 1508 {Super III de anima, 1^ Contr. sul comm. 5) è anche la Quaestio qua species intelligihiles ad mentem Averrois defen- duntur ad Magnificum patritium Venetum Anfonium Surianum, pubblicata s. 1. da Francesco Storcila il 12 gennaio 1554, e incorporata nel Tractatus adversus quaestionem M. Ant. Zi- marae de speciehus intelligibilihus (Venezia, 1561) del fran- cescano Girolamo Girelli che era stato alunno del Pompo- nazzi. Lo Zimara prende risolutamente posizione contro l'Achillini, il quale aveva negato le famose « specie intelli- gibili », d'accordo in ciò col carmelitano inglese Giovanni di Baconthorpe e con Enrico di Gand. Dell' Achillini dice anzi quel che Averroè {De caelo, III comm. 67) aveva detto d'Avi- cenna, « quod videlicet parvitas exercitationis ipsius viri in naturalibus et bona confidentia in proprio ingenio deduxit ipsum ad maximos errores ». L'argomento era stato discusso a Padova nel corso del 1505 dal Pomponazzi, il quale non si mostrò meno aspro contro l'Achillini; e proprio Antonio Surian ce ne ha tramandata la quaestio nel codice ms. della Bibl. Naz. di Napoh, Vili. D. 81 (ff. 83r-84r). Un'altra e pili ampia riportazione si trova in altro ms. della stessa Bi- blioteca, Vili. E. 42, ft. I95r-20ir. Dalle controversie tra i vari interpreti d'Averroè, trassero vantaggio gli avversari dell'averroismo, per insinuare che il « gran commento » formicolava di contradizioni, e che neppure Aristotele ne era immune. Sebbene il Pomponazzi non ri- fuggisse dal dirsi talora « averroista » o « commentista », nel senso che egli, seguendo una consuetudine di Padova e di Bologna, leggeva il testo d'Aristotele e il commento d'Averroè che lo accompagnava, e sulla parafrasi e discussione dell'uno e dell'altro conduceva la lezione, non di meno, con tutto il rispetto per l'uno e per l'altro, non esitava a mettere in evi- denza le incertezze e le contradizioni del commentatore, al quale non risparmiava le sue critiche e i suoi sarcasmi. Di- scepolo del Peretto mantovano, lo Zimara, che per diversi anni, dal 1500 al 1505, ne aveva seguito le lezioni, si propose di scolpare tanto Averroè quanto Aristotele dalle contradi- zioni ad essi attribuite e di mostrare che esse potevano, con qualche sottile distinzione, risolversi nel modo più plausibile. MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 329 Nacquero così, fra il 1505 e il 1508 le Solutiones contra- dictionum in dictis Averrois che nella prima redazione uscirono, precedute dalla Quaestio de primo cognito, a Venezia, il 1° luglio 1508, con dedica al patrizio veneziano, « magnifico Marcoantonio Contareno magnifici domini Caroli filio », al quale il Pomponazzi dedicherà nel 15 16 la prima stampa del De immortalitate animae, e che nel 1508 era ancora un « gio- vane », sebbene versatissimo negli studi della filosofia aristo- telica. Pochi giorni prima gh aveva dedicato i trattati logici di Aristotele col commento d'Averroè, da lui curati per gli eredi di Ottaviano Scoto (Venezia, 1508, 20 giugno). La Quaestio de primo cognito si riallaccia alle lezioni dello Zimara sul prologo della Fisica aristotehca (I, t. e. 2-5, e. i, i84a 16 sgg.). L'autore di essa discute ampiamente e critica le interpretazioni che del testo aristotelico avevano dato il Burleo e Gregorio da Rimini, dalla parte dei « nominales », poi quelle di Duns Scoto e di S. Tommaso, e infine oppone ad esse quella che giudica più conforme al commento d'Averroè. Le Solutiones sono opera composta a tavolino, « succisivis horis ac tumultuarie ». Ma che lo Zimara prendesse di mira in particolare il Peretto, del quale si tace il nome, è messo in evidenza dalla lettera, stampata al f. 46r del volume, coli' in- testazione « Sylvius Laurentius a portu caballensis clarissimo artium et medicine doctori Marco Antonio sanctipetrinati et hidruntino, ere publico in Gymnasio patavino philosophiam profitenti », la quale porta la data « ex patavio, idibus Junij a Natali cristiano M. D. VII ». Questo ammiratore e forse discepolo dell'otrantino ricorda appunto, che « Petrus man- tuanus noster philosophantium nunc primi fere nominis, pu- blico auditorio profiteri solet, hoc Averroi esse genuinum, ut, cum implicita omnibus viribus nervisque explicare contendit et adnititur, maxime implicat, eoque fertur, diffidente con- scientia, quo denique ipsum impetus errabunde opinionis impellit ». Del che egli pensa fossero da incolpare gli ama- nuensi e gli stampatori del commento averroistico, per incuria dei quali circolava nelle scuole pieno di errori. Ma non soltanto al Pomponazzi intendeva opporsi lo Zi- mara, sì anche a Giovanni di Jandun, a Gregorio da Rimini, al Burleo, ad Alessandro Achillini e al Bacilieri, che, a suo avviso, con errate interpretazioni, facevano cadere in con- tradizione il commentatore arabo. 330 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Il Pomponazzi, che non condivideva con lo Zimara e l'Achil- lini la fiducia nell' infallibilità d'Averroè, scrollava le spalle ed osava negare la stessa fiducia perfino ad Aristotele, pur ritenuto da Dante « maestro e duca de l'umana ragione », e dagli averroisti « regula in natura et exemplar quod natura invenit ad demonstrandum ultimam perfectionem humanam ». Le contradizioni di Averroè avevano il loro fondamento in non poche contradizioni del testo aristotelico, che si facevano sempre più palesi con le nuove traduzioni del periodo uma- nistico. Perciò intorno al 1530, lo Zimara riprese in mano il libretto, e ne preparò un'edizione più completa, con l'aggiunta di nuove contradizioni ch'egli s'adopra a risolvere, associando nel titolo alle contradizioni del Commentatore quelle del Filo- sofo: Solutiones contradictionum in dictis Aristotelis et Averrois. Dalla lettera di Silvio Lorenzo da Porto appare che nel- l'anno scolastico 1506-1507 Marcantonio Zimara, dottore non solo in artibus ma anche in medicina (non sono però in grado di dire in che anno egli sostenesse gli esami in questa materia), professava pubblicamente filosofia naturale nello studio pa- tavino, occupando evidentemente una delle due « letture » straordinarie col modico stipendio di 47 ducati d'argento, secondo il Facciolati [Fasti gymn. patav., p. II, 274), ed è naturale che aspirasse ad esser promosso alla « lettura » or- dinaria. Ora a metà settembre 1508 era rimasta vacante la « lettura » ordinaria « secundo loco » che per due anni aveva tenuto Alessandro Achillini, richiamato sulla sua cattedra a Bologna (v. sopra, p. 259). Se la cattedra vacante fosse stata as- segnata al « Sanpetrinate », questi sarebbe venuto ad essere il «concorrente» diretto, cioè l'antagonista, del Pomponazzi, che oc- cupava la cattedra ordinaria «primo loco», e da due anni, seb- bene non fosse cittadino padovano, era stato aggregato al « Sacro Collegio degli Artisti e Medici » della città. Ma per riuscire ad avere il posto ambito lo Zimara avrebbe dovuto vincere le ostilità che si era creato colle polemiche ingaggiate contro il Peretto, il quale godeva di grande stima nello Studio patavino, e contro l'Achillini, del quale era ben vivo il ricordo. Provvedere a coprire la cattedra ordinaria rimasta vacante era compito del Senato veneziano; e gli aspiranti s'eran dati da fare per procacciarsi autorevoli appoggi fra i membri di questo, che ne discusse nella riunione del 21 ottobre 1508. Le proposte fatte furon tre o quattro. Marin Zorzi propose MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 33 1 Marco Antonio della Torre, « fiol dil quondam missier maistro Hironimo da Verona, qual à leto e leze in philosophia. Misier Alvise Pixani, savio a terra ferma, messe di condur missier Marco da Otranto, che etiam leze in philosophia extraordi- narie ». Zorzi Emo propose « il Sexa che è a Napoli, o ver il Toseto », cioè Ludovico Carensio, detto il Toseto, padovano, ma che da diversi anni insegnava filosofia a Ferrara, e che nel 15 17 ritornerà in patria a ricoprire una delle cattedre di medicina. È interessante vedere che fra gli aspiranti era anche « il Sexa », cioè Agostino Nifo da Sessa, il quale aveva già coperto la cattedra ordinaria di filosofia « primo loco » a Padova, fino al 1499, e n'era partito, a quanto pare, per litigi coi col- leghi. Ora egli non cessava di brigare per tornarvi, ma preten- deva uno stipendio che il senato veneziano non era disposto a pagargli. Leonardo Anselmi, console di Venezia a Napoli, informava di lì a poco, che il Sexa « voj vegnir a Padova a lezer im philosophia. El qual dice voi ducati 500 e non mancho, perché dice è il primo homo dil mondo, e a Napoli leze et medica; sì che non havendo ditti danari, non voi vegnir» (M. Sanudo, VII, col. 678). Ma appena qualche giorno dopo si dichiarava disposto a venire per 400 ducati all'anno, con ferma di tre anni. Queste manovre del Nifo dovettero esser note al Pomponazzi, che nel già citato commento al De anima del 1508-9 prese ad attaccarlo con rinnovata virulenza. Dopo Zorzi Emo parlò Polo Pisani. Vista la difficoltà di addivenire a un accordo e di far prevalere il suo candidato, Alvise Pisani ripiegò sulla proposta « de indusiar », e così « fu presa la indusia, di 8 ballote » (M. Sanudo, Diarii, VII, col. 653), e lo Zimara dovette rassegnarsi a rimanere alla « lettura » straordinaria. Né mi consta che egli fosse promosso nel quinquennio immediatamente successivo. La guerra contro la lega di Cam- bra! ebbe gravi conseguenze per lo studio padovano. Il 6 giugno 1509, le truppe imperiali al comando di Leonardo Trissino entrarono in città, e lo stesso giorno pare venisse a morte Pietro Trapolin. Per il momento, cioè per qualche mese, il turbamento dell'ordine pubblico non fu grande; si tennero ancora esami, e il Pomponazzi, per esempio, figura ancora come promotore in un dottorato del 2 luglio. Il peggio venne dopo, quando i veneziani il 18 luglio rioc- 332 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI cuparono il castello, e cominciarono i saccheggi e le vendette contro coloro che di buon animo o contro voglia s'eran com- promessi coi « tedeschi ». Una delle famiglie maggiormente colpite fu quella dei Trapolin. Alberto e Roberto, fratelli del filosofo, furon presi prigionieri nella riconquista del castello. Ma già due giorni prima le loro case e quella di un altro loro fratello, Nicolò, furono saccheggiate. Ed anche la casa di Pietro, che era nella contrada di san Leonardo, non lontano dai Car- mini, non fu risparmiata, i suoi scritti dispersi, e il figlio Giulio il 14 agosto fatto prigioniero e spedito a Venezia con altri compa- gni (v. sopra, p. 172). Il governo veneziano fu abbastanza cle- mente con molti di coloro che s'erano sottomessi al dominio im- periale su Padova; ma fu implacabile con quattro dei maggiori responsabili di favoreggiamento, che il sabato i^ dicembre 1509 mandò al capestro: «Primo era Alberto Trapolin, fo fradello di misser Pietro dotor excellentissimo, el qual Alberto era di XVI al governo di Padoa, homo di gran inzegno, et anche suo avo fo apichato a Padoa a tempo di la novità di misier Marsilio di Carrara dil 1437. Il secondo era Lodovico Conte.... Il terzo Bertuzi Bagaroto, dotor, qual lezeva puhlice in iure canonico.... Il quarto, Jacomo da Lion, dotor, el quale fé' la oration a l' imperator, quando se deteno i padoani, ne la qual dice gran mal de' veneziani» (M. Sanudo, IX, col. 358; v. sopra, p. 174). Fu in questo periodo di rappresaglie e specialmente quando alla fine di settembre le truppe imperiali tornarono ad as- sediare la città, che molti cittadini si allontanarono da Padova e insieme ad essi molti maestri dello Studio. Fra questi cer- tamente anche il Pomponazzi, il quale sulla sua cattedra di Padova non fece più ritorno. E Marcantonio Zimara ? Si dice da alcuni che lo Studio rimanesse chiuso per otto anni, fino al 1517. Ciò non è del tutto esatto. Dagli Ada graduum presso l'Archivio esistente della Curia Vescovile di Padova (voi. 49), risulta, per esempio, in modo indubbio, che 1' 8 maggio 1510 Matteo Binno de Tomasis, figlio del chirurgo Mastro Giacomo, fece il dottorato in artihus (f. 4v), che 1' 11 febbraio 1511 fece il dottorato in iure civili Marco Mantova (f. 45), che il 2 dicembre dello stesso anno Girolamo Oldoini fece anch'egli il dottorato in artihus (f. 84V), e che il 13 ottobre 1512 s'addottorò in ar- tihus il magnifico Francesco del fu Gabriele Morosini (f. I2ir). MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 333 Sappiamo ugualmente di altri conferimenti di laurea sia in arti e medicina, come in diritto e in teologia. Lo Studio pa- tavino, dunque, anche negli anni successivi al 1509 e ai fatti accennati, continuò a funzionare; ma evidentemente in modo ridotto, e meno intensa fu la sua vita. Ciò si constata in modo palpabile esaminando gli stessi Ada gradimm, e più ancora gli Atti del « Sacro Collegio degli Artisti e Medici » (Arch. deirUniv. di Padova, presso quel Rettorato, fase. 321), ove tra il 1509 e il 1512 è un salto. Di Marcantonio Zimara nessuna traccia in questi Atti, per questi anni, se ho ben veduto. Parrebbe, dunque, che anche lui se ne fosse andato. Dove ? L'edizione dei Quodliheta dell'Hervaeus che uscì a Venezia, «per Georgium Arrivabenum, 1513, die primo octobris », ed è curata e postillata dallo Zimara, potrebbe far pensare che questi nel 1512-1513 fosse a Venezia. Ma la lettera con la quale dedica la sua fatica allo zio Pietro Bonuso mi induce a dubitarne. Dice infatti in essa che già da otto anni è lontano dalla patria. E aggiunge: «Ego enim, postquam Patavium, bonarum artium fontem, applicui, ita impensam die noctuque philosophie studio operam navavi, ut hinc recesserim nun- quam.... Anno tamen elapso sarcinulas collegeram, accin- xeram me itineri ad te advolaturus, quando, preter spem, accademia nostra ad dignissimam me philosophie lectionem totis cervicibus succollavit ». Ora se egli si laureò in artibus nell'agosto 1501, bisognerà pensare che a Padova fosse andato almeno un quattro anni prima, cioè al più tardi nel 1497. La lettera dovrebbe quindi essere del 1506. E i conti infatti tornano: «anno elapso», cioè nel 1505 egli dovette essere chiamato, « preter spem », alla « lettura » straordinaria di filosofia naturale. Sebbene dunque l'edizione dei Qiiodlibeta dell' Hervaeus uscisse alla luce il primo ottobre 1513, essa era già stata preparata e consegnata all'editore veneziano fin dal 1506. Alla guerra contro la lega di Cambrai tenne dietro quella della lega sacra, e la Lombardia, la Romagna e 1' Emilia furon corse da milizie francesi, spagnole e papali. Lasciata Padova, ove aveva nutrito la speranza di farsi strada e di accrescere lo splendore della sua famiglia, non fu facile al povero filosofo trovarsi un'altra cattedra a Ferrara o a Bologna, com'era stato facile al Peretto mantovano. Perciò egli dovette deci- dersi a ritornare fra i suoi a S. Pietro in Galatina, ove effetti- 334 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI vamente nel 15 14 lo troviamo sindaco e già ammogliato con una tal Porzia, secondo le notizie raccolte da Alessandro Tomaso Arcudi 4 e da Baldassar Papadia 5, i quali prendono queste notizie dalla Cronaca di S. Pietro in Galatina lasciata manoscritta dal medico filosofo e letterato Silvio Arcudi, morto a 72 anni nel 1646. Prima di rimetter piede nella terra natale, o appena vi fu arrivato, egli dovette pensare a propiziarsi Giovanni Ca- strioto, duca di Ferrandina, sotto la cui giurisdizione, per disposizione del governo spagnolo, si trovava S. Pietro in Galatina. A quest'uopo mise insieme il curioso trattatello dei Prohlemata e lo dedicò al principe. Non mi consta che lo fa- cesse stampare; io ne conosco solo l'edizione che ne fu fatta a Venezia nel 1536 ed altre posteriori. Nella dedica appunto al duca di Ferrandina egli dice di ammirare in lui sopratutto (( charitatem qua literatos amplecteris, hac tempestate qua oh bellorum importunitates pax una cum litteris inferire visa est ». Siamo dunque negli anni che tengon dietro al 1509. E poiché Giovanni Castrioto morì il 2 agosto 1514, il libretto è certa- mente anteriore a questa data. Sindaco della piccola sua città natale. Marcantonio si tro- vava a rappresentare quella comunità nella cauta ma energica difesa delle istituzioni e dei privilegi di essa contro le soper- chierie di Ferdinando Castrioto, successo a Giovanni. In- tanto, un anno dopo, nel 15 15, gli nacque il figlio Teofilo, del quale diremo fra poco. L' Arcudi (p. 186) parla anche d'un altro figlio avuto prima, Nicolò, il quale fu dottore in leggi a Roma, ove testò nel 1569. Altri due figli dovettero nascergli più tardi. Ma le cure familiari e quelle pubbliche non lo di- stolsero del tutto dagli studi. Fra il 1517 e il 1519, uscirono a Venezia, curate da lui, per gli eredi di Ottaviano Scoto, le seguenti opere di Alberto Magno « in via peripathetica philo- sophi theologique profundissimi » : Naturalia ac supernatu- ralia (cioè la Fisica, il De generatione et corrupfione, il De metheoris, il De mineralihus, il De anima, il De intellectu et intelligibili e la Metafisica), accompagnati da molte annota- zioni marginali; i Parva Naturalia e gli Opuscula (nella dedica a Marcantonio Venier del fu Cristoforo, lo Zimara parrebbe 4 Galatina letterata, Genova 1709, pp. 171-S1. 5 Op.. cit.. pp. 57-58. MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 335 dichiarare che le sue « castigationes et lucubrationes » si li- mitano al De causis, ma verosimilmente sue sono anche quelle apposte al De natura locorum); e le Due partes Summe.... de quatuor coèvis. Nell'edizione di quest'ultima opera, apparsa il 30 settembre 1519, lo Zimara è detto « philosophiam Padue publice profitentem », espressione che forse va intesa così « dum philosophiam Padue publice profitebatur ». Poiché sembra poco probabile che in quegli anni egli fosse tornato a Padova 6. Dov'era, dunque ? Quasi certamente a Salerno, chiamatovi da quel principe Ferdinando Sanseverino che amava circon- darsi di uomini dotti e dava impulso al rifiorire degli studi nella sua città. Infatti nella dedica allo stesso Sanseverino dei Theoremata compiuti e pubblicati a Napoli nei primi mesi del 1523, egli dice: « Animadverti hoc ipsum superioribus annis.... dum philosophiam Theoricamque medicinae publice in tua Salerno profiterer ». A Salerno aveva insegnato anche il Nifo, dopo ch'ebbe lasciato Padova. Lo Zimara accenna ad un insegnamento di più anni in questa città, e ci fa sapere che, oltre alla filosofìa, vi avea professato anche la medicina teorica. Tuttavia il suo animo era rivolto a Padova. Dopo i fatti del 1509, dei quali abbiamo fatto cenno, lo studio padovano condusse per più anni una vita stentata. Gli scolari eran molto diminuiti, non essendo attratti da maestri di grande rinomanza. La città, che dall'affluenza della popolazione scolastica traeva lustro e vantaggio, reclamava a gran voce che si provvedesse sollecitamente al bisogno, per il rifiorire dell'università, perché « sia ritorna il Studio come era prima» (M. Sanudo, XXIII, 527, 25 gennaio 1517). E agli oratori padovani che questo chiedevano con insistenza fu risposto dal Principe (?'&., 562, 7 febbraio 1517): «eramo contenti, e si pratichi di condur li dotori, perché nostra inten- 6 Però riferisce M. Sanudo (XXVII, col. 575, 23 agosto 1519), che Marcantonio Loredan, capitanio a Padova, venuto in Collegio a Venezia, informò come nello studio di Padova erano a quel momento « 22 dotori che leze artisti e 26 giuristi, e portò una letera per certo dotor verìa a lezer. Scrive ha fato perteghe 21 mila 800 ». Se per av- ventura questo « dotor » fosse lo Zimara, bisognerebbe pensare che egli si fosse sobbarcato nel 15 19 al lungo viaggio a Venezia, sia per sorve- gliare la stampa di Alberto Magno, sia per condurre in porto le trattative per la « lettura » a Padova. 336 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI zion è di ritornar il Studio » ; la quale assicurazione fu rinno- vata il 21 dello stesso mese {Ih., 596). Anzi, narra il Sanudo (XXIV, 214) che il 7 maggio 1517, « dovendosi comenzar il Studio a Padoa, fo eletti tre doctori, quali dovessero praticar condur li doctori a lezer che fusseno excelienti; i quali doctori sono questi: sier Zorzi Pixani, sier Marin Zorzi, et sier Antonio Zustinian » (cfr. Ib., 617, 29 agosto 1517, e XXVII, 50 e 55, 14 marzo 1519). Il 15 settembre 15 17, furon « ballotati » in Collegio i « rotuli » dei maestri chiamati a leggere sia nella facoltà di legge come in quella delle arti e medicina (XXIV, 672). Pareva ormai che le cose si mettessero bene. Per la filosofia « al secondo loco », era stato chiamato da Ferrara Nicolò Prisciano ed era stato promosso il veronese Girolamo Bagolino. Ma il duca estense sollecitava nel marzo del 1520 il Prisciano a tornare « a lezer a Ferrara » (XXVIII, 333, 9 marzo 1520) ; se non che il maestro di lì a poco morì, e fu necessario provvedere alla sua successione. Il 14 settembre 1520, riferisce il Sanudo, « fo scrito a Roma a rOrator nostro, come de lì si ritrova el Spagnolo [cioè Gio- vanni Montesdoch], qual leze l'ordinaria di philosophia, il qual alias desiderava venir a lezer a Padoa al primo loco: per tanto, havendo optima fama, vedi si 'il persevera in voler venir, et concludi con più avantazo el poi etc. « (XXIX, 181). Questo maestro, ancor poco conosciuto, era stato collega di Alessandro Achillini e più tardi del Pomponazzi a Bologna, ma aveva dovuto abbandonare quella città nell'estate del 1515. Non sapevamo dove fosse andato. Il Sanudo ora ci fa sapere che era andato lettore di filosofia a Roma, non essendo stato accolto a Padova. Mentre si cercava di avviar pratiche per condurre lo Spa- gnolo, pare si fosse pensato anche al « Mantoan », cioè al Pom- ponazzi che era a Bologna; e il consigliere Marco Minio sug- geriva il nome di Branda Porro, che leggeva filosofia a Pavia, ov'era stato alunno di Tiberio Bacilieri (M. Sanudo, XXIX, 268, 3 ottobre 1520). Ma li studenti, nell'incertezza di avere valenti maestri, abbandonavano Padova e anche quelli che s'apparecchiavano al dottorato andavano « a conventar al- trove », in barba alla legge, quand'erano sudditi della Sere- nissima [Ih., p. 313, 22 ottobre 1520). Sicché i rettori di Pa- dova, Marin Zorzi, podestà, e Alvise Contarini, capitanio, MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 337 il 3 novembre « scriveno il Studio va in mina, per non vi esser doctori che lezano, e li scolari forestieri vanno via, e li nostri subditi, non stimando le leze, non voleno più star, non avendo doctori da i quali possano udir.... » {Ib., 348). L'allarme indusse i Savi del Consiglio e Terra ferma a pren- dere una decisione sulla proposta « di condurre a lezer nil Studio di Padoa.... domino Zuan Montesdocha, Ispano, leze a Roma, a la lettura dil primo locho di Philosophia, cum sa- lario fiorini 600 a l'anno.... Et domino Marco Antonio Ziniara, San Petrinas, di terra di Otranto, leze a Salerno a la ordinaria di teorica overo praticha di Medicina, con salario fiorini 300 a l'anno » [Ib.). Presa la decisione, le trattative col Montesdoch furon portate sollecitamente a termine (76.) ; quelle invece con lo Zimara andaron per le lunghe. Con l'andata a Padova dello spagnolo, che godeva di meritata fama, lo Studio parve rifiorire. Il che fece piacere al governo veneziano, che, il 13 maggio 1521, s'affrettò ad informare i due rettori di Padova « come li Rifor- matori dil Studio [che erano allora Zorzi Pisani, Francesco Bragadin, Antonio Justinian, par habino auto aviso domino Marco di Otranto è per venir, però a visi li scolari» [Ib., XXX, 181). Se non che, a questo punto, debbo segnalare un' indicazione che trovo nel già citato cod. Ambros. S. Q. -(-. II. 36, e che presenta qualche difficoltà per accordarsi con le indicazioni precedenti. In questo codice, prima della Quaestio de regressu, attribuita allo Zimara, ma che invece è del Pomponazzi, come ho detto, v' è anche (f. 229r) una Quaestio de immorta- litate animae domini Marci Antonii Zimarae Venetiis discussa corani Duce et Senatoribus, la quale è cosa diversa dalla Quaestio sullo stesso argomento nel cod. Parigino, Bibl. Nationale, ms. lat. 6450, di cui dirò più giù. La Quaestio Ambrosiana è assai più succinta. In essa son ricordati il cardinale di S. Do- menico, cioè il Gaetano, « et praeceptor meus », che è il Pom- ponazzi (f. 23ir-v). Alla fine (f. 232r) si legge: « Gratias itaque ago dominationibus vestris quae dignatae sunt nostrae lectioni adesse. Haec dieta sufficiant de ista difficillima quaestione, die ultimo martii 1520, et fuit punctus Pascatis domini nostri yesu christi. finis ». Orbene, nel 1520, la Pasqua cadde non il 31 marzo, ma 1' 8 aprile. Invece l'anno successivo 1521 la Pasqua cadde proprio 22 338 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI l'ultimo di marzo. Dunque nel manoscritto Ambrosiano, che è una copia di mano di fra Zaccaria da Milano, del 1553, v' è certamente un errore di trascrizione. Supponendo che per la Pasqua del 152 1 lo Zimara fosse venuto da Salerno a Venezia, per saggiare il terreno, egli potrebbe avere avuto abboccamenti coi Riformatori della Studio, onde conoscere meglio le condizioni che il Consiglio era disposto a fargh, parendogli pochi 300 fiorini; e quindi, ripartito per Salerno, in maggio avrebbe fatto sapere di esser disposto ad accettarle e ad assumere l' insegnamento a Pa- dova. Tutto questo, ben inteso, presupponendo che la Quaestio veneziana de immortalitate animae sia davvero dello Zimara, Ma ormai era tardi, poiché, mentre al primo luogo leggeva l'ordinaria di filosofìa il Montesdoch, al secondo luogo era stato chiamato da Pavia Branda Porro. Per il momento lo Zimara doveva rinunziare a Padova e restarsene a Salerno^ Ma il 16 marzo 1523 lo troviamo lettore di Metafisica nelle scuole pubbliche di S. Lorenzo a Napoli, Ciò appare dalla expiicit dei Theoremata usciti a Napoli a questa data, con un epigramma di Pietro Gravina: «Compievi hoc opus Neapoli, anno Domini Millesimo quingentesimo vigesimo tertio, dum scientiam divinam publico stipendio legerem apud sanctum Laurentium, sub regimine Reverendi patris Fratris Antonini de Antorosa de Neapoli cui ego plurimum debeo ». A Napoli forse egli era già l'anno precedente, quando, se- condo l'Arcudi 7 e il Papadia, il filosofo e il suo conterraneo, il giurista Pietro Vernaleone, sarebbero stati inviati dalla comu- nità di Galatina, per protestare presso il vice-re contro i so- prusi di Fernando Castrioto, e per chiedere che fossero ri- spettati i suoi antichi privilegi. L'Arcudi anzi riferisce una lettera dello Zimara « Nobilibus Magnificisque viris Sindico et Regimini Universitatis S. Petri in Galatina », del 29 set- tembre 1522, per esortare i suoi concittadini a mantenersi calmi ed attendere con fiducia. Ma anche da Napoli il suo pensiero doveva esser rivolto a Padova; e l'occasione di tornarvi si presentò nell'estate del 1525, quando il Montesdoch chiese al Senato veneziana licenza di andarsene, e questo glie l'accordò. Pietro Bembo in due lettere a Gian Batt. Rannusio, del 17 7 Op. cit., pp. ijb--j-j. MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 339 •Bgosto e del 6 ottobre 1525 ^ ci fa sapere, non senza amarezza, come le cose andarono. Giovanni Montesdoch a Padova era tenuto in grande consi- derazione ed era riuscito a farsi un nome, secondo la testi- monianza del Bembo, quale non aveva avuto prima. Ma non debbono essergli mancate accuse per la sua spregiudicatezza neir interpretare Aristotele, sì da parte degli averroisti sì da parte dei teologi, se è vero quanto egli stesso ci fa sapere in una lezione del 1525 sul terzo del De anima (Parigi, Bibl. Nation., ms. lat. 6450, pp. 139-40): « Cum isti fratres vident philosophum, dicunt: haereticus est; ut mihi olim accidit, dum disputarem in capitulo generali fratrum S. Dominici...; et quia eos male tractabam, dixerunt 3*^ die, me esse haere- ticum ». Non so se per queste ragioni, oppure, come insinua il Bembo, nella lettera a Gian Batt. Rannusio del 17 agosto di quel- l'anno, per ottenere l'offerta d'un aumento di stipendio, senza farne aperta richiesta, il maestro spagnolo chiese li- cenza d'andarsene altrove. Il Bembo, che pure era informato dei maneggi per condurre il Montesdoch a Pisa, ove poi ef- fettivamente andò con lo stipendio di 800 fiorini, sperava che con l'offerta di « cento ducati d'aumento » lo si potesse trattenere con vantaggio dello Studio padovano, poiché dopo la morte del Pomponazzi si prevedeva uno spopolamento dello Studio bolognese : « Se lo Spagnolo resta, questo anno averemo qui la maggior parte degli artisti dello studio di Bologna. E già il Sig. Ercole Gonzaga, fratello del Marchese, che è stato forse tre anni o più a Bologna per udire il Perette, fa cercar casa qui, per venir ad udir costui» [Ib.). Ma le cose non andarono secondo il suggerimento e il desi- derio del prelato, che arrivava a cose fatte; poiché Marin Sanudo (voi. XL, col. 34) ci fa sapere che il 16 luglio era già stato « posto, per li ditti [Savii del Conscio e Savii di terra ferma], condur a lezer in ditto Studio [di Padoa] in philo- sophia domino Marco di Otranto, qual ha lecto in molti Studi, videlicet in la lectione de philosophia, per do anni di fermo et uno de rispetto in libertà di la Signoria nostra con salario di fiorini 450 a l'anno ». La decisione rimasta segreta dovette divulgarsi alla fine 8 opere, \enezia 1729, p. Ili, p. 118. 340 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI di settembre, e il Rannusio non tardò a informarne l'amico. Il quale gli rispose da Padova il 6 ottobre esprimendogli il suo disappunto. Da questa lettera si rileva che responsabili del negato au- mento al Montesdoch e della chiamata dello Zimara furono i due patrizi veneziani Marin Zorzi e Francesco Bragadin, riformatori dello studio di Padova, i quali si avvicendarono per molti anni in questo ufficio con altri patrizi che avevano fatto gli studi a Padova e vi avevano conseguito il titolo di « dotor ». E il risentimento del Bembo si rivolge specialmente contro il primo dei due riformatori: « M. Marino ha voluto guastar questo bello ed onorato Studio, di cui egli è guardiano; e gli è molto ben venuto fatto il pensiero. Se le altre sue imprese così bene gli succederanno, sarà felicissimo. Non parlo di M. Francesco, percioché io intendo da ogni lato, che il voler condur qui codesto Otranto è solo invenzion di M. Marino, e non di lui. Il quale Otranto è già da ora tanto in odio di questi scolari tutti dall'un capo all'altro, che se ne ridono con isdegno. Perciocché dicono che ha dottrina tutta barbara e confusa, ed è semplice Averroista; il quale autore a questi dì assai si lascia da parte da i buoni dottori ed attendesi alle sposizioni de' commenti Greci, ed a far progresso ne' testi. E costui pare che sia tutto barbaro e pieno di quella feccia di dottrina, che ora si fugge, come la mala ventura. Siate sicuro, che questo povero studio quest'anno, quanto alle arti non avrà quattro scolari oltre quelli del nostro dominio, che ci staranno mal lor grado, e sarà l'ultimo di tutti gli studi ». E più giù : « Questi sono i governi e giudicii di M. Marin Gior- gio, che pare appunto, che porti odio a tutti quelli, che sanno le belle e buone lettere, o che le vogliano apparare e sapere ». Anche di Sebastiano Foscarini, che più volte coprì la carica di riformatore dello Studio padovano e dimostrò « rara dot- trina » nello esporre a Venezia, nelle scuole di Rialto, « le cose diffìcili di Aristotile e di Averrois il gran commentatore » 9, il Bembo pronunzia, in una lettera allo stesso Rannusio, del 7 luglio 1532 1", un giudizio analogo: «il qual Foscarini non so come par che sempre abbia avuto in odio tutte le buone lettere in ogni facoltà ». ' A. ZhNO, in «Giorn. de' Letterati d'Italia», t. V, 1711, pp. 366-69. t" Opere, III, p. 408. MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 34I Bisogna però riconoscere che, l'una e l'altra volta, il Bembo scriveva con l'animo irritato, per le difficoltà che, tanto lo Zorzi quanto il Foscarini, opponevano a due suoi raccoman- dati. A questo s'aggiunga che il patriziato veneziano era stato in gran parte educato, per quanto concerne la filosofia, alla tradizione aristotelico-averroistica, e che a questa si mostrava assai attaccato, come provano numerosi documenti. Il Bembo, invece, veniva dalla scuola di retorica ed era insomma un « umanista », e piuttosto che sobbarcarsi allo studio della filosofia aristotelico-averroistica, rinunziò al titolo di dottore i>i artihus, del quale invece s'adornava suo padre, Bernardo, « dotor e cavalier ». In lui l'avversione per l'aristotelismo e l'averroismo, ereditata dal Petrarca, era, potremmo dire, congenita. Come gran parte degli umanisti, egli non ebbe mai il gusto per i problemi della filosofia e della scienza che appas- sionavano i maestri e gli scolari della facoltà delle « arti ». Il suo aspro giudizio su « codesto Otranto » è espressione di un conflitto più vasto, non ancora risolto, nel pensiero del Rina- scimento, che vide coabitare tra le mura della stessa città Pietro Bembo e Marcantonio Zimara. Titolare della « lettura » ordinaria di filosofia <( primo loco », il maestro otrantino aveva per concorrente Marcantonio de' Passeri o de Janna, detto comunemente il Genua o Zenoa. Questi era figlio di un altro illustre maestro della stessa fa- coltà delle Arti e Medicina, Nicolò Genua, morto nel 1522, e, come il padre, anche Marcantonio, addottorato intorno al 1512, era membro autorevole fin da quell'anno del « Sacro Collegio degli Artisti e Medici ». A principio dello stesso anno scolastico 1525-26, insieme allo Zimara, faceva ritorno a Pa- dova da Bologna il giovane Sperone Speroni, chiamato ancora Speronello, ad occuparvi la cattedra straordinaria di filo- sofia « secundo loco ». Il venticinquenne Speronello era a Padova il geloso custode della memoria del Pomponazzi, del quale soleva parlare con affetto ed ammirazione con Lazzaro Bonamico da Bassano, quando questi venne chiamato a in- segnar retorica e lettere greche nello Studio padovano. Ma l'antagonista più terribile era per il nostro il giovane Genua. I maestri che insegnavano in concorrenza si sorve- gliavano a vicenda, per mezzo degli appunti che prende- vano gli alunni, i quali li facevano passare nelle mani dei 342 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI loro compagni e del concorrente. Nascevano così, tra i due concorrenti, dispute che dalle aule scolastiche, al Bò, si tra- scinavano al « circolo dei filosofi » al portico del palazzo pre- torio, ove risiedeva il Podestà (con termine umanistico chia- mato Praetor), a pochi passi dal Bò, e dove la sera si racco- glievano maestri e scolari per le loro schermaglie dialettiche. Nel circolo dei filosofi « ad porticum praetoriam » Paolo Giovio, studente a Padova, avea visto, fra il novembre 1506 e la pri- mavera del 1507, alle prese tra loro il Peretto Mantovano e Alessandro Achillini (v. sopra, pp. 255-58). Al 1525 si riferisce in- vece la disputa cui s'accenna in questa nota manoscritta, che il Papadia (p. 59, n. 3) dice d'aver letto in un'opera dello Zimara: <i Die 3 mensis decembris 15 15. Patavii, in circulis qui fiebant per sind. (?) magistrum Albertum, Methaphysice professorem, et do- minum Marcum x\ntonium lanuensem concurrentem eximii domini Marci Antonii Zimarae S. Petrinatis, philosophi or- dinarii. Circulus quidem erat de virtute primi motoris ». Ove la cifra 15 15 va letta sicuramente 1525, poiché solo in quest'anno il Genua si trovò ad essere concorrente dello Zimara, e Maestro Alberto Pasquale da Udine non fu professore di Metafisica a Padova se non dal 1518 al 1531. « Tempore meo Paduae, dum in circulis disputarem », dice di sé il Nostro, a proposito della teoria che il sangue si genera dal fegato [Tabula, alla voce Cor et iecur) . Al circolo dei filosofi appunto debbono essersi rivelati i dissensi fra lo Zimara e il suo concorrente. Marcantonio Genua. Conoscitore del commento averroistico in tutti i particolari, lo Zimara non solo non tollerava che si accusasse il Commen- tatore d'essersi spesso contradetto, ma insorgeva contro tutti i tentativi degli « iuniores » di allontanarsi dalla tradizione che il pensiero averroistico aveva ormai fissato in alcuni ben definiti e precisi caposaldi. Ora, a prescindere dalla inter- pretazione sigieriana della dottrina averroistica, della quale mi sono più volte occupato, Giovanni Pico della Mirandola, che aveva studiato a Padova sotto maestri averroisti, aveva portato nell'esegesi del pensiero averroistico concetti attinti al commento di Simplicio al De anima, che egli pare fosse il primo a conoscere e a divulgare con le sue Conclusiones noit- gentae del i486. Il commento di Simplicio cominciò a circolare, dapprima nel testo greco, poi anche in una traduzione latina di cui fece uso sicuramente Agostino Nifo, ora sconosciuta. MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 343 e ben presto dovette attirare l'attenzione del giovane concor- rente dello Zimara, Marcantonio Genua (v. saggio XIII). Quasi mezzo secolo prima, Ermolao Barbaro insinuava che Averroè non aveva fatto che rubacchiare dai greci. Il Genua, senza accusare di plagio il commentatore arabo, riteneva di poterne additare la fonte precipua nel commento greco di Simplicio al De anima. « Intelletto agente » e « intelletto possi- bile » sono due momenti della « discesa » di quell'unico intel- letto che, perfetto in sé, decade dalla sua perfezione, per unirsi, nell'organismo umano, alle « seconde vite », cioè alla vita vegetativa e sensitiva. Ma pur disceso nel mondo tene- broso della sensibilità, questo intelletto porta con sé il ricordo offuscato del mondo intelhgibile, dal quale, stimolato dalle immagini sensibili che di quel mondo son pallida ombra, co- mincia l'ascesa per il ritorno alla contemplazione delle idee eterne e immutabili. In tal modo l'averroismo veniva inca- nalato nella grande corrente neoplatonica dell'umanesimo ficiniano. Tutto questo, dal punto di vista dell' interpretazione lette- rale d' Averroè, era eresia; e tale la ritenne senza dubbio il filosofo di Galatina. Non più averroisti dovevano dirsi il Genua e i suoi seguaci, ma simpliciani, come infatti cominciarono ad esser chiamati. E questi simpliciani cominciarono a parlare un linguaggio nuox'o, facendo uso di una nuova terminologia, e scrivendo un latino meno ingrato all'orecchio abituato all'armonia della retorica umanistica. Anzi, taluno giunse fino a dire che si potevano ormai mettere in sofiìtta gli scritti d'Averroè, irti di tanti barbarismi e di tante oscurità, ora che Marcantonio Genua aveva dimostrato, che tutto quello che si legge nel barbarico linguaggio delle traduzioni latine d'Averroè, era già stato detto in modo piìi elegante e con maggiore chiarezza da Teofrasto, da Temistio e da Simplicio. Quando il padovano Giovanni Fasolo osava scrivere queste empietà, lo Zimara era già morto. Ma prima di morire, du- rante il suo secondo soggiorno a Padova, egli deve aver sentito profondo disgusto per queste deviazioni degh « iuniores », e deve averne tratto conferma a quanto aveva scritto nei Pro- hlemata a Giovanni Castrioto (LXXIX), che forse ai nostri tempi " natura hominum diminuta et imbecilhs est », come pareva a Solino e a Pietro d'Abano. Non, beninteso, in tutto 344 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI il mondo, poiché Averroè aveva dimostrato « mundum qua- libet aetate perfectum esse, nullumque esse momentum, quo- his, quae ad sui decorem perfectionem atque integritatem attinent, careat »: ma certamente a Padova e nelle parti vicine, sì che la vera filosofia era esulata allora in altre parti della terra abitata a noi sconosciute ; <( non enim totius habi- tabilis terrae perfectio nobis innotescit ». Ma allora gli era- balenato anche il dubbio, che fosse un' inclinazione naturale dell'uomo quella di dir bene del passato e male del suo tempo. Al qual luogo dei Prohlemata si riferisce espressamente l'olivetano P. D. Secondo Lancellotti nel suo L'Hoggidì o vero il mondo non peggiore né piìi calamitoso del passato ", per presentarci lo Zimara come « il trombettiere » degli « hog- gidiani », ossia dei « laudatores temporis acti », che, ripetitori di vecchie dottrine e refrattari ad ogni rinnovamento, deplo- rano gli ardimenti delle nuove generazioni e, tentennando il capo, van brontolando che le cose « oggidì » vanno male. Così egli restava quel barbaro e ostinato averroista, qual parve a Pietro Bembo nella lettera al Rannusio. Averroisti erano anche il Genua e i suoi alunni; ma costoro s'erano ado- prati a modernizzare Averroè e a renderne il linguaggio meno stridente al timpano degli umanisti. Così farà anche Francesco Piccolomini da Siena, che a Padova continuò a tenere alta la. bandiera dell'averroismo dopo la morte del Genua (1563), sino ai primi anni del secolo successivo, col plauso degli scolari e del senato veneto. Invece lo Zimara, compiuto il triennio per il quale era stato ingaggiato, dovette lasciar Padova, ove il 29 ottobre 1529 era chiamato " ad philosophiam extraordinariam.... in primo loco » Vincenzo Maggi da Brescia, suo discepolo, addottorato in artibus appena da un anno, ma uomo di grande acume e buon conoscitore del greco che, lasciata Padova nel 1542, illustrò, nell'ultimo ventennio di sua vita, lo Studio di Ferrara del suo non comune sapere, del quale purtroppo, se ne togli le poche cose stampate, non ci restano che scarse reliquie manoscritte. Nel 1531 la cattedra tenuta dallo Zimara era ancora vacante. Ma l'anno successivo venne assegnata al Genua, cui fu dato per concorrente il Maggi (Arch. Antico dell' Univ. di Padova, Raccolta Minato, Rotuh, 242, ff. 4r-7r). " Venezia 1646, p. 6 sgg. MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA ^45 Al periodo del secondo insegnamento padovano dell' Otran- tino ritengo appartenga la Quaestio de immorialitate animae secundum Peripateticos cantra oppositum tenenies, scilicet Magistrum Petrum Pomponatium, del cod. lat. 6450 della Bibliothèque Nationale di Parigi, ff. 201V-224V. Nello stesso codice, pp. 321-332, v' è la stessa Quaestio de immortalitate animae per M. Ani. Zimaram, scritta d'altra mano. L'una e l'altra copia hanno aggiunte e note marginali. Il codice, che contiene anche le lezioni di Giovanni Montesdoch sul terzo del De anima, tenute a Padova nell'anno scolastico 1524-25, è stato messo insieme con fascicoli diversi che originariamente avevano ciascuno propria numerazione, diversa dalla moderna. Come ho già detto di sopra, questa Quaestio del codice Pa- rigino è cosa diversa da quella del cod. Ambrosiano S. Q. -[-• H- 36, disputata a Venezia per la Pasqua 1521, se questa è vera- mente dello Zimara. Del secondo periodo padovano sono sicuramente le Specu- lationes sul primo libro del De anima e i Collectanea sui primi tre testi del secondo libro, nello stesso cod. Ambr. S. Q. -f . II, 36. Eccone il titolo (f. 237r): Speculationes super primo de Anima Aristotelis collectae sub excellentissimo et eximio philosopho Marco Antonio Zimara in Gimnasio Patavino Philosophiam puhlice profitente. M. D. XXVII. Al 238V è ricordato «Petrus Pomponatius, praeceptor meus»; e al f. 242r, « dictum Pomponatii in Dejensorio suo, cap. 5 ». Fol. 274r: Collectanea in secundum lihrum de Anima Aristotelis ex lectionibus publicis excell. et eximii philosophi Domini Marci Antonii Zimarae in Achademia Patavina, M. 5528 (sic !), die ij Januarii. Nella Biblioteca Ambrosiana v' è altresì il codice A. 152 inf., ff. ir-ggv, che contiene Marci Antonii Zimarae in primum Physicorum. È un'esposizione assai diffusa, con numerose aggiunte e note marginali, del prologo e del commento aver- roistico a questo libro dell'opera aristotelica. La distinzione in lezioni dimostra che si tratta d'un lavoro scolastico. Le note e le aggiunte parrebbero dimostrare che è autografo. Vi sono varie autocitazioni e rimandi ai Theoremata e alle Solutiones contradictionum in dictis Averrois. Al f. 18, s' in- contra questa nota marginale: «Pro hoc vide Zimaram, in solutione ultimae contradictionis 12. mefaphysicae, scilicet t. 41, et quae ibi scripsi ». Più volte son ricordati l'Achillini, 346 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI il Bacilieri, il Nife, ma più spesso Simone Porzio, del quale lo Zimara doveva possedere le lezioni manoscritte sulla Fisica, o il De rerum naturalium principiis stampato più tardi. Nel cod. parigino 6450, già ricordato, alla p. 237, corretta in 236, si ha il principio di una Quaestio de motu gravium et levium examinata a Marco AntP Zimara, la quale resta inter- rotta alla fine della pagina stessa, appena l'autore ha accen- nato all'ordine che avrebbe seguito nella discussione di essa. Dopo che Eugenio Garin (« Giorn. Crit. d. Filos. Ital. », XXXVI, 1957, p. 534) m'ebbe informato che l' intera Quaestio è con- tenuta nel ms. Magliab. XI, 67, ho potuto vederla e accer- tarmi che essa porta la data del 12 maggio 1526. Anche questo argomento era stato trattato a Padova dal Pomponazzi, in una quaestio « dum legeret librum 8. Phvsicorum, anno Do- mini 1500 » (Cod. della Bibl. Naz. di NapoH, Vili. D. 81, f. I3ir; e Bibl. Laur., cod. Ashburn, 1048, f. 5ir), quando lo Zimara era suo alunno. E lo svolgimento che questo dà al tema risente di quello del maestro. Dopo l'esposizione e la critica di cinque opinioni da lui rifiutate, lo Zimara si di- chiara per la tesi averroistica (f. 8v sgg.) che egli difende contro le obiezioni di Gregorio da Rimini e i « bononienses » (f. lorv). Nello stesso cod. parigino 6450, pp. 301-312, è dello stesso Zimara anche una Quaestio de quanti tatibus interminatis, notata da Richard Lemay nei prolegomena alla sua ottima edizione Petri Pomponatii Mant., Libri quinque de Fato.... (( Thesaurus Mundi », Lugano, 1957, p. xxx. Altre quattro opere, finora a noi rimaste sconosciute, si trovan ricordate dal nostro nella Tabula dilucidationum in dictis Aristotelis et Averrois della quale diremo tra poco. Esse sono: le Quaestiones miscellaneae concernenti problemi fisici (son ricordate nella Tabula alle espressioni Elementa conside- rant'ur e Mathematicae scientiae) ; il trattato De differentiis naturae et artis, ricordato sotto l'espressione Alchimiae artem possibilem; un trattato De intelligentiis, sotto l'espressione Corpus codeste ita se habet, ove accenna a un errore del Pom- ponazzi nel leggere un luogo del De caelo, u qui ab ipsa tandem veritate coactus in senio mutavit sententiam » ; e infine un Liber de intellectu, citato sotto l'espressione Anima aliquid melius e diretto anch'esso, almeno in parte, contro il Pompo- nazzi. Una quinta opera ugualmente sconosciuta, la Quaestio de mixtione, è ricordata nelle Contradictiones del Colliget, II. MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 347 Di queste cinque opere non conosco alcun manoscritto. Ma debbo confessare d'esser ben lontano dall'aver condotte a termine le ricerche che possono farsi per ritrovarle. E vero- similmente vi saranno altri scritti a me sconosciuti dei quali l'autore stesso non fa cenno. Ma dove si recò lo Zimara quand'ebbe lasciato nel 1528 la cattedra di Padova ? Nessuna notizia in proposito. Dovunque però si recasse, egli attese a preparare una nuova edizione delle Solutiones contradictionum che dev'essere apparsa poco dopo il 1530, poiché a quanto si legge « in contradictionibus nuper editis » o « in concordantiis nuper editis » si rimanda più volte nella Tabula. Nella nuova edizione, che non saprei dire con esattezza quando e dove uscì, il numero delle contradizioni risolte è notevolmente accresciuto su quello dell'edizione del 1508. Inoltre, sono state aggiunte nuove contradizioni notate in alcuni libri del Colliget di Averroè. Nello stesso tempo egli attese a comporre la TabtUa diluci- dationum e a fare alcune aggiunte ai Theoremata. La nuova edizione dei Theoremata apparve a Venezia nel 1539, presso Ottaviano Scoto Secondo che la dedica allo stesso principe di Salerno, Ferdinando Sanseverino, cui era stata dedicata dallo Zimara stesso l'edizione del 1523, secondo il desiderio espresso dal figlio che lo Scoto presenta al principe : « Hic est Theo- philus, Marci Antonii fìlius, a quo ego haec scripta accepi, iuvenis egregio ingenio praeditus, et in studiis philosophiae optimi nominis et spei, qui, cum te non minus quam olim pater suus in praesentia colat atque observet, non indignus est quin abs te etiam diligatur ». La Tabula dilucidationum era uscita due anni prima, nel 1537, anch'essa a Venezia, presso lo stesso editore Ottaviano Scoto, a cura di Agostino Ricco da Lucca, il quale la dedi- cava a Ercole II d' Este. Nella dedicatoria all' Estense, con data « Patavii, nonis septembris 1537 », il Ricco parla di que- st'opera come molto attesa e lasciata inedita dall'autore, « quae M. Antonius Zimara.... scripta reliquerat », e dell'autore stesso dice: « dum viveret ». Dunque, questi era morto sicu- ramente prima del 5 settembre 1537. Da quanto tempo ? Comunemente si dà come anno della sua morte il 1532. Ma questa data sembra ricavata unicamente dal fatto che nel 1532 Marcantonio Genua ne occupò la cattedra rimasta va- cante per alcuni anni. L'Arcudi dichiara di niente sapere 348 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI sull'anno e sul luogo della morte del suo conterraneo. Le sue fonti tacevano. Tuttavia egli riferisce questo che non saprei se epitafìo o piuttosto epigramma di Michele Raguseo: Zimara hoc in tumolo est: scivit veteraque novaque Omnia, quae scierant nesciverantque viri. Troppo e troppo poco, per noi. Certo prima del 1532 gli era morta la moglie Porzia, madre di quattro figlioletti, come si ricava dal seguente Epitaphium Portiae iixoris Marci Ayitonii Zimarae philosophi insignis, composto dall'umanista napole- tano Pietro Gravina [Poematum libri ad Illustrem Ioannem Franciscum de Capua Palentimn Comitem. Napoli 1532, f. 25V, e segnalatomi dal caro amico Carlo Dionisotti: Liquisti assidue lachrymantem cara maritum Portia, de medio sic mihi rapta sinu. Utque magis doleam viridi decerpta iuventa, quatuor orbatis, hei mihi, pignoribus. Nulla tuum Zimaram faciet sapientia fortem, nulla dies minuet vulnera, nulla manus. Saucia mens iusto succumbit vieta dolori, nec sine te est animi, quae fuit antea, quies. Una tamen miseros spes est abrumpere fletus quando una unanimes nos teget urna duos. La Tabula pertanto fu la sua ultima opera. Il Saitta, accen- nando ad essa e ai Theoremata, dice che « sono una specie di glossari, minuziosi e pedanteschi, sebbene assai utili ». Ve- ramente i glossari io non so immaginarli altro che « minu- ziosi e pedanteschi», perché siano veramente utili; giacché essi son come le accademie: si fanno o non si fanno. Ma poi i Theoremata non sono affatto un glossario, sibbene « memo- rabilium propositionum limitationes », ossia la dimostrazione del modo come vanno intese alcune famose tesi d'Aristotele e d'Averroè, che taluni avevano stravolto a significati che non hanno. La Tabula, sì, ha l'aspetto d'un glossario a chi la guarda superficialmente; ma in realtà essa non tende ad altro che a chiarire i punti oscuri e controversi degli scritti d'Aristotele e d'Averroè concernenti la filosofia naturale e la Metafisica. Cosi ne restano esclusi i trattati che compongono l'Organon e le opere morali. Sebbene l'autore segua l'ordine alfabetico dei glossari, egli si sofferma e batte sopra tutto su quelle espres- sioni e concetti che erano oggetto di accese dispute fra gli MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 349 averroisti e i loro avversari o tra averroisti e averroisti. Indi le frequenti digressioni ora « centra Thomam », ora « contra Egidium », «contra Scotum », ecc., ora contro l'Achillini e « bononienses », ora contro il Pomponazzi, ora contro Giovanni di Baconthorpe e Gregorio da Rimini, più averroisti di Averroè. Più che come indice e glossario, la Tabula è importante per queste digressioni che talora formano dei piccoli e assai diffusi trattatelli a sé e servono ottimamente a chiarire molti punti oscuri nella storia dell'aristotelismo e dell'aver- roismo, e a determinare l'esatta posizione sia dello Zimara stesso sia di altri averroisti nelle controversie filosofiche alla fine del medio evo e nel Rinascimento. Abbiamo già detto che egli vuol essere il fedelissimo inter- prete della dottrina di Averroè contro ogni sorta di devia- zionismo. Deviazionisti sono per lui anzi tutto Paolo Veneto, poi i bolognesi Alessandro Achillini e Tiberio Bacilieri, da lui conosciuti di persona a Padova, e il veneziano Geronimo Taiapietra già suo condiscepolo a Padova, i quali tutti pre- tendevano che l'anima intellettiva « ex mente Averrois » fosse « forma formaliter perficiens et dans esse homini ». Questi tre ultimi poi aggravavano il loro errore, asserendo che « ex mente Averrois » l' intelletto agente è Dio. Su questa devia- zione dal vero pensiero d' Averroè, lo Zimara aveva cominciato a battere fin dagli anni del suo primo insegnamento a Padova, e segnatamente nelle Solutiones contradictiomim del 1508, e specialmente in quella assai diffusa sul t. e. 38 del XII della Metafisica (la decimaquarta dell'edizione accresciuta), contro quei « defensores Averrois » che, incapaci di ribattere altri- menti gli argomenti di S. Tommaso contro la tesi dell'unità dell' intelletto umano, « devenerunt ad hoc, ut dicerent animam intellectivam esse veram formam dantem verum esse sub- stantiale homini ad intentionem Averrois » (cfr. il mio 5/- gieri.... nel pens. ecc., pp. 91-92). Lo Zimara si ribella a questo tentativo dei sigieriani: « Nos autem volumus, veritatis amore adstricti et christianae religionis vinculo coacti, ostendere opinionem istam minime fuisse de intentione Averrois, ut, destructo fundamento super quo isti innituntur, destruatur positio unitatis intellectus. Licet enim veritas ista sit, animam intellectivam esse formam substantialem hominis, dico tamen Averroem istam veritatem non vidisse », come non l'aveva vista neppure Aristotele (cfr. Tabula, ad v. In- 350 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI telleciiis authoritate Aierrois in disp. prima....). Tutto ciò è nello stile del più puro averroismo, per chi se n' intende. Ma, insomma. Marcantonio Zimara ritiene vera o no la dottrina dell'unità dell' intelletto ? Evidentemente, egli, come credente, la respinge e la dichiara falsa. Ma questo è fuori di discussione. V è però un altro punto sul quale giova conoscere il suo pensiero, in quanto egli, come il Pomponazzi, il Vernia, il Trapolin, l'Achillini e gli altri suoi colleghi e maestri, era chiamato a leggere ed esporre le opere naturali di Aristotele. La dottrina dell'unità dell' intelletto umano, secondo il pen- siero di Aristotele, è vera e necessaria, come volevano Averroè e gli averroisti, oppure è falsa e non rispondente affatto al pensiero dello Stagirita, come, al contrario, pretendevano Tommaso, Duns Scoto e altri ? La questione va posta, ed ef- fettivamente era posta, in questi termini. Il non averlo ca- pito ha dato luogo a gravi incomprensioni da parte degli storici della filosofia, che farneticano di una inconcepibile « dottrina » della doppia verità. Orbene, il Renan, Averroès et V Averro'isme, 3^ ed., Parigi, 1866, p. 375, nella pagina che dedica allo Zimara, scriveva: « L'unite de l' intellect est adoptée dans le sens de l'unite des principes communs de l'esprit, mais rejetée en ce sens qui il n'y aurait qu'un seul principe substantiel de la raison humaine ». E cita a conferma di questa asserzione le So- lutiones contradictionum super III de anima, e precisamente la XVL che egli leggeva nell'edizione degli Opera omnia di Aristotele col commento d'Averroè, t. XI, Venezia, 1560, ff. 177V-178V. Neanche a farlo apposta, lo Zimara in quel luogo dice tutto il contrario. Ecco infatti quel che ivi si legge: Decimasexta contradictio est in commento 27. Habet Aver- roès quod scientia in potentia generatur a scientia in actu. Sed huius oppositum habet 3. de aiiima, comm. 5, in sohitione ter- tiae quaestionis, ubi habet hoc prò inconvenienti, quia tunc scientia quae est in magistro esset generans scientiam quae est in discipulo, sicut ignis generat abum ignem sibi similem. Debes scire quod Averroes hanc consequentiam et rationem accepit a Themistio, super 3. de anima, cap. 32 et 33 [secondo la traduzione di Ermolao Barbaro]. Themistius autem videtur de- duxisse iUud ex sententia Platonis; inquit enim cap. 32: «quod si cui extrema opinio incredenda videatur, omnes homines, qui ex actu et potentia conditi dicimur, ad unicum intellectum agentem referri, unde consistimus sumusque homines, nihil est quamobrem aversari absterrerive debeat. Unde enim communes illae animi con- MARCANTONIO E TF.OFII.O ZIMARA 35I ceptiones praenotionesque communes omnibus haberentur ? Unde ingenita illa impressaque omnium mentibus primorum noticia con- stitisset, natura duce, nulla ratione, nulla doctrina ? Unde postre- mo intelligere mutuo et intelligi vicissim possemus, nisi unus singularisque intellectus fuisset, quem communem omnes homines haberemus? Quocirca verissime illud apud Platonem legitur: « Nisi, inquit, hominibus coinmunia essent multa, sed proprium quid aut impromiscuum contineretur in singulis, non esset admodum facile ostendere et significare alteri voluntatem suam ». Haec ille. Nos autem alias declaravimus Platonis authoritatem non pro- cedere de intellectus unitate, cum totum studium Academicorum sit in plurificatione et immortalitate animarum humanarum; sed illud dictum Platonis erat propter ideas ponendas; nam nisi esset una communis idea in qua homines convenirent, non facile alter alteri suos conceptus posset exprimere. Ista autem ratio Themistii et Averrois, ut alias deduxi, multas habet instantias; sed quidquid sit, prò nunc dico secundum ipsum scientiam non posse generari a scientia sicut ignis generatur ab igne. Hoc autem sequitur secundum ponentes pluralitatem intellectus, ut ipse opinatur. Ouod quomodo declaratur, non est praesentis ne- gotii. Si qua tamen est declaratio, vide quae dicit Themistius; et isto modo negavit ipse generari scientiam a scientia. Tamen quod scientia absolute alia via non possit generari quantum ad individuum, nullibi ipse dixit hoc; immo praesens commentum est contra illos qui tenent nostrum scire esse reminisci secundum Averroem. Sed videant, quaeso, commentum secundum primi Posteriorum, et commentum 48 et 49 primi Metaphysicae, et 7. Metaphysicae, commento 58, et in fine secundi Posteriorum, et in commento super libro De sensu et sensato in columna tertia, et 3. De anima, commento 5 et 20, et 6. Ethicoruyn, capitulo 4, et tunc videbunt utrum ista fuerit opinio Averrois nec ne. Ista volui- mus notare, ne verbositas aliquorum mentem Averrois perverteret. Come Platone dall'unità dei principi del sapere era risalito alla esistenza dell' idea una ed eterna per ogni specie di esseri, così Temistio e Averroè ne avevano dedotto l'unità dell' in- telletto per tutti gli uomini ; che senza dubbio è il motivo pla- tonico dell'averroismo: tanto è lontano lo Zimara dal ripu- diare la tesi averroistica dal punto di vista filosofico. Tuttavia l'affermazione del Renan è stata accolta come oro colato dal Moog nell'edizione da lui riveduta dello Ueberweg, Die Philos. der Neuzeit bis zum Ende des XVIII. Jahrh., Berlin, 1924, p. 28, e dal Saitta, Il pens. ital. nell'Uman. e nel Rinasc, voi. II, Bologna, 1950, pp. 379-80. Dal Moog copia l'Abba- gnano, nella sua Storia della filosofia^-. Segno che la «verbo- 12 Torino, Utet, IT, p. 70. ^'edi anche sopra pp. 277-278. 352 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI sitas » cui intendeva opporsi lo Zimara non è ancora passata di moda. Certo, questi sapeva bene qual fosse il debole della tesi averroistica, anche dal punto di vista strettamente aristote- lico e filosofico ; e gli « inconvenientia « nei quali essa urtava, erano stati fatti rilevare, a suo parere, da San Tommaso meglio che da ogni altro. Anzi nella Tabula, a proposito del detto di Averroè « Unum in numero non invenitur in plu- ribus » {Metaphys., I, comm. 31), contro l'esistenza delle idee* platoniche, egli osserva: « Cogita, quia videtur procedere etiam contra unitatem intellectus ». Che questo sarebbe il caso della interpretazione sigieriana dell'Achillini, secondo la quale l' intelletto, uno in sé, sarebbe poi forma che dà l'essere ai singoli. Perciò, un po' piti giìi, lo stesso Zimara, a proposito della tesi aristotelico-averroistica : « Unum apud multa simul non erit » {Met., VII, t. e. 57), osserva del pari: « Unde elicitur ratio ardua contra unitatem intellectus per^ fidi [era l'aggettivo del quale gli averroisti cristiani grati- ficavano il Commentatore di Cordova, e significa « infedele «] Averrois. Aristoteles enim arguit contra ydeas Platonis, et est valde difficile evadere ab huiusmodi ratione; et qui tenent in via eius, animam intellectivam esse formam dantem esse formaliter homini, nullo pacto habent aliquam apparentem responsionem ad hoc, sicut patet intelligenti ». Allo Zimara, in conclusione, non importa niente di sapere se Aristotele e Averroè, il quale altro non è « nisi Aristoteles transpositus » {Tabula alla v. Speculativarum scientiarum Theologia), s'accordano o no con la fede. Questo può bene importare a Tommaso che persegue un intento apologetico concordistico. Ma non a lui, che è e vuol rimanere puro inter- prete del pensiero aristotelico. Così anche per quello che riguarda l' intelletto agente e r intelletto possibile, secondo Averroè, egli si rifa a Temistio: e Teneo cum Themistio intellectum possibilem et agentem esse unum subiecto et ratione sola distingui.... » {Tab., alla v. Intellectus utriusque pontifìcium) . L'uno e l'altro sono due aspetti di una stessa intelHgenza separata, l' intelhgenza della specie umana, che s'unisce ai singoli non come forma inerente o informante e « dans esse», ma come forma assistente; nel che lo Zimara era d'accordo col Genua (vedi sotto, pp. 389-93), contro l'Achillini e i sigieriani, i quali avevan finito col- MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 353 r identificare l' intelletto agente con Dio, che nella « copu- latio » diventa forma delle menti inferiori ad esso e (v. sopra, pp. 210 sgg.). C'è invece un altro punto sul quale lo Zimara è d'accordo coi sigieriani contro una specie d'averroismo che, per inten- derci, chiamerò teologico, del quale mi occuperò in uno studio a parte. L'argomento cui alludo concerne la dipendenza degli esseri che formano la compagine del mondo dal primo Motore immobile. Secondo alcuni teologi della prima metà del secolo XIV, non solo l' idea di creazione è esclusivamente cristiana, ma altresì quella della dipendenza dei corpi celesti e delle intelH- genze motrici da Dio come da causa efficiente, che, secondo taluni averroisti, li avrebbe prodotti, non per un atto di li- bera creazione, ma per necessità di natura o, come si diceva, « per simplicem emanationem » e « per naturalem resultan- tiam » o « sequelam ». Com' è noto, S. Tommaso riconosceva che la creazione nel tempo non può dimostrarsi con la ragione ; ma con la ragione può ben dimostrarsi che la produzione del mondo da parte di Dio, anche posta l'eternità del mondo stesso, è pur sempre il risultato di un atto di libera volontà crea- trice. Gli averroisti della corrente sigieriana negavano la li- bera creazione, ma ammettevano la causalità efficiente di Dio, sia pur naturale e necessaria. I teologi di cui parlo si spingevano ben più in là nella loro interpretazione averroi- stica del pensiero di Aristotele. Essi sono i carmelitani Ge- rardo da Bologna e Giovanni di Baconthorpe, l'agostiniano Gregorio da Rimini e il teologo inglese Tommaso di Wilton {cfr. Enciclopedia Filosofica, IV, col. 1264). Gerardo da Bologna, Giovanni di Baconthorpe e Gregorio da Rimini negavano puramente e semphcemente, « ex in- tentione Philosophi et Commentatoris », che le intelHgenze motrici e i corpi celesti fossero prodotti da Dio come da causa efficiente. Invece Tommaso di Wilton attenuava un poco questa tesi. Per lui le intelligenze separate sono coeterne a Dio, e senza causa efficiente; non così tuttavia i corpi celesti, che, pur essendo eterni, « sunt a deo efficienter, sicut a causa totali vel partiali », supponendo che Dio cooperi alla loro produzione da parte delle intelligenze motrici. Lo Zimara non accenna a Gerardo e a Tommaso di Wilton, •dei quali pur conosceva il pensiero per quel che leggeva nel- 23 354 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI l'opera del Baconthorpe, dei cui Quodliheta aveva curato l'edizione per gli eredi di Ottaviano Scoto (Venezia, 27 set- tembre 1527); ma ricorda invece con insistenza neW^. Tabula l'errore del Baconthorpe stesso e di Gregorio da Rimini, « qui tenent ex mente Aristotelis et Averrois caelum et substantias aeternas non habere causam aeternam effectricem » {Tah., in princ). E così un'altra dozzina di volte i nomi del carmelitano inglese e dell'agostiniano italiano sono associati come quelli dei piti noti sostenitori di questa interpretazione del pen- siero aristotelico-averroistico, che egli combatte con riso- lutezza ed energia, pur sapendo come « ista quaestio in via Peripateticorum ardua sit et ambigua: Eudemus enim et Alexander (ut recitat Simplicius in principio Physicae auscul- tati.onis) tenuerunt Deum, secundum mentem Aristotelis, non esse causam efficientem, sed finalem tantum et formalem aeternorum. Ammonius tamen et Simplicius et Io. Gram- maticus oppositum tenuerunt et multi sapientes. Veruntamen quicquid sit de Aristotele, unum scio indubitanter, Averroem tenuisse de mente Philosophi, aeterna esse causata in triplici genere causae » [Ih.). ,-:-..,^^ Dopo il Baconthorpe e Gregorio da Rimini, l'avversario pili spesso preso a bersaglio da Marcantonio è il Pomponazzi, del quale ricorda il De immortalitate , anzi il libello De niQrta- litate animae, l'Apologia e il Defensorium, ma mostra di co- noscerne anche le lezioni inedite. Egli combatte la tesi pom- ponaziana della « mortalità », alla quale oppone quella aver- roistica; ma l'immortalità dell'intelletto da lui difesa non è quella, beninteso, della personalità individuale dei tomisti, sì quella dell' intelletto unico ed eterno della specie umana, sebbene egli ritenga questa dottrina averroistica, come cre- dente, una fatuità, al pari del Perette mantovano. Vi sono altri punti della sua interpretazione dell'averroismo sui quali converrebbe fermarci; ma quelli che ho toccato, mi pare che bastino a lumeggiare a sufficienza la sua personalità filosofica. Alla fine dell'edizione delle Solutiones contradictionum del 1508 si legge: Et sic est finis omnium solutionum ad contradictiones Averrois super tota philosophia naturali et super tota metaphysica, ad laudem oninipotentis dei et gloriosissime virginis; in quibus si quid dictum est, quod a veritate fidei nostre dissonare videtur. MARCA NTOX IO E TEOFILO ZIMARA ^55 illud ex philosophoruin mente et Averrois, cuius nos interpretes fuimiis, dictum sit. Ego autem in omnibus romane ecclesie me submitto prò veritate fidei nostre, prò qua bis patiar mori, prò qua bis moriar ìibens. II. - Teofilo Zimara. A Marcantonio Zimara sopravvissero almeno due figli: Nicolò, che doveva essere il primogenito e portava il nome del nonno paterno, morto prima del 6 agosto 1501, e Teofilo, che il Papadia 13 dice nato nel 1515, «come da hbri battesimaU». Nicolò fu giurista, come il suo concittadino Pietro Vernaleone, amico di suo padre, ed anzi avrebbe professato leggi a Roma, ove, morendo nel 1569, avrebbe fatto testamento a favore dell'università di Galatina (Arcudi, p. 186). Teofilo invece si addottorò « in artibus et medicina ». Dove, non saprei dire. Nel 1539, quando Ottaviano Scoto Secondo lo segnalava al prin- cipe di Salerno, come giovane fornito d'ingegno, «in studiis phi- losophiae optimi nominis et spei» (v. sopra, p. 347), non aveva più di diciannove anni e doveva essere ancora studente. Più tardi lo troviamo medico a Lecce, dove prese moglie e finì per sta- bilirsi, e dove, prima del 1565, gli dirigeva le sue lettere l'amico umanista Q. Mario Corrado di Oria di Brindisi, che umanità aveva insegnato a Napoli e a Salerno '4. Il Corrado teneva in gran conto la scienza medica del suo conterraneo e s'era gio- vato dei suggerimenti di lui. Neil' Ep. 148, gli ricorda il padre '( qui fuit lumen Italiae » per la sua dottrina e onestà. Ma la pratica della medicina non gli tolse il gusto delle let- tere e in particolare della filosofia. Non so se egli conosceva l'aspro giudizio del Bembo su suo padre. Ma non è improba- bile, poiché le due lettere al Rannusio erano di pubblica ra- gione fin dal 1550. E se egli conobbe quel giudizio non bene- volo, dovette trarne incitamento a far sì che esso non rica- desse anche su di lui. Nel che egli riuscì così bene, che l' Arcudi potè dire di lui che «divenne filosofo platonico, siccome il padre era stato aristotelico ed averroista ». Questo amore per le lettere e per la filosofia platonica spiega la lunga amicizia che lo legava al cardinale Guglielmo Sirleto, cui dedicò, il 1° marzo 13 Op. cit., p. 60. 14 Cfr. Q. M. Corradi, Epistolaruììi libri Vili, Venezia 1565, pp. 24, 148, 155, 156. ^^6 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI 1584, da Lecce, il suo grande commento al De anima di Ari- stotele. Oltre a quest'opera, della quale vedremo ora l' indole, l'Arcudi fa menzione anche di un'opera di Teoiilo sulla Meta- fisica, che l'autore aveva ordinato per la stampa; «ma pre- venuto da matura morte settuagenario in Lecce nel 1589, ri- mase in mano de' figli che, degenerando dalla virtù del padre e de l'avo, fecero più stima delle ricchezze che de' scritti ere- ditati, onde volentieri diedero copia a chi la volle; ed andò qualche tempo manoscritta per le mani de' dotti» (p. 185). Altre notizie su di lui non sono riuscito a pescare. Sì che il nome di Teofilo resta legato, almeno per ora, se qualche for- tunato ritrovamento non viene a gettar nuova luce su di lui, ai diffusi commentari In tres Aristotelis libros de Anima (Ve- netiis, apud Juntas. MDLXXXIIII), di ben 404 fogli, di quat- tro fitte colonne ciascuno, e preceduti da un proemio di XV fogli, nel quale egli espone l' intento dell'opera e un sommario della dottrina dei neoplatonici sull'anima. Se ora vogliamo dare uno sguardo all' indole di questi com- mentari, trattandosi del figlio di Marcantonio Zimara, la prima cosa che vien fatto di chiederci è di conoscere qual è la posizione di lui di fronte all'averroismo. Ora la dottrina averroistica intorno all' intelletto umano è compendiata quasi per intero nella grande digressione inserita nel commento 5 al terzo libro del De anima. Ebbene, se apriamo l'opera di Teofilo a questo punto (fi. 293 vb G-297vb F), vi troviamo un'esposizione fedelissima del pensiero del commentatore arabo. Ma nei ff. 297vb G-298vb F, segue una decisa « impro- batio Averrois », la quale si conclude con queste parole : « quae de copulatione intellectorum in actu nobiscum, quae ve de unitate ac multitudine, aeternitate et mortalitate intellectus speculativi, atque de unitate intellectus materialis atque agentis scripsit, falsa esse credimus, et neque Platonis neque Aristotelis dogmati consentanea; atque totum impium esse Themistii atque Averrois commentum.... ». Continuando poi la sua critica degli argomenti in favore della tesi averroistica, ribadisce : « Commentum huiusmodi Averrois aeque impium atque ab omni philosophia alienum putandum est ». E ancora (f. 299ra) : « Quamobrem portentosa haec de unitate intellectus fiumani opinio ac prorsus impia Themistn atque Averrois explodenda est atque a tota philosophia arcenda, idque nulli MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 357 non persiiasum est, quem et religio moveat et leges rectaque vivendi ratio ». Un'altra ampia esposizione del pensiero d'Averroè sul fa- moso testo 36 dello stesso libro, e che concerne la « copulatio » dell' intelletto possibile coli' intelletto agente, s' incontra nel- l'opera di Teofilo ai ff. 362ra-365va. E subito dopo tien dietro una minuziosa critica della teoria averroistica (ff. 365va- 368ra). Su questo punto dunque nessun dubbio è possibile: la po- sizione di Teofilo nei riguardi dell'averroismo è diametralmente opposta a quella di suo padre. Ma v' è un altro punto intorno al quale la differenza tra padre e figlio non è meno evidente. Come abbiamo visto, Marcantonio Zimara non solo scrisse una Quaestio de inimor- talitate animae cantra P. Pomponatium, ma spesso ritorna su questo argomento nella Tabula e sullo stesso soggetto tenne perfino una disputa a Venezia « coram Duce et Senatoribus », se dobbiamo prestar fede al codice Ambrosiano che glie l'at- tribuisce. Teofilo invece è d'avviso, che invano s'adoprino tutti coloro che pretendono di ricavare dal De anima d'Aristotele una di- mostrazione rigorosa dell'immortalità dell'anima umana: « quo patet quam longe absint a vero sensu Aristotelis inter- pretes eius loca citantes ex libro De anima ad ostendendum animam esse immortalem, cum nihil nisi dubitando ac sine demonstratione in foto ilio commentario dixerit, quasi id ad primam philosophiam pertineret.... » (fol. 23va G.). Il che egli estende, con non poca nostra meraviglia, allo stesso Pla- tone (f. 24vb F) : Ouibus patet, quam inanis eorum sit contentio, qui opinantur Aristotelem quaestionem de animae immortahtate in hoc libro ex professo diffinivisse. Cumque id naturae nostrae viribus inac- cessibile indicibileque sit, non aliter quam divino mentis instinctu afflatuque per fìdem asserendum et absque ulla haesitatione verum esse dedendum. Sane quaecumque ad id probandum inventa sunt, vim demonstrationis non habent, sed probabilia tantum sunt, ut suis in locis ostendemus. Eoque divus Plato animae na- turam iunctam corpori, qualis sit nosci haudquaquam posse ait, Glaucoque marino eam comparat [Rep.,X. 6ii ci]. Non aliter Galenus, Platonem imitatus, ingenue fatetur nihil se certi ac demonstrativa ratione posse de animae essentia asserere. Quum potius, si evidentia spectes, unde ducenda est demonstratio, operationesque manifestas animae, cum nulla rationalis sine 358 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI phantasia sit, suspicaberis- potius niaterialem esse eius essentiam. Quod Aristoteles hic innuere videtur, cum ait, videri omnes animae affectus cum corpore esse. Atque hoc est in causa, cur Plato eam corpori iunctam Glauco marino similem dicat, et ex liis quae affectat potius quam ex actionibus huiusmodi mani- festis, existimandam putet, nimirum ex amore divinorum atque aeternitatis. E di nuovo nel commento al t. 36 del terzo libro (f. 36irb D) : Diciinus nulla evidenti ratione demonstrari posse intellectum separata intelligere, sed sine ulla denionstratione eos tantum af- firmare id posse qui experti sunt. Quamobrem etsi multa proba- biliter philosophi super ea re scripsere, multaque nobis explicata sunt ad hoc spectantia ex Academicis Peripateticisque tradi- tionibus, nil tamen de immortalitate animae nisi ex certa fide ac religione divinoque instinctu asserimus. V è poi un'altra ragione, perché tutti gli sforzi per di- mostrare r immortalità dell'anima umana non possono rag- giungere una vera certezza: l'anima è venuta all'esistenza per un atto del volere divino, e perciò anche la sua sopravvivenza al corpo non può essere che un dono divino (f . I04ra) : Nos autem in quaestione hac nulla ratione certa explicabili, divino fidei religionisque nostrae instinctu afflati, dicimus animam non aliter quam universum rerum ordinem ex nihilo creatum ab opifice summo, nec tam suopte ingenio quam voluntate divina indissolubilem ; orta enim omnia suapte natura occidunt, quid- quid aliter philosophi sentiant, non tam certa demonstratione subnixi quam probabilibus persuasi rationibus. Nam et divus Plato ita existimasse videtur, ubi ait coelestes deos natura quidem sua genitos esse, opificis autem decreto aeternos (cfr. Timeo, 41-A). Non si può dire che sul tema dell' immortalità vi sia, fra il padre e il figlio, diametrale opposizione; v' è soltanto una profonda e insanabile divergenza. Per Marcantonio, l' intelletto umano è immortale perché esso è una sostanza separata, unica per tutti gli uomini, ai quali s'unisce per via delle im- magini sensibili di cui abbisogna, ma in sé non ha avuto co- minciamento nel tempo né avrà mai fine, al pari delle altre intelligenze separate. Ora la tesi dell'unità e separazione dell' intelletto umano è, per Teofilo, la cosa più assurda che sia mai stata escogitata in filosofia, anche dal punto di vista strettamente aristotelico. GÌ' intelletti umani sono molti- MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 359 plicati col numero dei singoli uomini. E appunto per le sin- gole anime umane si pone il problema dell' immortalità, per lui, come per il Pomponazzi e per il credente; sopra tutto per questo. Ebbene, questa immortalità personale di ogni e singola anima umana la filosofia non ce la garantisce con di- mostrazioni ineccepibili; tutt'al più ne acuisce in noi il desi- derio con argomenti probabili, ma apodittici no. E questo va detto non soltanto della filosofia aristotelica (e già Duns Scoto, Biagio Pelacani da Parma, il domenicano Tommaso de Vio e il Peretto Mantovano in modo più risoluto d'ogni altro l'avevano detto), ma altresì della fiJosofia platonica- Quest'ultima affermazione è quella che più ci coglie di sor- presa, anche per l' insistenza con la quale Teofilo la ripete. Chi ha letto il Fedone, il Fedro, il decimo della Reptibblica, il Timeo, e la Theologia platonica del Ficino, ne ha riportato r impressione che l' immortalità dell'anima o 1' ha dimostrata Platone o bisogna rinunziare ad ogni dimostrazione filoso- fica. Ora con l'accenno al mito di Glauco e alle parole del Timeo sembra accreditata la tesi pomponaziana che a Padova e altrove aveva trovato, nella seconda metà del secolo XVI, nuovi sostenitori. Ma vi sono altri punti intorno ai quali il dissenso fra Mar- cantonio e suo figlio Teofilo è irriducibile. Il primo in generale ritiene che sia impossibile accordare Aristotele con Platone; il secondo invece dichiara di essersi proposto proprio questo accordo, che egli ritiene possibile, per il tramite di Proclo, di Ammonio, di Simplicio e di altri commentatori greci: « Nunc quoniam mens nostra est Academica Peripateticis ad communem usum sodare, ut polhciti sumus, .... id non aliter praestare possumus, quam si abscuros Prodi, Ammonii, Simplicii et caeterorum sensus expUcaverimus, etsi prolixior futura est haec disceptatio.... » (f. Vv); e perciò intraprende una diffusa esposizione del loro pensiero. In particolare. Marcantonio ritiene impossibile questo accordo per quel che concerne la teoria platonica delle idee e il tema della reminiscenza, e si scaglia contro coloro che avevano osato sostenere che il dissidio fra Platone e Aristotele intorno a questi due argomenti si riduce in sostanza a una discrepanza di parole {Tabula, ad v. Ydeas esse rationes se- pai'atas, ad v. Plato opinabatur quod disciplina e segg., e an- cora ad V. Univer salia Platonica si darentur). Invece Teofilo 360 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI è del parere, che non soltanto Aristotele non respinge la dot- trina platonica delle idee (f. i3ra segg.), ma che anzi si pos- sano allegare molti luoghi aristotelici in difesa di essa (f. I5ra) ; « et Ficinus eam ob rem recte ait, quae ab Aristotele in mo- ralibus adversus Idaeas obiiciuntur, lusus potius esse quam seria, ubi Platonis dogma de ipso bono oppugnat » (f. I5rb). Aristotele nega, sì, le idee come le intendono i commentatori latini e in particolare gli averroisti, cioè come realtà universali e separate, per sé stanti al di sopra dei singoh, ma non quali esemplari esistenti « ante rem » nella mente dell'artefice eterno^ com'era appunto il pensiero di Platone rettamente inteso da Sant'Agostino (ff. I7ira-i73rb, e più volte altrove). Più audace potrebbe sembrare da parte di Teofilo il tenta- tivo di ritrovare nella dottrina aristotelica dell' intelletto agente una consonanza con quella della reminiscenza pla- tonica, in opposizione alla quale lo Stagirita l'aveva elabo- rata su un principio della sua Metafisica, se anche questo tentativo non fosse già stato compiuto da Simplicio, al quale il medico-filosofo di Lecce espressamente si appella: Quamobrem ahter [ab lamblico] dicimus cum Simplicio Ari- stotelem idem fere cum Platone de rationibus animae sensisse; nam verum est animae insitas esse essentialesque rerum formas,. quoniam in parte eius superiore, nimirum in intellectu in actu, ita insunt. Et rursus intellectum inferiorem idest materialem, tabellae in qua nihil est scriptum comparat, quoniam is in potentia mera est ad omnia intelligibilia, antequam ad actum promoveatur, Latere vero in anima dicuntur, quoniam antequam phantasmatis {sic) rebusque sensibilibus suscitetur intellectus is progrediens ad intelligendum, non illustratur ab agente, et velut densa cali- gine illa circumfunduntur; in lucem vero aeduntur promique dicuntur, ut ab intellectu agente intellectui in potentia insi- nuantur a rebus externis, sensu et phantasia percito. Repetitum enim superius nobis saepe est, tres esse animae rationalis facul- tates sive tres intellectus, dignitate perfectioneque et gradibus distinctos: nempe intellectum in actu, qui essentialis dicitur, quod formas essentiales habeat, hoc est in substantia sua, et quoniam idem in eo est substantia intellectus et intellectio et in- tellectum, nec quicquam in eo est quod substantia non sit eius; secundo loco intellectum in habitu a superiore ilio perfectum formis, quae velut habitus sunt, atque extra eius substantiam ; tertio intellectum in potentia, qui imperfectus est, aptus tamen ab intellectu essentiali adornari illustrarique, in prima potentia puraque existens, nihilque actu habens eorum quae intelligit, antequam intelligat, de quo putat Simplicius dictum esse, quod tabellae sit similis, in qua nihil descriptum sit. MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 361 Porro si de diversis animae facultatibus interpreteris, utrumque verum est: quod insitae sint intellectui rationes rerum omnium, et quod velut tabella sit non scripta. Rursus addiscere putat reminisci esse, quatenus praeeunt in anima rationes rerum intel- ligibilium; et recens parta disciplina, quoniam nuper in intellectu materiali rerum intelligibilium species obsignatae sunt. Neque eadem est pars intellectus cui insitas esse rerum formas asseruit Plato, atque ea quam Aristoteles nihil esse actu asserit antequam intelligat. Porro esse aliquam animae partem, quae rerum formas intelligibiles habeat, Aristoteles docet, asserens in anima esse aliquid quod omnia facit, coque omnia in actu sit. Quippe intel- lectus in actu intellectui in potentia formas intelligibiles haudqua- quam communicaret, si eas in se prius non obtineret (ff. 3i2rb- 3i2va). Perciò, già prima egli aveva affermato che Aristotele non può esser capito senza una buona conoscenza della filosofìa platonica, e che sognano i commentatori arabi e i latini quando si avventurano nell' interpretazione dei passi più difficili di Aristotele senza avere inteso il pensiero del suo maestro: Conspicuum quoque hinc fìt, in parte animae rationali expli- canda Aristotelem Platonem imitatum, solisque verbis, non sensu, ab eo discrepasse.... Perspicuum quoque et illud fit, Aristotelis sensum introspicere cupientem non ignarum veteris Platonicaeque disciplinae esse oportere; et tum Arabes tum Arabum sectatores Latinos interpretes saepe eam ob rem in enarrandis obscurissimis eius verbis hallucinari (f. 305va). E altrove (f . 338va) : In quo Platonis mentem tenuisse Aristoteles recte censetur, nempe quod anima duplici constet essentia: altera circa corpora partibili, altera impartibili; et illam quidem formis absolutis ac per se intelligibilibus congruere.... In quo non solum sensum Platonis comprobat, sed ipsis eius verbis, praeter morem tamen suum, utitur: nam de verbo saepe contendit. Se la buon'anima di suo padre che si arrovellava al sentir dire, « non esse discordiam inter magistrum, scihcet Platonem, et discipulum Aristotelem, nisi in verbis tantum », e dichia- rava « maxima admiratione dignum si Aristoteles non discrepat nisi in verbis tantum in positione ydearum, sed in solis vo- cibus », avesse sorpreso il figlio mentre scriveva simili eresie, non avrebbe mancato di chiedergli : « Cur igitur in ipsa logica eas insectatur ? dicit enim in libro primo Posteriorum : 'gaudeant 362 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI ydeae Platonis; monstra enim sunt ' »; ed ancora avrebbe esclamato: «O per vitam meam, quomodo praeclara ingenia allucinantur in re clarissima ! » {Tabula, ad v. Ydeas esse rationes separaias) . Né si pensi che manchi a Teofilo una sufficiente conoscenza del commento averroistico. No, egli lo conosce in tutti i par- ticolari, e lo tiene costantemente presente, sì che la sua in- terpretazione del pensiero aristotelico emerge da una inin- terrotta polemica contro Averroè e quei latini che ne seguono la traccia. L'avversione ch'egli dimostra per gli « arabi » e per gli « arabum sectatores latinos », deriva dall'aver con- statato che costoro ignorano la filosofia di Platone e i ten- tativi dei commentatori greci per ristabilire l'armonia fra l'Accademia e il Peripato. Mentre Marcantonio s'era fermato ad Averroè e a Temistio, Teofilo conosce Platone e Plotino, Porfirio e Giamblico, Proclo e Prisciano Lido, ma sopra tutto Simplicio, rimasto sconosciuto al Ficino, non però a Giovanni Pico e agli averroisti padovani che si dissero Simpliciani specialmente a Marcantonio Genua. Ma il Genua, concorrente di Marcantonio Zimara, aveva impresso all'averroismo un orientamento che sembrava svisarne la vera fisionomia sto- rica. Il figlio di Marcantonio Zimara resta fedele ali' interpre- tazione che dell'averroismo aveva dato il padre; e movendo appunto da questa interpretazione, l'oppone a quella dei commentatori neoplatonizzanti e specialmente a quella di Proclo e di Simplicio, ch'egli giudica, sia pur con riserve, aver meglio degli altri inteso il pensiero d'Aristotele. Luigi Prato, che promosse l'edizione dei commenti di Teo- filo al De anima, nella avvertenza al lettore, posta in testa al volume, dice di averne conosciuto il tenore dalla viva voce dell'autore (non sappiamo se a Lecce o a Venezia) e d'averlo molte volte supplicato di mandarli a Venezia, onde l'opera fosse stampata a vantaggio degli studiosi, tanti erano, a suo avviso, i pregi di essa. E promette che, se la stampa riuscirà di gradimento al pubblico, egli si adoprerà « ut in posterum apte politeque alia Zymarae opera edantur ». Quali siano queste «altre opere» di Teofilo da dare alla luce, oltre alla Meta- fisica della quale parla l'Arcudi, è difficile sapere. Certo, la vita intellettuale di lui, non ostante l'esercizio dell'arte medica, dev'essere stata molto intensa, come attestano la sua vasta erudizione e le sue discussioni critiche. Ma l'opera stampata MARCANTONIO E TEOFILO ZIMARA 363 non dovette avere quel successo che l'editore e l'autore se ne attendevano; che gli esemplari che si incontrano nelle pubbliche biblioteche, senza essere rarissimi, non sono nep- pure così frequenti, come, per esempio, le Solutiones contra- dictionum e i TheoremoJa di suo Padre; e ancora più rari son coloro che all'opera di Teofilo accennano o ne discutono. E di ciò v' è bene una ragione. Oltre alla prolissità del- l'opera e alle innumerevoli ripetizioni, v'era già sul mercato librario un'abbastanza copiosa letteratura che perseguiva lo stesso intento del filosofo di Lecce, di dimostrare l'accordo fra Aristotele e Platone; anzi, potremmo dire che il tema, già abbastanza sfruttato, cominciava ormai nel 1584 a pas- sare di m.oda. Altri problemi s'affacciavano all'orizzonte filo- sofico e scientifico, e i termini dei vecchi problemi si spo- stavano. Così l'opera di Teofilo Zimara e il nome di lui rapi- damente furon sommersi nell'onda letea, mentre le opere di Marcantonio continuarono ancora per qualche tempo ad essere discusse dai superstiti aristotelici e dagli ultimi epigoni del- l'averroismo. A Galatina, fin verso la metà del secolo XVII, si mostravano ancora le case degli Zimara passate in proprietà agli Arcudi. Di esse così parlava nel 1709 Alessandro Tomaso Arcudi, do- menicano, nella sua Galatina letterata: «Sopra tre porte della sala eran dipinti tre ritratti, di Aristotele, di Platone e di Averroè. Su le porte a fronte della porta principale della sala, dove soleva abitare Marc' Antonio, filosofo peripatetico, era Aristotele ed Averroè; sopra quella di man sinistra che con- duce all'appartamento che corrisponde alla piazza, era Pla- tone, essendo solito abitare Teofilo, filosofo platonico. Queste immagini conservate fino al 1665, fece cancellare D. Alfonso Arcudi.... » (p. 186), per ampliare e rimodernare le fabbriche antiche. XIII IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL DE ANIMA NELLE CONTROVERSIE DELLA FINE DEL SECOLO XV E DEL SECOLO XVI * I. Traduzioni umanistiche dei commentatori greci del De anima: Temistio, Aless. d'Afrodisia, Filopono, Simplicio. — 2. Conoscenza che del commento di Simplicio ebbero Pico della Mirandola e Ago- stino Nifo. — 3. Simplicio nello studio padovano: M. Antonio Genua e la sua scuola. Averroisti e simpliciani. — 4. L'umanista G. Fasolo esorta a mettere in disparte Averroè e ad attenersi a Simplicio. — 5. Discepoli del Genua: M. Antonio Mocenigo e Gian Paolo Per- numia. — 6. Francesco da Vimercate, Rinaldo Odoni e Simone Simoni. II card. Bessarione e l'averroismo. — 7. Federico Pendasio, Giacomo ZabareUa, Flaminio Nobili e Antonio Montecatino. — 8. Francesco Piccolomini e la sua interpretazione di Simplicio. — • 9. Conclusione: il ti^amonto dell'averroismo. I. - A rinfocolare le controversie che s'erano accese, nella se- conda metà del secolo XIII, sulla dottrina aristotelica del- l' intelletto, sopravvenne, verso la fine del secolo XV, la conoscenza della Parafrasi di Temistio e dei commenti di Alessandro d'Afrodisia, di Filopono e di Simplicio al De anima. A dir vero, la Parafrasi che Temistio aveva fatto del trat- tato psicologico d'Aristotele, tradotta in latino, come ormai sappiamo, dal domenicano fiammingo Guglielmo di Moerbeke, nel novembre 1267, a Viterbo, era stata usata da S. Tommaso nel Tractatus de unitate intellectus cantra averroistas, nel suo commento al De anima e in altri scritti i. Successivamente la * Dall'" Archivio di Filosofia ». Voi. di Testi umanistici inediti sul «De anima». Padova, Editoria Liviana, 1951, pp. 139-206. ^ Cfr. G. Verbeke, Les sources et la chronologie du Commentaire de S. Thomas d'Aquin au De anima d'Aristote, in « Revue philosophique de Louvain », t. 55 (nov. 1947), PP- 3i4"338- A cura dello stesso G. Ver- beke è uscito dipoi Themistius, Commentaire sur le Traile de l'dme d'Ar-ìstote. Traditction de G. de Moerbeke. Ed. critique et étude sur l'utilisation. « Corpus Commentariorum in Arist. Graecorum », i. Pu- blications universit. de Louvain, Paris, 1957. 366 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI troviamo citata nelle Quaestiones de anima intellectiva di Sigieri, nello Speculum divinorum et quorumdam naturalium di Enrico Bate da Malines e da altri non pochi autori. Pure una grande diffusione essa non ebbe mai, e nel periodo uma- nistico fu presso che dimenticata. Perciò la traduzione latina che Ermolao o Almorò Barbaro die in luce, nel 148 1, di questa e delle altre Paraphrases di Temistio, parve un tale avveni- mento letterario degno delle più sperticate lodi tributate dai contemporanei al giovane patrizio veneziano. Il volume, dedicato a papa Sisto, ebbe a Treviso una mediocre edizione. I procedimenti meccanici della stampa si rivelavano ancora inferiori all'arte del trascrivere a mano in bella scrittura su pagine alluminate da vivaci colori e da superbe iniziali in- trecciate a bizzarri disegni. Come il papa ebbe in mano il volume, non dovette celare il suo disappunto, e diede ordine al ben noto amanuense o « librarius » della Biblioteca Apostolica Vaticana, Salvato da Cagli, di farne una copia manoscritta degna dell'opera. E questi vi s'adoprò coli' intento dichia- rato, « ut lucem quam exemplaris impressure vicio pene amisit, se non amisisse penitus cognoscat ». L'esemplare tratto per mano di Salvato costituisce oggi il magnifico codice Vat. lat. 2142. V è chi pensa anc'oggi, forse non senza qualche fondamento, che la fotografìa, il cinematografo e la radio abbiano seriamente danneggiato la pittura, il teatro e l'arte musicale. Allo stesso modo taluni bibliofili della fine del Quat- trocento non parvero gran che entusiasti dell'arte della stampa. È doveroso tuttavia riconoscere che, senza questo mezzo meccanico, la traduzione del Barbaro non avrebbe avuto la rapida diffusione che ebbe, per merito di questa e delle suc- cessive edizioni veneziane. Come sappiamo, Averroè, nel notissimo commento quinto del terzo libro del De anima, e di nuovo nel commento tren- tasei, aveva additato come primi sostenitori della dottrina dell' intelletto separato ed unico per tutta la specie umana, Teofrasto e Temistio; accogliendo la tesi di Temistio, Averroè s'era dato cura di modificarla solo parzialmente, per poter meglio sottrarsi ad alcune obiezioni che parevano altrimenti insolubili. Ma Tommaso d'Aquino, nel Tradahis de unitaie intellectus (cap. II, §§ 51-53), appigliandosi ad alcune espres- sioni del parafraste bizantino, aveva preteso di trarne profitto contro l'averroismo. Ora l'opera di Temistio stava là, tra- IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA )) 367 dotta in elegante latino, a portata di mano, sì che anche quegli averroisti e tomisti che non sapevan di greco, erano in grado di convincersi, se avesse ragione l'Aquinate o il com- mentatore arabo. E gli averroisti, più dei loro avversari, trassero profitto dalla fatica di Ermolao Barbaro, che preten- deva d'avere scoperto nel commentatore arabo quasi un pla- giario di quello greco. Se non che, nelle discussioni che seguirono, per quanto la traduzione del Barbaro fosse elegante, non tutti la trovaron sempre sufficientemente chiara; sì che fu necessario in molti casi ricorrere al testo greco. Il confronto della traduzione di Almorò col testo greco non tardò a sorprendere gì' intendenti. Uno dei quali fu il conte Ludovico Nogarola da Verona. Egli aveva imparato il greco a Padova sotto la guida del cretese Marco Musuro negli anni che precedono la guerra di Venezia contro la lega di Cambrai. Più tardi egli fu discepolo del Pom- ponazzi a Bologna. Narra dunque il Nogarola, nella dedica della nuova traduzione del terzo libro di Temistio cui dovette accingersi '-, com'egli da giovinetto fosse stato un ammira- tore entusiasta della traduzione del Barbaro che tutti levavano alle stelle come cosa stupenda. Ma tosto aggiunge: Verum. postea quam, progrediente aetatc, Themistium dili- gentius evolvere atque eins verba graeca cum Hermolai inter- pretatione conferre mihi licuit, facile perspexi eundem in eo transferendo, qui etiam admodum corruptus ac depravatus esset, satis licenter per aetatem lusisse. Il Barbaro, infatti, aveva condotto a termine la sua fatica poco più che venticinquenne, e per di più s'era servito d'un testo difettoso. Egli poi, quasi spregiando la chiarezza cice- roniana, sembrava dar la caccia alle eleganze dello stile pli- niano ed apuleiano; sì che il Nogarola una volta è costretto ad esclamare che nessuno l' intende all' infuori degl' indovini e degli strolaghi: «Hermolai interpretationem, praeter vates et ariolos, intelliget nemo !» 3. E fu appunto col proposito di 2 Themistii Euphradae, In tertium de Anima Libriun Paraphyasis a Ludovico Nogarola, Comite, in Latinum conversa. Quibus (sic !) nonnulla addita sunt Scìiolia (nel volume delle Paraphvases di Temistio, tradotte in latino da Ermolao Barbaro, Venezia, apud Hier. Scotum, 1559. P- -14)- Il Nogarola dedica la sua traduzione al Cardinale Giulio da Montefeltro-Della Rovere, fratello del duca d' Urbino, Guidobaldo II. 3 Schol. ad partic. XXXIV. 368 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI venire incontro alla «gioventù studiosa», ossia a coloro che non erano in grado di leggere Temistio nel testo greco e di isti- tuirne il raffronto colla versione del Barbaro, che egli, già uomo maturo, pose mano alla sua traduzione, corredandola di opportune osservazioni critiche, per mettere in evidenza le difficoltà che l' intelligenza del pensiero di Temistio presen- tava. Eppure anche il diligente lavoro del Nogarola parve ad alcuno troppo ciceroniano e troppo lontano dal linguaggio usato nelle scuole; tanto che Federico Bonaventura da Ur- bino sentirà ancora il bisogno, nel 1627, di dare in luce una terza traduzione latina della Paraphrasis in tertitim de anima. Non minore importanza ebbe la versione latina che il pa- trizio veneziano Girolamo Donato, amico del Barbaro e di Pico della Mirandola, pubblicò a Brescia, nel 1495, à&W'Enar- ratio de anima di Alessandro d'Afrodisia. Della complessa opera esegetica e filosofica di questo interprete greco d'Ari- stotele, ricordato talora dai commentatori greci come l'ese- geta per eccellenza, ebbero ampia conoscenza i peripatetici arabi e in particolare Averroè, il quale spesso lo cita e ne rias- sume il pensiero, mostrando per lui il più grande rispetto, anche quando ne critica la dottrina, come nel commento ai famosi testi V, XIV e XXXVI del terzo libro del De anima 4. Attraverso appunto la critica d'Alessandro, Averroè aveva maturato la sua dottrina dell' intelletto separato ed unico. Secondo l'esposizione averroistica del pensiero dell' Afrodisio, r intelletto possibile non è altro che una preparazione o dispo- sizione dell'organismo umano, già vivo di vita sensitiva, a ricevere l'azione dell' intelletto agente che, per Alessandro, è Dio. Virtù essenzialmente organica, l'anima dell'uomo su- bisce le vicende del corpo, e, come questo, è mortale. Nella Scolastica cristiana, delle opere d'Alessandro non si conobbero che pochi estratti. Dei quali il più importante è quello noto col titolo De intellectu et intellecto 5, abbastanza diffuso nel medio evo, e stampato due volte nei primi decenni del secolo XVI 6. Attraverso la conoscenza di questo estratto 4 Cfr. G. Théry, O. P., Alexandre d'Aphrodise. Aperfu sur V in- fluence de sa noétiqite, « Bibliothèque Thomiste », VII, Le Saulchoir Kain (Belgique), 1926, pp. 34-67. 5 Théry, pp. 68-104. 6 Théry, pp. 69-83. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA )) 369 ■e, più ancora, attraverso la polemica averroistica, l'essenza del pensiero alessandrista aveva finito per cristallizzarsi in questi capi: i) l' intelletto possibile dell'uomo è una disposi- zione organica del corpo umano; 2) l'intelletto agente, che trae l' intelletto possibile dalla potenza all'atto, è la luce della Prima Causa; 3) l'anima razionale di ogni uomo è mor- tale, x^nzi quest'ultima affermazione, conseguenza delle prime due, bastava da sola, per gli scolastici, a riassumere e a ca- ratterizzare l'alessandrismo, che taluno non esitò talora a mettere in un fascio coll'epicureismo. Contro il comune parere che attribuiva la dottrina della mortalità all'Afrodisio, si levò Pico della Mirandola; il quale in capo alle otto « Conclusiones secundum Alexandrum Aphro- diseum », pone questa: «Anima rationalis est immortahs ». Non è la prima né la sola affermazione paradossale che accade d' incontrare tra le novecento Conclusiones che avrebbero dovuto disputarsi a Roma nel 1487; né è facile intravedere lo sviluppo che il giovane conte della Mirandola intendeva darle. Forse egli faceva leva sul commento XVII di Averroè al XII libro della Metafisica e sulla contradizione che lo stesso Averroè credeva d'aver sorpreso fra il commento d'Alessandro al De anima, e la trattazione speciale edita col titolo De anima libri mantissa, ove 1' « intellectus adeptus » non è l' intelletto agente puro e semplice, ma l' intelletto agente divenuto forma dell' intelletto potenziale 7. In questo stato l' intelletto po- 7 AvERR., Metaph., XII, comm. 17: « Dicit Alexander: quaeren- dum est si aliqua istarum formarum remanet postquam compositum corrumpitur; deinde narravit unde veniat ad hanc quaestionem. Quo- niam, quia anima hominis est forma eius, et intellectus est aliqua forma •et virtus animae, remanet postquam homo corrumpitur, possibile est ut aliqua forma materialis remaneat, postquam compositum corrum- pitur, sed non tota anima remanet. Quaedam enim virtutes animae non habent esse nisi cum materia: ut cibabilis et sensibilis et imagi- nativa et desiderativa. Ncque etiam iste intellectus qui est virtus animae et existimatur quod est pars eius, possibile est ut remaneat. Intellectus enim quem dicit in libro De anima, scilicet quod remanet, scilicet intel- lectus adeptus, non est intellectus iste, ncque etiam est pars animae, ncque est etiam forma materialis, ut declaratum est illic. Et dicit ^, forte ", quia demonstratio super hoc non est istius artis, sed libri De anima. Et hoc quod dicit Alexander, est sua opinio de intellectu, sci- licet quod nullus intellectus remanet nisi adeptus ». E nel commento al De anima, III, ad t. 36, Averroè, rilevate le ambiguità di linguaggio che accade d' incontrare nel commento d'Alessandro al De anima (cfr. l'edi- zione berlinese del Bruns, Commentaria in Arisi, graeca, voi. II, par- te I, p. 90, IO sgg., 91, I sgg.) e nel trattato «quem fecit De intellectu 24 370 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI tenziale, attuato in tutta la sua potenzialità, si corrompe certamente in quanto intelletto potenziale, ma acquista una più alta maniera d'esistenza nella completa attuazione della sua capacità, nell'unione perfetta coli' intelletto agente; e in questo consiste appunto la sua immortalità. Io non so se al Pico o ad altri alluda il Nifo nel De intel- lectu (I, tr. I, e. 7), quando accenna a quei « praestantissimi viri ex latinorum secta, acutissimi ingenii », i quali presero- a difendere Alessandro dall'accusa, mossagli da Averroè, d'aver negato l' immortalità dell'anima razionale. Certo è^ ad ogni modo, che lo stesso Nifo nei Collectanea in lihrum de animai, dopo aver rilevato la contradizione fra i due scritti d'Alessandro, segnalata da Averroè, pone in rilievo la buona volontà o « amicitia » di questo per appianarla r Est ergo amicitia Averrois hec, quod intellectus potentie ante copulationem non potest intelligere substantias separatas, quid tunc efficereiur eternus; et hoc pacto intelligit in libro de anima Alexander. Ipse vero [cioè V intellectus potentie], post copula- tionem [cum intellectu agente ut forma], intelligit [substantias separatas] et facit nos intelligere, quoniam tunc est summe ele- vatus per perfectionem habitam ex scientiis speculativis, adeo ut quasi abstractus factus est potens uniri illi intellectui [agenti]. secundum opinionen Aristotelis « (ed. Bruns, 1. e, p. 108, 19 sgg., iio„ 30 sgg.), cerca di riassumerne il pensiero in questo modo: « Manifestum est igitur quod intelligit per hunc sermonem, quod quando intellectus qui est in actu fuerit causa secundum formam intellectus materialis in actione eius propria (et hoc erit per ascensionem intellectus materialis apud illam formam), tunc dicetur intellectus adeptus; quoniam in illa dispositione erimus intelligentes per ipsum, quoniam est forma nobis, quoniam tunc erit ultima forma nobis. Sustentatio igitur istius opinionis est, quod intellectus agens est prima causa agens intellectum mate- rialem et intellectum qui est in habitu; et ideo non copulatur nobiscum primo; et intelligimus per ipsum ras abstractas. Cum igitur intellectus- materialis fuerit perfectus, tunc agens lìet forma materialis et copu- labitur nobiscum, et intelligemus per ipsum alias res abstractas; non ita quod intellectus qui est in habitu intelligat hunc intellectum, cum intellectus qui est in habitu est generabilis et corruptibilis, iste autem non est generabilis ncque corruptibilis «. Nell'atto della copitlatio V in- telletto potenziale è soggetto informato dall' intelletto agente. L' intel- lectus adeptiis è lo stesso soggetto di cui l'agente è forma. S Stampati insieme al commento dello stesso Nifo al De anima (Venezia, 1522, e dipoi altre volte). Cfr. Ili, coUect. ad t. e. 36, f. 196, 3, Una prima edizione col titolo Super tres libros de anima era uscita a Venezia, il io maggio 1503, a spese di Alessandro Calcidonio, e il Nifo l'aveva dedicata al patrizio partenopeo Baldassare Miliani. Non si sa quindi a che miri la protesta del Nifo, alla fine della prefazione del 1522, contro l'edizione calcidoniana. Cfr. sopra, p. 286, n. 16. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL » DE ANIMA » 37I Così, pensa Averroè, a giudizio del Nifo, l'intelletto potenzia- le, tratto dal seno della materia, potrebbe dirsi, secondo Alessan- dro, che sopravviva immortale nel suo congiungimento coli' in- telletto agente. Se non che, — osserva il commentatore arabo, — questo non è possibile, nella dottrina di Aristotele, il quale non concederebbe mai che una cosa generata possa farsi eterna. Perciò il Nifo osserva che la contradizione fra i due testi del- l'Afrodisio si eliminerebbe meglio colla teoria di Simplicio, il quale attribuisce ad Alessandro d'aver pensato a un duplice intelletto potenziale: l'uno generato e quindi mortale; l'altro, eterno ed immortale: Simplicius vero aliter verba Alexandri concordat, per dupli- cem intellectum materialem, scilicet generabilem, et alterum eternum; quos Theophrastus in libro de anima dicit, et Plutar- chus Rhodius et alii. Intellectum enim generabilem ponit non intelligere agentein; sed bene alterum. Et sic nulla erit diffe- rentia inter hos, scilicet Alexandrum et Averroem, Themistium et Simplicium 9. Il Nifo riferisce anche in che modo taluni tentavano di difendere il commentatore d'Afrodisia: Dixerunt quidam viri, quod quemadmodum catholici sentiunt de anima, ita et Alexander de intellectu. Volunt enim catholici, quod anima in pura natura non copulatur deo in statu felicitatis nec ante mortem nec post; sed requiritur quoddam lumen super- naturale, quo anima elevatur a propria natura et redditur summe capax felicitatis. Sic Alexander estimat. Dicit quod per intellecta speculativa elevatur et abstrahitur, adeo ut effìciatur capax intellectionis eius; et sic ante et post [mortem] intelligit agentem; nec oportet ut fiat eternus nisi secundum quid. i° Le discussioni cui abbiamo accennato, dimostrano quanto grande fosse il bisogno che l'opera d'Alessandro fosse portata a conoscenza dei filosofi. A questo bisogno venne incontro dapprima Girolamo Donato con la sua traduzione del trattato sul De anima, cui s'aggiunse più tardi, nel 1546, la traduzione della Mantissa (considerata come il secondo libro della stessa opera), per opera di Angelo Caninio d'Anghiari, mentre nel 1536 era stato stampato a Venezia il testo greco delle due opere. La conoscenza diretta del testo parve dar ragione a 9 ib. 10 Ib. 37- L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI coloro i quali ritenevano Alessandro deciso sostenitore della mortalità dell'anima umana. Non mancarono tuttavia i dis- seftzienti dall'opinione ormai comune. Uno di costoro è Ago- stino Steuco da Gubbio. Questi nel 1542 sosteneva che la tesi di Alessandro, secondo la quale l'anima è una crasi, atto e forma risultante dalla mescolanza degli elementi, riguarda l'anima corporea che è certamente corruttibile e mortale. Ma l'Afrodisio pone altresì nell'uomo un'anima simile a quella degli dèi, venuta in noi dal di fuori e immortale". Nel 1578, il veneziano Antonio Polo, nella sua Abbreviatio veritatis animae ratioìialis, lib. Ili, « Disgressio in defensione Alexandri circa immortalitatem animae»^-, dopo aver ricordato la prima delle « Conclusiones » di Pico « secundum Alexandrum », si appiglia ai testi che paiono favorire la tesi dell' immortalità, e ribatte le ragioni contrarie, spiegando che il corrompersi dell' intelletto in potenza non è altro che il passare di esso all'atto, mercé la luce dell' intelletto agente che viene in noi dal di fuori 13. Ma questi sporadici tentativi non riuscirono a prevalere sull'opinione ormai divulgata, che per Alessandro d'Afrodisia l'anima umana perisce col corpo, come pensavano il Pomponazzi, Simone Porzio, Vincenzo Madio, Giulio Ca- stellani, Bassiano Landò e Polo Loredan, tutti alessandristi, ed anche gli averroisti, che, in questo, erano generalmente d'accordo coi loro avversari. Un altro nome ricorre di frequente nei commenti del Rinasci- mento al De anima : quello di Giovanni Filopono, detto anche Giovanni Grammatico o Giovanni Cristiano. A questo commen- di AuGUSTiNi Steuchi EUGUBINI, De perenni philosophia libri X, Basilea, 1542, lib. IX, capp. 21-22. 12 Ant. Poli Veneti, Abbreviatio veritatis animae rationalis. Ve- netiis, apud Simonem Galignanum de Karera, M.D.LXXVIII, lib. Ili, pp. 94-102, Disgressio in defensione Alexandri circa immortalitatem aniinae. ^3 Ib., pp. 96-98. Il Polo, a sostegno della sua tesi, cita questo passo del De animae beatitudine d'Averroè (cfr. l'edizione veneziana del 1524, col commento del Nifo, I, t. 38) : « Si intellectus materialis est substantia aeterna, ut omnes expositores fatentur, nihil prohibet quin possit intelligere rem aeternam; et si est praeparatio, ut dicit Alexander, nihil prohibet quin efficiatur aeterna, ut Avenasar fatetur ». Prima dello Steuco e del Polo, aveva difeso Alessandro d'Afrodisia, dalla taccia di negatore dell'immortalità dell'anima, Cristoforo Marcello, Universalis de anima trad-itionis opus. Venezia, 1508, 18 gennaio (stile veneto; dunque 1509), V, capp. 3-5. L'opera è dedicata a Girolamo Donato, oratore veneziano alla corte di Giulio II. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL '( DE ANIMA » 373 tatore greco d'Aristotele accenna più volte Averroè ; ma i latini del medio evo non ne conobbero le opere, tranne un notevole frammento del commento al terzo libro del De anima (capp. 4-9) , nella traduzione latina che Guglielmo di Moerbeke ne fece a Vi- terbo nel 1268 M. Questo frammento fu largamente usato da Enrico Bate da Malines, compatriotta ed amico del tradut- tore, nel suo Specnliim divinorum et quorumdam naturalium , e da altri alla fine del secolo XIII e a principio del successivo; ma esso rimase sconosciuto nel Rinascimento. Poiché il terzo libro nell'edizione veneta del testo greco del De anima, cu- rato da Vittore Trincavelli, nel 1535, è cosa assai diversa, ed è ritenuto opera di Stefano d'Alessandria. Pure su questo testo, riprodotto anche nei Commentaria in Aristotelem graeca di Berlino, voi. XV, a cura dello Hayduck, fu condotta la traduzione latina di Matteo Dalbò (a Bove), pubblicata a Venezia nel 1544, e quella di Genziano Hervetus stam.pata nello stesso anno a Lione. Ma il commento al De anima più discusso nel Cinquecento fu senza dubbio quello di Sim.plicio, rimasto sconosciuto agli scolastici e trascurato anche da Averroè, che pure aveva una larga conoscenza dei commentatori greci. La fortuna del commento di Simplicio al De anima d'Aristotele nel Rinasci- mento e r influenza che esso esercitò nelle discussioni prò e contro l'averroismo ormai prossimo al tramonto, saranno oggetto delle pagine che seguono. 2. - Il primo che utilizzò il commento di Simplicio al Deanima, fu, per quel che ne so, Giovanni Pico della Mirandola. Dall' In- ventarius librorum Io. Pici Mirandulae del codice Vat. lat. 3436, risulta che Pico possedeva un esemplare dell'opera '5 sicu- ^4 Cfr. M. Grabmann, Mittelalt. latein. Uebersetzungen von Schrif- ten der Aristoteles-Kommentatoren Johannes Philoponos, Alexander von Aphrodisias und Themistios, nei « Sitzungsber. der Bayer. Akad. d. Wissensch. », Philos.-philol. u. hist. Abteil., Miinchen, 1928, Heft 5, pp. 6-48. Id., Guglielmo di Moerbeke O. P. il traduttore delle opere d'Ari- stotele, nei « Misceli. Historiae Pontificiae », voi. XI, Roma, 1946, pp. 140-147; M. DE Corte, Le commentaire de Jean Philopon sur le troi- sième livre du « Traile de l'dme » d'Aristote. Liège-Paris, 1934. ^5 Pearl Kibre, The library of Pico della Mirandola. New York, Morningside Heights. Columbia University Press. M.CM. XXXVI, p. 170, n. 447. 374 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI ramente in greco, procuratogli forse da Baldassar Millia vacca, che il mirandolano sollecita in una sua lettera i^ a procurargli il commento di Giovanni Grammatico alla Fisica e alla Me- tafisica, e che commenti d'Alessandro d'Afrodisia aveva pre- stato a Ermolao Barbaro '7. E dall'opera di Simplicio il signore della Mirandola traeva ben nove « conclusiones w, per la so- lenne disputa che avrebbe dovuto tenersi a Roma. Eccone il testo: [Conclusiones'] secundum Simplicium IX. - i. - Cognoscere actum suum non est commune cuihbet sensui exteriori, sed humanis sensibus est speciale ^^. 2. - Aristoteles in libro tertio de anima non tractat nisi de parte rationali i9. 3. - Ciim anima in se perfecte redit, lune intellectiis agens ab intellectu possibili Uberatur 20. 4. - Eadem pars rationalis, ut seipsam exiens, dicitur intel- lectus possibilis, ut vero est talis ut seipsam, ut possibilis est, possit perficere, dicitur intellectus agens ^i. 5. - Eadem pars rationalis, ut extra se vadens et procedens, perfìcitur speciebus quae in ipsa sunt; ut manens est, dicitur intellectus in habitu --. 6. - Sciri potest ex praecedentibus conclusionibus, quare in- tellectus agens quandoque arti, quandoque habitui, quandoque lumini assimiletur -3. 7. - Passio a sensibili facta in organo solo, sensatio in anima sola recipitur 24. 8. - Sicut lumen colores non facit colores, sed praeexistentes colores, potentia visibiles, facit actu visibiles, ita intellectus agens non facit species cum non essent prius, sed actu praeexi- stentes species, potentia cognoscibiles, facit actu cognoscibiles ^5. 9. - Cum dicit Aristoteles, non recordari nos post mortem, quia passivus intellectus corrumpitur, per passivum intellectum possibilem intellectum intelligit -^. 16 In Opera, Venetiis, 1557, p. 251. ^7 Erm. Barbaro, Epistolae Orationes et Carmina. Ed. crit. a cura di Vittore Branca, Firenze, 1943, voi. II, p. 39, CXXIII. 18 Cfr. Arist., De anima. III, e. 2, 425b 12 sgg. ; Simplicio, In li- bros Arist. de Anima, ed. M. Hayduck (« Commentaria in Arist. graeca », voi. XI), pp. 187-193; S. Tommaso, In III de anima, lectio 2; Nifo, Collectanea in II de anima (ediz. citata), ad t. e. 136-139. '9 Simplicio, pp. 172, 4 sgg., 187, 17, e pp. 217-223. 20 Simplicio, pp. 240, 18 sgg., 241, 16 sgg., 247, 33 sgg. 21 Simplicio, pp. 240-248. " Simplicio, p. 229, 3-35. 23 Simplicio, p. 241, 20 sgg. -4 Simplicio, pp. 124, 33 sgg., 161-167, 192-194, 196-197. 25 Simplicio, pp. 241, 39 - 243, 6, 331, 18-21. 26 Simplicio, p. 247, 27 sgg. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 375 È noto che Pico, pur accogliendo la tesi avveroistica del- l'unità dell' intelletto, aveva creduto che questa dottrina potesse conciliarsi coli' individualità della coscienza umana e con la sopravvivenza di questa alla morte 27. Unendosi al- l' individuo, l' intelletto unico trae all'atto quelle capacità e disposizioni che sono nell'organismo corporeo dotato di vita sensibile, e crea in esso una realtà spirituale nuova, che prima dell'unione non esisteva e che, una volta attuata, è capace di persistere nel proprio essere. A intendere questo processo d' individualizzazione dell' intelletto unico, il Mirandolano era aiutato da Plotino, come ho mostrato altra volta -8, e più particolarmente da Proclo e da Simplicio. Quest'ultimo, facendo sua la dottrina di Giamblico, cui espressamente si riferisce -9, gli parlava d'un primo intelletto non partecipato e quindi d'un intelletto partecipato, dal quale dipende l'anima o mente razionale. Questa, in quanto rivolta alla mente superiore di cui è partecipe, ne rispecchia in sé le idee eterne, che impresse nella mente umana si dicono «ragioni (Xóyot), e fruisce della stessa eternità e permanenza nell'essere, propria di quella {vo\jq ó (xévwv). Ma in quanto è rivolta invece al mondo inferiore della sensibilità e s'unisce alla vita animalesca e a quella vegetativa {auiJ.KXz-KO[iéwu Toù Xóyou èv T-^ Tipòi; rò oò>[i.a poTrf) nxXq Seuxépac? yoù acù(jLaTOct.S£CTt ^coaig) 30, è detta uscire fuori di sé {slq tÒ e^co Trpotcóv) 3', con frase che curiosamente ricorda un'analoga espressione hegeliana. La mente che permane in se stessa, in un atto con- templativo che dura eterno, è identificata da Simplicio con quello che fu detto 1' « intelletto agente » che è atto sostan- ziale per sua natura e « non intende ora sì ora no », come s'esprime Aristotele 32; invece la mente in quanto esce fuori -7 E. Garin, Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina. « Pub- blicazioni della R. Università degli Studi di Firenze. Facoltà di Lettere e Filosofia». Ili Serie, voi. V; Firenze, 1937, P- 84; B. Nardi, Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano. Roma, Edizioni Italiane, 1945, pp. 159-160; Id., Individualità e immortalità nell'aver- roismo e nel tomismo, in « Archivio di Filosofia. Organo dell' Istituto di Studi Filosofici », voi. dedicato al Probletna dell' immortalità, Roma, 1946, pp. 120-121. 28 Sigieri di Brab., cit., pp. 160-169. -9 Simplicio, p. 217, 27, 313, 2. 30 Simplicio, p. 218, 33. 31 Simplicio, p. 229, 3. 32 Arist., De anima, III, e. 5, 43oa 22. 376 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI di sé s' identifica con l' intelletto in potenza o intelletto pos- sibile o passivo. Il conoscere umano comincia dall'esperienza sensibile, e consiste in una liberazione progressiva dalla pas- sività e nel ritorno (àvaSpo^xv)) alla pura contemplazione del. mondo ideale 33. Questo concetto di un intelletto che permane in se stesso,, e, uscendo da sé, s'unisce al mondo della sensibilità per ritor- nare a sé, in un circolo eterno, sedusse il signore della Miran- dola, intento a risolvere il problema averroistico della « co- pulatio », ossia del congiungimento dell'unico intelletto col- r individuo, che era stato il problema di Sigieri, anzi dello stesso Averroè 34. Questo problema doveva essere assillante nel suo animo. Il Nifo narra a questo proposito l'episodio d'un incontro con lui e di una discussione che dev'essere avvenuta nella prima- vera 1494. Il giovane Suessano, che professava filosofia a Pa- dova, aveva avuto dal suo alunno Girolamo Bernardo, di famiglia patrizia veneziana, un esemplare della Destrttctio destructionum Algazelis di Averroè, che pochi conoscevano, e stava preparandone un commento che, iniziato nel 1494,, fu stampato a Venezia nel 1497. Un passo di Algazele fermò a. lungo l'attenzione di lui. Diceva il filosofo arabo; Forte aliquis diceret, quod opinio Platonis est vera, videlicet quod anima est una et antiqua, et dividitiir divisione corponim, et in corporea separatione redit ad suam radicem et unitur. Due cose sono notevoli in questo passo d'Algazele: anzi- tutto, che la dottrina dell'unità dell' intelletto venga attri- buita a Platone; indi, che vi s'accenni alla possibilità, intra- vista da alcuni, di conciliare la tesi dell'unità con quella della molteplicità numerica e individuale delle anime. Ora il Nifo racconta com'egli, abbattutosi nel conte della Mirandola, che insieme a lui era diretto in dihgenza alla volta di Bologna, ebbe a palesargli i suoi dubbi su quest'argomento. E il Mi- randolano, che evidentemente la pensava come di Platone riferisce Algazele, cercò di far capire il suo pensiero al com- 33 Simplicio, p. 240 sgg. 34 B. Nardi, Introduzione a S. Tommaso d'Aquino, Trattato sul- l'unità dell'intelletto contro gli averroisti. Firenze, Sansoni, 1938,, PP- 43-50- IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 377 pagno di viaggio con questo curioso paragone. Come per costruire una volta o un arco fa mestieri di quella impalcatura di legno che li sostenga e che dicesi centina; ma poi, quando son costruiti, la volta e l'arco si reggon da sé, senz'armatura; così una sola idea di tutte le anime sorregge ed aiuta ognuna di esse a venire all'esistenza, via via che per virtù di genera- zione si formano i loro corpi; quando poi il corpo vivente è già formato, rimane in esso un'ombra o vestigio che dicesi anima. Alla morte del corpo, le anime singole ritornano al loro « semenzaio », che è quell'unica idea della quale, nella loro individualità particolare, erano ombra, vestigio e riflesso 35. Per Platone dunque, quale era inteso da alcuni prima d'Aver- roè, e quale piaceva al Pico d' intenderlo, tutte le anime singole sono un'anima sola nella loro «radice»; sono invece molte, in quanto suoi germogli nei corpi, ossia in quanto l'anima che è una in sé si comunica e si propaga negl' individui della specie umana, uscendo, come diceva Simplicio, fuori di sé. Anche a fare un po' di tara sui particolari' del racconto del Nifo, la sostanza del racconto sembra conforme allo spirito della filosofia pichiana, nel momento in cui il Mirandolano, senza rinnegare il suo averroismo del periodo padovano, s' in- dustriava di svolgerlo in senso platonico. Non saprei se dal Pico o da altri il Suessano abbia avuto notizia del commento di Simplicio al De anima. Certo è che egli ricorda più volte l' interpretazione simpliciana della dot- trina aristotelica in opere composte a Padova prima del 1498, prima di lasciare quello studio. Una di queste sono i Collectanea super lihros de anima, che il Nifo aveva approntato per la pubblicazione, nel 1498, e mandato a Baldassare Miliani, patrizio partenopeo, coli' intento che ne accogliesse la dedica, e all'abate Roselo Salinatore, suo concittadino, per averne il giudizio 36. Nel 1503 essi furon pubblicati, con dedica del Nifo al Mihani, dall'editore veneziano Alessandro Calci- donio, mentre l'autore, se la sua asserzione merita fede, aveva 35 Nifo, In librum Destructio destructionum Averrois commenta- ri!, disp. I, dub. 8; cfr. disp. IV, dub. 7. V. sopra, p. 319. 36 Come ho già avvertito, i Collectanea furono stampati dal Nifo una prima volta nel 1503, e di nuovo nel 1522 insieme al suo nuovo commento. L'ultimo dei Collectanea, assai prolisso, ma ricco d' impor- tanti notizie, riguarda il famoso t. 36 del terzo libro del De anima, e la non meno famosa digressione d'Averroè intorno a questo testo. 378 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI stabilito di non darli alla luce prima che fossero trascorsi i nove anni oraziani dalla loro composizione 37; sì che si può pensare che essi siano una delle prime fatiche del suessano poco più che ventenne. Ora in principio di questi Collectanea sul terzo libro, il Nifo accenna alla questione dibattuta fra gli espositori, cui si riferisce la seconda delle « conclusiones » del Pico « secundum Simplicium », di quale intelletto Aristotele intenda parlare in questa terza parte della sua opera: Verum circa intentionem huius tertii apud expositores fuit difficultas non parva. Primi enim expositores, quos impugnare videtur lamblicus, sentire [videntur] intentionem huius esse de intellectu imparticipabili, qui actu est summus ac vita essen- tialiter optima et per se ab anima separabihs. Ad quos obiicit lambHcus et inquit: « Quidnam et qualis separabilis ab anima intellectus, et quod prima substantia et impartibilis et optima vita et summus actus et idem intellegibile et intellectio et intel- lectus et eternitas et perfectio et quies et terminus et causa omnium, 12. Metaphysice dictum est»38. Non ergo et hic de Deo pertractan- dum. Sed hoc lamblici argumentum pace sua nihil est.... Ideo et aliter lamblicus inquit: « Magis vero nunc qualis quis a nostra anima participatus intellectus dicendum))39. Sed quid velit lamblicus, SimpHcius laborat exponere. Ubi debes scire, quod duplex est intellectus: participatus et imparticipatus. Omnis enim forma, scilicet quae idea dicitur, indivisibilis est et terminus seipso; anima autem est divisibilis, ut reflexa ipsius denotat actio: erit ergo anima hominis vita hominis secundum se partibilis ac divisibilis. Verum, prout intellectu participat, in impartibilitatem cadit ac in terminum et indivisionem. Erit ergo anima hominis vita hominis, cuius intellectus est forma. Anima enim ipsa in- dividua est in corpore, ut Stoici inquiunt. Ut vero particeps est intellectus, impartibilis ac indivisibilis redditur partitione et reditione. Differt vero intellectus participatus ab imparticipato : ille enim non manet in se, sed alterius anime est forma; impar- ticipatus autem in se manet, ac per se separatus est et terminus. Et sic imaginatur aliud esse animam, et aliud intellectum, lam- blicus; anima enim vita est animalis humani; intellectus vero forma erit anime. Sed quoniam lamblicus non videtur differre a Plotino, ideo, ut melius lamblici opinio clarescat, Plotini sententiam expedit enarrare.... Erit ergo ordo: deus forma est intellectus; intellectus 37 Ciò è dichiarato dal Nifo alla fine della prefazione premessa al- l'edizione del 1522 identica a quella del 1503, a quanto ho potuto vedere. V. sopra, pp. 2'-6, n. 13, 370, n. 8. 38 Cfr. Simplicio, p. 217, 23-27. 39 Simplicio, p. 217, 29. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 379 vero anime; anima rationalis vivi humani. Erit ergo intentio, apud lamblicum, huius libri de intellectu participato, qui forma est anime rationalis, que homo est, platonice loquendo.... Alitar et post hunc Simplicius. Intentionem enim huius libri de anima rationali dicit esse. Imaginatur enim aliud esse vitam hominis, et aliud rationalem animam, et aliud animam totam ipsius. Vitam enim appellat ipse cum prioribus intentionem ho- minis, scilicet animalis humani, que est actus et perfectio speci- lìcans hominem; rationalis vero anima est actus huius anime, sicut lumen diaphani; ex quibus duobus resultat tota anima hominis. Erunt ergo anime humane partes due, scilicet rationalis anima et vita ipsa, qxie simul totam hominis animam constituunt. Est autem apud ipsum duplex intellectus, scilicet quo ad divina copulatur anima, et hic forte agens est intellectus; alter quo ad materialia, et hic quandoque potestate et imperfectus existit, non quia in se non intelligit, sed quoniam ab alio scientiam habet, ut a primo, et respectu hominis quandoque et perfectus est et completus, et hoc quando perfecte toti homini unitur. Erit ergo intentio huius [libri] loqui de parte, idest de anima rationali, qua anima scilicet hominis intelligit et sapit; idest, de rationali anima, que pars est anime hominis, scrutandum.... 4°. In questo passo dei Collecianea, a parte l' interpretazione più o meno esatta che il Nife ci dà del pensiero di Simplicio, è certo che vi sono frasi prese alla lettera dal commento di questo. Ora, nel secondo commento che il Suessano recò a termine nel 15 19, maestro a Pisa, avendo egli modificato il suo modo d'intendere, ci fa questa confessione: Animadverte, tamen in Collectaneis nos dixisse, de mente Sim- plicii, intentionem Aristotelis hic esse de anima rationali que est pars anime humane, cum in greco eum non viderim tunc. At postquam eum legi in proprio fonte, reperi eum opinari ut dictum est, et non ut in Collectaneis dixi 41. E non di meno il commento di Simplicio è ricordato e di- scusso parecchie volte negli stessi Collecianea, nel corso del secondo libro, con espressioni le quali non lasciano dubbio che l'opera del commentatore greco fosse familiare al Nifo. Se questi pertanto non la possedeva in greco, vuol dire che la possedeva tradotta. Questa traduzione, anteriore d'un mezzo secolo a quella di Giovanni Fasolo, mi è sconosciuta. Essa 40 Nifo, De anima, Venezia, 1522, Collect. ad t. e. i. 41 Nifo, ib., comm. ad t. e. i. 380 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI ad ogni modo doveva essere molto imperfetta, sì da accrescere le oscurità che sono già nel testo greco. Il Nifo poi dovette affrontare la lettura di Simplicio con l'animo di trovarvi una conferma alle proprie idee sigieriane. Egli stesso confessa di avere per lungo tempo aderito alla dottrina di Averroè nell' interpretazione che di questa dava Sigieri nel Tractatus de intellectu scritto in risposta al Tractatus de unitale intellecUis di S. Tommaso 43. I capisaldi di questa dottrina, che il Nifo dichiara d'avere attinto al trattato di Sigieri43, sono i seguenti: i) l'intelletto possibile è unico per tutta la specie umana; 2) esso, per attuare tutta la sua potenza, ha bisogno di trovarsi unito in ogni momento a una moltitu- dine d' individui umani che gli forniscono le specie sensibili, senza delle quali esso niente può intendere; 3) l'unione tra r intelletto possibile e la « cogitativa », che è la più alta fa- coltà dell'anima sensitiva, è un'unione sostanziale, e non sem- plicemente accidentale, come pensavano altri averroisti, sì che può dirsi che l'uno e l'altra son parti ond' è costituita l'anima razionale dell'uomo; 4) l'anima razionale, costituita dall'unione della cogitativa coli' intelletto, che in sé è unico, può dirsi veramente « forma informante », e non soltanto « assistente » dell'uomo, tale cioè che dà a questo il suo essere di animale ragionevole, contrariamente a quanto asserivano altri averroisti, i quali sostenevano che l'anima intellettiva è soltanto forma assistente. Questa dottrina sigieriana è presentata dal Nifo come schietta farina del sacco averroistico, senza che sia fatto il nome di Sigieri né quello di Simplicio, nel commento che il suessano scrisse a Padova sul dodicesimo della Metafìsica (ad t. e. 17 e 38) e nell'esposizione della Destructio destructio- num (disp. I, dub. 23; IV, 7; XIV, i, quaestio 4) pubblicata nel 1497. Invece nel De intellectu essa è esposta due volte: nel lib. I, tr. 3, e. 16, è presentata come dottrina di Simplicio; nel cap. 18, come dottrina di Sigieri tendente a trovare una via di mezzo « inter latinos et averroycos ». Siccome m' è già accaduto di richiamare l'attenzione sulla dottrina che il Nifo attribuisce a Sigieri, non è forse inutile che con essa si raffronti questo riassunto che nella stessa opera il suessano 43 Cfr. B. Nardi, Sigieri di Brab., cit., p. 14. 43 I luoghi del Nifo sono riuniti nel mio volume ora citato, pp. 13-21. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA )) 381 ci ammannisce, ancora una volta, del pensiero di Simplicio, prima di averne conosciuto il commento «in proprio fonte»: Si rationales animae erunt plures et intellectus unus, sic Sim- plicii erit positio. Imaginatur enim Simplicius, ex intellectu et omnibus praecedentibus formis, in corpore humano praeviis, constitui rationalem animam, quae quidam est totum quoddam constituens in esse hominem. Et quoniam cogitativa seu sensitiva anima praecedens est multiplicata, procul dubio rationalis anima est numerata per corpora. Quemadmodum enim materia est una privatione formarum in se, et tamen per formas partitur et fit altera alteraque, sicut altera atque altera est forma; sic intellectus unus potentiae fit alius atque alius, prout alteri atque alteri sen- sitivae unitur secundum esse; et sic fiunt plures animae ratio- nales secundum corpora, licet intellectus sit unus. Et si dicas : — Ergo rationalis anima est corruptibilis, — con- cedunt rationalem animam esse corruptibilem totam ratione partis, quae est totum praecedens eam in corpore humano; tamen intellectus in se incorruptibilis est. Est enim una anima numero unius hominis: cuius una pars est intellectus incorruptibilis, et altera pars est totum quod praecedit, scilicet sensitiva et vege- tativa, quae est unum faciens cum intellectu. Et sic totum id est corruptibile ratione praecedentis partis; intellectus autem sempiternus. Et hoc sentire videtur Aristoteles 12. Divmornm dicens: « In quibusdam enim nihil prohibet; ut si est anima tale; non omnis », idest tota, « sed intellectus; omnem namque impossi- bile est f orsan » 44. Ecce quo pacto Aristoteles dicit totam animam esse corruptibilem, sed intellectus permanet. Et si dicis: — Quando corrumpitur totum, ubi remanet intel- lectus ? — dicunt quidam quod remanet in se, sicut materia: quando enim generatur homo, statim accipit intellectum tanquam partem animae suae; et quando corrumpitur, perdit animam, licet intellectus remaneat. Et apud Simplicium salvatur multitudo rationalium anima- rum, et quomodo rationalis anima dat esse homini, et salvatur sempiternitas intellectus.... liane positionem multi credunt esse mentem Platonis, que- madmodum Algazel. Inquit enim: «Et forte aliquis diceret, quod opinio Platonis est vera, quod anima est una et antiqua, et dividitur divisione corporum; et in corporea separatione redit ad suam radicem et unitur ». Haec ille in libro Destructio destructio- nuììi, dubio octavo primae disputationis. Ubi Averroes, in so- lutione illius dubii, inquit: «Et ideo anima Petri et anima Gui- 44 Arist., Metaph., XII, t. e. 17, e. 3, io7oa 25-27. Allo stesso modo intende questo luogo d'Aristotele il Nifo, In duodecinmm Metaphysices Arisf. et Aver.... ad Antoniiim lustinianum Patritium Venetiim (Venetiis.... Die 30 lulii 1526; ma la prima edizione a spese di Al. Calcidonio è del 1505), t. e. 17. In quest'opera degli ultimi anni del suo soggiorno pado- vano, il Nifo è ancora s sieriano, ma non cita Simplicio. 382 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI lelmi quodammodo possunt dici una et eadem, ut puta ex parte formae, et sunt multae alio modo, videlicet respectu subiecto- rum ». Et ibidem, in solutione dubii 23. ait: « Omnes communiter opinati sunt, quod animae innovatio est relativa, scilicet quod haec innovatio est eius adiunctio cum corporeis possibiliter dictam adiunctionem recipientibus, eo modo quo praeparationes et po- testates speculorum recipiunt adiunctionem solis radiorum ». Ergo ex mente Averrois p^ositio haec videtur esse, et non tantum Simplicii. Idem etiam sentire videtur Averroes comm. 38. duo- decimi Divinorum. Inquit enim: «Et ex hoc quidem apparet bene, quod Aristoteles opinatur quod forma hominum, in eo quod sunt homines, non est nisi per continuationem eorum cum intellectu, quod declaratur in libro De anima ». Ecce quo pacto piane positionem hanc Simplicii sentit Averroes, occasione horum verborum et multorum aliorum. Aliqui credunt positionem hanc esse intentionein Averrois, scilicet quod rationalis anima sit composita ex intellectu potentiae et toto praecedente, scilicet vegetativo sensitivoque : ex quibus terminatur ac conficitur forma quaedam simplex, quae actu est vegetativa, sensitiva ac ratio- nalis; quae forma sit hominis, secundum esse multiplicata per homines ac numerata, licet intellectus sit unus in se, ut diximus. Questo il Nife scriveva prima di conoscere il testo greco di Simplicio; ma anche quando ebbe tra mano l'esposizione simpliciana del De anima nella lingua originale, e ne trasse vantaggio per recare a termine nel 1519, insegnante a Pisa, il suo ultimo commento sull'opera d'Aristotele, stampato insieme ai Collectanea nel 1522, corresse, sì, molti errori e inesattezze in cui era incorso nelle opere giovanili, ma per quel che si riferisce all'interpretazione della dottrina di Simplicio intorno all'unità dell' intelletto possibile e al modo di unirsi di questo coll'anima sensitiva, rimase fermo nell'opinione che la tesi del commentatore greco fosse sostanzialmente identica con quella d'Averroè45. E sebbene fosse ormai tra- scorso un ventennio da che aveva lasciato lo studio padovano, il ricordo di quegli anni lontani, in cui gli pareva d'aver tro- vato nella dottrina di Sigieri un modo plausibile di risolvere gli argomenti tomistici, e di Sigieri discuteva con Pico della Mirandola, sembra ad un tratto ridestarsi, sebbene in modo molto confuso, nella sua mente: Simplicius arbitratus est omnium hominum intellectum unum numero esse; rationales vero (animas) prò hominum numero 45 B. Nardi, Sigieri di Brab., cit., pp. 43-44. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 383 multiplicari. Non desunt qui positionem hanc Avverei tribuant, ut Rogerius et Suggerius uterque Bacconitanus, Thomaeque coetanei. Hi enim in eorum libellis, quos adversus Thomam scrip- serunt prò defensione Averrois, non modo positionem hanc Averroi, sed omnibus graecis expositoribus attribuerunt 46. Questo inestricabile garbuglio di nomi e di idee era tutto quello che il Nifo, divenuto ormai tomista a modo suo e conte palatino, col privilegio di fregiarsi del titolo di « Medices », conferitogli da Leone X nel 1520, ricordava del suo insegna- mento a Padova; ma era un ricordo che diventava di giorno in giorno più sbiadito e confuso nel suo spirito abbagliato dallo sfarzo delle aule principesche e tutto preso dalla brama di procacciarsi privilegi ed onori, senza celare le tardive fiam- melle che accendeva nel suo maturo cuore il seducente aspetto di qualche bella cortigiana. 3. - Anche quando il Nifo ne fu partito, a Padova si con- tinuò per molto tempo a studiare il commento di Simplicio al De anima e ad interpretarne il pensiero in senso averroi- stico. Giulio Castellani da Faenza, che a Ferrara aveva avuto per maestro il bresciano Vincenzo Maggi o Madio, alessan- drista, narra47 com'egli avesse trovato il commento di Sim- plicio oscuro ed involuto nella maniera d'esprimersi, e che anche dopo la seconda e la terza lettura gli rimanevano pa- recchi dubbi. Ma avendo avuto occasione di recarsi a Padova, fra il 1562 e il 1563, trovò in questa città uomini eminenti nello studio della filosofia e delle buone arti, che gli chiari- rono appieno le sue dubbiezze : e Ita sane complura Simplicii tenebricosa dieta illustrarunt claraque et apertissima red- diderunt ». Quale idea il Castellani si fosse fatta della dottrina di Sim- plicio intorno alla mente umana, dopo averne discusso coi dotti padovani, si può capire da questa esposizione che egli 46 76., p. 44. 47 luLii Castellanii, Faventini, In libvos Aristotelis de humano intellectii disputationes sive lucidissimi commentarii ex doctrina chri- stianorum auciorum ac philosophorum antiquoriim descripti. Ad Cosmum Medicem Florentinorum ac Senensiuni ducem. Venetiis, MDLXVII. Lib. I, cap. 2, fol. 5v-yr. 384 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI ne fa e che giova conoscere: Simplicius igitur, atque ii qui illuni praecipue sectantur et eius sententiam explicant, humanam nientem unani tantum numero esse dicunt, istamque in intelligentiarum ordinem col- locant; tametsi eam longe omnium infimam et humano orbi assistere arbitrantur. Quam etiam liomini nequaquam dare esse affirmant (ita loquuntur philosophi, et saepe eorum verbis facilioris doctrinae gratia uti nos oportebit) ; sed aliud statuunt genus animae, quam Cogitativam vocant, a quo informatur homo : ex Cogitativa enim et corpore organico, tanquam ex materia et forma, conflatur liomo; ex mente et homine, tanquam ex nauta et navi, nobilius quoddam atque divinum compositum oritur, quippe quod intellectus nobilissimam ac divinam tantum homini operationem praebet. Come già il Nifo, dunque, anche questi maestri padovani del tempo del Castellani, facevano risalire a Simplicio la tesi averroistica dell'unità dell' intelletto. Ma mentre il suessano attribuiva a Simplicio la tesi sigieriana, un tempo difesa da Paolo Veneto e, piìi tardi, da Alessandro Achillini, da Ti- berio Bacilieri e da Geronimo Taiapietra, secondo la quale r intelletto unico s'unisce alla « cogitativa » in modo da for- mare con questa una sola anima individuale e razionale che, tutta intera, è forma dell'uomo e dà a questo il suo essere di uomo, i padovani cui accenna il faentino ritenevano, al contrario, che l' intelletto s'unisce alla « cogitativa » soltanto come « forma assistente « e non come « forma informante », ossia, secondo l'espressione aristotelica, « sicut nauta navi «, Continua poi il Castellani, sviluppando concetti accennati anche in alcune delle <( conclusiones », che abbiamo riferito, dei Pico: Addunt, praeterea, humanum intellectum formas et rationes omnium rerum in se ipso possidere, ut etiam aliae intelligentiae obtinent. Etenim, arbitrantur isti, quaecumque nostrae vel divinae mentes comprehendunt, ea tantum de causa intelligere, quod illorum omnium ideas et rationes in se ipsis contemplentur. Cum vero mens humana sit infima et ignobilissima omnium intelligentiarum, hoc sortita est (aiunt isti) ut extra se progre- diatur, recedensque a substantia propria ad humana corpora labatur: a qua quidem indignitate caeterae omnes remotae sunt. In eiusmodi autem lapsu, tametsi cum ea formae etiam illae et rationes progrediuntur, in stultitiam tamen ac ignorationem, cum sui ipsius cum omnium aliarum rerum, decidit. Siquidem cum mole corporis opprimatur, omnem amittit perfectionem, et na- IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 385 turam potestatis assumit, fitque tabellae non scriptae consimilis, Quae nihilominus iterum consequi amissam nobilitatem appetit: sed eain non recuperai, nisi cum in rationes illas, quae in ipsa existunt, conversa fuerit et acquisierit habitum, propter quem mens deinde seu intellectus in habitu vocatur. Duobus enim modis volunt intellectum nostrum nobiscum copulari: priori sane, quando in ortu quamprimum cogitativa introducta fuerit, cum nobis pueris iungitur, et est similis nautae qui ingressus est navem sed nondum operatur; altero vero modo nobiscum coniungitur, cum et contemplandi et agendi habitus consecutus fuerit. Verum hos habitus dum ille assequi et in pri- stinam reverti perfectionem contendit, indiget phantasmatibus (phantasmata enim appellant philosophi rerum imagines et simulacra quae a sensibus imprimuntur in phantasia), non quidem ut ab ilHs species recipiat illaque intelHgat (absurdum enim putant, si intellectus aeternus a phantasmate caduco perficiatur), verum ut ab eis occasionem sumat contemplandi formas quae in ipso resident unaque cum eo progressae sunt. Atque eiusmodi quidem ratione intellectus, antequam perfectionem suam adeptus sit, utitur phantasia; cum autem perfectus fuerit, nulla amplius ope phantasiae indiget, sed eum ex se ipso intelligentem phan- tasia insequitur, perinde ac orbis sequitur intelligentiam quae illum sub ratione finis movet. Così gli averroisti che si dissero anche « simpliciani » finirono per accogliere una dottrina del conoscere schiettamente pla- tonica o, se vogliamo, neoplatonica, che coll'averroismo me- dievale non ha più nulla che fare. Anche in questo Pico della Mirandola è stato maestro a questi averroisti padovani. Da questa dottrina gnoseologica dipende quanto riferisce ancora il Castellani: Ad haec asserunt isti intellectum nostrum, quamquam est unus tantum secundum rem, tria tamen sortiri nomina et ra- tiones: tres enim in nomine reperiuntur intellectus, non quidem re, sed tantum ratione differentes. Primus dicitur potestate intellectus, et ille est qui extra se progressus est, et a. propria substantia procul abest, nec potest absque labore et sine occasione phantasmatum intelligere. Se- cundus est intellectus in habitu, vel intellectus secundum actum, ut vocat Aristoteles, qui velut sciens homo evasit, et formas atque rationes, quae in eo sunt, quotiescunque velit, ex se ipso contemplandi vim habet. Tertium agentem vocant, quem dicunt esse vim huius intelligentiae praestantiorem, quippe qui extra non labitur, sed in se ipso manet, et omnes in se rationes ac ideas retinet, quo, sumpta a phantasmatibus occasione, eas reponere valeat in intellectum potestate. Quamobrem addunt isti, cum hic intellectus agens, non solum 25 386 l'aristotelismo padovano dal SF.COLO XIV AL XVI intelligibiles formas illuminet, sed eas etiam in potestate intellec- tum recondat, praeterea cum in ilio impetu, qui extra fit, seiiinctus- quodam modo sit ab eiusmodi formis, simulque iisdem progre- dientibus colligatus, perbelle eum simul tanquam artem, et rursus- tanquam habitum ac lumen tacere Aristoteles tradidit. Siquidera ars ab eis quae efficit separatur; lumen vero abiis quae illustrantur, et habitus ab iis quae habitum possident, minime seiungi videntur.. Eiusmodi vero intellectus agens est alterius intellectus, qui po- testate dicitur, habitus et perfectio; etenim, cum huic veluti forma copulatur, ex utroque fit intelligentia semper actu intel- ligens, tuncque homo beatitudinem illam et felicitatem adeptus- est, qua postrema et maxiina frui possit. Qual era pertanto la posizione dei simpliciani nella contro- versia suir immortalità dell'anima allora dibattutis^ima, dopo la comparsa del trattato del Pomponazzi ? Anche di questo argomento tocca il Castellani: Tandem isti eo moti fundamento, quo firmatum est, omne quod ortum habet necessario quoque ad interitum venire, aiunt hos tres intellectus, de quibus supra locuti sumus, in homine re- stingui. Humanus quidem intellectus, ea ratione qua intelligentia est, et secundum substantiam propriam ac simpliciter (ut utar eorum verbis) incorruptibilis et aeternus est; secundum quid autem et ea nomina quae iam illi sunt attributa in singularibus hominibus, destruitur: siquidem intellectus quatenus possibilis, quatenus habitu, quatenus agens dicitur, interit, quoniam qua- tenus possibilis, quatenus in habitu, quatenus agens, in nobis etiam gignitur. Questa, conclude il faentino, era l'opinione di Simplicio- e dei suoi seguaci, i quali la ritenevano presso che identica a quella di Averroè: Haec est Simplicii et eius sectatorum opinio, cuius capita, faci- lius et clarius quam fieri potuit, recensuimus, cum saepe ipsiusmet Simplicii et sectatorum verbis uti nos oportuerit. Hanc etiam eandem prope esse cum Averrois sententia, inquiunt simpliciani. I simpliciani di Padova coi quali ebbe a intrattenersi Giulio Castellani erano senza dubbio gli scolari di Marc'Antonio Passero o de' Passeri, detto comunemente il Genua (Genoa, Genova, Zenoa, Janna), se pure egli non fece in tempo a co- noscere questo maestro venuto a morte più che settantenne, nel 1563, tra il comune rimpianto di numerosi allievi che ne ricordavano la singolare perizia nell' interpretare Aristotele IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL ( DE ANIMA » 387 e ne levavano alle stelle, anche in versi, il nome oggi presso che sconosciuto 48. Figlio di Nicolò Genua, che, addottorato in artibus a Pa- dova il 13 nov. 1475, e in medicina il 6 ott. 1500, era stato collegiato ed aveva pure insegnato arti e dipoi medicina nel patrio Studio, Marc' Antonio s'addottorò anch'egli in artibus et medicina fra il 1511-12 e iniziò la sua carriera nel 1517, reggendo la seconda scuola di filosofia straordinaria. Nel 15 18, passò alla prima cattedra di filosofia straordinaria; nel 1523, alla seconda cattedra di filosofia ordinaria, e nel 1525 si trovò ad esser concorrente di M. A. Zimara; ma nel 1531 lasciò questa cattedra a Vincenzo Maggi, per salire sulla prima, che occupò con gran fama e frequenza di alunni fino alla sua morte 49. Il suo commento In tres libros Aristotelis de anima vide la luce postumo nel 1576, a cura di Giacomo Fratelli e di Gian- carlo Saraceno, che usarono del manoscritto posseduto dalla figlia del filosofo, donna Laura, e dal marito di questa, Gi- rolamo Dotti, e si giovarono dell'aiuto del canonico Daulo Dotti fratello di Girolamo S". L'edizione fu dedicata al conte Giacomo Zabarella, che era stato discepolo del Genua, e in 48 Glottochrysii Petri Fidentii Iunctaei Montagnanensis, Ad M. Antonium Genuam philosophum Patavinum undeqitaque doctissiinum Carmen panegyriciini. Venetiis, MDXLVII. Anche l'umanista Paolo Ma- nuzio {Epistolarum libri XII, Venetiis, MDLXXXVIII, Lib. IV, 5, p. 182) cosi scrive a Vincenzo Pinelli, allievo del Genua: « In philosophia quidem, cum operam des M. Antonio Genuae, cui veterum doctri- narum arcana patent, quo nemo peritior Aristotelis interpres, nemo vir melior usquam vivit, nihil mediocre neque nos a te expectamus ». 49 G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani. Voi. I, Padova, 1832, pp. 451-460. 50 Marci Antonii Passeri, cognomento Genuae, Patavini philoso- phi sua tempestate facile principis et in Academia Patavina philosophiae publici professoris, In tres libros Aristotelis de Anima exactissimi com- mentarii, Jacobi Pratelli, Monteflorensis medici et Joannis Caroli Saraceni diligentia recogniti et repurgati. Venetiis, apud Damianum Zenarum et socios, 1576. Gian Carlo Saraceno, nella presentazione del- l'opera al lettore, nel tessere le lodi del Genua, accenna perfino ad un'origine leggendaria della famiglia Passeri che si pretendeva traesse origine, nientemeno, « ex illustri Passerinorum familia, qui Mantuae et Mutinae ohm imperaverunt, postea eiecti Genuam sese receperunt, demum Patavium commigraverunt ». Lo stesso Saraceno sbozza del filosofo questo ritratto: « Ipse formosissimo corpore, procera statura, venustissima facie et vivacissimis oculis ingenii acumen praeseferen- tibus naturae benignitate fuit insignitus. Ipse in Aristotele publice e.xplanando, in Averroe interpretando, in Simplicio dilucidando, postre- moque in Peripateticorum placitis exponendis, eam gloriam quadra- 388 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI quell'anno copriva la seconda cattedra di filosofia straordi- naria nello studio padovano. Due redazioni alquanto diverse, ma sostanzialmente concordi nel pensiero, ho potuto vedere nei codici Vat. lat. 4704-4707. I primi due numeri contengono ognuno il commento al primo e al secondo libro del De anima, riportato da Gian Paolo Pernumia, « legente Excellentissimo Genua, Aristotelis Aesculapio », senza data dell'anno. Il numero 4706 è il commento al terzo libro, in 73 lezioni te- nute nell'anno scolastico 1543-1544. Il numero 4707 è pari- mente un commento al terzo libro in 104 lezioni, senza indi- cazione dell'anno in cui furon tenute 51. Il commento del Genua al De anima è uno dei più notevoli del Rinascimento, per ricchezza d' informazioni e per l'uso che vi si fa del commento di Simplicio, nell' intento di mo- strarne l'accordo sostanziale con la dottrina averroistica. Va tenuto presente intanto che nel 1527 l'opera di Simplicio veniva stampata in greco a Venezia in edizione aldina, e che lo stesso anno usciva, a spese degli eredi di Ottaviano Scoto, una nuova edizione delle Paraphrases di Temistio, tradotte da Ermolao Barbaro, coi margini arricchiti di copiose note ap- poste « ab Excellentissimo quodam philosopho », nelle quali il pensiero di Temistio intorno al De anima è chiarito con con- tinui richiami a Filopono e specialmente a Simplicio. Sì che possiamo considerare l'opera di quest'ultimo, ormai facil- mente accessibile agli studiosi, di dominio pubblico. E uno dei primi a procurarsela dovette essere certamente il Genua. Il quale, polemizzando col Nifo, ne rileva i frequenti fraintendimenti, fino ad esprimere su di lui questo grave ap- ginta annorum spatio Patavio obtinuit, quae raro admodum et per- quam paucis concessa fuit ». M. A. Genua morì a Padova nel 1563, e fu sepolto nella tomba paterna a S. Giovanni in Verdora che, dopo la soppressione del monastero, fu trasferita nel secondo chiostro del Santo, insieme a quelle del Calfurnio, del Robortello e di Lazzaro Bonamico, le quali hanno la stessa provenienza. 51 L'appellativo di « Esculapio d'Aristotele » è dato al Genua an- che neir incipit e neìVexplicit dei tre codici Vat. lat. 4704, 4705, 4706. Il medico e filosofo piemontese Antonio Berga, il quale era stato discepolo del Genua a Padova, ne stampò in un piccolo libretto la discussione suir immortalità dell'anima cui aveva assistito, e che nel cod. Vat. lat. 4706 occupa le lezioni LXV (f. 22ir) - LXXIII (f. 224V), mentre nel Vat. lat. 4707 prende le lezioni XCVII (p. 427)-CIV (p. 488) : Disputatio de intellectus immani immortalitate ex dissertationibus Marci Antoni! Ge- NUAE, Patavini peripatetici insignis. In Monte Regali. Excudebat Leo- nardus Torrentinus. M.D.LXV. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL " DE ANIMA » 389 prezzamento Si : «Doctor iste, in cognoscenda opinione Sim- plicii, caligai in sole ! ». Il suessano, come sappiamo, attri- buiva al commentatore neoplatonico la tesi sigieriana, che l'anima razionale, risultante dall'unione dell' intelletto alla « cogitativa », è forma informante e costituente dell'uomo. Per il filosofo padovano, al contrario, « anima intellectiva non est perfectio corporis ut aliae formae materiales, sed assi- stens et ut nauta navi...; intellectus humanus assistit homini ut intelligentia orbi» 53. Non forma dunque informante, ma assistente, è l' intelletto, il quale s'unisce all'anima cogita- tiva che sola è la vera forma informante del corpo umano. Su questo concetto il Genua torna spesso: Nos vero, tenentes quod intellectus sit actus ut nauta, cum aliis graecis, notamus intelligentiam humanam ultimam esse intelligentiarum omnium, eaque ratione omnium imperfectis- simam, ut Averroes [dicit] ; eaque ratione, qua intelligentia est, habet suum orbem, qui humana sphaera est; ratione qua imper- fectissima, habet quinetiam sphaeram illam imperfectissimam, quae per successionem in esse perpetuo salvatur...; et perinde in homine est ut intelligentia in orbe, scilicet cuilibet particolae assistens et intrinsecus existens, non tamen semper actu operans ut intelligentia 54. Sententia Averrois fuit, quod intellectus humanus hominibus assisteret, sive humanae naturae, tanquam sphaerae sibi propriae: et, cum natura illa in individuis duntaxat reperiatur humanis, consequenter in illis assistens erit intellectus, ut colligitur in commento 5. CoroUarie sequitur, quod intelligentia ista a se ipsa. 52 Genua, In tres libros Arisi, de anima, III, ad t. e. 18, f. 155, 3. Anche altrove il Genua così parla del Nife : « At mea quidem sententia, doctor iste non intellexit Simphcium » (III, ad t. e. 26, fol. 167, 2); « Suessanus secundum SimpHciuin introducens, de more ipsum non in- telligens, inquit.... At bonus iste philosophus non cognovit quae dieta sint a Simplicio » [Ib., ad t. e. 27, f. 168, 1): « Unde bonus iste doctor non bene accepit Simplicium » (Ih., ad t. e. 36, f. 176, 2). Parimente Federico Pendasio, del quale sarà parlato più oltre, interdiceva ai suoi alunni l'esposizione del Suessano, perché costui, diceva il Pendasio, « nihil prorsus meo iudicio, intellexit quantum spectat ad intelligendum Simplicium et veterum sententias » (//; ìibrum jum de anima, cod. della Biblioteca Universitaria di Padova, n. 1264, lez. VII, p. 272). Più grave è il giudizio che sul Nifo pronunzia Giulio Castellani, 0. e, i. iv, perché non riguarda 1' incapacità del Suessano a intender Simplicio, ma investe tutta intera la sua personalità di pensatore: « Augustinus etiam Sues- sanus, vir magis sua aetate Celebris quam constans philosophus, longis- simis verbis nec semel eandem causam egit Cuius quidem viri scripta ut non contempsi, ita etiam nunquam valde probavi ». 53 Genua, I, ad t. e. 16, f. 25, i. 54 Genua, II, ad t. e. 11, f. 37, 2. 390 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI ut intelligentia est, perfectione aliqua distet, et discatur se ipsa progrediens, ut Siniplicius et ipse innuit in prologo huius 55. Fuit sententia Averrois quod intellectus possibilis per assi- stentiam eo modo uniretur homini, quomodo intelligentia unitur orbi, unione scilicet naturali; quae quidem in priori natura est principium intrinsecum assistens 5^. L' insistenza su questo concetto che l'unione dell' intelletto all'uomo è analoga a quella dell' intelligenza motrice alla sua sfera, più intima dell'unione del nocchiero con la nave, deriva dalla distinzione fatta da Averroè57 e da Sigieri di Brabante5S, ed accolta anche da Enrico Bate da Malines59, nello Speculuni divinonim et quorumdam naturalium opera che Pico della Mi- randola il 6 marzo 1487 otteneva in prestito dalla Biblioteca Vaticana e ne faceva poi trarre la copia che figura nella sua biblioteca 60. Vi sono forme, dicevano Averroè e Sigieri, che costituiscono gli esseri materiali e son costituite dalla materia nella quale sono immerse, e ve ne sono di quelle che costi- tuiscono ma in sé non sono costituite. Di questa seconda specie sono appunto le intelligenze motrici dei cieli e l' intel- letto umano. A siffatta distinzione si appiglia anche il Genua: Notanda est distinctio de forma: quaedam dicitur forma quia dat esse specifìcum; dicitur etiam forma quae assistit formato, et est in formato intrinsecum principium operationis; et tale non distinguitur a corpore loco et subiecto.... Vel, secundum Averroem, dicendum: datur forma constituta in esse per su- biectum, et datur non constituta, primo cap. De substantia orbis, octavo Physicorum, 52, primo Physicorum, 63. Intellectiva est non constituta. Sed dubium est, utrum subiectum constituatur per ipsam. Dicendum quod non unitur corpori secundum esse specifìcum, sed illi dat esse nobile ^i. 55 Genua, III, ad t. e. 2, f. 128, 2. 56 Genua, III, ad t. e. 2, f. 132, 4. 57 AvERR., De substantia orbis cuni Joannis Gandavensis exposi- tione. Venetiis, ap. haeredem Hier. Scoti. MDLXXXVIII. Cap. I, f. 83, 1-2; cfr. dello stesso Averr., De coelo, II, comm. 3; Phys., I, comm. 63, Vili, comm. 52. 5^ Cfr. B. Nardi, Sig. di Brab. nel pens. del Rinasc, pp. 15, 41, 100-102. 59 Ib., pp. 175-177. ^° Pearl Kibre, The library of Pico d. Mirandola, cit., p. 200, n. 603; G. Mercati, Codici latini Pico Grimani Pio. Città del Vaticano, 1938, P- 53. nota 4; Maria Bertòla, I due primi registri di prestito della Bi- blioteca Apostolica Vaticana. Codici latini 3964 e 3966. Città del Vaticano, 1942, p. 80, nota 2. 61 Genua, 0. e, III, ad t. e. 2, f. 132, 3. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 391 Sciendum quod ex eo quod Socrates dicitur compositum ex cor- pore et anima, cogitativa non dicitur formaliter intelligere; sed ut fit unum ex intellectu et tali composito. Nam intellectus, ut incorporeus, loco et subiecto a Socrate cogitante distinctus non est, cum naturaliter inclinetur et moveatur ad similitudiiiem rei cognoscendae ex speciebus existentibus in anima cogitativa: et sic est intrinsecum operans et homini appropriatum^^; quare ubi cogitativa ibi intellectus humanus, et e converso ^3. Non se- quitur: « itaque per accidens » [che era l'obiezione del Nifo d'ac- cordo con S. Tommaso]; et quamvis sit extra formam specificam [che è la cogitativa], habet tamen ad illam a natura essentialem habitudinem, quam habet et intelligentia ad orbem 64. Questo intelletto, considerato in se stesso, non può essere che uno solo per tutta la specie umana, secondo il pensiero d'Averroè, d'accordo in questo con tutti i commentatori greci, fatta eccezione d'Alessandro. E con Averroè è d'accordo anche Simplicio : Eandem sententiam voluit Simplicius in prologo huius tertii, cum dicat: « Una enim existit anima nostra rationalis; dico quae simul manet, et plurificatur in eo quod ad corpus vergit, non pure manens neque penitus distans, sed partim manens, partim a se ipsa progressa «65. Affermata l'unità dell' intelletto, sembra al Genua d'aver trovato nel concetto neoplatonico della « progressione », sul quale tante volte Simplicio ritorna, la soluzione del più arduo problema averroistico, come l' intelletto, unico in sé, s' indi- vidualizzi nel singolo, senza perdere la sua universalità: 62 Questa tipica frase è di Sigieri, Quaestiones de anima intellectiva, III (ed. Mandonnet, Siger de Brabant et l'averroisme latin au XlIIe siede, lime partie. Louvain, 1908, pp. 154-156). Dallo scritto di Sigieri l'aveva presa e fatta sua Giovanni di Jandun, Super lihros Arist. de anima, III, q. 5. 63 Anche questo concetto è attribuito dal Nifo, De intellectu, l, tr. 3, •e. 18, a Sigieri: «Et addit (Subgerius, contemporaneus Thome, in quodam tractatu misso Thome in responsione ad illum Thome): ,, nec potest intellectus informare materiam, non informante cogitativa.... Nec potest cogitativa informare materiam, non informante intellectu " ». •Cfr. B. Nardi, Sigieri di Brah., cit., p. 18. 64 Genua, III, ad t. e. 5, f. 138, 3. 65 Genua, III, ad t. e. 5, f. 139, 3; cfr. Simplicio, In libros Arist. de anima, ed. Hayduck, pp. 223, 28-31; Jac. Zabarella, De mente Jiumana (inserito nel commento dello stesso autore al De anima, Pa- dova, 1605, lib. II, dopo il t. e. Il), e. IO. 392 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Dicendum itaque secundum divinam Simplicii introductionem, quod cum intellectus, qui a propria perfectione elapsus est, ad sensus conversus sit, ncque formas illas intellectuales habet ut ma- nens, susceptivus tamen illarum esse dicitur; non autem ut potentia talis; quare per species a sensibus acceptas quodammodo dispo- situs et habitu redditus talis; nam species tales sunt veluti extrema vestigia formarum illarum, quae vere sunt intellectuales. Quare ab istis aliquo modo ascendens, excitatus ad inquisitionem ve- rarum formarum, ab ea substantia animae quae manet, sive virtute counitus, perficitur denique per eas quae in ipso manent formas, atque ab unita sibi intellectione. Hoc autem fìt partim aliunde, imo ab alteris manentibus; partim a seipso; quoniam unus quodam modo est ipse, qui manet et progreditur. At per- fectio quae est in ipso egresso, non est eadem cum ea quae in ipso manet; sed secundum habitum dicitur; habitus autem est circa substantiam, non autem substantia est ^6. Quapropter notandum, ex divina Simplicii expositione, quod anima quae progreditur ad secundas vitas ^7, non manet penitus ab illis separata, sed connectitur illis; et sic habitui et lumini assimilatur ; et prius arti 68.... Comparatur intellectus arti, habitui et lumini. Sicut ars suas in se virtute formas arte illa factorum tenet, easdem in materia disposita producit; sic et activus in- tellectus quas in se tenet ideas, quae formae materiales sunt vir- tute, in passivum intellectum formaliter cum materia atque accidentibus illam consequentibus in communi producit, simul agens cum ideis et progrediendo perfìciens ad has secundas vitas. Comparatur etiam habitui, quia manens intellectus ille, ideis, veluti habitui cuidam perfectissimo, similis est; secundum quem sensum forte nominavit Themistius speculativum intellectum aeternum. Comparatur et lumini, ut, sicuti lumen colores in tenebris existentes, eaque ratione invisibiles, actu visibiles reddit, et visum illustrat ut videat, sic et activus intellectus progressas ideas, cum intellectu latitantes, illustrat simul et intelligibiles reddit.... Postremo concludit Simplicius quod similitudo stat in hoc: ut lux actu existentes colores, potentia tamen visibiles, reddit actu visibiles, sic et qui actu formas perfìcit, quae passivo intellectui cognoscibiles sunt, ita ut non dicatur potentia in in- tellectu formas illas esse, ut nullo modo sint, sed tanquam exi- stentia quidem, non cognita autem 69. 66 Genua, III, ad t. e. 8, f. 144, 3. 67 AeuTsrpaL ^wai chiama Simplicio fp. 4, 2; 28, 27; 142, 2) la (puTix-f] e la aìo-9-/]Tixy] ^w/), che chiama pure C^ocl csoyLocuoeiSzTq (p. 218, 34; 243, 17) o anche ^toat àzoipiaTOi (p. 16, 5; 77, 19; 78, 32), in contrap- posizione coll'anima e la vita razionale (XoyixT] e voepà ^cor)). 68 Simplicio, p. 242, 20 sgg. 69 Genua, III, ad t. e. 18, f. 155, 3; cfr. Simplicio, p. 242, 39 sgg.; 311, 18-21. Si veda, indietro (p. 374), l'ottava delle « concliisiones » di Pico della Mirandola « secundum Simplicium ». IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 393 In questa irpò? tò acojxa poizTj, r intelletto puro che porta con sé r immagine del mondo ideale, s' individualizza al contatto delle « seconde vite corporee «, cioè della vita vegetativa e sensitiva. Ma in questo individualizzarsi perde gran parte della sua originaria perfezione, offuscato dalla caligine dei sensi. Nella sua purità esso è pensiero in atto congiunto colla « mente al di sopra dell'anima », e il pensare è la sua stessa sostanza, sì che non pensa « ora sì ora no », ma è pensiero eterno, come quello della mente di cui partecipa. Al contatto invece delle « seconde vite corporee », diventa intelletto po- tenziale o passivo, né può ridestarsi dal torpore in cui è caduto se non è aiutato dai fantasmi della sensibilità. Quindi il pro- cesso conoscitivo è un'ascesa che comincia aristotelicamente dai sensi, ma si compie platonicamente colla liberazione dalla sensibilità e col ritorno alla contemplazione del mondo intelligibile. Nel qual ritorno alla conoscenza dei puri intelli- gibih, separati da ogni rapporto colla materia, senza alcun bisogno di sensibili immagini, consiste, sì per gli averroisti come pei platonici, la suprema perfezione e la beatitudine dell' intelligenza. In tal modo il Genua, come prima di lui il Pico, ritrovava nell'averroismo i fondamentali motivi del platonismo, e preparava la risoluzione di quello, ormai vi- cino al tramonto, in questo che risorgeva esuberante di nuova vitalità. Il commento del Genua al terzo libro del De anima si chiude con una lunga e nutrita discussione intorno a quella che può ben dirsi la questione filosofica più dibattuta nel secolo XVI, concernente l' immortalità dell'anima. La storia di questa grande controversia ci è narrata, quanto alle sue origini e ai suoi primi sviluppi, da Francesco Fiorentino nel suo libro su Pietro Pomponazzi, e dal Padre M. H. Laurent nella dotta introduzione alla ristampa del commento del Cardinal Gae- tano al De anima d'Aristotele. Ma è una storia incompleta, poiché ne restano esclusi troppi di coloro che presero parte alla polemica, la quale in certi momenti assunse toni altamente patetici. Il Genua, per esempio, rimase totalmente scono- sciuto al Fiorentino, che, incappato una volta nel nome di questo filosofo, mostra di non sapere neppure chi fosse. Ora la discussione che il Genua intraprende dello scabroso argomento è una delle più animate e sottili. Tanto nella reda- zione stampata nel 1576, cui precede la stampa isolata che di 394 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI questa disputatio preparò nel 1565 Antonio Berga, quanto nelle due redazioni manoscritte della Biblioteca Vaticana, essa è una serrata critica della tesi alessandrista del Pompo- nazzi, alla quale il Genua oppone la dottrina di Temistio, di Simplicio e d'Averroè. Secondo questi filosofi i quali preten- dono di derivare il loro pensiero da Teofrasto, discepolo im- mediato d'Aristotele, l' intelletto umano è immortale ed eterno nella propria sostanza, in quanto esso è unico ed eterna- mente unito alla specie umana che parimente è eterna; esso si corrompe, invece, e muore accidentalmente nelle sue indi- vidualizzazioni contingenti, cioè in quanto unito a questo o a queir individuo particolare. In questo il Genua si è scostato dalla via battuta da Pico della Mirandola; il quale, nelle « conclusiones secundum Avenroem », pur ammettendo una sola anima intellettiva in tutti gli uomini, affermava esser possibile che l'anima di ciascun individuo sopravviva alla morte in quello che essa ha d' individuale 7". 4. - Discepolo e ammiratore di Marc'Antonio Genua a Padova era il padovano Giovanni Pascolo o Fasolo, professore di umane lettere in quella università dal 1545 al 1571, nel quale anno venne a morte. L'entusiasmo suscitato in lui dalle lezioni del Genua, seguite per diversi anni, lo invogliò a cimentarsi colla traduzione del commento di Simplicio al De anima, da che non tutti erano in grado di leggerlo corrente- mente nella lingua originale. La traduzione del Fasolo fu pubblicata a Venezia nel 1543, ed era dedicata a Cristoforo da Madruzzo, vescovo principe di Trento 7'. 70 Cfr. quanto abbiamo detto sopra, pp. 376-77. 71 SiMPLicii, Commentarii in libros de aiiinia Aristoielis, quos IoANNES Faseolus patavinus ex graecis latinos fecit, atque illustrissimo et optimo Tridenti Episcopo ac Principi Christophoro de Madrucio dica- vit. Accesserunt autem et tres eiusdem Faseoli epistolae. Quarum prima imperitos inelegantesque latinos interpretes deserendos admonet. Altera vero arabes quoque relinquendos probat. At tertia ad bonas literas probatissimosque authores praeclara ingenia, ornatissimi viri Ioannis Baptistae Campegii Episcopi Maioricensis exemplo, hortatur. Venetiis, apud Octavianum Scotum, 1543. Un decennio più tardi usci la traduzione di Evangelista Longo: Commentarla Simplicii, profun- dissimi et acutissimi philosophi, in tres libros de anima Aristotelis, de graeca lingua in latinam nuperrime translata, Evangelista Lungo AsuLANO interprete. Advertat tamen Lector interpretem multa quae in IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 395 Educato al gusto delle buone lettere, il traduttore di Sim- plicio non nasconde la sua ripugnanza per il gergo barbarico degli scotisti, dei tomisti e degli averroisti, dei quali sa d'at- tirarsi contro le ire: Aderunt enim iniquo iratoque in me animo et iuniores et se- niores istorum temporum philosophi, magnaeque in primis ac pertinaces eorum qui aut Ioannem illum Scotum aut Divum Thomam sequuntur catervae. Quorum nonnullos, ob imperitos inelegantesque latinos interpretes eorumque duces a me reprehen- sos, mihi infensos novi. Alii vero existunt, qui rrieum illud Arabum deserendorum consilium nulla ratione pati quaeunt. At cum ma- gnam partem politiorum literarum penitus ignari sint, qua animi aequitate meas ad bonas Htera§ cohortationes suscepturos pu- tandum est ? Malunt etenim hi, quod commune semper vitium fuit, quae callent didicisse, quam, ea dediscendo, alia sibi nunc, exacta iam aetate, discenda proponere. Infantiamque atque imperitiam suam ita amant, ut neminem nisi in Illa sua facce atque infelicitate doctum futurum existiment 7-. E nella lettera indirizzata « bonarum literarum studiosis », che segue subito dopo la dedica, esorta a liberarsi dai commenti latini d'Aristotele e di ritornare a quelli greci, specialmente di Simplicio e di Temistio: Interpretati igitur Aristotelis libros sunt Albertus, Egidius, Burleus, Suessanus horumque consimiles non pauci. In quorum interpretationibus, ut cuilibet notum esse potest, illud eorum vi- detur propositum, ut omnem orationis ornatum atque adeo puram ac integram latinitatem despiciant, et se rerum solum explana- tores profiteantur. In quibus tamen ii plerumque sunt, qui adeo ab illius philosophi mente et intelligentia aberrent, ut alia omnia noverint, praeter ea quae is declarare voluerit. Quod ibi locorum praesertim iis accidit, ubi malora, praestantiora ac diviniora traduntur. De mentis nostrae immortalitate quo- tusquisque ex his existit qui nostrum Aristotelem non longe secus ac senserit, sensisse dicat ? Consulamus Simplicium, consulamus Themistium: quam apud eos omnia certa ac perspicua sunt, intelligemus. Sed quid unum vobis locum cito ? Sexcenti alii sunt, in quibus se nullam Aristotelis sensorum cognitionem adeptos prima translatione bene fuerant versa in linguam latinam, in suam traduxisse, ut sciant omnes hunc non livore, sed veritatis amore, er- roribus compluribus authorem expurgasse, id quod omnes aequi boni- que consulant. Venetiis, apud Hier. Scotum. MDLIII. In sostanza l'Asolano viene a dire che la sua è una revisione e un emendamento della traduzione del Fasolo. 7- Dedica al Madruzzo. 396 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI praeseferunt. Quare, si quae omnibus in promptu sunt, tantum ii assequi videntur, quae vero obscuritatis aliquid habent lumenque desiderant, hos omnino fugiunt. Graecique contra nihil non rectis- sime atque verissime explicant. Cur hos neglectos, in illisque operam nostrani consumptam malumus ? Un documento di primo ordine è poi la lettera che il Fasolo pone in testa alla traduzione del secondo libro 73 e che vai la pena di riferire per intero. Da otto anni egli seguiva le lezioni del Genua sulla filosofia naturale e per ben tre volte lo aveva udito esporre i libri De anima, mostrando il perfetto accordo tra Simplicio e Averroè nell' interpretazione del pensiero dello Stagirita. Rivolgendosi ora ai suoi condiscepoli i quali, al par di lui, avevano appreso dalla viva voce del Genua che Averroè aveva attinto la sua dottrina al commento di Simplicio, faceva loro notare che, pur riconoscendo l'accordo quanto al pen- siero, il linguaggio del greco era piano e passabilmente ele- gante, quello invece dell'arabo era ispido, barbarico e pieno di dubbiezze. A che prò' allora continuare a logorarsi sugli scritti di Averroè, se tutto quello che di buono è nel suo com- mento, si trova con minor fatica e maggior diletto nell'espo- sizione di Simplicio ? Ma ecco il testo della lettera: Studiosioribus praestantissimi philosophi ac peripateticorum principis M. Antonii Passeri auditoribus Ioannes Faseolus S.P.D. Secundi huiusce libri initium praeclaram mihi occasionem praebere videtur, ut quaedam vobiscum, optimi condiscipuli, agata. De quibus licet separatim cum aliquibus persaepe locutus sim, attamen, quoniam nunquam antehac huiusmodi oblata mihi fuit facultas, eam nunc non praetermittam. Ad octavi namque iam anni finem ventum est, ex quo prae- stantissimum philosophum ac his temporibus peripateticorum principem M. Antonium Passerum audiens, naturali scientiae operam do. Unde et Naturali s auditionis et horuin De anima librorum expositionem ter ab eo accepi. Quae eam sane ob causam commeinorare vohii, quo quae de huiusmodi rebus a. me dicentur, ab eo dici perspicere possitis, qui et quae loquatur noverit, et quae cognoscat vere narrare possit. Multi nainque cum sint Aristotelis interpretes, attamen duos ubique fere locorum a clarissimo Doctore nostro aliis anteponi animadverti. Quod haud ob id sane ab eo factum fuit quod alieni 73 Fol. 35V. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 397 addictus esset; sed quia, veritati servieiis, hos rectius in Ari- stotelis obscuris abditisque sententiis sensisse cognorit. Quorum alter ille est, quem vix ob nonnullorum fastidium sine praefatione nominare audeo. Arabem autem illum significo, quem Averroem vocant. Qui licet, si verba spectare velimus, obscurus, ieiunus, incultus, horridus atque omnino barbarus dici possit, attamen is persaepe est, sine quo vix ad veram Ari- stotelicorum sensorum cognitionem pervenire queamus. Alter vero hic est, quem media in Graecia natum mea nunc opera latine loqui videtis. De cuius scribendi ratione illud tantum dicam, quod ut et philosophus et interpres absque ulla dubita- tione scripsit. Quapropter nihil sane mirum cuiquam videri debet, si dum res difficillimas, ab hominumque notitia remotas, investigat, in linguae elegantia atque nitore haud omnino occupatus est. Licet ncque hunc eam ob causam esse concedam, qui hac in re ullum subeat reprehensionis genus. Caeterum, si res ipsas rerum- que notitiam tibi proponas, Dii boni, qui quantusque erit ? Is namque est, qui vere Aristotelis scripta exponat, qui quae vir ille acutissimus noverit videat, qui omnem antiquorum vel Platonicorum vel Pythagoraeorum disciplinam teneat, qui eos defendere valeat, cuiusque denique opera non pauci Aristotelis libri, hique in primis, a nobis intelligi possint. Quare iam illud vobis persuasum esse debet, nullum esse, qui, praeter hunc, in manibus habendus sit. Alii namque omnes (Themistio tamen excepto, quem non in interpretum sed in auto- rum excellentiorum potius numero, propter divinam brevem atque absolutam illam complectendi rationem, colloco) duobus his, de quibus mentio facta fuit, cedunt. Verum et Inter hos ita sese res habet, ut quicquid boni, in his praesertim De anima libris, Arabs ille dixerit, de hoc sumpserit. Si quid vero rarum atque novum nec satis cui adhaereatur dignum adduxerit, illud suum sit. Quam sane ob rem, quo ii pacto, qui ibi tempus conterent, se praeterea excusandos putent non video; cum iam eum, per quem ille recte dicit, habeant, et ita habeant ut nihil purum atque syncerum nisi elegans ac nitidum in eo reperiri possit. Ibi autem omnia horride atque barbare scripta; nonnullaque haud recte, cum in philosophia tum in Aristotelicarum sententiarum expo- sitione, extent inventa. Huc itaque, optimi mihique carissimi adulescentes, huc spectate, huc mentem illam vestram atque ingenii acumen di- rigite; alios omnes negligite; Simplicium unum vobis die noctuque versandum proponite. Vobis iam dux praestantissimus ipse noster Doctor M. Antonius exsistit; vobis hunc tradit, vobis commendat, vobis in caelum laudibus effert. Quicquid Averroi hactenus tri- buit, eam ob causam fecit, quia vos hoc carere videbat. Quo namque uti non possis, licet habeas, attamen sine eo esse videris. At is nunc Faseoli vestri opera latinus factus est, et ita factus ut perpauci forsan antehac Aristotelis interpretes ita facti sint. Quare et in hoc vestram omnem operam collocate, et illum iam de manibus deponite. 398 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Confido enini, si aliquid in hoc stndii posueritis, illud qiiam- primum eventuruin, ut tum praestantissimae ac maximae in philosophia res notae fiant, tum ita tractentur, ut priscorum, et graecorum et latinorum, splendorem referant. Quae huiusmodi nempe sunt, ut ubi ambo videris, nihil praeterea requiras. Haec itaque sunt, quae, propter incredibilem quandain meam erga vos benevolentiam, mihi hoc loco vobiscum commentari visuin est. Verum, ne longior iam sim, ad rem ipsam accedo. Vos quo soletis studio bonis literis incumbite meque amate. Come si vede, questo del Fasolo è un appello, rivolto in nome del buon gusto, agli studiosi, perché vogliano cessare di lambiccarsi il cervello sulle irte pagine del commento aver- roistico, per dedicarsi alla lettura di Simplicio e di Temistio. Ciò equivaleva a disfarsi d' Averroè per Simplicio ; o più esatta- mente a liquidare l'averroismo, convogliandolo nel grande lìume reale del platonismo. Su questo motivo l'umanista padovano ritorna anche nella lettera premessa alla sua traduzione del commento al terzo libro del De anima 74, e indirizzata al bolognese Gian Battista Campeggi, vescovo di Maiorca, figlio del Cardinale Lorenzo Campeggi e fratello del Cardinale Alessandro, vescovo di Bologna. Anche il Campeggi era stato a lungo discepolo del Genua e condiscepolo del Fasolo. Il 13 dicembre 1545, sarà lui ad aprire il concilio di Trento con una memorabile allo- cuzione De tuenda religione. Nella lettera indirizzatagli, il Fasolo torna a insistere sull' idea che la decadenza degli studi derivasse dall'aver posto in dimenticanza gli scrittori greci, e dall'aver preferito ad essi scrittori barbari: Plus namque apud me valet benevolentia illa qua bonarum li- terarum studiosos prosequor, quam vel Averrois vel Alberti vel Egidii vel Burlei vel Suessani vel aliorum non paucorum, de quibus me nonnunquam mentionem tacere pudet, autoritas. Da notare che nell'elenco di questi commentatori d'Aristo- tele, che egli nomina con rossore, non figura il nome dell' Aqui- nate. Tuttavia non risparmia il suo disprezzo per le « magnae,... ac pertinaces eorum qui aut Ioannem illuni Scotum aut Di- vum Thomam sequuntur catervae », come s'esprime nella 74 Fol. 78r. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL ( DE ANIMA » 399 dedica al Madruzzo. Si che non è soltanto contro Averroè ch'egli si rivolta, ma contro tutte le sopravvivenze della Scolastica nel Rinascimento. 5. - L'appello del Fascio a mettere disparte Averroè non valse ad impedire che le opere dell'arabo continuassero an- cora per oltre un cinquantennio ad essere lette e discusse, ed anzi tutto stampate e spacciate. Anche coloro che erano persuasi di quanto era andato dimostrando il Genua, non ebbero il cuore di staccarsi da Averroè, ma si contentarono di accoppiarne la lettura con quella di Simplicio. Tale è il caso di Marc'Antonio Mocenigo, patrizio veneziano, il quale nel 1559 pubblicò un elenco di ben 1334 « paradoxa » e « theo- remata » tratti dalla filosofia di Aristotele e destinati ad ar- gomento di pubbliche dispute da tenersi a Venezia e a Pa- dova 75. Nella dedica allo zio materno, Vincenzo Diedo, pa- triarca di Venezia, ci fa sapere d'essersi recato a Padova gio- vinetto e d'avervi trascorsa parte della sua adolescenza, de- dicandosi con ardore dapprima allo studio delle lettere umane, dipoi a quello della dialettica, e infine a tutte le parti della filosofia. Nelle scuole di Padova aveva seguito le lezioni dei più dotti maestri e lette molte opere, sì che a vent'anni, non ostante la malferma salute, s'era procacciato quella cultura filosofica, della quale intendeva dare un saggio, accettando la pubblica discussione su così numerosi argomenti 76. Anch'egli, dunque, è stato sicuramente allievo del Genua. Se vi fosse alcun dubbio basterebbe, a togliercelo, l'esame di questi suoi pa- radossi e teoremi. L'opera, a somiglianza delle Conchtsiones di Pico della Mirandola, o, meglio ancora, a somiglianza delle Conclusiones che un altro giovane patrizio veneziano, Vincenzo Querini, 75 Marci Antoni: Mocenici, patritii veneti, De eo qiiod est: para- doxa theoremataque ex Aristotelis philosophia depvotnpta, quae Venetiis atqiie Patavii publice disputanda proponniititr. Venetiis, apud Cominum de Tridino, Montisf errati. Anno MDLIX. 76 « Patavium multos abbine annos (fateor equidem) veni; hic omnem pene meam pueritiam, bic et quandam meae adolescentiae par- tem consumpsi, bumanioribus primo quidem hteris, postea vero diale- cticae omnibusque philosopbiae partibus operam dadi. Eruditissimos bos viros aiidivi, multos libros evolvi, et, quantum in me fuit, semper elaboravi, quo hominis quidem nomine dignus haberi possem ». 400 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI « tres et viginti annos natus », aveva sostenuto a Roma in una solenne disputa che ebbe luogo alla fine di maggio del 1502 nella chiesa dei Santi Apostoh 77, presente Pietro Bem- bo, è formata da enunciati disposti in ordine sistematico e concernenti la metafisica, la fisica, la psicologia, l'etica, la logica e l'astrologia 78. La formulazione di ogni teorema non è puramente schematica, ma fatta in modo da accennare a un principio di dimostrazione ; sì che nell' insieme l'opera del Mocenigo presenta l'aspetto di un compendio di tutta la filosofia aristotelica, disegnato dal punto di vista dell'autore. Ai fini di questa ricerca, sono sopra tutto i teoremi concer- nenti l'anima umana che attirano l'attenzione. Anzi tutto il Mocenigo, come ogni buon averroista, non manca di dichia- rare, (( quod, cum in iis quae dicturi sumus philosophi a sanctis- sima nostra lege dissentiant, nos disputandi grafia, non ex animi sententia, falsas philosophorum opiniones sustinemus))79. Riferite le varie opinioni intorno al problema se l' intelletto sia « forma dans esse homini », ne prospetta questa soluzione : Quae omnes opiniones (iudicio meo) false sunt; rectius igitur cum Plotino, Themistio atque lamblicho dicendum, intellectum non simpliciter dare esse, nec simpliciter tantum secundum ope- rationem nobis uniri; sed medio se habet modo. Dare tamen esse cum ipsis fateri possumus, formamque esse qua homo actu sit id quod sit, motorem insuper et agens; hac eadem ratione posse dici immortalem et sempiternum esse, cum hoc quod homini det esse, defendam 8°. Questo intelletto poi, secondo il pensiero dei filosofi e di Averroè, non può essere che uno solo per tutti gli uomini, 77 Conclusiones Vincenti! Quirini, patritii veneti, Romae dispu- tandae. Senza note tipografiche. Ma dopo la dedica a papa Alessandro VI e r indice dei capitoli, si ha questo titolo pivi completo Conci. Vinc. QuiR., patr. ven., Romae in Ecclesia sanctorum Apostoloriim, die XXIX Maii, hora XVIII, disputandae. Che ciò fosse accaduto il 29 maggio 1501, avevo pensato nella prima edizione di questo scritto; ma il mio amico Carlo Dionisotti, espertissimo di cose che riguardano il Bembo, dubita dell'esattezza di questa data che consiglia di protrarre d'un anno; cfr. del resto M. Sanudo, IV, col. 293. Il Querini aveva studiato per molti anni a Padova, ed aveva avuto a maestro il Nifo. Cfr. sopra, pp. 285- 7. 78 Si tratta in complesso di ben 1334 tesi, numero che, se sorpassa quello delle Conclusiones di Pico della Mirandola, è assai inferiore al numero delle Conclusiones del Guerini. 79 Mocenigo, II, n. 689. 80 Ib., n. 704. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 40I e molteplice soltanto per un rispetto molto accidentale che esso ha coi singoli: Unus hic numero est, cum multitudo individuorum sub eadem specie in aeternis reperiri nequeat. Valeant igitur ii qui ad philo- sophorum mentem sustinere coguntur (conantur ?) ipsum multi- plicatum esse: non enim secundum numerum individuorum, aut ratione specierum aut phantasmatum, sicut credit Averroes; sed simpliciter unus est, et nonnisi respectu quodam nimis acci- dentali multiplicatus esse potest. Ouae conclusio nullo alio modo, nisi secundum philosophorum et Averrois fatuitatem, quam omnino reiicimus et falsam credimus, sustineri potest ^i. Su questi due capisaldi dell'averroismo, il Mocenigo innesta, d'accordo col Genua, la teoria di SimpHcio intorno alla mente che rimane in sé e alla mente che esce fuori di sé per unirsi alla vita organica. E prima di tutto ricorre a Simplicio per risolvere il problema delle specie intelHgibili. che tanti ruscelli d'inchiostro aveva fatto versare (v. sopra, pp. 231-33 e 328). At nos cum Theophrasto atque Themistio, veris atque legi- timis Aristotelis interoretibus, qui licet philosophice non tamen vere loquuntur, dicimus mentem humanam de novo aliquid non suscipere, sed rerum omnium in se rationes habere, atque per illas de rebus iudicium tacere, sive quidem illa progressa fue- rit, quo modo nunc de ea loquimur, vel ut in se manens supre- maque entia cognoscens. Ouodammodo igitur opinionis Platonis Aristoteles extat. Dicimus id secundum philosophos dici, cum in rei veritate falsa sit, neque id credimus ^-. Quae verissima ut clareat opinio, altius quaedam repetenda erunt. Scire igitur licet intellectum nostrum, dum ad entia in duplici serie constituta refertur, duplicem quoque naturam et nomen sortiri. Cum enim ad materialia refertur progressus dicitur, cum ad immaterialia in se manens. Progressus appellatur quo- niam a sua progreditur perfectione, dum obiectum vile oppositum habet; immanens vero, cum in sua perfectione manet ex intel- lectione supernarum mentium §3. Nei testi riferiti il nome di Simplicio non è fatto, ma le pa- role e il pensiero son bene di lui. E di lui è pure la dottrina, già accolta dal Genua, che l' intelletto agente d'Aristotele altro non sia se non l' intelletto che rimane in sé, mentre l' in- 81 Ib.. n. 705- 8* Ib., n. 720. 83 Ib., n. 721. 26 402 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI telletto possibile è da identificare coli' intelletto progrediente; e che, infine, intelletto possibile ed agente non siano che aspetti di uno stesso indivisibile intelletto : « qua in re » (osserva il Mocenigo, orientato ormai verso il platonismo) « quantum fuerit allucinatus Averroes.... patebit))84. Altro discepolo del Genua fu il padovano Gian Paolo Per- numia, che abbiamo già incontrato come raccoglitore delle lezioni del maestro sul primo e il secondo libro del De anima.. Professore di filosofia e di medicina nella sua città natale, egli era morto poco prima del 1564, quando l'editore veneto Simone Galignano, per soddisfare al desiderio dei discepoli, pubblicò un volume di Terapeutica che Gian Paolo aveva la- sciato inedito nelle mani del fratello, il giureconsulto Trifone Pernumia ^5. Questi, nel permettere la pubblicazione, promet- teva, se gli otto libri della Terapeutica fossero stati bene ac- colti, di allestire la stampa di dieci altri libri « quos de modo philosophandi contra barbaras sectas ad mentem Aristotelis et graecorum composuit (Gian Paolo), ac totidem diversae materiae ». Antonio Polo, veneziano ed amico del Pernumia, ne tesse un elogio sperticato, nel quale l'elogiato è detto addi- rittura « aetatis nostrae perfectum numen », talché « facile ab omnibus elegans medicus, optimus philosophus, atque orthodoxae fidei Christianus sanctissimus et sacrae paginae 84 Ib., nn. 707-714. Il 12 aprile 1561 il Mocenigo sostituì nell'inse- gnamento della filosofia a Venezia Agostino Valier nipote del Card. Lo- dovico Navagero. Nei pochi anni che tenne la cattedra egli concepì il disegno di due grandi opere, il De mari, che pare fosse già prontlo per la stampa nel 1569, e il De iransitu hoininis ad Deiim, del quale s 00 il primo volume vide la luce a Venezia presso Bologno Zaltieri, i 569 (ma nel 1581 ne fu cambiato il frontispizio in questo: De anima eiusque in Deum raptu). La salute cagionevole e vari casi della sua vita gì' im- pedirono di condurre a termine tanto la prima che la seconda opera. Quest'ultima del resto, a giudicare dalla parte pubblicata, non fa che svolgere il pensiero dei Paradoxa, convogliando il pensiero averroi- stico in quello neoplatonico e in una mistica intellettualistica quale poteva risultare da simile intruglio di averroismo, di platonismo e di pensiero teologico cristiano. Pare che nel 1584 fosse accusato e pro- cessato « per intelligenze con Spagna ». Ma l'accusa dev'esser finita in nulla, se due anni dopo fu eletto vescovo di Ceneda (cfr. Cicosna, Iscriz. veneziane, VI, p. 622). 85 IoANNis Pauli Pernumia, Patavini philosophi ac medici etc, Therapeutica sive medendi ratio affectus omnes praeter naturam nuper in liicem edita. Venetiis, apud Simonem Galignanum de Karera. MDLXIIII. Il volume è dedicato al filosofo Lodovico Demolins de Roc- caforte, medico del duca di Savoia. Segue la prefazione dello stesso Gian Paolo Pernumia, cui tien dietro la dichiarazione del fratello Trifone. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 4O3 altissimus theologus existimari possit»^^, g con tutto ciò egli era, come filosofo, un convinto averroista alla maniera del Genua. Infatti lo stesso editore Simone Galignano nel 1570 stampò a Padova l'opera dello stesso Gian Paolo Pernumia, Philo- sophia naturalis, che è un compendio di tutti i « libri natu- rales » d'Aristotele e delle discussioni che intorno ad essi s'erano accese 87. Il quarto Ubro tratta dell'anima e delle funzioni di essa. Nel capitolo VI si parla dell'anima intellettiva in parti- colare, e vi si sostiene che l' intelletto nell'uomo è una sostanza e un'essenza realmente distinta dall'anima vegetativa e sen- sitiva, e non una facoltà dell'anima nel senso dei tomisti ^^, e che esso non dà all'uomo il suo essere specifico di uomo come forma informante, ma soltanto come forma assistente, contro il parere del Nifo, del Pomponazzi e di Scoto ^9. A quest'ul- timo, che riteneva il solo Averroè sostenitore di siffatta dot- trina, questo santissimo cristiano e altissimo teologo del Cinquecento non esita a rispondere che egli s' ingannava: Quod autem addit Scotus, solum Averroem liane fictionem imaginatum fuisse, respondendum sane est, in errore fuisse Scotum, cum Averroes hoc acceperit ab omnibus graecis, Themistio, Sim- pUcio, Ioanne Philopono, Theophrasto. Qui omnes, Alexandre excepto, voluerunt animam intellectivam assistere sicuti nautam in navi 9°. E col nome di Simplicio riappare la dottrina simpliciana dell' intelletto che permane in sé e dell' intelletto che esce fuori di sé, insieme alla tipica dottrina del conoscere, che già abbiamo incontrato nel Genua e nel Mocenigo: 86 Ib. L'elogio del Pernumia fatto dal Polo segue alla dichiarazione del fratello. 87 Io. Pauli Pernumia, Patavini, Philosophia naturalis ordine de- finito tradita, quod a nuUo hactenus factum est, cui adiectus est trac- tatorum omnium copiosissimus index. Patavii, apud Simonem GaUgna- num de Karera. MDLXX. Dedica a Giovanni Sambuco, con data da Padova del i settembre 1569. Questo tentativo del Pernumia di esporre in modo continuativo tutta la « filosofia naturale » d'Aristotele, seguendo l'ordine fissato dai libri fisici dello Stagirita, sarà imitato da Giacomo Zabarella e da Francesco Piccolomini, ed era alla sua volta un' imita- zione della Stimma naturalium di Paolo Veneto. 88 Ib., fol. ii2r-ii4V. 89 Ib., fol. 115. 90 Ib., fol. 115. 404 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Dictum illud Averrois, 12. commento primi De anima, ubi ait impossibile esse intellectum intelligere sine phantasia et non esse superficietenus intelligendum, intelligendum eo modo quo intelligitur a Simplicio, a quo illud accepit: nempe quod intel- lectiva anima in primo sui ortu et statu egressa est a se, et quo- dammodo imperfecta et possibilis, efificitur in actu etc. 91. Sequitur ut ostendamus, utrum eodem modo intelligat (in- tellectus) ut est progressus et ut est manens, an vero diverso modo. Respondendum est cum Aristotele, 26. tertii De anima, secundum expositionem Simplicii, quod diverso modo operatur ut est progressa et ut est manens ac mens... Porro dicendum intellectum possibilem esse eiusdem essentiae cum intellectu agente, ac nasci solum, ut inquit Simplicius, huiusmodi imper- fectione ob cadentiam ipsius intellectus in corpus, quia scilicet extra seipsum vergat 9^. Quare dicendum cum Simplicio, quod intellectus non perfi- citur ab bis materialibus et a phantasmatibus, sed occasione ab eis accepta convertitur ad agentem. Qui agens suo lumina illu- minat ideam progressam etc. 93. 6. - Né soltanto i discepoli del Genua si adopravano a trarre dalla loro parte Simplicio, ma anche averroisti d'altre tendenze. Uno di questi è il milanese Francesco da Vimercate, che nel 1540 Francesco I aveva chiamato a Parigi a professarvi filosofia e a commentare Aristotele nel testo greco. Nel 1543 il Vimer- cate pubbhcò a Parigi il commento a una parte del terzo libro del De anima, seguito dalla De anima rationali peripatetica disceptatio')'i. Più tardi, forse nel 1561, lasciò la Francia e passò ad insegnare a Torino, ove cessò di vivere nel 1570. Nel commento al De anima, Simplicio è citato una ventina di volte. Qualche volta è criticato, qualche altra è semplice- mente ricordato; altre volte si dichiara che è stato frainteso dal Nifo, del quale è perfino denunciata l' impudenza 95. 91 Ib., fol. ii6r. 92 Ib., fol. 118. 93 Ib., fol. I22rb. 94 Commentarii in tertium librnm Aristotelis de anima, Francisco A VicoMERCATE, Me dlolanensl, Parisiis stipendio Regio philosophiam graece profìtente, authore. Eiusdem, De anima rationali peripatetica disceptatio. Parisiis, ex officina Christiani Wecheli etc. 1543. Una se- conda edizione fu fatta a Venezia, presso l'erede di Girolamo Scoto, nel 1566. Intorno al Vimercate, cfr. Argelati, Bibl. Script. Medici., t. II, parte I, pp. 3658 sgg. 95 Cap. Ili, p. 36a (secondo l'edizione veneziana, cui mi riferisco anche nelle citazioni che seguono). IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 4O5 Più importante è la Disceptatio, sicuramente posteriore al commento e dedicata a Pietro du Chastel, vescovo di Tulle. Nella prima questione, il Vimercate, dopo aver discusso con Cicerone e col Poliziano sul significato del termine h)-zXt/ziy. e sulla retta grafia di questa parola, e dopo aver criticato la tesi di Alessandro d'Afrodisia, di S. Tommaso e dei latini che ritengono l' intelletto forma informante del corpo umano, dichiara di accettare la tesi opposta: Altera (secta) est Themistii, Simplicii, Philoponi et, inter latinos, Gandavensis, aliorumque quoruradam, qui animae defì- nitionem ab Aristotele assignatam perpendentes, .... secundum aliquas partes animarti corporis formani esse, secundum autem alias moderari tantum et assistere defenderunt. Cum enim tres animae fiumane facultates praecipuas, vegetatricem, sensitivam et intellectivam, impartitus fuerit Aristoteles..., duarum primarum, vegetatricis, inquam, et sensitivae ratione, animam corporis for- mam esse ; quod vero ad intellectum illum contemplativum spec- tat, moderatricem, quae toto corpore tamquam organo utatur, ex Aristotelis sententia asseruerunt. Quorum sane opinioni, ubi dili- genter omnia quae apud Aristotelem leguntur perpendissem, ve- ritate cogente subscribere sum coactus.... Est itaque anima intelligens, vel, ut verius loquamur, intel- lectus, corporis entelechia, hoc est perfectio, non quae esse speci- ficum eidem tribuat (nam, praeter ea quae dieta dunt, cum corpore interire oporteret, cuius oppositum ex Aristotelis sententia defen- demus), sed quae assistat tantum et intellectionem hominibus impartiatur 9^. La seconda questione della Disceptatio è dedicata all' im- mortalità dell'anima, che il Vimercate difende contro Ales- sandro d'Afrodisia e contro il Pomponazzi, dal suo punto di vista averroistico, in quanto l' intelletto è in se stesso una so- stanza separata, indipendente dal corpo, ed è capace d' in- tendere le sostanze separate: Sane intellectum nostrum ea quae a materia suapte natura abiuncta sunt intelligere, in confesso est apud Theophrastum, Themistium, Simplicium, Philoponum, Commentatore m et alios, quemadmodum ex eorum dictis luce clarius cognosci potest97. 96 Pag. 4Sb. 97 Pag. 55a. È interessante per altro sapere, che il Vimercate con- fessa (p. 5ia) d'avere un tempo seguito l' interpretazione d'Alessandro d'Afrodisia, e d'averla poi abbandonata. 406 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI L' intelletto umano è separabile dal corpo nella sua propria natura, non perché possa una volta o l'altra separarsi da questo o quel corpo ; che anzi esso è eternamente unito agi' individui della specie umana; ma perché non è forma informante, sib- bene forma semplicemente assistente, e quindi non va soggetto alle vicissitudini del corpo: Respondeo ego, cum separabilem intellectum ponimus ex Aristotelis sententia, non eo modo separabilem intelligere, ut aliquando per se absque ullo corpore constare possit; sed separa- bilem, hoc est a natura corporis non pendentem, tametsi ei semper assistat, nec cum ilio intereuntem, sed aeternum semperque ma- nentem, quamvis hic vel ille homo intereat 9^. Il nome di Simplicio torna ad essere unito a quello di coloro che con Teofrasto insegnarono l'unità dell' intelletto : Una (secta) est Theophrasti, quem imitati sunt Themistius, Simplicius, Commentator et qui eius doctrinam profitentur, quorum omnium sententia fuit, intellectum humanum unicum esse in omnibus hominibus, qui illis assisteret, perinde ac sol sive eius lumen toti mundo assistit, illumque illuminans perficit; et ob eam rem aeternum, qui non tunc incipiat cum homines nascuntur, sed ab aeternitate praeexistens omnes quotquot oriuntur appre- hendat et quodammodo complectatur effciatque ut phantasmatibus in phantasia existentibus queat contemplari, quomodo solis lumen non tunc gignitur primum, cum homo videre incipit, sed, antea praeexistens, hominem oculos primum aperientem illuminat, et quandiu oculos apertos habuerit, ut videre possit facultatem mpartitur 99. A capo dell'altra sètta sta Alessandro d'Afrodisia. Per costui r intelletto possibile è una disposizione dell'organismo, e perciò molteplice secondo il numero degli individui umani, insieme ai quali nasce e muore. Anche Algazele, tra gli arabi, e S. Tommaso, seguito da molti latini, ritengono gì' intelletti umani molteplici; tranne che costoro, a differenza dell'Afro- disio, pensano siano immortah. Esaminate le ragioni in favore dell'una e dell'altra tesi, il Vimercate trova che quelle in sostegno dell'unità sono piìi efficaci e più conformi ai principi aristotelici: 98 Pag. 55a-b. 99 Pag. 56b. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 407 Quamobrem, ut Aristotelem in eam partem inclinasse credam, quasi compellunt; tametsi hanc suam opinionem testimoniis claris et apertis palam facere noluerit, ob eam forte causam quod et vulgo vix credi potuisset et multa, quae ad mores vit^mque ci- vilem spectant, per eam aboleri pertimesceret...! Tuttavia Aristotele non potè tener celato il suo pensiero a Teofrasto. Da Teofrasto la dottrina dell'unità dell' intelletto fu palesata a Temistio: quem subsecutus est Simplicius; qui, tametsi non adeo per- spicue ut alii, unum tamen et ipse intellectum asseruit, et illum quidem aeternum, ex quo cum formis omnibus in corpore humano praeviis, videlicet cogitatrice et aliis, anima rationalis sit confecta, mviltiplicata quidem cogitatricis ratione, sed ut intellectu parti- cipans unica in omnibus existens 1°°. Il Vimercate a questo punto trae profitto dalla critica che il Cardinal Bessarione aveva fatto del tentativo di Giorgio da Trebisonda, di attribuire ad Aristotele la tesi cristiana, che l'anima intellettiva sia forma sostanziale del corpo umano, che essa dia a questo il suo essere specifico e con esso si molti- plichi, e che, pur essendo venuta all'esistenza insieme al corpo, gli sopravviva ^01. Il Bessarione, che conosceva a fondo il pensiero d'Aristotele e quello d'Averroè, aveva dimostrato che la dottrina attribuita allo Stagirita dal Trapesunzio, è, sì, dottrina particolare della nostra fede, ma non s'accorda in verun modo coi principi più certi della filosofia peripate- tica. Ed anzi tutto è impossibile, per Aristotele, che un essere sia eterno « a parte post « e non lo sia " a parte ante ». Inoltre, se le anime sono numerate coi corpi di cui son forma, siccome per Aristotele il mondo è eterno, bisognerebbe ammettere che un numero infinito di anime, per una durata infinita, è rimasto senza il proprio corpo, fino al momento che questo non è venuto all'esistenza; oppure dovremmo pensare che ciascuna anima s' è unita successivamente a un numero infinito di corpi, passando da uno all'altro, com.e insegnava Pitagora. 100 Pag. 57a-b. loi Bessarionis, In cahinmiatoreni Platonis libri IV. Textum grae- cum addita vetere versione latina primnm edidit L. Mohler. Paderbo- nae, 1927. Nelle « Ouellen und Forschungen aus dem Gebiete der Ge- schichte » della Gòrres-Gesellschaft, voi. XXII. Lib. Ili, e. 22, pp. 270 sgg. 408 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Ora tutto ciò è assurdo nella filosofia aristotelica. Ma v' è di piìi: se l'anima umana è numerata col numero dei corpi e se al disfacimento del corpo essa sopravvive immortale, siccome, la specie umana è eterna e infinito è il numero degli uomini finora apparsi sulla terra, ne segue necessariamente che debba esservi un numero di spiriti separati infinito in atto: il che Aristotele ritiene assurdo al pari di S. Tommaso. Dunque, aveva concluso il Bessarione, uno dei due: o l'intelletto, per Aristotele, è uno solo per tutti gli uomini, come vuole Averroè, oppure dobbiamo dire che le anime umane muoiano coi loro corpi, come pensa Alessandro d'Afrodisia i»-. Non mi consta che altri, prima del Vimercate, avesse ri- chiamato l'attenzione su questo vigoroso modo d'argomentare del Bessarione, il quale in questa sua maniera d' intendere Aristotele ragiona da perfetto averroista"3. E dal Bessarione il Vimercate imparava a conoscere anche il pensiero di Tommaso di Wilton o Tommaso Anglico, un altro averroista del quale è ancora troppo poco conosciuto il pensiero ^04. 102 ,( igitur alterum de his duobus dicat necesse est: aut enim unum eundenque intellectum omnibus esse, aut una cum corpore animam interire. Qua fit, ut nemo ex Aristotelis opinione possit dicere animam extingui ad corporis extinctionem et eandem post corporis corruptionem permanere» (pp. 374-375)- i°3 Attraverso la critica che il Bessarione fa della maniera d'inter- pretare la dottrina aristotelica sull'anima da parte del Trapesunzio, non è difficile accorgersi che egli colpisce anche l' interpretazione to- mistica; ed è una critica accorta, perché sostenuta da ammissioni dello stesso S. Tommaso, che il Bessarione ha l'avvedutezza di citare. 104 Intorno a Tommaso di Wilton, cfr. C. Michalschi, Le criticisme et le scepticisme dans la philosophie dii XI Ve siede, in « Bulletin internat. de l'Academie Polonaise des Sciences et des Lettres », 1923, Classe d' hi- stoire et de philosophie, pp. 49-52; Id., La lutte pour l'àme à Oxford et à Paris au XI Ve siede, in « Proceedings of the seventh intern. Congress of Philosophy ». Oxford, 1931, pp. 508-515; B. Nardi, Sigieri di Brab. nel pens., pp. 102-105. La dottrina del Wilton sull'intelletto umano ci era nota, fino a poco tempo addietro, soltanto da una testimonianza di Gio- vanni di Baconthorpe (In II sent., dist. 19, a. 2), riferita e parafrasata dal Nifo (De anima, III, comm. ad t. 5) e da altri. Ora si conoscono di Tommaso Anglico anche alcune quaestiones del Quodlibet parzial- mente conservato nel Codice Borghesiano latino n. 36. Ma la quaestio riguardante l'anima intellettiva, insieme ad altre elencate nella tabula, è mancante. Tuttavia nella quaestio intorno all'eternità del mondo, ri- spondendo all'obiezione tratta dal numero infinito delle anime, il Wil- ton risponde (f ol. yóvb) : « Ad aliud de infinitate animarum : non valet quantum ad intentionem Aristotelis; nam, ut alias probavi, in quaestio- ne qua quaeritur, utrum probari potest evidenter, quod intellectiva sit actus corporis, non fuit de mente Philosophi, quod anima incipiat et cum hoc sit incorruptibilis ex parte post; huius enim contrarium prò- IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 4O9 L'ultimo argomento trattato dal milanese nella sua Di- sceptatio è quello dell' intelletto agente, intorno al quale gli stessi paripatetici non sono d'accordo tra loro. Sì che, mentre l'Afrodisio ritiene che intelletto agente-delie nostre anime sia Dio, seguito in questo da Alessandro Achillini, che pure si professava averroista e questa tesi attribuiva al Commen- tatore di Cordova 105, altri, come Filopono e S. Tommaso, pensano che l'intelletto agente sia una facoltà o una parte dell'anima umana. Dagli uni e dagli altri dissentono Teofrasto e Temistio, i quali ritengono che l' intelletto agente è parte dell'anima razionale, ma nello stesso tempo è unico in tutti bat ex intentione, primo Caeli et mundi. Et credo quod opinio sua de intellectiva sit illa quam Commentator sibi imponit, sicut dixi in illa quaestione praedicta. Et sic argumentum de infìnitate animarum non valet centra Philosophum, cuna [/. nisi] vellemus facere Aristotelem om- nino catholicum, et dicere quod de mente sua sit quod animae numeren- tur ad numerationem corporum, et cum hoc maneant semper ex parte post » (debbo alla cortesia della Dott. Anneliese Maier la segnalazione di questo passo). La quaestio cui allude il Wilton, potrebbe essere quella contenuta nel Codice n. 63 (fol. 52r-54a) del Balliol College di Oxford, « An intellectivam esse formam corporis possit ratione necessaria pro- bari et convinci evidenter », che l'amico prof. Lorenzo Minio - Paluello ha assunto l'eroica fatica di trascrivermi. Purtroppo questa quaestio, che doveva essere molto lunga, nel codice di Oxford è incompleta e non va oltre la parte espositiva del pensiero di Averroè. Ma quale doveva esserne la conclusione, oltre che dalla testimonianza del Baconthorpe e dal passo del cod. Borgh. 36, si rileva da questa esplicita citazione del Bessarione (1. e.) : « Thomas vero Anglicus in ea quaestione, quam de intellectu scribit: ,, Arbitror, inquit, Aristotelem et Averroem eiusdem fuisse opinionis et, quod ad primum articulum pertinet, eam sententiam Aristotelis esse, ut intellectus incorruptibilis quidem sit. Sed cum omne incorruptibile sit ingenerabile, iudicio eiusdem Philosophi, sequitur ut aeternus sit tam parte ante quam parte post. Quod autem ad secundum pertinet, licet nec Aristoteles nec Commentator posuerit individua in ge- nere substantiae distingui sub eadem specie per quantitatem aut per aliquid exterius, sed per interius, tamen multitudinem individuorum speciei eiusdem in corruptibilibus tantum posuerunt, quoniam natura speciei servari in uno individuo non potest. Quam ob rem, ubi tota species in uno aliquo servari posse videbatur, frustra poni eiusdem spe- ciei individua putaverunt, nec adiici oportere conditiones individuales speciei arbitrati sunt. Itaque in formis carentibus materia nec suo esse dependentibus ex materia singula individua singulis speciebus posue- runt, ut duodecimo Metaphysicae [t. e. 49 = e. 8, io74a 23] constat " ». Una importante serie di Quaestiones di T. di Wilton sul De anima è nel cod. 91 del BalHol College di Oxford; ma mancano proprio quelle sul terzo libro. La Dott. A. Maier, Wilhelm von Alnwicks Bologneser Quaestionen gegen den Averroismus (in Gregorianum, XXX, I949. PP- 265-308), ha recato un notevole contributo alla ricostruzione del pen- siero wiltoniano. 105 Cfr. sopra, pp. 210 sgg. 4IO l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI gli uomini ed eterno. Dello stesso avviso pensa il Vimercate fosse anche Simplicio : Hanc vero opinionem Simplicius quoque sequutus fuisse vide- tur, qui agentem intellectum nominavit substantialem animae ra- tionalis intellectum, abiunctum et ab ea participatum, cuius unita- tem licet nuUibi expresserit, cum tamen participatum eum vocat, quidpiam quod a multis participetur, unum et idem existens, indicare se ostendit. Commentator quoque eiusdem sententiae extitit, quemadmodum a Gandavensi, in suis de (hac) materia disceptationibus, fuit ostensum confirmatumque.... Huic opinioni atque sententiae ego quoque subscribo ^°^. Alla Peripatetica disceptatio del Vimercate ha largamente attinto, traducendone intere pagine, l'averroista veneziano Rinaldo Odoni, cognato del celebre umanista Paolo Manuzio e zio materno di Aldo il giovane i»?. L'Odoni, che, studente a Perugia, era stato accolto al seguito di Don Flavio Orsini, a dimostrargli il suo attaccamento e nello stesso tempo per offrirgli una primizia delle sue fatiche, dedicò al suo protet- tore, nel 1557, il Discorso per via peripatetica, ove si dimostra se l'anima, secondo Aristotele, è mortale 0 immortale ^°^ , nella spe- ranza forse che il plagio d'un'opera stampata a Venezia sarebbe passato inosservato in Francia. Le citazioni per tanto che di Simplicio accade di trovare nel Discorso dell' Odoni, come pure il riferimento al Cardinal Bessarione e a Tommaso Anglico, sono di seconda mano. Plagio invece non può dirsi la Peripatetica sententia de mentis humanae unitale che il lucchese Simone Simoni intro- duce ne' suoi Antis chegkiana, sebbene sia evidente la sua di- pendenza dal Vimercate, ritenuto da lui « nostri temporis philosophorum omnium princeps ». Come il Vimercate, anche il Simoni si fa forte dell'autorità del Bessarione e di Tommaso di Wilton; ma al nome di Simplicio aggiunge quello di Pri- sciano Lido, e a quello dell' inglese i nomi di Marc' Antonio 106 VicoMERCATi, Perip. discept., p. óaa. 107 Em. Ant. Cicogna, Delle iscrizioni veneziane raccolte e ilhistrate, voi. Ili, Venezia, 1834, pp. 436-437. 108 In Venezia, MDLVII. Edizione Aldina. Nel 1560 ne fu fatta una riproduzione esattamente uguale. Nel 1558, ne usci a Parigi una tradu- zione latina ad opera di Giacomo Charpentier, il quale la ricorda nello scritto Plafonis cum Aristotele in universa philosophia comparafio, Pari- siis, 1573, Pars posterior, e. 18, p. 45. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL «DE ANIMA» 4II Genua e di Francesco Piccolomini, del quale ultimo fu disce- polo a Padova "9: Unicae huic sphaerae humanae quae menti subiicitur, quamvis in multos et innumerabiles homines dispartitae, mens una humana coniungitur ut entelechia (non tamen informans, ut Alexander voluit) assistitque: coniungitur, inquam, ut organo suo artifex quo utitur, maiori tamen coniunctione atque efficacitate.... quam nauta navi coniungatur; ita ut quamvis intelligere nos extime- mus, quia coniuncti hoc modo sumus menti quae intelligit, non tamen inde sequatur navim etiam nautae intelligentiae coniunctam (quod Suessanus obiicit) esse intellecturam. Penetrat enim omnia vis et substantia incorporea spiritualis, qualis nauta non est. Finge (ut Themistii exemplo utar) excussorem in aere aut in ferro esse, non extrinsecus, sed intrinsecus: nonne pervadet pe- netrabitque materiam universam ? Coniungitur item statim ab ortu, non tanquam ex aliquo veniens, ut censuit (referente The- mistio) Theophrastus ; sed ut in suo collata orbe hominibus orien- tibus illieo adsit, et proportionem quandam sui, absque tamen uUa diminutione, impartiatur ; non tunc incipiens cum nascuntur homines, sed ab aeternitate praeexistens, omnes quotquot oriuntur apprehendens atque complectens. Sic solem dicimus nascentem omnibus adesse lumenque tribuere illustrandoque singula per- ficere; quod tamen lumen solis non tunc gignitur primum, cum videre homo incipit, sed praeexistens homines primum oculos aperientes illustrat, et, quandiu apertos eos habuerint, facultatem videndi iisdem impartitur.... Hanc de mente humana sententiam exposuerunt interpretes Aristotelis celebriores, quamquam, ut obscure ista variis in locis proponunt, ita etiam non parum in aliquibus ad naturam mentis pertinentibus inter se dissentire videntur.... Nec solus Averroes et graeci quidam (ut ait Schegkius) sensum Aristotelis in hunc modum sunt interpretati, sed omnes uno Alexandro excepto; 109 Simonis Simonii, Lucensis, Medici et Philosophi doctiss. et Pro- fessoris Lipsiensis, Anfischegkianorum liber untts correctits et ancfus etc. Basileae, MDLXXI, pp. 123-126. Nella dedica del commento In libros Aristotelis de sensuum instrumentis et de his quae sub sensum cadunt, e del De memoria et reminiscentia, Ginevra, 1566, al principe elettore palatino Federico, il Simoni stesso e' informa d'essersi addottorato a Padova, dopo avervi studiato per un triennio sotto Francesco Pic- colomini, del quale diremo più oltre. Quivi egli ci dà altre notizie sulla sua fuga a Ginevra, ed altre ancora negli Antischegkiana, e segnata- mente sulla sua andata a Parigi e in Germania e sulle polemiche avute coi calvinisti e i luterani, la cui intransigenza teologica dovette fargli rimpiangere la libertà di ciii godevano in Italia gli averroisti anche nei primi anni della Controriforma. Su di lui, vedasi anche Arturo Pascal, Da Lucca a Ginevra, in « Riv. Stor. Ital. », LI, 1934, pp. 482-498, e D. Cantimori, Un italiano contemporaneo di Bruno a Lipsia, in « Studi Germanici », III, 445-466. 412 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI qui in aliquibus etiam locis quam sibi, quod ad hoc argumentum attinet, parum constet, neminem esse puto qui non animadver- terit. Theophrastus idem hac de re docuit quod Averroes.... Philoponus, Themistius, Simplicius, Priscianus Lydus, Plutar- chus, Avicenna; ex iatinis autem prope innumerabiles, ut Achil- linus, Ziniara, landunus, Bessarion cardinalis, Thomas Anglus, Marcus Antonius lanua, Franciscus Carokis Piccolomineus, Antonius Mirandolanus, Franciscus Vicomercatus in eandem sententiam discesserunt : atque adeo ut Bessarion, doctrinae peri- pateticae studiosissimus, postquam valde laborasset, clarissimis verbis testatus sit, eos qui unicam numero esse hominum animam statuerunt nondum convinci physicis rationibus potuisse "o; et Vicomercatus, ipse quoque nostri temporis philosophorum omnium princeps, dixerit, nihil ex peripateticis principiis afferri posse, quod ex iisdem principiis facile non dissolvatur. Et in summa, nulla est res de qua philosophorum doctissimorum hodie sunt tam definitae sententiae quani de ista controversia videtur esse. Il commento di Simplicio al De anima che tale e tanta in- fluenza esercitava sulla scuola padovana, era rimasto invece sconosciuto ai bolognesi Alessandro Achillini e Tiberio Ba- cilieri, nonché a Luca Prassicio d'Aversa, il quale nel 1521 era intervenuto, già vecchio, nella polemica fra il Pompo- nazzi e il Nifo, difendendo senza vigore contro l'uno e l'altro il più rigido e intransigente averroismo "i. Ed anche Ludo- vico Boccadiferro (Buccaferreus), che dal 15 17 insegnò filo- sofia a Bologna, partitone Giovanni di Montesdoch, sino alla sua morte, nel 1545, salvo tre anni d' interruzione dal 1524 al 1527, e che ci ha lasciato un commento al De anima, stam- pato, e una Quaestio de immortalitate animae, trattata in ben undici lezioni manoscritte che ci restano in due redazioni un po' diverse (Vat. lat., cod. 4701, ff. 86V-133V, cod. 4710, ff . 204r-255r, e cod. Magliabech., Conv., Soppr., F. 51, ff. 96-147), mostra di non tenere in alcun conto l'esposizione di Simplicio, che pur cita qualche volta e discute di sfuggita. Sicché possiamo concludere, da quanto abbiamo detto, che la fortuna dell'opera di questo commentatore greco in- torno al De anima è essenzialmente legata allo studio padovano. 11° Bessar., In calumn. Platonis, III, e. 27, p. 409. m Quesito de immortalitate aniine intellective secundum mentem, Ari- stotelis a nemine verius quam, ah averroi interpretati a seculo latitans, nuperrime vero a Domino Luca Prassicio, Patricio Aversano, in cla- rissimam lucem ediicta. Napoli, 1521, 15 novembre. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 4I3 7. - Ma se il Genua e la sua scuola accolsero col più grande favore la dottrina di Simplicio intorno all' intelletto, con la venuta a Padova di nuovi professori non tardarono a mani- festarsi i dissensi, e riguardo all'attendibilità dell' interpreta- zione simpliciana della dottrina aristotelica, e riguardo alla possibilità di conciliarla con quella averroistica. Nel gennaio del 156 1 era venuto a Padova da Perugia il senese Francesco Piccolomini, come professore della prima scuola di filosofia straordinaria, ove nel 1564 ebbe per concor- rente il mantovano Federico Pendasio. Nell'ottobre del 1565, l'uno e l'altro furon dati per successori al Genua nella scuola di filosofia ordinaria"-. Averroista il Piccolomini, alessandrista moderato il Pendasio, ben tosto scoppiò fra il senese e il man- tovano un'astiosa polemica, della quale son documento le rispettive apologie pervenute manoscritte fino a noi "3. Pare fosse il Pendasio ad attaccare, accusando averroisti e simpliciani d'aver falsato Aristotele. Il Piccolomini, che si ritenne preso di mira dal collega, non mancò di reagire, tac- ciando gli alessandristi di allucinati e ignoranti. Senza che uno facesse il nome dell'altro, le allusioni da una parte e dal- l'altra semibravano abbastanza trasparenti. Ciascuno dei due, attraverso le informazioni degli alunni e i quaderni d'appunti, spiava le mosse dell'avversario; finché il Pendasio per primo. 112 Iac. Facciolati, Fasti gymiiasii Patavini, parte III, pp. 275, 279, 281. A Federico Pendasio dedica alcune pagine Francesco Fio- rentino, Pietro Pomponazzi. Studi storici sulla scuola bolognese e pa- dovana nel secolo XVI. Firenze, Le Monnier, 1868, pp. 362-383. Notizie biografiche su di lui, negli Almanacchi di L. C. Volta, presso la Bi- blioteca Comunale di Mantova, ove si conserva anche un ritratto del filosofo; negli appunti del conte Carlo d'Arco sulle famiglie mantovane, presso l'Archivio Gonzaga, nella stessa città (debbo queste notizie alla cortesia dell'amico prof. Cesare Ferrarini buon'anima, già solerte direttore di quella Biblioteca Comunale) ; e in G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bo- lognesi, t. VI, Bologna, 1788, pp. 340-342. Perl' insegnamento del Penda- sio a Bologna, si veda U. Dallari, I Rotitli dei lettori Legisti e Artisti dello Studio bolognese dal 1384 al lygg. Bologna, Regia Tipografìa, 1888- 1891, per gli anni 1571-1603, durante i quali fu professore in quell'uni- versità. 113 Delle due Apologie conosco due manoscritti: quello cartaceo m folio di S. Andrea della Valle, n. 92, presso la Biblioteca Nazionale di Roma, Fondi minori, n. 1729, del sec. XVI; e quello parimente car- taceo in folio, del sec. XVI, della Biblioteca Universitaria di Padova, n. 663, I. 414 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI sentendosi bersagliato, tolse in mano la penna e vergò le tre- dici lezioni della sua Apologia, provocando il collega a una pubblica disputa. Ciò dovette essere sul finire del 1568 o nei primi mesi del 1569; poiché il Piccolomini, senza raccogliere la sfida alla pubbfica discussione, pensò di rispondere al suo rivale alessandrista in una lezione tenuta a Padova il 2 marzo di quell'anno. Il Pendasio gli replicò con la tredicesima le- zione della sua Apologia. Il Piccolomini, che credeva d'esser- sela sbrigata alla svelta, com'ebbe visto il nuovo attacco, dovette decidersi, il 20 aprile e i giorni successivi, a tenere alcune lezioni per dargli una risposta meno evasiva. Il man- tovano, in una specie di riassunto della controversia, volle dir l'ultima parola, intrattenendo i suoi ascoltatori per due lezioni, tenute senza dubbio alla fine d'aprile o a principio di maggio. Non saprei se la polemica avesse ulteriori sviluppi, come parrebbe suggerire il codice Urbinate latino 1456 (fol. 8ir-85r) che contiene una Quinta pars Apologiae ex.mi Peniasii. Certo è che i rapporti fra i due maestri dovettero restare molto tesi, finché nel 1571 il Pendasio accolse l' invito dello studio bolognese, e a Bologna restò ininterrottamente fino al dicembre 1603, quando venne a morte. Di lui ci restano intorno all'argomento dell'anima diverse opere manoscritte, che risalgono al periodo padovano del suo insegnamento. Anzi tutto, le Lectiones et quaestiones del co- dice Urbin. lat. 1480. Le lezioni sul primo e il secondo libro del Da animz furon tenute a Padova nel 1566. L' inizio delle lezioni sul terzo libro pjrta la data del 14 novembre dello stesso anno (fol. 7ir). Colla seconda lezione sul testo IV di quel libro comincia l'esposizione e la critica del pensiero di Simplicio, che si protraggono nelle lezioni successive. Più oltre (fol. i85r), la questione An anima intellectiva sit forma dans esse; indi (fol. 217V) altra questione de muUiplicitate animcirum, e di nuovo (fol. 237r) Quaestio ex.mi Pend. an anima, sit forma informxns vel assisfens. Viene da ultimo il Tractatus de im^nor talliate anirme Preolarissimi Philosophi Federici Peniasii Mantuani, con questa precisa data : « XI calendas lunij M.DLXX ». Un codice d^lla Biblioteca Nazionale di Roma (Fondi mi- nori 1728, S. Andrea della Valle, n. 81) contiene ì'Absolutis- sim.z lectura super primos treieoim textus tertii Libri de Anima ah Ex.m-) Domino Feierico Peniasio Philosopho Mantua.no, IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL «DE ANIMA» 415 olim in Augustissimo Gimnasio Patavino hahita. Evidentemente quel treieoim è un errore invece di uniecim. Poiché queste 52 lezioni non vanno più in là del testo undecimo, e dell'esposi- zione dei primi undici testi fatta a Padova il Pendasio parla anche neW Apologia. Il cod. 92 di S. Andrea della Valle, oltre dlV Apologia, con- tiene anche la questione An anima intellectiva sit forma dans esse homini (fol. 80) e, privo del titolo, il De animae immorta- litate (fol. no) . V è poi il codice dell'Universitaria di Padova 1264, Lectiones excellentissimi Philosophi Federici Peniasii in lihros de Anima, già studiato da Francesco Fiorentino, che contiene trenta lezioni sul primo e secondo libro (pp. 1-224), quindi 75 lezioni sul terzo libro con questo titolo: Federici Pendasii in Gymnasio Patavino primo loco philosophiam profitentis in lihrum jum de Anima lectiones dictatae 1577, <l^<^s ego Aloysius Quirinus excepi. La data del 1577 dev'essere un errore invece del 1567; oppure essa deve riferirsi all'anno della trascrizione fattane dal Qusrini, il quale s'era procurato molte opere manoscritte del Pendasio, del Mercenario, del Piccolomini, del Petrella, del Genua, del Cremonini e di Bernardino Tomitano, che, morendo vecchissima nel 1653, lasciò in legato al monastero veneziano di S. Giorgio Maggiore "4. Del resto le prime 52 le- zioni sono identiche con quelle del cod. 91 di S. Andrea della Valle, che sappiamo tenute a Padova, e in molte parti identiche nella sostanza a quelle del codice Urbin. lat. 1480. Da ultimo il codice padovano contiene il De animae immortalitate, nella forma sostanzialmente identica a qusUa del codice 92 di S. Andrea della Valle e dell' Urbinate, ove, come abbiamo visto, porta la data del 22 maggio 1570 . Federico Pendasio è pensatore coltissimo e spesso assai acuto. Spregiatore del commento averroistico, gli preferisce, in generale, quello d'Alessandro d'Afrodisia, tranne sull'argo- mento dell' immortalità dell'anima, a differenza del piacen- tino Bassiano Landò che era un alessandrista integrale "S. ^14 Cicogna, Delle iscrizioni veneziane, t. I, p. 163; t. IV, p. 599, n. i. "5 Bassiani L.\ndi, Piacentini, summi philosophi graecarumque litterarum peritissimi, in Patavino gymnasio medicinae theoricen ma- gna cum laude profitentis. In tres Aristotelis libros de anima, iam pridem ab eodem e graeco conversos, oppido quam elegans ac nova expositio, ver- 4l6 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Buon conoscitore di Platone, di Plotino, di Proclo e degli altri neoplatonici, il Pendasio non tardò ad accorgersi che l' inter- pretazione del pensiero Simpliciano da parte del Nifo era un grossolano fraintendimento; né molto piti attendibile doveva apparirgli quella del Genua e della sua scuola. Quanto al Nifo, interdiceva perfino ai suoi scolari di discuterne: « Imo in- terdico vobis penitus expositionem Suessani: nihil prorsus, meo iudicio, intellexit quantum spectat ad intelligendum Sim- plicii et veterum sententias »"6. Nella lezione settima del terzo libro del De anima egli intraprende un'esposizione compa- rativa della dottrina del commentatore greco, facendone ve- dere la piena rispondenza col pensiero di Platone e dei neopla- tonici; si ferma sul concetto di «intelletto partecipato» e ne mostra il significato equivoco, sforzandosi di chiarirlo, allo scopo d' infirmare l' interpretazione di tutti coloro che pre- tendevano di trovare nella dottrina di Simplicio la tesi aver- roistica dell'unità dell' intelletto. L'esposizione e la critica di SimpHcio si protrae per alcune lezioni dopo la settima "7, borum misteria (sic) Auctorisque sensum miro quodam artificio reserans. Venetiis, ap. Hier. Scottum [sic], 1569. Di lui ci restano anche altre opere di medicina. Nel 1544 insegnava a Padova nella seconda scuola di filosofia straordinaria. L'anno dopo passò alla prima scuola di me- dicina teorica ordinaria, mentre alla seconda cattedra di filosofia straor- dinaria veniva chiamato il piemontese Gian Gabriele Alberto, esso pure alessandrista e avversario di Gian Giacomo Pavesi, col quale ebbe un'astiosa e rumorosa polemica. Dell'Alberto e del Landò narra An- tonio Polo [Abbreviano verit. animae rationalis, p. 105): «Recorder, cum essem Patavii, quemdam Gabrielem Albertum, Pedemontanum, tribus mensibus quaestionent de immortalitate animae pertractasse, et in fine omnis resolutionis dixit, ut ignarus et impius: ,, Nisi esset Plato, tenerem mortalitatem animae ". Simihter quidam Bascianus [sic) Landus, qui privatim tertium Aristotelis de anima multis nobilibus scholaribus exponebat ad mentem impii Pomponatii, dicebat: ,, Mihi displicet vobis legere impietatem; sed Aristotelis littera sic ait, et ipse sic tenet ". Unde videns ego et considerans has suas expositiones falsas esse, praesentibus omnibus scholaribus, per viam epilogi, omnia sua argumenta reassumpsi et reieci, et secundum veritatem Aristotelis, exposui. Qui nolens respondere, sed tacens, dicebat: ,, Sic ait Aristo- teles ". Et deinde dedignatus noluit amplius ut ego audirem suas falsas lectiones. Sed sicut falso veritatem docebant, sic, permittente Deo, ambo ab incognitis trucidati fuere, et sic poenas suae impietatis sol- verunt ». Il Landò fu assassinato nell'ottobre 1563. Un altro risoluto alessandrista è il patrizio veneziano Polo Loredan, autore anch'egli d'un commento In tres libros Aristotelis de anima. Venetiis, ap. Ro- bertum Meiettum, MDXCVI. "6 Ms. della Bibl. Univ. di Padova, n.1264, p. 272. 1^7 Ib., p. 272 sgg. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 4I7 essendo il Pendasio consapevole come la pensassero su questo argomento gli scolari del Genua. L a risolutezza messa dal filosofo mantovano nel combattere le pretese degli averroisti, di tirare al loro mulino l'acqua del commento di Simplicio, dovette indurre qualche discepolo del Genua a rivedere le proprie convinzioni. Uno di questi alunni del Genua fu Giacomo Zabarella, insegnante a Padova nella prima scuola di logica dal 1564 al 1567, quando passò alla seconda scuola di filosofia straordinaria. Nel 1577 fu pro- mosso alla prima scuola straordinaria e nel 1585 alla seconda scuola di filosofia ordinaria. Morì nel 1589. Egli pure ebbe un vivace contrasto col Piccolomini per questioni di logica "8. Sebbene nel 1576 accettasse di buon grado la dedica dell'edi- zione veneziana del commento del Genua al De anima, egli era assai più vicino al Pendasio, nel modo d' intendere Ari- stotele, che non al suo maestro, del quale pur conservava un grato e affettuoso ricordo. Anche lo Zabarella, come il Genua e il Nifo, attribuisce a Simplicio la dottrina dell'unità dell' intelletto. Ma là dove il Nifo e il Genua danno la cosa per sicura, lo Zabarella intro- duce l'opinione di Simplicio con un videtnr "9: Videtur quidem Simplicius in 2. contextu illiiis libri 3. [De anima'] dicere animam rationalem secundum se unam esse, per suam autem in corpus progressionem multiplicari, sed hoc aliis pluribus Simplicii figmentis adnumerandum est; multa enim dicit, quae simul esse nequeunt et manifestam repugnantiam habent, veluti animam rationalem totam esse in se manentem et perfectam, et totam esse lapsam in corpus et imperfectam, eamque unam numero esse secundum se, in hominibus autem esse multiplicatam, et alia eiusmodi quae ncque esse, ncque cogitatione comprehendi a nobis possunt. Tuttavia quest'anima che, una in sé, si moltiplica nei corpi umani, s'unisce a questi non soltanto come forma assistente. 118 cfr. Pietro Ragnisco, Giacomo Zabarella: il filosofo. La pole- mica tra Fr. Piccolomini e G. Z. nella università di Padova, in « Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti », serie VI, Venezia, 1886, t. IV, parte II, pp. 217-252. "9 De mente hnmana e. io. Questo trattato che fa parte del De rebus naturalibus, pubblicato a Venezia nel 1589-1590, è stato inserito nel commento al De anima (II, subito dopo il commento al t. 11), insieme agli altri trattati psicologici, dal figlio Francesco Zabarella che curò la pubblicazione postuma a Venezia nel 1605. 27 4l8 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI bensì come vera forma informante, proprio alla maniera che pretendevano il Nifo e l'Achillini, con grande e incompren- sibile meraviglia, per quest'ultimo, dello Zabarella i^". Il quale nel suo commento al De anima i^i loda Simplicio per avere otti- mamente compreso in che senso Aristotele compara l'anima razionale al nocchiero che guida e regge la nave: Veram huius loci iiiterpretationem ego puto sumendam esse ex Simplicio, qui, licet maxime omnium existimaverit animam nostram rationalem esse a corpore separabilem et immortalem, tamen verum horum verborum sensum non ignoravit, et optime exposuit in quo consistat haec comparatio animae cum nauta. Putavit Simplicius animam rationalem humanam d,uos habere status: unum quatenus in se manet, alterum ut est pregressa in corpus; ac in se manens est forma abstracta a corpore, semper intelligens et beata ; ut pregressa in corpus, dicitur anima homi- nis, nec semper intelligit, sed cum studio et labore, et est forma hominis. Non enim negat Simpbcius, animam rationalem humanam esse formam informantein, etsi putat esse a corpore separabilem secundum essentiam, licet, quatenus est actus corporis, et anima possit dici inseparabilis, quia extra hominem non est amplius anima. Ideo inquit Simplicius, Aristotelem in his libris non con- siderare nec definire animam rationalem, nisi prout est anima et est iuncta corpori, cui dat esse. Haec igitur, ita considerata, habet duos respectus ad corpus: unum, quatenus est eius fonna et actus primus; alterum vero, quatenus utitur corpore iam infor- mato ab ipsa, et ipsum regit sicut nauta navim. Itaque non vult Simplicius, quod dicere animam esse ut nautam in navi, sit ne- gare eam esse formam informantem; sed vult simul iunctas esse in anima has duas conditiones: informat enim corpus, et ipsum informatum gubernat ut nauta navim. Certe optime intellexit SimpUcius istam Aristotelis comparationem animae cum nauta; non enim in hoc consistit haec similitudo, quod, sicut nauta est abstractus a navi nec dat illi esse, ita anima sit forma abstracta non dans esse corpori, sicut Averroes putat; sed in hoc solum quod, sicut nauta navim regit, ita anima regit corpus; in reliquis sunt dissimiles. 120 Dg mente humana, cap. ii: « Nam si anima rationalis est forma dans esse homini..., necesse est ut sit multiplicata.... Consequentia autem manifesta est et ab Averroistis concessa.... Solus tamen Achil- linus hanc consequentiam negare ausus est, in Quolibeto 3, dubio 2 : inquit enim animam rationalem esse formam vere informantem et esse unam numero in tota humana specie, non multiplicatam, ecc. ». È la tesi che il Nifo attesta essere stata sostenuta da Sigieri. Vedi sopra, pp. 208-210. 131 II, ad t. II. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 4I9 Se Simplicio merita lode per aver ritenuto che l'anima razionale è forma informante del corpo, pur essendo unica in se stessa, non si riesce a capire come lo Zabarella possa af- fermare che l'Achilhni fu il solo a non rendersi conto della « manifesta ripugnanza » che lo stesso Zabarella, come abbiamo visto, aveva scoperto nelle due tesi sostenute dal commen- tatore greco. Più oltre, in principio del commentoal terzo Libro del De anima 122, volendo, come il Pendasio, determinare con esat- tezza che cosa sia quella « particula animae qua et cognoscit anima et sapitw^s, lo Zabarella si trova ancora dinanzi l'inter- pretazione che Simplicio aveva dato di questo testo aristo- teUco 1-4, e per chiarirla sente il bisogno di spiegare al lettore, una volta per tutte, la teoria, sulla quale il commentatore greco ritorna di continuo, dei quattro gradi degli esseri, che sono: l'intelletto divino non partecipato, l'intelletto di cui partecipano gli esseri intelUgenti inferiori a Dio, l'anima ra- zionale e la natura. L'anima razionale, che occupa il terzo gradino in questa scala discendente, può essere considerata in tre momenti o «stati» differenti: in quanto permane in sé, nella sua perfezione intellettuale, tutta atto senz'ombra di potenza, anzi atto sostanziale; in quanto, uscita fuori di sé, s'unisce al corpo, decadendo dalla sua perfezione contem- plativa e facendosi pura potenza; in quanto, permanendo in se stessa, agisce su di sé decaduta e, stimolata dai sensi, si risolleva dallo stato di pura potenzialità, per ritornare a sé e riconquistare la sua originaria perfezione. Come intelletto in sé, dicesi intelletto agente; come intelletto decaduto, di- cesi intelletto possibile; come intelletto che ritorna a sé, è detto intelletto in abito. Al di sotto dell' intelletto stanno le « seconde vite », cioè la vita vegetativa e quella sensitiva, cui r intelletto, decadendo dalla sua perfezione, s'unisce. Aristotele chiama « anima » l'aggregato risultante dall' in- telletto con le « seconde vite ». Di questo aggregato l' intelletto, che è una natura diversa dall'anima vegetativa e sensitiva, sarebbe appunto quella « particella che conosce e discerne ». Dopo questo riassunto della dottrina di Simplicio, nel quale 122 Ad t. e. I. 123 Arist., De aniììia, III, e. 4, 429a io (t. e. i). 124 Ed. Hayduck, p. 217 sgg. 420 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI lo Zabarella oscilla tra l' interpretazione del Genua e quella del Nife, egli passa a discutere le obiezioni che a questa dot- trina eran mosse dai suoi contemporanei. Ma già egli, non meno del Pendasio, l'aveva dichiarata del tutto aliena dal pensiero d'Aristotele e ispirata piuttosto alle fantasticherie dei platonici. Col Pendasio e con lo Zabarella era d'accordo anche il lucchese Flaminio Nobih, professore di filosofia nell'univer- sità di Pisa, e dipoi a Roma "5, Nella sua opera De hominis felicitate, dedicata a Pio IV, ci dà questa interpretazione del pensiero di Simplicio, la quale risente evidentemente di quella del Nifo 1-6; Simplicius vero existimat ex ipsa mente (quam et ipse unicam in omnibus hominibus ponit, non tamen eandem censet esse quam mvuìdi animam) et ex reliquis formis, quae prius in corpore humano existunt, ut anima vegetabilis et sentiens, componi qvioddam totum quod animam rationis compotem veramque ac postremam hominis formam vocat. Ita tot animae rationis compotes sunt, quot sunt humana corpora. Nam quemadmodum materies illa prima est una numero privatione omnium formarum, partitur tamen postea per formas et multiplex evadit, ita mens humana, quamvis, si per se spectetur, unica sit, alteri tamen atque alteri animae sen- tienti in diversis hominibus coniuncta, quasi in phires partes tribuitur ac multiplex fit. Ouare anima rationis compos interitui obnoxia est, non quidem ex parte mentis, quae est aeterna, sed ex parte caeterarum formarum quae in homine cum mente sunt copulatae et mortali simt conditione 127. Haec igitur mens in se manens, a superioribus mentibus formata, illas intelligit. Intel- 125 Nato a Lucca nel 1533, dopo avere studiato filosofìa e medicina a Pisa, passò nel 1554 a Ferrara, ove ascoltò le lezioni di Vincenzo Madio o Maggi e strinse amicizia con Antonio Montecatino, col Tasso e con Annibale Caro. A Ferrara compose il Trattato dell'amore humano, che più tardi fu stampato a Lucca, nel 1567, e un esemplare del quale ci è pervenuto postillato in margine dal Tasso; cfr. Il trattato del- l'amore humano di Flaminio Nobili con le postille autografe di T. Tasso, pubblicato da P. D. Pasolini in occasione del terzo centenario dalla morte del Poeta. Roma, E. Loescher e C, 1895. Dal 1560 fu let- tore di logica e di diritto ecclesiastico a Pisa; più tardi passò a Roma. Paganini, Flaminio Nobili, studio biografico. Torino, Speirani, 1884. ^26 Fl. Nobilis, Lucensis, Philosophiae in Pisano Gymnasio Doc- toris, De hominis felicitate libri tres ad Pium Quartìim. De vera et falsa voluptate libri duo. De honore liber unus ad Franciscum Medicem Flo- rentinorum et Senensium principem. Lucae, ap. Vinc. Busdracum. MDLXIII. De hom.. felic, III, e. 28, pp. 243-244. 1-7 II Nobili fin qui riassume il Nifo, De iniellectu, I, tr. 3, e. 16 (che abbiamo riferito più su). IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL a DE ANIMA » 42 1 ligit etiam inferiora, cum illorum ideae sibi sint a prima mente, quam. Platonici Dei lìlium et mundum intelligibilem vocant, impertitae et communicatae. Pregressa autera fato quodam ad corpus hoc quasi caecatur et fit capax; qua tamen retinet adhuc non nihil prioris naturae, efficiens vocatur. Phantasmata autem nihil fere aliud praestant, quam ut mentem quasi consopitani excitent, ita ut ad se redeat; revertenteque ad sese nostrani tunc consequimur felicitatem. Quam sententiam si Simplicius habuit, ut certe videtur habuisse, ncque Tliemistio ncque Averroi concedere debet, ut maiores nugas dixerint. Siffatta dottrina, — osserva ancora il Nobili ^-^, — è ritenuta da alcuni collimare con quella di Platone, mentre altri son di parere che s'accordi meglio col pensiero neoplatonico di Plotino, di Calci dio, di Giamblico e di Proclo . Amico del Nobili e alunno anch'egli di Vincenzo Madio ^^9 era Antonio Montecatino, nobile ferrarese, che il 17 aprile 1568 era stato chiamato a coprire la cattedra di filosofia nello studio di quella città. Più tardi, segretario d'Alfonso II d' Este, fu accusato d'aver fatto perdere al Tasso il favore della corte; ma pare senza ragione. Usato in diverse ambascerie, finì per cadere in disgrazia, nel 1597, e fu radiato dal ruolo degli sti- pendiati 130. Ci resta di lui un commento al terzo libro del De anima, esposto nel 1572 e pubblicato quattro anni dopo su appunti ed a cura del suo alunno Girolamo Bovio '31. Questi, in una nota marginale, e' informa che il maestro aveva di- segnato di scrivere tre opsre intorno alla filosofia aristotelica: anzitutto, le ParUtiones et resolutiones su tutti i trattati dolle Stagirita; quindi una Concordia della dottrina d'Aristotele con quella di Platone e d'altri filosofi; infine, nn' Apologia 128 F. Nobili, 0. e, III, cap. 29, p. 245. "9 G. Pardi, Lo studio di Ferrara nei secoli XV e XVI. Ferrara, i9°3. PP- 164-165; Solerti, Vita di T. Tasso. Torino-Roma, Loescher, 1895, I, pp. 242 sgg. 13° TiRABOSCHi, Storia della letteratura italiana, voi. Ili, Milano 1834, p. 474. 131 Antonii Montecatini, Ferrariensis, In eam partem iij libri Ari- stotelis de anima, quae est de mente humana, leciiira continens partitiones resolutionesque, exemplum earum quas in omnia eiusdem Aristotelis opera Aiictor meditabatur. Adiunctis quibusdavn scholiis, quaestionibus et in digressiones Averrois digressionibus. Omnia a Hieronymo Bovio, Ferrariensi, collecta et edita. Ad Serenissimum Principem Alfonsiim II, Ferrar iae Ducem. Ferrariae, ex typis Haeredum Francisci Rubei, MDLXXVI. Il testo aristotelico è in greco. 422 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI d'Aristotele contro i suoi detrattori 132. Il commento al terzo del De anima doveva far parte della prima di queste tre opere. Anche al Montecatino, che professa un moderato averroismo colorito di riflessi platonici, accade spesso di ricordare il com- mento di Simplicio al De anima e di discutere alcune interpre- tazioni che del pensiero e della lettera d'Aristotele vi si leg- gono; ma lo fa senza impegnarsi a fondo, per il momento, perché intendeva ritornarvi nella Concordia, alla quale più volte egli rimanda. Ecco, ad esempio, come parla di lui a proposito del testo aristotelico ove s'afferma che l' intelletto è impassibile 133: Simplicius longe alio modo quam reliqui haec verba interpre- tatur àTra-S-èi; elvat. Ait Aristotelem (cui verbum Trào/Eiv signi- ficaverit superiori in textu « suscipere « atque « habere aliunde » ea quae cognoscuntur) affirmare nunc haud immerito, mentem progredientem et imperfectam, de qua sit ei instituta disputatio, esse impatibilem, propterea quod ista mens progrediens imperfecta nondum habeat suscipiatve, sed possit tantum longo post tempore suscipere habereque aliunde species substantiarum. Quam rem ut declaret, addit multa alia de intellectione huius mentis, cui reli- qua similiter attributa accommodat, quae hoc textu traduntur. Sed relinquendus ille est cum mentibus suis : quae altior supe- riorque est quam sit substantia animae, tum quae participari non potest (àfi.é'&exTov ipse appellat), tum quae est animae parti- cipata (ipse vocat [i.£Texó[jL£vov), quae animarla seu substantialis est animae ipsius; et quae manens seu stabilis, et quae progre- diens ac fluens pars animariae; quae imperfecta progrediens, et quae perfecta; et quae aliae minus etiam quam istae distant (et distant istae ratione tantum), sive ad contemplandum pertineant, sive ad praxim. Nam declarari omnino, quae de his mentibus Sim- plicius scribit, non possunt sine mysteriis philosophiae Platoni- corum, a quibus hoc anno supersedendum duximus. Anche nel commento del testo 21 dello stesso libro del- l'opera aristotelica, passando in rassegna ben dodici opinioni degli interpreti sulla natura dell' intelletto agente, s' imbatte (4^ opinione) nella dottrina di Simplicio che già conosciamo: Quum.... novissimam ipse quandam mentem et substantiam separatam, omnium minime perfectam, statuat, eam postea asserit in confinio materialium materiaeque expertium formarum, '3' Questo disegno che il Montecatino s'era proposto di recare a cumpimento, ci è fatto conoscere da Girolamo Bovio nel proemio al- l'opera del maestro e, di nuovo, in una nota marginale a p. 179. 133 Ad t. 3, p. 37. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 423 in se ipsa manere semper, et tamen, quum maneat, extra quoque ad, humana corpora progressam ita cum imaginatione copulari, ut in unoquoque nostrum ex ea et imaginatione una efficiatur anima rationis compos, quae nostra sit forma. Sane quidem eam manentem in se simplicem expertemque partium et nihil aliud. quam mentem, perpetuo cum superiora, iis ipsis formatam, sua substantia intueri, tum ideas inferiorum impertitas sibi a prima mente et communicatas contemplari; at vero progressam pene obrvii corporis involucro obscurarique etc. ^34. Caratteristico anche in questa esposizione del Montecatino il dirsi che la mente, che pure è una sostanza separata, s'unisce all' immaginativa individuale, per costituire, insieme a questa, una sola anima razionale che è forma di ciascuno. Forma in- formante, come volevano con Sigieri, l'Achillini e il Nifo, op- pure soltanto forma assistente, come preferiva il Genua ? Il ferrarese non ce lo dice, contentantosi di osservare che le oscurità del pensiero di Simplicio possono essere chiarite solo alla luce dei principi platonici, dei quali promette di trattare nella Concordia 135 : Ecce quomodo Simplicius ultimam omnium substantiarum separatarum mentem effcientem dicat, eamque.... ne substantia quidem nedum subsistentia a materiali diversam, sed ratione duntaxat et habitudine quadam. Quamquam haec fortasse obscu- riora sunt, non delibatis ante Platonicis principiis, quod in Con- cordia efificimus. Non sono riuscito ad appurare se il Montecatino con- dusse mai a termine questa abbozzata Concordia, preso co- me fu presto dagl' intrighi della corte ferrarese che lo allon- tanarono dagli studi. Ma noi sappiamo già, che a stabihre questa concordia s'era accinto il conte della Mirandola e Concordia, novant'anni prima con ben altro vigore specu- lativo che non quello di questo modesto ruminatore di mal digeste dottrine altrui. 8. - Se il Fasolo non riuscì a persuadere gli averroisti perché mettessero Averroè in soffitta, ottenne almeno che essi ne alternassero la lettura coi commenti greci del De anima che, 134 Ad t. 21, p. 272. 135 Ih., p. 273. 424 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI nel testo originale e in traduzioni latine, solerti editori vene- ziani avevano messo alla portata di tutti; ed ottenne altresì che, temperato il loro fanatismo per il Commentatore di Cordova, s'adoprassero a svilupparne i motivi platonici e a tentarne l'accordo col pensiero degli interpreti greci; ottenne infine che, smesso il gergo barbarico che rende ingrata e fa- ticosa anche ai meglio esercitati la lettura del « gran com- mento », scrivessero un latino più levigato e quasi elegante. Negli scritti del Genua e del Montecatino, averroisti, non meno che in quelH del Porzio, del Castellani, del Pendasio e dello Zabarella, alessandristi, i più importanti commenti greci sul De anima, da Alessandro a Temistio, da Simplicio a Filopono, sono ormai tutti allineati alla battaglia prò e contro l'averroismo, e già comincia a farsi il nome di qualche altro interprete greco meno noto, come quello di Plutarco d'Atene, di Marino e di Prisciano Lido. A quest'ultimo Francesco Piccolomini sospettò dovesse attribuirsi il commento al De anima che porta in fronte il nome di Simplicio. Abbiamo già accennato all'averroista Francesco Piccolo- mini come a collega ed avversario del Pendasio e dello Za- barella. La polemica col primo era cessata da che il Pendasio era passato a Bologna ^i^'. Invece la controversia col secondo ebbe inizio colla pubblicazione da parte del senese nel 1583 della Universa philosophia de movibus, nella quale il Picco- lomini fece alcuni rilievi al collega intorno al ragionamento regressivo '37. A questi rilievi lo Zabarella rispose con l'Apologia pubblicata nel 1584, cui l'avversario replicò col Comes poli- ticus, pubblicato un decennio dopo, nel 1594 '3^. 136 E il Piccolomini, come diremo fra poco, poteva ormai accennare a lui come ad uomo integerrimo e dottissimo. 137 Universa philosophia de movibus a Francisco Piccolomineo, Se- nense, Philosophiam in Academia Patavina e prima sede interpretante, nunc primum in decem gradus redacta et explicata. Amplissimo Sere- nissimoque Senatui veneto dicata. Venetiis. Apud Franciscum de Fran- ciscis Senensem, MDLXXXIII. Introductio, capp. 17-24. Sull'origine e lo sviluppo della polemica fra il Piccolomini e lo Zabarella, si veda il già citato studio di P. Ragnisco, Giac. Zab.: il filosofo ecc.; ma l'ar- gomento era già stato discusso un secolo prima da Francesco da Nardo, e dipoi più volte dal Pomponazzi; cfr. « Giorn. Crit. d. Filos. Ital. », XXXVII, 1958, p. 341, e qui sopra, p. 323. 138 G. Zabarella, De doctrinae ordine apologia. Venezia, 1584. F. Piccolomini, Comes politicus prò recta ordinis ratione propugnaior. Venezia, 1594. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA )) 425 h' Universa philosophia de morihus del Piccolomini è un'opera veramente notevole per l'ampiezza del disegno e per una certa solennità dello stile, qual si conveniva all'amplissimo e se- renissimo Senato veneto cui era dedicata. Pur seguendo lo schema dell' Etìlica Nicomachea, e restando in sostanza fe- dele alle dottrine capitali dello Stagirita, il senese discute le teorie morali del platonismo e, se dissente da coloro che pre- tendevano d'avere scoperto la perfetta identità di vedute fra Aristotele e Platone, non condivide neppure l'atteggiamento di coloro che, presone a guida infallibile uno, ritenevano di poter fare a meno dell'altro: Asserere Platonem de omnibus cum Aristotele consentire, profecto falsum censeo; et qui universum concilium sunt poUiciti, ut Ioannes Ficus, Simplicius, Boetius et alii viri celebres, potius indicarunt reverentiam suam erga utrumque humanae sapientiae lumen, quam rem aptam perfici et principiis eorum congruentem. Quod opera patefecerunt Simplicius nonnullique recentiorum, qui, cum id praestare conati sunt, in conspicuos lapsi sunt errores; frequenter enim sententiam pervertunt Platonis, nonnunquam eam Aristotelis, saepe utramque '39. Cum... sermo praecesserit de graecorum sapientibus, Inter quos Plato et Aristoteles perinde ac duo splendidissima lumina refulse- runt, iure animus sapientiae amator quaeret, quinam eorum Inter sapientes re vera sibi principatum vendicaverit. Et iure quaeret, nam animorum acies, in splendorem sapientiae eorum conversa, ab exuperanti lumine circumfusa, potius obumbratur et obtunditur, quam valeat exacte iudicare, quinam alteri praestet et in sapientiae regia regium sibi locum optet. Non defuere nonnulli, animo ac iudicio adeo perverse affecti, ut utrumque tanquam nugacem, mendacem et levem neglexerint. Alii minus insanientes, unum maximi fecerunt, spreto altero. Qui oppositae fuere conditionis: nonnulli enim Platonem tantum commendarunt, neglecto Aristo- tele; alii vice versa neglecto Platone, solum Aristotelem laudibus extulerunt. At viri omnes acriore iudicio praediti utrumque re vera humanae sapientiae lumen iudicarunt. Qui deinde ob eximiam in eos reverentiam, vel eos conciliare vel eorum decreta prò veri indagatione accurate invicem conferre conati sunt. Et hi postremi profecto via regia ad sapientiam progrediuntur, et caeteris longe sunt anteponendo Nam qui Aristotelem cum Platone de rebus altissimis continenter disputantem interpretantur, nec exacte quid re vera senserit Plato praenoverunt, non audita parte iudi- cium proferunt et, tanquam caeci, eorum asseclas in foveas te- nebrarum detrudunt. Et iure utrumque maximi tacere debemus, cum ambo fuerint tales, ut distincta quadam via ad culmen sa- 139 Piccolomini, Univ. philos. de moribus, grad. Ili, e. 20, p. 163. 426 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI pientiae progressi, aeque ad illud se extulerunt; nam in utroque proprium aliquid reperitur, in quo nemini est secundus, talisque utriusque est absolutio, ut, ab animo recte affecto degustata, nihil ultra in eo genere desideretur 14°. E istituito un confronto fra il modo di procedere dei due filosofi, il Piccolomini conclude: Constat itaque inter fiumana sapientia fulgentes, Aristotelem et Platonem sibi principatum optasse; constat utrumque suo genere esse summum, nobis utilissimum, a nobisque accurate legen- dum. Quod enim illi suo progrediendi genere non praestiterunt, alius praebere non valet, et qui ad alterutrum eorum sibi viam obstruit, uno se mentis oculo privat; quique eos omni ex parte conciliare nituntur, cum eorum viae sint distinctae, omnia ever- tunt, confundunt, eis adversantur, et genera duo progrediendi utilissima et distincta inutiliter permiscendo evertunt. {Ib., 274). Fra coloro che hanno battuto la via regia, tenendosi ugual- mente lontani da ogni fanatismo sia per Aristotele che per Platone, ed hanno tratto profitto dall'uno e dall'altro, senza confonderne le dottrine, il filosofo padovano si compiace di ricordare Vincenzo Madio, « vir acri quodam iudicio prae- ditus », Marc'Antonio Genua, « vir singulari grafia insignis », del quale era stato collega nei primi anni del suo insegnamento a Padova, e Francesco da Vimercate, scomparsi ormai tutti e tre. Tra i viventi addita, come chiari esempi del buon filo- sofare, Federico Pendasio che, dopo essergli stato collega a Padova per un settennio, ora insegnava con lustro a Bologna, insieme a Nicolò Turchi, uomo anch'egli di grande acume e di soUda dottrina; poi Gian Bernardino Longo, professore a Napoli, Girolamo da Ponte e Flaminio Nobili a Roma; Fran- cesco Verini Secondo e Francesco Buonamico a Pisa; infine, Antonio Montecatino, « vir sublimi ingenio summaque eru- ditione », che a Ferrara aveva esposto coi suoi « dottissimi commenti » il terzo libro del De anima. Né tace di Pietro Diedo, per le Disputationes de anima, né d'Andrea Diedo per il trattato De hahitihus mentis. Tutti costoro, a parere del Pic- colomini, avevano saputo giovarsi della lettura degli scritti di Platone non meno che di quelli dello Stagirita 141. Di uno solo HO Ib., grad. V, e. 23, pp. 270-273. 141 Ib. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 427 egli non fa motto: dello Zabarella; e ciò è tanto più signifi- cativo, in quanto aveva ormai finito per dimenticare l'antica ruggine col Pendasio. Abbiamo visto il Piccolomini accusare Simplicio ed alcuni moderni di avere sovente sovvertito la dottrina di Platone e quella d'Aristotele, per averle confuse insieme nell' intento di accordarle. Ma com'egli giudicasse il commento di Simplicio al De anima, si vedrà meglio dagli altri scritti. Nel 1596, usciva per le stampe il trattato De humana mente, diviso in tre libri m^, ove la dottrina del commentatore greco è posta a raffronto con quella di altri interpreti d'Aristotele. Ed anzi tutto, per quello che concerne l' intelletto agente, esposta e criticata la tesi di Alessandro, accolta anche dal Pendasio ms e dallo Zabarella '44, il senese ricorda un gruppo di opinioni derivate «ex Academicorum principiis..., vario tamen modo assumptis, explicatis et approbatis ». Fra i sostenitori di queste opinioni son menzionati anche Averroè e Simphcio: Clini enim, ex Academicorum sententia, sub Dee sit mens non participata, mox mens in anima participata, quae mens ideis est praedita, tertio succedat anima rationalis in se manens, quarto anima rationalis pregressa: nonnulli mentem participatam, alii animam rationalem in se manentem dixere Mentem Agentem, ut retuli in praecedentibus; et Averroes mentem quamdam parti- cipatam visus est eam existimasse, Simplicius animam rationalem in se manentem, Themistius, non secernens mentem ab anima rationali, modo quodam mediare videtur. Hi omnes consentiunt, primo, quia Mentem Agentem aiunt praeditam ideis, sive ratio- nibus; secundo, quia considerant duplex intelligendi genus, unum per essentiam Agentis, alterum per phantasmata ; tertio, quia in connexione cum Agente constituunt summum hominis bonum; quarto, quia in fonte et origine Mentis unitionem reperiri aiunt, quamvis extrinsecus adsit multitudo et varietas. In attinentibus autem ad distinctionem Mentis Agentis ab ea potestatis, quidam magis, alii minus eas distinguunt, ut ex dictis conspicuum est. At procul dubio plurima horum conspicue pugnant cum prin- 142 Fr. Piccolominei, Senensis, in Academia Patavina philosophi primi, Librorum ad scientiam de natura attinentiiim pars quinta, in qua considerantitr pertinentia ad animam. Illustrissimo et Reverendis- simo Marco Cornelio Patavii episcopo dicata. Venetiis, apud Frane, de Franciscis Senensem MDXCVI, ff. 59-109. 143 Cod. della bibl. univers. di Padova 1264, In III de anima, lez. 66, pp. 756-763; Cod. Urbin. lat. 1480, f. i8ir sgg. 144 De mente agente (inserito nel commento dello stesso Zabarella al De anima, III, dopo il comm. al testo XX), capp. 11-14. 428 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI cipiis Aristotelis, et praesertim quod dicunt de ideis, sive insertis rationibus, de anima in se manente et pregressa, et similibus : mens enim, cum sit essentia simplex, ubi est, tota estji45. A parte tutto ciò, anche il Piccolomini, come il Genua e il Montecatino, è d'accordo con Simplicio nel ritenere che fra r intelletto agente e quello possibile v' è solo una differenza di ragione, non di natura: Sed caeteris praetermissis, lioc solum ostendam: Mentem Agentem esse partem animae nostrae non distinctam essentia a Mente potestate '4''. Colligamus itaque mentem hominis esse particulam humanae animae, et esse essentiam unain, cui distincta ratione duae diffe- rentiae competunt, agendi et patiendi, invicem non pugnantes M?. Più oltre, il Piccolomini si pone il problema, dibattutis- simo nel Cinquecento non meno che nella Scolastica, « an mens humana valeat intelligere singularia ». Fra le tesi da lui com- battute, v' è quella che egli attribuisce a Simplicio, a Plu- tarco d'Atene e a Prisciano Lido. A parere di costoro, è proprio della mente che sta sopra l'anima conoscere le idee, dell'anima razionale le « rationes naturae », i « semina materiae », le « umbrae formarum ». Ora le idee son causa delle « rationes », queste dei « semina », e questi ultimi delle « umbrae ». Ciò posto, la mente che è sopra l'anima conosce il particolare neir idea come nella causa prima ; la mente che è propria dell'anima, in quanto permane in sé congiunta con la mente superiore, conosce il particolare nelle ragioni insite ad essa, come nella causa prossima; in quanto invece, uscendo fuori di sé, inclina al corpo e al mondo dei sensi, conosce il parti- colare per mezzo delle immagini sensibiU, come effetti delle ragioni e delle idee. Questa dottrina di Simplicio, nota il Pic- colomini, anzi che chiarire il pensiero d'Aristotele, lo per- turba e l'offusca, poiché muove da principi platonici del tutto diversi: « Simphcius, haec tribuens Aristoteli, evertit, non explicat sententiam eius»i48. Perciò a siffatta soluzione del problema egli preferisce quella di Duns Scoto, il quale pensava che il singolo è per se stesso intelligibile come singolo : opinione 145 Piccolomini, De humana mente, I, e. 146 Ib. 147 Ib., e. 12. 148 Ib., e. 17. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA « 429 che ebbe anche nel Rinascimento non pochi sostenitori, i quah la difesero contro l'opposta tesi tomistica. Il secondo libro del De humana mente tratta, in ben sedici capitoli, dell' immortalità dell'anima « ex sententia Aristo- telis » contro l' interpretazione alessandrista del Pomponazzi, del Porzio, del Madio e del Card. Gaetano. Ma vera immortalità non compete se non alla mente in quanto è una sostanza separata ed unica per tutta la specie umana, non in quanto è temporaneamente unita a questo o a quell' individuo parti- colare. La mente infatti, secondo il pensiero d'Aristotele esposto e interpretato dal Piccolomini '49, non è forma intrin- seca del corpo umano e non dà a questo l'essere che ha in quanto organismo animale, ma è « forma formarum », come aveva detto Temistio, cioè s'unisce all'organismo umano già informato dalla forma della vita sensibile e da quella della vita vegetale, e gli conferisce un più alto grado di perfezione, la razionalità. E se la mente è una sostanza in sé disgiunta dall'organismo vivente, dovremo dire che essa non è indivi- duata dal corpo, e perciò è unica per tutti gli uomini. Di solito gli averroisti ammettevano che Aristotele non si fosse mai posto, in modo esplicito, il problema dell' unità dell'intelletto; ma ritenevano pure che la teoria dell'unità era stata dedotta con rigore logico dai principi più certi della sua filosofìa dall'acume di Temistio e d'Averroè, che meglio d'ogni altro ne intesero la dottrina. Il Piccolomini procede con maggiore cautela. Anzi tutto, egli riconosce che Aristo- tele, il cui ingegno era rivolto a scrutare il mondo fisico e i fenomeni che cadono sotto i sensi, in nessuna sua opera fa mai cenno della teoria dell'unità o molteplicità delle anime umane. Ma aggiunge altresì, « progrediendo per principia et decreta Aristotelis », che questi si mostra più incline alla tesi dell'unità che non a quella della molteplicità. E a sostegno di questa interpretazione del pensiero dello Stagirita il senese adduce quattro argomenti, ricavati da sicure dottrine aristo- teliche. Con tutto ciò, egh è d'avviso che quella dell'unità della mente, prima d'Aristotele, fosse già dottrina di Pla- tone non contradetta dal discepolo ^S». Al qual proposito, il Piccolomini osserva che il pensiero di 149 Ib., II, e. 18. 150 Ib., II, capp. 19-20. 43 O l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Platone su quest'oscuro argomento è variamente inteso dai suoi interpreti. Alcuni infatti, indotti da quanto si legge nel Timeo, e nel decimo della Repubblica, ritennero che dal- l' idea unica dell'anima derivasse in primo luogo l'anima del mondo, indi le anime delle sfere e delle stelle; da queste di- scendono in un certo numero definito le anime umane, che, trascorso il periodo della vita terrena, ritornano ciascuna alla propria stella, per reincarnarsi successivamente e tornar di nuovo alle stelle; e così di seguito senza fine. Altri al con- trario pensarono che dall' idea dell'anima derivasse soltanto l'anima del mondo, e che le altre anime non fossero se non partecipazioni della vita di questa. Ma il Piccolomini trova che v' è una terza interpretazione del concetto platonico, più plausibile delle prime due: Propterea est explicatio tertia, quam caeteris puto praeferen- dam, et est ea Plotini et Numenii, putantium ideam animae unam esse, et ex ea prodire, per gradus, omnes participationes ani- marum, vel proximius vel remotius, adeo ut ea mundi sit prima participatio, sequantur mox participationes animarum sphaeris et stellis caeli competentium. Quae participatio ita se habet, ut, si per imaginationem cuncta corpora abolerentur, universae animae in unam redirent, tanquam in fontem, veluti de solis luce et lumine ex ea prodeunte se habere existimandum est. Caeteras autem animas, sub rationali positas, dicebat esse idola et umbras animarum prodeuntes per semen et corpus, ex anima rationali.... Colligamus itaque, ex sententia Platonis, quod primo est Deus, sub Deo mens non participata et in se manens, ad quam pertinent non participatae ideae; quae mens tanquam sol unica est, et a nonnullis ponitur non distincta a Deo, ab aliis autem, ut a Plotino et Numenio, distincta. Ex mente non participata pendent, ut radii, mentes participatae, quarum participes red- duntur animae; ideo extrinsecus per animas multiplicantur. In tertio gradu posita est anima quae, ex parte fontis, nempe ideae eius, una est; ex parte corporum primo participantium sunt nu- mero definitae. Prima tamen participatio est ea animae mundi; ex parte vero participantium mortalium per consecutionem et conspirationem primorum sunt numero indefinitae. Sic anima est una ex parte fundamenti, plures ex parte parti- cipantium; una intrinsecus, plures extrinsecus; una prò absoluto, plures ratione variorum ad quae refertur.... ^S^. Onesta, conclude Piccolomini, deve ritenersi fosse l'opinione di Simplicio; né avevano torto Averroè e Algazele di attri- 151 Ih., e. 19. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 43 1 buirla a Platone: Hanc quoque puto fuisse opinionem Simplicii; nec perperam Averroes, in prima disputatione contra Algazelem, una cum Algazele tribuit Fiatoni, quod existimaverit animam omnium unam esse; quam sententiam reprobavit Algazel, approbat autem Averroes.... ^S-. Una volta tanto, dunque, Simplicio l'avrebbe azzeccata, anche per il filosofo senese. La tesi dell'unità dell' intelletto sarebbe una tesi essenzialmente platonica, che Aristotele non solo non avrebbe combattuta, ma anzi avrebbe accolta, o, per lo meno, avrebbe provato per essa una spiccata propen- sione. Si capisce che siffatta dottrina è del tutto contraria al- l' insegnamento della fede, e perciò da respingere come falsa e assurda. Ma Platone ed Aristotele non furono illuminati dalla luce della rivelazione, ed è già molto se riuscirono a vedere con le sole forze della ragione l'eternità della mente '53. Nel IÒDI, il Piccolomini lasciava l' insegnamento, per ri- tirarsi nella città natale, ove di li a tre anni moriva in tarda età. Due anni prima della morte, dava alla luce VExpositio in tres libro s de anima, e in appendice pubblicava quei Capita sententiae Simplicii ex commentariis librorum de anima de- prompta, nei quali riesaminava a fondo la posizione di Sim- plicio di fronte ad Aristotele. Anzi tutto, il Piccolomini solleva ora un problema che nes- suno degli editori e dei critici di questo commentatore greco dello Stagirita s' è mai posto. Confrontando il modo di pro- cedere di Simplicio nei commenti alla Fisica e al De cacio, ampio e pieno di digressioni, doxografie e discussioni, con quello, piuttosto stringato e zeppo di ripetizioni, del De anima, il senese è portato a dubitare dell'autenticità di quest'ultimo commento : Consuevit Simplicius in explicandis libris Physicorum et De coelo, asiaticorum more, satis esse effusus et latus, saepe et late consue- vit digredi adversus Philoponum, saepenumero consuevit referre sententiam Alexandri et cum eo disserere. Interpres autem horum librorum De anima potius est laconicus et nil relatorum servat. '54 152 Ib. Si ricordi quanto s' è detto, nel secondo paragrafo, del giu- dizio di Pico della Mirandola intorno a questa opinione. 153 Ib., e. 20. 154 Fr. Piccolomini, Expositio in tres libros Arisi, de anima. Ve- netiis, 1602, f. 2i6r. 432 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Perciò egli sospetta che il vero autore del commento al De anima, che va sotto il nome di Simplicio, sia piuttosto Prisciano Lido, che al pari di quello s'era adoprato a metter d'accordo peripatetici e platonici. Prisciano ci ha lasciato una metafrasi di un trattatello di Teofrasto De phaniasia et in- tellectione, la quale era stata tradotta in latino e commentata da Marsilio Ficino e stampata in greco a Basilea, nel 1541, in appendice agli scritti superstiti dello stesso Teofrasto. Il Piccolomini ne mette in rilievo la stretta affinità col com- mento al De anima attribuito a Simplicio: Quae Paraphrasis extat, et modus loquendi necnon sententia simillima est sententiae et modo loquendi horum commenta- riorum libri De anima. Quod confirmo, quia auctor horum com- mentariorum, in secundo De anima, contextu 74, loquens de lumine et coloribus, ait se id explicasse in compendio Theophrasti; et legitur in eo compendio sive Paraphrasi, cap. 25, 29 et 30. In- super idem Priscianus, in eo compendio, mentionem facit suorum commentariorum in libros De anima. Praeterea, ut auctor horum commentariorum, ita ille Paraphrasis in Theophrastimi sequuntur lamblicum, ut patet ex initio expositionis horum librorum et ex primo ac decimotertio capitulo Paraphrasis de phantasia. In- super, ambo frequentar mentionem faciunt Plutarchi Lydi, Nestorio geniti ^55. Del resto, Prisciano Lido era amico di Simplicio; e tutti e due, insieme a Damaselo e ad altri quattro compagni, dopo la chiusura della scuola d'Atene, si recarono nel 531 in Persia, per chiedere la protezione di Cosroe L Sicché il dubbio sul- l'appartenenza del commento al De anima a Prisciano piut- tosto che a Simplicio, è di secondaria importanza, dal momento che entrambi seguivano uno stesso indirizzo che deriva da Giamblico. Ciò premesso, il Piccolomini trova che l'universo consta, per Simplicio o Prisciano che sia, di otto gradi principali di esseri : Quorum supremus est Deus; cui succedit mens non partici- pata; in tertio refulget mens participata; in quarto residet anima rationis compos; in quinto idola et vestigia animae; in sexto natura seminibus praedita; in septimo umbrae, imitationes et participationes idearum; infima omnium est materia ^56. 155 Ib. 156 Ib., f. 2i6v. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 433 Di questi otto gradi, quello che maggiormente e' interessa è l'anima razionale; e su di essa il senese si ferma più a lungo, avendo cura di distinguerla dalla « mente participata », che è al di sopra delle anime umane: Quarta est anima rationalis, quae vere et proprie anima est. Haec distinguitur a mente [participata] : nam menti competunt ideae, animae rationes; mens prorsus est immobilis, praeterquam ex esse ad agere, anima ex se mobilis; niens est supra generatio- nem, animae modo quodam generatio competit et constitutio ex primis principiis, ut constat ex Timaeo. Haec est ea anima quae ab Aristotele, in tertio Da anima, nuncupatur voij^, hoc est mens, quae non est Mens absolute, sed animaria et rationalis; et haec est ea mens, de qua est sermo in tertio De anima, quae mens dicitur per comparationem cum sensu, et quia Mentis est particeps, per quam formatur, terminatur et unitur. Haec animaria mens, ad instar lani, duplici quasi facie prae- dita, vel consideratur ut conversa ad supera, et cum participata Mente nectitur, per quam ad superiora elevatur eisque fruitur, ac ita dicitur in se pure manens et diviniora intuens; vel consi- deratur ut in se quidem manet, ita tamen ut ad infera conver- tatur eaque pariat, illustret, formet ac perficiat; tertio consi- deratur non amplius ut manens, sed ut pregressa, veluti radii corporis lucidi considerantur in perspicuo, ut progressi a lucido et non manentes in eo; et quemadmodum radii illi dicuntur produci a lucido, ita haec mens pregressa, relata ad manentem, dicitur vita secunda ab ea genita. Quae mens animaria et rationalis pregressa, vel est imper- fecta, ut in pueris et rudibus, vel perfecta habituque praedita, ut in viro sapiente. Dum consideratur ut pure in se manet et solum ad supera vertitur, non dicitur « particula animae»; dum secundo consideratur, vel ut in se quidem manet, at non pure, sed ad infera vertitur eaque format et perfìcit, vel solum ad ea progreditur, sic redditur « particula animae » et consideratur in tertio De anima. Ac priore quidem consideratione dicitur « mens agens » ; posteriore vero « mens potestate », sive imperfecta sive perfecta sit, et dicitur mens animaria i57. Visto che cosa è l'anima razionale, resta ora da vedere in che modo essa s'unisce all'uomo e in particolare se e in che senso può dirsi forma dell'uomo, e se essa è moltiplicata col numero dei corpi umani, oppure è unica per tutti gli uomini. La risposta a questi due quesiti ci dirà fino a che punto Sim- plicio, secondo l'avviso del Piccolomini, è d'accordo con Averroè. 157 76., f. aiyr. 28 434 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Quanto al primo problema, l'anima razionale può ben dirsi essenza dell'uomo, secondo Simplicio, ma non forma in- formante del corpo: Haec anima rationalis est verus homo, qui definitur quod sit «anima rationalis, Mentis particeps, corpore utens » 158 ; nec pro- prie materiam format, sed posteriores vitas, non tamen sine corpore, e materia edit, quae materiam formant, et animai ac corpus vivens constituunt, adeo ut homo sit sola anima ratio- nalis, animai vero et vivens composita sint i59. Vere forme dell'organismo vivente sono, dunque, le « se- conde vite », cioè la vita sensitiva e quella vegetativa. Ma queste « seconde vite » sono suscitate nella materia, per un processo emanativo di decadenza, dalla stessa anima razionale, la quale in se stessa è indipendente dal corpo. Qualcosa di simile si legge nel commento d'Alberto Magno al De anima, là dove dice che l'anima intellettiva « in essentia sua et perfectiori potestate non communicat corpori », e che tuttavia è congiunta all'organismo corporeo «per alias virtutes suasw'^o che sono la sua parte vegetativa e sensitiva, tratte dalla potenza della materia per opera della virtù formativa ; la quale « non edu- ceret eas hoc modo prout sunt potentiae rationalis et intel- lectualis formae et substantiae, nisi secundum quod ipsa formativa movetur informata ab intellectu universaliter mo- vente in opere generationisw'^i. Ma mentre per Alberto la vita vegetativa e quella sensitiva, tratte dalla potenza della ma- teria, sono spinte ad unirsi all' intelletto, per formare con questo una sola anima che è forma del corpo umano, le « seconde vite » di Simplicio sono un prodotto deteriore, quasi direi spurio, dell'anima razionale che, sola, dà all'uomo la sua natura di uomo, e perciò ne costituisce l'essenza specifica. Est quidem anima rationalis essentia hominis et id quod est homo; non autem est forma formans materiam, alioquin male ab Academicis definitur homo; et decipiuntur illi, qui, ex Acade- 15S Secondo la celebre definizione attribuita a Platone da Nemesio, De nat. hominis, e. 2. ^59 PiccoLOMiNi, 1. e, f. 217V. ^6o Alberto Magno, De anima, III., tr. 2., e. 12. Cfr. Archivio di filosofia. Organo dell' Istituto di Studi filosofici, Anno XV, voi. Ili e IV, 1946, p. 116; Rivista di storia della filosofia, II, 1947, pp. 212-214. ^^^ Alberto Magno, De natura et origine animae, I, e. 5. Cfr. Giornale critico della filosofia italiana, XII, 193 1, pp. 447-456. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 435 micoruin sententia, aiunt animain rationaleni formare hominem. Hinc anima rationalis solum dicitur « utens corpore ». Sensus autem dividitur in formantem et utentem: formans est extensus et dividuus; utens vero individuus et ubique totus. Hinc in tertio De anima, quinquagesimo octavo, ait Simplicius, eas quae sunt in materia non vere esse formas; absolute enim et proprie formae ab eo illae dicuntur quae solutae sunt a corpore, quarum infima est anima rationalis. Et quamvis in postremo commen- tario secundi De anima dicat: « humanam formam intelligimus consistere in vita quae per rationem perficitur, terminatas habente mensuras secundum tempus » ^^^, non tamen ob id denotat animam rationalem formare materiam, sed solum eam esse hominis es- sentiam et conditionem, ut ex variis ab eo relatis conspicue elici potest 163. Nel trattato De hiimana mente, come abbiamo visto, il Pic- colomini riteneva che Simplicio condividesse l'opinione, at- tribuita a Platone, dell'unità dell'anima razionale; e sappiamo ormai che questa tesi era attribuita a Simplicio dal Nifo, dal Genua e da altri. Negli ultimi anni del suo insegnamento, il senese ebbe a modificare questo suo parere. Egli ha cura anzi tutto di distinguere la Mente non partecipata, che nella gerarchia degli esseri occupa il primo grado dopo Dio, dalle menti partecipate: Loquendo de Mente non participata, non constat an una vel plures sint, et de hoc nihil distincte protulit Simplicius. Cum Plotino magis videtur statuenda una.... Ex ad verso lamblicus et Proclus, quos praesertim sequitur Simplicius, eas statuunt plures.... Simplicius, in primo contextu tertii De anima^^4, similiter plures affirmat, inquiens : « Differt haec participata forma a primis et non participatis formis, ut quae participetur ». Res itaque est dubia; et prò resolutione dicendum censeo, mentem non partici- patam dupliciter considerari: primo, absolute secundum se et iuncta supremo Uno, ac ita esse unam per participationem; secundo, ut recedit ab Uno et est terminus supremus participa- tarum mentium, qua ratione est multiplex.... 165. Non così è dell'anima razionale, che forma il quarto grado nella scala discendente degli esseri; ed è proprio qui che il 162 Simplicio, De anima, ed. Hayduck, p. 21S, 20 (ad III, e. 4, 52qa io; non dunque «in postremo commentario secundi libri», ma «in primo commentario tertii », secondo la divisione averroistica del testo aristotelico seguita anche dal Piccolomini e dai traduttori di Simplicio). 163 Piccolomini, ib., f. 217V. 164 Simplicio, De anima, ed. Hayduck, p. 218, 4 sgj. 165 Piccolomini, ib., i. 2i8r. 436 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Piccolomini sembra aver mutato parere nei riguardi di Sim- plicio : Animae rationales, ex sententia Simplicii, non una sunt, ut nonnulli ex Platonicis, et cum eis Averroes, existiniarunt; nec tot quot fuerunt et futuri sunt homines, ut censent Divus Thomas et Alexander; sed certo et definito numero sunt praeditae, quae ab aeterno ex idea Mentis manarunt. Qui numerus nec crescit unquain nec minuitur, sed animae singulae varias vivunt vitas, et ex una in aliam vitam, quasi in orbem, revolvuntur; nonnun- quam enim haerent vehiculo aethereo, in coque edunt facultatem sensuum..., nonnunquara vehiculo aereo..., acita per varios ascen- sus in caelum et descensus servant generationem hominum aeter- nam, ut colligitur ex Simplicio in II De anima, cont. 8 et 23, e in III De anima, cont. 20 et 21, ut etiam putarunt lamblicus et Proclus, quos sequitur Simplicius ^^^. Coir idea platonica del numero determinato delle anime che, discese ognuna nel proprio corpo, se ne separano per tornare ad unirsi ad altri corpi, in un ciclo eterno di transmi- grazioni, taluni pensavano si potesse risolvere la difficoltà, che gli averroisti facevano a chi riteneva le anime moltipli- cate col numero dei corpi e immortali. Se infatti il mondo, per Aristotele, è eterno, ed eterna la specie umana, bisogne- rebbe ammettere un numero infinito in atto di anime separate dai loro corpi. Di questa difficoltà s'era fatto forte anche il Bessarione, come abbiamo visto, per dar ragione ad Averroè neir interpretazione del pensiero d'Aristotele. Ma resta un'altra difficoltà. S. Tommaso ed altri avversari dell'avverroismo pretendevano che, secondo la dottrina aristo- telica, l'anima intellettiva fosse individuata e moltiplicata di numero soltanto per la sua unione al corpo; essi anzi pen- savano che le forme separate non fossero suscettibili di molte- plicità numerica. Ma se l'anima è individuata dal corpo, non si riesce a capire come possa mantenere questa individualità quando n' è separata. Tanto meno si capisce com'essa possa passare da un corpo all'altro, secondo la dottrina platonica, senza che ne resti spezzato il particolare legame che essa ha contratto con un corpo determinato, e senza che la sua in- dividualità sia cangiata. Questa difficoltà non esiste per Sim- plicio, come non esiste per Giamblico e per Proclo: 166 Piccolomini, ib., f. 2i8v. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 437 Distinguuntur ab invicem aniinae non per relationeni ad proprium corpus, nam variis haerere valent: ex quo patet quod non proprie formant, sed insinuantur et perinde ac nautae assi- stunt et utuntur. Sed distinguuntur per proprias individuas con- ditiones, quas ex variis stellis, ex quibus pendent, recipiunt, non secus ac invicem variarum stellarum radii secernuntur. Plotinus, in libro De dubiis aniniae primo, cap. sexto ^^7, inquit distinctionem animarum prodire vel ex corpore, vel ex recessu ab anima uni- versa, vel ex relatione varia ad Mentem. Mox cap. 15 inquit, difte- rentes reddi animas vel distinctione corporum quibus insinuantur, vel ob fortunas et educationes, vel ipsae demum ex se ipsis dif- ferentias deferunt, etc. Putat enim Plotinus universe eandem esse animae essentiam. Simplicius vero, una cum lamblico et Proclo, magis eas distinguit et se ipsis distingui affirmat propriis quibusdam differentiis individuantibus, procedentibus ex infinito et terminis animae competentibus, tanquam ex modo materiae et formae '68_ Su questi « termini » o proprietà intrinseche che rendono fra loro numericamente differenti le anime, avevano richiamato l'attenzione Marsilio Ficino e il Nifo, i quah ne avevano no- tato r identità con le «haecceitates» degli scotisti ^h; ed io ho avuto occasione di ricordare in proposito il pensiero di Enrico Bate da Mahnes, traduttore di vari opuscoli di Proclo e pre- cursore di quasi due secoli del platonismo del Ficino e di Pico della Mirandola i7'\ Il Piccolomini comprese che siffatta dot- trina dell' individuazione si opponeva direttamente all'aver- roismo, e risolveva la difficoltà, che abbiamo segnalata, assai meglio di quel che non avesse saputo fare S. Tommaso: ogni coscienza umana costituisce in se stessa una individuahtà insopprimibile e irriducibile, un modo particolare di rifran- gere la luce che effonde intorno a sé il sole eterno. Ma anche nella sua irriducibile individualità, l'anima ra- zionale è intimamente connessa colla Mente che è sopra di essa, e da quella attinge le ragioni che la guidano nel giudicare le cose che scorge sotto di sé, nel modo che abbiamo appreso dal Genua e dal Castellani. Quell'unità del pensiero, che co- stituisce il motivo gnoseologico fondamentale dell'averroismo, nella dottrina di Simplicio è concihata colla plurahtà numerica dei soggetti pensanti. 1^7 Plotino, Eìui., IV, III, e. 6. 168 Piccolomini, ib., p. 2i8v. 169 Cff. B. Nardi, Sigieri di Brah., cit., pp. 161-163. 17" Ib., p. 179. 438 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Utile ad intendere la settima delle nove conclusioni che Pico della Mirandola aveva attinto al commento di Simplicio al De anima, e che noi abbiamo riportato, è quanto il Picco- lomini scrive a proposito della dottrina di questo commen- tatore greco intorno alla sensazione: Descendendo ad sensum, qui ex anima rationali, tanquam vestigium, idolum et umbra, prodire dicitur, in eo non praecipue servantur rationes, cum non praecipue sit anima, sed servantur umbrae et imagines earum. Quae vis sentiens duplici fungitur officio: nam format instrumentum suum, eoque utitur; hinc divi- ditur in utentem et formantem. Ut format, magis extenditur et dividua redditur per corporis divisionem; ut vero utitur, individua est totaque est in toto.... Haec divisio solum competit animae rationali quatenus effundit inferiores vitas, formantes corpus, quibus ea utitur, at non proprie, ut dixi. Quo pacto facultas sentiens sit principium sentiendi, decla- ratur a Simplicio in I De anima, cont. 75, in II, 52 et 62, et saepe alibi. Eius sententia haec. est. Primo sensibile externum agit in instrumentum sensus, ac ita instrumentum ratione materiae patitur; quae passio non interitus sed perfectio est. Ratione autem facultatis formantis agit, quatenus per eam illa sensorii perpessio redditur spiritualior et purior; quae actio non est iudicium, sed dispositio ad illud. Mox ea affectio, syncerior reddita, attingit rationem nectiturque cum ea, ut effectus cum sua causa. Et tunc facultas utens per rationes consimiles consimilium promit iudicium, adeo ut per unam albedinis insitam rationem, sive dulcedinis, iudicium promat singularum albedinum et dulce- dinum; et id iudicium dicitur actio non formantis sed utentis. Quae facultas dicitur reddi simihs obiecto, non quia ab eo aliquid recipiat, sed quia per rationem ei respondentem agit et iudicat. Sic sentire est agere, praecurrente tamen instrumenti perpessione. Similitudo autem per quam sentiens redditur simile obiecto est triplex: prima pertinet ad passionem organi; secunda, ad actionem formantis; tertia, ad actionem utentis, quae prae- cipua est; adeo ut anima reddatur similis rei sensibili, non quia ab ea aliquid suscipiat, sed quia per propriam eius rationem agit. Insuper, discrimen est inter sensum et mentem, quia sensus cognoscit per rationes ei insitas, at non cognoscit rationes; mens autem intelligit nedum per rationes, sed etiam rationes.... ^71. Ritornando a parlare dell'anima razionale secondo la dot- trina di Simplicio, il Piccolomini, che innanzi aveva parlato dei gradi pei quali l'anima, che permane in sé, esce fuori di sé e discende nel corpo umano, viene ora a trattare dell'ascesa 171 PiccoLOMTNi, ib., f. aigr. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL <' DE ANIMA » 439 ossia del ritorno di essa alla sua originaria perfezione. Se i sono i gradi di questa ascesa: Mens.... ut per descensum redditur imperfecta, ita per ascen- sum perficitur. Nam cum sit pregressa et imperfecta, primo per- ficitur habitu. Quo ornata, formatur mente agente, hoc est a se ut in se manet, cum conversione ad infera. Tertio, elevatur ad gradum in se pure manentis. Per quem gradum quarto ascendit in Mentem participatam, a qua formatur; et eius rationes cum ideis participatis nectuntur ab eisque formantur et perficiuntur. Ex quo gradu quarto elevatur in quintum, nimirum in Mentem non participatam eiusque ideas, munere quarum extollitur. Sexto in Deum, caput idearum et mentium; in quem cum pervenerit, summo fruitur bono, quod adumbrate solum ei competere potest dum fuerit huic crasso corpori iuncta ^1-. Con quest'ultima affermazione il Piccolomini tende a sotto- lineare un altro dissenso fra Simplicio e gli averroisti, su un punto che al senese stava particolarmente a cuore. È noto che una delle più ardite tesi dell'averroismo è quella della « copulatio », ossia del congiungimento dell' intelletto umano coir intelletto agente identificato con un' intelligenza separata che per alcuni averroisti è Dio 173. Per tale congiungimento, la potenza dell' intelletto umano sarebbe totalmente attuata e l'uomo, fatto capace di conoscere nella loro essenza le in- telHgenze separate, raggiungerebbe il sommo bene cui la mente aspira, in una specie di indiamento. Questa mistica ampia- mente svolta da Alberto Magno nel secondo libro del De in- tellectu et intelligibili ^74, da Sigieri nel Liher de felicitate e da Alessandro Achillini nei Qiioliheta de intelligentiis ^75, ma de- risa dal Pomponazzi, fu abbandonata nel secolo XVI dal Montecatino e dal Piccolomini. Il primo, arrivato a commen- tare il famoso testo XXXVI del terzo libro del De anima, dichiara di respingere la dottrina dei commentatori greci ed arabi intorno al preteso congiungimento dell' intelletto umano in questa vita con le sostanze separate: Ita hanc rem cum latinis Thoma et Scoto, contra graecos et arabes, quos Albertus sequitur, determinamus. Ridemusque 172 Ib., f. 219V. 173 Cfr. AvERROÈ, De anima. III, comm. 36; B. Nardi, Sigieri di Brab., cit., pp. 21-29, nonché qui sopra il saggio VI. 174 Cfr. Riv. di storia della filos., II, 1947 21, pp. 215-220. 175 V. sopra, il saggio VIII, § 4. 44C l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI fictitiam illam mentis nostrae, quandiu cum corpore coniuncta est, copulationem ex lumine naturali, sine gratia, cum separatis substantiis; quam inducere arabes student in scholam peripa- teticam, somniant platonici quidam, non testimonium de se ipsis dicentes, quod ita sit, non afterentes rationem ullam firmam, nisi illa est firma, quam Averroes facit in prima commentatione primi minoris Postnaturalium, sed declarantes tantummodo, commemoratione exemplorum similitudinumque, qualis ea sit copulatio; perinde ac si quispiam conaretur estendere qualis esset Chimaera aut Centaurus 176. D'accordo col Montecatino, anche il Piccolomini espone la dottrina averroistica sul modo come la mente umana arriva a congiungersi con le sostanze separate, e, dopo avere osser- vato che Averroè su questo punto gli sembra «satis obscurus»!??, ne ribatte gli argomenti, ritenendo che l'uomo non possa in questa vita, colle sue forze naturali, pervenire al grado di beatitudine che gli averroisti pretendevano '"S. E poiché questi s'adopravano a tirar Simplicio dalla loro parte, egli ne espone il pensiero in modo da togliere ad essi anche questa illusione. Il congiungimento della mente umana con la mente divina, non è possibile se non dopo che l'anima s' è separata dal peso del corpo ed ha raggiunta l' immortahtà. Dotata di una sua propria e intrinseca individuaHtà, l'anima umana, per Simplicio, è capace di ritrarsi dalla vita corporea e di continuare a pensare e a volere, anche quando la compa- gine del corpo s' è disciolta '79. Tale, concludendo, il senese ritiene fosse la dottrina di Simplicio, checché altri ne pensasse: Hanc ego puto fuisse sententiam Simplicii in expositione li- brorum De anima, quam partim elicio ex verbis eius, partim ex lamblico et Proclo, quos sibi duces statuit; nec propterea me latet M. Antonium lanuam, lulium Castellanum et alios nonnullos viros sapientia celebres plurima ad eam attinentia secus retulisse, in quorum varietate morari nolo. Haec profecto est sententia praeclarissimorum Academicorum ; Simpiicius autem se medium constituens, conciliique cupidus, ait hanc quoque fuisse senten- tiam Aristotelis et in hanc etiam nititur trahere verba et sententias eius[dem] Aristotelis. Nec desunt viri docti qui ei 176 A. Montecatino, In III de anima, cit., ad t. e. 36, p. 451. 177 Piccolomini, Univ. philos. de moribus, gradus IX, e. 34, p. 517. 178 Ib., capp. 35-38, pp. 518-526. 179 Piccolomini, Capita sententiae Simplicii, f. 219V. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL « DE ANIMA » 44! adhaereant. Ego tamen puto de multis Aristotelem a Platone dissentire, in quorum explicatione a Simplicio recedendum existi- marem i8o_ Ed enumera ben ventiquattro punti concernenti il suo dis- senso dal commentatore greco, sul modo tenuto da questo di sforzare il testo aristotelico per trarlo in senso platonico ^^K 9. - Le vicende, che abbiamo narrato, del commento di Simplicio al De anima, nel Rinascimento, durante il periodo che va da Pico della Mirandola a Francesco Piccolomini, mi pare dimostrino che la fortuna di questo commento è essen_ zialmente legata alla storia dell'ultimo averroismo. Mentre alcuni averroisti, chiusi nell'angusto ambito della scuola, continuavano a parlare un linguaggio ostico, che si faceva di giorno in giorno sempre piìi incomprensibile, altri, meno gretti, apersero l'animo fiducioso alla nuova cultura classica e tentaron di rinnovarsi. I primi, anche se fra essi erano in- gegni acuti e pensatori audaci come Alessandro Achillini, furon presto votati all' oblio, senza speranza che una nuova generazione tentasse piìi tardi di farne rivivere il pensiero. I secondi, invece, smesso l' irto linguaggio della scuola, osa- rono, appoggiandosi ai commenti di Temistio e di Simplicio e seguendo l'esempio del Pico, di svolgere la dottrina d'Averroè, orientandola verso il platonismo. Come quei due antichi com- mentatori greci, anche questi averroisti si proposero di ac- cordare Aristotele con Platone, A quest'uopo impararono anch'essi il greco, per poter leggere nella lingua originale non soltanto gli scritti di questi due filosofi, ma altresì quei com- menti che perseguivano lo stesso proposito di conciliazione. Grazie ai loro sforzi, l'averroismo potè godere ancora d'un secolo di vita, sino alla fine del Cinquecento. Ma alla fine di questo secolo, l'averroismo come scuola tramonta per sempre. Nella loro fedeltà ad Aristotele, gli averroisti furono i più ostinati avversari di ogni rinnovamento scientifico, sì nel campo dell'astronomia come in quelli della fisica e della medicina. Non che al sistema copernicano, essi i8o Ibid. i8i Ib., ff. 219-221V. 442 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI s'opposero perfino alla dottrina tolemaica degli eccentrici e degli epicicli ! In un tempo in cui si faceva sempre più strada r idea della possibilità d'un mondo infinito, essi continuavano a negare l' infinità intensiva della virtù del primo motore. Assurdo era per loro tutto quello che non entrasse negli schemi della Fisica aristotelica, che neanche Dio avrebbe potuto modificare. Il nascere della nuova fisica matematica e della nuova filosofia della natura fece crollare « ab imis funda- mentis » la costruzione aristotelica del mondo, e i primi ad esser travolti e sepolti sotto le rovine furono gli averroisti, come quelli che non avevano aspirato ad altra gloria che d'essere i più intrepidi difensori d'una fortezza ormai sman- tellata. Anche la fiducia da essi riposta nel commento di Simplicio al De anima ebbe a subire una forte scossa, quando il Picco- lomini dimostrò che l' interpretazione del Genua e della sua scuola era un continuo fraintendimento della genuina dottrina di questo commentatore greco. Collega del Piccolomini a Padova, dopo il 1592, era un altro giovane toscano che a Pisa aveva acquistato familiarità col commento di Simplicio alla Fisica e al De caelo. Il nome del commentatore greco d'Aristotele doveva esser rimasto legato nella sua memoria ai primi scontri coU'aristotelismo, già nell'ateneo pisano. A Padova quel nome, così spesso ripetuto nel clamore delle dispute, dovette certo svegliare nell'animo del giovane maestro propenso a cogliere, da buon toscano, il lato umoristico delle cose, un vivo senso di ilarità che, coll'andare del tempo, ec- citò la sua fantasia a creare la divertente caricatura del dotto pedante, che nel Dialogo dei massimi sistemi impersona l'ul- timo borioso e goffo difensore della scienza aristotelica. XIV LA FINE DELL'AVERROISMO * Gli storici del pensiero medievale ci hanno dato dell'aver- roismo un concetto che forse non è del tutto esatto e che bi- sognerà sottoporre a una revisione critica. Dalla vecchia opera d' Ernesto Renan, Averroès et l'aver- roisme, fino alla grande monografia del p. Mandonnet, Siger de Brabant et l'averroisme latin aii XlIIe siede, anzi fino alla più recente monografia di Fernand Van Steenberghen, Sig. de Brab. d'après ses ceiivres inédites, l'averroismo è presentato come un'eresia dotta, un movimento eterodosso, un'anticipa- zione storica del « libero pensiero », o, com' è stato anche detto, r « Aufklàrung » medievale. Il maggiore responsabile di questa interpretazione storica dell'averroismo è stato S. Tommaso d'Aquino, tutto preso com'era dal bisogno di dimostrare il perfetto accordo fra la scienza e la fede, tra la filosofia aristotelica, che nel medio evo era considerata come la filosofia per eccellenza, la filosofia tout-court, e la teologia cristiana. Secondo lo spirito del con- cordismo tomistico, Averroè fu, prima di tutto, «non tam peripateticus quam peripateticae philosophiae depravator » ; fu quindi il primo sostenitore d'una dottrina, che, filosofica- mente assurda, doveva giudicarsi eretica dal punto di vista della rivelazione cristiana e proscriversi come tale. Ispirate a questo concetto tomistico dell'averroismo sono quelle figurazioni artistiche che s'ammirano a Firenze nella Cappella degli Spagnuoli, nella tela del Traini nella chiesa * Dal voi. Pensée hitmanìste et tradition chrétienne aiix XVe et XV le siècles, « Publications de la Société d'études italiennes », Parigi, 1948, pp. 139-151- 444 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI domenicana di S. Caterina a Pisa, nel dipinto di Benozzo Gozzoli al Louvre e in quello di Filippino Lippi in S. Maria sopra Minerva a Roma, rappresentanti il trionfo di S. Tom- maso. In esse, Averroè è raffigurato prostrato nella polvere ai piedi del dottore d'Aquino, a significare la vittoria della verità cristiana sull'eresia e sul gentilesimo. Del resto, l'Aquinate non fu il solo a scorgere nell'averroismo un pericolo per la fede: le due condanne pronunziate nel 1270 e nel 1277 dal vescovo di Parigi col consenso dei maestri di teologia dell'università, dimostrano che le autorità eccle- siastiche, le quali seguivano con occhio vigile le discussioni in seno all' università parigina, erano seriamente preoccupate dell'atteggiamento di Sigieri di Brabante, di Bernieri di Ni- velles, di Gosvino de la Chapelle e di Boezio di Dacia. E i primi tre, canonici tutti e tre a Liegi e maestri a Parigi, furon citati nel novembre 1276 dall' inquisitore di Francia a Saint Quintin, come veementemente sospetti d'eresia. Eppure, malgrado tutto quello che S. Tommaso aveva scritto contro l'averroismo, anzi malgrado le condanne da parte del vescovo di Parigi, l'averroismo continuò ad avere una vita assai prospera per ben tre secoli. A Parigi stessa, nella stessa facoltà delle arti, ove aveva insegnato Sigieri, troviamo, nei primi decenni del secolo XIV, quel Giovanni di Jandun che senza dubbio fu il più strenuo e il più sistema- tico difensore dell'averroismo a Parigi. E mentre noi sten- tiamo a ritrovare oggi qualche brandello della produzione letteraria del grande Sigieri, « Segerus magnus », com' è chia- mato in alcuni manoscritti del secolo XIV, noi possediamo innumerevoli manoscritti e molte edizioni a stampa di quasi tutti gli scritti di Giovanni di Jandun. Attraverso le prolisse discussioni di G. di Jandun, e le copiose notizie che egli ci ha tramandato, è consentito di farci un' idea esatta della vitalità dell'averroismo parigino, e di trarne la convinzione che le condanne contro di esso, se non erano del tutto dimenticate, avevano finito per perdere ogni valore. A questo risultato avevano contribuito alcuni teologi, i quali non esitarono a dichiarare apertamente inconcludenti gli argomenti che S. Tommaso aveva adoperato per combattere l'averroismo. Questi teologi si chiam.avano Enrico di Harclay, maestro e cancelhere a Oxford, Gerardo da Bologna, carme- litano, Pietro d'x\uriole, francescano, Giovanni di Baconthorpe, LA FINE dell'averroismo 445 altro carmelitano, che gli averroisti padovani della fine del secolo XV non esitarono a salutare col nome di « princeps averroistarum ». L'amico p. B. Xiberta ha buon giuoco quando dimostra che Giovanni di Baconthorpe non professò mai la dottrina dell'unità dell'intelletto. Ma io aggiungerò che nemmeno Sigieri, nemmeno Giovanni di Jandun professarono mai le tesi che si attribui- rono agli averroisti, poiché essi ebbero sempre l'accorgimento di dichiarare che parlavano non come cristiani, ma come filosofi. Ora la filosofia del medio evo, come ha ben compreso il p. Laurent, non è come per noi moderni sapere assoluto, cioè spirito critico dell'uomo che organizza la propria espe- rienza, tutta la propria esperienza, in una visione unitaria della vita e del mondo. La filosofia dei medievali è una dot- trina organica della natura e delle cause naturali quale era stata elaborata da Aristotele, che mussulmani e cristiani accettarono, perché né il cristianesimo né l' islamismo si erano curati di dare all'uomo una dottrina dell'ordinamento cosmico. Nel Vangelo e nel Corano una filosofia della natura manca. La filosofia aristotelica suppliva a questa mancanza. Accettandola, tanto i mussulmani quanto i cristiani, senti- rono che la filosofia aristotelica era cosa ben diversa dalla rivelazione religiosa sia del Corano che del Vangelo. Ma, mentre Avicenna tra gli arabi e S. Tommaso tra i pensatori cristiani del medio evo si sforzarono di accordare la filosofia aristotelica col pensiero teologico, Averroè al contrario di- mostrò che per arrivare a questo accordo bisognava falsare i principi fondamentali della metafisica aristotelica, ed egli denunciava Avicenna come il maggiore falsificatore del pen- siero d'Aristotele. Aveva ragione od aveva torto Averroè ? Non è possibile affrontare così alla sbrigativa un problema come questo, che è prima di tutto un problema di ordine er- meneutico e filologico. E l'averroismo è appunto, anzi essen- zialmente, un' interpretazione del pensiero d'Aristotele, di- versa e, su molti punti, opposta a quella di Avicenna e di S. Tommaso. Quando l'averroista dichiara: — Di necessità io concludo, che l'anima razionale è unica per tutti gli uomini; ma per fede penso che le anime sono molteplici ed indi- viduali — , vuol dire: dati i principi della metafisica aristo- telica, ne segue necessariamente l'unità dell' intelletto. La 446 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI ragione umana che ha per sua guida Aristotele, non riesce, senza la luce della fede, a vedere la falsità di quei principi. Come già dicevo, non soltanto gli averroisti, ma anche i teologi che ho ricordato, ed ai quali potrei aggiungere Gu- glielmo di Occam ed altri ancora, giungevano alla stessa con- clusione : r interpretazione tomistica di Aristotele non è interpretazione spregiudicata, ma un' interpretazione che obbedisce ad un proposito deliberatamente concordista e apologetico, già denunciato da Enrico di Harclay e dal carme- litano Gerardo da Bologna, e cioè « de Aristotele haeretico tacere catholicum ». Un ugual tentativo sarà rinnovato in pieno umanesimo da Giorgio di Trebisonda, contro il quale si scaglia il Cardinale Bessarione nell'opera /;: calumniatoyeni Platonis. Come S. Tommaso, il Trapesunzio sosteneva che, secondo la dottrina di Aristotele, l'anima intellettiva è forma sostanziale del corpo umano, al quale dà il suo essere specifico; che essa è moltiplicata col numero dei corpi; che essa è cominciata col corpo, ma col corpo non finisce, essendo immortale a parte post. Il Bessarione, che attraverso il Trapesunzio colpisce lo stesso Aquinate, osserva che siffatta interpretazione del pensiero aristotelico si oppone direttamente ai principi più certi della Metafisica d'Aristotele. Per lo Stagirita non può essere immor- tale a parte post, quello che non è perpetuo e immortale a parte ante. Perciò, se l'anima umana è immortale a parte post, non può avere avuto principio insieme al corpo, ma deve esistere dall'eternità. Sì che, se fosse vera l' interpretazione di S. Tommaso e del Trapesunzio, se cioè l'anima razionale fosse forma sostanziale del corpo e moltiplicata insieme a que- sto, bisognerebbe ammettere che un numero infinito di anime dall'eternità attendono il momento di unirsi al corpo di cui sono forma, restando intanto prive della loro naturale per- fezione: oppure che un numero finito di anime s'incarni suc- cessivamente in corpi diversi, in un ciclo eterno d' infinite reincarnazioni: cose tutte che Aristottle ritiene assurde. Dunque, conclude il Bessarione, secondo la genuina dottrina d'Aristotele, o si deve ammettere con Alessandro d'Afrodisia che l'anima muore col corpo, oppure è necessario concludere con Averroè, che l'intelletto umano è uno solo per tutti gli uomini, ed è eterno a parte ante e a parte post. E che in que- st'ultimo modo vada inteso Aristotele, è confermato dal Bes- LA FINE dell'averroismo 447 sarione coH'autorità d'un averroista inglese, Tommaso di Wilton, che verso la metà del secolo XIV aveva insegnato ad Oxford le stesse dottrine che Sigieri e Giovanni di Jandun avevano insegnato a Parigi. Tutto quello che Giorgio di Trebisonda e S. Tommaso spac- ciano come dottrina di Aristotele, dice ancora il Cardinal Bessarione, è dottrina particolare della nostra fede e niente ha che fare coll'aristotelismo. E non mi farebbe meraviglia, aggiunge il Bessarione, se di questo passo s'arrivasse a trovare in Aristotele il dogma dell' incarnazione, della passione e della resurrezione di Cristo, e a profanare in tal modo i più santi misteri della nostra fede. Ottant'anni dopo che il grande Bessarione ebbe scritto la sua opera contro il Trapesunzio, un averroista italiano che qui a Parigi era stato chiamato da Francesco I a insegnare la filosofìa sul testo greco d'Aristotele, il milanese Francesco da Vimercate, alla fine della sua Peripatetica disceptatio> stampata a Parigi, in « Officina Christiani Wecheli », nel- l'anno 1543, ispirandosi al Bessarione, osserva molto giusta- mente, che coloro che hanno bisogno di confermare la loro fede coH'autorità di Aristotele, non sembrano aver molta fiducia nella parola di Cristo. E poco più di un ventennio dopo, esattamente nel 1567, un altro aristotelico italiano, ma non averroista, bensì alessandrista, Giulio Castellani da Faenza, diceva che coloro che esitano a prender posizione e a dichiarare il loro pensiero per ciò che riguarda i problemi dello spirito umano, per paura di trovarsi in contrasto colla fede, « profecto huiusmodi homines ignorare videntur, quam Christiana fìdes et charitas a philosophandi ratione distet, et quam nullius sint ponderis Aristotelis inventa et argumen- tationes ad sanctissimae religionis nostrae decreta labe- factanda ». E conclude con un linguaggio da gran galantuomo, senza falsi pudori: « Audacter igitur etiam possumus de animi nostri substantia ac perpetuitate disserere, perpendereque diligenter quid de eo discernendum voluerit Aristoteles. Si quideni cum nos philosophamus, ex aliorum sententia loquimur, semperque, ut christiani, Sacrarum Litterarum preciosissima monumenta pie colenda et observanda supponimus ». Ecco dunque a che cosa si riduce la così detta « dottrina della doppia verità », della quale si sono scandalizzati gli sto- rici moderni della filosofìa. Non se ne scandalizzarono invece 448 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI gl'inquisitori dell'eretica pravità; ai c]uali interessava medio- cremente di sapere come la pensasse Aristotele. Ad essi ba- stava di sapere che sia gli averroisti che gli alessandristi non ponevano in discussione le verità rivelate, bensì la dottrina di Aristotele. Che se poi Aristotele non s'accordava alla fede di Cristo, tanto peggio per lui; e tanto peggio per chi lasciava Cristo per Aristotele. S'oda, per esempio, quest'avvertenza che Polo Loredan, patrizio veneziano, rivolge al lettore nell'atto di congedare per la stampa il suo commento al De anima condotto secondo lo spirito alessandrista del Pomponazzi, del Porzio e del Ca- stellani, e dedicato nel 1596 al serenissimo duca d'Urbino, Francesco Maria da Montefeltro: «Pie lector, haec mea com- mentarla pie legito, et tantum mentem Philosophi hic inter- pretari scito; et me interpretem christianum et Sanctae Ro- manae Ecclesiae filium esse advertito, et prò Domino nostro lesu et Ecclesia mori paratum habeto; Aristotelem christia- num non extitisse notato, nec ipsum Christiane scripsisse nec Christiane expositum observato. Fidem Christi Dei et Dei filli tot tantisque miraculis firmatam inspicito, auctori- tate Aristotelis non indigeto, et si quae veritatem catholicam turbantia legeris, tamquam falsa et ab Aristotele impio prolata prò firmo et indubitato habeto tenetoque. Vale ». Perciò le autorità ecclesiastiche, dai primi anni del se- colo XIV in poi, avevano finito per acquetarsi a siffatte di- chiarazioni, e lasciarono sia agli averroisti che agli alessandristi la più ampia libertà di discussione e di critica. Le difficoltà che i dantisti trovano ad intendere come Dante possa aver messo nel suo Paradiso, a fianco di S. Tommaso, un averroista qual era stato Sigieri di Brabante, e farne l'elogio che Dante fa pronunciare allo stesso Tommaso d'Aquino, derivano da due cose: primo, dal non aver capito la particolare natura della filosofia di Dante; secondo, dal non aver capito che cosa è stato l'averroismo. Questi commentatori di Dante, invece di guardare alla figurazione dantesca in se stessa e in rapporto al pensiero del poeta che pone « Averrois che '1 gran commento feo » tra gli spiriti magni del nobile castello, si son lasciati for- viare dalle raffigurazioni cui accennavo in principio, e nelle quali Averroè è prostrato nella polvere ai piedi di S. Tom- maso. LA FINE DFXL AVERROISMO 449 A queste figurazioni d' ispirazione domenicana e tomistica parrebbe opporsi invece quella d' ispirazione agostiniana che Giusto dipinse, poco prima del 1370, nella cappella dei Cor- telieri annessa alla chiesa degli Eremitani a Padova, ove aveva insegnato Gregorio da Rimini. Dalle descrizioni che un secolo dopo ne lasciò Hermann Schedel, in questo affresco del Menabuoi Averroè era dipinto a fianco di Maestro Alberto da Padova, teologo eremitano morto nel 1328, e del beato Giovanni della Lana da Bologna, filosofo e teologo ed an- ch'esso eremitano, morto, a quanto pare, intorno al 1350. Questo affresco deve avere impressionato il giovane ere- mitano Paolo Veneto che pochi decenni dopo, reduce an- ch'egli, al pari di Gregorio da Rimini, dalle scuole di Oxford e di Parigi, e salito sulla cattedra di filosofia nelle scuole an- nesse al convento agostiniano di Padova, ispirò il suo insegna- mento alla dottrina sigeriana, sforzandosi di dimostrare in che modo l' intelletto, unico per tutta la specie umana, riesce ad individualizzarsi nei singoli. lAlla stessa dottrina sige- riana s' ispirano verso la fine del secolo XV, Pico della Mi- randola, Alessandro AchiUini, Agostino Nifo, Tiberio Ba- cilieri e altri. L'averroismo che ormai pareva avere esaurita la sua vi- talità a Parigi ed a Oxford, sopraffatto dallo scotismo e dal- l'occamismo, s'era ridotto ormai nelle sue due ultime fortezze di Padova e di Bologna. Accade ancora di trovare qualche altro averroista altrove, come Luca Prassicio a Napoh, che già vecchio intervenne nel 1521 nella polemica fra il Pompo- nazzi ed il Nifo. Ma nel suo rigido attaccamento al testo aver- roistico, egli parlava un linguaggio che si faceva di giorno in giorno più incomprensibile. Anche a Bologna, ove l'averroismo sigeriano aveva trovato alla fine del Quattrocento nell'Achillini un difensore ardito e destro, non ebbe in Ludovico Boccadiferro un successore degno di tanto maestro. A Padova invece l'averroismo prese a rinnovarsi, sotto la spinta del Platonismo. Nel 1481 era uscita a Treviso la traduzione che Ermolao Barbaro aveva fatto delle Parafrasi di Temistio. A questo interprete bizantino e a Teofrasto, Averroè stesso aveva fatto risalire la dottrina dell'unità dell' intelletto. Non fa quindi meraviglia che gli averroisti si ponessero a studiare con parti- colare interesse la parafrasi temistiana del De anima, nella 29 450 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI traduzione del Barbaro, visto che la traduzione medievale di Guglielmo di Moerbeke era diventata estremamente rara, e del resto era oltremodo ostica all'orecchio degli umanisti. Ma assai più della parafrasi di Temistio, contribuì al rinnova- mento dell'averroismo padovano la conoscenza del commento di Simplicio al De anima, rimasto sconosciuto ai medievali. Il primo che, a mio parere, conobbe ed usò il commento di Simplicio al De anima fu Pico della Mirandola, il quale ne estrasse ben nove tesi delle 900 preparate nel i486 per k disputa da tenere a Roma, che poi non ebbe luogo. Il com- mento di Simplicio dovette attirare l'attenzione del Pico, perché pareva contenere un elemento che poteva essere pre— ^ zioso a risolvere il problema centrale dell'averroismo e che è il problema centrale di tutta la filosofia, e cioè: in che modo r intelletto che è un principio di conoscenza universale e che nella sua natura trascende l' individuo, si comunica a questo, puntualizzandosi nello spazio e nel tempo. Come ho dimo- strato più volte, il significato storico ed il valore filosofico dell'averroismo consiste appunto nello sforzo di risolvere questo problema, che, posto dai medievali in termini, se vo- gliamo, contingenti e per noi inconsueti, è il problema eterno della filosofia. Il trattato di Sigieri di Brabante, De intellectu, scritto in risposta al trattato di S. Tommaso contro gli aver- roisti, questo trattato di Sigieri che si leggeva ancora a Pa- dova negli ultimi decenni del sec. XV, suggeriva al signore della Mirandola, studente a Padova ed averroista, una solu- zione della quale si ha l'accenno in due delle « conclusiones secundum Avenroem»: da un lato, l'anima intellettiva è una sola in tutti gli uomini; dall'altro, sembra possibile al Pico, da un punto di vista strettamente averroistico, che la mia anima, così particolarmente mia da distinguersi dall'anima di ogni altro uomo, possa conservare la sua individualità anche dopo la morte. L'elemento prezioso che il commento di Simplicio forniva al Pico, consiste nell' idea, derivata da Proclo e da Giambhco, di un intelletto che, uno in sé, è capace di parteciparsi, uscendo fuori di sé, in una discesa progressiva verso le «seconde vite», cioè la vita vegetale e quella animale, per poi ritornare in sé, in un circolo eterno che ricorda, anche nella curiosa coinci- denza dell'espressione verbale, il processo hegeliano dell' idea in sé che, uscita fuori di sé, ritorna a sé come spirito. LA FINE DELL AVERROISMO 45 1 Non è il caso d' indugiarmi piìi oltre ; ma non posso non ricordare la curiosa immagine che il Pico suggeriva al Nifo, professore a Padova, durante il viaggio che insieme eb- bero a fare diretti entrambi a Bologna. L'unità dell' intelletto umano non è altro che l'unità dell' idea platonica, che si co- munica ai singoli rimanendo, in se stessa, una, indivisibile e immoltiplicabile. Ma, nel comunicarsi ai singoli, essa lascia in questi un' impronta e un vestigio che permane e costituisce r individuahtà dei singoli. E, per rendere il suo concetto, il mirandolano ricorreva a questo paragone. Come per co- struire un arco o una volta è necessaria quell' impalcatura che chiamano centina; ma quando l'arco o la volta sono co- struiti, si reggono da sé, senza bisogno di sostegno; così l'anima individuale è una partecipazione dell'anima universale, la quale nel corpo di ogni individuo umano' lascia un'impronta in cui consiste l' individualità di ogni uomo. In tal modo il mirandolano non ripudiava affatto il suo averroismo del periodo padovano; ma anzi l'approfondiva e lo giustificava con un concetto neoplatonico, sì che il problema, nel quale si dibattevano senza via d'uscita gli averroisti, pareva avviato alla soluzione. Agostino Nifo, professore a Padova dal 1492 al 1499, uomo di vasta erudizione, ma confusionario e pretenzioso, credette in un primo momento di aver trovato nel commento di Sim- pUcio la piena conferma alla tesi sigeriana, che egli ci attesta di aver accolto nella sua prima giovinezza e poi con molta disinvoltura abbandonato. La vivacità chiassosa ed arrogante che il Nifo metteva nel difendere le proprie idee e nel combattere le altrui, contribuì ad attirare l'attenzione sul commento di Simphcio, del quale frattanto fu preparata l'edizione in greco che uscì a Venezia nel 1527, presso i Manuzio. Colui che pur senza condividere le idee del Nifo, anzi combattendole apertamente, si diede con ardore a studiare il commento di Simplicio al De anima, fu Marcantonio de' Passeri, detto il Genua, professore di filo- sofia nello studio di Padova dal 15 17 all'anno della sua morte nel 1563. Di costui ci resta un importante commento al De anima, pubblicato postumo nel 1576, a Venezia, ad opera di fedeli alhevi che si giovarono dei manoscritti lasciati dal maestro. Altre due redazioni dello stesso corso, tenuto in anni diversi, ci restano manoscritte nella Biblioteca Vaticana. 452 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Averroista, il Genua riteneva di poter proclamare il pieno accordo fra Averroè e « il divino Simplicio », sia sulla tesi del- l'unità dell' intelletto, sia su quella che vuole, contro la cor- rente sigeriana del Nifo, l'anima razionale forma assistente e non inerente o « informante » del corpo umano. Inoltre, egli constatava l'accordo tra il commentatore greco e quello arabo anche su altri punti, segnatamente sulla conoscenza. Nel far ciò, egli si ado prava a sviluppare alcuni motivi platonici che realmente erano latenti nel pensiero averroistico. Natu- ralmente il Genua fu uno dei più risoluti avversari dell'ales- sandrismo, e riprese per proprio conto, come altri averroisti, la polemica contro il Pomponazzi e il Porzio, i quali, al pari di Vincenzo Maggi, di Bassiano Landò e di Giulio Castellani, s'erano dichiarati per Alessandro d'Afrodisia. L'avvicinamento di Averroè a Simplicio, mentre forniva nuove armi agli averroisti, sembrò per un momento smus- sare l'antagonismo tra la filosofìa aristotelica e quella pla- tonica, la quale aveva avuto nel Ficino un sagace rinnova- tore. La scuola del Genua pareva anzi aver trovato nel neo- platonismo la soluzione di quelle difficoltà, che furon lo scoglio contro il quale l'averroismo doveva naufragare. L'entusiasmo dei discepoli incoraggiava ed assecondava l'opera del maestro. Fra questi merita di essere segnalato Giovanni Fasolo, professore di lettere umane nello studio padovano. Era da otto anni allievo del Genua e ben tre volte aveva udito il maestro esporre il De anima, quando condusse a termine la traduzione in latino del commento di Simplicio sul trattato aristotelico, stampata a Venezia nel 1543. Nella lettera indirizzata agli alunni del Genua, e premessa alla traduzione del secondo libro di Simplicio, il Fasolo, dopo aver loro ricordato, come il maestro solesse a tutti gli altri commen- tatori d'Aristotele anteporre Averroè e Simplicio, afferma che tutto quanto v' è di buono nei libri dell'arabo, questi 1' ha appreso dal commentatore greco. E sebbene egli riconosca, che, su alcuni punti, non s'arriverebbe a capire Aristotele senza il commento averroistico, tuttavia ne mette in rilievo lo stile, più che disadorno, irto, oscuro, barbarico, mentre l'esposizione di Simplicio è piana, senza ambiguità, ed ele- gante. Forte di questa constatazione, e più ancora dell'esempio del maestro, che non si stancava di lodare la divina esposi- zione dell' interprete greco, il Fasolo rivolge una calda esor- LA FINE DELL AVERROISMO 453 tazione ai suoi condiscepoli, perché vogliano, ora che il com- mento di Simplicio è reso facilmente accessibile a tutti, ces- sare di logorarsi il cervello sulle pagine scabrose di Averroè, e s'affidino invece all'espositore greco. Si buttino pur via tutti gli altri commenti, quelli d'Alberto Magno, d' Egidio Romano, del Burleo, del Suessano e d'altri insieme a quello d' Averroè, e si studi invece di giorno e di notte soltanto Simphcio: « alios negligite; Simplicium unum vobis die noctuque versandum proponite w. Questo vivace appello rivolto dall'umanista padovano a cacciar dalle scuole Averroè, era fatto, a dir vero, più in nome dell'eleganza e del buon gusto letterario, che non nel nome della filosofìa; e pochi l'accolsero. Sicché Averroè continuò ad essere stampato, letto e discusso « in utramque partem » nelle scuole di filosofia durante tutto il Cinquecento. Ma quell'appello, ad ogni modo, è significativo del disgusto che cominciava così apertamente a manifestarsi per l'averroismo ormai prossimo al tramonto. Chi credesse che a questo tramonto abbiano contribuito lo spirito della controriforma e i divieti ecclesiastici, s' inganne- rebbe. Chiarito ormai quello che era il significato dell'averroismo come sistema interpretativo del pensiero aristotelico, fu ri- conosciuta tanto agli averroisti quanto agh alessandristi la più spregiudicata libertà di discussione delle loro dottrine « filosofiche ». Se qualche tentativo fu fatto, da parte di qual- che zelante, di Hmitare siffatta hbertà, si tratta di zelo ec- cessivo e di eccezioni sporadiche. L'averroismo volse al tramonto sul finire del secolo XVI e sul cominciare del secolo successivo, perché al tramonto vol- geva ormai l'aristotelismo, del quale l'averroismo pretendeva d'essere la più fedele interpretazione. L'aristotelismo a sua volta finiva per interna dissoluzione, sotto i colpi della critica occamistica, la quale, svalutando la conoscenza astrattiva, metteva in evidenza lo pseudo matematismo dei procedimenti gnoseologici che sono alla base del sistema aristotelico della natura, e additava nella conoscenza intuitiva lo strumento della ricerca scientifica. La stessa opposizione tra ciò che è vero per fede e quello che è da pensare secondo la «filosofia», se pur in qualche modo giovò a rivendicare la Hbertà della critica entro i confini della filosofia aristotehca, finì per rendere sempre più estraneo al 29 * 454 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI cristianesimo raristotelismo averroistico, il quale si rivelava incapace di sistemare l'esperienza religiosa che trae impulso dal Vangelo. 11 platonismo invece era parso al Ficino una specie di propedeutica al cristianesimo, sì che sembrava agevole sviluppare in senso cristiano i motivi religiosi che racchiudeva. S'aggiunga a questo l'asperità di un linguaggio che lacerava le orecchie abituate dall'umanesimo all'armonia e al numero della retorica classica. Ma quello che determinò il crollo definitivo dell'aristoter- lismo e dell'averroismo, fu il nascere di una nuova filosofia della natura, fondata su un nuovo metodo di ricerca scienti- fica: la logica dell'esperienza. Mentre i precursori di Coper- nico, da Nicola d'Oresme in poi, avevano rimesso in discussione l'antica ipotesi pitagorica del moto della terra, l'averroista bolo- gnese Alessandro Achillini alla fine del secolo XV e nel primo de- cennio del XVI combatteva perfino, come troppo ardita, la dot- trina tolemaica degli eccentrici e degli epicicli, per ritornare a quella aristotelica delle sfere concentriche alla terra, considerata il centro immobile dell'universo. E mentre alcuni scolastici del sec. XIV avevano dimostrato la possibilità di un universo infinito creato da Dio, ed avevano preparato la via al Cardinal Cusano e al Bruno, gli averroisti del Quattrocento e del Cinquecento continuavano ancora a sostenere che il mondo non si esten- desse al di là dell'ottava sfera o, tutt'al più, del primo mobile,, che Dio stesso, nella sua onnipotenza, non potesse creare altri mondi diversi da questo, e che il moto del primo mobile fosse un movimento assoluto, come punti di riferimento assoluti erano, per loro, il centro della terra e la convessità della prima sfera. Questa angusta concezione dell'universo fisico crollava come un castello di carte, il giorno in cui, col dialogo della Cena delle ceneri e con quello Dell'universo infinito e mondi, il concetto dell' infinito faceva irruzione nella filosofia della natura e conduceva alla scoperta della relatività di tutte le determinazioni spaziali e temporali. L'averroismo fu sepolto sotto le rovine della fisica aristotelica. Ed anche il tentativo del Pico e del Genua di svolgere ta- luni motivi del pensiero averroistico in senso platonico, col- l'aiuto del commento di Temistio e di Simplicio e sopratutto- col sussidio di Plotino, non valse a salvare 1' averroismo come sistema. Per ciò che si riferisce al commento di Simplicio, nel quale avevano riposto le loro speranze il Genua ed i suoi pa- LA FINE dell'averroismo 455 do vani, non passarono molti anni che Francesco Piccolomini, il quale dopo la morte del Genua ne occupò la cattedra fino al suo ritiro nel 1601, potè dimostrare, con un accurato esame dell'opera del commentatore greco, che la dottrina di Simplicio, al pari di quella di Proclo, di Giamblico e di Prisciano Lido, non s'accordava affatto, come avevano preteso il Genua e il Nifo, colla teoria averroistica dell'unità dell' intelletto. E se nell'averroismo v'erano effettivamente quei motivi platonici che ne svolse Pico della Mirandola, ciò che dell'averroismo sopravisse e, mettiamo pure, sopravive alla dissoluzione del sistema, ha finito per fondersi col pensiero platonico successivo. Lo stesso problema del rapporto dell' intelletto coli' indi- viduo, ossia del valore universale dell' intendere e dell' indi- vidualità dell'atto che intende, che è il problema centrale del- l'avveroismo medievale e del Rinascimento, s' è rivelato mal posto, pei termini nei quali era enunciato, e conveniva mutare i termini per trovarne la soluzione. INDICE ONOMASTICO E DOXOGRAFICO Abano (Pietro d') : 1-74, 75, iii, 229, 241, 242, 247, 248, 343. Abbagnano N.: 277-78, 351. Abubacher: 144, 298 (v. Aven- pace). Accoramboni G. : 164. Achillini A.: 106, 139, 142, 143, 166, 171, 179-279, 281, 282, 288, 301, 310, 315, 316, 317, 319, 320, 324, 328, 329, 330, 336, 342, 349, 352, 384. 409. 412, 418, 419, 439, 441, 449, 454. Achillini C: 225, 240. Achillini G. F. : 226, 249, 251, 263, 271, 272. Aeternitni a parte post, aeternum a parte ante : 298. Agenti univoci e sinonimi: v. Cause u. e 5. Agostino (S.): 17, 53, 68, 192. Agostino Moravo: 160. Alabanti A.: 103, 318. Albategni o Albattani: 170. Alberto G. G.: 416. Alberto Magno: 29, 73, 78, 95, 96, 104, 105, 107, 108, 127, 128, 135, 136, 137, 138, 139, 143. 145, 146, 221, 247, 276, 294, 300, 395, 434, 439. Alberto di Padova: 75, 449. Alberto di Sassonia, o Albertuccio: 103, 104, 107, 117, 239, 247, 262. Albumasar: 34. Alcocodem: 34. Alessandrismo: 59, 64, 97. Alessandristi: 413 (v. Averroisti). Alessandro d'Afrodisia: 4, 13, 14 19, 41, 49, 62, 64, 67, 69, 87 128, 129, 130, 131, 132, 134 144, 154, 204, 211, 236, 239 276, 297, 298, 309, 354, 365 368-72, 374, 391, 405, 406, 408 409, 424, 427, 436, 446, 452. Alessandro di Hales: 145, 146. Alf arabi (Alpharabius), Abu Na- sar) : 14, 41, 42, 128, 130, 131, 134, 137, 144, 298. Algazel (Al-Gazali) : 9, 14, 41, 42, 88, 376, 381, 406, 430-31. Alnwich G.: 75. Alpheeh, Averrois filius: 308. Alvise da Brescia: 172. Ammonio: 354. Anassagora: 3, 4, 14, 16, 40, 59, 68, 182. Anatomia: 249-50, 271-73. Angeli: 202-203. Anima razionale 0 intellettiva (v. anche Intellectus e Uomo): 3-18, 59-69, 70, 78, 80, 83-85, 87, 108. 109, 180, 181, 208, 218, 233, 242-46, 276, 298-302, 349, 354. 378-79, 381-82, 407, 417-21, 430- 433-35. 439- Animarum descensus et indivi- duano: 436, 438-39, 449-51- Anima umana {Immortai . dell') : 68, 156, 219-20, 297, 298-301, 354, 357-59, 369-72, 381, 393- 94, 408, 429, 446. Anima delle piante e degli animali: 11, 78, 79, 80. Anima mundi: 430. Annibale Camillo da Coreggio: 272. Anselmi L. : 123, 331. Antonio Andrès: 105. Antonio da Faenza, v. Cittadini A. Antonio da Rimini: 157. Antorosa (Antonino de) : 338. Apollonio di Tiana: 134. Aquila (Sebastiano dell'): 152. Aquilano (de Aquila) G. : 124-26. 151-53. 159, 162-63, 168-69. Aquinate, Aquino, v. Tommaso d'Aq. Arcamona A.: 123. 458 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Arcudi A. : 363. Arcudi S. : 334. Arcudi T.: 334.347.355.356,302. Argelati F. : 404. Aristotele: 3-6, 7, 11, 14-16, 19, 30, 40-43, 55, 60, 63-65, 67, 70, 72, 80, 84-88, 90, 91, 95-97, 99, 104-108, 127-30, 132-33, 135, 140, 182, 184, 186-90, 192, 201, 207, 213-14, 220, 230, 234, 237, 242, 243, 262, 263, 298-300, 357, 374. 405. 407. 408, 429. Aristotele (Infallibilità d') : 255, 330. Aristotele (Contradizioni d') : 230. Aristotele concordato con Plato- ne: 359-62, 363, 401, 425-26, 440-41. Aristotele (Pseudo) : 239. Aristotelismo: 255-57 (v- Averroi- smo). Asìn Palacios M. : 42. Astrologia Giudiziaria: 27, 29-37, 73- Aulo Gellio: 70. Avanzo G. : 159-61, 167. Avenpace (v. anche Abubacher) : 128, 130-31, 134, 298, 309. Averroè (Averroys, il Commenta- tore per eccellenza di Arist.) : V, 2-5, 11-13, 16, 19, 30, 40-47, 61-68, 72, 75, 79, 80, 82-88, 90, 91, 99, 104-108, 127-132, 134- 136, 138, 140, 144, 145, 155, 184, 185, 187-189, 192, 201, 203-207, 211, 213, 214, 218, 230, 232, 233, 237, 242, 244, 254, 292-94, 298, 299, 304, 305, 307, 308, 328, 344, 350-59, 356-57, 366, 368-71, 381-82, 390, 391, 397-98, 399, 403-405. 408, 411- 12, 427, 429, 430-31, 443-44, 452-53- Averroè (Contradizioni d') : 330. Averrois filius, v. Alpheeh. Averroismo: V, 59, 75, 97, 127 sgg., 153-55. 255-57, 276, 291-94, 343. 349, 413-14. 443-46, 449, 453-54- Avicenna: 3, 6, 11, 12, 14, 16, 17, 19, 22, 37, 41, 42, 46, 61, 63,65, 72, 88, 89, 128, 130, 134, 136, 137, 144, 148, 156, 177, 178, 203, 223, 234, 241, 250, 254, 273 298, 328, 412, 445. Bacilieri T., 106, 165, 166, 180, 226-27, 231, 252, 254, 257, 281, 288, 291, 322, 324, 329, 336, 346. 349. 384. 412. 449- Baconthorpe (Giovanni di): 154, 185, 187, 233, 294, 328, 349, 353-54. 408, 444-45- Badoèr S. : 101, 102, 103, 115, 116, 285, 286, 313. Baeumker C. : 203. Bagaroto B. : 172, 174, 175, 332, 400. Bagolino Gir.: 160, 167, 336. Baldassarre da Chiusi: 112. Barbarigo A.: 108, 110, iii, 124. Barbarigo G. : 167, 290. Barbaro E.: 343, 350, 366-68, 374. 388, 449-50. Barozzi P. : 93, 98-102, 108, 153, 155. 156, 160-61, 169, 179, 228, 285, 290, 324, 326. Barzon A.: 150, 162. Basilio Troiano: 231. Bate E.: 78, 137, 366, 373, 390, 437- Baumgartner M. : 70. Beatitudo, v. Copulatio, Felicitas, Perfectio. Bembo P. : 167, 338-41. 344. 355- Benavides, Bonavites, G. P. : 152. Benavides Marco, detto Marco Mantova, 152, 332. Benedetto del Tiriaca o del Triaca : 147, 170, 325. Benedettucci C. : 118. Benozzo Gozzoli: 444. Benzi Fr. : 151. Bernardi A., Mirandolano: 281, 412. Bernardino da Feltre: 113-14. Bernardo Gir.: 285-87, 376. Bernieri da Nivelles: 98, 444. Bertela M. : 390. Bertoldo di Mosburg: 137. Bessarione: 298-99, 407-10, 412, 436, 446-47- Betoni Gir.: 263. Bettini S.: 75. Biagio Pelacani, v. Pelacani B. Bin o Binno Jacopo de' Tornasi: 173. 332. Bin o Binno Matteo de' Tomasi: 173, 291. 332. Boccadiferro L. : 241, 412, 449. Boezio: 51, 425. Boezio di Dacia: 444. INDICE ONOMASTICO E DOXOGRAFICO 459 Bolderio G. : 104, 177. Bonamico L. : 173, 341, 388. Bonaventura (San): 31, 146. Bonaventura F. : 368. Bonet N. : 180. Bonus o de Bono Gir.: 263. Bonuso P. : 322-23, 333. Bovio (Dal Bò) Gir.: 421-22. Bradwardine T. : 262. Bragadin Fr. : 286, 337, 340. Bragadin L. : 168, 289. Branca V.: 374. Branda Porro: 336, 338. Brenzio A.: 148. Bres.san B. : 175. Brotto G.: 115, 149, 323. Brunacci G. : 150, 289. Bruno G. : 96, 186, 192, 454. Bruns I. : 369-70. Burana G. F. : 166. Buridano G. : 247, 263. Burleo (Burley) Gualt. : 103, 106, 115, 232, 239, 329, 395- Buzacarini D.: 175. Buzacarini G. : 175. Calcaterra C. : 266-67. Calcidio: 421. Calcidonio A.: 286, 370, 377, 381. Calcidationes (v. anche Latitudo formarum) : 220, 262. Calculator, v. Suisset. Calfurnio G. : 388. Campano G. : 262. Camillo da Coreggio: 272. Campeggi A.: 398. Campeggi G. B. : 394, 398. Campeggi G. Z.: 148, 251. Campeggi L. : 251, 398. Campeggi T. : 147. Campesano A.: 285. Campesano P. : 285. Caninio A. : 371. Cantimori D.: 411. Capitani G. C. : 327. Capitani P. : 327. Capparoni P. : 258, 271, 272, 273. Capuano Fr. : 169. Caravegi G. Ben.: 231. Carensio L., detto il Toseto Pa- dovano: 331. Caro A. : 420. Carpi (Iacopo Berengario da) : 125, 250. Carrano A.: 169. Carrati B. : 225. Casio Gir. de' Medici: 267. Casserio G. : 250. Castellani G.: 372, 383-86, 389, 424, 437, 440, 447, 448, 452. Castrioto F. : 334, 338. Castrioto G. : 334, 343. Causa Prima: 44-45, 49-52. 188- 92, 194-95. 294. Causalità efficiente e e. finale: 188- 92, 193-94. 294. 327. 353- Cause intermedie: 45, 188. Cause univoche esinanirne: 45, 47. Cavalcanti G. : 80. Cavalli (de Caballis, ab Equis) Fr. : 169, 290. Champier Cr. : 29. Champier Sin.: 27-39. Charpentier G. : 410. Chirurgia : 249-50. Cicerone: 70, 405. Cicogna E. A.: 410, 415. Cieli : numero, 201 ; ordine, 200- 204; dipendenza dal primo Mo- tore, 255; animazione, 235, 254; sfere celesti, 228-29, 234-36; v. Motori celesti, Eccentrica ed epi- cicli, Influenze celesti. Cielo, se finito o infinito: 236. Circolazioni cosmiche: 46, 236-37. Cittadini A. da Faenza: 76, 169, 290. Clough Cecil H.: 17S. Coclite B. : 239. Cogitativa (o Intellectus passivus, Imaginativa) : 65, 66, 79-80, 83, 8^, 180-81, 206, 209, 230, 243- 46, 300, 380, 384, 391. Colchodea: 241. Commentatore, v. Averroè. Complexio (v. anche Mixtio) : 8, 50, 54- Concorrenza (Istituto padovano della): 123-24. Contarini A. : 336. Contarini G. : 167, 168, 173, 288, 326. Contarini L. : 174. Contarini M. A.: 173, 323, 329. Conte L. : 172, 174, 332. Contingenza: 238. Copernico N. : 169, 170, 454. Capulatio o Continuatio intellectus possibilis cum intellectu agente (v. anche Intellectus adeptus, Fe- licitas) : 99, 106, 128-29, 132 sgg-, 135. 136, 140. 142-43. 181-82, 460 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI 212-20, 255, 288, 306-11, 357, 370, 371, 439-41- Corner G. : 168. Corner M. : 285, 288. Corradino da Bergamo: 153. Corrado d'Oria O. M. : 355. Coxe H. O. : 76, 119. Creazione: 14, 16, 37-39, 41-45, 49. 193-94. 235-36, 353. Cristo « primogenitus omnis crea- turàe »: 123-24. Cristoforo da Recanati: 115, 117- 19, 122-24, 153. 158. Croce B. : 284. Cusano N. : 454. Dalais F. : 29. Dalbò M.: 373. Da Lion G. : 172, 174, 332. Dallari U.: 413. Dalla Scrofa, famiglia vicentina; 122. Dal Molino L. : 166, 325. Damaselo : 432. Dandolo M. : 285. Dante: 5, 19, 30. 3^. 33. 5i. 54. 61, 64, 72, 74, 78, 86, 90, 199, 203, 214, 235, 243, 264, 312, 330, 448. Da Porto L. : 174. D'Arco C. : 413. De caitsis (Liber) : 45, 51. De Corte M. : 373. Degli Agostini, G. : 289. De Ketam G.: 271-72. Del Bene A.: 160. Della Pozza A.: 122. Democrito: 14, 40. Demolins L., 402. Demoni: 24, 229. Denifle H. e Chàtelain Ch. : 185, 187, 237. De Renzi S. : 271. De Wulf M.: 8. Dimensiones interminatae : 254. Diede A. : 426. Diedo P. : 426. Diedo V.: 291, 399. Dio (v. anche Causa prima o Motore primo) : causa efficiente e finale, 49-51. 181-93, 234, 353; forma del primo cielo, 189, 201, 234; Motore primo, 187-93; Infinità e onnipotenza di D., 236, 294; se conosca «alia a se»: 187-88. Dionigi Areopagita (Pseudo): 192, 203. Dionisotti C. : 160, 291, 148, 400. Domenico Indiano: 248. Donato A.: 174. Donato G. : 368, 371, 372. Donato L. : 124, 162, 285. Donato P. : 174. Dondi dall'Orologio C. : 171, 288. Dondi dall' Orologio Fr. : 171, 288. Dorighello Fr. : 152. Dotti D.: 387. Dotti G.: 387. Du Chastel P. : 405. Duhem P. : 42, 48, 54, 76. Duns Scoto G.: 17, 26, 44,-72, 96, 145, 146, 154, 186, 294, 329, 358. 395, 403, 428, 439- Duns Scoto G. (Pseudo): 16, 43 (v. Vitale du Four). Duodo P. : 174. Eccardo di Hochheim: 137. Eccentrici ed epicicli: 228, 442, 454 (v. anche Cieli). Egidio Romano: 83, 89, 96, 103, 104, 117, 206, 395. Egnazio G. B. : 170. Elementi (v. anche Complexio e Mixtio): 241; proprietà, 247. Elia del Medigo: 186. Emo A.: 174. Emo Z.: 331. Empedocle: 14, 15, 40. Enrico di Gand: 17, 44, 232, 233, 328. Enrico di Harclay, 444, 446. Entisbery (cioè G. di Heytesbury) 112, 246, 262. Eternità del mondo: 45-48, 156, 353. 436. Eucliph G., V. Wyclif. G. Eudemo: 354. Endosso: 201. Eustachio Rudio: 250. Facciolati lac: 117, 119, 169, 175, 287, 288, 330, 413. Faenza (Antonio da E.), v. Cit- tadini. Fantuzzi G. : 260, 271, 413. Faseolo o Fasolo G. : 343, 379, 394-99, 423, 452. Favaro A. : 20. Federico Romano: 152. Felici (Gir. de'): 168. INDICE ONOMASTICO E DOXOGRAFICO 461 Felicitas (v. anche CopMlaiio) '.106, 139-40, 142-44, 181, 212-220, 305-311. 371- Ferrari L. : 383. Ferrari S.: 1-3, 8, lo-ii, 17, 20- 21, 23-25, 27-28, 32, 35, 36, 38- 43, 45-53. 55-57. 59-70. 248. Ferrarini C. : 413. Ficino M.: 145, 146, 234, 321, 360, 362, 432, 437, 452. Fidentius Petruslunctarius: 387. Filippo de Thoriaco, 29. Filopono (Philoponus, Ioannes Grammaticus) : 40, 44, 276, 354. 372-73. 374. 388, 403, 405. 424- Filosofia. La F. pei medievali, 445; F. e teologia, 17, 44, 53, 55-56, 58, 70, 71-74 (v. anche Verità) ; F. e cultura, VI-VII; F. e Me- dicina, 158; migrazione della F., 344; rinnovamento della F. in Italia: 296. Filosofo (II) per eccellenza: v. Aristotele. Fiorentino Fr. : 147, 206, 266, 274, 275, 276, 277, 393, 413, 415. Fogolari G. : 152. Fontana O.: 152. Forma sostanziale : successione delle forme, 7-8 ; produzione o generazione delle forme, 14-18; « dator formarum », 14-18, 45, 80, 241; «forma corporeitatis », 241; «forma mixtionis », 242; « formarum intensio ac remis- sio », 242-43 (v. anche Calcu- lationes) ; « forma constuens » e « forma constituta », 302, 390. Formativa, v. Informativa. Foscarini M. A.: 167, 290. Foscarini Seb. : 168, 274, 290, 340, 341- Fracanziano o Fracanzano A. : 125, 162, 164-66, 254, 288, 290, 292, 324. Franceschetti Fr. : 288. Francesco Securo da Nardo: 112, 323. 324. 424- Francia Fr. : 226. Frati L. : 260, 268. Gabrielli G. : 283, 312. Gaeta F. : 99. Gaetano (Card.), v. Tommaso de Vio. Gaetano da Thiene: 99, iii, 116, 117, 119, 124, 153, 158. Galeno (Galenus, Galienus) : 3, 4, 5, 19, 59. 61, 72, 250, 273, 357. Galil^ei G. : 105, 273, 442. Gambalunga F. : 264. Gand, v. Enrico di G. Gandavo (de), Gandavensis, v. Jandun (Giov. di). Garin E.: 28, 103, 141, 142, 143, 266-67, 278, 285-86, 324, 347, 375- Gaspare da Perugia: 390. Gaurico L. : 225, 226, 228. Gazzoni M. : 161. Generazione [cause della) : 86. Generazione univoca: v. Cause uni- voche. Gentile G. : 70. Gentile da Foligno: 54. Genua (De lanua) C.: 169. Genua (De lanua, de' Passeri) L. : 387. Genua (De lanua, de' Passeri) N. : 173. 178. 341. 387- Genua M. A., figlio del preced.: 173, 178, 291, 341, 342, 343, 344. 352. 362, 386-94, 396-97, 398, 399. 401. 403. 411. 412, 413, 416, 417, 420, 424, 426, 428, 435, 437, 440-51, 454-55. Genuli C. F. : 253. Gerardo da Bologna: 353, 444, 446. Gerardo da Cremona: 239. Gesuati: 257. Ghero R. : 267. Giacobiti, V. lacobitae. Giamblico (lamblicus) : 362, 375, 378, 400, 412, 432, 435, 455. Gian Michele de Bredepalea: 120. Gian Pietro de Cararijs: 120. Giason dal Maino: 153. Gilson E.: 95, 130, 223. Giordano B., v. Bruno G. Giordano de Nemore: 262. Giorgio da Trebisonda, 407, 446- 47- Giorgione: 170. Giovanni Grammatico, v. Filo- pono. Giovanni della Lana: 75, 449. Giovanni del Pian del Carpine: 246. Giovanni da Ripatransone : 316. Giovanni da Schio: 152, 165. 462 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Giovio P. : 171, 257-58, 267, 274, 342. Girelli G.: 233-34, 328. Girolamo da Monopoli: 2S8, 290. Girolamo dal Muro Nuovo: 159. Girolamo (Pseudo S.) : 105. Girolamo da Verona, v. Torre (G. della T.). Giulio II: 253, 260, 282. Giustinian A.: 159, 285, 286, 336, 337- Giustinian G. : 174. Giusto de' Menabuoi: 75, 449. Gonzaga E.: 339. Gosvin de la Chapelle: 98, 444. Grabmann M. : 373. Gradenigo M. : 167. Graiff C. A.: 193, 195. Grassetto N.: 285-86, 311. Grassi P. : 282. Gravia et levia: 247. Gravina P. : 338, 348. Graziadio da Venezia: 120. Gregorio Magno (S.) : 203. Gregorio da Rimini: 96, 154, 186, 294. 327. 329, 346, 349, 353. 354. 449- Grimani D.: 99, 109, 148, 153, 159, 252, 253, 281-84, 287, 291, 312. Gritti A. : 390. Grutero G. : 267. Guglielmo di Moerbeke, v. Moer- beke. Guido da Pesaro: 251. Guinizelli G. : loi. Hain Lud. : 228, 263. Haly ben Rodoam: 3, 4, 5, 19. Halyabbas: 22, 61. Hauréau B. : 20. Hayduck M. : 373, 374, 419, 436. Helias Cretensis, v. Elia del Me- digo. Hervaeus Natalis: 332. Hervetus G. : 373. Heytesbury W., v. Entisbery. Hirsch Aug. : 271, 273. Homo significai coniposituni ex corpore et intellectu: 206, 300, 384, 391. Honiinis dignitas: 141 ; Homo, microcosmus, nexus supe- rioruni cuni inferioribus : 141- 142. Horen, v. Oresme (Nic. d'). H vie eh: 34. lacobitae (Giacobiti) : 3, 5, 19, 21, 58, 59, 60, 61. Iacopo da S. Martino, o I. da Napoli: 183. Iacopo da Venezia: 120. Ibernico, v. Maurizio I. Ideae, ideales rationes: 343, 360- 62, 385, 391, 423, 428, 432. Imaginativa, v. Cogitativa. Imagines astrologicae: 25-26, 37. Impetus: 247. Individiiationis principiitìn: 8, 436- 37- Informativa [Vis): 3-6, 59, 60. Intellectus (talora Mens). I. voca- tiis, 3, 19, 61; /. assimilativus, 136; /. accomodatus, 11, 12, 63; /. acqitisitus, adeptus (v. Co- pìtlatio), 91, 106, 129, 130, 134, 136. 369, 370. 384-85; I- pos- sibilis, potentialis, materialis, 3, 4, IO, II, 62, 63, 64, 66, 68, 80-84, 87-89, 91-99, 100, 109, 128-32, 134, 136, 137, 155-56. 180-82, 187, 204-10, 217, 401- 02; /. possibilis unitas, 87, 155, 204-07, 230, 233-34, 350-52, 356, 358, 375. 380, 382-84, 391, 400- 02, 405, 406, 417, 429, 435-37. 446, 449, 450, 451; /. poss. pura potentia in genere intelligibilium , 207, 230, 307; 7. poss. unio ad corpus, 82-84, 86, 180-81, 208, 210, 243-46, 299-302, 303-305, 343. 349. 380, 384-85. 389-93. 400, 405-06, 418, 420, 423, 433- 36, 438-39. 449; ^- agens, 3, 11, 12, 42, 62-64, 88-91, 129-32, 134-35, 181, 267, 208-11, 217, 234, 243, 351-52, 360-61, 369. 401, 402, 409-10, 427-28, 433; /. perfectionis, in actu, in habitii, speculativus, 11, 63, 345; /. pro- grediens ad secundas vitas, I. de- scensus, 343, 360, 375-76. 39i- 93. 401. 404. 417-23. 430. 433- 35. 438, 450; /. ascensus, 439; I. tviplex in homine, 385-86; /. impartecipabilis, partecipabi- lis, pariicipatus, 378, 416, 430, 432, 435; /. forma animae, 378; /. passivus (v. Imaginativa, Co- gitativa), 62. Intellectum (Intelligibile, species intigibilis. Idea) : 205-06, 230- 33- 328. INDICE ONOMASTICO E DOXOGRAFICO 463 Jntellectiis et voluntas: 214. Intelligentia prima (v. Dio, Motore primo immobile) : 234. Intelligentiae separatae (v. anche Sustantiae separatae): 91, 127 sgg., 131 sgg., 138, 140, 181, 182, 188, 193-204; Intelligen- tiariim individuatio, 206, 301, 436; Int. motrici (v. anche Cieli), 202, 229, 230, 295; In- telligentia inferior cognoscit su- periorem per essentiam superio- ris, 195-199,; Se e come la mente umana conosca le Int. separate, 216-20, 306-308, 314; Intelli- gentiae propinquae uni puro et longique ab ipso, 200-203, 221; Intelligentiae an dent esse caelo, 234; dipendenza dal Primo mo- tore, 353-54. Intentiones imaginatae, phanta- smata: 83. Intentiones priinae et seciindae : 107. Ioannes Canonicus: 105. Ippocrate: 147-48. Isacco IsraeHta: 137, 203. Jandun (Giovani di). Io. de Gan- davo, Gandavensis: 81, 83, 92, 105, 139, 140, 185-86, 188, 200, 216, 293-94, 307, 309, 324-26, 391, 405. 41^. 444. 445. 447- Kant I., 82, 230. Keeler L. W. : 57, 222. Kibre Pearl: 373, 390. Krebs E.: 203. Kristeller P. O.: 147, 289, 292, 297. 299, 303- Lana (Domenico della) : 250. Lancellotti (P. D. Secondo) : 344. Landò B. : 372, 415-16, 452. Languardo E.: 103, 117. Latitudo formarum (v. anche For- niarum intensio et remissio) : 183. Latituto intellectintiir. 182-83, 186, 192, 220. Latomus I. Berganus: 267. Laurent M.-H.: 222-23, 3i6, 393, 393, 445- Lemay R. : 346. Leone X: 251, 263, 383. Libertà e contingenza: 238. Libertà e necessità: 189-92. Liceto F. : 105. Lippi Filippino: 444. Lodovico o Luiz A.: 27. Lodovico da Varthema; 248. Longo E.: 394. Longo G. B.: 426. Loredan G. : 174. Loredan L. : 180. Loredan M. A.: 174, 335. Loredan P. : 372, 416, 448. Lucano, 34. Luigi da Porto: 149. Lullo R. : 20, 74. Luogo naturale: 247. Lorenzo da Noale: 124, 151, 153, 159, 162. Madio, v. Maggi. Madruzzo Cr. : 394-95. Maggi o Madio V.: 344, 372, 383, 387, 421, 426, 429, 452. Maier A.: 75, 98, 107, 183, 221, 247, 262, 409. Malchiavello G. : 102, 153. Malipiero V.: 169. Mandonnet P. : 181, 193, 194, 196, 207, 209, 241, 391, 443. Mantova Marco, v. Benavides. Manupello N. : 115, 116, 162. Manuzio Aldo, il giovane, 410. Manuzio P. : 387, 410. Marco Polo: 247, 248. Marino: 424. Marliani G. : 262-63. Marsilio da Carrara: 172, 174, 332. MarsiUo di Inghem: 103, 117, 247. Martino da Lendinara (Fra) : 98, loi, 155. Martinotti G. : 249. Materia prima: 241, 432. Matteo da Ripalta: 77. Maurizio Ibernico (C Fihely, detto M. I.) : 169, 290, 324, 325. Mazzetti S.: 225, 226. Mazzuchelli G. M. : 271. Medici M. : 264, 271, 273. Medicinae prae stantia: 105-106. Memo G. B.: 168. Memoria e Reminiscenza: 80. Mente [Mens), v. Intelletto, Ani- ma intellettiva. Mente prima (v. anche Dio, Intel- ligentia prima): 182, 199, 430. Mercati G. : 390. Mercuri (Biagio de') : 250. Merhno V.: 108. 464 l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Michalski C, 408. Michiel T.: 285. Michiel N.: 285, 291. Microcasmus: v. Homo. Miliani B.: 370, 377. Miliavacca B.: 374. Minio M. : 315, 336. Minio-Palnello L. : 409. Miracoli: 21-23, 52-54, 70, 134, 229. Mistica averroistica: 127 sgg., 134, 439- Mixtio elementaris (v. anche Coni- plexio): 8, 241. Mocenigo A.; 167-68, 288-90, 303, 325- Mocenigo G. : 168, 325. Mocenigo L. : 168, 325. Mocenigo M. A. : 291, 399-402, 403. Mocenigo T. : 168, 325. Moerbeke (Gugl. di) : 23, 365, 373, 450. Mohler L. : 407. Moisò Maimonide: 134, 137, 203. Molin A.: 169. Momigliano F. : 77. Mondi (Impossibilità di pili) : 236. Mondini Fr. : 271, 273. Mondino de' Liuzzi: 249, 250, 272, 273- Mondo intelligibile [Reminiscenza del): 343. 360. Monopsichismo, o Panpsichismo: 12, 127. Montagnana (Bartol. da): 168, 327 (iunior). Montagnana L. : 173. Montagnana P. : 173. Montecatino A.: 420-24, 426, 440. Montesdoch G. : 137, 315-17, 336- 40, 345, 412. Monti Panf. : 183, 229, 272-74. Moog W., V. Ueberweg. Moro S.: 167, 169, 286-87, 289- 90. Morosini A. : 161. Morosini F. : 173, 332. Morosini G. : 173, 332. Mortier P. : 319. Moto naturale: 65, 247. Moto violento: 247. Moto celeste (Eternità del) : 236. Motore immobile (Primo): 182,; se muova con vigore infinito, 184- 86, 294; forma dell'universo, 188-192, 229. Aloiori celesti (v. anche Intelli- genze separate e Cieli): 182, 188, 200, 229; rapporto coli' am- piezza e la velocità dei cieli: 200-204. Mùller G., v. Regiomontano. Miindus qualibet aetate perfectus: 344- Munk S.: 131. Mùnster L. : 252, 260, 264-66, 268, 274- Mussato G. F. : 176. Musuro M.: 367. Nallino A.: 241. Napoli, V. Iacopo da N. Nardi B. : 5-7, 17, 33, 42, 54, 55, 62, 67, 78, 90, 95, 96, 97, 116, 130, 138, 142, 166, 199, 219, 223, 375. 376. Natura umana (Decadenza della) : 343- Necromanzia: 23-26. Nemesio: 434. Nicoletto Vernia, v. Vernia N. Nicolò di S. Sofia: 120. Nifo (Niphus) A. da Sessa (Sues- sanus) : 86, loi, 102, 109-11, 114. 123, 130, 138, 139, 143, 149, 160-66, 179-81, 185-86, 189-90, 195, 197, 206-07, 210- 16, 218, 227, 228, 246, 281, 284- 86, 301, 305, 307-08, 310-11, 313-14, 316, 310-20, 324, 331, 345, 342, 370-72, 376-84, 388- 89, 391. 395, 403. 412, 416-18, 420-21, 435, 437, 449, 451. Nobili F. : 420-21, 426. Nogarola L. : 367-68. Numenio: 430. Occam G. : 446. Odi o Oddi (Rin. degli): 169. Odoni R. : 410. Oldoino G. : 173, 332. Oleari G. : 288. Oliva C.: 114, 288. Omero: 137. Oratio astronomica: 28, 37. Oresme (Nicolò d') : 133, 221, 247, 262, 454. Orestano Fr. : 97. Orlandi P. A.: 266, 26S. Pagallo G. F. : 76. Paganini P. : 420. INDICE ONOMASTICO E DOXOGRAFICO 465 Panpsichismo, v. Monopsichismo. Panizza L. : 177-78. Paolo Apostolo: 188. Paolo dal Fiume: 151, 153, 158. Paolo dalla Pergola: 99, 103, ii5. Paolo Veneto (P. Nicoletti da Udine): 75-93> HQ, i53. 228, 262, 275, 349, 384, 403, 449. Paolo Francesco Veneto: 75. Papadia B.: 323, 334, 335. Papadopoli N. C. : 176. Pardi G. : 421. Particolari (Conoscenza dei) : 428. Pascal C. : 411. Pasolini P. D. : 420. Paschini P. : 281. Pasquale A. : 342. Pasquali-Alidosi G. N. : 250, 265, 268. Pasqualigo L. : 228, 289. Pasqualigo P. : 228, 285, 289. Passeri (De'), v. Genua. Pazzini A., 249, 272. Peckam (fra G.) : 78. Pelacani B. : 98, 247, 262, 358. Pelli Negre (G. F. delle): 167. Pendasio F. : 413-17, 419, 224, 426, 427. Peretto, v. Pomponazzi. Perfecfio: 106, 132 (v. anche Forma e Copnlatio). Pernumia G. P. : 388, 402-04. Pernumia Tr. : 402. Persiani R.: 122-24. Peurbach G. : 169. Philosophus, V. Aristotele. Piccolomini Fr. : V, 344, 403, 411, 412-15, 417, 424-42, 455. Pico della Mirandola G. : 20, 28, 140-46, 180, 227-20, 275, 281, 284, 304, 319-20, 326, 342, 362, 368-70, 372-77. 384. 390. 392- 94. 399, 423. 425. 426, 431, 437. 441, 450-51, 454-55- Pico della Mirandola G. Fr. : 20, 23-25, 27-28, 53. Pietro de Cruce: 290. Pietro da Mantova: 246. Pietro da Reggio: 21. Pietro Veneto: 30. Pinelli V.: 387. Pio A.: 163. Pisani A.: 331. Pisani G.: 285, 336, 337. Pisani P. : 290, 331. Pitagora: 86, 87, 299. Pitagorici: 299. Platone: V, 23, 25, 37, 69, 96, 98, 106-07, 111-14, 123-25, 147, 150-52, 156, 158-59, 161-63, 165-67, 169-73, 176-78, 220, 222, 229, 231-32, 246-47, 254-58, 263- 64, 279, 281, 284, 287-90, 292, 296-97, 308, 315, 322-23, 421. Tentativi di accordare P. con Aristotele: 359-63, 377, 381, 425-27, 429-30, 434, 440-41. Platonici: 13, 40, 144, 422, 436. Plotino: 140, 300, 305, 362, 375, 378, 400, 421, 430, 435, 437, 454- Plumazio B.: 166, 287. Plutarco d'Atene: 371, 412-15, 424, 428. Podestà B.: 259. Polcastro G. : 152-53. Polcastro o Porcastro S.: 148, 152. Poliziano A.: 405. Polo A.: 372, 402-03, 416. Pomponazzi P. da Mantova, detto il Peretto Mantovano: V, 23, 25, 37, 69, 96, 98, 106-07, III- 14, 123, 124-25, 147, 150-52, 156, 158-59, 161-63, 165-67. 169- 73, 176-78, 220, 222, 229, 231- 32, 246-47, 254-58, 263-64, 279, 281, 284, 287-90, 292, 296-97, 308, 315, 322-24, 327-31- 333. 336-37. 339, 341-42, 345-46,' 350. 354. 358-59. 372, 403, 412. 416, 424, 428, 439, 448-49, 452. Ponte (Gir. da) : 426. Porfirio: 9, 84, 294, 362. Portenari A.: 176. Portenari B. : 290. Porto V. : 239-40. Porzio S.: 372, 424, 429, 448. Praecantatio: 2.j, 36, 37, 38. Prassicio L. : 412, 449. Fratelli G.: 387. Prisciano N. : 336. Prisciano Lido: 362, 412, 424, 427, 432, 455- . Probabilia: 46-47. Proclo: 14, 221, 362, 375, 421, 435-37, 455- Profezia: 140. Prospero da Reggio: 239. Querengo F. : 165. Querini A_., 415. Quétif-Echard: 290. 466 L ARISTOTELISMO PADOVANO DAL SECOLO XIV AL XVI Quirini L. : 119. Quirini e Querini V.: 125, 162, 167, 284-87, 291, 399, 400. Ragnisco P. : 99-100, 102-04, log, 122, 162, 417, 424. Raguseo M. : 348. Rangoni A.: 180, 248. Rannusio G. B. : 338-40. Rappi Cristoforo, v. Crist. da Recanati. Rasis: 22. Regiomontano (Miiller G. da Kò- nigsberg) : 169. Reminiscenza, v. Memoria. Renan E.: 39, 266, 277-78, 250- 51, 443- Ricco A.: 347. Risurrezione dei morti: 22-25. Ritter H., 277. Roberto Kilwardby: 81. Robortello Fr. : 388. Roccabonella P. : 151-53, 158, 171, 323- Rochelle (fr. Giov. de la) : 78. Roselli A.: 151, 157. Roselli Fr. : 157, 175. Roselli Trapolin Maria: 151, 157. Rugerijs (Lod. de): 168. Rugerius, per Sugerius: 314, 315, 316, 383. Ruggiero G. : 291. Sabellico M. A.: 170. Saitta G.: 277, 321, 348, 351. Salinatore R. : 377. Salomonius I. : 119, 176. Salvato da Cagli: 366. Sambin P. : 115, 122, 149. Sanseverino F. : 335. Sansone F. : 179. Sanudo o Sanuto M. : 102, 123, 125, 163, 165-68, 170-71, 173- 74, 282-83, 285, 287, 289,312, 331. 335-37. 339, 400. Saraceno G. C. : 387. Savorgnan A.: 175. Scaligero G. C. : 176. Scardeone B. : 21, 23. Schedel H.: 75, 429. Schegkius I.: 411. Schlosser (J. von) : 75. Scienza umana: 70-73 (v. anche Intellectus, Intellectum, Ideae). Scoto Ottaviano Secondo: 347, 355- Segarizzi A.: 116. Securo, v. Francesco da Nardo. Sepulveda G. Genesio: 105. Serapione: 13. Sermoneta A.: 103, 151, 164. Serrano P. : 105. Sessa, Suessano, Sexa, v. Nifo. Sighinolfì L. : 317. Sigieri di Brabante: 57, 67, 72- 73, 75-76, 80-81, 83- 86, 88, 90, 92, 98, 107, 127, 138-40, 142, 145, 155, 180, 181, 185, 189- 90, 193-98, 200, 205-09, 212-15, 218-19, 222-23, 241, 246, 275, 284, 294, 305-07, 313-20, 327, 380, 382-83, 390-91, 439, 444- 45, 447, 450. Silvestri (Frane, de' S., detto il Ferrariensis) : 215, 223, 314, 316-17. Silvestro (Padre) da Valsansibio: 116. Simeoni L. : 261-62. Simone o Simeone d' Este: 168. Simoni Simone: 410-12. Simpliciani: 343, 384, 386 ,413. Simplicio: 304, 342-43, 354, 360, 362, 365, 371, 373-442. 450-55- Sirleto G. : 321, 355. Sisto IV: 366. Socrate: 105, 123. Solerti A.: 421. Solino: 343. Sostanze separate (v. anche Intel- ligenze sep.): 127 sgg. Se ab- biano una causa efficiente, 253- 54. Se e come la mente umana conosce le 5. 5., 138, 181, 215-20, 306-08, 314. Sparaini (Assalone de') da Ce- sena: 152. Species intelligibile s, v. Intelle- ctum. Speroni B. : 156, 168, 169, 174. Speroni Sperone: 156, 341. Spina B. : 222. Spinelli G. B. : 173, 286. Spinola G. : 252. Starniti (? maestro de'): 165. Steenhawer J., v. Latomus. Stefano d'Alessandria: 373. Stegmùller F. : 181, 196, 207. Steinschneider M. : 155. Steuco A. Eugubino: 172. Storcila Fr. : 328. Suessano, v. Nifo. INDICE ONOMASTICO E DOXOGRAFICO 467 Suisset, cioè R. Swineshead, detto il « Calculator », 112, 246, 262. Surian A., Patriarca di Venezia: 290, 292-93. Surian A., nip. del prec: 168-69, 231, 233, 288-91, 326. Suriano G. : 77. Suriano I.: 77. Sylvius Laurentius a Portu Ca- ballensis: 329. Swineshead, v. Suisset. Taddeo da Parma: 92. Taiapietra G. : 167, 180, 252-53, 281-312, 349, 384. Taiapietra Q. : 281. Tasso T. : 420. Taucci R. M.: 318. Tavole Alfonsine: 170. Tedoldi A.: 315. Teodorico di Vriberg: 137, 203. Temistio: 11-15, 67, 131-32, 211, 220, 299, 302, 304-05, 309, 343, 350-52, 356, 365-68, 371, 392, 395. 398, 400-01, 403, 405-07, 409, 411, 412, 424, 429, 441, 449, 450, 454. Teofrasto: 299, 343, 366, 371, 403. 405-07. 409, 411-13. 449- Teologia, v. Filosofia e Teol. e Verità {Pretesa dottrina delia- doppia) . Terra, se dovunque abitabile: 247. Théry G. : 368. Thorndike L. : 29, 264, 270. Tiepolo N. : 167. Tiraboschi Gir.: 39, 240, 421. Tiriaca, v. Benedetto del T. Tolomeo: 20, 31, 48, 170, 201. Tomasini G. F. : 317. Tommaso (S.) d'Aquino: 4-7, 12, 17, 26, 31, 43-45, 47, 49. 50, 5^. 57, 61-62, 64, 70-74, 77-78, 86, 89, 91, 96, 104-05, 127-28, 130, 135. 138, 140, 154. 184, 185, 195, 198-99. 204-07, 214, 219, 222, 232, 242, 294, 306, 329, 352, 365-66, 374, 395, 405, 408, 436, 439, 443-45. 447-48. Tommaso di Strasburgo: 21-23, 27. 52. Tommaso de Vio, detto il Cardi- nal Gaetano: 186, 209, 223, 319, 337, 358, 393. 429- Tommaso di Wilton: 75, 81, 155, 275. 353. 408-10, 412, 447. Torre (Gir. dalla T. da Verona) : 124-26, 153, 159, 162-63, 131- Torre (M. A. dalla): 331. Tosetto, V. Carensio. Tostado A.: 105. Traini Fr. : 443. Trapolin Alba: 157, 172, 175. Tropolin Alberto: 148-49, 171-72, 174-75. 332. Trapolin Aless.: 157, 172, 175-76. Trapolin Antonio: 157, i6g, 175. Trapolin Fr., senior: 149-51. Trapolin Fr., iunior: 157, 166-67, 172, 176, 325. Trapolin Gir.: 148. Trapolin Giulio: 157, 172-76, 332. Trapolin Lanzaroto: 149. Trapolin Maria: 151, 157, 172,. 175-76. Trapolin Marina in De Lazzara: 176. Trapolin M. A.: 176. Trapolin Nicolò: 150, 172, 175, 332. Trapolin Pietro, senior: 101, 147- 78, 288, 290, 322, 324, 326, 331, 332, 350. Trapolin Pietro, iunior: 176. Trapolin R. : 150, 172, 174-75, 332. Trapolin Trapolin: 175. Trapolin Ubaldo: 149. Trevisan A.: 169. Trevisan P. : 168, 325. Trincavelli V.: 373. Trionfo A.: 239. Trissino L. : 131. Trombeta o Tubeta A.: loS, 169, 179, 288, 290, 323, 324. Tumminelli G. : 267. Turchi N. : 426. Ueberweg F. : 70, 351. Ueberweg F.-Moog W. : 277-78. Ugo Benzi da Siena: 250, 273. Ulrico da Strasburgo: 137. Universale (v. anche Intellectus) : 9, IO, 66, 83-85; universalia physica, realia: 107. Universo aristotelico (v. anche Dio, Causa prima. Motore pri- mo): 184, 188-92, 454; se finito o infinito, 236, 454; eternità e necessità dell'u.: 190-92. Valentinelli G. : 76, 77. l'aristotelismo padovano dal secolo XIV AL XVI Valier A.: 402. Vanni-Rovighi S. : 92. Van Steenberghen F. : 127, 189, 193, 196, 237, 294, 443. Vedova G. : 170, 387. Venier C. : 334. Venier L. : 167-68, 180, 326. Venier M. A.: 334. Venier P. : 174. Verbeke G. : 365. Verci G. B.; 285. Verini Fr. Secondo: 426^ Verità (Pretesa dottrina della dop- pia): 55-58, 71-75, 95-98, 143. 223, 275-79, 295, 297, 308-09, 311-12, 349-50, 354-55, 431. 447-48, 453-54- Vernaleone F. M. : 323. Vernaleone P. : 338. Vernia A.: 115. Vernia Nicoletto da Chieti : V, 95- 14, 115-126, 151, 153, 156, 158- 62, 164-65, 179, 284-85, 287, 311, 313, 318-20, 323-24. 350- Vimercate (Frane, da): 404-10, 426, 447. Virgilio: 264. Virtus sancta (v. Intellectus assi- milativus): 136. Visione beatifica: 198, 371. Vitale dii Four: 16, 43. Vitale G. : 267. Vittori B.: 164, 263. Volta L. C. : 413. Voluntas et intellectus: 214. Wadding L. : 113, 179. Wyclif G.: 89. Xiberta B. : 445.
Zabarella G. : V, 208-09, 387, 391 403, 417-21, 424, 427. Zaccaria da Milano: 338. Zane B. : 290. Zeno A.: 340. Zimara M. A.: 167, 173, 186, 187 188, 231, 233, 277-78, 288, 303 321-63, 387, 412. Zimara Nicolò, padre di M. A. Z2Z . Zimara Nicolò, figlio di M. A. 334. 355- Zimara Porzia: 334, 348. Zimara Teofilo: 321, 334, 347 355-63- Zerbo G. : 125, 126, 157-59, 163 166. Zerbo P. : 168. Zonta G.: 115, 149, 323- Zorzi M. : 69-70, 167-68, 285, 289 330. 336. 340. 341- Finito di stampare nello Stabilimento Tipografico Soc. p. Az. già G. Civelli - Firenze il i8 Settembre igsS
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