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Friday, June 7, 2024

Grice e Nardi

 


NARDI    #    SAGGI    SULL  ARISTOTEL ISMO 

PADOVANO    DAL    SECOLO 


3  T1S3  DD0b3fllS  7 


UNIVERSITÀ    DEGLI    STUDI    DI    PADOVA 
CENTRO    ARISTOTELICO 


BRUNO    NARDI 

SAGGI 
SULL'ARISTOTELISMO  PADOVANO 
.        DAL  SEGOLO  XIV  AL  XVI 


G.  C.  SANSONI  -  EDITORE 
FIRENZE 


UNIVERSITÀ  DEGLI  STl^DI  DI  PADOVA 

STUDI   SULLA  TRADIZIONE  ARISTOTELICA 

NEL    VENETO 

Volume  I 


UNIVERSITÀ    DEGLI    STUDI    DI    PADOVA 
CENTRO    ARISTOTELICO 


BRUNO    NARD  I 

SAGGI 

SULL'ARISTOTELISMO  PADOVANO 

DAL  SEGOLO  XIV  AL  XVI 


G.  e.  SANSONI  -  EDITORE 
FIRENZE 


Questo  volume  è  stato  pubblicato  a  cura  e  sotto  gli  auspici  del 

Centro  per  lo  studio  della  tradizione  aristotelica  nel   Veneto  e  del 

Comitato  per  la  storia  dell'  Università  di  Padova 


PROPRIETÀ    LETTERARIA  RISERVATA 
Stampato  in  Italia 


AL    LETTORE 


Ho  aderito  di  buon  animo  a  che  venissero  riuniti  in  questo 
volume,  per  comodo  degli  studiosi  che  ne  fanno  ricerca,  quattor- 
dici saggi  sull'Aristotelismo  padovano  e  particolarmente  su 
queir  interpretazione  del  pensiero  aristotelico  che  prende  il  nome 
dall'arabo  «  Averrois  che  7  gran  commento  feo  »,  sparpagliati, 
come  numerosi  altri  loro  confratelli,  in  varie  riviste  ormai  non 
più  facilmente  accessibili.  Questi  saggi  abbracciano  un  periodo 
assai  lungo  di  ricerche  dal  igi2  al  ig^ó,  e  nel  loro  insieme 
offrono  un  quadro  sufficientemente  completo,  per  monografie 
che  si  richiamano  fra  loro,  della  filosofìa  a  Padova  dai  tempi 
di  Pietro  d'Abano,  a  principio  del  Trecento,  a  quelli  di  Giacomo 
Zabarella  e  di  Francesco  Piccolomini,  alla  fine  del  Cinquecento , 
quando  ormai,  a  Padova  e  altrove,  V Aristotelismo  comincia  a 
volgere  decisamente  al  tramonto,  per  il  nascere  delle  nuove  scienze 
della  natura  e  del  nuovo  metodo  di  ricerca  scientifica  e  filosofica. 

Fuori  della  presente  raccolta,  già  abbastanza  pingue,  son  ri- 
masti i  saggi  stille  opere  inedite  del  Pomponazzi,  meno  quello 
relativo  alla  miscredenza  di  Nicoletto  Vernia,  perché  essi  po- 
tranno essere  riuniti  a  suo  tempo  in  un  volume  a  parte,  ed  altresì 
quello  sulla  letteratura  e  cultura  veneziana  nel  Quattrocento, 
apparso  nel  volume  La  civiltà  veneziana  del  Quattrocento 
della  Fondazione  Cini,  che  potrà  meglio  figurare  insieme  ad  altri, 
che  vado  preparando ,  sulla  filosofia  veneziana  del  Rinascimento. 

Nella  formazione  del  presente  volume  non  è  stato  sempre 
rispettato  l'ordine  cronologico  nel  quale  i  saggi  qui  compresi 
sono  apparsi,  per  il  bisogno  di  contemperarlo  con  la  successione 
storica  degli  argomenti  trattati.  Ad  ogni  modo,  sono  stati  sempre 
indicati  in  nota  la  data  e  il  luogo  ove  ciascuno  ha  visto  la  luce 
la  prima  volta.  Inoltre,  ritengo  opportuno  avvertire  che  tutti 
sono  stati  più  o  meno  leggermente  ritoccati,  e  qualcuno  in  modo 
assai  notevole. 


AL    LETTORE 


Quello  che  mi  ha  guidato  in  queste  non  agevoli  ricerche,  non 
è  stato,  cerne  forse  taluno  potrebbe  pensare,  il  gusto  delle  notizie 
erudite,  pur  sempre  indispensabili  alla  ricerca  storica,  sibbene 
il  bisogno  di  prospettare  le  particolari  condizioni  e  circostanze 
d'ambiente  culturale  in  cui  certi  problemi  filosofici  eran  posti, 
fra  il  secolo  XIV  e  il  XVI,  dagli  aristotelici  padovani,  e  lo 
sforzo  da  questi  sostenuto  per  trovarne  una  soluzione  e  per  eva- 
dere da  abitudini  mentali  e  pregiudizi  che  alla  soluzione  di  quei 
problemi  s'opponevano. 

Su  alcuni  di  siffatti  problemi  discussi  e  ridiscussi  mille  volte 
nel  corso  di  quasi  quattro  secoli,  era  naturale  che  avessi  a  fer- 
marmi con  insistenza  e  abbondanza  di  citazioni,  perché  chi 
legge  avesse  modo  di  rendersi  conto,  quasi  toccando  con  mano, 
dell'  imprecisione  e  non  di  rado  dell'  avventatezza  di  talune  af- 
fermazioni da  parte  di  non  pochi  storici  che  la  storia  delle  idee 
non  hanno  mai  preso  sul  serio,  contenti  troppo  spesso  di  luoghi 
comuni  e  vacue  generalità:  Per  oppormi  appunto  a  questo  an- 
dazzo e  per  restituire  ai  pensatori  sui  quali  mi  sono  fermato 
i  lineamenti  della  loro  umana  fisionomia,  m'  è  parso  non  fossero 
da  sdegnare  notizie  particolari  e  perfino  aneddoti  che  rasentano 
il  pettegolezzo,  ma  intanto  rivelano  curiosi  tratti  del  loro  carattere 
morale  e  aprono  uno  spiraglio  su  quell'ambiente  scolastico,  per 
tanti  aspetti  così  diverso  di  quello  d'oggi. 

La  distinzione  poi  che  s'  è  preteso  di  fare  tra  filosofia  e  cul- 
tura s  è  rivelata  inconsistente,  non  solo  quando  s'  è  tentato 
di  giustificarla ,  col  definire  in  termini  rigorosamente  logici  il 
concetto  di  cultura  come  diverso  da  quello  di  filosofia,  ma  più 
ancora  quando,  in  omaggio  a  quella:  pretesa  distinzione,  nel 
tracciare  la  storia  del  pensiero  d'un  epoca,  s' è  tenuto  conto 
quasi  esclusivamente  dei  pionieri  e  si  sono  disprezzate  forme  di 
pensiero  meno  avanzate  e,  diciamo  pure,  piii  umili,  come,  ad 
esempio,  per  il  Rinascimento,  le  credenze  magiche  ed  astrolo- 
giche, condivise  da  dotti  non  meno  che  dal  popolino,  e  le  opinioni 
intorno  al  potere  delle  streghe  e  al  loro  commercio  col  diavolo, 
cui  davan  credito,  non  meno  del  volgo,  insigni  «  cherci  e  letterati 
grandi  e  di  gran  fama  »,  non  che  giuristi  e  teologi  i  quali  s'ar- 
gomentavano d' estirparne  la  mala  semenza  con  gli  esorcismi  e 
col  rogo.  Così  del  Rinascimento  s'  è  mostrato  solo  un  aspetto, 
mettiamo  pure  il  migliore  e  più,  seducente,  ma  unilaterale  e  in- 
completo, per  aver  relegato  nell'ombra  il  «  rovescio  della  meda- 
glia »,  cioè  quelle  forme  di  pensiero  che  persistevano  non  solo 


AL    LETTORE  VII 

nelle  masse  popolari  e  incolte,  ma  altresì  nei  ceti  borghesi  di 
media  cultura,  nella  nobiltà,  nelle  corti  principesche  e  nel  clero. 
Eppure  anche  siffatte  convinzioni  rappresentano  particolari 
maniere  di  raffigurarsi  la  vita  e  il  mondo  e  costituiscono  an- 
ch'esse modi  di  pensare  la  realtà,  che,  per  quanto  arretrati,  furon 
condivisi  dall'  enorme  maggioranza  degli  uomini  nel  periodo 
che  si  dice  del  Rinascimento. 

Altrettanto  si  dica  della  distinzione  fra  «  ciò  che  è  vivo  e  ciò 
che  è  morto  »  del  pensiero  del  passato,  quasi  che  potesse  morire 
quel  che  non  è  mai  stato  vivo,  e  che  vivere  non  fosse  un  correre 
alla  morte,  cioè  un  continuo  rinnovarsi. 

Singolarmente  penosa  appare  infine  l'ansia  che  per  il  con- 
cetto, la  natura,  il  metodo,  le  sorti  della  storia  e  per  il  valore 
del  giudizio  storico  dimostrano  taluni  che,  chiusi  nella  loro 
specola  teoretica,  senza  scomodarsi  colla  ricerca  e  la  critica  dei 
documenti  e  delle  testimonianze,  indispensabili  al  giudizio  sto- 
rico, pretenderebbero  di  dedurre  a  priori  gli  eventi  della  storia 
universale.  Sì,  lo  sappiamo,  per  interpretare  il  linguaggio  dei 
documenti  e  delle  testimonianze  ci  vuol  cervello;  e  per  cervello 
intendo  la  «  categoria  »,  cioè  la  capacità  a  inserire  il  fatto  accer- 
tato nella  trama  logica  del  pensiero.  Ma  la  «  categoria  è  vuota 
senza  V  intuizione  »,  e  la  mola  del  pensiero  frulla  a  vuoto  se 
dalla  tramoggia  non  cala  giù  il  buon  grano  falciato  nei  campi 
arsi  dal  sole,  battuto  vagliato  e  seccato  sull'aia.  Sì  che  a  ragione 
pareva  al  Vico  «  aver  mancato  per  metà  così  i  filosofi  che  non 
accertarono  le  loro  ragioni  con  l'autorità  de'  filologi,  come  i  fi- 
lologi che  non  curarono  d'avverare  le  loro  autorità  con  la  ra- 
gione dei  filosofi  ». 

B.  N. 


INDICE 


Al  Lettore      p.        v 

I.   La  teoria  dell'anima  e  la  generazione  delle  forme 

secondo  Pietro  d'Abano »  i 

II.    Intorno  alle  dottrine  filosofiche  di  Pietro  d'Abano  »  19 

I.  Le  prime  accuse  e  i  processi  per  eresia    ....  »  ig 

IL  Gli  «  errata  »  di  P.  d'Abano  secondo  S.  Champier  »  27 

III.  Eresia  di  P.  d'Abano,  secondo  il  Ferrari:  Dio  e 

il  mondo,  Scienza  e  Fede »         38 

IV.  La  Psicologia  di  P.  d'Abano  e  gli  errori  storici  del 

Ferrari »         59 

V.   Conclusione.     Il    pensiero    scientifico    di     Pietro 

d'Abano  in  rapporto  alla  Teologia »         69 

III.  Paolo  Veneto  e  l'averroismo  padovano »        75 

IV.  La   miscredenza   e   il   carattere   morale   di   Nico- 

letto  Vernia      »        95 

V.   Ancora  qualche  notizia  e  aneddoto  su  Nicoletto 

Vernia »      115 

VI.   La  mistica  averroistica  e  Pico  della  Mirandola  .      «      127 

VII.   Appunti  intomo   al  medico  e   filosofo  padovano 

Pietro  Trapolin »      147 

Vili.  I  Quolibeta  de  I  nielli  gentil  s  di  Alessandro  AchiUini     »      179 

IX.   Appunti     suU'averroista     bolognese     Alessandro 

AchiUini »      225 

X.   Un   altro   sigieriano   dei   primi   del   Cinquecento: 

Geronimo  Taiapietra »      281 

XI.   Un'importante  notizia  su  scritti  di  Sigieri  a  Bo- 
logna e  a  Padova  alla  fine  del  sec.   XV   ...     »      313 

XII.   Marcantonio  e  Teofilo  Zimara:  due  filosofi  Galati- 

tinesi  del  Cinquecento »      321 

XIII.    Il  commento  di  Simplicio  a  De  anima  nelle  con- 
troversie della  fine  del  secolo  XV  e  del  secolo  XVI     »      365 

XIV.  La  fine  dell'Averroismo »      443 

Indice  onomastico  e  doxografico »      457 


BRUNO    NARDI 

SAGGI   SULL'ARISTOTELISMO  PADOVANO 
DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 


I 

LA  TEORIA  DELL'ANIMA 

E  LA  GENERAZIONE  DELLE  FORME 

SECONDO  PIETRO  D'ABANO  * 


I.  -  Il  già  celebre  e  oggi  invece  quasi  sconosciuto  medico  e 
filosofo  padovano,  Pietro  d'Abano,  vien  classificato  ordinaria- 
mente dai  rari  storici  moderni  della  filosofia  medievale  che  si 
degnano  consacrargli  qualche  linea,  fra  gli  averroisti:  da  qual- 
cuno è,  anzi,  presentato  come  fondatore  dell'averroismo  al- 
l'università di  Padova.  Ma,  cosa  strana,  dell'averroismo 
dell' Abanese  tacciono  affatto  gli  antichi  storici  che  pur  lo 
fanno  passare  come  astrologo,  mago,  eretico,  e  che  a  queste 
accuse,  riguardanti  le  dottrine  di  lui,  ne  aggiungono  ben  altre 
riferentisi  al  carattere  personale,  per  quanto  queste  ultime 
abbiano  l'aspetto  di  favole  se  non,  spesso,  di  denigrazioni 
evidenti.  Scorrendo  la  monografia  che  gli  consacra  S.  Ferrari  ', 
il  sospetto  che  l'averroismo  del  medico  d'Abano  non  fosse 
una  pretta  leggenda,  si  accrebbe  in  me  a  tal  segno  che  decisi 
di  consultare  per  conto  mio  il  Conciliator  differentiariini  phi- 
losophormn  et  praecipiie  medicorum.  Sennonché,  essendo  l'opera 
relativamente  rara  e  trovandomi  da  quattro  anni  quasi  sempre 
all'estero,  non  mi  fu  così  facile  procurarmela;  quando,  nel- 
l'essere a  Bonn  m'abbattei  in  un'edizione  senza  data,  ma  che 
porta  in  testa  questa  nota  manoscritta:  impressus....  Me 
codex  est  Venetiis  a.  1483  per  Jo.  Herbart  de  Selgenstadt, 
alemanmmi.  Mentre  andavo  trascrivendo  i  passi  più  impor- 
tanti dal  punto  di  vista  filosofico,  quasi  quasi  non  sapevo 
credere  a  me  stesso,  finché  non  li  ebbi   collazionati   con   altre 


*  Già  apparso  nella  «  Riv.  di  Filos.  Neoscolastica»,  I\',  1912,  pp. 
723-37,   Solo  qualche  lieve  ritocco. 

I  /  tempi,  la  vita,  le  dottrine  di  Pietro  d'Abano.  Saggio  storico-filo- 
sofico di  Sante  Ferrari,  Genova,  1900. 


2  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

edizioni  e  specialmente  con  quella  del  1476,  di  cui,  oltre  le  copie 
possedute  a  Padova,  a  Firenze,  a  Torino  ecc.,  una  si  trova 
con  mia  grande  sorpresa  proprio  nella  Capitolare  di  Pescia. 
Dico  che  non  sapevo  credere  a  me  stesso,  perché  i  passi, 
a  cui  il  Ferrari  rimanda,  lungi  dal  rivelare  le  preoccupazioni 
averroistiche  che  egli,  con  critica  bizzarra,  crede  scoprire 
ad  ogni  pie  sospinto  attraverso  le  dichiarazioni  di  Pietro 
d'Abano,  dimostrano,  al  contrario,  che  questi  aderiva  espHci- 
tamente  e  senza  riserve  o  esitazioni  di  sorta  ad  un'altra  teoria 
intorno  all'anima,  che  era  l'antitesi  perfetta  di  quella  del 
filosofo  arabo  di  Cordova.  Quei  passi  sono  così  chiari  che  il 
Ferrari  stesso  si  sente  imbarazzato  e  suda  due  camicie  per 
interpretarli  a  rovescio,  come  fa.  Dovrei  forse  dubitare  della 
buona  fede  di  lui  ?  Certo,  nell'opera  erudita  del  Ferrari  si 
rivela  qua  e  là  un  gusto  matto  di  sorprendere  nel  filosofo  da 
lui  studiato  atteggiamenti  e  pose  d'eretico  che  agli  occhi  del- 
l'autore lo  rendono  più  simpatico.  E  quando  gli  fanno  difetto 
i  documenti  e  le  dichiarazioni  esplicite,  ricorre  a  stravaganti 
congetture  o  a  insinuazioni  ridicole.  Ma  io  ritengo  il  Ferrari 
un  perfetto  galantuomo,  e  per  dubitare  della  sua  completa 
buona  fede  non  ho  motivi  sufficienti.  Penso  invece  che  gli 
manchi  l'esatta  conoscenza  del  pensiero  medievale;  in  ma- 
niera che  egli  non  sa  comprendere  nel  loro  giusto  significato 
certe  dottrine,  le  quali  non  si  possono  capire  se  non  in  rapporto 
ai  movimenti  d' idee  a  cui  mettono  capo.  Ora,  infatti,  sostiene 
che  Pietro  d'Abano  fu  accusato  di  materialismo;  più  tardi, 
invocherà  la  stessa  condanna  per  dimostrare  che  questi  non 
era  sincero  quando  dichiarava  prava  la  teoria  averroistica 
dell'unità  dell'  intelletto.  Ora  gongola  di  gioia  perché  Pietro, 
nel  riferire  l'opinione  del  Commentatore,  la  lascia  passare 
senza  una  nota  di  biasimo;  una  pagina,  dopo,  ti  verrà  a  dire 
che  la  nota  di  biasimo,  che  l'Abanese  quest'altra  volta  invece 
ha  affibbiato  agli  averroisti,  va  presa  per  «  ....  un'ostentazione 
a  ufficio  di  scudo  »  !  E  via  di  questo  passo  -. 


-  Op.  cit.,  pp.  340-353.  Il  Ferrari  avrebbe  fatto  bene,  invece  di  ri- 
mandare alle  opere  di  Pietro  d'Abano,  che  il  lettore  non  sa  procurarsi 
con  tanta  facilità,  di  offrire  estesamente  citazioni  più  abbondanti  e 
meno  laconiche.  Il  pubblico  poi  che  si  occupa  di  queste  materie  sa- 
prebbe, credo,  fare  a  meno,  e  quanto  a  me  molto  volentieri,  della  tra- 
duzione che  il  Ferrari  sostituisce  ai  passi  citati,  i  quali  nel  loro  latino 
scolastico   sono    molto    meno    oscuri. 


LA    TEORIA    DELL  ANIMA  3 

Confesso  la  verità.  Arrivato  in  fondo  al  capitolo  dove  il 
Ferrari  parla  della  «  Psicologia  genetica  e  metafisica  »,  non 
sono  mai  riuscito  a  raccapezzarmi  sulla  vera  dottrina  del 
medico-filosofo  d'Abano.  La  quale,  pertanto,  se  si  piglia  in 
mano  il  Conciliator,  è  abbastanza  chiara,  nelle  sue  linee  gene- 
rali, ed  è  ben  diversa  da  quello  che  il  Ferrari  va  fantasticando. 
Ecco  qui  uno  dei  passi  più  importanti  e  nello  stesso  tempo 
meno  ambigui.  Alla  differentia  48  ^  si  discute  la  questione  se 
il  seme  umano  sia  o  no  animato.  E,  a  proposito  di  questo 
problema,  il  medico  padovano  espone  la  sua  teoria  sullo  svi- 
luppo dell'embrione  e  sull'origine  e  natura  dell'anima.  Egli 
dice: 

Rector  autem  huius  tain  divini  operis  [cioè  dello  sviluppo  embrio- 
nale] virtus  est  dieta  informativa  ab  anima  parentis  decisa,  per  im- 
pulsionem  coeuntis  incitata,  quam  Galenus  de  virtutibus  nahiralibus, 
secundo,  ca.  2,  appellat  summam  artem  praesidem  et  intellectivam 
sine  mente,  Aristoteles  autem  intellectum  vocatum  sive  intel- 
lectivam divinam,  ceu  ei  Haly  ascripsit.  Nominavit  autem  eam 
Aristoteles  intellectum  vocatum,  ad  differentiam  intellectus  po- 
tentionalis  et  agentis  pars  existentium  animae  intellectivae,  ut 
terfio  de  anima  inquit:  Dico  autem  intellectum  quo  anima  opinatur 
et  sapìt,  ad  differentiam  intellectus  quem  ponebat  Anaxagoras 
chaos  dieta  ex  eodem  consimilia  sequestrantis.  Et  ideo  apparet 
hic  erroneus  intellectus  lacobitarum  me  persequentium  tam- 
quam  posuerim  animam  intellectivam  de  potentia  educi  mate- 
riae;  differentia  9;  cum  aliis  mihi  54  ascriptis  erroribus.  A  quorum 
nianibus  gratia  dei  et  apostolica  m.ediante  me  laudabiliter  evasi. 
Da  qua  quidem  virtute,  ló.  animalium,  Avicenna:  '  Virtus  infor- 
mativa est  illa  quae  dat  vitam  et  est  proportionalis  virtuti  su- 
percoelestium  '. 

Arrestiamoci  a  precisare  il  significato  di  questo  passo. 
L'Abanese  parla  qui  non  dell'anima  umana,  ma  della  virtù 
i  il  formativa,  la  quale  più  sotto  è  così  descritta  sulla  scorta 
del  De  animalibtis,  XVI,  e.   i,  di  Avicenna: 

Virtus  informativa  est  illa  quae  dat  vitam  et  est  proportio- 
nalis virtuti  supercoelestium,  et  ista  virtus  facit  similia  secundum 
quid  virtutibus  supercoelestibus  quousque  sit  possibile  illam 
recipere  vitam,  et  est  dispersa  per  universam  substantiam  cor- 
poris  sive  sit  humiduin  sive  siccum:  et  in  spermatis  substantia 
est  potentia  potens  recipere  hanc  virtutem  et  est  spiritus  primus 
deferens  calorem  coelestem  et  ipse  est  causa  omnium  partium  sper- 
matis. Estque  haec  virtus  a  corpore  abstracta,  cui  etiam  ab  Arist. 
accipiens    commentator.    j°    metaphy.    i^Comm.    37]:  Arist.    dixit 


4  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

in  libro  de  animalibus,  quod  ipsa  sit  similis  intellectui  in  hoc, 
quod  non  agit  per  instrumentum  corporale  et  membrum  pro- 
prium. 

La  teoria  della  virtù  informativa,  qui  esposta,  è  tratta  dal 
secondo  libro  del  De  generatione  animaliuni  d'Aristotele  3  e 
la  si  ritrova  quasi  negli  stessi  termini  presso  S.  Tommaso  4. 
Siccome,  per  altro,  i  Giacchiti  di  Parigi  credettero  che  Pietro 
intendesse  parlare  dell'anima  umana,  per  questa  ragione, 
com'egli  dichiara,  lo  accusarono  dell'errore  d'Alessandro 
d'Afrodisia  e  di  Galeno,  l'ultimo  dei  quali  sosteneva  che  l'anima 
fosse  la  stessa  complexio  del  corpo  organizzato  \  e  il  primo 
che  r  intelletto  materiale  o  possibile  dovesse  farsi  consistere 
in  una  certa  virtìt.  risultante  «  ex  universa  illa  temperatura  vel 
constitutione  »  propria  dell'organismo  umano  ^.  Lo  accusa- 
vano, dunque,  dell'errore  opposto  all'averroismo  e  contro  il 
quale  il  celebre  commentatore  dello  Stagirita  aveva  aspra- 
mente polemizzato  a  più  riprese.  A  quest'accusa  aveva  dato 
certamente  motivo  l'appellarsi  che  Pietro  faceva  a  Galeno 
e  al  di  lui  fidelissimus  interpres,  Haly  ben  Rodoam.  Questi 
aveva  saputo  trovare  presso  Aristotele,  non  si  sa  come,  la 
teoria  dell' intellectus  vocatus,  della  cui  provenienza  aristotelica 
il  Nostro,  con  quella  sua  espressione:  «  ceu  ei  Haly  ascrip- 
sit  »,  sembra  tutt'altro  che  convinto.  L'  intellectus  vocatus  è 
la  traduzione  letterale  del  ó  xixXoù\j.tvoc,  voui;  del  De  gene- 
ratione animalium  7,  Basandosi  su  di  essa,  Haly  sosteneva 
che  r  intelletto  separato  di  Aristotele,  distinto  dall'anima 
individuale  e  identico  al  voij?  d'Anassagora,  fosse  la  stessa 
virtù  informativa,  ossia  l'influenza  degli  astri  la  quale  per 
mezzo  del  seme  paterno  presiede  allo  sviluppo  e  all'organiz- 


3  Cap.  3,  736  b.  29  sgg.  :  tkxvtwv  (xév  yùp  év  tcò  oTuéppiaTi  ÈvuTrdcpxei 
OTTEp  TTOiEÌ  yóvifxa  elvai  xà  CTTrép[xaTa  xò  xaXou(i,evov  -!>£p(i.óv.  xoùxo 
8'où  TTup,  oùSè  xotauxY]  SuvafjLit;  Icttiv,  àXkà  xò  l[jiTrepLXajjt.pavó(XEvov 
èv  T(p  CTTÉpfxaxi,  jcai  èv  xo)  à9p(óSEi.  TTVEUjj'.a  xal  rj  Èv  xw  TTVsufAaxt 
<pÙCTti;   (kvài.oyoq    oùaa  xo)  xcov    òcaxpcDV   oxoij^eÌco. 

4  Summa  Theol.,  I,  q.   118,  a.  I,  ad  ^.m 

5  Thomas    Aq.,    Cantra  gentes,    II,    63. 

^  Vedasi  il  passo  dell' Afrodisio  citato  da  Averroè,  De  Anima,  III, 
comm.  5.  Cfr.:  Thomas  Aq.,  /.  e,  cap.  62. 

7  II,  e.  3,  737*  4  sgg.:  xò  Sé  TTiQ  yovYjc;  acopia  èv  ó)  auMccnépy^erixi 
TÒ  CTTiéppia  xó  Triq,  ■\[^uy^iy.9iq  àp/rj^  xò  (xév  /coptoxòv  ov  cy  (jiaxo^ 
OCToic  È[jt.7T£ptXa(jt(3àv£xai  xò  ■8'eìov.  xoiouxoi;  S'écxìv  ò  xaXouuevo(; 
vouc. 


LA    TEORIA    DELL  ANIMA  5 

zazione  dell'embrione  8.  Anche  Pietro  dice  che  la  virtù  infor- 
mativa è  a  corpore  abstracta,  ma  nel  senso  che  essa  non  è  forma 
sostanziale  del  corpo  ove  agisce  {virhts  naturalis),  e  che  per 
agire  non  ha  bisogno  di  un  organo  determinato  9. 

Dalla  confusione  dei  termini  a  cui  dava  origine  il  modo  di 
parlare  di  Haly  e  di  Galeno  (coi  quali  l'Abanese,  come  me- 
dico, doveva  avere  speciale  famiharità,  e  che,  perciò,  era  por- 
tato a  citare  di  preferenza)  presero  motivo  gli  avversari  per 
accusare  il  maestro  padovano  di  materialismo. 

A  torto,  però.  Poiché  egli,  come  risulta,  oltreché  dalla  sua 
formale  protesta,  anche  dai  passi  che  stiamo  per  citare,  aveva 
ben  chiaramente  distinto  l'anima  razionale  dalla  virtù  ch'c  dal 
cuor  del  generante,   come   pensava   anche   l'Alighieri  'o. 

Siccome  quest'ultima  è  ordinata  alla  formazione  dell'orga- 
nismo umano  nel  seno  materno,  «  dicendum  quod  virtus 
corrumpitur  informativa  cum  embrionem  plasmaverit  ».  Ma 
come  e  quando  cessa  di  aver  ragione  d'essere,  siffatta  virtù  ? 
Ascoltiamo  il  nostro  medico-filosofo: 

Quidam  vero  dixerunt  ipsam  corrumpi,  cum  anima  introdu- 
citur  intellectiva,  ita  ut  omnes  embrionis  operationes  sint  ipsius 
[cioè  della  virtù  informativa']  ;  quod  conantur  ex  Aristotele,  //  de 
generai,  animai.,  persuadere.  Quod  equidem  licet  falsum  appareat 
ex  praefatis,  sententiae  videtur  ipsius  omnifariam  repugnare, 
cum  velit  embrionem  primitus  vita  vivere  plantae  ut  vegeta- 
tiva; demum  animali,  puta,  sensitiva;  deinceps  vero  intellectiva. 
Informativa  enim,  quod  et  nomen  ostendit,  non  hoc  agit,  verum 
informationis  cum  aliis  ad  hoc  suffragantibus  actum  solum  exercet. 
Propter  quod  communiores  [ed  alla  teoria  di  costoro  aderisce  il 
Nostro]  dixerunt  quod,  existente  informativa,  iam  adest  etiam 
nutritiva,  sicut  ostensum  ex  Aristotele.  Qua  quidem  recedente 
et  embrione  usque  ad  materiam  primam  deducto,  sensitiva  anima 


^  Allo  stesso  modo  Averroè,  nel  commento  i8  al  dodicesimo  libro 
della  Metafisica,  tentava  d' interpretare  le  idee  separate  di  Platone  nel 
senso  dell'  influsso  che  i  corpi  celesti  esercitano  suUe  cose  inferiori  per 
mezzo  de'  loro  rivolgimenti  e  della  luce. 

9  Thomas  Aq.,  S.  Th.,  I,  q.  ii8,  a.  i,  ad  ym:  «et  ideo  non  oportet 
quod  ista  vis  activa  {la  virtù  iìi formativa)  habeat  aUquod  organum  in 
actu,  sed  fundatur  in  ipso  spiritu  incluso  in  semine....  in  quo  etiam 
spirita  est  quidam  calor  ex  virtute  coelestium  corporum,  quorum  etiam 
virtute  agentia  inferiora  agunt  ad  speciem  ». 

IO  Purg.,  XXV,  59.  Le  stesse  differenze,  rilevate  da  me  a  proposito 
di  questa  dottrina,  fra  Dante  e  Tommaso  d'Aquino,  si  possono  osser- 
vare anche  fra  Dante  e  Pietro  d'Abano  {Sigieri  di  Brabante  nella  Div. 
Comni.  e  le  fonti  della  filosofìa  di  Dante,  Estr.  dalla  «  Riv.  di  Filos. 
Neoscol.  »,  Spianate,   1912,  p.   43). 


6  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SFXOLO    XIV    AL    XVI 

priori  supervenit  corrupta,  virtutem  habens  vegetandi  et  nu- 
triendi;  hac  denique  ut  prior  ad  materiam  deducta  primam  pro- 
pter  alterationes  ad  haec  praecedentes  anima  introducitur,  priori 
abolita,  intellectiva  duabus  potentiis  praedictis  et  intellectiva 
fulcita.  Quibus  videtur  Avicenna,  decimo  sexto  animalium,  [e.  i], 
consentire  et  tempus  denotans,  quo  immittitur  ipsa,  inquiens; 
'  Cum  cor  et  cerebrum  inveniuntur,  cum  eis  anima  coniungitur 
rationalis  '.  Quod  secundum  genetalicos  quarto  existit  mense. 
Sol  enim  tunc  dominatur  embrioni,  principatum  et  animam  de- 
notans rationis.  Et  subdit:  '  Et  separatur  ab  ipso  anima  sensibilis 
naturalis;  quae  interdum  erit  materialis  et  aliquando  non  mate- 
rialis,  verumtamen  nondum  erit  adliuc  discreta,  immo  velut  in 
ebrio  et  in  epileptico,  sed  completur  ab  extrinseco  intellectum 
conferente.  Ceterae  autem  virtutes  complentur  corpore  et  corporeis 
rebus  '  ". 

Per  voler  capir  bene  quest'ultima  opinione,  bisogna  metterla 
in  rapporto  con  quelle  di  altre  scuole  medievali.  «  Aliqui  dixe- 
runt  »,  narra  Tommaso  d'Aquino,  «  quod  operationes  vitae, 
quae  apparent  in  embryone,  non  sunt  ab  anima  eius  sed  ab 
anima  matris,  vel  a  virtute  formativa,  quae  est  in  semine, 
quorum  utrumque  falsum  est....  Et  ideo  dicendum  est,  quod 
anima  praeexistit  in  embryone,  a  principio  quidam  nutritiva, 
postmodum  autem  sensitiva  et  tandem  intellectiva.  Dicunt  ergo 
quidam,  quod  supra  animam  vegetabilem,  quae  primo  inerat, 
supervenit  alia  anima  quae  est  sensitiva,  supra  illam  iterum 
alia,  quae  est  intellectiva.  Et  sic  sunt  in  homine  tres  animae, 
quarum  una  est  in  potentia  ad  aliam,  quod  supra  impro- 
batum  est.  Et  ideo  alii  dicunt,  quod  illa  eadem  anima,  quae 
primo  fuit  vegetativa  tantum,  postmodum  per  actionem 
virtutis,  quae  est  in  semine,  perducitur  ad  hoc  ut  ipsa  eadem 
fiat  sensitiva;  et  tandem  ipsa  eadem  perducitur  ad  hoc,  ut 
ipsa  eadem  fiat  intellectiva,  non  quidem  per  virtutem  activam 
seminis,  sed  per  virtutem  superioris  agentis,  scilicet  Dei  de 
foris  illustrantis.  Et  propter  hoc  dicit  Philosophus,  quod 
intellectus  venit  ab  estrinseco  ^^;  sed  hoc  stare  non  potest.... 
Et  ideo  dicendum  est,  quod,  cum  generatio  unius  semper  sit 
corruptio  alterius,  necesse  est  dicere,  quod  tam  in  homine, 
quam  in  animalibus  aliis,   quando  perfectior  forma  advenit. 


II  Conciliator ,    differentia   48,    pr.    4. 

I-  Si  paragonino  le  due  qui  riferite  opinioni  con  altre  affini  esposte 
nel  mio:  Sigieri  di  Brabante  nella  Div.  Comm.  e  le  fonti  di  filosofìa  di 
Dante,   cit.,  cap.  V. 


LA    TEORIA    DELL  ANIMA  7 

fu  corruptio  prioris  ;  ita  tamen  quod  sequens  forma  hahet  quidquid 
habehat  prima  et  adhuc  amplius.  Et  sic  per  multas  generationes 
et  corruptiones  pervenitur  ad  ultimam  formam  substantialem, 
tam  in  homine  quam  in  aliis  animalibus....  Sic  igitur  dicendum 
est,  quod  anima  intellectiva  creatur  a  Deo  in  fine  generationis 
humanae,  quae  simili  est  et  sensitiva  et  nutritiva,  corruptis 
formis  praeexistentibus  »  13. 

Pietro  d'Abano  affronta  le  obiezioni  mosse  alla  teoria  che 
egli  ha  comune  con  Tommaso,  e  nel  risolverle  si  mostra  tanto 
d'accordo  con  quest'ultimo,  che  certe  risposte  del  filosofo 
padovano  si  direbbero  prese  di  sana  pianta  dagli  scritti  del- 
l'Aquinate.   Ecco  le  obiezioni: 

Sed  circa  praedicta  dubitare  contingit:  cur  non  mox  a  prin- 
cipio introducitur  anima  intellectiva,  ut  semita  natura  procedat 
breviori,  pluralitatis  respuens  peccatum  ?  Adhuc:  si  embrio  re- 
ducitur  bis,  ut  datum  est,  usque  ad  materiam  primam  et  cor- 
rumpitur,  corruptionis  utique  apparet  hic  modus  magis  quam 
generationis;  ac  dispositiones,  praecedentes  introductionem  formae 
in  materiam,  videntur  ipsum  debihtare  prius  et  exterminare, 
perducentes  eundem  ad  corruptionem;  sicut  cum  quis  morti 
iam  natus  accedit,  primo  imbecillitatur,  deinceps  corrumpitur: 
quod  hic  non  percipitur,  immo  vigorari  continue  perpenditur  in 
amplius. 

Alle  quali  risponde  così  (e  con  ciò  fa  sua  l'opinione  sopra- 
riferita) : 

Dicendum,  quod  natura  semper  quod  melius  est  operatur  et 
per  breviora,  cum  ejus  sapientiae  non  sit  finis.  Ad  horum  igitur 
primum  dicendum,  quod  natura  paulatim  et  latenter  ex  imper- 
fectis  tendit  in  ea  quae  sunt  perfecta;  et  quod  forma  juxta  Pla- 
tonem  non  imprimitur  nisi  secundum  dispositiones  et  meritum 
materiae....  Ad  aliud  dicendum,  quod,  quia  id  evenit  in  instanti, 
non  percipitur,  cum  mutatione  introducitur  et  non  motu  Physi- 
corimi.  Quod  et  sentire  apparet  Aristoteles,  volens,  de  generatione 
et  corruptione ,  primo,  ipsam  fieri,  cum  hoc  totum  transmutatur 
in  hoc  totum,  quod  non  esset,  nisi  ad  materiam  primam  perve- 
niretur;  ahoquin  siquidem  non  esset  generatio,  verum  potius 
alteratio,  subiecto  permanente.  Adhuc:  nisi  prima  corrumpe- 
retur  forma,  altera  enti  eveniret  existenti  in  actu  :  quod  autem 
sic  occurrit,  est  accidens.  Similiter  et  cum  esse  sit  a  forma 
substantiali,  habens  quidem  plures  formas,  et  plura  esse  haberet; 
ut  et  nihil  hic  vere  unum  existeret  '4. 


13  Summa  TheoL,  I,  q.  118,  a.  2,  ad  2m.  Cfr.  il  mio  Dante  e  cultura 
medievale,  2^  ed.,  Bari,  Laterza,   1949,  pp.  262-276. 
^4  Conciliator,  l.  e. 


8  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

Per  questi  due  ultimi  argomenti,  il  nostro  filosofo  aderisce 
perfino  ad  una  dottrina  tomistica  speciale,  e  cioè  alla  celebre 
teoria  dell'unità  della  forma  15.  Cosicché,  lungi  dal  riscontrare 
in  lui  mal  represse  tendenze  averroistiche,  siamo  dinanzi  ad 
una  teoria  chiara  ed  organica,  la  quale  si  oppone  nel  modo 
più  radicale  al  monopsichismo  del  commentatore  arabo  d'Ari- 
stotele. 

Da  chi  è  cagionata  l'anima  ragionevole  la  quale,  come 
abbiamo  veduto,  sopravviene  al  termine  dello  sviluppo  em- 
brionale, e  sostituisce  le  forme  precedenti,  ormai  corrottesi 
perché  non  bastanti  piìi  allo  scopo  ?  —  Alla  differentia  yi, 
l'Abanese  in  un  lungo  passo  del  quale  ci  occuperemo  in  seguito, 
tratta  della  causa  producente  le  forme  sostanziali;  e  a  propo- 
sito  di  tale  problema  dice,   riassumendo,   così: 

Propter  quod,  sciendum,  ut  ex  his  veritas  magis  habeatur, 
quod  mixtio  concurrit  elementaris  certa  et  agens  imprimens 
extrinsecum  ut  ea  introducitur  in  susceptivum  forma  cum  suis 
virtutibus  occultis  ex  merito  bonae  complexionis,  praeparantis 
miscibilia  perfecte  ad  receptionem  ipsius,...  ita  quod,  quantum 
mixtio  fuerit  perfectior  propter  miscibilium  bonam  contermina- 
tionem  et  contemperatior,  tanto  nobilior  introducetur  et  vir- 
tuosior  [forma],  adeo  quod  in  mixtione  hominis,  propter  eius 
nobilitatem  et  complexionis  temperantiam,  forma  introducitur 
ab  extra. 

Donavit  namque  deus  homini  temperatiorem  complexionem 
quae  in  hoc  mundo  sit  possibihs  inveniri,...  quod  et  eius 
temperatissimus  indicat  tactus  et  ejusdem  corporis  rectitudo^ 
Elementa  namque  cum  ad  mixtionem  ejus  perveniunt,  sunt 
magis  depurata  et  a  sorde  seu  labe  contrarietatis  sequestrata; 
sunt,  enim,  comparatione  aliorum  mixtionis,  vekit  aurum  ad 
alia  metalla  fornace  examinatum....  Et  ideo  meretur  non  solum 
formam  per  virtutem  coelestem  ex  elementis  suscitatam  recipere; 
verum  etiam  ab  extra,  quoniam  solus  intellectus  venit  ab  extrin- 
seco,  de  animai,  general.,  2,  et  ab  agente  nobilissimo  ut  deo 
glorioso  et  supremo.  Est  etiam  aliarum  formarum  nobilissima,, 
divinitate  eius  participans  quamplurime,  juxta  illud  psalmistae: 


15  Cfr.  :  Thomas  Ao.,  Summa  Theol.,  I,  q.  76,  a.  4.  Per  la  storia  della 
teoria,  vedasi  De  Wulf,  Le  tratte  de  unitate  formae  de  Gilles  de- 
Lessines,  Texte  inédit  et  elude,  Louvain  1901  (nella  collezione  Les  Phi- 
losophes  Belge s).  Del  resto,  del  tomismo  del  nostro  Abanese  su  questo 
punto,  come  anche  sulla  dottrina  del  principiuni  indivìduationis  (il 
quale,  dice,  «  sumitur  ex  materia  secundum  quod  sub  determinata 
fuerit  quantitate  »,  o  ancora  «  sub  dimensionibus  signatis  »),  si  è  accorto 
perfino  il  Ferrari,   op.   cit.,  pp.    244-245. 


LA    TEORIA    DELL  ANIMA  9 

minuisti  eum  paulo  minus  ab  angelis.  Unde  Algazel  in  sermonibus 
de  anima:  Cum  cominixtio  elementoruni  fuerit  pulchrioris  et 
perfectioris  aequalitatis  qua  nihil  possit  inveniri  subtilius  et  pul- 
chrius,  sicut  est  sperma  hominis,  tunc  fiet  ad  recipiendum  a 
datore  formarum,  formam  formis  pulchriorem,  qua  anima  extat 
humana. 


Un  altro  passo  importante  lo  togliamo  dalla  differentia  j. 
L'autore  vuol  render  ragione  del  modo  onde  da  noi  si  pensa 
l'universale: 

Dicendum  quod  universale  habet  duplex  esse:  unum  quidem  in 
intellectu  iam  possibili  in  actum  aliquando  deducto;  aliud  se- 
cundum  se,  prout  a  multis  particularibus  est  quaedam  forma 
communis  per  intellectum  abstracta.  Haec  {sic)  enim  species  et 
similitudines  rerum  abstrahit  a  particularibus  etiam  signatis  et 
reponit  in  intellectum  possibilem;  scilicet,  congregans  unam 
quandam  naturam  communem  natam  inesse  vel  dici  de  pluribus, 
iuxta  illud  Porphirii  :  «  Participatione  speciei  plures  homines  sunt 
unus  homo  »;  et  demum  projiciens  lumen  suum  super  intellectum 
possibilem  facit  ipsum  praedictam  naturam  intelligere  (habet 
enim  se  ad  eum  sicut  lumen  ad  colores)  et  sic  intellectus  con- 
surget  in  actu  ;  et  tandem  adeptus  seu  accommodatus,  diffe- 
rentia 5J.  Cum  igitur  secundum  se  natura  illa  communis  vel 
species  remaneat  universalis  ab  obiecto  perfecta  poterit  de  ea 
fore  scientia.  Videtur  enim  quod  intellectualis  natura  sit  in  ge- 
nere suo  sicut  sol  in  genere  corporeo.  Scimus  enim  solem  fore 
unum  numero  et  individuum  et  lucem  quae  in  ipso  dupliciter 
consideratam.  Si  enim  consideretur  prout  est  in  eo  forma  solis 
est  una  numero;  si  vero  accipiatur  secundum  quod  ab  eo  est 
manans,  sic  universaliter  est  omnium  illuminativa  diaphanorum 
tam  perviorum  quae  facit  lucida  secundum  actum,  quam  non 
perviorunr  quae  reddit  colorata:  et  sic  multa  agit  et  facit.  Noster 
enim  intellectus  secundum  quod  est  aliquid  naturae  animae,  dicitur 
individuus]  tamen  prout  emittit  actiones  intelligendi ,  esse  in  virtute 
notatur  universali  :  et  hoc  modo  universalia  sunt  in  ipso,  quoniam 
sic  est  abstractivus  et  denudativus  formarum,  sicut  lux  corpo- 
ralis  colorum.  Licet  ergo  individuus  ponatur  secundum  quod  est 
forma  hominis,  tamen  secundum  suam  potestatem,  in  quantum 
est  poientia  lucis  spiritualis,  universalis  est;  nam  etiam  univer- 
salia sunt  in  intellectu  sicut  forma  in  materia,  vel  accidens  in 
subiecto.  Ens  enim  in  anima  potius  est  intentio  rei  quam  res. 
Et  ideo,  sicut  non  individuatur  corporaliter  per  esse  quod  habet 
in  luce  corporali,  ncque  etiam  specificatur  eo  quod  esse  in  luce 
convenit  omni  colori  secundum  quod  est  in  actu  color;  ita  et 
intentio  rei  non  specificatur  nec  individuatur  per  hoc  quod  est 
in   luce   incorporea  intellectuali,    sed    manet   universalis. 


IO  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Tutto  ciò  è  chiaro;  né  può  dubitarsi  a  questo  riguardo  della 
persuasione  dell' Abanese.  Il  quale  non  manca  di  rispondere  ad 
un'obiezione  importante,  con  parole  però,  che  per  quanto 
piane  ad  intendere,  prese  nel  contesto,  pure  hanno  dato  nel 
naso  al  Ferrari,  il  quale  ci  scuopre  sotto  i  segni  mal  celati  del- 
l'eretico che  vuol  salvarsi  dalle  unghie  dell'  inquisizione. 
Ecco  obiezione  e  risposta: 

Contingit  autem  circa  hoc  dubitare:  cum  nihil  agat  ultra 
suam  speciem,  intellectus  igitur  individuus  speciem  non  poterit 
universale-m  concreare.  —  Dicendum,  quod  id  prave  ponentes  uni- 
tatem  intellectus  non  sic  angit,  sed  veritatem  plurahtatis  ipsius 
profitentes  cum  lege.  Et  ideo  dicunt  quod  intellectus  tripliciter 
homini  counitur:  uno,  quidem,  ut  natura  dans  esse,  et  ideo  indi- 
viduus; aliter,  ut  potentia  per  quam  est  operatio  intelligendi,  et 
sic  universalis  est  virtus  (Id  tamen  videtur  contra  Aristotelem, 
3  phys.  et  2  meiaph.,  negantem  passionerà  nunquam  plus  subiecto 
fore  abstractam)  ;  quod  et  per  se  dicam  verificati  :  virtus  enim 
visiva  materialis  obiecto  suscitata  et  medii  dispositione  coexten- 
ditur  in  immensum;  tertio  modo,  ut  forma  acquisita  ex  multis 
intellectibus.  Quia  igitur  haec  diffìcilior  est  tractatio  quam  ne- 
gocium  praesens  exquirat,  nunc  tantum  sufficiat  dixisse  i^. 

Si  metta  questa  risposta  in  rapporto  coi  passi  dianzi  citati, 
e  ci  si  convincerà  facilmente  che,  se  il  prave  ponentes  rivela 
l'uomo  che  parla  secondo  un  credo  religioso,  l'equivalente 
filosofico  di  quella  frase,  proprio  quale  ce  lo  suggeriscono  le 
dottrine  psicologiche  di  Pietro  d'Abano,  dovrà  essere  un 
perperam.,  un  falso  o  qualcosa  del  genere.  —  Riportiamo  un 
altro  non  inutile  passo  relativo  alla  funzione  intellettuale 
(che,  trattandosi  di  libri  che  non  vanno  per  le  mani  di  tutti, 
è   sempre   bene   abbondare   di   citazioni)  : 

....  speculativa  vero  est  virtus  quae  informatur  a  forma  uni- 
versali nuda  a  materia.  Duplex  autem  haec  extitit:  et  potentia 
et  actu.  Potentia  quoque  triplex  est.  Quaedam  enim  absolute, 
remota  non  parum  ab  actu,  materialis  dieta,  velut  infantis  po- 
tentia ad  scribendum.  Est  et  alia,  minus  distans  hac  ab  actu, 
potentialis  nominata,  ceu  pueri  potentia  ad  scribendum  cum 
instrumenta  cognoverit  scripturae.  Tertia  vero  est  adhuc  propior 
hac  actui,  perfectionis  dieta,  cum  scriptor  non  scribit  perfectus,  ut 
tactum  [dlff.]  48.  Quibus  quidem  potentiis  triplex  proportionatur 
intellectus,  ut  materialis,  nullam  habens  formam,  sed  subiectum 
existens  omnis  ut  ipsius  potentia  prima.  Est  et  alius  relatus  po- 

16  Conc,  diff.  3.  Cfr.  ;  Fkrrari,  op.  e,  p.  350,  nota  i. 


LA    TEORIA    DELL'ANIMA  II 

tentiae  secundae,  ut  cum  in  potentia  materiali  habente  de  intel- 
ligibilibus  per  se  nota,  ex  quibus  acceditur  ad  intelligibilia  se- 
cunda  ex  eis  nota  (prima  namque  sunt  propositiones  priores  per 
se  ad  habentem  venientes,  4  nietaph.,  ceu  de  quolibet  esse  aut 
non  esse,  ac  omne  totum  majus  sua  parte);  et  hic  intellectus  est 
potentialis  dictus  ut  ejus  potentia.  Tertius  quoque  est  dictus 
perfectionis  intellectus,  qui  potest  actu  cum  voluerit  intelligere. 
Et  hic  triplex  potest  ab  Aristotele  intellectus  potentialis  dici. 
Cum  autem  is  actu  intelligit,  intelligens  se  intelligere,  intellectus 
est  appellatus  in  effectu,  et  tunc  sibi  coniungitur  et  unitur  in- 
tellectus dictus  accommodatus  ab  extrinseco,  A  [vicenna],  primo  de 
Anima  [e.  5],  vel  acquisitus  ut  ab  intelligentia  quam  posuit  agentem, 
metaph.,  9,  [e.  3].  Et  ideo  intellectum  non  posuit  alium  agentem  ani- 
mae  partem,  sicut  neque  Plato  cum  posuerit  is  per  se  universalia 
subsistere  '7.  Intellectus  autem  qui  naturam  habet  actus  secundum 
Aristotelem,  est  agens  «  animae  pars  existens  humanae  »  se  habens 
ad  potentiaiem  ut  lumen  ad  colores.  Ipse  namque  materialibus 
immersa  et  dispositionibus  individualibus  coniuncta  ut  species 
earum  extrahit  et  reponit  in  possibilem  intellectum  et  super  eundem 
projiciens  lumen  actu  reddit  intelligibilem.  Commentator  quo- 
que, ieriio  de  anima,  [comm.  36],  volens  dare  modum  conjungendi 
nos  cum  separatis  ut  intelligamus  ea,  ponit  quod  intellecta  in 
nobis  sunt  duplicia:  vel  naturaliter  ut  primae  propositiones  sive 
intellectus  in  habitu  ;  aut  voluntarie  sicut  intellecta  ex  illis  primis 
propositionibus  acquisita.  Et  prima  quidem  intellecta  facta  sunt 
ab  intellectu  agente.  Intellecta  vero  acquisita  fiunt  in  nobis  ex 
intellectu  primarum  propositionum  et  agente.  Intellectus  hic 
consurgens  est  speculativus  factus  voluntarie  ex  intellectu  in  habittt 
et  primis  propositionibus  et  agente.  Et  in  hac  siquidem  actione 
ex  duobus  his  intellectibus,  intellectus  in  habitu  est  sicut  materia 
vel  instrumentum,  sed  agens  ut  forma  aut  effìciens.  Cum  igitur 
intellectus  materialis  actu  intelligit,  formatur  speculativo  et  agente, 
postremo  efficitur  intellectus  in  actu  separatus  continuatus  et 
proprie  cutn  omnia  speculativa  intellecta  in  nobis  fuerint  facta. 
Cum  autem  ita  fuerit,  intelliget  omnia  entia.  Et  homo  secundum 
hunc  modum,  inquit  Themistius,  assimilatur  deo  in  hoc  quod  est 
omnia  entia  quodammodo.  Et  o  quam  mirabilis  est  iste  ordo,  et 
quam  extraneus  iste  modus  essendi  !  Et  id  quidem  in  «  sermonum 


^7  II  Ferrari  traduce,  non  si  sa  perché:  «  Aristotile  non  pose  un  intel- 
letto agente  diverso  dal  resto  dell'anima;  come  neppure  Platone,  avendo 
questi  opinato  che  si  rivelino  gli  universali  sussistenti  per  sé  »  {op.  cit., 
p.  347).  Che  significhi  un  simile  pasticcio  nella  mente  del  Ferrari,  io  non 
riesco  a  indovinare.  È  evidente  che  in  quella  proposizione  si  pari- 
di Avicenna,  del  quale  appunto  è  la  teoria  dall'intelligenza  agente  come 
principio  attivo  eterno  dell'atto  dell'  intellezione.  Avendo  costui  messo 
fuori  dell'anima  siffatto  principio  attivo,  come  Platone  vi  aveva  messo 
gì'  intelligibili  sussistenti  e  irradianti  la  nostra  mente,  non  sentì  il  bi- 
sogno d'ammettere  con  Aristotele,  un  intelletto  agente  che  fosse  una 
potenza  dell'anima  umana.  Mi  pare  che  così  il  discorso  corra  molto 
meglio.  Ma  vedi  anche  sotto,  p.  41. 


12  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

editione  »    latius    declaravi....    Intellectus  in  actu  vel  accomodatus 
seu  acquisitus  principans  extat  tantum  et  servitus  omnifariam  » 

\_nientre   gli   altri  gradi   d'  intellezione ,   inferiori   a  questo,   gli   sono 
subordinati']  ^^. 

Che  cosa  precisamente  sia  l' intellectus  accommodatus  o 
acquisitus  è  spiegato  da  Avicenna  e  da  Averroè  nei  luoghi 
citati  da  Pietro.  Tuttavia  è  certo  che,  pur  prendendo  la 
nozione  dagli  arabi  e  da  Temistio,  come  fa,  questi  ne 
trasforma  il  significato,  come  già  avevano  fatto  S.  Tom- 
maso '9  e  altri  Scolastici.  Parrebbe  che  dovesse  trattarsi  di 
atto  nuovo  e  più  perfetto,  il  quale  sopravviene  alla  conoscenza 
volgare;  o,  se  si  vuole,  di  uno  sviluppo  ulteriore,  di  un  perfe- 
zionamento del  conoscere  dovuto  a  un  influsso  esterno  al- 
l'uomo, forse  alla  luce  divina,  forse  alle  rationes  aeternae  ecc. 
Checché  sia  di  ciò  e  dell'  intellectus  agens  che  coopera  alla 
formazione  di  questo  supremo  grado  del  sapere  umano,  è 
certo  che  la  teoria  dell'anima  secondo  Pietro  d'Abano  con- 
corda essenzialmente  colla  psicologia  di  Tommaso  meglio 
che  con  quella  di  ogni  altro  scolastico,  ed  è,  perciò,  il  rovescio 
del  così  detto  monopsichismo  averroistico.  Essa  riposa  su 
questi  cardini: 

i)  la  forma  sostanziale  del  composto  umano  è  unica,  ed 
essa  è  l'anima  intellettiva  di  cui  l' intelletto  possibile  ed  agente 
son  parte; 

2)  l'anima  umana  è  creata  da  Dio,  e  non  deriva  per  gene- 
razione, né   si   sviluppa  dalla  materia; 

3)  all'atto  della  sua  unione  col  corpo,  le  forme  anteriori 
si  corrompono,  ed  essa  le  sostituisce  essendo  dotata  di  potenza 
vegetativa  e  sensitiva; 

4)  l'anima  umana  è  individualizzata  in  quanto  forma  del 
composto  umano,  mentre  è  capace  di  abbracciare  l'universale 
in  quanto  possiede  la  facoltà  d' intendere. 


2.  -  Un  punto  molto  significativo  per  giudicare  della  filosofia 
di  Pietro  d'Abano,  è  la  teoria  della  produzione  delle  forme 
sostanziali   nei   corpi   sublunari.   La  differentia  loi  si  occupa 


i8  Conci.,  diff.  ^y. 

19  Summa  TheoL,  1,  q.  79,  art.   io.  Ma  v.  sotto,  il  saggio  VI. 


LA    TEORIA    DEL.L  ANIMA  I3 

ampiamente  della  quistione,  e  vai  la  pena  di  citare  lo  squar- 
cio più  importante: 

Efficiens  vero  causa  duplex:  una  quidem  particularis  et  est 
caliditas  spiritualis  ex  putredine  consurgens  aliqua  [si  tratta  della 
causa  della  generazione  cosiddetta  spontanea  dei  vermi],  unde 
aphorisrnoriim  [particiila]  tertia:  —  Putredo  sola  non  est  suf- 
ficiens  generare  animai,  sed  calore  sufficienti  indiget.  —  Et  Se- 
rapio  20;  '  Causa  vermium  prima  est  putredo  '.  Et  sanior  hoc  no- 
mine caliditas  est  ex  putredine  et  proprie  calor  coelestis:  diff.  48. 
Altera   quoque   universalis   multipliciter   est   opinata   a   multis. 

Quia  quidam,  ut  platonici,  posuerunt  formas  dari  a  secundis 
diis,  dicentes  deum  deorum  sementem  eis  generationis,  hyle 
videlicet,  indidisse;  unde  Thimaei  secundo:  —  Huius  universi 
generis  sementem  faciam  vobisque  tradam;  vos  cetera  exequi 
par  est,  ita  immortalenr  coelestemque  naturam  mortali  textu 
extrinsecus  ambiatis  iubeatisque  nasci  cibumque  provideatis  et 
incrementa  detis.  Ac  post  dissolutionem  id  foenus  quod  credide- 
ratis  recessione  animi  et  corporis  recipiatis.  —  Ouare  12  Metaph., 
Commentator:  —  Plato  suis  verbis  obscuris  dixit:  creator  creavit 
angelos  manu,  deinde  praecepit  eis  creare  alia  niortalia;  et  remansit 
ipse  sine  labore  in  quiete.  Ouod  tamen  dixit,  non  ad  litteram 
intelligendum  -'. 

Aristoteles  vero  voluit  fore  formas  ex  sole  et  orbe  declivi, 
sicut  etiam  Themistius  testatur.  Unde  Commentator:  —  Dicentes 


^o  Condì.,  diff.  71:  «quidam  antiquorum  huiusmodi  formas  specifìcas 
cum  earum  proprietatibus  occultis  poseurunt  ex  elementis  et  eorum 
qualitatibus  solummodo  derivari.  Quod  etiam  fortassis  videtur  Aristo- 
teles Probleinatum  priwa  [particula],  sapere,  diff.  60.  In  hanc  quoque 
opinionem  visus  est  incidere  Johannes  Serapio  in  Antidolario  inquiens: 
—  Similitudo  propter  quam  attrahitur  ras  non  est  nisi  per  qualitatem 
quandam  complexionis  elementorum.  His  etiam  satis  consentire  vi- 
detur Averroes  Colliget,  5....  Hanc  autem  opinionem  intantum  videtur 
Alexander  Peripateticus  suscitasse  qui  etiam  animam  tiumanam  posuit 
ex  mixtione  consurgere  elementorum....  Adfiuc,  rationibus  ostendi 
potest  et  signis  formas  hujusmodi  specifìcas  et  earum  virtutes  ab  alio 
praeterquam  ab  elementorum  mixtione  causari  ». 

21  Ibid.,  diff.  71  :  «Et  ideo  fuerunt  alii  qui  praeter  elementorum  mixtio- 
nem  aliud  principium  posuere  extrinsecum,  unde  formae  specifìcae  et 
suae  causentur  virtutes.  Qui  etiam  inter  se  diversitatem  receperunt 
non  parvam.  Plato  namque  posuit  substantias  separatas,  quas  ideas 
appellavit,  liujusmodi  formas  causare  et  universaliter  omnem  naturam 
et  cognitionem,  videns  particularia  in  omnium  transmutatione  et 
fluxu,  metaph.  I.  Haec  autem  positio  sic  intellecta  in  pluribus  locorum 
annullata  ab  Aristotele  invenitur;  licet  ipsam  Commentator  aliqua- 
liter  expositione,  12  metaph.,  [comm.  18],  satagat  sustinere,  audiendo  per 
ideas  impressiones  a  superius  factas  in  haec  interiora  per  motum  et 
lucem.  Ipsa  tamen  ut  sibi  imponitur  stare  non  potest  ».  Si  veda  a  questo 
proposito  anche  la  differentia  3.  Al  t.  e.  18  del  commento  averroistico 
Pietro  attinge  in  tutto  questo  lungo  tratto  della  diffenvtia  loi. 


14  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

aliquod  agens  esse  et  generationem,  sunt  diversificati.  Quidam 
namque  ipsorum  latitationem  posuerunt  formarum,  ut  Anaxagoras 
cum  Empedocle  et  Democritus  reprobatus  Celi  et  mundi  quarto  [t.  e. 
42-43].  Alii  vero  creationem.  Nonnulli  Inter  hos  extiterunt  medii. 
Qui  autem  latitationem  ponunt,  quodlibet  in  quolibet  confir- 
mant;  et  quod  agens  solum  res  extrahit  et  ipsas  ab  invicem  di- 
stinguit;  et  quod  generatio  est  exitus  rerum  ab  invicem:  quae 
intellectum  divinum  dicunt  operari  magis  omnia  segregan- 
tem  ex  chaos  quodam  quod  fingunt  confuse.  Qui  autem  ponunt 
creationem  rerum,  dicunt  agens  creare  totum  ens  de  novo  ex 
nihilo;  et  quod  non  eget  materia  in  quam  agat,  sed  totum  creat. 
Imaginatio  enim  creationis  formarum  induxit  homines  dicere 
formas  esse  et  datorem  formarum.  Et  induxit  loquentes  trium 
legum,  quae  hodie  sunt,  dicere  aliquid  fieri  ex  nihilo.  Et  cum 
nullum  tale  agens  hoc  perciperent,  dixerunt  agens  oìnnia  entia 
producere  sine  medio;  et  quod  actio  unius  agentis  uno  pertransit 
instanti  in  actiones  contrarias  similes  infinitas,  ita  ut  negent 
ignem  comburere  et  aquam  humectare,  dicentes  omnia  huju- 
smodi  creatione  indigere;  unde  et  communiter  dicunt  corpus 
non  creare,  neque  aliquam  inducere  dispositionem,  adeo  quod 
homo,  cum  movet  lapidem  expellendo,  non  est  movens,  sed 
agens  illud  creat  motum.  Et  negaverunt  j^ropter  hoc  potentiam 
esse.  Et  error,  ut  subdit,  horum  est  manifestus;  unde  Johannes 
Christianus  opinatus  est  quod  possibilitas  non  est  nisi  in  agente.  — 
Et  hoc  fortassis  est  quod  scribitur  lohannis  initio:  Omnia  per 
ipsiim  facta  sunt,  et  sine  ipso  factum  est  nihil. 

Horum  autem  medii  in  duas  videntur  opiniones  partiri. 
Quarum  una  in  duas  sequestratur,  ut  universe  sint  quinque. 
Omnes  tamen  hae  tres  intermediae  in  hoc  conveniunt,  quia  po- 
nunt gnerationem  transmutationem  fore  in  substantia,  ad  diffe- 
rentiam  Anaxagorae,  et  quod  nihil  generetur  ex  nihilo,  videlicet 
quod  necessarium  est  in  generatione  subiectum.  esse.  Et  quod 
generatum  non  fit  nisi  ab  eo  quod  sui  generis  in  forma. 

Una  tamen  istarum  trium  sentit,  quod  agens  creat  formam 
et  ponit  eam  in  materiam.  Et  vult  quod  hoc  agens  duobus  in- 
veniatur  modis:  abstractum  a  materia,  et  interdum  coniunctum 
velut  ignis  ignem  faciens  et  homo  hominem  generans;  quod 
autem  est  abstractum  generat  animalia  et  plantas  non  a  simili 
entes.  Et  haec  sententia  extat  Themistii  et  forte  Alpharabii, 
quamvis  dubitet  hoc  ponere  in  his  quae  propagatione  generantur. 

Fuit  et  alia  opinio,  quod  agens  id  non  est  in  materia  omnino 
et  vocat  ipsum  datorem  formarum.  Et  A[vicenna]  fuit  de  illis 
cum  Algazele  ipsius  mimo,  apparens  nono  eius  Metaph.  Sumens 
enim  illud  secundi  de  generatione,  quod  idem  manens  idem  semper 
sit  natum  facere  idem.  Ait  enim  magister  primus  quod  a  stabili 
in  quantum  stabile  non  est  nisi  stabile.  Sed  primus  semper  idem 
et  stabilis  permanet,  ideo  solum  unum  immediate  proveniet  ab 
ilio,  ita  ut  se  ipsum  intelligens  producat  primam  intelligentiam 
cum  celo  primo,  deinde  illa  intelligens[se]  secundam  cum  illius  celo, 
et  deinceps,  ita  ut  intelligentia  lunae  se  intelligens  producat  quan- 


LA    TEORIA    DELL  ANIMA 


15 


dam  intelligentiam  dictam  agentem,  gubernantem  quae  sunt 
in  activorum  et  passivorum  spera  simplicium  et  compositorum  --. 

Tertia  fuit  Aristotelis  sententia,  cui  innitendum  est  quia  se- 
cundum  Alexandrum  minoris  est  ambiguitatis  omnium  senten- 
tiarum  et  magis  conveniens  ut  sit  vera,  cum  nihil  sine  probatione 
dicat  forti,  difjer.  56.  Et  est,  quod  agens  non  facit  nisi  compo- 
situm  ex  materia  et  forma.  Quod  fìt  movendo  materiam  et  ipsam 
transmutando,  donec  quae  in  ipsa  extat  in  potentia  egrediatur 
forma  in  actum.  Extrahit  namque  agens  quod  est  in  potentia 
ad  actum,  et  quasi  congregat  inter  potentiam  et  actum,  idest 
inter  materiam  et  formam,  secundum  quod  potentiam  extrahit 
in  actum  non  destruendo  subiectam  potentiam  recipiens.  Et 
tunc  resultant  in  composito  duo:  materia  scilicet  et  forma. 
Et  haec  sententia  creationi  assimilatur  utcumque,  scilicet  in 
quantum  id,  quod  est  in  potentia,  fìt  in  actu;  sed  differt  a 
creatione,  quia  non  venit  per  formam,  sed  ex  non  forma  in 
actum.  Et  similiter  latitationem  similatur  aliqualiter  formarum 
ponenti.  Et  omnes  dicentes  creationem,  vel  latitationem,  aut 
congregationem  et  segregationem,  ut  Empedocles,  cui  etiam 
utcumque  assimilatur,  hoc  quidem  intendebant;  sed  non  potuerunt 
ad  illud  pertingere.  Est  igitur  intentio  Aristotelis,  quod  simile 
fit  a  simili,  aut  ex  fere  simili,  et  non  quod  simile  agat  per  se  et 
per  suam  formam  sensibilem;  sed  est  dicere  quod  extrahit  si- 
mile ex  potentia  in  actum  et  non  agens  inducens  in  materiam 
aliquid  extrinsecum;  et  sicut  hoc  inventum  est  in  substantia, 
ita  et  in  accidentibus.  Calidum  enim  non  inducit  in  corpus  ca- 
lidum  calorem  extrinsecum,  sed  facit  calidum  in  potentia  esse 
calidum  in  actu.  Et  sic  in  qualitate  et  motu  locali,  quod  non 
perveniunt  ab  extrinseco;  sed  ex  potentia  materiae  suscitantur 
in  actum,  unde  ignis  generatur  a  motu  sicut  ab  igne.  Et  sic  gene- 
rans  extrahit  quod  est  in  potentia  materiae  gignendae  ad  actum, 
ut  sit  generatum  in  actu.  Et  omne  extrahens  aliquid  ex  potentia 
in  actum,  necesse  est  ut  sit  in  eo  aliquo  modo  id  quod  extrahitur, 
non  quod  sit  omnino  ipsum.  Virtù tes  namque  quae  sunt  in  se- 
minibus,  quae  faciunt  animata,  non  sunt  animatae  in  actu  sed 
in  potentia,  sicut  domus  quae  est  in  anima  aedificatoris  est  domus 
in  potentia  et  non  in  actu.  Et  ideo  Aristoteles,  secitndo  de  generai, 
animai.,  has  virtutes  assimilavit  virtutibus  artificialibus  divinis, 
quae  dicuntur  intelligentiae. 

Haec  igitur  est  Aristotelis  sententia,  sola  veritati  consona, 
cum  ad  ipsam  non  sequantur  quae  ad  alias  opiniones  impossibilia. 
Quarum  quidem  defectus  insinuetur  per  brevia,  cum  praesentis 
non   extet   speculationis. 

Quae  namque  est  Platonis  de  diis  secundis  formas  imprimen- 
tibus,  in  pluribus  locis  Metaphisicae  sub  nomine  idearum  est 
impugnata  -3.   Similis  fere  videtur  quae  Themistii,   si  est  ut  sibi 


--  Cfr.    differentia  ji. 
-3  Cfr.   ihid.  e  difj.  3. 


IO  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Commentator  imponit.  Quem  tamen  opinor  sanum  cum  Aristo- 
tele habuisse  intellectum,  sicut  etiam  sonare  possunt  eius  sermones 
a  Commentatore  recitati.  Tenentes  similiter  latitationem  forma- 
rum  annullati  sunt  ab  Aristotele  non  parum,  cum  generationem 
salvare  non  possint,  facientes  formas  ex  quodam  chaos  indistincte 
prodire.  Unde  in  primo  de  generai,  et  corrupt.,  [t.  e.  i],  dicit  pro- 
priam  Anaxagoram,  huius  positionis  didascalum,  vocem  ignorasse, 
cum  ponens  unum  subjectum  generatione  aliud  ab  alteratione 
sentiret  esse.  Tenentes  vero  creationem,  etsi  verissimi  lege  sint, 
in  philosophia  tamen  non  sunt  admittendi,  cum  et  ipsam  levem 
faciant  omnino,  ac  primam  quasi  causam  multiplicibus  vexant 
laboribus,  decorem  non  minus  et  ordinem  et  per  consequens 
perfectionem  removentes,  secundum  peripateticos,  ab  universo. 
—  A[vicenna]  etiam  ordinem  tollens,  agens  fere  frustrat  parti- 
culare  principaliter  dearticulativum.  Sententiam  etiam  depravans 
Aristotelis,  cum  idem,  secundum  eundem,  sit  disponens  mate- 
riam  et  formas  suscitans  ex  eadem,  ut  apparuit  ex  eo:  homo  enim 
hominem  generat  et  sol,  de  phybico  anditu,  2,  [t.  e.  26].  Neque 
etiam  illius  valet  motivum:  quoniam,  etsi  prima  permaneat 
eadem  realiter  causa,  rationibus  tamen  idealibus  quibusdam 
ponitur  non  conveniens  ipsam  modo  aliquo  permutari;  ea  tamen 
permutationem  non  suscipiente,  sed  effectu,  ceu  tradunt  cum  phi- 
losophis  tractantes   quae   dei. 

Tutta  questa  lunga  disquisizione  è  tolta,  ora  ampliandola 
ora  riassumendola,  dal  commento  18  d'Averroè  al  XII  libro 
della  Metafìsica  aristotelica  ^4.  Pietro  d'Abano  dichiara  in- 
sieme al  commentatore  arabo  di  aderire  su  questo  punto  alla 
teoria  d'Aristotele.  Questo  riferirsi  all'  interpretazione  aver- 
roistica  della  dottrina  d'Aristotele  sull'origine  della  forma 
sostanziale  negli  esseri  che  cangiano,  è  caratteristico  del  tempo 
del  nostro  Abanese.  Lo  pseudo  Duns  Scoto,  suo  coetaneo,  nel 
De  rerum  principio  ^5  riassume  ugualmente  il  pensiero  averroi- 
stico  e  lo  fa  proprio.  Anch'egli,  come  il  medico  e  filosofo  di 
Padova,  rigetta  la  teoria,  attribuita  a  Giovanni  Filopono, 
della  creazione  immediata  introdotta  per  spiegare  i  fenomeni 
naturali.  Questa  teoria  è  verissima  dal  punto  di  vista  religioso 

{in  lege),  in  quanto  si  vuol  significare  che  Dio  è  creatore  e 
conservatore  dell'universo,  e  che  tutte  le  cose  agiscono  in 
virtù  dell'azione  divina  la  quale  influisce  su  ogni  atto  delle 

cause  seconde  ;  ma  ciò  è  fuor  di  luogo  in  philosophia  [naturali] , 


-4  Cfr.  :    AvERROis  Metaph.,   XII,  com.   18,  nonché  VII,  comm.   31. 
-5  q.   5,  art.   i,  n.    i   e  sgg.  L'opera  è  stata  restituita  a  frate  Vitale 
du    Four. 


LA    TEORIA    DELL  ANIMA  I7 

quando  si  tratta  appunto  di  mettere  in  evidenza  la  causalità 
efficiente  delle  cose  create,  e  non  d'appoggiare  tutto  sulle 
spalle  di  Dio,  riducendo  a  zero  l'attività  degli  esseri  mondani  ^8. 
Ecco  qual'  è  il  senso  della  frase  che  ha  scandolezzato  il  Ferrari, 

In  questa  rivendicazione  della  causahtà  efficiente  degli  es- 
seri del  mondo  sublunare,  contro  la  metafisica  astrologica 
d'Avicenna,  dalla  quale  neppure  Tommaso  d'Aquino  era 
riuscito  a  liberarsi  interamente,  consiste  il  merito  della  filo- 
sofia dello  Scoto  e  di  Pietro  d'Abano  -7. 

Su  che  portano  allora  le  accuse  d'astrologo  e  di  mago,  che 
sono  le  più  antiche  (e  forse  le  più  giustificate)  e  pesano  ancora 
sulla  fama  del  maestro  padovano  ?  Avrò  forse  occasione  di 
occuparmi  fra  non  molto  di  questa  quistione,  come  dell'altra 
degli  errori  veri  o  immaginari  di  lui.  Per  ora  basti  aver  ri- 
chiamato l'attenzione  su  due  punti  importanti  delle  sue  dot- 
trine, i  quah  fraintesi  porterebbero  a  caratterizzare  indebi- 
tamente r  insieme   del  suo  sistema  filosofico. 


26  Cfr.  :  DuNS  Scoto,  Oxon.  2,  d.  i,  q.  4,  n.  28.  «  A  deo  et"  per  deum 
Constant  omnia  »,  proclama  l'abanese,  e  Sante  Ferari  lo  sa  (op.  vit., 
p.  249).  Dice  Enrico  di  Gand  in  un  passo  molto  significativo  della  sua 
Summa  Theo!.,  art.  VII,  q.  i:  «  Philosophia  considerat  unumquodque 
ex  causis  proximis  et  propriis  sibi  :  ista  vero  {cioè  la  teologia)  ex  causis 
primis  et  maxime  ex  causa  prima  omnium,  secundum  quod  dicit  Augu- 
stinus.  De  Trinitate,  lib.  Ili,  cap.  II,  III,  IV.  Est  iste  proprius  modus 
hujus  scientiae,  scilicet  resolvere  omnes  causas  in  causam  Primam  sim- 
pliciter.  Modus  autem  proprius  Philosophiae  est  reducere  omnes  in  cau- 
sam proxiniam,  «  et  non  in  causam  Primam  »,  nisi  mediante  causa  alia 
corporali  ». 

27  Cfr.   il   mio   Sigieri  di   Br.   nella  Div.   Comm.,   pp.   28-9. 


II 

INTORNO  ALLE  DOTTRINE   FILOSOFICHE 
DI  PIETRO  D'ABANO  * 


I.  —  Le  prime  accuse  e  i  processi  per  eresia. 

I.  Primi  sospetti  d'eresia  contro  Pietro  d'Abano  a  Parigi.  Persecuzioni 
da  parte  dei  Giacobiti  per  55  errori.  Il  suo  rilascio.  —  2.  Il  secondo 
e  il  terzo  processo  a  Padova.  Tommaso  di  Strasburgo  e  la  sua  testi- 
monianza. Negò  Pietro  d'Abano  la  risurrezione  dei  morti  ?  —  3.  Ac- 
cusa di  aver  negato  l'esistenza  dei  demoni.  Fu  egli  accusato  di  ne- 
cromanzia e   di   magia  ?   —  4.   Le  altre   accuse. 

I.  -  I  primi  sospetti  d'eresia  contro  Pietro  d'Abano,  —  il 
tanto  calunniato  e  incompreso  medico  e  astrologo  padovano  con- 
temporaneo di  Dante  —,  furon  sollevati  mentr'egli  si  trovava  a 
Parigi,  prima  del  1304,  per  opera  dei  frati  domenicani  del  con- 
vento di  San  Giacomo,  in  mano  dei  quali  era  l'inquisizione. 
Pietro  stesso  nel  Conciliator  fa  menzione  di  cinquantacinque 
errori  che  a  lui  erano  ascritti  dai  Giacobiti,  e  ci  fa  sapere  che 
per  questi  errori  attribuitigli  ebbe  a  sostenere  lunghe  molestie 
{longis  vexavere  temporibus).  Di  che  cosa  precisamente  lo  si 
accusasse,  non  sappiamo.  Sappiamo,  però,  che  delle  accuse 
da  lui  mentovate,  una  si  riferiva  al  problema  dell'origine  del- 
l'anima umana.  Per  un  equivoco,  avendo  egli  identificato  con 
Haly  ben  Rodoam  1' «  intellectus  vocatus  »  (ó  xaXoufjievot;  wuq) 
di  Aristotele  colla  «  virtù  informativa  »  di  Galeno,  di  Avicenna 
e  di  Averroè,  —  la  quale  è  dal  cuor  del  generante  e  presiede 
allo  sviluppo  embrionale  —,  gl'inquisitori,  accesi  di  zelo,  ma 
poco  intelligenti,  credettero  che  egli,  con  Galeno  e  con  Ales- 
sandro   d'Afrodisia,    sostenesse    «  animam    e    potentia    educi 


*  Apparso    già   nella    Nuova   Rivista    Storica,    IV,    1920,    pp.    81-97. 
464-481;  V,    1921,  pp.   300-313. 


20  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

materiae  »  ^.  L'altro  errore  di  cui  lo  si  accusava,  ed  al  quale 
accenna  l'Abanese  stesso,  non  è  ben  chiaro:  non  possiamo  af- 
fermare se  lo  si  accusasse  di  interpretare  troppo  liberamente  un 
passo  biblico,  oppure  di  avere  ammesso  i  cicli  e  i  ritorni  pe- 
riodici di  Tolomeo,  i  quali  presuppongono  l'eternità  del  mondo  2. 
Sebbene  degli  altri  cinquantatrè  capi  d'accusa  non  ci  sia 
stato  detto  niente  da  lui,  qualche  lume  intorno  ad  alcuni  di 
essi  ce  lo  potrebbe  fornire  un  documento  del  tempo,  già  stu- 
diato dallo  Hauréau,  e  che  il  Ferrari  ha  avuto  il  merito  di 
sfruttare  in  parte  per  la  biografia  di  Pietro  d'Abano  3  :  parlo 
della  Consolatio  Venetorum,  attribuita  a  Raimondo  Lullo 
e  recante,  nel  manoscritto  parigino  che  ce  la  conserva,  la  data 
del  1298.  Quel  tal  Pietro  Veneto,  che  si  duole  a  cagione  della 
sconfitta  toccata  ai  Veneziani  da  parte  dei  Genovesi,  e  piange 
sulla  sorte  del  fratello  caduto  prigioniero,  e  impreca  alla  sorte, 
è  ben  Pietro  d'Abano,  come  il  Ferrari  ha  affermato.  Ma  la 
certezza  di  ciò,  più  che  dalle  circostanze  ricordate  nel  dialogo 
consolatorio,  si  ha  proprio  dal  predicozzo  che  l'autore  rivolge 
al  dolente,  e  che  il  Ferrari  giudica,  con  un  certo  disprezzo,  non 
disforme  dall'  indole  nota  del  Lullo  scrittore.  Quel  predicozzo, 
in  cui  il  Lullo  «  mira  a  provare  che  la  fortuna  non  esiste,  che 
le  stelle  non  hanno  influenza  sulle  vicende  umane  »,  va  di- 
ritto al  cuore  della  dottrina  astrologica  del  nostro  filosofo 
padovano,  quale  ci  è  nota  dal  Conciliator  e  dal  Lucidatoi'  '^; 
quel  predicozzo  consolatorio  prende  occasione  da  un  fatto 
che  aveva  ferito  il  sentimento  patrio  e  fraterno  di  Pietro,  ma 
non  si  arresta  lì  e  tende  a  colpire  un  concetto,  una  dottrina, 
per  la  quale  non  è  inverosimile  che  l'Abanese  venisse  fin  d'al- 
lora sospettato  d'eresia  dagl'  inquisitori  parigini,  se  più  tardi 
la  stessa  censura  gli  sarà  rivolta  da  Giovanni  e  dal  nipote 
Gian  Francesco  Pico  della  Mirandola  e  da  Sinforiano  Champier. 


1  Conciliator  controversiarum  qiiae  inter  philosophos  et  rnedicos  ver- 
santiir,  Petro  Abano,  Patavino,  philosopho  ac  medico  clarissimo,  auctore. 
Venetiis,  apud  luntas,  M.DLXV.  Diff.  48.  Cfr.  :  il  precedente  saggio,  p.  3. 

2  Conciliator,  diff.  9.   Cfr.  sotto,  p.   48. 

3  S.  Ferrari,  Per  la  biografica  e  per  gli  scritti  di  P.  d'A.  Note  ed  ag- 
giunte al  volume  /  tempi,  la  vita,  le  dottrine  di  P.  d'A.  (Memoria  pub- 
blicata dalla  R.  Accad.  dei  Lincei,  Anno  CCCXV,  1918,  Serie  V,  voi.  XV, 
fase.   VII),  pp.   26-29. 

4  Per  quest'ultima  opera,  che  esiste  manoscritta  a  Parigi  nella  Bi- 
bliothèque  Nationale  e  a  Roma  nella  Vaticana,  cfr.  Ferrari,  Per  la 
biografia  etc,  pp.  68-75,  e  A.  Favaro,  in  «Atti  del  R.  Ist.  Veneto 
-di  S.  L.  ed  A.  »,  Anno  Acc.   1915-16,  t.  LXXV,  p.   II,  pp.   515-27. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D  ABANO  21 

Non  risulta  da  nessun  documento  che  di  queste  accuse  si 
mischiassero  le  autorità  universitarie  di  Parigi,  come  quando 
si  portava  un  giudizio  su  di  una  dottrina  nuova;  ma  par  ve- 
rosimile che  esse  partissero  dagl'  inquisitori,  i  quali  d'autorità 
ordinaria  avevan  l' incarico  di  tener  d'occhio,  di  vigilare  e  giu- 
dicare coloro  che  fossero  sospetti  di  professare  dottrine  già 
riprovate  dalle  competenti  autorità  della  Chiesa.  Ad  ogni  modo, 
l'accusa  non  fu  provata;  e  le  spiegazioni  che  Pietro  fornì  delle 
sue  dottrine,  nonché  l' intervento  papale,  lo  fecero  uscire 
incolume  dalle  mani  dei  Giacobiti  :  «  a  quorum  manibus  — 
racconta  egli  stesso  —  grafia  dei  et  apostolica  mediante,  me 
laudabiUter  evasi  »  5.  E  altrove:  «In  hoc  autem  me  aliqui 
protervi  nolentes  aut  potius  impotentes  audire,  gratis  longis 
vexavere  temporibus:  a  quorum  manibus  me  meaque  veritas 
laudabiliter  eripuit  praefata;  demum  mandato  etiam  super- 
veniente   apostolico  »  6, 

2.  -  Anche  meno  sappiamo  delle  accuse  specifiche,  che  for- 
maron  la  materia  del  secondo  processo  per  eresia  intentatogli 
a  Padova  dopo  il  suo  ritorno  da  Parigi.  Lo  Scardeone,  che 
fìssa  questo  processo  al  1306,  afferma  solo  che  l'Abanese 
«  haereseos  et  necromantiae  a  Petro  Regiensi  medico  delatus 
est;  factus  ei  inimicus  ex  aemulatione  scientiae  et  famae  »  7. 
Ma  se  sotto  il  nome  d'eresia  siano  da  comprendere  dottrine 
astrologiche  od  altro  egli  non  dice  per  nessuno  dei  due  pro- 
cessi dinanzi  all'  inquisizione  di  Padova.  Del  resto,  le  notizie 
dello  Scardeone  risultano  assai  poco  documentate  e  vagliate. 
Se  non  che,  per  quel  che  si  riferisce  all'ultimo  processo,  del 
1315,  egli  accenna  ad  una  testimonianza  importante:  voglio 
dire  il  racconto  dell'agostiniano  Tommaso  di  Strasburgo 
dottore  e  generale  del  suo  ordine,  un  «  religioso  di  fama  »,  di- 
rebbe il  Ferrari,  «  che  tenne  alte  dignità  ecclesiastiche,  che 
seppe  di  Pietro  certi  atteggiamenti  e  che  assistè  all'  innocuo 
rogo  testimone  oculare  »  8.  Il  frate  dissertando,  in  una  que- 
stione dei  suoi  Commentaria  in  quatuor  Hbros  Sententiarum  9, 


5  Conciliator,  diff.  48. 

6  Conciliator ,  diff.  9. 

7  Bernardini  Scardeonis,  De  antiq.  urbis  Pai  avvi,  lib.  II,  classis  IX. 
^  Ferrari,  Per  la  biografia,  etc,  pp.  34-35. 

9  Thomae   de   Argentina,   Commentaria  in  IV  Hbros  setitentiariim, 
Genuae,   1585.   Lib.   IV,   dist.   39,   a.   4,   f.    171. 


22  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    X\^I 

intorno  alla  riserrezione,  prende  occasione,  a  parlare  della 
morte  apparente  e  a  riferirci  quello  che  sa  o  si  diceva  sul 
conto  di  Pietro  d'Abano  :  «  Sicut  referunt  aliqui  valde  periti 
in  arte  medicinae,  quaedam  est  infirmitas  quae  tenet  homi- 
nem per  tres  dies....  ita  sopitum  in  omnibus  sensibus,  quod 
cuilibet  intuenti  videtur  esse  mortuus....  Et  ex  hac  opinione 
quidam  haereticus,  nomine  Petrus  de  Apono,  qui  expeditissimus 
fuit  medicus,  accepit  occasionem  deridendi  miracula  Christi 
et  sanctorum,  quantum  ad  suscitationem  mortuorum.  Dixit 
enim  quod  tales  suscitati  non  erant  vere  mortui,  sed  infirmi 
praedicta  infirmitate.  Et  si  dicebatur  sibi  de  Lazaro  qui  erat 
quatriduanus  in  monumento....  ipse  respondet  quod  illud 
dictum  de  Lazaro  verificabatur  per  synedochen,  ita  quod 
pars  accipiebatur  prò  toto.  Fuerunt  enim,  ut  ipse  dixit,  solum 
tres  dies  naturales;  numerabantur  tamen  quatuor,  quia  erat 
ibi  pars  primae  diei  et  pars  quartae  dici,  quae  duae  partes 
aequipollent  uni  dici....  Sed  isti  mentita  est  iniquitas  sua, 
et  recepit  mercedem  erroris  sui.  Nam  ego  fui  praesens,  quando 
in  civitate  Paduana  ossa  sua  prò  his  et  aliis  suis  erroribus 
fuerunt  combusta  ». 

Che  valore  ha  questa  testimonianza  ?  È  evidente  che  bi- 
sogna in  essa  distinguere  due  parti:  l'una  riguarda  il  fatto  del 
rogo  delle  ossa,  al  quale  il  nostro  teologo  dice  di  essersi  tro- 
vato presente;  nell'altra,  si  attribuisce  a  Pietro  una  dottrina, 
non  si  sa  se  sull'autorità  degl'  inquisitori,  di  cui  il  frate  do- 
veva esser  buon  amico,  o  di  chi  altri,  non  certo  sulla  diretta 
conoscenza  degli  scritti  del  maestro  padovano.  Ora,  se  noi 
siamo  propensi  a  credergli  quanto  la  fatto  di  cui  fu  testimone, 
abbiamo  buone  ragioni  per  fare  delle  riserve  quanto  all'attri- 
buzione della  dottrina.  Pietro  stesso,  infatti,  accenna  nel 
Conciliator  'o  alla  quistione  cui  si  riferisce  Tommaso  di  Stra- 
sburgo :  «  Quod  amplius  firmatur  per  Avicennam  dicentem  : 
Accidit  ut  homo  in  apoplexia  incurrat,  et  non  sit  differentia 
Inter  ipsum  et  mortum,  et  non  appareat  aliquid  anhelitus; 
deinde  reviviscit  et  sanatur.  Et  nos  plurimos  vidimus  tales.... 
Propter  secundum  huius  sciendum,  quod  ideo  voluit  Halyabbas 
dilationem  actus  72  horarum  (etsi  quidam  librorum  prave  ac 
etiam  contra  Rasim,  in  Continente,  et  Avicennam,  70  habeant), 
quoniam  72  horae  tres  dies  constituunt  integros....  Et  propterea 


IO  Diff.   182,  propter  III. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D  ABANO  23 

Ioannis  illud  ii,  cum  Lazarus  fuerit  morte  quatriduanus  ac 
etiam  foetens,  quae  nequeunt  in  apopletico  reperir! ,  miraculo 
magis  ascrivendum  quam  naturae  ». 

L'accusa,  dunque,  di  aver  senz'altro  deriso  i  miracoli  di 
Cristo  e  dei  santi,  circa  la  risurrezione  dei  morti,  quale  ci  vien 
riferita  dall'agostiniano  in  contradizione  col  passo  citato  deìCon- 
ciliator,  ha  tutta  l'aria  di  essere  una  dicerìa  derivata  da  quell'au- 
reola di  leggenda  che  comincia  a  recingere  la  figura  del  filosofo 
anche  prima  della  morte;  una  dicerìa  che  dovette  troppo  fa- 
cilmente trovar  credito  presso  gli  zelanti  inquisitori  già  mal 
disposti  verso  di  lui.  E  forse  il  nostro  medico  aveva  deriso  la 
facile  credulità  popolare  del  suo  tempo,  comune  anche  a  certi 
teologi,  nel  prestare  ascolto  ai  troppo  frequenti  racconti  di 
morti  risuscitati,  che  abbondano  nelle  vite  di  santi  e  nei  ser- 
moni del  medio  evo.  Una  volta  formulata  l'accusa,  il  fatto 
della  morte  improvvisa  che  gli  tolse  di  discolparsi,  come  aveva 
fatto  a  Parigi,  accrebbe  certamente  l' ardire  dei  malevoli 
avversari,  i  quali,  venuta  loro  a  mancare  la  preda  viva,  sfo- 
garono il  loro  zelo  contro  il  cadavere. 

Checché  sia  di  ciò,  anche  la  seconda  parte  della  testimo- 
nianza di  Tommaso  da  Strasburgo  rimane  un  utile  documento 
delle  accuse  che  formaron  la  materia  criminosa  di  questo  terzo 
processo,   imbastito   dagl'  inquisitori  contro   Pietro   d'Abano. 

3.  -  Fu  l'Abanese  accusato  dagl'  inquisitori  di  Padova 
anche  di  magìa  e  di  necromanzia  ?  Lo  Scardeone,  come  ab- 
biamo visto,  l'afferma;  e  la  fama  di  mago  e  necromante,  che 
ben  presto  avvolse  Pietro  di  un  velo  di  leggenda,  potrebbe 
farcelo  credere;  la  voce  anzi  fu  accolta  perfino  dall'autore  del- 
l'epigrafe che  il  comune  di  Padova  fece  scolpire  sopra  una  delle 
quattro  porte  del  palazzo  della  Ragione  nel  1420,  quando  gli 
atti  del  processo  esistevano  ancora.  Ma  Pietro  Pomponazzi 
e  Gian  Francesco  Pico  della  Mirandola,  che  erano  in  grado  di 
giudicare  direttamente  delle  dottrine  di  lui,  misero  in  guardia 
contro  le  dicerie  popolari.  Anzi  il  Pico  in  un  passo  importante 
del  De  rerum  praenotione,  sfuggito  al  Ferrari,  scrive:  «  Circum- 
fertur....  de  Petro  Aponensi,  quem  Conciliatorem  dicunt,  quod 
daemonibus  imperitabat.  Ipse  autem  acta  in  eum  vidi  ab 
inquisitore  haereticae  pravitatis  formata,  cum  impietatis 
esset  accusatus,  inter  quae  opponebatur  quod  daemones  esse 
negabat  nec  ullo  pacto  in  rerum  reperire   natura  credebat . 


24  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Respondebat  autem,  uti  in  ipsis  quaestionibus  legebatur, 
quo  se  ab  hoc  crimine  expurgaret,  fuisse  olim  se,  dum  esset 
Constantinopoli,  ad  foeminam  quae  hac  ipsa  necromantia 
pollere  credebatur,  ut  de  occultis  quibusdam  sciscitaretur, 
duosque  discipulos  suos  citabat  testes,  subdens  consonum 
videri  se  non  interrogasse  nisi  credidisset.  Quantum  ergo 
distat  ut  necromantes  fuerit,  qui  contrariorum  vitiorum  habi- 
tus sit,  et  muHerculam  etiam  de  rebus  arcanis  consuluerit, 
superstitionibus  ahis  deditus.  Sane  fuit  Aponensis,  tametsi 
necromantiae  non  vacaverit,  ut  nobis  ostendetur  adversus 
magiam  septimo  hbro  disputabimus  »  '^  Sebbene  gh  ultimi 
due  periodi  del  discorso  siano  alquanto  oscuri,  come  ognun 
sente,  per  la  punteggiatura  evidentemente  sbagliata  e  forse 
per  l'omissione  tipografica  di  qualche  frase,  nel  complesso 
la  testimonianza  del  Pico  è  chiara:  Pietro  d'Abano  fu  accu- 
sato d'empietà  agli  inquisitori  per  avere,  tra  l'altro,  negata 
l'esistenza  dei  demoni.  Non  dovè  essere  accusato  di  magia 
nera,  né  di  necromanzia,  perché  il  Pico,  che  afferma  di  aver 
veduti  gli  atti  del  processo,  col  relativo  interrogatorio  del- 
l' imputato,  non  solo  non  sa  niente  di  quell'accusa,  ma  la 
esclude  positivamente,  facendo  osservare  che  a  Pietro  s' im- 
putava giusto   l'errore   contrario. 

Era  fondata  l'accusa  di  aver  negato  l'esistenza  di  demoni  ? 
Gian  Francesco  Pico  ci  attesta  che  Pietro  se  ne  difendeva  ricor- 
dando il  fatto  di  essere  una  volta  ricorso  ad  una  necroman- 
tessa,  e  citando  a  sua  discolpa  due  suoi  discepoli  come  testi- 
moni. Che  cosa  dovevano  provare  i  due  discepoli  ?  la  verità 
dell'affermazione  riguardante  la  visita  alla  necromantessa,  a 
testimoniare  intorno  all'  insegnamento  di  lui  a  Padova  ? 
Il  testo  non  è  molto  chiaro,  a  meno  che  si  supponga  un  viaggio 
recente  a  Costantinopoli  in  compagnia  dei  due  allievi.  Io 
inclino  a  credere,  che  questi  dovessero  piuttosto  provare  che 
r  imputato,  loro  maestro,  non  aveva  mai,  nel  suo  insegna- 
mento, professata  la  dottrina  di  cui  lo  si  accusava.  Ad  ogni 
modo  è  certo  che  nel  Conciliator  l'esistenza  dei  demoni  è  am- 
messa esplicitamente,  come  sa  bene  anche  il  Ferrari;  né  di 
una  qualunque  negazione  si  ha  traccia  negli  scritti  a  noi  noti. 

Come  dunque  spiegarci  l'accusa  ?  Scrive  il  Ferrari:  «  Se  il  rim- 
provero di  Gian  Francesco  Pico  ebbe  un  fondamento,  converrà 


"  De  rerum  praenotione,  lib.  IV,  cap.  g    (in  Opera,    Basileae,   1573). 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D'ABANO  25 

credere  che  Pietro  negò  il  diavolo  delle  credenze  cattoliche, 
o  lo  concepì  in  modo  suo  indipendente,  quello  che  gli  parca 
filosofico  »  I-.  Ora  il  Pico,  anzi  tutto,  non  rimprovera  niente, 
ma  narra:  narra,  cioè,  per  sfatare  l'accusa  di  necromante, 
che  Pietro  fu  accusato  di  un  errore  opposto  alla  necromanzia. 
Con  questo,  però,  non  dice  che  l'accusa  fosse  vera.  Certo 
essa  dove  fondarsi  su  qualcosa.  Ma,  senza  seguire  il  Ferrari, 
che,  secondo  il  suo  costume,  dà  senz'altro  ragione  agi'  inqui- 
sitori, a  me  sembra  che  quell'accusa,  di  aver  negato  l'esistenza 
dei  demoni,  possa  spiegarsi  molto  ovviamente  colle  dottrine 
e  tendenze  dell' Abanese,  delle  quali  diremo  nelle  pagine  che 
seguono.  Questi,  senz'essere  necromante  né  mago,  è  un  astro- 
logo persuaso  e  convinto,  il  quale  crede  all'  influenza  degli 
astri  e  delle  loro  congiunzioni  non  solo  sulle  vicende  della 
natura,  ma  perfino  sugli  eventi  umani.  Molti  fenomeni  insoliti 
o  strani  che  nella  letteratura  ascetica  e  religiosa  del  tempo 
venivano  attribuiti  all'azione  del  diavolo,  egli  tenta  spie- 
garli per  mezzo  dell'  influenza  degli  astri,  o  coli' ammettere 
l'esistenza  di  forze  naturali  a  noi  finora  sconosciute,  «  unum- 
quodque  enim  individuum  a  sua  constructione  materiali.... 
et  a  superis  habet  virtutes  et  proprietates  occultas  ad  quas 
intellectus  pervenire  non  potest  humanus  »  'ì.  Egli  perciò 
ritiene  antiscientifico  il  vezzo  dei  teologizzanti,  d' introdurre 
ad  ogni  momento  il  miracoloso  e  il  soprannaturale  nello  spie- 
gare i  fenomeni  della  natura.  Così,  ad  esempio,  in  un  luogo 
importante  del  Conciliator,  egli  cerca  di  render  ragione  del 
fascino,  escludendo  da  esso  l'intervento  demoniaco:  «  Di- 
cendum  quod  praedicta  immissio  quam  amans  in  amantem 
immittit  (collo  sguardo),  aut  odiens  in  oditum,  nihil,  ut  dictum, 
confert  visioni,  sed  quaedam  fit  immutatio  intentionis  quae 
fortassis  impressionem  causat  in  vires  phantasticas  eius  cui 
immittitur.  Sciendum  autem  quosdam,  interpretantes  sermo- 
nes  sapientum  imaginum,  dicere  ipsas  et  sibi  comparia  effì- 
caciam  habere  secundum  quod  ars  movetur  a  natura,  in 
quam  sicut  in  superius  principium  ordinatur.  Cum  enim  quid 
boni  aut  pravi  debeat   alieni  ex  astralitate  nativitatis  suae 


12  Ferrari,  I  tempi,  la  vita,  le  dottrine  di  Pietro  d'Abano,  p.  132 
in  nota. 

13  Concili atoi-,  diff.  182,  propter  III.  Così  farà  più  tardi  anche 
Pietro  Pomponazzi,  nel  De  incantationibus,  Basilea,  1556,  pp.  2,  115-224, 
con   espresso   riferimento  a  Pietro  d'Abano. 


26  l'aristotelismo    padovano    dal.  secolo    XIV    AL    XVI 

contingere,  hoc  incitat  artem  ad  construendum  imagines  vel 
aliquid  simile,  cuius  gratia  videtur  hoc  imperitis  evenire. 
Sed  quia  hoc  videtur  esse  a  casu  respectu  artis,  et  quod  nihil 
operetur,  cum  etiam  videamus  tales  imagines  indifferenter 
ex  parte  subiecti  et  temporis  impressiones  causare,  cum 
tamen  quod  natum  sit  indifferens  et  ordinatum,  unde  quis 
ab  hac  secedet  positione.  Propter  quod  theologizzantes  dixe- 
rant,  hoc  ex  vigore  magis  contingere  daemommi,  se  artibus  im- 
plicantium  talibus.  Quare  dicunt  simphcibus  et  praecipue 
muhercuhs  plus  quam  prudentibus  hic  effectus  consurgere; 
has  etenim  amplius  possunt  astutioribus  decipere.  Quia  tamen 
haec  persuasio  a  spiritibiis  sumpta  praesentis  non  est  methodi, 
dicendum  forsitan  magis  erit  quod,  materia  stellis  propor- 
tionali  »  14   etc. 

Analogamente,  in  un  altro  luogo  della  stessa  opera,  sul 
quale  ritorneremo  ^\  egli  rigetta  l'opinione  di  coloro  che  ogni 
fenomeno  e  avvenimento  nel  mondo  della  natura  attribuiscono 
all'  immediata  azione  creatrice  di  Dio,  d'accordo  in  questo 
con  Duns  Scoto  e  Tommaso  d'Aquino.  E  come  per  quest'ul- 
tima opinione  non  è  mancato  chi  l'accusi  (a  torto,  però,  come 
vedremo)  di  aver  negato  la  potenza  creatrice  divina  (non  ci 
consta  se  anche  di  siffatta  accusa  fosse  chiamato  a  rispondere 
dinanzi  agi'  inquisitori),  è  verosimile  che,  dall'essersi  egli 
burlato  della  facile  credulità  di  certi  teologizzanti,  che  scor- 
gevano il  diavolo  nascosto  dietro  ogni  cesto  di  lattuga,  si 
passasse  senz'altro  ad  attribuirgli  di  aver  negato  l'esistenza 
stessa   dei   demoni. 

La  spiegazione  mi  sembra  naturale  e  conforme  ai  costumi 
inquisitoriali  del  tempo,  oltre  ad  accordarsi  colle  dottrine  a 
noi  note  dell'Abanese.  Il  quale,  se  fosse  vissuto,  avrebbe 
certamente  potuto  far  tacere  i  malevoli  o  zelanti  accusatori, 
come  li  aveva  messi  a  posto  già  ben  altre  due  volte. 

4.  -  Ma  se  è  certo  che  Pietro  d'Abano  non  fu  accusato  di 
necromanzia  e  di  magìa  nera,  non  è  da  escludere,  a  priori, 
che,  fra  gli  errori  a  lui  attribuiti,  alcuni  non  riguardassero 
l'astrologia  e  la  magìa  così  detta  bianca;  la  quale,  pur  senz'es- 
sere condannata  in   teoria,   veniva  in  pratica  guardata  con 


14  Conciliator,  diff.  64,  propter  IV,  ad  13.  Cfr.  sotto,  pp.   35-37. 

15  Cfr.  sotto,  pp.  43-46. 


LA    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D  ABANO  27 

sospetto  per  le  applicazioni  che  se  ne  facevano  e  per  le  super- 
stizioni a  cui  dava  luogo.  Ciò,  anzi,  apparirà  tanto  più  vero- 
simile, quanto  meno  si  dimentichino  i  pregiudizi  di  lui  in- 
torno alla  praecantatio  e  all'arte  notoria  ^^. 

Se  non  che  è  perfettamente  inutile  abbandonarsi  a  conget- 
ture più  o  meno  fondate  e  magari  ingegnose  su  questo  argo- 
mento, quando  ci  manca  perfino  l'ombra  di  una  testimonianza 
storica.  Ci  basti  osservare  per  ora  che  il  «  prò  his  et  aliis  suis 
erroribus»  di  Tommaso  da  Strasburgo  i"  e  V  (finter  quae  oppo- 
nebatur  »  del  passo  citato  di  Gian  Francesco  Pico  ^^,  sembrano 
lasciarci  intravedere  che  gli  errori  attribuiti,  a  Pietro  dagl'in- 
quisitori non  dovevano  limitarsi  alla  derisione  delle  risur- 
rezioni di  morti  e  alla  negazione  dei  diavoli. 

Del  resto,  il  non  conoscere  quali  e  quante  furono  le  accuse 
mossegli,  importa  fino  a  un  certo  punto;  visto  che  anche  quelle 
che  noi  conosciamo,  hanno  l'aria  di  fraintendimenti  o  di  esa- 
gerazioni delle  vere  dottrine  professate  dal  maestro  padovano. 
Per  portare  un  giudizio  sereno  intorno  alle  quali,  dobbiamo 
oggi  contentarci  dell'esame  attento  dei  suoi  scritti  d' indubbia 
autenticità,  sforzandoci  d' intenderli  in  relazione  alle  dottrine 
del  tempo. 

II.  —  Gli  «  ERRATA  »  DI  P.  d'Abano  secondo  S.  Champier. 

I.  Giudizio  di  G.  Francesco  Pico  della  Mirandola  sulle  dottrine  di  Pietro 
d'Abano.  —  2.  Le  cribrationes  dello  Champier.  —  3.  Classificazione 
delle  dottrine  censurate  dallo  Champier,  relative  alle  diverse  parti 
deVi' Astrologia  Iitdiciaria.  Dottrine  relative  aW  Introdiictoria.  — 
4.  Dottrine  relative  all'Astrologia  de  revolittionibus.  —  5-  de  nativi- 
tatibus.  —  6.  de  interrogationibus.  —  7.  de  electionibus.  —  8.  Censura 
speciale  della  dottrina  intorno  alla  creazione.  Valore  del  giudizio 
dello  Champier  sulle  opinioni  di  Pietro  d'Abano. 

I.  -  Degli  scritti  di  Pietro  d'Abano  due  sopratutto,  il  com- 
mento ai  Problemi  di  Aristotele,  e  l'opera  massima,  per  la 
quale  andò  celebre,  il  Conciliator,  furono  oggetto  di  esame  e 
di  critiche.  Un  trattato  De  erroribus  Petri  Aponi  in  proble- 
matibus  Aristotelis  fu  scritto,  nel  Cinquecento,  da  Antonio 
Ludovico  o  Luiz  ^  ;  ma  il  contenuto  di  esso  e  la  natura  delle  cri- 


i^  Cfr.  sotto,  p.  36. 
^7  Cfr.  sopra,  p.  22. 
^8  Cfr.  sopra,  p.  23. 
I  Cfr.   Ferrari,  P.  d'A.,  p.  439. 


2»  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

tiche  all'opera  dell'Abanese  son  rimasti  ignoti  tanto  a  me 
che  al  Ferrari  per  esser  andati  a  vuoto  i  tentativi  di  pro- 
curarci l'opera. 

Un  giudizio  importante  sulle  dottrine  del  nostro  tìlosofo 
nel  Conciliator  è  quello  di  Gian  Francesco  Pico  della  Mirandola. 
Questi,  in  un  altro  luogo  dell'opera  sua  già  citata,  De  rerum 
praenotione,  dopo  aver  detto  che  Pietro  fu  uomo  «  plurimae 
lectionis  minimique  iudicii  »,  osserva  che  «  plura  reliquit  signa 
cur  superstitiosus  crederetur  in  libro  praesertim  quem  appel- 
lavit  Conciliatorem.  Cuius  libri  differentia  156,  de  praecanta- 
tionibus  multa  in  utramque  partem  agens,  eis  tribuit  pluri- 
mum,  illique  absurdissimae  et  impiae  superstitioni  favet, 
placari  Deum  astronomica  oratione....  Pro  experimentis 
affert  multa,  inter  quae  eucharistiae  nostrae  verba  et  divina, 
ut  inquit,  artis  notoriae  nomina  et  pleraque  magicae  artis 
cantamina  »  -. 

2.  -  L'edizione  giuntina  del  Conciliaior,  del  1520,  e  molte 
edizioni  venete  posteriori  recano  in  appendice  all'opera  un 
trattatello  di  Annotamenta ,  errata  et  castigationes  in  Petri 
Aponensis  opera,  per  Simphorianum  Champerium,  Lugdu- 
nensem,  Serenissimi  ducis  Calabrum  et  Lotharingorum  mediciim 
primarium  3.  Queste  crihrationes,  come  sono  anche  chiamate, 
hanno  la  pretesa  di  formare  un  corpo  diviso  in  tre  parti,  chia- 
mate libri.  Ma  in  realtà  si  tratta  di  due  scritti  mal  riuniti 
insieme.  Il  primo  libro,  che  porta  in  testa  una  dedica  a  Ettore 
Dalli,  si  rivela  subito  non  saprei  dire  se  abbozzo  o  tentativo 
di  enumerazione  incompleta,  oppure  un  riassunto  dei  prin- 
cipali errata  del  Conciliator,  ai  quali  lo  Champier  fa  seguire 
immediatamente  le  sue  castigationes.  Gli  errata  di  questo 
primo  libro  si  riferiscono  alle  differenze  loi,  113,  e  156;  e  fra 
essi  sono  le  superstizioni  già  segnalate  da  Gian  Francesco 
Pico,  che  lo  Champier,  nel  proemio,  ricopia  alla  lettera.   Il 


-  De  rerum  praenotione,  VII,  e.  7.  Gian  Francesco  Pico  a  torto  at- 
tribuisce a  Pietro  d'Abano  la  pretesa  esperienza  personale  dell'effi- 
cacia dell'orazione  astronomica.  Nel  passo  a  cui  si  riferisce  il  Pico,  è 
citata  invece  una  testimonianza  di  Albumasar,  il  quale  afferma  di  aver 
fatta  quella  esperienza.  Ma  l'errore  era  già  stato  commesso  dallo  zio, 
Giovanni  Pico,  Disp.  adv.  astrologiam  divin.,  a  cura  di  E.  Garin.  Fi- 
renze,  1946.   IV,  e.  8,  p.  476;   cfr.    Ferrari,   P.   d'A.,   pp.    372-373   è 

454)- 

3  Cfr.   Ferr.^ri,  Per  la  biografìa  etc,  pp.   42,  e  48-49. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D'ABANO  29 

secondo  e  il  terzo  libro,  che  recano  in  fronte  un'altra  dedica 
al  fratello  Cristoforo  Champier  e  a  Francesco  Dalais,  formano 
invece  un'enumerazione  assai  piìi  completa  e  ordinata  degli 
errata  et  somnia  dell' Abanese;  e  nel  terzo  libro  son  ripetuti 
tutti  gli  errori  già  segnalati  nel  primo,  prova  evidente  che  si 
tratta  di  due  scritti  riuniti,  ma  non  fusi  tra  loro. 

Poiché  nessun  criterio  logico  di  classificazione  ha  guidato 
lo  Champier  nella  sua  rassegna,  vediamo  di  raggruppar  noi 
le  varie  dottrine  censurate,  a  fine  d' intender  meglio  queste 
e  la  natura  delle  censure. 

3.  -  Ed  anzitutto  bisogna  osservare  che  il  tenore  e  lo  spi- 
rito di  quasi  tutte  le  dottrine  di  Pietro,  censurate  dallo  Cham- 
pier, è  sempre  lo  stesso:  tutte  si  riconnettono  ad  un  concetto 
astrologico  che  cercheremo  di  chiarire.  Per  questo  a  me  pare 
che  la  migliore  classificazione  sistematica  degli  errori  enume- 
rati dallo  Champier  sia  quella  che  possiamo  fondare  sul  con- 
cetto medievale  dell'astrologia  giudiziaria  e  sulla  distribuzione 
di  questa  in  diverse  parti.  Nel  nostro  tentativo  ci  può  util- 
mente servir  di  guida  lo  S-peculum  astronomiae  attribuito  ad 
Alberto  Magno  4.  Non  so  se  l'operetta  sia  autentica:  ma, 
chiunque  ne  sia  l'autore  (è  certo  che  essa  fu  scritta  prima  che 
venissero  tradotti  in  latino  gli  ultimi  due  libri  della  Meta- 
fisica aristotelica),  è  pur  sempre  un  documento  prezioso  del- 
l'atteggiamento e  del  pensiero  di  un  teologo  di  fronte  alla 
libertà  di  ricerca  reclamata  dai  fautori  della  scienza  ara- 
bica, da  una  parte,  e  al  soverchio  zelo  teologico,  dall'altra. 

Or  ecco  il  concetto  che  l'autore  dello  Speculum  si  è  fatto 
dell'astrologia  giudiziaria  dal  suo   punto   di  vista  teologico: 

Secunda  magna  sapientia,  quae  astronomia  dicitur,  est  scientia 
iudiciorum  astrorum,  quae  est  ligamentum  naturalis  philoso- 
phiae  et  mathematicae  ».  Siffatta  scienza  non  deroga  in  niente, 
per  se  stessa,  alla  sapienza  divina,  cioè  alla  teologia;  che  anzi 
essa  insegna  a  ricondurre  tutti  quanti  gli  avvenimenti  del  mondo 
inferiore  alla  causalità  dei  corpi  celesti,  i  quali  sono  strumenti 
e  intermediari  della  causalità  divina  nel  mondo,  e  a  far  cono- 
scere   l'ordine    che    governa    l'universo,    «  quam    universi   ordina- 


4  In  Opera,  Lugduni,  1651,  t.  V.  Ma  in  alcuni  codici  lo  scritto  è 
attribuito  a  Maestro  Filippo  de  Thoriaco,  che  fu  cancelliere  dell'  Uni- 
versità di  Parigi  dal  1280  al  1284.  Cfr.  L.  Thorndike,  A  hisiory  of  Magic 
a.  exper.  science.  II,  Oxford,   1923,  p.  715. 


30  I.  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

tionem    nulla    scientia    humana    perfecte    attingi!    sicut    scientia 
iudiciorum  astrorum  5. 

Ed  ecco  com'è  divisa:  «  Dividitur  itaque  ista  scientia  in 
duas  partes,  quarum  prima  est  introductoria  et  versatur  circa 
principia  iudiciorum  »  6.  I  principi  onde  si  traggono  i  giudizi 
astrologici  sono  accennati  nel  capitolo  che  segue  immediata- 
mente dopo,  e  consistono  nelle  proprietà  naturali  dei  segni 
celesti.  A  questa  parte  introduttiva  dell'astrologia  giudiziaria 
si  riferiscono  le  seguenti  dottrine  di  Pietro  d'Abano  ritenute 
erronee  dallo  Champier: 

«  Dicendum,  secundum  Aristotelem  et  Commentatorem,  quod 
Deus  nihil  potest  in  haec  inferiora  absque  medio,  cum  omnis 
actio  hic  mediante  motu  et  transmutatione  perficiatur,  ita  ut 
periodus  a  supernis  corporibus  in  hac  inferiori  materia  inducta 
non  habeat  permutare,  cum  ad  id  sequatur  quaedam  inordi- 
natio,  ac  defectus  et  mutabilitas  in  primo,  tanquam  non  sapienter 
primitus  omnia  producenti,  denotetur  inesse.  Quae  enim  per- 
fecta  ratione  lìrmata  sunt,   permutati  non  possunt  «  7. 

«  [Aristoteles]  in  libro  de  mundo:  Deus,  secundum  poetam 
residet  in  supremo  vertice  universi,  cuius  virtute  praecipue  fo- 
vetur  corpus  quod  prope  est,  et  deinceps  quod  post  illud  con- 
sequenter  usque  ad  loca  nostra  prope  terram.  Et  quae  super 
terra  videntur  nimium  distantia  a  commodo  divino,  infirma  esse 
et  piena  multi  turbinisi  non  enim  effectus  virtutem  suae  causae 
continet  et  repraesentat  perfecte;  propter  quod  et  varietas  pau- 
latim  occurrit,  ut  et  in  toto  apparet  quod  et  varietas  paulatim 
occurrit,  ut  et  in  toto  apparet  ordine  universi,  a  primo  per  media 
infima  descendendo.  Primus  etenim  simplex  et  immobilis  mo- 
nens,  ac  incorruptibilis  omnino,  reliquis  autem  adsunt  compo- 
sitio,   mobilitas  et  corruptio  »  ^. 

«  Omnis  mundanae  geniturae  conditio  ex  planetis  eorumque 
signis  tanquam  ferrum  ex  lapide  magnetis  dependet  »  9. 

«  Corpora  superiora  non  solum  motu  operantur  et  lumine, 
sed  fortunio  et  infortunio  et  virtutibus  quibusdam  specificis 
appropriatis,  quae  sine  medio  imprimunt  immutatione  sensibili  »  'o. 

Il  senso  metafisico  di  tutte  queste  e  di  altre  proposizioni 
è  chiaro:  la  causa  prima  che,  come  direbbe  Dante,  «  sta  d'un 


5  Speculum,  cap.  2. 
^  Ib.,  cap.  3. 

7  Conciliator,  diff.  113,  propter  IV,  ad  3  (Champier,  III,  5). 

8  Ib.,  ad  ult.   (Champier,  III,  7). 

9  Ib.,  diff.  9,  propter  III   (Champier,  II,  5). 
'0  Ib.,  diff.   12,  pr.  II   (Champier,  II,   io). 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D  ABANO  3I 

modo  »,  cioè  è  immutabile,  non  può  esercitare  la  sua  azione 
sul  mondo  delle  cose  caduche  e  periture,  se  non  per  mezzo 
di  una  serie  di  cause  intermediarie;  le  quali,  siccome  possono, 
per  r  indisposizione  della  materia,  restare  impedite,  produ- 
cono solo  degli  effetti  contingenti  ".  Gli  astri  colle  lor  varie 
nature  e  proprietà  sono  appunto  queste  cause  intermediarie, 
prestabilite  da  Dio,  di  tutti  gli  avvenimenti  che  accadono 
nel  mondo  infralunare.  Benché  secondo  Pietro  d'Abano  que- 
st'ordine gerarchico  di  cause  sia  sospeso  alla  libera  volontà 
creatrice,  pure,  come  vedremo,  è  nel  pensiero  di  lui  un  rima- 
suglio del  vecchio  e  ben  noto  concetto  neo-platonico  passato, 
attraverso  gli  arabi,  nell'occidente  latino  ^-.  Il  fatto  che  si 
ritrova  anche  in  Dante  è  la  prova  migliore  che  la  dottrina, 
per  quanto  ardita,  non  aveva  agli  occhi  di  molti  contempo- 
ranei (fatta  eccezione  di  Tommaso  d'Aquino)  niente  di  eretico. 
Ma  su  ciò  dovremo  ritornare. 

Il  nostro  Abanese,  dunque,  non  solo  è  convinto  che  le  sfere 
celesti  esercitino  un  influsso  continuo  sugli  avvenimenti  e 
sulle  vicende  del  mondo  sotto  la  luna,  come  pensavano  con- 
cordemente tutti  i  più  grandi  dottori  della  scolastica,  compresi 
Tommaso  d'Aquino  e  Bonaventura  da  Bagnorea;  ma  inoltre 
egli  crede,  sulla  scorta  degh  astrologi  arabi,  che  ogni  fenomeno 
mondano  sia  alla  mercè  degli  astri  come  il  ferro  è  alla  mercè 
del  magnete  che  lo  attira.  E  questo  influsso  celeste  non  era, 
per  lui,  soltanto  generale  e  indeterminato,  ma  particolare  e 
diverso  in  ogni  momento,  per  ogni  singola  cosa  e  per  ogni 
punto  della  superficie  terrestre,  che  necessariamente  ha  un 
proprio  zenith,  come  si  diceva,  diverso  dagli  altri  punti  della 
terra;  cosicché  sembrava  vero  a  lui  quello  che  si  trova  scritto 
nei  libri  ermetici,  che  ogni  più  piccolo  granello  di  sabbia  del 
mare  ha  il  suo  astro  e  va  soggetto  ad  un  suo  proprio  influsso 
stellare  13  ;  e  quello  altresì  che  si  legge  nel  Centiloquio  di  Tolomeo  : 
«vultus  huius  saeculi  subiecti  sunt  vultibus  caelestibus»  m. 
Era  appunto  questo  concetto  che  giustificava  agli  occhi  dei 
medievali  l'astrologia  giudiziaria.  La  quale  non  è  né  mendace, 
né  oziosa  —  esclama  Pietro   —  ma  utile,  anzi  necessaria  al 


"  Cfr.  Paradiso,  VII,   67-69;   XIII,  61-78. 
'2  Cfr.  sotto,  pp.  40-43. 

13  Conciliator,   diff.    23,  pr.   Ili    (Champier,   II,    15);   diff.    loi,   pr.    I 
(Champier,   III,   3). 

'4  Conciliator,  diff.   io,  pr.  III. 


32  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

medico.  E,  basandosi  su  quei  principi,  egli  ha  la  pretesa  di 
provare,  nella  Differenza  decima  del  Conciliator  e  nella  prima 
del  Lucidator,  il  carattere  scientifico  e  la  nobiltà  dell'  indagine 
astrologica,  la  quale,  d'altra  parte,  non  afferma  nulla  «  quod 
leges  molestet  divinas  »,  né  si  perde  in  vaneggiamenti  dietro 
alle   superstizioni   dell'arte   magica   e  della  necromanzia  '5. 

4.  -  La  seconda  parte  dell'astrologia  giudiziaria,  sappiamo 
dallo  Spectdum  16^  «  expletur  in  exercitio  iudicandi.  Et  haec 
iterum  divisa  est  in  quatuor  partes  »,  che  noi  chiameremo  ca- 
pitoli. 

Il  capitolo  primo  s' intitola  de  revolutionibus,  e  si  suddivide 
rispettivamente  in  tre  sezioni,  «de  CXX  coniunctionibus  pla- 
netarum  et  eorum  eclipsibus,  de  revolutione  annorum  mundi, 
de  temporum  mutatione»!?,  A  questo  capitolo  si  riferiscono 
in  tutto  o  in  parte  le  dottrine  censurate  nei  seguenti  luoghi 
dallo  Champier:  lib.  II,  i,  3,  4,  11,  12,  13,  15,  16;  lib.  Ili,  i, 
3,  4.  Fra  esse  alcune  sono  maggiormente  degne  di  nota  per  la 
ripercussione  che  hanno  su  concetti  teologici  del  tempo  di 
Pietro  d'Abano;  ed  è  su  queste  che  ci  soffermeremo  un  mo- 
mento. 

Secondo  i  principi  fondamentali  della  metafisica  dell'Aba- 
nese,  tutti  gli  avvenimenti  che  accadono  nel  mondo  infralu- 
nare,  son  preparati  e  governati,  come  abbiamo  già  visto, 
dalla  causalità  che  su  questo  mondo  esercitano  le  sfere  celesti 
coi  loro  segni  e  colle  loro  rivoluzioni;  le  quali,  secondo  la  dot- 
trina tolemaica  derivata  dagli  stoici,  dovrebbero  ripetersi  in 
capo  ad  ogni  36.000  anni,  per  dar  luogo  ad  un  ritorno  periodico 
degli  avvenimenti  già  accaduti  per  l'addietro  infinite  volte '8. 
Né  solo  i  fenomeni  del  mondo  fisico  sottostanno  all'  influenza 
dei  corpi  celesti;  ma  anche  i  temperamenti  e  le  disposizioni 
fisiologiche  (complessioni)  e  morali,  proprie  del  corpo  e  del- 
l'animo, dipendono  dallo  speciale  influsso  dei  sette  pianeti, 
ciascun  de'  quali  governa  un'età  della  vita  umana  ed  ha  sotto 
la  sua  protezione   un'arte   od  una  professione   speciale  19.  A 


15  Cfr.  Ferrari,  Per  la  biografia  etc,  pp.   74-75. 
^6  Speculum,  e.  3. 

17  Ib.,  cap.  6. 

18  Cfr.  Conciliator,  diff.  9  e  16;  Problematuni  expositio,  partic.  XVII, 
probi.  3   (Champier,   II,   12). 

19  Conciliator ,  diff.  7   (Champier,  II,   2)  ;   diff.   26,  pr.    I   (Champier, 
II.  16). 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D  ABANO  33 

questa  legge  non  si  sottraggono  in  una  certa  misura  nemmeno 
gli  avvenimenti  miracolosi.  Così  è  detto  che  «  ex  coniunctione 
Saturni  et  Io  vis  in  principio  Arietis....  totus  inferior  mundus 
commutatur;  itaque  non  solum  regna  sed  et  leges  et  pro- 
phetae  consurgunt  in  mundo,  significative  saltem,  seu  cau- 
saliter  in  quibusdam  »  -°.  Cristo,  nato  appunto  sotto  quella 
congiunzione,  fu  temperatissimo  nella  costituzione  del  suo 
corpo  ottimamente  complessionato  21.  Invece,  «  cum  Mars 
mundum  gubernaret,  factum  est  diluvium...;  sub  ducatu 
lunae  dispartitae  sunt  linguae,  subversa  est  Sodoma  et  Go- 
morra, factus  est  transitus  a  filiis  Israel  de  Aegypto,  et  multa 
alia  apparuerunt  iudicia  »  -2.  In  un  altro  luogo  del  Conciliator, 
l'autore  sembra  accogliere  la  dottrina  di  Avicenna,  che  spiega 
per  mezzo  dell'  influsso  celeste  i  poteri  sovrumani  e  le  virtù 
meravigliose  dei  profeti  ^3. 

Che  tali  applicazioni  di  principi  astrologici  alle  dottrine 
teologiche  non  implicassero  necessariamente,  ai  tempi  del- 
l'Abanese,  la  negazione  assoluta  di  queste,  e  quindi  l'eresia, 
si  ricava  dal  fatto  che,  non  solo  l'autore  dello  Speculum  le 
ammette,  ma  Dante,  in  parte  almeno,  le  fa  sueM.  ^ elio  Specu- 
lum, -5  si  legge  che  la  causalità  efficiente  degli  astri  è  soggetta 
«  voluntati....  conditoris  qui  ab  initio  providit  sic  »,  di  modo  che 
l'ordine  da  lui  stabilito  «  ab  ipso  solo  averti  potest  ».  Ora 
è  appunto  la  causa  prima  («  natura  iubente  divina  »,  come  dice 
espressamente  l'Abanese  -^  che  ha  disposto  fin  da  principio, 
«  formans  librum  universitatis  »,  i  moti  e  le  congiunzioni  degli 
astri,  affinché  significassero  gli  avvenimenti  naturali  e  quelli 
miracolosi,  scritti  a  caratteri  eterni,  anzi  il  loro  accadere,  nel 
libro  della  natura.  Le  riserve  «  significative  saltem  »  e  il 
«  causaliter  in  quibusdam  »  ^7,  che  abbiamo  letti  poco  sopra, 
significano  che   Pietro  l' intendeva  appunto  così. 


20  Conciliator,  diff.   9,   pr.   Ili    (Champier,   II,   3).  Cfr.  i  miei  Saggi 
■di  filosofia  Dantesca.  Milano-Genova-Roma-Napoli,   1930,  pp.   55-57. 

21  Conciliator,  diff.  20,  pr.  Ili;  cfr.  diff.  18  (Champier,  II,  13).  Cfr. 
Saggi  di  filos.  Dani.,  p.  56. 

22  Conciliator,  diff.  9  (Champier,  II,  4). 

-3  Conciliator,  diff.   135,  pr.  Ili   (Champier,  III,   8). 
-4  Cfr.  Farad.,  XIII,  67-84;  Convivio,  IV,  5  e  23;  B.  Nardi,  Saggi, 
cit.,  pp.  45-61. 
25  Cap.   II. 

-6  Conciliator,  diff.   18. 
27  Conciliator,  diff.  9.  Cfr.  sotto,  p.  54. 


34  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL   XVI 

Per  essere  stati  significati,  predetti  e  preparati  dalle  con- 
giunzioni celesti,  gli  eventi  miracolosi  non  cessavano  di  esser 
tali.  Pietro  d'Abano,  anzi,  dichiara  che  l'astrologia  «  confert.... 
scientiae  metaphysicae,  eo  quod  docet  ex  posterioribus  eius 
finem  intentum  et  subiectum  investigare;  per  corpora  namque 
coelestia  potissime  in  cognitionem  devenimus  principii  primi: 
unde  Apostolus,  ad  Romanos,  primo:  invisibilia  Dei  per  ea 
quae  facta  sunt,  ex  creatura  mundi  intellecta,  conspiciuntur))^^. 

5.  -  Strettamente  connesso  con  quello  de  revolutionibus  è 
il  capitolo  che  tratta  de  nativitatibus.  «  Nativitatum  pars  — 
e'  informa  l'autore  dello  Sfecidum  -9,  —  docet  in  nativitate 
eorum  quorum  significatores  nutritionis  liberi  fuerint,  eli- 
gere  locum  hylech  ex  luminibus  et  parte  fortunae;  ex  gradu 
quoque  ascendentis,  et  ex  gradu  coniunctionis  atque  prae- 
ventionis  quae  fuerit  ante  nativitatem,  eligere  quoque  alcho- 
codem  ex  dominis  quatuor  dignitatum  ipsius  loci  hylech  » 
etc.  —  A  questa  parte  dell'astrologia  si  possono  ricondurre 
le  dottrine  censurate  dallo  Champier  ai  numeri  2,  6,  13,  14 
e  17  del  libro  secondo  delle  Cribraiiones.  Della  ricerca  del- 
VHylech  e  dell' Alchocodem,  Pietro  parla  diffusamente  nella 
Differenza  XXI  del  Conciliator,  trattando  della  lunghezza 
della  vita  e  delle  sue  cause.  Nella  differenza  X,  è  formulata 
la  tesi,  spesso  ribadita,  che  «  omnis  pianeta,  secundum  diver- 
sitatem  nativitatis  et  revolutionis,  uni  existit  fortuna,  alii 
vero  infortuna  »  3°.  Altrove  è  detto  che  perfino  due  gemelli, 
per  il  differente  zenith  di  ciascun  di  loro  nel  grembo  materno, 
ricevono  influssi  diversi;  onde  canta  Lucano: 

«  Stant  gemini  fratres,   fecundae  gloria  matris, 
Quos  eadem  variis  geniierunt  viscera  fatis  ».  3^ 

Ma  anche  la  scienza  de  nativitaiibus  è  ritenuta  legittima  e 
inoffensiva  per  la  fede,  dall'autore  dello  Speculum^'^,  purché 
non  si  pretenda  che  1'  influenza  degli  astri  sopprima  il  libero 


28  Conciliator,  diff.   io,  pr.   III. 
-9  Cap.   7. 

30  Champier,  II,   14. 

31  Conciliator,  diff.  23  (Champier,  II,  15;  cfr.  Lucano,   Phavs.,  Ili, 
603  sg. 

32  Cap.   12. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D  ABANO  35 

arbitrio  dell'uomo.  Ora  per  Pietro  d'Abano  la  volontà  umana 
riman  libera,  non  solo  di  fronte  alla  causalità  efficiente  degli 
astri,  che  determinano  solo  una  certa  inclinazione  risultante 
dalle  disposizioni  organiche,  ma  perfino  di  fronte  alla  pre- 
scienza divina  33. 

6.  -  Le  altre  dottrine,  censurate  dallo  Champier,  possono 
agevolmente  raggrupparsi  intorno  agli  ultimi  due  capitoli 
dell'astrologia,  che  s' intitolano  rispettivamente  de  interroga- 
tionihus  e  de  electionihus . 

Del  primo  si  legge  nello  Spectiltimì'i:  «Pars....  interroga- 
tionum  docet  indicare  de  re  de  qua  facta  fuit  interrogatio 
cum  intentione  radicali,  utrum  scilicet  perfìciatur  an  non; 
et  si  sic,  quid  sit  causa  illius  et  quando  erit  hoc;  et  si  non, 
quid  prohibet,  si  non  fìat,  et  quando  apparebit  quod  fieri 
non  debeat  ».  A  questa  parte  dell'astrologia  si  riferiscono 
alcune  delle  dottrine  di  Pietro  già  accennate,  e  concernono  la 
ricerca  della  lunghezza  della  vita,  del  sesso,  del  destino  e  della 
fortuna.  La  legittimità  di  siffatte  ricerche  dipendeva  dall'  ipo- 
tesi generale  circa  l' influsso  dei  corpi  celesti  e  delle  loro  con- 
giunzioni sulle  vicende  del  mondo  inferiore  e  sulla  «  com- 
plexio  »  del  corpo  umano,  nonché  dall'avere  ammesso  che  i 
fenomeni  celesti  significassero  ed  annunziassero  quelli  terrestri. 
E  poiché  r  ipotesi  era  generalmente  ritenuta  vera,  l'autore 
dello  Specuhim  non  dura  molta  fatica  a  difendere  anche  questa 
parte  pratica  dell'astrologia  giudiziaria,  che,  a  suo  giudizio, 
può  conciliarsi  col  libero  arbitrio  dell'uomo  (la  quistione  del 
libero  arbitrio,  giova  osservarlo,  è  di  capitale  importanza  nella 
filosofia  medievale),  se  è  vero  che  questo  non  sia  menomato 
dalla  provvidenza  e  dall'onniscienza  divina. 

y.  -  Assai  più  cauto  si  fa  l'autore  dello  Specitkmiy>,  quando 
viene  a  parlare  del  capitolo  de  electionihus.  Egli  intanto  di- 
stingue la  ricerca,  invero  innocente,  dell'  «  bora  laudabilis  in- 
cipiendi  aliquod  opus  »,  affinché  l'opera  da  intraprendere 
abbia  felice  risultato,  pur  senza  tentare  di  modificare  il  corso 
o  r  influenza  del  cielo,  dai  tentativi,  per  mezzo  d' immagini 


33  Cfr.  Ferrari,   P.  d'A.,  pp.  355-356. 

34  Cap.   13. 

35  Capp.   10  e   14. 


36  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

e  di  scongiuri,  di  modificare  favorevolmente  le  influenze  ce- 
lesti per  la  buona  riuscita  dell'opera  che  s' intraprende.  Che  la 
prima  ricerca  non  abbia  niente  d' illogico,  dati  i  presupposti 
astrologici  che  noi  conosciamo,  o  di  temerario  dal  punto  di 
vista  della  dottrina  teologica  del  tempo,  è  evidente.  Perciò 
l'autore  dello  Speculum  non  solo  la  ritiene  legittima,  ma  di- 
chiara che  sia  opportuno,  come  pensa  anche  Pietro  d'Abano, 
conoscer  l'ora  favorevole  al  concepire,  al  prender  medicine  e 
alle  operazioni  chirurgiche  36.  Per  quel  che  riguarda  invece  la 
costruzion  delle  immagini  a  fine  di  modificare  l' influsso  ce- 
leste, egli  stima  necessario  far  molte  riserve:  «Parti....  electio- 
num  dixi  supponi  imaginum  scientiam,  non  quarumcunque, 
sed  astronomicarum.  Quoniam  imagines  sunt  tribus  modis. 
Est  enim  unus  modus  imaginum  abominabilis,  qui  significa- 
tione  et  invocatione  exigit....  Est  alius  modus  aliquantulum 
minus  incommodus,  detestabilis  tamen,  qui  fit  per  inscrip- 
tionem  characterum,  per  quaedam  nomina  exorcizando.... 
Tertius  autem  est  modus  imaginum  astronomicarum,  qui  eli- 
minat  istas  spernendas  suffumigationes  et  invocationes,  et 
non  habet  neque  exorcizationes,  ncque  characterum  inscrip- 
tiones  admittit,  sed  virtutem  nanciscitur  solummodo  a  figura 
caelesti  ».  Posta  tale  distinzione,  mentre  egli  condanna  gli 
esorcismi,  gì'  incatesimi  e  la  necromanzia,  pensa  di  non  po- 
tersi arrogare  il  diritto  di  condannare  o  di  negar  l'efficacia 
delle  immagini  astronomiche. 

D' immagini  astronomiche,  ammesse  dall'autore  dello  Spe- 
culum, si  parla  nella  già  citata  differenza  X  e  nella  CI  del 
Conciliator.  Ma  Pietro  d'Abano  sembra  andar  più  oltre  ed 
ammettere  anche  quel  genere  di  pratiche  condannate  dall'au- 
tore dello  Speculum^i.  Si  tratta  per  altro  d'un  equivoco.  Egli 
crede  al  fascino,  all'arte  notoria,  alla  pvaecantatio  e  alla  magia 
(e  questo  deve,  senza  dubbio,  aver  contribuito  a  crear  la  sua 
fama  di  mago  e  di  necromante)  ;  ma  intanto  spiega  i  fenomeni 
e  i  resultati  ottenuti  con  queste  arti,  sforzandosi  di  traspor- 
tarli sul  terreno  della  magia  bianca,  allora  ritenuta  lecita  dai 
teologi. 


36  Conciliator,  diff.   io  (Champier,  II,  8). 

37  Conciliator,  diff.  135  e  156.  Champier,  III,  8,  g,  io.  Intorno  alle 
interessanti  varianti  del  numero  8  nelle  varie  edizioni  del  Conciliator, 
cfr.  Ferrari,  Per  la  biografia  etc,  pp.  48-9. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D'ABANO  37 

Così  egli  ammette  l'efficacia  del  fascino  e  degl'  incante- 
simi, come  r  ammetteva  Avicenna  e  come  due  secoli  dopo 
l'ammetterà  il  Pomponazzi,  ma  esclude  da  essi  ogni  carattere 
sovrannaturale  e  segnatamente  l' intervento  di  demoni  38, 
pur  senza  negar  l'esistenza  di  essi.  Per  lui,  l'anima  di  certi 
uomini  è  fornita,  per  uno  speciale  influsso  celeste,  di  virtù 
eccezionali,  e  si  comporta,  nel  modificare  le  influenze  astrali 
sulla  terra,  come  le  immagini  artificiali  costruite  dagli  antichi 
sapienti  dell' India  39.  —  La  praecantatio  è  utile  al  medico,  come 
gli  è  necessaria  la  fiducia  da  parte  dell' infermo  40.  Ma  le  parole 
dell'  incantesimo  verbale  desumono  la  loro  efficacia  dalla 
virtù  celeste,  come  dalle  disposizioni  favorevoli  delle  costel- 
lazioni deriva  l'efficacia,  secondo  Albumasar,  della  preghiera 
astronomica 41.  L'efficacia,  insomma,  di  tutte  queste  pratiche 
è  desunta  dall'astrologia:  siamo  fuori  del  dominio  della  magia 
nera. 

8.  -  Una  censura  speciale  dello  Champier  riguarda  anche 
una  dottrina  la  quale  non  ha  niente  che  fare  con  le  dottrine 
di  carattere  prettamente  astrologico,  che  abbiamo  riferite; 
ma  che,  anzi,  sotto  un  certo  aspetto,  è  opposta  a  quelle:  in- 
tendo la  dottrina  della  produzione  delle  forme  nel  mondo 
infralunare.  Essa  suona  così:  «  Ponentes....  creationem,  etsi 
verissimi  in  lege  sint,  in  philosophia  tamen  non  sunt  admit- 
tendi,  cum  ipsam  levem  faciant  omnino,  ac  primam  quasi 
causam  multiplicibus  vexent  laboribus;  decorem  non  minus  et 
ordinem  et  per  consequens  perfectionem  removentes,  secun- 
dum  Peripateticos,  ab  universo  «42.  Lo  Champier  pretende  che, 
con  siffatta  dottrina,  l'Abanese  venga  a  contradirsi,  «  quia 
simul  stare  non  possunt,  quod  lege  sint  verissimi,  et  tamen 
admictendi  non  sint  in  philosophia;  quia  omne  verum  conso- 
nat  ».  Dove  non  sai  se  egli  accusi  il  filosofo  di  aver  negato  la 
creazione,  o  di  avere  ammessa  la  dottrina  averroistica  della 
doppia  verità.  Ma  nell'uno  come  nell'altro  caso,  ha  frainteso 
senz'altro  il  pensiero  di  Pietro  d'Abano,  come  avremo  modo  di 
dimostrare  nel  paragrafo  che  segue. 


38  Conciliator,  diff.    135. 

39  Ibid. 

40  Ibid. 

4'  Conciliator,  diff.   156. 

42  Conciliator,  diff.  loi  (Champier,  III,  2;  cfr.  I,  3).  Cfr.  soprap.  14  e  16. 


38  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

In  realtà,  di  tutte  le  dottrine  censurate  dalla  Champier, 
tre  appena  sono  tacciate  di  eresia  e  segnate  di  un  biasimo  spe- 
ciale, e  cioè:  i)  quella,  ora  accennata,  intorno  alla  creazione; 
2)  l'avere  Pietro  affermato  che  Dio  non  possa  operare  nel 
mondo  infralunare  se  non  per  mezzo  d' intermediari;  3)  l'aver 
ritenuta  efficace  la  praecantatio.  Ora  la  prima  dottrina  è  stata, 
come  vedremo,  semplicemente  fraintesa  da  lui;  la  seconda  è 
esagerata,  poiché  così  come  l'Abanese  la  intende,  non  suonava 
affatto  eretica  ai  tempi  di  lui;  quanto  alla  terza,  egli  non  si 
è  accorto  come  la  praecantatio  e  le  altre  pratiche  affini  avessero 
perduto  in  Pietro  d'Abano  quel  loro  carattere  originario  deri- 
vante dalla  magia  nera  che  le  rendeva  singolarmente  sospette. 

Se  lo  Champier  avesse  esaminato  il  Conciliaior  coll'animo 
scevro  dai  pregiudizi  di  una  scuola  teologica  che  aveva  già 
perduto  per  sempre  il  senso  della  libertà  nel  campo  scientifico, 
quel  senso  di  libertà  che  si  era  così  poderosamente  affermato 
nel  secolo  XIII  ;  se  egli,  dico,  avesse  studiato  l'opera  del  medico- 
filosofo  con  quel  senso  di  tolleranza  che  rivela  il  teologo  autore 
■dello  SpectUum,  e  non  colla  grettezza  sospettosa  degl'  inquisi- 
tori parigini  e  padovani,  avrebbe  potuto  forse  risparmiarsi 
quasi  tutte  le  sue  censure  e  castigationes. 

Notevole,  per  altro,  che  nemmeno  lo  Champier,  che  con 
tanto  zelo  si  dette  la  pena  di  spulciare  l'opera  ritenuta  peri- 
colosa, abbia  formulato  le  accuse  ben  altrimenti  gravi  che, 
con  altro  scopo,  ha  sollevato  contro  Pietro  d'Abano  il  suo 
moderno  biografo.  Sante  Ferrari. 


III.  —  Eresie  di  P,  d'Abano,  secondo  il  Ferrari:  Dio 
E  il  mondo,  Scienza  e  Fede. 

1.  L'averroismo  di  P.  d'A.  secondo  il  Ferrari.  —  2.  Dottrina  della  crea- 
zione; lo  schema  neo-platonico;  il  concetto  di  creazione  mediata.  — 
3.  Eternità  della  materia  ?  —  4.  Il  problema  circa  l'eternità  del 
mondo.  —  5.  La  pretesa  tendenza  al  panteismo.  —  6.  Il  miracolo.  — 
7.  La  doppia  verità. 

I.  -  L'ultimo  processo  alle  dottrine  filosofiche  di  Pietro 
d'Abano  è  quello  intentato  ad  esse  nella  voluminosa  e  farragi- 
nosa biografia  scritta  intorno  al  nostro  filosofo  da  Sante  Fer- 
rari. Anzi  che  colla  serena  comprensione  dello  storico,  si  di- 
rebbe che  questo  autore  si  sia  accinto  allo  studio  del  pensiero 
dell' Abanese  colla  stessa  parziahtà  dello  Champier  e,   quasi 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D  ABANO  39 

direi,  colla  stessa  mentalità  degl'  inquisitori  parigini  e  pado- 
vani: coll'aggravante  di  una  minore  disposizione  a  intenderlo, 
derivante  dalla  scarsa  conoscenza,  che  ha  il  Ferrari,  di  una 
filosofia  così  complessa  e  ricca  di  motivi  come  quella  medie- 
vale K 

La  scarsa  conoscenza  del  pensiero  medievale,  che  verremo 
documentando,  si  rivela  subito,  fin  dal  primo  tentativo  col 
quale  il  Ferrari  vorrebbe  caratterizzare  la  dottrina  filosofica 
di  P.  d'Abano,  ora  asserendo  che  questi  inclina  e  simpatizza 
per  l'avverroismo  ^,  ora  sforzandosi  d' inquadrarne  il  pensiero 
nel  movimento  d' idee  noto  sotto  il  nome  di  «  averroismo  la- 
tino »  3. 

All'averroismo  più  o  meno  latino  avrebbe  inclinato  il  maestro 
padovano:  i)  per  la  negazione  della  creazione  dal  punto  di 
vista  filosofico,  per  avere  ammessa  la  materia  eterna,  la  ne- 
cessità d' intermediari  tra  la  causa  prima  e  i  fenomeni  del 
mondo  infralunare,  e  l'eternità  del  mondo;  2)  per  una  non  ben 
precisata  tendenza  al  panteismo  e  per  un  certo  naturalismo 
che  lo  porta  a  negare  la  possibilità  dei  miracoli;  3)  per  aver 
professata  la  dottrina  della  doppia  verità;  4)  e  finalmente  per 
la  dottrina  dell'  intelletto  separato. 

In  questo  paragrafo  discuteremo  il  giudizio  del  Ferrari  sui 
primi  tre  punti  ;  al  quarto  punto  riserveremo  il  paragrafo  che 
segue,  giacché  ne  vale  la  pena. 

2.  -  Alla  fine  del  paragrafo  precedente,  abbiamo  visto 
che  lo  Champier  segnala  come  errore,  et  horrendus,  l'af- 
fermazione di  Pietro  d'Abano,  che  la  dottrina  della  creazione, 
pur  essendo  vera  dal  punto  di  vista  teologico,  è  da  rigettarsi 
da  quello  filosofico.  L'  interpretazione  sbagliata  che  lo  Cham- 
pier colla  sua  censura  dava  di  un  passo  male  inteso,  diventa 

^  Un  esempio  caratteristico  dell'  incapacità  a  comprendere  e  a  giu- 
stificare, nel  loro  genuino  significato  storico,  le  idee  del  passato,  è  il 
capitolo  che  il  Ferrari  dedica  a  P.  d'A.  astrologo.  Egli  riassume  pur- 
chessia le  dottrine  astrologiche  del  Nostro,  ma  non  le  spiega;  anzi, 
ad  un  certo  punto  non  sa  far  di  meglio  che  uscire  in  questa  goffa  escla- 
mazione :  «  Piaccia  al  nostro  lettore  che  non  ci  smarriamo  in  tali  labi- 
rinti del  pensiero  umano  che  mettono  avvilimento  e  pietà»   (P.  d'A., 

V-  375)  ! 

2  Pietro  d'Abano,  p.  348  e  sgg. 

3  Per  la  Biografia,  etc,  p.  92-98.  L'accusa  d'averroismo,  per  altro, 
risale,  sebbene  non  precisata  come  presso  il  Ferrari,  per  lo  meno  al 
Renan  e  al  Tiraboschi. 


40  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

addirittura  una  mostruosità  storica  sotto  la  scorrevole  penna 
del  Ferrari. 

Udiamo,  infatti,  qual  concetto  questi  si  sia  fatto  della  rela- 
zione tra  la  divinità  e  il  mondo  secondo  la  mente  di  Pietro: 
«  Le  azioni  del  mondo  superiore  sulla  terra  e  su  noi  vengono 
infine  da  Dio;  salvoché  le  une  producendosi  per  una  serie  di 
mezzi,  sono  coordinate  a  questi  e  ne  hanno  la  misura,  la  co- 
stanza, la  prevedibilità,  oltre  che  sono  relativamente  ad  essi 
inevitabili;  onde  le  possiamo  in  certo  modo  ridurre  alle  qua- 
lità degli  elementi,  anche  se  non  vediamo  precisamente  il 
come;  le  altre  si  esercitano  senza  movimenti,  absque  medii 
alteratione,  o  da  Dio  stesso  o  dalle  stelle  imprimenti  una  spe- 
ciale virtù,  com'  è  nel  caso  del  magnete,  la  cui  virtù  attrattiva 
è  collegata,  lo  attesta  l'esperienza,  col  polo  artico.  L'opera 
divina  è  del  resto  palese  nell'ordine  universale  e  nella  finalità 
che  governa  il  cosmo.  I  platonici  (non  si  dice  Platone)  4  ripo- 
sero le  cause  universali  in  divinità  secondarie,  specie  di  mini- 
stri alla  prima,  che  danno  le  forme  alle  cose,  onde  Averroè 
disse  che  Platone  in  un  modo  alquanto  oscuro  aveva  asserito 
che  il  creatore  fé'  gli  angeli  e  ordinò  poi  loro  di  creare  le  altre 
cose  mortali,  il  che  veramente  non  si  dee  prendere  alla  lettera. 
Aristotile  le  forme  delle  cose  terrestri  volle,  secondo  che  pa- 
reva anche  a  Temistio,  fossero  generate  dal  sole  e  dal  suo  giro. 
Alcuni  ammisero  che  le  forme  fossero  nella  nostra  terra  la- 
tenti, quali  Anassagora,  Empedocle,  Democrito.  Altri  parla- 
rono di  creazione.  I  primi  traggono  le  cose  dal  caos,  i  secondi 
vogliono  invece  che  Dio  le  produca  dal  nulla.  E  quest'ultima 
opinione  induxit  loquentes  trium  legum,  quae  hodie  sunt,  dicere 
aliquid  fieri  ex  nihilo....  adeo  quod  diciint  quod  homo  cum  moveat 
lapidem  expellendo,  non  est  movens,  sed  agens  illud  creai  motum.... 
Di  tali  sentenze  possiamo  leggere  in  Giovanni  Filopono.... 
Ma  tra  le  due  opinioni  opposte  e'  è  luogo  per  due  intermedie, 
anzi  per  tre,  che  convengono  nell'ammettere  due  tesi:  la  ge- 
nerazione essere  un  tramutarsi  delle  sostanze,  e  niente  pro- 
dursi dal  niente.  Convengon  in  ciò,  ma  si  discostano  poi  nel 


4  L'osservazione  è  meravigliosa  !  Neanche  a  farlo  a  posta,  Pietro 
cita  subito  il  Timeo,  nominando  espressamente  Platone:  «  Quare,  12. 
Metaph.  [comm.  44],  Commentor:  '  Plato  suis  obscuris  verbis  dixit 
quod  creator  creavit  angelos  manu....'».  Cfr.  sopra,  p.  13.  Del  resta 
alla  diff.  71  si  legge:  «Plato  namque  posuit  substantias  separatas,_ 
quas  ideas  appellavit  ». 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D  ABANO  4I 

modo  di  pensare  l'agente.  L'una  pone  che  l'agente  crei  la  forma 
e  la  dia  alla  materia,  sia  poi  esso  congiunto  o  no  con  materia: 
opinione  di  Temistio  e  lino  a  un  certo  punto  di  Alf arabi.  La 
seconda  nega  che  l'agente  sia  affatto  legato  alla  materia  e 
lo  chiama  dator  delle  forme,  come  pensarono  Algazel  ed 
Averroè  5.  La  terza  è  quella  di  Aristotele,  che  l'Afrodisio  giu- 
dicò non  ambigua,  e  alla  quale  non  si  può  non  assentire; 
l'agente  non  fa  se  non  il  composto  di  materia  e  forma,  mo- 
vendo la  materia  finché  ne  esca  in  atto  la  forma  che  vi  giace 
in  potenza....  La  sentenza  aristotelica  in  qualche  cosa  somi- 
glia a  quella  dei  creazionisti  e  in  qualche  cosa  ne  differisce.... 
ma  è  la  sola  vera,  perché  sol  essa  non  porta  a  conseguenze  im- 
possibili, come  vi  portano  le  opinioni  di  Platone  e  di  Anas- 
sagora, che  furono  da  Aristotele  combattute  vittoriosamente. 
Coloro  che  invocano  la  creazione,  etsi  verissimi  lege  sint,  in 
philosophia  tamen   non  sunt  admittendi  »  ^. 

Dopo  questa  che  vorrebbe  essere  una  parafrasi,  invero 
molto  libera,  di  un  importantissimo  passo  del  Conciliator,  il 
Ferrari  scrive  ancora:  «L'essenza  della  materia  rende  inevi- 
tabile l'uso  di  qualche  mezzo  o  strumento,  per  certe  produ- 
zioni, a  Dio  stesso.  In  altre  parole  Dio  produce  e  governa  i 
cieli,  gli  angeli,  le  anime,  ma  nulla  poi  potrebbe  fare  nei  regni 
inferiori  delle  cose  corporee  senza  il  loro  mezzo,  per  la  troppa 
distanza  tra  i  due  termini.  Gli  è  così  che  per  una  serie  di  me- 
diazioni, e  con  armonia  meravigliosa  discende  alle  infime 
cose  terrestri  l'azione  divina,  passandosi  per  gradi  dalle  cose 
incorruttibili,  anzi  dall'imo  semplice  ed  immobile  agli  esseri 
composti,    variabili   corruttibili  »  i. 

Parrebbe,  dunque,  a  sentire  il  Ferrari,  i)  che  Dio,  sorgente 
prima  di  tutte  le  azioni  del  mondo  celeste  su  quello  terrestre, 
avesse  di  fronte  a  sé  un  principio  eterno  di  passività  che  sa- 
rebbe poi  la  materia;  2)  che  questa  materia  fosse  eterna  al 
pari  di  Dio  e  non  prodotta  ^  ;  3)  che  l'azione  divina  sul  mondo 


'^  Leggasi  Avicenna,  e  non  Averroè,  il  quale  ha  sempre  combattuta 
la  teoria  del  «  dator  formarum  ».  Le  edizioni  hanno  solo  un'  A.,  che 
ovunque  è  abbreviazione  d'Avicenna.  Il  Ferrari  un'altra  volta  legge 
Aristotele,  arruffando  tutto  il  senso  di  un  passo  importantissimo  della 
diff.   57.  Cfr.  P.  d'A.,  p.   347.  V.  anche  sopra,  p.   11. 

6  P.  d'A.,  pp.  249-251.  Il  luogo  del  Conciliator  qui  parafrasato  è 
stato  riportato  per  esteso  sopra,  p.   16. 

7  Ib.,  p.  251. 

8  P.  d'A.,  p.   351. 


42  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

corruttibile  non  potesse  in  nessun  modo  esercitarsi  se  non 
attraverso  una  serie  di  mezzi,  che  sono  i  cieli,  gli  angeli  e  le 
anime.  Se  gì'  inquisitori  parigini  e  padovani,  che  se  n'  inten- 
devano, avessero  lette  queste  cose  negli  scritti  del  maestro 
d'Abano,  non  avrebbero  aspettato  ad  arrostire  un  cadavere, 
né  r  imputato  sarebbe  sfuggito  loro  dalle  mani.  Il  fatto,  in- 
vece, è  che  il  pensiero  genuino  di  lui  è  ben  diverso  dall'esposi- 
zione che  ne  fa  il  Ferrari.  Vediamo  dunque  di  chiarirlo. 

Secondo  lo  schema  neo-platonico  di  Alfarabi  e  di  Avicenna  9, 
riassunto  anche  dall' Abanese,  dalla  prima  causa,  che  è  mo- 
tore immobile  e  quindi  «  idem  et  stabilis  permanet  »,  non  può 
derivare  ciò  che  è  molteplice  e  mutevole  ;  ma  «  solum  unum 
immediate  »,  cioè  la  prima  intelligenza  col  primo  cielo.  Da 
questa  è  prodotta  la  seconda  intelligenza  col  secondo  cielo; 
e  così  di  seguito,  di  grado  in  grado,  secondo  un  ordine  di  ema- 
nazione discendente,  fino  all'  intelligenza  lunare,  la  quale 
produce  la  così  detta  «  intelligenza  agente  »,  «  gubernantem 
quae  sunt  in  activorum  et  passivorum  spaerà  simplicium  et 
compositorum»,  cioè  tutte  le  forme  del  mondo  infrahmare  ^°. 
Pietro  d'Abano  accetta  in  parte  questo  schema,  ma  v'  intro- 
duce profonde  modificazioni. 

Egli  pone,  tra  la  causa  prima  e  la  materia,  una  serie  d' in- 
termediari che  gli  servono  a  spiegare,  come  a  Dante  ",  la  con- 
tingenza nel  mondo  inferiore;  ma  in  nessun  luogo  afferma  che 
la  materia  sia  eterna,  come  vorrebbe  farci  credere  il  Ferrari, 
per  il  quale  eterna  vuol  poi  dire  non  creata.  E  sebbene  dica, 
«  secundum  Aristotelem  et  Commentatorem,  quod  Deus  nihil 
potest  in  haec  [interiora]  operari  absque  medio  «i^,  è  evidente 
che  egli  intende  parlare,  non  di  una  necessità  di  natura  e 


9  Pietro  d'Abano  come  gli  scolastici  del  suo  tempo  mette  con  Avi- 
cenna anche  Algazele.  In  realtà  questi  scrisse  un'esposizione  delle  dottrine 
di  Alfarabi  e  di  Avicenna,  alla  quale  teneva  dietro  la  sua  confutazione 
fatta  dal  punto  di  vista  della  teologia  mussulmana  ortodossa.  Fino  ai 
tempi  del  Nostro  solo  la  prima  parte  era  tradotta  in  latino;  la  Destructio 
philosophorum  si  conobbe  assai  più  tardi.  Di  qui  l'abbaglio.  Cfr.  M.  Asin 
Palacios,  Algazel,  Zaragoza,  igoi,  pp.  141-143.  Il  Duhem  tuttavia 
crede  che  quando  Algazele  scrisse  la  prima  parte  dell'opera,  egli  accet- 
tasse quelle  dottrine  neo-platoniche  che  rifiutò  poi  nella  Destructio 
(Duhem,  Le  système  du  monde  etc,  Paris,   1914,  t.  IV). 

10  Conciliator,   diff.   loi.  Cfr.  sopra,  pp.   i4-iS- 

11  Farad.,  XIII,  61-78;  XVII,  37-38;  VII,  67-69.  Cfr.  il  mio  saggio 
Dante  e  P.  d'A.    (nei  Saggi  di  filos.  dant.,  pp.   50-55). 

12  Conciliator,  diff.  113,  pr.  IV. 


LA    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D'aBANO  43 

assoluta,  ma  di  una  necessità  conseguente  a  quella  a  perfecta 
ratio  ))  che  è  poi  la  stessa  sapienza  divina,  la  quale  ha  volon- 
tariamente stabilito  l'ordine  mondano;  ordine  che  è  sospeso 
alla  volontà  divina  la  quale  è  immutabile.  Ma  se  la  causa 
prima  ha  fissato  l'ordine  cosmico,  nel  quale  gli  eventi  del 
mondo  infralunare  dipendono  dal  moto  e  dalle  ^'a^iazioni  che 
accadono  nei  corpi  celesti,  intermediari  tra  i  due  estremi 
dell'atto  puro  e  della  pura  potenza  —,  non  ne  segue  logica- 
mente che  non  possa,  in  quanto  è  superiore  a  quest'ordine 
da  sé  stabilito,  derogarvi.  Anzi  troviamo  esplicitamente  as- 
serito il  contrario:  «  Potest....  primus  sua  mera  benignitate, 
cum  sit  agens  supernaturale,  per  voluntatem,  absque  motu 
et  transmutatione  in  haec  in  inferiora  operari,  quicquid  dicat 
peripateticus))i3.  Ora  se  Pietro  può  pensare  ad  un  intervento 
diretto,  anche  se  fuori  dell'ordine  naturale,  della  causa  prima 
sul  mondo  della  generazione  e  corruzione,  vuol  dire  che  la 
necessità  degl'  intermediari,  affermata  da  lui  sulla  scorta  di 
Aristotele  e  del  Commentatore,  non  è  la  necessità  assoluta  dei 
platonici  arabi,  per  i  quali  è  sempHcemente  impossibile,  cioè 
<:ontradditorio,  che  dall'uno,  immutabile  ed  eterno  possa 
derivare  immediatamente  quello  che  è  molteplice,  diverso 
e  perituro. 

3.  -  In  nessun  luogo  poi  delle  opere  dell' Abanese  si  trova, 
come  abbiamo  detto,  il  benché  minimo  accenno,  sia  pure 
indiretto,  alla  dottrina  dell'eternità  della  materia  come  prin- 
cipio indipendente  ed  opposto  all'attività  della  prima  causa. 
Ma  per  intender  meglio  l'assurdo  storico  che  al  maestro  pa- 
dovano attribuisce  il  Ferrari,  è  necessario  porci  più  da  vicino 
il  quesito  se  Pietro  neghi  davvero  senz'altro  la  creazione,  o 
se  invece  non  avanzi  per  avventura  un  suo  concetto  o  modo 
d' intendere  la  produzione  degli  esseri  da  parte  di  Dio. 

Il  passo  della  differenza  CI,  incriminato  dallo  Champier  e 
già  da  noi  riferito,  non  implica  la  negazione  pura  e  semplice 
della  creazione,  ma  va  inteso  in  relazione  al  problema,  proposto 
dal  nostro  autore,  circa  la  produzione  delle  forme  sostan- 
ziali nel  mondo  della  natura  corruttibile.  D'accordo  con  lo 
spendo  Duns  Scoto  14  e  con  Tommaso   d'  Aquino  i\   l'Abanese 

13  Ib.,  diff.  156,  p.  III. 

14  De  rerum  principio,  q.  5,  a.   i. 

^5  Summa  theologica,   I,  q.  45,  a.   8;  q.  65,  a.  4. 


44  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AI,    XVI 

combatte  la  tesi  tipicamente  occasionalistica  di  Giovanni 
Filopono  e  di  alcuni  filosofi  arabi,  secondo  i  quali  la  causa  pri- 
ma è  quella  che  produce,  alla  maniera  dei  moderni  occasiona- 
listi,  tutti  gli  esseri  nuovi  e  le  loro  azioni  scambievoli  imme- 
diatamente {sine  medio),  «ita  ut  negent  ignem  comburere 
et  aquam  humectare,  dicent es  omnino  huiusmodi  creatione 
indigere.  Unde  et  communiter  dicunt  corpus  non  creare,  nec 
aliquam  inducere  dispositionem;  adeo  quod  dicunt,  quod 
homo,  cum  moveat  lapidem  expellendo,  non  est  movens,  sed 
agens  illud  creat  motum.  Et  negaverunt  propter  hoc  poten- 
tiam  esse))J6.  È  contro  costoro  i  quali  negano  alle  sostanze 
corporee  la  facoltà  di  agire  e  che  mescolano,  come  dice  Tom- 
maso, la  creazione  alle  operazioni  della  natura,  che  si  riferisce 
la  critica  dell'Abanese:  «  Ponentes....  creationem,  etsi  veris- 
simi in  lege  sint  »  —  in  quanto  tutte  le  operazioni  della  natura 
si  riducono,  in  ultima  analisi,  all'azione  della  causa  prima  — 
«  in  philosophia  tamen  non  sunt  admittendi  ».  In  altri  termini, 
Dio  ha  stabilito  un  ordine  di  cause  naturali,  attive  e  passive, 
sospeso  alla  sua  perenne  azione  creatrice.  La  scienza  razionale 
umana,  la  philosophia ,  a  differenza  della  scienza  rivelata  di- 
vina qual'  è  la  theologia,  ha  appunto  lo  scopo  di  rintracciare  que- 
st'ordine naturale  fra  causa  ed  effetto,  ricercando  la  cagione 
prossima  o,  come  si  direbbe  oggi,  l'antecedente  immediato 
e  costante  dei  fenomeni  fisici  e  non  la  causa  prima  se  non  dopo 
aver  risalito  l'ordine  delle  cause  seconde.  Tale  è  anche  il  punto 
di  vista  di  tutti  i  più  grandi  scolastici,  in  particolare  di  Tom- 
maso d'Aquino  17,  di  Duns  Scoto '8  e  di  Enrico  di  Gandi9.  In- 
trodurre speculazioni  teologiche  mentre  si  vuol  rintracciare 
l'ordine  cosmico  delle  cause,  è  affatto  intempestivo  e  dan- 
noso per  la  scienza.  La  quale  ha  un  proprio  suo  modus  o  me- 
todo di  ricerca,  diverso  da  quello  della  teologia.  È  dunque 
assurdo  pretendere  di  ricavare  dal  passo  riferito,  che  ha  un 
senso  ben  chiaro  e  limitato,  una  negazione  pura  e  semplice 
della  dottrina  della  creazione. 

Senza  dire  poi  che  siffatta  pretesa  è  in  evidente  contrasto 
col  concetto   da  Pietro  nettamente  affermato,   che  la  causa 


'6  Conciliator,  diff.   loi.    Cfr.    Averr.,    Metaph.,    XII,    comm.    18,    e 
qui  sopra,  p.   14. 

^7  Cantra  gentiles,  II,  cap.  4.  Cfr.  sotto,  la  Conclusione  a  questo  saggio. 
j8  Oxon.,  II,   S.   I,  q.  4,  n.  28. 
'9  Summa  theol,  a.  VII,  q.  i. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    d'aBANO  45 

prima,  in  quanto  è  superiore  all'ordine  naturale,  può  agire 
sul  mondo  inferiore  immediatamente;  e  coll'affermazione  co- 
stante della  causalità  prima  della  divina  natura,  da  cui  di- 
pende la  causalità  degl'  intermediari  (e  questo  lo  riconosce 
anche  il  Ferrari,  per  il  quale  i  cieli,  gli  angeli  e  le  anime  son 
prodotti  immediatamente  da  Dio),  talché  l'Abanese  potrà 
affermare  :  «  a  Deo  et  per  Deum  Constant  omnia  »  20. 

Fra  la  causa  prima  e  il  mondo  di  sotto  la  luna,  sta  una  serie 
di  cause  intermedie,  che  sono  i  cieli  coi  loro  motori.  In  nessun 
luogo  il  nostro  medico  e  filosofo  ci  dice  se  questi  intermediari 
son  prodotti  tutti  immediatamente  dalla  causa  prima,  oppure 
se  derivino  l'uno  dall'altro  secondo  il  ben  noto  schema  neo- 
platonico. Non  abbiamo  nessun  indizio  per  attribuirgli  que- 
st'ultima opinione,  sebbene  fosse  appoggiata  perfino  dall'au- 
torità del  neo-platonico  libretto  De  causi s,  tenuto  a  quei  tempi 
in  gran  conto  dai  teologi  e  dai  filosofi.  Perciò  eviteremo  di 
proporre  e  discutere  ipotesi  perfettamente  inutili.  Quanto 
alle  cose  del  mondo  infralunare,  è  evidente  che  il  principio 
aristotelico  del  simile  a  simili,  ossia  della  generazione  univoca  o 
sinonima,  invocato  da  Pietro  d'Abano  contro  la  dottrina  avicen- 
nistica  del  «dator  formarum»-',  conduce,  quando  sia  svolto  a  fil 
di  logica,  ad  ammettere  o  l'eternità,  non  solo  della  materia,  ma 
di  tutte  le  specie  del  mondo  infralunare,  come  voleva  appunto 
Averroè,  oppure  a  proclamare  la  necessità  della  creazione 
immediata  dei  primi  «  agenti  univoci  »,  come  voleva  Tommaso 
d'Aquino 22^  almeno  quanto  agli  animali  perfettivi.  L'Abanese 
non  si  pone  mai  la  quistione  dell'origine  del  mondo  inferiore 
nel  suo  complesso;  ma  il  suo  pensiero  possiamo  indovinarlo, 
indirettamente,  dal  modo  com'egli  si  pone  il  problema  del- 
l'eternità del  mondo. 

Ogni  volta  che  egli  accenna  a  questo  problema,  lo  fa  sempre 
in  modo  da  non  pregiudicarlo,  e  si  mostra  dubbioso  intorno 
alla  soluzione  di  esso,  non  precisamente  per  dei  motivi  teolo- 
gici, ma  dal  punto  di  vista  strettamente  razionale.  Ora  questo 
atteggiamento  sarebbe  stato  assurdo,  se  egli  avesse  negata  la 
creazione;  poiché  in  tal  caso  l'eternità  del  mondo  ne  sarebbe 


•°  Problematuni   expositio,   part.    XXX,   probi.   4. 

21  Conciliator,  diff.   loi. 

22  Summa  theoL,  I,  q.  65,  a.  4. 

23  Cfr.  Problem.,  X,   13. 


46  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

risultata  necessariamente  dal  punto  di  vista  della  filosofia^ 
Invece,  in  un  luogo  dei  Problemi  24,  commentando  un  noto  pas- 
saggio pseudo-aristotelico  che  implica  l'eternità  del  mondo,, 
il  nostro  autore  si  compiace  di  ricordare  il  luogo  de  Topici,  ^5 
ov'  è  detto  «  quod  quaedam  sunt  probabilia,  de  quibus  utrum 
sit  ita  vel  aliter,  verisimiles  ad  utramque  partem  habemus 
rationes,   ut   utrum   mundus   sit   aeternus   vel   non  ». 

4.  -  Ma  per  giudicare  con  quaji  metodi  sbrigativi  il  Ferrari 
proceda  nell'attribuire  una  dottrina  a  Pietro  d'Abano,  giovi 
udirlo  un  momento:  «Un  analogo  giudizio,  e  con  esitanze 
minori,  dobbiamo  recare  sull'altra  quistione  riguardante 
ancora  un  rapporto  tra  Dio  e  il  mondo,  quella  se  il  cosmo 
abbia  avuto  o  no  principio.  Una  propensione  alla  tesi  dell'eter- 
nità si  manifesta  nell'  interpretazione  dei  Problemi,  quando 
da  Alcmeone  ivi  citato  si  dichiara  ammesso  un  avanti  al  mondo 
solamente  nel  senso  di  una  anteriorità  relativa,  come  con- 
segue dal  ripetersi  dei  cicli  nell'  ipotesi  cosmogonica  del  Cro- 
toniate.  E  più  apertamente  si  manifesta  nel  Conciliator,  là 
dove  si  agita  la  questione  se  la  natura  umana  dall'antichità 
ad  oggi  sia  degenerata.  Già  a  un  certo  punto  Pietro  esce  in 
queste  espressioni:  Et  ideo,  sive  ponatur  mundum  secundum 
veritatem  legis  nostrae  incepisse,  seti  infinitas  circulationes 
secundum  peripateticos  praecessisse,  è  da  ammettere  ad  ogni 
modo  che  alle  decadenze  periodiche  succedono  periodici  ri- 
sollevamenti. Ma  oltre  a  ciò  egli  poi  argomenta,  come  se  la 
natura  rimettesse  a  un  certo  punto  nella  specie  decaduta  il 
vigore  del  risorgimento  prima  che  precipiti  a  definitiva  ro- 
vina, e  ciò  con  ritorni  senza  confine  nel  passato  e  nell'avvenire. 
Inoltre,  nei  Problemi  di  nuovo,  quando  riporta  ed  illustra  l'opi- 
nione aristotelica  della  eternità  del  mondo,  egli  s'avvede  bensì 
e  confessa  che  questa  sentenza  veritati  orthodoxae  /idei  adver- 
satiir  non  parimi,  ma  non  dice  che  sia  falsa.  Tutt'altro.  L' in- 
tonazione del  trattato,  e  di  quello  che  segue  prossimamente, 
fa  credere  che  l'opinione  dei  peripatetici  fosse  anche  la  sua. 
Esponendo  poco  oltre  un  dissenso  tra  Avicenna  ed  Averroè, 
de'  quali  il  primo  sostenne  che  anche  gli  animali  superiori 
possano  generarsi  per  altra  via  dall'ordinaria,  e  che  così  av- 


-4  ib.,  p.  XVII,  3. 

25  I,  e.   II,   104  b  5-10. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D  ABANO  47 

venne  appunto  dopo  i  diluvi  e  le  catastrofi  telluriche,  e  il 
secondo  nega  la  produzione  insolita,  negando  eziandio  che 
mai  vi  sia  stato  tal  diluvio  che  non  abbia  lasciato  sulla  terra 
un  qualche  luogo  di  rifugio,  Pietro  parla  in  guisa  che  appare 
che  egli  parteggi  per  Averroè,  anche  se  noi  dice  aperto» -6. 

Il  lettore  che  non  conosca  i  testi  ai  quali  il  Ferrari  rimanda, 
chiosandoli  a  modo  suo,  senza  riportarli,  gli  crede  sulla  parola 
e  passa  oltre.  Merita  tanta  fiducia  il  Ferrari  ?  Vediamo. 

Intanto  la  famosa  «  propensione  alla  tesi  dell'eternità  »  nel 
libro  dei  Problemi,  è  una  pura  e  semplice  fantasia  del  chiaro 
professore.  Nel  luogo  a  cui  egli  si  riferisce  -i,  l'eternità  del 
mondo  era  già  supposta  dal  testo  preso  a  commentare,  ed  era 
stata  dichiarata  dall'Abanese  uno  dei  «  probabilia,  de  quibus 
utrum  sit  ita  vel  aliter,  verisimiles  ad  utrumque  partem  habe- 
mus  rationes  ».  Si  trattava,  quindi,  di  sapere  se  e  come  —  sup- 
posta l'eternità  del  mondo  e  la  circolarità  degli  eventi  mondani 
ripetentisi  infinite  volte  col  ritornare  degli  stessi  movimenti 
e  influssi  astrali  —  possa  logicamente  parlarsi  di  un  prhis 
e  di  un  posterius  in  questo  circolo  eterno. 

Presupposta  è  parimente,  la  tesi  dell'eternità  del  mondo, 
nell'altro  luogo  dei  Problemi,  al  cui  commento  intende  rife- 
rirsi il  Ferrari  -^.  Ivi  il  ben  noto  principio  aristotelico  della 
generazione  univoca,  «  a  simili  simile  »,  riposa  appunto  sul- 
l'affermazione che  la  serie  degli  «  agenti  univoci  sia  infinita, 
e  che,  quindi,  come  intendeva  Averroè,  la  generazione  e  il 
mondo  non  avessero  un  principio  nel  tempo.  L'Abanese  anche 
qui,  non  fa  altro  che  esporre  e  dichiarare  con  fedeltà  il  pensiero 
del  suo  autore,  soffermandosi  un  istante  a  dichiarare  che  quella 
dottrina  «  veritati  orthodoxae  fidei  adversatur  non  parum  ».  — 
«  Ma  non  dice  che  sia  falsa  »,  osserva  il  Ferrari.  E  falsa,  ri- 
spondo, dal  punto  di  vista  strettamente  razionale  non  si  po- 
teva dire  che  fosse.  Tommaso  d'Aquino  l'aveva  cantato  ben 
chiaro  ai  murmitranles  del  suo  tempo:  la  tesi  che  il  mondo 
abbia  avuto  un  cominciamento  nel  tempo,  è  verità  di  fede, 
ma  non  può  dimostrarsi  colla  ragione,  visto  che  la  contra- 
dittoria  non  è  assurda  29.  Ma  forse  il  Ferrari  a  queste  cose  non 


26  P.  d'A.,  pp.  252-253. 

27  Problem.,  XVII,  3. 

28  Problem.,  X,   13. 

29  De    aeternitate    mundi    cantra    murninraìites    opusculitm   (in  Opitsc. 
e  testi  filosofici,  scelti  e  annotati,  Bari,  Laterza,   191 5,  I). 


40  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SFXOLO    XIV    AL    XVI 

bada,  oppure  egli,  come  è  stato  fin  qui  d'accordo  cogl'  inqui- 
sitori, è  ora  buon  amico  dei  «  murmurantes  ». 

Che  poi  tale  supposta  «  propensione  alla  tesi  dell'eternità  » 
si  manifesti  anche  più  apertamente  nel  Conciliato^,  è  un'altra 
fandonia  del  Ferrari.  Nella  differenza  a  cui  questi  si  riferisce  30, 
è  agitato  il  problema:  Utrum  natura  humana  sit  debilitata  ab 
eo  quod  antiquitus,  necne.  L'Abanese  lo  risolve  nel  senso  di  una 
presente  decadenza,  e  vuol  dimostrare  la  sua  tesi  «  via  astro- 
nomica et  philosophica  ».  Ma  egli  si  trova  di  fronte  la  tesi 
peripatetica  dell'eternità  del  mondo;  quindi  l'obiezione:  «Si 
natura  in  generatione  semper  procederet  debilitando,  iamdu- 
dum....  generatio  cessavisset,  secundum  peripateticos  aeter- 
nitatem  mundi  asserentes  ».  E  poiché  egli  non  si  è  posto  il 
problema  dell'eternità,  è  logico  che  tenti  di  risolvere  l'obiezione 
osservando  che,  anche  nell'  ipotesi  dell'eternità  («  sive  ponatur 
mundum....  incepisse,  seu  infinitas  circulationes....  praeces- 
sisse»),  sono  concepibili  decadenze  e  risollevamenti  periodici 
che  si  avvicendano.  Con  questo  la  quistione  dell'eternità  resta 
impregiudicata.  L'autore  mira  soltanto  a  sbarazzare  il  terreno 
della  discussione  da  un  problema  ingombrante. 

Il  problema  è  posto  invece  esplicitamente,  a  proposito  anche 
questa  volta  dei  cicli  periodici  di  Tolomeo  e  della  presente 
decadenza  della  stirpe  umana,  nell'operetta  astronomica  De 
motti  octavae  spaerae  3^,  rimasta  fino  a  poco  fa  sconosciuta  e 
rinvenuta  da  Duhem  in  un  manoscritto  della  Biblioteca  Na- 
zionale di  Parigi  e  dal  Ferrari  in  un  codice  vaticano.  Ma  anche 
questa  volta  l'autore,  dopo  aver  riferite  le  diverse  opinioni 
prò  e  contro,  non  risolve  il  problema  e,  come  ammette  lo 
stesso  Ferrari,  finisce  col  tormentoso  (?)  interrogativo:  «  Hec 
est  itaque  dissonantia  que  circa  producendum  ac  principium 
extat  universi,  in  nullo  presentem  impediens  considerationem  ; 
quomodolibet  enim  ponatur  motus  eius  et  diversitas,  tamen 
tanta  nutu  dei  existent   (?)  praefati  »  32. 

Ora  il  dubbio  stesso,  se  si  vuol  chiamarlo  così,  intorno  al- 


30  Conciliator,  diff.   io. 

31  Cfr.   Ferrari,  Per  la  biogr.  etc,  p.   89. 

32  Così  il  Cod.  Pai.  lat.  1171  (Bibl.  Yat.),  f.  320  ra.  Ma  il  Pai.  lat. 
1377.  f-  5ra  legge:  «Hec  est  igitur  dissonantia  que  circa  prodiictionem 
ac  principium  extat  universi  in  nullo  presentem  impediens  conside- 
rationem; quomodolibet  enim  ponitur  motus  eius  et  diversitas,  inde 
causa  existit  prefata  ». 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI^PIETRO    d'aBANO  49 

l'eternità  del  mondo,  dal  punto  di  vista  strettamente  razionale, 
rivela  una  cosa  con  certezza:  che  l'Abanese  non  si  è  mai  so- 
gnato di  negare  la  creazione.  Poiché,  se  è  vero,  come  pensava 
Tommaso  d'Aquino,  che,  anche  ammessa  la  creazione,  non  è 
ancora  evidente  che  il  mondo  debba  avere  un  principio  nel 
tempo,  la  reciproca  è  semplicemente  assurda:  negata  la  crea- 
zione, il  mondo  risulta  necessariamente  eterno. 

5.  -  Ma  in  nessun  altro  luogo  il  Ferrari  ha  formulato  nella 
maniera  piìi  audace  e  più  contradittoria  il  concetto  del  rap- 
porto tra  Dio  e  mondo,  come  nei  due  brani  che  riportiamo. 
«  Ogni  ordine  di  finiti  —  scrive  il  prof.  Ferrari  —  ci  riconduce 
all'  idea  dell'  infinito  e  di  Dio.  I  due  termini  si  adeguano  press'a 
poco  nella  mente  di  Pietro,  il  quale,  considerando  il  mondo 
come  spazialmente  limitato,  tratta  l' infinito  che  ne  è  la  su- 
prema causa  come  divino....  Non  volendo  egli  invescarsi 
nelle  panie  teologiche  e  distinguendo  bene  il  dominio  della 
scienza  da  quello  della  fede,  non  discute  (?!)  l'ammissione  del 
Dio,  ma  designa  con  questo  norne  la  potenza,  che  tutte  le  parti- 
colari a  noi  note  sostiene  e  trascende,  riguardandolo  tutt'al  piti 
come  semplice,  eterno,  immutabile,  in  continuo  atto,  puro  in- 
telletto, senza  parlare  d'altri  attributi;  per  la  qual  cosa  gli  ba- 
stano da  un  lato  il  nome  e  gli  argomenti  di  Aristotile,  dal- 
l'altro il  consenso  di  tutte  le  grandi  religioni.  È  manifesto 
che  nell'animo  di  Pietro  non  manca  il  sentimento  religioso; 
ma  è  pur  manifesto  ch'egli  è  convinto  dell'  insufficienza  del 
nostro  pensiero  a  scrutare  l'ultima  ragion  delle  cose,  e  ch'egli 
venera  pertanto  col  nome  di  Dio  l' infinita  causa,  da  cui  ri- 
pete l'armonia  del  cosmo  e  la  sua  finalità;  ma  non  si  domanda 
se  quella  causa  sia  conscia,  o  se  la  finalità  sia  voluta.  La  tendenza 
del  suo  pensiero  è  insomma  panteistica  meglio  che  teistica  e 
cristiana,  sebbene  egli  siasi  provato  di  accomodare  le  inclina- 
zioni sue  con  le  esigenze  della  fede  imperante,  un  po'  per  forza 
d' imitazione,  un  po'  per  l' istinto  di  conservazione  »  (!)  33. 
E  altrove  34  :  «  Con  troppa  naturalezza  e  disinvoltura  egli  parla 
più  volte  di  Dio  e  di  religione;  con  tanta  energia  egli  ribatte 
in  più  luoghi  le  sentenze  materialistiche  dell' Afrodisio,  che 
si  può,  si  deve,  credere  sincera  l'ammissione  della  divinità. 
Salvoché  l' intervento  di  essa  o  diretto  o  indiretto  (e  in  questo 

33  P.  d'A.,  pp.   248-249. 

34  ib.,  pp.  351-352. 

4 


50  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

secondo  caso  presentato  in  guisa,  che  par  si  tratti  dell'opera 
di  organi,  o  che  le  forze  distinte  siano  proprietà  dell'ente 
sommo)  in  tutte  le  produzioni  dell'universo,  perché  l'attuarsi 
d'un  essere  richiede  l'esistenza  d'un  essere  superiore,  ci  mei  te 
innanzi  un  panteismo  anziché,  come  parrebbe  talvolta  dai 
nomi,  il  teismo  che  il  domma  imponeva.  Fors'anche  il  filosofo 
della  natura,  che  non  s'atteggiava  a  giudice  di  teologia,  omise 
di  proposito  d'addentrarsi  in  queste  ricerche,  fin  nel  segreto 
del  suo  pensiero  (?!);  certo  è  però  che  la  tendenza  delle  sue  dot- 
trine è  chiaramente  per  il  panteismo.  L'esigenza  di  questo,  si 
può  dire,  è  già  data  con  l'affermazione  dell'eternità  della 
materia  «. 

C'è  da  restare  sbalorditi:  tante  sono  le  contradizioni,  le 
banah  insinuazioni,  le  affermazioni  ora  timide  ora  categoriche 
ma  sempre  senza  un'ombra  di  prova  !  Che  sia  da  pensare  della 
pretesa  eternità  della  materia,  sappiamo  di  già,  e  non  torne- 
remo più  su  questa  stramberia  del  Ferrari.  Vediamo  piuttosto 
quanta  coerenza  ci  sia  nelle  sue  affermazioni.  Da  una  parte^ 
gli  sembra  che  l' intervento  della  causa  prima,  diretto  o  indi- 
retto, ci  metta  innanzi  «  un  panteismo  »,  e  cioè,  se  non  si  tratta 
di  una  metafora,  la  perfetta  immanenza  della  causa  divina 
nell'attuarsi  e  nel  divenire  del  mondo;  ma  dall'altra,  egli  ci  fa 
sapere  che  Dio  è  la  potenza  che  tutte  le  altre  a  noi  note  sostiene 
e  trascende  e  che  Pietro  d'Abano  lo  riguarda  «  come  semplice, 
eterno,  immutabile,  in  continuo  atto,  puro  intelletto  ».  Quasi 
che  questi  attributi  non  si  opponessero  all'  immanenza  e  non 
fossero  quelli  stessi  che  al  «  motore  immobile  »  dell'aristote- 
lismo, concetto  trascendente  quanto  quello  delle  idee  plato- 
niche, attribuiva  la  teologia  medievale  ! 

Ma  Pietro  non  si  domanda  —  osserva  il  Ferrari  —  se  la 
causa  prima  sia  conscia  e  personale  o  se  la  finalità  del  mondo 
sia  voluta  da  questa. 

Non  se  la  domanda  —  è  facile  rispondere  —  per  due  ragioni. 
In  primo  luogo,  perché  non  era  nell'  indole  delle  sue  ricerche 
approfondire  davvantaggio  il  concetto  della  natura  divina. 
Nei  commenti  di  Tommaso  d'Aquino  al  De  caelo  o  alla  Physica, 
per  esempio,  non  se  ne  dice  di  più  di  quel  che  ne  dica  il  nostro 
medico.  In  secondo  luogo,  egli  non  se  lo  domanda,  perché 
lo  sa  e  lo  suppone.  Ha  forse  dimenticato  il  Ferrari  il  luogo  35 


35  Conciliator,  diff.   156,  pr.  III. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D'ABANO  5I 

ov'  è  detto  che  Dio  niente  intende  «  actualiter  extra,  sed  in- 
telligens  seipsum  intelligit  omnia,  cum  ea  reluceant  in  seipso 
ut  in  causa  »  ?  Non  è  forse  in  queste  parole  la  precisa  affer- 
mazione tomistica  della  trascendenza  e  della  personalità  della 
causa  prima  ?  E  dovrà  dubitarsi  se  l'ordine  mondano  e  la 
finalità  di  esso  sian  voluti  da  Dio,  mentre  ci  è  detto  che  Dio, 
«  cum  sit  agens  voluntarium,  per  suum  intellectum  omnia, 
ut  ei  placet,  disponens  est»?  36.  Dio  conosce  tutte  le  cose  in 
quanto  ne  è  causa:  «  non  enim  contemplatur  ipsa  prout  sunt 
materialia  et  villa,  verum  modo  nobiliori  et  altiori,  quo  intel- 
ligit se  talium  causam  existere  »  37.  Egli  inoltre  è  provvidenza 
che  nessuna  cosa  lascia  fuori  dell'ordine  da  sé  stabilito; 
è  previdenza  che  fin  dall'eternità  ha  dipinto  nel  suo  cospetto 
il  corso  degli  eventi  mondani  ;  e  «  non  tamen  eius  praescientia 
seu  praevisio  rebus  necessitatem  condonat  »,  come  dicono 
con  Boezio  tutti  i  teologi  scolastici;  «  quia  enim  ipse  omnia 
produxit  sine  motu,  et  comprehendit  sine  motu  et  tempore 
indivisibili  »  3^, 

Si  tratta,  coni'  è  facile  intendere,  di  fugaci  accenni  ad  un 
concetto  complesso  della  divinità,  non  esposto  con  tutta  l'am- 
piezza analitica  propria  di  un  trattato  di  teologia:  ma  in 
compenso  essi  son  chiari,  s' integrano  e  s' illuminano  a  vi- 
cenda. Dov'  è  dunque  la  tendenza  al  panteismo  che  il  Ferrari 
scopre  «  chiaramente  »  nelle  dottrine  di  Pietro  d'Abano  ? 

6.  -  Dio  è  la  causa  prima  del  mondo  :  da  lui  derivano  tutte  le 
cose,  e  tutte  a  lui  tendono  come  a  fine  supremo.  Come  causa 
efficiente,  esso  non  le  crea  tutte  immediatamente,  ma  alcune 
ne  produce  per  mezzo  di  una  serie  di  cause  intermedie,  che, 
come  sappiamo,  sono  i  cieli,  secondo  lo  schema  neo-platonico 
che  abbiamo  appreso  dall'autore  del  De  causis  e  dal  Paradiso 
dantesco.  L'ordine  cosmico  è  stato  stabilito  «  perfecta  ratione  » 
dalla  mente  ordinatrice  di  Dio  che  tutto  dispone  con  saggezza. 
E  siccome  è  proprio  del  saggio  non  cambiar  consiglio,  ne  ri- 
sulta che  l'ordine  cosmico  è  immutabile  e  necessario,  sì,  ma 
di  quella  immutabilità  che  non  è  cieca  e  fatale,  ma  conseguente 
all'  immutabilità  del  decreto  divino.  Tale  è  il  pensiero  genuino 
di  Pietro  d'Abano  intorno  a  Dio,  checché  ne  dica  il  Ferrari. 


36  Ib.,  diff.   113,  pr.  IV,  ad.  3.  Cfr.  diff.   156. 

37  Ib..  difif.   156. 

38  Ib.,  diff.   loi,  pr.  IV. 


52  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

È  concepibile  in  siffatta  dottrina  il  miracolo  ? 

Abiamo  veduto  39  che,  secondo  Tommaso  di  Strasburgo, 
l'Abanese  era  accusato  di  aver  deriso  i  miracoli  di  Cristo  e 
dei  santi,  quanto  alla  resurrezione  dei  morti.  Il  Ferrari4o  ri- 
tiene che  la  possibilità  stessa  dei  miracoli  è  messa  in  forse  nel 
pensiero  di  Pietro,  anche  se  questi  non  lo  dice  apertamente: 
«  Se  miracoli  si  danno,  gli  è  nel  senso  degli  avvenimenti  in- 
soliti, inesplicabili  a  noi:  in  verità  essi  ricadono  nell'ordine 
universale;  che  Iddio  non  opera  arbitrariamente  né  sollecito 
della  sorte  dei  singoli  individui,  ma  per  atto  uguale  e  continuo 
e  cioè  per  leggi  eterne  e  razionali  ». 

Certo,  se  il  miracolo  consistesse  nell'operare  arbitraria- 
mente da  parte  di  Dio,  contro  l'ordine  universale  e  le  leggi 
da  se  stabilite,  il  Ferrari  avrebbe  ragioni  da  vendere.  Anche 
Tommaso  d'Aquino  41,  non  che  Pietro  d'Abano,  nega  il  miracolo 
così  puerilmente  concepito.  Ma  non  è  in  tal  modo  che  va 
inteso  il  miracolo,  secondo  il  pensiero  dei  migliori  fra  i  teologi 
medievali.  Esso  non  è  una  violazione  arbitraria  delle  leggi 
di  natura,  che  implichi  mutabilità  nei  divini  decreti,  ma 
causalità  esercitata  direttamente  dalla  causa  prima,  oltre  la 
capacità  di  azione  delle  cause  naturali;  non  contra,  ma  praeter 
leges  naturales;  e  l'intervento  divino  stesso  è  preveduto  e 
decretato  dall'eternità.  Messa  così  la  quistione  nei  suoi  ter- 
mini storici,  si  può  dire  che  P.  d'Abano  ponga  in  dubbio  la 
possibilità  dei  miracoli  ? 

Se  il  concetto  che  Pietro  s'  è  formato  della  divinità  fosse 
davvero  quello  panteistico  che  gli  attribuisce  il  Ferrari,  non  ci 
sarebbe  da  esitare  un  minuto  nel  rispondere  alla  quistione: 
in  tal  caso  il  miracolo  apparirebbe  senz'altro  inconcepibile. 
Ma  noi  sappiamo  che  quel  concetto  è  stato  falsato.  Noi  sap- 
piamo che  Pietro,  pur  diffidando  delle  pretese  risurrezioni  di 
morti,  faceva  le  sue  brave  riserve  quanto  alla  risurrezione 
di  Lazzaro  42,  e  non  abbiamo  motivo  di  sospettare  della  sua 
sincerità,  dal  momento  che  quelle  riserve  si  accordano  perfet- 
tamente col  concetto  che  egli  si  è  fatto  dell'ordine  mondano 
€  della  potenza  di  Dio  come  «  agens  supernaturale  per  volun- 


39  Cfr.  sopra,  pp.    21-23. 

4°  Cfr.  P.  d'A.,  pp.  252-253,   264. 

41  Siimma  theol.,  I,  q.   105. 

42  Cfr.  sopra,  p.    22. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    d'ABANO  53 

tatem))43.  La  possibilità  del  miracolo  non  solo  non  è  negata, 
ma  esplicitamente,  risolutamente  affermata  nella  dottrina  di  lui. 

Invece  è  vero  che,  pur  senza  escludere  la  possibilità,  rico- 
noscendo anzi  l'esistenza  di  alcuni  avvenimenti  miracolosi, 
l'Abanese  cerca,  dal  suo  punto  di  vista  scientifico,  di  stu- 
diarli nella  connessione  cogli  altri  avvenimenti  naturali  fra  i 
quali  sono  necessariamente  incastrati.  Ed  è  precisamente  qui 
dove  egli  dà  prova  di  quella  audacia  e  temerità  per  cui  lo 
riprese  Gian  Francesco  Pico  44.  Il  Ferrari,  per  aver  voluto  esa- 
gerare la  reale  portata  delle  dottrine  del  medico  padovano, 
ne  ha  falsato  anche  questa  volta  i  caratteri  e  il  significato 
storico.  Vediamo  dunque  di  precisare  anche  questo  punto  della 
filosofia  di  lui. 

Il  sostituirsi  del  pensiero  cristiano  alla  filosofia  greca  fu 
caratterizzato  dall'affermarsi  di  quella  intuizione  del  divino 
operante  e  immanente  nella  natura  e  nella  storia,  per  cui  la 
natura  stessa  colle  sue  leggi  parve  a  S.  Agostino  un  continuo, 
ininterrotto  miracolo.  Dal  nuovo  punto  di  vista,  tutti  gli  avve- 
nimenti dell'universo  venivan  considerati  in  rapporto  alla 
causa  prima,  e  si  saltava  spesso,  nello  spiegarli,  la  serie  delle 
cause  seconde  che  costituiscono  l'ordine  cosmico.  La  filosofia 
e  le  scienze  elaborate  con  tanto  sforzo  di  riflessione  e  acume 
d' indagine  dai  greci  e  dagli  arabi  rimasero  per  secoli  scono- 
sciute o  troppo  mal  note  nell'occidente  latino  prima  del  se- 
colo XII.  Col  penetrare  dell'enciclopedia  aristotelica  e  delle 
opere  arabiche  nel  mondo  latino,  prima  e  dopo  il  1200,  ri- 
sorgono i  problemi  filosofici  e  scientifici  che  acquistano  un 
significato  nuovo  per  il  contrasto  tra  le  due  concezioni  del 
mondo  che  venivano  a  trovarsi  di  fronte:  quella  filosofica 
o  greco-arabica,  e  quella  teologica  o  cristiana.  Il  pensiero  teo- 
logico tradizionale  subisce  così  una  crisi  profonda,  che  salta 
agli  occhi  a  chiunque  confronti  gli  scritti  dei  padri  con  quelli 
dei  dottori  scolastici:  a  fianco  della  teologia  rinascono  la  filosofia 
e  le  scienze,  nelle  quali  si  cerca  la  spiegazione  razionale  dei 
fenomeni  della  natura  per  via  di  cause  naturali,  si  afferma 
l'esistenza  di  leggi  naturali  e  si  comincia  ad  esser  più  cauti,  pri- 
ma di  proclamar  miracoloso  un  fatto  che  può  esser  soltanto 
straordinario   e   insolito. 


43  Conciliaior,  diff.   156,  pr.  III. 

44  De  rerum  praenotione,  VII,  e.   7;  v.  sopra,  p.  2^. 


54  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Frutto  dell'  intuizione  teologica  della  natura  e  della  storia 
era  stata  appunto  la  facile  disposizione,  diventata  comune 
nel  medio  evo,  a  vedere  in  ogni  fatto  insolito  l'opera  di  un 
agente  sopra  o  preternaturale.  Ora  è  in  relazione  alla  troppo 
corriva  credulità  popolare  e  alla  pigrizia  dei  teologi  nel  tra- 
scurare la  ricerca  delle  cause  naturali  dei  fenomeni  e  nel  far 
di  Dio  un  «  asylum  ignorantiae  »,  che  va  giudicato  il  pensiero 
di  Pietro  d'Abano  intorno  ai  miracoli,  se  non  vogliamo  fal- 
sarne il  significato  storico.  Egli  non  nega  —  l'abbiamo  detto  — 
né  la  possibilità  né  l'esistenza  di  miracoli.  Tuttavia,  da  uomo 
di  scienza  com'  egli  è,  tenterà  arditamente  di  mettere  in 
luce  la  parte  che,  anche  nell'avvenimento  miracoloso,  spetta 
alle  leggi  naturali,  le  quali  sono,  sì,  sorpassate,  ma  non  mai 
interamente  violate.  Così  egli  dirà  che  «  ex  coniunctione.... 
Saturni  et  lovis  in  principio  Arietis....  totus  mundus  inferior 
commutatur;  itaque  non  solum  regna  sed  et  leges  et  pro- 
phetae  consurgunt  in  mundo  »  45.  Ma  con  questo  non  vuol 
già  dire  che  quella  congiunzione  celeste  sia  causa  totale  ade- 
guata del  sorgere  della  vera  religione  e  dei  veri  profeti  inviati 
da  Dio;  ma  solo  questo,  che  Dio  fa  coincidere  l'evento  sovran- 
naturale coll'ottima  disposizione  degli  elementi  di  cui  le  con- 
giunzioni celesti  son  causa  e  preannuncio.  Che  questo  sia  il 
suo  pensiero,  si  ricava  dall' affrettarsi  che  egli  fa  a  soggiun- 
gere: «Significative  saltem  »  (nel  caso  di  Mosè  e  di  Cristo, 
«  seu  causaliter  in  quibusdam  »  (nel  caso  di  Alessandro  Magno 
e  di  Maometto).  L'ottima  disposizione  dei  segni  celesti  è  causa 
di  quella  «  iustitialis  complexio  »  e  di  quella  «  temperantia  » 
perfetta  degli  elementi  corporei,  che  è  soggetta  all'azione 
divina  («  natura  iubente  divina  »!)  la  quale  suscita  il  profeta. 
E  questa  «  temperantia  »  degli  elementi  egli  riconoscerà  anche 
in  Cristo  ;  ma  logicamente  chiamerà  «  mendaces  »  i  Marabei 
e  Gentile  da  Foligno  perché  costoro  avevano  osato  di  spìe- 
gare  le  azioni  miracolose  di  Mosè,  di  Cristo  e  d'  Elia,  unica- 
mente per  mezzo  delle  ottime  qualità  corporee  46.  In  fondo  il 
pensiero  di  Pietro  coincide  con  quello  del  suo  grande  contem- 
poraneo. Dante,  là  dove  questi  fa  dipendere  i  rivolgimenti 
sociali  dalla  fortuna,  che  non  è  altro  se  non  1'  «  aspectus  su- 


45  Cfr.  sopra,  pp.   32-33;  Duhem,  op.  cit:,  IV,  p.  234,  e  i  miei  Saggi 
di  filos.   dant.,  pp.   55-57. 

46  Cfr.  Conciliator,  diff.  20,  pr.  III. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D'ABANO  55 

percaelestium  »  di  Pietro  d'Abano;  e  quando  lo  stesso  poeta 
vuole  che  il  circolar  delle  costellazioni  fosse  cagione  dell'ottima 
disposizione  della  terra  sotto  lo  scettro  di  Roma,  come  pre- 
parazione e  avviamento  al  cristianesimo  47.  Allo  stesso  modo 
va  intesa  la  dottrina  dell'Abanese  quando  egli  riferisce  il 
diluvio  al  governo  di  Marte,  la  confusione  delle  lingue,  la 
distruzione  di  Sodoma  e  Gomorra,  il  passaggio  del  Mar  Rosso 
al  governo  della  Luna  48.  Né  si  vede  perché  non  si  debba  pren- 
dere sul  serio  la  riserva  che  egli  pone  alla  dottrina  di  Avi- 
cenna, che  tentava  di  spiegarsi  soltanto  coli'  influsso  astrale 
il  potere  che  ha  l'anima  dei  profeti  sulle  altre  anime  e  sugli 
stessi  elementi  della  natura  49. 

7.  -  Al  discorso  sui  miracoli  possiamo  ricondurre  le  consi- 
derazioni del  Ferrari  intorno   alla  «  doppia  verità  »  5°. 

Le  nuove  traduzioni  che  si  fecero  intorno  e  dopo  il  1200 
furono,  come  abbiamo  già  osservato,  la  causa  del  conflitto 
tra  il  pensiero  greco-arabico  e  quello  cristiano  venuti  a  tro- 
varsi improvvisamente  di  fronte.  Si  chiamò  teologia  la  dottrina 
cristiana  del  mondo,  basata  sulla  rivelazione  evangelica  in- 
terpretata per  dodici  secoli  dal  pensiero  dei  padri  e  dal  ma- 
gistero della  Chiesa.  L' insieme,  invece,  delle  dottrine  greco- 
arabiche  derivate  principalmente  da  Aristotele,  il  philosophns, 
il  «  maestro  di  color  che  sanno  »,  e  dai  suoi  commentatori, 
si  chiamò  philosophia.  Alla  filosofia  intesa  in  questo  senso 
ristretto  (poiché  a  rigore  anche  la  teologia  medievale  fu  una 
filosofia),  facevan  capo  le  scienze.  E  si  disse  che  la  filosofia 
aveva  come  criterio  e  metodo  di  ricerca  il  solo  lume  di  ragione, 
mentre  la  teologia  desumeva  i  suoi  principi  dalla  parola  ri- 
velata. In  realtà,  si  trattava  di  un  conflitto  storico  che  ri- 
sorgeva. 

La  sapienza  greca,  la  vana  sapienza  mondana,  sconfitta 
dal  cristianesimo  quando  questo  disse  al  mondo  la  nuova 
parola  che  Platone  e  Aristotele  non  avevan  saputo  dire  al- 
l'umanità travagliata,  —  risollevava  ora  il  capo  per  far  va- 
lere i  diritti  della  ricerca  scientifica  che  il  pensiero  teologico 


47  Convivio,  IV,  5,  23;  Farad.,  XIII,  67-84.  Cfr.  il  mio  Dante  e  P.  d'A. 

48  Conciliaior,  diff.  9. 

49  Ib.,  diflf.   135,  pr.  III. 

50  P.  d'A.,  p.  392  sgg. 


56  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

aveva  praticamente  disconosciuti.  E  ai  popoli  cristiani  del- 
l'occidente, digiuni  di  scienza,  sfoggiava  le  sue  conoscenze 
della  natura,  la  sua  matematica,  la  sua  astronomia,  la  sua  me- 
dicina, la  sua  psicologia,  e  suggeriva  i  mezzi  per  sottomettere 
le  forze  naturali  e  trarne  profìtto.  Conquista,  intanto,  e  crea- 
zione dello  spirito  umano  erano  anch'essi  i  nuovi  dommi 
cristiani,  la  nuova  concezione  della  vita  e  del  mondo,  cioè  la 
teologia.  Ma  un'altra  concezione  della  vita  e  del  mondo 
implicava  la  scienza  greco-arabica.  Fu  così  inevitabile  e 
fatale  il  conflitto  tra  le  due  filosofìe,  la  nuova  filosofìa  cri- 
stiana e  l'antica  filosofia  greca,  la  theologia  e  la  philosophia. 
A  questo  conflitto  storico  si  riconnette  la  così  detta  «  dottrina 
della  doppia  verità»,  quale  si  affermò  nella  coscienza  degli 
scolastici. 

Dei  quali,  salvo  i  pochi  che  si  ostinarono  a  chiuder  le  porte 
al  nuovo  pensiero  greco-arabico,  quasi  tutti  sentirono  quel 
conflitto.  Ma  mentre  la  maggior  parte  cercò  in  qualche  modo 
di  risolverlo,  subordinando  la  scienza  alla  fede,  per  utilizzare 
in  vantaggio  di  questa  il  prezioso  materiale  scientifico  che 
veniva  messo  innanzi  e  non  poteva  più  esser  ragionevolmente 
disconosciuto,  —  altri,  usciti  dalla  scuola  delle  arti  e  che, 
per  r  indole  dei  loro  studi,  non  si  occupavano  di  teologia, 
si  ponevano  e  risolvevano  i  problemi  scientifici  e  filosofici 
nell'ambito  e  in  conformità  del  pensiero  greco-arabico.  Con 
questo  essi  non  pretendevano,  e  non  potevano  logicamente 
pretendere,  che  la  loro  soluzione  di  quei  problemi  fosse  asso- 
lutamente vera,  ma  si  contentavano  di  affermare  che  era  vera 
nell'ambito  del  pensiero  greco-arabico,  e  cioè  necessaria  posti 
i  principi  della  «  philosophia  «.  Alle  obiezioni  dei  teologi,  essi 
rispondevano  appunto  che  il  giudizio  da  loro  espresso  valeva 
«in  philosophia»:  in  fatto  di  teologia  si  dichiaravano  incom- 
petenti. Ma  che  per  loro  quella  della  «  philosophia  »  non  fosse 
la  verità  assoluta,  è  chiaro  dal  soggiungere  che  essi  facevano, 
di  ritenere  poi  il  contrario  come  credenti.  Questo,  bene  in- 
tesi, quando  costoro  erano  sinceri.  Poiché  è  noto  come,  per 
alcuni,  la  distinzione  della  duplice  verità  era  un  pretesto  per 
salvarsi  dalla  taccia  d'eretici;  e  la  quistione,  di  logica  che  era, 
divenuta  così  quistione  pratica,  di  morale. 

In  conclusione,  una  vera  e  propria  professione  di  fede  in 
due  verità  contradittorie  non  ci  fu  mai,  né  ci  poteva  essere, 
perché  è  assurdo  che  ci  fosse.  È  vero,  invece,  che  alcuni  pre- 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D'aSaNO  57 

sere  partito  per  la  ragione  contro  la  fede;  altri  svalutarono  la 
ragione  e  si  salvarono  dal  dubbio  gettandosi  in  braccio  alla 
fede;  altri  infine  si  limitarono  alla  trattazione  dei  problemi 
speciali  delle  scienze  e  della  filosofia  coi  metodi  propri  di  queste, 
e  si  dichiararono  incompetenti  di  fronte  ai  problemi  teologici. 
L'affermazione  della  duplice  verità  fu  ora  tendenza  fideistica 
e  scettica  ad  abbassare  la  ragione  impotente  a  raggiungere 
verità  più  alte;  ora  negazione  palliata  della  fede  e  della  teo- 
logia; ora  dichiarazione  d' incompetenza  in  materie  teologiche, 
da  parte  di  specialisti,  e  rivendicazione  di  libertà  scientifica. 

In  Pietro  d'Abano  non  fu  certo  negazione  d'eretico.  Non 
troviamo  in  lui  nessuna  dichiarazione  come  quella  attribuita 
da  Tommaso  d'Aquino  5 ^  al  suo  avversario  Sigieri:  «Per  ra- 
tionem  concludo  de  necessitate....  firmiter  tamen  teneo  op- 
positum  per  fidem»  ;  e  nessuna  delle  proposizioni  che  il  Ferrari  5^ 
ricorda,  delle  219  colpite  dal  vescovo  di  Parigi  nel  1277,  è  difesa 
dal  Nostro.  Come  medico,  astrologo  e  filosofo  della  natura,  eglisi 
limitò  a  trattare  quistioni  scientifiche  coi  metodi  e  coi  criteri  del- 
la scienza  greco-arabica,  e  cercò  di  evitare,  per  quanto  gli  fosse 
possibile,  l'urto  contro  le  dottrine  teologiche:  esempio,  l'atteg- 
giamento suo  di  fronte  al  problema  dell'eternità  del  mondo,  di- 
nanzi al  quale  gli  averroisti  prima  di  lui  non  conobbero  le  sue 
esitazioni  e  titubanze.  Tuttavia  quando,  tra  le  dottrine  teologi- 
che e  le  spiegazioni  naturalistiche  che  egli  suggeriva  dei  fatti 
miracolosi,  avvertiva  qualche  contrasto,  non  asseriva  mai  che 
la  tesi  filosofica  fosse  indubbiamente  e  assolutamente  vera, 
non  sentenziava  mai  :  «  per  rationem  concludo  de  necessitate  »  ; 
il  che  sarebbe  valso  forse  a  infirmare  implicitamente  qua- 
lunque protesta  di  adesione  alla  fede.  Egli  non  nega,  come 
abbiam  visto,  il  fatto  miracoloso,  lo  limita  solo  in  parte,  sfor- 
zandosi di  determinare  quello  che  in  esso  spetta  alle  cause 
naturali;  non  nega  la  risurrezione  miracolosa  di  Lazzaro, 
ma  deride  la  facile  credulità  di  quei  che  vedono  risurrezioni 
anche  nei  casi  di  morte  apparente;  non  nega  l'esistenza  né 
l'azione  dei  demoni,  ma  si  fa  beffa  dei  teologizzanti  che  ricor- 
rono al  diavolo  per  ispiegare  il  fascino  e  la  magia;  Cristo, 
Elia  e  i  profeti  suscitati  da  Dio  sono,  sì,  strumenti  diretti  della 


"^i  Tractatìts  de  imitate  intellectits  cantra  averroistas,  ed.  crit.  di  L.  W. 
Keeler.  Roma,  1936,  cap.  V,  §  123;  cfr.  la  mia  traduz.  e  commento. 
Firenze,  Sansoni,   1938,  p.   187. 

52  P.  d'A.,  pp.  396-97. 


58  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

causalità  divina  soprannaturale,  ma  questi  strumenti  sono 
stati  preparati  col  concorso  di  cause  naturali,  e  possiedono, 
per  la  privilegiata  influenza  degli  astri  su  di  essi,  virtù  già 
superiori  alle  comuni,  quali  si  sono  rivelate  anche  in  uomini 
che,  secondo  il  pensiero  teologico,  non  ebbero  niente  di  mira- 
coloso, come  Alessandro  Magno  e  Maometto. 

Parrebbe  tuttavia  che  la  dottrina  della  duplice  verità  fosse 
esplicita  affermata  in  due  passi  del  Coiiciliator.  Il  primo  è 
quello  relativo  alla  creazione,  e  noi  ne  conosciamo  già  il  senso 
preciso:  «  ponentes  creationem  »,  cioè  coloro  che  in  ogni  fatto 
naturale,  vedono  un'operazione  divina,  «  etsi  verissimi  sint 
in  lege  »,  cioè,  per  quanto  essi  abbiano  ragione  da  un  punto 
di  vista  teologico  (giacché  la  teologia  mira  appunto  a  ricon- 
durre tutti  i  fenomeni  naturali  all'azione  della  causa  prima), 
«non  sunt  admittendi  in  philosophia»,  poiché  questa  cerca  ilmo- 
do  particolare  e  proprio  di  produzione  di  ciascun  fenomeno  53. 
Qui  non  siamo  di  fronte  a  due  verità  di  cui  una  escluda  l'altra, 
ma  che  posson  benissimo  conciliarsi  fra  loro.  L'altro  passo, 
al  quale  abbiamo  accennato  in  principio,  è  meno  chiaro,  perché 
non  si  sa  bene  a  che  cosa  la  dichiarazione  di  Pietro  si  riferisca, 
se  alla  libera  interpretazione  di  un  passo  biblico  poco  prima 
citato,  o  all'ipotesi  tolemaica  dei  periodi  di  decadenza  e  di 
rinascita  54.  Ma  in  nessuno  dei  due  casi  1'  autore  aveva  in- 
nanzi una  dottrina  filosoficamente  certa  per  lui.  Nel  primo 
caso,  egli  aveva  osato  fare  osservare  che  il  detto  del  Salmista 
a  proposito  della  durata  della  vita  umana,  sebbene  fosse 
vero  ai  tempi  dello  scrittore,  «  non  verificatur  hodie  commu- 
niter  et  usquequaque  ».  Nel  secondo  caso,  l' ipotesi  tolemaica 
era  resa  necessaria,  subordinatamente  alla  supposizione  del- 
l'avversario che  obiettava  ponendosi  dal  punto  di  vista  del- 
l'eternità del  mondo.  Pietro  non  dice  di  ritener  vera  l' ipotesi 
dell'avversario,  che  anzi  aveva  dichiarato  di  non  volerla  di- 
scutere, ma  l'accetta  per  ribattere  «  ad  hominem  »  la  sua 
obiezione  55.  Che  fosse  così,  lo  attesta  il  fatto  che  egli  riuscì  a 
difendersi  dalle  accuse  dei  Giacobiti  e  ne  andò  libero  anche 
per  r  intervento  papale,  intervento  che  diffìcilmente  gli  sa- 
rebbe stato  accordato,  se  l'accusa  d'eresia  avesse  avuto  un 
solido  fondamento. 


53  Cfr.  sopra,  pp.  41   e  44. 

54  Conc,  diff.  9. 

55  Ib. 


LA    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D'aBANO  59 


IV.  —  La  psicologia  di  P.  d'Abano  e  gli  errori  storici 
DEL  Ferrari. 

I.  Due  sviste  del  Ferrari.  —  2.  Unità  e  origine  dell'anima  umana.  — 
3.  L'intelletto  agente  e  possibile  son  potenze  dell'anima  umana 
che  è  forma  del  corpo.  —  4.   Il  preteso  averroismo  di   P.   d'A.  — 

5.  L'intelletto  come  forma  dell'uomo  e  come  potenza  separata.  — 

6.  Immortalità   dell'anima   umana. 

1.  -  Una  propensione  particolare  all'averroismo  avrebbe 
dimostrata  Pietro  d'Abano,  secondo  l'avviso  del  Ferrari, 
nella  dottrina  concernente  l'anima  umana.  Di  questo  punto 
mi  sono  già  occupato  un'altra  volta,  ed  ho  avuto  occasione 
di  mostrare  il  bel  granchio  chiappato  dal  professore  genovese  ^. 
Rileggendo  in  seguito  il  capitolo  del  Ferrari  sulla  psicologia 
del  nostro  filosofo,  mi  sono  accorto  che  i  granchi  presi  da  lui 
son  due:  non  solo  Pietro  d'Abano  non  è  averroista,  ma  il 
Ferrari  inoltre  ha  capito  a  rovescio  l'averroismo,  confonden- 
dolo coll'alessandrismo.  Mi  si  permetta,  dunque,  di  ritornare 
sull'argomento  e  di  completare  quanto  ebbi  a  dire  nel  breve 
cenno  intorno  alla  teoria  dell'anima  secondo  la  mente  del- 
l'Abanese. 

2.  -  Si  chiede  il  Ferrari:  «Tutte  le  funzioni  che  sogliamo 
attribuire  all'anima,  appartengono  a  un  soggetto  immate- 
riale ?  e  qual  è  e  d'onde  viene  questo  soggetto  ?  »  -.  Ora  ve- 
diamo la  risposta  che  egli  dà  a  queste  due  quistioni  così  chiare  : 
«  Nella  differenza  XLVIII,  al  terzo  capo,  descritto  il  formarsi 
del  feto  dal  germe,  Pietro  soggiunge  in  tono  ammirativo: 
Rector  autem  huius  tam  divini  operis  virtus  est  dieta  infor- 
mativa ab  anima  parentis  decisa  in  actum  per  impulsionem 
coeuntis  incitata,  quam  Galenus  appellat  summam  artem  prae- 
sidem  et  intellectivam  sine  mente.  E  procede  distinguendo  l' in- 
telligenza d'un'anima,  d'un  soggetto  razionale,  dalla  intelli- 
genza diacosmica  di  Anassagora;  poi  difendendosi  dai  Giaco- 
biti,  i  quali  fra  l'altro  l'avevano  accusato,  badisi  bene,  di  trarre 
l'anima  intellettiva  dalla  materia;   asserendo  infine  che  alla 


1  Vedasi  in  questo  voi.  il  saggio  I.  Il  Ferrari  [Per  la  biogr.,  p.  14) 
dichiara  di  avere  sdegnato  di  occuparsi  della  mia  precedente  critica, 
e  sembra  intanto  confermare  il  suo  primo  punto  di  vista. 

2  P.  d'A..  p.  341. 


6o  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

virtù  informativa  sopraggiunge  quella  del  nutrimento,  indi 
la  sensitiva,  e  che  la  informativa,  non  avendo  ancora  (?)  un 
suo  organo,  è  già  (?)  in  qualche  modo  immateriale  e  divina. 
L'anima,  diremo  così,  vegetale,  che  plasma  gli  organi  e  li 
nutre,  si  esaurisce  nel  preparare  il  corpo  alla  sensibihtà,  come 
alla  sua  volta  l'anima  sensibile  cessa  di  essere,  quando  la  sua 
opera  è  piena,  e  subentra  l'anima  intellettiva;  non  per  questo 
cessano  le  funzioni  della  vita  anteriore,  che  s' imperniano- 
nella  nuova  forza  avvivatrice,  la  quale  riassomma  in  sé  le 
virtù  antecedenti.  Non  si  tratta  più  di  soggetti  che  persistano 
l'uno  accanto  all'altro,  il  che  farebbe  contro  l'unità  dell'  in- 
dividuo, ma  nemmeno  di  modi  varianti  nell'anima  primitiva, 
altrimenti  il  senso  e  la  ragione  sarebbero  nell'uomo  non  più 
che  una  qualità  accidentale.  Di  qui  si  ricadrebbe  nel  mate- 
rialismo, di  là  in  quello  sbaglio  di  certi  interpreti  di  Aristotile 
che  ne  falsano  il  concetto,  deducendo  dal  persistere  della  virtù 
informativa  da  lui  voluto,  ch'egli  abbia  ammesso  anche  la 
pluralità  simultanea  delle  forme  e  la  gradazione  loro  ...  »  3. 

Sebbene  il  Ferrari  non  abbia  capito  il  concetto  di  «  virtù 
informativa  »,  si  può  dire  che  nel  riassumere  la  sostanza  del 
pensiero  dell'Albanese  sia  stato  in  certo  qual  modo  felice. 
Solo  vorrei  chiedergli:  crede  che  Pietro  in  questo  luogo  del 
Conciliator  esponga  davvero  un'opinione  che  è  anche  sua, 
come  pare  evidente,  o  che  invece  chiarisca  una  dottrina  di 
altri  alla  quale  egli  in  cuor  suo  non  crede  ?  La  domanda  può 
sembrare  impertinente,  ma  è  lecita  e  doverosa,  visto  che  più 
tardi  il  Ferrari  solleverà  dubbi  i  quali  faranno  andare  in 
fumo  tutto  quel  che  ha  detto  ora. 

Parrebbe,  dunque,  dal  modo  di  parafrasare  di  lui,  risolta 
la  prima  delle  due  quistioni,  e  cioè  che  al  termine  dello  svi- 
luppo embrionale,  tutte  le  funzioni  (la  vegetativa,  la  sensitiva 
e  r  intellettiva)  che  sogliamo  attribuire  all'anima,  apparten- 
gano ad  un  unico  soggetto  immateriale. 

Con  questo  però  non  è  ancora  risolta  la  seconda  quistione: 
d'onde  venga  questo  soggetto.  Ed  è  proprio  ad  essa  che  si 
riferiva  l'accusa  dei  Giacobiti.  Poiché  la  virtù  vegetativa  e 
sensitiva  son  tratte  dalla  potenza  della  materia,  mercè  l' in- 
flusso celeste  e  la  virtù  informativa  (e  non,  come  pretende  il 


3  Ibid.,  p.   342. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE     DI    PIETRO    d'aBANO  6i 

Ferrari,  dal  «  dator  delle  forme  »)  4,  potrebbe  nascere  il  dubbio, 
che  Pietro  dalla  potenza  della  materia  traesse  anche  l'anima 
intellettiva.  Tanto  più  che,  parlando  della  virtù  informativa, 
che  è  «  virtus  naturalis  »  dal  cuor  del  generante,  secondo 
Galeno,  Averroè,  Avicenna,  Tommaso  e  Dante,  egli  l'aveva 
denominata,  colle  espressioni  enfatiche  di  Halyabbas,  «  intel- 
lectus  vocatus  »,  «  intellectiva  divina  »,  in  modo  da  rendere 
possibile  l'equivoco.  I  Giacobiti  lo  accusavano,  insomma, 
dell'errore  opposto  all'averroismo,  e  cioè  di  materiaUsmo  5. 

Avevano  ragione  gì'  inquisitori  ?  Era  fondata  l'accusa  ? 
Il  Ferrari  nota  che  Pietro  «  n'esce  colla  distinzione,  altrove 
fatta  e  qui  richiamata  all'uopo,  tra  potenza  prima  e  seconda, 
atto  primo  e  secondo  »  ^.  E  non  s'accorge  che  quella  distin- 
zione nasce  dalla  dottrina  aristotelica  secondo  l' interpreta- 
zione di  Avicenna  e  di  Tommaso  d'Aquino,  che  l'Abanese  fa 
sua  nel  risolvere  il  problema  dell'origine  dell'anima  umana. 
L' intelletto  o  anima  intellettiva  sopravviene,  alla  fine  dello 
sviluppo  embrionale,  «  ab  extrinseco  et  ab  agente  nobilissimo 
ut  deo  glorioso  et  supremo  »,  ed  è  quello  stessissimo  intelletto 
che  succede  al  corrompersi  delle  facoltà  inferiori  che  esso 
contiene  già  virtualmente  in  sé  ". 

3.  -  Tutto  ciò  è  chiaro,  perspicuo,  non  certo  nella  parafrasi 
del  Ferrari,  ma  nel  testo  del  Conciliatr.  Purtroppo  il  Ferrari, 
arrivato  a  un  certo  punto,  ingarbuglia  talmente  le  quistioni 
diverse  e  le  confonde  in  modo  che  finisce  per  non  raccapezzarsi 
più. 

Parlando  dello  sviluppo  della  vita  psicologica  e  di  quel 
passaggio  della  mente  dalla  potenza  all'atto  che,  secondo  un 
principio  generale  della  metafisica  aristotelica,  richiede  un 
doppio  principio  di  moto,  attivo  e  passivo,  il  Ferrari  viene 
a  spiegarci  com'  è  possibile  distinguere  un  intelletto  passivo 
ed  uno  attivo,  materiale  l'uno,  attuale  l'altro.  E  soggiunge: 
«  Rimane  però  difficile  a  rappresentarsi  come  questo  intel- 
letto, che  trasforma  la  vita  anteriore  e  ne  riassorbe  in  sé  il 


4  Ibid.,  p.  343.  La  dottrina  di  Avicenna  del  «dator  formarum  », 
secondo  la  quale  le  forme  del  mondo  infralunare  non  son  tratte  dalla 
potenza  della  materia,  ma  date  dall'  intelligenza  agente,  è  ampiamente 
combattuta  da  Pietro  (cfr.  Conciliator ,  diff.  loi  e  71)  ;  cfr.  sopra,  pp  .14-15 . 

5  Cfr.  sopra,  pp.  4-5. 

6  P.   d'A.,   p.    342.    Cfr.    sotto,   p.   63. 

7  Conciliator,  diff.  48  e  71.  V.  sopra,  p.   8. 


6-2  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

principio  (al  fine  dell'unità  della  coscienza,  o  della  personalità),^ 
possa  contemporaneamente  contrapporlesi  (???)  come  agente 
a  paziente  »  8.  Parrebbe,  dalle  parole  del  Ferrari,  che  l' intel- 
letto che  viene  «  ab  extrinseco  »,  si  contrapponga  alla  vita 
anteriore,  cioè  all'anima  sensitiva,  come  agente  a  paziente; 
e  che  la  vita  sensitiva,  contrapposta  a  questo  intelletto  ve- 
nuto di  fuori,  sia  essa  stessa  l' intelletto  paziente  o  possibile, 
mentre  l' intelletto  che  le  si  contrappone,  sia  l' intelletto 
agente  9.  In  questo  caso  la  difficoltà  nell'  intendere  il  genuino 
pensiero  di  Pietro  c'è,  sì,  sfido  io!  ma  non  dipende  da  oscurità 
che  si  annidi  in  questo  punto  negli  scritti  di  lui,  bensì  dal 
guazzabuglio,  anzi  dallo  scempio  che  il  Ferrari  ne  ha  fatto 
colla  sua  vandalica  chiosa.  L' intelletto  possibile  e  l'agente 
sono  per  Pietro  d'Abano  due  potenze  dell'  anima  intellettiva 
venuta  per  creazione  dal  di  fuori  i".  Colla  sua  interpretazione 
il  Ferrari,  senza  nemmeno  accorgersene,  ha  inteso  la  dot- 
trina di  lui,  né  più  né  meno  degl'  inquisitori  di  Parigi,  nel  senso 
di  quella  d'Alessandro  d'Afrodisia,  da  Pietro  espressamente 
e  a  più  riprese  combattuta.  Altro  che  averroismo  !  L'avventura 
non  poteva  essere  più   amena. 

Continua  poi  il  Ferrari:  «Ma  quali  che  siano  le  obiezioni 
possibili,  così  è  certo  che  concepiva  la  cosa  d'Abanese.  E  chi 
ne  volesse  un'altra  prova  ritorni  con  noi  un  istante  alla  dif- 
ferenza LVII,  a  mezzo  il  capo  terzo  »  ".  Perché  l'erudizione  del 
Ferrari  non  faccia  velo  all'  intelligenza  del  lettore,  riproduco 
il  testo  incriminato  nella  sua  integrità,  rifacendomi  anzi  un 
poco  più  indietro  dal  punto  preso  a  parafrasare  da  lui.  Dopo 
aver  detto  della  virtù  vegetativa  e  sensitiva  e  delle  loro  ri- 
spettive suddivisioni  e  sottospecie,  Pietro  continua: 

Si  vero  absque  [cioè,  se  «  circa  intentionem  seipsam  exercet 
hanc   abstrahendo   a   forma   et   appenditiis   materiae  «],    sic    [est] 


8  P.  d'A.,  pp.  346-347. 

9  Cfr.  sotto,  p.  64. 

'°  È  vero  che  egli  parla  anche  di  un  «intellectus  passivus»  (Problem., 
XIV,  4)  che  identifica  coli'  «  imaginatio  corruptibilis  ».  Ma  questo  è 
distinto  dall'  intelletto  possibile  propriamente  detto,  e  corrisponderebbe, 
secondo  Averroè  e  Tommaso  d'Aquino,  al  Tra'&ETixò);  voùc;  (fQ-(x.pz6i; 
De  anima  aristotelico  (III,  e.  5,  430»  25),  che  sarebbe  poi  la  fantasia. 
Cfr.  la  mia  introduzione  a  S.  Tommaso  d'Ag.,  Trattato  sull'unità  del- 
l'intelletto. Firenze,  Sansoni,   1938,  p.  22. 

Ji  In  realtà  il  passo  parafrasato  dal  Ferrari  si  trova  nel  Conciliator, 
diffi.   57,   pr.    I. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D'aBANO  63 

virtus  rationalis  vel  humana  quae  est  perfectio  praetacti  organici 
corporis  cum  deliberatione  vel  meditatione,  universalia  susci- 
piens.  Et  haec  [est]  duplex:  una  quidem  speculativa  et  altera 
activa  quae  principium  est  movens  ad  actiones  cogitationis  sin- 
gulas  ».  E  dopo  aver  suddistinto  questa  «  virtus  activa  ratio- 
nalis »,  ritorna  a  parlare  della  prima:  «  Speculativa  vero  est  virtus 
quae  informatur  a  forma  universali  nuda  a  materia.  Duplex 
autem  haec  existit:  et  potentia  et  actu.  Potentia  quoque  triplex 
est.  Quaedam  enim  absolute,  remota  non  parum  ab  actu,  nia- 
terialis  dieta,  velut  infantis  potentia  ad  scrivendum.  Est  et  alia, 
minus  distans  hac  ab  actu,  potentialis  nominata,  ceu  pueri  po- 
tentia ad  scribendum  cum  instrumenta  cognoverit  scripturae. 
Tertia  vero  est  adhuc  proprior  hac  actui,  perfectionis  dieta,  cum 
scriptor  non  scribit  perfectus....  Quibus  quidem  potentiis  triplex 
proportionatur  intellectus,  ut  materialis,  nullam  habens  formam 
sed  subiectum  existens  omnis,  ut  ipsius  potentia  prima.  Est  et 
alius,  relatus  potentiae  secundae  ut  cum  in  potentia  materialis 
habente  de  intelligibilibus  per  se  nota,  ex  quibus  acceditur  ad 
intelligibilia  secunda  ex  eis  nota...;  et  hic  intellectus  est  poten- 
tialis dictus,  ut  eius  potentia.  Tertius  quoque  est  dictus  perfe- 
ctionis intellectus,  qui  potest  actu,  cum  voluerit,  intelligere. 
Et  hic  triplex  potest  ab  Aristotele  intellectus  potentialis  dici. 
Cum  autem  is  actu  intelligit,  intelligens  se  intelligere,  intellectus 
est  appellatus  in  effectu,  et  tunc  sibi  coniungitur  et  unitur  intel- 
lectus dictus  accommodatus  ab  extrinseco  [Avicenna,  I  De  animai, 
vel  acquisitus  ut  ab  intelligentia  quam  posuit  [Avicenna]  agen- 
tem....  12  Et  ideo  intellectum  non  posuit  alium  agentem  animae 
partem,  sicut  neque  Plato,  cum  posuerit  is  per  se  universalia 
subsistere.  Intellectus  autem  qui  naturam  habet  actus,  secundum 
Aristotelem,  est  agens,  animae  pars  existens  huìnanae,  se  habens 
ad  potentialem  ut  lumen  ad  colores.  Ipse  namque  materialibus 
iinmersa  et  dispositionibus  individualibus  coniuncta,  ut  species 
eorum,  extrahit  et  reponit  in  possibileni  intellectum  et  super 
eundem  proiiciens  lumen   actu   reddit  intelligibilem. 

Dal  passo  qui  riferito  risulta  nella  maniera  più  limpida: 
i)  che  r  intelletto  possibile  lungi  dall'essere  la  facoltà  sensi- 
bile, è  una  potenza  compresa  sotto  la  «  virtus  rationalis  spe- 
culativa ))  ;  2)  che  perfino  1'  intelletto  agente  (a  più  forte  ragione 
dunque  il  possibile)  è  parte  dell'anima  umana,  e  ciò  contro 
Avicenna  che  ammetteva  1'  «  intelligentia  agens  separata  », 
e  contro  Platone  per  il  quale  gli  universali  sono  per  sé  sussi- 
stenti. Il  Ferrari,  invece,  arrivato  alla  fine  dell'arcibarocca 
parafrasi  che  ha  fatto  di  questo  passo  così  chiaro,  sentenzia 
colla  più  accademica  flemma  che  «  nella  mente  »  del  nostro 


"  Cfr.  sopra,  pp.    ii-i: 


64  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

autore  prevale  la  teoria  averroistica  !  E  che  cosa  intenda  per 
averroismo  il  Ferrari,  abbiamo  già  indovinato.  Ma  egli  ce  lo 
dirà  ora  più  chiaramente. 

4.  -  Egli  si  chiede  '3  :  «  La  sostanza  di  cui  nell'uomo  l' intel- 
letto è  l'attività,  sembra  veramente  dopo  tutto  ciò  qualche 
cosa  d' immateriale  ?»  E  risponde:  «  Pietro  d'Abano  potrebbe 
aver  creduto  che  fosse,  ma  per  fede  cristiana  o  per  altro  senti- 
mento, non  per  effetto  dei  suoi  commenti  ad  Aristotile  o  delle 
argomentazioni.  La  sostanzialità  e  l' immortalità,  dal  sin  qui 
detto,  dovrebbero  essere  ascritte  al  solo  intelletto  agente,  o 
essenzialmente  a  lui...,  il  complesso  delle  altre  funzioni  che 
r  intelletto  accentra  in  sé  nella  formazione  della  nuova  anima, 
è  tutto  di  cose  caduche.  L'anima  dei  bruti  non  è  una  sostanza 
immateriale,  né  imperitura.  Or  Vumanità  dipendendo  tutta 
à.'aR'intelletto  agente,  è  questo  che  conta  anche  per  l'essenza  '4  », 
Il  Ferrari  non  s'accorge  che  tutto  ciò,  se  fosse  vero,  sarebbe 
del  più  puro  alessandrismo,  che  non  avrebbe  niente  che  vedere 
colla  dottrina  di  Averroè,  il  quale  (sta  scritto  fin  sui  boccali 
di  Montelupo)  «  fé,  disgiunto  dall'anima  il  possibile  intelletto  ^s». 

Del  resto,  noi  sappiamo  ormai  che,  per  l'Abanese,  anche 
r  intelletto  agente  di  Aristotele  non  è  affatto  separato,  come 
pretendevano  l'Afrodisio  ed  Avicenna,  seguiti  da  alcuni  sco- 
lastici, ma  «  animae  pars  existens  humanae  »,  di  quell'anima 
intellettiva  che,  venuta  per  creazione  «  ab  extrinseco  »,  sì 
tosto  come  l'articolar  del  cerebro  è  perfetto,  si  sostituisce  alle 
precedenti  forme  vegetativa  e  sensitiva,  e  che  è,  quindi,  tutta 
intera  atto  del  corpo. 

5.  -  Ma  vi  sono  altri  luoghi  del  Conciliator  dov'  è  parso  al 
Ferrari  di  scorgere  una  forte  tendenza  all'averroismo.  Il  primo 
è  nella  differenza  LVIII.  Parlando  della  virtù  motrice  dell'or- 


13  P.  d'A.,  p.   347. 

14  Ib..  p.   348.  ~ 

15  Dante,  Purg.,  XXV,  61-66.  La  controversia  averroistica  riguardava 
r  intelletto  possibile.  E  Tommaso  d'Aquino,  che  fu  il  più  strenuo  avver- 
sario dell'averroismo,  osserva  che,  se  gli  averroisti  si  fossero  contentati 
di  concepir  separato  solo  l' intelletto  agente,  la  loro  teoria,  per  quanto 
falsa,  non  sarebbe  assurda:  «Forte....  de  agente  hoc  dicere,  aliquam 
rationem  haberet,  et  multi  philosophi  [anche  tra  gli  scolastici]  hoc 
posuerunt  »  {Traci,  de  unitale  intellectus ,  cantra  averroistas,  e.  IV,  §  86, 
e  la  mia  nota  a  questo  luogo,  e  quanto  si  legge  in  «Giorn.  Crit.  d.  Filos. 
Ital.  »,  XX,   1939,  pp.   360-362.  Cfr.   Quaestio  dispuf.   de  anima,   a.   5). 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D'ABANO  65 

ganismo  vivente,  non  è  affatto  vero  che  Pietro  s'aiuti  col  pa- 
ragone degli  astri  a  metter  d'accordo  il  suo  concetto  del  cer- 
vello coll'altro  del  cuore.  Esposto  il  processo  circolare  onde 
r  impressione  esterna  verso  i  centri  interni  suscita  una  rea- 
zione motiva  di  questi  verso  l'esterno,  egli  sente  il  bisogno, 
per  fare  intendere  la  natura  del  moto  animale,  di  distinguere 
le  varie  specie  di  moto,  che  sono  due:  il  moto  naturale  e  quello 
violento.  Il  moto  naturale  è  attivo  o  passivo.  Attivo,  è  quello 
proprio  degli  animali;  passivo,  quello  dei  leggieri  e  dei  gravi 
e  delle  sfere  celesti.  Ma  ecco  il  passo  originale  che,  per  fortuna, 
è  ben  chiaro: 

«  Motus  etiam  multiplex  existit.  Naturalis  quidem,  cuius 
principium  est  ab  intra,  sive  passivum  sit,  ut  gravium  et  levium...; 
haec  enim  non  habent,  proprie,  principium  activum  intra,  verum 
magis  inditum  ab  extra;  gravibus  enim  et  levibus  generans  mo- 
tum  indidit,  quod  extra  permanet...;  caelestia  etiam  moventur 
per  principium  separatum  quod  est  in  eis,  [Averrois],  tractatu 
De  substantia  orbis;  ipsum  namque  est  ab  eis  separatum  essen- 
tialiter  [contro  coloro  che  ammettevano  l'animazione  dei  cieU], 
coniunctum  tamen  secundum  virtutem  et  in  eis  situatum;  per 
quem  fortassis  modum  ponitur  caelum  [ab  Aristotele],  //  caeli 
et  mundi,  animatum  fore  [animato  cioè  impropriamente]  ;  aut 
secundum  plurimos  [Avicenna  e  coloro  che,  contro  Averroè, 
ammettevano  un'animazione  dei  cieli  in  senso  proprio],  per  eius 
animam  cui  exterior  intelligentia  virtutem  influit  suam  [per 
quem  modum  arbitratus  est  Comm.entatoy,  substantiam  quandam 
separatum  [1'  intelletto  possibile  !]  hominis  cogitativam  impri- 
mere et  infliiere)  '6  ». 

Il  cenno  fugace,  contenuto  in  questa  parentesi,  alla  dottrina 
averroistica  fa  sussultare  il  cuore  del  Ferrari,  che  osserva  su- 
bito :  «  L'opinione  del  grande  commentatore  passa  senza  una 
nota  di  biasimo;  potremmo  anzi  dire  che  è  lodata  (?!)  per  il 
solo  fatto  che  la  sua  citazione  serve  a  rischiare  una  tesi  gra- 
dita all'autore  »  ^7.  Quale  tesi  ?  Quella  avicennistica  dell'ani- 
mazione dei  cieU  ?  Ma  l'autore  non  si  pronunzia  su  di  essa, 
sebbene  la  dica  molto  comune  a  suo  tempo.  Il  vero  è  che,  nel 
testo  citato,  si  fa  appena  un  paragone  oggettivo  tra  il  modo 
di  agire  dell'  intelligenza  separata  sull'anima  della  sfera  (se- 
condo Avicenna),  e  la  dottrina  di  Averroè  circa  l'azione  del- 


*6  Lo  scempio  che  di  questo  passo  ha  fatto  il  Ferrari,  riassumendolo, 
è  indescrivibile. 

17  P.  d'A.,  p.  349. 


66  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

r  intelletto  possibile  separato  sulla  virtù  fantastica  dell'  uomo 
che  dicesi  «  cogitativa  ».  È  falso  che  la  citazione  serva  a 
rischiare  una  tesi  gradita  all'autore. 

Ma  più  comico  è  quel  che  vien  dopo.  Udiamo  il  Ferrari: 
«  Le  presunzioni  crescono  »  (quali  fondate  presunzioni  abbiamo 
visto  !)  «  almeno  da  questa  parte,  e  più  ancora  crescono  quando 
si  confronta  l'altro  luogo  riflettente  lo  stesso  tema  in  principio 
quasi  dell'opera.  Dove  Pietro  parla  della  natura  della  scienza 
e  dell'universale,  si  sofferma  eziandio  a  dar  ragione  dal  valore 
dei  concetti,  che  sarebbe  nullo,  se  non  rispondessero  nelle 
varie  menti.  Il  concetto,  in  quanto  è  vero,  è  uguale  per  tutti; 
e  dunque  la  facoltà  conoscitrice  del  vero  è  qualche  cosa  di 
comune,  di  obiettivo,  di  universale «i^.  H  qual  discorso  vor- 
rebbe essere  ricavato  da  un  passo  che  il  Ferrari,  secondo  il 
suo  costume,  parafrasa,  e  che  io  invece  preferisco  riportare 
nella  sua  nitida  chiarezza  originale:  «  Noster....  intellectus 
secundum  quod  est  aliquid  naturae  animae,  dicitur  indivi- 
duus;  tamen  prout  emittit  actiones  intelligendi  esse  in  virtute 
notatur  universali:  et  hoc  modo  universalia  sunt  in  ipso, 
quoniam  sic  est  abstractivus  et  denudativus  formarum,  sicut 
lux  corporalis  colorum.  Licet  ergo  individuus  ponatur  secun- 
dum quod  est  forma  hominis,  tamen  secundum  suam  pote- 
statem,  in  quantum  est  potentia  lucis  spiritualis,  universalls, 
est;  nam  etiam  universalia  sunt  in  intellectu  sicut  forma  in 
materia,  vel  accidens  in  subiecto))i9.  Il  concetto  qui  espresso 
non  ci  è  affatto  nuovo.  Anche  su  questo  punto  Pietro  d'Abano 
fa  sua  la  tesi  tomistica  contro  l'averroismo,  e  il  suo  discorso 
procede  spedito,  senza  le  altalene  e  le  tergiversazioni  eclet- 
tiche che  vi  scorge  il  Ferrari:  l' intelletto  è  individuale  in  quanto 
è  parte  dell'anima  che  è  forma  dell'uomo;  ma  è  universale, 
in  virtute,  per  la  sua  capacità  ad  elevarsi  sopra  la  materia. 

Ma  l'Abanese  si  fa  un'obiezione:  «  Contingit  autem  circa 
hoc  dubitare:  cum  nihil  agat  ultra  speciem,  intellectus  igitur 
individuus  speciem  non  poterit  universalem  concreare  ».  Il 
tenore  dell'obiezione  stessa  fa  supporre  che  egli  avesse  accet- 
tata la  dottrira  esposta  nei  luoghi  ora  citati.  Ma  udiamo  come 
risponde  alla  difficoltà:  «  Dicendum  quod  id  prave  ponentes 
unitatem  intellectus  non  sic  angit,  sed  veritatem  pluralitatis 


i8  Ibid. 

^9  Conciliator,  diff.  3. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    d'aBANO  67 

ipsius  profitentes  cum  lege  »  -o.  L'osservazione  è  verissima; 
sono  anzi  gli  averroisti  stessi  che  fanno  quell'obiezione  alla 
dottrina  opposta  professata  dall'Abanese  ^i.  Qual  meraviglia, 
che  non  ne  siano  imbarazzati  ?  Pietro,  per  altro,  il  quale 
finora  ha  esposta  e  fatta  sua  la  dottrina  dei  «  veritatem  plu- 
ralitatis  ipsius  [intellectus]  profitentes  cum  lege  »,  accenna 
anche  al  modo  di  eludere  l'obiezione  averroistica:  «Et  ideo 
dicunt  quod  intellectus  tripliciter  homini  counitur  :  uno  quidem 
modo,  ut  natura  dans  esse,  et  ideo  individuus;  aliter  ut  po- 
tentia  per  quam  est  operatio  intelligendi,  et  sic  universalis 
est  virtus  (id  tamen  videtur  contra  Aristotelem....  negantem 
passionem  nunquam  plus  subiecto  fore  abstractam)  ;  quod 
et  per  se  dicam  verificari:  virtus  enim  visiva  materialis  obiecto 
suscitata  et  medii  dispositione,  coextenditur  in  immensum  » 
ecc.,  che  è  la  precisa  risposta  tomistica  alla  difficoltà.  Tuttavia, 
siccome  la  quistione  è  trattata  qui  incidentalmente,  e  poiché  la 
trattazione  di  essa  avrebbe  portato  troppo  in  lungo  la  paren- 
tisi  aperta,  l'Abanese  conclude:  «Quia  igitur  haec  difficilior 
est  tractatio  quam  negocium  praesens  exquirat,  nunc  tantum 
sufiìciat  dixisse  ». 

Giunti  a  questo  punto,  siamo  in  grado,  mi  pare,  di  apprez- 
zare il  giudizio  generale  del  Ferrari  sulla  teoria  esposta,  giu- 
dizio in  cui,  non  solo  è  ribadita  la  confusione  tra  averroismo 
e  alessandrismo,  ma  dove  la  fantasia  di  lui  si  fa  pindarica: 
«  Per  più  parti  egli  [Pietro]  ritorna  adunque  a  quell'unità 
delle  intelligenze  che  insegnarono  l'Afrodisio  e  Temistio,  ri- 


20  Conciliator,  1.  e.  —  Il  Ferrari  qui  osserva,  non  si  sa  perché:  «Farmi 
che  non  ci  sia  mestieri  d'altre  parole  per  scorgere  ch'ei  propendeva  per 
l'avverroismo  ».  E  in  nota  rincalza:  «  Io  credo  che  il  prave  e  il  veritatem 
non  faran  velo  al  giudizio  di  alcuno,  ma  saranno  presi  per  una  osten- 
tazione con  ufficio  di  scudo.  Se  no,  domanderei:  ma  perché  fu  dunque 
accusato  ?  »  ecc.  ecc.  (P.  d'A.,  p.  350).  O  bella  !  ma  fu  accusato,  e  in- 
giustamente, dell'errore  opposto  all'averroismo.  Curioso  poi  quel  Fer- 
rari: se  l'Abanese  ricorda  appena  di  sfuggita  una  sentenza  di  Averroè 
senza  censurarla,  è  avverroista  perché  la  lascia  passare  senza  una  nota 
di  biasimo;  se  la  biasima  e  la  dichiara  prava,  la  sua  è  un'ostentazione 
con  ufficio  di  scudo!... 

21  «  Mirum  est....  ponere  potentiam  separatam  et  substantiam  uni- 
tam  »,  dice  Sigieri  di  Brabante  [De  anima  intectiva,  ed.  Mandonnet, 
Louvain,  1908,  pp.  152-153).  Ma  su  questo  argomento  son  tornato 
di  poi,,  nell'articolo  Alberto  Magno  e  S.  Tommaso,  in  «  Giorn.  Crit.  d. 
Filos.  Ital.  »,  XXII,  1941,  pp.  41-43,  e  nello  studio  La  posizione  d'Al^ 
berto  Magno  di  fronte  all'averroimo,  in  «  Riv.  di  Storia  della  Filosofìa  »^ 
II,   1947,  pp.   210-213. 


68  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

ponendone  la  comune  sorgente  in  Dio,  e  che  press'a  poco  tutti 
i  grandi  filosofi  e  i  poeti  ammisero  da  Anassagora  in  poi.  Sal- 
voché  di  mezzo  c'era  stato  il  realismo  grossolano  de'  Padri 
della  chiesa  latina  [per  es.  S.  Agostino  !]  in  psicologia,  che 
aveano  ripreso  la  quistione  calcando  sull'antitesi  di  corpo  e 
d'anima  [e  chi  più  di  Averroè  aveva  opposto  tra  loro  l' intel- 
letto e  l'organismo  umano  ?  !].  Ei  volle  uno  speciale  soggetto 
all'attività  intellettiva,  come  lo  richiese  Averroè  per  la  ra- 
gione impersonale  !...  »  -2. 

6.  -  Come  abbiamo  visto,  il  Ferrari  si  era  posto  anche  il 
problema  dell'  immortalità  personale  ;  problema  che  ora  viene 
ad  avere  una  soluzione  conforme  al  concetto  che  egli  si  è  fatto 
della  natura  dell'anima  umana  23  :  «  Nell'anima  razionale.... 
ci  troviamo  di  fronte  ai  due  termini  d'una  distinzione  reale: 
di  qua,  i  dati  della  percettività  e  della  fantasia  sensibih,  di  là 
r  intelletto  agente.  Or  quelli  e  la  rispettiva  facoltà  andrebbero 
perduti  collo  spengersi  degli  organi;  così  dovrebbe  avvenire, 
e  così  Pietro  insegna  che  avviene,  aggiungendo  a  chiare  note, 
vedemmo,  che  pur  quella  parte  dell'  intelletto  corrompesi, 
la  quale  ha  una  specie  di  organo  interno  nella  facoltà  immagi- 
nativa. Resta  r  immortalità  dell'  intelletto  agente  ;  ma  questo 
non  ha  nulla  di  personale.  Esso  non  è  che  la  presenza  nell'or- 
ganismo vivente  di  quella  ragione  che  illumina  e  pervade 
tutte  del  pari  le  anime  umane  ».  E  poco  prima  aveva  detto, 
riferendosi  a  un  passo  dei  Problemi  :  «  Se  anche  l' intelletto 
possibile  non  ha  alcun  organo  corporeo,  tuttavia  si  corrompe 
anch'esso  e  disperde,  quando  gli  vien  meno  coll'organismo  il 
substrato  dell'  immaginativa  su  cui  si  erigeva  ». 

Se  il  Ferrari  non  avesse  a  sua  scusa  una  perfetta  ignoranza 
della  storia  della  filosofia,  dovrei  parlare  d' impudenza.  Il 
passo  dei  Problemi -4  suona  così:  «Etsi  intellectus  possibilis.... 
nullum  habeat  organum  in  corpore...,  corrupto  quodam  inte- 
riori, ut  organo  imaginationis,  intelligere  et  considerare  emar- 
cescunt  ».  Non  1'  intelletto  possibile  perisce,  ma  la  funzione, 
l'atto  dell'  intendere,  in  conformità  del  principio  della  psico- 


22  p.  ci' A.,  p.  350. 

23  Ibid.,  p.  351. 

M  Partic.  XIV,  4.  Del  resto  il  concetto,  anche  nella  sua  enuncia- 
zione verbale,  è  d'Aristotele,  De  anima,  I,  e.  4,  4086  24-29,  e  se  ne  può 
vedere  il  commento  tomistico,  lezione  io*. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    d'aBANO  69 

logia  aristotelico-tomistica,  che  non  vi  è  atto  d'intendere  senza 
fantasma.  O  che  non  ha  letto  il  Pomponazzi,  il  padovano  Fer- 
rari ? 

Dopo  questo  scempio  della  storia,  egli  ha  ancora  il  coraggio 
di  scrivere  :  «  Non  si  dica  perciò  che  Pietro  negasse  l' immor- 
talità dell'animo  autocosciente  !  ».  Ma  come  ?  !  Sicuro  :  «  Se 
questo  non  era  definitivamente  sottratto  alla  morte  per  ne- 
cessità metafisica,  potrebbe  egli  aver  pensato  che  fosse  per  altre 
ragioni»  25. 

Così,  a  forza  di  dire  e  disdire,  l'equivoco  si  distende  su 
questa  come  sulla  quistione  conclusiva,  se  dunque  Pietro 
d'Abano  appaia  un  materiaHsta  ^^.  Domanda  superflua  se 
l'Abanese  fu  un  averroista  o  semplicemente  incUnò  all'aver- 
roismo; legittima,  invece,  ma  facilissima  ad  esser  soddisfatta, 
se  con  Alessandro  d'Afrodisia  egli  distinse  l' intelletto  pos- 
sibile, corruttibile  e  materiale,  da  quello  agente  che  è  la  luce 
divina  la  quale  resta  estranea  alla  mente  umana  e  separata  per 
natura  dall'anima.  Se  non  che  Pietro  d'Abano  non  fu  né 
averroista  né  alessandrista ;  egli  fu,  in  psicologia,  un  aristotelico 
al  modo  di  Tommaso  d'Aquino. 

V.   —  Conclusione.  -  Il  pensiero  scientifico   di  Pietro 
d'Abano  in  rapporto  alla  teologia. 

Giunto  alla  fine  di  questo  breve  studio,  che  tendeva  a  dis- 
sipare false  o  esagerate  o  tendenziose  interpretazioni  delle 
dottrine  filosofiche  del  grande  medico  padovano,  sento  il 
dovere,  a  sgravio  di  coscienza,  di  precisar  meglio  il  giudizio 
che,  a  mio  parere,  s'  ha  da  portare  sul  pensiero  autentico  di 
lui;  giudizio  che,  forse,  il  tono  polemico  dei  capitoli  precedenti 
potrebbe  fare  apparire  non  meno  esagerato  ed  ingiusto  di 
quelli  da  me  discussi.  In  altre  parole,  non  vorrei  che  mi  toc- 
casse di  far  la  figura  di  quegli  avvocati  i  quali,  nel  patrocinare 
la  causa  del  loro  protetto,  si  accalorano  sino  a  far  di  questo 
un  modello  di  tutte  le  virtù,  qualche  cosa  come  sarebbe  a  dire 
uno  stinco  di  santo. 

Non  a  questo  io  intendevo.  Se  a  me  pare  enorme  il  giudizio 
che  il  Ferrari  pronunciò,  accogliendo  l'opinione  di  Michelangelo 


25  P.  d-A.,  p.  351. 

26  Ihid. 


70  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

Zorzi',  —  che  ve  ne  fosse  d'avanzo,  ne'  suoi  libri  men  contesta- 
bili, per  condannar  Pietro  come  eretico,  —  non  per  questo  riten- 
go che  il  pensiero  dell'Abanese  sia  conforme  in  tutto  allo  spirito 
delle  scuole  teologiche  dei  suoi  tempi;  e  segnatamente  mi  guar- 
derei bene  dal  farne  un  tomista,  come  il  Ferrari  mi  ha  rimpro- 
verato -,  sebbene  con  Tommaso  egli  si  trovi  d'accordo  su  più 
d'una  dottrina  e  in  particolare  nel  modo  di  concepire  l'origine 
e  la  natura  dell'anima  umana. 

Eretico  non  fu  Pietro  d'Abano,  e  d'eresie  formali,  dal  punto 
di  vista  della  teologia  medievale,  nei  suoi  scritti  a  noi  noti, 
non  v'  è  traccia  3.  Ma  se  nessuna  delle  dottrine,  che  abbiamo 
passate  in  rassegna,  può  dirsi  formalmente  eretica,  tale  cioè 
da  meritare  la  condanna  inflitta  alle  sue  ossa,  ve  ne  sono  due, 
nondimeno,  che  l'eresia  contenevano  in  germe,  un'eresia 
latente,  che  non  doveva  tardar  molto  a  diventare  aperta  e 
formale. 

La  prima  consiste  nell'affermare,  che  la  scienza  umana 
possiede  un  proprio  metodo  e  propri  principi  razionali  diversi 
da  quelli  della  teologia,  e  che  nella  ricerca  delle  cause  dei  fe- 
nomeni naturali  non  s'  hanno  da  introdurre  concetti  teologici 
e  agenti  soprannaturali.  La  seconda  di  queste  due  dottrine 
vuole  che,  anche  ciò  che  teologicamente  è  detto  miracolo, 
non  accada  del  tutto  fuori  dell'ordine  naturali,  e  Dio  si  giovi, 
pur  nell'effettuazione  del  miracolo,  del  concorso  delle  cause 
naturali  e  quasi  inserisca  il  fatto  meraviglioso  nella  serie  degli 
agenti  naturali;  cosicché  anche  dei  fatti,  che  la  teologia  attri- 
buisce all'azione  diretta  di  Dio,  sia  possibile,  entro  certi  li- 
miti, una  spiegazione  scientifica. 

Se  non  che  dell'eresia  che  si  annidava  in  queste  due  dot- 
trine strettamente  connesse  fra  loro,  Pietro  d'Abano  non  è. 


1  P.  d'A.,  p.  131.  Al  giudizio  del  Ferrari  s'è  ispirato  anche  il  Gen- 
tile, La  filosofìa  italiana  (nei  Generi  letterari  del  Vallardi),  lib.  II,  cap.  I. 
Noto  invece  con  piacere,  che  importanti  riserve  sull'averroismo  di  P.  d'A., 
ha  fatto  il  Baumgartner  nella  lo^  ediz.  dell'  Ueberweg  [Grundriss 
der  Gesch.  der  Philos.,  II,  Philos.  dar  patrist.  u.  scholast.  Zeit.  (io*  ed. 
hrgg.  von  Dr.  Matthias  Baumgartner),  Berlino,   1915,  pp.  546-547). 

2  In  una  nota  del  suo  scritto  più  volte  citato.  Per  la  biografia  ecc., 
p.   14,  ove  sdegna  nominarmi. 

3  E  d'altra  parte  non  abbiamo  nessun  indizio  d'un  insegnamento 
essoterico  di  Pietro  diverso  dall'acroamatico,  quale  Aulo  Gelilo  e  Ci- 
•cerone  attribuivano  ad  Aristotele.  Sì  che  il  problema  che  si  pone  il 
Ferrari,  P.  d'A.,  p.  438,  perché  le  opere  del  nostro  non  furon  messe 
all'  Indice,  appare  inconsistente. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D  ABANO  7I 

in  fondo,  più  colpevole  di  Tommaso  d'Aquino  e  della  maggior 
parte  dei  teologi  della  seconda  metà  del  secolo  XIII. 

Parlando  della  dottrina  della  duplice  verità,  abbiamo  visto 
quale  ne  fosse  l'origine  e  il  signiùcato  storico.  Dopo  che  il 
pensiero  greco-arabico  si  fu  rivelato  nell'occidente  latino  per 
mezzo  delle  traduzioni  condotte  a  termine  nei  primi  decenni 
del  secolo  XIII,  si  finì,  in  capo  a  pochi  anni,  e  a  malgrado  dei 
ripetuti  divieti,  da  parte  delle  autorità  ecclesiastiche,  per 
accoglierlo,  pur  con  le  dovute  riserve  e  cautele.  Una  volta  in 
possesso  della  ricca  enciclopedia  che  poneva  innanzi  ai  cupidi 
sguardi  dei  latini,  avidi  di  sapere,  un  così  ricco  materiale 
scientifico,  fino  allora  sconosciuto,  e  che  allargava  gli  oriz- 
zonti alla  loro  conoscenza  del  mondo  della  natura,  non  si 
potè  fare  a  meno  di  ammettere  la  legittimità  della  ricerca 
scientifica  accanto  a  quella  teologica.  Nacque  così  la  distin- 
zione tra  filosofia  e  teologia:  l'una,  espressione  del  pensiero 
greco-arabico  e  fondata  sulla  ragione  umana;  l'altra,  basata 
sulla  verità  divina  della  rivelazione  cristiana  4.  La  Phtlo- 
sophia  humana,  dice  Tommaso  (e  cito  lui  solo  per  tutti),  con- 
sidera le  cose  create  in  se  stesse,  secondo  la  loro  propria  ed  in- 
trinseca natura,  e  le  loro  proprietà;  la  teologia,  invece,  ossia  la 
doctrina  /idei  christianae,  le  riguarda  in  quanto  sono  da  Dio 
e  in  quanto  risulta  in  esse  una  qualche  somiglianza  colla  divina 
natura  e  sono  ordinate  a  Dio  come  a  fine  ultimo  di  tutte  le 
cose  ?.  Inoltre,  le  due  discipline  differiscono,  egli  dice,  perché 
(si  noti)  «  per  alia  et  alia  principia  traduntur  »  6;  ossia,  com'  è 
ripetuto  altrove  7,  per  il  «  diversus  cognoscendi  modus  ».  Il 
filosofo,  infatti,  «  argumentum  assumit  ex  propriis  rerum 
causis  »,  secondo  che  le  verità  filosofiche  «  sunt  cognoscibilia 
lumine  naturalis  rationis»;  il  teologo,  invece,  desume  il  suo 
modo  di  argomentare  «  ex  causa  prima  »,  secondo  che  le  verità 
teologiche  «  cognoscuntur  lumine   divinae  revelationis  ». 

San  Tommaso,  è  vero,  dopo  aver  distinto  filosofia  e  teologia, 
ragione  e  fede,  subordina  poi  il  primo  termine  di  ciascuno  di 
questi  binomi  al  secondo;  ma  la  stessa  distinzione  dimostra 
che  egli  riconosce  la  legittimità  della  ricerca  scientifica  e  dei 
metodi  propri  ed  intrinseci  di   questa.   Anche  subordinata, 


4  Cfr.    sopra,    pp.   44,   53,    56-58. 

5  Cfr.    Cantra  gentiles,    II,    e.    4. 

6  Ibid. 

7  S.  iheoL,  I,  9,   i,  a.   i,  ad  2  um. 


72  l'aristotelismo    padovano    L>AL    secolo    XIV    AL    XVI 

anche  ancilla  e  jamula  della  teologia,  la  filosofia  è  riconosciuta 
indipendente  da  quella  e  autonoma  entro  la  propria  cerchia 
di  ricerche  naturali.  Così,  non  ostante  tutti  i  tentativi  più  o^ 
meno  ingegnosi  per  unificarle,  quella  filosofia  e  quella  teologia 
non  rimanevano  meno  distinte,  se  non  opposte,  per  i  loro 
metodi  propri  di  ricerca  e  per  il  loro  spirito. 

In  questa  distinzione,  accettata  da  tutti  i  teologi  medievali 
del  tempo  di  Pietro  d'Abano,  era  il  germe  latente  dell'eresia 
di  cui  a  torto  si  vorrebbero  render  responsabili  solo  i  veri  o 
pretesi  averroisti.  Una  volta  proclamata  la  legittimità  della 
ricerca  razionale  e  filosofica,  per  mezzo  di  metodi  propri  e  di- 
versi da  quelli  teologici,  quale  autorità  teologica  in  terra  avrebbe 
potuto  più  mettere  un  freno  a  coloro  che,  intrapreso  il  cammino 
della  ricerca  scientifica,  intendevano  percorrerlo  fino  in 
fondo  ?  ^.  E  infatti,  si  era  appena  riconosciuta  quella  distin- 
zione, che  fu  subito  avvertito  il  contrasto  tra  filosofia  e  teo- 
logia, contrasto  che  venne  sentito  più  o  meno  da  tutti  i  pensa- 
tori scolastici,  da  Sigieri  di  Brabante  come  da  Tommaso 
d'Aquino,  da  Pietro  d'Abano  come  da  Duns  e  da  Dante  Ali- 
ghieri; e  tutti  cercarono  di  risolverlo  con  particolari  e  diversi 
atteggiamenti   spirituali. 

Il  contrasto,  da  prima  latente,  doveva  portare,  e  portò,  al  con- 
flitto fra  i  rappresentanti  delle  due  principali  facoltà  degl'istitu- 
ti universitari,  quella  delle  arti  e  medicina  e  quella  di  teologia. 
Nella  facoltà  delle  arti  si  leggevano  e  si  commentavano  i  libri 
d'Aristotele  e  le  trattazioni  di  Avicenna,  d'Averroè,  di  Galeno, 
di  Tolomeo  e  di  numerosi  altri  autori  greci  ed  arabi.  E  vi  ri- 
fiorirono così,  e  si  accrebbero,  l'antica  astrologia,  la  matema- 
tica, la  medicina,  l'alchimia  e  la  magia,  tutte  insomma  le 
scienze  create  o  sviluppate  dal  genio  greco  ed  arabico.  Che 
queste  scienze  fossero  infestate  da  inveterati  pregiudizi  meta- 
fisici, non  toglie  che  il  loro  sviluppo  abbia  concorso  in  larga 
misura  allo  sviluppo  del  sapere  scientifico  e  al  progresso  dello 
spirito  umano.  Per  mezzo  di  esse  si  inaugurò  nell'occidente 
cristiano  il  metodo  della  ricerca  filosofica,  s' iniziò  la  libera 
indagine   delle   cause  naturali   dei  fenomeni   del  mondo  ter- 


8  E  di  porre  un  freno  si  tentò  più  volte,  ordinando,  come  a  Parigi 
nel  1272,  agli  scolari  della  facoltà  delle  arti  di  astenersi  dal  determinare 
cantra  fidem  quando  avessero  da  discutere  di  un  problema  che  /idem 
videatur  attingere  simulque  philosophiam.  Cfr.  Carthularium  University 
Parisiensis,   I,  499. 


LE    DOTTRINE    FILOSOFICHE    DI    PIETRO    D  ABANO  73 

restre.  Al  pregiudizio  teologico  si  sostituì,  è  vero,  quello  astro- 
logico. Ma  l'errore  di  aver  riposto  le  cause  dei  fenomeni  na- 
turali in  influenze  astrologiche,  non  è  poi  così  grave  e  imperdo- 
nabile, se  esso  significava  anzitutto  libera  ricerca  di  cause 
naturali,  affermazione  di  leggi  ed  esclusione  dell'arbitrario 
dal  mondo  dell'esperienza.  E  intanto  quell'astrologia,  quell'al- 
chimia, la  vecchia  medicina  e  la  stessa  magìa  venivano  racco- 
gliendo da  ogni  parte  ed  accumulando  preziose  osservazioni 
ed  esperienze,  che,  nella  Rinascenza,  dovevano  portare  al  supe- 
ramento dei  vecchi  pregiudizi  e  concetti  metafisici,  e  contri- 
buire direttamente  al  rinnovamento  della  scienza. 

Al  quale  non  si  sarebbe  mai  giunti,  senza  l' inaugurazione 
di  quel  metodo  razionale,  la  cui  legittimità  era  stata  procla- 
mata all'unanimità  dagli  stessi  teologi  scolastici,  non  solo  in 
teoria  ma  anche  in  pratica.  Vediamo  infatti  Tommaso  d'Aquino 
esporre  con  intera  libertà  e  senza  prevenzioni  le  dottrine  di 
Aristotele,  fino  a  dichiarare,  contro  il  parere  dei  vecchi  teologi, 
che  l'eternità  del  mondo  non  implica  contradizione  e  che  la 
tesi  della  creazione  nel  tempo  non  può  dimostrarsi  colla  sola 
ragione.  E  Alberto  di  Colonia  insieme  al  pensiero  aristotelico 
esponeva  quello  degh  altri  peripatetici,  greci  ed  arabi,  pur 
notando  che  non  di  rado  esso  cozzasse  coi  dommi  cristiani. 
Ora  all'esempio  di  Alberto  si  richiamavano  espressamente 
o  tacitamente  Pietro  d'Abano  e  Sigieri  di  Brabante,  quando 
dichiaravano  di  trattare  «de  naturalibus  naturaliter  »,  senza 
farla  da  teologi  9. 

De  naturalibus  naturaliter:  ecco  il  programma  di  quegli 
ambienti  laici,  che  erano  le  facoltà  delle  arti;  laici,  s' intende, 
solo  per  i  metodi  dell'  indagine  scientifica  e  filosofica  in  con- 
trapposizione con  quelli  della  teologia.  Di  questi  ambienti 
laici  Pietro  d'Abano  incarna  perfettamente  lo  spirito.  In  questo 
spirito  è  la  sua  vera,  la  sua  unica  eresia;  un'eresia  inconsa- 
pevole che  s'era  già  insinuata  nella  coscienza  di  tutti  coloro 
che  avevan  fatto  buon  viso  al  rinascente  pensiero  aristotelico, 
e  che  era  penetrata  fino  nelle  scuole  di  teologia  io.  Senza  pre- 
stargli dottrine  eterodosse  che  negli  scritti  a  noi  noti  egli  ha 


9  Cfr.  il  mio  studio  La  posizione  d'Alberto  Magno  di  fronte  all'aver- 
roismo, cit.,  pp.   197  sgg. 

10  La  filosofia,  infatti,  questa  povera  ancella  della  teologia,  aveva  il 
compito  di  stabilire  i  praeambida  /idei  e  dichiarare  il  contenuto  delle 
formule   dommatiche.   Le  opere  teologiche   della   Scolastica,   compresa 


74  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

espressamente  riprovate,  senza  attribuirgli  quel  continuo 
sdoppiamento  di  coscienza  che  piace  a  chi,  per  il  gusto  di  farne 
un  eretico,  ne  farebbe  volentieri  un  ipocrita,  pronto  ad  af- 
fermare il  contrario  di  quello  che  in  cuor  suo  pensa,  per  sal- 
vare la  pelle  dal  rogo;  —  le  sue  audacie  dottrinali,  dal  punto 
di  vista  della  teologia  imperante,  sono  evidenti:  maggiore 
di  tutte  quelle  intorno  ai  miracoli  e  ai  fatti  meravigliosi. 

Pietro  d'Abano  è  lo  scienziato  forse  più  caratteristico  di 
quel  periodo  di  cui  Tommaso  d'Aquino  fu  il  maggior  teologo, 
e  Dante  Alighieri,  il  sommo  poeta.  Per  la  vasta  erudizione, 
pur  senza  essere  un  rinnovatore  e  un  precursore,  rappresenta 
la  scienza  della  fine  del  secolo  XIII  e  del  principio  del  XIV, 
in  tutti  i  suoi  molteplici  aspetti,  in  ogni  sua  tendenza.  L' idea 
centrale  della  scienza  di  lui  è  un'  idea  astrologica.  E  i  creatori 
della  leggenda  popolare  di  un  Pietro  mago,  sebbene  non  co- 
gliessero  i  veri  caratteri  della  sua  magìa  (magìa  bianca,  ben 
differente  dalla  necromanzia),  ci  hanno  tramandato  un'  im- 
magine dell'uomo,  che  forse  è  meno  difforme  di  quel  che  non 
si  creda,  dalla  sua  storica  personalità. 


la  grande  Summa  dell' Aquinate,  son  impregnate  di  razionalismo;  ra- 
zionalismo che  si  afferma  nettamente  in  Raimondo  Lullo.  L'ancella 
cominciò  ben  presto  a  farla  da  padrona  ! 


Ili 

PAOLO  VENETO 
E  L'AVERROISMO  PADOVANO  * 


Se  Pietro  d'Abano  non  fu  un  avverroista  nel  senso  vero  e 
proprio  della  parola,  avveroista  fu  invece  l'eremitano  Paolo 
Nicoletti  da  Udine,  detto  comunemente  Paolo  Veneto,  il  quale 
professò  a  Padova  un  tipo  d'avveroismo  guardingo,  che  forse 
«gli  vi  portò  da  Oxford  e  da  Parigi,  se  pure  non  v'era  già 
arrivato  da  Bologna,  e  che  risente  della  lettura  dell'opera  di 
Sigieri  di  Brabante,  De  intellectu  ad  jratrem  Thomam  ',  op- 
pure degli  scritti  di  Tommaso  di  Wilton  impugnati  a  Bologna, 
ottantacinque  anni  prima,  dal  francescano  Guglielmo  di 
Alnwick  -. 

Paolo  \'eneto  era  andato  a  studiare  a  Oxford,  insieme  a 
un  suo  fratello  germano,  maggiore  di  lui,  fra  Paolo  Fran- 
-cesco,    anch'egli   eremitano,   alla   fine   d'estate    1390,   e   v'era 


*  Dal  voi.  Sigieri  di  Brabante  nel  pensiero  del  Rinascimento  italiano. 
Roma,  Edizioni  Italiane,  1945,  pp.  115-132,  salvo  una  modificazione 
fino  al  quinto  capoverso. 

'  Cfr.  Sigieri  di  Brab.  ecc.,  pp.  18-23.  Che  l'averroismo  padovano 
abbia  origini  bolognesi  è  ipotesi  verosimile;  ma  non  si  può  escludere 
un'origine  oltremontana.  Che  poi  Averroè  fosse  tenuto  in  gran  conto 
a  Padova  assai  prima  di  P.  Veneto,  è  provato  dagli  affreschi  di  Giusto 
de'  Menabuoi  nella  cappella  Cortelieri  nella  chiesa  degli  Eremitani, 
anteriori  al  1370,  e  dei  quali  ci  resta  la  descrizione  di  Hermann  Schedel 
di  Norimberga  che  era  studente  a  Padova  dal  1463  in  poi.  Giunto 
aveva  raffigurato  Averroè  insieme  agli  eremitani  maestro  Alberto  da 
Padova  e  al  beato  Giovanni  da  Bologna.  Cfr.  J.  v.  Schlosser,  Giusto's 
Fresken  in  Padua  n.  die  Vorlàufern  der  Stanza  della  Segnatura,  in 
«  Jahrbuch  der  Kunsthistor.  Sammel.  des  allerhòch.  Kaiserhauses  », 
Wien,  1896,  XVII,  pp.  17,  45,  47,  94;  S.  Bettini,  Giusto  S.  M.  e  l'arte  del 
Trecento.  Padova,  1944,  P-  n?-  Paolo  doveva  ben  conoscere  quegli 
affreschi. 

2  A.  Maier,  Wilhelm  v.  Alnwicks  bologneser  Quaestionen  gegen  Aver- 
roismus    [1323),   in   «  Gregorianum  »,    XXX,    1940,   pp.    265-308. 


76  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

rimasto  almeno  un  triennio  3.  Il  soggiorno  di  Paolo  in  In- 
ghilterra non  era  rimasto  ignoto  ad  Antonio  Cittadini  da 
Faenza,  che  a  Ferrara,  nel  1476,  dettò  un  commento  polemico 
dei  Logica  minora  dell'eremitano,  in  principio  del  quale  si 
legge: 

Ferunt  autem  quidam  non  auctoritate  indigni,  hunc  libellum 
in  Britannia,  ubi  olim  et  dialecticae  et  philosophiae  studia  flo- 
ruerunt,  in  antiquissimis  litteris  compertum  esse,  ut  ex  illis  con- 
staret,  prius  opusculum  hoc  extructum  fuisse  quam  Paulus  Ve- 
netus  natus  esset.  Quod  eo  magis  a  non  nulhs  creditur,  quod 
certuni  est  Paulum  apud  Britanos  visendorum  gymnasiorum 
gratia  aliquando  commoratum  esse,  ac  postea  in  Italiani  rever- 
tentem  multos  libros  secum  detulisse,  quorum  auctores  Italis 
penitus  erant  incogniti  4. 

Più  tardi  soggiornò  anche  «  in  tlorentissima  universitate 
Parisina  »,  ove  fra  Paolo  espose  gli  Antepraedicamenta  di 
Aristotele  5. 

Nel  1408,  egli  era  lettore  nella  facoltà  delle  Arti  a  Padova, 
e  quivi  compose  quella  Summa  naturalium  nella  quale  è 
esposta  la  dottrina  del  libri  fisici  e  della  Metafisica  d'Aristotele, 
con  sobrie  discussioni  dei  problemi  agitati  nelle  scuole  ^. 
Notevole  in  questa  Summa  il  trattato,  diviso  in  42  capitoli, 
concernente  il  De  anima,  perché  in  esso  ritroviamo  le  tesi  fon- 
damentali del  De  intellectu  di  Sigieri.  Ma  di  questo  scritto 
aristotelico  Paolo  Veneto  ci  ha  lasciato  un'assai  più  ampia 
esposizione  che  non  saprei  dire  in  quale  anno  redatta,  ma 
forse  non   di  molto  posteriore   alla   Summa  naturalium  7. 


3  Reg.  Re. mi  Barth.  Veneti,  nell'Archivio  della  Curia  generalizia 
degli  Eremitani  in  Roma  Dd.  3,  f.  132  v.  Cfr.  il  mio  studio  sulla  Lette- 
ratura e  cultura  veneziana  del  Quattrocento,  nel  voi.  «  La  civiltà  Vene- 
ziana del  Quattrocento  ».  Firenze,  Sansoni,   1957,  PP-   ^^^  ^  i35"36- 

4  Cod.  Urb.  lat.   1381,  f.  2  r. 

5  Ghiotta  notizia,  segnalatami  dal  prof.  Giulio  F.  Pagallo,  in  una 
annotazione  al  Cod.  452  della  Bodleniana  di  Oxford  (cfr.  Catal.  di 
H.O.  CoxE,  P.  Ili,  Oxford,   1854,  p.  775). 

6  La  data  di  composizione  della  Summa  naturalium  è  fissata  al  1408 
dal  codice  marciano  che  ne  contiene  solo  tre  parti.  Cfr.  G.  Valentinelli, 
Bibliotheca  manuscripta  ad  S.  Marci  Veneiiarum,  t.  IV,  Venezia,  1872, 
p.  24,  Lat.,  Classe  XII,  cod.  23. 

7  Come  non  molto  posteriore  è  1'  Expositio  super  odo  libros  Physi- 
eorum  Aristotelis  necnon  super  comento  Averois  cum  dubiis  eiusdem, 
la  quale  porta  la  data  del  30  giugno  1409.  Cfr.  P.  Duhem,  Le  niouvement 
absolu  et  le  mouvement  relatif.  Extrait  de  la  «  Revue  de  philosophie  ». 
Montligeon  (Orne),  1907,  p.   143.  Le  stesse  variazioni  che  il  Duhem  ri- 


PAOLO  VENETO  E  L  AVERROISMO  PADOVANO  77 

Anche  in  questa  seconda  opera  l' influsso  esercitato  sull'ere- 
mitano dal  trattato  dell'averroista  belga  contro  San  Tommaso, 
è  decisivo,  come  possiamo  convincerci  dalla  lettura  dei  se- 
guenti brani  che  per  comodità  del  lettore  riferiamo. 

Nell'esposizione  del  testo  23  del  II  libro  De  anima,  frate 
Paolo  Nicoletti  si  pone,  «  ad  maiorem  dictorum  evidentiam  », 
alcuni  «  dubia  »,  il  secondo  dei  quali  verte  sul  problema  «  Utrum 
in  eodem  animali  plures  possint  esse  anime  totales  »,  che  egli 
risolve  nel  modo  che  segue,  non  senza  aver  prima  confutate 
altre  soluzioni  ^  : 

Circa  liane  materiam,  siint  plures  modi  dicendi.  Primus  modus 
est,  quod  piante  non  habent  nisi  unam  animam  totalem,  scilicet 
vegetativam;  bruta  duas,  scilicet  vegetativam  et  sensitivain; 
homines  vero  tres,  videlicet  vegetativam,  sensitivam  et  intel- 
lectivam;  non  tamen  simul  generantur,  sed  successive  per  tempus, 
ita    quod    primo    generatur    vegetativa,    deinde    sensitiva,    tertio 


leva  tra  quest'opera  e  la  Summa  naturalium,  si  posson  notare  anche  fra 
quest'ultimo  scritto  e  il  commento  Super  libros  Aristotelis  de  anima, 
che  senza  dubbio  rivela  una  maggiore  complessità  e  maturità  di  pen- 
siero. Nel  commento  al  t.c.  11  del  III  libro,  a  proposito  del  quesito  se 
gli  universali  «  sint  in  rerum  natura  »,  l'autore  dichiara  d'averne  trat- 
tato quanto  basta  «  in  alio  opere  et  in  prologo  physicorum  ».  È  pro- 
babile che,  dopo  l'esposizione  sommaria  delle  dottrine  fìsiche  e  meta- 
fìsiche dello  Stagirita,  il  Nicoletti  si  sia  accinto  a  commentare  le  singole 
opere  aristoteliche  alle  quali  si  riferiva  la  Summa,  cominciando,  come 
sappiamo,  dagli  otto  libri  della  Fisica  e  proseguendo  poi  col  De  caelo, 
col  De  generatione  et  coruptione,  coi  libri  Meteorologici,  col  De  anima 
e  colla  Metafisica.  Una  vera  biografìa  filosofica  di  Paolo  Veneto  non  è 
concepibile  senza  aver  tolto  in  esame  tutte  queste  opere  che  da  parte 
del  Momigliano  sono  state  piuttosto  ricordate  che  vedute  e  lette.  Tornato 
a  Padova  nel  1428,  dopo  le  peripezie  che  lo  avevano  costretto  a  lasciare 
questa  città  nel  1420  o  forse  qualche  anno  prima  o  dopo,  l'eremitano 
s'accinse  a  commentare  di  nuovo  il  De  anima,  come  ci  attesta  fra  Matteo 
da  Ripalta,  piacentino,  allora  studente  nello  studio  padovano.  Questi 
si  procurò  nel  corso  del  1429  una  copia  dell'esposizione  completa  del- 
l'opera aristotelica,  poiché  il  maestro  che  con  tanto  grido  era  tornato 
a  leggerla  non  andò  oltre  il  capitolo  «  de  gustabili  »  (libro  II,  t.  e.  101-104, 
cap.  IO  del  testo  greco,  422»  8-422Ò  15),  essendo  stato  colto  dalla  morte 
all'alba  del  15  giugno  dello  stesso  anno.  Valentinelli,  t.  IV,  p.  57. 
8  Pauli  Veneti,  In  libros  de  anima  explanatio  cimi  textu  incluso 
singulis  locis,  maxima  qiiidem  diligentia  a  vitijs  mendis  atque  erroribus 
quibus  hacteniis  ex  ignavia  impressorum  scatebat  purgata  ac  pristine  in- 

tegritati  restituta  etc.  E  nel  colophon  : Scriptum  super  librimi  de  anima. . . . 

ex  proprio  originali  diligenter  emendatum  per  clarissimum.  artium  ac 
medicine  doctorem.  D.  magistrum  Hieronymum  Surianum,  filium  pre- 
stantissimi quondam  artium  ac  medicine  doctoris,  Domini  magistri  lacobi. 
de  Surianis  de  Arimino....  Venezia,  Eredi  di  Ottaviano  Scoto,  i  nov. 
1504,   libro   II   comm.   al  t.   e.   23,  fol.   46,   col.   4-47,   col.   2. 


78  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

post  completarti  organizationem  membrorum  generatur  intel- 
lectiva  9  Hic  modus  dicendi  est  superfluiis.... 

Secundus  modus  dicendi  est,  quod  in  quolibet  vivente  est 
solum  una  anima  totalis;  et  quod  est  ordo  in  productione  anima- 
rum,  quia  fetus  primo  vivit  vita  piante,  deinde  vita  animalis; 
tamen  tales  anime  simul  non  manent  in  eodem,  sicut  nec  due 
figure,  sed  in  adventu  secunde  corrumpitur  prima,  et  in  adventu 
tertie  corrumpitur  secunda  1°.  Iste  modus  est  impossibilis,  quia 
tunc  aliqua  forma  per  se  ageret  ad   corruptionem   sui  ipsius..., 

Tertius  modus  dicendi  est,  quod  in  nullo  nisi  in  homine  sunt 
plures  forme  substantiales  seu  anime  totales,  scilicet  sensitiva  et 
intellectiva,  quarum  prima  educitur  de  potentia  materie  per 
agens  naturale,  secunda  autem  creatur  a  deo,  non  obstante  quod 
ita  bene  inhereat  sicut  prima,  adducendo  illud  philosophi,  16  de 
animalibus:  «  intellectus  venit  deforis»".  —  Sed  hec  opinio  in- 
cludit  contradictionem,  quia  si  anima  intellectiva  inheret  materie, 
ergo  educitur  de  potentia  materie  et  generatur  ad  generationera 
corporis  animati  et  corrumpitur  ad  corruptionem  eiusdem.  Item 
hec  opinio  non  est  naturalis,  quia  ponit  intellectum  creari;  et 
Aristoteles  una  cum  commentatore  ponit  ipsum  perpetuum  et 
eternum.  Deinde,  si  anima  intellectiva  inheret  materie,  ergo  in- 
tellectio  et  volitio  sunt  subiective  in  materia;  quod  est  centra 
philosophum  et  commentatorem  ponentes  potentias  rationales 
esse  abstractas  a  corpore,  et  consequenter  actus  illarum. 

Quartus  modus,  quem  solum  puto  rationalem,  est  iste,  quod 
pianta  habet  solum  unam  animam  totalem,  scilicet  vegetativam, 
compositam  ex  partibus  diversarum  rationum;  et  consequenter 
animai  imperfectum  simpliciter,  quod  non  habet  aliquem  sensum 
exteriorem  nisi  sensum  tactus,  nec  aliquem  motuin  ad  locum, 
sed  solum  motum  dilatationis  et  constrictionis,  habet  etiam 
solum  unam  animam,  scilicet  sensitivam,  que  propter  sui  imper- 
fectionem  supplet  vices  anime  vegetative,  ita  quod  in  ostrea  vel 
spongia  marina  eadem  anima  est  sensitiva  et  vegetativa.  Animai 
autem  perfectum  habet  duplicem  animam,  scilicet  partialem 
vegetativam,    in   carne   vel   osse   vel    in   aliquo   proportionali,    et 


9  Questa  teoria  è  la  seconda  delle  opinioni  da  me  elencate  in  Giorn. 
Crii,  della  Filos.  Ital.,  XII,  1931,  pp.  437-438,  ed  è  ricordata  da  Dante, 
Purg.,  IV,  1-6,  come  «  quello  error  che  crede  ch'un 'anima  sovr 'altra  in 
noi   s'accenda  ». 

10  Questa  dottrina,  già  accolta  dal  francescano  fra  Giovanni  della 
RocheUe,  fu  difesa,  com'  è  noto,  da  S.  Tommaso.  Cfr.  lo  stesso  Giorn. 
Crii.,  pp.  441-442,  sesta  opinione. 

11  Questo  «tertius  modus»,  che  è  una  teoria  intermedia  fra  quella 
tomistica  e  quella  schiettamente  averroistica,  non  è  altro  che  la  nona 
delle  opinioni  da  me  elencate,  professata  da  Alberto  Magno,  da  Gio- 
vanni Peckam  e  da  Dante.  Cfr.  Giorn.  Crii.,  pp.  445-456;  ib.,  XIII, 
1932,  pp-  45-56  e  81-102;  come  pure  il  mio  voi.  Dante  e  la  cultura  me- 
dievale, Bari,  Laterza,  1949,  pp.  271  sgg.  Questa  è  anche  la  tesi  di  En- 
rico Bate;  cfr.  Sigieri,  nel  pens.,  p.    177. 


PAOLO    VENETO    E    L  AVERROISMO    PADOVANO  79^ 

nnam  sensitivam  totaleni,  ut  equus  vel  asinus.  Homo  autem, 
preter  partiales  animas,  habet  duas  totales:  cogitativam  sensi- 
tivam, generabilem  et  corruptibilem,  inherentem  et  informantem, 
et  intellectivam  perpetuam  et  eternam,  informantem  et  non 
inherentem  '-. 

Da  siffatta  teoria  risultano  alcune  conseguenze  a  mò  di 
corollari  : 

....  Tertio  sequitur  quod  homo  non  est  homo  precise  per  ani- 
mam  cogitativam,  nec  precise  per  animam  intellectivam,  sed 
per  ambas  simili....  Cogitativa  enim  denominat  hominem  esse 
animai,  et  intellectiva  denominat  hominem  esse  rationalem; 
sed  homo  est  diffinitive  et  convertibiliter  animai  rationale;  ergo 
ambe  anime  concurrimt  ad  constitutionem  hominis.  Quo  dato,  opor- 
tet  concedere  quod,  sicut  genus  est  prius  differentia  et  potentiale 
ad  illam,  sicut  universaliter  minus  perfectum  ad  maius  perfectum, 
ita  cogitativa  est  prior  intellectiva  in  homine  et  potentialis  ad 


'2  Nella  Summa  philosophie  natura! is  o  naturalium  (Venezia.  Eredi 
di  Ottaviano  Scoto,  «  Anno  a  salutifera  incarnatione  tertio  et  quingen- 
tesimo  supra  millesimum.  Idibus  Martijs  »),  V  parte.  De  anima,  cap.  V, 
fol.  68,  col.  4:  «  Tertia  conclusio:  Necesse  est  in  homine  esse  plures 
animas  totales.  Probatur:  nam  sol  et  homo  generant  hominem,  2°  physi- 
corum  (t.  e.  26);  ergo  homo  generatur;  sed  terminus  generationis  est 
forma  accipiens  novum  esse,  ut  colligitur  ex  sententia  philosophi,  5°  phi- 
sicorum  (t.  e.  7);  ergo  aliqua  forma  hominis  generatur;  sed  non  intel- 
lectiva, 3°  de  anima  (t.  e.  5);  ergo  sensitiva  generatur.  —  Item,  philo- 
sophus,  primo  celi  (t.  e.  102)  :  «  omme  genitum  aliquando  corrumpetur  »; 
ergo  homo  aliquando  corrumpetur;  sed  non  intellectiva,  3°  de  anima 
(t.  e.  19);  ergo  sensitiva.  Et  ita  necesse  est  ponere  in  homine  duas  ani- 
mas:  unam  intellectivam,  ingenerabilem  et  incorruptibilem,  secundum 
philosophum,  et  aliam  sensitivam,  generabilem  et  corruptibilem,  quam 
Commentator  vocat,  3°  de  anima  (t.  e.  5),  cognitivam  (sic,  leggi  cogi- 
tativam). —  Quarta  conclusio:  Impossibile  est  in  aliquo  vivente  non 
intellectivo  esse  plures  animas  totales.  Patet,  quoniam  si  in  plantis 
vel  in  brutis  ponerentur  plures  anime  totales,  una  necessario  super- 
flueret,  quoniam  illa  que  est  maioris  perfectionis  totum  actuaret,  sicut 
illa  que  est  minoris  perfectionis,  et  omnes  operationes  eius  exerceret, 
ex  quo  in  ea  fundantur  omnes  potentie  inferioris  anime.  Dicatur  ergo 
quod  in  plantis  est  solum  una  anima  totalis,  que  est  tota  in  toto  et 
pars  in  parte,  et  hec  est  vegetativa;  in  animalibus  autem  imperfectis 
est  solum  una  anima  totalis,  et  illa  est  sensitiva,  supplens  vicem  anime 
vegetative,  que  etiam  extenditur  ad  extensionem  subiecti;  et  in  ani- 
malibus perfectis  sunt  plures  vegetative  [partiales]  et  una  sensitiva 
totaUs,  multiplicata  ad  omnem  partem  etherogeneam.  Sed  in  homi- 
nibus,  preter  formas  partiales  vegetativas,  sunt  due  totales,  scilicet 
sensitiva  multiplicata  ad  partes  etherogeneas,  et  intellectiva  non  mul- 
tiplicata ad  aliquam  partem  illius  individui,  sed  bene  ad  omnia  indi- 
vidua speciei  humane,  eo  quod  intellectus  est  unus  in  omnibus  homi- 
nibus,  iuxta  intentionem  Aristotelis  et  determinationem  Commenta- 
toris,  3"  de  anima  (t.  et  e.  5)  ». 


8o  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

illam  13.  — Quarto  sequitur  quod  idem  individuum  est  diversarum 
specierum  essentialium.  Patet,  quia  homo  per  animam  cogita- 
tivam  sensitivam  est  alicuius  speciei  generis  animalium,  immo 
supreme  speciei,  quia,  secluso  intellectu,  per  cogitativam  homo 
habet  discursum  quodammodo  rationalem,  ratione  reminiscentie 
reperte  in  eo  et  non  in  aho;  licet  enim  memoria  reperiatur  in 
aliis  animalibus,  non  tamen  reminiscentia  ;  neque  reminiscentia 
competit  homini  ratione  intellectus,  sed  ratione  cogitative  vir- 
tutis,  quia  reminiscentia  est  passio  anime  sensitive,  secundum 
Aristotelem,  in  libro  de  meìnoria  et  reminiscentia  H.  Item,  quia 
intellectus  humanus  est  pura  potentia  in  genere  intelligentiarum, 
per  commentatorem,  tertio  huius,  et  per  consequens  est  primus 
gradus  illius  generis  ^5,  ideo  per  intellectum  constituit  primam 
speciem  intellectivoruni,  sicut  per  cogitativam  constituit  ultimam 
speciem  generis  animalium.  Nec  est  inconveniens  duos  gradus 
specificos  esse  immediatos,  quia  species  sunt  sicut  numeri,  8  ine- 
taphysice  (t.  e.  io).  Et  si  concluditur  ex  eodem  fundamento, 
quodlibet  mixtum  esse  diversarum  specierum  essentialiter,  ra- 
tione forme  mixti  et  forme  elementi,  negetur  consequentia,  quia 
forma  elementi  non  se  habet  respectu  forme  mixti  nisi  materialiter 
et  potentialiter  per  modum  dispositionis  prefinientis  in  ma- 
teria formam  mixti;  ideo  non  dat  mixto  nomen  specificum  nec 
diffinitionem  essentialem.  Sed  anima  cogitativa  non  se  habet 
tanquam  dispositio  prefiniens  animam  intellectivam,  cum  eque 
simul  inducantur  in  corpore,  nec  una  potest  naturaliter  esse  sine 
alia.  Cogitativa  tamen  dicitur  esse  prior  intellectiva  et  potentialis 
ad   illam   propter   suam   imperfectionem  ^^. 

Come  è  facile  vedere,  già  in  questo  luogo  dell'esposizione 
del  libro  secondo  del  De  anima,  la  tesi  caratteristica  di  Sigieri, 

13  Anche  Sigieri,  come  sappiamo,  affermava  che  la  cogitativa  è  or- 
dinata «  in  intellectivam  »,  talché  «  nec  potest  intellectus  informare  ma- 
teriam  non  informante  cogitativa...,  nec  potest  cogitativa  informare 
materiam  non  informante  intellectu  »;   cfr.   Sigieri  nel  pens.,  p.    18. 

14  Cap.  2,  453^  14  sgg.  «  Quella  parte  dove  sta  memora  »  chiama 
l'anima  sensitiva  anche  Guido  Cavalcanti,  nella  canzone  «  Donna  mi 
prega»,  tutta  pervasa  di  dottrina  averroistica ;  cfr.  il  mio  voi.  Dante 
e  la  cult,  medievale,'^  pp.  104-105,  137.  Gli  averroisti  negavano  si  la  me- 
moria che  la  reminiscenza  all'intelletto;  cfr.  il  mio  voi.  Nel  mondo 
di  Dante,  Roma,  Edizioni  di  «  Storia  e  Letteratura  »,  1944,  pp.  373-374- 

15  Altra  tipica  tesi  di  Sigieri  che  Paolo  Veneto  svilupperà,  come  ve- 
dremo   fra    breve. 

16  Allo  stesso  modo  anche  nella  Summa  naturalium,  1.  e.  fol.  69, 
col.  I  :  «  Ad  secundum  dicitur,  quod  anima  intellectiva  non  adv-^enit 
enti  in  actu  substantiali,  quia  eque  primo  adveniunt  corpori  sensitiva 
et  intellectiva.  Item,  dato  quod  sensitiva  precederet  tempore  intel- 
lectivam, adhuc  advenit  enti  in  potentia,  quia  forma  sensitiva  hominis 
dicitur  potentialis  ad  ulteriorem  actum;  non  autem  anima  intellectiva. 
Hec  ergo  est  differentia  inter  formam  substantialem  et  accidentalem, 
quia  forma  accidentalis  advenit  enti  in  actu  ultimato,  forma  autem 
substantialis   advenit   enti   in   potentia,    licet   non   in   pura   potentia  ». 


PAOLO    VENETO    E    L  AV^ERROISMO    PADOVANO  Ol 

che  r  intelletto,  pur  essendo  in  sé  una  sostanza  separata 
unica  per  tutta  la  specie  umana,  s'unisce  ai  singoli  con  un 
vincolo  sostanziale,  sì  da  potersi  dire  forma,  atto  e  perfezione 
dell'uomo,  è  accennata  in  modo  esplicito  '7.  Ma  1'  influsso  del 
brabantino  sull'udinese  è  ancora  più  evidente  nell'esposizione 
del  terzo  libro,  del  pari  che  nei  capitoU  35-37  della  quinta 
parte  della  Summa  naturalium. 

In  quest'ultimo  scritto,  frate  Paolo  tratta  anzitutto  della 
passività  o  passibilità  dell'  intelletto  umano,  formando  queste 
quattro  conclusioni: 

Quarum  prima  est  ista:  Intellectus  humanus  nullam  habet 
de  se  in  actu  speciem  intelligibilem,  sed  ad  quamlibet  talem  est 
penitus  in  potentia.... 

Secunda  conclusio:  Intellectus  non  est  aliqua  una  natura 
sed  solum  habet  possibilitatem  recipiendi  omnes  formas  ma- 
teriales.... 

Pertia  conclusio:  Intellectus  possibilis  humanus  ante  intellectio- 
nem    nullatenus    est    actu.... 

Quarta  conclusio  :  Intellectus  humanus  est  immaterialis  et 
incorporeus  et   immixtus....  '8. 

Tutte  e  quattro  queste  conclusioni  ritornano,  con  una  leg- 
gera variazione  nel  loro  ordine,  in  principio  dell'esposizione 
del  terzo  libro  De  anima  '9;  ma  qui  alla  terza  conclusione, 
che  corrisponde  alla  seconda  della  Summa,  il  maestro  pado- 
vano ricollega  il  problema  dell'unità  dell'  intelletto  che  nella 
Summa  è  discusso  a  parte  nel  capitolo  37. 


17  Tanto  nella  Summa  naturalium,  1.  e,  f.  68,  col.  4,  Secunda  conclusio, 
quanto  nell'esposizione  del  De  anima,  1.  e,  f.  47,  col.  3,  combatte 
la  tesi  sostenuta  un  tempo  a  Oxford  da  Roberto  Kilwardby  e  da  Tom- 
maso di  Wilton,  e  accolta  anche  da  Giovanni  di  Jandum,  che  «  in  aliquo 
vivente  possit  esse  multitudo  formarum  iuxta  pluralitatem  predicato- 
rum  essentialium  «.  Della  qual  tesi  nell'esposizione  del  De  anima  egli 
dà  questo  riassunto  :  «  Tenentes  pluralitatem  formarum  in  eodem  iuxta 
multitudinem  predicatorum  quiditativorum,  dicunt  quod  prima  forma 
Sortis  est  illa  qua  ipse  est  substantia,  et  secunda  qua  est  corpus,  et 
tertia  qua  est  corpus  animatum,  et  quarta  qua  est  animai,  et  quinta 
qua  est  homo,  et  sexta  qua  est  Sortes;  et  ita  de  individuis  aliarum  spe- 
cierum;  et  imaginantur  isti  quod,  quantum  ad  animam  sensitivam, 
omnia  animalia  sunt  eiusdem  rationis  substantialis,  a  qua  sumitur  hoc 
genus  «  animai  »;  et  secundum  formas  ulteriores  specifìcas,  sunt  homines, 
equi  et  canes  diversarum  rationum  substantialium;  concedentes  omnes 
tales  formas  realiter  distingui  et  fundari  in  materia  inhesive,  ordine 
essentiali,  secundum  quod  taha  predicata  invicem  essentiahter  ordi- 
nantur.   Ista  opinio  est  impossibilis  ». 

18  Summa   naturai.,  pars  V,   e.   35,   f.   87,   col.    2. 

19  In  libros  de  anima,  III,  ad  t.  e.  1-5,  f.  128,  col.  3-130,  col.  3. 


82  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Sul  modo  di  concepire  la  passività  dell'  intelletto  possi- 
bile e  il  concorso  dell'  intelletto  agente  e  del  fantasma  al- 
l'atto dell'  intendere,  l'eremitano  riferisce  quattro  opinioni,, 
l'ultima  delle   quali  è   quella  d'Averroè: 

Quarta  opinio  est  Averroys  intellectui  possibili  nihil  nisi  passi- 
bilitates  assignantis,  fantasmati  vero  activitatem  tanquam  par- 
ticulari  agenti,  et  intellectui  agenti  tanquam  agenti  universali; 
ita  quod  ad  primas  intellectiones  et  species  intelligibiles  concurrit 
fantasma  tanquam  agens  particulare,  et  intellectus  agens  tanquam 
agens  vniiversale;  ad  omnes  autem  conseguentes  se  habet  intel- 
lectus agens  sicut  causa  particularis,  fantasma  autem  sicut  causa 
sine  qua  non,  intellectus  autem  possibilis  solum  recipit  et  nun- 
quam  agit  -°. 

Da  questa  opinione  il  nostro  dichiara  di  dissentire,  non  per 
quel  che  concerne  le  prime  intellezioni,  nelle  quali  l' intelletto 
possibile  è  totalmente  in  potenza,  e  quindi  del  tutto  passivo, 
sibbene  per  quel  che  concerne  le  intellezioni  successive,  alle 
quali,  essendo  già  attuato  dalle  prime,  è  in  grado  di  concor- 
rere attivamente,  «  semper  tamen  virtute  intellectus  agentis  ». 
Di  qui  la  conclusione  formulata  piti  oltre,  che  cioè: 

Intellectus  ante  actuationem  speciei  intelligibilis  aliter  est  in 
potentia  quam  post  actuationem  eius  21. 

Dopo  aver  affermato  l'essenziale  passività  dell'  intelletto 
possibile,  fra  Paolo  si  pone  nella  Summa  naUiralmni  il  quesito 
del  rapporto  da  stabihre  tra  questo  intelletto  e  il  corpo  umano, 
intorno  al  quale  «  tam  Inter  veteres  quam  modernos  multa 
discrepantia  fuit  »  ^-.  E  prima  di  tutto  ricorda 

quod  Plato  posuit  intellectum  uniri  corpori,  non  ut  formam 
materie,  sed  ut  motorem  mobili,  eo  modo  quo  nauta  unitur  navi 
et  intelligentia  orbi,  non  per  modum  informationis,  sed  per  con- 
tactum    virtutis    (alium)    a    contactu    corporeo. 


20  7è.,  ad  t.  e.  5,  fol.  131,  col.  3.  Il  problema  fu  a  lungo  discusso  fra  le 
varie  scuole  nella  scolastica  della  decadenza,  senza  che  ci  si  rendesse 
ben  conto  della  sua  gravità,  poiché  è  problema  che  investe  tutta  la 
filosofia  antica  fino  a  Kant:  come  salvare  l'immanenza  dell'atto  del 
conoscere,  se  esso  ha  bisogno  d'una  causa  esterna  che  la  produca  nel 
soggetto   conoscente  ? 

21  Iv.,  ad  t.  e.  8,  fol.   133,  col.  2. 
^2  Summa  naturai.,  V,  e.   36. 


i 


PAOLO    VENETO    E    l'aVERROISMO    PADOVANO  83 

Quanto  ad  Averroè,  il  nostro  eremitano  ne  espone  il  pen- 
siero in  questi  termini: 

Secundo  notandum  ex  intentione  Commentatoris,  ij  de  anima 
(comm.  5  et  36),  quod  corporalis  natura  compatitur  secum  spiri- 
tualem  naturam,  et  non  cedit  ei  organum  fantasticum  seu  imagi- 
native  virtutis,  cum  sit  quid  corporale,  intellectus  autem  quid 
spirituale;  organum  predictum  non  cedit  intellectui,  et  per  con- 
sequens  illa  eadem  intentio  que  informat  virtutem  imaginativam, 
informat  intellectum  materialem...;  et  hoc  dico  quia  intellectus 
copulatur  nobis  per  formam  suam.  Copulatur  enim  nobis  per 
intentiones  imaginatas,  que  sunt  eedem  cum  intentionibus  exi- 
stentibus  in  intellectu  possibili;  et  ita  unitur  homini  per  fanta- 
smata  intellecta  in  actu.  Intentiones  enim  imaginative,  per  Com- 
mentatorem,  ut  informant  virtutem  imaginativam,  plurificantur, 
quia  sunt  ibi  cum  conditionibus  materie;  sed  ut  informant  in- 
tellectum possibilem  fiunt  una  intentio  in  ipso,  quia  non  recipit 
cum  conditionibus  materie.  Et  ideo  inquit  Commentator,  quod 
copulatur  nobis  intellectus  per  continuationem  intentionis  in- 
tellecte,  quia  eadem  est  intentio  informans  intellectum  et  virtutem 
imaginativam  23. 

Siffatta  interpretazione  del  pensiero  del  commentatore  di 
Cordova  anzi  che  da  Sigieri  è  suggerita  invece  da  Egidio  Ro- 
mano, al  quale  il  confratello  veneto  s'appella  esplicitamente 
nel  commento  al  De  anima: 

Secunda  opinio  fuit  Averoys  dicentis  quod  intellectus  humanus 
non  unitur  corpori  ut  forma,  sed  per  fantasmata  intellecta  in 
actu.  Ad  quod  declarandum,  est  notandum  primo  secundum 
eum  in  hoc  tertio,  iuxta  expositionem  Egidij,  quod  corporalis 
natura   compatitur   secum   spiritualem   naturam   etc.  -4. 

All'opinione  d'Averroè,  Paolo  aggiunge  quella  di  Giovanni 
di  Jandun  che,  a  mio  parere,  egH  non  ha  ben  compreso.  Ecco 
ad  ogni  modo  com'egli  la  riassume: 

Tertia  opinio  fuit  Ioannis  de  ianduno  dicentis  quod  intellectus, 
secundum  Commentatorem,  unitur  corpori  humano,  non  ut  forma 
dans  esse,  sed  ut  motor  mobili  dans  operari,  eo  modo  quo  unitur 
intelligentia  orbi  et  nauta  navi;  concedens  consequenter  quod 
datur  duplex  homo:  unus  qui  componitur  ex  corpore  et  anima 
cogitativa;  et  alius  qui  componitur  ex  intellectu  et  toto  residuo; 


23  Ib. 

24  In  libros  de  anima,  1.  e.  f.   133,  col.  4.  Cfr.  Egidio  Romano,  Do 
intell.  pass,  cantra  Averr.,  Venezia,  1500,  II  parte,  fol.  92    col.  1-9. 


84  l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

quibus  proportionaliter  respondet  duplex  intelligere,  scilicet 
universale  et  particulare  ;  homo  sumptus  primo  modo,  solum 
particularia  intelligit;  et  sumptus  secundo  modo  intelligit  solum 
universalia  ^5. 


A  queste  tre  opinioni  egli  oppone  la  tesi  d'Aristotele,  se- 
condo il  quale  l' intelletto  è  vera  forma  sostanziale  dell'uomo, 
cui  dà  essere  ed  operare  ^6. 

Ma  com'egli  intenda  il  pensiero  dello  Stagirita  su  questo 
punto,  c'è  detto  nella  Summa  naturalium '^v. 

Tertia  conclusio  :  Anima  intellectiva  non  unitur  corpori  humano 
per  inherentiam.  Patet  tripliciter:  primo  quia  ipsa  est  ingene- 
rabilis  et  incorruptibilis,  iij  de  anima  (t.  e.  20)  ;  modo  nulla  forma 
inheret  materie  per  transmutationem,  scilicet  materie  que  non 
generatur  et  corrumpitur,  ut  colligitur  a  philosopho,  primo  de 
genevatione,  et  a  Commentore,  in  libro  de  substantia  orbis  (cap.  4). 
Secundo,  quia  intellectus  est  impassibilis  et  intransmutabilis, 
iij  de  anima;  sed  nulla  forma  inheret  materie  nisi  per  transmu- 
tationem et  passionem.  Tertio,  quia  anima  intellectiva  est  indi- 
visibilis  et  impartibilis  per  carentiam  partium  integralium;  nam 
quelibet  forma  inherens  materie  suscipit  conditiones  intrinsecas 
materie  secundum  quas  inheret;  cum  ergo  conditio  materie, 
secundum  quam  forma  inheret,  sit  habere  partes  integrales, 
licet  non  partem  extra  partem,  quia  hec  est  conditio  quantita- 
tis,   etc. 

Quarta  conclusio:  Anima  intellectiva  unitur  homini  substan- 
tialiter  per  informationem,  ita  quod  est  forma  substantialis  cor- 
poris  humani,  non  solum  dans  operari,  sicut  intelligentia  orbi, 
sed  etiam  esse  specificum  et  essentiale.  Probatur:  differentia 
specifica  constituens  aliquam  speciem  sumitur  a  forma  illius 
speciei,  sicut  apparet  ex  intentione  philosophi,  io  metaphysice 
(t.  e.  25),  dicentis  quod  contraria  consequentia  materiam  non 
faciunt  differentiam  in  specie,  sed  contraria  consequentia  formam; 
modo  differentia  propria  hominis  est  «  rationale  »;  ergo  sumitur 
a  forma  humana;  sed  «rationale  »  sumitur  ab  eo  quod  est  intel- 
lectivum;  ergo  intellectus  vel  anima  intellectiva  est  forma  cor- 
poris  humani.  —  Item,  «  rationale  »  ponitur  in  diffinitione  eius 
non  tanquam  additamentum,  sed  tanquam  differentia  eius,  ut 
ponit  Porphyrius  et  Aristoteles  ;  ergo  "  rationale  »  est  de  essentia 
hominis;  sed  nihil  est  per  se  rationale  nisi  per  aniinam  intellecti- 


^5  Ib.,  fol.   134,   col.    I,   cfr.   Sigieri,  pp.    100-102. 

-6  Ib.,  fol.  134,  col.  1-2:  «Quarta  opinio  fuit  Aristotelis  dicentis  in- 
tellectum  esse  veram  formam  substantialem  hominis....  Ideo  est  di- 
cendum  cum  Aristotele  et  alijs  perypateticis  veris,  quod  intellectus  est 
iorma  substantialis  hominis,  dans  sibi  esse  et  operari  ». 

^7  Parte   V,    cap.    36. 


PAOLO    VENETO    E    l'aVERROISMO    PADOVANO  85 

vam;  ergo  etc.  Unde  ex  diffinitione  anime  data  a  phylosopho, 
ij  de  anima,  convincitur  hanc  conclusionem  esse  de  intentione 
sua.  Arguitur  enim  sic:  Anima  intellectiva  secundum  ipsum  est 
anima;  ergo  «est  actus  primus  corporis  »;  patet  consequentia  a 
dififinito  ad  diffinitionem  ;  ergo  est  forma  substantialis;  patet 
consequentia  secundum  phylosophum,  ij  de  anima  (t.  e.  6),  eo 
quod  actus  primus  est  forma  substantialis  corporis;  et  nonnisi 
corporis  humani;  ergo  etc.  —  Deinde  anima  intellectiva  est  illud 
«quo  primo  intelligimus  »;  ergo  est  forma  substantialis  hominis; 
patet  consequentia,  quia  non  est  alia  ratio  ad  probandum  ani- 
mam  vegetativam  esse  formam  substantialem  corporis  vege- 
tantis,  et  animam  sensitivam  esse  formam  corporis  sensitivi; 
ergo  etc. 

L'anima  intellettiva  dunque  è,  sì,  forma  dell'uomo,  in 
quanto  gli  dà  l'essere  e  l'operare  di  uomo,  ma  non  perché  sia 
inerente  al  suo  corpo  alla  stessa  maniera  delle  altre  forme 
naturali.  Su  questa  differenza  Paolo  Veneto  ritorna  anche  nel 
commento  al  De  anima -^: 

Intelligenda  est  differentia  inter  informare  et  inherere:  quo- 
niam  informare  est  dare  alteri  esse  actuale  et  hoc  dicit  perfectio- 
nem  in  forma,  imperfectionem  in  materia,  quia  dare  dicit  perfectio- 
nem;  sed  inherere  est  ab  alio  sustantificari,  et  hoc  dicit  perfectio- 
nem  in  materia  et  imperfectionem  in  forma,  quoniam  sustanti- 
ficare  dicit  perfectionem,  et  sustantificari  imperfectionem  dicit, 
scilicet  dependentiam  a  subiecto.  Ex  isto  notabili...,  sequitur 
quod  anima  intellectiva,  licet  informet  corpus  humanum,  non 
tamen  inheret  illi,  quia  non  dependet  ab  eo;  quocumque  enim  tali 
corpore  dato,  ante  illud  fuit  et  post  illud  erit  anima  intellectiva, 
cum  illud  generetur  et  corrumpatur,  anima  autem  intellectiva 
sit  eterna....  Ouatuor  rationibus  arguitur  animam  intellectivam 
non  inherere  materie;  quarum  prima  est  ista:  anima  intellectiva 
non  educitur  de  potentia  materie;  ergo  sibi  non  inheret....  Se- 
cunda  ratio:  anima  intellectiva  est  prior  materia;  ergo  non  inheret 
illi....  Tertia  ratio:  anima  intellectiva  est  impassibilis  et  intransmu- 
tabilis;  ergo  non  inheret  materie....  Quarta  ratio:  anima  intellectiva 
est  indivisibilis  et  inpartibilis  per  carentiam  partium  integralium, 
secundum  philosophum  et  commentatorem,  in  hoc  tertio  (t.  e.  6)  ; 
ergo  non  inheret  materie. 

Anima  sensitiva  o  cogitativa  ed  anima  intellettiva  son 
dunque,  per  il  maestro  padovano,  due  forme  totali  che  costi- 
tuiscono l'uomo  nella  sua  natura  di  animale  ragionevole. 
Ma  pur  essendo  due  forme  distinte,  sono  unite  da  un  intimo 


^^  In  libros  de  anima,  III,  ad  t.  e.  6,  f.  132,  col.  2-3. 


86  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

legame  talmente  stretto,  che  l'una  è  fatta  per  l'altra  e  l'una 
completa  l'altra.  Per  questa  ragione  il  Nifo,  più  che  due 
anime  le  diceva  29  due  semianime  costituenti,  per  la  lo- 
ro sostanziale  unione,  una  sola  anima  umana;  che  è  an- 
che il  pensiero  di  Dante,  il  quale  ad  esprimerlo  si  serve  della 
immagine  del  «  calor  del  sole  che  si  fa  vino,  giunto  all'omor 
che  dalla  vite  cola  »  30.  La  tesi  di  fra  Paolo  è  dunque  identica 
in  sostanza  alla  tesi  professata  da  Sigieri  nel  trattato  in  ri- 
sposta a  quello  dell'  Aquinate  contro  gli  averroisti  ;  ma  d'ac- 
cordo col  brabantino  il  maestro  padovano  non  è  nella  pretesa 
d'attribuire  questa  tesi  al  commentatore  di  Cordova;  anzi 
egli  riconosce  che  è  vero  il  contrario: 

Cominentator  tamen  diceret  intellectum  per  se  subsistere, 
et  ipsum  non  uniri  materie  ut  formam;  sed  non  sui  ipsius  {sic, 
leggi:  sum  ipsius)  opinionis  3'. 

Ma  se  il  nostro  eremitano  dissente  da  Sigieri  su  questo  par- 
ticolare, non  dissente  affatto  da  lui  nel  ritenere  che,  pur  es- 
sendo forma  dell'uomo,  l' intelletto  possibile  è  unico  per  tutti 
gli  uomini.  E  nella  Summa  naturalium  32  ritiene  sia  questo  il 
pensiero   non   soltanto   d'Averroè,    bensì   quello   d'Aristotele: 

Unde  secundum  philosophum,  primo  et  tertio  de  anima,  na- 
tura nihil  facit  frustra  et  non  abundat  in  superfluis,  nec  deficit 
in  necessariis;  cum  igitur  natura  alicui  speciei  non  dederit  nisi 
unum  individuum,  et  alteri  plura,  hoc  est  ideo,  quia  una  species 
in  uno  individuo  potest  se  perpetuo  preservare,  et  non  alia;  ut 
species  angelica  que  perpetuo  preservatur  in  una  intelligentia, 
et  non  species  humana;  sed  ita  est  quod  species  anime  intellective 
potest  se  preservare  perpetuo  in  uno  individuo,  quia  anima  in- 
tellectiva  est  perpetua  et  eterna  sicut  aliqua  intelligentia  celestis, 
ergo  frustra  et  preter  intentionem  nature  ponuntur  plures  anime 
intellectuales  solo  numero  differentes.  —  Item,  intellectus  venit 
de  foris,  secundum  philosophum,  xvj  libro  de  animalibus:  aut 
ergo  per  creationem,  iuxta  opinionem  fidei;  aut  per  motum  a 
corporibus  celestibus,  iuxta  opinionem  Platonis;  aut  per  introitum 
unius  corporis,  aliud  relinquendo,  iuxta  opinionem  Pictagore; 
aut  per  novam  actuationem  unius  corporis  humani,  aliud 
non  relinquendo:  nullus  trium  priorum  modorum  potest  assi- 
gnari,  quia  intuenti  libros  Aristotelis  notum  est  ipsum  oppositum 


29  Vedi    Sigieri...  nel  pens.,    pp.    13-20. 

30  Purg.,    XXV,    76-78. 

31  In  libros  de  anima,  1.  e.  fol.   132,  col.  3. 

32  Parte  V,  cap.  37,  fol.  88,  col.  3. 


PAOLO    VENETO    E    l'aVERROISMO    PADOVANO  87 

opinari;  ergo  est  dare  quartum  modum;  et  cum  in  eodem  corpore 
non  possint  esse  plures  anime  intellective  simul,  secundum  omnes 
opiniones,  sequitur  quod  unicus  est  intellectus  in  omnibus  homi- 
nibus   secundum   intentionem   Aristotelis. 

E  più  oltre: 

Quarta  conclusio:  Intellectus  non  numeratur  numeratione 
individuorum,  sed  est  unicus  in  omnibus  hominibus.  Probatur: 
pluralitas  individuorum  in  eadem  specie  non  est  nisi  per  mate- 
riam,  per  philosophum,  j  celi  (t.  e.  92),  vij  et  xij  metaphysice 
(VII,  t.  e.  28;  XII,  t.  e.  49),  ubi  probat  quod  non  possunt  esse 
plures  intelligentie  separate  solo  numero  differentes,  per  hoc 
medium  :  quecunque  conveniunt  in  eadem  specie  et  differunt 
numero,  habent  materiam;  sed  anima  intellectivam  non  habet 
materiam  scilicet  ex  qua,  nec  in  qua  per  inherentiam;  ergo  etc. 
Unde  arguitur  sic:  anima  intellectiva  est  ingenerabilis  et  incor- 
ruptibilis,  iij  de  anima  (t.  e.  20),  et  non  contingit  dare  multitu- 
dinem  infinitam,  j  celi  (t.  e.  68)  et  iij  physicorum  (t.  e.  40),  et 
species  sunt  eterne,  j  posteriorum  (t.  e.  56)  et  vii]  physicorum 
(t.  e.  57);  ergo  unica  est  anima  intellectiva  omnium.  Patet  con- 
sequentia,  quia,  si  anima  intellectiva  mutatur  mutatione  indivi- 
duorum speciei  humane,  aut  ergo  per  generationem  et  corruptio- 
nem,  ut  posuit  Alexander,  et  hoc  non,  quia  repugnat  prime  parti 
antecedentis  ;  aut  per  multiplicationem  finitam  animarum  re- 
cedentium  et  advenientium,  ut  posuit  Plato  vel  Pictagoras,  et 
hoc  iterum  non,  quia  omnes  sciunt  oppositum  scripsisse  Aristo- 
telem;  aut  per  generationem  vel  creationem  et  incorruptibili- 
tatem,  ut  ponit  fides,  et  hoc  iterum  non,  quia  repugnat  secunde 
et  tertie  parti  antecedentis;  ergo  oportet  dare  unicum  intellectum 
in  omnibus  hominibus,  secundum  opinionem  et  intentionem  Ari- 
stotelis. 

La  stessa  tesi  Paolo  Veneto  sostiene  anche  nell'esposizione 
del  De  animaci,  ma  con  una  piccola  variazione:  nella  Summa,  la 
teoria  dell'unico  intelletto  in   tutti  gli  uomini   è   detta  sen- 


33  In  libros  de  anima.  III,  ad  t.c.  5,  fol.  130,  col.  3:  «  Secundo  notan- 
dum,  secundum  Commentatorem,  eodem  commento,  quod  Illa  natura 
(intellectus)  non  est  hoc  aliquid,  nec  corpus  nec  virtus  in  corpore,  quo- 
niam,  si  ita  esset,  tunc  reciperet  formas  secundum  quod  sunt  diverse 
et  individuales;  et  si  ita  esset,  tunc  forme  existentes  in  illa  essent  in- 
tellecte  in  potentia,  et  sic  non  distingueret  naturam  formarum  secun- 
dum quod  sunt  forme,  sicut  est  dispositio  in  formis  individualibus, 
sive  in  spiritualibus  sive  in  corporalibus.  Intentio  commentatoris  est, 
quod  intellectus  humanus  non  sit  aliquid  singulare  vel  individuum, 
ex  quo  non  est  corpus  nec  virtus  in  corpore;  quoniam  materia  est  ratio 
individuationis,  a  qua  separatur  intellectus  humanus  sicut  et  quelibet 
intelligentia  celi.  Tria  ergo  inconvenientia  adducit,  concesso  quod 
intellectus  sit  hoc  aliquid.   Primum  inconveniens  est,  quod  intellectus 


88  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV   AL    XVI 

z'altro  rispondere  al  pensiero  d'Aristotele  «  iuxta  impositionem 
Commentatoris  »  ;  nel  commento  invece  è  presentata  sempli- 
cemente come  «  intentio  »  e  «  opinio  Commentatoris  »  :  segno 
che  sul  vero  pensiero  d'Aristotele  s'era  forse  affacciato  qualche 
dubbio   alla  mente   del  maestro   padovano. 

Un'altra  tesi  tipica  di  Sigieri  consiste,  come  sappiamo, 
nel  ritenere  che  l' intelletto  agente,  tanto  per  Aristotele  quanto 
per  il  suo  commentatore  arabo,  sia  Dio. 

Nella  Summa  naturalium  34,  fra  Paolo  ritiene: 

quod  intellectus  agens  et  possibilis  non  separantur  ab  anima 
intellectiva,  sed  sunt  differentie  illius  non  substantiales...,  sed 
accidentales....  Intellectus  agens  est  coniunctus  anime  intellective 
per  inherentiam  et  fantasmatibvis  per  presentiam  et  indistantiam. 

Per  altro  nella  risposta  «  Ad  primum  (argumentum)  »  egli 
accenna  anche  alla  tesi  di  Sigieri,  ma  senza  aderire  ad  essa: 

Commentator  autem  vult  intellectum  possibilem  esse  essen- 
tiam  anime  intellective,  et  intellectum  agentem  esse  primam  cavi- 
sam,  vitaliter  immutantem  ipsum  intellectum  possibilem;  sed 
hanc  opinionem  non  teneo  ad  presens. 

Invece,  quando  scriveva  l'esposizione  al  De  anima,  egli  era 
ormai  convinto  che  la  tesi  di  Sigieri  fosse  la  sola  vera,  non 
soltanto  dal  punto  di  vista  della  filosofia  aristotelica,  ma  al- 
tresì da  quello  teologico: 

Dubitatur,  si  intellectus  agens  et  possibilis  differunt  tam  inter 
se  quam  ab  assentia  anime,  utrum  sint  substantie  vel  accidentia. 

In  hac  materia  fuerunt  quatuor  opiniones.  Prima  fuit  Avi- 
cenne  et  Algacelis,  dicentium  intellectum  agentem  et  possibilem 
esse  substantias  invicem  separatas  loco  et  subiecto,  ita  quod  se- 
cundum  eum  {sic)  intellectus  possibilis  est  forma  hominis,  et 
intellectus  agens  est  decima  intelligentia  appropriata  decime 
spere,   a  qua  nostra  felicitas  dependet;  sicut  ergo  iste  unus  sol 


non  reciperet  nisi  formas  individuales  et  secundum  quod  sunt  diverse... 
Secundum  inconveniens:  quod  species  intelligibiles  essent  intentiones 
intellecte  in  potentia  et  non  in  actu;  quod  est  falsum,  cum  sint  univer- 
sales  et  depurate  a  conditionibus  materialibus....  Tertium  inconve- 
niens:  quod  intellectus  non  poneret  differentiam  inter  formas  univer- 

sales   et   singulares,   sive   ille   forme   corporales   sive   spirituales ».    E 

dopo  aver  riferite  quattro  obiezioni  «  contra  commentatorem  »,  comincia 
la    sua    risposta    con    queste    sintomatiche    parole:    «  Responsurus    prò 
opinione    Averroys,    dico...... 

34  Parte  V,  cap.  38,  fol.  89,  col.   1-4. 


PAOLO  VENETO  E  L  AVERROISMO  PADOVANO  09 

totum  universum  illuminat,  per  cuius  illuminationem  possunt 
omnes  oculi  videre,  sic,  dicebant  illi,  est  aliqua  una  substantia 
separata  irradians  super  fantasmata  omnium  hominum,  per 
cuius   irradiationem   possunt   omnes   homines   intelligere. 

Hec  opinio  est  in  parte  defectuosa,  quia  postquam  intellectus 
factus  est  in  actu  nos  intelligimus  quandocumque  volumus, 
secundum  quod  posuit  supra  Commentator  et  habetur  ad  expe- 
rientiam;  sed  talis  substantia  separata  non  videtur  irradiare 
supra  fantasmata  quandocunque  volumus,  sicut  nec  sol  illuminat 
oculum  quandocunque  volumus;  cum  ergo  non  intelligamus 
absque  intellectu  agente,  ergo  intellectus  agens  non  est  talis 
intelligentia  separata  35. 

Siffatta  critica  della  tesi  d'Avicenna,  ci  fa  presentire  come 
la  pensi  il  nostro  su  quest'argomento:  se  invece  di  identifi- 
care r  intelletto  agente  colla  decima  intelligenza  celeste,  che 
è  r  infima  delle  intelligenze  separate,  Avicenna  l'avesse  iden- 
tificato con  Dio,  questo  certamente  irradia  della  sua  luce  i 
fantasmi  «  quandocumque  volumus  ».  Il  difetto  insomma  di 
questa  teoria  consiste  nell'avere  identificato  l' intelletto 
agente  con  un  intelletto  particolare,  anzi  che  con  un  intel- 
letto veramente  universale. 

Dopo  di  che,  Paolo  Veneto  espone  e  critica  come  seconda 
opinione  quella  d'  Egidio,  di  S.  Tommaso  e  di  tutti  quegli 
antichi  scolastici  che  ritenevano  l' intelletto  possibile  ed  agente 
facoltà  accidentali  dell'anima.  La  terza  opinione,  da  lui  ri- 
ferita parimente  rifiutata,  è  quella  di  Giovanni  Eucliph, 
ossia  Giovanni  WycHf,  il  cui  ricordo  doveva  essere  ancora 
ben  vivo  a  Oxford,  quando  vi  giunse  il  nostro  eremitano  56. 
Indi  prosegue: 


35  In  libros  de  anima,   III,  ad  t.  e.   19,  fol.   142,  col.  4. 

36  La  terza  opinione  è  così  riassunta  (fol.  142,  col.  4-143,  col.  i): 
«  Tertia  opinio  fuit  Ioannis  Eucliph  dicentis  intellectum  possibilem  et 
intellectum  agentem  esse  potentias  anime  inteUective,  non  tamen  esse 
substantias  nec  accidentia;  sicut  enim  dicunt  theologi  quod  pater, 
filius  et  spiritus  sanctus  sunt  tres  persone  realiter  distincte,  non  tamen 
tres  substantie  nec  tria  accidentia,  sed  una  substantia  que  est  deus, 
ita  intellectus  agens  et  intellectus  possibilis  et  voluntas  sunt  tres  po- 
tentie  realiter  distincte,  non  tamen  tres  substantie,  nec  tria  accidentia, 
sed  una  substantia  que  est  anima  intellectiva  ;  et  sicut  pater  non  est 
filius,  nec  spiritus  sanctus,  et  tamen  est  ille  idem  deus  qui  est  filius  et 
spiritus  sanctus,  ita  intellectus  agens  non  est  intellectus  possibilis 
nec  voluntas,  et  tamen  est  intellectus  agens  illa  eadem  anima  intel- 
lectiva numero,  que  est  voluntas  et  intellectus  possibilis.  Opinio  ista 
non  est  tenenda  phylosophice   nec  theologice  »  etc. 


90  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

Quarta  opinio,  que  tenenda  est,  fuit  Aristotelis  ponentis  in- 
tellectum  agentem  et  possibilem  esse  virtutes  et  potentias  anime 
non  subtantiales  nec  accidentales,  sed  intellectum  possibilem 
esse  accidens  proprium  et  inseparabile  anime  intellective,  quo 
recipit  omnes  formas  speculativas,  sicut  materia  prima  per  suam 
accidentalem  potentiam  recipit  omnes  forinas  naturales.  Intel- 
lectuin  vero  agentem  voluit  esse  substantiam  primam,  coniunctam 
intellectui  possibili  non  per  modum  forme  informantis  nec  inhe- 
rentis,  sed  per  modum  forme  et  habitus  presentis  et  indistantis; 
nec  aliqua  intelligentia,  preter  primam  que  deus  est,  potuit  esse 
intellectus  agens,  quia,  sicut  potentialitati  prime  materie  respondet 
actus  purissimus  in  quo  sunt  active  omnes  forme  naturales  que 
sunt  in  prima  materia  passive,  ita  potentialitati  anime  intellective 
competere  (correspondere  ?)  agens  primum,  in  quo  sunt  effective 
omnes  forme  speculative,  que  passive  sunt  in  anima  intellectiva, 
mediante  intellectu  possibili  37.  Si  enim  aliqua  intelligentia  depen- 
dens  esset  intellectus  agens,  per  istam  non  posset  intellectus  pos- 
sibilis  intelligere  primam  causam,  quia  intellectus  agens  abstrahit 
intellecta  et  agit  ea,  secundum  Commentatorem  ;  modo  nulla 
intelligentia  inferior  potest  abstrahere  causam  primam  nec  in 
illam  aliquo  modo  agere,  ratione  independentie  (suedependentie  ?) 
et  imperfectionis.  Et  hec  opinio  non  solum  est  physica,  sed  etiam 
a  theologis  tenetur. 

Nel  commento  al  De  anima,  dunque,  ogni  riserva  è  sciolta, 
e  fra  Paolo  giudica  la  dottrina  che  identifica  l' intelletto 
agente  colla  causa  prima,  cioè  con  Dio,  non  soltanto  conforme 
al  pensiero  d'Aristotele  e  d'Averroè,  ma  senz'altro  vera  in  se 
stessa  e  tenuta  dai  filosofi,  non  meno  che  da  non  pochi  teologi. 
La  tesi  di  Sigieri,  intorno  alla  quale  aveva  avuto  dei  dubbi, 
aveva   finito  per  prendere  il  sopravevnto  nel  suo   animo. 

Altrettanto  non  possiamo  dire  d'un'altra  tesi  del  braban- 
tino,  strettamente  connessa  con  quella  che  concerne  l' intel- 
letto agente,  la  teoria  cioè  della  beatitudine  per  mezzo  del 
congiungimento  della  mente  umana  coli'  intelletto  divino. 
Su  questo  punto  Sigieri  aveva  fatta  sua  l' interpretazione 
che  il  Commentatore  di  Cordova,  nella  celebre  digressione 
inserita  nel  commento  36  del  III  libro  De  anima,  dava  del 


37  Allo  stesso  modo  per  Dante,  Conv.,  IV,  xxi,  5,  l'anima  in  vita 
tratta  per  virtù  celestiale  dalla  potenza  del  seme,  «  incontanente  pro- 
dutta,  riceve  da  la  vertù  del  motore  del  cielo  lo  intelletto  possibile; 
lo  quale  potenzialmente  in  sé  adduce  tutte  le  forme  universali,  secondo 
che  sono  nel  suo  produttore,  e  tanto  meno  quanto  più  dilungato  da  la 
prima  Intelligenza  è  ».  Sul  qual  passo,  cfr.  B.  Nardi,  Dante  e  la  cultura 
medievale,  pp.  267  sgg.,  e  Giorn.  Crit.  filos.  Hai.,  XIII,  1933,  pp.  54-56. 


PAOLO    VENETO    E    l'aVERROISMO    PADOVANO  QI 

pensiero    d'Aristotele.    Anche    l'eremitano    sa    bene    come    la 
pensasse   Averroè  : 

Commentator  autem  dicit  iij  de  annna  (t.  e.  5  et  36),  quod, 
cum  intellectus  possibilis  fuerit  intellectus  adeptus,  idest  actuatus 
omnium  specierum  materialium,  intelligit  intellectum  agentem 
per  essentiam  propriam  38. 

Ma  neppur  questa  volta  egli  è  dell'avviso  dell'arabo;  e 
postosi  il  quesito  «  Qualiter  intellectus  noster  intelligit  sub- 
stantias  separatas  »,  lo  risolve  affermando  che  l' intelletto 
umano  conosce  le  sostanze  immateriali  «  non  per  se  et  directe, 
sed  indirecte  et  reflexe  per  cognitionem  motus  celi»  39. 

Così  nella  Summa  naturalium.  Ma  nell'esposizione  del  De 
anima  è  anche  più  esplicito,  se  fosse  possibile.  Postosi  di  nuovo 
il  problema  «  Utrum  intellectus  possit  intelligentias  separatas 
cognoscere  »,  fa  questa  osservazione  che  è  presa  alla  lettera 
dal  commento  di  S.  Tommaso: 

Istam  questionem  non  solvit  hic  philosophus,  dicens  se  deter- 
minaturum  alibi,  scilicet  in  libro  metaphysice...;  hec  questio 
tamen  non  invenitur  soluta  per  ipsum,  quia  complementum  illius 
scientie  nondum  ad  nos  pervenit,  vai  quia  nondum  est  totus  liber 
translatus,  vel  forte  morte  preoccupatus  librum  non  complevit  40. 

Ciò  non  di  meno  egli  espone  qual  fosse  il  pensiero  d'Averroè 
e  in  che  differisse  da  quello  degli  altri  interpreti  della  dottrina 
d'Aristotele.  Ma  giunto  alla  fine  della  discussione,  egli  ci  fa 
sapere  «  quod  hec  opinio  iam  non  tenetur  a  theologis  vel  phi- 
losophis  »,  e  ripete  «  quod  intelligentie  separate  cognoscuntur 
ab  intellectu  possibili  non  per  se  et  directe...,  sed  indirecte 
et  reflexe  per  cognitionem  motus  celi  »  41. 

Da  quanto  precede,  mi  pare  risulti  in  modo  da  non  lasciar 
dubbio,  che  Paolo  Nicoletti,  quando  nel  1408  insegnava  a 
Padova,  aveva  od  aveva  avuto  tra  mano  per  lo  meno  lo  scritto 
di  Sigieri  in  risposta  al  trattato  tomistico  De  unitale  intel- 
lechis.  Questa  e  verosimilmente  altre  opere  del  brabantino 
circolavano  già  fra  i  maestri  dello  studio  padovano,  o  fu  il 


38  Summa  naturai. ,Y,   e.   41,   f.   91,   col.   3. 

39  76.,  cap.  42,  f.  92,  col.   i. 

40  In  libros  de  anima.  III,  ad  t.  e.  36,  fol.   152,  col.   i,  Cfr.  S.  Tom- 
maso, De   anima,  III,  lez.   12. 

41  Ib.,  fol.    153,   col.    I. 


92  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

nostro  eremitano  a  portarvele,  forse  da  Oxford  o  da  Parigi  ? 
Non  saprei  che  dire,  perché  tanto  l'una  che  l'altra  suppo- 
sizione, in  mancanza  di  dati  sicuri,  è  ugualmente  ammissibile. 
Ulteriori  ricerche  nella  letteratura  manoscritta  concernente  i 
maestri  che  professarono  a  Padova  e  a  Bologna  nei  secoli  XIV 
e  XV,  potranno  gettare  qualche  luce  sulle  correnti  d' idee 
che  fervevano  in  quei  due  centri  d'intensa  vita  intellettuale 4^. 
Per  il  momento,  a  noi  basti  di  ricordare  quel  maestro  Taddeo 
da  Parma,  il  quale  insegnava  a  Bologna  intorno  al  1320,  e 
che  nel  suo  commento  al  De  anima  accoglieva  la  tesi  difesa 
da  Sigieri  nelle  Quaestiones  de  anima  intellectiva'iì.  Ma  Taddeo, 
più  che  l'opera  del  brabantino  sembra  aver  letto  le  Quae- 
stiones di  Giovanni  di  Jandun,  le  quali  ebbero  in  Italia  dal 
secolo  XIV  al  XVI  la  più  larga  diffusione  e  furono  trascritte 
e  stampate  in  parecchie  edizioni,  discusse  con  vivacità  e 
qualche  volta  fraintese.  Fraintesa  in  particolare  sembra  es- 
sere stata  da  Paolo  Veneto,  e  da  altri  la  dottrina  intorno  al 
modo  come  l'anima  intellettiva  è  forma  del  corpo,  la  quale, 
come  già  sappiamo  è  in  sostanza  quella  di  Sigieri,  cui  espHci- 
tamente  accennava.  Il  bisogno  di  togliere  alla  dottrina  aver- 
roistica  quello  che  essa  aveva  d'eretico,  dopo  che  il  concilio 
di  Vienne  aveva  definito  esser  l' intelletto  forma  del  corpo 
umano,  dovette  invogliare  gli  averroisti  italiani  a  procurarsi 
quegli  scritti  nei  quali  Sigieri  s'era  difeso  contro  le  obiezioni 
di  S.  Tommaso,  e  nei  quali,  senza  rinunziare  alla  tesi  dell'unico 
intelletto  avea  tentato  di  dimostrare  com'esso  s'unisse  al- 
l'uomo con  tale  intimo  e  sostanziale  legame,  da  potersi  dire 
forma  dell'  individuo  umano  cui  s'attribuisce  l'atto  dell'  in- 
tendere. L' insegnamento  di  Paolo  Nicoletti  a  Padova  è  una 
inequivocabile  testimonianza  che  gli  scritti  di  Sigieri  non 
erano  ignoti. 

Un'altra  cosa  questo  insegnamento  ci  attesta:  che  la  dot- 
trina averroistica  poteva  esser  liberamente  discussa  ed  esposta 
a  Padova,  fin  dal  primo  decennio  del  secolo  XV,  senza  che  chi 
se  ne  faceva  sostenitore  incorresse  nella  taccia  d'eretico; 
tanto  vero  che  frate  Paolo  non  sente  neppure  il  bisogno  di 


42  Cfr.  sotto,  il  saggio  XI. 

43  Cfr.  Sofia  Vanni  Rovighi,  Le  Quaestiones  de  anima  di  Taddeo 
da  Parma.  Testo  e  introduzione.  Milano,  Soc.  Ed.  «  Vita  e  pensiero  », 
195 I,  P-   35  sgg. 


l'AOLO    VENETO    E    L'AVERROISMO    PADOVANO  93 

ripetere  la  solita  formale  protesta,  che  altri  averroisti  avevano 
cura  di  non  omettere,  cioè  che  essi  trattavano  dallo  spinoso 
argomento  come  filosofi  e  non  come  teologi.  E  forse  perché 
gli  averroisti  padovani  usavano  senza  parsimonia  di  questa 
libertà,  il  vescovo  Barozzi  d'accordo  coli'  inquisitore  locale 
proibì  «  quovis  quaesito  colore  »  le  dispute  intorno  all'unità 
dell'  intelletto.  Ma  il  divieto  riguardava  la  diocesi  di  Padova, 
e  non,  per  esempio,  Bologna  e  Pavia,  ove  si  continuò  a  dispu- 
tare con  grande  spregiudicatezza. 


IV 

LA  MISCREDENZA 
E  IL  CARATTERE  MORALE  DI  NICOLETTO  VERNIA  * 


Non  mi  stancherò  mai  dal  ripetere,  per  coloro  che  han 
l'animo  sgombro  da  pregiudizi,  che  una  vera  e  propria  dot- 
trina della  «  doppia  verità  »  nel  medio  evo  e  nel  Rinascimento 
non  fu  mai  sostenuta  da  alcuno  '.  Molti  invece  furon  quelli 
che,  contro  il  concordismo  tomistico,  posero  in  rilievo  l'oppo- 
sizione di  fatto  fra  la  teologia  e  la  filosofia,  '  intendendo  per 
filosofia  la  dottrina  della  natura  congegnata  in  sistema  da 
Aristotele,  detto  perciò  il  «  filosofo  «  per  eccellenza,  e  svilup- 
pata dai  suoi  commentatori  greci  ed  arabi.  Il  primo  a  rendersi 
conto,  in  modo  chiaro  ed  esphcito,  di  questa  opposizione,  fu 
Alberto  Magno.  Il  quale,  non  solo  dichiarava  apertamente  che 
«  theologica  cum  physicis  principiis  non  conveniunt  »  -,  ma 
giungeva  fino  a  sostenere,  non  doversi  far  caso  dei  miracoli 
che  Dio  opera  oltre  il  potere  della  natura,  quando  si  tratta  di 
conoscere  quello  che  è  il  corso  degli  eventi  naturali  3.  Perciò, 
egli  che  s'era  proposto  «  totam  Aristotelis  scientiam  prò.... 
viribus  explanare  »,  dichiarava  di  rifuggire  dall'  interpreta- 
zione che  del  pensiero  aristotelico  davano  i  dottori  latini: 
«  quoniam    in    istarum    quaestionum    determinatione    omnino 


*  Dal   «Giorn.   Crit.   di   Filos.   Ital.  »,   XXX,    1951,    pp.    103-118. 

1  Vedasi  quanto  ho  detto  sopra,  pp.  55-58,  71-75,  e  in  Dante  e  la 
cultura  medievale,  2*  ed.  Bari,  Laterza,  1949,  pp.  208-209,  nonché  quanto 
ne  ha  scritto  E.  Gilson,  Etudes  de  philos.  médiév.,  Strasbourg,  1921, 
PP-    5i'75;  id.,  Dante  et  la  philosophie,  Paris,  1939,  p.  sgg. 

2  A.  Magno,  Metaphys.,  XI,   tr.   3,   e.   7. 

3  A.  Magno,  De  gener.  et  corrupt.,  I,  tr.  i,  cap.  22,  ad  t.  e.  14.  Cfr. 
la  mia  nota  La  posizione  di  Alberto  Magno  di  fronte  all'averroismo,  in 
«  Riv.  di  Storia  d.  Filos.  »,  II,  1947,  p.  197  sgg. 


q6  l'aristotelismo    padovano    dal    SFXOLO    XIV    AL    XVI 

abhorremus  doctorum  latinorum  verba  »  4  ;  fra  i  quali  è  sicu- 
ramente il  suo  confratello  italiano,  frate  Tommaso  d'Aquino  5. 

La  pretesa  «  teoria  della  doppia  verità  »  non  fu  dunque 
una  «  teoria  «  né  una  «  dottrina  »,  ma  la  semplice  constata- 
zione del  disaccordo  o  contrasto  fra  la  filosofia  aristotelica  e  il 
pensiero  cristiano.  Ed  era  perfettamente  logico  che  gli  esposi- 
tori del  pensiero  aristotelico  diffidassero  dei  tentativi  concor- 
distici  di  Tommaso  e  d'altri  teologi,  e  preferissero  attenersi 
neir  interpretazione  d'Aristotele  ai  principii  fondamentali  della 
sua  metafisica,  senza  preoccupazioni  teologiche,  sia  che  le 
conclusioni  cui  giungevano  s'accordassero  o  no  coi  dogmi 
della  fede,  avendo  per  altro  cura  di  dichiarare  che  quello  che 
affermavano  come  filosofi,  cioè  come  interpreti  d'Aristotele, 
non  riguardava  né  intaccava  la  verità  di  fede,  cui  essi  prote- 
stavano di  credere  come  fa  ogni  buon  cristiano  6. 

Dal  punto  di  vista  logico  e  oggettivo,  questo  atteggiamento 
degli  averroisti  era  perfettamente  coerente  e  non  impHcava 
in  sé  niente  di  contradittorio,  e  tanto  meno  costituiva  quel- 
l'eresia che  Tommaso  d'Aquino  e  alcuni  altri  teologi  vi  scor- 
sero. 

Il  che  compresero  bene  non  pochi  altri  teologi  ai  quali  il  tenta- 
tivo tomistico  di  cristianeggiare  la  filosofia  aristotelica,  per  an- 
corare ad  essa  il  dogma,  non  parve  né  di  buon  gusto  né  di 


4  A.  Magno,  De  anima,  III,  tr.  2,  e.  i,  ad  t.  e.  2  ;  La  posizione  d'A.  M., 
p.  215.  Il  Pomponazzi,  che  rifugge  del  pari  da  questo  «  fratrizzare, 
idest  miscere  diver.-a  brodia  »  [Phys.  Vili,  t.  e.  76,  Bibl.  Nation.  di  Pa- 
rigi, cod.  lat.  6533,  f.  568r),  loda  anche  lui  Alberto  Magno,  perché  a  dif- 
ferenza degli  altri  «fratres  omnes»,  cioè  d'Egidio,  di  Tommaso,  di  Scoto 
e  di  Gregorio  da  Rimini,  s'è  astenuto  dal  «  frateggiare  »,  mescolando 
filosofìa  e  teologia.  Sicché  «  isti  fratres  truffadini,  dominichini,  fran- 
ceschini  vel  diabolini  habent  bene  rationem  comburendi  Albertum, 
quia  omnes  questiones  sunt  contra  fìdem  nostram  licet  dicat  in  fine, 
quod  ita  dicit  quia  ut  philosophus  loquitur,  et  philosophica  non  sunt 
miscenda  cum  theologicis;  et  dicit  quod  in  theologia  aliter  sentit;  et 
dicit  quod  est  fatuum  miscere  eredita  cum  physicis;  me  autem  vellent 
comburere»  {Phys.,  Vili,  t.  e.  85.  Arezzo,  Fraternità  de'  Laici,  m.  389, 
f.  317»'.  Cfr.  cod.  Parig.  cit.,  f.  584^). 

5  Cfr.  il  mio  articolo  Alberto  Magno  e  S.  Tomìiiaso,  in  «  Giorn.  Crit. 
d.  Filos.  Ital.  »,  XXII,  1941,  p.  36  sgg.,  e  La  posiz.  di  A.  M.,  pp.  200, 
210,   219. 

6  Non  va  confusa  con  questa  tesi  la  dottrina,  svolta  più  tardi  da  Gior- 
dano Bruno,  e  anch'essa  d'origine  averroistica,  la  quale  attribuisce  alle 
«  verità  di  fede  »  un  valore  puramente  pratico,  che  il  filosofo  accetta 
solo  come  tale.  Dell'origine  e  dello  sviluppo  di  questa  teoria  ho  parlato 
n   «Giorn.  Crit.   d.   Filos.   Ital.»,   XXX,    1951,  p.   363  sgg. 


J 


MISCREDENZA    E    CARATTERE    DI    NICOLETTO    VERNIA  97 

buon  augurio.  E  in  particolare  lo  compresero  gì'  inquisitori 
che  sorvegliavano  con  occhio  sospettoso  le  manifestazioni 
dell'eretica  pravità.  A  questi  ultimi  importava  mediocremente 
di  sapere  come  la  pensassero  Aristotele  e  Averroè  sull'eternità 
del  mondo  o  sull'unione  dell'intelletto  all'uomo:  essi  invece 
volevano  essere  rassicurati  sui  sentimenti  personali  dei  com- 
mentatori cristiani  d'Aristotele  intorno  a  questi  argomenti. 
E  per  esserlo,  bastaron  loro,  a  quanto  pare,  le  pubbliche  di- 
chiarazioni che,  neir  insegnamento  e  nei  loro  scritti,  gli  ari- 
stoteli  si  facevano  premura  di  non  dimenticare. 

Ciò  spiega  come  l'averroismo  e  l'alessandrismo  abbiano 
potuto  avere  una  vita  abbastanza  florida  sino  alla  fine  del 
secolo  XVI;  e  com'essi  fossero  apertamente  professati  a  Pa- 
dova, a  Bologna  ed  altrove  senza  che  per  questo  corresse 
sangue,  come  fantasticava  Francesco  Orestano  2.  Ch'  io  sappia, 
neppure  una  goccia  ne  fu  versato,  a  meno  che  non  fosse  dal 
naso  nell'ardor   delle   dispute. 

E  nella  libera  discussione,  entro  e  fuori  le  aule  universi- 
tarie, a  Padova  e  a  Bologna,  e  non  per  editti  restrittiva,  l'ari- 
stotelismo nelle  sue  varie  tendenze  esaurì  la  propria  vitalità, 
quando  si  comprese  che  i  problemi  da  esso  posti  erano  inso- 
lubih,  per  esser  mal  posti.  Ma,  intanto,  quella  che  s'usa  chia- 
mare «  dottrina  della  doppia  verità  »,  aveva  ottimamente 
compiuto  la  sua  funzione  storica,  di  assicurare  un'assai  ampia 
libertà  d' indagine  e  di  critica,  di  cui  il  pensiero  del  Rinasci- 
mento   s'  è    avvantaggiato  ^. 

A  questo  punto  nasce  per  altro  un  dubbio  perfettamente 
legittimo  e  stimolante:  erano  poi  sinceri,  averroisti  e  alessan- 
dristi,  quando  dichiaravano  di  limitarsi  ad  esporre  quello 
che,  a  loro  avviso,  era  il  pensiero  d'Aristotele,  ossia  la  «  ve- 
rità filosofica  »,  senza  aderirvi,  ma  anzi  ripudiandola,  e  di 
credere  alla  verità  della  fede  ?  oppure  si  beffavano  in  cuor 
loro  degli  inquisitori,  mettendosi  al  riparo,  per  mezzo  di  quelle 
dichiarazioni,  contro  le  pene  canoniche  comminate  agli  eretici  ? 
Un  dubbio  siffatto  solleva  problemi  delicati,  di  difficilissima 


7  Riesame  della  «  Beatrice  svelata  »,  in  «  Studi  su  Dante  »,  IV,  Milano, 
Hoepli,  1939,  p.  24;  cfr.  il  mio  voi.  Nel  mondo  di  Dante,  Roma,  1944, 
PP-   355-56. 

8  B.  Nardi,  Sigieri  di  Brabante  nel  pensiero  del  Rinascimento  italiano, 
pp.  89-90.  Si  veda  anche  la  voce  Averroismo  nel  II  voi.  déW' Enciclope- 
dia Cattolica. 


9»  L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

soluzione.  Intanto  si  deve  constatare  che,  in  generale,  gì'  in- 
quisitori si  mostraron  piuttosto  propensi  a  credere  alla  sin- 
cerità di  quelle  dichiarazioni  e  a  lasciare  che,  nel  foro  inte- 
riore, ognuno  s'aggiustasse  con  Dio  come  meglio  credeva. 
Non  tutti,  però:  che  noi  sappiamo  della  citazione  di  Sigieri, 
di  maestro  Bernieri  di  Nivelles  e  di  maestro  Gosvino  de  la 
Chapelle  da  parte  dell'  inquisitore  di  Francia,  il  23  novem- 
bre 12769;  del  processo  intentato  a  Biagio  Pelacani,  maestro 
a  Pavia,  dal  vescovo  di  questa  città,  il  16  ottobre  1396 '°; 
e  dell'editto  emanato  il  6  maggio  1489  dal  vescovo  di  Padova 
e  dall'  inquisitore  del  luogo,  col  quale  si  vietava  ai  maestri 
e  agli  scolari  ogni  pubblica  disputa  intorno  alla  dottrina 
averroistica  dell'  intelletto.  Quanto  al  primo  caso,  sappiamo 
tuttavia  che  Sigieri  e  i  compagni  interposero  appello  alla 
curia  papale  avverso  la  sentenza  dell'  inquisitore  di  Francia, 
né  risulta  che  questa  fosse  confermata.  Il  processo  contro 
Biagio  Pelacani  dev'essere  stato  motivato  da  espressioni 
veramente  ardite  «  contra  fìdem  catholicam  et  sanctam  ec- 
clesiam  »,  come  quelle  che  s' incontrano  nelle  Quaestiones 
sul  De  anima  conservateci  nel  Codice  Chigiano  O.  IV.  41,  e 
discusse  nel  1385  quando  Biagio  insegnava  a  Padova  ".  Il 
maestro  si  dichiarò  «  male  contentus  »  del  linguaggio  da  lui 
tenuto,  e  dopo  aver  chiesto  perdono  «  de  commissis  »,  il  ve- 
scovo di  Pavia  «  restituit  eum  ad  lecturam  et  salarium  so- 
lita »  12. 

L'editto  invece  di  Pietro  Barozzi,  vescovo  di  Padova,  e 
dell'  inquisitore  fra  Martino  da  Lendinara  merita  più  lungo 
discorso. 

Insegnava  allora  nello  studio  padovano,  come  lettore  or- 
dinario di  filosofia  naturale,  Nicolò  Vernia  da  Chieti,  che  per 
la  sua  piccola  statura  era  chiamato  ed  egli  stesso  si  firmava 
Nicoleto,  come  Pietro  Pomponazzi,  suo  alunno,  sarà  detto, 
per  la  stessa  ragione,  il  Pereto  (Nicoletto  e  Perette  son  forme 
italianizzate  della  schietta  forma  dialettale  padovana  Nicoleto 
e  Pereto).  Addottorato  in  filosofia  naturale  a  Padova  il  30 
maggio  1458,  dopo  avere  studiato  la  logica  a  Venezia  sotto 


9  Cfr.  Riv.  di  Storia  d.  Filos.,   1947,  P-   120  sgg. 
1°  Anneliese    Maier,    Die    Vorlàufer    Galiìeis    in  14.  Jahrhundert, 
Roma,  1949,  p.  279. 

"  Ib.,  pp.  280,  285,  288  sgg. 
12  Ih.,  p.  279. 


MISCREDENZA    E    CARATTERE    DI    NICOLETTO    VERNIA  QQ 

Paolo  dalla  Pergola,  occamista,  e  la  filosofia  nello  studio  pa- 
tavino sotto  Gaetano  da  Thiene,  averroista,  conseguì  da 
veccliio  anche  la  laurea  in  medicina,  il  29  dicembre  1496. 
Nell'ottobre  1468,  quando  successe  a  Gaetano  da  Thiene 
come  ordinario  di  filosofia  naturale,  doveva  trovarsi  sulla 
quarantina,  se  nel  testamento  fatto  il  3  agosto  1499,  due 
mesi  prima  della  morte,  accenna  alla  sua  età  decrepita. 

In  questo  testamento,  pubbUcato  da  P.  Ragnisco  ^3,  accade 
di  leggere  una  dichiarazione,  nella  quale  il  testatore,  nell'  im- 
minenza della  morte  che  sentiva  avvicinarsi,  vuol  purgarsi 
dell'accusa  che  pesava  su  di  lui,  d'aver  fatta  sua  la  dottrina 
averroistica  dell'unità  dell'intelletto: 

Ego  Magister  Nicoletus  Vernias  Theatinus  antedictus,  publice 
legens  in  florentissimo  Gymnasio  Patavino  ordinariam  philoso- 
phiam  naturalem  sine  aliquo  concurrente,  quam  legi  per  annos 
triginta  tres  elapsos,  ac  disputavi  ac  tenui  quod  opinio  unitatis 
intellectus  Averrois  fuerit  opinio  AristoteHs,  et  post  niultos  annos, 
duni  vidissem  et  graecos  et  arabes  doctissimos,  repperi  non  solum 
dictam  opinionem  alienam  esse  a  fide  nostra  et  veritate,  sed 
etiam  ab  intellectu  AristoteHs,  prout  in  quadam  mea  quaestione 
intulata  Reverendissimo  Dominico  Grimani  ad  plenum  declaro; 
et  hoc  feci  prò  removendo  nialas  opiniones,  qiias  /orlasse  habnerunt 
auditores  mei;  nani  Deum  testor  quod  numquam  credidi  tali  opi- 
nioni, et  cum  sim  in  aetate  decrepita,  et  considerans  quod  oinnes 
morimur  secundum  naturalem  cursum,  et  videns  incertitudinem 
temporis,  diei  et  horae,  et  deliberans  disponere  supra  rebus  meis, 
ut  possim  consequi  vitam  aeternam  in  altera  vita  promissam 
bonis  iuxta  legem  nostram,  et,  prout  in  supradicta  quaestione 
declaravi,  etiam  iuxta  opinionem  philosophorum  hic  non  potest 
esse  vita  beata,   sed  tantum  misera....  m. 

Fra  coloro  che  s'eran  formata  una  cattiva  opinione  di  maestro 
Nicoleto,  oltre  ad  alcuni  suoi  scolari,  era  certamente  anche  il 
vescovo  Pietro  Barozzi'S.  Fine  spirito  d'umanista  e,  come  molti 


13  Documenti  inediti  e  rari  intorno  alla  vita  ed  agli  scritti  di  Nicoletto 
Vernia  e  di  Elia  del  Medigo,  in  «  Atti  e  memorie  dell'Accad.  di  Scienze 
Lettere  ed  Arti  in  Padova  »,  Anno  292  (1890-1891),  N.  S.,  voi.  VII, 
disp.    3»,   p.    280. 

14  E  cosi,  a  che  serviva  tutta  la  sua  speculazione  filosofica  intorno 
alla  copulatio  o  continiiatio  dell'  intelletto  possibile  con  l' intelletto 
agente,  in  cui  avrebbe  dovuto  consistere  la  felicitas  dell'  Etica  Nico- 
machea  in  questa  vita  ? 

15  Intorno  al  quale  è  da  vedere  1'  introduzione  di  Franco  Gaeta, 
Il  Vescovo  di  Padova  P.  Barozzi  e  il  trattato  «  De  factionibus  extinguendis. 
Fondazione  Cini,  Venezia-Roma,   1958. 


lOO        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV   AL    XVI 

patrizi  veneziani  suoi  contemporanei,  animato  di  religioso 
ardore,  il  Barozzi  fu  vescovo  di  Padova  dal  1478  alla  sua  morte 
nel  1507.  Pastore  di  anime  e  maestro  di  vita  cristiana  in  una 
città  dotta,  sede  d'un  rinomato  studio  al  quale  affluivano 
scolari  da  tutte  le  parti  d'  Italia  e  d'oltralpe,  non  potè  mo- 
strarsi indifferente  alle  rumorose  dispute  la  cui  eco  si  dif- 
fondeva lontano.  Quel  battagliare  intorno  al  vero  pensiero 
d'Aristotele,  del  suo  commentatore  arabo  e  degli  interpreti 
greci,  gli  pareva  che  inaridisse  le  sorgenti  della  vita  e  del 
pensiero  cristiano.  Inoltre,  l'accanimento  che  molti  dei  di- 
sputanti mettevano  nel  sostenere  le  interpretazioni  d'Ari- 
stotele più  lontane  dal  comune  modo  di  pensare  dei  cre- 
denti, doveva  alimentare  in  lui  il  sospetto,  suscitato  da  voci 
che  correvano,  che  qualche  maestro  dello  studio  patavino, 
mentre  si  dava  l'aria  di  essere  un  semplice  espositore  della 
dottrina  peripatetica,  in  realtà  avesse  finito  per  farla  sua 
propria  fino  a  negare  i  premi  e  le  pene  nella  vita  futura. 

L'editto  episcopale  e  inquisitoriale,  pubblicato  nelle  scuole 
di  Padova  il  6  maggio  1489,  dopo  aver  citato  alcuni  passi 
scritturali,  proseguiva: 

Et  rursum  [memores]  eorum  que  ad  Colossenses  magis  ad  rem 
de  qua  in  presentiam  agimus  accomodate  scribit  [Apostolus], 
dicens  :  '  Videte  ne  quis  vos  decipiat  per  philosophiam  et  inanem 
fallaciam  secundum  traditionem  hominum,  secundum  elementa 
mundi  et  non  secundum  Christum  '.  Et  scientes  sic  Inter  disputan- 
dum  solere  animos  perturbar!,  ut  interdum  homines  quod  falsum 
esse  sciebant,  prò  vero  suscipiant  et  defendamt....  Volentesque 
ut  et  hi  qui  philosophiam  discunt,  sic  discant  ut  christianam 
philosophiam,  que  longe  omnium  prestantissima  est,  non  dedi- 
scant,  et  hi  qui  docent,  dum  se  philosoplios  esse  meminerunt,  non 
obliviscantur  se  etiam  christianos  existere,  ac  venena  disputa- 
tionum  malarum  iuxta  epulas  philosophice  discipline  non  ponant.... 
Et  postremo  existimantes  eos  qui  de  unitate  intehectus  disputant 
ob  eam  potissimum  causam  disputare  quod,  sublatis  ita  tum 
premiis  virtutum  tum  vero  supphciis  vitiorum,  existimant  se 
liberius  maxima  queque  flagitia  posse  committere:  mandamus 
ut  nullus  vestrum,  sub  pena  excomunicationis  late  sententie 
quam  si  contrafeceritis  incurratis,  audeat  vel  presumat  de  uni- 
tatis  intehectus  quovis  quesito  colore  publice  disputare  ^^. 

Non  si  trattava,  com'  è  chiaro,  della  scomunica  lanciata 
personalmente  contro  il  Vernia,  che  della  dottrina  dell'unità 


16  Ragnisco,    Documenti,  pp.  278-279. 


MISCREDENZA    E    CARATTERE    DI    NICOLETTO    VERNIA  lOI 

dell'  intelletto  era,  in  quel  momento  a  Padova,  il  piìi  risoluto 
assertore;  ma  di  un  provvedimento  che  riguardava  lui  ed 
altri,  e  che  sopratutto  denunciava  una  pericolosa  moda  d' in- 
sincerità e  doppiezza  che  s'andava  affermando  ed  era  nociva 
non  meno  al  costume  morale  che  alla  pietà  religiosa.  Può 
darsi  che,  vietando  ogni  discussione  sull'argomento  dell'unità 
dell'  intelletto,  il  Barozzi  e  frate  Martino  abbiano  spiegato 
uno  zelo  eccessivo  ;  ma  la  mala  opinione  che  gli  alunni  avevano 
concepito  di  taluni  maestri  e  le  voci  che  sul  conto  di  essi  cor- 
revano, giustificano  almeno  in  parte  il  severo  ammonimento. 

Poiché  a  questo  in  fondo  si  ridusse  l'editto  episcopale;  né 
si  sa  che  esso  desse  luogo  a  processi,  né  che  alcun  maestro 
fosse  ridotto  al  silenzio.  Anzi  è  noto,  al  contrario,  che  Pietro 
Trapolino,  alunno  di  Nicoleto,  continuò  a  professare  pubbli- 
camente il  suo  moderato  averroismo  anche  dopo  la  promul- 
gazione dell'editto.  E  lo  stesso  fecero  altri. 

Due  soltanto,  eh'  io  sappia,  s'affrettarono  a  cambiare  in- 
dirizzo ai  loro  pensieri  e  a  recitare  la  loro  palinodia:  Agostino 
Nifo  da  Sessa  e  Nicoletto  Vernia  da  Chieti,  in  gara  tra  loro. 

Il  Nifo,  com'egli  stesso  e'  informa  ^7,  aveva  cominciato 
averroista  della  corrente  sigieriana;  e,  prima  di  abbandonare 
definitivamente  questa  posizione,  deve  aver  giocato  d'astuzia 
da  quell'uomo  scaltrissimo  che  era.  Alla  fine  del  De  intelledu 
e  del  commento  al  De  animae  heatiUidine ,  pretende  d'aver 
portato  a  termine  queste  due  opere  a  Padova  nel  1492.  Ma 
io  penso  che  su  questa  affermazione  bisogni  fare  molta  tara: 
poiché  nella  dedica  del  De  inielleciu  a  Sebastiano  Badoèr, 
nell'edizione  veneta  del  1503,  che  è  la  più  antica  che  si  co- 
nosca, il  Nifo  dice  in  sostanza  d'aver  rimaneggiato  l'opera, 
costituita  originariamente  da  una  Quaestio  de  intellectu,  che 
gli  avversari  gli  avevano  impedito  di  pubblicare,  avendolo 
accusato  d'eresia.  Da  questa  accusa  era  riuscito  a  discolparsi, 
a  quanto  pare,  per  l' intervento  del  Barozzi  stesso,  del  Ba- 
doèr e  di  teologi  e  filosofi  amici  che  ne  presero  le  difese.  Nella 
redazione  del  1503,  l'autore  non  esita  a  confessare  d'essersi 
indotto  a  «  pristinam  mutare  sententiam  »  ;  e  questo  non  sol- 
tanto per  ciò  che  concerne  la  forma  primitiva  dell'opera, 
giacché  egli  ammette:  «  placuit  quaedam  tollere,  mutare  alia. 


17  D»  intellectu,  Venezia,   1503,  I,  tr.  2,  capp.  8-9. 


I02        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV   AL    XVI 

addere  plurima  » '8,  Rabberciato  alla  meglio  il  De  intellectu  e 
rifattasi  una  verginità  filosofica,  egli  tentava,  lontano  da  Pa- 
dova, quella  fortuna  che  non  manca  mai  di  arridere  agli  uomini 
della  sua  prolifica  specie. 

Il  Vernia  era  noto  in  tutta  Italia,  attraverso  i  suoi  numerosi 
discepoli,  come  uno  dei  più  decisi  averroisti.  Per  noi  è  un  po' 
ditficile  oggi  ricostruire,  nel  suo  insieme,  la  sua  dottrina  in- 
torno ai  diversi  problemi  agitati  nelle  scuole  del  tempo,  perché 
non  sappiamo  dove  sono  andati  a  finire  i  suoi  scritti,  se  dati 
alle  fiamme  da  lui  stesso  prima  di  morire,  oppure  se  lasciati 
insieme  alla  sua  biblioteca  al  monastero  di  S.  Bartolomeo  in 
Vicenza,  ovvero  al  figlio  adottivo  Nicoletto  della  Scrofa,  o 
ad  altri.  Nonché  le  opere  scritte  di  suo  pugno,  non  ci  son 
pervenute  nemmeno  le  reportationes  degli  scolari  che  pur 
non  dovettero  mancare.  Ci  restano  soltanto,  eh'  io  sappia, 
i  seguenti  scritti  a  stampa  elencati  dal  Ragnisco:  I.  la  Quaestio 


'^  «  Dicaveram  tibi  anno  superiori  questionem  meam  de  intellectu.... 
Eamque,  ne  labores  iuventutis  mee  perditum  irent,  imprimendam  esse 
curavissem,  nisi  emuli  affuissent,  qui  me  hereseos  accusassent.  Ac 
malui  ad  hoc  tempus  pervenire  morando,  quam  huiuscemodi  criminis 
culpam  subire.  lam  cessant  accusationes:  emulorum  iniquitas,  sic 
mea  fide  postulante,  in  propatulo  est.  Ergo  suo  tribuant  commodo,  si 
quam  utilitatem  accepere  qui  me  insidiis  persequuti  sunt,  discantque 
interea  diligentius  legere  que  volunt  criminari,  ut  cautius  egisse  videan- 
tur.  Sed  valeant  isti,  satisque  mihi  sit  Petrum  Barotium  episcopum 
patavinum,  christianorum  nostre  etatis  decus  et  splendorem,  te  cui 
non  minus  in  fide  quam  in  philosophia  tribuo,  et  quamplurimos  alios 
tum  theologos  tum  philosophos  iudices  ac  censores  habuisse,  qui  semper 
innocentie  mee  testes  eritis.  Tractaveram  hanc  nobilissimam  mate- 
riam  et  de  fontibus  omnium  antiquorum  phylosophorum  exhaustam, 
recenti  stilo,  quod  omnes  fere  commendare  visi  sunt,  preter  paucos, 
quorum  precipuus  fuit  Hieronymus  Malclavellus,  tunc  privatus  scholaris, 
nunc  nostre  academie  diligens  ac  iustus  moderator;  qui  ut  est  rectus 
ingenio,  acer  iudicio,  splendidus  in  omnibus  atque  liber,  numquam 
ubi  de  honore  ac  utilitate  amicorum  suorum  agit,  assentari  novit. 
Hic  cohortatus  est  me,  ut  universum  opus  in  capitula  secarem,  asserens 
antiqua  stilo  esse  antiquo  tractanda.  Hac  unica  huiusce  viri  ratione 
persuasus,  licet  alias  adduxerit  quarum  illi  copia  est,  pristinam  mutavi 
sententiam  :  placuit  quedam  tollere,  mutare  alia,  addere  plurima. 
Nihil  delevi  quod  sit  contra  fidem  catholicam;  non  enim  potest  destrui 
quod  factum  non  invenitur  ».  Seb.  Badoèr  morì  il  30  giugno  1498  (cfr.  i 
Diarii  di  M.  Sanudo,  I,  1004).  La  dedica  dunque  e  il  rabberciamento 
dell'opera  sono  anteriori  a  questa  data,  e  probabilmente  dello  stesso 
periodo  nel  quale  il  Nifo  aveva  preparato  anche  l'edizione  dei  Col- 
lectanea  sul  De  anima,  usciti  anch'essi  nel  1503,  presso  la  stessa  officina 
veneziana  de  Quarengiis.  Sembra  pertanto  che  l'edizione  del  De  intel- 
lectu, ricordata  e  perfino  citata  da  taluno  come  uscita  a  Venezia  nel  1495, 
non  sia  mai  esistita  ! 


MISCREDENZA    E    CARATTERE    DI    NICOLETTO    V'ERNIA  I03 

an  ens  mobile  sii  totitis  philophiae  naturalis  suhiectum  '9  del  1480; 
-  2.  il  prologo  alla  Fisica  col  titolo  De  divisione  philosophiae;  -  3. 
la  Quaestio  an  medicina  nohilior  ac  praestantior  sii  iure  civili  ^° 
del  febbraio  1482  ;  -  4.  la  Quaestio  an  caelum  sit  animatum 
del  novembre  1491,  nell'  infelice  riportazione  di  uno  scolaro 
che  forse  è  Alessandro  Sermoneta  ^^  ;  -  5.  Quaestio  an  deniur 
universalia  realia  --,  terminata  il  17  febbraio  1492;  -  6.  la  Quae- 


19  Stampata  a  Padova,  nel  1480,  nel  volume  di  commenti  d'Egidio 
Romano,  di  Marsilio  di  Inghen  e  d'Alberto  di  Sassonia  al  De  generatione 
et  corruptione,  ed  anche  nell'edizione  scotina  della  stessa  opera  (Venezia, 
1521,  fol.  129V-131V).  Nell'edizione  padovana  precede  la  dedica  a  En- 
rico Languardo,  vescovo  di  Acerenza  e  Matera.  Ragnisco,  Documenti, 
pp.  276-77;  Id.,  Nicoletta  Vernia.  Studi  storici  sulla  filosofia  padovana 
della  2»  metà  del  sec.  decimoquinto,  in  «  Atti  del  Reale  Istituto  Veneto  di 
Scienze  Lettere  ed  Arti  »,  t.   38°,  serie  VII,  t.  II,   1890-1891,  p.   625. 

^°  Questa  Quaestio  e  lo  scritto  precedente  si  trovano  in  principio 
del  volume:  Gualterii  Burley,  Expositio  in  libros  odo  de  physico 
auditu  Aristotelis  stagerite,  emendata  per  me  nicoletum  verniam  thea- 
tinum  puhlice  et  ordinarie  legentem....  Venetiis,  1482,  15  aprile  (La 
Quaestio  è  stata  ristampata  di  recente  da  E.  Garin,  La  disputa  delle 
Arti  nel  Quattrocento,  voi.  IX  dell' «  Ediz.  Naz.  dei  Classici  del  Pen- 
siero Italiano»,  Firenze,  Vallecchi,  1947,  PP-  111-123).  Precede  la  de- 
dica a  Sebastiano  Badoèr,  censore  di  Venezia,  il  quale,  come  il  Vernia, 
era  stato  discepolo  di  Paolo  dalla  Pergola,  ed  era  un  convinto  scotista, 
qual  erasi  rivelato  a  Nicoleto,  per  averlo  questi  udito  argomentare 
con  vigore  in  una  pubblica  disputa  in  occasione  d'un  capitolo  generale 
di  Frati  Minori  tenuto  a  Venezia.  In  questa  dedica  il  Vernia  accenna 
anche  ad  una  amplissima  quaestio  de  inchoatione  formarum  che  avrebbe 
dovuto  trovarsi  nello  stesso  volume,  ma  che  poi  è  stata  omessa.  L'ar- 
gomento per  altro  è  ripreso  con  certa  ampiezza  nella  Quaestio  an  dentur 
universalia   realia,    di    cui    sotto. 

21   Pubblicata  dal  Ragnisco,  Documenti,  pp.   285-291. 

^^  In  principio  del  raro  volume  Urbanits  Averoista  philosophus  sumnius 
ex  almifico  Servoritin  Divae  Mariae,  comentorum  omnium  Averoys  super 
librum  Aristotelis  de  physico  audita  expositor  clarissimus.  Per  probum 
virum  Bernardinum  Tridinensem  de  Monteferrato.  Venetiis,  1492. 
Questa  importante  opera  dell'averroista  bolognese  dell'Ordine  dei 
Serviti,  la  quale  nel  prologo  dell'edizione  stampata  porta  la  data 
del  1334  (ma  v.  sotto,  p.  318),  era  stata  ritrovata,  coperta  di 
polvere  e  corrosa  dalle  tarme,  nella  biblioteca  bolognese  dell'  Ordine, 
dal  priore  generale  dei  Serviti,  frate  Antonio  Alabanti,  che,  compresone 
il  pregio,  tanto  più  che  anch'egli  si  professava  averroista,  ne  scrisse,  il 
7  maggio  1492,  al  \'ernia,  come  quello  che  aveva  sempre  difeso  le  parti 
d'Averroè,  onde  averne  il  parere  per  un'eventuale  stampa;  e  all'uopo 
gli  mandò  lo  scritto  d'Urbano  perché  l'esaminasse:  «Ad  te  igitur  li- 
bellus  noster  confugit:  tu  eum  paterno  amplectaris  amore;  et  tandem 
tua  censura  maturoque  Consilio  examinatum  censeas  si  dignus  est  ut 
in  claram  lucem  professoribus  perypatheticis  ad  doctrinamque  Averoys 
aspirantibus  emergere  possit,  ad  nosque  rescribere  digneris.  Quod  si 
feceris,  ut  speramus  et  oramus,  non  minus  tibi  et  Urbanus  noster, 
operis  conditor,  quam  Averoys  et  qui  eius  doctrinam  sequuntur,  inter 


I04        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

stio  de  gravibus  et  levihus,  senza  data^s;  -  7.  Del  1481  è  la 
Quaestio,  rimasta  sconosciuta  al  Ragnisco,  An  celum  sit  ex 
materia  et  forma  constitutum  vel  non,  che  termina:  «Et  sic  est 
finis  huius  questionis  compilate  per  me  Nicolettum  verniam 
theatinum  Padue  philosophiam  publice  legentem....  Anno 
domini.  M.cccc.lxxxj.  Ultimo  mensis  Julii  »,  e  che  si  trova  in 
principio  della  rara  edizione  veneziana,  curata  dallo  stesso 
Vernia,  del  commento  d'Averroè  alla  Fisica,  del  1483,  ove 
occupa  ben  dodici  colonne  in-folio. 

Tutti  questi  scritti  sono  schiettamente  averroistici  ;  e  seb- 
bene non  riguardino  alcuno  dei  problemi  scabrosi  pei  quali 
gli  averroisti  eran  tenuti  in  sospetto,  tuttavia  non  è  difficile 
qua  e  là  imbattersi  in  espressioni  rivelatrici  dello  spirito  del 
loro  autore.  Si  prenda,  ad  esempio,  la  prima  quaestio  ricordata 
qui  sopra.  Dapprima,  secondo  lo  schema  familiare  al  Vernia, 
sono  addotte  le  «  opiniones  ab  Aristotele  et  suo  commenta- 
tore deviantes  »,  e  in  primo  luogo  quella  di  Tommaso  che  egli, 
nativo  di  Chieti,  si  compiace  di  chiamare  suo  compatriota, 
poiché  suddito  anche  lui  dello  stato  napoletano.  Tommaso 
appunto  aveva  sostenuto,  in  principio  del  suo  commento 
alla  Fisica,  «  ens  mobile  et  non  corpus  mobile,  contra  Albertum 
merito  cognomine  magnum,  esse  totius  philosophiae  naturalis 
subiectum  ».  Poi  ricorda  le  critiche  mosse  da  Egidio  Romano 


^1(05  ego  quoque  minimus  accedo,  ingentem  immortalemque  semper 
gratiam  habebimus  »  (nel  voi.  cit.,  secondo  foglio  non  numerato).  E  il 
maestro  padovano  gli  rispondeva  il  29  dello  stesso  mese,  dando  del- 
l'opera e  dell'autore  questo  giudizio  :  «  Vir  ille  (ut  dicam  quod  sentio) 
cum  omnibus  bis,  qui  Averoym  ad  haec  usque  tempora  secuti  sunt, 
certare  mihi  visus  est  et  plurimos  etiam  vincere.  Nemini  vero  (ut  mea 
quidem  fert  opinio)  cedit.  Cum  enim  Averoys  verba  sensusque  perobscu- 
ros  aperire  illustrareque  aggreditur,  nihil  illius  explanatione  enoda- 
tius,  nihil  clarius,  nihil  denique  absolutius  dici  potest.  Quaestiones  vero 
quae  in  naturali  phylosophia  et  plurimae  et  gravissimae  occurrunt, 
nequaquam  dissimulat.  Sed  ut  est  acri  iudicio  praeditus,  ita  acute  subti- 
literque  solvit,  ut  ad  rei  perfectionem  nihil  addi  posse  videatur  »  {ih). 
E  mentre  approva  il  disegno  della  stampa,  informa  che  a  Padova  nella 
biblioteca  di  S.  Giovanni  in  Verdara,  esisteva  un  altro  codice  dell'opera 
d'  Urbano,  attribuito  fino  allora  a  Giovanni  Marcanova  (cfr.  sotto, 
pp.  317-318),  e  promette  che,  per  far  meglio  conoscere  il  commento  del 
servita,  terrà  un  corso  sulla  Fisica.  La  quaestio  del  Vernia  sugli  universali 
occupa  quattro  fogli  non  numerati,  prima  del  commento  di  Urbano, 
ossia   12  colonne  intere  e  2   mezze  colonne. 

23  Nel  voi.  Acutissime  questiones  super  libros  de  physica  auscultatione 
ab  Alberto  de  Saxonia  edite,  Venezia,  1504,  f.  92va-94vb,  con  dedica 
al  filosofo  e  medico   Gerardo   Bolderio   da  Verona. 


MISCREDENZA    E    CARATTERE    DI    NICOLETTO    VERNIA  I05 

alla  tesi  tomistica,  e  il  giudizio  di  Giovanni  di  Jandun  sul- 
l'Aquinate,  ritenuto  «  melior  expositor  inter  latinos,  unde 
per  excellentiam  dicitur  expositor,  sicut  Averrois  commen- 
tator  ».  Incappa  infine  nella  tesi  degli  scotisti  Giovanni  Ca- 
nonico e  Antonio  Andrès,  i  quali  s'eran  permessi  di  criticare 
Aristotele.  Contro  tanta  audacia  egli  insorge  ripetendo  il 
giudizio,  comune  a  tutti  gli  averroisti,  sullo  Stagirita: 

Ad  illa  respondet  Ioannes  Canoniciis,  et  similiter  Antonius 
Andreas,  concedendo  Aristotelem  male  dixisse  et  insufficienter 
ipsum  philosophiam  tradidisse;  philosophus  enim  tanquam  sacri- 
legus  insufficienter  et  erronee  tradidit  nt)bis  philosophiam  natu- 
ralem,  ut  Antonius  inquit.  Sed  minor  de  istis,  quod  cum  tam 
pauca  reverentia  centra  philosophorum  principem  loquantur; 
ncque  unquam  invenio  Albertum  Magnum,  sanctum  Thomam 
aut  doctorem  subtilem  talia  contra  Aristotelem  dixisse.  Unde 
beatus  Hieronymus,  de  eo  loquens,  scribens  ad  Eustochium,  De 
vita  nionachonim ,  ait:  '  Absque  dubitatione  prodigium  fuit  gran- 
deque  miraculum  in  tota  natura,  cui,  ut  pergit,  pene  videtur 
infusum  quicquid  naturaliter  capax  est  genus  humanum  '  24. 
Cui  concordat  Averrois,  3.  De  anima,  dicens:  '  Ipse  fuit  regula 
in  natura  et  exemplar  quod  natura  invenit  ad  ostendendum  ul- 
timam  perfectionem   possibilem  in   materiis. 

Venendo  poi  alla  soluzione  del  problema,  il  filosofo  chietinf) 
sostiene  «  de  intentione  aristotelis  et  sui  commentatoris  aver- 
rois cordubensis  fuisse,  quod  corpus  mobile  est  subiectum  in 
scientia  naturali  ». 

Ancora  più  tipico  è  il  caso  della  Quaestio  aii  medicina  iio- 
bilior  ac  praestaiitior  sii  iure  civili.  È  notevole,  anzi  tutto,  che 
egli  abbia  lasciato  in  pace  i  canonisti,  strettamente  imparen- 
tati coi  teologi,  gente,  gli  uni  e  gli  altri,  con  la  quale  è  prudente 
non  aver  briga.  Per  dimostrare,  dunque,  la  tesi  affermativa, 
che  cioè  la  medicina  è  da  più  del  diritto  civile,  il  nostro  si  rifa 


-4  Lo  stesso  passo  dell'opera  pseudo  geronimiana  m'  è  accaduto  di 
trovar  citato  nel  De  pietate  Aristotelis  erga  Deiim  et  ìioinines  di  Fortunio 
Liceto  (Udine,  1645,  libro  II,  cap.  22),  amico  e  collega  di  Galileo  a  Pa- 
dova. Costui,  al  pari  di  Alfonso  Tostado,  vescovo  di  Avila,  In  librum 
paradoxorum  (Venetiis,  1508,  V,  cap.  132,  fol.  68ra),  e  di  Giovanni 
Genesio  Sepulveda,  da  Cordova  {Opera,  Madrid,  1780,  t.  Ili,  Epist.,  VII, 
lettera  al  teologo  Fedro  Serrano,  del  10  maggio  1554),  pensava,  se  non 
proprio  a  una  canonizzazione,  che  fosse  almeno  altamente  verosimile 
la  salvezza  eterna  di  Aristotele.  Al  quale  però  il  Tostado  ,da  buon 
umanista,  unisce  le  anime  di  Socrate,  di  Platone  e  di  siffatti  filosofi, 
che    Cristo    avrebbe    liberato    discendendo    al    limbo. 


I06        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV   AL    XVI 

al  concetto,  comunemente  ammesso,  che  la  medicina  nella 
sua  parte  teorica  rientra  nella  «  filosofia  naturale  »  ed  è  scienza 
speculativa;  il  che  non  può  dirsi  dal  diritto  civile.  Ora  nella 
speculazione  intorno  alla  natura  Aristotele  aveva  fatto  con- 
sistere il  fine  ultimo  e  la  perfezione  suprema  dell'uomo,  a  cui 
si  giunge  soltanto  mediante  l'apprendimento  delle  scienze 
speculative,  coronato  dal  congiungimento  o  copulatio  con 
r  intelletto  agente. 

Ex  quo  sequitur,  hominem  equivoce  dici  de  homine  rationali 
et  iurista,  cum  iurista  non  sit  nisi  equivoce,  cum  inrista  ultimo 
fine  hominis  sit  privatus.  Et  hoc  est  quod  Averrois  dicit  in  pro- 
logo libri  Physicorum,  quod  homo  equivoce  dicitur  de  homine 
perfecto  per  scientias  speculativas  et  de  homine  ignorante  eas, 
sicut  dicitur  equivoce  de  homine  vero  et  picto  ^^ 

Ci  sarebbe  da  chiedersi  se  mastro  Nicoleto  non  fosse  per 
caso  in  vena  di  scherzare,  per  dar  la  baia  ai  colleghi  della 
facoltà  di  diritto:  ma  purtroppo  egli  non  fa  che  ripetere  cosa 
di  cui  tutti  gli  averroisti  erano  convintissimi;  anzi  taluni  di 
essi,  come  Alessandro  Achillini  e  Tiberio  Bacilieri^^^  pensavano 
che  al  raggiungimento  della  suprema  perfezione  e  della  feli- 
cità cui  l'uomo  aspira,  bastassero  i  libri  bene  interpretati 
di  Aristotele  e  d'Averoè,  che  quelli  ritenevano  aver  conqui- 
stato il  più  alto  grado  di  felicità  di  cui  l'uomo  è  capace  in  questa 
vita,  non  ostante  i  sorrisi  ironici  degli  alunni,  e  quelli  del 
Pomponazzi  -i.  Al  cospetto  della  morte,  come  abbiamo  visto, 


-5  Nel  citato  voi.  del  Burley  sulla  Fisica,  Venezia,  1482,  f.  3vb.  Il 
passo  d'Averroè  in  principio  al  prologo  della  Fisica,  al  quale  accenna 
il  Vernia,  è  questo:  «  Declaratum  est  in  scientia  considerante  in  opera- 
tionibus  voluntariis,  quod  esse  hominis  secundum  ultimam  perfectionem 
ipsius  et  substantia  eius  perfecta  est  ipsum  esse  perfectum  per  scien- 
tiam  speculativam;  et  ista  dispositio  est  sibi  felicitas  et  sempiterna 
vita.  Et  in  hac  scientia  manifestum  est,  quod  praedicatio  nominis 
hominis  perfecti  a  scientia  speclativa,  et  non  perfecti,  sive  non  ha- 
habentis  aptidinem  quod  perfici  possit,  est  aequivova,  sicut  nomen 
hominis  quod  praedicatur  de  homine  vivo  et  de  homine  mortuo,  sive 
praedicatio   hominis   de   rationali  et  lapideo  ». 

26  Cfr.   il  mio  Sigieri nel  pens.,  p.   151. 

-7  Accade  spesso  al  mantovano  di  fare  dell'ironia  sulla  «copulatio» 
degli  averroisti  «  qui  continuo  prandent  cum  deo  et  qui  habent  intel- 
lectum  adeptum  »  (comm.  al  I  delle  Meteore,  del  nov.  1522.  Parigi, 
Bibl.  Nat.  cod.  lat.  6535,  f.  i2or).  E  del  Bacilieri  riferisce:  «Ideo  Ti- 
berius  iactatus  solum  sibi  defìcere  quatuor  digitos,  ad  hoc  ut  felicitatem 
istam  pertingat  »  (Comm.  al  XII  della  Metaph.,  Arezzo,  Frat.  Laici, 
ms.   389,   f.   248r.    Cfr.   Parigi,   e.   s.,   cod.   lat.   6537,   f.    139V). 


MISCREDENZA    E    CARATTERE    DI    NICOLETTO    VERNIA  IO7 

([uesta  convinzione  abbandonava  il  filosofo  chietino,  persuaso 
ormai,  col  volger  degli  anni,  che  non  solo  secondo  la  fede, 
ma  «  etiam  iiixta  opinionem  philosophorum,  hic  non  potest 
esse  vita  beata,  sed  tantum  misera  ».  Evidentemente  nella 
sua  giovinezza  anch'egli,  come  molti,  aveva  ignorato  la  man- 
zoniana preghiera  allo  Spirito  divino:  «Dona  i  pensier  che  il 
memore  ultimo  dì  non  muta  ». 

Averroista  era  il  Vernia  anche  nella  soluzione  del  problema 
se  il  cielo  è  animato,  e  di  quello  «sul  moto  dei  gravi  e  leggeri «^s. 
Anzi,  su  quest'ultimo  argomento,  mentre  perfino  molti  aver- 
roisti  avevano  finito  per  scostarsi  dalla  dottrina  d'Aristotele 
e  avevano  accolta  la  teoria  nominalistica  degli  impetus,  il 
Vernia  segna  un  ritorno  puro  e  semplice  alla  tesi  dello  Sta- 
girita,  seguita  da  Averroè,  da  Sigieri  e  da  pochi  altri  29. 

La  Quaestio  an  denhir  universalia  realia  è  invece  un  tenta- 
tivo di  mostrare  l'accordo  tra  Averroè  e  Alberto  Magno  sulla 
dottrina,  convenientemente  interpretata,  della  «  inchoatio 
formarum  »  ;  poiché  gli  universali  di  cui  qui  si  parla,  non  sono 
le  intentiones  primae  et  secundae  dei  dialettici,  ma  le  idee  con- 
siderate come  cause  della  realtà,  gli  universalia  physica,  come 
li  chiama  il  Vernia,  ossia  le  forme  delle  cose  3°. 


28  Nel  voi.  cit.  delle  Acutissime  questiones  di  Alberto  di  Sassonia, 
pp.  92  t'a-94  vb. 

^9  Cfr.  A.  Maier,  Zwei  Grundproblenie  der  scholastichen  Philosophie. 
Roma,  Ediz.  di  Storia  e  Letter.,   1959,  p.  295. 

30  Nel  voi.  di  Urbano  Averroista,  cit.,  col.  6:  «Ex  quo  patet  error 
illorum  qui  dicunt  inchoativum  secundum  commentatorem  et  Albertum 
esse  potentiam  subiectivam  [materie],  cum,  ut  visum  est,  sit  potentia 
formalis  distincta  a  potentia  materie,  que  est  in  substantia  forma 
substantialis,    imperfecta   tamen,    cum   omnis   potentia    materie    taUs, 

quam  ponunt,  si  distincta  ab  ea  et  sit  accidens Ex  quo  sequitur  dari 

universalia  realia  ad  mentem  veriorum  philosophorum  peripatheti- 
corum,  tum  Grecorum,  tum  Arabum,  tum  latinorum;  cum  tales  essentie 
sint  universalia  physica  et  in  re,  ut  visum  ».  Il  primo  di  tali  universali  fisici 
è  per  il  ^'ernia  la  «  forma  corporeitatis  »  di  Avicenna,  coeterna  alla 
materia.  In  proposito,  abbiamo  questa  informazione  nel  commento 
del  Pomponazzi  al  De  substantia  orbis  di  Averroè  (Cod.  Reg.  lat.  1279, 
fol.  yr).  «Credo  quod  haec  responsio  fuerit  Nicholeti;  quia  etiam  ipse 
tenebat  ad  mentem  commentatoris  formas  corporales  de  praedica- 
mento  substantiae  materiae  primae  esse  coaeternas.  Et  tunc  glosabat 
ipse  commentatorem,  hic  dum  dicit  quod  materia  non  habet  formam 
quae  reponat  eam  in  esse  specifico  et  ultimo,  quia  si  materia  prima 
baberet  formam  ultimam  specificam,  tunc  non  posset  ipsa  materia 
aliam  formam  recipere,  quia,  cum  ultimo  non  detur  ultimum,  ipsa 
forma  esset  in  actu  completo,  nam  infra  formam  ultimam  specificam 
non  sunt   [  nisi  ]  individua;  et  in  hoc  commentator  dissentit  ab  Avi- 


Io8        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Anche  in  questa  Quaestio,  terminata  il  17  febbraio  1492, 
non  mancano  accenni  alla  dottrina  averroistica  dell'  intel- 
letto ;  ma  sono  accenni  più  cauti  31.  L'editto  episcopale  era  stato 
promulgato  evidentemente  per  qualche  cosa.  Nel  settembre 
del  1492  a  Colze  nel  vicentino,  mastro  Nicoleto  dovette  pen- 
sare al  modo  di  dissipare  i  sospetti  d'eresia  che  gravavano  su 
di  lui,  e,  sebbene  affetto  da  oftalmia,  prese  la  penna  e  cominciò 
a  buttar  giù  una  specie  di  confutazione  dell'averroismo. 
Nacquero  così  le  Quaestiones  de  pluralitate  intellectus  cantra 
falsani  et  ah  omni  ventate  remotam  opinionem  Averroys  et  de 
animae  felicitate.  L' idea  di  quest'opera  gli  fu  suggerita  («  non 
iniussa  cano  !  »)  da  frequenti  esortazioni  del  doge  di  Venezia, 
Agostino  Barbadigo,  e  dallo  stesso  Pietro  Barozzi,  che,  se 
da  una  parte  lo  minacciava  di  scomunica,  dall'altra  cercava 
di  adescarlo  con  buone  promesse.  La  composizione  dello  scritto 
non  dovette  procedere  molto  rapida.  Poiché  soltanto  nel- 
l'estate del  1499  l'opera  fu  presentata  ai  revisori  ecclesiastici 
e  al  vescovo  per  la  stampa  r-. 

I  revisori,  frate  Antonio  Trombetta,  Vincenzo  Merlino  e 
Maurizio  Ibernico,  prodigarono  all'autore  le  più  ampie  lodi, 
e  il  vescovo  Barozzi  se  ne  dichiarò  pienamente  soddisfatto. 
Tuttavia,  anche  nel  dare  atto  del  nuovo  atteggiamento  assunto, 
ricorda  le  voci  che  un  tempo  correvano  sul  conto  di  lui,  e  non 
osa  dichiararle  infondate;  anzi  lo  stesso  paragone  che  egli  fa 
del  chietino  con  S.  Paolo,  il  quale  di  persecutore  del  nome  cri- 
stiano era  divenuto  un  ardente  difensore  della  fede,  sem- 
brerebbe insinuare   il   contrario: 


cenna  qui  ponebat  talem  formarti  specificam  ultimam;  sed  commen- 
tator  dicit,  quod  talis  corporeitas  non  est  forma  specifica  completa, 
sed  est  forma  generica  imperfecta;  et  sic  dicebat  ipse  [Nicholetus] 
quod  materia  prima  habet  istam  formam  genericam  sibi  coaeternam, 
et  in   ipsa  etiam  formam   elementorum  ». 

31  Così,  per  esempio,  in  principio  della  4*  colonna:  «Et  tu  nota  hoc 
prò  Averoy,  quod  anima  intellectiva  non  dat  esse  corpori  humano; 
sed  hoc  quod  dicitur  est  mendatium  purum,  ut  in  3°  '  De  anima  '  de- 
clarabo  ».  E  più  oltre  (a  metà  della  stessa  colonna)  :  «  Unde  intellectiva 
anima  apud  ipsum  non  creatur,  sed  est  eterna;  et  in  hoc  Albertus, 
et  bene  sicut  fidelis  christianus,  ei  adversatur,  volens  ipsam  de  novo 
fieri  per  creationem,  et  hoc  secundum  Aristotelem  ». 

32  La  quale  apparve  soltanto  postuma  nel  volume  già  cit.  delle 
Acidissime  questiones  super  libros  de  physica  auscuUatione  ab  Alberto 
DE  Saxonia  edite,  Venezia.  A.  Calcedonio  da  Pesaro,  M.  D.iiii., 
ff.  83  y-92  ra. 


i 


MISCREDENZA    E    CARATTERE    DI    NICOLETTO    VERNIA  IO9 

Cum  prius  et  disputando  et  docendo  unum  esse  in  omnibus 
intellectum  sic  explicaveris,  ut  totam  pene  Italiani  errare  feceris, 
ut  aiunt  malivoli  tui  et  minuti  philosophi,  ut  in  epistula  tua  ais, 
etsi  istud  non  senseris,  fuisti  forte  causa  ut  alii  hoc  sentirent. 
Nunc  opusculum  composuisti,  quo  sentire  te  contrarium  non 
solum  dicis  verum  etiam  probas.  Quod  cum  diligentia  vidimus 
et  approbamus....  Quo  circa,  sive  ita  senseris  sive  non,  opusculum 
istud  componere  precium  fuit,  ut  error  pessimus  illius  maledicti 
Averroys  extirparetur....  Nihil  hac  mihi  re  gratius,  nihil  iis  qui  te 
audiverant  utilius,  nihil  tibi,  qui  apud  miiltos  ob  eam  rem  infamiam 
non   mediocreni  excitaveras,   honorificentius. 

Per  purgarsi  di  questa  non  mediocre  infamia  e  per  impedire 
che  si  parlasse  di  un  voltafaccia,  mastro  Nicoleto  insisteva  nel 
dichiarare  che  la  difesa  un  tempo  da  lui  assunta  dell'averroismo 
non  muoveva  da  intima  adesione  alla  dottrina  dell'unità  del- 
l' intelletto,  ma  era  fatta  soltanto  «  disputandi  ac  acuendi 
ingenii  gratia  »  33. 

Era  sincero  in  questa  sua  protesta,  rinnovata  con  solennità 
anche  nel  suo  testamento  ?  Per  il  vescovo  e  per  l' inquisitore 
questo  non  aveva  importanza:  ad  essi  bastava  il  fatto  che, 
comunque  l'avesse  pensata  un  tempo,  ora  il  sospettato  aveva 
fatto  lodevole  ammenda  del  passato  col  suo  ultimo  scritto 
contro  l'averroismo. 

Ma  tra  i  suoi  alunni  d'un  tempo  ve  n'era  sicuramente  qual- 
cuno che,  assistendo  ai  funerali  e  alla  tumulazione  di  lui  nella 
chiesa  di  S.  Bartolomeo  a  Vicenza,  e  ripensando  al  carattere 
del  maestro,  doveva  sorridere  di  questa  commedia  e  ripensare 
in  cuor  suo  alla  novella  di  Ser  Ciappelletto. 

Nicoleto  Vernia  non  era  precisamente  quello  che  si  dice 
un  cuor  di  leone.  Nello  stesso  suo  testamento  revoca,  come  giu- 
ridicamente nulla,  una  donazione  de'  suoi  beni  alla  moglie, 
fatta  sotto  la  minaccia  di  morte  da  parte  del  cognato  Pietro 
de   Salvato. 

Nel  i486,  era  stato  richiamato  all'ordine  dal  Senato,  perché 
pare  facesse  i  suoi  comodi,  leggendo  senza  concorrente  e  tra- 
scurando di  studiare  «con  grande  lagnanza  degli  scolari» 34. 

Il  Nifo,  già  suo  alunno,  ci  narra  di  lui  due  episodi  che  pos- 
sono servire  a  lumeggiarne  il  carattere.    Il  primo   è   meglio 


33  Nella  dedica  al  card.  Domenico  Grimani  [ib.,  f.  83r).  Cfr.  sopra, 
p.  99. 

34  Ragnisco,    Nic.    Vernia,    pp.    622-623.    Cfr.    qui    sotto    il    saggio 
successivo. 


no        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV   AL    XVI 

riferirlo  in  latino; 

Cum  Nicoletus  Theatinus,  praeceptor  noster,  sua  aetate  peri- 
pateticus  eximius,  ludibriis  ludificationibusqiie  oblectaretur,  plu- 
rima jecisse  multi  norunt.  Et  inter  prima,  cum  Veronam  peteremus, 
ut  baptizaremus  puerum  cuiusdam  communis  discipuli,  et  post 
crepusculum  ad  urbem  applicaremus,  essetque  caupo  prohibitus 
recipere  iudaeos,  qui  extra  urbem  hospes  erat,  nobis  hospitium 
conferentibus  dixit:  —  Te  recipere  non  possum,  quia  prohibitus 
sum,  —  demonstrans  Nicoletum;  —  te  autem  possum  — ,  annuens 
me.  Interrogantibus  quare  respondit:  —  Quia  Iudaeos  hospitari 
prohibitus  sum.  —  At  praeceptor  subiecit:  —  Audi,  amice,  a 
secretis.  —  Et  mox  penem  praeputiumque  ostendit.  Quem  cum 
vidisset,  hospitatus  est  nos. 

Il  Nifo  aggiunge  che  la  mattina  dopo,  sopraggiunti  alcuni 
della  città  ad  incontrarli  e  a  riverirli,  l'oste  chiese  umilmente 
scusa,  mentre  mastro  Nicoleto  non  si  stancava  di  raccontare 
a  tutti,  uomini  e....  donne,  il  piccante  episodio  35. 

L'altro  aneddoto  si  può  raccontare  anche  in  volgare,  seb- 
bene sia  assai  più  sconcio  del  primo,  se  è  vero.  Narra  dunque 
il  Nifo  che,  rimasta  vacante  a  Padova  una  cattedra  di  diritto 
canonico,  per  la  morte  del  titolare.  Agostino  Barbadigo,  che 
era  allora  capitanio  della  città,  era  sollecitato  dagli  studenti 
a  corpirla  con  un  dottore  di  diritto  canonico  siciliano.  Il  Bar- 
badigo annunziò  che  aveva  già  pronto  l'uomo  che  faceva  al 
caso,  e  questi  era  mastro  Nicoleto.  —  Ma  Nicoleto  è  un  filo- 
sofo, —  osservarono  quelli  —,  e  di  diritto  canonico  non  se 
n'intende  — -.  Montato  su  tutte  le  furie,  il  magistrato  li  manda  a 
farsi  impiccare,  e  chiamato  a  sé  Nicoleto  gli  propose  di  legger 
diritto  canonico  al  mattino,  per  300  ducati  d'oro,  e  di  conti- 
nuare a  legger  filosolia  nel  pomeriggio.  Il  maestro  non  si  pe- 
ritò di  accettare,  effondendosi  in  ringraziamenti.  Se  fin  qui  la 
faccenda  era  abbastanza  sporca,  il  peggio  vien  dopo.  Gli 
studenti  malcontenti  andarono  da  Nicoleto  a  pregarlo  di 
voler  far  capire  lui  stesso  al  Barbarigo  che  il  diritto  canonico 
non  era  il  fatto  suo.  —  Che  io  vada  a  fare  una  dichiarazione 
del  genere  ad  un  uomo  che  mi  giudica  sommo  in  ogni  ramo 
dello  scibile  ?  —  Gli  studenti  non  si  scoraggiarono  e  lo  tenta- 
rono per  un  altro  verso:  si  che  non  molto  dopo,  «  munusculis 


35  A.  NiPHi,  Opuscula  moralia  et  politica  cum  G.  Naudaei  de  eodem 
auctore  iudicio,  Parigi,   1645,  De  re  aulica,  I,  e.  87,  p.  335. 


MISCREDENZA    E    CARATTERE    DI    NTCOLETTO    VERNIA  III 

non  mediocribus  acceptis  ab  illis  studentibus  »,  si  presentò 
al  Barbadigo  e  con  ogni  rispetto  lo  pregò  di  liberarlo  da  un 
carico  che,  data  l'età,  pesava  troppo  sulle  sue  spalle  [36.  Chi 
oserebbe  insinuare  che  l' idea  di  conferire  a  lui  una  seconda 
cattedra  (e  un  secondo  stipendio)  fosse  ispirata  al  Barbadigo 
dal  Vernia  stesso  ? 

Ma  non  meno  interessante,  per  la  religiosità  e  F  indole  mo- 
rale di  lui,  è  quel  che  apprendiamo  dalle  lezioni  del  Pompo- 
nazzi,  che,  al  pari  del  Nifo,  del  chietino  fu  alunno  e  collega  e, 
da  ultimo,  successore  sulla  cattedra  di  Padova.  Il  ricordo  del 
vecchio  maestro  padovano  e  del  suo  carattere  faceto  e  bizzarro 
accompagnò  il  mantovano  per  tutta  la  vita.  Così  nella  lezione 
27  del  commento  al  De  sensu  et  sensato  37,  tenuta  nel  febbraio 
1525,  tre  mesi  prima  della  morte,  accennando  al  modo  superfi- 
ciale col  quale  Pietro  d'Abano  aveva  trattato  un  quesito  in- 
torno ai  sapori,  dice:  «  eo  modo  quo  dicebat  Nicolettus,  prae- 
ceptor  meus,  sicut  mus  super  farinam  et  gatta  super  car- 
bones  ».  Un'altra  volta,  a  proposito  del  noi  usato  spesso  da 
Averroè,  ricorda:  «Dicebat  Nicoletus:  advertendus  est  sermo; 
loquitur  da  papa,  ponendo  numerum  pluralem38)).  Nelle  le- 
zioni sul  terzo  della  Fisica,  narra  che  il  Vernia  aveva  spacciata 
come  sua  un'opinione  che  era  invece  di  Gaetano  da  Thiene, 
come  si  vide  dopo  la  stampa  di  questo  :  «  Magister  Nicoletus 
attribuebat  sibi  hanc  opinionem.  Impresso  Gaetano,  latro 
inventus  est» 39.  Un'altra  volta  accennando  alla  a  via  nomina- 
lium  »,  il  Pomponazzi  aggiunge:  «imo  merdalium,  ut  dicebat 
Nicholetus)  »  40. 

In  principio  del  commento  al  VII  della  Fisica,  del  nov.  1517, 
accenna  a  un  dissidio  tra  gli  scolari  sui  libri  di  quest'opera 
che  il  maestro  avrebbe  dovuto  leggere: 

Unde  lepidissinms  vir  nicholetus  qui,  curti  versaretur  discordia 
inter  scolares  (sicut  modo  versatur  inter  vos),  an  scilicet  primi  an 
ultimi  libri  physicorum  essent  legendi,  dixit:  Non  timeatis,  quia 
ego  unica  lectione  legam  omnes  4or  primos  41. 


36  ib.,  p.  336. 

37  Bibl.  Nation.  di  Parigi,  Cod.  lat.  6536,  f.  sgr. 

38  Ib.,  Cod.  lat.  6537,  In  XII  Metaphys.,  f.   135V. 

39  Arezzo,  Bibl.  della  Fraternità  de'  Laici,  Ms.  389,  Super  j°  Physi- 
corum, i.  3o6r. 

40  Ih.,  Ms.  389,  Super  I  Phys.,  f.  28v. 

41  Bibl.  Nat.  Parigi,  cod.  lat.  6533,  f.  284r. 


112        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV   AL   XVI 

Nello  stesso  commento,  in  una  lezione  del  gennaio  1518, 
intorno  ai  sottili  accorgimenti  di  Averroè  per  salvare  Aristo- 
tele, narra  del  suggerimento  dato  dal  Vernia  a  uno  scolaro 
ignorante  che  doveva  affrontare  un  esame: 

Credo  ergo  quod  commentator  voluit  dicere  hoc;  sed  sibi  accidit 
ut  cuidam  scholari  patavii,  qui  volens  disputare,  et  nihil  sciebat, 
fuit  ad  Niccoletum,  qui  eum  doceret.  Volebat  enim  iste  scolaris 
ingredi  collegium,  et  non  poterat  nisi  disputaret.  Quare  magi- 
ster  Nicoletus  dixit:  —  Dabo  tibi  unam  responsionem  ad  omne 
argumentum;  distingue  enim  et  dicas:  Tuum  argumentum  tenet 
propter  quia,   et  mea  conclusio  propter  quid. 

Et  ita  vult  dicere  Averrois....  Tamen  possemus  dicere  ad 
omnia  illa  argumenta....  Oportet  enim  scaramuzare  quandoque  4-. 

Sempre  nelle  lezioni  sul  VII  della  Fisica,  incontriamo  un 
altro  aneddoto,  ove  il  Vernia  è  alle  prese  con  Francesco  di 
Nardo,  in  una  disputa  di  moda,  «  de  intentione  et  remissione 
formarum  »,  che  concerneva  la  dottrina  dei  «  calculatores  », 
particolarmente    invisi    al    Pomponazzi: 

Et  ubi  Aristoteles  in  hoc  loco  {Phys.,  VII,  t.  e.  32)  fuit  parcus, 
Entisbery  in  suo  tractatu  et  Calculator  fecerunt  de  hoc  magnos 
tractatus.  Aristoteles  enim  dimisit  hec,  quia  ille  compositiones 
et  ille  truffe  spectant  ad  matematicum;  et  calculatores  latenter 
vincunt  ph^dosophos;  interponunt  enim  geometricalia.  Sed  philo- 
sophus,  ut  phylosophus  est,  non  se  intromittit  ad  hec.  Et  isti 
calculatores  sophiste  appellantur;  quare  non  se  debent  intro- 
mittere  in  phylosophia,  sed  in  geometria.  Unde  erat  magister 
Franciscus  neritonius,  (erat  enim  vir  doctissimus) ,  et  in  uno  ca- 
pitulo  fratrum  erat  etiam  Nicholettus,  protesto  ignorantissimus, 
et  arguebat  domino  francisco  neritonio  in  illa  disputatione,  et 
in  calculatione  argumentabatur;  et  dominus  franciscus  nesciebat 
respondere,  quia  mathematica  ignorabat.  In  hoc  enim  argumento 
erat  quater  fortassis  totum  alphabetum.  Dominus  tamen  fran- 
ciscus intrepide  respondit  sibi,  quod  Nicholetus  fecerat  ut  conti- 
gerat  in  suo  capitulo  cuidam  fratri,  cui  prior  comiserat  ut  predi- 
caret  de  conceptione  virginis.  Cum  venisset  tempus  predicandi, 
dixit  ille  bonus  vir  qui  debebat  predicare  illa  die  :  O  domini  audi- 
tores,  ista  materia  de  conceptione  est  tante  difficultatis,  quod 
non  poteritis  numquam  eam  percipere.  Itaque,  rogo  vos,  ut  loco 
istius   dimittatis   me   narrare    ystoriam   sancti   Alexandri,    quam 


42  Arezzo,  ms.  390,  f.  lygr.  Allo  stesso  episodio  il  Pomponazzi  aveva 
accennato  anche  nelle  lezioni  In  I  de  anima  (nel  cod.  della  Bibl.  Na- 
zionale di  Napoli,  Ms.  Vili,  D.  81  fol.  97v),  che  sono  dell'autunno  1503, 
ed  ivi  fa  il  nome  dello  studente  somaro,  che  pare  sia  un  Baldassarre 
da  Chiusi. 


MISCREDENZA    E    CARATTERE    DI    NICOLETTO    VERNIA  II3 

promptissime  capietis.  Sic  etiain,  dixit  dominus  franciscus,  con- 
tigit  domino  Nicoleto  :  qui  dum  in  hac  materia  quam  posuimus 
disputandam  nihil  intelligeret,  incepit  nobis  cum  suis  argumentis 
calculatoriis   narrare   ystoriam   beati   Alexandri  !  43. 

Ben  più  grave  è  quanto  il  Pomponazzi  narrava  agli  scolari, 
in  una  lezione  sul  secondo  libro  del  De  caelo,  tenuta  a  Bologna 
il  28  novembre  1519.  Stava  esponendo  il  testo  17,  e  poiché 
taluni  dicevano  che  Dio  e  le  intelUgenze  celesti  «  prima  in- 
tentione  agunt  propter  se  «,  mentre  le  cose  generabili  e  cor- 
ruttibili «  prima  intentione  faciunt  propter  alia  et  secundario 
propter  se  »,  ha  il  coraggio  di  dire  apertamente  che  non  è 
vero: 

Non  videtur  verum;  imo  videtur  totum  oppositum;  quia 
quicquid  homines  faciunt,  [faciunt]  primo  propter  se,  secundario 
vero  propter  alios.  Verbi  gratia,  homines  student:  prima  intentio 
eorum  est  hicrari  scientiam  et  fieri  perfecti  et  eiusmodi;  secun- 
dario vero  ut  illustrent  domuin  suam  et  patrem  etc.  Unde  Ari- 
stoteles  numquam  somniavit,  quod  deberet  fieri  bonum  ut  iretur 
in  paradisum,  et  evitari  malum  ne  iretur  in  infernum;  sed  bene 
dicit  quod  debemus  exponere  vitam  prò  patria  et  eiusmodi,  et 
potius  mori  quam  committere  peccatum,  ut  acquiramus  illarn 
virtutem,  sciHcet  fortitudinem.  Ergo  quicquid  homo  facit,  prima 
intentione   facit   propter  se,    ut   in   omnibus   discurrere   potestis. 

Ideo  videtur  fatuitas  philosophorum  dicere  hoc  de  genera- 
biUbus,  scilicet  quod  primo  agant  propter  alia,  et  secundario 
propter  se.  Unde  Nicoletus,  vir  lepidus,  qui  non  credebat,  ut  ita 
dicam,  dal  tecto  in  su,  cum  sepissime  audiret  beatum  Bernardinum 
de  Feltro  predicantem  et  in  suis  predicis  dicentem  :  '  O  tu,  attende 
tibi;  o  tu,  attende  tibi,  mulier  luxuriosa  '  44,  bonus  Nicolettus 
emebat  bonos  pullastros,  fasianos,  et  si  quis  diceret  illi:  '  Quid 
vis  tacere,  o  Nicholette  ?  ',  respondebat:  '  Volo  attendere  mihi  '. 
Item  rapinabat  et  eiusmodi,  et  si  dicebatur  illi:  '  Quid  vis  facere  ?  ', 
dicebat:   'Attendere  mihi  volo'.  Omnia  ergo  faciebat  propter  se  45. 

Lo  stesso  ritratto  morale  del  «  buon  Nicoleto  »,  il  Pompo- 
nazzi tracciava  negh  stessi  termini  agli  scolari  bolognesi  in 
una  lezione  sul  primo  delle  Meteore  tenuta  il  15  novembre  1522: 


43  Arezzo,  1.  e,  f.   i68r. 

44  Bernardino  da  Feltre  predicò  la  quaresima  a  Padova  nel  1492 
(cfr.  Wadding,  Annui.,  XV,  p.  7,  XV),  e  di  nuovo  vi  fu  nel  1494.  quando 
«  Patavium....  profectus,  in  Ecclesia  Cathedrali,  assumpto  ilio  trito 
suo  themate  '  Attende  tibi  ',  egregie  populum  de  rebus  saluti  maxime 
necessariis  instruxit  «   [Ib.,   66,    XIV). 

45  Parigi,  Bibl.  Nat.,  Cod.  lat.  6534,  f.  131. 


114        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

Erat  Padue  quidam  frater  sancii  Francisci  de  observantia, 
qui  dicebatur  frater  Bernardinus  de  Feltro,  qui  predicabat  et 
in  predicatione  semper  dicebat:  '  Attende  tibi,  attende  tibi  '. 
Unde  Nicolettus,  qui  legebat  Padue,  emebat  perdices,  capones 
et  multa  bona.  Inde  ipse  erat  malus  homo,  et  prò  uno  quadrante 
perdidisset  hominem,  et  nullum  habebat  prò  amico.  Unde,  eundo 
ad  predicam,  accepit  illud  verbum  '  attende  tibi  '  suo  modo, 
scilicet:  attende  tibi,  idest  sguazza  et  triumpha.  Ideo  emebat 
perdices  etc.46. 

Tale  è  il  ritratto  morale  del  Vernia  quale  fu  conosciuto  dal 
Peretto:  miscredente,  crapulone,  rapinatore,  che  per  un  quat- 
trino avrebbe  rovinato  un  uomo,  senza  amici.  Così  giudicava 
il  Pomponazzi  l'autore  delle  Quaestiones  sulla  pluralità  de- 
gl'  intelletti  e  sull'  immortalità  dell'anima,  nel  quale  ai  revi- 
sori ecclesiastici  deputati  dal  Barozzi  e  al  Barozzi  stesso  era 
parso  di  ravvisare  il  campione  stesso  dalla  fede,  che  aveva 
debellato  definitivamente  l'averroismo  e  l'alessandrismo  ! 

Tuttavia  non  va  dimenticato  che  dall'estate  del  1496  al- 
l'autunno del  1499  il  Peretto  era  stato  assente  da  Padova, 
in  seguito  a  dimissioni  dalla  cattedra  da  lui  occupata  e  sulla 
quale  era  stato  sostituito  dal  Nifo  47.  Ora  è  sicuramente  in 
questi  anni  che  la  crisi  filosofica  e  religiosa  del  Vernia,  ini- 
ziatasi nel  corso  del  1492,  venne  a  maturazione,  se  vera  crisi 
ci  fu  in  un  uomo  così  lepido  e  astuto.  E  la  testimonianza 
del  Pomponazzi  non  può  aver  valore  per  gli  anni  in  cui  il  man- 
tovano lo  perse  di  vista. 

Del  resto,  queste  oscillazioni  tra  una  spregiudicatezza  quasi 
scettica  e  il  bisogno  di  conformarsi  all'ambiente  religioso  e  di 
accettarne  il  formalismo,  è  tutt'altro  che  alieno  dall'  indole, 
piena  di  contradizioni,  di  un  uomo  dell'età  di  papa  Borgia» 


46  Ib.,   Cod.   lat.   6535,   f.    jòyc. 

47  Cfr.  C.  Oliva,  Note  snW  insegnamento  del  Pomponazzi,  in  «Giorn. 
Crit.  d.  Filos.  Ital.  »,  VII,   1926,  p.   181. 


ANCORA  QUALCHE  NOTIZIA  E  ANEDDOTO 
SU  NICOLETTO  VERNIA  * 


Ritengo  che  questo  ameno  e  spregiudicato  maestro,  prima 
che  a  Padova,  si  recasse  adolescente  a  Venezia,  in  casa  del 
Patrizio  Sebastiano  Badoèr,  nei  cui  «  lari  era  stato  educato  » 
il  suo  conterraneo  e  parente  Nicolò  Manupello  da  Chieti  ', 
che,  addottorato  in  artibus  a  Padova  il  22  aprile  1444  -,  vi 
s'addottorò  anche  in  medicina  il  18  settembre  1450  3.  Altri- 
menti non  si  spiegherebbe  come,  nella  dedica  dell'esposizione 
del  Burleo  alla  Fisica  d'Aristotele  (Venezia,  1482),  egli  po- 
tesse dire  d'essersi  affezionato  al  Badoèr  «  a  teneris  annis  », 
e  come  mostrasse  di  conoscere  così  a  fondo  la  storia  leggen- 
daria di  questa  famiglia. 

Dal  testamento  fatto  a  Padova  il  lunedì  2  novembre  1478, 
e  pubblicato  da  Paolo  Sambin,  si  conosce  il  nome  del  padre, 
per  esser  detto  «  clarissimus  artium  et  medicine  doctor  dominus 
magister  Nicolaus  filius  honorabilis  viri  ser  Antonii  de  civi- 
tate  Theatina  »  4.  E  lo  stesso  si  legge  nell'atto  di  donazione 


*  Dal  «  Giorn.  Crit.  d.  Filos.  Ital.  »,  XXXIV,  1955,  pp.  496-503- 
La  nota  su  Cristoforo  da  Recanati  è  inedita. 

I  Expositio  excel. mi  philosophi  Giialterij  de  burley  anglici  in  libros 
odo  de  physico  anditn  Aristotelis  stagirite  emendata  per  me  nicoletum 
verniam  theatinimi  publice  et  ordinarie  philosophiam  in  gimnasio  patti- 
vino    legentem Venetiis.    M.cccc.    Ixxxii.    die    quintadecima    mensis 

aprilis,  dedicata  a  Sebastiano  Badoèr,  «  censore  del  comune  di  Venezia  »: 
Del  Manupello  si  legge  appunto  nella  dedica:  «  affinis  ac  conterraneus 
meus  clarissimus  phisicus  et  mediciis  Nicholaus  manupellus  Thea- 
tinus  in  tuis  laribus  fuit  educatus  ». 

^  G.  Erotto  e  G.  Zonta,  Ada  graduum  academicorum  Gynnasii 
Patavini,  ab  anno  MCCCCVI  ad  annum  MCCCCL,  Padova,  1922, 
n.   1825. 

3  Ib.,  2437. 

4  P.  Sambin,  Intorno  a  N.  V.,  in  Rinascimento,  III,  1952,  p.  265, 
docum.  I. 


Il6        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV   AL    XVI 

de'  suoi  libri  al  monastero  di  S.  Giovanni  in  Verdara,  del 
giovedì  i6  gennaio  1483  (se  il  16  gennaio  di  quell'anno,  e  non 
piuttosto  il  17,  fosse  caduto  in  giovedì  5).  Dai  quali  due  docu- 
menti si  rileva  che  il  buon  Nicoletto  si  lasciava  passare  come 
«  artium  et  medicinae  doctor  »,  quando  dottore  di  medicina 
non  era  ! 

Nella  stessa  dedica  al  Badoèr  si  legge  :  «  cum  enim  sub  disci- 
plina clarissimi  philosophi  pauli  pergulensis  essem,  a  quo 
etiam  tu  eruditus  fuisti,  pluries  ab  eo  audivi  te  summum 
philosophum  atque  theologum  evasisse,  nullumque  esse  qui 
te  in  docrina  francisci  de  marronis  subtilisque  doctoris  lohannis 
scoti  antecelleret  ».  Orbene:  Paolo  da  Pergola  il  19  marzo 
1442  era  reggente  delle  scuole  annesse  in  Venezia  alla  chiesa 
di  S.  Giovanni  Elemosinarlo  a  Rialto,  nel  quale  anno  egli  era 
anche  piovano  di  questa  chiesa;  e  reggente  di  queste  scuole 
restò  fino  alla  sua  morte  nel  1455  ;  fu  sepolto  nella  chiesa  di  cui 
era  piovano  6,  Tanto  Sebastiano  Badoèr  quanto  il  giovane 
Nicoleto,  e,  suppongo,  anche  Nicolò  Manupello,  sono  stati 
sotto  la  disciplina  di  Paolo  a  Venezia. 

Questa  scuola  merita  d'esser  meglio  conosciuta,  sia  per 
gì'  insigni  maestri  che,  dopo  il  pergolese,  vi  insegnarono,  sia 
perché  nella  seconda  metà  del  Quattrocento  e  per  tutto  il 
Cinquecento  essa  fu  una  specie  di  succursale  dello  Studio  pa- 
tavino, nella  quale  molti  giovani  veneziani  cominciavano  gli 
studi  di  logica  e  di  filosofia,  che  poi  andavano  a  completare  a 
Padova,  ove  s'addottoravano.  Così  appunto  sappiamo  aver 
fatto  anche  il  giovane  chietino,  il  quale,  da  Venezia,  forse  dopo 
la  morte  del  pergolese,  si  recò  a  Padova,  ed  ivi,  dopo  essere 
stato  qualche  tempo  sotto  la  disciplina  di  Gaetano  da  Thiene, 
conseguì  il  dottorato  in  artihus,  ma  non  in  medicina,  il  30 
maggio  1458,  primo  promotore  lo  stesso  maestro  Gaetano  7. 

Dopo  questa  data,  non  si  hanno  di  lui  altre  notizie  fino  al- 
l' inizio  dell'anno  scolastico  1465-1466,  quando  fu  assunto  alla 
lettura    straordinaria    di    filosofia.    Dalla    dedica    del    Vernia 


5  Ib.,  p.   266,  docum.   III. 

6  A.  Segarizzi,  in  Atti  dell'  Istit.  Veneto  s.  1.  a.,  LXXV,  1915-1916, 
p.  646  sgg.  e  la  breve  notizia  dello  stesso  in  Nuovo  Arch.  Veneto,  N.  S., 
LXV,  1917,  p.  232.  Cfr.  anche  il  mio  studio  già  cit.  Letter.  e  cultura 
veneziana  del  Quattrocento,  pp.    111-118. 

7  P.  Silvestro  da  Valsanzibio  O.  F.  M.  Cap.,  Vita  e  dottrina  di  Gae- 
tano di   Thiene,   Padova,    1949,   pp.    13-14- 


I 


ANCORA    QUALCHE    NOTIZIA    SU    NICOLETTO    VERNIA  II7 

stesso  ad  Enrico  Languardo,  arcivescovo  di  Acerenza  e  Ma- 
tera,  del  volume  di  commenti  di  Egidio  Romano,  di  Marsilio 
di  Inghen  e  d'Alberto  di  Sassonia  al  De  generatione  et  corruptione, 
stampato  a  Padova  nel  1480,  veniamo  a  sapere  che  dodici 
anni  prima,  quindi  nel  1468,  era  stato  chiamato  «  ad  legendum 
philosophiam  in  locum  quondam  Gaetani  Thienei  philosophi 
celeberrimi  »  ;  carriera  abbastanza  rapida  che  mal  si  spieghe- 
rebbe senza  l'appoggio  di  potenti  patroni  ch'egli  aveva  a 
Venezia. 

L' intervento  di  questi  patroni  a  suo  favore  si  fece  palese, 
del  resto,  nel  maggio  del  1469,  con  l'edificante  episodio  che 
traggo  dagli  atti  del  «Sacro  Collegio  dei  Medici  e  Filosofi»  di 
Padova  ^,  a  solazzo  dei  «  laudatores  temporis  acti  »,  i  quali 
vanno  dicendo  che  certe  soperchierie  avvengono  soltanto  ai 
nostri  giorni. 

Ecco  dunque  l'episodio.  Ma,  prima  di  narrarlo,  bisogna  sa- 
pere che  al  Sacro  Collegio  dei  Medici  e  Filosofi,  che  aveva  un 
numero  limitato  di  membri,  erano  aggregati  solo  medici  e  filosofi 
padovani  e  veneziani,  in  numero  limitato,  dopo  aver  conseguita 
la  laurea  in  artihus  e  in  medicina,  e  a  seconda  della  disponibilità 
dei  posti.  Da  sapersi  è  altresì  che  soltanto  ai  membri  del  Collegio 
spettava  di  farsi  «  promotori  »  dell'ammissione  di  coloro  che 
ne  fossero  degni  al  «  tentativum  »  e  al  «  privatum  examen  » 
per  il  conseguimento  del  titolo  di  dottore  «  in  artibus  »  e  in 
medicina  e  al  primo  «  promotore  »  toccava  il  privilegio  di 
conferire  le  insegne  del  grado  al  neo-dottore,  previo  il  giura- 
mento di  rito.  Coloro  che  non  fossero  cittadini  padovani  o 
veneziani,  ma  fossero  maestri  nello  Studio  di  Padova  da 
molti  anni,  sì  che  non  avessero  più  bisogno  di  essere  «  ballo- 
tati  »  periodicamente,  potevano  essere  aggregati  al  Collegio, 
in  seguito  al  parere  favorevole  dei  membri  di  questo  e  con  le 
cautele  previste  dagli  statuti. 

Ora  sentite  questa.  Un  bel  giorno,  e  precisamente  il  mercoledì 
31  maggio  1469,  il  priore  del  Sacro  Collegio  dei  Medici  e  Filo- 
sofi di  Padova,  che  era  il  dottore  «  in  artibus  »  Maestro  Cri- 
stoforo da  Recanati  (de  rechaneto)  9,  udito  il  parere  dei  con- 
siglieri, convoca  il  Collegio  in  assemblea  straordinaria  e  tiene 


*  Arch.  ant.  dell'  Univ.  di  Padova,  S.  Coli,  de'  Med.  e  Filosof.,  voi.  312. 
b.  49r. 

9  Su  lui,  v.  Facciolati,  Fasti  Gymnasii  Patavini,  parte  II,  p.   104. 


Il8        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

ai  convenuti  questo  discorso: 

Famosissimi  doctores,  causa  convocationis  excellentiarum  ve- 
strarum  est  ista,  quia  die  heri  quidam  officialis  Magnifici  domini 
pottestatis  padue  mihi  mandavit,  ex  parte  prefati  magnifici 
domini  pottestatis,  quatenus  hodie  convocare  facerem  collegium 
ad  instanciam  d.  M.  Nicoleti,  et,  in  executione  literarum  serenis- 
simi ducalis  domini]  dicto  d.  M.  Nicoleto,  assignare  debere  locum 
in  collegio  cum  conditionibus  prout  in  dictis  literis  continentur, 
et  quod  unusquisque  super  hoc  dicat  apparere  suum  ^°. 

L' intervento  della  Signoria  veneziana  a  favore  del  filosofo 
chietino  metteva  in  serio  imbarazzo  il  Collegio,  geloso  dei  suoi 
diritti  e  privilegi.  Forestiero,  laureato  nelle  arti  da  appena  ii 
anni,  lettore  di  filosofia  a  Padova  da  appena  quattro,  il  Vernia 
veniva  imposto  dall'autorità  politica  centrale,  senza  che  il 
Collegio  fosse  stato  nemmeno  interpellato  prima,  e  senza  una 
ragione  di  particolari  benemerenze  che  gli  dessero  la  precedenza 
su  altri.  Che  modo  di  procedere  era  questo  ?  Vero  è  che  anche 
Maestro  Cristoforo  da  Re  e  anati  era  entrato  a  far  parte  del 
Collegio,  di  cui  egli  era  priore,  nel  maggio  1464,  mentr'era 
«  legens  ordinarie  philosophiam  naturalem  »,  per  l' intervento 
e  l'imposizione  dallo  stesso  governo  veneziano  e  senza  il  gra- 
dimento del  Collegio  stesso  ". 


IO  Arch.   Ant.  dell'Univ.   di  Padova,   voi.   312,   f.  4gr. 

"  Maestro  Cristoforo  Rappi  (secondo  C.  Benedettucci,  Biblioteca 
recanatese,  Recanati,  1884,  p.  124)  da  Recanati  era  nato  il  4  ottobre 
(giugno,  sec.  il  Benedettucci)  1423,  ma  s'era  addottorato  in  artibus 
a  Padova,  il  3  febbraio  1454  (Arch.  della  Curia  Vescovile  di  Pa- 
dova, Diversovitìu,  voi.  28,  f.  23  v).  Non  mi  risulta  la  data  esatta 
del  dottorato  in  medicina,  che  sicuramente  ebbe  luogo  pochi  anni 
dopo.  Ma  il  25  giugno  1462  ebbe  dal  Senato  veneziano  un  aumento 
di  stipendio  come  professore  di  filosofìa  naturale  da  molti  anni  nello 
studio  patavino,  allo  scopo  di  impedire  che  egli  accettasse  un  invito 
fattogli  dal  vicedomino  di  Ferrara;  «  que  res  universis  scolaribus  studii 
ipsius  molestissima  est,  non  sine  incomoditate  et  iactura  nostri  do- 
mini], quia  si  recederet,  omnes  qui  illum  audiunt,  eum  sequerentur  » 
(Arch.  di  St.  di  Venezia,  Senato-terra,  Reg.  5,  f.  12  r).  Di  queste  buone 
disposizioni  del  Senato  a  suo  riguardo  il  Recanati  non  tardò  ad  ap- 
profittare; poiché  sotto  la  data  del  18  maggio  1464  si  legge  {Ib.,  f.  79  r)  : 
«  In  studio  nostro  paduano,  ut  notum  est,  reperitur  Clarissimus  doctor 
magister  Christophorus  Recanatensis,  legens  ordinarie  philosophiam 
naturalem.  Qui,  ut  litere  Rectorum  nostrorum  et  rectoris  Universitatis 
Artistarum  padue  testantur,  neminem  in  Italia  habet  parem.  Et  qui 
vehementer  optai  prò  honore  suo  cooptari  in  collegio  Artistarum  et  me- 
dicorum  padue,  in  locum  scilicet  primi  qui  deficiet,  et  multi  prestan- 
tiorum  doctorum  ipsius  collegii  hoc  velie  et  cupere  videantur.   Vadit 


ANCORA    QUALCHE    NOTIZIA    SU    NICOLETTO    VERNI  A  IIQ 

Ma  sentiamo  come  l'estensore  del  verbale  continua  a  rias- 
sumere il  discorso  dell'avveduto  priore: 

Sed  sibi  videtur,  quod  (  durum.  est  centra  stimulum  calci- 
trare »  [Actiis,  IX,  5;  XXVI,  14].  Et  quod  ipse  non  vult  in  hac  re 
nisi  quod  vult  totum  coUegium,  ad  quod  omnino  oportet  super  hoc 
providere:  aut  quod  ipse  d.  M.  Nicolletus  acceptetur  in  dicto  colle- 
gio iuxta  tenorem  literarum,  aut  quod  colligantur  duo  experti  qui 
sint  doctores  dicti  collegii,  et  quod  ipsi  accedant  ad  Magnifìcos 
dominos  pretores  [sic,  1.  rectores]  padue  et  etiam  ad  Serenissi- 
mum  dominium,  ad  deffendendum  iura  collegi]  contra  dictum  M. 


pars,  ut  dictus  magister  christophorus,  quo,  hoc  gradu  honoris  auctus, 
animatior  et  promptior  reddatur  ad  perseverandum  in  sua  lectura, 
Auctoritate  hiiius  consilii  cooptetur  in  dicto  Collegio,  in  locum  scilicet 
primi  qui  quoquo  modo  deficiet.  De  parte,  88;  de  non,  12;  non  sinceri  2  ». 
Ritengo  che  di  parere  contrario  dovesse  essere  Ser  Vitale  Landò,  dot- 
tore e  milite,  non  che  «  Sapiens  terre  firme  »,  il  quale  ammoni  «  quod 
serventur  promissiones  facte  collegio  doctorum  medicorum  et  artistarum 
padue  »,   evidentemente  col  rispettarne  i  privilegi   e  gli  statuti. 

Anche  allora  il  Collegio  aveva  pestato  i  piedi  e  masticato  amaro, 
ma  poi  aveva  finito  per  rassegnarsi.  Simili  ingerenze  del  governo  ve- 
neziano nelle  faccende  del  Collegio  non  erano  una  novità:  che  anche 
quando  di  Lauro  Quirini,  veneziano  e  «  doctor  artium  »  da  cinque  anni, 
pose  la  sua  candidatura  per  essere  accolto  nel  Collegio  padovano,  ove 
i  veneziani  avean  diritto  a  un  certo  numero  di  posti,  la  decisione  si 
trascinò  per  oltre  un  mese,  finché  la  domanda  fu  respinta  con  9  «  ba- 
lote  »  contro  8  (Arch.  Ant.  dell'  Univ.  di  Padova,  Sacro  Coli,  degli 
Artisti,    voi.   309,    ff.    122  v-r27  V,    15   apr.    i    maggio   -1845). 

Dopo  la  morte  di  maestro  Gaetano  da  Thiene  (18  luglio  1465),  Crist. 
da  Recanati  fu  chiamato  dal  Senato  veneto  con  voto  unanime  del 
9  sett.  1465  (Senato-terra,  Reg.  5,  f.  134  v)  a  succedergli  nella  prima 
lettura  ordinaria  di  filosofia.  Morì  il  30  marzo  (gennaio,  sec.  il  Bene- 
dettucci)  1480  a  56  anni,  e  fu  sepolto  nella  chiesa  delle  monache  di 
S.  Francesco  dell'  Osservanza,  «  in  vico  pontis  Altinatis  »,  in  un'arca 
di  pietra  «  cum  doctoris  effigie  dormientis  »,  e  un  epistaffio  che  lo  rac- 
comandava ai  posteri  come  «  medico  celeberrino  et  philosophorum 
inclyto,  quem  universae  Italiae  Gymnasia  peripateticae  scholae  prin- 
cipem  luxerunt  »  (lac.  Salomonius,  Insc.  ript.  Urbis  patav.  Padova, 
1701,  p.  211,  n.  20).  Io,  purtroppo,  non  conosco  se  non  le  Quaestiones 
recollectae  super  Calciilationes  sub  magistro  Chistophoro  de  Recaneto, 
huius  artis  principe,  die  sabbati  mensis  novembris  1469,  in  festo  sanctae 
Catharinae  ».  Ma  il  Coxe,  Catal.  Mss.  Bibl.  Bodl.,  Ili,  Oxonii,  1854, 
segnala  l'esistenza  di  un'esposizione  Magistri  Christofoli  de  Reganato 
super de  celo  et  niundo  ad  instanciam  Magistri....  Yeronimi  de  Cam- 
marino,  e  forse  anche  sul  De  physico  auditu  (n.  279,  col.  644-45),  non- 
ché di  certe  pillulae  magistri  Christophori  Rechanatensis  (n.  488,  5,  col. 
810).  È  un  po'  poco  per  giudicare  delle  lodi  che  gli  tributarono  i  con- 
temporanei. Ad  ogni  modo,  è  inesatto  quello  che  scrive  il  Facciolati, 
Fasti  Gymnasii  Patav.,  II,  p.  104,  che  egli  «  primus  averroi  auctori- 
tatem  in  Gymmasio  Patavino  conciUasse  dicitur,  eius  commentarla  in 
philosophando  unice  secutus  ».  Prima  di  lui  c'erano  stati  Paolo  Veneto 
e  Gaetano  da  Thiene,  di  cui  il  recanatese  era  stato  discepolo. 


I20        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Nicoletum,  et  petere  quod  diete  littere  revocentur,  tanquam 
impetrate  et  concesse  contra  formam  statutorum  dicti  collegi],, 
ipso  collegio  et  iuribus  suis  inauditis. 

Et  super  hoc  factis  multis  sermonibus  et  arengationibus, 
prefatus  dominus  prior  posuit  ad  partitum,  quod  quibus  placet 
quod  acceptetur  in  collegio  d.  M.  Nicolectus  iuxta  tenorem  lite- 
rarum  Serenissimi  domini],  ponat  suffragia  sua  in  pisside  rubea; 
quibus  vero  placuerit  quod  defensentur  iura  collegi]  contra  dictum 
Magistrum  Nicoletum  [per]  expertos  dicti  collegi],  ponat  balotam 
suam  in  pisside  viridi.  Et  facto  scrutinio  cum  bussolis  et  balotis, 
invente  fuerunt  balote  quinque  in  pisside  rubea,  in  favorem  dicti 
M.  Nicoleti,  et  balote  xv]  in  pisside  viride,  quod  defensentur 
iura   collegi]    contra   dictum   Magistrum   Nicoletum  ^~. 

Cinque  contro  sedici  costituisce  un  bello  scacco  per  ser 
Nicoletto.  Tuttavia  è  notevole  che  cinque  membri  del  Collegio 
si  mostrassero  disposti,  fin  dal  primo  momento,  a  incassare  il 
colpo,  non  ostante  l'affronto  al  corpo.  Lo  facevano  per  sim- 
patia verso  il  filosofo  chietino,  o  perché  eran  persuasi  anch'essi 
che  «  durum  est  contra  stimulum  calcitrare  »  ?  Si  trattava 
ora  di  eleggere  coloro  che  dovevano  assumersi  la  difesa  dei 
diritti  del  Collegio  al  cospetto  dei  rettori  della  città  e  del  go- 
verno della  Serenissima. 

Deinde  posuit  [prior]  ad  partitum,  de  consensu  dominorum 
consiliariorum,  quod  quibus  placet  quod  elligantur  d.  M.  Nicolaus 
de  Sancta  Sophia,  d.  M.  Ioannes  Michael  [de  Bredepalea],  d.  M. 
lacobus  [f.  q.  mag.  Gratiadei]  de  Veneti]s  et  d.  M.  Ioannes  Petrus 
de  carari]s,  qui  accedant  ad  Magnificos  pretores  [/.  rectores] 
padue  et  ad  Serenissimum  dominium  Venetiarum,  ad  deffen- 
dendum  iura  et  statuta  dicti  collegi]  contra  d.  M.  Nicoletum  et 
literas  per  ipsum  impetratas,  ponat  balotam  suam  in  pisside 
rubra;  quibus  vero  non  placet,  ponat  balotam  suam  in  pisside 
viride.  Et  facto  scrutinio  invente  sunt  balote  xx]  in  pisside  rubra, 
et  balote  due  in  pisside  viridi  negante.  Et  sic  fuerunt  ellecti. 

In  questo  verbale  v'  è  un  piccolo  dettaglio  che  potrebbe  fa- 
cilmente sfuggire.  Il  messo  del  podestà  aveva  detto,  a  nome 
di  questo,  che  fosse  riunito  il  Collegio  e  che  ogni  membro  di- 
cesse la  sua  intorno  alla  faccenda  :  «  et  quod  unusquisque 
super  hoc  dicat  apparere  suum  ».  E  l'estensore  del  verbale  ci 
assicura  che  furono  fatti  dai  convenuti  molti  «  discorsi  e  ar- 
ringhe »  in  proposito  e  a  sproposito.  Gli  animi  della  maggio- 


12  Arch.  ant.  delI'Univ.  di  Padova,  voi.  312,  f.  49  v. 


I 


ANCORA    QUALCHE   NOTIZIA   SU    NICOLETTO    VERNIA  121 

ranza  s' infiammarono  nel  denunciare  l'affronto  fatto  al  Sacro 
Collegio  e  ai  suoi  statuti,  e  infiammati....  si  suggestionavano 
a  vicenda  sino  a  prendere  le  decisioni  che  presero  quel  merco- 
ledì 31  maggio. 

Ma  tornato  a  casa,  ognuno  di  quelli  che  avevano  gridato 
piti  forte  contro  la  soperchieria  che  si  perpetrava  da  parte 
della  Serenissima  Signoria,  si  sarà  messo  a  riflettere  che  anche 
le  mura  della  chiesa  di  S.  Urbano,  ov'eran  raccolti,  avevano 
orecchie,  e  probabilmente  più  d'uno  si  sarà  morsa,  un  po' 
tardi,  la  lingua. 

Fatto  sta  che  il  venerdì  2  giugno  il  Sacro  Collegio  fu  di  nuovo 
convocato  dallo  stesso  priore,  non  più  nella  chiesa  di  S.  Urbano, 
ma  «  in  palatio  Episcopali,  hora  xxij  ».  Il  priore  si  fece  eco 
delle  considerazioni  che  due  giorni  di  riflessione  avevano  ma- 
turato nell'animo  dei  suoi  magnanimi  colleghi,  e  parlò  un  lin- 
guaggio più  circospetto. 

Illico  et  immediate  prefatus  prior  dixit:  famosissimi  domini 
doctores,  vos  vidistis  Mandatum  mihi  factum  nomine  collegij 
[/.  Potestatis],  ut  accipere  debeamus  omnino  in  collegio,  in  exe- 
cutione  literarum  ducalium,  d.  M.  Nicoletum,  prout  in  literis 
ducalibus  continetur.  Mihi  videtur,  ne  videamur  esse  inobedientes 
et  rebelles  Hteris  Serenissimi  domini]  Venetiarum,  quod  bonum 
esset  ipsum  d.  M.  Nicoletum  acceptare  in  dicto  collegio  ad  ul- 
timum  locum,  cum  protestacione  quod  non  intendimus  ipsum 
acceptare  in  preiudicium  iurium  et  statutorum  nostrorum,  et 
quod  reservamus  nobis  ius  prosequendi  iura  nostra  centra  dictum 
d.  M.  Nicoletum  et  petendi  revocationem  dictarum  literarum 
tanqviam  indebite,  collegio  nostro  inaudito,  concessarum  et  com- 
missarum  dicto  d.  M.  Nicoleto.  Et  ita  satisfaciemus  Voluntati 
Serenissimi  dominij  impune  et  absque  alio  inconvenienti  et  schan- 
dalo  dicti  collegij. 

E  COSÌ  fu  deciso.  Un  paio  di  settimane  dopo,  e  precisamente 
dal  martedì  20  giugno  ^3,  «Nicoletus»  comincia  a  figurare  in 
coda  alle  liste  dei  membri  del  Collegio;  poi,  man  mano  che 
altri  membri  entrano  a  farne  parte,  il  suo  nome  dall'ultimo 
posto  passa  al  penultimo,  e,  su  su,  in  una  ventina  d'anni  di- 
venta uno  dei  primi,  e  comincia  ugualmente  a  figurare  in 
quelle  dei  promotori  nei  verbali  di  dottorato.  Della  protesta 
e  della  riserva  cui  accennava  il  priore  del  Collegio,  l'egregio 


13  Ib.,  f.  52  V. 


122        l'aristotelismo    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

dottore  in  artihus  Maestro  Cristoforo  da  Recanati,  non  si 
parlò  più,  ritenendosi  che  il  fatto  ricadesse  sotto  l' impero  di 
quello  che  i  giuristi  pisani  chiamavano  1'  «  ius  mengicum  seu 
gengicum  de  praescriptione  »,  e  che  molti  filosofi  molto  filo- 
soficamente ritengono  un  «  precipitato  storico  della  giustizia 
eterna  »  ! 

Nove  anni  dopo,  esattamente  il  lunedì  2  novembre  1478, 
il  povero  Nicoletto,  sano  per  grazia  di  nostro  Signor  Gesù 
Cristo  «  mente  et  sensu  »,  era  tuttavia  «  corpore  languescens  »; 
e  pare  si  trattasse  di  malattia  piuttosto  seria,  se  in  quel  giorno 
provvide  a  far  testamento,  disponendo  dei  suoi  averi  a  fa- 
vore del  monastero  di  S.  Giovanni  in  \'erdara  a  Padova  '4. 
Da  questo  documento  confrontato  col  testamento  del  1499, 
pubblicato  dal  Ragnisco  ^S  appare  che  nel  1478  egli  a  Padova 
abitava  «  in  contrata  burgi  Capellorum  »  e  non  ancora  «  in 
contrata  S.  Lucie»,  come  nel  1483,  se  questa  data  è  esatta  ^^, 
né  ancora  «in  contrata  putei  Bonelli»,  come  nel  1499  '7;  risulta 
parimente  che  non  era  ancora  cittadino  di  Vicenza,  che  non 
disponeva  dei  possessi  di  Colze,  e  non  si  sa  se  ancora  avesse 
avuto  a  che  fare  con  la  famiglia  vicentina  Dalla  Scrofa.  Questi 
rapporti  sono  strettamente  connessi  con  l'acquisto  poco  chiaro 
della  cittadinanza  vicentina  e  della  villa  di  Colze,  quando  i 
suoi  guadagni  erano  aumentati  assai.  Su  tutti  questi  punti 
potrebbero  far  luce  ricerche  negli  archivi  notarili  di  Padova 
e  di  Vicenza. 

Ad  ogni  modo,  parrebbe  che  le  sue  fortune  cominciassero  a 
prosperare,  scapolato  alla  morte,  dopo  il  1481;  ed  anche  al- 
lora con  l'appoggio  di  autorevoli  patroni.  Dal  primo  dei  tre 
documenti  pubblicati  da  R.  Persiani  ^^,  si  rileva  che  l'amba- 


14  Cfr.  P.  Sambin,  /.  e.  Sui  rapporti  del  Vernia  coi  canonici  Regolari 
Lateransi  del  monastero  di  S.  Giovanni  in  Verdara  a  Padova  gette- 
ranno luce  le  ricerche  dello  stesso  Sambin  sulla  biblioteca  di  questo 
monastero.  Uno  studio  sulla  tomba  del  Vernia  e  sui  rapporti  di  lui  con 
gli  stessi  Canonici  Lateranensi  del  monastero  di  S.  Bartolomeo  a  Vi- 
cenza sta  per  dare  in  luce  negli  Atti  dell'Accademia  vicentina,  il  prof. 
Antonio   della   Pozza,   direttore   della   Bertoliana. 

15  In  «Atti  e  Memorie»  dell'Accad.  di  Se.  Lett.  ed  Arti  di  Padova, 
Anno  292,  1890-1891,  N.  S.,  voi.  VII,  disp.  3^,  p.  280.  V.  sopra,  p.  000. 

16  Poiché  il  16  genn.  1483,  non  cadeva  in  giovedì,  come  nel  docum.  Ili 
pubblicato  dal  Sambin,  ma  in  mercoledì.  Quindi  o  è  sbagliato  l'anno, 
oppure  il  giorno. 

17  Ragnisco,  /.  e,  p.  284. 

18  In  La  Riv.  Abruzzese  di  Se,  Leti,  ed  Arti,  Vili,  1893,  pp.  211-212. 


ANCORA    QUALCHE    NOTIZIA    SU    NICOLETTO    VERNIA  I23 

sciatore  napoletano,  Dott.  Aniello  Arcamona,  s'adoprava  in 
quest'anno  presso  il  Senato  veneziano,  perché  il  famoso  dot- 
tore Maestro  Nicoletto  da  Chieti,  che  da  più  anni  leggeva  a 
Padova  la  filosofia  ordinaria  «  cum  maxima  elegantia  et  suf- 
ficientia  ac  contentamento  omnium  »,  fosse  confermato  in 
detta  lettura  «  ita  ut  non  subiaceat  de  cetero  ulli  ballottationi  ». 
Era  già  aggregato  al  collegio  !  La  domanda  fu  accolta  con  122 
voti   favorevoli,   e   uno   solo   contrario. 

Molto  più  importante  è  il  secondo  documento  pubblicato 
dallo  stesso  Persiani,  del  13  dicembre  1487.  Da  esso  si  rileva 
che  ser  Nicoletto,  ottenuta  la  stabilità  a  vita,  aveva  messo  su 
boria,  e  «sub  pretextu  quod  non  habeat  ccncurrentem  sibi 
parem,  obtinuit  pridem  a  dominio  nostro  litteras,  per  quas 
ei  concessum  fuit  ut  legere  possit  bora  extraordinaria,  quo 
fit  quod  venit  eo  modo  carere  concurrente  ». 

Quanto  al  credersi  superiore  ad  ogni  altro  professore  che 
fosse  a  Padova,  e  magari  sotto  la  cappa  del  cielo,  il  Vernia 
fu  buon  maestro  ad  Agostino  da  Sessa,  che  si  riteneva  «  il 
primo  homo  dil  mondo  »,  com'ebbe  a  dichiarare  al  console 
veneziano  a  Napoli,  Lunardo  Anselmi  '9.  In  questo  sì  il  maestro 
che  lo  scolaro  eran  ben  lontani  dalla  modestia  del  Peretto  man- 
tovano che  preferiva  di  confessare  con  Socrate  :  «  Hoc  unum 
scio,  quod  nihil  scio  »  -°. 

Ed  anche  questa  volta  ser  Nicoletto  era  riuscito  ad  otte- 
nere r  insolito  privilegio  con  lettera  della  Signoria  veneziana. 
Ma  egU  non  aveva  fatto  i  conti  con  gli  studenti,  che,  per  quanto 
chiassosi,  erano  anche  allora  i  migliori  giudici  della  capacità 
dei  loro  professori.  E  gli  studenti  appunto  protestarono  per 
r  immeritato  privilegio  e  per  la  flagrante  violazione  degli 
statuti  accademici  da  parte  di  coloro  che  avrebbero  dovuto 
esserne  i  vigili  tutori. 

L' istituto  della  concorrenza  a  Padova  esigeva  che  per 
ogni  materia  professata  i  lettori  ordinari  fossero  due,  e  che 
leggessero  e  commentassero  gli  stessi  testi  negli  stessi  giorni 
e  alla  stessa  ora.  Gli  studenti  potevano  ascoltare  la  lezione 
dell'uno  o  dell'altro  concorrente,  scambiandosi  poi  gli  appunti 
e  le  impressioni,   e  avviare  discussioni,  sollevando  obiezioni 


19  M.  Sanuto,  Diarii,  VII,  678. 

20  Giorn.   Crii.  d.  Filos.  Hai.,  XXXIII,   1954,  pp.  91-92  e  341-342. 


124        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

alla  fine  della  lezione,  e  continuando  le  discussioni,  avviate 
entro  l'aula,  al  circolo  dei  filosofi,  che  più  tardi  ebbe  la  sede 
sotto  il  portico  del  podestà,  a  pochi  passi  dal  Bò.  L' intento 
perseguito  con  l' istituto  della  concorrenza  era  quello  di  obbli- 
gare i  professori  a  tenersi  al  corrente  ed  a  studiare  :  «  Et  hoc 
ut  fiant  dihgentissimi  coactique  sint  studere,  et  ex  conse- 
quenti    satisfacere    habeant    scolaribus    audientibus  ». 

Ora  Mastro  Nicoletto,  ottenuto  il  privilegio  di  leggere  senza 
concorrente,  «  hora  extraordinaria  »,  scelta  a  suo  piacimento, 
dice  il  documento  pubblicato  dal  Persiani,  «  minime  curat 
studere,  fitque  negligens  cum  magna  murmuratione  scolarium, 
qui,  hanc  ob  causam,  relieto  studio,  venerunt  ad  presentiam 
nostri  domimi  et  indolentes  {sic,  1.  dolentes)  supplicantur  ut 
forma  et  continentia  ipsorum  statutorum  superinde  loquen- 
tium  sibi  observetur  ».  Non  saprei  se  fra  quei  cari  studenti 
v'era  anche  il  Pomponazzi,  il  quale  si  laureò  in  artihus  appena 
qualche  mese  prima  che  il  Senato  obbligasse  il  maestro  chie- 
tino a  rispettare  gli  statuti  sul  fatto  della  concorrenza  e  a 
rinunziare  al  privilegio  abusivamente  concessogli  (13  dicem- 
bre  1487). 

Ultimo  aneddoto  della  vita  padovana  del  Vernia  è  il  suo 
dottorato  in  medicina  avvenuto  un  po'  alla  chetichella  il 
29  dicembre  1495.  L'  8  settembre  dello  stesso  anno,  dopo 
trent'anni  d' insegnamento  della  filosofia  naturale,  in  ricono- 
scimento dei  suoi  meriti,  la  Signoria  veneziana,  con  l'appro- 
vazione di  tutto  il  Consiglio,  gli  aveva  finalmente  concesso 
il  raro  privilegio  che  un  tempo  era  stato  concesso,  per  le  loro 
benemerenze,  a  Gaetano  da  Thiene  e  a  Maestro  Cristoforo  da 
Recanati,  di  leggere  senza  concorrente.  Parrebbe  che  ormai 
non  dovesse  avere  altra  aspirazione  che  quella  di  portare  a 
compimento  le  Quaestiones  de  pluralitate  intellectus  contra 
falsam  et  ah  onini  ventate  remotam  opinionem  Averroys,  per 
riguadagnarsi  la  stima  del  vescovo  di  Padova  e  per  ottem- 
perare all'  invito  del  doge  Agostino  Barbarigo,  dimostrando 
falsi  e  calunniosi  i  sospetti,  che  si  susurravano  «  in  angulis  », 
di  una  sua  adesione  all'averroismo.  Doveva  essere  sulla  set- 
tantina. Eppure  alla  distanza  di  trentasette  anni  dal  dottorato 
in  artihus  non  esitava  a  sottoporsi  agli  esami  per  conseguire 
il  titolo  di  dottore  in  medicina.  Promotori  furono  i  suoi  col- 
leghi Giovanni  Aquilano,  Lorenzo  da  Noale  e  Girolamo  da 
Verona;  testimoni  i  patrizi  veneziani  Lorenzo  Donato  e  Vin- 


{ 


ANCORA    QUALCHE    NOTIZIA    SU    NICOLETTO    VERNIA  I25 

cenzo  Quirini,  e  i  maestri  dello  Studio  Pietro  Pomponazzi  e 
Antonio    Francanziano  -^ 

Che  cosa  l'avrà  spinto  a  procacciarsi  il  titolo  di  medico  a 
quell'età  ?  e  a  che  cosa  poteva  giovargli  ?  La  risposta  forse 
potremo  trovarla  in  questa  notizia  che  si  legge  nei  Diarii 
di  Marin  Sanudo  --,  «  a  di  2  zener  »   [1499]. 

Vene  li  miedigi  di  collegio  di  questa  terra  [Venezia],  expo- 
nendo, conzò  sia  che  a  tempo  di  le  vachation  maestro  Zuan  de 
l'Aquila,  maestro  Nicoleto,  maestro  Hironimo  da  Verona 
et  maestro  Gabriel  Zerbi,  medici,  legevano  a  Padoa,  venissero  a 
miedegar  in  questa  terra;  per  tanto  chiedevano,  nel  tempo  ste- 
vano  dicti  medici  qui,  facessero  le  angarie  come  Ihoro,  sì  da 
pagar  il  medico  in  armada  etc.  E  li  fu  concesso,  et  cussi  per  la 
Signoria,  consulente  collegio,    fo    terminato    in  scriptura. 

Ecco  a  che  cosa  doveva  servire  la  laurea  in  medicina:  ad 
andare  «  a  miedegar  »  a  Venezia  durante  le  vacanze,  facendo 
concorrenza  ai  medici  del  luogo,  sia  col  fatto  di  essere  maestri 
di  medicina  dello  Studio  patavino,  sia  perché  questi  padovani 
non  facevano  «  le  angarie  »  che  dovevano  fare  i  medici  vene- 
ziani «  sì  da  pagar  il  medico  in  armada  ».  Lo  stipendio  di  180 
fiorini  non  pareva  abbastanza  al  filosofo  chietino,  che,  al  dire 
del  Pomponazzi,  «prò  uno  quadrante  perdidisset  hominem» -3, 
e  doveva  invidiare  i  guadagni  che  i  colleghi  medici  traevano, 
nel  periodo  delle  vacanze,  a  Venezia,  dall'esercizio  della  loro 
arte. 

Due  di  essi,  Giovanni  Aquilano  e  il  veronese  Girolamo 
della  Torre,  erano  stati  suoi  promotori,  ed  entrambi  godevano 
di  onorata  nominanza  a  Padova  e  altrove  per  la  loro  perizia 
nel  «  miedegar  »,  sì  che  la  loro  opera  era  molto  ricercata.  Ma 
di  gran  lunga  più  celebre  era  Gabriele  Zerbi,  anch'esso  vero- 
nese, anatomista  e  avversario  di  Iacopo  Berengario  da  Carpi, 
■che  gli  muove  gravissime  accuse,  forse  infondate  o  almeno 
esagerate.  Appena  sei  anni  più  tardi,  nel  1505,  morì  di  morte 
•efferata,  nel  viaggio  di  ritorno  dalla  Turchia,  ove  la  sua  fama 
di  medico  era  giunta,  recatavi  dai  veneziani. 


21   Padova,   Arch.   d.   Curia  Vesc,   Acta  graduum,   voi.  44,  f.  290  r. 
V.  sotto,  p.   162. 

"  I,  314- 

23  V.  sopra,  pp.  114. 


120        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Coiraiuto  compiacente  di  questi  e  altri  colleghi,  il  29  di- 
cembre 1495,  il  filosofo  chietino  ebbe  dunque  le  insegne  di 
dottore  in  medicina,  conferitegli  da  Giovanni  Aquilano,  e 
quattro  anni  dopo  lo  troviamo  a  Venezia  «  a  miedegar  »,  in 
sieme  a  Giovanni  Aquilano,  a  Gerolamo  da  Verona  e  Ga- 
briele Zerbi,  ai  quali  la  piacevole  compagnia  del  faceto  filo- 
sofo non  doveva  riuscire  ingrata. 

Ma  bel  gioco  dura  poco.  Ed  il  primo  ad  abbandonare  il 
quartetto  fu  proprio  maestro  Nicoletto,  il  quale  fece  appena 
in  tempo  a  preparare  per  la  stampa  il  libro  che  lo  faceva  tor- 
nare nelle  buone  grazie  del  Barozzi.  Il  3  agosto  1499,  a  Vicenza, 
dettava  le  sue  ultime  volontà,  e  due  mesi  dopo  trovava  pace 
nella  tomba  presso  i  Canonici  Regolari  Lateranensi  della 
stessa   città  -4. 


22  Sotto  al  bel  monumento  sepolcrale  che  ora  trovasi  nella  cap- 
pella dell'  Ospedale  Civile  di  Vicenza,  e  già  da  me  riprodotto  in  «  Giorn. 
Crit.  d.  Filos.  Ital.  »,  XXXVI,  1955,  pp.  496-97,  si  legge  questa  iscri- 
zione, in  cui  è  fatta  speciale  menzione  della  sua  ultima  opera:  «  Ni- 
co[letus],  Phi[losophus]  Cla[rissimus],  De  animi  plu[ralitate]  ac  fel[i- 
citate]  edito  libro,  Pat[avina]  in  Acca[demia]  anni[s]  XL  flor[uit]. 
Obiit  III  Nonas  Octobris  M.  CCCC.  LXXXXVIIII. 


VI 

LA  MISTICA  AVERROISTICA 
E  PICO  DELLA  MIRANDOLA  = 


Comunemente,  quando  si  parla  oggi  d'averroismo,  vien  fatto 
di  pensare  alla  dottrina  dell'unità  dell'  intelletto  possibile  per 
tutta  la  specie  umana;  la  quale  dottrina  vien  designata,  con 
un  vocabolo  moderno  che  si  direbbe  coniato  apposta  per  ac- 
crescere la  confusione,  «pampsichismo».  Ma  rari  sono  coloro  che 
dell'averroismo  mettono  in  evidenza  quella  tipica  dottrina 
mistica  che  fu  uno  degli  argomenti  maggiormente  discussi, 
fra  gli  averroisti  e  i  loro  avversari,  dalla  fine  del  secolo  XIII 
a  tutto  il  XVI.  E,  ciò  che  è  più  strano,  ne  tacciono  sia  il  Man- 
donnet  che  il  Van  Steenberghen  nelle  loro  massicce  diffuse 
monografìe  dedicate  a  Sigieri  di  Brabante. 

Eppure  la  mistica  averroistica  era  stata  fatta  oggetto  di 
ampia  discussione  da  parte  di  S.  Alberto  Magno,  di  S.  Tommaso 
e  di  Sigieri.  Sebbene  non  fosse  stato  ancora  tradotto  in  latino 
il  trattatello  De  animae  beatitudine,  essi  conoscevano  bene  il 
commento  e  l'ampia  disgressione  d'Averroè  sul  testo  XXXVI 
del  terzo  libro  del  De  anima,  assai  più  importante  di  quel 
piccolo  trattato,  e  per  chiarezza  e  per  compiutezza. 

In  questo  testo  del  De  anima,  s'accenna  al  problema,  se  è 
possibile  che  l' intelletto  unito  al  corpo  arrivi  a  conoscere  le 
sostanze  separate.  Ivi  Aristotele  promette  che  questo  argo- 
mento sarà  discusso  più  tardi  '  ;  a  noi  per  altro  non  è  giunto 
alcuno  scritto  dello  Stagirita,  nel  quale  il  problema  ora  ac- 
cennato sia  risolto.  S.  Tommaso,  dopo  aver  dubitato  che 
Aristotele,  sorpreso  dalla  morte,  fosse  mai  pervenuto  a  trat- 


*  Dal  volume   Umanesimo  e  Machiavellismo  dell'  «  Archivio  di  Filo- 
sofia »,   Padova,   Editoria  Liviana,    1949. 

I  Arist.,   De   Anima,    III,   t.   e.    36,    e.    7,    43ib    18-19. 


128        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

tare  delle  sostanze  separate  -,  finì  per  credere  che  il  problema 
fosse  risolto  dallo  Stagirita  in  un'opera  non  ancora  tradotta 
in  latino  che  gli  era  stata  mostrata  3.  Anche  Alberto  Magno, 
che  a  questo  problema  dedica  il  suo  trattato  De  intellectu  et 
intelligibili,  ritiene  che  quest'opera,  rimasta  sconosciuta  a 
lui,  era  ben  nota  a  molti  dei  discepoli  d'Aristotele,  i  quali  si 
sarebbero  ispirati  ad  essa  in  quei  numerosi  scritti  che  Alberto 
ben  conosceva  e  nei  quali  credette  di  trovare  il  fior  fiore  del- 
l' insegnamento  aristotelico  4. 

Neil'  intento  di  chiarire  il  pensiero  di  Aristotele  su  questo 
punto,  commentatori  greci  come  Alessandro  d'Afrodisia  e 
Temistio,  o  arabi  come  Alf arabi,  Avicenna  ed  Abu  Baker 
Avenpace,  avevano  cercato  negli  scritti  dello  Stagirita  quale, 
a  loro  avviso,  dovesse  essere  la  soluzione  di  quel  problema, 
conforme  ai  principi  della  filosofia  peripatetica.  Averroè, 
venuto  dopo  costoro,  aveva  intrapreso,  nel  detto  commento 
al  testo  XXXVI  del  terzo  del  De  anima,  una  vivace  critica 
delle  loro  teorie,  in  parte  rigettandole  e  in  parte  sforzandosi 
di  correggerle. 

Alessandro  d'Afrodisia  aveva  ritenuto  che  l'uomo  potesse 
arrivare  alla  conoscenza  del  mondo  immateriale  mediante  la 
«  copulatio  »  dell'  intelletto  potenziale  con  l' intelletto  agente. 
L' intelletto  potenziale  è,  per  l'Afrodisio,  una  semplice  pre- 
parazione o  disposizione  dell'organismo  vivente  di  vita  sen- 
sibile. L' intelletto  agente  invece  è  la  causa  prima  di  tutte  le 
cose,  la  quale,  irraggiando  la  luce  dell'  intelligibilità  sulla  ma- 
teria, la  plasma  e  trae  dalla  potenzialità  di  essa  tutti  gli  esseri 
del  mondo  corporeo.  Questi  imprimono  le  loro  qualità  dapprima 
sui  sensi  esterni  ;  e  per  mezzo  di  queste  prime  impressioni  susci- 
tano l'attività  dei  sensi  interni  e  particolarmente  dell'  imma- 
ginativa. L'attività  conoscitiva  degli  animali  inferiori  al- 
l'uomo s'arresta  qui.  Ma  l'organismo  umano,  sviluppatosi 
sotto  l'azione  dell'  intelletto  agente,  è  dotato  d'un  principio 
vitale  più  perfetto  che  tende  più  su. 

V  è  in  esso  una  capacità  o  disposizione  che,  per  quanto  le- 
gata all'organismo  vivente,  lo  porta  ad  aprirsi  una  veduta  sul 


2  S.  Tommaso,  De  anima,  III,  lez.   12  in  fine. 

3  S.  Tommaso.  De  imitate  intellectus  cantra  averr.,  ed.  L.  W.  Keeler, 
Roma,   Pontificia  Univ.   Gregoriana,    1936,   Cap.   I,  42,  p.   27. 

4  Alb.  Magno,  De  intellectu  ed  intelligibili,  I  tr.   i,  e.   i. 


MISTICA    AVERROISTICA    E    PICO    DELLA    MIRANDOLA  129 

mondo  intelligibile.  Questa  capacità  o  disposizione  è  ciò  che 
Aristotele  avrebbe  chiamato  l' intelletto  in  potenza.  Soltanto 
la  luce  inteUigibile  dell'  intelletto  agente,  la  quale  avvolge 
€  vivifica  tutta  la  natura,  può  trarre  all'atto  questa  pura 
potenziaHtà.  Ma  la  luce  divina  dell'  intelletto  agente  attua 
r  intelletto  potenziale  per  gradi  :  prima  per  mezzo  degl'  intel- 
ligibili astratti  dai  fantasmi  dell'  immaginativa  ;  poi  per  mezzo 
delle  scienze  speculative  ;  finalmente,  quando  l' intelletto 
umano  è  intelletto  in  atto  o  in  abito,  l' intelletto  agente,  cioè 
la  luce  divina,  lo  riempie  di  sé,  lo  informa  e  lo  rende  capace 
di  contemplare  in  se  stesso  il  mondo  divino  dei  puri  spiriti. 
Siccome  in  questo  stato  l' intelletto  contempla  Dio  per  mezzo 
di  Dio  stesso,  esso  è  detto  «  intelletto  acquisito  ». 

La  teoria  d'Alessandro,  con  la  sua  graduale  ascesa  della 
mente  umana  a  Dio,  che  nell'ultimo  grado  della  sua  elevazione 
finisce  per  essere  deificata,  sembra  aver  sedotto  Averroè. 
Il  quale,  per  altro,  ne  scorge  acutamente  le  difficoltà.  Se  il 
punto  di  partenza  di  questa  ascesa  verso  il  divino  è  l' intel- 
letto in  potenza,  e  se  questo  è  semplice  attitudine  dell'anima 
sensitiva  essenzialmente  legata  all'organismo  del  quale  su- 
bisce le  vicende,  bisognerebbe  ammettere  che  una  virtù  or- 
ganica, generabile  e  corruttibile,  vincolata  cioè  dalle  condi- 
zioni dello  spazio  e  del  tempo,  fosse  capace  d'elevarsi  alla 
conoscenza  di  ciò  che  è  universale,  libero  cioè  dallo  spazio  e 
dal  tempo,  ossia  dalle  condizioni  della  sensibilità  o,  come 
si  diceva  nel  medio  evo,  della  materia.  Si  può  bene  intendere, 
fino  ad  un  certo  punto,  che  la  causa  prima  operi,  come  causa 
agente,  sul  mondo  materiale  e  sull'intelletto  potenziale; 
ma  non  si  riesce  a  capire  in  che  modo  l' intelletto  agente  possa 
farsi  forma  d'una  virtù  organica  e  renderla  simile  a  sé.  L'  «  in- 
telletto acquisito»  è  concetto  che  non  è  punto  chiaro.  In  quanto 
«  acquisito  »  parrebbe  qualcosa  di  diverso  dal  soggetto  che  lo 
acquista;  ma  non  si  vede  come  un  soggetto  corruttibile  possa 
acquistare  e  far  suo  l'eterno. 

Per  queste  ragioni  parve  ad  Averroè  che  l' intelletto  poten- 
ziale non  dovesse  essere  «  ncque  corpus  ncque  virtus  in  corpo- 
re  »;  in  altri  termini,  la  natura  di  siffatto  intelletto  vuol  essere 
sciolta  da  ogni  intrinseco  legame  colla  materia.  Sostanza  se- 
parata esso  stesso,  l' intelletto  possibile  diviene  capace  di 
quella  ascesa  al  mondo  delle  sostanze  separate,  mediante  la 
«  copulatio  »  coir  intelletto  agente. 

9 


130        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Anche  Abu  Nasar  Alfarabi  s'era  fermato  a  meditare  sul 
problema  posto  da  Aristotele  e  sulla  soluzione  che  ne  aveva 
dato  Alessandro.  E  nella  sua  opera  intorno  all'  Etica  Nico- 
machea,  avendo  accettata  la  dottrina  del  commentatore  greco 
suir  intelletto  possibile,  s'era  limitato  a  considerare  l' intel- 
letto agente  come  causa  attiva  del  passaggio  di  quello  dalla 
potenza  all'atto,  e  non  come  forma  che  s'unisce  ad  esso.  In- 
vece, nel  trattato  De  intellectu  et  intelligibili ,  Alfarabi  ammise 
che  r  intelletto  possibile,  già  pienamente  attuato  dagl'  intel- 
ligibili tratti  del  mondo  sensibile,  diventa  soggetto  d'una  più 
intima  unione  coli'  intelletto  agente,  dal  quale  riceve  una  più 
copiosa  illuminazione  che  gli  dischiude  la  vista  del  mondo 
sovrasensibile.  In  questa  unione  coli'  intelletto  agente,  cui 
serve  di  preparazione  l'acquisto  delle  scienze  speculative,  e 
che  anche  Abu  Nasar  chiama  «  intelletto  acquisito  «  {intel- 
lectus  adeptus),  consiste  la  suprema  perfezione  della  mente 
umana  e  la  beatitudine  finale  dell'uomo  5.  Ma  Averroè  e'  in- 
forma, nel  De  animae  beatitudine  ^,  che  il  povero  Abu  Nasar, 
giunto  al  fine  de'  suoi  giorni  con  la  ferma  convinzione  di  po- 
tere arrivare  a  questo  alto  grado  di  perfezione,  cui  s'era  appa- 
recchiato procacciandosi  tutto  il  sapere  a  lui  accessibile, 
come  s'accorse  che  non  c'era  arrivato,  ebbe  a  dichiarare  im- 
possibile e  vana  l'aspirazione  a  congiungersi  con  le  sostanze 
separate,  ritenendo  ormai  favole  da  vecchierelle  le  descri- 
zioni puramente  immaginarie  che  taluni  facevano  dell'uomo 
pervenuto  a  tale   sovrumana  altezza. 

Quest'umile  riconoscimento  della  limitatezza  del  sapere 
umano  fatto  da  Alfarabi,  ormai  sul  passo  estremo,  non  aveva 
per  altro  scoraggiato  Abu  Baker  Avenpace.  Il  quale,  dice 
Averroè  7,  s'adoperò  a  lungo  a  risolvere  l'arduo  problema, 
senza  perderlo  di  vista  un  batter  d'occhio.  Oltre  che  nel  suo 
commento  al  De  anima,  Avenpace  tratta  di  questo  argomento 
in  «  molti  altri  suoi  libri  »,  di  due  dei  quali  conosciamo  i  titoli: 


5  Alpharabii,  De  intellectu,  nell'edizione  di  Avicenna,  Opera....  per 
canonicos  emendata.  Venezia,  eredi  di  Ottaviano  Scoto,  1508,  fol.  68, 
col.  4.  Il  trattatello  è  stato  ristampato  nella  traduzione  latina  da  E. 
GiLSON,  in  Archives  d'  hist.  doctr.  et  litt.  au  moyen  8ge,  1929.  Cfr.  B. 
Nardi,  introduzione  a  S.  Tommaso  d'Aquino,  Trattato  sull'unità  del- 
l'intelletto contro  gli   averroisti,   Firenze,   Sansoni,    1938,    p.    32. 

6  Capp.  3-4;  cfr.  A.  Nifo,  In  Averrois  de  animae  beatitudine,  Venezia, 
eredi  dì  O.   Scoto,   1520,  I,  testo  59,  e  II,  t.   11. 

7  Avere.,  De  Anima,  III,  comm.  36,  digress.,  parte  II  e  III. 


MISTICA    AVERROISTICA    E    PICO    DELLA    MIRANDOLA  I3I 

r  Epistula  de  perfectione  8,  e  il  Tractatus  de  copulatione.  Anche 
la  teoria  di  questo  pensatore  si  ricollega  strettamente  a  quella 
di  Alessandro  e  d'Alfarabi,  per  quanto  concerne  la  natura 
dell'  intelletto  potenziale  e  nel  ritenere  che  alla  conoscenza 
delle  sostanze  separate  si  possa  giungere  per  mezzo  del  sapere 
speculativo,  ossia  della  progressiva  attuazione  dell'  intelletto, 
in  potenza.  L'atto  col  quale  l' intelletto  umano  dal  sapere 
scientifico  s'eleva  alla  conoscenza  dei  puri  intelligibili  separati, 
potrebbe  dirsi  un  atto  di  superastrazione,  col  quale  dai  con- 
cetti astratti,  ricavati  dalla  realtà  sensibile,  si  astrae  quella 
pura  essenza  intelligibile  che  è  semplice  e  identica  per  tutte 
le  menti:  «Et  cum  philosophus  ascenderit  alia  ascensione, 
considerando  in  intellecto  inquantum  intellectum,  tunc  in- 
telliget  substantiam  abstractam  »  9.  Sembra,  per  altro,  che 
Abu  Baker  si  mostrasse  alquanto  perplesso  in  merito  a  questa 
suprema  ascesa,  che  dovrebbe  coronare  gli  sforzi  di  chiunque 
è  giunto  in  possesso  di  tutto  lo  scibile  filosofico;  e  che  egli, 
nell'Epistola  de  perfectione,  la  ritenesse  possibile  non  tanto 
per  lo  sforzo  della  natura  umana,  quanto  piuttosto  per  un 
aiuto  divino:  «  intellectio  istius  intellectus  est  de  possibilitate 
divina,    non    de   possibilitate   naturae  »  '". 

Ad  ogni  modo,  la  maggiore  difficoltà,  che  travaglia  anche 
la  teoria  di  Alf arabi  e  d'Avenpace,  consiste  nel  punto  di  par- 
tenza, cioè  nell'aver  considerato  l' intelletto  potenziale  gene- 
rabile e  corruttibile,  come  l'aveva  ritenuto  Alessandro  d'Afro- 
disia. 

Non  così  possiamo  dire  di  Temistio.  Per  questo  parafraste 
bizantino  d'Aristotele,  com'  è  stato  inteso  da  Averroè,  l' in- 
telletto potenziale  è  immateriale,  uno  ed  eterno,  al  pari  del- 
l' intelletto  agente  che  n'  è  la  forma.  Il  problema  che  concerne 
Temistio,  è  un  altro.  Se  l' intelletto  potenziale  è  uno  e  inge- 
nerabile, ed  uno  e  ingenerabile  è  l'intelletto  agente;  e  se  il 
primo  è  tratto  dalla  potenza  all'atto  e  diventa  intelletto  spe- 
culativo per  r  informazione  del  secondo,  non  si  riesce  a  vedere 
come  il  concorrere  di  due  cause  eterne  possa  dar  luogo  ad  un 
effetto  generabile  e  corruttibile,  qual'  è  il  mio  individuale 
atto  d' intendere,  susseguente,  in   particolari  contingenze  di 


8  MuNK,  Mélanges  de  philosophie  juive  et  arabe,  Parigi,  1859,  p.  393  sgg. 

9  AvERR.,  /.  e,  parte  III. 

'0    AVERR.,    ib. 


132        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

tempo  e  d'ambiente,  al  non  intendere,  e  diverso  dall'atto 
col  quale  altri  intende  quel  che  non  intendo  io.  Nel  pieno  con- 
giungimento dell'  intelletto  potenziale  con  l' intelletto  agente 
consiste  anche  per  Temistio  il  più  alto  grado  di  perfezione 
raggiungibile  dall'uomo;  ma  il  bizantino  non  spiega  perché 
questo  congiungimento  avvenga  soltanto  alla  fine  e  non  al 
principio  dello  sviluppo  intellettuale  dell'uomo;  egli  cioè  non 
spiega  perché  l' intelletto  agente,  fin  dal  primo  momento  della 
sua  unione  all'  intelletto  possibile,  non  attua  tutta  intera 
la  potenzialità  di  quest'ultimo,  se  è  vero  che  gì'  intelligibili, 
come  pensa  Temistio  con  Platone,  anzi  che  tratti  dalle  imma- 
gini sensibili,  sono  irraggianti  dall'  intelletto  agente  su  quello 
potenziale. 

A  risolvere  le  difiìcoltà  contro  le  quali  urtava  da  un  lato 
la  teoria  d'Alessandro  e  dall'altro  quella  di  Temistio,  il  com- 
mentatore di  Cordova  pose  questi  fondamenti.  Anzi  tutto, 
l'intelletto  che  è  soggetto  del  pensare,  in  quanto  questa  fun- 
zione conoscitiva  si  differenzia  dal  sentire,  non  può  essere 
<(  ncque  corpus  ncque  virtus  in  corpore  »,  quale  è  invece, 
per  lui,  la  capacità  di  sentire,  essenzialmente  legata  all'or- 
ganismo. Perciò  r  intelletto  possibile,  che  è  appunto  questo 
soggetto,  dovrà  essere  una  sostanza  separata,  e  come  tale 
unica  per  tutta  la  specie  umana.  Ma  a  differenza  delle  altre 
sostanze  separate  che  per  sé  sono  sempre  in  atto,  e  nelle  quali 
l' intendere  coincide  con  l'essere,  l' intelletto  umano,  come 
aveva  detto  Aristotele,  non  ha  altra  natura  che  quella  d'essere 
in  potenza  ".  Mentre  le  altre  intelhgenze  separate  sono  eter- 
namente attuate  da  puri  intelligibili  che  ne  costituiscono  la 
natura,  la  mente  umana  è  ordinata  a  intendere  la  realtà  del 
mondo  sensibile.  Ma  nella  realtà  sensibile  il  suggello  ideale  è 
come  oscurato  dalla  sua  unione  alla  materia,  ed  ha  bisogno 
d'esserne  liberato  per  riacquistare  la  sua  intelhgibilità.  La 
prima  funzione  dell'  intelletto  agente  è  appunto  quella  di 
rendere  all'  idea  immersa  nella  materia  la  sua  intelligibilità. 
Come  la  luce  solare  diffondendosi  sulle  cose  ne  suscita  i 
colori,  che  nell'oscurità  erano  invisibili,  così  la  luce  dell'  in- 
telletto agente,  riflessa  dalle  immagini  della  fantasia,  le  rende 
intelhgibili,  cioè  capaci  d'attuare  la  potenza  dell'  intelletto 
possibile.    Nel   coadiuvare   il   processo   d'astrazione   dell'  idea 


II  Arist.,  De  anima.  III,  t.  e.  5,  e.  4,  429  a  21-22. 


MISTICA    AVERROISTICA    E    PICO    DELLA    MIRANDOLA  I33 

dall'  immagine  sensibile,  l' intelletto  agente  s'unisce  all'  in- 
telletto potenziale  come  causa  agente.  Ma  esso  coopera  al- 
tresì all'atto  dell'  intendere  come  forma,  poiché  l' intelligibile 
che  attua  l' intelletto  potenziale  è  reale  soltanto  nella  luce 
dell'  intelletto   agente. 

Ciò  spiega  perché  l' intelletto  possibile,  pur  essendo  in  se 
stesso  una  sostanza  immateriale  e  separata,  ha  bisogno  d'es- 
sere eternamente  unita  a  degli  organismi  umani,  che  gli  for- 
niscano le  immagini  sensibili,  senza  delle  quali  esso,  come 
spesso  ripete  Aristotele  ^-,   niente  potrebbe  intendere. 

Dall'  immaginativa,  dunque,  la  mente  umana  trae  i  suoi 
primi  intelligibili.  Ma  la  sua  potenza  è  infinita  come  quella 
della  materia  prima:  priva  di  ogni  particolare  determinazione, 
scevra  d'ogni  mescolanza,  la  mente  umana  è  in  potenza  a 
diventare  idealmente  tutte  le  cose  ^3.  A  trarre  all'atto  tutta  e 
sempre  la  infinita  potenza  della  mente  umana,  non  sono  suf- 
ficienti i  pochi  intelligibili  che  il  singolo  può  profcacciarsi  me- 
diante la  sua  individuale  esperienza  del  mondo  sensibile. 
Perciò  r  intelletto  potenziale  ha  bisogno  d'essere  unito  a  una 
moltitudine  infinita  di  individui  che,  sparsi  su  tutta  la  terra, 
gli  forniscono  incessantemente  quelle  immagini,  senza  delle 
quali  r  intelletto  nulla  può  intendere.  L'eternità  dell'  intel- 
letto possibile  postula,  quindi,  la  eternità  della  specie  umana. 
E  questa  forma  un'unità  indissolubile  in  quanto  ordinata  al 
perfezionamento  dell'  intelletto. 

Ma  se  possiamo  dire  che  in  tal  mondo,  cioè  per  la  coopera- 
zione di  tutto  intero  il  genere  umano,  la  potenzialità  dell'  in- 
telletto è  tutta  e  sempre  in  atto,  quanto  all'acquisto  e  al  pos- 
sesso del  sapere  speculativo  e  pratico,  assai  rari  sono  che 
s'elevano  fino  alla  contemplazione  delle  sostanze  separate 
nella  perfetta  unione  coli'  intelletto  agente. 

Abbiamo  visto  che  nel  passaggio  dell'  intelletto  umano 
dalla  potenza  all'atto  dell'  intendere  un  qualsiasi  intelhgi- 
bile,  r  intelletto  agente  prima  s'unisce  ad  esso  come  causa 
agente  del  processo  d'astrazione  dell'  intelligibile  stesso  dalla 
rappresentazione  immaginativa,  indi  lo  stesso  intelletto 
agente  s'unisce  all'  intelletto  possibile  come  forma,  in  quanto 


12  Arist.,  De  anima,  III,  t.  e.  30,  e.  7,  431  a  16;  t.  e.  32,431  b  2; 
t.  e.  39,  e.  8,  432  a  8. 

13  Arist.,  ib..  Ili,  t.  e.  4,  e.  4,  429  a  18;  t.  e.  17-18,  e.  5,  430  a  10-15^ 


134        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

per  mezzo  di  quel!'  intelligibile  attua  e  determina  la  poten- 
zialità della  mente  umana.  Ma  questa  unione  è  soltanto  parziale, 
perché  limitata  a  quel  particolare  intelligibile.  Quando  la 
mente  umana,  per  via  d'astrazione,  si  sarà  procacciato  il 
possesso  di  tutti  gì'  intelligibili  con  l'acquisto  di  tutte  le  scienze, 
allora  l' intelletto  agente  si  troverà  unito  totalmente  come 
forma  all'intelletto  in  potenza;  dalla  perfetta  unione  d'un 
intelletto  coll'altro  risulta  quello  che  già  Alessandro,  Al- 
farabi  e  Avenpace  avevano  chiamato  «  intelletto  acquisito  » 
{intellectus  adeptus).  E  l'uomo  che  con  lo  sforzo  della  medita- 
zione è  pervenuto  a  questo  segno,  ben  si  può  dire  che  abbia 
raggiunta  quella  somiglianza  con  Dio,  la  quale  consiste,  se- 
condo Temistio  '4,  in  questo,  «  che,  al  pari  della  mente  divina, 
anche  la  mente  umana  è  in  certo  modo  tutte  le  cose  ». 

Ma  che  cosa  sia  con  precisione,  per  Averroè,  l' intelletto 
agente,  non  è  ben  chiaro;  e  fra  gli  stessi  averroisti  e'  è  gran 
dissenso  su  questo  punto.  Che  alcuni  lo  ritengono  un  prin- 
cipio intrinseco  all'anima  razionale;  altri,  al  pari  di  Avicenna, 
ne  fecero  una  sostanza  separata;  altri  ancora  giudicarono 
che,  su  quest'argomento,  Averroè  fosse  d'accordo  con  Ales- 
sandro d'Afrodisia,  il  quale,  come  sappiamo,  identificò  l' in- 
telletto agente  con  Dio.  Naturalmente,  secondo  che  s'accoglie 
l'una  o  l'altra  di  queste  interpretazioni,  la  mistica  averroistica 
si  colora  di  riflessi  assai  diversi,  come  vedremo.  Per  il  momento 
basti  osservare,  che  il  carattere  essenziale  di  questa  mistica 
è  di  essere  una  mistica  prettamente  intellettualistica,  poiché 
essa  è  il  prodotto  di  una  dottrina  speculativa  elaborata  per 
mezzo  della  ragione  ragionante,  ed  è  estranea  ad  ogni  stimolo 
affettivo. 

Soltanto  in  Avicenna,  e  più  tardi  anche  nel  filosofo  ebreo 
Moisè  Maimonide,  siffatta  mistica,  pur  mantenendo  il  suo  es- 
senziale carattere  intellettualistico,  comincia  a  compenetrarsi 
di  elementi  religiosi,  quali  il  dono  della  profezia,  nonché  il 
potere  di  operare  miracoli  e  di  mutare  perfino  il  corso  degli 
eventi  naturali,  concessi  all'uomo  privilegiato  la  cui  mente  sia 
arrivata  a  congiungersi  col  mondo  degli  spiriti  celesti,  per 
mezzo  dell'  intelletto  agente.  Averroè  non  si  spinse  tant'oltre, 
e  guardò  sempre  con  diffidenza  a  siffatti  derivati  dell'  insegna- 
mento d'Apollonio  di  Tiana. 


^4  De  anima,  ed.   Heinze.   Berlino,   1899,  pp.   24 


MISTICA    AVERROISTICA    E    PICO    DELLA    MIRANDOLA  I35 

Questa  mistica  averroistica  attirò  l'attenzione  d'Alberto 
Magno,  spinto  dalla  sua  acuta  brama  di  sapere  a  frugare  in 
ogni  pili  riposto  angolo  dello  scibile.  E  mentre  Tommaso 
d'Aquino  condannava  le  dottrine  intorno  alla  copulatio  come 
deviazioni  dalla  retta  interpretazione  del  pensiero  d'Aristotele 
e  come  assurde  dal  punto  di  vista  strettamente  filosofico,  il 
suo  confratello  e  maestro  tedesco  ne  prendeva  apertamente  la 
difesa,  anche  se  queste  dottrine,  come  in  molti  altri  casi,  fos- 
sero da  rigettare  come  contrarie  alla  fede,  giacché  è  risaputo 
che  non  di  rado  «  theologica  non  conveniunt  cum  physicis 
principiis  »  '5.  Anzi,  nel  commento  al  De  anima,  dopo  aver  di- 
chiarato che  nell'esposizione  delle  dottrine  che  concernono 
r  intelletto  egli  intende  attenersi  alla  maniera  di  pensare  dei 
peripatetici,  e  di  aborrire  da  quella  dei  «  dottori  latini  »  '6, 
postosi  il  problema  della  conoscenza  delle  sostanze  separate 
da  parte  dell'  intelletto  umano,  ripudia  dal  punto  di  vista 
filosofico  la  teoria  di  coloro  i  quali  sostengono,  come  fa  anche 
Tommaso,  che  le  sostanze  separate  si  conoscono  «  per  opera, 
sicut  per  effectum  venitur  in  causam  per  intellectum  » '"; 
e  non  soltanto  è  del  parere  che  questi  latini  «  non  convenerunt 
in  positionibus  suis  et  in  dictis  Peripateticorum,  sed  diverte- 
runt  in  unam  quandam  alteram  viam  et  induxerunt  alia  prin- 
cipia et  alias  positiones  »  ^^,  ma  dichiara  senza  ambagi  di  tro- 
varsi d'accordo  quasi  in  tutto  con  Averroè  e  di  discordare  da 
lui   soltanto   in   poche   cose. 

Una  cosa,  intorno  alla  quale  Alberto  dichiara  di  dissentire 
da  Averroé,  è  questa:  per  Averroé  l'intelletto  agente  è  una 
sostanza  separata,  diversa  dalla  sostanza  dell'anima  razionale; 
per  il  domenicano,  invece,  l' intelletto  agente  è  facoltà  e  parte 
della  stessa  anima.  Ma  questa  divergenza  è  di  secondaria  im- 
portanza, poiché  r  intelletto  agente  che  è  parte  dell'anima 
non  è  capace  di  compiere  la  sua  funzione  d' intelletto  agente, 
se  non  in  quanto  è  perennemente  congiunto  con  la  luce  della 
prima  intelligenza  agente,  che  è  Dio,  e  della  quale  è  un  ri- 


15  Alb.  Magno,  Metaph.,  XI,  tr.  3,  e.  7;  cir.  Rivista  di  storia  della 
filosofia,   II,    1947,   p.    199- 

16  Alb.  Magno,  De  Anima,  III,  tr.   2,  e.  i;  cfr.  Riv.  di  st.  d.  filos., 
cit.  p.   215. 

17  Alb.  Magno,  De  anima,  III,  tr.  3,  e.  io;  cfr.  Giorn.  crit.  d.  filos. 
ital.,  XXII,   1941,  p.  41. 

18  Ib. 


136        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

flesso.  A  parte  questa  divergenza,  Alberto  dichiara  esplici- 
tamente di  far  sua  la  tesi  averroistica  sulla  «  copulatio  »  e 
suir  «  intellectus  adeptus  »  che  ne  risulta  : 

Et  sic,  cum  [intellectus  possibilis]  acceperit  omnia  intel- 
lecta,  habet  lumen  agentis  in  formam  sibi  adhaerentem ;  et....  tunc 
adhaeret  intellectus  agens  possibili  sicut  forma;  et  hoc  sic  com- 
positum  vocatur  a  Peripateticis  intellectus  adeptus  et  divinus; 
et  tunc  homo  perfectus  est  ad  operandum  opus  illud  quod  est 
est  opus  suum  inquantum  homo;  et  hoc  est  opus  quod  operatur 
Deus;  et  hoc  est  perfecte  per  seipsum  contemplari  et  intelligere 
separata.... 

Mirabilis  autem  et  optimus  est  iste  status  intellectus  adepti 
sic;  per  eum  enim  homo  fit  similis  quodammodo  Deo,  eo  quod 
potest  operari  sic  divina  et  largiri  sibi  et  aliis  intellectus  divinos- 
et  accipere  omnia  intellecta  quodammodo  ^9. 

Ma  se  per  Alberto  l' intelletto  agente,  cui  l' intelletto  pos- 
sibile s'unisce  per  formare  insieme  ad  esso  1'  «  intelletto  acqui- 
sito »  o  «  adeptus  »,  è  una  parte  dell'anima,  e  non,  come  per 
Averroé,  una  sostanza  superiore  a  questa,  è  evidente  che  il 
moto  ascensivo  della  mente  umana  non  può  fermarsi  all'  «  in- 
tellectus adeptus  »  e  in  questo  non  può  consistere  la  suprema 
perfezione  dell'uomo.  È  possibile  un'ulteriore  ascesa,  fino  al 
congiungimento  con  le  intelligenze  che  muovono  i  corpi  ce- 
lesti e  con  la  prima  intelligenza  mostrice.  Questo  supremo 
grado  di  perfezione  è  costituito  da  quello  che  Alberto  chiama,^ 
coi   «  più   antichi   fra   i   filosofi  »,    «  intellectus   assimilativus  ». 

Est  autem  intellectus  assimilativus,  in  quo  homo,  quantum 
possibile  sive  fas  est,  proportionaliter  surgit  ad  intellectum  di- 
vinum,  qui  est  lumen  et  causa  omnium.  Fit  autem  hoc,  cum  per 
omnia  in  effectu  factus  intellectus  perfecte  adeptus  est  seipsum 
et  lumen  agentis,  et  ex  omnium  luminibus  et  notitia  sui  extendit 
se  in  luminibus  intelligentiarum,  ascendens  gradatim  ad  intellec- 
tum simplicem  divinum;  devenit  ergo  ex  lumine  sui  agentis  in  lu- 
men  intelligentiae,    et   ex  ilio   extendit  se  ad  intellectum  Dei  ^°. 

Questo  «  intelletto  assimilativo  »,  che  rende  l'uomo  simile 
a  Dio,  è  ciò  che  Avicenna  chiama  «  virtus  sancta  »,  la  quale  è 


19  Alb.  Magno,  /.  e,  cap.   11;  cfr.  Giorn.  crit.,  cit.,  pp.  44-46. 
^0  Alb.  Magno,  De  intell.  et  intellig.,  II,  e.  9;  cfr.  Riv.  d.st.  difilos. 
cit.  p.  218. 


MISTICA    AVERROISTICA    E    PICO    DELLA    MIRANDOLA  I37 

la  più  alta  fra  le  virtù  dell'anima 2'.  Per  mezzo  di  esso,  l'uomo 
partecipa  della  divinità: 

lungitur  igitur  illi  ultimo  et  lumini  suo  et,  mixtus  illi  lumini, 
aliquid  participat  divinitatis;  propter  quod  dicit  Avicenna,  quod, 
aliquando  illi  lumini  vere  permixtus,  futura  praeordinat  et  prae- 
dicit,  et  quasi  Deus  quidam  esse  perhibetur.  Iste  igitur  est  in- 
tellectus  assimilativus.... 

Qui  autem  simplici  primo  et  divino  intellectui  comunctus 
est,  divinus  est  et  optimus  in  scientiis  et  virtutibus,  ita  quod, 
sicut  dixit  Homerus,  non  videtur  viri  mortalis  filius  esse,  sed 
Dei.  Et  ideo  dicit  Hermes  Trismegistus  in  libro  De  natura  Dei 
deorum,  quod  homo  nexus  est  Dei  et  mundi,  quia  per  huiusmo- 
di  intellectum  coniungitur  Deo  -^. 

In  questo  stato,  l'uomo  acquista  un  potere  sovrumano  sugli 
altri  uomini  e  sulle  cose  della  natura,  e  può  operare  miracoli 
e  prevedere  il  corso  futuro  degli  avvenimenti -3.  Del  che  Al- 
berto è  talmente  persuaso,  che  nel  commento  al  De  somno  et 
vigilia  dedica  tutto  un  trattato,  ispirato  ad  Alfarabi,  ad  Avi- 
cenna, ad  Averroé,  ad  Isacco  Israelita,  e  soprattutto  a  Moisè 
Maimonide,  per  spiegare  in  che  modo  e  per  quali  vie,  nel 
sonno  e  nella  veglia,  secondo  la  dottrina  dei  «  peripatetici  », 
l'uomo  arriva  ad  acquistare  virtù  profetiche;  e  tutto  ciò,  ben 
inteso,  prescindendo  dal  dono  della  profezia  di  cui  parlano 
i  teologi  e  che  è  dovuto  ad   un'  ispirazione    sovrannaturale. 

Pervenuta  al  congiungimento  con  Dio,  l'anima  «  stat  sub- 
stantiata  et  formata  in  esse  divino,  in  esse  perfecta  »,  così 
che  non  ha  più  bisogno,  per  conoscere,  dell'amminicolo  dei 
sensi,  ma  vede  tutto  nella  luce  divina.  E  questo,  proclama 
Alberto  24,  è  il  vero  fondamento  e  l'unica  prova  della  sua  ca- 
pacità a  vivere  immortale,  priva  del  corpo. 

Non  mi  dilungherò  a  dimostrare  quale  influenza  questa  mi- 
stica averroistica  e  intellettualistica  abbia  esercitato  su  En- 
rico Bate,  autore  della  Speculum  divinorum,  e  su  alcuni  do- 
menicani tedeschi,  come  Ulrico  di  Strasburgo,  Teodorico  di 
Vriberg,  Bertoldo  di  Mosburg  e  sullo  stesso  maestro  Eccardo 


21  Avicenna,   De   anima,   V,   e.   6. 

-2  Alb.  Magno,  De  ititeli,  et  intellig.,  II,  e.  9;  cfr.  Riv.  d.  st.  d.  filos., 
cit.   p.    219. 

23  Alb.  Magno,  ib.,  e.   11. 

24  Ib.,  e.   12. 


11,8         l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL  XVI 

di  Hochheim,  che  pure  ha  una  sua  personahtà  così  spiccata- 
mente originale,  e  come  questa  influenza  si  sia  prolungata  su 
certa  mistica  tedesca  posteriore;  parlerò  invece  della  dottrina 
di  Sigieri,  che,  secondo  una  assai  verisimile  notizia  trasmes- 
saci dal  Nifo,  fu  discepolo  d'Alberto. 

Nel  trattato,  oggi  perduto,  De  intellectii,  che  Sigieri  di  Bra- 
bante  scrisse  in  risposta  al  De  imitate  intellectus  contra  aver- 
roistas  di  Tommaso,  il  maestro  brabantino  sviluppava  l'ardito 
concetto,  appena  accennato  da  Averroé  nel  primo  commento 
al  secondo  libro  della  Metafisica.  Se  vi  sono  delle  sostanze 
separate,  e  la  mente  umana  non  potesse  conoscerle,  aveva 
detto  il  commentatore  di  Cordova,  la  loro  esistenza  sarebbe 
vana,  come  vana  sarebbe  la  luce  del  sole,  se  non  esistesse  nessun 
occhio  per  contemplarla.  Sigieri  e  molti  suoi  seguaci,  a  quanto 
ci  attesta  il  Nifo,  spiegavano  questo  laconico  argomento  come 
segue:  «  Essi  presuppongono i a  primo  luogo,  che  se  l' intelletto 
potenziale  non  può  intendere  le  intelligenze  superiori,  queste 
non  possono  intendere  Dio;  poiché  una  forma  che  non  è  atta 
ad  essere  ricevuta  da  quel  soggetto  che,  in  un  dato  genere,  ha 
la  massima  capacità  ricettiva,  non  può  esser  ricevuta  da  quel 
soggetto  che,  nello  stesso  genere,  ha  una  capacità  ricettiva 
minore.  Ora  l' intelletto  potenziale  è  ricettivo  al  massimo  grado 
fra  le  sostanze  separate.  Dunque,  se  la  Prima  Intelligenza  non 
può  essere  ricevuta  nell'  intelletto  potenziale,  non  può  esserlo 
neppure  in  alcuna  delle  intelligenze  separate.  Sicché,  se  di 
fatto  r  intelletto  potenziale  non  può  intendere  Dio,  ne  segue 
che  nessuna  delle  intelligenze  intermedie  lo  possa  intendere. 
Inoltre,  Sigieri  presuppone  che  nessuna  intelligenza  intermedia 
possa  intendere  l'altra,  se  non  può  intendere  la  Prima.  Quindi 
argomenta  così:  nessuna  intelligenza  intermedia  che  non  possa 
intendere  1'  Intelligenza  suprema,  può  intendere  alcuna  delle 
intelligenze  inferiori  a  questa.  Ma,  per  il  primo  presupposto, 
nessuna  intelligenza  intermedia  può  intendere  la  Prima: 
dunque  nessuna  intelhgenza  intermedia  può  intendere  né  se 
stessa  né  le  altre.  Esse  quindi  resteranno  semplicemente  ignote 
a  se  stesse,  alle  altre,  e  perfino  alla  Prima  intelligenza,  poiché 
questa  niente  conosce  fuori  di  sé»-'.  Per  evitare  quest'assurdo, 
bisogna  dunque   ammettere   che  l' intelletto   umano  può  in- 


^i   Si   veda  il  nio   Sigieri   di   Brabante   nel  pensiero  del  Rinascimento 
italiano,  Roma,  Edizioni  Italiane,   1945,  pp-  22-24. 


MISTICA    AVERROISTICA    E    PICO    DELLA    MIRANDOLA  I39 

tendere  le  sostanze  separate  e  prima  di  tutte  la  Prima  Intelli- 
genza, cioè  Dio. 

Ma  il  Nifo  ci  fa  sapere  che  Sigieri  aveva  scritto  anche  un 
Lihellus  de  felicitate,  per  dimostrare  che  la  beatitudine  nella 
quale,  secondo  1'  Etica  Nicomachea,  consiste  il  fine  della  vita, 
si  ottiene  soltanto  «  per  copulationem  intellectus  agentis  cum 
intellectu  potentiae  ».  Ma,  a  differenza  di  quel  che  pensava 
Alberto  Magno,  che,  come  abbiamo  visto,  riteneva  l' intelletto 
agente  una  parte  dell'anima  razionale,  Sigieri  lo  identifica 
con  Dio  :  «  intellectus  agens  est  Deus  ;  felicitas  est  intellectus 
agens:  ergo  felicitas  est  Deus»--.  L'intelletto  umano  tende 
dunque  al  congiungimento  con  Dio;  e  in  questo  congiungi- 
mento, Dio  informa  di  sé  la  mente  potenziale,  e  le  comunica 
la  propria  beatitudine,  sì  che  l'uomo  n' è  quasi  deificato: 

Amplius  arguii  (Subgerius)  fortius  :  id,  quo  felicitantur  dii 
omnes  est  suprema  hominis  et  omnium  felicitas;  sed  Deus  est 
quo  omnes  felicitantur,  quoniam  omnes  intellectus  felicitantur 
intelligendo  Deum;  sed  intellectio  qua  Deus  intelligitur  est  ipse 
Deus.  Ergo  Dee  omnia  felicitantur....  Ergo  Deus  formaliter  est 
felicitas.  Rursum,  quo  felicitatur  Deus  felicitantur  alii  intelle- 
ctus et  omnia....  Sed  Deus  non  felicitatur  nisi  Dee...  Ipso  ergo 
Deo  omnia  felicitantur  23. 

Intellectus  hominis  essentia  Dei  felicitatur,  quemadmodum 
Deus  essentia  Dei  24. 

Inutile  ricordare  che  anche  la  «  felicitas  »  di  cui  parla  Si- 
gieri è  la  «  felicitas  »  filosofica  dell'averroismo,  alla  quale  l'uomo 
perviene  mediante  l'acquisto  delle  virtìi  etiche  e  dianoetiche, 
e  che  non  ha  niente  che  fare  con  la  visione  beatifica  dei  teo- 
logi, anche  se  per  avventura  fra  l'una  e  l'altra  dottrina  sono 
talvolta  avvenuti  scambi  di  elementi  concettuali. 

Questa  mistica  averroistica  che  ho  voluto  delineare  nei  suoi 
capisaldi  essenziali  e  nelle  sue  principali  tendenze,  fu  oggetto 
di  interminabili  discussioni,  fra  gli  averroisti  e  i  loro  avversari, 
a  Bologna  e  a  Padova,  fino  a  tutto  il  secolo  XVI.  E  mentre, 
fra  gli  stessi  averroisti,  gli  uni  accettavano  la  dottrina  di 
Giovanni  di  Jandum  che  riteneva  l' intelletto  agente  parte 
dell'anima  intellettiva,  Alessandro  Achillini  a  Bologna  rin- 
novava la  dottrina  sigieriana,  che  l' intelletto  agente  dovesse 


-2  Iv.,  p.   25. 

23  Ib.,  p.   24. 

24  Ib.,  p.    25. 


140        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

identificarsi  con  Dio.  A  queste  discussioni  prese  parte  anche 
Pico  della  Mirandola;  il  quale,  tra  le  XLI  Conclusiones  se- 
cundum  Avenroem,  ben  quattro  ne  formulò  attinenti  all'ar- 
gomento della  «  copulatio  »,  e  tutte  e  quattro  concepite  nella 
spirito  sigieriano: 

I.  —  Possibilis  est  prophetia  in  somnis  per  illustrationem  in- 
tellectus  agentis  super  animam  nostrani. 

3.  —  Felicitas  ultima  hominis  est,  cum  continuatur  intellectus- 
agens  possibili,  ut  forma.  Quam  continuationem  et  Latini  ali! 
quos  legi  et  maxime  Ioannes  de  Gandavo  perverse  intellexit; 
qui,  non  solum  in  hoc,  sed  ferme  in  omnibus  quaesitis  philoso- 
phiae,  doctrinam  Avenrois  corrupit  omnino  et  depravavit. 

17.  -  Quaelibet  intelligentia  praeter  Primam  non  intelligit  ni- 
si  Primam. 

25.  -  Exemplum  Aristotelis  in  secundo  Metaphysicae,  de  ni- 
cticorace  respectu  solis,  non  denotat  impossibilitatem  sed  diffi- 
cultatem,  alioquin  natura  aliquid  ociose  fecisset. 

Quest'ultima  conclusione  si  riferisce  al  primo  commento  di 
Averroé  al  secondo  libro  della  Metafisica,  ove  Aristotele  af- 
ferma che  la  mente  umana  dinanzi  alle  cose  che  per  natura 
sono  maggiormente  intelligibili,  quali  sono  appunto  le  so- 
stanze separate,  si  trova  nelle  condizioni  del  pipistrello  che 
non  può  sostenere  la  luce  del  sole.  Questo  paragone,  secondo 
S.  Tommaso,  denoterebbe  per  Aristotele  l' impossibilità  in 
cui  versa  la  mente  umana,  di  conoscere  in  sé  stesse  le 
intelligenze  separate.  Per  Averroé,  invece,  esso  denoterebbe 
soltanto  la  difficoltà  che  la  mente  umana  incontra  per  fissare 
lo  sguardo  in  quei  sommi  intelligibili.  Per  quale  ragione,  inoltre, 
sarebbe  inutile  l'esistenza  stessa  di  tali  sostanze,  se  la  mente 
umana  non  potesse  conoscerle,  abbiamo  già  udito  da  Sigieri. 
Che  anche  per  il  Pico  l' intelletto  agente  sia  Dio,  si  rivela 
sia  dal  rimprovero  che  egli  muove  a  Giovanni  di  Jandun, 
d'aver  depravato  il  pensiero  d'Averroé,  sia  dal  confronta 
che  noi  possiamo  fare  tra  la  terza  conclusione  «  secundum 
Averroem  »,  che  abbiamo  riferita,  e  la  settima  delle  XV  con- 
clusioni «secundum  Plotinum  »,  che  suona  così: 

Felicitas  hominis  ultima  est  cum  particularis  intellectus  no- 
ster  totali  primoque  intellectui  piene  coniungitur. 

Orbene:  anche  a  me  sembra  che,  proprio  dalle  sue  medita- 
zioni sulla  dottrina  averroistica  della  «  copulatio  »,  Pico  della 


MISTICA    AVERROISTICA    E    PICO    DELLA    MIRANDOLA  I4I 

Mirandola  sia  stato  condotto  ad  elaborare  uno  dei  suoi  più 
profondi  concetti:   quello  della  «  dignitas  hominis  ». 

Eugenio  Garin,  tanto  benemerito  degli  studi  pichiani,  sì 
da  potersi  ritenere  oggi  il  più  acuto  e  informato  fra  quanti 
hanno  tentato  di  penetrare  nel  pensiero  del  mirandolano, 
scrive  che  «la  medietà  della  natura  umana  [fra  gli  estremi  del- 
l'universo] non  va,  secondo  Pico,  cercata  nel  fatto  che  essa 
riunisce  i  vari  elementi,  bensì  in  quanto  attua  quel  che  nel 
mondo  è  potenza,  riunisce  quel  che  nella  realtà  è  disperso. 
La  comune  concezione,  che  chiama  l'uomo  microcosmo, 
perché,  con  analogia  più  o  meno  ardita,  si  può  stabilire  un 
paralleto  fra  l'uomo  e  il  mondo,  gli  sembra  ingenua  in  quanto, 
fermandosi  ad  una  statica  giustapposizione,  perde  il  valore  del 
vero  uomo,  dello  spirito,  che  è  veramente  tutto  il  mondo  in 
quanto  lo  abbraccia  nel  pensiero» -5.  Poi,  dopo  avere  accennato 
ad  analoghe  critiche  che  Proclo  e  Moisè  Maimonide  avevano 
rivolto  al  comune  modo  d' intendere  il  concetto  del  micro- 
cosmo, continua:  «Con  analoghi  accenti  Pico  si  allontana  da 
chi  considera  l'uomo  '  mundi  copulam,  imo  hymenaeum  ' 
in  modo  del  tutto  esteriore,  e,  accogliendo  la  critica  di  Mai- 
monide, si  avvicina,  insieme,  a  certe  tendenze  averroizzanti, 
che  nell'uomo  vedono  il  solo  mezzo  per  cui  gli  intelligibili 
si  attuano,  attuando  insieme  intelletto  agente  e  materiale 
'  quod  non  est  alia  species  quae  apprehendat  intelligihibiUa 
nisi  homo  '«^ó. 

E  più  oltre,  con  maggior  precisione:  «Mentre  tutte  le  cose 
sono,  hanno  una  natura  limitata,  determinata...;  l'uomo 
non  è  nulla,  ma  si  fa  tutto,  in  quanto  sa  tutto;  e  sa  tutto, 
in  quanto  si  fa  tutto  ;  mentre  in  ogni  ente  '  operari  sequitur 
esse  ',  nell'uomo  '  esse  sequitur  operari....  '.  Qui  è  l' infinità 
dell'uomo  che,  '  divino  camaleonte  '  si  fa  pianta  e  sasso,  o, 
neir  insaziabile  brama  di  tutto  sapere,  s' innalza  a  Dio.... 
Chi  dubitasse  dell'  indiamento  dello  spirito  umano  nel  pen- 
siero, non  ha  che  da  rileggere  la  expositio  quinta  dell'  Heptaplus, 
dove  Pico  affannosamente  si  sforza  di  porre  una  distinzione 
fra  uomo  e  Dio,  senza  mai  riuscire  a  determinarla  troppo 
nettamente  »  -7. 


^5  E.  Garin,  Giovanni  Pico  della  Mirandola.   Vita  e  dottrina,  Firenze, 
F.    Le   Monnier,   1937,  P-  200. 

26  Ib.,  p.  201. 

27  Ib.,  pp.   201-202. 


142        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

Il  Garin,  che  tutto  questo  ha  veduto  con  grande  acume,  ha 
subodorato  anche  le  «  tendenze  averroizzanti  «  alle  quali  il 
mirandolano  «  si  avvicina  ».  Ma  non  le  ha  meglio  indivi- 
duate; che,  se  avesse  tentato  di  farlo,  egli  certamente  si  sa- 
rebbe accorto  alla  prima,  che  il  Pico,  per  ciò  che  concerne  le 
tesi  ora  accennate,  è  averroista  puro  semplice,  anzi  averroista 
della  corrente  di  Sigieri. 

La  tesi  infatti  che  l' intelletto  umano  non  ha  alcuna  natura 
determinata,  tranne  quella  di  essere  in  potenza  a  diventare 
tutte  le  cose,  accennata  da  Aristotele,  è  una  tipica  tesi  sigie- 
riana,  che  1'  averroista  brabantino  difende  nella  terza  delle 
Quaestiones  naiurales  di  Lisbona  e  nella  nona  della  Quaestiones 
de  anima  intellediva,  e  che  a  tempo  del  Pico  sarà  sostenuta  da 
Alessandro  Achillini  -8.  Sostanza  puramente  potenziale  «  in 
genere  intelligibilium  »  e  quindi,  come  abbiamo  visto,  «  maxime 
receptivum  »,  esso  può  diventare  idealmente  o  intenzional- 
mente, come  si  esprimono  i  medievali,  tutte  le  cose,  dal  sasso 
a  Dio. 

Reduce  dalla  pubblica  disputa  tenuta  al  Capitolo  generale 
dei  domenicani  a  Ferrara  per  la  Pentecoste  del  1494,  il  Pico 
si  recò  a  Bologna  in  compagnia  del  Nifo,  ove  l' Achillini  di- 
sputò, al  Capitolo  generale  dei  francescani,  i  suoi  Quoliheta  de 
ìntelligentiis  (v.  sotto,  pp.  179  e  319). 

Parlando  della  «  felicitas  »,  ossia  dello  stato  in  cui  la  mente 
umana  si  trova  congiunta  con  l' intelletto  agente,  cioè  con 
Di(  ,  diceva  l' averroista  bolognese: 

Causa  autem  finalis  [felicitatis]  est  ut  homo  et  materialia 
Dee  uniantur:  materialia  enim,  secundum  esse  eorum  reale,  non 
sunt  Dee  unibilia;  sed  secundum  esse  eorum  spirituale,  quod  est 
esse  intellectuin  speculativum,  praepai"ando  intellectum  possi- 
bilem  ut  Deum  recipiat,  Dee  uniuntur;  et  sic  ad  finem  suum 
redeunt  reditione  completa. 

Ex  hoc  sequuntur  aliqua;  primum,  quod  eadem  res,  quae 
est  Deus  gloriosus,  est  causa  formalis,  qua  dominatur  homo 
felix  et  causa  efficiens  dans  formam.  Patet  secundo,  quomodo 
materialium  homo  est  finis,  quia  in  homine  uniuntur  materialia 
immaterialibus;  et  sic  patet  quomodo  homo  est  nexus  superio- 
rum  cum  inferioribus,  ultra  hoc  quod  forma  hominis  sit  intelli- 
gentia....  Et  sic  patet  quam  longe  relegata  est  materia  a  Deo,  quia 
ipsa,   propter  potentialitatem  suam,   non  potest  informare  intel- 


28  Cfr.  il  mio  Sigieri...  nel  pen^^.,  p.  74. 


MISTICA    AVERROISTICA    E    PICO    DELLA    MIRANDOLA  I43 

lectum;  unitur  tamen  materia  Dee,  quia  aliqua  materia  informa- 
tur  intellectu  qui  informatur  Dee;  et  successive  omnis  prima  mate- 
ria informatur  intellectu,  apud,  Averroim;  sed  aliae  materiae  aliis 
formis  materialium  informantur;  et  sic  patet  quantum  liomini 
felici   rerum   materialium   natura   debet  -9. 

Come  si  vede,  dunque,  l'accordo  del  mirandolano  con  gli 
averroisti  della  corrente  sigieriana  è  completo.  Ma  se  la  mi- 
stica averroistica  sedusse  assai  per  tempo  il  giovane  filosofo, 
questi  non  dovette  tardare  a  rendersi  conto  che  in  quel  mi- 
raggio di  felicità,  intellettualisticamente  concepito,  v'era 
qualcosa  di  freddo  e  di  artificioso,  che  non  riusciva  a  soddi- 
sfare le  aspirazioni  alimentate  nell'anima  da  quindici  secoli 
di  vita  cristiana.  Gli  averroisti,  persuasi,  come  Alberto  Magno, 
che  «  theologica  non  conveniunt  cum  physicis  principiis  », 
avevan  finito  per  chiudersi  nel  loro  «  aristotelismo  »,  ed  osten- 
tavano un  superbo  disdegno  verso  i  teologi  da  loro  derisi. 
Il  Pico  invece,  nel  suo  ardore  di  tutto  sapere,  aveva  intra- 
preso assai  di  buon'ora  studi  teologi,  e  già  quando  pubblicò 
le  sue  Conclusiones,  si  sentiva  in  grado  di  discutere  intorno 
a  scabrosi  argomenti  di  teologia  «  secundum  opinionem  pro- 
priam  »,  ciò  che  gli  averroisti  si  sarebbero  guardati  bene  dal 
fare.  Ma  fu  soprattutto  nel  periodo  del  suo  ritiro  sui  colli 
fiesolani,  dopo  la  peripezia  della  condanna  e  dell'arresto, 
che  egli  svolse  il  suo  averroismo  in  senso  platonico  e  cristiano. 
Il  frutto  migliore  delle  sue  meditazioni  ci  è  stato  tramandato 
dall'  Hepiaplus,  cioè  «  il  sette  per  sette  »,  poiché  i  sette  libri 
o  «  expositiones  »,  corrispondenti  ai  sette  giorni  mosaici,  sono 
alla  loro  volta  divisi  in  sette  capitoli.  La  settima  «  expo- 
sitio  »  riguarda  appunto  la  «  felicitas  »,  che  risponde  al  riposo 
che  Dio  si  concesse  dopo  sei  giorni  di  operosità.  Nel  proemio 
a  questa  settima  esposizione,  il  mirandolano  distingue  due 
specie  di  «  felicità  »:  una  naturale,  che  è  quella  di  cui  parlano 
i  filosofi,  e  l'altra  sovrannaturale,  alla  quale  si  può  giungere 
soltanto  colla  grazia.  Ed  è  proprio  qui  che  egli  s'accorge  del 
sorriso  ironico  degli  averroisti,  e  sente  il  bisogno  di  rintuz- 
zare il  loro  scherno: 


^9  A.  AcHiLLiNi,  Quolibeta  de  inielligeniiis,  IV,  dub.  3;  cfr.  qui  sotto, 
pp.  214-2^0  (il  passo  è  citato  anche  dal  Garin,  p.  204).  Si  vedano  anche 
i  Collectanea  del  Nifo  al  De  anima  (III,  ad  t.  e.  36)  e  il  commento  dello 
stesso  suessano  al  De  anime  beatitudine,  II,  comm.  23  e  24. 


144        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Verum  quoniam  mihi  videor  videre  sciolos,  dixerim  an  vap- 
pas  potius  et  nebulones,  qui  se  vocant  philosophos  cum  nihil 
sint  minus,  ridentes  statim  et  gratiam  et  felicitatem  supernatu- 
ralem,  quasi  vana  haec  nomina  et  aniles  fabulae  sint,  volui  bre- 
viusculam  hac  de  re  cum  illis  disputationem  sicuti  proemium 
facere  septimi  libri,  rem  et  seorsum  omnibus  utilem  et  neces- 
sariam  valde  operi  quod  suscepimus,  ubi  altissimis  philsophiae 
radicibus  nixam  et  stabilitam  stare  sententiam  theologorum  di- 
lucide comprobemus  3°. 

E  più  oltre  gli  accade  di  ricordare  le  opinioni  dei  filosofi 
intorno  alla  «  felicitas  »  : 

De  homine  autem,  etsi  diversi  diversa  senserint,  omnes  ta- 
men  intra  humanae  facultatis  angustias  se  tenuerunt,  vel  in  ipsa 
tantum  veri  vestigatione,  quod  Academici,  vel. in  adeptione  po- 
tius per  studia  philosophiae,  quod  Alpharabius  dixit,  felicitatem 
hominis  determinantes.  Dare  aliquid  plus  visi  Avicenna,  Aver- 
rois,  Abubacher,  Alexander  et  Platonici,  nostrani  rationem  in 
intellectu,  qui  actu  est,  aut  aliquo  superiore,  nobis  tamen  co- 
gnato, quasi  in  suo  fine  firmantes,  sed  neque  hi  hominem  ad 
suum  principium  nec  ad  suum  finem  adducunt.  Quas  eorum  di 
sputationes  atque  sententias  nec  reprobo  nec  aspernor,  si  de  na- 
turali se  tantum  felicitate  dicere  videantur  31. 

Non  riprova  né  disprezza  queste  dottrine  dei  filosofi  sulla 
beatitudine  naturale  e  sul  congiungimento  della  mente  umana 
con  Dio;  ma  intanto  egli  dichiara  che  né  gli  angeli  né  l'uomo 
possono  colle  sole  loro  forze  arrivare  al  perfetto  e  pieno  con- 
giungimento con  Dio  come  primo  principio  e  fine  ultimo, 
perché  nessuna  cosa  è  capace  di  raggiungere  da  sé  quello  che 
è  più  alto  e  più  perfetto  della  natura  di  quella  cosa  3^.  Per  rag- 
giungere Dio,  bisogna  che  Dio  stesso  si  doni.  Con  ciò  quel 
nesso  fra  il  mondo  materiale  e  il  mondo  spirituale,  fra  l'uni- 
verso e  Dio,  che  la  mistica  averroistica  della  «  copulatio  » 
pensava  d'avere  scoperto  nell'uomo  giunto  al  termine  del  suo 
sviluppo  intellettuale,  se  non  è  spezzato,  è  certo  molto  rallen- 
tato e  corre  il  rischio  di  dissolversi. 

A  renderlo  veramente  indissolubile  è  balenato  all'acuta 
mente  del  signore  della  Mirandola  il  concetto  cristiano  dell'  in- 


3°  G.    Pico   Mirandola,    De  hominis  dignitate.    Heptaplus    De    ente 
et  uno  e  scritti  vari  a  cura  di  E.  Garin,  Firenze,  Vallecchi,  1942,  p.  326. 

31  Ib.,  p.  330. 

32  Ib.,  pp.  330-332. 


MISTICA    AVERROISTICA    E    PICO    DELLA    MIRANDOLA  I45 

carnazione.  Nell'unione  ipostatica  del  Verbo  colla  natura 
umana  si  raggiunge  davvero  quella  «  copulatio  »  dell'uomo 
con  Dio,  per  cui  Dio  si  fa  uomo  e  l'uomo  è  Dio  in  senso  rigoroso, 
senza  il  «  quodam  modo  »  che  era  stato  costretto  a  metterci 
Averroé. 

Si  può  dire  che  tutti  e  sette  i  libri  dell'  Heptaplus  si  chiu- 
dono con  l'esaltazione  di  Cristo,  cui  sono  dedicati  tutti  i  settimi 
capitoli  di  ogni  libro.  Cristo  è  certo  il  mediatore  fra  Dio  e 
l'uomo  dopo  il  peccato  ;  ma  se  egli  solo  poteva  redimere  l'uomo 
peccatore,  nel  disegno  divino  Cristo  fu,  indipendentemente 
dal  peccato  d'Adamo,  il  «  primogenitus  omnis  creaturae  in 
quo  condita  sunt  universa  ». 

Supremus  omnium  et  princeps  homo,  quo  mundi  corrupti- 
bilis  natura  pregressa  sistit  pedem  et  receptui  canit. 

Quemadmodum  autem  inferiorum  omnium  absoluta  con- 
summatio  ut  homo,  ita  omnium  hominum  absoluta  est  consum- 
matio  Christus;  quod  si,  ut  dicunt  philosophi,  ab  eo  quod  in  uno- 
quoque  genere  est  perfectissimum  ad  ceteros  eiusdem  ordinis 
quasi  a  fonte  omnis  perfectio  derivatur,  dubium  nemini  est  a 
Christo  homine  in  omnes  homines  totius  bonitatis  perfectionem 
derivar!;  illi  sciUcet  uni  datus  Spiritus  non  ad  mensuram,  ut  de 
plenitudine  eius  omnes  acciperemus  33. 

Leggendo  certe  espressioni  dell'  Heptaplus,  vien  fatto  di 
pensare  che  per  il  Pico,  prima  che  nell'opera  della  redenzione. 
Cristo  debba  avere  una  funzione  essenziale  in  quella  della 
creazione,  come  avevano  ritenuto  Alessandro  di  Hales,  Al- 
berto Magno,  Duns  Scoto  e  la  sua  scuola.  E  in  verità  fra  le 
Conclusiones  in  theologia  numero  XXIX,  secundum  opinionem 
propriam  a  communi  modo  dicendi  theologorum  satis  diversam, 
ve  n'  è  una,  la  quindicesima,  che  si  cela  fragrante  e  pudi- 
bonda tra  le  altre,  e  non  mi  pare  abbia  mai  finora  attirato 
l'attenzione.  Essa  suona  proprio  così:  «  Si  non  peccasset  Adam, 
Deus  fuisset  incarnatus,  sed  non  crucifìxus  ».  La  mistica  fran- 
cescana correggeva  e  perfezionava,  nella  mente  del  Pico,  la 
mistica  averroistica. 

Marsilio  Ficino,  che  per  l'averroismo  non  ebbe  mai  simpatia, 
svolgendo  per  altro  i  più  riposti  motivi  religiosi  del  plato- 
nismo, aveva  anch'egli  scoperto  nella  natura  dell'uomo  una 
specie  d' istinto  verso  la  perfetta  unione  con  Dio  come  ter- 


33  Ib.,  p.   220. 
10 


146        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

mine  di  tutti  gli  umani  desideri,  pace  e  riposo  dell'anima, 
un  bisogno  insomma  d'indiamento.  Ed  aveva  pure  scoperto  che 
soltanto  in  Cristo  e  per  Cristo  l'uomo  si  fa  veramente  divino. 
Non  mi  consta  che  egli  abbia  mai  sostenuto,  in  modo  esplicito, 
la  tesi  suir  incarnazione  di  Dio,  che  la  «  mente  eroica  »  del 
mirandolano  si  proponeva  di  difendere.  Ma  nel  De  Christiana 
religione,  che  completa  la  Theologia  platonica,  a  dimostrare  la 
convenienza,  e  quasi  direi  la  morale  necessità,  dell'  incarna- 
zione del  Verbo,  il  Ficino  adduce  (cap.  XVI)  argomenti  che 
prescindono  affatto  dalla  colpa  d'Adamo,  e  che,  in  sostanza, 
son  quelli  messi  innanzi  da  Alessandro  di  Hales,  da  Alberto 
Magno  e  da  Duns  Scoto  a  favore  della  tesi  cara  al  Pico.  Per 
gli  stessi  argomenti  quella  tesi  pareva  anche  a  S.  Bonaven- 
tura «  magis  consonare  iudicio  rationis  »  34. 

Il  concetto  cristiano  dell'  Uomo-Dio,  mentre  dischiudeva 
nuovi  orizzonti  alla  filosofìa  antica,  apriva  così  la  via  al  pen- 
siero  moderno. 


34  In  III  Sent.,  dist.  i,  a.  2,  q.  2. 


I 


VII 

APPUNTI  INTORNO  AL  MEDICO 
E  FILOSOFO  PADOVANO   PIETRO  TRAPOLIN  * 


Del  medico  e  filosofo  padovano  Pietro  Trapolin,  prima 
precettore,  poi  collega  sulla  cattedra  e  amico  di  Pietro  Pom- 
ponazzi,  dopo  quel  che  ne  aveva  detto  Francesco  Fiorentino 
nella  sua  monografia  su  quest'ultimo  (Firenze,  1868),  era  ac- 
caduto anche  a  me  di  occuparmi  per  chiarire  la  posizione  di 
lui  di  fronte  all'averroismo.  E  l'avevo  fatto  sulla  scorta  del 
codice  Marciano,  mss.  lat.  CI.  VI,  301,  e  di  quello  della  Comu- 
nale di  Perugia,  n.  408.  Il  primo  di  essi  contiene  le  lezioni 
sul  De  anima,  nella  riportazione  del  mantovano  Benedetto 
del  Tiriaca,  ma  in  modo  frammentario  e  lacunoso,  per  la  per- 
dita di  molti  fogli  di  uno  o  più  fascicoli  dei  quali  sono  state 
riunite  insieme  le  reliquie  a  formare  l'attuale  volume  mar- 
ciano. Il  secondo  è  invece  una  riportazione  più  sobria  dello 
stesso  corso  di  lezioni  tenute  nel  1491-1492  {Giorn.  Crii.  d. 
Filos.  ItaL,  XXIX,  1950,  428-435).  L'uno  e  l'altro  sono  suf- 
ficienti a  darci  un'  idea  abbastanza  precisa  della  posizione 
tenuta  dal  Trapolin  intorno  ad  alcune  delle  controversie  su- 
scitate dall'  interpretazione  del  pensiero  d'Aristotele  ;  ma  sol- 
tanto su  alcune.  Oltre  a  queste  due  riportazioni  dell'esposi- 
zione del  De  anima,  ebbi  a  segnalare  allora  anche  il  fragmento 
parigino  (Bibl.  Nation.,  ms.  lat.  6537,  ff.  233r-268v)  di  un'espo- 
zione  per  quaestiones  degli  Aphonsmi  d'  Ippocrate.  P.  O. 
Kristeller  {Two  unpuhl.  Questions  on  the  Soni  of  P.  Pompo- 
nazzi,  in  «  Medievalia  et  Humanistica  »,  fase,  octavus,  1955, 
p.  78)  segnala  il  ms.  Ambr.  N.  336  sup.,  ove  sono  trascritte 
di  mano  di  Tommaso  Campeggi  da  Bologna,  figlio  delgrande  giu- 


*  Dalla  Miscellanea  in  onore  di  Roberto  Cessi,  Roma,  Edizioni  di 
Storia  e  Letteratura,  1958,  voi.  II,  pp.  21-46,  con  notevoli  aggiunte 
e  variazioni. 


148        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

rista  Giovanni  Zaccaria,  la  Quaestio  de  equali  ad  pondus  e  quel- 
la De  restauratione  humidi  radicalis,  due  argomenti  di  moda  che 
venivano  discussi  dai  lettori  di  Theorica,  quando  commen- 
tavano certe  parti  del  Canon  di  Avicenna  (noto  di  passaggio 
che  i  fogli  del  codice  Ambrosiano  sono  disordinati).  Il  Trapolin 
discute  con  una  certa  ampiezza  le  opinioni  intorno  ai  due 
tempi,  senza  recare  per  altro  gran  che  di  nuovo.  Si  parla  anche 
di  una  stampa,  De  restauratione  humidi  radicalis,  che  si  dice 
dedicata  al  Cardinal  Domenico  Grimani;  ma  non  sono  riu- 
scito a  trovarla,  per  quanto  ne  abbia  fatto  ricerca.  Conosco 
invece  le  quattro  questioni,  lacunose  e  incomplete.  De  morbo 
gallico,  nella  raccolta  di  vari  trattati  che  portan  questo  titolo 
(Venetiis,  apud  lord.  Zirletum,  1566,  t.  II,  pp.  44-57).  D'altri 
scritti  per  ora  non  ho  notizia. 

Tuttavia  il  desiderio  di  fare  un  po'  di  luce  nell'ambiente 
universitario  padovano,  negli  anni  che  a  Padova  studiò  e 
insegnò  il  Pomponazzi,  m'  ha  portato  a  raccogliere  alcune  no- 
tizie di  qualche  importanza,  che  qui  riunisco  per  invogliare 
qualcuno  che  ne  abbia  l'agio,  che  a  me  finora  è  mancato,  a 
frugare  a  fondo  nei  documenti  che  il  dente  edace  del  tempo 
non  ha  ancora  distrutto. 

La  prima  volta  che  s' incontra  il  nome  di  Pietro  Trapolin 
è  in  un  documento  dell'Archivio  della  Curia  vescovile  di  Pa- 
dova [Ada  graduum,  voi.  32,  fol.  38r),  relativo  alle  ordinazioni 
sacre  del  13  marzo  1465.  In  quel  giorno,  appunto,  i  tre  fratelli, 
Girolamo,  Alberto  e  Pietro,  furono  ammessi  alla  prima  ton- 
sura clericale,  richiesta,  credo,  per  ottenere  feudi  dalla  mensa 
vescovile.  Pietro  morto,  a  quanto  pare,  lo  stesso  giorno 
(6  giugno  1509)  che  le  milizie  dell'  imperatore  Massimiliano 
entrarono  in  Padova,  all'età  di  58  anni  e  20  giorni,  non  aveva 
ancora  compiuto  i  quattordici  anni.  Maggiori  di  lui  erano  gli 
altri  due  fratelli;  maggiore  di  tutti  doveva  essere  Girolamo, 
che  il  14  agosto  1472  s'addottorò  «in  artibus  liberalibus...  ; 
nemine  penitus  discrepante  »,  ed  ebbe  le  insegne  del  grado 
dal  primo  promotore.  Maestro  Sigismondo  Polcastro  o  Por- 
castro  (Arch.  Curia  Vesc.  di  Padova,  voi.  36,  f.  64r).  Girolamo 
Trapolin  è  il  destinatario  della  lettera  che  Andrea  Brenzio 
o  della  Brenta,  già  professore  di  retorica  a  Padova,  gì'  indirizzò 
da  Roma,  e  che  trovasi  nell'edizione  romana  del  1482  circa 
della  traduzione  del  De  natura  hominis  di  Ippocrate,  che  i 
filosofi  ritenevan,   sì,  gran  medico,   ma  ignaro   di  dialettica. 


I 


APPUNTI    INTORNO    A    PIETRO    TRAPOLIN  149 

Alberto,  di  cui  diremo  piìi  oltre,  è  detto  «  profondissimo  filo- 
sofo »  che  «  teneva  alquanto  dell'epicureo  »  dal  vicentino  Luigi 
da  Porto  ;  ma  a  me  non  risulta  che  sia  mai  ricordato  col  titolo 
di  dottore;  il  che  proverebbe,  che  per  esser  filosofi  e  profon- 
dissimi non  è  strettamente  necessario  il  titolo  accademico 
(non  curo  qui  di  sapere  se,  viceversa,  il  titolo  accademico 
contribuisca  a  creare  i  profondissimi  filosofi). 

I  tre  cherichetti  erano  figli  del  nobile  cavaliere  padovano, 
Francesco  Trapolin,  capo  d'una  famiglia  ragguardevole  che 
traeva  origine,  a  quanto  sembra,  dal  vicino  borgo  di  Vigodar- 
zere.  Un  Trapolin  era  stato,  nella  prima  metà  di  quel  secolo 
podestà  di  Este.  Uberto  Trapolin  era  professore  di  diritto  a 
Padova  fra  il  1430  e  il  1439,  e  due  suoi  figli,  Lanzarotto  e 
Pietro,  eran  dottori  «in  utroque  »,  come  si  ricava  dagli  Ada 
graduum  pubblicati  dal  Erotto  e  dallo  Zonta.  Avremo  inoltre 
ad  accennare  all'avo  di  Alberto  e. Pietro  implicato  nel  tenta- 
tivo di  Marsilio  da  Carrara  di  ricuperare  Padova  nel  1435. 
Le  loro  case  eran  nella  contrada  di  S.  Leonardo  «  ab  intra  », 
come  risulta  da  un  rogito  del  13  marzo  i486  (Padova,  Arch. 
di  Stato,  Sez.  Arch.  Notar.,  voi  1575,  f.  249),  segnalatomi 
dall'amico  Prof.  Paolo  Sambin,  e  dall'  «  Estimo  del  1418  » 
(voi.  260,  presso  l'Arch.  di  Stato  di  Padova).  Nella  polizza 
n.  29  di  questo  Estimo,  presentata  il  16  aprile  1482,  «  per  d. 
petrum  trapolinum  »,  a  nome  «  de  li  heredi  cum  inventario 
de  misser  francesco  trapolino  »,  si  denuncia  al  primo  posto 
«  una  casa  dentro  di  San  lunardo  dove  habita  cula  sua  famegia  »  ; 
seguono  poi  altri  immobili  fuori  Padova,  ad  Altichiero,  Campo 
S.  Piero,  Vigodarzere  e  altrove.  Il  possesso  di  una  «  casa  dentro 
San  Lunardo,  dove  abita  la  sua  fameia  »  era  stato  denunciato 
del  resto  dallo  stesso  «  Spectabilis  Miles  D.  Franciscus  trapo- 
linus»  il  18  giugno  1471  (ib.,  poi.  n.33).  Ma  la  denunzia  del  1492, 
presentata  a  nome  degli  eredi,  «per  ser  Albertum  de  Trapolinis», 
ci  fa  sapere  che  questa  casa  dov'  egli  abitava  con  la  famiglia  era 
«  grande  »  (Ib.,  poi.  n.  34).  Nella  stessa  casa  dei  Trapolin,  aveva 
abitato  anche  Uberto  TrapoUn,  già  ricordato,  il  quale  nell'aprile 
1437,  dichiarava  d'abitare  «  cum  familia....  in  contrata  Sancti 
leonardi  ab  intra  »,  di  avere  possessi  in  Altichiero,  Vigodarzere 
ecc.,  e  «  filios  septem  quorum  quatuor  sunt  femmine  »  (ib., 
poi.  n.  30).  Anzi  nella  polizza  n.  41,  del  g  aprile  1464,  dei 
«  beni  stabeli  de  miss.  Liberto  Trapolin  et  de  francesco  suo 
fiollo  »,  è  dichiarato:  «  Item,  a  uno  fiollo  che  ha  sie'  fioli  maschi 


150        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

e  femene  ».  Se  non  si  tratta  d'un  caso  d'omonimia,  alquanto 
strano,  questo  Francesco  di  Uberto,  parrebbe  il  padre  di  Pietro 
e  dei  suoi  fratelli. 

In  questa  grande  casa  avita,  abitava  ancora  Pietro  col 
fratello  Nicolò  il  14  dicembre  1500,  quando  fecero  entrambi 
da  testimoni  nel  contratto  di  nozze  del  Pomponazzi  (Bru- 
nacci,  P.  Pomponatiiis ,  «  Raccolta  d'opuscoli  »  del  Calogerà, 
XLI,  p.  3),  e  vi  continuarono  ad  abitare  la  vedova  di  Pietro 
e  alcuni  figli  di  lui  almeno  fino  all'ottobre  1515  (Padova,  Arch. 
Not.  Ili,  12-13,  not.  Alvise  Zupon,  voi.  2864,  f.  6oor,  atti 
del  13  e  ig  ottobre  1515).  Ma  mentre  Nicolò  del  quondam 
Magnifico  Cavalier  Francesco,  il  23  giugno  1501  risulta  abi- 
tare ancora  «  in  contrata  S.  Leonardi  »  (Notar.  A.  Zupon, 
ib.,  voi.  2863,  f.  iSgr-iQor),  un  altro  fratello  dei  predetti, 
«  nobilis  dominus  Robertus  de  trapolinis  Magnifici  et  Insignis 
equitis  domini  Francisci  »,  il  12  maggio  1500  era  andato  ad 
abitare  «  in  contrata  domi  »  (Arch.  di  Stato,  sez.  Arch.  Notar. 
Not.  Giov.  Ant.  da  Mirano,  IV,  139-140,  voi.  2687,  f.  496r), 
Così,  più  presto  o  più  tardi,  possiamo  supporre  che  abbian 
fatto  anche  altri  dei  cinque  fratelli,  via  via  che  s'ammoglia- 
vano e  costituivano  una  propria  famiglia. 

Nato  alla  fine  di  giugno  1451,  Pietro  s'addottorò  in  artihus, 
quasi  undici  anni  dopo  il  fratello  Girolamo.  L'  8  febbraio  1483, 
ottenutane  due  giorni  prima  la  «  grazia  »  dal  Collegio  pado- 
vano dei  medici  e  filosofi,  sostenne  il  consueto  «  tentativum  » 
preliminare  nella  chiesetta  di  S.  Urbano.  Questa  chiesetta, 
oggi  scomparsa  insieme  all'ospizio  che  la  fiancheggiava,  era 
una  dipendenza  dell'abazia  benedettina  di  Fraglia,  i  cui  mo- 
naci avevano  qui  un  piede  a  terra,  quando  avevano  bisogno 
di  recarsi  in  città.  Essa  sorgeva  all'altezza  di  piazza  delle  Erbe 
(o,  come  si  diceva  un  tempo,  del  Vino),  entro  il  quadrato 
compreso  tra  la  piazza  stessa  e  via  S.  Martino  e  Solferino, 
e  tra  le  vie  Squarcione  e  dei  Fabbri.  Entro  i  cortili  delle  nuove 
case  se  ne  vede  ancora  qualche  resto,  che  ho  potuto  ritrovare 
grazie  alle  cortesi  e  preziose  indicazioni  del  Rev.mo  Canonico 
dott.  Antonio  Barzon,  solerte  ricercatore  delle  memorie  citta- 
dine, che  l'ala  del  tempo  tende  a  spazzare  via.  Questa  chie- 
setta appunto,  che  non  avea  clero  beneficiato  con  cura  d'anime, 
era  stata  concessa  a  sede  delle  riunioni  del  Collegio  de'  medici 
e  filosofi,  e  qui  si  tenevano  i  «  tentativi  »,  cioè  le  prove  e  di- 
scussioni che  precedevano  di  uno  o  pochi  giorni  il  dottorato. 


i 


APPUNTI    INTORNO    A    PIETRO    TRAPOLIN  I5I 

Nella  prima  metà  del  Quattrocento,  il  Collegio  soleva  tenere 
le  sue  sedute  nella  chiesa  di  S.  Martino  davanti  al  palazzo 
del  Podestà;  e  nella  seconda  metà  del  Trecento  nella  chiesa 
di  S.   Canciano. 

Superato  questo  esame,  Pietro  si  presentò,  l'ultimo  lunedì 
di  carnevale  ii  febbraio,  al  «  privatum  examen  »  nella  con- 
sueta aula  del  palazzo  vescovile,  ove  la  prova  ebbe  luogo  la 
sera  «  hora  XXI  »,  al  termine  della  quale  gli  furon  conferite 
le  insegne  di  «doctor  artium».  (Arch.  ant.  dell' Univers.  di  Pa- 
dova, Sacro  Coli,  de'  Filosofi,  n.  316,  ff.  7r-8r).  Fra  i  suoi 
promotori  erano  Pietro  Roccabonella,  Alessandro  Sermoneta» 
Giovanni  Aquilano,  e  Nicoletto  Vernia  da  Chieti. 

Sarebbe  difficile  trovare  una  ragione  per  spiegare  come  mai 
egli  abbia  conseguito  il  titolo  di  «  doctor  artium  »  solo  a 
trentun  anno  compiuto  da  un  pezzo,  mentre  l'età  normale 
era  dai  venti  ai  venticinque.  Probabilmente  suo  padre,  il 
nobile  cavalier  Francesco,  l'avrà  avviato  ad  altra  carriera, 
facendogli  ritardare  gli  studi  di  filosofia  e  medicina.  Prima  di 
addottorarsi,  Pietro  doveva  già  essersi  sposato  con  Maria 
Roselli,  nipote  del  celebre  giurista  aretino  Antonio,  e  forse 
gli  era  nato  il  primo  figlio,  nel  quale  rinnovò  il  nome  del 
padre  già  morto,  e  che  il  20  ottobre  1501  s'addottorò  alla  sua 
volta  in  artibus.  Sappiamo  che  un  altro  figlio,  Giulio,  gli  nac- 
que nel  1485. 

Padovano,  egli  aveva  ormai  i  requisiti  per  essere  accolto 
nel  Collegio  dei  Filosofi  patavini.  Ma  tre  anni  dopo,  il  1°  di- 
cembre i486,  egli  venne  in  possesso  anche  del  titolo  di  «  doctor 
medicinae  »  {Ih.,  ff.  io3r-io4v),  promotori  Paolo  dal  Fiume, 
Francesco  Benzi,  Pietro  Roccabonella,  Giovanni  Aquilano  e 
Lorenzo  da  Noale.  Iscritto  pertanto  al  Sacro  Collegio  dei 
Medici  e  Filosofi  di  Padova,  troviamo  che,  il  giovedì  15  no- 
vembre 1487,  egli  fu  estratto  priore  del  Collegio  stesso,  e  il 
sabato  iP  dicembre  insediato  {Ih.,  ff.  I39v-i4ir).  Ormai  la 
vita  di  Pietro  Trapolin  era  legata  a  quella  del  Collegio  e  della 
Facoltà  delle  arti  e  medicina  di  Padova,  come  insegnante  e 
come  promotore  al  dottorato  in  filosofia  e  medicina  dei  gio- 
vani che  v'aspirassero. 

E  fra  coloro  che  v'aspiravano,  era  Pietro  Pomponazzi,  un 
giovane  mantovano,  di  piccola  statura,  che  stava  per  compiere 
venticinque  anni.  Lo  s' incontra  per  la  prima  volta  «  artium 
scholaris  »  il  12  gennaio  1484,  come  testimone  nel  dottorato 


152        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

in  medicina  di  Assolone  de  Sparainis  da  Cesena  (Padova, 
Arch.  Curia  Vescov.,  Acta  grad.,  voi  42,  f.  17V)  ;  poi  il  6  giu- 
gno 1485,  ancora  «  artium  scholaris  »,  come  testimone  nel 
dottorato  in  medicina  di  Federico  Romano  {Ib.,  f.  99V).  Si 
dice  che  il  lunedì  23  aprile  1487  fosse  ammesso  anch'egli  al 
tentativo  «  in  artibus  »,  nella  chiesa  di  S.  Urbano,  a  ore  22, 
sotto  i  promotori  Pietro  Roccabonella,  Girolamo  Polcastro, 
figlio  di  Sigismondo,  già  ricordato,  Giovanni  Aquilano  e  Pietro 
Trapolin  e  che  il  26  dello  stesso  mese,  a  ore  20,  in  chiesa  del 
Duomo,  subisse  il  «  privatum  examen  »,  giurasse,  e  fosse  ad- 
dottorato nelle  arti.  Ma  siccome  non  ho  potuto  vedere  i  ver- 
bali dei  relativi  atti,  lascio  la  responsabilità  di  tutto  questo 
all'Abate  Francesco  Dorighello,  Laureati  della  Università  di 
Padova  (ms.  in  quella  Bibl.  Univers.,  n.  43,  I,  f.  32or).  Il  quale 
per  altro  al  f.  3i9r,  aveva  messo  alla  stessa  data  (anno,  giorni 
e  ore)  il  «  tentativo  nelle  arti  »  di  Gian  Pietro  da  Mantova, 
o  Gian  Pietro  Bonevitis  da  Mantova,  che  è  il  padre  del  celebre 
giurista  Marco  Mantova  cui  l'Ammannati  eresse  il  grande 
mausoleo  che  si  vede  nella  chiesa  degli  Eremitani.  Ma  poi 
aveva  cancellato  con  una  linea  a  diagonale.  Così  anche  nel- 
l'altra opera,  Memorie  dei  professori  e  letterati  di  Padova 
(ms.  in  quella  Bibl.  Civica,  n.  938,  p.  37)  aveva  detto  di  Gian 
Pietro  da  Mantova  le  stesse  cose  che  nei  Laureati  dice  del 
Pomponazzi;  poi  anche  questa  volta  aveva  cancellato,  anno- 
tando fra  parentesi:  «  Questi  è  Pietro  Pomponacio  da  Mantova  ». 
In  base  a  quali  documenti  il  dotto  e  diligente  abate  abbia 
eliminato  questa  confusione  non  sono  in  grado  di  dire;  poiché 
mii  consta  che  negli  atti  del  Sacro  Collegio  dei  Filosofi,  già 
cit.,  n.  316,  ff.  118V-119V,  i  verbali  del  23  aprile  {tentativum 
in  artihiis)  e  del  26  detto  {examen  in  artibus)  parlano  di  Jo. 
Petrus  de  Mantua.  Del  quale  esiste  un  bel  busto  attribuito  a 
G.  del  Carino,  nella  Galleria  Franchetti,  alla  Cà  d'Oro  in  Ve- 
nezia (cfr.  la  guida  di  G.  Fogolari,  2^  ediz.  Roma,  1950,  pp.  9 

e  31)- 

Checché  sia  di  ciò,  è  certo  tuttavia  che  il  Pomponazzi  era 
già  dottore  in  artibus  il  19  giugno  1487,  poiché  con  questo 
titolo  è  testimone  nel  dottorato  in  artibus  di  Agostino  Lunardi 
da  Ravenna  {Acta  grad.,  voi.  44,  f.  9r).  Il  martedì  23  ottobre 
1487,  egli  figura  ugualmente  come  testimone,  insieme  a  Gio- 
vanni da  Schio,  a  Onofrio  Fontana  e  a  Sebastiano  dell'Aquila, 
tutti  e  quattro  «  artium  doctores  »,  nel  dottorato  che  il  suo 


APPUNTI    INTORNO    A    PIETRO    TRAPOLIN  I53 

condiscepolo  ed  amico,  il  generoso  patrizio  veneziano  Do- 
menico Grimani,  figlio  del  magnifico  Antonio  e  futuro  cardi- 
nale, conseguì  anch'egli  in  artibus  nel  privatum  examen  so- 
stenuto alla  presenza  del  nuovo  vescovo  di  Padova,  Pietro 
Barozzi,  promotori  i  dottori  collegiati  Pietro  Roccabonella 
che  gli  conferì  le  insegne  del  grado,  Paolo  dal  Fiume,  Giov. 
Aquilano,  Lorenzo  da  Noale,  Girolamo  della  Torre  da  Verona, 
Corradino  da  Bergamo,  Girolamo  Polcastro  e,  ultimo,  Nico- 
letto  Vernia  da  Chieti.  L' indomani,  24  ottobre,  appena  lau- 
reato, il  Grimani,  insieme  ad  Antonio  Pizamano  di  Marco, 
anch'egli  patrizio  e  dottore,  faceva  da  testimone  nel  dotto- 
rato in  iure  civili  di  Girolamo  Malchiavelli  da  Vicenza,  figlio 
del  giurista  Francesco,  essendo  promotore  Giason  dal  Maino 
(Arch.  d.  Curia  Vesc,  1.  e,  voi.  44,  f.  42r;  Arch.  dell'Univ., 
Sacro  Coli,  de'  Filos.  e  Medici,  n.  316,  ff.  I35v-i37r). 

E  poiché  ho  fatto  cenno  a  Maestro  Nicoletto  come  promo- 
tore del  dottorato  in  artibus  del  Trapolin  e  del  Grimani,  non 
starò  a  ripetere  quanto  di  lui  è  stato  detto  di  sopra  nei  saggi 
IV  e  V.  Basterà  ricordare,  com'egli,  con  l'appoggio  di  com- 
piacenti amici  che  aveva  nel  Senato  veneziano,  fosse  riuscito 
a  sottrarsi  all'obbligo  di  avere  un  concorrente  e  come  dallo 
stesso  Senato  veneziano  si  meritasse  un  energico  rabbuffo 
e  un  severo  richiamo  al  rispetto  degli  statuti  scolastici  dello 
studio  padovano.  Così  maestro  Nicoletto  dovette  piegare  il 
capo  e  accettare  la  concorrenza  di  Pietro  TrapoHn,  dottore  in 
artibus  et  medicina,  mentre  egli,  addottorato  solo  in  artibus 
ventinove  anni  prima,  con  tutta  la  sua  spocchia  non  aveva 
ancora  conseguito  il  titolo  di  dottore  in  medicina.  Maestri 
entrambi  di  filosofia,  rappresentavano  nello  studio  padovano 
l'averroismo  che  aveva  già  avuto  a  rappresentanti,  dai  primi 
del  Quattrocento  in  poi.  Paolo  Veneto,  Gaetano  da  Thiene, 
Cristoforo  da  Recanati  e  forse  altri  ancora  specialmente  fra  ì 
medici. 

L'averroismo,  sia  a  Padova  che  a  Bologna  e  a  Pavia,  era 
entrato  con  la  diffusione  del  commento  d'Averroè  ai  libri 
fisici  e  alla  Metafisica  d'Aristotele;  ed  era  ormai  invalsa  la 
consuetudine,  nei  tre  Studi  dell'  Italia  settentrionale,  di  leg- 
gere, insieme  al  testo  di  Aristotele,  il  commento  dell'arabo  di 
Cordova  che  lo  accompagnava.  Compito  del  lettore  era  quello 
di  chiosare  il  testo  aristotelico  e  di  mostrare  se  Averroé  l'aveva 
capito,  o  se,  per  avventura,  non  fosse  da  preferire  all'esposizione 


154        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

averroistica  quella  di  altri  espositori,  per  esempio,  di  Alessandro 
d'Afrodisia,  di  S.Tommaso  d'Aquino,  di  Duns  Scoto,  o  d'altri 
ancora.  Averroisti  si  dissero  coloro  i  quali,  nell'  esposizione  della 
dottrina  d'Aristotele,  seguivano  il  commento  di  Averroè  come 
quello  che  pareva  meglio  calzare  col  testo.  Le  dispute  fra 
costoro  e  i  loro  avversari  furono  certamente  aspre  e  talvolta 
clamorose.  A  renderle  tali  contribuì  il  fatto  che  molti  teologi, 
da  S.  Tommaso  in  poi,  perseguivano  il  proposito  concordisti- 
co  di  dimostrare  che  la  fede  e  la  teologia  (che  non  sono  precisa- 
mente la  stessa  cosa,  se  Dio  vuole)  s'accordano  pienamente 
con  la  scienza  e  la  filosofia;  e  per  filosofia  intendevano  quella 
aristotelica.  Ora  questo  intento  concordistico  era  reso  impos- 
sibile dall'  interpretazione  che  del  pensiero  d'Aristotele  davano 
gli  averroisti. 

Quindi  una  reciproca  accusa.  Da  un  lato,  gli  avverroisti 
accusavano  specialmente  i  tomisti  di  fraintendere  di  continuo 
la  dottrina  aristotelica  per  la  bella  soddisfazione  di  mostrare 
che  essa  s'accordava  in  tutto  e  per  tutto  con  la  fede  cristiana, 
sì  da  doversi  domandare  che  bisogno  c'era  della  rivelazione 
se,  tre  secoli  prima  di  Cristo,  Aristotele  aveva  donato  all'uma- 
nità un  sistema  così  completo  di  verità  sulle  cause  prime 
dell'essere  e  sui  destini  umani.  Dall'altro  lato,  i  teologi,  sì 
tomisti  che  scotisti,  accusavano  gli  avveroisti  di  depravare  il 
pensiero  d'Aristotele  allo  scopo  di  accentuarne  il  contrasto 
con  la  fede  e  d' impedirne  l'accordo.  Anzi,  essi  suggerivano  il 
sospetto,  che  gli  averroisti  facessero  questo,  perché  condivi- 
devano in  segreto  le  dottrine  da  loro  attribuite  ad  Aristotele, 
L'accusa  d'eresia  risale  a  S.  Tommaso  ed  è  ripetuta  dal  Pe- 
trarca. Per  difendersene  gli  averroisti  protestavano  che  il 
loro  compito  era  quello  di  interpreti  d'Aristotele  e  che  sul 
terreno  della  «  filosofia  »,  cioè  dell'  interpretazione  del  pen- 
siero aristotelico,  essi  intendevano  rimanere,  reclamando  piena 
libertà   di  discussione. 

In  generale,  gì'  inquisitori  si  acquetarono  a  queste  proteste 
degli  averroisti,  tanto  più  che  non  pochi  teologi  da  un  pezzo 
avevano  apertamente  condannato  la  pretesa  tomistica  di  «face- 
re  de  Aristotele  haeretico  omnino  catholicum  ».  Anzi,  a  dir 
vero,  i  più  spinti  averroisti  bisogna  cercarli  tra  siffatti  teologi. 
Così  io  ritengo  che  nel  Rinascimento  meritassero  a  buon 
diritto  l'appellativo  di  averroisti  Giovanni  di  Baconthorpe 
e  Gregorio  da  Rimini,  il  primo  anzi  quello  di  «  princeps  aver- 


APPUKTI    INTORNO    A    PIETRO    TRAPOLIN  I55 

roistarum  »,  perché  sostenevano,  spingendosi  ben  oltre  Sigieri 
di  Brabante  e  Tommaso  di  Wilton,  che  secondo  Aristotele 
giustamente  interpretato  da  Averroé,  le  intelligenze  e  le 
sfere  celesti  non  son  prodotte  dal  primo  motore  come  da  causa 
efficiente. 

E  sebbene  gli  averroisti,  chiarita  la  portata  del  loro  inse- 
gnamento, fossero  in  generale  lasciati  indisturbati,  non  man- 
carono quelli  che  porgevano  attento  orecchio  alle  diatribe, 
nel  chiuso  delle  aule  scolastiche  o  nelle  pubbliche  dispute, 
per  cogliere  frasi  o  atteggiamenti  suscettibili  di  ravvivare  e  dar 
consistenza  ai  vaghi  sospetti  di  miscredenza. 

Questo  appunto  accadeva  a  Padova,  nella  primavera  del 
1489,  quando  il  nuovo  vescovo,  Pietro  Barozzi,  allarmato  dal 
clamore  delle  dispute  intorno  all'unità  dell'  intelletto,  d'ac- 
cordo con  r  inquisitore  fra  Martino  da  Lendinara,  vietò  ogni 
pubblica  discussione  su  quell'argomento,  sotto  pena  di  sco- 
munica. Nel  decreto  del  6  maggio  di  quell'anno  è  affermato 
appunto,  che  coloro  i  quali  più  s'agitavano  per  l'unità  del- 
l' intelletto  fossero  mossi  da  motivi  pratici  di  libertinaggio  : 

Et  postremo,  existiinantes  eos  qui  de  unitale  intellectus  di- 
sputant,  ob  eam  potissimuni  causam  disputare,  quod,  sublatis 
ita  tum  premiis  virtutum  tum  vero  suppliciis  vitiorum,  existi- 
mant  se  liberius  maxima  queque  flagitia  posse  committere,  man- 
damus  ut  nullus  vestrum,  sub  pena  excommunicationis  late  sen- 
tentie  quam,  si  contrafeceritis,  incurratis,  audeat  vel  praesumat 
de  unitale  intellectus,  quovis  quesito  colore,  publice  disputare. 

Il  vescovo  e  l' inquisitore  sapevano  bene  che  la  tesi  del- 
l'unità dell'  intelletto  era  attribuita  dagli  averroisti  ad  Ari- 
stotele. Ciò  non  di  meno,  essi  vietano  ogni  pubblica  discussione 
su  questo  argomento,  anche  se  fosse  vero,  come  pretende 
Averroé,  che  l'unità  dell'  intelletto  fosse  dottrina  ricavata  da 
Aristotele.  Ma  su  questo  punto  il  Barozzi  e  fra  Martino  am- 
moniscono ad  esser  cauti,  perché  questo  Averroé  era  uomo 
dotto,  sì,  ma  scellerato,  «  a  quo  et  Avicennam  hispalensem, 
medicorum  prestantissimum,  bithinie  (ut  multi  putant)  regem, 
veneno  enectum.,  et  quem  ab  Avicenna  (priusquam  moreretur) 
interfectum  tradunt  »  (Curia  vesc.  di  Padova,  Acta  grad., 
voi.  44,  f.  I24t)  ;  parole  molto  ingarbugliate,  ma  che  accennano 
ad  una  nota  leggenda  della  quale  parla  M.  Steinschneider 
{Die  hebr.  Uebersetz.  des  Miti.,  pp.  677-78),  e  che  fa  non  poca 
meraviglia  trovare  ricordata  in   un   documento   episcopale. 


156        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Comunque  il  divieto  del  Barozzi  non  riguardava  le  dispute 
entro  le  aule  scolastiche,  nel  corso  delle  lezioni,  bensì  le  di- 
spute pubbliche  tenute  al  circolo  dei  filosofi  o  per  le  chiese^ 
come  soleva  usarsi,  e  in  circostanze  che  rivestivano  speciale 
solennità,  con  intervento  delle  autorità  e  del  pubblico,  dispute 
queste  ultime  assai  frequenti  nel  periodo  di  cui  mi  vado  occu- 
pando. Che  nelle  lezioni  scolastiche  e  nelle  riportazioni  che  ne 
possediamo,  anche  a  Padova  continuò  a  discutersi  come  al- 
trove, con  grande  spregiudicatezza,  sia  sull'unità  dell'  intel- 
letto e  suir  immortalità  dell'anima,  come  sull'eternità  del 
moto  e  del  mondo. 

Sebbene  l'editto  vescovile  non  accenni  a  persone,  si  sa  per 
altro  che  particolarmente  sospetto  al  prelato  era  Nicoletto 
Vernia,  sulla  cui  miscredenza  come  sul  carattere  bizzarro 
forse  correvan  già  aneddoti  sul  tipo  di  quelli  raccontati  dal 
Pomponazzi,  come  fu  narrato  sopra  nel  saggio  IV.  Certo  è 
che  coloro  i  quali  maggiormente  si  adoprarono  a  dissipare  i 
sospetti  del  Barozzi  sono,  in  gara  tra  loro,  proprio  Nicoletto  da 
Chieti  e  il  suo  degno  discepolo.  Agostino  Nifo-  da  Sessa. 
Non  Pietro  Trapolin,  il  cui  moderato  averroismo  non  dette 
ombra  di  sorta  ad  alcuno. 

Concorrente  del  Vernia  che  aveva  dovuto  piegarsi  all'or- 
dine del  Senato  veneziano,  non  si  sa  che  il  Trapolin  avesse 
urti  con  lui.  Ma  egli  s' intendeva  meglio  col  giovane  maestro 
Pietro  Pomponazzi,  già  suo  alunno  ed  ora  suo  collega  ed  amico, 
come  il  Vernia  invece  s' intendeva  molto  meglio  col  Nifo,  per 
certa  boria  e  affinità  di  carattere.  Il  Pomponazzi  era  stato  chia- 
mato alla  lettura  straordinaria  di  filosofia  nell'autunno  del  1488, 
poiché  in  un  decreto  del  senato  veneziano  dell'  8  settembre  1495 
(Venezia,  Arch.  di  Stato,  Sen.  terra,  Reg.  12,  f.  loSv-iogr)  si  tro- 
va che  a  questa  data  «  legit  philosophiam  annis  septem  ».  Il  26 
marzo  1492  egli  era  ancora  straordinario  di  filosofia,  e  come 
tale  figura  tra  i  testimoni  del  dottorato  in  medicina  di  Bernar- 
dino Speroni,  padre  di  Sperone  e  già  da  dieci  anni  dottore 
in  artibus  e  «  publice  legens  in  celeberrimo  studio  paduano  » 
(Arch.  della  Curia  vesc.  di  Padova,  Acta  grad.,  voi.  44,  f.  I93r; 
Arch.  dell'  Univ.  di  Padova,  Sacro  Coli,  de'  Medici  e  Filos.," 
n.  317,  f.  66v  sgg.).  Ma  il  28  settembre  1492,  il  senato  vene- 
ziano (Venezia,  Arch.  di  Stato,  Senato  terra,  Reg.  11,  f.  124V), 
in  riconoscimento  della  buona  prova  data  dal  maestro  manto- 
vano, e  con  la  motivazione  che  egli  era  «  vir  laudatissimus  », 


J 


APPUNTI    INTORNO    A    PIETRO    TRAPOLIN  I57 

gli  aumentava  lo  stupendio  da  50  a  80  fiorini,  il  che  significava 
promuoverlo  alla  lettura  ordinaria  di  filosofia  «  secundo  loco  ». 

Poco  dopo,  anche  Pietro  Trapolin,  che  percepiva  lo  sti- 
pendio di  137  fiorini,  cominciò  a  lagnarsi  che  non  gli  basta- 
vano al  mantenimento  della  numerosa  famiglia,  e  un  bel 
giorno  chiese  licenza  di  trasferirsi  a  Ferrara,  ove  gli  promet- 
tevano condizioni  migliori.  Il  5  febbraio  1492,  stile  veneto 
(quindi  1493),  il  Senato  veneziano,  per  trattenerlo,  «  quia 
persona  dicti  doctoris  ob  eius  doctrinam  est  admodum  ne- 
cessaria predicto  gymnasio  nostro  paduano  »,  decreta  gli 
siano  corrisposti  200  fiorini  annui  (Ib.,  Reg.  11,  f.  138 v). 
Così  il  Trapolin  restò.  Non  sempre  però  la  minaccia  d'andar- 
sene riusciva  a  commuovere  l'avarizia  veneziana.  E  alcuni 
che  vi  ricorsero,  come  nel  1525  lo  spagnolo  Giovanni  Mon- 
tesdoch,  furon  lasciati  andare  con  Dio. 

Quanto  alla  numerosa  famiglia  da  mantenere,  oltre  ad  al- 
cuni fratelli  che  ancora  convivevan  con  lui,  sappiamo  che  egli 
aveva  perlomeno  quattro  figliuoli  maschi:  Francesco,  Giulio, 
Alessandro  e  Antonio,  non  che  una  femmina.  Alba,  ottenuti 
dal  matrimonio  con  la  nobil  donna  Maria,  figlia  del  padovano 
Francesco  Roselli  del  fu  Antonio,  il  noto  giurista  sepolto 
nella  chiesa  del  Santo.  Il  maggiore  di  loro,  nel  1493,  non  do- 
veva aver  varcato  di  molto  i  dodici  anni.  Cinque  figli  da  sfa- 
mare e  da  vestire,  senza  contare  altri  carichi,  non  sono  un 
peso  indifferente. 

Ma  con  decreto  dello  stesso  senato  (Reg.  12,  f.  42r)  in  data 
15  febbraio  1493,  more  veneto  (dunque  1494),  in  seguito  alla 
morte  di  maestro  Antonio  da  Rimini,  il  Trapolin  passò  alla 
lettura  ordinaria  di  medicina  pratica,  con  lo  stesso  salario 
di  200  fiorini;  dalla  quale,  se  non  v'  è  un  errore  di  trascrizione 
del  decreto  nel  Registro,  sarebbe  passato  alla  lettura  straor- 
dinaria di  Teorica  della  medicina,  come  si  legge  nello  stesso 
Registro  12,  f.  109V,  alla  data  del  17  settembre  1595: 

Dominus  autem  petrus  trapolinus  qui  legit  extraordinariam 
Theoricae  medicinae  ad  secundum  locum  in  concurrentiam  D.  Ga- 
brielis  ^erbo,  cum  summa  satisfactione  totius  studi]  patavini, 
auctoritate  huius  Consilij  confirmetur  ad  lecturam  predictam 
cum  salario  florenorum  250  dari  solito  lecturae  predictae  secundi 
loci. 

E  il  19  settembre  fu  dato  avviso  ai  Rettori  di  Padova, 
perché  fosse  provveduto  in  conformità.  L'usanza  che,  prima 


158        l'aristotelismo    padovano     dal    secolo    XIV    AL    XVI 

d' insegnar  medicina,  un  maestro  insegnasse  la  filosofia  na- 
turale e  magari  la  logica,  è  tutt'altro  che  infrequente,  ed  è 
anzi  conseguenza  dello  stretto  rapporto  che  la  medicina  an- 
tica aveva  con  la  filosofia  della  natura.  È  risaputo,  del  resto, 
che  i  tutti  i  più  celebri  filosofi  arabi  erano  anche  medici.  A 
Padova,  Pietro  Roccabonella,  che  nel  1450  insegnava  filosofia, 
passò  all'  insegnamento  della  medicina  nel  1459  ;  nel  1464 
ritornò  a  insegnar  filosofia  e  nel  1472  di  nuovo  medicina. 
Cristoforo  da  Recanati,  successo  a  Gaetano  da  Thiene  nel  1465, 
passò  a  medicina  nel  1467.  Paolo  dal  Fiume  che  leggeva  fi- 
losofia nel  146 1,  fu  trasferito  a  medicina  nel  1468.  Gabriele 
Zerbo  cominciò  a  insegnar  medicina  nel  1492,  dopo  avere 
insegnato  filosofia  per  un  decennio.  E  potrei  continuare  per 
un   pezzo. 

Col  passaggio  di  Pietro  Trapolin  all'  insegnamento  della 
medicina,  concorrente  del  Vernia  avrebbe  dovuto  essere  il 
Pomponazzi.  Sappiamo  però  che  maestro  Nicoletto  s'ado- 
prava,  con  gli  appoggi  che  aveva  a  Venezia,  per  esser  liberato 
alfine,  più  che  dal  peso,  dall'  incubo  addirittura  della  concor- 
renza. E  tanto  fece  che  vi  riuscì,  ottenendo  95  voti  favore- 
voli, con  decreto  del  senato  veneziano  in  data  8  settembre 
1495  (vedi  sopra  pp.  123-124).  Alla  proposta  erano  stati  con- 
trari ben  '3^']  senatori,  mentre  9  voti  eran  risultati  nulli. 

In  questo  decreto  sono  più  cose  che  meritano  di  fermare  la 
nostra  attenzione.  Anzi  tutto,  è  ribadito  il  concetto  che  il 
privilegio  concesso  a  Maestro  Nicoletto  da  Chieti,  d' insegnare 
senza  concorrente,  ha  carattere  eccezionale,  essendo  stato 
concesso  nel  passato  solo  a  due  insigni  maestri  come  Gaetano 
da  Thiene  e  Cristoforo  da  Recanati.  Al  Vernia  veniva  con- 
cesso «  ob  maximam  scientiam  et  doctrinam  philosophie  »,  per 
avere  insegnato  questa  disciplina  nello  studio  di  Padova  «  per 
annos  triginta  et  ultra  ». 

Inoltre,  in  questo  decreto  si  stabilisce,  che,  in  luogo  del  con- 
corrente che  soleva  darsi  al  Vernia,  venga  nominato  a  quella 
lettura  «  Magister  Petrus  de  Mantua,  vir  doctissimus,  qui  legit 
philosophiam  annis  septem  »,  coll'annuo  salario  di  cento  fiorini. 
A  concorrente  poi  di  maestro  Pietro  Pomponazzi  è  deputato 
Agostino  Nifo  da  Sessa,  «  etiam  doctissimus  et  qui  legit  philo- 
sophiam annis  tribus  »  (dunque  dal  novembre  1492),  col  sa- 
lario di  80  fiorini  all'anno  ;  in  modo  che  il  salario  pagato  al  Pom- 
ponazzi e  quello  pagato  al  Nifo,  sommati  insieme,  non  rag- 


APPUNTI    INTORNO    A    PIETRO    TRAPOLIN  I59 

giungono  la  somma  del  salario  pagato  al  concorrente  di  maestro 
Nicoletto,  cioè  al  Trapolin,  che  riscuoteva  200  fiorini. 

Fu  così  che  il  buon  Peretto  Mantovano  si  trovò  tra  i  piedi 
il  Nifo,  che  cordialmente  detestava  per  l'aria  di  gran  saccente 
che  si  dava  e  la  non  poca  arroganza. 

Non  son  riuscito  a  vedere  alcun  documento  che  m' indi- 
casse la  data  esatta  del  suo  dottorato.  Ma  se  egli  fu  assunto 
alla  cattedra  straordinaria  di  filosofia  nell'autunno  del  1492, 
si  può  arguire  che  si  fosse  addottorato  sui  vent'anni  fra  il 
1490  e  il  1491,  promotore  il  Vernia,  cui  era  così  fortemente 
legato  e  al  quale  tanto  somigliava,  più  che  per  lo  spirito  fa- 
ceto, per  la  prontezza  ai  raggiri.  Come  straordinario,  potrebbe 
darsi  che  egli  fosse  stato  incaricato  di  tenere  anche  un  corso 
di  filosofia  morale,  se  non  ne  tenne  uno  privato  di  propria 
iniziativa,  come  diremo.  Con  la  nomina  a  concorrente  del 
Pomponazzi,  egli  era  promosso  ordinario  «  secundo  loco  ». 
Soltanto  nell'ottobre  del  1496,  quando  occupò  il  posto  lasciato 
vacante  dal  Peretto,  come  vedremo,  si  trovò  promosso  ordi- 
nario «  primo  loco  ». 

Di  questa  singolare  figura  di  lestofante  mi  sono  dovuto  oc- 
cupare più  volte,  a  dimostrare  com'egli  abbia  mentito  con  gran 
disinvoltura,  qual'era  solito,  quando  ha  voluto  farci  credere 
che  il  De  intellettu  pubblicato  per  la  prima  volta  nel  1503, 
fosse  stato  composto  prima  della  fine  d'agosto  del  1492,  e  che 
a  questa  data  debba  farsi  risalire  il  suo  distacco  dall'averroismo 
sigeriano  da  lui  un  tempo  professato,  anzi  che  in  questo  di- 
stacco egli  abbia  preceduto  il  Vernia  (cfr.  sotto,  p.  311),  mentre 
vi  sono  scritti  impressi  assai  dopo  il  1492,  come  il  commento 
alla  Destntctio  destnictionum  di  Averroé,  stampato  nel  1497 
e  dedicato  al  Card.  Grimani,  e  il  commento  al  XII  della  Meta- 
fisica dedicato  ad  Antonio  Giustinian  e  stampato  nel  1505, 
che  sono  ancora  saturi  di  spirito  sigeriano. 

Del  resto,  la  più  bella  smentita  gli  è  data  da  Girolamo 
Avanzo  che  fece  il  dottorato  in  artibus,  insieme  a  Girolamo  dal 
Muro  Nuovo,  il  29  luglio  1494,  compromotori,  per  l'Avanzo, 
Lorenzo  da  Noale,  Giovanni  Aquilano,  Girolamo  da  Verona, 
Gabriele  Zerbo  e  Pietro  Trapolin,  e,  per  il  Muro  Nuovo,  Gio- 
vanni Aquilano,  Girolamo  da  Verona,  Girolamo  Polcastro, 
lo  Zerbo  e  il  Trapolin;  primo  promotore,  per  ambedue,  Mae- 
stro Nicoletto  da  Chieti.  Maestro  Agostino  Nifo  da  Sessa, 
«  magister    artium    doctor,    extraordinariam  philosophiae  le- 


l6o        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

gens»,  era  il  primo  dei  sei  testimoni  (Arch.  d.  Curia  Vesc, 
cit.,  voi.  44,  f.  247r).  Orbene:  l'umanista  veronese  Girolamo 
Avanzo,  nella  rara  stampa  In  Valer  inni  Catulhim  et  in  Pria- 
peias  emendationes:  et....  prò  Magnifico  Francisco  aurichalcho 
oratio:  ac  ad  divam  Cassandrani  elegia.  Eiusdem  de  landihus 
philosophiae  moralis  oratio  et  gratiarum  actio  ad  Marcum 
Cazzo ìium  et  M.  Antonium  mauroceniim  (Ioannes  de  Cerato 
de  Tridino.  Venetiis.  MCCCCXCV),  segnalatomi  dairamico 
Carlo  Dionisotti,  fa  anzi  tutto  questo  elogio  dei  due  giovani 
amici  e  compatrioti.  Agostino  del  Bene  e  Girolamo  Bagolino, 
adducendo   la   testimonianza   di   Nicoletto   Vernia: 

Utinam  mecum  essent  Augustinus  Beneus  ac  Hieronymus 
Bagolinus,  iuvenes  mihi  urbe  studiis  moribus  aetate  pares,  apud 
quos  poetica  sapientia  et  philosophica  scientia  de  principatu 
decertant.  His  nihil  amabilius,  nihil  eruditius  invenio.  Horum  qui 
graecas  lectiones  intelligit,  dubitat  nempe  Veronae  an  Athenis  nati 
et  eruditi  sint.  Huius  rei  locupletissimum  est  testimonium  Nico- 
letus  Theatinus,  qui,  dum  Arabuni  praescripta  fastiditus  sit, 
Augustini  ac  Hieronymi  traductione  interpretatione  ac  narra- 
tione  absque  graecis  litteris  graecorum  omnium  philosophorum 
dogmata  probe  tenet  ac  sapienter  in  dies  edocet  (f.  a.  jj.  dedica 
ad  Agostino  Moravo  di  Olmùtz,  in  data  6  ott.    1493). 

Ov'  è  chiara  l'allusione  al  nuovo  orientamento  antiaverroi- 
stico  del  Vernia  dopo  il  decreto  del  1489  da  parte  del  vescovo 
di  Padova,  P.  Barozzi.  Ma-  nell'  Exordium  philosophiae  moralis 
(f.  b.ii)  l'Avanzo  ritorna  a  fare  l'elogio  di  Nicoletto  e  del  Nifo: 

.  Num  divinum  senem  Nicolletum,  virbis  Theatinae  sidus  splen- 
didissimum,  civitatis  Vincentinae  amorem  ac  delicias,  Patavinae 
Achademiae  columen  eximium,  virtutis  minime  fucatae  magi- 
strum  atque  legitimae  philosophiae  antistitem,  uniuscuiusque 
divinitatis  secretarium  emeritum  declarassent  Veneti  patres, 
nisi  eundem  Religionis  nostrae  acerrimum  assertorem  perspi- 
cerent  ?...». 

Tale  appariva  Maestro  Nicoletto  all'umanista  veronese  nel 
novembre  1494,  quando  il  filosofo  chietino  attendeva  ad  am- 
mantarsi d'un  po'  di  platonismo  di  moda  e  a  rifarsi  una  ver- 
ginità filosofica  con  le  sue  Quaestiones  de  plnralitate  intel- 
lectus  contra  falsam  et  ab  omni  verifate  remotam  opinionem 
Averroys  et  de  animae  felicitate.  Il  Nifo,  invece,  nell'autunno 
del  1494,  quando  l'Avanzo  tenne  la  sua  prolusione  al  corso 
di  filosofìa  morale  nello  Studio  padovano,  alla  presenza  dei 


APPUNTI    INTORNO    A    PIETRO    TRAPOI.IN  l6l 

due  rectores  veneziani  della  città,  il  podestà  Marino  Gazzoni 
e  il  capitani©  M.  Antonio  Morosini,  era  ritenuto  ancora  da  lui 
un  Averroè  redivivo: 

Num  amantissimo  convictori  meo  Angustino  de  Suessa,  iuveni 
(qui  quattuor  supra  vigiliti  annos  nondum  viderit)  primariam  phi- 
losophiae  lectionem  designassent  ?  Esto  dum  aptissime  disserit, 
dum  publice  Peripatheticorrum  praescripta  enarrat,  passim 
acclametur,  vel  renatum  Aristotelem  vel  magni  Averrois  animam 
ex  Pythagorae  sententia  in  hunc  migrasse,  nisi  praeter  naturales 
scientias,  in  quibus  eminet,  Ethicorum  quoque  volumina  (quibus 
per  biennium  me  paene  foelicem  reddidit)  sponte  profìteretur. 

E  appunto  per  purgarsi  da  questa  fama  di  Averroè  redivivo 
che  lo  inseguiva  ancora  alla  fine  del  1494,  e  per  la  quale  taluni 
lo  avevano  accusato  d'eresia  e  gli  avevano  impedito  di  pubbli- 
care una  certa  sua  Quaestio  de  intellectu,  egli  dovette  adoprarsi, 
negli  anni  successivi,  a  dissipare  i  sospetti  su  di  lui  concepiti, 
onde  riguadagnarsi  il  favore  del  Barozzi,  rielaborando  quella 
Quaestio  sino  a  farne  l'attuale  trattato  antiaverroistico  De 
intellectu,  che  con  disinvoltura  datò  da  Padova  «  26  augusti 
1492  »,  ma  che,  così  come  l'abbiamo,  fu  pubblicato  solo  nel  1503. 

L'Avanzo  e'  informa  che  egli  aveva  preso  gran  gusto  anche 
ad  un  corso  sull'  Etica  Nicomachea  che  il  Nifo  aveva  profes- 
sato «  sponte  »  per  un  biennio.  Che  cosa  significhi  propria- 
mente quello  «  sponte  »  non  saprei.  Forse  si  tratta  di  un  corso 
privato  che  il  suessano  aveva  tenuto  di  sua  iniziativa  per 
attirarsi  il  favore  degli  alunni;  cosa  che  non  di  rado  anche  altri 
maestri  facevano,  tenendo  corsi  in  ore  libere  o,  come  suol 
dirsi,  rubate,   su  richiesta  degli  alunni. 

Nel  1495,  dunque,  quando  il  Trapolin  era  passato  all'  inse- 
gnamento della  medicina,  nelle  aule  di  filosofia  discettavano 
maestro  Nicoletto  «  sine  concurrente  »,  il  Peretto  mantovano 
in  concorrenza  col  Nifo.  Ma  il  Vernia,  sebbene  ormai  vecchio 
e  all'apice  della  sua  carriera,  doveva  covare  in  cuore  una  se- 
greta gelosia  per  i  suoi  rivah,  che  si  fregiavano  del  titolo  di 
«  artium  et  medicinae  doctores  »  (lo  stesso  Pomponazzi  aveva 
conseguito  il  titolo  di  dottore  in  medicina  non  molto  tempo 
prima  del  9  marzo  1496),  mentr'egli,  addottorato  «  in  artibus  » 
fin  dal  1458,  non  aveva  ancor  pensato  ad  affrontare  la  prova 
per  conseguire  il  titolo  di  dottore  in  medicina.  Quell'  anno 
1495  si  chiudeva  appunto  con  lo  spettacolo,  non  comune, 
d'un  vecchio  maestro  che  insegnava  filosofia  da  oltre  tren- 
11 


l62        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

t'anni  e  ora  chiedeva  ai  colleghi  la  «  grazia  »  d'essere  ammessa 
al  «  tentativo  )>  e  quindi  al  «  privatum  examen  »  per  ottenere 
il  dottorato  in  medicina.  Ecco  il  verbale  di  quest'ultimo  atto,, 
rimasto  ignoto  al  Ragnisco  il  quale,  confondendo  col  Vernia 
Nicolò  Manupello,  egli  pure  da  Chieti  e  parente  del  Vernia, 
riteneva  che  questi  si  fosse  laureato  in  filosofìa  il  22  aprile  1444 
e  in  medicina  forse  nel  1458: 

A  nativitate  Domini  nostri  Jesu  Christi  1496  {sic).  Indictione  14, 
die  martis  29  decembris,  in  loco  solito  examinum. 

Privatum  examen  et  Doctoratus  in  facilitate  Medicinae  Cla- 
rissimi  Artium  doctoris  Domini  Nicoleti  Verniatis,  theatini, 
ordinariam  philosophiae  legentis  absque  concurrente,  examinati 
per  Sacrum  collegium  Artium  et  Medicinae  doctorum,  corani  ve- 
nerabili Domino  presbytero  Antonio  de  Malgarinis,  cathedralis 
ecclesiae  paduanae  Mansionario,  in  hac  parte  Vicario,  in  assi- 
stentia  spectabihs  domini  Leonardi  Butironi,  Rectoris,  appro- 
bati  unanimiter  et  concorditer  ac  nemine  penitus  discrepante, 
sub  promotoribus  Domino  Joanne  Aquilano  qui  de  dit  insignia 
prò  se  ac  Dominis  Laurentio  de  Noali  et  Hieronymo  de  Verona. 
[Testes].     D.  Laurentius  Donato,  Camerarius. 

D.   Vicentius  Quirino,  artium  scholaris. 

D.  M.  Petrus  de  Mantua  / 

D.  M.  Antonius  T^achantianus     \ 

In  questo  atto  da  me  veduto  (Arch.  d.  Curia  Vesc,  voi.  44, 
cot.,  f.  2gor)  e  gentilmente  trascrittomi  dal  Rev.mo  Mons. 
A.  Barzon,  il  dottorato  in  medicina  di  Maestro  Nicoletto  è 
fissato  al  martedì  29  die.  1496.  Ma  che  si  tratti  d'un  semplice 
lapsus  dell'estensore  è  provato  dal  fatto  che  l'atto  immedia- 
tamente precedente  (f.  289V)  è  del  23  dicembre  1495,  e  il 
f.  29ir  porta  la  data  del  2  gennaio  1496.  Inoltre,  il  29  dicem- 
bre 1496,  cadeva  in  giovedì,  e  non  martedì  come  il  29  dicem- 
bre 1495.  Infine,  il  29  dicembre  1496  il  Pomponazzi  non  pc- 
teva  fare  da  testimone,  perché  nell'ottobre  aveva  lasciato 
Padova,  e  vi  fece  ritorno  solo  dopo  la  morte  del  Vernia  nel  1490, 
Ma  forse  non  si  tratta  di  errore,  bensì  dell'aver  computato 
il  principio  del  1496  «  a  nativitate  Domini  »,  cioè  dal  25  di- 
cembre. 

Notevole  nell'atto  riferito  è  poi  la  presenza,  fra  i  testimoni, 
di  Lorenzo  Donato  e  di  Vincenzo  Quirini.  Il  primo  era  un  pa- 
trizio veneziano,  e  a  lui,  questore  a  Padova,  il  Nifo,  alunno 
del  Vernia,  dedicherà,  nel  1497,  il  prologo  d'Averroè  alla 
Fisica,  stampato  in  fine  del  commento  dello  stesso  Nifo  alla 


APPUNTI    INTORNO    A    PIETRO    TRAPOLIN  163 

Destructio  destructionum  dello  stesso  Averroè.  Del  secondo,  al 
quale  il  Nifo  a  Padova  e  da  Salerno  ostentava  il  suo  partico- 
lare e  interessato  attaccamento,  faremo  cenno  piìi  giti. 

Ma  potrebbe  anche  darsi  che  il  motivo  che  spinse  il  filosofo 
chietino  ad  addottorarsi  in  medicina  fosse  un  altro.  Leggiamo 
infatti  nel  Sanudo  (II,  314)  che  i  medici  veneziani  il  2  gennaio 
1499  si  lagnarono  in  Collegio  perché  Giovanni  Aquilano, 
((  maistro  Nicoleto  »,  Girolamo  da  Verona  e  Gabriele  Zerbo, 
medici  che  leggevano  a  Padova,  durante  le  vacanze  andavano 
«  a  miedigar  in  questa  terra  »,  cioè,  a  Venezia,  e  non  applica- 
vano ai  clienti  le  «  angarie  »  di  legge  che  dovevano  far  pagare 
i  medici  di  Venezia,  a  prò  del  medico  dell'armata  (v.  sopra, 
pp.  125-126).  Pare  che  a  quei  tempi  l'esercizio  della  medicina 
desse  guadagni  più  vistosi  della  filosofia;  e  a  «  maistro  Nico- 
leto »  dovevano  far  gola. 

Ma  col  1496  comincia  per  la  filosofia  padovana  un  periodo 
di  crisi  che  coincide  con  la  partenza  del  Peretto.  Questi,  messo 
a  dura  prova  dalla  concorrenza  del  Nifo,  dovette  sentirsi 
spronato  ad  accogliere  un  invito  che  gli  era  fatto,  di  andare  a 
stabilirsi  alla  corte  di  Alberto  Pio,  a  Carpi.  E  nella  prima  metà 
d'ottobre  1496  egli  rinunziò  alla  cattedra  e  chiese  licenza  d'an- 
darsene, adducendo  a  motivo  i  suoi  personali  interessi.  Questo 
risulta  dal  decreto  del  Senato  veneziano,  in  data  16  di  quel 
mese  (Venezia,  Arch.  di  Stato,  Senato  terra,  Reg.  12,  f.  ijjr)  : 

Renuntiavit  niiper  eximius  doctor  D.  Petrus  de  mantua  lecturae 
ordinariae  philosophiae  gymnasij  nostri  patavini,  cuius  retinebat 
primum  locum;  et  hoc  impulsus  privatis  suis  negotijs. 

Sicché  i  sapienti  del  Consiglio  e  della  Terra  ferma,  nella 
necessità  di  provvedere  per  l'anno  scolastico  1496-1497  alla 
cattedra  rimasta  vacante,  nominarono  a  succedergli  Ago- 
stino Nifo,  ((  qui  erat  concurrens  ipsius.  D.  Petri  de  mantua 
secundo  loco  »,  promovendolo  al  primo,  col  salario  di  90  fiorini, 
e  dandogli  come  concorrente,  «  ad  secundum  locum  »,  il  fa- 
moso e  a  tutti  gratissimo  dottore  Antonio  Fracanzano,  vicen- 
tino, «  de  cuius  sufficientia  et  doctrina  litterae  Rectorum  no- 
strorum  Paduae  dant  amplum  testimonium  »,  coll'annuo 
salario  di  80  fiorini. 

Ma  il  Nifo  non  valeva  il  Pomponazzi,  e  d'altra  parte  risulta 
che  nel  corso  dell'anno  scolastico  1497-1498,  non  sappiamo 
per  quali  ragioni,  se  per  motivi  di  stipendio  o  per  attriti  co] 


164        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Fracanzano,  ad  un  certo  momento  tagliò  la  corda.  Sì  che  il 
Senato  veneziano,  in  seguito  a  rapporto  del  rettore  degli  Ar- 
tisti di  Padova,  considerando  che  maestro  Nicoletto  «  ob  suam 
ingravescentem  etatem  continue  non  potest  legere,  quamvis 
ob  eius  sufficientiam  est  valde  gratus  omnibus  scolaribus, 
et  quoniam  illam  lectionem  alias  legebat  D.  Augustinus  de 
sessa  cum  florenis  90  in  anno,  vir  apprime  sufficiens  et  gratus 
illis  scolaribus,  qui  libenter  veniret  ad  legendum  »,  decide  che 
il  Nifo  sia  condotto  di  nuovo  con  fiorini  120,  ed  abbia  a  con- 
corrente lo  stesso  Fracanzano  (Ib.,  Reg.  13,  f.  ^yr,  ig  giugno 
1498). 

Questi  s'era  addottorato  in  artibus  nel  maggio  1489;  nel- 
l'autunno del  1492  era  stato  assunto  alla  lettura  della  logica, 
e  questa  cattedra  occupava  ancora  il  21  luglio  1494  (Padova, 
Arch.  della  Curia,  Acta  grad.,  voi.  44.  f.  246V);  nel  1495  aveva 
conseguito  la  laurea  in  medicina,  e  quindi  assunto  alla  cat- 
tedra straordinaria  di  filosofia  che  occupava  il  29  dicembre 
1495  (Arch.  d.  Curia,  1.  e,  f.  290r).  L'anno  successivo,  fu  pro- 
mosso, come  abbiamo  visto,  alla  cattedra  ordinaria  «  secundo 
loco  ». 

Ben  poco  ci  è  noto  anche  del  suo  indirizzo  filosofico.  Di 
scritti  di  lui  a  stampa  non  conosco  che  le  otto  «  Quesiiones  in 
consecutiones  Stradi  ac  de  sensu  composito  et  diviso,  pubbli- 
cate nel  volume  del  faentino  Benedetto  Vittori,  In  Tysberum 
de  sensu  composito  ac  diviso  cum  eiusdem  collectaneis  in  sup- 
positiones  Pauli  Veneti.  Nec  non  Tractatus  Alexandri  Sermo- 
nete,  Bernardini  Petri  de  Landìtciis,  Pauli  Pergulensis  et  Baptiste 
da  Fabriano  in  eundeni  Tysberum.  Item  qiiestiones  Frachan- 
ciani  Vicentini  in  consecittiones  etc.  (Venetiis,  impensa  heredum 
q.  Oct.  Scoti.  5  dicembre  1517,  ff.  56ra-65v),  e  dedicate  ad 
Alessandro  Sermoneta.  Esse  appartengono  senza  dubbio  al 
periodo  nel  quale  il  Fracanzano  fu  lettore  di  logica.  Di  opere 
manoscritte  ne  conosco  invece  due.  Una  è  nel  cod.  Ashburn 
1048,  nella  Laurenziana  di  Firenze,  ff.  ir-38v  con  questo 
titolo:  Excellentissimi  Doctoris  Domini  Antonii  fracantiani 
Vicentini  de  casu  et  fortuna  fatoque  quaestiones  incipiunt  (9 
capitoli,  oltre  il  proemio).  L'altra  è  nel  codice  Vat.  lat.  10728, 
e  porta  questa  intestazione:  Tractatus  proportionalitatum 
Domini  antonii  fracantiani  Vicentini  di  ff.  io.  È  divisa  in  tre 
trattati  ed  è  scritta  di  mano  d'un  allievo,  che  probabilmente 
è   Girolamo   Accorumboni   o   Accoramboni   da   Gubbio.    Ecco 


APPUNTI    INTORNO    A    PIETRO    TRAPOLIN  165 

quanto  scrive  questo  alunno  :  «  Finis  Tractatus  proportionum 
Fracantiani,  praeceptoris  mei,  qui  legit  patavii  ordinariam 
philosophiae  ;  obiit  mo  cccccvi,  die  28  aprilis.  Ego  vero  eram 
tum  bacchalarius  ordinarius  in  studio  patavino.  Pontifex  erat 
prope  bononiam  cum  exercitu,  ut  dominum  iohannem  expel- 
leret  ».  Niente  son  riuscito  a  sapere  del  commento  inedito 
In  VII  Physicorum  di  cui  parlano  i  Memorabili  di  Giovanni 
da  Schio  (ms.  nella  Bibl.  Bertoliana  di  Vicenza,  lettera  F) 
e  che  era  posseduto  dal  canonico  Fulvio  Querengo.  Interessante 
è  quanto  riferisce  Marin  Sanuto  (II,  485),  come  il  24  giugno 
1499  furon  ricevuti  a  Venezia  in  Collegio  «  maestro  de  Star- 
niti »  (?  !)  teatino  et  maestro  Gabriel  Zerbo,  doctori,  lezeno  a 
Padoa  in  philosophia  et  medicina,  insieme  col  retòr  di  scolari 
artista,  con  commission  dil  collegio  di  doctori;  et  forno  alditi 
in  contraditorio  con  maestro  Antonio  Fraganzan,  dotor 
vicentin,  leze  in  philosophia,  qual  non  voria  haver  conco- 
rente  inferior  a  lui,  né  vorìa  essi  doctori  esso  in  nel  collegio 
di  doctori.  Or  fo  gran  parole,  et  scrito  ai  retòri  di  Padoa, 
dagi  Information  >>. 

Non  conosco  l'esito  di  questa  bega;  ma  è  certo  che  l' inse- 
gnamento della  filosofia  a  Padova  versava  in  gravi  condi- 
zioni. Il  Nifo  se  n'era  andato,  e  non  farà  più  ritorno  a  Padova, 
ove  non  gli  mancavano  gli  appoggi  di  potenti  amici,  ma  dove 
aveva  dovuto  cozzare  altresì  contro  l'avversione  di  maestri 
e  scolari.  Il  4  ottobre  poi  era  morto  maestro  Nicoletto,  che  il  3 
agosto  a  Vicenza  aveva  fatto  l'ultimo  suo  testamento,  e  con  lui 
spariva  dalla  scena  padovana  la  figura  forse  più  nota  fra  gli  stu- 
denti di  filosofia  e  più  popolare  per  le  sue  bizzarrie  (v.  sopra,  sag- 
gi IV  e  V) .  Nessun  maestro  di  qualche  rilievo  occupava  più  le  cat- 
tedre di  filosofia.  Di  ciò  ebbe  a  preoccuparsi  il  Senato  veneziano 
nella  seduta  del  31  ottobre  (Senato  terra,  Reg.  13,  f.  97r). 
A  succedere  al  Vernia  fu  perciò  richiamato  «  Magister  Peretus 
de  Mantua,  vir  singulari  doctrina  preditus  et  studentibus 
gratus  »,  per  la  durata  di  due  anni,  con  180  fiorini  di  salario  »; 
per  concorrente  gli  fu  assegnato  il  Fracanzano,  «  vir  doctis- 
simus,  qui  iam  per  annos  septem  legit  »  (dunque  dall'autunno 
del  1492,  quando  fu  nominato  lettore  di  logica)  ;  e  poiché  il 
vicentino  ricusava  l'ufficio  di  concorrente  col  salario  di  80 
fiorini,  fu  deciso  di  portarlo  a  130,  onde  «  possit  legere  contentus 
et  facere  bonam  concurrentiam  ».  Alla  cattedra  straordinaria 
di  filosofia  fu  accettato  il  bolognese  Tiberio  Bacilieri,  disce- 


l65        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

polo,  amico  e  collega  di  Alessandro  Achillini,  del  quale  portò 
a  Padova  le  dottrine.  Egli  aveva  dovuto  lasciare  la  città  natale, 
in  seguito  alla  sospensione  per  un  quinquennio  inflittagli  da  quel 
Collegio  dei  medici  e  filosofi  (cfr.  sotto,  pp.  226-27).  E  forse  il 
Bacilieri  dovette  fare  da  concorrente  al  Peretto,  quando  il  Fra- 
canzano  entrò  per  tre  anni  al  seguito  del  nuovo  cardinale  Marco 
Corner,  che,  elevato  alla  sacra  porpora  a  diciott'  anni,  aveva  an- 
cora bisogno  d'andare  «a  Padoa  a  studia»  (M.  Sanuto,  II,  929). 
Ma  ritornato  sulla  sua  cattedra  il  Fracanzano  nel  1502,  e  ri- 
preso il  suo  posto  di  concorrente  del  Pomponazzi,  il  Baci- 
lieri l'anno  successivo  lasciò  Padova  per  Pavia  (cfr.  il  mio 
voi.  Sig.  di  Brah.  nel  pens.  del  Rinasc.  ital.,  pp.  132-152). 
Nella  stessa  delibera  del  31  ottobre  1499  si  trova  ancora: 

Demum  legit  in  dicto  Gymnasio  iam  annos  sexdecim  [dunque 
dall'anno  scolastico  1483-1484,  quando  il  Trapolin  salì  sulla  cat- 
tedra di  filosofia  quale  straordinario]  Magister  Petrus  trapolino, 
qui  iam  est  senex  et  onustus  ingenti  numero  filiorum,  et  habet  flo- 
renos  250  de  salario  in  anno,  quod  exiguum  est  respectu  laborum 
quos  sustinet  in  legende.  Ideo  captum  sit  quod  dicto  magistro 
Petro  addantur  floreni  quinquaginta,  ita  quod  habeat  de  salario 
trecentos  in  anno  et  ratione  anni,  attento  presertim  quod  eius 
concurrens  [che  era  Gabriele  Zerbo]  habet  fiorenos  sexcentos  de 
salario  in  anno. 

Con  questa  delibera  del  Consiglio  veneziano  che  vigilava 
sulle  sorti  dello  Studio  patavino  la  crisi  della  filosofia  pado- 
vana era  avviata  a  una  felice  soluzione. 

Intanto  venivan  su  ottimi  elementi  nuovi,  alunni  dei  vecchi 
maestri,  che,  appena  addottorati  e  taluno  anche  prima,  sa- 
livano giovanissimi  sulla  cattedra.  Così  il  17  agosto  1499, 
s'addottorò  /;/  artihus  Lorenzo  dal  Molino,  da  Rovigo,  già 
alunno  del  Pomponazzi  e  del  Trapolin  che  al  giovane  dottore 
conferì  le  insegne,  e  nel  verbale  di  dottorato  troviamo  anno- 
tato che  egli  era  già  stato  deputato  «  ad  lecturam  dialecticae  » 
(Arch.  d.  Curia  Vesc,  voi.  46,  f.  71).  Il  21  maggio  1500,  s'era 
addottorato  in  artihus  il  veronese  Gianfrancesco  Burana 
{Ib.,  voi.  47,  f,  106),  e  un  anno  dopo  lo  troviamo  ordinario 
di  logica  {Ib.,  f.  i62r).  Il  veronese  Bernardino  Plumazio,  già 
alunno  del  Nifo,  fu  chiamato  «  ad  extraordinariam  philoso- 
phiae  lecturam  »  {Ib.,  f.  248r).  Anche  Francesco  Trapohn, 
al  quale  conferì  le  insegne  di  dottore  in  artibus  il  padre,  il 
6  ottobre  1501,  troviamo  che  «  electus  est  ad  lecturam  publicam 


APPUNTI    INTORNO    A    PIETRO    TRAPOLIN  167 

logice  »  [Ih.,  f.  i68r).  L'anno  scolastico  1503-1504  fu  promosso 
straordinario  di  filosofia  naturale.  E  dopo  la  laurea  in  medi- 
cina, conseguita  il  4  marzo  1506,  anche  questa  volta  «  promo- 
tore.... D.  Petro  Trapolino  genitore  suo  qui  dedit  insignia  » 
(e  fra  i  testimoni  era  Gaspare  Contarini),  passò  alla  seconda 
scuola  di  medicina,  collega  del  padre  e,  come  questo,  colle- 
giato.  Il  14  novembre  1500  s'addottorò  in  artibns  Giacomo 
Filippo  delle  Pelli  Negre  da  Troia  in  Puglia,  promotore  Pietro 
Trapolin,  ed  anche  egli  era  già  stato  eletto  «  ad  moralem  philo- 
sophiam  publice  legendam  »  {Ih.,  voi.  47,  f.  135).  Il  1°  febbraio 
1501  s'addottorò  in  medicina  Girolamo  Bagolino,  di  cui  ab- 
biamo udito  l'elogio  fatto  da  Girolamo  Avanzo  [Ih.,  f.  146 v) 
e  del  quale  è  ben  nota  la  carriera  scolastica.  Il  6  agosto  s'ad- 
dottorò in  artihus  M.  A.  Zimara,  promotore  ancora  P.  Trapolin, 
e  l'anno  seguente  cominciò  a  insegnare  prima  logica,  poi  fi- 
losofia [Ih.,  f.  i62r).  Il  5  nov.  1502  conseguì  il  dottorato  in 
artihus  Girolamo  Fracastoro,  anch'egli  già  «  ad  lecturam  logice 
deputatus  »  {Ih.,  f.  225r). 

Proprio  in  questi  anni,  affluiscono  a  studiar  filosofia  a  Pa- 
dova giovani  delle  più  ragguardevoli  famiglie  patrizie  vene- 
ziane. Primi  fra  tutti  Vincenzo  Quirini,  Marco  Gradenigo, 
Girolamo  Taiapietra,  Santo  Moro,  Cristoforo  Marcello,  Ga- 
spare Contarini,  Nicolò  Tiepolo,  Antonio  Surian,  M.  A.  Con- 
tarini, Lorenzo  Venier.  Il  Quirini,  ancora  «  artium  scholaris  », 
figura  in  vari  atti  di  dottorato  come  testimone  fin  dal  1495; 
ma  recatosi  a  Roma,  vi  sostenne  le  «  conclusion  »  nella  chiesa 
dei  Santi  Apostoli,  il  29  maggio  1502,  presenti  Pietro  Bembo 
e  l'oratore  veneziano  Marin  Zorzi,  e  fu  addottorato  in  artihus 
da  papa  Alessandro  VI.  Il  suo  esempio  seguirono  anche  il 
Taiapietra  e  il  Tiepolo,  addottorati  essi  pure  a  Roma,  dopo 
avervi  disputato  le  loro  brave  «  conclusion  »,  il  primo  nella 
primavera  del  1506,  il  secondo  nell'estate  1507,  da  Giulio  II 
(M.  Sanudo,  III,  278;  VII,  116;  P.  Bembo,  Opp.,  t.  Ili,  Ve- 
nezia 1729,  p.  3i4r).  Invece  Cristoforo  Marcello,  che  il  17  ot- 
tobre 1500  aveva  sostenute  ai  Frari,  a  Venezia,  «  alcune  con- 
clusion »  (M.  Sanudo,  III,  978),  s'addottorò  in  artihus  a  Pa- 
dova, promotore  P.  Trapolin,  il  20  ottobre  1501,  e  gli  fecero 
da  testimoni  M.  A.  Foscarini,  vescovo  di  Città  Nova  e  ancora 
studente  di  diritto  canonico,  Girolamo  Barbarigo,  primicerio 
di  S.  Marco,  e  Pietro  Pomponazzi  (Arch.  di  Curia  Vesc,  voi.  47, 
f.  lògr).  Del  dottorato  in  artihus  di  Andrea  Mocenigo,  discepolo 


l68        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

del  Pomponazzi,  trovo  questo  verbale  {Ib.,  f.  256): 

Anno  Nativitatis  dominicae  1503,  indictione  sexta,  die  Sabati 
XII  Augusti.  Privatum  examen  in  Artibus,  in  loco  solito  exami- 
num,  per  Venerandum  Collegium  Artium  et  medicinae  doctorum, 
et  comprobatio  unanimiter  et  concorditer  ac  nemine  penitus 
discrepante,  in  assistentia  Spectabilis.  D.  Pauli  Zerbo  Rectoris, 
coram  Reverendo  d.  Ludovico  de  rugerijs  vicario.  Et  deinde  in 
medio  cathedralis  ecclesiae,  assistentibus  M.  cis  et  CI.  imis  dominis 
Thoma  Mocenigo  praetore,  patruo,  et  Paulo  Trivisano  equiti, 
praefecto  urbis,  avunculo,  et  aliorum  praestantissimorum  docto- 
rum scholarium  civium  et  praelatorum  corona,  per  R.mum  D.  Epi- 
scopum,  eius  domino  Vicario  recitante,  pronuntiatus  fuit  Doctor 
in  Artibus  M.  cus  et  doctissimus  vir.  D.  Andreas  Mocenigo,  natus 
M.  ci  et  CI.  mi  D.  Leonardi,  fili]  olim  Serenissimi  principis  Vene- 
tiarum  D.  Joannis  Mocenici,  post  longas  lucubrationes  et  scho- 
lasticos  labores  et  publicas  disputationes  ac  varia  virtutis  et 
doctrinae  suae  experimenta.  Cui  tradita  fuerunt  insignia  per 
Excell.mum  artium  et  medicinae  doctorem,  D.  Magistrum  Pe- 
trum  trapolinum  prò  se  ac  Dominis  Magistris  Ioanne  de  Aquila, 
Symone  Estensi,  Hieronymo  de  foelicibus  ac  Bernardino  Spirono. 
Testes:  D.  Laurentius  Venerio,  D.  Antonius  Suriano,  D.  Gaspar 
Contareno,   artium  scholares. 

È  notevole  che  anche  qui  s'accenni  a  pubbliche  dispute, 
tenute  verosimilmente  a  Padova  e  a  Venezia,  delle  so- 
lite «  conclusion  ».  L'  11  settembre  dello  stesso  anno,  s'ad- 
dottorò in  artibus  Marco  Gradenigo,  ed  ebbe  a  testimoni  il 
Magnifico  G.  Batt.  Memo,  suo  zio  e  podestà  di  Padova  {Ib., 
f.  258r).  Il  4  luglio  1504,  s'addottorò  in  artibus  Sebastiano 
Foscarini,  promotore  Bartoloneo  da  Montagnana  {Ib.,  f.  287r)  ; 
un  anno  dopo,  il  14  giugno  1505,  fu  eletto  lettore  di  filosofia 
nelle  scuole  di  Rialto  a  Venezia,  al  posto  di  Antonio  Giustinian 
nominato  ambasciatore,  e  questa  cattedra  egli  tenne  fino  alla 
sua  morte  nel  1552  (M.  Sanudo,  VI,  185).  L'  8  agosto  dello 
stesso  1504  s'addottorò  parimente  in  artibus  Lorenzo  Venier, 
«  el  Gobeto  »,  del  quondam  Marino  procurator  di  S.  Marco, 
e  gli  furon  testimoni  Giorgio  Corner,  padre  del  Cardinale  e 
podestà  di  Padova,  Paolo  Trevisan,  capitanio,  Antonio  Surian 
e  Girolamo  Polani  (Arch.  Cur.  vesc.  cit.,  f.  29or).  Prima  del 
dottorato  a  Padova,  egli  aveva  tenuto  le  sue  «  conclusion  », 
il  12  giugno,  ai  Frari  in  Venezia,  disputando  per  più  giorni 
con  Lorenzo  Bragadin,  lettore  di  filosofia,  con  Giovanni  Ba- 
doèr,  dottore  e  cavaliere,  con  Marin  Zorzi,  anch'egli  dottore, 
e  con  alcuni  frati  (M.  Sanudo,  VI,  31).  Il  21  maggio  1505  fu 


APPUNTI    INTORNO    A    PIETRO    TRAPOLIN  169 

la  volta  di  Santo  Moro  di  Marino,  che  ebbe  a  testimoni  Alvise 
Molin,  podestà  di  Padova,  Angelo  Trevisan,  capitanio,  i  due 
celebri  scotisti  francescani  Antonio  Trombeta  e  Maurizio 
Ibernico,  lettori  nelle  scuole  del  Santo,  e  Pietro  Pomponazzi 
(Arch.  Cur.  Vesc,  cit.,  f.  417^).  L'  11  maggio  anch'egli  aveva 
tenuto  «le  conclusion  ai  Frari,  qual'è  impresse»  (M.  Sanudo, 
VI,  163).  E  finalmente  Antonio  Surian,  nipote  del  patriarca 
dello  stesso  nome,  dopo  una  disputa  pubblica  di  due  giorni  a 
Padova  e  di  un  giorno  ai  Frari  a  Venezia  [Giorn.  Crii.  d.  Filos. 
Hai.,  XXXI,  1950,  p.  312),  il  9  luglio  1506  ebbe  le  insegne  di 
dottore  in  artibus  da  Bernardino  Speroni,  «  prò  se  ac  Dominis 
Magistris  Ioane  de  Aquila,  Benedicto  de  Odis,  Petro  Trapolino, 
Victore  Maripetro,  Antonio  de  Faenza,  Francisco  ab  Equis, 
Petro  de  Mantua,  Antonio  Carrano  et  Carolo  de  lanua  com- 
promotoribus  suis  »  (Arch.  Cur.  Vesc,  cit.,  f.  371  v).  Dal  qual 
verbale  appare  che  Pietro  Pomponazzi,  forestiero,  era  stato, 
dopo  quindici  anni  di  soggiorno  padovano,  aggregato  al  Col- 
legio dei  medici  e  filosofi  di  Padova, 

Dallo  stesso  Archivio  della  Curia  Vescovile,  (voi.  cit.,  f.  38ór) 
si  rileva  che  xA.ntonio  «  D.  Petri  Trapolini  »,  il  19  dicembre 
1506,  ricevve  la  prima  tonsura  dalle  mani  del  vescovo  Pietro 
Barozzi,  il  quale  venne  a  morte  di  lì  a  poco,  il  io  gennaio  1507. 

Questo  figlio  del  Trapolino  fu  avviato  allo  studio  del  diritto, 
e,  dopo  alcuni  anni  di  vita  dissipata,  rimessosi  sulla  buona 
strada,  professò  Decretali  e  Diritto  Civile  a  Padova  fra  il 
1526  e  il  1528.  Ma  morì  giovane  il  6  settembre  1529,  se  sono 
esatte  le  notizie  raccolte  dal  Facciolati  {Fasti  Gymnasii  Pata- 
vini, parte  III,  pp.   106,   109,   128,   130,   131). 

Divenuto  un  fiorente  centro  di  intesa  vita  intellettuale,  lo 
studio  di  Padova  attirava,  oltre  la  nobiltà  veneziana  e  stu- 
denti di  molte  parti  d' Italia,  molti  studenti  d'oltralpe,  spe- 
cialmente dalla  Germania  e  dalla  Polonia.  Fra  coloro  che  vi 
sostarono  per  più  anni,  è  da  ricordare  Nicolò  Copernico,  che, 
già  studente  di  diritto  e  quasi  certamente  anche  delle  Arti 
a  Bologna  fra  il  1496  e  il  1500,  a  Padova  fu  studente  di  me- 
dicina dall'autunno  del  1501  forse  sino  alla  primavera  del 
1505,  e  a  Padova  certo  non  può  aver  trascurato  lo  studio 
della  matematica  e  dell'astronomia. 

A  Padova  avevano  insegnato  queste  scienze  il  Peurbach  e  il 
Regiomontano,  ossia  Giovanni  Muller  di  Kònigsberg,  e  dipoi 
Francesco  Capuano  di  Manfredonia,  i  quali  avevano  discusso 


170        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

le  osservazioni  di  Tolomeo  e  quelle  di  Albategni  in  rapporto 
ad  una  revisione,  che  si  rendeva  ogni  giorno  più  necessaria, 
delle  Tavole  Alfonsine.  Si  parla  anche  della  fama  di  profondo 
matematico  goduta  da  Pietro  Trapolin,  considerato  niente- 
meno che  «  il  primo  matematico  del  suo  tempo  »,  sì  che  per 
questa  sua  fama  accorrevano  a  Padova,  «  avidi  d'ascoltarlo, 
scolari  d'ogni  nazione  »  (G.  Vedova,  Biogr.  d.  Scrittori  Padovani, 
II,  p.  361).  Alunno  del  Trapolin  e  del  Pomponazzi  era  stato 
il  mantovano  Benedetto  del  Tiriaca  che  s'addottorò  in  artihus 
il  20  dicembre  1494,  promotore  il  Trapolin  che  gli  conferì 
le  insegne,  e  testimone  il  Peretto  suo  concittadino.  Dal  1498 
al  1506  egli  tenne  la  cattedra  di  matematica  e  astronomia 
con  tanto  plauso  che,  avendo  dato  le  dimissioni,  bandito  il 
concorso  per  dargli  un  successore,  quando  gli  studenti  seppero 
i  nomi  degli  aspiranti  a  quella  lettura  presero  ad  agitarsi  e 
chiesero  che  il  Tiriaca  fosse  richiamato  sulla  cattedra,  come 
fu  fatto  con  deliberazione  del  Senato  veneziano  in  data  7 
settembre  1508.  È  arduo  pensare  che  fra  il  1501  e  il  1505  il 
giovane  Copernico,  che  era  tra  i  ventotto  e  i  trent'uno  anni 
d'età,  non  l'abbia  avvicinato  e  si  sia  disinteressato  dell'  in- 
segnamento del  giovane  maestro  di  forse  due  o  tre  anni  più 
anziano. 

Un  confronto  dei  ritratti  dell'astronomo  polacco,  e  spe- 
cialmente dell'autoritratto,  col  giovane  matematico  seduto  e 
intento  a  tracciare  un  disegno  nel  quadro  del  Giorgione  «  i  tre 
filosofi  »,  m'  ha  indotto  a  credere  che  questo  giovane  sia  pro- 
prio Copernico,  studente  a  Padova.  Volgendo  le  spalle  a  To- 
lomeo e  all'arabo  Albategni,  egli  è  rappresentato  dal  pittore 
di  Castelfranco  Veneto,  al  centro  ideale  e  prospettico  del 
quadro,  nell'atto  di  scrutare  la  natura  che  ha  dinanzi  e  di 
volgere  le  spalle  ad  un  sapere  che  stava  per  tramontare. 

Il  20  aprile  1506  Pietro  Trapolin  era  a  Venezia,  presente  alle 
solenni  esequie  fatte  a  Marco  Antonio  Sabellico  nella  chiesa 
di  S.  Stefano.  Gian  Battista  Egnazio  fece  l'orazione  funebre 
dell'amico  umanista  deceduto   (M.   Sanuto,  Vili,  329). 

Il  Pomponazzi,  circondato  dalla  stima  e  dall'affetto  dei  suoi 
alunni  e  dei  colleghi,  il  15  ottobre  1504,  aveva  rinnovato  l' in- 
gaggio «  per  tres  annos  de  firmo  et  unum  de  respectu  »  ;  e  in 
quell'occasione  il  Senato  gli  aveva  portato  lo  stipendio  dai 
180  ai  250  fiorini,  motivando  l'aumento  con  la  singolare  dot- 
trina del  filosofo   e   coi  bisogni   della  numerosa  famiglia  da 


À 


APPUNTI    INTORNO    A    PIETRO    TRAFOLIN  I7I 

mantenere  (Venezia,  Arch.  di  Stato,  Sen.  terra,  Reg.  15,  f.  37r). 
Quanto  alla  numerosa  famiglia,  sappiamo  che  sotto  Natale 
del  1500  egli  s'  era  sposato  con  Cornelia  di  Francesco  Dondi 
dell'  Orologio,  dalla  quale  aveva  avuto  una  o  forse  già  due 
figliolette.  Per  parlare  di  numerosa  famiglia,  bisogna  pensare 
che  egli  avesse  a  carico  altri  parenti.  Tanto  più  che  lo  stesso 
motivo  del  bisogno  in  cui  versava  per  la  famiglia  numerosa 
sarà  addotto  dal  Peretto  per  chiedere  un  nuovo  aumento  di 
lì  a  tre  anni,  in  occasione  del  rinnovo  dell'  ingaggio.  Lo  sti- 
pendio questa  volta  gli  fu  portato  a  370  fiorini,  e  il  manto- 
vano s'impegnò  «per  annos  septem  proximos  »  (Ib.,  f.  185V). 

Le  cose  dello  Studio  patavino  procedevano  dunque  a  gontie 
vele,  e  quando,  nel  novembre  1506,  ad  Alessandro  Achillini 
costretto  a  fuggire  da  Bologna,  per  la  caduta  dei  Bentivoglio 
dei  quali  era  fautore,  fu  offerta  la  cattedra  di  filosofia  natu- 
rale, «  secundo  loco  »,  che  era  stata  del  Fracanzano,  morto, 
come  abbiamo  visto  il  28  aprile  ;  si  che  il  bolognese  si  trovò  ad 
essere  per  un  biennio  concorrente  del  Pomponazzi.  E  in  di- 
sputa tra  loro  al  circolo  dei  filosofi,  al  portico  pretorio,  fra  il 
palazzo  della  ragione  e  il  Bò,  li  ritrasse  ambedue  al  vivo  Paolo 
Giovio,  il  quale  nel  1506  era  alunno  del  Peretto,  e  a  Padova 
rimase  fino  alla  primavera  del  1507,  quando  fece  ritorno  a 
Pavia. 

Ma  la  serenità  che  Bologna  invidiava  a  Padova  non  durò 
a  lungo  e  un  violento  uragano  si  abbatté  su  questa,  nel  1509, 
quando,  per  il  furore  «  totius  fere  Europae  virium  in  Rem 
Venetam  conspirantium  »,  come  con  bella  frase  si  legge  sulla 
tomba  del  doge  Loredan  nella  chiesa  di  San  Zane  e  Polo, 
Venezia  corse  pericolo  mortale  e  le  milizie  imperiali  occupa- 
rono Padova  il  6  giugno.  Sembra  che  proprio  lo  stesso  giorno 
dell'entrata  dei  tedeschi  in  Padova,  morisse,  non  saprei  in 
quali  circostanze,  Pietro  Trapolin,  in  età  di  58  anni  e  venti 
giorni.  E  fu  certo  ventura  per  lui  che,  giacendo  nella  pace  del 
chiostro  di  S.  Francesco,  ov'era  la  tomba  della  famiglia  Tra- 
pohna  (nella  stessa  chiesa  riposa  il  Roccabonella),  non  ebbe 
a  vedere  lo  scempio  della  città,  il  saccheggio  della  sua  casa  e 
la  sciagura  dei  suoi  congiunti  ed  amici.  All'avvicinarsi  del 
nemico,  il  5  giugno,  i  rettori  della  città  e  il  consiglio  cittadino, 
formato  di  16  deputati,  discussero  a  lungo  se  arrendersi  o 
resistere.  «  Et  parlò  Alberto  Trapolin,  che  si  voleno  tenir  per 
la  Signoria,  e  non  si  dar  al  re  di  romani,  si  non  vedono  mazor 


172         L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAI,    SECOLO    XIV    AL    XVI 

exercito  eh'  1  nostro  a  preso  Padoa,  ben  non  voleno  danno, 
ni  el  nostro  campo  entri  in  Padoa  »,  dice  M.  Sanuto.  (Vili, 352). 
Ma  le  difese  veneziane  eran  deboli,  e  Padova  cadde.  Vi  fu 
un  principio  di  saccheggio,  ma  una  grida  rassicurò  i  cittadini; 
fu  formato  un  governo  provvisorio  di  otto  notabili  padovani, 
e  l'ordine  fu  ristabilito  (M.  Sanudo,  Vili,  366-7).  Di  questo 
governo  fece  parte  anche  Alberto  Trapolin,  Bertuzzi  Baga- 
roto,  lettore  di  diritto  canonico  e  Lodovico  Conte.  Qualche 
settimana  dopo  il  numero  di  otto  deputati  fu  portato  a  sedici. 
Insieme  ai  predetti  fece  parte  di  questo  nuovo  governo  prov- 
visorio anche  un  altro  dottore  padovano,  Giacomo  da  Lion 
(M.  Sanudo,  Ih.,  439). 

L'ordine  relativo  che  regnava  in  Padova  consentì  che  i 
professori  dello  Studio  continuassero  a  svolgere  i  loro  corsi 
e  a  fare  esami.  Così  mi  risulta  che  il  Pomponazzi  il  2  luglio  1509 
era  promotore  nel  dottorato  di  Alvise  da  Brescia  (Arch.  ant. 
dell'  Univ.,  Sacro  Collegio  dei  medici  e  filosofi,  n.  220,  f. 
30 v).  Ed  altri  esami  si  tennero  anche  nei  giorni  successivi. 

Ma  i  veneziani  mal  si  rassegnavano  alla  perdita  di  Padova, 
anche  perché  sapevano  che  non  pochi  padovani  non  se  la  pren- 
devano poi  tanto  calda  per  Venezia,  e  ricordavano  che  nel 
tentativo  di  Marsilio  da  Carrara,  del  1435,  non  pochi  l'avevano 
favorito,  e  la  Signoria  per  dare  un  esempio  memorabile,  aveva 
fatto  impiccare  nel  1437  una  sessantina  di  persone,  fra  le 
quali  l'avo  di  Alberto  e  di  Pietro  Trapolin.  Perciò  si  affret- 
tarono a  ricuperare  la  città,  affidando  l' impresa  ad  Andrea 
Gritti.  Entrate  in  Padova,  il  17  luglio,  le  milizie  veneziane  si 
dettero  a  saccheggiare,  nei  giorni  seguenti,  le  case  dei  fratelli 
Trapolin  e  di  altri  padovani,  compromessi  o  sospetti,  mentre 
Alberto,  col  fratello  Roberto  e  con  Ludovico  Conte,  s'asser- 
ragliò nel  palazzo  del  Capitanio,  ove  fatto  prigione  fu  mandato 
a  Venezia,  coi  suoi  compagni,  per  render  conto  del  suo  con- 
tegno verso  la  Signoria.  È  appunto  col  ritorno  dei  veneziani 
che  cominciarono  i  maggiori  guai  per  Padova.  Nell'elenco 
delle  case  saccheggiate  che  menziona  M.  Sanudo  (Vili,  523, 
453),  figurano  quelle  dei  fratelli  Alberto,  Roberto  e  Nicolò 
Trapolin,  e  quella  di  Francesco  loro  nipote,  e  figlio  del  u  quon-  m 
dam  maistro  Pietro,  medico  ».  La  stessa  casa  di  maestro  Pietro, 
ove  viveva  la  vedova  Maria,  coi  figli  Giulio,  Alessandro  ed 
Alba,  non  fu  risparmiata,  e  pare  che  in  questo  saccheggio 
andassero  distrutti  per  intero  le  opere  manoscritte  e  i  corsi 


APPUNTI     INTORNO    A    PIETRO    TRAPOLIN  I73 

di  lezioni  da  lui  tenute.  M.  Sanudo  poi  e'  informa  (IX,  52) 
che  il  14  agosto  anche  «  Julio  Trapolin,  fo  fiol  di  missier  Piero  », 
fu  fatto  prigioniero  e  dal  capitanio  di  Padova  spedito  a  Ve- 
nezia con  altri  14  compagni  per  esser  giudicato. 

Ma  anche  ripresa  dai  Veneziani,  Padova  rimaneva  sotto  la 
minaccia  degli  imperiali  che  ne  occupavano  i  dintorni  imme- 
diati e  alla  fine  di  settembre  tentarono  di  fare  di  nuovo  irru- 
zione in  città.  Soltanto  ai  primi  di  ottobre  i  tedeschi  levarnoo 
il  campo. 

Intanto  l'università  aveva  ricevuto  un  fiero  colpo:  maestri 
e  studenti  nel  mese  di  luglio  ed  agosto  cominciarono  a  prendere 
il  largo,  e  taluni  non  vi  ritornarono  piìi,  altri  soltanto  più 
tardi.  Fra  quelli  che  non  ritornarono,  è  il  Peretto  Mantovano, 
nonostante  l' ingaggio  per  sette  anni  preso  da  lui  un  anno 
prima.  A  dir  il  vero,  il  3  aprile  gli  era  morta  la  moglie  ed  era 
rimasto  con  due  bimbette  ancora  in  tenera  età.  Nel  luglio 
o  nell'agosto,  forse  dopo  essersi  in  fretta  riammogliato  con 
Ludovica  del  nobile  Pietro  da  Montagnana,  cittadino  pado- 
vano che  ritengo  abitasse  nella  contrada  di  S.  Lucia,  lasciò 
Padova  con  la  famiglia,  forse  per  riparare  a  Mantova,  portando 
con  sé  il  ricordo  dello  Studio  patavino,  delle  battaglie  che 
v'aveva  combattuto,  degli  alunni  che  a  lungo  gli  attestarono 
la  loro  devozione,  primi  fra  tutti  Lazzaro  Bonamico  da  Bas- 
sano,  Gaspare  e  Marcantonio  Contarini,  e  dei  colleghi,  e  in 
particolare  di  quello  che  era  stato  suo  maestro  e  poi  caro 
amico,  Pietro  Trapolin.  Invece  Marcantonio  Zimara  da  S. 
Pietro  in  Galatina  già  alunno  e  poi  fiero  avversario  del  Pom- 
ponazzi,  dopo  aver  girovagato  in  patria,  a  Salerno  e  a  Napoli, 
vi  fece  ritorno  per  tre  anni  solo  nel  1525. 

Non  è  esatto  per  altro  che  lo  Studio  venisse  chiuso  per  otto 
anni,  fino  al  1517,  poiché  dagli  Ada  graduimi  dell'Archivio 
della  Curia  Vescovile  risulta  che,  per  esempio,  1'  8  maggio  15 io 
fece  il  dottorato  in  artibiis  Matteo  Binno  de'  Tomasi  figlio 
di  Maesto  Jacopo  chirurgo  veneziano,  ed  ebbe  le  insegne  da 
Nicolò  Genua  (voi.  49,  f.  4V)  ;  il  2  dicembre  1511  s'addottorò 
ugualmente  in  artibus  Girolamo  Oldoino,  e  fra  i  testimoni 
era  Marcantonio  Genua  figlio  del  dottore  Nicolò  (f .  84V)  ; 
il  13  ottobre  1512  ebbe  le  insegne  di  dottore  pure  in  artibus 
il  Magnifico  e  generoso  Francesco  del  fu  Chiarissimo  Ga- 
briele Morosini,  promotore  lo  stesso  Nicolò  Genua,  e  testi- 
moni  i   Magnifici   Giambattista   Spinelli  partenopeo,  dottore. 


174        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

cavaliere,  conte  di  Cariato  e  oratore  massimo  di  Sua  Maestà 
Cattolica,  Pietro  Duodo,  podestà  di  Padova,  Alvise  Emo, 
Capitanio,  nonché  i  Reverendi  Leonardo  Contarini,  dottore 
in  artibus,  in  teologia  e  in  decreti,  e  Girolamo  Giustinian, 
canonico  patavino  (f.  I2ir).  Ed  altri  dottorati  ebbero  luogo,, 
come  può  vedersi  negli  stessi  Ada  della  Curia  Vescovile  e 
in  quelli  più  volte  ricordati  dell'Archivio  antico  dell'  Uni- 
versità, per  quanto  lacunosi.  Certo  è,  per  altro,  che  la  at- 
tività dello  Studio,  sia  per  il  minor  numero  degli  alunni, 
sia  per  scarsità  di  buoni  maestri,  fu  assai  ridotta  fino  alla 
ripresa  del  1518.  Nel  quale  anno,  al  io  giugno  (voi.  52,  senza 
numero  dei  fogh),  troviamo  il  dottorato  in  artibus  di  Spero- 
nello  figlio  dello  Spettabile  ed  esimio  dottore  Bernardino 
Speroni,  nobile  padovano,  presenti  come  testimoni  i  Ma- 
gnifici Paolo  Donato,  podestà,  e  Marcantonio  Loredan,  de- 
gnissimo capitanio,  non  che  i  tre  nobili  veneziani  Almorò 
Donato,    Pietro   Venier,    Giacomo   Loredan. 

Dopo  la  deportazione  a  Venezia  dei  fratelli  Alberto  e  Ro- 
berto Trapolin,  del  loro  nipote  Giulio,  lìglio  di  Pietro,  e  degli 
altri  che  s'erano  compromessi  nei  fatti  di  Padova,  «  più  di  100 
per  sospetto,  oltra  li  ritenuti»  (M.  Sanudo,  IX,  73),  fu  fatto 
il  processo  a  carico  di  Alberto  Trapolin  «  fratello  di  misier 
Piero  dotor  excellentissimo,  el  qual  Alberto  era  di  XVI  al 
governo  di  Padoa,  homo  di  gran  inzegno,  et  anche  suo  avo  fo 
apicato  a  Padoa  a  tempo  di  la  novità  di  misier  Marsilio  di 
Carrara  dil  1437  »,  di  Lodovico  Conte,  «  fato  cavalier  per 
r  imperator  presente  novitev  »,  di  Bertuzi  Bagaroto,  «  dotor, 
qual  lezeva  publice  in  iure  canonico  a  Padova  et  havia  300 
ducati  a  l'anno  di  la  Signoria,  era  richo  e  famoso  »,  e  di  Gia- 
como da  Lion  «  dotor,  el  qual  fé'  la  oration  a  l' imperator 
(cioè  poco  dopo  il  6  giugno;  l'orazione  è  riportata  da  M.  Sa- 
nudo, Vili,  468-469)  quando  se  deteno  padoani,  ne  la  qual 
dice  gran  mal  de'  venitiani  ».  Il  Consiglio  dei  X  con  la  Zonta 
fu  implacabile  con  questi  quattro  padovani,  che  vennero  im- 
piccati il  sabato,  1°  dicembre  1509.  M.  Sanudo,  IX,  358-359, 
che  ci  dà  alcuni  particolari  della  loro  impiccagione,  e'  informa 
anche  che  i  loro  beni  furono  confiscati,  e  aggiunge:  «  Restane 
a  spazar  li  altri  padoani  »! 

Della  fine  d'Alberto  Trapolin  e  dei  suoi  compagni  parla 
anche  il  vicentino  Luigi  da  Porto,  che  assistè  al  supplizio 
{Lettere  storiche....  dall'anno  i^og  al  1528....  per  cura  di  B. 


APPUNTI    INTORNO    A    PIETRO    TRAPOLIN  1 75 

Bressan.  Firenze,  Le  Monnier,  1857,  lettera  ad  Antonio  Sa- 
vorgnan,  del  18  dicembre  1509,  pp.  147-153).  Del  Trapolin 
dice  «  che  era  profondissimo  filosofo  e  teneva  alquanto  del- 
l'epicureo »,  sì  che  «  pareva  che  non  accettasse  con  tanta  ri- 
verenza, né  con  tanto  desìo  le  cose  sante  dette  da'  religiosi 
con  quanto  gli  altri  facevano;  ma  taciturno,  ovvero  dicendo 
alcuna  fiera  parola  contro  i  Viniziani,  aspettava  l'ora  del 
fine  suo».  E  dinanzi  alle  forche,  «voltato  messer  Bertucci  al 
Trapelino  disse:  '  Ecco  il  legno  della  nostra  croce  '.  '  Ecco 
—  rispose  egli  —  il  luogo  dove  la  nostra  innocente  vita  da 
una  ingiusta  morte   sarà  terminata  '  ». 

Pare  invece  che  Roberto  e  Nicolò,  altri  fratelli  di  Pietro, 
e  il  figlio  di  questo,  Giulio,  se  la  cavassero  a  buon  mercato. 
Poiché  di  Nicolò  ci  vien  narrato  (Papadopoli,  Hist. 
gymnasii  patav.  t.  II,  210,  n.  85)  che  andò  in  Germania  al 
seguito  dell'  Imperatore  Massimiliano,  da  cui  ebbe  onori,  e 
quindi  si  mise  al  servizio  di  Carlo  V,  prese  parte  all'espu- 
gnazione di  Tunisi,  della  quale  scrisse  la  storia;  infine  si  ricon- 
ciliò, già  vecchio,  con  Venezia,  e  potè  ritornare  a  Padova, 
ove  morì  a  94  anni  nel  1559.  Di  Roberto  Trapolin  consta 
(Padova,  Arch.  di  Stato,  Estimo  1518,  voi.  288  (289),  Polizze 
della  Città,  Polizza  49,  presentata  il  29  sett.  1518)  che  nel 
15 18  si  trovava  ad  «  bavere  5  fioli,  4  menori,  de  li  quali.... 
tre  fiole  da  maridare  ».  e  che  egli  era  «  confinato  in  Venetia, 
dove  sto  —  egli  diceva  —  cum  spesa,  né  posso  veder  li  fatti 
miei  et  convegno  pagar  uno  fator  et  ogni  cosa  me  va  in  ruina  ». 
Il  31  luglio  1543  egli  era  già  morto  poiché,  Trapolin  de'  Tra- 
polin suo  figlio  presenta  a  nome  degli  eredi,  a  questa  data, 
la  prescritta  dichiarazione  all'ufficio  dell'estimo.  Di  Giulio  con- 
sta che  nell'ottobre  1515,  insiem.e  al  fratello  Alessandro,  ebbe 
procura  dalla  madre.  Maria  del  fu  Francesco  de'  RoselH,  nella 
causa  che  questa  aveva  intentato  per  l'eredità  paterna.  Gli 
stessi  Giuho  e  Alessandro  compaiono  ancora  insieme  alla 
madre  nel  contratto  di  nozze,  del  7  giugno  1518,  della  loro 
sorella  Alba  col  nobile  padovano  Gaspare  del  fu  Daniele 
Buzacarini,  abitante  nella  contrada  di  S.  Agnese  (Padova, 
Arch.  di  Stato,  Sez.  notar.,  Not.  Alessandro  Bragadin,  voi  1391, 
f.  48ir).  Ma  Giulio  morì  a  44  anni  nel  1529,  cioè  l'anno  stesso 
in  cui  sarebbe  morto  l'altro  fratello,  Antonio,  secondo  il  Fac- 
ciolati,  e  fu  sepolto  a  S.  Francesco,  insieme  al  padre,  prima 
che  la  tomba  di  famiglia  dei  Trapolin  divenisse  proprietà  dei 


176        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

nobili  De  Lazzara,  figli  di  Marina  Trapolina,  che  non  è  detto 
in  quali  relazioni  di  parentela  fosse  col  filosofo  e  i  suoi  eredi 
(lac.  Salomonio,  Urbis  patav.  Inscriptiones,  Padova,  1701, 
p.  343,  n.  102).  Alessandro  invece  era  ancora  vivo  nel  1548, 
quando,  insieme  a  M.  Antonio  e  Pietro,  nipoti  del  filosofo, 
provvide  a  far  trasportare  nella  chiesa  dei  Carmini  le  ossa 
del  padre  e  della  madre  e  di  altri  suoi  maggiori,  in  una  tomba 
che  avesse  da  accogliere  lui  e  tutti  i  suoi,  come  si  legge  nel- 
r  iscrizione  riportata  dagli  storici  di  Padova  (PapadopoU, 
Hist.  gymnasii  patav.,  I,  p.  293,  n.  30);  anzi,  dalla  già  citata 
Polizza  49  dell'  Estimo  del  1518  risulta  ancor  vivo  il  3  mag- 
gio 1569. 

E  Francesco  Trapolin,  che  sull'esempio  paterno  insegnò  a 
Padova  prima  la  logica,  indi  la  filosofia  naturale,  e  di  poi  la 
medicina  ?  I  documenti  padovani  tacciono  di  lui,  dopo  il  sac- 
cheggio della  sua  casa  nel  luglio  1509.  Può  darsi  ci  sia  qualcosa 
di  vero  nella  notizia  raccolta  anche  dal  Portenari,  Della  jelic. 
di  Padova,  p.  251,  che  egli  andasse  a  legger  medicina  a  Firenze. 
G.  Cesare  Scaligero,  De  subtilitate,  CLII,  dist.  i,  pretende  di 
sapere  che  «  Francesco  Trapolin,  precettore  di  Pietro  Pom- 
ponazzi,  che  anche  un'altra  volta  lo  Scaligero  chiama  suo 
precettore,  morì  per  aver  mangiato  un  intingolo  ove  la  do- 
mestica aveva  messo  della  cicuta  invece  di  prezzemolo.  Se 
non  che  precettore  del  Pomponazzi  non  fu  Francesco  Trapolin, 
ma  Pietro,  il  padre.  Lo  Scahgero,  o  meglio  Giulio  di  Benedetto 
Bordone,  addottorato  in  artihus  a  Padova  il  22  giugno  1519, 
mostra,  anche  per  questa  confusione,  di  riferire  dopo  molti 
anni  una  voce  raccolta  per  sentito  dire.  Certo  è  invece,  per 
l'attestazione  dell'Estimo  citato  (Polizza  51),  che  la  «  nobele 
Madonna  Maria  Trapolina  »  era,  nel  settembre  1518,  «  tu- 
trize  et  gubernatrice  de  i  fioli  del  q.  messer  Francesco  Tra- 
polin, q.  m.  piero....  )>.  A  questa  data  dunque  Francesco  era 
morto.  E  forse  suo  figlio,  se  non  di  Alessandro  o  di  Giulio, 
potrebbe  essere  quel  Pietro  Trapolin  che  figura  come  nipote 
nell'epigrafe  sepolcrale  dei  Carmeni  e  fa  denuncia  dei  suoi 
beni  all'ufficio  dell'  Estimo  il  30  marzo  1569  (Polizza  52,  f.  7). 
Costui  è  sicuramente  l'autore  delle  21  lettere  originaH  scritte 
fra  il  7  aprile  1556  e  il  2  marzo  1574,  a  Gian  Francesco  Mus- 
sato nel  Ms.  619,  2,  della  Biblioteca  del  Seminario  di  Padova. 

A  questo  figliuolo  Pietro  Trapolin  aveva  trasmesso,  col  con- 
ferimento delle  insegne  dottorali  in  filosofia,  e  in  medicina  il 


APPUNTI    INTORNO    A    PIETRO    TRAPOLIN  I77 

meglio  della  sua  arte,  ed  egli  avrebbe  dovuto  custodirne  l'ere- 
dità spirituale.  Invece  l'oblio  colse  il  figlio  anche  prima  del 
padre.  Poiché  se  di  quello  resta  appena  il  nome  nelle  carte 
sbiadite  della  Curia  Vescovile  e  dell'Archivio  antico  dell'  Uni- 
versità di  Padova,  di  questo  ci  son  pervenuti  almeno  i  pochi 
frammenti  menzionati  in  principio,  insieme  alla  gloria  d'es- 
sere stato  ricordato  dal  suo  grande  discepolo  ed  amico  Pietro 
Pomponazzi  come  suo  precettore  (Prologo  al  De  incantatio- 
nihiis)  :  «  Dicisque  ulterius  te  quandam  responsionem  alias 
a  Petro  Therapolino  patavo,  nostro  communi  praeceptore, 
audivisse,  quam  ipse  Alberto  ascribebat....  ». 

Queste  parole  sono  rivolte  a  Ludovico  Panizza,  cui  il  Pe- 
retto  indirizzava  la  sua  opera;  sebbene  dalle  stampe  non  ap- 
paia, è  attestato  però  dal  codice  Ambrosiano  di  essa.  Ludo- 
vico Panizza,  mantovano,  era  studente  a  Padova  negli  ultimi 
anni  del  Quattrocento  e  nei  primi  del  Cinquecento;  e  nel 
voi.  47,  più  volte  citato,  di  quella  Curia  Vescovile  (f.  278V),  c'è 
anche  il  verbale  del  dottorato  «  in  artibus  et  Medicinis  D.  M.ri 
Ludovici  panicia  Mantuani,  filij  D.  Dominici  de  panici] s  », 
ov'  è  detto  che  dell'uno  e  dell'altro  grado  accademico  «  habuit 
insignia  a  D.  M.ro  Petro  trapolino  ».  Fra  i  testimoni  figura 
al  primo  posto  Pietro  Pomponazzi,  «  artium  doctor,  ordina- 
riam  philosophiam  legens  ».  Il  Paniza  è  autore  di  tre  opere  a 
stampa:  di  una  Qnestio  de  phlebotomiis  fiendis  (Venetiis,  per 
Bernardinum  Benalium,  M.  D.  XXXII),  dedicata  al  duca 
Federico  Gonzaga,  e  di  un  Commentarium  de  venae  sectione  per 
sex  egregios  et  praeclaros  iudices  diindicatum,  cui  si  trova  ag- 
giunto dello  stesso  autore  il  Lihellus  de  minoratione  ex  visce- 
ribtts....  ad  Herndem  Gonzagam  Principem  iustissimum  et 
Cardinalem  amplissinitmi  (Venetiis,  MDXLV).  Quest'ultimo 
volume  ha  in  principio  un  bel  ritratto  dell'autore  e  una  ta- 
vola raffigurante  i  sei  medici  e  filosofi  in  atto  di  giudicare  e 
approvare  la  sua  opera.  Nella  Qnestio  de  phlebotomiis ,  scritta 
contro  un  chiarissimo  medico  del  quale  non  è  indicato  il  nome, 
accade  al  Panizza  di  ricordare  l'antico  maestro  che  gli  aveva 
conferite  le  insegne  dottorali.  Accennando  ad  Avicenna  che 
fu  il  migliore  seguace  d'Aristotele,  dal  quale  discorda  solo 
«in  paucissimis  admodum  rebus»,  egli  continua  (f.  e.  4r; 
Sectio  II,  cap.  7): 

Ideo    Trapolinus,    preceptor    meiis,    sue    etatis    philosophorum 
ac    medicorum    gloria,    autoritate    Girardi    bolderii    Veronensis, 

12 


lyS        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

hanc  dicebat  profitentibus  arteni:  '  Insequimini  Avicennam, 
primo;  insequimini  Avicennam,  secundo;  insequimini  Avicen- 
nam, tertio  !  '. 

E  un  po'  più  giù  (f.  g.  2v  cap.  24),  a  proposito  d'un'argo- 
mentazione  «  subtilissima  et  tota....  metaphisicalis  »,  osserva: 

Ex  quo  non  mirum  si  medici  ista  non  intellexere,  artifices 
sensitivi  grossique  cum  sint;  stat  enim  in  abstractis  a  materia.... 
Sed  ex  sententia  perspicui  speculatoris  Petri  trapolini,  artifices 
huius  artis  res  tales  e  suis  expellere  mentibus  tenentur,  cum  me- 
dicina sit  de  immersis  in  materia  et  quandoque  feculenta  et  turpi. 

Ma  se  il  Paniza  ricorda  il  Trapolin  come  insigne  medico, 
M.  Antonio  Genua,  figlio  di  Nicolò  che  del  Trapolin  era  stato 
collega  per  molti  anni,  continuò  a  ricordarlo  (sicuramente 
l'aveva  conosciuto  da  ragazzo)  anche  come  filosofo  di  tendenze 
moderatamente  averroistiche,  insieme  al  Pomponazzi,  nel 
commento  al  De  anima,  stampato  postumo  (a  Venezia  nel  1576), 
ma  composto  almeno  un  ventennio  prima. 

Altre  notizie  su  questo  maestro,  amico  e  collega  del  Peretto 
Mantovano  non  sono  riuscito  a  rintracciare,  ed  ho  riunite 
quelle  che  ho  trovato  per  chi,  come  dicevo  e  come  mi  auguro, 
vorrà  intraprendere  più  ampie  ricerche  sullo  Studio  patavino 
nel  Rinascimento.  Intanto  son  lieto  di  potere  annunziare  che 
altre  notizie  e  documenti  sulla  famiglia  Trapolin,  coinvolta 
nelle  vicende  di  Padova  al  momento  della  guerra  per  la  lega 
di  Cambrai,  il  lettore  potrà  trovare  nella  A  Criticai  Edition 
of  the  «  Lettere  Storiche  »  0/  Litigi  da  Porto,  a  cura  di  Cecil 
H.  Clough,  in  corso  di  stampa  presso  1'  University  Press  di 
Oxford. 


vili 

I  QU  OLI  BETA  DE  INTELLIGENTIIS 
DI  ALESSANDRO  ACHILLINI  * 


I.  -  Se  a  Padova  il  decreto  episcopale  del  6  maggio  1489, 
vietava  di  disputare  «  quovis  quaesito  colore  »,  sotto  qualsiasi 
pretesto,  della  dottrina  averroistica  dell'  intelletto,  meno 
che  per  combatterla,  e  maestro  Nicoletto  da  Chieti  e  il  suo 
discepolo  Agostino  Nifo  da  Sessa  si  affrettavano  a  recitare  la 
loro  palinodia,  e  la  penna  a  impugnare  l'averroismo  brandiva 
anche  lo  scotista  francescano  Antonio  Trombetta  i,  a  Bologna, 
sotto  la  liberale  signoria  dei  Bentivoglio,  Alessandro  Achillini 
potè  liberamente  discutere,  al  capitolo  generale  dei  francescani 
tenuto  in  questa  città,  sotto  il  generalato  di  Francesco  San- 


*  Dal  voi.  Sigieri  di  Brab.  nel  pens.  del  Rinasc.  Ital.,  cit.,  pp.  45-90. 

I  II  francescano  frate  Antonio  Trombetta,  ordinario  di  Metafìsica  invia 
Scoti  a  Padova,  aveva  scritto,  prima  del  Vernia,  un  Tvactatiis  de  humana- 
ruiìi  animarmn  plurificatioiie  coìitra  Averroistas,  che  sarà  poi  pubblicato  a 
Venezia,  per  Bonetum  Locatellum,  nel  1498,  col  quale  scendeva  in  lizza  in 
difesa  della  proibizione  del  vescovo  P.  Barozzi.  Il  Wadding,  Scriptoves 
Ordinis  Minornni,  Roma,  1906,  p.  30,  e'  informa  che  taluni,  anzi  che 
col  nome  volgare  di  Trombeta  o  Trombetta,  preferivano  «  cultu  quodam 
latino  »  di  chiamarlo  con  quello  di  Tubefa;  e  Antonio  Tubefa  è  chiamato 
anche  nell'epitaffio  sepolcrale  nella  chiesa  di  S.  Antonio  a  Padova, 
che  il  Wadding  riporta.  Sul  finire  delle  Questione s  de  pliiritate  etc, 
cominciate  nel  settembre  1492  e  pubblicate  nel  1499  (v.  sopra, 
p.  108),  il  Vernia  scriveva  (f.  92)  :  «  Si  quis  vero,  per  resolutionem 
ad  immediata  et  per  divisionem  ad  minima,  argumentationes  contra 
Averroym,  in  hoc  quinto  [commento]  philosophice  discipline  depra- 
vatorem,  videre  desiderat,  videat,  opus  contra  ipsum  reverendi  sacre 
pagine  magistri  Antoni]  Trombetta,  philosophi  integerrimi  et  theologi 
excellentissimi,  provincie  sancti  Antoni]  Patavini  ministri  meritissimi. 
Nam  frustra  visum  est  mihi  tangere  que  ab  eo  mihi  amicissimo  sunt 
optime  declarata  ».  E  il  Trombetta,  che  è  il  primo  dei  tre  revisori  del- 
l'opera del  \  ernia,  rende  testimonianza,  a  sua  volta,  al  sapere  del  col- 
lega e  alla  fede  di  lui,  si  da  procacciargli  l'approvazione  del  sospettoso 
Barozzi. 


l8o        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

sone,  il  primo  giugno  1494,  presenti  forse  il  Nifo  e  Giovanni 
Pico  della  Mirandola,  i  suoi  Quoliheta  de  intelligentiis  ^,  in 
difesa  della  sua  interpretazione  sigieriana  della  dottrina  aver- 
roistica,  portata  alcuni  anni  più  tardi  a  Padova  dal  suo  «  fìdus 
Achates  »,  Tiberio  Bacilieri,  e  da  lui  stesso,  e  a  Padova  pro- 
fessata da  Geronimo  Taiapietra  e  da  Lorenzo  Venier  3,  quando 
ormai  il  Nifo,  che  n'era  stato  propugnatore  fin  dai  primi  anni 
del  suo  insegnamento  padovano  -,  l'aveva  apertamente  ri- 
pudiata. 

In  quest'opera  l'Achillini  è  sigieriano  da  principio  alla 
fine,  sebbene  egli,  secondo  un  costume  molto  diffuso,  non 
faccia  mai  il  nome  dell'averroista  brabantino  né  d'alcun 
altro,  tranne  si  tratti  di  Aristotele  o  d'Averroè  o  d'altra  auto- 
rità pari  a  queste.  E,  cosa  notevole,  le  opere  di  Sigieri  cui  egli 
attinge,  sono  quelle  stesse  dalle  quali  il  Nifo  prende  le  citazioni 
che  ho  riferito  nel  volume  su  Sigieri  di  Brahante  nel  pensiero 
del  Rinascimento  Italiano:  il  che  si  presterebbe  a  varie  con- 
getture. 

Come  sappiamo,  le  tesi  difese  da  Sigieri  nel  suo  trattato  De 
intellectu,  scritto  in  risposta  al  De  imitate  intellectiis  di  S.  Tom- 
maso,  erano   queste: 

i)  r  intelletto  possibile  è,  in  sé  stesso,  l' infima  delle  so- 
stanze separate,  ed  è  unico  per  tutta  la  specie  umana  4; 

2)  l'anima  intellettiva  dell'uomo  risulta  dall'unione  del- 
l' intelletto  possibile,  separato  ed  eterno,  colla  «cogitativa»  che 


2  Alexandri  Achillini  bononiensis  de  intelligentiis  quolibeta  in 
quibus  quid  commenta[for]  et  Aristoteles  senserint  et  in  quo  a  veritate 
deviaverint  continetur.  Anno  domini  Mcccclxxxxiiij  Kalendis  iuniis  in 
capitulo  generali  minorum  edita  et  impressa  Bononie  impensis  Bene- 
dicti  Hectoris  [Faelli]  Bononiensis,  illustrissimo  Ioanne  secundo  Ben- 
tivolo  reipublice  Bononiensis  habenas  felicitar  moderante.  La  seconda 
edizione,  fatta  presso  lo  stesso  editore  Faelli,  porta  la  data  del  5  marzo 
1506,  ed  è  dedicata  al  conte  Annibale  Rangoni,  che  giovinetto  aveva 
udito  l'Achillini  disputare  intorno  agli  argomenti  trattati  nel  libro  ed 
aveva  preso  attiva  parte  alle  dispute.  Intorno  al  Rangoni,  cfr.  G.  Ti- 
RABOSCHi,   Biblioteca  Modenese,   t.   IV,    1783,   pp.   252-256. 

3  Per  il  Taiapietra,  vedi  più  oltre  il  saggio  X.  Per  Lorenzo  Venier, 
allievo  del  Bacilieri,  è  da  vedere  il  volume  di  Nicolò  Bonet,  Metaphys., 
naturai.  Philos.,  Praedicam.,  necnon  Theol.  natur.  Recogn.  ...  per  magnif. 
dom.  Laurentium  Venerium....  Venetiis,  Eredi  di  Ottav.  Scoto,  1505, 
con  lettera  del  Bacilieri  al  Venier,  e  dedica  di  questo  al  doge  Leonardo 
Loredan.  Le  note  marginali  del  Venier  risentono  dell'  insegnamento 
del  suo   maestro  bolognese. 

4  Nifo,  De  intellectu,  I,  tr.  3,  e.  18;  tr.  4,  e.  io;  II,  II,  tr.  2,  e.  11; 
De   anime   beatit.,    I,    comm.    53;    cfr.    Sigieri  ìiel  pens.,  pp.  16,  18-19. 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  l8l 

è  la  più  alta  delle  facoltà  di  cui  sia  dotata  l'anima  sensitiva 
dei  singoli  5  ; 

3)  in  questa  unione  coi  singoli  l' intelletto,  uno  in  sé, 
acquista  un'esistenza  individuale  e  molteplice,  pari  al  numero 
dei  singoli  ^  ; 

4)  mercé  questa  unione,  l'anima  intellettiva  può  dirsi 
forma  sostanziale  «inerente»  all'uomo,  e  non  soltanto  forma 
«assistente»;  sì  che  da  essa  l'uomo  trae  il  suo  essere  specifico  di 
animale  ragionevole  7  ; 

5)  r  intelletto  possibile  è  pura  potenza  priva  di  ogni  atto 
sostanziale;  soltanto  grazie  all'azione  dell'intelletto  agente 
la  sua  potenza  è  gradualmente  attuata  8; 

6)  r  intelletto  agente  è  Dio  ;  ma  esso  può  dirsi  parte  della 
anima  umana  in  quanto  concorre  all'atto  dell'  intendere 
umano  e  alla  fine  dello  sviluppo  intellettuale  dell'uomo  s'unisce 
all'intelletto  possibile  come  forma  9; 

7)  r  intelletto  umano  può  arrivare  a  conoscere  le  sostanze 
separate  e  Dio  per  unione  intenzionale  colla  loro  essenza  '". 

Nel   «  libello  »   De  felicitate,   poi,   l'averroista  del  Brabante 
aggiungeva   quest'altre    tesi: 

8)  nell'atto  intellettuale  col  quale  l' intelletto  possibile 
intende  nella  sua  essenza  V  intelletto  agente,  cioè  Dio,  con- 
siste formalmente  la  suprema  felicità  dell'uomo  in  questa  vita"  ; 

9)  al  pari  dell'  intelletto  umano,  anche  le  altre  intelli- 
genze separate  conseguono  la  loro  beatitudine  nell'atto  col 
quale  intendono  l'essenza  divina  i-  ; 


5  NiFO,  De  iutell.,  I,  tr.  3,  e.  18;  De  anima,  comm.  ad  III,  t.  e.  5;. 
cfr.  Sigieri,  pp.    15-ig. 

6  NiFO,  De  intell.,  I,  3,  e.  18  e  26;  De  a>iima,  comm.  ad  III,  t.  e.  5: 
cfr.    Sigieri,   pp.    15-20. 

7  NiFO,  De  ititeli.,  l,  tr.  2,  e.  8;  tr.  3,  e.  18  e  26;  De  anima,  comm. 
ad  III,  t.  e.  5;  cfr.  Sigieri,  pp.  15-20. 

8  NiFO,  De  intell.,  I,  tr.  3,  e.  18;  tr.  4,  e.  io;  De  anima,  collect. 
ad  III,  t.  e.  14;  cfr.  Sigieri,  De  anima  intell.,  IX  (Mandonnet,  Sig. 
de  Brabant  et  l'averr.  latin,  llème  partie,  Louvain,  1908,  p.  171),  e  la 
quarta  delle  sei  Qitaestiones  naturales  edite  dallo  Stegmùller,  in  Rech. 
de  tìiéol.  anc.  et  méd.,  III,  1931,  pp.  179-180.  Cfr.  Sigieri,  pp.  17,  21,  28. 
Vedasi   anche    Giorn.    Crit.,    XX,    1939,    pp.    467-471. 

9  NiFO,  De  intell.,  I,  tr.  4,  e.  io;  II,  tr.  2,  e.  17;  cfr.  Sigieri,  pp.  24-26. 

10  NiFO,  De  intell.,  II,  tr.  2,  e.  11;  De  anime  beatit.,  I,  comm.  53; 
V.   Sigieri,  p.   21. 

"  NiFO,  De  intell.,  II,  tr.  2,  e.  2;  De  anime  beat.,  II,  comm.  21; 
V.    Sigieri,   pp.    24-27. 

12  NiFO,  De  intell.,  II,  tr.  2,  e.  2  e  17;  De  anime  beatit.,  II,  comm.  21; 
De  anima,  collect.  ad  III,  t.  e.   14;  v.   Sigieri,  pp.   25-27. 


102        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

io)  sì  per  r  intelletto  umano,  sì  per  le  altre  intelligenze 
separate,  «intellectio  qua  Deus  intelligitur  est  ipse  Deus» '3. 

Ora  tutte  queste  tesi  son  difese  dall' Achillini  nei  suoi  Qtioli- 
heta  de  intelligentiis;  anzi  la  massima  parte  di  quest'opera  del 
maestro  bolognese  è  dedicata  alla  trattazione  di  questi  dieci 
punti  svolti  negli  scritti  di  Sigieri,  dei  quali  il  Nifo  ci  ha  ri- 
velato l'esistenza;  il  che  m'  ha  recato,  quando  ho  potuto  ren- 
dermene conto,  non  poca  sorpresa. 

La  trattazione  dell'Achillini  verte  intorno  a  questo  problema 
fondamentale  :  «  Utrum  latitudo  intellectuum  sit  uniformiter 
difformis  ».  Per  intendere  l'esatto  signiiìcato  di  questo  pro- 
blema, giova  ricordare  alcune  cose.  È  noto  che  Anassagora,  a 
spiegare  l'origine  del  movimento  fisico  che  separa  i  semi  delle 
cose  dal  \ny\La.  nel  quale  eran  tutti  confusi,  e  per  dar  ragione 
dell'ordine  che  s'osserva  nella  natura,  sentì  il  bisogno  di  porre 
una  mente  ordinatrice,  «non  mista  perché  dominasse ))i4. 
Ma  parve  a  Platone  e  ad  Aristotele  che,  pur  avendo  affer- 
mato un  così  operoso  principio,  Anassagora  non  ne  traesse 
tutto  il  vantaggio  che  poteva  e  non  gli  attribuisse  quella 
causalità  che  gli  sarebbe  spettata  nell'ordinamento  delle  cose. 
Perciò,  il  primo  ad  ogni  specie  di  cose  nel  mondo  sensibile 
fece  corrispondere  una  propria  idea  nel  mondo  del  pensiero; 
ed  il  secondo  pose  tante  menti  separate  quanti,  a  suo  modo 
di  vedere,  sono  i  movimenti  celesti.  Anzi  che  un  solo  intelletto, 
abbiamo  così  per  Aristotele  una  gerarchia  d' intelhgenze,  com- 
prese fra  due  termini  estremi:  l'intelletto  umano  in  basso,  e 
la  mente  del  primo  Motore  immobile,  puro  pensiero,  al  vertice. 
Come  le  idee  dei  generi  e  delle  specie  hanno  una  maggiore  o 
minore  estensione,  così  questi  intelletti  hanno  una  maggiore 
o  minore  capacità  d' intendere,  in  rapporto  alla  funzione  che 
ad  essi  è  riservata  come  motori;  poiché  non  va  mai  dimenti- 
cato che  solo  per  mezzo  del  movimento  Aristotele,  al  pari  di 
Anassagora,  era  giunto  ad  affermare  l'esistenza  d'una  prima 
Mente  motrice  dell'universo  e  di  altre  menti  intermedie  fra 
quella  e  il  mondo  della  generazione,  aventi  l'ufficio  di  adattare 
r  impulso  che  viene  dal  primo  Motore,  a  particolari  fini  su- 
bordinati al  fine  supremo.  Perciò  la  prima  Mente  è  intelli- 
genza al  massimo  grado,    mentre  gli  altri  intelletti,  giù  giù 


^3  Luoghi  cit.  nella  nota  preced. 

14  ARisT.,  De  anima,   III,  e.  4,   429^  19. 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  183 

di  cielo  in  cielo,  fino  all'  intelletto  umano,  possiedono  una 
capacità  d' intendere  sempre  più  limitata.  Rappresentandosi 
r  intelligenza  a  guisa  d'una  qualità,  per  esempio,  d'un  colore, 
di  cui  s'  hanno  molti  gradi  d' intensità,  da  quello  piìi  cupo  a 
quello  più  chiaro,  gli  scolastici  dal  secolo  XIV  al  XVI  solevano 
chiamare  latitudo  l'estensione  compresa  fra  la  cosa  che  pos- 
siede quella  data  qualità  nel  minimo  grado,  e  la  cosa  che  la 
possiede  nel  grado  più  alto  e  più  intenso:  perciò  la  latitudo 
dell'intelligenza  non  è  altro,  come  dice  l'Achilliniis,  se  non  la 
gerarchia  stessa  degl'  intelletti,  avente  il  grado  più  basso  o  più 
dimesso  nell'  intelletto  umano,  e  il  grado  più  alto  o  più  intenso 
neir  intelletto  divino.  Chiedersi  se  la  latitudo  degl'  intelletti 
sia  «  uniformiter  difformis  »,  significa  per  lui  domandarsi  se 
le  varie  intelligenze  differiscon  fra  loro  per  gradi  uguali  op- 
pure  no  16. 

Ma    per    risolvere    siffatto    problema,    è    necessario    vedere 
qual'  è  la  natura  propria  dei  singoli  intelletti  compresi  nella 


15  «  Latitudo  intellectuum  est  ipsi  intellectus  ordinati  secundum 
quod  ex  se  sunt  ordinabiles  ».  De  intelligentiis,  quol.  I,  in  Alex.  Achil- 
LiNi,  Bononiensis,  philophi  celeberrimi.  Opera  omnia  in  iDium  collecta.... 
cum  annotationibus  excell.  doctoris  Pamphili  Montij,  Bononiensis, 
scholae  Patavinae  publici  professoris.  Venetijs,  apud  Hieronymum 
Scotum,  MDXLV,  fol.  i,  col.  i.  A  questa  edizione  mi  riferisco  anche 
nelle  citazioni  successive,  per  ragioni  di  comodità. 

16  In  un  trattatello  De  latitudinibus  formarum,  più  volta  stampato 
dal  i486  in  poi  sotto  il  nome  di  Nicolò  d'Oresme,  si  leggono  in  principio 
queste  definizioni  che  giova  tener  presenti  :  «  Latitudo  uniformis  est 
illa  que  est  eiusdem  gradus  per  totum  ».  «  Latitudo  difformis  est  que 
non  est  eiusdem  gradus  per  totum  ».  Questa  si  divide  come  segue: 
«  Latitudo  secundum  se  totam  difformis  est  cuius  nulla  pars  est  uni- 
formis »;  «  latitudo  non  secundum  se  totam  difformis  est  illa  cuius  aliqua 
pars  est  uniformis».  La  «latitudo  uniformiter  difformis»  è  una  sotto- 
specie della  «  latitudo  secundum  se  totam  difformis  »,  ed  è  precisamente 
quella  «  cuius  est  equalis  excessus  graduum  Inter  se  equaliter  distan- 
tium  »  {Tractatus  de  latidinibus  formarum  secundum  Reverendum  dodo- 
rem  magistrum  Nicholaum  Horen,  Venezia,  1505,  [fol.  27]).  Sul- 
l'autore di  questo  piccolo  trattato,  l'eremitano  Iacopo  di  San  Martino, 
detto  anche  Iacopo  da  Napoli,  il  quale  riassunse  e  schematizzò,  non  del 
tutto  fedelmente,  un  più  ampio  trattato  di  Nicolò  d'Oresme,  come  sul 
sommento  di  Biagio  Pelicani  da  Parma  che  insegnò  anche  a  Padova  e 
a  Bologna,  e  in  generale  sul  tentativo  di  costituire  verso  la  metà  del 
sec.  XIV  un  metodo  matematico  per  il  calcolo  dell'  intensità  delle  qua- 
lità non  solo  corporee  ma  anche  spirituah,  completa  luce  ha  fatto  la 
Dott.  Anneliese  Maier,  nella  sua  opera  An  der  Grenze  von  Scholastik 
iind  Naturwissenschaft.  Roma,  Ediz.  di  Storia  e  Letter.,  1952.  pp.  257-384, 
che  è  uno  dei  più  seri  e  documentati  contributi  allo  studio  della  filosofia 
della  natura  nel  secolo  XIV,  condotto  con  rara  conoscenza  delle  fonti 
manoscritte,  e  perfetta  intelligenza  dei  problemi  trattati. 


184        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

latitudo  di  quella  perfezione  o  qualità  che  dicesi  intelligenza:  e 
segnatamente  se  il  primo  e  più  alto  intelletto  sia  intelligenza 
infinita.  Nel  qual  caso,  è  evidente  che  la  latitudo  dell'  intelli- 
genza sarebbe    infinita. 

Occorre  pertanto  chiedersi  in  primo  luogo  se  il  primo  Mo- 
tore, cioè  Dio,  muova  l'universo  con  vigore  o  virtù  intensiva- 
mente infinita,  e  sia  perciò  di  vigore  intensivamente  infinito. 
Per  intendere  il  significato  del  qual  problema,  è  necessario 
ricordare  che  l'argomento  principale,  col  quale  Aristotele  era 
salito  a  Dio,  è  quello  del  moto,  come  abbiamo  già  osservato: 
Dio  è  essenzialmente  il  primo  Motore  immobile  dell'  universo, 
è  l'universo  è  il  mosso.  Ora  l'universo,  per  Aristotele  come 
pei  Pitagorici,  è  una  sfera  di  raggio  finito,  avente  per  centro 
assoluto  la  terra  e  per  limite  esterno  il  cielo  delle  stelle  fisse. 
Finito  nella  mole,  il  mondo  si  muove  con  moto  finito  in  ve- 
locità, e  infinito  soltanto  in  durata,  poiché  l'universo  è  eterno. 
Dall'  intensità  del  moto  dell'universo  non  si  può  dunque  ar- 
guire ad  un'  infinità  intensiva  della  virtù  o  vigore  con  cui  Dio- 
muove  il  mondo.  Ed  infatti  Averroè  dice  espressamente  in 
più  luoghi  17,  che  v'  è  proporzione  tra  l' intensità  di  vigore  nel 
movente  e  la  velocità  del  mosso;  sì  che  un'azione  d'intensità 
infinita  e  d' infinito  vigore  non  può  esser  ricevuta  in  un  corpo 
di  grandezza  finita.  Se  il  primo  Motore  movesse  il  cielo  con 
virtù  intensivamente  infinita,  questo  dovrebbe  muoversi  con 
velocità  infinita  in  un  solo  istante.  S.  Tommaso  credette  di 
potersi  sottrarre  alla  conclusione  cui  era  giunto  Averroè,  con- 
cedendo che  tutto  ciò  è  vero  dei  motori  naturali  che  mettono 
nel  muovere  tutta  la  forza  di  cui  sono  capaci;  ma  non  è  vero 
dei  motori  che  agiscono  con  intelletto  e  libera  volontà,  qual 
è  Dio.  Il  primo  Motore  dell'universo,  per  l'Aquinate,  appunto 
perché  dotato  d' intelligenza  e  di  libero  volere,  comunica  al 
mondo  quel  tanto  di  movimento  che  meglio  si  conviene,  in 
rapporto  al  fine  che  si  propone  di  raggiungere  e  alla  capacità 
limitata  del  mosso;  ma  questo  non  implica  che  vi  sia  una 
proporzione  necessaria  tra  la  quantità  di  movimento  ricevuta 
dal  mondo  e  la  virtù  del  primo  Motore,  l' infinità  della  quale 
può   dimostrarsi  per  altra  via  i^. 


17  AvERR.,  Phys.,  Vili,  comm.  79;  De  caelo,  II,  comm.  38-39,  63,  71  ; 
Metaph.,   XII,   41;   De  substantia  orbis,  cap.   3. 

18  S.  Tommaso,  Phys.,  Vili,  lez.  21,  ad  t.  e.  79. 


I 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGEN TIIS  »  185 

La  proposizione  29^  delle  219  condannate  a  Parigi  nel  1277, 
suona  così: 

Quod  Deus  est  infinitae  virtutis  in  duratione,  non  in  actione, 
quia  talis  infinitas  non  est  nisi  in  corpore  finito,  si  esset. 

E  di  nuovo  la  proposizione  62^: 

Quod  Deus  est  infinitae  virtutis,  non  quia  facit  aliquid  de 
nihilo,    sed   quia   continuat   motum   infinitum  '9. 

La  condanna  di  queste  due  proposizioni  è  sicura  prova  che, 
anche  su  questo  punto,  gli  averroisti  parigini  accettavano 
r  interpretazione  che  Averroè  aveva  dato  del  pensiero  d'Ari- 
stotele. Era  di  questo  avviso  anche  Sigieri  ?  «  De  ista  quae- 
stione  »,  —  e'  informa  Giovanni  di  Jandun  -o  —  «  credunt 
magni  viri  in  philosophia,  Philosophum  et  maxime  Commen- 
tatorem  veritati  catholicae  adversari  ».  Che  egli  alluda  a  S. 
Tommaso  non  è  possibile,  poiché  l'Aquinate  scagionava  Ari- 
stotele da  quest'accusa  d'opporsi  alla  verità  della  fede  su 
quest'argomento.  Doveva  dunque  trattarsi  d'averroisti.  Ora 
«  vir  magnus  in  philosophia  »  è  titolo  che  troviamo  dato  a 
Sigieri.  Parrebbe  dunque  che  Sigieri  accettasse  l' interpreta- 
zione averroistica  della  dottrina  aristotelica  in  proposito. 
Il  che  è  confermato  anche  dall'ultima  citazione  che  del  bra- 
bantino  abbiamo  trovato  nel  De  primi  Moforis  infinitate  del 
Nifo.  A  quanto  ci  fa  sapere  il  suessano,  Sigieri  e  Giovanni  di 
Baconthorpe  «  petunt....  primum  Motorem  esse  universi  mobilis 
celestis  formam  perficientem  et  non  constitutam  »  e  che  esso  è 
«  prima  illius  perfectio  »,  sì  da  potere  affermare  che,  almeno 
per  accidens,  si  muove  insieme  al  cielo  -i. 

Siccome  la  quistione  concerneva  direttamente  l'onnipotenza 
di  Dio  e  la  sua  trascendenza,  s'era  accesa  in  proposito  un'ap- 
passionata e  interminabile  controversia  che  si  protrasse  fin 
oltre  il  secolo  XVI,  poiché  troppo  premeva  ai  teologi  aver 
dalla  loro  parte  Aristotele.  Soltanto  quando  si  comprese  che 
la  filosofìa  aristotelica  non  era  tutta  la  filosofia,  l'ardore  della 
controversia  cominciò   a  venir  meno  --. 


19  Denifle  e  Chatelain,   Chart.  univ.  Paris.,   I,   544  sg. 

-0  Quaestiones  super  Averrois  sermonem  de  substantia  orbis,  q.  12. 
-I  V.  Sigieri,  p.  41. 

22  Giovanni  di  Jandun,  oltre  che  nelle  Quaestiones  sul  De  substantia  or- 
bis,  discute  il  problema  «  utrum  primum  Principium  sit  infiniti  vigoris  » 


lS6        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

L'Achillini,  da  quel  buon  averroista  ch'egli  è,  ci  dà  del 
problema  questa  soluzione:  «  Primum,  mens  Philosophi  fuit 
deum  esse  finiti  vigoris.  Secundum,  ad  oppositum  est  veritas  ». 
Provata  la  prima  parte  della  tesi,  riferisce  le  obiezioni  «  centra 
Philosophum  »,  alle  quali  fa  seguire  la  risposta  d'Aristotele. 
Ma  nel  far  questo,  che  è  un  procedimento  generale  seguito  in 
tutti  e  cinque  i  Quolibeta,  l'Achillini  si  mette  al  riparo  da  ogni 
accusa  d'eresia  con  questa  tipica  dichiarazione,  fatta  una 
volta  per  sempre  :  «  Ad  haec  praemitto  quod  ubi  Philosophum 
introducam  respondentem,  non  teneo  responsionem  illam»^!. 
Dopo  ben  cinque  fitte  colonne  di  serrate  schermaglie  dialet- 
tiche e  di  citazioni  di  testi,  sì  da  darci  l' impressione  che  egli 
la  pensi  proprio  come  Aristotele  e  il  suo  «  ottimo  commen- 
tore »,  eccolo  a  dichiararci: 

Sed  quia  haec  opiiiio  in  phiribus  errat,  ut  patet  consideranti 
ea  in  quibus  introducitur  Philosophus  respondens,  ideo,  ea  di- 
missa,  pone  secundum  dictum  principale  :  Deus  est  infiniti  vigoris 
in  essendo  et  operando  in  tempore  et  actione.  Ex  quo  sequitur 
infinitam  esse  intellectuum  latitudinem  24. 

E  le  prove  di  questa  tesi  ?  Nessuna,  tranne  quel  patet,  che 
non  è   affatto  una  prova.   Seguono  invece   quattro  obiezioni 


anche  nelle  Quaestiones  sulla  Metafisica  (XII,  q.  15)  e  in  quelle  sulla 
Fisica  (Vili,  q.  22)  :  e  tutte  e  tre  le  volte  con  molta  ampiezza.  Lo  stesso 
problema  è  ventilato  da  Duns  Scoto,  Qiiodl.,  q.  7,  da  Giov.  di  Bacon- 
thorpe.  In  I  Seni.,  dist.  44-45,  da  Gregorio  da  Rimini,  In  I  Seni.,  dist.  42, 
q.  3,  a.  I,  e  più  tardi,  ma  anche  con  maggior  copia,  dal  Nifo,  dall' Achil- 
lini,  da  Tommaso  de  Vio,  detto  il  Cardinal  Gaetano,  che  nella  sua  Subti- 
lissima  quaestio  de  Dei  gloriosi  infinitate  intensiva,  terminata  a  Pavia, 
il  IO  settembre  1499,  credo  abbia  raggiunto  il  primato  della  prolissità 
(è  stampata  in  appendice  al  commento  tomistico  della  Fisica,  Ve- 
nezia, 1573,  pp.  316-335),  si  da  superare  lo  stesso  Elia  del  Medigo,  detto 
altresì  Helias  Cretensis,  il  quale  tratta  di  quest'argomento  nella  sua 
interminabile  De  primo  Motore  acutissima  quaestio  (in  appendice  alle 
Quaestiones  di  G.  di  Jandun  sulla  Fisica,  Venezia,  1552,  f.  133,  col.  1-4) 
e  nelle  Annotationes  in  dictis  Averrois  super  libros  Physicorum-  {ib., 
fol.  153,  col.  4,-f.  155,  col.  4).  Vedasi  anche  M.  A.  Zimara,  Theoremata, 
61,  e  Fr.  Piccolomini,  De  caelor.  motoribus,  33-35.  Giordano  Bruno, 
nel  primo  dialogo  De  l'infinito,  universo  e  mondi  (in  Dialoghi  italiani, 
Sansoni,  Firenze,  1958,,  pp.  387-88), accenna  all'  «  importantissimo  ar- 
gomento, per  il  quale  —  dice  Elpino  —  è  stato  ridutto  Aristotele  a 
negar  la  divina  potenza  infinita  intensivamente  ».  La  soluzione  che  del 
problema  affaccia  Filoteo,  il  quale  dall'  infinità  di  Dio  ha  dedotto 
r  infinità  dell'universo,  consiste  nel  cambiarne  i  termini,  si  da  mo- 
strarlo definitivamente  superato. 

23  AcHiLLiNi,   De  intell.,  ql.   I,   f.    i,   col.   2. 

24  Ih.,  f.   2,  col.   2-3. 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  187 

contro  quest'asserto,  alle  quali  il  filosofo  bolognese  fa  del  suo 
meglio  per  rispondere  in  una  mezza  colonna,  osservando, 
alla  fine,  che  «  rationes  philosophorum  super  dictis  ab  eis 
fundantur;  ideo  non  difficile  est  eas  solvere»  =5.  Ma  intanto 
non  le  risolve. 

A  questa  che  è  la  quaestio  principale  del  primo  Quolibetum. 
tengon  dietro  tre  duhia,  coi  quali  si  tende  a  precisar  meglio 
il  concetto  aristotelico-averroistico  di  Dio  e  a  porre  in  evidenza 
taluni  postulati  della  soluzione  data  al  problema  principale. 

Il  primo  di  questi  dubbi  consiste  nel  chiedersi  «  utrum  tantum 
deum  deus  intelhgat  »,  cioè  se  Dio  conosca  soltanto  sé  stesso 
oppure  anche  le  cose  inferiori  ad  esso  e  segnatamente  quelle 
del  mondo  sublunare.  Anche  su  questo  punto  l'Achillini  è 
averroista: 

Respondeo  per  duo  dieta.  Primuni:  opinio  Aristotelis  est,  quod 
sic.   Secundum:  illa  opinio  non  est  vera -6. 

La  prima  affermazione  è  provata  con  ben  sei  gruppi  di  argo- 
menti, che  in  tutto  assommano  a  venticinque.  La  conclusione 
dei  quali  è  la  seguente: 

Ex  his  de  mente  Philosophi  habentur  quinque;  Primum, 
deus  intelligit  se  et  non  aliud.  Et  si  dixeris:  verum  est  recipiendo, 
sed  aliter  non -7;  dicam  quod  non  potest  aliquid  intelligere  aliud 
a  se,  nisi  recipiendo;  ideo  non  potens  recipere,  non  potest  intel- 
ligere aliud.  Productio  autem  vilium  non  infert  passionem  in 
agente;  ideo  quamvis  deus  non  intelligat  vilia,  producere  tamen 
potest.  Secundum,  aliae  intelligentiae  in  actu  intelligunt  se  et 
perfectius    se    et    nihil    vilius    eis.    Tertium,  intellectus   possibilis 


^5  Ib.,  f.  2,  col.  3. 

26  Fol.  2,  col.  3. 

27  Così  appunto  dicevano  i  teologi:  Dio  non  intende  le  altre  cose  di- 
verse da  sé,  nel  senso  che  la  mente  divina  sia  attuata  da  un  qualche 
altro  intelligibile  diverso  dalla  sua  stessa  essenza,  e  dinanzi  al  quale 
esso  sia  in  potenza;  Dio  conosce  le  altre  cose  conoscendo  se  stesso,  e 
quindi  senza  niente  ricevere.  La  condanna  che  il  vescovo  di  Parigi, 
Stefano  Tempier,  fece  nel  1270  di  tredici  proposizioni  averroistiche,  e 
che  è  il  primo  sicuro  documento  dell'  esistenza  d'una  corrente  averroi- 
stica  a  Parigi,  colpisce  queste  due  proposizioni:  «Quod  Deus  non  co- 
gnoscit  singularia  «  e  «  Quod  Deus  non  cognoscit  alia  a  se  >>.  Cfr.  De- 
NiFLE  e  Chatelain,  I,  pp.  486-487.  Tuttavia,  leggendo  attentamente 
il  commento  d'Averroè,  Metaph.,  XII,  comm.  51,  e  la  Desfriictio  de- 
structionum,  disp.  VI,  dub.  3-4,  nasce  il  sospetto  che  il  suo  pensiero  non 
sia  stato  ben  compreso.  Si  veda  in  proposito,  Giov.  di  Baconthorpe, 
In  I  Sent.,  dist.   35  e  39;   M.  A.   Zimara,    Theoremata,   83. 


l88        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

intelligit  se  viliora  et  nobiliora.  Quartuin,  nullus  intellectus, 
nisi  forte  possibilis,  intelligit  aliquid  extra  se.  Quintum,  deus 
est  simpliciter  primo  notum;  sed  primum  principium  complexum, 
de  quo  quarto  Metaphysicae,  commento  octavo,  est  notissimum 
nobis  28. 

Ai  venticinque  argomenti  coi  quali  è  provata  la  tesi  averroi- 
stica,  se  ne  contrappongono  sedici  ;  ma,  mentre  i  primi  restano 
insoluti,  ai  secondi  è  data  una  soluzione  dal  punto  di  vista 
averroistico.   Dopo  di  che  l'Achillini  s'affretta  a  concludere: 

Sed  propter  multa  falsa,  quae  sequuntur  ad  hanc  positionem, 
eam  cum  auctoritatibus  eius  dimittamus.  Tenemus  igitur  quod 
Deus  cognoscit  omnia;  ex  quo  sequitur  quod  non  omnis  intellectus 
intelligens  aliud  a  se  patitur  ab  eo.  Sequitur  secundo,  quod  non 
omnis  intellectio,  qua  materialia  intelliguntur,  est  collecta  ab 
intellectu  agente  ex  singularibus.  Ex  his  duobus  fundamentis 
solvuntur  rationes  philosophorum,  quia  super  oppositis  corol- 
lariorum   fundantur  29. 

Il  secondo  diibium  concerne  la  causalità  efficiente  del  primo 
Motore.  Aristotele  3°  aveva  detto  che  la  prima  Intelligenza 
muove  le  intelligenze  preposte  al  movimento  dei  singoli  cieli, 
come  bene  supremo  da  esse  conosciuto  e  desiderato,  ossia 
come  fine  ultimo  cui  tutte  le  cose  tendono.  Il  problema  che 
pone  il  maestro  bolognese,  «  utrum  prima  Forma,  quae  est 
ultimus  Finis,  sit  primus  Motor  »,  verte  non  sull'  attrattiva 
che  Dio  esercita  sugli  esseri  in  quanto  «  amor  che  muove  il 
sole  e  le  altre  stelle  »,  bensì  sul  movimento  rotatorio  della 
prima  sfera  mobile.  Secondo  un'  interpretazione  del  pensiero 
d'Aristotele  e  del  suo  commentatore  di  Cordova,  Dio  muove 
i  cieli  soltanto  per  mezzo  d'un  motore  appropriato,  cioè  d'un'  in- 
telligenza, la  quale  è  mossa  dal  desiderio  di  assomigliare  al 
primo  Motore  31.  Secondo  un'altra  interpretazione,  invece, 
Dio  muove  il  primo  cielo  mobile  immediatamente  v-  ;  e  poiché 
il  primo  mobile  rapisce  col  suo  impeto  tutti  gli  altri  cieli,  ne 


28  ACHILLINI,     fol.     3,     col.     2. 

29  Fol.  4,  CI. 

30  Metaph.,  XII,  e.  7,   10720  2-4   (t.  e.  37). 

31  Giov.  DI  Jandun,  Quaestiones  sup.  Metaph.,  XII,  q.  17,  Quaest. 
sup.   Phys.,   Vili,    q.    21. 

32  Cfr.  M.  A.  ZiMARA,  Quaestio  de  triplici  cansalitate  intelligentiae 
(in  appendice  alle  Quaestiones  di  G.  di  Jandun  sulla  Metafisica,  Venezia, 
1525,  fol.   170,  col.   2-4);    Theoremata,   61. 


I    «  QUOLIBETA    DE    IXTELLIGENTIIS  »  189 

viene  che  il  primo  Motore  esercita  su  tutto  l'universo  una  vera 
e  propria  azione  di  causa  efficiente  e  non  soltanto  di  causa  finale. 
Sigieri,  a  quanto  sappiamo  dall'ultima  citazione  del  Nifo,  ri- 
teneva che  il  primo  Motore  fosse  addirittura  forma  e  perfe- 
zione del  cielo,  a  tal  segno  che  si  muove  per  accidens  insieme 
ad  esso  ;  nel  che  egli  non  faceva  se  non  ripetere  una  dottrina 
d'Averroè,  il  quale  in  più  luoghi  insiste  sul  concetto  che  il 
primo  Principio  è  tale  in  quanto  è  fine,  forma  e  motore  del- 
l'universo 33. 

L'Achillini  risolve  il  dubbio,  dimostrando  con  quattordici 
argomenti  che  Dio  imprime  al  mondo  un  movimento  effettivo 
come  primo  Motore  di  esso;  né  questa  volta  ha  bisogno  di 
distinguere  tra  l'opinione  di  Aristotele  e  la  verità,  poiché 
«  Philosophus  in  hoc  quaesito  non  recedit  a  veritate  »,  quanto 
all'asserto  della  causalità  efficiente  ;  ma  osserva  che  si  discosta 
dal  vero  in  un  particolare:  «  sed  bene  in  circumstantia:  quia 
dictum  est  de  mente  eius,  quod  Deus  est  motor  immediate  et 
appropriate  movens  caelum,  et  quod  nulla  alia  intelligentia 
ab  ipso  movet  primum  caelum;  sed  hoc  non  est  verum  etc.))34. 
Ed  infatti  la  tesi,  che  il  moto  del  primo  cielo  derivi  immedia- 
tamente da  Dio,  si  basa  sul  concetto  che  Dio  è  forma  del 
primo  cielo.  Ora  questo  concetto  è  schiettamente  averroistico, 
ed  è  uno  dei  presupposti  della  teoria  che  dalla  finita  grandezza 
del  moto  celeste  deduce,  come  abbiamo  visto,  il  vigore  finito 
del   primo    Motore. 

Questo  necessario  reciproco  rapporto  tra  Dio  e  il  mondo  si 
scorge  anche  meglio  nella  discussione  del  terzo  dubbio  :  «  Utrum 
Deus  libere  moveat  caelum  ».  Neil'  interpretazione  averroi- 
stica  del  pensiero  d'Aristotele,  se  Dio  è  necessario  a  spiegare 
l'esistenza  del  moto,  e,  diciamo  pure,  l'esistenza  del  mondo 
stesso,  è  altrettanto  vero  che,  posta  l'esistenza  del  primo  Mo- 
tore e  della  prima  Causa  efficiente,  questa  e  quello  agiscon 
come  natura  anzi  che  come  libera  volontà  creatrice.  «  Sigieri 
non  sembra  aver  concepito  la  possibilità  d'una  vera  libertà 
creatrice,  che  a  lui  pare  esclusa  tanto  dall'  immutabilità 
divina  quanto  dalla  necessità  delle  specie »3\  Posto  Dio  come 


33  AvERR.,  Metaph.,   X,  comm.    7;   XII,  comm.   5-6,   36,   38,  41,  44; 
De  subst.  orbis  capp.   1-2. 

34  AcHiLLiNi,   fol.   4,   col.   4. 

35  F.  Van  Steenberghen,  Les  oetivres  et  la  doctrine  de  Siger  de  Bra- 
bant,  Bruxelles,  1938,  p.   128;  Sig.  de  Brab.  d'après  ses  oeuvres  inédites, 


igo        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

prima  Causa  motrice  del  mondo,  questo  ne  risulta  necessaria- 
mente, come  la  conseguenza  dalle  premesse  d'un  sillogismo. 
Aristotele  aveva  ben  fermato  la  sua  attenzione  sugli  eventi 
che  si  dicon  contingenti  e  fortuiti;  ma  anzi  che  dedurre  la 
contingenza  di  tutti  gli  esseri  creati  dall'essenziale  libertà  del 
pensiero  divino,  aveva  imposto  allo  stesso  pensiero  divino  e 
all'atto  creatore  la  necessità  del  suo  astratto  formalismo 
logico,  e  la  contingenza  e  il  caso  aveva  limitato  al  mondo  su- 
blunare, spiegando  l'una  e  l'altro  per  mezzo  del  concetto  delle 
'(  cause  impedibili  »  e  dell'  «  indisposizione  della  materia  »  che 
spesso  è  sorda  a  rispondere  all'  intenzione  dell'arte.  Pur  tra- 
scendente o  «  separato  »,  il  primo  Motore  resta  così  prima  forma 
e  prima  perfezione  dell'universo,  al  quale  è  intimamente  unito 
non  come  forma  «  constituta  per  subiectum  »,  bensì  come 
forma    «  constituens    subiectum  »  36. 

Per  dimostrare  la  tesi,  che  secondo  Aristotele  Dio  muove  il 
cielo  per  sua  natura  e  non  liberamente,  sì  da  poter  non  muo- 
verlo o  mutarne  la  velocità  e  la  direzione,  l'averroista  bolo- 
gnase  argomenta  così:  tutto  ciò  che  si  muove  per  un  principio 
essenziale  che  è  in  esso,  si  muove  per  sua  natura;  ma  questo 
è  il  caso  del  cielo;  dunque  esso  è  mosso  naturalmente 37.  Se  il 
primo  Motore  potesse  non  muovere  oppure  muovere  in  modo 
diverso  da  quel  che  fa,  il  mondo  potrebbe  esser  diverso  da 
quello  che  è,  e  anche  non  essere.  Ma  tutte  queste  conseguenze 
sono  impossibili  per  Aristotele,  che  dall'  immutabilità  del 
primo  Motore  deduce  la  necessità  e  l'eternità  dell'universo, 
come  d'un  effetto  connaturale  e  inseparabile  dalla  sua  causa. 
Puro   atto  senza  alcuna  potenza,   Dio   causa   dall'eternità  il 


II  voi.,  Louvain,  1942,  p.  607.  Tale  è  il  pensiero  di  Siglari  in  tutti  gli 
scritti  intestati  a  lui  dai  codici.  Per  attribuirgli  con  qualche  fondamento 
la  tesi  opposta,  bisogna  supporre  che  siano  sue  le  Quaestiones  sulla 
Fisica  edite  dal  Delhaye  (cfr.  Giorn.  Crii.,  XXIV,  1943,  pp.  85-90). 
Ma  per  farlo  manca  ogni  serio  indizio  esterno,  e  le  prove  interne  sono 
troppo    deboli. 

36  Si  veda  il  passo  del  Nifo  riportato  in  Sigieri....  p.  41.  Su  questa 
distinzione  ricavata  da  diversi  luoghi  di  Averroè,  cfr.  dello  stesso  Nifo 
il  commento  al  De  anima,  III,  ad  t.  e.  5,  già  riferito  in  Sigieri,  p.  15. 
Vedasi  anche  l'Appendice   nello   stesso   volume,    pp.    175-176. 

37  AcHiLLiNi,  Quol.  I.  dub.  3,  fol.  5,  e.  i  «  Omne  quod  movetur  per 
principium  quod  est  in  eo,  movetur  per  naturam,  octavo  Physicorum, 
t.  e.  27.  Intelligo  in  subiecto  maioris:  per  se  primo,  et  non  secundum 
accidens;  et  tunc  patet  propositum  ex  diffinitione  naturae,  secundo  Phy- 
sicorum, t.  e.  3.  Sed  caelum  movetur  per  principium  etc,  ut  vult  Com- 
mentator  Aristotelem  declarasse  in  principio  septimi  Physicorum,  etc.  ». 


I    '(  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  IQI 

mondo  con  ordine  e  moto  necessario.  Dal  che  «  sequitur  nullam 
esse  in  rebus  libertatis  contingentiam,  ad  quas  non  concurrit 
homo  »  ;  poiché  la  ragione  della  contingenza  dell'umano  ar- 
bitrio consiste  nel  modo  di  conoscere,  essenzialmente  discor- 
sivo, che  è  proprio  dell'uomo;  di  guisa  che  la  mente  umana, 
procedendo  per  composizione  e  divisione  di  concetti,  «  potest 
aftìrmativam  vel  negativam  [partem]  concludere,  et  conse- 
quenter  ad  utramque  partem  possibilis  est  assensus  ».  Or 
questo  non  accade  né  nelle  altre  intelligenze  superiori  all'umana, 
né,  tanto  meno,  nella  prima  Intelligenza  38. 

Necessario  a  render  ragione  della  realtà  dell'universo,  dei 
movimenti  celesti  e  di  ogni  accadere,  il  primo  Motore  d'Ari- 
stotele non  ha  altra  realtà,  per  l'averroista,  all'  infuori  di 
questa,  né  altra  ragione  di  essere  che  questa:  senza  il  mondo 
da  esso  causato  e  mosso,  il  primo  Motore  non  sarebbe  nulla. 
Perciò  Dio  e  mondo  formano  un  binomio  indissolubile,  come 
amore  e  cuor  gentile  nella  canzone  guinizelliana,  come  il  sole 
e   il   suo   risplendere: 

ch'adesso  che  fo  il  sole 

sì  tosto  lo  splendore  fo  lucente, 

né  fo  avanti  il  sole. 

Contro  questa  dottrina  del  Filosofo,  qual'era  intesa  ed  espo- 
sta dal  Commentatore  di  Cordova,  l'Achillini  riferisce  ben 
diciotto  argomenti,  avendo  però  cura  di  farci  sapere  che  cosa 
gli  averroisti  rispondevano.  Dopo  di  che  conclude,  secondo  il 
suo   costume  : 

His  praetermissis,  ad  veritatem  revertamur,  et  dicamus  Deiim 
ad  extra  mere  libere  et  contingenter  agere.  Concedanius  insuper 
quod  in  Deo  esse  et  agere  sunt  idem,  et  tamen  non,  si  necesse  est 
Deum  esse,  necesse  est  Deum  agere  ad  extra.  Dicamus  tertio 
quod,  licet  necessitas  sit  melior  conditio  essendi,  non  tamen  est 
melior  conditio  operandi  ad  extra.  Ncque  immutabilitas  divina 
toUit  novitatem  in  effectu,  quia  ab  aeterno  determinavit  Deus 
agere  nunc.  Ideo  contra  philosophos  dicamus,  quod  ab  antiqua 
vohmtate  potest  aliquid  novi  poni  in  esse,  sine  mutatione  operan- 
tis,  aut  remotione  impedimenti  etc.  Addo  insuper,  licet  necesse 
sit  Deum  esse  productivum  ad  extra,  non  tamen  necesse  est  ipsum 
producere  ad  extra.  Concedo  etiam  nullam  rem  quae  est  Deus 
esse   contingentem  ;    dimitto   naturam   assumptam,    et   tamen    de 

38  ib.,  fol.  5,  col.  1-2. 


ig2        L  ARISTOTELISMO    PADOV'ANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

Dee  formabiles  sunt  propositiones  per  accidens  et  contingentes, 
propter  connotationem  extrinseci.  Neque  propter  hoc  quod  Deus 
multa  producibilia  potest  producere,  quorum  nullum  producet, 
concedendum  est  potentiam  divinam  frustrari,  quia  reduci  potest 
et  in  aliquo  illius  generis  reducta  est  in  actum  39. 

Con  queste  proteste  di  attaccamento  all'  insegnamento 
teologico,  ha  termine  il  primo  qiiolibetum  che  tratta  dell'  in- 
telletto del  primo  Motore,  la  cui  latitudo  è  dunque  finita  com'  è 
finita  la  grandezza  del  mondo  e  del  movimento.  L'opposizione 
fra  la  tesi  averroistica  e  quella  teologica  non  è  che  un  aspetto 
particolare  fra  la  concezione  aristotelica  del  mondo  e  l' intui- 
zione cristiana.  Per  Aristotele,  come  l'espone  Averroè,  Dio  è 
principio  teleologico  e  causa  prima  efficiente  della  natura; 
la  natura  alla  sua  volta  è  effetto  necessario  ed  eterno  dell'at- 
tualità divina.  Dio  è  principio  in  quanto  dà  origine  a  un  prin- 
cipiato; esso  è  l'atto  che  precede  logicamente  ogni  potenza. 
L'ordine  cosmico  riflette  la  necessità  e  l' immutabilità  della  sua 
prima  causa.  Dio  insomma  è  complemento  necessario  della 
natura  ed  è  esso  stesso  natura:  è  la  stessa  natura  intellettua- 
lizzata, cioè  considerata  platonicamente  sub  specie  aeternitatis. 
Neil'  intuizione  cristiana  del  mondo,  invece.  Dio  è  spirito, 
cioè  libera  volontà  creatrice,  infinita  potenza,  infinita  sapienza, 
infinito  amore.  Il  mondo  e'  è,  ma  potrebbe  non  esserci,  o  esser 
diverso;  e  c'è,  per  un  atto  di  liberalità  divina.  La  necessità 
delle  leggi  di  natura  non  è  assoluta,  ma  relativa  al  decreto 
della  volontà  divina  che  liberamente  le  ha  stabilite  e  può 
mutarne  il  corso.  Così  la  contingenza  è  alla  radice  stessa  del- 
l'ordine cosmico;  il  miracolo  è  affermazione  e  prova  della  con- 
tingenza della  natura  e  delle  leggi  fisiche.  Con  siffatta  dottrina 
il  cristianesimo  liberava  l'uomo  dalla  tirannia  del  fato  cui 
dovea  piegarsi  la  volontà  dello  stesso  Giove.  Al  posto  degli 
inesorabili  decreti  dell' Ananche  si  sostituiva  la  libera  e  onni- 
potente volontà  di  Dio,  che  ha  dato  all'uomo  il  potere  di  coo- 
perare ai  suoi  eterni  disegni.  Libero  e  artefice  del  proprio  de- 
stino, l'uomo  si  sente  così  simile  a  Dio. 

Dopo  quello  che  Agostino  e  lo  Pseudo  Dionigi  e  Pier  Da- 
miani e  il  Cardinal  Cusano  avevano  speculato  intorno  alla 
natura  divina,  mentre  nel  rinnovato  platonismo  cristiano 
del  Rinascimento  covavano  i  germi  che  sarebbero  esplosi  nei 


39  Iv.,  fol.   5,   col.   4-f.6,  col.    i. 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  ))  I93 

dialoghi  De  la  causa  e  De  V  infinito,  la  dottrina  averroistica  su 
Dio,  anzi  che  un  progresso,  dove  sembrare  la  ricaduta  in  una 
delle  più  anguste  forme  di  naturalismo  già  da  molto  tempo 
sorpassate.  Ad  un  superamento  definitivo  occorreva,  per  altro, 
eliminare  quella  ristretta  visione  cosmologica  alla  quale  il 
concetto  di  Dio  era  legato,  e  che  è  merito  delle  nuove  scoperte 
astronomiche   aver   per   sempre   dissipato. 


2.  -  Il  secondo  qiiolihetum  tratta  delle  intelligenze  separate, 
intermedie  fra  1'  Intelligenza  divina  e  l' intelletto  possibile, 
proprio  della  specie  umana.  Queste  intelhgenze  son  sostanze 
separate  preposte  ciascuna  al  moto  d'uno  dei  cieli  inferiori 
alla  prima  sfera,  che  è  mossa  immediatamente  dal  primo 
Motore. 

L'Achillini  comincia  coll'affermare  che,  secondo  la  dottrina 
d'Aristotele,  siffatte  intelligenze  non  sono  state  prodotte,  e 
per  conseguenza  sono  eterne;  ma  che,  secondo  la  verità  della 
fede,  è  tutto  il  contrario.  La  prima  parte  della  tesi  è  dimostrata 
con  quattordici  argomenti;  con  altrettanti  la  seconda;  colla 
differenza,  che  gli  argomenti  in  favore  della  prima  parte 
non  hanno  risposta,  mentre  degli  argomenti  in  contrario 
abbiamo  la  soluzione. 

Per  quel  che  concerne  la  dottrina  d'Aristotele,  il  lettore 
poco  esercitato  potrebbe  rilevare  una  divergenza  tra  l'averroista 
bolognese  e  Sigieri  su  questo  punto:  che,  mentre  quello  dice 
le  intelligenze  celesti  non  prodotte,  questo  al  contrario  le  dice 
tutte  causate  immediatamente  o  mediatamente  da  Dio  che 
dà  l'essere  a  tutte  le  cose 40.  In  realtà,  la  divergenza  è  soltanto 
nel  modo  d'esprimersi  e  non  nel  pensiero. 

Perché  le  intelligenze  celesti  non  si  posson  dire  prodotte  ? 
Perché  non  sono  state  tratte  dalla  potenza  all'atto,  quasi  che 
ci  fosse  una  loro  potenza  ad  essere,  la  quale  precedesse,  anche 
soltanto  logicamente,  il  loro  atto  di  essere.  Esse  sono  natural- 


40  Sigieri  di  Brab.,  Impossibilia,  I  (ed.  Mandonnet,  Sig.  de  Brab. 
et  l'averr.  latin  au  XlIIème  siede,  Ilème  Partie,  Louvain,  1908,  pp.  76-77)  ; 
De  necess.  et  conting.  caus.  (Mandonnet,  pp.  111-112);  Aletaph.,  II,  8 
(ediz.  a  cura  di  Cornelio  A.  Graiff,  Sig.  de  Brab.  Questions  sur  la  Me- 
taphysiqiie.  Texte  inédit.  Louvain,  Édit.  de  1'  Institut  Super,  de  Phi- 
losophie,  1948,  pp.  46-51),  III,  7-8  {ib.,  pp.  93-103).  Cfr.  Van  Steen- 
BERGHEN,    S.    d.   B.   d'après  ses  oeuvres  inédites,   voi.   II,   p.   606. 

13 


194        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

mente  e  necessariamente,  per  il  fatto  stesso  che  esiste  la  prima 
Causa  che  le  fa  essere,  a  quel  modo  che  l'esserci  il  sole  fa  sì 
che  ci  sia  lo  splendore.  Esse  son  certamente  causate  dalla 
prima  Intelligenza,  ma  non  prodotte  alla  maniera  delle  cose 
che  possono  essere  e  non  essere.  L'atto  non  s'aggiunge  in  esse 
alla  potenza,  né  l'essere  sopravviene  all'essenza:  sono  puri 
atti  per  loro  natura,  ed  atti  eterni,  come  eterno  e  necessario 
è  l'Atto  primo  che  le  causa  41. 

Strettamente  connesso  con  questo  problema  è  il  primo  dei 
tre  duhia:  «.  Utrum  ponenda  sit  creatio  ».  Anche  a  questo  quesi- 
to il  giovane  maestro  bolognese  risponde,  essere  opinione  d'Ari- 
stotele che  non  si  dà  creazione;  ma  soggiunge  che  la  tesi  dello 
stagirita  non  è  vera.  Secondo  la  dottrina  aristotelica,  la  causa 
agente  ha  sempre  bisogno  d'una  materia  su  cui  esercitare  la 
sua  azione,  e  dalla  cui  potenza  trae  quello  che  essa  produce. 
Ora  la  creazione  implica  una  produzione  dal  nulla,  senza  pas- 
saggio dalla  potenza  all'atto  4^.  Allo  stesso  modo  Sigieri,  par- 
lando dell'anima  intellettiva  (e  il  discorso  vale  per  tutte  le 
intelligenze  e  altresì  per  i  corpi  celesti),  afferma  che,  sebbene 
essa  possa  dirsi  fatta,  nel  senso  che  è  causata  e  dipende,  al 
pari  delle  intelligenze  celesti,  dal  primo  principio  d'ogni  essere, 
tuttavia  non  può  dirsi  che  è  stata  fatta  dal  niente,  ma  anzi 
che  essa  «  de  se  est  semper  ens,  ab  alio  tamen  »,  poiché  «  in 
eius  ratione  seu  defìnitione  est  semper  esse,  cum  careat  ma- 
teria ».  Se  non  che,  pur  essendo  «  de  se,  seu  de  sui  ratione, 
semper  ens  »,  non  ha  questo  suo  essere  «  ex  se  effective,  sed 
ab  alio  ».  Per  questa  ragione,  essa  è  certamente  causata  ed 
essenzialmente  dipendente  da  Dio,  «  sed  non  est  verum  eam 
esse    factam    ex    nihilo  »  43. 


41  AcHiLLiNi,  Quol.  II,  f.  2,  col.  I  :  «  Orane  agens  extrahit  id  quod 
est  in  potentia  ad  actum:  sed  in  intelligentiis  non  est  potentia  extrahi- 
bilis  ad  actum  (intelligo  de  potentia  distante  ab  actu,  et  de  actu  infor- 
mativo eorum  aut  potentiali,  ex  quo  et  alio  fiat  una  intelligentia)  : 
ergo  in  eis  non  est  agens.  Ratio  tota  est  Commentatoris,  12  Metaph., 
comm.  44.  Ex  hoc  sequitur  quod  intelligentiae  non  componuntur  ex 
esse  et  essentia,  tamquam  ex  doubus  principiis  intrinsece  componen- 
tibus  intelligentiam  ». 

42  AcHiLLiNi,    Quol   II,    dub.    I,   fol.    7,   col.   4. 

43  Sigieri,  De  anima  iniellect.,  V  (ed.  Mandonnet,  pp.  160-161). 
AcHiLLiNi,  ib.,  fol.  8,  col.  2:  «  Potentiale  non  potest  esse  sine  actu.  Est 
autem  deus  actus  vitalis  intelligentiarum  et  finis,  et  caeli  est  forma  et 
finis,  corruptibilibus  autem  dat  esse  et  conservat  movendo.  Primo 
enim  Metheororum  :  Est  autem  ex  necessitate  continuus  iste  superioribus 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  ))  £95 

Ancor  più  evidente  è  l' influenza  della  dottrina  di  Sigieri  sulla 
soluzione  del  secondo  dubbio  che  l' Achillini  si  pone  :  «  Utrum 
intelligentiae  inferiores  intelHgant  superiorem  ».  L'averroista 
italiano  formula  in  proposito  tre  tesi,  il  significato  delle  quali 
ci  è  chiarito  da  un  luogo  dei  CoUectanea  del  Nilo  sul  De  anima 'i'^, 
riferito  da  me  altra  volta.  Colla  prima  tesi  egli  si  op- 
pone alla  teoria  di  coloro  che,  al  dire  del  Nifo,  il  quale  sicura- 
mente riassume  da  Sigieri  citato  un  po'  più  oltre,  sostenevano 
che  «  Deus  multiplicat  lumen  quod  est  quoddam  accidens 
spirituale  existens  in  mentibus  intelligentiarum,  per  quod 
elevantur  intellectus  illi  ad  intelligere  primum  »  ;  la  qual 
teoria  il  Nifo  nel  commento  al  De  anime  beatitudine  attri- 
buisce a  S.  Tommaso  e  la  combatte  appoggiandosi  a  Sigieri  45. 
La  prima  tesi  dell'Achillini,   dunque,  suona  come  segue: 

Primum:  intelligentia  inferior  non  intelligit  superiorem  per 
aUquod  accidens,  ut  species,  actus,  vel  habitus  etc.  Probatur 
primo,  quia  in  intelligentiis  non  est  aliquod  accidens.  Patet  quo- 
libeto  3.  —  Secando,  omne  compositum  est  novum;  sed  in  in- 
teUigentiis  non  est  novitas;  ergo  neque  compositio.  Maior  est 
Commentatoris,  12  Metapliysicae,  comm.  39,  sive  sit  compositura 
substantiale,  sive  accidentale,  sive  in  intelHgentiis,  sive  non;  ea 
enim  probat  ibi  Commentator,  quod  intellectio  non  est  accidens 
in  deo;  coehim  autem,  quia  subiectum  est  accidenti,  novitatem 
habet,  sciUcet  motum,  8  Pliysicoriim,  comm.  15.  —  Tertio,  si  sic, 
cum  secunda  intelHgentia  intelHgat  se  per  essentiam,  3  De  anima, 
comm.  13,  perfectior  esset  intellectio  secundae  de  se,  quam  in- 
tellectio secundae  de  prima,  et  sic  secunda  intelligentia  esset 
felix  cognoscendo  se,  et  non  primam;  vel  intelligentia  duas  intel- 
lectiones  habens  felicitaretur  intellectione  imperfectiori.  —  Quarto, 


lationibus,  ut  omnis  eius  virtus  gubernetur  inde.  Ideo,  primo  remoto, 
omnia  destruuntur;  ideo  duodecimo  Metaphysicae,  textu  et  commento 
38;  Ex  tali  igitur  principio  caelum  et  natura  dependet.  Et  primo  Caeli, 
commento  100:  A  primo  quidem  ente  datum  est  esse  et  vivere;  bis 
quidem  clarius,  bis  vero  obscurius.  Et  in  libro  De  substantia  orbis,, 
versus  finem:  Ex  quo  verificatur,  quod  dator  continuationis  motus  est 
dator  esse  omnibus  aliis  entibus  ».  Così  anche  nelle  Qiiestiones  sulla 
Metaphysica,  ed.  CTraiff,  luoghi  citati.  Invece  l'autore  delle  Quaestiones 
super  libros  Physicorum ,  edite  dal  Delhaye  come  opera  di  Sigieri. 
sostiene  senza  alcuna  esitazione  la  tesi  «  quod  necessarium  est  aliquid 
fieri  ex  nihilo  »  (I,  q.  24,  pp.  53-54),  sebbene  ritenga  che  alcuni  esseri 
non  sian  prodotti  da  Dio  immediatamente.  È  un  altro  punto  sul  quale 
il  dissenso  dagli  scritti  di  sicura  appartenenza  a  Sigieri  è  troppo  evidente. 
Per  attribuire  queste  Quaestiones  al  maestro  brabantino  occorrerebbe 
una  qualche  testimonianza  sicura  che  non  s'  ha,  fino  ad  oggi, 

44  III.  ad  t.  e.  14;  cfr.   Sigieri....   nel  pens.,  pp.   27-28, 

45  V.  Sigieri,  pp.  26-27. 


196        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

si  sic,  tunc  scientia  earuin  non  esset  scitum;  consequens  est  centra 
determinata  quolibeto  primo,  et  tertio  De  anima,  comm.  14: 
«  Intellectus  in  formis  abstractis  est  idem  cum  intellecto  »  ;  et 
incidentaliter  8  Physicorum,  comm.  40  :  «  In  abstractis  intellectus 
et  intellectum  [idem]  sunt.  —  Quinto,  quia  tunc  intellectio,  qua 
secunda  intelligentia  intelligeret  primam,  et  intellectio  qua  se- 
cunda  intelligentia  intelligeret  se,  essent  alterius  generis,  quia 
una  esset  substantia  et  alia  accidens  46. 

Risulta  da  questa  prima  affermazione,  che  l'atto  col  quale  le 
intelligenze  inferiori  conoscono  la  prima  Intelligenza,  cioè 
Dio,  è  un  atto  sostanziale  al  pari  di  quello  col  quale  conoscon 
se  stesse.  Anche  in  questo  l'Achillini  è  d'accordo  con  Sigieri, 
per  il  quale  l' intendere  è  perfezione  essenziale  dell'  intelletto 
possibile,  sì  che  «  ponere....  substantiam  esse  in  actu  in  genere 
intellectualis  naturae  et  non  intelligentem  in  actu,  est  ponere 
contraria  et  impossibilia  vel  incompossibilia  »  47. 

La  seconda  tesi  dell' Achillini  consiste  nel  negare  che  le 
intelligenze  inferiori  conoscano  la  prima  Intelligenza  come 
loro  causa,  in  quanto  avvertono  che  la  loro  natura  ha  essere 
da  quella 48.  Così  appunto  pensavano  taluni  filosofi,  come  rife- 
risce  il   Nifo: 

Dixerunt  quod  intelligentia  interior  intelligit  superiorem  per 
essentiam  inferioris;  essentia  enim  inferioris  est  causata  ab  in- 
tellectu  superiori,  et  omne  causatum  ducit  in  cognitionem  cause; 
ergo  intellectus  interior  per  essentiam  sui  intelligit  superiorem. 
Oportet  enim  imaginari  essentiam  inferiorem  esse  obiectum  ade- 
quatum  sui  intellectus;  et  sic  tanquam  obiectum  adequatum 
intelligitur  solum  a  semet.  Et  quoniam  illa  essentia  est  effectus 


46  Achillini,   Quol.   II,   dub.   2,   fol.   8,  col.  3. 

47  Sigieri,  Quaestiones  naturales  (ed.  F.  Stegmùller,  Nenaitfgcf. 
Quaestionen  des  Sig.  v.  Br.,  in  Rech.  de  Théol.  ancienne  et  médiév.,  Ili, 
1931  pp.  179-180);  De  anima  intell.,  IX  (ed.  Mandonnet,  p.  171). 
Cfr.  Giorn.  Crii.  d.  FU.  Ital.,  XX,  1939,  pp.  467-471.  Un'attività  acci- 
dentale dell'  intelletto  è  invece  l' intendere  per  l'anonimo  autore  delle 
Questiones  in  libros  Arist.  de  anima,  II,  q.  8  (ed.  Van  Steenberghen, 
Sig.  d.  Br.  d'après  ses  oeurres  inédites,  I  voi.,  pp.  67-69),  III,  q.  8 
(pp.  135-137);  ma  quanto  più  il  chiaro  editore  s'affanna  a  dimostrare 
che  l'autore  di  esse  è  Sigieri,  tanto  più  evidente  appare  che  non  lo  è. 
Si  noti  poi  che  nella  terza  delle  Quaestiones  naturales  edite  dallo  Steg- 
mùller, il  maestro  brabantino  insegna  che  l' intelletto  possibile  ha  il 
suo  atto  primo  ed  essenziale  per  l'unione  all'  intelletto  agente,  e  che 
questo  e  quello  son  due  sostanze  separate;  la  qual  dottrina  ha  non  poca 
importanza  per  quello  che  siamo  per  dire. 

48  Achillini,  fol.  8,  col.  3. 


1 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  I97 

superioris,  etiam  continet  saltem  instrumentaliter  essentiam  su- 
perioris;  et  sic  intellectus  ille  per  essentiam  illius  secundario 
intelligit   superiorem. 

Il  Nifo  stesso  riferisce  quattro  dei  «  molti  argomenti  »  che 
Sigieri  opponeva  a  siffatta  teoria  49.  Gli  stessi  argomenti  quasi 
alla  lettera  oppone  alla  stessa  teoria  anche  l'Achillini: 

Secundum  dictum  :  intelligentia  inferior  non  intelligit  superio- 
rem per  essentiam  inferioris.  —  Probatur  primo,  quia  tunc  scientia 
non  esset  scitum.  Patet  consequentia,  quia  tunc  secunda  esset 
scientia  ipsi  secundae  de  prima  etc.  —  Secundo,  nulla  res  distincta 
a  perfectiori  est  sufficienter  repraesentativa  perfectioris;  sed 
secunda  non  est  ita  perfecta  sicut  prima;  ergo  etc.  —  Tertio,  si 
sic,  tunc  non  dependeret  intelligentia  inferior  in  suo  intelligere  a 
prima;  et  sic  secunda  esset  actus  purus,  quia  non  esset  poten- 
tialis  respectu  alicuius  perfectivi  eius  formaliter.  —  Quarto,  quia 
tunc  intelligentia  inferior  beatiiìcaretur  in  seipsa  tanquam  in 
obiecto  repraesentativo  omnium  intelligibilium  ab  ea,  aut  felici- 
taretur  in  obiecto  secundarie  cognito.  —  Quinto,  quia  tunc  aliqua 
cognitio  dei  dependeret;  quia  omnis  intelligentia  inferior  dependet; 
et  omnis  intelligentia  inferior  esset  cognitio  dei  per  te.  —  Sexto, 
quia  tunc  nulla  esset  compositio  in  intelligentiis,  nisi  forte  ex 
perfectione  et  defectu  eius;  de  qua  non  loquor  nunc.  —  Septimo, 
quia  non  salvaretur  efììcientia  dei  super  motu  proveniente  ab 
inferioribus   intelligentiis  5°. 

Anche  per  quel  che  concerne  la  terza  tesi,  l'Achillini  ripete 
alla  lettera  quello  che,  secondo  il  Nifo,  si  leggeva  «  in  quodam 
tractatu  intelligentiarum  et  beatitudinis  »  di  Sigieri: 

Tertium  dictum:  intelligentia  inferior  intelligit  superiorem 
per  essentiam  superioris.  —  Probatur  primo  a  sufficienti  divi- 
sione. —  Secundo,  quia  in  abstractis  intellectus  et  intellectum 
sunt  idem.  —  Tertio,  quia  intelligentiae  abstractae  perficiuntur 
per  se  invicem;  ergo  una  est  alterius  forma,  et  non  nisi  quia  una 
est  alterius  scientia  vel  amor.  Antecedens  patet,  12  Metaph., 
commento  44  :  «  Perfectio  uniuscuiusque  moventium  unumquemque 
orbium  perficitur  per  primum  motorem  omnium  »;  sed  non  ef- 
fective,  ncque  materialiter,  sed  finali  perfectione  coincidente 
cum  forma.  —  Quarto,  necesse  est  in  omni  intelligentia  intelli- 
gente aliud  esse  aliquid  simile  formae  et  aliquid  simile  materica; 
et  si  non,  non  esset  multitudo  in  formis  abstractis,  tertio  De  anima, 
commento  5  ;  quia,  posita  multitudine,  una  est  potentialis  alteri. 
Est  autem  secunda  simile  materiae,  ideo  recipiens,  et  prima  si- 


49  Nifo,  De  anima,  Venezia,    1522,   III,   coUect.  ad  t.  e.    14,  f.  171, 
col.    3. 

50  AcHiLLiNi,   /.   c;   Nifo,   /.   e;   cfr.    Sigieri,   pp.    27-28. 


19^         l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

mile  formae,  ideo  recepta.  —  Quinto,  in  intelligentiis  est  compo- 
sitio,  et  non  est  alia  quani  ex  intelligente  et  intellecto,  deside- 
rante et  desiderato;  ergo  etc.  Maior  patet,  12  Metaph.,  com- 
mento 51:  Quod  est  minoris  compositionis  est  nobilius  in  ilio 
genere,  donec  deveniatur  ad  simplex.  Patet  minor,  12  Metaph.,  com- 
mento 44:  «Tantum  illic  est  causa  et  causatum»,  secundum  quod 
intellectum  est  causa  intelligentis.  Sed  intellectum  non  est  causa 
efEectiva  intelligentis,  ncque  materialis,  ncque  finalis  tantum, 
sed  formalis  et  finalis  simul,  vel  formalis  tantum.  Ideo  subdit 
Commentator,  «  non  inconvenire  unum  esse  causam  plurium, 
secundum  quod  a  pluribus  intelligitur  »,  perfectius  tamen  a  per- 
fectioribus,  et  imperfectius  ab  imperfectioribus.  Et  hoc  patet 
Commentatore,  3  De  anima,  commento  5  :  «  Essentia  primae 
formae  est  quidditas  eius;  aliae  autem  formae  diversantur  in 
quidditate  et  essentia,  quoquo  modo  ».  Loquitur  Commentator 
de  essentia,  ut  fecerat  2  De  anima,  comm.  147:  Pomum  «  est 
indivisibile  subiecto,  et  divisibile  secundum  essentiam  diversam 
in  eo,  secundum  quod  habet  colorem,  odorem  et  saporem  »,  licet 
in  multis  sit  differentia  etc.  Ex  hoc  patet  intelligentiarum  compo- 
sitio,  quae  cum  aliis  est,  et  earum  simplicitas,  quia  non  compo- 
sitio  ex  aliis;  ideo,  3  De  anima,  comin.  9:  «  Res  abstractae  sunt 
simplices,  et  non  compositae.  Ex  his  habetur  quod,  cum  supe- 
riores  intelligentiae  sint  in  inferioribus,  adhuc  potest  intelligentia 
interior  intelligere  superiorem,  non  intelligendo  tamen  aliquid 
extra  se.  Patet  etiam  quod,  cum  intelligentia  superior  sit  intel- 
lectio  inferiori,  quod  potest  superior  principiare  motum  productum 
ab  inferiori,  eo  modo  quo  intellectio  est  principium  operationis 
ab    intelligentia   productae  »  i'. 

Giunto  alla  fine  della  discussione,  l'Achillini  si  domanda 
se  una  tale  teoria  non  contradica  alla  verità  teologica;  e  ri- 
sponde di  no,  anzi  dichiara  di  trovarla  in  tutto  conforme  a 
quello  che  la  fede  insegna  in  proposito  5%  E  veramente  anche 
S.  Tommaso  è  del  parere  che,  nell'atto  della  visione  beatifica, 
l'essenza  divina  non  è  soltanto  oggetto  conosciuto,  «  id  quod 
intelligitur  »,  ma  altresì  forma  intelligibile  per  mezzo  della 
quale  la  stessa  essenza  divina  è  conosciuta,  «  forma....  qua 
intelligitur» 53.  Questa  forma  attua  bensì  l'intelletto  umano 
reso  capace  per  grazia,  ma  l'attua  solo  idealmente,  «  in  in- 
telligendo »,  non  sostanzialmente,  poiché  l' intelletto  umano 
ha  già  un  suo  atto  sostanziale  anteriore  all'unione  beatifica 
coll'essenza   divina  54.    Non   così  per  l'Achillini  e  per  Sigieri* 


51  AcHiLLiNi,  /.  e,  col.  3-4;  NiFO,  /.  c,  3-4;  cfr.  Sigieri,  p.  28. 

52  ACHILLINI,    fol.    9,    col.    3. 

53  S.  Tommaso,  S.  theol.,  Suppl.,  q.  92,  a.   i. 

^'4   Ib. 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  IQQ 

Questi  non  fanno  alcuna  distinzione  fra  l'ordine  naturale  e  lo 
stato  soprannaturale  concesso  per  grazia,  fra  la  conoscenza 
che  compete  alle  intelligenze  separate  per  loro  natura  e  la 
visione  beatifica  di  cui  parlano  i  teologi.  Inoltre,  l' intendere 
delle  intelligenze  create,  tanto  nell'ordine  naturale  quanto 
nell'ordine  soprannaturale,  è,  per  l'Aquinate,  una  operazione 
accidentale  che  s'aggiunge  alla  loro  natura  sostanziale  già 
costituita  in  atto  55,  e  il  loro  stesso  intelletto  è  una  potenza 
altra  dalla  loro  essenza 56.  Per  l'Achillini  e  per  Sigieri,  invece, 
l'essenza  stessa  di  qualsiasi  intelletto,  sì  di  quello  umano  come 
di  quelli  celesti,  come  vedremo  anche  meglio  in  seguito,  con- 
siste in  un  atto  sostanziale  d' intendere,  dovuto  alla  loro 
vmione  coli'  intelletto  agente  che,  per  essi,  è  Dio.  Fra  l' intel- 
letto umano  e  le  intelligenze  celesti  v'  è  solo  questa  differenza, 
che  r  intelletto  agente  s'unisce  al  primo  per  gradi,  e  comple- 
tamente solo  al  termine  del  suo  sviluppo;  alle  seconde  invece 
è  eternamente  unito  come  forma  che  attua  tutta  insieme  la 
loro  capacità.  GÌ'  intelletti  inferiori  a  Dio  hanno  essere  sol- 
tanto in  quanto  intendono  la  prima  Intelligenza,  che  sola 
è  da  sé  e  per  sé.  Dio  così  è  il  sole  del  mondo  intelhgibile  ;  le 
altre  intelligenze  ne  sono  lo  splendore.  In  questo  eterno  rag- 
giare dalla  prima  Luce  intelligibile  e  in  questo  eterno  riflet- 
terla per  diversi  gradi,  consiste  l'essere  delle  menti  inferiori 
alla  prima   Mente. 

Per  questo  nell'  intelletto  non  v'  è  memoria,  che  è  ritorno 
del  passato.  Siffatto  ritorno  del  passato  non  è  concepibile 
là  dove  è  solo  un  eterno  presente  senza  mutamento.  I  teologi 
medievali,  compreso  S.  Tommaso,  potevano  attribuire  agli 
angeli  la  memoria,  in  quanto  attribuivano  ad  essi  un  conoscere 
puramente  naturale  e  accidentale  distinto  dal  conoscere  «  in 
Verbo  »  ;  non  gli  averroisti,  pei  quali  le  intelligenze  conoscono 
solo  in  quanto  sono  informate  dall'essenza  divina.  Ed  è  sicu- 
ramente sotto  r  influenza  di  questa  dottrina  averroistica  che 
Dante  rimprovera  ai  teologi  di  avere  attribuito  la  memoria 
agli  angeli^?;  che  è  un'altra  delle  tante  tracce  dell'influsso 
dell'avveroismo    sul   pensiero    del   nostro    poeta. 


55  S.  Tommaso,  5.  rheol.,  I,  q.  54,  art.  1-2. 

56  Ib.,  a.  3. 

57  Par.,  XXIX,   76-81.   Si  veda  in  proposito,  B.  Nardi,  Nel  mondo 
di  Dante,  Roma,   1944,  pp.  372-374. 


200        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

Il  Quolihetum  concernente  le  intelligenze  celesti  si  chiude 
con  un  terzo  duhiuni,  nel  quale  l'averroista  bolognese  si  chiede 
se  le  intelligenze  intermedie  distino  dalla  prima  Intelligenza 
con  certo  ordine,  ossia  seguendo  una  qualche  proporzione: 
«Utrum  ordine  quodam  recedant  intelligentiae  mediae  a  prima». 
Il  problema  è  risolto  da  lui  coll'affermazione  che  così  è  per 
Aristotele,  non  però  secondo  verità  58. 

Anche  questo  è  un  problema  tipicamente  averroistico,  e 
trae  origine  da  quel  passo  del  commento  d'Averroè  al  dodi- 
cesimo della  Metafisica,  che  dice: 

Quoniam  vero  ordinatio  istorum  moventiiuTi  a  primo  motore 
oportet  ut  sii  secundum  ordinem  stellarum  et  orbium  in  loco, 
manifestum  est  etiam;  prioritas  enim  in  loco  eorum  et  in  magni- 
tudine  facit  eos  priores  in   nobilitate  59. 

Qual  fosse  il  pensiero  di  Sigieri  su  questo  argomento,  non 
sappiamo.  Ma  conosciamo  quello  d'un  averroista  a  lui  abba- 
stanza vicino  e  che,  come  il  brabantino,  insegnava  a  Parigi 
nella  scuola  delle  Arti;  voglio  dire  Giovanni  di  Jandun.  Questi 
discute  il  problema  «  Utrum  motores  corporum  celestium  sint 
ordinati  secundum  ordinem  corporum  celestium  in  magni- 
tudine et  in  loco  »  nelle  Qiiaestiones  sulla  Metafisica,  e  lo  ri- 
solve  in   senso   affermativo  ^°. 

La  soluzione  che  del  problema  ci  dà  il  bolognese,  è  sostan- 
zialmente identica  a.  quella  dell'averroista  di  Jandun:  posto 
che  v'  è  tra  le  intelligenze  celesti  un  ordine  gerarchico  fondato 
sul  differente  grado  di  perfezione,  egli  stabilisce  una  corri- 
spondenza fra  questo  e  l'ordine  dei  cieli,  in  quanto  essi  si 
differenziano  per  grandezza  e  velocità: 

Primus  est  ordo  secundum  gradum  perfectionis  essentialis 
earum  (intelligentiarum)  sic  quod,  quanto  una  intelligentia  est 
perfectior  alia,  tanto  est  primo  propinquior,  non  tainen  secundum 
proportionem  geometricam;  patet  quolibeto  5.  Hic  autem  ordo, 
qui  rationes  formales  intelligentiarum  consequitur,  causa  est 
aliorum  ordinum  qui  sequuntur.  —  Secundus  est  ordo  caelorum 
secundum  magnitudinem  eorum,  secundum  quam  caelum  maius 
continet  caelum  minus.  Perfectiore  igitur  intelligentia  caelum 
maius    regitur   et    gubernatur.    Oportet    enim   informabile    corre- 


58  AcHiLLiNi,  Quol.  II,  dub.  3,  fol.  9,  col.  2. 

59  AvERR.,   Metaph.,   XII,   comm.   44. 

60  IoANNis  DE  Ianduno,   Quaestìofies  in  Metaph.,   XII,   q.   19. 


I    «  OUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  20I 

spendere  formae  sic,  quod  altieri  caelo  altior  intelligentia  api)ro- 
priatur....  —  Tertius  est  ordo  velocitatis  in  motu.  Caelum  enim 
maius  velociori  motu  movetur,  distinguendo  inter  movere  et  cir- 
cuire. Huius  sententiae  fundamentum  ponit  Commentator,  se- 
cando Caeli,  commento  58  :  super  (semper  ?)  eorum  intelligen- 
tiarum  intellectus  est  fortior  et  desiderium  est  fortius;  ideo  ab 
eis   motus   est   velocior  61. 

Se  il  cielo  è  il  soggetto  informabile  e  l' intelligenza  è  la  sua 
forma,  e  se  le  intelligenze  non  hanno  altra  funzione  che  quella 
di  motori  dei  diversi  cieli,  ne  segue  che  dal  numero  dei  cieli 
e  dei  moti  celesti  si  debba  dedurre,  come  aveva  insegnato 
Aristotele  (>-,  il  numero  delle  intelligenze.  Ora  cieli  in  senso 
vero  e  proprio  possono  dirsi  soltanto  quelli  in  cui  brillano 
una  o  più  stelle.  Perciò  otto  e  soltanto  otto  sono  le  intelli- 
genze motrici.  La  più  alta  di  esse  è  Dio,  che  muove  immedia- 
tamente il  cielo  delle  stelle  fisse,  «  quod  secum  rapit  alia 
corpora  caelestian^B.  Le  altre  sette  muovono  ciascuna  uno  dei 
cieli  planetari,  nell'ordine  stabilito  dagli  astronomi.  L'Achil- 
lini,  come  respinge  con  Averroè  la  teoria  degli  eccentrici  e 
degli  epicicH,  così  sembra  rifiutare  il  nono  cielo,  comunemente 
ammesso  sull'autorità  di  Tolomeo:  «  Or  bis  stellatus  est  finis 
corporum  quae  sunt  intra,  quoniam  extra  ipsum  nihil  est»; 
esso  è  il  primo  e  più  perfetto  di  tutti  gli  altri  cieli  ;  «  ideo  caelum 
stellatum  deo  informatur  »  64. 

Se  non  che  i  moti  planetari  non  sono,  per  Aristotele,  m^oti 
semplici;  sibbene  la  risultante  di  più  movimenti  che  richiedono 
più  sfere.  Così  Aristotele,  a  render  ragione  del  moto  di  ogni 
pianeta,  aveva  dovuto,  sull'esempio  di  Eudosso,  scindere 
ogni  cielo  planetario  in  un  gruppo  di  più  sfere,  ciascuna  delle 
quali  aveva  un  diverso  movimento.  Dalla  composizione  dei 
loro  moti  risultava  il  moto  apparente  del  pianeta.  Una  sola 
intelligenza,  secondo  l'avviso  dell' Achillini,  presiede  al  moto 


61  Achillini,  Quol.  II,  dub.  3,  fol.  9,  col.  2.  Il  passo  d'Averroè  nel 
luogo  citato  suona  cosi  :  «  Quod  igitur  magis  propinquum  fuerit  primo 
orbi,  habebit  maius  desiderium,  quoniam  propinquitas  in  loco  illic 
est  similis  propinquitati  essentiarum  ad  invicem,  quae  est  propinquitas 
in  scientia  et  in  inteUectu  rationali;  quanto  enim.  magis  intellectus  primi 
moti  erit  fortior,  tanto  magis  desiderium  erit  perfectius;  et  quanto 
magis  desiderium  erit  perfectius,  tanto  motus  eius  erit  velocior  ». 

62  Metaph.,  XII,  t.  e.  43-48,  e.  8,  1073»  37-1074»  16. 

63  Achillini,   fol.    io,   col.    i. 

64  Achillini,  fol.  9,  col.  3. 


202        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

di  Ogni  pianeta  ;  ma  ognuna  delle  sfere  che  formano  quel  gruppo 
planetario  è  mossa  da  una  sua  particolare  anima  che  è  causa 
efficiente  di  moto,  mentre  l' intelligenza  che  presiede  al  gruppo 
è  soltanto  causa  finale  a  cui  le  anime  celesti  obbediscono  65. 
Si  hanno  così  otto  intelligenze:  la  prima  è  Dio,  motore  del 
cielo  stellato  e  quindi  di  tutto  l'universo:  ad  essa  obbediscono 
le  sette  intelligenze  planetarie,  più  o  meno  nobili  secondo 
che  sono  più  o  meno  vicine  al  primo  Motore.  Ciascuna  delle 
sette  intelligenze  planetarie  presiede  a  un  gruppo  d'anime 
celesti,  quanti  sono  i  moti  dei  quali  il  moto  di  ogni  pianeta 
è  la  risultante. 

Tutto  questo,  pensa  il  filosofo  bolognese,  si  ricava  da  Ari- 
stotele e  dal  suo  commentatore  di  Cordova:  ma  secondo  la 
verità  della  fede,  fra  la  prima  Intelligenza,  che  è  infinita,  e  le 
intelligenze  inferiori,  non  può  stabilirsi  alcuna  proporzione, 
poiché  queste,  per  quanto  più  o  meno  perfette,  sono  tutte 
ugualmente  distanti  dall'  infinità  della  Prima.  Ciò  non  di 
meno,  anche  secondo  la  fede,  esiste  fra  le  intelligenze  angeliche 
un  ordine  basato  sulla  loro  diversa  perfezione.  Con  questa 
osservazione,  mentre  sta  per  mettere  il  piede  sulla  soglia  della 
teologia,  «  in  ianuis  theologiae  »,  l'Achillini  pone  fine  al  se- 
condo   quolibeto. 

Ma  mentre  il  filosofo  averroista  sentiva  il  dovere  di  arre- 
starsi sul  limitare  della  teologia,  il  teologo  al  contrario  non 
sentiva  ritegno  di  portare  l'abito  del  ragionamento  filosofico 
sul  terreno  della  verità  rivelata  e  di  contaminare,  come  spesso 
avveniva,  i  dogmi  della  fede  colle  lucubrazioni  della  filosofia. 
Tale  è  il  caso,  fra  i  molti  che  si  verificarono  dal  secolo  XIII 
in  poi,  della  speculazione  teologica  intorno  agli  angeli. 

L'angelologia  ebraico-cristiana  era  solidamente  costituita  nei 
suoi  capisaldi  teorici,  come  ne'  suoi  elementi  rappresentativi 
e  fantastici,  assai  prima  del  suo  incontro  colla  filosofia  aristo- 
telica. Ma  poi  che,  per  opera  dei  filosofi  maomettani  ed  ebrei 
l'aristotelismo  prese  contatto  colla  rivelazione,  e  a  poco  a 
poco  alla  primitiva  e  rozza  cosmologia  biblica  si  soprappose 
quella  dotta  dei  greci  ^^^  anche  l'angelologia  subì  un'uguale 
contaminazione.  «  Omnes  gentes  quae  concedunt  Deum  esse, 


65    ACHILLINI,    fol.     IO,    col.    I. 

^^  Cfr.  il  molto  interessante  e  istruttivo  studio  di  G.  Ricciotti,  La 
cosmologia  della  Bibbia  e  la  sua  trasmissione  fino  a  Dante,  Brescia,  «  Mor- 
celliana »,    1932. 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  203 

conveniunt  in  hoc,  quod  caelum  est  locus  Dei  et  aliorum  spi- 
rituum  qui  vulgariter  dicuntur  Angeli»,  osservava  Averroè^?; 
e  come  lui  pensavano  Avicenna,  Isacco  Israeli  e  Moisè  Maimo- 
nide.  Il  problema  da  risolvere,  per  i  teologi  cristiani,  era  quello 
di  trovare  nella  gerarchia  angelica,  fissata  dallo  pseudo  Dio- 
nigi Areopagita  o  da  S.  Gregorio  Magno,  il  posto  preciso  ove 
collocare  le  intelligenze  motrici  d'Aristotele  e  dei  suoi  commen- 
tatori. Così,  mentre  Tommaso  assegna  la  funzione  di  intel- 
ligenze motrici  ad  alcuni  angeli  dell'ordine  delle  Virtù,  il  do- 
menicano Maestro  Teodorico  di  Vriberg  fa  delle  intelligenze  di 
cui  parlano  i  filosofi,  un  ordine  a  parte  che  precede  l'ordine 
costituito  dalle  anime  dei  cieli  e  quello  degli  angeli  ^^.  Per 
Dante,  le  intelligenze  motrici  dei  cieli  sono  quelle  stesse  «  le 
quali  la  volgare  gente  chiamano  Angeli»  69;  ma  non  tutti  gli 
Angeli,  sibbene  quelli  che,  in  ciascuna  gerarchia  ed  ordine, 
sono  stati  deputati  alla  vita  attiva,  cioè  al  governo  del  mondo, 
anzi  che  alla  pura  vita  contemplativa  7°.  E  secondo  la  nobiltà 
dei  diversi  cieli  essi  appartengono  a  gerarchie  e  ordini  diversi?'  ; 
sì  che  il  poeta,  al  pari  degli  averroisti,  può  stabilire  un  rapporto 
tra  la  perfezione  dei  cieli  e  quella  degli  ordini  angelici  disposti 
in  nove  cerchi  concentrici  intorno  a  Dio: 

Li  cerchi  corporai  sono  ampi  ed  arti 
secondo  il  più  e  '1  men  della  virtute 
che  si  distende  per  tutte  lor  parti. 

Maggior  bontà,  vuol  far  maggior  salute; 
maggior  salute  maggior  corpo  cape, 
s'elli  ha  le  parti  igualmente  compiute. 

Dunque  costui  che  tutto  quanto  rape 
l'altro  universo  seco,  corrisponde 
al  cerchio  che  più  ama  e  che  più  sape. 

Per  che,  se  tu  alla  virtù  circonde 
la  tua  misura,  non  alla  parvenza, 
delle  sustanze  che  t'appaion  tonde, 

tu  vederai  mirabil  conseguenza 
di  maggio  a  più  e  di  minore  a  meno 
in  ciascun  cielo,  a  sua  intelligenza  7^. 


67  De  caelo,  I,  comm.  22.  Cfr.  C.  Baeum  ker,  Witelo,  in  Beitr.  z.  Gesch. 
d.   Philosophie  d.  Mittelalters,  III,  2,   1908,  pp.  537  sgg. 

68  E.  Krebs,  Meister  Dietrich,  in  Beitr.  z.  Gesch.  d.  Philos.d.  Miti., 
V,  5-6,   1906,  pp.  88*-9i*. 

69  Dante,    Convivio,    II,   iv,    2. 

70  Ib.,   II,    IV,    10-13. 

71  Ib.,   II,  v,   13-15. 

73  Par.,  XXVIII,  64-7S. 


204        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

Così  non  ragionava  certamente  Tommaso;  così  ragionavano 
invece  Averroè  e  gli  averroisti,  pei  quali  le  intelligenze  motrici 
son  forma  delle  rispettive  sfere,  come  forma  del  cielo  stellato 
è  Dio  stesso. 


3.  -  Il  terzo  quolibeto  tratta  dell'  intelletto  possibile,  che 
occupa  r  inlìmo  posto  tra  gì'  intelletti  e  costituisce  la  «  tertia 
et  ultima  pars  latitudinis  intellectuum  ».  A  proposito  di  esso 
l'Achillini  stabilisce  questa  tesi:  «  Intellectus  possibilis  est 
intensissimum  materialium  et  remississimum  abstractorum  », 
ossia  è  la  più  intensa  delle  forme  unite  alla  materia  e  la  meno 
attiva  delle  forme  separate  73.  Poiché,  come  vedremo,  l' intel- 
letto umano,  per  lui,  è  una  sostanza  separata,  unica  per  tutta 
la  specie  umana,  e,  nello  stesso  tempo,  forma  sostanziale 
degl'  individui  ai  quali  è  unito  per  sua  natura. 

Intorno  a  questa  tesi,  son  discussi  quattro  dubia,  il  primo 
dei  quali  concerne  la  teoria  d'Alessandro  d'Afrodisia,  esposta 
e  combattuta  da  Averroè  74,  secondo  la  quale  l'intelletto  pos- 
sibile sarebbe  una  virtù  organica  tratta  dalla  potenza  della 
materia.  L'averroista  bolognese  confuta  questa  dottrina  con 
undici  argomenti  tolti  dagli  scritti  del  commentatore  arabo. 
Ma  se  r  intelletto  possibile  non  è  una  «  virtus  materialis  », 
al  modo  delle  forme  che  hanno  essere  solo  per  la  materia 
a  cui  sono  unite  e  dalla  quale  sono  individuate,  se  esso  ha  una 
sua  propria  realtà  indipendente  dalla  materia,  ne  consegue 
che  in  se  stesso  sia  unico  per  tutti  gli  uomini.  Questa  è  ap- 
punto la  tesi  che  l'Achillini  sostiene  d'accordo  con  Averroè, 
discutendo  il  secondo  dubbio  :  «  Utrum  [unum]  intellectum. 
possibilem  habeat  omnis  homo  »  75. 

Fra  gli  argomenti  a  sostegno  della  tesi  averroistica  vi  sono 
questi,   desunti   dalla   natura   della   conoscenza   intellettuale: 

Si  sic  [cioè,  si  intellectus  possibilis  esset  multiplicatus  ad  nu- 
merum  hominum),  contingeret  ut  res  intellecta  apud  te  et  apud 
me  sit  unum  in  specie  et  duo  in  individuo;  ratio  patet  supra.  — 
Secundo,   si  sic,   procederetur  in  infinitum  in  coiiceptibus;   quia 


73  AcHiLLiNi,  f.  IO,  col.  1-2. 

74  De  anima,  III,  comm.  5,  digress.  pars.  III.  Cfr.  S.  Tommaso,  Trat- 
tato sull'unità  dell'intelletto  contro  gli  averroisti,  Firenze,  Sansoni,  1938, 
pp.    19-20,   40-42. 

75  AcHiLLiNi,  fol.   IO,   col.   4-f.    II,   col.    I. 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  2O5 

conceptus  essent  numero  diversi,  et  ab  omni  per  se  intelligibili 
numeraliter  multiplicato  abstrahibilis  est  conceptus;  ideo  ab  illis 
conceptibus  essent  alii  conceptus  abstrahibiles  ;  patet  supra.  — 
Tertio,  unus  est  conceptus  essentialis  omnium  individuorum 
eiusdem  speciei;  ergo  unus  est  intellectus  possibilis  omnium  ho- 
minum. 

Questi  tre  argomenti  non  sono  in  sostanza  che  uno  solo, 
cioè  quello  di  cui  già  facevano  uso  gli  averroisti,  coi  quali 
polemizza  Tommaso  nel  De  unitate  intellectus,  e  a  capo  dei 
quali  era  Sigieri: 

Adhuc  autem  ad  munimentum  sui  erroris  aliam  rationem 
inducunt.  Quaerunt  enim  utriim  intellectum  in  me  et  in  te  sit 
unum  penitus,  aut  duo  in  numero  et  unum  in  specie.  Si  unum 
intellectum,  tunc  erit  unus  intellectus.  Si  duo  in  numero  et  unum 
in  specie,  sequitur  quod  «  intellecta  habebunt  rem  intellectam  «  : 
quaecumque  enim  sunt  duo  in  numero  et  unum  in  specie,  sunt 
unum  intellectum,  quia  est  una  quidditas  per  quam  intelligitur; 
et  sic  procedetur  in  infinitum,  quod  est  impossibile.  Ergo  impos- 
sibile est  quod  sint  duo  intellecta  in  numero  in  me  et  in  te;  est 
ergo  unum  tantum,  et  unus  intellectus  numero  tantum  in  omnibus  1^. 


76  S.  Tommaso,  Traci,  de  un.  intell.  cantra  averr.,ed.  Keeler,  Roma, 
1936,  §  106,  pp.  68-69;  cfr.  il  mio  commento  alla  traduzione  di  questo 
opuscolo  tomistico,  Firenze,  Sansoni,  1938,  p.  175,  nota  2.  L'argomento 
che  deriva  da  Averroè  {De  anima,  III,  comm.  5,  digress.  pars  V,  sol.  ^ae 
quaestionis),  è  ampliato  da  Egidio  Romano  nel  suo  trattato  De  plur. 
inteìlectus  possibilis,  Venezia,  1500,  parte  I,  fol.  girò,  ed  è  la  sesta  delle 
ragioni  colle  quali  Averroè  «  positionem  suam  roborat  et  vult  osten- 
dere  quod  intellectus,  qui  dicitur  possibilis,  est  unus  numero  »,  in  questo 
modo:  «Si  potest  estendi  quod  una  et  eadem  species  intelligibilis  in- 
format  omnes  intellectus,  tunc  sequitur  quod  sit  unus  intellectus  in 
omnibus  numero.  Unde  licet  non  sequeretur  quod  eadem  res  videretur 
ab  oculo  omnium  hominum,  si  unus  esset  oculus  omnium,  bene  tamen 
valeret  quod,  si  una  species  informaret  oculum  cuiuslibet  hominis, 
quod  unus  esset  oculus  cuiuslibet  hominis.  Ergo  a  simili:  si  igitur  una 
species  informat  intellectum  omnis  hominis,  omnes  homines  habent 
unum  intellectum.  Quod  autem  una  species  informet  intellectum  omnis 
hominis,  patet;  nam  possibile  est  quod  plures  homines  intelligant  la- 
pidem.  Tunc  ergo  quero:  aut  est  per  imam  ^peciem  lapidis,  aut  per 
aliam  et  aliam.  Si  per  unam,  habeo  intentum;  si  per  aham  et  aliam, 
tunc  ille  due  species  oportet  quod  differant  numero,  et  communicent 
in  forma,  cum  ducant  in  cognitionem  unius  naturae.  Sed  quotiescunque 
aliqua  dicunt  differentiam  in  numero  seu  in  specie,  tunc  nullum  eorum 
habet  intellectum  in  actu,  et  habet  tantum  intellectum  comm.unem; 
ideo  nulla  illarum  specierum  est  in  intellectu  in  actu,  sed  habebunt 
intellectum  communem.  Et  tunc  quero  de  ilio  intellectu  comuni,  cum 
possit  intelligi,  utrum  intelligatur  per  eandem  speciem  vel  per  aliam; 
sed  non  est  abire  in  infinitum;  standum  est  igitur  in  primis,  quod  una 
species    potest    informare    intellectum    plurium    hominum    et    pari    ra- 


206        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Nel  corso  della  discussione  delle  obiezioni  contro  la  tesi 
dell'unità,  l'Achillini  inserisce  addirittura  un  brano  di  Sigieri, 
che  noi  conosciamo  attraverso  una  citazione  del  Nifo  e  che 
questi  dice  preso  dal  trattato  De  intellectn,  «  misso  Thome  in 
responsione  ad  illum  Thome» 77.  Giova  riportarlo,  per  un  con- 
fronto con  quanto  scrive  il  suessano: 

Ad,  haec  supponamus  quod  iste  terminus  «  homo  »  significat 
compositum  ex  corpore  et  intellectu,  et  quod  «  homo  »  est  per  se 
unum,  directe  reponibile  in  praedicatione  substantiae,  sub  «  ani- 
nali  »,  intrinsece  denoininatum  intellectione  etc.  Secundo,  non 
potest  intellectus  informare  materiam  non  informante  cogitativa 
quia  non  stat  materia  sino  forma  constituta  in  esse  per  eam;  et 
non  potest  intellectus  informare  sine  sua  proxima  dispositione 
et  ultima,  quae  est  cogitativa.  Et  sic  patet  cogitativam  ordinari  in 
intellectivam,  quamvis  cogitativa  non  sit  forma  generica.  Ex  quo 
patet  quare  operatio  cogitativae  et  intellectus  possibilis  se  co- 
mitantur,  ut  tangit  Commentator,  2  De  anima,  comm.  15.  Ncque 
potest  cogitativa  informare,  non  informante  intellectu,  quia, 
dato  informabili  ultimate  disposito  et  informativo,  ponitur  in- 
formatio.  Est  autem  materia  informata  cogitativa  informabile 
propinquum  et  ultimate  dispositum  ad  recipiendum  intellectum; 
et  sic  potest  una  forma  substantialis  esse  dispositio  ad  aliain, 
dummodo  illa  forma  praeparans  non  sit  materiae  ratio  recipiendi. 
Hucusque  nihil  mali  dictum  est78.  Tertio,  praemittendum  apud 
Averroim  quod  intelligentiae  sunt  haec  et  individuae  individua- 
tione  non  repugnante  esse  universali,  quia  esse  earum  in  anima 
et  extra  animam  est  idem,  3  De  anima,  comm.  9,  et  7  Metaphy- 
sicae,  commento  41:  «In  abstractis  non  differt  quidditas  ab  eo 
cuius  est  ».  Est  autem  intellectus  possibilis  de  genere  intelligen- 
tiarum,  ideo  non  repugnat  intellectum  dare  esse  hoc,  quamvis 
etiam  sit  universalis.  Ideo  concedo  Sortem  habere  suum  esse 
hoc  ab  intellectu.   Sed  a  materia,   divisa    informabili    cogitativa. 


tione  omnium;  igitur  omnes  homines  habent  unum  intellectum  numero  »^ 
Appare  evidente  da  questo  testo  d'  Egidio  e  da  quello  di  Tommaso, 
come  si  sia  ingannato  il  Fiorentino,  di  solito  attento  e  accurato,  quando 
ha  creduto  di  ravvisare  nel  terzo  argomento  dell'Achillini,  qui  sopra 
riportato,  «  due  mutazioni  sostanziali  »  dell'averroismo  {Pietro  Pom- 
ponazzi.  Studi  storici  su  la  scuola  bolognese  e  padovana  nel  sec.  XVI. 
Firenze,  1868,  pp.  254-255).  Il  «  conceptus  essentialis  omnium  indivi- 
duorum  eiusdem  speciei  »  è  l' intellectum,  cioè  il  votjtÓv  aristotelico, 
l'universale  che  è  certamente  unico  per  tutti  gì'  individui  d'una  stessa 
specie.  Dall'unità  dell'  intellectum  Averroè  e,  con  lui,  l'Achillini  dedu- 
cono  l'unità    dell'  intellectus   possibilis. 

77  Nifo,   De   intellectu,    1,   tv.   3,   e.    18;    cfr.    Sigieri,   p.  18. 

78  Questa  frase  che  nel  riassunto  del  Nifo  manca,  è  evidentemente 
un'osservazione  dell'Achihini,  e  mostra  che  questi  ha  un  testo  dinanzi 
a  sé. 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  20/ 

informante  mediante  dimensionibus,  oritur  possibilitas  multi- 
plicationis  individuorum  sub  eadem  specie;  quae  omnia,  secundum 
Commentatorem,  propter  esse  universale  intellectus,  informari 
possunt  ilio  et  ab  ilio  sumere  suum  esse  hoc  et  unum,  et  verius 
unum  quam  bruta  a  sensu,  quia  mediantibus  dimensionibus 
unitur  sensus  materiae,  sed  non  intellectus  79. 

Parrebbe  dal  confronto  di  questo  brano  con  quanto  ci  è 
fatto  sapere  dal  Nifo,  che  l'Achillini  abbia  fatto  sua  una  pa- 
gina dello  scritto  di  Sigieri  in  risposta  al  De  unitale  intellectus 
dell' Aquinate.  Come  vedremo  più  oltre,  non  è  questo  l'unico 
caso   da  rilevare. 

Dopo  aver  sostenuta  con  sedici  argomentazioni  la  tesi 
dell'unità  dell'  intelletto  possibile,  attribuita  ad  Aristotele, 
ed  aver  risolto  le  quattro  obiezioni  contro  di  essa,  il  bolognese 
conclude  affermando  che  la  tesi  d'Aristotele  e  d'Averroè  è 
falsa,  e,  contro  il  metodo  finora  seguito,  fa  vedere  che  cosa 
si  può  rispondere  ai  sedici  argomenti  a  prò  di  essa. 

Indi  passa  a  discutere  un  terzo  dubbio,  e  cioè  «  Utrum  intel- 
lactus  possibilis  sit  pure  potentialis  ».  Il  problema  era  stato 
posto  almeno  due  volte  da  Sigieri  di  Brabante,  e  tutte  e  due 
le  volte  risolto  allo  stesso  modo:  l'intelletto  possibile,  prima 
dell'atto  dell'  intendere,  non  ha  alcun  atto,  né  può  dirsi  so- 
stanza se  non  in  potenza.  Affermare,  come  facevano  Tommaso 
ed  altri,  che  esso  sia  una  sostanza  in  atto  «  in  genere  intellectua- 
lis  naturae  »,  prima  dell'atto  d' intendere,  «  est  ponere  con- 
traria et  impossibilia  vel  incompossibilia»8o;  per  questa  ra- 
gione appunto  Aristotele  aveva  detto  e  quod  intellectus  ante 
intelligere  nullam  naturam  habet  nisi  istam  quod  possibilis»^'. 

L' intelletto  possibile  diviene  atto  e  sostanza  «  in  genere 
intellectualis  naturae  »,  soltanto  per  l'azione  su  di  esso  del- 
l' intelletto  agente,  che  è  una  sostanza  separata,  la  quale, 
come  ormai  sappiamo,  per  Sigieri  è  Dio. 

Identica  è  la  soluzione  che  di  questo  problema  dà  l'Achil- 
lini: r  intelletto  possibile  è  sostanza  puramente  potenziale 
«  in  genere  intelligibilium»^'-,  e  quello  che  lo  trae  dalla  potenza 


79  AcHiLLiNi,  fol.   II,  col.   2-3. 

^0  Sigieri,  Qiiaestiones  naturales,  ed.  Stegmùller,  III,  pp.  179-180. 
^i  Sigieri,    De    anima    intellectiva,    ed.    Mandonnet,  IX,    p.    171. 
Cfr.  Giorn.  Crii.  d.  Filos.  Hai.,  XX,   1939,  pp.  467-471. 

8i  AcHiLLiNi,   Quol.   Ili,   dub.   3,  fol.    12,  col.   i-fol.   13,  col.  4. 


2o8        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV   AL    XVI 

l'atto  è  r  intelletto  agente  che,  anche  per    1'  averroista   ita- 
liano, come  vedremo  esaminando  il  quarto  quolibeto,  è  Dio: 

Componitur  enim  intellectus  possibilis  agenti;  tali  tamen  com- 
positione  quod  remanent  dnae  substantiae  separatae  in  actu. 
Ideo,  3  De  anima,  comm.  20,  istae  substantiae  sunt  duae  uno 
modo,  et  unum  alio  modo.  Sunt  enim  duae  per  diversitatem  actio- 
nis;  et  sunt  unum,  quia  intellectus  materialis  perficitur  per  agen- 
tem.  Et  secundo  De  anima,  comm.  74,  et  3  De  anima,  comm.  36, 
omnis  actio  attributa  alieni  propter  aliqua  duo  existentia  in  eo, 
necesse  est  ut  unum  sit  materia  et  aliud  forma;  sed  nos  intelli- 
gimus  per  intellectum  agentem  et  possibilem,  3  De  anima, 
comm.  18;  et  sic  aliquo  modo  intellectus  agens  est  forma  nobis, 
ut  patet  3  De  anima,  comm..   36. 

Se  r  intelletto  possibile  non  è  un  atto  prima  d' intendere, 
ma  semplice  potenza,  ne  segue  che  l' intellezione  che  attua 
questa  potenza,  sia  essa  l'atto  sostanziale  dell'  intelletto, 
poiché  la  pura  potenza  non  è  mai  soggetto  immediato  d'ac- 
cidenti. Perciò  l'atto  d' intendere,  del  pari  che  l'abito  della 
scienza,  è  perfezione  essenziale  dell'  intelletto  possibile  e 
atto  che  costituisce  la  sua  sostanza  quando  pensa  e  ragiona  ^3. 
Anche  in  questo  egli  è  perfettamente  d'accordo  con  Sigieri  ^4 

Unico  per  tutta  la  specie  umana,  l' intelletto  possibile  è 
eternamente  congiunto  coli'  intelletto  agente  che  ne  attua  la 
potenza,  e  possiede,  grazie  a  questo  congiungimento,  un  atto 
di  pensiero  eterno  in  cui  consiste  la  sua  stessa  natura.  Di 
abiti  e  di  atti  accidentali  si  può  parlare  non  in  rapporto 
all'  intelletto  in  sé,  ma  solo  in  rapporto  ai  fantasmi  sensibili 
ai  quali  l' intelletto  possibile  s'unisce  nei  singoli  individui 
della  specie  umana.  Questo,  s' intende,  dal  punto  di  vista 
averroistico,  in  quanto  s'ammette  un  unico  intelletto  per 
tutti  gli  uomini.  Ma  ciò  non  è  più  vero,  se  si  rifiuta  come  falsa 
la  tesi   dell'unicità   dell'  intelletto   possibile. 

L'ultimo  dubbio  del  terzo  quolibeto  verte  sul  problema: 
«  Utrum  intellectus  possibilis  sit  forma  dans  esse  hominem  ». 
Giacomo  Zabarella,  un  secolo  più  tardi,  faceva  le  sue  mera- 
viglie perché  l'Achillini,  dopo  aver  sostenuto  l'unità  dell'  in- 
telletto, non  avesse  visto  la  contradizione  che  e'  è  ad  affer- 
mare che  lo  stesso  intelletto,  unico  per  tutta  la  specie,  è  forma 


ACHILLINI,     fol.      13,      col.      I. 

Cfr.  Sigieri,  nei  luoghi  cit. 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  209 

informante,  e  non  soltanto  assistente,  sì  da  costituire  l'uomo 
nel  suo  essere  di  uomo  ^5.  Ma  il  filosofo  padovano  non  sapeva 
che  anche  in  questo  il  bolognese  segue  da  presso  il  maestro 
brabantino.  Del  quale  è  appunto  la  tesi,  a  quanto  e'  informa 
il  Nifo  86,  che  r  intelletto,  pur  essendo  unico  in  sé  stesso,  è 
«  forma  costituens  hominem  et  hunc  hominem  :  hominem  in 
esse  specifico,  et  hunc  hominem  in  esse  hoc  ».  Anzi  il  Nifo  ci 
fa  sapere  che  Sigieri,  nell'opera  della  quale  il  suessano  riferisce 
alcuni  tratti  che  son  riportati  alla  lettera  anche  dall'Achillini, 
come  abbiamo  visto  a  proposito  del  secondo  dubbio  di  questo 
terzo  quolibeto,  riteneva,  al  pari  del  bolognese,  dottrina  con- 
forme alla  mente  d'Averroè  quella  che  afferma  esser  l' intel- 
letto possibile  forma  sostanziale  dell'uomo.  Come  Sigieri, 
anche  l'averroista  italiano  poneva  nell'uomo  due  forme: 
la  cogitativa  tratta  dalla  potenza  della  materia,  e  l' intelletto. 
Ma  la  prima  è  ordinata  al  secondo,  e  questo  è  complemento 
e  perfezione  di  quella  87  ;  sì  che  la  materia  già  informata  dalla 
cogitativa  è  1'  «  informabile  ultimate  dispositum  ad  recipien- 
dum  intellectum))88,  che  ne  è  la  forma  ultima.  Il  Nifo  ad  espri- 
mere questo  intimo  e  sostanziale  rapporto  fra  la  cogitativa 
e  r  intelletto  possibile,  s'era  servito  del  termine  di  «  semianime 
o  semiforme  ».  Il  termine  nell'Achillini  non  s' incontra,  e 
non  credo  s' incontrasse  nemmeno  nello  scritto  di  Sigieri  al 
quale  il  suessano  si  riferiva:  ma  il  concetto  e'  è,  sì  nell'uno  che 
nell'altro  89. 

Forma  sostanziale  che  dà  all'uomo  il  suo  specifico  essere  di 


85  Iacobi  Zabarellae,  Liber  de  mente  hiimana  (nel  voi.  De  rebus 
naturalibus,  Venezia,  1590,  pp.  641-684,  e  nei  Commentarii  in  tres  Arist. 
libros  de  anima,  Venezia,  1605,  dopo  il  commento  al  t.  11,  del  libro  II), 
cap.   3   e    II. 

86  De  inteUectu,  I,  tr.  2,  e.  8,  tr.  3,  e.  18;  De  anima.  III,  comm.  ad  t. 
e.  5;  cfr.  Sigieri....  nel  pens.,  pp.  14-20.  Anche  il  Card.  Gaetano,  nel  suo 
commento  al  De  anima,  stampato  a  Firenze,  lui  vivente,  nel  15 io,  dopo 
aver  detto  che  Averroè  separò  l'anima  intellettiva  dal  corpo,  osserva 
in  margine  che  questo  è  «  contra  alexandrum  achiUinum,  quolibeto  30, 
et  subgerium  in  tractatu  ad  S.  Thomam,  qui  volunt  quod  intellectus 
uniatur  secundum  esse,  apud  averroem,  et  sit  unicus  »  (III,  cap.  2,  fol. 
59,  col.  3). 

87  ACHILLINI,     fol.      15,     col.      I. 

88  AcHiLLiNi,  fol.   II,  col.  3. 

89  In  Sigieri  anzi  il  concetto  s' incontra  fin  nelle  Quaestiones  super 
iertio  de  anima  del  Merton  College,  cod.  292;  cfr.  «Giornale  Crit.  d. 
Filos.  Ital.  »,  XXXI,  1950,  pp.  317-25.  Lo  stesso  concetto  appare  anche 
nelle  Quaestiones  de  anima  intellettiva,  ed.  Mandonnet,   Vili,  p.    170. 

14 


2  IO        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

uomo,  r  intelletto  non  è  per  altro  «  forma  constituta  in  esse 
per  materiam  »,  sì  da  dipendere  da  questa,  come  accade  per 
le  forme  che  son  tratte  dalla  potenza  della  materia,  poiché 
ha  un  proprio  essere  di  forma  separata  al  pari  delle  intelli- 
genze celesti,  che  pur  son  forme  dei  rispettivi  cieli 9°.  Ed  anche 
in  questo  concetto  l'accordo  dell'Achilhni  coll'averroista  belga 
è  perfetto. 

Forma  e  perfezione  del  primo  cielo  Dio,  forma  e  perfezione 
dei  cieli  inferiori  al  primo  le  intelligenze  motrici,  forma  e 
perfezione  dell'uomo  l' intelletto  possibile,  che  è  l' infima  delle 
intelligenze.  Resta  ora  da  vedere  come  Dio  sia  forma  anche 
degl'  intelletti  e  ragione   di  ogni  intelligibilità. 


4.  -  Il  quarto  quolibeto  è  dedicato  all'  intelletto  agente. 
Se  r  intelletto  possibile  è  pura  potenza,  l' intelletto  agente 
è  puro  atto  senz'ombra  di  potenza;  perciò  esso  possiede,  fra 
tutti  gì'  intelletti,  il  massimo  grado  d' intensità  nell'  intendere. 
Esso  dunque  è  Dio.  La  identità  dell'  intelletto  agente  con  Dio, 
che  il  Nifo  attesta  essere  stata  sostenuta  da  Sigieri,  è  dimo- 
strata  dall' Achillini   con   questi   argomenti: 

Primo,  omnis  felicitas  est  deus;  sed  intellectus  agens  est  feli- 
citas;  ergo  etc.  Maior  et  minor  in  secundo  dubio  et  tertio  decla- 
rantur.  —  Secundo,  omnis  intellectus  qui  est.  omnia  facere  est 
deus;  sed  intellectus  agens  est  intellectus  qui  est  omnia  facere, 
3  De  anima,  textu  comm.  18,  etc.  Patet  maior,  quia  esse  omnia 
facere  est  ad  omnia  receptibilia  in  intellectu  possibili,  ad  hoc 
ut  in  eo  recipiantur,  effective  concurrere,  vel  est  ad  omnia  facti- 
bilia  effective  concurrere,  vel  omnia  facere,  idest  purus  actus;  et 
quomodocumque  intelligatur,  soli  deo  competit.  —  Tertio,  illud 
cuius  substantia  est  sua  operatio  omnimode,  est  deus;  sed  intel- 
lectus agentis  substantia  est  illius  operatio  omnimode,  3  De  anima, 
comm.  19:  «Et  est  in  sua  substantia  actio  »,  idest,  non  est  in  eo 
potentia  ad  aliquid.  —  Quarto,  omne  quod  est  primum  educens 
formam  de  materia,  est  deus;  patet  ex  quolibeto  primo.  Sed  in- 
telligentia  agens  est  primum  educens  etc,  2  De  aniìna,  comm.  59. 
—  Quinto,  omne  quod  animae  nostrae  infundit  intellectum,  est 
intellectus  agens;  sed  deus  animae  nostrae  infundit  intellectum. 
Patet    maior,    quia    intellectum    speculativum    facit    intellectus 


90  Achillini,  fol.  15,  col.  2;  cfr.  Quol.  Ili,  dub.  3,  contra,  ad  i, 
fol.  12,  col  3.  Nifo,  De  intell.,  1,  tr.  2,  e.  8;  De  anima,  III,  comm. 
ad  t.  5;  V.  Sigieri,  pp.   14-20. 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  211 

agens  esse  in  intellectu  possibili,  faciendo  de  potentia  intellectis 
actu  intellecta.  Minor  est  Aristotelis  exemplum,  3  Rhetoy'icorum: 
«  Intellectui  deus  lumen  accendit  in  anima  ». 

Ex  hoc  patet  quare  Commentator,  3  De  anima,  comm.  20, 
dixit  se  differre  a  Themistio,  in  modo  ponendi  intellectum  agentera, 
et  convenire  cum  Alexandre;  quia  Themistius  voluit  intellectum 
agentem  non  esse  Deum,  quia  animae  nostrae  est  pars;  sed  Alexan- 
der voluit  intellectum  agentem  esse  deum:  patet  ex  3  De  anima, 
comm.  36,  ubi  Commentator,  recitando  opinionem  Alexandri 
dixit:  «  Intellectu s  agens  est  prima  causa  agens  intellectum  ma- 
terialem))9i. 


Il  primo  di  questi  argomenti  è  preso  da  Sigieri?-,  come  ve- 
dremo anche  meglio  fra  poco.  Il  secondo  e  il  terzo  son  ricavati 
dal  testo  aristotelico  del  De  animai,  ov'  è  detto  che  è  proprio 
dell'  intelletto  agente  rendere  intelligibili  tutte  le  cose,  e  che 
lo  stesso  intelletto  agente  è  atto  per  sua  natura,  senza  alcuna 
mescolanza,  sì  che  «  non  intende  ora  sì  ed  ora  no  »,  ma  intende 
sempre,  senza  intermissione;  le  quali  cose  son  proprie  sol- 
tanto di  Dio.  Importante  poi  è  l'osservazione  concernente  la 
dichiarazione  di  Averroè,  il  quale  approva  Alessandro  d'Afro- 
disia, per  avere  identificato  l' intelletto  agente  colla  causa 
prima  che  trae  dalla  potenza  all'atto  l' intelletto  possibile 
o  hylico. 

Dopo  di  che  l'Achillini  riporta  ben  nove  obiezioni  che  so- 
levano farsi  alla  tesi  da  lui  sostenuta;  l'ultima  delle  quali  è 
questa:  «  Nono,  sequitur  deum  esse  partem  animae  nostre, 
quod  non  videtur  etc»,  giacché  Aristotele 94  aveva  detto  che 
tanto  r  intelletto  agente  quanto  quello  possibile  bisogna  che 
siano  due  èv  t-^  ^u/y^...  Sia9opaL  Alla  quale  obiezione  il  bo- 
lognese risponde  semplicemente  così:  «Ad  nonum,  declaratum 
est  supra  quomodo  deus  est  pars  animae  nostrae,  et  quomodo 
non  )).  Ed  infatti  in  un  passo  del  quolibeto  III,  dub.  3,  che 
abbiamo  già  riferito  altra  volta  95,  egli  aveva  detto  che,  pur 
essendo  l' intelletto  possibile  ed  agente  due  sostanze  diverse, 
s'uniscono  nell'atto  dell'  intendere  di  guisa  che  in  qualche 
modo  «  intellectus  agens  est  forma  nobis  ». 


91  AcHiLLiNi,  Quol.  IV,  dub.  I,  f.  16,  col.  I.  V.  sopra,  il  saggio  VI. 

92  NiFO,  De  intell.,  II,  tr.   2,  e.   17;  cfr.  Sigieri,  p.   25. 

93  II,  e.  5,  43oa  15,   18,   22. 

94  De  anima.  III,  t.  e.   17,  e.  5,  4303-  j^ 

95  V.  sopra,  p.   208. 


212        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

Ma  in  che  modo  Dio  s'unisca  all'  intelletto  umano  come 
forma,  è  detto  più  ampiamente  nella  discussione  del  secondo 
dubiuni  del  IV  quolibeto,  ove  si  pone  lo  stesso  problema  che 
s'era  posto  Sigieri  nel  Libey  de  felicitate  9^,  «  Utrum  felicitas  sit 
deus  »,  e  lo  risolve  allo  stesso  modo  del  brabantino.  Dio  è 
il  fine  supremo  di  ogni  intelligenza,  nel  cui  conseguimento 
consiste  la  beatitudine,  perché  Dio  è  ciò  che  è  «  simpliciter 
perfectum  quod  secundum  se  est  eligibile  semper  »,  è  «  opti- 
mum, pulcherrimum,  delectabilissimum  »,  è  quello  che  «  nullo 
indiget  »  ed  è  «  principium  honorum  et  causa  ipsorum  ».  Sol- 
tanto Dio,  dunque,  «  est  felicitas  sibi  aut  aliis  intelligentiis  aut 
homini,  quia  solum  ipse  est  perfectissimum  intelligibile  et 
appetibile  propter  se  »,  e  solo  in  lui  «  eminenter  reperitur  ratio 
obiecti  intellectus  et  voluntatis  »  97, 

Si  dirà  che  la  felicità  è  un  atto  che  è  in  noi,  mentre  Dio 
non  è  in  noi.  L'Achillini  risponde  che,  come  nel  primo  quoli- 
beto aveva  concesso  «  deum  esse  intellectionem  intelligentia- 
rum,  nunc  conceditur  deum  esse  intellectionem  intellectus 
possibilis   et    hominis  »  9^. 

Ma  s'obietta  ancora: 

Tertio,  nullum  obiectum  operationis  quae  est  felicitas  est  illa 
operatio  quae  est  circa  illud  obiectum;  patet  ex  differentia  Inter 
obiectum  operationis  et  operationem.  Sed  deus  est  obiectum 
operationis  quae  est  felicitas;  patet  io  Ethicorum,  cap.  io:  «  Per- 
fecta  felicitas  est  operatio  speculativa  optimorum  ».  Ergo  etc. 

A  questa  obiezione  l'Achillini  risponde  negando  la  mag- 
giore : 

Ad  tertium  negatur  maior,  quia  sufficit  inter  operationem  et 
obiectum  distinctio  rationis.  Dico  igitur  quod  felicitas  (non  in- 
telligo  polica[m]  quae  est  usus  virtutis,  septimo  Politicorum, 
sed  contemplativa  [m],  quae  secundum  Philosophum,  decimo 
Ethicorum,  cap.  8,  est  secundum  nobilissimum  habitum  qui  est 
sapientia,  et  secundum  eundem,  septimo  Politicorum,  est  melior 
quam  politica)  non  est  actus  qualitativus  inhaerens  intellectui 
aut  voluntati:  quia  si  sic,  tunc  non  tenderent  intellectus  et  vo- 
luntas  in  félicitatem  tamquam  in  ultimum  finem.  Secundo,  quia 
ille  actus  non  est  perfectissimum.  Tertio,  quia  oporteret  ponere 


¥>  NiFO,  De  intell.,  II,  tr.   2,  e.   2  e   17;  cfr.  Sigieri,  pp.   24-26. 

97  AcHiLLiNi,    fol.    16,    col.    3-4. 

98  ACHILLINI,    fol.     16,    col.    4. 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  213 

duas  felicitates:  imam  formalem  et  intrinsecam,  et  aliam  obiecti- 
vam  et  extrinsecam  ;  et  sic  Aristotelem  et  Commentatorem  indi- 
stincte  processisse  in  aequivoco,  cum  dixeriint  felicitatem  esse 
ultimum  fineni  et  operationem  animae.  Quarto,  quia  ex  quolibeto 
tertio  non  datur  accidens  inhaerens  intellectui.  Concludo  igitur 
quod  tantum  una  est  felicitas,  et  quod  ea  omnia  vere  felicitabilia 
felicitantur;  et  ista  est  deus.  Hanc  sententiam  ponit  Commen- 
tator,  IO  Etliicoritm,  capite  8:  in  Deo  esse  felix  est  in  speculatione 
sui,  in  nobis  esse  felix  est  in  eo  in  quo  est  sibi,  prout  nobis  est 
possibile  9"). 

Allo  stesso  modo  Sigieri  sosteneva  che,  come  «  Deus  Deo 
per  essentiam  beatificatur  »,  così  l' intelligenza  a  lui  più  vi- 
cina «  essentia  Dei  ut  forma  felicitatur  »,  «  et  consequenter 
omnes  residui  intellectus;  adeo  quod  intellectus  hominis 
essentia  Dei  felicitatur,  quemadmodum  Deus  essentia  Dei»ioo. 
Sebbene  distinti  nella  loro  natura,  l' intelletto  causato  non 
potrebbe  intendere  Dio,  se  Dio  non  lo  informasse  di  sé,  giacché, 
tanto  per  l'Achillini  quanto  per  Sigieri,  «  intellectio  qua  Deus 
intelligitur  est  ipse  Deus»;  l'operazione  colla  quale  Dio  è 
inteso  da  parte  dell'intelletto  causato  e  l'oggetto  inteso 
formano,  nell'atto  dell'  intendere,  una  cosa  sola.  In  quest'atto, 
Dio,  informando  di  sé  gì'  intelletti  inferiori,  fa  ad  essi  dono 
di  se  stesso.  «  Ex  quo  patet  —  osserva  il  bolognese  —  quod 
felicitas  est  optimum  deorum  donum,  quia  non  est  donum 
excellentius  quam  donare  seipsum,  et  praesertim  si  donatum 
sit  perfectissimum  entium.  Hinc  apparet  quam  commode 
potuit  Aristoteles,  13  De  animalibus,  substantiam  hominis 
divinam    appellare  »  '"i. 

Principio  di  siffatta  beatitudine  è,  pertanto,  il  congiungi- 
mento della  mente  um.ana  con  Dio  nell'atto  dell'  intendere. 
Perciò  la  felicità  consiste  formalmente  in  un  atto  d' intelli- 
genza, poiché  solo  nell'atto  dell'  intendere  avviene  il  congiun- 
gimento dello  spirito  causato  coli'  intelletto  primo  :  la  beatitu- 
dine è  il  più  alto  grado  della  vita  speculativa,  come  con  Ari- 
stotele aveva  detto  Averroè  'o-. 

A  questo  punto  giova  chiarire  qual  era  il  pensiero  di  Si- 
gieri intorno  ad  una  questione  dibattura  specialmente  fra  i 


99  ACHILLINI,    fol.     IO,    col.    4-fol.     17,    col.     I. 

100  NiFo,  /.  c;  V.  Sigieri,  p.  25. 

loi  AcHiLLiNi,    fol.    16,    col.    4.    Cfr.    Arist.,    De    part.    animai.,    IV, 
e.   IO,  686»  27-28. 

"•-  Eth.  Xiconi.,  X,  comm.  al  e.  8,  11  jS  20  sgg.;  De  anima,  III,comm.  36. 


214        I'  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

teologi.  Questi  solevano  chiedersi  se  l'esser  beato  si  fonda, 
come  dice  Dante  ^°3,  nell'atto  che  vede  oppure  in  quel  ch'ama; 
in  altri  termini,  se  la  heatitudo  risieda  formalmente  in  un  atto 
di  conoscenza  del  quale  è  soggetto  l' intelletto,  ovvero  in  un 
atto  d'amore  che  risiede  nella  volontà.  Ed  è  noto  che,  mentre 
i  teologi  del  vecchio  indirizzo  agostiniano  e  i  francescani  po- 
nevano la  beatitudine  in  un  atto  di  volontà  al  quale  precede 
la  conoscenza,  Tommaso  e  la  sua  scuola  la  facevano  consi- 
stere essenzialmente  in  un  atto  d' intelligenza,  d'accordo  in 
questo  cogli  averroisti,  al  quale  atto  d' intelligenza  tien  dietro 
l'atto  d'amore  da  parte  della  volontà.  Se  non  che  l'una  e  l'altra 
teoria  presuppongono  una  troppo  netta  distinzione  fra  l' in- 
telhgenza  e  il  volere.  Sigieri  supera  il  problema,  negando  la 
distinzione  reale  fra  queste  due  «  facoltà  ».  Ciò  risulta  da  un 
importante  luogo  del  Nifo,  che  prima  m'era  sfuggito. 

Dopo  aver  riassunto  «  que  ex  libello  Subgerii....  excipiun- 
tur"4)),  intorno  al  problema  dell'identità  della  beatitudine 
con  Dio,  il  Nifo  prosegue: 

Ut  igitur  positio  huius  philosophi  intelligatur,  oportet  accipere 
quod  sicut  unum  precise  est  intellectum  et  volitum  sub  diversis 
rationibus,  intellectum  quidem  ut  perficiens  intellectum  ipsum 
absolute,  volitum  ut  perficiens  illum  sub  indifferentia  fuga  aut 
consensus;  ita  una  numero  est  intellectio  et  volitio,  sed  differunt 
quoniam  intellectio  est  intellectum  absolute,  volitio  est  intellectum 
ut  acceptum  vel  fugitum;  sic  unamet  res  est  voluntas  et  intel- 
lectus  105  :  intellectus  quidem,  ut  perficitur  ac  formatur  ab  intel- 
ligibili sub  ratione  forme  absolute;  voluntas  autem  ut  perficitur 
ratione  fuge  vel  prosequele,  ut  superius  diximus.  Ergo  intellectus 
et  voluntas  sunt  unamet  res  simpliciter  absolute,  licet  sint  di- 
verse rationes;  et  inde  videmus  Aristotelem  et  Averroem  nuUam 
facere  differentiam  inter  ea,  nec  tractatus  diversos,  nec  capitula 
diversa,  ut  in  libro  De  anima  visum  est. 

Ex  quo  sequitur,  quod  unamet  felicitas  est  intellectio  et  vo- 
litio, ac  unainet  essentia  est  intellectum  et  volitum;  est  enim 
in  abstractis  intellectio  rei  idem  quod  ipsa  res,  ac  volitio  rei  idem 
etiam  cum  re  volita.  Ergo  si  Deus  erit  felicitas.  Deus  erit  intel- 
lectio et  volitio  insimul;  et  etiam  simul  est  volitio  quod  felicitas, 
et  intellectio  quod  volitio  et  felicitas  etc. 

Amplius  sequitur  quod  ociosa  est  questio  querens  utrum  fe- 


103  Pa»'.,  XXVIII,   109-111. 

'04  Nifo,  De  intelL,  II,  tr.  2,  e.   17;  cfr.  Sigieri,  p.   26. 

i°5  Così  anche  I'Achillini,  Quol.  Ili,  dub.  3,  fol.  13,  col.  4:  «Ad 
primum,  voluntas  et  intellectus  sunt  idem  re,  licet  secundum  esse  vel 
rationem   differant  ». 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  2I5 

licitas  principalius  sit  intellectio  quam  volitio,  an  econtra;  cum 
volitio  et  intellectio  non  differant  nisi  nomine  vel  ratione;  nisi 
questio  fiat  sub  ratione  respectiva  hoc  modo,  scilicet  utrum  fe- 
licitas  sit  Deus  sub  ratione  qua  intellectio,  an  Deus  sub  ratione 
qua  volitio  vel  amor  ^°(>. 

A  questa  felicità,  dichiara  l'Achillini,  noi  tendiamo  per  na- 
tura, né  può  darsi  che  il  desiderio  naturale  resti  inappagato 
in  tutta  la  specie.  Perciò,  considerato  in  rapporto  alla  specie 
umana  che  è  eterna,  anche  l' intelletto  umano,  come  insegna 
Averroè,  è  eternamente  felice,  perché  eternamente  congiunto 
con  Dio  e  colle  intelligenze  separate  '07.  Ma  non  felici  son  tutti 
gli  uomini,  singolarmente  presi,  poiché  non  tutti  arrivano, 
in  questa  vita,  a  questo  segno.  Giacché  per  l'Achillini,  come 
per  Sigieri,  si  tratta  appunto  della  felicità  alla  quale  è  concesso 
all'uomo  d'arrivare  in  questa  vita,  mediante  l'acquisto  della 
scienza:  «  Felicitatem  autem  in  alia  vita,  quam  non  potuerunt 
philosophi  naturali  ratione  inquirere,  theologis  relinquimus 
considerandam  »  ^°^. 

Ma  può  l'uomo  arrivare  in  questa  vita  a  conoscere  le  so- 
stanze separate  ?  Tale  il  problema  che  il  nostro  bolognese  si 
pone  subito  dopo,  col  terzo  dubbio.  Nella  soluzione  di  esso 
egli  fa  uso  dell'argomento  di  Sigieri,  riferito  dal  Nifo  e  da 
Francesco  de'  Silvestri: 

Secundo,  si  impossibile  esset  intellectum  possibilem  intelligere 
substantias  abstractas,  ociose  egisset  natura,  quia  fecisset,  quod 
est  in  se  naturaliter  intellectum,  non  intellectum  ab  aliquo.  Ratio 
est  Averrois,  secundo  Metaphysucae,  comm.  primo.  Suppono 
in  hac  ratione,  quod  omnis  intellectio  conveniens  intellectui  pos- 
sibili convenit  homini,  sic  quod  non  est  possibile  quod  intellectui 
competat,  quin  homini  conveniant:  hoc  voluit  Aristoteles,  primo 
De  anima,  textu  commenti  64,  et  hoc  proposito  negato,  clauditur 
via  Commentatori  ad  ostendendum  caelum  intelligere.  Ideo,  si  possi- 
bile est  substantias  separatas  intelligi  ab  intellectu  possibili,  possi- 
bile est  substantias  separatas  intelligi  ab  homine.  Hoc  stante, 
arguo  sic  :  Ouandocumque  est  aliqua  forma  non  apta  recipi  in 
maxime  receptivo  alicuius  generis,  illa  non  est  receptibilis  in 
minus  reciptivo  illius  generis;  sed  intellectus  possibilis  in  genere 
intelligentiarum  est  maxime  receptivus;  patetexquolibeto  tertioio9; 


106  Nifo,  ib.,  e.   18. 

107  AcHiLLiNi,  fol.   17,  col.  I.  Cfr.  AvERR.,  De  awf/Ma,  III,  comm.  36. 

1°^    ACHILLINI,    ib. 

i°9  V.  sopra,  pp.   207-208. 


2l6        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

ergo,  si  primam  formam  non  est  possibile  intellectum  possibilem 
recipere,  non  est  possibile  alium  intellectum  recipere  primam. 
formam;  et  sic  iam  frustrarentur  intelligentiae  mediae  ab  hoc  fine, 
qui  est  deum  gloriosum  intelligere.  Tunc  ultra:  quandocumque 
intellectus  abstractus  non  potest  intelligere  interiora,  ut  quolibeto 
primo  dictum  est  esse  de  mente  Averroismo;  sed  nulla  intelli- 
gentia  media  potest  primam  intelligere,  ut  ex  ratione  superiori 
sequitur;  ergo  nulla  intelligentia  potest  intelligentiam  mediam 
intelligere;  sed  ncque  deus  potest  intelligentias  medias  intelligere, 
secundum  Averroim,  ut  patet  quolibeto  primo;  neque  intellectus 
possibilis  potest  eas  intelligere  per  te;  ergo  intellectum  naturaliter 
in  se  non  est  intellectum  ab  aliquo.  Patet  consequentia  de  intel- 
ligentiis  mediis:  quia  non  a  Deo,  qui  est  supra;  non  a  seipsis, 
ut  sequitur;  neque  ab  intellectu  possibili,  qui  est  infra,  per  te 
intelliguntur;  et  non  est  alius  intellectus  ab  istis.  Et  sic  patet 
alia  ociositas  in  natura  et  maxima;  et  sic  patet  quod,  quamvis 
non  sit  homo  finis  intelligentiarum,  tamen,  si  non  sunt  intelli- 
gibiles  ab  homine,  frustrantur  a  suo  fine;  et  sic  ociose  sunt  in- 
telligibiles  etc.  Ilaec  omnia  ex  modis  intelligendi  dei,  intelli- 
gentiarum et  intellectus  possibilis  supra  declaratis  sunt  evidentia'". 

Passando  ad  esporre  i  fondamenti  filosoiìci  sui  quali  si  basa 
la  tesi  che  attribuisce  all'  intelletto  umano  il  potere  di  ele- 
varsi a  conoscere  le  sostanze  separate,  l'averroista  bolognese 
distingue,  come  aveva  già  fatto  Giovanni  di  Jandun  "2,  la 
conoscenza  speculativa  acquisita  per  mezzo  dello  studio  delle 
discipline  filosofiche,  dalla  conoscenza  intuitiva,  «  qua  cogno- 
scimus  substantias  separatas  per  earum  essentias  proprias  »  ; 
e  in  quest'ultima  fa  consistere  la  felicità  suprema  dell'uomo. 
Sì  che  la  beatitudine  non  è  raggiunta  coll'acquisto  delle  scienze 
speculative,  ma  dopo  il  loro  apprendimento.  L'acquisto  per 
altro  delle  scienze  è  una  condizione  indispensabile  e  sufficiente 
a  rendere  la  mente  umana  preparata  e  disposta  al  congiungi- 
mento coir  intelletto  agente,  che  sappiamo  ormai  esser  Dio. 
Ma,  oltre  a  ciò,  è  necessario  che  alla  perfetta  conoscenza  spe- 
culativa tenga  dietro  la  pratica  delle  virtù  morali: 

Cum  igitur  fuerit  homo  secundum  virtutes  morales  sufficienter 
habituatus,  sic  quod  cessaverit  discordia  inter  sensitivum  appe- 
titum  et  intellectivum;   sic   quod   rationi  regimen   tributum   erit 


11°  AcHiLLiNi,  Quol.  I,  dub.  I.  Questo  luogo,  nella  stampa  veneziana, 
è  evidentemente  difettoso. 

"I  AcHiLLiNi,  Quol.  IV,  dub.  3,  fol.  17,  col.  1-2;  NiFO,  De  intell., 
II,  tr.  2,  e.  II  ;  In  Averroys  de  anime  beatitudine ,  I,  comm.  53;  cfr.  Sigieri, 
pp.   22-23. 

"2  De  anima.   III,  q.  36;  Metaph.,  II,  q.  4. 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  217 

sine  intrinseco  repugnanti;  sic  quod  veruni  erit  dominium  ra- 
tionis  super  viribns  sensitivis,  tunc  continuabitur  intellectus 
possibilis,  secundum  quod  est  felix,  homini  et  denominabit  homi- 
nem felicem.  Ex  quo  patet  quod  quia  in  habituatione  hominis 
secundum  virtutes  et  scientias  magnum  tempus  vitae  hominis 
labitur  "3. 

Unito  al  corpo  umano  da  un  legame  intrinseco,  l' intelletto 
possibile  trae  dall'esperienza  sensibile  le  forme  immerse  nella 
materia  e  rese  immateriali  per  un  processo  d'astrazione. 
Quando,  attuato  da  queste  forme  divenute  intelligibili  e  dal- 
l'abito delle  scienze  filosofiche,  l' intelletto  umano  si  trova 
congiunto  coli'  intelletto  agente  nell'atto  della  beatitudine, 
alla  stessa  beatitudine  parteciperanno  in  tal  modo  le  cose  del 
mondo  materiale,  fatte  intelligibili;  sì  che  l'uomo  verrà  ad 
essere  anello  di  congiunzione  fra  il  mondo  superiore  e  il  mondo 
inferiore,  «  nexus  superiorum  cum  inferioribus,  ultra  hoc 
quod  forma  hominis  sit  intelligentia »  "4.  Anzi,  siccome  Dio 
nell'atto  della  beatitudine  è  forma  dell'  intelletto  beato,  e 
questo  è  forma  del  corpo  umano,  ne  segue  che  anche  la  stessa 
materia  partecipa  alla  beatitudine;  di  guisa  che  attraverso 
l'uomo  la  beatitudine  si  diffonde  su  tutto  il  mondo  inferiore  "5. 

Ma  poiché  l' intelletto  agente  è  la  suprema  Intelligenza, 
cioè  Dio,  mentre  l' intelletto  possibile  è  l' infima,  questo  non 
può  unirsi  immediatamente  alla  prima  Intelligenza,  sibbene 
mediante  le  intelligenze  intermedie.  Sì  che  nell'atto  stesso 
e,  potremmo  dire,  coll'atto  stesso  col  quale  s'unisce  all'uomo 
r  intelletto  agente  come  forma,  s'uniscono  all'  intelletto  pos- 
sibile anche  le  altre  intelligenze  ad  esso  superiori  già  informate 
dalla   prima    Intelhgenza: 

Cum  intellectus  agens  sit  suprema  intelligentia,  et  intellectus 
possibilis  sit  intima,  non  potest  naturaliter  uniri  intellectus  agens 
intellectui  possibili  immediate,  quia  aliae  intelligentiae  naturaliter 
mediant.  Ideo  oportet  quod  aeque  cito,  sicut  incipit  intellectus 
agens  esse  forma  et  intellectio  istius  hominis,  incipiat  quaelibet 
alia  intelligentia  media  informare  hunc  hominem.  Ex  hoc  pate- 
bunt  apud  Aristotelem  et  Commentatorem  novem  gradus  feli- 
citatis,  sicut  novem  sunt  apud  eos  intellectus  felicitabiles,  quorum 


113  AcHiLLiNi,  fol.   18,  col.   I. 
"4  76. 

"5  Ib.,  fol.   18,  col.  2.  Per  questa  teoria  della  beatitudine,  v.  sopra 
il  saggio  VI,  dedicato  alla  mistica  averroistica. 


2  IO        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

prinius  et  maximus  dee  convenit,  nonus  vero  et  intìmus  intellectui 
possibili,  medij  vero  medijs  intelligenti]  s  aptantur  ordinate  etc, 
quia  intellectus  cognoscens  deuni  per  plura  media  remissius 
cognoscit  et  imperfectius.  Ideo  prima,  quae  est  sua  cognitio  per 
essentiam,  se  perfectissime  cognoscit.  Secunda  autem  intelli- 
gentia  recipiendo  cognoscit  primam,  licet  immediate  eam  recipiat. 
Tertia  vero  mediante  secunda;  et  sic  gradatim  descendendo  "6. 

In  questo  senso  dice  Sigieri,  come  ci  attesta  il  Nifo,  che 
r  intelletto  possibile  dell'uomo,  «  ut  habet  esse  intentionale, 
est   materia   omnium   intellectuum   separatorum  »  "7. 

Nell'ultimo  dubbio  di  questo  quarto  quolibeto,  l'Achillini 
riassume  e  schematizza  quanto  ha  detto  in  questo  stesso  quo- 
libeto e  nel  terzo,  circa  il  congiungimento  {copulatio,  continuatio) 
dell'uomo  coli'  intelletto.  I  congiungimenti,  a  dir  vero,  son 
tre,  e  non  uno  solo:  il  primo  è  quello  dell'intelletto  possibile 
col  corpo  umano  di  cui  è  forma  ;  il  secondo  è  quello  dell'  in- 
telletto agente  coli'  intelletto  possibile  ;  il  terzo  è  il  congiungi- 
mento dell'  intelletto  agente  coll'uomo. 

Il  primo  congiungimento  è  duplice.  Anzi  tutto,  l' intelletto 
possibile  s'unisce  all'uomo  secundum  esse,  cioè  come  forma 
sostanziale  che  dà  all'uomo  il  suo  essere  specifico  di  uomo,  e 
ciò  fin  dal  momento  in  cui  l'uomo  comincia  ad  essere  uomo. 
Indi  s'unisce  a  lui  secundum  operationem,  quando  l'uomo 
comincia  a  far  uso  dell' intelligenza  "8,  Questo  duplice  con- 
giungimento era  già  esplicitamente  distinto  da  Sigieri,  secondo 
la  testimonianza  del  Nifo  "9. 

Anche  il  congiungimento  dell'  intelletto  agente  coli'  intel- 
letto possibile  è  duplice  :  dapprima  l' intelletto  agente  s'unisce 
all'  intelletto  possibile  come  causa  agente  dell'  intendere, 
concorrendo  all'astrazione  del  concetto  dall'  immagine  o 
fantasma  sensibile,  e  promovendo  lo  sviluppo  intellettuale  per 
mezzo  delle  scienze;  indi,  al  termine  dello  sviluppo  intellet- 
tuale, s'unisce  all'  intelletto  possibile,  acconciamente  disposto 
e  preparato,  come  forma  che  ne  attua  tutta  la  potenzialità 
e  gli  dà  la  beatitudine  '=o.  Siffatta  distinzione  è  d'Averroè  '^i. 


"6  Ib.,  fol.    i8,   col.   2. 

"7  Nifo,  De  intelL,  I,  tr.   3,  e.   18;  cfr.   Sigieri,  p.   19. 

"8  AcHiLLiNi,  Ib.,  fol.   19,  col.  3. 

119  De  intelL,  1,  tr.  3,  e.  26;  De  anima,  III,  comm.  ad  t.  5;  cfr.  Si- 
gieri, pp.   15  e  20. 

121  AcHiLLiNi,  ib.,  col.  3-4. 

120  AvERR.,  De  anima.  III,  comm.  36. 


I    "  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  219 

Ed  essa  vale  anche  per  il  congiungimento  dell'  intelletto 
agente  con  l'uomo.  Giacché  dapprima  l' intelletto  agente, 
trovando  l' intelletto  possibile  già  unito  secundum  esse  al 
corpo  di  quest'uomo  particolare  (per  esempio,  di  Socrate), 
illumina  della  sua  luce  i  fantasmi  della  cogitativa  di  lui,  di- 
versi dai  fantasmi  di  altri  uomini,  e  ne  trae  quelle  specie  in- 
telligibili che  sono  intese  in  questo  particolare  momento  da 
Socrate.  Piìi  tardi,  quando  l' intelletto  di  Socrate,  conve- 
nientemente attuato  dagl'  intelligibili  tratti  dalla  sua  parti- 
colare cogitativa,  si  sarà  arricchito  di  una  sempre  più  varia 
e  complessa  esperienza,  l' intelletto  agente  gli  dischiuderà, 
se  n'  è  degno,  il  mondo  splendente  della  pura  luce  che  emana 
da  sé,  come  da  sole  d'ogni  intelligibilità '-^  Come  in  Sigieri, 
così  anche  nell'Achillini  s'avverte  lo  sforzo  per  superare  la 
difficoltà  maggiore  dell'averroismo,  già  avvertita  dallo  stesso 
filosofo  di  Cordova,  consistente  nel  bisogno  di  conciliare 
l'universalità  del  conoscere  e  il  valore  della  personalità  umana 
individuale.  La  grande  obiezione  che  S.  Tommaso  fa,  dal 
punto  di  vista  strettamente  filosofico,  alla  dottrina  d'Averroè, 
è  appunto  questa:  posta  l'unità  dell'  intelletto,  come  può 
esser  vera  la  proposizione  :  «  hic  homo  intelligit  »  ?  "3 

Alla  fine  del  diibimn  «  utrum  felicitas  -^it  deus  >>,  l'Achillini 
si  domanda  se  l'uomo  che  in  questa  vita  abbia  avuto  il  pri- 
vilegio d'arrivare  a  congiungersi  coli'  intelletto  agente  come 
a  sua  forma,  può  perdere  volente  o  nolente  questa  sua  beati- 
tudine. La  sua  risposta  è  incerta  e  imbarazzata,  anche  perché 
concerne  uno  dei  più  scottanti  problemi  che,  non  molti  anni 
dopo,  sollevò  gran  clamore  di  dispute,  voglio  dire  il  problema 
dell'  immortalità  personale.  Già  S.  Tommaso  avea  notato 
che,  tolta  tra  gli  uomini  ogni  diversità  d' intelletto,  ne  segue 
che,  dopo  la  morte,  niente  rimanga  della  coscienza  indivi- 
duale'=4.  L'averroista  bolognese,  pur  ritenendo  con  Sigieri  che 
r  intelletto  possibile  è  forma  del  corpo  umano,  e  che  nel  suo 
atto  d' intendere  è  essenzialmente  legato  ai  fantasmi  della 
cogitativa,  pensa  che  all'eternità  dell'  intendere  e  della  bea- 
titudine non  sia  necessario  un  legame  col  singolo,  bastando  il 


122    ACHILLINI,     fol.     ig,    col.    4. 

1^3  Cfr.  la  mia  introduzione  a  S.  Tommaso,  Trattato  sull'ìtniià  dell'in- 
telletto,  pp.   43-50. 

1-4  Tratt.   sull'unità   dell'  intelL,   §   2,  p.  96. 


220        l'aristotelismo    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

legame  colla  specie,  la  quale  nella  successione  dei  molteplici 
individui   dura  eterna: 

Testatur  enim  Aristoteles,  quinto  Ethicorum,  capite  13:  u  Multa 
enim  et  natura  existentium  scientes  et  operamur  et  patimur, 
quorum  nulluni  neque  voluntariuni  neque  involuntarium  est, 
puta  senescere  vai  mori  ».  Conditio  enim  suae  naturae,  quam  scit 
esse  mortalem,  non  patitur  nolle,  et  quia  mors  non  est  finis  neque 
bonum,  2  Physicotum,  textu  et  commento  23,  ideo  non  vult  felix 
mortem.  Neque  desiderio  naturali  permanentiam  sempiternam 
appetit  in  individuo,  sed  in  specie,  secundo  De  anima,  comm.  34, 
et  primo  Physicoruni,  comm.  81.  Et  propter  hoc  in  proem.io  octavi 
Physicorum  dixit  Commentator,  fortunitatem  ultimam  esse  se- 
cundum  fatuos  vitam  aeternam.  IMulta  autem  mala  felicitas 
hominis  compatitur,  quae  felicitati  dei  aut  intelligentiarum  re- 
pugnant.  Est  enim,  inter  veros  felicitatis  gradus,  humanus  intì- 
mus.  Ideo,  primo  Ethicorum,  capite  14:  «  Sapientem  omnes  exti- 
mamus  fortunas  decenter  terre  ».  Felicitatem  autem  in  alia  vita, 
quam  non  potuerunt  philosophi  naturali  ratione  inquirere,  theo- 
logis    relinquimus    considerandam  125. 

Il  Pomponazzi,  sebbene  abbia  dell'  intelletto  possibile  un 
concetto  così  diverso  da  quello  dell'Achillini,  sul  tema  dell'  im- 
mortalità personale  è  perfettamente  d'accordo  con  lui:  tranne 
che  per  il  mantovano  solo  l' intelletto  agente  è  veramente  im- 
mortale per  essere  una  sostanza  separata,  come  volevano 
anche  Temistio  e  gli  averroisti  ^'^. 


5.  -  Visti  quali  sono  i  diversi  gradi  d' intelligenza,  compresi 
fra  la  mente  Prima  che  è  puro  atto  e  l' intelletto  possibile 
che  in  sé  è  pura  potenza,  l'Achillini  affronta  il  problema  che 
s'era  posto  da  principio,  e  cioè  «  utrum  latitudo  intellectuum 
sit  uniformiter  difformis  ».  Un  siffatto  problema  era  nato, 
come  dicevamo,  dal  tentativo  di  applicare  a  misurare  i  gradi 
d' intensità  dell'  intelligenza  il  metodo  delle  calcidaiiones 
matematiche,  che  s'usa  per  misurare  l' intensità  delle  quahtà 
materiali,  come  la  velocità,  il  colore,  la  temperatura  e  via 
dicendo.  Qualcosa  di  simile  è  stato  tentato  nella  psicologia 
moderna    per    misurare    l' intensità    della    sensazione  ;    e    già 


1*5  AcHiLLiNi,  Quol.  IV,  dub.   2,  fol.   17,    col.   I. 
126  p     Pomponazzi,    De   immortai .    animae,   cap.    io. 


I    e  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  221 

Nicolò  d'  Oresme  aveva  esteso  il  metodo  al  calcolo  del  dolore 
e    del   piacere  ^-7. 

Appiglio  a  porsi  siffatto  problema  nei  riguardi  dell'  intelli- 
genza dev'essere  stato  quel  che  si  legge  nel  Liber  de  causis, 
che  è  un  estratto  della  Elenientatio  theologica  di  Proclo: 

In  primis  Intelligeiitiis  est  virtiis  magna,  quoniam  sunt  vehe- 
mentioris  unitatis,  quam  Intelligentiae  secundae  universales 
inferiores;  et  in  Intelligentiis  secundis  inferiores  sunt  virtules 
debiles,  quoniam  sunt  minoris  unitatis  et  pluris  multiplicitatis. 
Quod  est  quia  Intelligentiae  quae  sunt  propinquae  Uni  puro, 
sunt  maioris  quantitatis  et  maioris  virtutis;  et  Intelligentiae  quae 
sunt  longinquiores  ab  ipso,  sunt  minoris  quantitatis  et  debilioris 
virtutis.  Et  quia  Intelligentiae  propinquae  Uni  puro  sunt  maioris 
quantitatis,  accidit  inde  ut  formae  quae  procedunt  ex  Intelli- 
gentiis primis  procedant  processione  universali  unita;  et  nos 
quidem  abbreviamus  et  dicimus,  quod  formae  quae  veniunt  ex 
Intelligentiis  primis  in  secundas,  sunt  debilioris  processionis  et 
vehementioris  separationis  i-^. 

Allo  stesso  modo  Alberto  Magno: 

Omnes....  formae  ab  ipsa  totius  universitatis  natura  largiuntur; 
quo  autem  magis  ab  ea  elongantur,  eo  magis  nobilitatibus  suis 
et  bonitatibus  privantur;  et  quo  minus  recedunt  eo  magis  no- 
biles  sunt  et  plures  habent   bonitatum   potestates  et  virtutes  1^9. 

Siffatto  modo  d'esprimersi  sembra  fatto  a  posta  per  invo- 
gliare ad  applicare  il  metodo  del  calcolo  matematico  all'  in- 
telligenza. E  l'Achillini,  dopo  essersi  chiesto  se  la  latitudo 
degli  intelletti  sia  «  uniformiter  difformis  »,  si  pone  altresì  il 
quesito  «  utrum  quarumcunque  intelligentiarum  perfectio  at- 
tendatur  penes  appropinquationem  summo  ».  Esula  dall'  in- 
tento che  ci  siamo  proposti  in  questa  ricerca,  il  seguirlo  nella 
critica  che  egli  fa  della  pretesa  di  stabihre  un  rapporto  quanti- 
tativo fra  i  vari  gradi  d' intelligenza,  e  perciò  ci  hmitiamo  a 
segnalare  la  soluzione  negativa  che  egli  dà  dei  due  problemi, 
a  chi  avesse  ancora  in  proposito  delle  fìsime  del  genere  13°. 


127  A.  Maier,  An  der  Grenze,  pp.  324-325;  cfr.  altresì  a  pp.  258-259. 

128  Liber  de  causis,  prop.  X;  cfr.  Proclo,  Institutio  theologica, 
CLXXVII  (l'opuscolo  era  stato  tradotto  in  latino  da  Guglielmo  di 
Moerbeke  nel  1268,   col  titolo  di  Elenientatio  theologica). 

"9  Alberto  Magno,  De  intellectu  et  intelligibili,  I,  tr.   i,  e.  5. 

130    ACHILLINI,     Ouol.     V,    fol.     20,    col.     I-fol.     21,    COl.   2. 


222        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

Dalle  pagine  che  precedono  sembra  intanto  potersi  con- 
cludere che  solo  la  prima  Intelligenza  è  fonte  di  sapere  e  di 
luce  intellettuale.  S.  Tommaso  agli  averriosti  che  dall'univer- 
salità del  conoscere  avevano  preteso  di  dedurre  l'unità  del- 
l' intelletto  per  tutti  gli  uomini,  obiettava  che,  se  mai,  se  ne 
dovrebbe  concludere,  secondo  il  loro  modo  di  vedere,  «  che 
debba  esservi  un  solo  intelletto  non  soltanto  per  tutti  gli 
uomini,  ma  in  tutto  l'universo;  sì  che  il  nostro  intelletto  non 
è  soltanto  una  qualsiasi  sostanza  separata,  ma  è  Dio  stesso  «'ji. 

L'Aquinate  aveva  ragione.  Né  Sigieri  e  l'Achillini  gli  danno 
torto  :  che  per  essi  Dio  è  l' intelletto  agente  che  effettua  sì 
nella  mente  umana  sì  nelle  intelligenze  celesti  l'atto  dell'  in- 
tendere e  s'unisce  all'una  e  alle  altre  come  forma,  a  tal  segno 
da  fare  in  qualche  modo  una  sola  sostanza  con  ciascuna  di 
quelle.  Soggetto  assoluto  di  pensiero  e  sorgente  d'ogni  intelli- 
gibilità. Dio  causa  col  suo  intendere  altri  intelletti,  nei  quali 
l'atto  dell'  intender  divino  si  particolarizza  per  gradi,  fino 
all'  intelletto  della  specie  umana  che,  informando  i  vari  corpi 
dotati  di  sensibilità,  mentre  comunica  ad  essi  la  sua  superiore 
individualità  spirituale,  ne  assume  l' individualità  contin- 
gente e  caduca,  per  farla  partecipe  dell'atto  divino  del  cono- 
scere. 

Si  rileva  altresì  dalle  pagine  precedenti,  che  l' interpreta- 
zione sigeriana  del  pensiero  aristotelico  doveva  apparire  al- 
l'Achillini  un'  interpretazione  organica,  sistematica  in  tutti 
i  suoi  particolari,  e  sostanzialmente  diversa  da  quella  tomi- 
stica ispirata  dal  bisogno  di  abbreviare  la  distanza  fra  la  «  filo- 
sofia »  e  la  fede,  quasi  che  la  fede  non  avesse  in  se  stessa  una 
filosofìa  che  la  giustificava  appieno.  Liberi  da  questa  preoccu- 
pazione apologetica,  gli  averroisti  potevano  discutere  in  piena 
indipendenza  di  spirito  e  con  grande  spregiudicatezza  intorno 
a  quello  che  era  il  genuino  pensiero  d'Aristotele,  s'accordasse 
o  non  s'accordasse  colla  fede. 

Giustamente  dice  il  Laurent,  parlando  del  domenicano 
Bartolomeo  Spina  avversario  del  Pomponazzi  :  «  Per  lui  che 
non  ha  subito  l' influsso  del  rinnovamento  che  1'  Umanesimo 
ha  introdotto  nella  teologia,  affermare  che  Aristotele  nega 
r  immortalità    dell'anima,    equivale    ad    affermare    che    tale 


131  S.  Tommaso,  Traci,  de  unit.  intelL,  ed.  Keeler,  §  107;  cfr.  la  mia 
traduzione  e  relative  note,  Firenze,   Sansoni,    1938. 


I    «  QUOLIBETA    DE    INTELLIGENTIIS  »  223 

dimostrazione  è  filosoficamente  impossibile.  Basta  leggere 
alcune  pagine  del  suo  lavoro  per  rendersi  conto  dei  principi 
che  han  diretto  le  sue  critiche.  Il  vecchio  binomio:  Aristo- 
tele =  Verità,  è  il  sottinteso,  starei  per  dire,  d'ogni  riga  del 
suo  volume....  Non  bisogna  perciò  stupirsi  delle  invettive  che 
lo  Spina  rovescia  sui  suoi  avversari:  i  termini  più  virulenti 
ricorrono  sotto  la  sua  penna» n-.  E  la  stessa  osservazione  il 
Laurent  ripete  a  proposito  del  tomista  del  cinquecento,  Fran- 
cesco   Silvestri   da    Ferrara  '33, 

Trasportiamo  questa  osservazione  all'  inizio  della  polemica 
averroistico-tomitica,  e  sarà  finalmente  chiarito  il  significato 
della  così  detta  «  teoria  della  duplice  verità  »,  della  quale 
qualche  storico  della  filosofia  s'  è  scandalizzato  anche  più 
di  quel  che  non  abbian  fatto  nel  passato  gì'  inquisitori  del- 
l'eretica  pravità,  talora,  se  non  sempre,  meno  irragionevoli 
di  certi  storici  della  filosofia  '34.  Che  l'aver  rivendicato  il  diritto 
alla  libertà  della  ricerca  storica  nell'  interpretazione  del  pen- 
siero aristotehco,  prima  che  all'  influsso  dell'umanesimo,  si 
deve  all'averroismo.  E  anche  in  questo  l'Achillini  è  buon 
discepolo  di  Sigieri,  nel  tenere  cioè  costantemente  distinto 
il  pensiero  del  Filosofo  dalla  verità  della  fede. 

La  quale,  forse,  ha  subito  maggior  danno  che  non  van- 
taggio dall'  impegno  che  taluni  hanno  messo  a  mostrarne  la 
troppo  intima  aderenza  ad  un  particolare  sistema  filosofico. 


132  M.-H.  Laurent,  Le  Commentaire  de  Cajétan  sur  le  «  De  anima  », 
in  principio  a  Thomas  De  Vio  Cardinalis  Caietanus,  Scripta  Philo- 
sophica:  Comment.  in  De  anima  Aristotelis,  ed.  l.  Coquelle,  voi.  I, 
Roma,   Angeliciim,    1938,   p.    XLIII. 

133  Ih.,  p.   XLIX. 

134  Intorno  al  significato  storico  della  dottrina  della  «  doppia  verità  », 
si  veda  quel  che  ne  ha  scritto  il  Gilson,  Études  de  philosophie  medievale, 
Strasbourg,  1921,  pp.  51-75;  Dante  et  la  philosophie,  Paris,  IQ39,  pp.  258 
sgg.  ;  cfr.  (:ui  sopra,  pp.  55-58,  ji-j^,  95- )8,  e  il  mio  volume  Dante  e 
la  cultura  medievale,  Bari,  Laterza,  1949,  pp.  207-211,  nonché  1'  in- 
troduzione a  S.  Tommaso,   Trattato  sull'unità  dell'  intelletto,  pp.   82-83. 


IX 

APPUNTI  SULL'AVERROISTA  BOLOGNESE 
ALESSANDRO  ACHILLINI  * 


Quando,  un  decennio  fa,  ebbi  ad  occuparmi  dell'avver- 
roista  bolognese  Alessandro  Achillini,  lo  feci  unicamente  per 
i  suoi  Quoliheta  de  intelligentiis  e  per  le  tracce  evidenti  in  essi 
di  dottrine  sigieriane  i.  Ma  per  il  momento  non  mi  detti  cura 
di  far  ricerche  sul  curricolo  della  sua  vita,  bastandomi  la  data 
del  1494,  quando  i  Quoliheta  furono  disputati  nel  capitolo 
generale  dei  frati  minori  tenuto  quell'anno  a  Bologna  e  per 
l'occasione  stampati.  Successivamente  ho  raccolto  alcuni  dati 
biografici  che  credo  utile  far  conoscere  a  chi  voglia  occuparsi 
a  fondo  di  questo  non  comune  maestro  bolognese,  tenuto 
ai  suoi  tempi  in  altissima  considerazione,  e  degno  anc'oggi 
d'esser  ricordato  sotto  diversi  aspetti. 


I.  -  Secondo  le  notizie  raccolte  da  Serafino  Mazzetti,  di 
solito  accurato  e  preciso,  nel  suo  Repertorio  di  tutti  i  professori 
antichi  e  moderni  della  famosa  università....  di  Bologna  2, 
A.  Achillini,  figlio  di  Claudio  che  dicesi  fosse  oriundo  di  Bar- 
berino in  Val  d'  Elsa  3,  e  coprì  più  volte  cariche  pubbliche, 
sarebbe  nato  a  Bologna  il  20  ottobre  1463.  Questa  data  presa 
dal  Tractatus  astrologicus  di  Luca  Gaurico,  non  sempre  bene 
informato,  dovrebbe  però  essere  anticipata  di  due   anni  se- 


*  Dal   «  Giorn.   Crit.    d.    Filos.   Ital.  »,    XXXIII,    1954,   PP-    67-108. 

1  B.   Nardi,    Sig.   di   Brab.   nel  pensiero   del  Rinascimento  italiano, 
Roma,  1945,  pp.  45-90  (vedi  saggio  precedente). 

2  Bologna,   1848,  n.   15,  p.    11.     • 

3  B.    Carrati,    Genealogie   di   famiglie   nob.    bolognesi,    Bologna,    Ar- 
chiginnasio, Ms.  B.  699,  tav.  2. 

15 


226        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

condo  la  cifra  degli  anni  ch'egli  aveva  quando  venne  a  morte 
il  2  agosto  1512,  quale  si  trova  nell'elogio  che  di  lui  si  legge 
nel  Libro  segreto  del  Collegio  delle  Arti  e  di  Medicina  e  che 
riferiremo  più  giù.  Ma  la  cifra  di  XXXXXI  anni  è  corretta  su 
rasura  e  con  altro  inchiostro.  Inoltre  il  fratello  Giovanni  Fi- 
loteo  Achillini,  nel  suo  Viridario  4,  compiuto  nel  1504,  ci  assi- 
cura che  Alessandro,  in  quell'anno,  in  cui  egli  stava  scrivendo 
il  X  canto  del  poema,  aveva  varcato  d'un  lustro  «  il  mezzo  ca- 
min  ))  della  vita.  Parrebbe  dunque  che  il  Gaurico  avesse  ragione. 

11  Mazzetti  inoltre  e'  informa  che  fu  laureato  in  filosofìa  e 
medicina  il  7  settembre  1484,  e  che  lo  stesso  anno  cominciò  a 
insegnar  logica  a  Bologna,  nel  quale  insegnamento  durò  fino 
al  1487.  L'anno  innanzi,  a  23  anni  d'età,  era  stato  ritratto 
da  Francesco  Francia  ^.  Dall'autunno  1487  all'estate  del  1494, 
insegnò  filosofìa;  dall'autunno  1494  all'estate  del  1497  passò  a 
medicina;  ma  dal  novembre  1497  all'ottobre  1506  resse  en- 
trambe le  cattedre,  cosa  non  comune,  spiegabile  solo  col  fa- 
vore di  cui  godeva  presso  i  colleghi  e  presso  i  Bentivoglio  dei 
quali  fu  sempre  caldo  fautore.  D'un  insegnamento  tenuto  dal- 
l'Achillini  a  Padova,  prima  di  questo  momento,  non  mi  pare 
dunque  si  possa  parlare.  Il  Gaurico  accenna  anche  ad  un 
soggiorno  abbastanza  lungo  dell' Achillini  a  Parigi,  del  quale 
purtroppo  non  abbiamo  altra  testimonianza,  e  d'altra  parte  non 
si  riesce  a  trovare  un  periodo  della  sua  vita  nel  quale  collocarlo. 

A  Bologna  ebbe  sicuramente  ad  alunno  il  bolognese  Tiberio 
Bacilieri  o  de  Bazaleriis,  il  quale  fu  approvato  «  in  artibus  )> 
il  lunedì  3  luglio  1492  ^  e  «  in  artibus  et  medicina  »  il  4  febbraio 
1496,  «  nemine  discrepante  ».  Fra  i  promotori  al  dottorato 
era  l'Achillini  che  «  dedit  insignia  »  al  neo  dottore  7.  Il  9  di- 
cembre 1499,  il  Bacilieri  fu  aggregato  in  sopranumero  ai  col- 


4  II  Viridario  di  Gioanne  Philotheo  secondo  figliolo  di  Claudio 
Achillino  Bolognese.  Impresso  in  Bologna  per  Hieronymo  di  Plato  Bo- 
lognese, nel  M.D.XIII.  Sotto  la  f.  m.  di  N.  S.  Leone  Decimo,  24  di- 
cembre. Dedica  al  Papa.  Fol.  184  v  sg.  I  vv.  che  riguardano  Alessandro 
son  riportati  più  giii,  p.    251. 

5  II  disegno  del  Francia  è  posseduto  dagli  Uffizi  di  Firenze.  Fotogr. 
Alinari,  più  volte  riprodotta.  Se  l'Ach.  era  nato  nel  1463,  il  disegno  è 
del   i486;  se  no,  di  qualche  anno  prima. 

6  Libro  Segreto  del  Collegio  [delle  Arti  e  della  Medicina']:  dall'anno- 
1481  al  1500  (Bologna,  Archivio  di  Stato,  busta  217);  f.  91  r.  Dal  libro 
dei  Partiti.  XI,  f.  902,  24  die.  1493  (Arch.  di  Stato),  risulta  che  il  Baci- 
lieri riscuoteva  già   100  lire  bolognesi  annue   «prò  stipendio  lecture  ».. 

7  Ib..  f.  41  r. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  227 

legi  bolognesi  delle  arti  e  della  medicina  ^.  Ma  non  era  passato 
un  anno  dalla  sua  aggregazione,  che  fu  sospeso  per  un  quin- 
quennio dall'uno  e  dall'altro  collegio,  con  decisione  del  9 
luglio  1500  confermata  cinque  giorni  dopo,  «  propter  nonnulla 
demerita  et  facinora....  facta  et  commissa  ».  Fra  questi  «  fa- 
cinora  »  pare  fossero  anche  «  parole  ignominiose  e  turpi  »  nei 
riguardi  dei  suoi  colleghi.  La  punizione  fu  inflitta  con  otto 
fave  bianche  contro  una  nera.  Fra  i  votanti  era  anche 
l'Achillini  9. 

Questa  la  ragione  perché  il  Bacilieri  proprio  in  quest'anno 
dovette  lasciar  Bologna,  e  recarsi  a  Padova 'o,  e  quindi  a  Pavia 
ove  rappresentò  l'averroismo  della  corrente  sigieriana  che 
aveva  assimilato  alla  scuola  dell' Achillini".  Il  i»  ottobre  1505, 
scaduto  il  quinquennio  della  sospensione,  egli  fu  riammesso  a 
far  parte  dell'uno  e  dell'altro  collegio,  per  unanime  consenso, 
senza  che  ci  fosse  bisogno  di  porre  ai  voti  la  proposta  '-. 

I  Quolibeta  de  intelligentiis,  preparati  per  la  disputa  del 
1494,  rappresentano  dunque  il  pensiero  filosofico  dell'Achil- 
lini  nel  primo  periodo  del  suo  insegnamento  della  filosofia 
naturale  prima  che  passasse  all'  insegnamento  della  medi- 
cinateorica.  In  quest'opera,  come  ormai  sappiamoci,  si  ritrovano, 
inserite  negli  schemi  del  metodo  calcolatorio,  divenuto  di 
moda  anche  a  Bologna  come  a  Padova,  tutte  le  tesi  fonda- 
mentali dell'averroismo,  concernenti  Dio,  le  altre  intelligenze 
separate,  e  in  particolare  l' intelletto  possibile  e  la  copulatio 
di  questo  con  1'  intelletto  agente;  tesi  tutte,  specialmente  quelle 
riguardanti  l' intelletto  umano,  desunte  dai  tre  scritti  di  Si- 
gieri,  che,  secondo  l'attestazione  del  Nifo,  si  leggevano  ancora 
alla  fine  del  secolo  XV. 

Ma  qui  accade  di  doverci  porre  un  piccolo  problema.  Nessun 
dubbio  sulla  data  di  pubblicazione  dei  Qnolibeta  dell'Achil- 
lini,  che  nel  1494,  trentunenne,  si  esibiva  campione  della 
dottrina  sigieriana  in  una  pubblica  disputa  alla  quale  erano 
intervenuti  dotti  di  varie  tendenze.  È  per  caso  in  questa  cir- 
costanza che  Giovanni  Pico  e  il  Nifo  si  trovarono  a  far  viaggio 


8  Ib.,  f.  54  r- 

9  Ib.,  f.  57r-v;    ff.  59  r-62  v. 
'o  V.  sotto,  p.    288. 

"  Cfr.  il  mio  Sigieri,  cit.,  pp.    132-152. 

'^  Libro  Segreto,  cit.;  n.  3,  dall'anno  1504  a  tutto  il  1575,  f.  4  r. 

'3  Cfr.   saggio  prec. 


228        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

insieme,  diretti  a  Bologna,  disputando  tra  loro  come  l'unità  del- 
l'intelletto potesse  conciliarsi  con  l' individualità  e  la  sopravvi- 
venza dell'anima  del  singolo '4?  Il  Nifo  ci  fa  sapere  di  essere 
stato  averroista  sigieriano  prima  del  1492,  e  pretende  d'aver 
composto  nell'estate  di  quest'anno,  poco  più  che  ventunenne, 
il  Tractatus  de  intellectu  nel  quale  la  dottrina  sigieriana  è 
combattuta.  Ho  già  espresso  piìi  volte  i  miei  dubbi  sulla  veri- 
dicità del  Nifo,  il  quale  aveva  troppo  interesse  ad  acconciare 
il  racconto  della  sua  vita  in  modo  da  meritarsi  le  grazie  del 
vescovo  di  Padova,  Pietro  Barozzi^S.  Il  piccolo  problema  che 
vorrei  porre,  e  che  non  sono  in  grado  di  risolvere,  è  questo: 
chi  portò  a  Padova  o  a  Bologna  gli  scritti  di  Sigieri  ricordati 
dal  Nifo  ?  Fu  Paolo  Veneto  che  certamente  dimorò  a  Oxford 
e  a  Parigi  ?  Fu  Giovanni  Pico  ?  Fu  l'Achillini  stesso,  se  mai 
fosse  vero,  come  pretende  il  Gaurico,  che  anch'egli  soggiornò 
a  Parigi  ?  Del  resto,  gli  scambi  fra  le  due  università  italiane 
e  quella  parigina  erano  frequenti,  e,  come  sappiamo  di  fran- 
cesi che  durante  il  Quattro  e  il  Cinquecento  erano  venuti  a 
studiare  a  Padova  e  a  Bologna,  sappiamo  del  pari  che  Pietro 
e  Lorenzo  Pasqualigo,  patrizi  veneziani,  erano  stati  a  studio  a 
Parigi,  e  il  primo  anzi  nel  1494  vi  aveva  sostenuto,  ventiduenne, 
ben  due  mila  conclusioni  i^. 


2.  -  Nell'estate  del  1498,  quando  all'  insegnamento  della 
medicina  teorica  aveva  riunito  quello  della  filosofìa  naturale, 
l'AchilUni  fece  stampare  la  sua  seconda  opera  De  orhihus  in 
quattro  libri '7.  Nel  primo  libro  ritroviamo  tutte  le  grandi 
tesi  della  fisica  celeste  di  Aristotele,  nella  più  rigida  interpre- 
tazione averroistica,  fino  al  punto  che  è  ritenuta  assurda  la 
teoria  tolemaica  degli  eccentrici  e   degli  epicicli,   che   aveva 


14  A.  Nifo,  In  libriim  Destvuctio  Destructionum  Averrois  comment., 
I,  dub.  8;  cfr.  ib.,  IV,   dub.  7;  cfr.  sotto,  pp.   31Q,  376-77  e  451. 

15  V.  sopra,  pp.   101-102  e  sotto,  p.  311,  n.  52. 

16  V.  sotto,  p.  289. 

17  «  Hoc  secundum  opus  in  quatuor  libros  divido  ».  Il  che  esclude 
l'esistenza  di  quel  trattato  De  proportionibiis  niotuum,  che  secondo  lo 
Hain,  n.  71,  sarebbe  stato  stampato  a  Bologna  «  per  Benedictum  Hecto- 
ris  1494  ».  Questo  trattato,  composto  più  tardi,  usci  postumo,  come 
diremo  più   giù,   nel   15 15. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  229 

SÌ  il  grande  merito  di  salvare  le  apparenze  dei  moti  planetari 
assai  meglio  che  non  la  teoria  delle  sfere  concentriche,  ma  che 
mal  si  conciliava  coi  principi  della  fisica  aristotelica.  E  l'Achil- 
lini,  come  in  generale  tutti  gli  averroisti,  ci  teneva  alla  fedeltà 
ai  testi  che  egli  s'era  assunto  l' impegno  di  esporre.  Nel  se- 
condo libro  di  quest'opera  si  parla  invece  delle  intelligenze 
motrici,  cioè  di  Dio,  primo  motore  immobile,  e  quindi  dei 
motori  preposti  al  governo  di  ciascun  cielo.  A  questo  punto  il 
maestro  bolognese  si  chiede  se,  oltre  alle  inteUigenze  separate, 
esistano  altresì  dei  dèmoni.  La  credenza  nei  dèmoni  e  nelle 
loro  opere  prodigiose  non  era  diffusa,  alla  fine  del  Quattro- 
cento, soltanto  nel  popolino,  ma  anche  nei  ceti  colti,  presso 
i  quali  la  demonologia  cristiana  era  rincalzata  da  quella  neo- 
platonica. L'Achillini  nel  suo  rigido  averroismo  non  sa  con 
esattezza  ove  collocare  siffatte  nature  ibride,  di  spiriti  imbe- 
stiati,  e  quale  funzione  propriamente  assegnare  ad  esse.  Am- 
messa per  fede,  l'esistenza  dei  dèmoni  è  relegata  tra  le  opi- 
nioni volgari  i8.  E  quanto  ai  fatti  meravigliosi  che  ad  essi 
vengono  attribuiti,  il  bolognese  è  d'avviso  si  possano  spiegare 
con  l'arte  umana  o  per  mezzo  di  cause  naturaH,  a  dir  vero, 
non  meno  meravigliose,  come  farà  più  tardi  il  Pomponazzi, 
e  come  aveva  fatto  molto  prima  Pietro  d'Abano. 

Dopo  questa  parentesi,  egli  torna  a  parlare  dell'  immuta- 
bilità di  Dio,  ingenerabile,  incorruttibile,  inalterabile,  non 
soggetto  a  movimento  locale  né  a  mutamento  di  pensiero, 
poiché  tutto  atto  senza  potenza.  Di  questa  divina  immuta- 
bihtà  partecipano  anche  le  altre  intelligenze  celesti,  sebbene 
in  queste  sia  qualche  potenzialità,  in  quanto  ogni  intelUgenza 
di  sotto  subisce  l'azione  di  quella  di  sopra,  sì  che  questa  è 
intelletto  agente  per  rapporto  a  quella  che  vien  dopo,  e  quella 
che  vien  dopo  può  dirsi  intelletto  possibile  per  rapporto  alla 
precedente,  come  già  sapevamo  dai  Qiioliheia  de  intelligentiis  '9. 
Primo  intelletto  agente  che  immediatamente  o  mediatamente 
informa  di  sé  tutte  le  intelligenze  inferiori,  è  Dio.  Ma  le  intel- 
Ugenze  inferiori  sono  informate  da  quelle  di  sopra  senza  su- 
bire cangiamento  nel  tempo,  bensì  con  atto  eterno,  che  fa 


i8  De  orbibus,  II,  diib.  i,  fol.  37  rb  (secondo  l'edizione  degli  Opera 
omnia,  curata  da  Panfilo  Monti,  Venezia,  1545,  alla  quale  per  comodità 
mi  richiamo) . 

'9  Ib.,  dub.  2,  Secundo  principaliter,  Septimum  dictum,  fol.  39  va. 
Cfr.  Qiiol.  de  intell.,  V,  dub.  3,  f.  18  rb;  e  qui  sopra,  pp.  197-198  e  217. 


230        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

dire  talora  ad  Averroè  che  esse  sono  atti  puri  senza  potenza, 
cioè  puro  intendere  senza  mutamento. 

Ultima  delle  intelligenze  è  l' intelletto  umano  che  propria- 
mente si  disse  possibile  o  potenziale,  poiché  non  ha  altra  na- 
tura che  quella  di  essere  in  potenza.  Questo  intelletto,  unico 
per  tutta  la  specie  umana  e  forma  che  dà  all'uomo  il  suo  essere 
specifico  di  uomo,  non  passa  dalla  potenza  all'atto  del  cono- 
scere se  non  è  coadiuvato  dall'esperienza  sensibile.  In  quanto 
passa  dal  non  conoscere  al  conoscere  le  cose  del  mondo  sen- 
sibile, che  sono  il  suo  oggetto  proprio,  esso  è  soggetto  a  mu- 
tamento o  alterazione.  Questa  alterazione  era  intesa  comu- 
nemente come  modificazione  dell'  intelletto  stesso  ad  opera 
delle  specie  intelligibili  o  rappresentazioni  in  esso  delle  cose 
conosciute.  L'Achillini  respinge  questa  teoria,  appoggiandosi 
a  un  famoso  testo  del  VII  della  Fisica  aristotelica -o,  che  aveva 
già  richiamato  l'attenzione  d'Averroè,  e  coglie  l'occasione 
per  ribadire  un  concetto  già  da  lui  affermato  alla  fine  del 
terzo  Qttolib.  de  iìitelligentiis  -i.  Aristotele  aveva  detto  che 
nella  parte  intellettiva  dell'anima  non  si  dà  né  generazione 
né  alterazione  vera  e  propria:  l'atto  conoscitivo  non  importa 
un  mutamento  qualitativo  intrinseco  all'  intelletto,  ma  una 
semplice  variazione  del  rapporto  fra  questo  e  le  forme  del 
mondo  sensibile  che  la  mente  conosce  in  sé  stesse  senza  bi- 
sogno che  una  rappresentazione  o  «  specie  intelligibile  »,  di- 
stinta dalla  realtà  conosciuta  e  dal  soggetto  conoscente,  venga 
a  inserirsi  fra  l'una  e  l'altro.  Un  mutamento  qualitativo  e 
intrinseco  subiscono  invece  le  facoltà  sensitive  e  con  esse  la 
cogitativa,  cui  l' intelletto  s'unisce  nell'atto  d'apprendere  le 
forme  del  mondo  sensibile.  L' intelletto  in  sé  stesso  è  immu- 
tabile, come  i  principi  logici  e  come  le  forme  a  priori  di  Kant; 
senza  di  che  nessun  giudizio  certo  sarebbe  possibile;  il  muta- 
mento e  l'alterazione  sono  soltanto  nel  contenuto  del  cono- 
scere, e  soltanto  per  denominazione  estrinseca  s'  attribuiscono 
all'  intelletto.  Perciò  l'Achillini  distingue  con  Sigieri  l' intel- 
letto dall'anima  razionale:  quello  è  unico  in  sé  stesso  per  tutta 
la  specie  umana;  questa  invece,  risultando  dall'unione  del- 
l' intelletto  con  la  cogitativa,  è  individuale  al  pari  di  quest'ul- 
tima e  diversa  in  ogni  uomo;  e  a  questa,  propriamente,  e  non 


-°  T.  e.  20,  e.  3,  247  b  I  sgg. 

-^  Diib.   3,   f.    13  ra:   Hic  aliquantulum  morabimur. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  23 1 

a  quello,  spetta  la  funzione  raziocinativa  e  discorsiva,  consi- 
stente appunto  nell'applicazione  delle  immutabili  forme  del 
pensiero  alla  mutevole  esperienza  sensibile.  Merito  dell' Achil- 
lini  è  appunto  questo,  che  a  lui  spetta  per  altro  in  quanto 
ha  ripreso  un  motivo  di  alcuni  pensatori  della  prima  metà 
del  secolo  XIV  --,  d'aver  capito  che  la  dottrina  delle  specie 
intelligibili  finisce  per  offuscare  la  conoscenza  della  realtà, 
ricacciata  al  di  là  della  rappresentazione  che  attua  il  soggetto 
conoscente.  L'atto  conoscitivo  è  possibile  solo  in  quanto  il 
reale  conosciuto  è  presente  per  se  stesso  al  soggetto  che  l'ap- 
prende. 

Vero  è  che,  per  l'Achillini,  le  cose  del  mondo  fisico  hanno 
un  «  esse  reale  »  fuori  del  soggetto  che  le  pensa,  e  non  possono 
essere  in  questo  se  non  per  il  loro  «  esse  intentionale  »;  di  guisa 
che  lo  sdoppiamento  fra  realtà  in  quanto  appresa  e  realtà  in 
sé  risorge  e  rende  plausibili  le  obiezioni  che  altri  aristotelici 
e  averroisti  ebbero   a  rivolgere  al  filosofo   bolognese. 

E  primi  fra  tutti  il  Pomponazzi  e  Marcantonio  Zimara. 
Il  Pomponazzi  si  dichiarò  «  contra  modernos  pedagogos,  qui 
tenent  secundum  Averroem  quod  intellectus  possibilis  nihil 
de  novo  recipit  »,  fin  dal  1500,  mentre  commentava  a  Padova 
il  De  anima  -3.  I  «moderni  pedagoghi»  dai  quali  dissentiva  erano 
il  Nifo,  l'Achillini  e  il  suo  fido  Achate,  Tiberio  Bacilieri,  che, 
per  le  ragioni  accennate  più  su,  era  diventato  collega  del 
mantovano  nello  studio  patavino.  Questo  è  confermato  da 
una  nota  in  margine  al  codice  napoletano  che  ci  ha  tramandato 
il  commento  del  Peretto:  «  Nota  contra  socios  Achillinum  Tybe- 
riumque  bononienses  »  -4.  Più  tardi,  mentre  commentava  a 
Padova  la  stessa  opera  aristotelica,  nel  corso  dell'anno  scola- 
stico 1504-1505,  il  maestro  mantovano  dedicò  una  quaestio 
speciale  a  esporre  e  combattere  «  opinionem  noviter  repertam 
quae  tenet  nullo  pacto  dari  species  intelligibiles  ».  Veramente 
questa   opinione    non    era   proprio    «  noviter   reperta  »,    come 


22  Vedasi  il  mio  libretto  Soggetto  e  oggetto  del  conoscere  nella  filosofia 
antica  e  medievale,   Roma,   Edizioni  dell'Ateneo,   1952,  pp.   25-55. 

23  Bibl.  Naz.  di  Napoli,  mss.  Vili.  D.  81,  f.  52  r,  e  Vili.  E  42,  f.  195  r. 
-4  Ib.  La  nota  nel    ms.  napoletano  Vili.   D.   81,   f.  52  r  parrebbe  di 

mano  di  Antonio  Surian  che  trascrisse  il  testo  della  riportazione,  di 
cui  forse  è  autore  quel  Marco  da  Otranto  che  è  Marcantonio  Zimara, 
il  quale  ne  avrebbe  fatto  copia  a  Basilio  Troiano  e  questi  a  Gian  Bene- 
detto Caravegi  da  Crema,  dal  quale  l'ebbe  il  Surian   {ib.,   f.   76  r). 


232        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

del  resto  ben  sapeva  il  Pomponazzi  ^s;  ma  nuova  poteva  sem- 
brare per  il  modo  come  la  presentavano  e  per  il  vigore  col 
quale  la  difendevano  i  due  «pedagoghi»  bolognesi.  Ma  nuova 
o  no,  il  Peretto  non  esitava  a  giudicarla  «  abominevole,  fatua 
e  bestiale  »  : 

Et  dico  primo  quod  opinio  ista  est  abominabilis,  fatua  et  be- 
stialis  et  nihil  boni  ab  ea  potest  capi.  Ego  enim  nihil  intelbgo  de 
opinione  ista.  Isti  contra  se  adducunt  duo  miUia  auctoritatum  et 
totam  ecclesiam  doctorum,  ipsosque  glosantes  totaliter  dilaniant 
et  lacerant.  Vide  in  scriptis  suis  ~^. 

Che  il  mantovano  non  avesse  presa  per  il  suo  verso  e  non 
avesse  capito  l'opinione  d'Averroè  e  dell' Achilhni,  non  è  da 
stupire,  dato  l'orientamento  del  suo  pensiero  quale  doveva 
rivelarsi  anche  meglio  in  seguito.  Così  anche  nell'esposizione 
del  VII  della  Fisica,  fatta  a  Bologna  nell'anno  scolastico 
15 17-15 18,  giunto  al  commento  del  testo  20,  sul  quale  si  fon- 
davano gli  averroisti  della  corrente  dell'Achillini,  torna  a 
ripetere  : 

Ista  est  pars  dignissima  in  qua  aut  ego  erro  aut  omnes  aiii 
maxime  erraverunt;  sed  credo  quod  potius  iUi  decipiantur  quam 
ego;  sed  in  hoc  constituam  vos  iudices.  In  ista  ergo  parte  commen- 
tator  ponit  unum  documentum,  ex  quo  traxit  Burleus,  quod 
est  de  mente  commentatoris,  cum  anima  sit  unica  in  omnibus 
hominibus,  ipsam  nihil  capere  {ins  capit)  de  novo,  ncque  acquirere 
[ms  aquirit)  scientiam  per  species  de  novo  advenientes,  sed  scientia 
est  substantia  animae.  Et  non  possum  [non]  mirari  de  istis  mo- 
dernis,  qui  faciunt  se  inventores  et  autores  huius  viae,  cum  vi- 
deant  Burleum  ante  se  de  hoc  iam  expresse  loqui.  Imo,  ante 
Burleum  Henricus  de  Gandavo  tenuit  hoc  idem  esse  de  mente 
commentatoris;  et  etiam  Thomas  ascribit  hoc  commentatori, 
Hcet  propter   aham   rationem  27. 

Non  meno  aspro,  contro  l' interpretazione  che  l'Achillini 
aveva  sostenuta  del  pensiero  d'Averroè,  è  il  giudizio  di  Mar-     1 

25  Infatti  nel  ms.  napoletano  Vili,  E.  42,  f.  1951,  si  legge:  «Pro 
quo,  domini,  debetis  scire  quod  insurgit  nova  phylosophia,  immo  an- 
tique; quare  Burleum  videatis:  expresse  super  textu  commenti  2oi 
septimi  physicorum  dicit  intellectum  speculativum  esse  eternum  et  non 
dari  species  intelligibiles  commentatoris;  hec  etiam  tenet  augustinus 
sessa,   Alexander  Achylinus  et  multi  alii  insequentes  i  tos....  ». 

26  Ms.  napol.  VIII.  D.   31,  f.   83  r. 

27  In  VII  de  phys.  auditu,  Bibl.  Nation.  di  Parigi,  ms.  lat.  6533,  f.  Jj 
330  r  (ad  t.  e.  20);  cfr.  ms.  45  della  Biblioteca  del  Collegio  Campana  di  9 
Osimo,   f.    201  V. 


i 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  233 

c'antonio  Zimara  da  Otranto,  in  una  sua  quaestio  «  Utrum 
ad  mentem  Averroys  intellectus  possibilis  recipiat  species 
intelligibiles  subiective  ».  Esposta  e  criticata  la  dottrina  del- 
l'Achillini,  della  quale  vorrebbe  far  rilevare  l'assurdità  dal 
punto   di  vista  aristotelico  ed  averroistico,  egli  conclude: 

Et  in  veritate  opinio  istius  hominis  adeo  est  erronea,  ut  me 
pudeat  amplius  arguere  centra  ipsvim.  Ipse  enim  ignorat  adhuc 
quomodo  forma  materialis  generatur.  Item  habet  fateri  quod 
formae  materiales  secnndum  suum  esse  formale  accipiantur  in 
sensibus  interioribus,  quia  non  est  maior  ratio  quare  in  intellectu 
possibili  materiales  formae  sint  secundum  esse  formale,  et  non 
in  ipsa  cogitativa  et  imaginativa.  Quantum  autem  ista  sint  incon- 
venientia,  non  solum  sapientibus,  sed  etiam  yulgaribus  sunt 
novissima  [1.  notissima].  Unde  licet  mihi  dicere  de  isto  homine, 
quod  dixit  commentator  de  Avicenna,  in  tertio  Celi,  comm.  67, 
quod  videlicet  parvitas  exercitationis  ipsius  viri  in  naturalibus 
et  bona  confidentia  in  proprio  ingenio  deduxit  ipsum  ad  maximos 
errores^S. 

A  risolvere  le  obiezioni  mosse  alla  tesi  dell'Achillini  bisogna 
tener  costantemente  presente  la  distinzione  fra  anima  razio- 
nale e  intelletto  in  sé.  L' intelletto  possibile,  in  sé  considerato 
e  in  quanto  unico  per  tutta  la  specie  umana,  non  è  modificato 
da  alcuna  rappresentazione  che  gli  venga  dal  mondo  sensibile. 
Invece,  in  quanto  unito  alla  cogitativa  individuale  di  Socrate 
e  di  Calila,  con  la  quale  forma  l'anima  razionale  composta  di 
ciascuno  individuo  umano,  esso  è  certamente  soggetto  a  mu- 
tazione e  ad  alterazione,  non  per  il  mutare  di  qualcosa  in 
esso,  ma  per  il  mutare  dell'  immagine  sensibile  che  è  nella 
cogitativa  cui  è  unito.  Che  se  l'Achillini  dice  l' intelletto  pos- 
sibile pura  e  nuda  potenza  senz'atto  di  sorta,  prima  dell'atto 
d' intendere,    questo    va    inteso    per    rapporto    all'  intelletto 


-8  M.  A.  Zimara  de  sancto  Petro  de  Galatinis  Terrae  Hj^drunti,  ar- 
tium  doctoris,  Quaestio  qua  species  intelligibiles  ad  mentem  Averrois 
defenduntur  ad  Magnificum  patritium  \'enetum  Antonium  Surianum; 
s.  1.,  a  cura  di  Francesco  Storella,  pridie  idus  lanuarii  1554.  La  stessa 
«  quaestio  »  fu  pubblicata  dal  francescano  Girolamo  Girelli,  professore 
di  teologia  nello  studio  di  Padova,  in  principio  del  suo  Tractatus  adversus 
quaestionem  M.  A.  Zimarae  de  speciebus  intelligibilibus  ad  mentem  an- 
tiqiioritm  Averrois  praesertim.  Venetiis,  1561.  Il  passo  riportato  è  al 
f .  7  V.  Il  Girelli,  che  aveva  studiato  a  Padova,  ov'era  stato  alunno  del 
Pomponazzi,  cita  l'Achillini  (f.  23  r  e  26  v),  ma  si  rifa  specialmente  a 
Enrico  di  Gand  e  al  carmelitano  inglese  Giovanni  di  Baconthorpe, 
noti   avversari   delle    «species  intelligibiles».  V.  sotto,  p.  328. 


234         L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

agente  che  è  tutto  atto  senza  potenza  ed  è  la  scienza  in  atto, 
al  cui  possesso  tende  l' intelletto  possibile. 

Il  III  libro  del  De  orhihus  s'apre  col  settimo  dubbio  del- 
l'opera: «  an  intelligentia  sit  forma  dans  esse  caelo  ».  Anche 
su  quest'argomento  l'Achillini  si  sforza  di  mantenersi  fedele 
ad  Averroè:  ogni  cielo  è  composto  di  materia  e  di  forma;  il 
corpo  sferico  di  esso  è  la  materia,  l' intelligenza  motrice  è  la 
sua  forma.  Per  questa  unione  ciascun  cielo  è  un  animale  vi- 
vente, non  di  vita  vegetativa  o  sensitiva,  come  pretendeva 
Avicenna,  ma  di  vita  intellettuale.  Le  sfere  celesti  sono  perciò 
quegli  animali  immortali  ed  eterni  di  cui  parlano  Aristotele 
nel  IV'  dei  Topici -9  e  Porfirio  nella  sua  Isagoge  alle  Categorie  3°. 
Animali  viventi  di  vita  intellettuale,  l'atto  dell'  intendere 
e  del  volere  si  predica  dei  cieli,  di  cui  le  intelligenze  son  forme 
sostanziali,  a  quel  modo  che  si  predica  dell'uomo  di  cui  è 
forma  sostanziale  l' intelletto  possibile,  che  è  l' infima  delle 
intelligenze  separate. 

Sebbene  i  corpi  celesti  siano  dotati  di  spazialità  e  di  movi- 
mento al  pari  dei  corpi  del  mondo  inferiore,  essi  son  «  corpi 
spirituali  »,  immuni  da  composizione  di  materia  e  di  forma, 
poiché  il  loro  essere  è  costituito  dall'unione  immediata  con  la 
propria  intelligenza.  Questo  concetto  averroistico  di  una  «  cor- 
poreità spirituale  e  immateriale»,  che  piacque  anche  al  Ficinosi, 
fu  oggetto  di  lunghe  controversie  fra  gli  averroisti  e  le  altre 
scuole  aristoteliche,  e  fra  gli  averroisti  stessi. 

Dio  è  la  prima  delle  intelligenze  separate;  e  come  ognuna  di 
queste  è  forma  sostanziale  del  proprio  cielo,  ch'essa  avviva 
di  vita  intellettuale  e  a  cui  imprime  movimento,  così  anche 
Dioè  forma  sostanziale  del  primo  cielo  mobile  al  quale,  insieme 
al  primo  moto,  imprime  la  propria  perfezione  intellettuale  3^ 
Con  ciò  il  bolognese  non  fa  che  sviluppare  un  concetto  già 
chiaro  nella  sua  precedente  opera,  Quol.  de  intelligentiis,  I, 
dub.  2.  L' idea  di  Dio,  quale  emerge  da  siffatto  modo  di  ve- 
dere, è  r  idea  di  un  Dio  strettamente  legato  al  mondo  finito 


^9  Arist.,    Top.,    IV,    e.    2,    i22b    14:     tcov  ^cóoiv  xà  jjièv  ■8-VY]Tà  xà 
•^'à-B-àvaTa. 

30  Porfirio,   Isagoge  et  in  Arist.   Categor.  comni.  ed.   A.  Busse,  nei 
Commentaria  in  Arist.  graeca,  voi.  IV,  De  differentia,  p.   io,   11  sgg. 

31  Argmn.  in  Platon.   Theol.  ad  Laurent.  Medicen  [in  Opera,  Basilea, 
1561,   t.   I,   Epist.   lib.   II,  p.   707). 

3-  De  orbibìts,   III,   dub.    i,   f.   47  rb-vb. 


i 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  235 

di  Aristotele,  come  forma  e  motore  non  mosso  della  prima  sfera 
celeste,  e  anima  del  primo  «  corpo  spirituale  »  che  contiene  e 
racchiude  entro  di  sé  le  altre  sfere  animate  e  immortali,  fino 
al  cielo  lunare,  che  racchiude  nella  sua  concavità  la  «  sphaera 
activorum  et  passivorum  »,  ossia  i  quattro  elementi  e  quelle 
cose  che,  sotto  r  influenza  celeste,  «di  lor  si  fanno».  Forma  e 
motore  di  un  mondo  finito,  è  evidente  che  di  siffatto  Dio  non 
si  può  dimostrare  l' infinità  né  l'onnipotenza  né  la  libera  azione 
creatrice. 

Del  resto,  per  ciò  che  concerne  l'animazione  dei  cieli,  v'erano 
teologi  disposti  ad  ammetterla.  L'Achillini  lo  sa  bene;  ma  os- 
serva che  da  parte  dei  teologi  esistono  difficoltà  non  facilmente 
superabili  ad  accogliere  simile  teoria.  Per  essi,  infatti.  Dio 
creò  le  intelligenze  «  in  statu  merendi  et  demerendi  ;  viatrices 
enim  aliquantulum  fuerunt  »,  durante  quella  «  morula  »  con- 
cessa loro  da  Dio  per  potere  scegliere  liberamente  il  bene  o 
il  male  33.  Ora  che  cosa  sarebbe  accaduto  se  l'anima  del  primo 
cielo  avesse  peccato  ?  Il  primo  cielo  sarebbe  stato  dannato. 
Eppure  esso  avrebbe  dovuto  accogliere  i  beati,  a  meno  che 
Dio  non  avesse  preparato  per  sé  e  per  i  santi  un  altro  luogo 
più  adatto,  o  che  non  avesse  predestinato  l' intelligenza  di 
quel  cielo  alla  beatitudine  eterna  !  Ma  il  maestro  bolognese 
taglia  corto  su  questo  e  altri  problemi  sottili  e  imbarazzanti: 
per  lui,  secondo  la  verità  della  fede,  non  può  ammettersi  che 
Dio  sia  unito  come  forma  ad  un  cielo;  ciò  ripugna  alla  sua 
infinità  e  al  potere  che  ha  di  trarre  le  cose  dal  nulla  34. 

Tutto  questo,  per  altro,  riguarda  i  teologi  e  non  la  filosofia, 
se  per  filosofia  s'  ha  da  intendere,  come  quasi  tutti  allora  in- 
tendevano, il  sistema  aristotelico  della  natura,  cosa  che  non 
tutti  gli  storici  della  filosofia  han  sempre  avvertito. 

E  problema  tutto  teologico  è  quello  discusso  nel  dubbio 
ottavo  dell'opera,  che  è  il  2°  del  terzo  libro,  intorno  alla  crea- 
zione dal  niente  e  al  cominciamento  o  novitas  del  mondo  nel 
tempo.  In  oltre  venti  fittissime  e  uniformi  colonne  in-folio, 
interrotte  da  appena  due  capoversi,  la  dottrina  teologica  della 
creazione  del  mondo  nel  tempo  è  sottoposta  ad  una  serrata 
e   minutissima  critica  che   ne   dimostra    l' inconciliabilità   coi 


33  Cfr.    Dante,    Par.,   XXIX,   49-51. 

34  De   orb.,   f.    47  vb. 


236        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

principi  più  Certi  della  metafisica  aristotelica  35,  per  termi- 
nare, al  solito,  dopo  tanto  sforzo,  con  questa  dichiarazione: 
«  Tenendum  est  autem  deum  creasse  mundum  et  non  ab 
aeterno,    et    ab    aeterno   ipsum    potuisse    creare....  »! 36. 

Segue  il  nono  quesito  o  dubbio,  «  utrum  caelum  sit  finitae 
magnitudinis  in  actu  »,  intorno  al  quale  l'Achillini,  fedele 
ad  Aristotele  e  ad  Averroè,  mostra  di  non  tenere  in 
alcun  conto  il  tentativo  fatto  da  alcuni  teologi  del  secolo 
XIV,  di  dedurre  la  possibilità  d'un  universo  infinito  dalla 
infinità  e  onnipotenza  di  Dio;  che  anzi  dalla  limitatezza  del- 
l'universo aristotelico  egli  è  condotto  a  limitare  la  potenza 
divina.  Perciò  egli  si  contenta  di  osservare  :  «  Quod  si  theo- 
logus  concedat  deum  posse  lacere  corpus  infinitum,  oportet 
ipsum  dicere  has  difiìnitiones  quantitatum  non  esse  diffini- 
tiones  absolute,  sed  quantitatum  finitarum,  quemadmodum 
oportet  ipsum  concedere,  quod  acquale  vel  inacquale  non 
est  passio  quantitatis,  sed  est  passio  propria  quantitatis 
finitae  »  37  ;  nel  che  consentono  appieno  il  Cusano  e  il  Bruno. 

Nel  decimo  quesito  col  quale  si  conclude  il  terzo  libro,  il 
maestro  bolognese  esclude  la  possibilità  di  altri  mondi  fuori 
di  quello  descritto  da  Aristotele,  che  ha  per  centro  la  terra 
e  per  limite  la  convessità  della  prima  sfera  di  cui  è  forma  so- 
stanziale Dio  stesso. 

Anche  nel  quarto  libro  troviamo  ribadite  le  grandi  tesi  del- 
l'aristotelismo averroistico  intorno  alla  natura  celeste  presa 
nel  suo  complesso.  Sferico  è  il  cielo,  perché  corpo  perfettissim.o 
cui  non  può  competere  se  non  la  perfettissima  delle  figure 
geometriche,  qual  è  appunto  la  sferica  38.  Ed  è  formato  di 
natura  luminosa  che  consegue  alla  luce  intellettuale  dell'  in- 
telligenza che  l'anima  e  lo  muove,  diminuendo  d' intensità 
giù  giù,  di  grado  in  grado,  fino  alla  sfera  lunare,  la  cui  lumino- 
sità propria  è  appena  percettibile  nelle  ecclissi  di  luna  39.  Ampio 
sviluppo  maestro  Alessandro  dà  al  quesito  concernente  l'eter- 
nità del  moto  celeste,  connesso  con  quello  dell'eternità  del 
mondo  e  dibattutissimo  insieme  a  questo,  nei  commenti  al- 


35  Ib.,   f.    5irb:    «ad   quartum,   stando  in  principiis   philosophorum, 
rationes  militant;  sed  negatis  eorum  principiis,  tiinc  cessai  disputatio  ». 

36  Ib.,  i.  52ra. 

37  Ib.,  f.  52ra. 

38  Ib.,  IV,  dub.   I,  f.  54ra-vb. 
49  Ib.,  dub.   2,  f.   54vb-55rb. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  237 

l'ottavo  della  Fisica  4°.  Circolare  ed  eterno,  il  moto  delle  sfere 
celesti  riflette  l'eterna  circolarità  del  pensiero  delle  intelli- 
genze motrici:  «  Quia  igitur  intellectio  intelligentiae  exit  ab 
intelligente  et  revertitur  super  idem  ut  intellectum  est,  ideo 
intellectio  est  principium  motus  circularis,  quoniam  in  cir- 
culo  exit  corpus  ab  a,  ut  a  principio,  et  revertitur  in  idem  a, 
ut  in  terminum,  per  arcum  circuii»! 41. 

L'ultimo  quesito  del  De  orèzèiis,  concerne  l' influenza  celeste 
sul  mondo  infralunare.  In  nessun'altra  trattazione  quanto 
in  questa  dell'Achillini  appare  evidente  come  le  dottrine 
astrologiche  sull'  influenza  dei  cieli  avevano  finito  per  pren- 
dere consistenza  metafisica  nel  sistema  aristotelico  della  na- 
tura, nel  quale  le  sfere  celesti,  coi  loro  motori  intellettuali, 
e  il  mondo  elementare,  contenuto  nel  concavo  dell'orbe  lu- 
nare, son  solidali  e  quasi  direi  complementari  fra  loro,  legati 
come  sono  da  un  legame  di  causalità  42.  «  Si  caelum  staret, 
ignis  in  stupam  non  ageret,  quia  Deus  non  esset  »,  suonava 
una  proposizione  condannata  dal  vescovo  di  Parigi  nel  1277  43. 
E  l'Achillini:  se  il  movimento  celeste  s'arrestasse,  non  solo 
il  fuoco  non  s'apprenderebbe  alla  stoppa  e  allo  zolfo,  ma  addi- 
rittura «  tunc  non  essent  ignis,  stupa  aut  sulfur»;  e  ciò  per  la 
ragione  «  quod  in  primo  instanti  quietis  caeli  resolverentur 
omnia  inferiora  in  materiam  primam,  quia  desineret  caelum  esse 
conservans  interiora...;  aut  in  nihil  omnia  redirent.  Ideo  supra 
dictum  est,  quam  repugnat  naturae  vacuum,  aut  materiam 
esse  sine  forma,  tam  repugnat  caelum  quiescere.  Ideo  Aver- 
roes,  12.  Mataphysicae,  comm.  41,  auctoritate  Aristotelis,  9. 
Meìaph.,  [t.J  e.  16,  [e.  8,  io5ob  22  sgg.)  :  '  Non  est  timendum 
caelum  quiescere  '  44.  Meno  male  ! 

Ma  nel  trattare  della  causalità  che  il  mondo  celeste  esercita 
su  tutte  le  cose  del  mondo  inferiore,  il  bolognese  è  indotto  a 
porsi  il  problema  della  libertà  umana.  Sigieri45  e  Giovanni  di 


40  Ib.,  dub.  3,  f.  55rb-57ra. 

41  Ib.,  dub.  4,  f.  57ra-vb. 

42  Su  questo  legame  fra  il  cielo  e  il  mondo  inferiore,  cfr.  Averroè, 
De  caelo,  I,  comm.  22;  Aristotele,  Meteor.,  I,  e.  i,  338b  22;  e.  2,  339* 
21  sgg. 

43  Denifle  e  Chatelain,  Chart.  Univers.  Paris.,  1,  p.  552. Cfr.  «Giorn. 
Crit.  d.  Filos.  Ital.  »,  XXIX,  1951,  p.  379. 

44  De  orb.,   IV,   dub.   5,   f.   59rb. 

45  Cfr.  F.  Van  Steenberghen,  Sig.  de  Brab.  d'après  ses  oeuvres 
inédites,  voi.  II,  Siger  dans  l'  hist.  de  l'Aristotélisme,  nella  collez.  Les 
philosophes  belges,  t.  XIII,  Louvain,  1942,  pp.  624  e  663-665. 


238        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Jandun  46  se  l'eran  posto  assai  prima,  e  l'avevan  risolto  allo 
stesso  modo.  L' influenza  dei  corpi  celesti  non  s'esercita  in 
modo  diretto  se  non  sui  corpi  infralunari.  Sull'  intelletto  e  la 
volontà  umana  questa  influenza  non  s'esercita  se  non  indiretta- 
mente, nella  misura  che  lo  spirito  umano  è  legato  al  corpo. 
Ma  per  se  stessa  quest'  influenza  non  s'esercita  sull'atto  del 
giudicare  e  del  volere,  che  può  resistere  ad  ogni  influenza 
indiretta.  Ora  la  nostra  libertà  trae  origine  dal  giudizio  della 
ragione,  che  per  sé  è  immune  da  ogni  diretto  influsso  celeste. 
Al  qual  proposito  l'Achillini  coglie  l'occasione  per  chiarire 
l'equivoco  che  nasce  dal  confondere  la  libertà  umana  con  la 
contingenza,  la  quale  nel  linguaggio  aristotelico  è  ben  altra 
cosa.  La  libertà  è  propria  del  giudizio  che  non  è  determinato 
dall'oggetto  appreso;  la  contingenza  deriva  invece  da  indi- 
sposizione della  materia  «  che  a  risponder  molte  volte  è  sorda  »; 
la  prima  è  propria  dell'uomo;  la  seconda  spazia  in  tutta  la 
natura  sublunare,  ove  l' impronta  del  suggello  celeste  è  osta- 
colata dalla  cera  mortale  47, 

Ma  anche  in  questo  l'Achillini  non  dice  niente  di  nuovo. 
Lo  stesso  concetto  della  libertà,  più  che  svolto,  è  appena  ac- 
cennato. 


3.  -  Poco  dopo  la  pubblicazione  del  De  orbi  bus  a  mezzo  della 
stampa,  il  maestro  bolognese  preparava  l'edizione  di  alcuni 
rari  opuscoli  pseudo  aristotelici  insieme  ad  altre  cose  non  meno 
rare,  fra  le  quali  egli  inserì  anche  un  suo  trattatello  De  univer- 
salibus,  la  cui  composizione  è  probabile  risalga  agli  anni  in 
cui  leggeva  logica  fra  il  1484  e  il  1487.  Nacque  così  l'Opus 
septisegmentatum    stampato    nel    1501,    a    spese    dell'editore 


46  Phys.,    vili,    q.    6. 

47  De  orb.,  1.  e,  f.  58vb:  «  Ex  potentiali  in  genere  intelligibilium  na- 
scitur  libertas,  sed  ex  potentiali  in  genere  sensibilium  nascitur  contin- 
gentia.  Hoc  voluit  Philosophus,  6.  Metaph.,  textu  comm.  5,  in  transla- 
tione  graeca:  quare  materia  erit  causa  praeterquam  ut  in  pluribus 
aliter  accidentis....  Quod  igitur  dixi  in  primo  opere,  Quolibeto  [de  in- 
telligeutiis]  primo,  [dub.  3,  nell'ediz.  del  1494]  :  '  Sequitur  secundo  nul- 
lam  esse  in  rebus  contingentiam  ad  quas  non  concurrit  homo  ',  passum 
est  ab  impressura  defectum,  non  apponendo  '  libertatis  '  »  [prima  di 
'  contingentiam  '].  Ma  nell'edizione  del  1506  e  in  quella  del  1508,  l'au- 
tore ebbe  cura  di  correggere  l'errore. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  239 

bolognese  Benedetto  d'  Ettore  Facili.  La  stampa  riuniva  in- 
sieme queste  rarità:  Pseudo  Aristotele,  De  secretis  secretorum, 
De  regum  regimine,  De  sanitatis  conservatione,  De  physionomia. 
De  signis  tempestatum,  ventorum  et  aquarum,  De  mineralibus; 
poi  il  fragmento  De  intellectu  di  Alessandro  d'Afrodisia  nella 
traduzione  medievale  di  Gerardo  da  Cremona,  il  De  animae 
beatitudine  di  Averroè,  cui  tien  dietro  l'opuscolo  De  universa- 
lihus  dell' Achillini  stesso;  infine  l'epistola  d'Alessandro  il 
Macedone  ad  Aristotele,  De  mirahilihus  Indiae. 

L'anno  seguente  deve  aver  curato,  presso  lo  stesso  editore 
Ijolognese,  l'opuscolo  De  primo  et  ultimo  instanti  di  Walter 
Burley,  a  spiegazione  del  quale  egli  aggiunse  una  breve  nota: 
Alex.  Achillini  Bon.  Examinatio  huius  quadrate  figure  et  ad- 
dictio  oblunge  (f.  A  5),  cui  seguono  (f.  A  6-B  6)  le  Proportiones 
di  Alberto  di  Sassonia  (Bononie....  per  Ben.  Hectoris,  die 
XXIII  Aug.  MCCCCCII.  La  rara  stampa  è  posseduta  dalla 
Bibl.  Nationale  di  Parigi,  Rés.  V.  810). 

Nel  1503  curava  altresì  la  stampa  del  libretto  di  Agostino 
Trionfo  da  Ancona,  agostiniano.  De  cognitione  animae  et  eitis 
'itentiis,  cui  l' Achillini  aggiungeva  una  Quaestio  de  sensihilibns 
noribus  di  Maestro  Prospero  da  Reggio,  egli  pure  agosti- 
.:  .no,  «  excerpta  et  sumpta  ex  quaestionibus  ab  eo  Parisius 
J'.putatis  supra  prologo  primi  magistri  sententiarum  »  (Bo- 
logna, presso  Giovanni  Antonio  de'  Benedetti,  31  maggio 
1503)  ;  e  poco  dopo  quella  della  Destructio  in  arborem  porphy- 
rianam  dello  stesso  Trionfo,  presso  lo  stesso  stampatore  de' 
Benedetti  (io  luglio  1503).  Nello  stesso  anno  e  presso  lo  stesso 
editore,  die  in  luce  la  Quaestio  de  subiecto  physionomiae  et 
chyromantiae,  o  anche  De  Chyromantiae  principiis  et  physio- 
nomiae, dedicata  a  Bartolomeo  Coclite  e  premessa  all'opera 
di  questo,  Chyromantiae  ac  physionomiae  anastasis  cum  ap- 
probatione  magistri  Alex.  Achillini,  uscita  a  Bologna  presso 
il  de'  Benedetti  nel  1504  e  dedicata  ad  Alessandro  Bentivoglio, 
figlio  del  signore  di  Bologna,  Giovanni  IL  Due  altre  quae- 
stiones,  una  De  potestate  syllogismi,  l'altra  De  subiecto  medicinae, 
dedicate  all'alunno  Virgilio  Porto  da  Modena,  l' Achillini 
stampò  a  Bologna,  presso  lo  stesso  Giovanni  Antonio  de' 
Benedetti,    nel    1504. 

Questo  Virgilio  Porto  era  ancora  alunno  dell 'Achillini  e  ne 
aveva  raccolto  le  lezioni  su  quei  due  argomenti.  Nel  1505 
si  addottorò,  e  nel  nuovo  anno  scolastico  cominciò  a  leggere 


240        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

medicina  teorica  a  Bologna  fino  al  1525,  quando  passò  a  me- 
dicina pratica;  ma  il  6  agosto  1527  venne  a  morte  ancor  gio- 
vane 48.  Ecco  la  dedica  affettuosa  del  maestro  : 

Alexander  Achillinus  Virgilio  Porto  Mutinensi, 
discipulo  haud  penitendo,  foelicitatem. 
Nostra  quaedam  fragmenta  (ut  moris  eorum  est),  Virgilii  mi 
amantissime,  diligentem  eorum  collectorem  adeunt.  Tu  enim 
urbanitate  et  virtutibus  et  doctrina  is  es,  quem  inter  caeteros 
nobis  dilectos  elegi,  apud  quem  aptissime  reponantur;  te  enim 
semper  cognovi  nostri  nominis  studiosum.  Logicalia  quidem 
alios  docebis;  medicinalia  vero  exacte  (ut  assoles)  contempla- 
beris:  ex  quibus  non  minus  gloriae,  Alexandre  tuo  aurigante, 
te  iam  comparaturum  existimo,  quam  hactenus  ex  poeticis  mu- 
neris  (/.  numeris)  adeptus  sis.  Haec  igitur  nostris  aliis,  quae  apud 
te  sunt,  adiungas.  Vale,  et  libenter  res  nostras  perlege. 


4.  -  L'  II  settembre  1505,  presso  lo  stesso  de'  Benedetti, 
uscì  il  De  elementis  che  si  può  dire  formi,  insieme  al  De  intelli- 
gentiis  e  al  De  orbibiis,  la  terza  parte  di  un'opera  complessiva, 
la  quale  abbraccia  tutto  il  sistema  aristotelico-averroistico 
della  natura,  ossia  tutta  intera  la  sfera  cosmica,  avente  la 
terra  per  centro  e  per  periferia  il  cielo  delle  stelle  fisse.  Consa- 
pevole dell'  importanza  dell'opera,  l'Achillini  dedicò  il  De 
elementis  «all'invittissimo  principe  e  padre  della  patria,  Gio- 
vanni II  Bentivoglio  »,  con  una  lettera  che  è  documento  im- 
portantissimo per  stabilire  i  legami  che  univano  il  filosofo  al 
signore  di  Bologna. 

Neil'  «  explicit  »  di  questa  e  dell'opera  precedente  l'Achil- 
lini, anzi  che  col  nome  d'Alessandro,  comincia  a  sottoscri- 
versi «  il  figlio  di  Claudio  Achillini  »,  arieggiando  alla  lontana 
la  maniera  degli  arabi.  A  rendere  piìi  solenne  l'edizione  del 
De  elementis,  il  giovane  Porto  fece  scattare  il  suo  estro  poetico 
e  dettò  questo  epigramma,  che  si  legge  sul  frontespizio,  e  in 
cui  il  nome  di  Claudio  Achillini  è  ricordato  nel  momento  che 
per  la  prima  volta,  per  quanto  io  sappia,  al  figlio  veniva  dato 
l'appellativo   di  nuovo   Aristotele: 

Cum  modo  legisset  titulum  natura  libelli 
huius,  Achillaeo  est  obvia  facta  seni, 


48  Su  di  lui,  V.  TiRABOSCHi,  Bibl.  Moden.,  IV,  pp.   226-228. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  24I 

atque  ait:  O  nimium  foelix  hoc  pignore,   Claudi, 
quam  melius  dici  Nicomachus  poteras. 

Un  altro  epigramma  scrisse  per  la  stessa  stampa  Ludovico 
Boccadiferro,  che  traduce  va  il  suo  cognome  in  quello  meno 
plebeo  di  Siderostomo.  Anch'egii  era  discepolo  dell' Achillini, 
e  più  tardi  ne  continuerà  l' insegnamento  averroistico  a  Bologna, 
ma  con  assai  minore  vigore  speculativo. 

Il  De  elementis  è  diviso  in  tre  libri.  Nel  primo  si  parla  dei 
mutamenti  e  delle  vicissitudini  che  accadono  nel  mondo  sublu- 
nare e  della  materia  che  n'  è  il  soggetto.  In  28  diibia  son  di- 
scussi tutti  i  problemi  concernenti  l'esistenza  della  materia 
prima,  la  sua  natura  di  soggetto  indeterminato  e  potenziale 
del  divenire  fisico,  la  sua  conoscibilità,  i  suoi  rapporti  con  la 
forma,  con  le  dimensioni,  e  il  concetto  di  privazione.  Niente 
di  particolarmente  notevole,  tranne  questi  tre  punti:  primo,  il 
sscondo  dubbio  «an  Sorte  non  existente,  Sortes  non  sit  homo», 
che  richiama  l'attenzione  sulla  discussione  che  fa  di  questo 
problema  anche  Sigieri  di  Brabante,  nella  Quaestio  utrum 
haec  sii  vera:  'Homo  est  animai',  nullo  homine  existente  '^^; 
secondo,  il  sesto  dubbio,  ove  si  nega  la  tesi  che  attribuiva 
alla  materia  una  forma  sostanziale  di  corporeità  da  essa  inse- 
parabile; terzo,  il  dodicesimo  dubbio,  ove  si  sostiene  che  la 
materia  prima  è  ingenerabile  e  incorruttibile  e  perciò  eterna, 
checché  ne  pensassero  altri  con  Avicenna. 

Il  II  libro  tratta  degli  elementi  e  della  loro  mescolanza.  Al 
qual  proposito  il  bolognese  riprende  in  esame  l'annoso  pro- 
blema se  nei  «  misti  »  restino  in  atto  o  soltanto  in  potenza  le 
forme  elementari,  ritorna  sulla  «  forma  corporeitatis  »  che 
Avicenna  voleva  inseparabile  dalla  materia,  e  fa  un  fugace 
accenno  alla  famosa  «  colcodea  «  dello  stesso  Avicenna,  «  quae 
est  decimus  intellectus  in  descendendo  a  deo,  et  est  formarum 
datrix  in  concavo  lunae  assistens  ad  regulandam  activorum 
et    passivorum   sphaeram   et   ipsam   conservandam  »  5°.    Altro 


49  De  elementis,  I,  diib.  2,  f.  gava.  P.  Mandonnet,  Sig.  de  Brab. 
et  l'averr.  latin  au  XI Ile  siede,  seconda  parte:  testi  inediti.  Nella  coli. 
Les  philos.  belges,  t.  VII,  Louvain,  igo8,  pp.  65-70. 

50  De  eleni.,  II,  art.  2,  f.  ii2rb.  SuU'origine  e  il  significato  della  pa- 
rola «  Colcodea  »,  dopo  quanto  ne  aveva  scritto  Alfonso  Nallino,  son 
ritornato  in  «  Giorn.  Crit.  d.  Filos.  It.  »,  XXXIV,  1955,  p.  188,  per 
dimostrare  che  essa  entrò  in  circolazione  coli 'edizione  del  Conciliator 
di  Pietro  d'Abano   (Venezia,   1483). 

16 


242         L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL   XVI 

tema  è  quello,  allora  di  grande  attualità,  se  e  come  le  forme 
sostanziali  siano  capaci  d'accrescimento  e  di  diminuzione,  di 
maggiore  o  minore  intensità  (art.  3").  Più  importante,  sebbene 
non  nuovo,  è  quello  che  egli  dice  della  generazione  degli  or- 
ganismi viventi,  e  in  particolare  dell'uomo  (art.  4°  e  50).  Tutte 
le  forme  degli  esseri  corporei,  da  quelle  elementari  a  quelle 
animali,  son  tratte  dalla  potenza  della  materia.  Ma  mentre 
le  forme  elementari  permangono  nei  «  misti  »,  attenuate  nelle 
loro  proprietà,  come  aveva  detto  Averroè,  la  «forma  mixtionis  » 
resta  soltanto  potenzialmente  nel  vegetale,  e  come  l'anima 
vegetativa  si  corrompe  all'apparire  dell'anima  sensitiva,  nella 
quale  rimane  potenzialmente  o  virtualmente.  L'Achillini  in 
questo  non  si  dilunga  molto  da  S.  Tommaso  e  da  Pietro  d'Abano. 
In  certi  momenti,  anzi,  egli  sembra  accogliere  la  tipica  dot- 
trina tomistica  dell'unità  della  forma  sostanziale.  Con  due 
strappi  però:  uno,  di  minore  importanza,  concerne  la  per- 
manenza delle  forme  elementari  nei  «  misti  »  ;  l'altro,  assai 
maggiore,  riguarda  l'unione  dell'  intelletto   col   singolo. 

A  rammendare  quest'ultimo  strappo  che  compromette 
l'unità  della  coscienza  umana,  l'AchilHni  s'adopra  con  ogni 
accorgimento  dialettico,  pur  mantenendosi  fermo  sulla  tesi 
averroistica  fondamentale  :  l'unità  dell'  intelletto.  È  interes- 
sante seguirlo  nel  suo  tentativo. 

Lo  sviluppo  dell'organismo  umano  s' inizia  con  una  fase 
puramente  vegetativa,  come  aveva  detto  Aristotele.  Principio 
delle  funzioni  vegetative  nell'embrione  è  la  così  detta  «  anima 
vegetativa  »,  all'apparire  della  quale  la  precedente  «  forma 
mixtionis  »  si  corrompe.  Così,  nella  seconda  fase  dello  sviluppo 
embrionale,  alla  forma  vegetativa  subentra  quella  sensitiva, 
mentre  la  prima  si  corrompe.  Ma  qui  l'Achillini  si  domanda: 

—  Allora  dovremmo  dire  che  prima  d'essere  animale,  l'em- 
brione nella  prima  fase  è  stato  pianta  ?  —  No  —  egli  risponde  ; 

—  perché  altro  è  esser  pianta,  altro  è  vivere  a  mo'  di  pianta, 
come  dice  appunto  Aristotele  51.  L'anima  vegetativa  d'una 
pianta  è  termine  della  nascita  di  quella  pianta,  ed  è  quindi 
forma  determinata  e  perfetta  nella  sua  specie;  la  forma  ve- 
getativa nell'animale,  invece,  è  forma  indeterminata  e  imper- 
fetta; più  che  punto  d'arrivo,  è  preparazione  e  avviamento 


51  Ib.,  art.  4,  f.   i24vb. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  243 

ad  un  grado  più  alto  di  vita;  questa  è  in  via,  direbbe  Dante  5^, 
quella  è  già  a  riva. 

In  questo  concetto  del  passaggio  dall'  indeterminato  al 
determinato  parrebbe  dovesse  cercarsi  la  chiave  per  intendere 
come  r  intelletto,  unico  in  sé,  s'unisce  all'anima  sensitiva  a 
costituire  l' individuo  umano  particolare.  Ed  è  concetto  ari- 
stotelico che  mitiga  alquanto  la  crudezza  dell'altro  concetto, 
essere  le  forme  sostanziali  come  i  numeri  e  come  le  figure  della 
geometria,  di  cui  non  si  dà  aqcrescimento  o  diminuzione 
senza  cambiamento  di  specie.  Aristotele  appunto,  nel  De  ge- 
neratione  animalium,  II,  e.  3,  aveva  detto  che  nel  processo 
genetico  non  nascono  insieme  l'animale  e  l'uomo,  né  l'animale 
e  il  cavallo  53.  Dal  che  parrebbe  che  l'animale,  che  precede 
l'uomo  e  il  cavallo,  dovesse  essere  non  una  forma  determi- 
nata e  specifica,  ma  una  forma  generica  e  indeterminata, 
la  quale  tende  là   a  determinarsi  in  cavallo,   qua  in  uomo. 

Venendo  a  parlare  appunto  del  processo  genetico  umano 
(art.  50),  il  maestro  bolognese  si  chiede  «  an  in  ipso  (homine) 
animam  intellectivam  expectet  sentitiva  »  54.  E  per  risolverlo, 
ricorda  anzitutto  quali,  a  suo  modo  di  vedere,  ne  sono  i  due 
presupposti  : 

Unum,  quod  intellectus  sit  forma  informans  materiam,  dans 
esse  hominem.  Aliud,  quod  prius  tempore  sit  anima  sensitiva 
in  materia,  quam  intellectus  possibilis.  Quorum  primum  in  libro 
De  intelligentiis  declaravi  55,  et  etiam  in  libro  De  orbihus,  [II, 
dub.  VI],  quaestione  de  motu  intellectus.  Ouibus  addo,  quod 
ambo  illa  asseruntur  ab  Aristotele,  2.  De  genevatione  animalium, 
[cap.  3],  dicente:  '  Sed  quamobrem  talem  animam  prius  haberi 
necesse  sit,  ex  his  quae  De  anima  disseruimus  apertum  est.  Sen- 
sualem  autem,  qua  animai  est,  tempore  procedente,  recipi  et 
rationalem,   qua  homo  est,  certum  est. 

Quest'  «  anima  sensitiva  »  che  precede  l'apparire  dell'  intel- 
ligenza, è  una  forma  generica  e  indeterminata  che  prepara 
l'avvento  di  un'altra  forma  più  determinata,  per  la  quale 
l'uomo  comincia  già  a  distinguersi  dal  cavallo  e  dagli  altri 
animali;  e  questa  è  la  cogitativa.  La  cogitativa  è  nell'uomo 


52  Purg.,  XXV,   54. 

53  Arist.,  De  gen.   animai.,   II,  e.  3,   736b  2. 

54  De  elem.,   II,  art.   5,  f.    i26ra. 

55  Si  veda  sopra,  pp.   208-209. 


244        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

quello  che  negli  altri  animali  si  dice  estimativa,  ed  è,  insieme 
air  immaginativa,  alla  memorativa  e  al  ((  sensus  communis  », 
uno  dei  così  detti  sensi  interni.  Come  l'estimativa  negli  ani- 
mali, anche  la  cogitativa  (che  talora  è  chiamata  essa  pure  esti- 
mativa) ha  la  funzione  di  distinguere  e  giudicare  sensibilmente 
le  percezioni  particolari  e  quello  che  v'  è  nelle  cose  apprese  di 
utile  e  di  dannoso.  Per  questo  essa  è  chiamata  anche  «ratio 
particularis  »  ;  ma  è  facoltà  sensibile,  legata  all'organismo, 
tanto  che  i  medici  e  anatomisti  antichi  e  medievali  le  assegna- 
vano come  organo  il  «  ventricolo  medio  »  del  cervello,  mentre 
all'  immaginativa  assegnavano  quello  anteriore,  e  alla  memora- 
tiva quello  posteriore.  Ma  oltre  alla  funzione  ora  accennata, 
la  cogitativa  umana  ne  ha  un'altra,  per  la  quale  si  distingue 
sostanzialmente  dall'estimativa  degli  altri  animali:  essa  è 
ordinata  a  preparare  quelle  immagini  sensibili,  o  fantasmi, 
quasi  riassunto  di  tutto  il  mondo  dell'esperienza  sensibile, 
che  r  intelletto  farà  oggetto  di  elaborazione  mentale,  scien- 
tifica, traendo  fuori  dalle  rappresentazioni  particolari  il  con- 
cetto universale.  Mentre  nell'animale  inferiore  all'uomo  l'anima 
sensitiva  per  mezzo  dell'estimativa  si  può  dire  sia  giunta  a 
riva,  ed  abbia  raggiunta  la  più  alta  perfezione  di  cui  è  capace, 
non  così  è  della  cogitativa  umana,  la  quale,  per  quest'ultima 
sua  funzione  preparatoria  all'atto  dell'  intendere,  è  ordinata 
per  sua  natura  a  congiungersi  con  l' intelletto  possibile. 

Questo  alla  sua  volta,  nella  gerarchia  delle  intelligenze  se- 
parate, è  quello  che  tiene  l' infimo  grado,  perché,  pura  potenza 
d' intendere,  è  ordinato,  per  iniziare  il  suo  passaggio  all'atto, 
ossia  per  divenire  intelletto  in  atto,  all'apprensione  intelligi- 
bile delle  forme  del  mondo  sensibile,  di  cui  la  cogitativa  gli 
somministra  le  rappresentazioni  particolari. 

Perciò  non  si  può  dire  che  la  cogitativa  sia  la  vera  forma  del- 
l'uomo, come  pure  dicevano  molti  averroisti  56,  e  che  per  essa 
l'uomo  si  distingua  dagli  altri  animali.  O  se  vogliamo,  essa  è 
forma,  sì,  ma  incompleta.  E  questo  perché  la  cogitativa  umana 


56  Fondandosi  su  un  famoso  detto  d'Averroè,  De  anitna,  III,  comm.  20  : 
■«  Et  per  istum  intellectum  [queni  vocat  Aristoteles  passibilem-,  e  che 
Averroè  denomina  cogitativa]  differt  homo  ab  aliis  animalibus  ».  Al 
qual  detto  gli  averroisti  sigieriani  ne  opponevano  però  un  altro,  tratto 
dal  primo  commento  allo  stesso  terzo  libro  del  De  aniìiia:  «  Cum  per 
hanc  virtutem  [rationalem]  difterat  homo  ab  aliis  animalibus,  ut  dictum 
est   in   multis  locis  ». 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLTNI  243 

non  è  ancora  giunta  a  riva;  a  riva  essa  giungerà  quando  sarà 
unita  all'  intelletto  possibile,  che,  alla  sua  volta,  è  ordinato 
per  sua  natura  ad  essere  eternamente  unito  alla  cogitativa 
umana,  negl'  infiniti  individui  della  specie.  V  è  insomma  tra 
la  cogitativa  umana  e  l' intelletto  possibile  un  vincolo  sostan- 
ziale, per  cui  l'una  è  ordinata  per  natura  all'altro,  e  recipro- 
camente, ed  entrambi  si  completano  a  vicenda.  Forma  com- 
pleta dell'uomo,  sia  in  universale,  quanto  alla  specie,  sia  in 
particolare,  quanto  ai  singoli,  è  dunque  l' intelletto  possibile 
unito  alla  cogitativa;  e  non  solo  forma  assistente,  ma  vera 
forma  informante  che  dà  all'uomo  l'essere  di  uomo  e  ne  fa 
il    soggetto    dell'  intendere. 

A  prima  vista  potrebbe  parere,  e  certe  espressioni  potrebbero 
indiirci  a  crederlo,  che  l'anima  cogitati^•a,  tratta  dalla  potenza 
della  materia,  e  l' intelletto  possibile,  venuto  dal  di  fuori, 
fossero  due  nature,  due  quiddità  diverse,  due  forme,  anzi  due 
anime.  Ed  effettivamente  esse  stanno  nell'uomo  a  rappresen- 
tare due  modi  di  conoscenza  che  all'Achillini,  come  ad  Ari- 
stotele e  a  Platone,  son  parse  irriducibili: 

Duo  igitur  svint  principia  cognoscendi  in  ncibis  reperta:  unum 
universaliter,  et  est  intellectus,  et  est  incorporeus,  inorganicus, 
incorruptibilis;  aliud  vero  singulariter,  et  est  sensus,  et  est  virtus 
in  corpore  et  organica  et  corruptibilis,  et  est  anima  cogitativa  57, 

Ma  poiché  la  cogitativa  è  forma  incompleta  ed  è  ordinata 
ad  unirsi  all'  intelletto,  e  questo  alla  sua  volta  è  complemento 
di  quella,  possiamo  ben  dire  che  dalla  loro  unione  risulta 
un'anima  composta,  come  aveva  detto  Sigieri  58,  la  quale  è 
tutta  intera  forma  dell'uomo.  Tuttavia,  poiché  la  cogitativa 
è  forma  incompleta  che  riceve  il  suo  ultimo  complemento  dal- 
l'unione con  r  intelletto,  possiamo  dire  ugualmente  che  1'  in- 
telletto termina  il  processo  della  generazione  umana,  e  che 
esso  ha  da  ritenersi  forma  dell'uomo  a  più  forte  ragione  che 
non  l'anima  cogitativa: 

Quamvis  in  homine  duae  species  colligentur,  ibi  est  tantum 
intellectus,  qui  est  ultima  forma,  qua  homo  est  homo.  Cogitativa 
igitur  forma  non  est  ultima,  sed  ordinatur  in  intellectum.  Non 
tamen  est  homo  unus  per   simplicem  formam,    sed  per  composi- 


57  De  ehm.,  II,  art.  5,  f.   lijrb. 
S^  Cfr.  sopra,  p.  206. 


246        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

tissimam;  nullum  enim  est  mixtiim  homine  compositius.  Habet 
igitur  homo  duo  esse:  unum  est  esse  inateriale  a  cogitativa; 
reliquum  vero  est  esse   divinum   ab   intellectu   possibili  59. 

Perciò  l'Achillini  nei  QuoUbeta  de  intelligentns,  ai  quali  più 
volte  si  riferisce  nel  secondo  libro  del  De  elementis,  aveva 
detto  : 

Non  potest  intellcctus  informare  materiam,  non  informante 
cogitativa,  quia  non  stat  materia  sine  forma  constituta  in  esse 
per  eam....  Neque  potest  cogitativa  informare,  non  informante 
intellectu,  quia,  dato  informabili  ultimate  disposito  et  informativo, 
ponitur  informatio.  Est  autem  materia  informata  cogitativa  in- 
formabile propinquum  et  ultimate  dispositum  ad  recipiendum 
inteilectum  ^°. 

Le  quali  parole,  secondo  la  testimonianza  del  Nife,  son 
tolte  alla  lettera  dall'opera  di  Sigieri,  De  intellectu  ad  fratrem 
Thomam  ^i. 

Il  terzo  ed  ultimo  libro  del  De  elementis  abbraccia  dician- 
nove quaestiones ,  intorno  alle  proprietà  degli  elementi,  e  cioè 
alla  quantità  e  alle  loro  qualità,  al  movimento,  alla  gravità, 
alla  figura  e  al  luogo  proprio  di  ciascuno.  E  poiché  le  teorie 
dello  Heytesbury,  o  Heutisbery,  come  lo  chiamavano,  e  quelle 
del  Suisset,  o  meglio  Swineshead,  erano  venute  a  scompi- 
gliare le  idee  dei  maestri  bolognesi  non  meno  che  di  quelli 
padovani,  anche  l'Achillini  s' impegna  in  una  prolissa  discus- 
sione del  problema  di  moda,  se  di  ogni  cosa  naturale  si  dia 
un  massimo  e  un  minimo  6=,  sul  quale  nel  corso  delle  sue  lezioni 
e  in  trattati  speciali  ebbe  a  soffermarsi  più  volte  anche  il 
Pomponazzi,  imprecando  ai  calculatores  forestieri  e  nostrani  ^3. 
A  questo  problema  tien  dietro  una  non  meno  prolissa  discus- 


59  De  elem.,  1.  e,  f.  i2gra. 

^°  V.  sopra,  p.  206. 

6^  NiFO,  De  intellectu  et  daemonibus,  I,  tr.  3,  e.  18;  cfr.  il  mio  Si- 
gieri, cit.,  pp.  17-18. 

^2  De  elem..  Ili,  dub.   i,  f.   230va  sgg. 

^3  Pomponazzi,  De  maxima  et  minimo  ad  Laurentium  Molinum, 
Ms.  Ambrosiano  R.  96  sup.,  f.  i52r  (vecchia  numeraz.  f.  39r)  ;  In  I 
Phys.,  Parigi,  Bibl.  Nation.,  ms.  lat.  6533,  f.  49  Gr  sgg.;  Arezzo,  Bibl. 
Frat.  de'  Laici,  ms.  389,  f.  42V  sgg.  (il  Pomponazzi  prende  di  mira  par- 
ticolarmente il   suo   concittadino   Pietro   da   Mantova),   nonché   le   due 

opere  a  stampa  De  reactione  e    Tractatus penes   quid   intensio    et   re- 

missio    formarum    attendatur. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  247 

sione  sul  quesito  «  utrum  aliquid  moveat  se  ».  E  sebbene  l'au- 
tore dichiari  di  voler  trattare  di  ogni  specie  di  movimento, 
celeste  o  elementare,  animato  o  inanimato,  sostanziale  o 
accidentale,  corporale  o  spirituale,  egli  s' intrattiene  più  a 
lungo  intorno  al  moto  naturale  degli  elementi  e  dei  «misti»  e 
specialmente  alla  gravità  e  «  leggerezza  »,  ritenute  con  Ari- 
stotele e  Averroè  forme  sostanziali  dei  corpi,  all'azione  del 
cielo,  del  «  luogo  naturale  »,  del  generante  e  di  ciò  che  rimuove 
r  impedimento  al  cadere  o  all'elevarsi  di  un  corpo  64.  Le  stesse 
idee  averroistiche,  che  l'Achillini  sosteneva  a  Bologna,  aveva 
sostenuto  a  Padova  il  Pomponazzi,  nell'anno  1500,  commen- 
tando r  Vili  della  Fisica  65.  Ad  un  certo  momento  il  maestro 
bolognese  accenna  anche  al  moto  violento  dei  proiettili.  E 
come  il  Pomponazzi,  sostiene  egli  pure  che  il  proiettile  lan- 
ciato «movetur  a  medio»  e  combatte  la  tesi  dell' « impetus  » 
difesa  dai  «parisienses»66^  cioè  da  Giovanni  Buridano,  da  Ni- 
cola d'Oresme,  da  Alberto  di  Sassonia,  detto  Albertuccio  o 
Alberto  il  piccolo,  per  non  condonderlo  con  Alberto  Magno, 
e  altresì  da  Marsilio  di  Inghen,  e  portata  a  Bologna  da  maestro 
Biagio  da  Parma  che  d'Albertuccio  era  stato  alunno  a  Parigi  ^7. 
Seguono  altri  diciassette  quesiti  intorno  ai  quattro  elementi 
e  alle  loro  qualità  sostanziali.  La  soluzione  di  essi  è  quella 
averroistica.  Ma  l'ultimo,  il  diciannovesimo,  ha  un'  impor- 
tanza speciale  per  il  tempo  in  cui  è  posto  :  «  Dubitatur  decimo- 
nono, utrum  terra  sit  ubique  habitabilis  ».  Il  problema  se 
l'era  già  posto  Pietro  d'Abano  prima  del  1310,  nella  diff.  LXVII 
del  suo  Conciliator,  e  l'aveva  discusso  con  ampiezza,  ricor- 
dando i  viaggi  di  Marco  Polo  e  la  relazione  di  frate  Giovanni 
cordigliere,  cioè  del  francescano  Giovanni  del  Pian  del  Car- 


64  De  eleni.,  Ili,  dub.  2,  f.  I34ra  sgg.,  e  specialmente  sulla  gravità  e 
nerezza,  f.  i36rb. 

65  Bibl.  Naz.  di  Napoli,  ms.  Vili.  D.  81,  f.  1311:  Questio  Magistri 
Petri  Pomponatii....  de  motu  gravium  et  leviiim,  quam  fecit  Magister 
Petrus  dum  legeret  librum  8.  Physicoriun  anno  domini  1500.  Sullo 
stesso  argomento  il  mantovano  ritornò  nel  commento  all'  Vili  della 
Fisica  del  1518,  Arezzo,  Bibl.  Frat.  de'  Laici,  ms.  389,  f.  3iiv-3i2r, 
ove  combatte  la  «  solutio  de  impulsu  que  communiter  tenetur  a  pari- 
siensibus  »    (ad  t.   e.    82). 

66  De   elem.,    1.  e,  f.    I35va    «  Secunda   est   opinio    Parisiensium....  ». 

67  A.  Maier,  Zz£^ei  Grundprobletne  der  scholastischen  Naturphilosophie: 
das  Problem  der  intensiven  Grosse;  die  Impetustheorie.  2*  ediz.  Roma, 
1951,  pp.  1 13-313,  e  per  Biagio  Pelacani  da  Parma  in  particolare, 
pp.   270-274. 


240        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

pine  68.   L'Achillini  conosce  e  cita  il  Conciliator,  ma  di  mala 
voglia  e  senza  entusiasmo: 

Quod  autem  sub  aequinoctiali  continue  habeantur  ficus,  aut 
quod  aer  sit  ibi  temperatissimae  dispositionis,  aut  quod  aninialia 
ibi  habitantia  temperatam  habeant  complexionem,  aut  quod  pa- 
radisus  terrestris  ibi  sit:  sunt  res  quas  experientia  naturalis  nobis 
non  ostendit  ^9. 

Il  che  è  ben  detto  per  il  paradiso  terrestre,  ma  non  per  le 
altre  cose  ricordate,  delle  quali  1'  «  experientia  naturalis  »  di 
arditi  viaggiatori  e  missionari  era  cominciata  da  un  pezzo. 
Il  filosofo  bolognese,  che  pur  sapeva  qualcosa  di  ciò  che  co- 
storo narravano  di  aver  visto  e  toccato  con  mano,  senza 
avere  il  coraggio  di  negarlo,  si  contenta  di  dire  che  è  cosa  che 
non  riguarda  i  filosofi  intenti  alla  ricerca  del  perché,  bensì 
gli  «  storiografi  »  cui  spetta  d' indagare  se  un  fatto  è  o  non  è  : 
«  Pro  malori  parte  veritas  illarum  (causarum)  ex  historia 
'  quia  est  '  dante,  petenda  est  ;  ideo  haec  historiographis  re- 
linquantur,  et  praesertim  de  Marco  Veneto  aut  Dominico 
Indiano  loquentibus  »  70.  Chi  sia  questo  Domenico  Indiano 
non  saprei  dire.  Ma  coloro  che  avevan  parlato  e  scritto  del- 
l' India  e  delle  terre  australi  eran  più  d'uno.  Negli  anni  stessi 
in  cui  l'Achillini  componeva  il  De  elementis,  s'aggirava  per 
r  India  e  le  terre  australi  Ludovico  de  Varthema,  che  pare,, 
e  non  senza  buon  fondamento,  fosse  oriundo  bolognese. 


5.  -  Il  5  marzo  1506,  uscì  «  per  Benedictum  Hectoris  Biblio- 
polam  Bononiensem  »  la  seconda  edizione  dei  Quoliheta  de 
intelligentiis ,  cui  l'autore  premise  diciotto  dubia  sollevati  dal 
conte  Annibale  Rangoni,  al  quale  l'edizione  era  dedicata,  in- 
sieme con  le  soluzioni  di  essi.  Questi  diciotto  dubia  nelle  edi- 
zioni successive  sono  stati  rimandati  in  fine  dell'opera. 

Tutti  questi  scritti  hanno,  in  complesso,  carattere  stretta- 


68  Che  «  cordelarius  ))  (in  francese  cordelier)  significhi  «francescano» 
o  «  cordigliere  »,  è  sfuggito  a  Sante  Ferrari,  in  quel  suo  volumaccio, 
pieno  di  tanti  spropositi,  I  tempi,  la  vita,  le  opere  di  Pietro  d'Abano, 
p.  276,  del  quale  ho  parlato  a  lungo  sopra,  nei  primi  due  saggi,  eil 
ove   «  cordelarius  »  è  diventato  un  cognome,    Cordellari  ! 

69  De  eleni.,   Ili,   dub.    19,   f.    i49rb. 

70  Ib. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  249 

mente  filosofico,  se  per  filosofia  s' intende,  come  s' intendeva 
allora,  la  teoria  della  natura  completata  dalla  metafisica. 
Le  stesse  questioni  De  suhiecto  physiononiiae  et  chiromantiae 
e  De  suhiecto  medicinae ,  ben  poco  hanno  che  riguardi  da  vicino 
la  medicina  propriamente  detta.  Tuttavia  dalle  Anotomicae 
annotationes ,  pubblicate  postume  dal  fratello  Giovanni  Fi- 
loteo,  nel  settembre  1520,  e  delle  quali  parleremo  più  oltre, 
si  può  ricavare  che  maestro  Alessandro,  il  quale  dal  1494 
reggeva  una  delle  cattedre  di  Medicina  Teorica,  fu  condotto  a 
discutere  di  anatomia  e  di  fisiologia 7".  In  queste  Annotationes 
infatti  egli  accenna  più  volte  ad  osservazioni  da  lui  fatte  nel 
1502  (f.  i6v),  nel  1503  (ff.  5v,  15V,  16)  e  nel  1506  (f.  12 v). 
Lo  studio  bolognese,  da  quando  l'Achillini  assunse  l' insegna- 
mento della  Medicina  Teorica  ebbe  quasi  sempre  tre  maestri 
deputati  «  ad  lecturam  Chyrurgiae  »,  che  di  solito  aveva  per 
testo  fondamentale  V Anatomia  del  Mondino,  sulla  guida  del 
quale  si  conducevano  le  dissezioni  dei  cadaveri  o  «  anotomie  », 
che,  alla  fine  del  Quattrocento  e  nei  primi  del  Cinquecento, 
si  facevano  con  speciale  messa  in  scena,  pari  a  quella  non  meno 
solenne  per  la  confezione  della  Triaca.  A  queste  «  anotomie  » 
assistevano  maestri  e  scolari  e  per  l'occasione  si  sospendevano 
per  otto  o  dieci  giorni  le  lezioni.  Siccome  l'Achillini  non  fu 
mai  deputato  «  ad  lecturam  chyrurgiae  »,  è  verosimile  che 
egli,  come  maestro  di  Teorica,  abbia  preso  parte  a  qualcuna 
delle  abbastanza  frequenti  «  anotomie  »  tenute  negli  anni  da 
lui  stesso  indicati  e  in  altri  ancora  ~-. 

Nell'anno  scolastico  1502-3,  fra  i  maestri  deputati  a  leggere 


71   A.    Pazzini,    La   scoperta   della   membrana  timpanica,  nella  rivista 

//   Valsalva,   IX,    1933,  pp.    298,  scrive:   «L'Achillini lesse  anatomia 

nell'università  di  Bologna  nel  1497,  ma  per  breve  tempo.  Nel  1501  ri- 
prese la  cattedra  e  la  tenne  fino  al  1508  ».  La  notizia  è  inesatta  per  più 
versi.  Una  cattedra  d'anatomia  a  Bologna  allora  non  esisteva.  Di  ana- 
tomia si  occupavano  il  professore  di  Teorica,  quando  faceva  lezione 
su  un  testo  di  anatomia,  per  es.  su  talune  parti  del  Canon  di  Avicenna 
o  su  alcuni  trattati  di  Galeno  ecc.,  e  il  professore  di  Chirurgia.  L'Achil- 
lini fu  sempre  professore  di  Teorica  dal  1494  al  1506,  e  dall'ottobre  1508 
al    1512. 

7*  Oltre  a  queste  «  anotomie  »  pubbliche,  ve  n'erano  del  resto  anche 
di  private  che  i  maestri  facevano  per  proprio  conto,  quando  ne  avevano 
la  possibilità,  a  scopo  d' indagine  scientifica.  Cfr.  G.  Martinotti,  L'  in- 
segnamento dell'anatomia  a  Bologna  prima  del  sec.  XIX,  in  Studi  e  me- 
morie per  la  Storia  dell'univ.  di  Bologna,  voi.  II,  Bologna,  191 1,  p.  30  sgg. 
Ma  l'autore  non  dà  esempi  per  il  periodo  dell'Achillini,  né  dice  che 
fossero   frequenti. 


250         L  ARISIO'IELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

Chirurgia,  insieme  a  Domenico  della  Lana,  che  già  insegnava 
da  vari  anni,  e  a  Biagio  de'  Mercuri,  ucciso  il  5  novembre  1505, 
compare  nello  studio  bolognese  la  figura  di  Jacopo  o  Beren- 
gario da  Carpi,  detto  semplicemente  il  Carpo.  Questo  illustre 
maestro,  che  godeva  della  protezione  d'Alberto  Pio,  signore  di 
Carpi,  commentando  il  Mondino,  ebbe  a  correggerlo  su  molti 
punti,  e  dominò  la  chirurgia  bolognese  del  suo  tempo,  cui  aprì 
nuove  vie,  fino  alla  sua  partenza  per  Ferrara  nel  1527.  A  pro- 
posito della  scoperta  del  martello  e  dell'  incudine  nell'orecchio 
medio,  gli  storici  della  medicina  sono  incerti  se  attribuirla 
all'Achillini  o  al  Carpo,  e  sembrano  quasi  insinuare  che  vi 
fosse  rivalità  fra  i  due  colleghi  bolognesi.  Il  certo  è  che  l'Achil- 
lini  nelle  Annotationes  non  ne  fa  cenno;  e  d'altra  parte  il 
Carpo,  nei  Commentaria  cum  amplissimis  additionihus  super 
Anatomia  Mundini,  stampato  a  Bologna,  «  per  Hieronymum 
de  Benedictis.  Pridie  Nonas  Martii.  M.D.XXI  »,  quando  il 
collega  era  morto  da  quasi  nove  anni,  trattando  nel  comm. 
XXXVII  (fol.  477r)  di  questi  due  ossicini,  lungi  dall'attri- 
buirsene  la  scoperta,  e'  informa  che  «  sunt  aliqui  qui  volunt 
quod  illa  ossicula  moveant  aerem  intra  stantem  et  panni- 
culum  praedictum  ».  E  anche  nelle  Isagogae  hreves  et  exactis- 
simae  in  anatomiam  humani  corporis  (seconda  ediz.  del  1530, 
s.  1.,  pp.  230-32),  lo  stesso  Carpo  torna  a  parlare  dei  «duo 
ossicula  »  e  delle  varie  opinioni  per  intenderne  la  funzione. 
Se  se  ne  discuteva,  ed  altri  avevano  opinioni  diverse  da  quella 
di  maestro  Jacopo,  è  segno  che  questi  «  duo  ossicula  »  erano 
stati  notati  da  qualche  tempo,  forse  in  qualcuna  delle  «  ano- 
tomie  »  tenute  dallo  stesso  chirurgo,  e  alle  quali  un  maestro 
di  Teorica,  qual  era  l'Achillini,  non  poteva  rimanere  estraneo  73 

Giacché  è  risaputo  come  nel  corso  appunto  di  queste  «  ano- 
tomie  »  e  nelle  discussioni  inevitabili  a  cui  davano  occasione, 
furon  notate  discordanze,  le  quali  ogni  giorno  cresce van  di 
numero,  fra  l'esperienza  e  le  trattazioni  anatomiche  di  Ga- 
leno, di  Avicenna,  del  Mondino  o  di  Ugo  da  Siena,  e  si  venne 
rinnovando  la  scienza  anatomica. 

Nel  1506,  Alessandro  Achillini  godeva  dunque  a  Bologna 
della  più  alta  considerazione  come  filosofo  e  come  medico  e 


73  Del  resto  l'attribuzione  di  questa  scoperta  all'Achillini  si  fa  ri- 
salire a  ciò  che  ne  dicono  Eustachio  Rudio  e  Giulio  Casserio  piacentino. 
Cfr.  G.  N.  Pasquali  Alidosi,  /  dottori  bolognesi  di  teol.  filos.  medie, 
e  d'arti  liberali  dall'anno  1000  per  tutto  marzo  1623,  Bologna,  1623,  p.  8. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  25I 

del  favore  dei  Bentivoglio  che  gareggiavano  coi  signori  di 
Ferrara  e  d'  Urbino  e  coi  Medici  nel  proteggere  gli  studi,  le 
arti  e  i  begli  ingegni  74,  Per  Natale  del  1504,  il  fratello  Giovanni 
Filoteo  Achillini  portava  a  termine  il  suo  enfatico  e  strampa- 
lato poema  intitolato  Viridario,  stampato  a  Bologna,  nel  1513, 
«  per  Hieronymo  di  Plato  Bolognese  »,  e  dedicato  a  «  Gioanne 
de  Medici  Cardinale,  bora  Leone  sommo  Pontifice  ».  Nel 
canto  X,  Giovanni  Filoteo  tesse  le  lodi  di  Bologna;  prima  delle 
donne  e  dei  gentiluomini  illustri,  poi  degli  studi  che  dan  fama 
a  Felsina.  Fra  i  dotti  bolognesi  due  ne  indica  in  particolare: 
l'uno  è  Giovanni  Zaccaria  Campeggi,  allora  giurista  di  gran 
fama,  che  dopo  avere  insegnato  il  diritto  a  Pavia  e  a  Padova, 
s'era  fermato  definitivamente  a  Bologna  (a  meno  che  Gio- 
vanni Filoteo  non  intenda  del  figlio  di  lui,  Lorenzo,  che,  insieme 
al  padre,  teneva  la  cattedra  straordinaria  di  diritto  civile, 
egli  pure  giurista  di  grido  e  futuro  cardinale,  cui  saranno 
affidate  importanti  e  delicate  missioni  diplomatiche)  ;  l'altro 
è  Alessadro  Achillini,  che  il  poeta,  suo  fratello  minore,  esalta 
con  orgoglio  e  ammirazione   (ff.   i84v-i85r)  : 

Dui  lumi  chiari,  ciascaduii  divino: 

lune  il  Campeggio,  laltro  lo  Achillino. 
Di  luna  legge  e  laltra  quel  Campeggio, 

si  come  e  voce  e  ver,  porta  corona. 

Ne  gli  altri  studii  lo  .\chillino  veggio, 

che  Theologia  sparge  in  ogni  zona. 

lalta  philosophia  laudar  non  deggio, 

che  fama,  e  de  laltre  arti,  il  Mondo  introna. 

Me  glorio,  godo,  e  laudo  il  Creatore 

che  a  questo  unico  son  fratel  minore. 
Chi  legge  e  intende  lopre  sue  superne, 

dove  e  insudato  in  la  sua  gioventute, 

gli  darà  laudi  gloriose  e  eterne. 

Hor  pensi,  pervenendo  a  senettude, 

le  lucubration,  calami  e  lucerne 

scranno  al  letto  et  al  lettor  salute. 

Di  un  lustro  a  punto  il  mezzo  camin  varca, 

sei  debito  farà  Ih  orrenda  Parca. 

Che  maestro  Alessandro  fosse  dottissimo  in  filosofia  e  nelle 
altre  arti  lo  sapevamo  ;  ma  che  egli  si  fosse  addentrato  anche  in 


74  Nel  bimestre  settembre-ottobre  1491,  e  in  quello  di  novembre- 
dicembre  1504,  fu  anche  del  consiglio  degli  Anziani.  Catalogus  omnium 
doctoriini  collegiatorum  in  artibus  liberalibus  et  in  facilitate  medica,  Bo- 
logna,  1664,  p.   22. 


252        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

un  campo  così  diverso  come  quello  degli  studi  di  teologia, 
ci  sarebbe  facilmente  sfuggito,  se  il  fratello  poeta  non  avesse 
richiamato  l'attenzione  su  questo  aspetto  della  sua  cultura. 
A  dir  vero,  più  volte,  leggendo  taluni  dei  suoi  scritti,  m'era 
accaduto  d' imbattermi,  senza  farci  troppo  caso,  in  brani  che, 
ben  considerati,  attestano  nell'autore  buona  conoscenza 
delle  cose  teologiche,  pari  certamente  a  quella  di  Tiberio 
Bacilieri,  il  quale,  averroista  alla  maniera  dell'Achillini,  non 
esitava  a  dichiararsi  pronto,  se  il  papa  l'avesse  gradito,  a  in- 
terrompere l'esposizione  d'Aristotele  e,  «relieto  lumine  na- 
turali, propositiones  creditas  magna  cum  facilitate  et  bre- 
vitate   resolutissimas   reddere  »  1^. 

Il  19  maggio  del  1506  l'Achillini  avrebbe  dovuto  essere 
presente  come  compromotore  all'esame  di  dottorato  che  quel 
giorno  dovevano  subire  maestro  Guglielmo  Spinola  da  Modena, 
che  per  un  biennio  era  già  stato  Rettore  dello  studio  «  et 
optime  se  habuerat  in  officio  »,  e  maestro  Guido  da  Pesaro. 
Dovette  invece  farsi  rappresentare  da  un  collega,  perché 
«  tunc  temporis  iverat  Romam,  ut  interesset  disputationibus 
fìendis  in  capitulo  generali  fratrum  minorum  tam  observanti- 
norum  quam  conventualium,  grafia  sui  honoris,  studiique 
nostri  ac  almae  civitatis  bononiae  »  7^.  Nel  saggio  che  segue, 
si  dirà  quanto  basta  di  questa  disputa  avvenuta  il  6  giugno 
1506  in  casa  e  sotto  la  protezione  del  Cardinale  Domenico 
Grimani.  Il  patrizio  veneziano  Geronimo  Taiapietra  prota- 
gonista di  questa  disputa,  al  capitolo  generale  dei  frati 
minori  tenuto  a  Roma,  giostrava  in  difesa  di  quel- 
l'averroismo sigieriano  che  l'Achillini,  dodici  anni  prima, 
aveva  difeso  durante  un  altro  capitolo  generale  di  francescani 
a   Bologna.    L' invito    deve   essere   stato   rivolto    all'Achillini 


75  Nella  dedicatoria  a  Giulio  II  della  Lectura  in  tres  libros  de  anima 
di  Tib.  Bacilieri,  Pavia,  1508.  Cfr.  il  mio  Sig.  d.  Brab.  nel  pensiero  ecc., 
p.  136.  A  convincerci  della  buona  conoscenza  che  all'Achillini  non  do- 
veva mancare  deUe  cose  teologiche,  oltre  ai  molti  luoghi  nei  quali  egli 
mette  in  rilievo,  su  vari  argomenti,  il  dissenso  irriducibile  tra  filosofi 
e  teologi,  basta  ricordare  i  brevi  accenni  alla  libertà  degli  angeli  {De  orò., 
ITI,  dub.  I,  f.  47rb),  alla  grazia  infusa  {ib.,  dub.  2,  f.  5ira),  alla  duplice 
natura  in  Cristo  [De  eleni.,  II,  art.  2,  f.  ii2rb),  al  peccato  originale  e 
alla  giustificazione  {ib.,  art.  5,  f.  i29rb),  alla  transustanziazione  e  al- 
l' identità  del  corpo  di  Cristo  nel  sepolcro  {ib.,  i29rb-vb)  e  simili. 

76  Libro  segreto  del  collegio,  cit.,  n.  3,  f.  6r.  Cfr.  L.  Mùnster,  Aless. 
Achillini,  in  Riv.  di  Storia  delle  Scienze  Mediche  e  Naturali,  XXIV, 
1933.  P-   75- 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  253 

dal  Card.  Grimani,  per  desiderio  del  Taiapietra  stesso,  cui 
doveva  stare  a  cuore  d'avere  al  suo  fianco,  nel  pubblico  ci- 
mento, un  maestro  di  tanta  autorità,  del  quale  condivideva  il 
pensiero. 

Però  fu  un  peccato  che  maestro  Alessandro  fosse  assente 
da  Bologna  quel  19  maggio,  poiché  maestro  Geronimo  de 
Bombaxia,  priore  per  quel  trimestre  del  Collegio  di  medicina, 
annota  di  suo  pugno  nel  Libro  Segreto  del  Collegio  stesso: 
«  Et  eadem  die  habuimus  opulentam  colationem  a  docto- 
ratis»;  usanza  non  del  tutto  infrequente,  e  fatta  oggetto,  a 
quanto   mi   consta,    anche   di   speciali    norme   regolamentari. 


6.  —  Nell'autunno  dello  stesso  anno  l'Achillini,  che  era  priore 
del  Collegio  (carica  già  da  lui  coperta  altre  volte),  dovette 
provvedere  alla  sua  incolumità  personale,  all'appressarsi  delle 
milizie  papali:  «  Erat  enim  tunc  temporis  universa  urbs  in 
sagis  ob  terorem  summi  pontificis,  qui  magnis  et  gallorum  et 
italorum  copiis  ad  eam  approperabat,  ut  urbem  suam  libe- 
ram  in  liberiorem  redigeret;  quod  sibi  sviccessit  fuga  opti- 
matum  bentivolorum,  qui  tunc  ei  preerant,  suscepta  ».  Come 
fautore  dei  Bentiviglio,  egli  il  7  novembre  era  fuggito  a  Pa- 
dova, mentre  nella  carica  di  priore  gli  era  successo  maestro 
Chiaro  Francesco  de'  Genuli  77. 

L'  II  novembre  Giulio  II  faceva  il  suo  ingresso  in  Bologna, 
e  i  maestri  dello  studio  andavano  a  rendergli  omaggio: 

Die  xi'^  novembris,  Beatissimus  sumnius  pontifex  iullius  papa 
secundus  honorificentissime  ingressus  est  praetorium  fori  bono- 
niensis,  tanquam  Dominus  benemeritissimus;  et  nostra  collegia 
iverunt  obviani  ei  pedestres  usque  ad  mansionem  prope  positam 
strale  maioris,  cum  vestibus  et  biretis  rosaceis  et  banale  de  variis, 
et  beatitudinem  suam  associavimus  usque  ad  sanctum  petrum. 
Sic  enim  consue visse  alios  collegiatos  factitare,  a  Domino  Paris 
de    grassis,    Magistro   ceremoniarum,    accepimus  78. 

Fuggito  da  Bologna,  l'Achillini  era  accolto  come  maestro 
nella  seconda  cattedra  ordinaria  di  filosofia  naturale,  a  Pa- 
dova. Ivi  appunto  lo  troviamo  come  concorrente  del  Pompo- 


77  Libro  segreto,  n.  3,  f.   yr.  Cfr.  L.  Mùnster,  p.   16. 

78  Libro   segreto,    ib. 


254        I-  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

nazzi  che  occupava  la  prima  cattedra,  come  risulta  dal  titolo 
dalla  reportatio  del  corso  di  lezioni  che  il  Peretto  Mantovano 
tenne  nell'anno  scolastico  1506-1507  sul  De  substantia  orbis 
di  Averroè: 

Expositio  libelli  de  substantia  orbis  ex. mi  ac  tempestate  nostra 
naturalis  philosophiae  luminis  Magistri  petri  pomponacci  Man- 
tuani.  Patavij.  M.D.VII.  xx  mensis  Februarij,  dum  primum 
locum  ordinariae  philosophiae,  ad  concurentiam  ex. mi  allexandri 
achiUini   bononiensis,    publice   profìteretur  79. 

Sebbene  il  Facciolati  pretenda  di  sapere  che  maestro  Ales- 
sandro era  stato  professore  a  Padova  nel  quadriennio  1484- 
1488,  e  che  in  quest'ultimo  anno  aveva  avuto  per  antago- 
nista il  Pomponazzi,  la  notizia  è  smentita  dai  rotuli  bolognesi 
e  dagli  altri  documenti  del  Collegio  delle  Arti  e  di  Medicina 
che  danno  presente  a  Bologna  l'Achillini  ininterrottamente 
dal  1484  al  1506.  Invece  è  certo  che  il  mantovano,  che  iniziò 
il  suo  insegnamento  padovano  solo  nel  1489,  ebbe  a  concor- 
rente, quando  ritornò  a  Padova  nel  1499,  l'alunno  e  socio 
dell' Achillini,  Tiberio  Bacilieri,  lino  alla  partenza  di  lui  per 
Pavia,  e,  partito  questo,  il  Fracanziano.  Prima  dunque  che 
con  l'Achillini,  il  Pomponazzi  s'era  scontrato  col  di  lui  «  fido 
Achate  »,  che  del  suo  Enea  non  era  per  altro  che  una  pallida 
e  sbiadita  ombra  ^o. 

Soltanto  dunque  nei  due  anni  scolastici  1506-1508  il  Pe- 
retto si  trovò  ad  avere  per  concorrente  l'Achillini,  del  quale 
già  conosceva  il  pensiero.  Ma  a  giudicarne  dal  contenuto 
dell' Expositio  libelli  de  substantia  orbis,  i  dissensi  fra  i  due, 
per  quanto  senza  dubbio  notevoli,  non  paion  tali  da  do- 
ver degenerare  in  risse.  Anzi,  non  ostante  i  dissensi,  vi  sono 
nell'esposizione  pomponaziana  molte  pagine  che  il  bolo- 
gnese avrebbe  potuto  sottoscrivere  a  piene  mani.  Così,  per 
esempio,  quando  il  mantovano  combatte  la  teoria  avicenniana 
della  «  forma  corporeitatis  »  coeterna  alla  materia  (fol.  yv  sgg.)  ; 
o  quando  tratta  della  dottrina  averroistica  delle  «  dimensiones 
interminatae  »  anteriori  ad  ogni  forma  corporea  (f .  I3r)  ;  o 
quando  nega  con  Averroè  che  le  sfere  celesti  siano  animate 
da  un'anima  sensitiva,  distinta  dall'  intelligenza  motrice, 
come   pretendeva  ugualmente   Avicenna   (f.    i/r).   Anche   sul 


79  Cod.   Vat.   Regin.   lat.    1279,   f.   ^r. 

80  V.  sotto,  p.   288. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  255 

grosso  problema  An  caeluni  sit  compositum  ex  materia  et  jorma 
(ff.  i8r-24r),  il  Pomponazzi  si  sforza  di  mostrare  come  le  varie 
opinioni  in  contrasto  si  possan  difendere  e  come  si  possan 
risolvere  gli  argomenti  che  ad  ognuna  si  obiettano.  Il  suo  ari- 
stotelismo e  il  suo  averroismo  insomma  non  hanno  la  rigidità 
intransigente  del  pensiero  dell'Achillini.  Col  quale  il  manto- 
vano era  in  sostanza  d'accordo  anche  nel  dubitare  della  di- 
pendenza delle  intelligenze  e  dei  corpi  celesti  dalla  causalità 
efficiente  del  primo  motore  (f.  28r-30v),  e  altresì  della  infinità 
intensiva    del    vigore    col    quale    questo    muove    l'universo 

(f.    33V-34V). 

La  vera  e  profonda  differenza  fra  l'uno  e  l'altro  maestro, 
trovatisi  di  fronte  a  Padova,  è  questa.  L'Achillini  accetta 
integralmente  l' interpretazione  averroistica  d'Aristotele,  an- 
che là  dove  altri  aveva  visto  discordanze  fra  il  testo  e  il  com- 
mento e  nel  pensiero  stesso  d'Averroè  aveva  notato  non  poche 
contradizioni,  onde  le  molte  opinioni  sul  vero  pensiero  dello 
stagirita  e  le  diatribe  fra  gli  stessi  averroisti,  ciascuno  dei 
quali  aveva  in  serbo  il  suo  modo  di  risolvere  quelle  discor- 
danze e  contradizioni.  Quello  del  bolognese  rappresenta  uno 
dei  sistemi  più  coerenti  d' interpretazione  del  pensiero  d'Ari- 
stotele, dal  punto  di  vista  rigidamente  averroistico.  Per  mezzo 
di  sapienti  accorgimenti  logici,  suggeriti  dalla  più  scaltrita 
arte  dialettica,  per  via  di  impensati  ravvicinamenti  di  testi 
e  di  sottili  distinzioni,  le  contradizioni  spariscono,  i  contrasti 
sono  conciliati,  le  obiezioni  mosse  dai  dissenzienti  risolte,  le 
dubbiezze  dissipate.  Di  guisa  che  il  sistema  aristotelico- 
averroistico,  costruito  con  procedimenti  deduttivi  che  mentre 
scimmiottano  quelli  della  geometria  in  realtà  si  risolvono  in 
una  caricatura  del  metodo  matematico,  ostenta  una  compat- 
tezza in  tutte  le  sue  parti,  sì  da  dare  l' illusione  della  raggiunta 
certezza,  in  cui  l'animo  si  quieta  e  non  sente  più  l'acre  puntura 
del  dubbio.  In  questa  superba  convinzione  di  essere  ormai 
arrivato  «  al  segno  che  si  tien  gran  miracol  di  natura  »,  e  pros- 
simo alla  copiilatio  con  l' intelletto  agente,  l'Achillini  non 
aspira  orm.ai  ad  altro  che  ad  assomigliare  ad  Aristotele,  del 
quale  dice  con  Averroè  :  «  qui  divinus  potius  quam  humanus  ; 
quoniam  a  M.  D.  annis  cifra  non  est  inventus  error  in  eius 
dictis  alicuius  momenti;  naturae  enim  consiliarius  extitit»!  8', 


8i  De   phys.    auditu,    f.  óyvb. 


256        l'aristotelismo    tal  C  vano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Al  Pomponazzi,  al  contrario,  questa  balda  sicurezza  dell'  in- 
fallibilità  d'Aristotele   e    d'Averroè   era   venuta   meno. 

Egli  non  soltanto  afferma  «  quod  Aristoteles  non  fuit  deus 
et  ipse  non  novit  omnia»  82,  ed  ugualmente  «quod  Commen- 
tator  erravit  neque  ipse  est  deus  «^3,  ma  spesso  dichiara  di 
non  riuscire  a  intenderli,  che  preferirebbe  esser  discepolo 
che  non  maestro,  talvolta  anzi  non  esita  a  qualificare  pazzesche, 
dal  punto  di  vista  della  stessa  ragione  umana,  le  loro  dottrine. 
Ma  il  più  spesso,  da  quell'uomo  faceto  che  era,  più  che  incapo- 
nirsi a  dissolvere  gli  argomenti  dei  suoi  avversari  (cosa  non 
facile  senza  accettarne  taluni  presupposti,  il  che  l'avrebbe  con- 
dotto ad  invischiarsi  in  un  perpetuo  circolo  vizioso,  senza  via 
d'uscita),  preferiva  motteggiare  con  essi  e  svignarsela  con 
qualche  piacevole  e  magari  salace  barzelletta.  Esempi:  nel 
febbraio  1520,  stava  esponendo  il  secondo  libro  del  De  cado, 
e  precisamente  il  commento  averroistico  al  testo  34,  là  dove  si 
pretende  di  poter  dimostrare  con  arzigogoli  sillogistici  che  il 
mondo  «  non  potuisset  esse  nec  maior  nec  minor,  secundum 
philosophos  »,  perché  esso  ha  da  esser  proporzionato  alle  di- 
mensioni dell'uomo,  «  cum  mundus  sit  propter  hominem  ». 
Questo  modo  di  argomentare  stuzzica  la  vena  umoristica  del 
Peretto: 

Modo,  si  mundus  esset  maior,  homo  non  posset  vivere;  nam 
si  haberetis  thalamum  maximum,  non  possetis  vivere,  quia  ibi 
esset  nimis  frigus.  Unde  si  Sanctus  Petronius  esset  in  decuplo 
maior,  organum,  quod  nunc  habetur,  non  posset  sentiri  per  totum. 
Similiter,  si  mundus  esset  maior,  sol  esset  nimis  parvus,  et  sic 
non  posset  calefacere,  et  sic  corrumperetur  homo.  Similiter, 
si  esset  minor,  nimis  sol  calefaceret,  et  ita  non  possent  esse  plures 
celi.  Mundus  ergo  non  potest  esse  maior  neque  minor;  et  est  sicut 
dicebat  illa  bona  mulier,  quod  virga  bene  manebat  in  vulva  sua, 
et  quod  virga  non  oportebat  quod  fuisset  nec  maior  nec  minor, 
nec  grossior  nec  subtilior,  nec  curtior  nec  longior;  ita  quod  era, 
ut  dicitur,  a  punto.  Et  hoc  respondent  fatui  philosophi  ad  istam 
dubitationem  84. 

E  perché,  mentre  il  moto  violento  dei  proietti  è  più  intenso 
da  principio  e  poi  va  rallentando,  il  moto  naturale  dei  gravi  e 
dei  leggieri  «  est  in  fine  velocior  »  ?  La  ragione  ve  la  dà  Averroè  : 


^2  Arezzo,    Bibl.    Laici,    ms.    390,   f.    41V;    cfr.   Parigi,   Bibl.  Nation., 
ms.   lat.    6534,   f.    I3r. 

83  Arezzo,  ms.  cit.,  f.  47V;  Parigi,  ib.,  ms.  lat.  6533,  f.  53V. 

84  Parigi,   ib.,    ms.   lat.   6534,    f.    6ov. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  257 

Et  ponit  conimentator  huius  rationem:  v.  gr.,  grave  descen- 
dens  in  fine  velocius  est  quam  in  principio,  quia  confortatur  ex 
desiderio  finis  et  termini;  ideo  intenditur  desiderium,  et  intento 
desiderio  intenditur  virtus  motiva  et  motus.  Exemplum  do  vobis: 
quando  vos  itis  ad  amicam  et  appropinquatis  illi,  antequam  figatis 
priapum,  vos  mandate  fuor  el  seme  in  sulle  cosce.  Similiter,  quando 
aliquis  est  clericus,  non  desiderat  papatum;  sed  quando  incipit 
liabere  sacerdotia  magna,  incipit  desiderare  episcopatum,  postea 
cardinalatum,  et  tunc,  quando  est  cardinalis,  magnopere  papatum 
desiderat,  quia  illi  est  propinquus.  Et  ita  dicit  commentator....85. 

Alla  fine  di  novembre  1522,  stava  commentando  il  primo 
delle  Meteore,  e  precisamente  il  capitolo  della  pioggia,  della 
rugiada,  della  grandine,  della  neve  e  della  brina.  Seguendo 
passo  passo  il  testo  aristotelico  e  prendendo  in  esame  le  varie 
opinioni  così  poco  convincenti  intorno  alle  cause  del  riscalda- 
mento e  raffreddamento,  della  siccità  e  dell'umidità,  esce  in 
queste  dichiarazioni: 

Ego  multos  annos  consideravi  ista,  et  ex  toto  mihi  non  sati- 
sfacio,  et  volo  addiscere  2as  dubitationes  quas  nescio  solvere,  et 
solutionem  relinquo  istis  meis  sociis  qui  cenant  cum  deo  et  omnia 
sciunt....  Domini,  ego  dico  vobis  sicut  dicebat  Petrarca:  '  Così  ben 
io    potessi    con    lingua  '    exprimere    quaelibet    mente    concipio.... 

Domini  et  filij  mei,  dicam  vobis  veruni:  certe  quo  ad  nostrum 
saeculum,  multum  laudo  fratres  sancti  Hieronymi,  idest  li  lesuati, 
quoniam  non  student  et  nihil  faciunt  nisi  dicant  '  Pater  noster  ' 
et  'Ave  Maria'.  Et  ita  contenti  vivunt  et  sine  molestia.  Et  quantum 
ad  alium  saeculum,  magis  laudo,  et  mallem  habere  conditiones 
Socratis,  qui  ad  hoc  devenit  et  dixit  hoc:  'Unum  scio,  quod 
nihil  scio  ',  quam  conditiones  Aristotelis,  quem  credo  quod  multa 
finxerat  se  scire,  quae  tamen  ipse  ignoraret.  Dico  vobis  quod 
ista  nescio  solvere.  Solvant  qui  continuo  prandent  cum  deo  qui 
habent  intellectum  adeptum  ^6. 

I  soci  che  pranzano  e  cenan  con  Dio  e  san  tutto,  sono  evi- 
dentemente quegli  averroisti  che,  come  l'Achillini  e  il  Baci- 
lieri,  ritenevano  fosse  concesso  al  filosofo  di  giungere,  in  questa 
vita,  al  termine  dello  sviluppo  filosofico  e  al  congiungimento 
coir  Intelletto  agente,  nel  quale  consiste  il  pieno  appagamento 
del  desiderio  umano  di  sapere. 

Paolo  Giovio  si  trovava  a  Padova,  sui  ventiquattro  anni,  di- 
scepolo del  Peretto,  quando  questi  ebbe  per  concorrente  l'Achil- 


8?  Ib.,  f.   i64r. 

**^  Parigi,    ib.,    ms.   lat.    6535,   f.    i2or-v. 


I 


258        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

lini  fuggito  da  Bologna;  sì  che  quello  che  egli  racconta 
dell'uno  e  dell'altro  è  testimonianza  di  quanto  ebbe  ad  osser- 
vare. Al  grande  cacciatore  di  aneddoti  non  pareva  vero  di  tra- 
mandarci qualche  fugace  impressione,  colta  a  volo,  intorno  ai 
personaggi  del  tempo,  nei  quali  s'era  imbattuto.  Egli  infatti 
niente  ci  dice  dell'insegnamento  dell' Achillini  a  Bologna.  Ce  lo 
rappresenta  a  Padova,  averroista  che  gode  fama  di  solido  e  ben 
digesto  sapere,  mentre  il  Pomponazzi,  astioso  rivale  ^7,  mosso 
da  ambizione,  gli  vuota  la  scuola.  Un  po'  trasandato  nel  ve- 
stire e  nel  portamento,  ma  con  fronte  sempre  raggiante,  si- 
curo di  sé,  eccolo  là  al  portico  pretorio,  nel  circolo  dei  dotti, 
mentre  nel  rozzo  gergo  scolastico  affronta  l'avversario  e  cerca 
d' irretirlo  entro  le  maglie  dei  suoi  bifronti  e  cornuti  enti- 
memi ^^,  E  talora  sembra  averlo  abbattuto  col  vigore  delle  sue 
stoccate;  ma  il  più  delle  volte  quello  sfugge  alla  presa  delle 
armi  dialettiche,  l' impeto  dei  colpi  vibrati  cade  nel  vuoto,, 
stornato  da  una  facezia  o  da  un  motto  salace,  «  salsa  dicaci- 
tate  »,  che  suscitava,  in  chi  assisteva  a  quelle  giostre  di  sillo- 
gismi, le  più  scroscianti  risate. 

Negli  anni  del  soggiorno  padovano  l'Achillini  attese  a  riunire 
in  un  sol  volume  le  opere  che  aveva  stampate  separatamente  a 
Bologna  e  che  abbiamo  elencate  fin  qui.  La  prima  edizione  degli 
Opera  omnia  fu  fatta  a  Venezia  a  spese  degli  eredi  di  Otta- 
viano Scoto,  ed  apparve  il  29  luglio  1508.  Essa  comprendeva  i 
Quolibeta  de  intelligentns,  il  De  orbibus,  il  De  universalibus,. 
il  De  elementis  89  e  le  questioni  De  principiis  chiromantiae  et 
phvsionomiae,  De  potestate  syìlogismi  e  De  subiecto  medicinae. 


87  II  Capparoni,  Profili  bio-bibliografici  di  medici  e  naturalisti  celebri 
italiani  dal  sec.  XV  al  sec.  XVIII.  Roma,  1926,  p.  12,  dice  addirittura 
che  a  Padova  l'Achillini  «  ebbe  a  soffrire  l' invidia  del  Pomponazzi 
con  il  quale  sostenne  non  lievi  dispute,  avendolo  ad  avversario  poco 
cortese  e  corretto  ».  Tutto  questo  mi  pare  che  aggravi  un  po'  troppo  il 
racconto   del   Giovio. 

88  Paolo  Giovio,  Elogia  virorum  literis  illustrium.  Basilea,  1577, 
pp.  71-72  e  p.  86.  In  questa  edizione  dell'opera  del  Giovio  si  trova  quel 
ritratto  dell'Achillini  che  il  Mlinster  (1.  e,  p.  15)  riproduce  di  seconda 
mano,  dichiarando  di  non  sapere  donde  provenga.  Un  ritratto  del 
filosofo  bolognese  il  Giovio  doveva  possedere  nel  suo  museo  a  Como. 
Una  copia  di  esso,  se  non  proprio  l'originale,  si  trova  ora  nel  ballatoio 
della  sala  Fagnani  presso  la  Bibl.  Ambrosiana  di  Milano,  somigliante 
all'  immagine  degli  Elogia.  Altro  ritratto  dell'Achillini  è  posseduto  dal 
museo    dell'  Università    di    Bologna. 

89  La  dedica  al   Bentivoglio  naturalmente  fu  omessa. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  259 


7.  -  La  partenza  di  questo  insigne  maestro  aveva  lasciato 
un  gran  vuoto  nello  studio  bolognese,  e  le  autorità  accade- 
miche, che  non  riuscivano  a  colmarlo,  lo  sollecitarono  a  ritor- 
nare sulla  sua  cattedra,  minacciandolo  dell'ammenda  di  cin- 
quecento ducati  d'oro  e  di  pene  anche  più  gravi,  ove  non 
avesse  ottemperato  all'ordine  9°.  Così  egli  il  14  settembre  150S 
fece  ritorno  in  patria,  ove  riprese  la  sua  attività  normale 
di  dottore  dei  due  collegi  delle  Arti  e  di  Medicina,  e  il  duphce 
insegnamento  della  filosofia  naturale  e  della  medicina  teorica; 
tanto  poco  il  nuovo  regime  papale  si  preoccupava  dell'opposi- 
zione che  avrebbe  potuto  venirgli  dalla  filosofia. 

Al  periodo  del  ritorno  a  Bologna  appartiene  il  trattato 
De  distinctionibus,  edito  quivi,  «  per  Ioannem  Antonium  de 
Benedictis...,  Anno  domini  1510.  Die  5.  Octobris  ».  L'opera 
concerne  i  concetti  trascendentali  di  ente,  uno,  vero,  buono, 
e  quelli  di  essenza,  di  cosa,  di  identico  e  distinto,  della  distin- 
zione reale  e  della  distinzione  concettuale,  delle  formalità 
scotistiche,  della  relazione  e  dei  suoi  fondamenti,  dell'ana- 
logia e  dell'uso  di  questi  concetti;  di  guisa  che  la  trattazione 
ci  dà,  di  scorcio,  un  sommario  di  tutto  il  pensiero  metafisico 
dell'Achillini  intento  a  salvare  e  a  conciliare  la  dottrina 
d'Averroè  con  quella  dei  maggiori  maestri.  Nel   1509,   come 


90  Da  una  lettera  dei  Quaranta  riformatori  dello  Studio  bolognese, 
in  data  11  sett.  1507  (pubblicata  da  B.  Podestà,  Di  alcuni  docum.  ined. 
riguardanti  P.  Pomponazzi,  in  «Atti  e  Mem.»  della  R.  Deput.  di  Storia 
Patria  per  le  provincie  di  Romagna,  Anno  VI,  Bologna,  1868,  p.  142, 
nota),  appare  che  i  riformatori  avevano  già  prima  fatte  le  loro  rimo- 
stranze, perché  s'era  assentato  senza  licenza.  L'Achillini  s'era  scusato 
«  cum  dire  che  ne  fu  concessa  hcentia  dal  M.  co  Sr.  Confaloniero  d'  Justi- 
tia  »  e  che  senza  di  ciò  non  sarebbe  mai  partito.  Ma  i  Quaranta  repU- 
carono  che  la  licenza  non  era  stata  né  richiesta  né  concessa  nella  forma 
valida.  Perciò  s'affrettasse  a  far  ritorno,  se  non  voleva  esser  multato 
di  500  ducati  d'oro  o  colpito  con  altre  gravissime  pene  «  nelle  quali 
incorrono  li  nostri  doctori  che  partono  da  Bologna  senza  licentia  per 
andare  a  legere  fora  nelli  externi  studi  ».  Tuttavia  l'AchiUini  non  ri- 
tornò che  un  anno  dopo.  Nel  Lib.  Partitorutn  (Arch.  di  Stato  di  Bologna, 
voi.  13,  f.  136V),  al  14  sett.  1508,  si  trova  che  con  19  su  19  fave  bianche 
«I  conduxerunt  Ex.m  Artium  et  Medicinae  Doctorem,  D.  M.m  Alex,  de 
Achilinis  ad  legendum  in  Studio  Bononie  »  col  salario  di  900  lire  bolo- 
gnesi, integre  e  privilegiate,  e  alla  condizione  di  leggere  Teorica  ordi- 
naria al  mattino  e  Filosofìa  ordinaria  la  sera.  La  formula  «  conduxe- 
runt »  vuol  dire  che  si  tratta  di   un  nuovo  ingaggio. 


26o        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

maestro  di  Teorica,  commentò  la  prima  fen  del  IV  libro  del 
Canon    di    Avicenna  91. 

Ripreso  il  corso  delle  lezioni,  egli  si  dette  nel  1511  a  esporre 
il  De  physico  auditu  di  Aristotele.  Ma  l'esposizione  fu  inter- 
rotta dagli  eventi  bellici  di  quell'anno.  È  noto  come  il  grande 
capitano  Gian  Giacomo  Trivulzio,  al  servizio  del  re  di  Francia, 
il  23  maggio  di  quell'anno  avesse  ripreso  Bologna  al  papa  e 
come  avesse  riaperte  le  porte  al  ritorno  dei  Bentivoglio.  Ma 
Giulio  II,  fatta  lega  con  gli  Spagnoli,  non  tardò  a  usare  dei 
servigi  di  questi  per  far  bombardare  la  città  e  ridurla  all'ob- 
bedienza della  Chiesa.  Sorpreso  dagli  avvenimenti,  il  maestro 
continuò  a  far  lezione  finché  gli  alunni,  per  fuggire  all'assedio, 
non  disertarono  lo  studio  9^.  Il  5  febbraio  del  1512,  penetrato 
di  sorpresa  in  città  Gaston  de  Foix  obbligò  gli  Spagnoli  a 
sbloccare  Bologna.  Ma  dopo  la  battagha  di  Ravenna  dell'  11 
aprile,  perduto  l'appoggio  francese,  i  Bentivoglio  dovettero 
di  nuovo  prendere  il  largo. 

Com'era  suo  costume,  l'Achillini  avrebbe  fatto  volentieri  a 
meno  di  pubblicare  questo  frammento  di  esposizione  del 
De  physico  auditu.  Ed  infatti  egli  non  aveva  mai  pubblicato 
nessun  commento  a  scritti  d'Aristotele  o  d'altri,  bensì  tratta- 
zioni originali  sebbene  ispirate  al  pensiero  d'Aristotele  e  d'Aver- 
roè.  Perciò  mi  sorprende  assai  quello  che  Ladislao  Miinster 
scrive  93  degli  Opera  omnia  nell'edizione  del  1508  curata  dal- 
l'autore stesso:  «  Si  tratta  in  gran  parte  di  opere  d'Aristotele, 
di  Alessandro  Afrodisiaco  (!  !  !),  d'Averroè  ecc.  provviste  di 
commenti  dell' Achillini  ».  Ma  ch'egli,  non  che  scorsa,  non 
abbia  mai  visto  in  faccia  questa  edizione,  è  provato  dal  fatto 


91  Nel  cod.  latino  14  (io)  dell'  Università  di  Bologna  si  trova,  tra 
altre  cose  dell' Achillini,  una  Expositio  supra  prima  41  Avicennae,  da- 
tata 7  settembre  1509.  L.  Frati,  Indice  dei  codici  latini  conservati  nella 
R.  Bibl.    Univers.  di  Boi.,   Firenze,    1909,  p.    io.   V.  sotto,  p.    269. 

92  II  Fantuzzi,  Notizie  degli  scrittori  bolognesi,  I,  p.  51,  dice,  senza 
per  altro  citare  la  fonte,  come  «l'anno  1512,  alli  15  Gennaio,  tenendosi 
una  radunanza  di  Teologi,  di  Dottori  legisti  e  d'altri  Uomini  insigni, 
per  consultare  se  si  dovea  ricevere  il  Legato  proposto  a  Bologna  dal 
Conciliabolo  di  Pisa  (cioè  il  Cardinale  San  Severino,  fatto  legato  di 
quella  radunanza  e  Governatore  di  Bologna),  gli  aderenti  a'  Benti- 
voglio sostenevano  l'affermativa,  e  fra  essi  Alessandro  Achillini  piià 
d'ogni  altro  aringo  con  grande  arte  ed  impegno  per  sostenerla.  E  se 
non  potè  ottenere  l' intento,  ne  venne  però,  che  fu  determinato  di  non 
ricevere  né  questo  né  quello  destinato  allora  dal  Pontefice  Giulio  II  ». 

93  0  Riv.  di  St.  delle  Se.  Med.  e  Naturah  »,  XXIV,    1933,  p.   71. 


I 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  201 

che  fra  le  opere  incluse  in  questa  edizione  pone  il  De  physico 
auditu,  stampato  la  prima  volta  nel  1512,  e  il  De  niotimm 
proportione,  di  cui  diremo  più  giù. 

L'Achillini,  dunque,  per  sua  esplicita  dichiarazione,  non 
pensava  affatto  a  dar  in  luce  una  nuova  esposizione  dell'opera 
aristotelica,  parendogli  che  bastassero  quelle  greche,  latine 
ed  arabe  che  correvan  per  le  mani  di  tutti.  In  ciò  fu  imitato 
dal  Pomponazzi,  che  non  pensò  mai  a  dare  alle  stampe  alcuno 
dei  numerosi  commenti  ad  Aristotele,  lasciati  inediti  nelle 
riportazioni  dei  suoi  alunni.  Quello  che  decise  il  bolognese  a 
desistere  dal  suo  proposito,  è  quanto  egli  stesso  scrive  in 
principio  del  frammento: 

Fugeram  olim  Peripateticorum  principis  Aristotelis  librorum 
interpretationes  notis  mandare,  quoniam  expositores  tum  Graeci, 
tum  Arabes,  tum  Latini,  evolvere  ipsos  cupientibus  textum  Ari- 
stoteUs  piane  aperuerunt.  Difficultates  autem  circa  sententias 
Aristotelis  et  Averrois  contingentes,  ex  libris  a  me  editis  non  dif- 
ficile erat  comprehendere.  Sed  quia  varii  auditores  varia  fragmenta 
philosophica,  me  legente,  varie  collegerant,  et  me  inscio  meo 
nomine  publicaverant,  non  passus  sum  ut,  quae  nostra  non  erant, 
prò  nostris  haberentur.  Ideo  coactus  sum  haec  scripta,  tum  ap- 
ponendo tum  variando  tum  rescindendo,  diligentius  repurgare, 
ut  ipsa,  manu  propria  elaborata,  proprium  auctorem  recogno- 
scerent  v4. 

E  alla  fine  dell'opera: 

Hucusque  (cioè  fino  al  principio  del  libro  II,  t.  e.  i)  nos  pro- 
secuti  sunt  audientes.  Quod  si  amplius  durassent,  noster  labor 
longior  fuisset.  Et  haec  nostra  recognoscens,  fragmenta  esse  vo- 
luissem,  sed  fractionum  fragmenta  sunt,  quoniam  eis  commi- 
nutiva  fractio  supervenit,  Hispanis  Bononiam  armis  impeten- 
tibvis  et  moenia  machinis  deicientibus  95. 

Per  giocondità  del  lettore  aggiungerò  che  nel  II  volume 
della  Storia  dell'università  di  Bologna  di  Luigi  Simeoni  (Zani- 
chelli, Bologna  1940,  p.  51)  si  legge  che  Alessandro  Achilhni, 


94  Alex.   Achillini,   Expositio  primi   Physicoriitn.   E  infine:  Expli 
ciiint  fragmentorum  fractiones  physicales  ab  Alex.  Ach.  Bon.  ordinariam 
Theorice  de   mane  publice  docente.   Impresse  per  Hieron.   de  Benedictis 
civem  bonon.  Anno  Domini  M.D.XII,  f.  iv.  Questa  avvertenza  è  stata 
omessa  nell'edizione  degli  Opera  omnia  curata  da  Panfilo  Monti  nel  1545. 

95  Ib.,  f.   33rb,  e  nell'edizione  del  Monti,  f.  gorb. 


202        l'aristotelismo    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

se  non  scopritore,  fu  almeno  «  il  primo  descrittore  degli  ossi- 
cini dell'orecchio  nel  suo  De  physico  auditu  ».  Con  che  il  Si- 
meoni  parrebbe  credere  che  in  questa  opera  l'Achillini  si 
occupi  dell'anatomia  dell'orecchio  !  E  questa  doveva  essere 
un'opinione  ben  radicata  in  lui,  se  anche  poche  pagine  dopo 
scrive  che  il  bolognese  fu  «  celebre  tanto  come  dialettico..,, 
quanto  come  anatomico  e  medico  »,  e  che  «  le  opere  che  di  lui 
possediano....  che  trattano  tanto  De  universalibiis  come  De 
physico  auditu...,  mostrano  questo  doppio  carattere»  (p.  57). 
Ora  nel  De  physico  auditu  non  si  parla  affatto  di  cose  atti- 
nenti all'anatomia,  bensì  di  quello  di  cui  Aristotele  parla  in 
quest'opera  e,  fra  l'altro,  anche  degli  universah,  ma  dell'organo 
dell'udito    proprio   no. 

Un'altra  opera  composta  dall' Achillini  in  questi  ultimi  anni 
della  sua  vita  e  lasciata  inedita  è  il  De  proportione  motuum. 
L'argomento  riguarda  il  rapporto  che  Aristotele,  nel  VII  della 
Fisica9^,  aveva  stabilito  tra  la  forza,  la  resistenza  e  la  velocità 
del  movimento,  e  il  tentativo  da  parte  di  Tommaso  Bradwar- 
dine,  di  Nicola  d'Oresme  e  degli  altri  «  calculatores  »  di  tra- 
durlo in  un  rapporto  matematico.  Le  dottrine  di  costoro,  por- 
tate in  Italia  da  Biagio  Pelacani  da  Parma,  «  Parisius  docto- 
ratus  »,  avevano  suscitato  vive  controversie  tra  coloro  che 
accettavano  la  novità  delle  «  calculationes  »  e  gli  averroisti 
che  alle  nuove  dottrine  furono  piuttosto  ostili.  L'  Achillini 
si  mostra  pienamente  informato  dello  stato  della  questione, 
allora  dibattutissima  anche  a  Padova  e  a  Bologna.  Conosce 
e  cita  il  commento  del  Campano  alla  Geometria  di  Euclide, 
l'Aritmetica  di  Giordano  de  Nemore,  i  trattati  calcolatori  di 
Tommaso  Bradwardine,  del  Swineshead,  dello  Heytesbury, 
di  Nicola  d'Oresme,  d'Albertuccio  ossia  d'Alberto  di  Sassonia, 
di  Paolo  Veneto,  di  Giovanni  Marliani  «  in  sua  quaestione 
subtili  de  proportionibus  »,  insomma  tutta  la  letteratura  del- 
l'argomento, che  noi  oggi  ben  conosciamo  attraverso  le  dotte 
e  dihgenti  ricerche  della  Dott.  Anneliese  Maier97.  Intento  del 
maestro  bolognese  era  quello  di  salvare  le  regole  delle  propor- 
zioni formulate  da  Aristotele  e  da  Averroè  nel  VII  della  Fisica 
e  di  accordarle  con  le  teorie  calcolatorie,  a  differenza  di  quello 


96  Cap.  5,  249b  27-25ob  8  (t.  e.  35-39)- 

97  Die  Vorlàufer  Galileis  im  14.  Jahrhundert,  Roma,  1949,  pp.  79-215; 
An  der  Grenze  von  Scholastik  u.  Naturwissenschaft,  Roma,  1952,  pp. 
257-384. 


I 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  263 

che  pensava  potesse  farsi,  pochi  anni  dopo  la  morte  di  lui, 
il    Pomponazzi  98. 

L'opera  non  potè  essere  pubblicata  dal  filosofo  bolognese 
perché  prevenuto  dall'  improvvisa  morte.  Lo  Hain,  n.  71, 
registra  quest'opera  dell' Achillini  col  titolo  De  distyibiitionihus 
ac  proportione  motuum,  e  la  dà  stampata  a  Bologna,  «  per 
Benedictum  Hectoris  »,  nel  1494.  Ma  il  Gesamtkatalog,  I,  p.  79, 
dichiara  l'esistenza  di  questa  edizione  «  zweifelhaft  ».  Io  la 
direi  semphcemente  inventata.  Per  due  ragioni:  primo,  perché 
nell'opera  sono  citati  il  De  orbibtis  e  il  De  elementis  sicura- 
mente posteriori  al  1494;  secondo,  perché  il  fratello  Giovanni 
Filoteo  che  nel  15 15  ne  curò  l'edizione  postuma,  la  dà  come 
inedita,  nella  dedica  a  Leone  X:  «  Itaque  Alexandri  ipsius 
auctoris  nomine  (quando  ipse  funere  praeventus  acerbo  non 
potuit)    ea  sanctitati  tuae   nuncupatim   dico  »  99. 

Ma  il  2  agosto  15 12,  coli 'animo  profondamente  amareggiato 
per  gli   avvenimenti   che   avevano   turbato   la  serenità   dello 


98  «  Aliqui  ergo  ducti  inani  gloria  voluerunt  salvare  Aristotelem  ; 
Inter  quos  fuit  Ioannes  Marilianus,  qui  construxit  tractatum  in  quo 
intendebat  salvare  Aristotelem;  et  aliqui  fecerunt  tractatum  centra 
Marilianum....  Et  totus  mundus  apud  me  non  salvaret  Aristotelem, 
et  Aristoteles  sibimet  contradicit,  et  videbitur  aperte  errasse,  et  una  re- 
gula  alteri  contradicit.  Fortassis  enim  quod  decipior;  sed  iudicabitis 
vos  per  dieta   Aristotelis,   quod   non  potest  salvari.    Aristoteles  etiam 

fuit  homo  et  decipi  potuit,  sicut  etiam  possibile  est  me  decipi »  (P. 

Pomponazzi,  In  ynm.  Phys.,  ad  t.  e.  39,  ms.  aretino,  Bibl.  de'  Laici, 
390,  f.  180V  sgg.).  Giunto  alla  fine  della  sua  riportazione,  l'alunno, 
che  dal  cod.  della  Kungl.  Biblioteket  di  Stoccolma,  Va.  24  (cfr.  «  Giom. 
Crit.  Filos.  It.  »,  XXXVII,  1958,  p.  354)  appare  essere  quel  Magister 
Hieronymus  Bonus  o  de  Bono,  da  Bologna,  laureato  in  Artibus  et 
Medicina  il  13  ott.  1519  (Libro  Segreto  del  Collegio,  cit.,  f.  32v),  annota: 
<(  Preceptor  in  destruendo  Aristotelem  oblocutus  est  in  tantum  quod 
fere  omnibus  tedio  fuit,  tot  et  tantis  modis  argumenta  ista  prolixissime 
formaverat,  et  monstravit  quibus  modis  et  quot  viis  potuit,  argumenta 
ista  apud  eum  concludere  et  insolubilia  fore.  Quapropter  multum 
excitavit  ingenia  scholarium  in  volendo  Aristotelem  tueri  ab  istis 
argumentationibus.  Tu  omnia  et  adhuc  meliora  accipias  ex  Bendano, 
hic  in  questione  propria,  ex  quo  omnia  hec  accepit  preceptor;  et  adde 
ex  tractatu  Achillini  ».  Questa  annotazione  nel  cod.  45  del  Collegio 
Campana  di  Osimo  (f.  222r)  è  chiusa  entro  le  sigle  H.us....  B.us.  Nel 
Cod.  parigino,  Bibl.  Nation.,  ms.  lat.  6533,  f.  358V,  si  legge  invece: 
«  Verum  magister  Benedictus  Victorius  de  Faventia  conatus  est  de- 
fendere Aristotelem,  et  licet  legeret  medicinam  extraordinariam  hora 
19,  tamen  defensionem  prò  Aristotele  scolaribus  quibusdam  in  scriptis 
dedit,  et  ego  hic  scripsi  ut  patet  ».  E  segue  la  Defensio  Aristotelis  in 
ultimo  capitulo   ji  Phisicorum   (f.   359r-36iv)    del  maestro  faentino. 

99  Alex.  Achillini  Bonon.,  De  proportionibus  niotuum,  Bologna, 
Girol.  de'  Benedetti,    15 15,  agosto,  f.  2r. 


264        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

studio  bolognese,  il  celebre  maestro  averroista  venne  improv- 
visamente a  morte,  mentre  l'anno  prima  era  giunto  a  Bo- 
logna il  Pomponazzi,  a  reggere  una  delle  cattedre  di  lilosofia 
naturale,  e  su  di  lui,  dopo  la  scomparsa  dell' Achillini,  comin- 
ciarono a  convergere  gli  sguardi  degli  studenti  bolognesi. 

La  morte  di  maestro  Alessandro  fu  pianta  come  il  più  lut- 
tuoso evento  cittadino.  Il  necrologio  che  di  sua  mano  scrisse, 
nel  Libro  Segreto  del  Collegio  delle  Arti  e  di  Medicina,  maestro 
Federico  Gambalunga,  che  per  molti  anni  gli  era  stato  col- 
lega, ci  riempie  ancora  di  stupore,  perché  unico  negli  annali 
dello  studio  bolognese;  di  nessun  altro  maestro  si  dice  quello 
che  fu  detto  allora  dell' Achilhni,  in  sì  grande  concetto  lo  te- 
nevano i  contemporanei,  quasi  fosse  un  dio  "o; 

Egregius  artium  et  medicine  doctor,  D.  M.r  Alexander  Achil- 
linus  obijt  quarto  nonas  augusti.  Heu  dies,  dies  inquani  infausta 
nimium,  non  modo  Bononie,  verum  etiam  universe  genti.  Eam 
enimvirbs  haec  litterarijque  omnes,  quorum  ingenia  quasi  phoebe^o^ 
ab  illius  uberrimi  fontis  splendore  lumen  accipiebant,  iacturam 
passi  sunt,  qualem  vix  Roma  Cesaris  vel  Ciceronis  obitu,  vel 
maxime  ^o^  tunc  quum  apud  Cannas  infaeliciter  pugnatum  est, 
vix  Graecia  ex  philosophorum  principis,  vix  Chous  ex  medicinae 
parentis  lete  pertulit.  Talis  enim  tantusque  erat,  ut  cunctis  vi- 
vendi esset  exemplar.  Unde  non  iniuria  omnium  oculi  in  ipsum 
coniecti  erant.  Omnes  ipsum  intuebantur.  Omnes  admirabantur. 
Omnes  denique  tanquam  deum  colebant,  venerabanturque  : 
'  Deus,  deus  inquam  nobis  '  ^°'i.  Nam,  ut  de  moribus  taceam,  quibus 
Laelium  superabat,  —  erat  enim  beneficus,  comis,  iucundus, 
hylaris  amicis,  inimicis  autem  non  asper,  nemini  nocebat,  tri- 
buebat  autem  suum  unicuique,  quod  proprium  est  iustitiae, 
utebatur  pietate  in  parentes  deosque  mirifica,  favebat  bonis,. 
malos  autem  modeste  incusabat,  —  quid  de  litteratura,  qui  quasi 
Crisippus  in  dyalecticis,  in  physicis  Aristoteles,  in  Methaphysicis 


100  Poi.  igr.  Questo  necrologio  che  L.  Thorndike,  A  ìiistory  of  magic, 
a.  experim.  science,  voi.  IV,  New  York,  1941,  p.  39,  chiama  «  very 
fulsome  »  (e  non  so  proprio  perché,  sebbene  «  fulsome  »  voglia  dire 
tante  cose  !),  non  è  stato  pubblicato  da  Michele  Medici,  come  afferma 
il  Thorndike,  ma  da  L.  Miinster,  l.  e,  pp.  55-56,  con  alcuni  gravi  errori, 
come  vedremo  subito. 

i°i  II  Miinster  traduce;  «i  quali  come  da  Phoebo(!)  ricevevano  dallo 
splendore......  Ma  Phoebe,  non  è  Febo,  sibbene  sua  sorella  Feba   (cfr. 

Dante,  Mon.,  I,  XI,  5)  o  Diana,  cioè  la  luna  !  Di  questo  elogio  ho  dato 
la  traduzione  nel  settimanale  romano  di  cultura  Idea,  V,  n.  36,  del  6 
sett.   1953. 

102  II  Miinster  traduce:  «o  tutt'al  pivi  per  la  malaugurata  battaglia». 

l'^S  Mi  parrebbe  una  reminiscenza  virgiliana,  BiicoL,  V,  64:  «Deus, 
deus  ille,  Menalca  ». 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  265 

Plato,  quasi  Galenus  in  medicina  ?  Ita  denique  in  omni  scientiarum 
genere  valuit,  ut  esset  ex  consensu  eruditorum  omnium  extra 
omnem  ingenii  aleam  positusio4.  Fuit  enim  in  ipso  mira  vigilantia, 
mira  solertia,  mirum  exercitium.  jNam  die  noctuque  studebat, 
legebat,  disputabat  dicebatque,  et  equidem  omnia  docte  copiose 
subtiliterque,  quasi  natura  i°5  loqueretur.  Ereptus  est  autem  agens 
annum    xxxxxi  106 

Heu,  fortuna  invida,  atrox,  inconstans,  indignorum  fautrix. 
Heu,  mors  crudelis,  non  potuisti  huic  uni  indulgere,  qui,  si  vixisset, 
archana  dei  mortalibus  declarasset,  novissetque  homines  in  vitam 
revocare  ? 

Celebratum  est  autem  eius  funus  tertio  nonas  augusti  maximo 
doctorum  scolarium  ceterorumque  comitatu.  Astabant  circa  ca- 
daver  mulieres  maestae.  Astabant  affines,  Egregiorumque  docto- 
rum nostra  collegia.  Discipuli  ceterique,  qui  tanquam  splendidis- 
simum  probitatis  speculum  litterarumque  patrem  flebant,  pul- 
lati  107  omnes.  Denique  tota  huius  civitatis  facies  tristem  sese  prae- 
ferebat,  quae  semper  gaudebit  talem  virum  habuisse,  dolebitque 
sibi  fuisse  abreptum,   donec  funditus  delebitur. 

Constitutum  sibi  fuit  sepulcrum  in  aede  divi  Martini  bono- 
niensis,  ubi  decantata  fuere  officia  prò  eo.  Cuius  anima  requiescat 
in   pace.   Amen. 

Il  solenne  corteo  funebre,  partendo  dalla  casa  degli  Achil- 
lini,  sita  all'angolo  di  via  degli  Usberti  con  via  de'  Parisi  o 
di  S.  Colombano  (verosimilmente  l'odierno  numero  16;  cfr. 
G.  N.  Pasquali  Alidosi,  Nomi  delle  strade  vie  borghi  et  vicoli 
che  sono  nella  città  di  Bologna.  Bologna,  1624,  pp.  30-31.  Via 
de'  Parisi  doveva  chiamarsi  anche  «  via  delli  Achillini  »,  come 
parrebbe  da  uno  strumento  notarile  del  i»  dicembre  15 18 
nell'Arch.  di  Stato  di  Boi.,  S.  Martino  Magg.  31-3513,  n.  37), 
raggiunse,  attraversando  il  borgo  Galliera,  la  chiesa  di  S. 
Martino   presso   il   chiostro   dei   Carmelitani   scalzi. 

Il  sepolcro  era  sicuramente  nella  cappella  degli  Achillini 
con  altare  dedicato  un  tempo  ai  SS.  Biagio  e  Cristoforo,  poi 
a  S.  Barbara,  e  in  questi  ultimi  tempi  di  nuovo  a  S.  Biagio. 
La  cappella  resta  ancora,  un  po'  in  dietro  all'altare  maggiore. 


104  II  Miinster  legge:  «extra  omnes  ingeniorii  (?)  aleas  positas  »;  e 
traduce:   «da  esser  posto  al  di  sopra  di  ogni  altro  ingegno». 

i°5  II  Miinster  ha  letto  :  «  quidnam  »  ;  e  perciò  traduce  :  «  di  qualsiasi 
cosa  parlasse  ». 

i"6  Questa  cifra  è  corretta  su  rasura  da  qualcuno  che  riteneva  l'Achil- 
lini  nato  nel  1461. 

i"7  II  Miinster  ha  letto  «pulsati»,  e  ha  tradotto  «commossi»,  anzi 
che  «  vestiti  a  lutto  ».  Di  altre  inesattezze  di  traduzione  non  tengo  conto. 


266        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

fra  il  coro  e  la  sagrestia.  In  questa  tomba  di  famiglia  nel  1640 
fu  sepolto  anche  il  pronipote  Claudio  Achillini  di  manzoniana 
memoria  e  ai  suoi  tempi  celeberrimo.  Ma  poi  la  cappella  fu 
venduta  e  passò  ad  altri  proprietari.  Di  tutto  questo  ha  la- 
sciato sicura  memoria  lo  scrittore  carmelitano  Pellegrino  An- 
tonio Orlandi  nei  Monumenta  di  S.  Martino  Maggiore,  del 
1723,  che  si  conservano  mss.  nella  Bibl.  Comunale  dell'Archi- 
ginnasio (Ms.  B.  964,  pp.  116  e  121;  Ms.  B.  996,  pp.  109  e  114). 
Nei  due  esemplari  v'  è  alla  fine  la  mappa  della  chiesa  con  numeri 
che  rimandano  a  didascalie  in  margine.  Il  n.  13  indica  con 
esattezza  l'ubicazione  della  piccola  cappella  e  permette  di  ri- 
trovarla. 

Ma  nessuna  traccia  v'  è  oggi  di  tombe  o  d' iscrizioni  sepol- 
crali che  le  ricordino.  Né  tanto  meno  v'  è  traccia  dell'epi- 
taffìo  riferito  da  alcuni  storici,  i  quali  intorno  ad  esso  han 
fatto  non  poca  esilarante  retorica.  Dà  la  stura  Ernesto  Renan  ^°^. 
Parendogli  che  l' Achillini  non  rivelasse  nei  suoi  scritti  quella 
libertà  di  pensiero  che  altri  averroisti  avevano  ostentato, 
«  il  se  mentre  beaucoup  plus  libre  —  dice  il  Renan,  —  dans 
sa  hautaine  épitaphe  à  San  Martino  Maggiore  de  Bologne»: 

Hospes,  Achillinum  tumulo  qui  quaeris  in  isto, 

falleris:  ille  suo  iunctus  Aristoteli, 
Elysium  colit,  et  quas  rerum  hic  discere  causas 

vix  potuit,  plenis  nunc  videt  ille  oculis. 
Tu  modo,  per  campos  dum  nobilis  umbra  beatos 

errat,  die  longum  perpetuumque  vale. 

Nel  qual  giudizio  sembra  convenire  anche  Francesco  Fio- 
rentino 109.  Il  Miinster  si  contenta  d' informarci  che  le  parole 
di  codesto  epitaffio  scolpito  sulla  tomba  in  S.  Martino,  erano 
state  dettate  dall' Achillini  "».  Invece  il  Garin  i"  eil  Calcaterra"^ 
ripigliano  il  concetto  della  «  hautaine  épitaphe  ».  «  Nell'epi- 
taffio che  dettò  per  la  sua  tomba  nella  Chiesa  di  San  Martino 
Maggiore....  suona  ardita  la  sua  fede  nell'aristotelismo,  che 
era  fede  nella  scienza,  nella  indagine  chiara  e  senza  legame 


i°8  Averroès  et  l'Averroisme,   3me  ed.,   Paris,    1866,   p.   362. 
109  P.  Pomponazzi,   Firenze,    1868,  p.   262. 
^1°  L.  e,  p.  22. 

I"  La  filosofia  (nella  Storia  dei  Gen.  Letter.  del  Dott.  Francesco  Va 
lardi),  voi.  II,  Milano,   1947,  pp.  4-5. 

"2  Alma  Mater  Siudiorìim,  Bologna,    Zanichelli,    1948,    p.   163. 


APPUNTI    SU    ALKKSANEFO    ACHILLIKI  267 

alcuno  che  l' impacciasse....  Non  v'  è,  in  questi  distici,  traccia 
di  preghiera»  (Garin).  «A  questo  desiderio  di  razionahtà,  in 
lui  più  forte  della  fede,  trasmessagli  dai  padri,  è  ispirata  la 
figurazione,  con  cui,  componendosi  l'epitaffio  pel  sepolcro, 
amò  contemplarsi  di  là  dalla  morte:  Hospes,  Achillinum.... 
Anche  sulle  soglie  della  morte,  dunque,  l'Achillini  attestava 
che  l'apice  della  felicità  sarebbe  stato  per  lui  poter  finalmente 
conoscere  le  ragioni  supreme  delle  cose,  che  nella  vita  aveva 
appena  intraveduto,  seguendo  le  disquisizioni  del  sommo  tra 
i  filosofi,  Aristotele»   (Calcaterra). 

Ma,  benedetta  gente,  ci  voleva  proprio  tanto  ad  «  accertare 
il  vero  »  ?  Bastava  togliere  in  mano  gli  Elogia  virorum  literis 
illustrium  di  Paolo  Giovio,  e  si  sarebbe  visto  che  quello  non 
era  un  epitaffio,  né  fu  mai  scolpito  sul  sepolcro  del  filosofo 
in  S.  Martino,  e  tanto  meno  fu  dettato  dall'Achillini  stesso. 
Si  tratta  invece  di  un  epigramma  bene  indovinato,  il  nome 
del  cui  autore.  Giano  Vitale,  è  fatto  dal  Giovio,  e  lo  si  ritrova 
fra  i  carmi  latini  di  quel  poeta  nelle  Delitiae  CC.  Italorum 
Poetarum  di  Ranuccio  Ghero,  o  meglio  di  Giano  Gruferò, 
Pars  altera,   1608,  p.   1439  "3. 

Un  altro  epigramma  sulla  tomba  dell' Achillini  scrisse  anche, 
prima  del  1525,  quel  poetastro  di  mestiere  che  fu  il  Cavalier 
Casio  "4: 

Del  giovene  Alessandro  Achillino, 
altro  Aristotel,  l'ossa  son  coperte, 
ma  l'opre  stan  tra  Philosophi  aperte. 
Felsineo  fu,  anci  pur  fu  divino. 

I  biografi  antichi  dell'Achihini  riportano  anche  un  altro 
epigramma,  quasi  sonasse  elogio  del  filosofo,  senza  accorgersi 
che  vorrebbe  annientarlo.  Ne  è  autore  quel  frate  umanista, 
non  privo  di  spirito,  che  fu  canonico  regolare  di  S.  Agostino 
e  si  firmava  Joannes  Latomus  Berganus,  cioè  lohan  Steenhawer 


"3  Intorno  a  Giano  Vitale,  cfr.  G.  Tumminello,  G.  V.  umanista  del 
sec.  XVI,  in  «  Arch.  Stor.  Sicil.  »,  N.  S.,  Vili,  1883.  A  Bologna  il  Vitale 
fu  sicuramente  dal  1552  forse  fino  alla  morte,  prima  del  1560,  insieme 
al  prolegato  Girolamo  Sauli,  vescovo  di  Genova.  L'epigramma  dovette 
essergli  ispirato  da  una  visita  aUa  tomba  del  filosofo  averroista  in  S. 
Martino. 

"4  Libro  intitulato  Cronica,  ove  si  tratta  di  Epitaphii,  d'Amore  e  di 
Virtute,  composto  per  il  Magnifico  Hieronimo  Casio  de  Medici,  Cava- 
liero  Laureato  et  del  Felsineo  Studio  Reformatore.  M.D.XXV,  f.  34V. 


268        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

di  Berg-op-Zoom,  ov'era  nato  nel  1522  o  1524.  Per  l'edizione 
dell'opera  del  Giovio  fatta  a  Basilea  nel  1577,  egli  scrisse 
tanti  epigrammi  quanti  sono  i  medaglioni  delineati  dallo  sto- 
rico di  Como.  Quello  concernente  Alessandro  Achillini  suona 
così: 

Quisquis  Averroem  censes  habere  cerebrum 
falleris;  haud  est  me  passus  habere  nieum. 

Regula  non  fallit:  propter  quod  quodlibet  unum, 
taliter  atìectum  est,   sed   magis  illud  erat. 

Se  Averroè  avesse  avuto  cervello,  non  avrebbe  impedito 
che  io  avessi  il  mio.  La  regola  non  falla,  ed  è  regola  aristotelico- 
averroistica :  «propter  quod  unumquodque,  et  illud  magis»! 
E  difatti  l'Achillini  non  ebbe  altra  ambizione  che  quella  di 
dimostrare  che  Averroè  aveva  ben  compreso  Aristotele,  non 
quella  di  risolvere  col  proprio  cervello  i  problemi  che  intorno 
alla  realtà  s'era  posto  il  filosofo  di  Stagira. 


8.  -  Un  uomo  come  l'Achillini,  morto  nel  pieno  vigore  della 
sua  attività  di  filosofo  e  di  teorico  della  medicina,  è  ben  na- 
turale che  dovesse  lasciare  molte  opere  abbozzate  o  appena 
delineate,  schemi  di  lezioni,  appunti,  eccetera.  Dov'  è  andato 
a  finire  tutto  questo  ?  L'Alidosi,  che  nelle  sue  affermazioni 
in  generale  è  assai  bene  informato,  accenna  ad  «  altre  sue  opere 
manoscritte  come:  Expositio  de  substantia  orbis,  De  mixtis, 
Tractatus  super  diiodecim  (sic,  verosimilmente:  duodecimum) 
Metaphysicae,  Rethonca  Aristotelis  per  eum  correcta.  Et  un 
trattato  dell'anima,  scritto  di  sua  mano,  eh' è  di  carte  114» "5. 
Il  Mùnster  segnala  l'esistenza  nell'  Universitaria  di  Bologna 
di  cinque  «  opuscoli  »  manoscritti  di  Alessandro  Achillini, 
«forse  autografi,  ma  certamente  dell'epoca»"''.  Questi  scritti 
erano  già  stati  segnalati  da  L.  Frati,  ed  io  ho  voluto  vederli. 
Si  tratta  di  cinque  quadernetti  riuniti  in  volume,  ciascuno 
con  copertina  propria,  con  propria  numerazione,  e  con  un 
titolo  sulla  copertina  di  ciascuno,  scritto  da  una  stessa  mano, 
diversa  da  quella  che  ha  scritto  il  contenuto  di  ognuno.   Il 


"•^  G.   N.   Pasquali   Alidosi,  /  dottori  bolognesi,   cit.,   pp.   8-9;  cfr. 
P.  A.  Orlandi,  Notizie  degli  scrittori  bolognesi....  Bologna,  1714,  p.  43. 
"6  L.  e,  p.   72;  cfr.  L.   Frati,   op.  cit.,  p.    no. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  26g 

primo  di  questi  fascicoli  porta  questo  titolo  sulla  copertina: 
Expositio  Alexandri  Achilini  super  prima  41  Avicene  piilchra; 
e  nel  retto  della  prima  carta:  y^  septemhris  ijog.  Prima  4Ì. 
Sono  brevi  appunti  con  schemi  di  qitaestiones,  che  dovevano 
servire  all'Achillini  ritornato  da  Padova  per  un  corso  di  le- 
zioni sulla  prima  fen  del  quarto  libro  del  Canon  di  Avicenna. 
Ma  questi  appunti  non  vanno  oltre  la  metà  del  fol.  5r.  Seguono 
altri  cinque  fogli  bianchi.  Per  il  contenuto  niente  di  notevole 
che  distingua  il  pensiero  dell'autore  da  quello  delle  scuole  di 
medicina  del  suo  tempo.  Può  darsi  che  questi  appunti  siano 
autografi.  —  Il  secondo  fascicoletto  porta  questa  iscrizione 
sulla  copertina:  Tahìtla  Alexandri  Achilini  in  medicina.  Nel- 
r  interno  il  nome  dell'Achillini  non  è  fatto.  Si  tratta  dell'enun- 
ciato di  una  serie  di  quaestiones  riguardanti  alcuni  testi  usati 
nell'insegnamento  della  medicina  teorica:  In  afforismonim 
prima  pariicula  (in  tutto  40  quaestiones)  ;  in  2^  particula 
(43  qq.)  ;  in  3^  particula  (15  qq.)  ;  iìi  4^  partictda  (20  qq.)  ; 
in  6^  particida  (i  sola  q.).  Seguono  poi  48  qq.  sulla  prima  jen 
del  primo  libro  del  Canon  di  Avicenna;  19  qq.  sulla  prima  parte 
della  Tedine  di  Galeno;  60  sulla  2^  parte;  12  sulla  3^;  indi 
ancora  13  qq.  sulla  prima  jen  del  quarto  libro  del  Canon. 
La  scrittura  è  un  po'  più  larga  di  quella  del  primo  fascicolo, 
ma  non  molto  dissimile.  —  Il  30  quadernetto  di  6  fogli,  di  cui 
l'ultimo  è  bianco,  ha  questo  titolo  sulla  copertina:  Qnoddam 
consilium  in  medicina  Alexandri  Achilini  pidchrtim,  ma  nel- 
r  interno  il  nome  dell'Achillini  manca,  e  il  titolo  suona  così: 
Qnoddam  consilium  de  regimine  itinerancium.  Esaminando  la 
scrittura,  mi  sembra  sicuramente  del  sec.  XIV;  tanto  poco 
quel  consilium  è  autografo.  Del  che  s'  è  accorto  anche  il  Miinster. 
—  Il  40  fascicolo  porta  in  copertina  e  all'  interno  questo  ti- 
tolo: Auctoritates  Galeni  collecte  per  Al.  A  eh.,  ed  ha  questa 
annotazione  in  principio:  «Liber  de  questionibus  (o  meglio  de 
complexionibus)  antecedit  hunc  librum».  In  queste  venti  pagi- 
ne, quasi  certamente  autografe,  il  maestro  bolognese  ha  sunteg- 
giato i  primi  cinque  libri  dell'opera  di  Galeno,  De  simpl.  me- 
dicamentorum  temperamentis,  che,  com'  è  noto,  ne  ha  11.  — 
Il  5°  e  ultimo  quadernetto  porta  sulla  copertina  questo  ti- 
tolo: Multa  ex  Entishari  Sophisla.  L'esame  del  contenuto, 
invece,  ci  attesta  trattarsi  di  annotazioni  a  questioncelle 
in  margine  all' Expositio  di  Paolo  Veneto  in  lihros  Posterio- 
rum  Analyticorum .  In  complesso  questi  manoscritti  bolognesi 


270        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

niente  ci  offrono  di  notevole  per  una  migliore  conoscenza  del 
pensiero   dell'Achillini, 

Lynn  Thorndike"7,  alla  sua  volta,  ci  dà  i  titoli  di  altri  scritti 
inediti  del  bolognese,  contenuti  nel  codice  dell'Ambrosiana 
di  Milano,  segnato  A.  236  inf.,  cioè:  i.  Alcuni  trattatelli  di 
logica,  l'ultimo  dei  quali  Aggregator  [o  meglio  Agregatum] 
piurium  in  logica  Alex.  Achillini;  2.  Nonnulla  circa  prohe- 
miuni  Aristotelis  et  Averrois  in  libris  Physicomm;  3.  Non- 
millae  qtiaestiones  in  philosophia  naturali;  4.  Utrum  ossa 
nutriantur  medulla;  5.  Utrum  hyle  sit  generabile  et  corruptibile  ; 
6.  Utrum  proiectum  moveatur  a  proiiciente  post  separationem 
ab  eo;  7.  Utrum  dementa  sini  materia  prima;  8.  Expositio 
dictorum  Averrois  in  libris  Physicorum;  g.  De  intensione  et 
remissione  formarum. 

Tuttavia  questi  titoli  non  bastano  a  darci  un'  idea  esatta 
della  composizione  del  volume  ambrosiano.  Il  quale  è  for- 
mato da  fascicoli  distaccati  di  manoscritti  diversi.  Comincia 
con  2  quinterni  (C,  D)  e  un  quaderno  (E).  Seguono  alcuni 
duerni  (A,  B,  Bb,  C....)  e  il  duerno  A  porta  la  numerazoine 
f.  io5r....  fino  al  f.  I48r-v.  Col  fol.  149  comincia  la  numerazione 
moderna  a  matita,  di  fogli  evidentemente  d'altra  provenienza. 
Nel  complesso  il  ms.  ambrosiano,  in  questa  prima  parte, 
cioè  sino  al  f.  178,  contiene  quaestiones  di  logica,  su  Porfirio, 
sulle  Categorie,  sul  Perihermeneias;  poi  di  nuovo  (ff.  113V-150V) 
riassunti  della  Isagoge  porfiriana  e  di  parti  delle  Sunimulae 
di  Pietro  Ispano;  indi  (f.  I54r-v)  frammenti  di  dottrine 
calcolatorie  ;  seguono  alcune  pagine  sulla  dimostrazione  e 
sulle  conseguenze  e  VAggregatum  piurium  in  logica  alexandri 
Achilini  (ff.  I55r-i78).  Si  tratta  di  lezioni  e  di  appunti  per 
lezioni,  in  gran  parte  di  mano  dell'Achillini,  con  correzioni  e 
note  marginali,  appartenenti  sicuramente  al  periodo  in  cui 
r Achillini  insegnava  logica  (1484-1487),  Invece  tutto  il  ri- 
manente del  codice  contiene  frammenti  e  note  di  lezioni  sulla 
filosofia  naturale.  Al  f.  I95r,  in  alto  a  destra,  v'  è  questa  anno- 
tazione: "  1495,  Julij  30  ».  La  quaestio  «  Utrum  ossa  nutriantur 
medulla»  (f.  20or-204r),  di  mano  diversa,  non  sembra  dell'Achil- 
lini. Al  f.  205r,  sotto  il  titolo  «Si  anima  sit  unita»  o  piuttosto 
«unica»,  v'è  un  elenco  importantissimo,  che  pare  autografo,  di 


J'7  L.   e,   p.    49,    n.    2Ì 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  27I 

quaestiones  riguardanti  l'unione  dell'anima  intellettiva  al  corpo 
umano.  Al  f.  22 ir  e  222r,  due  brevi  frammenti  di  un  commento 
al  De  anima  del  1507.  Gran  parte  anche  di  questi  frammenti 
sulla  filosofìa  naturale  sembra  autografa,  ma  neppur  essi 
recano  alcuna  luce  per  una  migliore  conoscenza  del  pensiero 
del  bolognese. 

Inedito,  come  abbiamo  visto,  era  rimasto  anche  il  De  pro- 
portione  motuum,  pubblicato  postumo  dal  fratello  Filoteo. 
E  le  famose  opere  anatomiche  di  cui  tanto  si  parla  da  parte 
degli  storici  della  medicina  ?  Secondo  Pietro  Capparoni  "^^ 
queste  opere  sarebbero  tre:  i.  De  humani  corporis  anatomia. 
Venetiis  1516  in  foL;  Bononiae,  per  Hieronymum  de  Bene- 
dictis  1520  in  4°;  Venetiis,  apud  loh.  Ant.  et  Fr.  de  Sabio  1521; 
2.  In  Mundini  anatomiam  adnotationes  cimi  praefat.  seu  de- 
dicai. Io.  Philothei  Achillini;  extat  in  Fasciculus  medicinae  Io. 
de  Ketam.  Venetiis,  typis  Caes.  Arrivabeni  1522  in  fot.,  a 
carte  47;  Bononiae,  typis  Hier.  de  Benedictis  1524;  3.  Anno- 
tationes  anaiomicae.  Bonon.,  Hier.  de  Benedictis  1520.  Dal 
Capparoni  dipende  probabilmente  il  Biographisches  Lexicon 
der  hervorrag.  Aertzte  dello  Kirsch  (I,  pp.  16-17),  che  cita  per 
altro  il  Mazzuchelli  e  il  Fantuzzi.  Ma  il  Mazzuchelli  aveva 
parlato  di  due,  e  non  di  tre  opere,  e  contro  il  parere  del  Mangeti 
e  del  Mercklin  s'era  detto  convinto  che  anche  queste  due  in 
realtà  non  fossero  che  una  sola "9.  Il  Fantuzzi '-0  poi  non  fa  che 
ripetere  il  Mazzuchelli;  e  né  l'uno  né  l'altro  fanno  motto  del- 
l'edizione di  Venezia  del  15 16  in  jol.  Il  dubbio  del  resto  fu 
chiarito  in  una  dotta  memoria  letta  all'Accademia  delle  Scienze 
di  Bologna  il  7  maggio  1844  da  Francesco  Mondini  e  pubbli- 
cata postuma  neir  8°  volume  dei  Novi  Commentarii  dell'Acca- 
demia (Bologna,  1846,  pp.  488-489).  Di  questa  memoria 
trasse  profìtto  Michele  Medici,  Compendio  storico  della  scuola 
anatomica  di  Bologna  (Bologna,  1857,  P-  5^)>  P^^  ribadire  la 
scoperta  del  Mondini,  che  le  altre  pretese  opere  anatomiche 
non  erano  che  una  sola,  pubblicata  con  titoli  diversi  nelle 
varie  edizioni,  e  per  correggere  l'errore  accolto  anche  dal 
De  Renzi,  pur  così  informato.  Tuttavia,  io  non  ho  voluto 
prestar  fede  neanche  al  Mondini  e  al  Medici,  e  ho  voluto  rer.- 


"8  L.  e,  p.  13. 

"9  Mazzuchelli,  Gli  scrittori  d'Italia,  t.  I,  p.   102. 

'2*'  G.   Fantuzzi,  op.  cii.,  pp.  54-55. 


272         L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

dermi  conto  de  visti  della  curiosa  vicenda  i-'.  Ho  potuto  così 
constatare  che  la  prima  edizione  è  quella  che  vide  la  luce  a 
Bologna  il  24  sett.  1520,  a  cura  di  Giovanni  Filoteo  Achillini, 
col  titolo  di  Anotomicae  annotationes ,  nella  stamperia  di  Ge- 
ronimo de'  Benedetti,  con  dedica  a  Panfilo  Monti,  che  di 
maestro  Alessandro  era  stato  alunno,  ed  ora  teneva  la  cat- 
tedra ordinaria  di  medicina  teorica,  «  Bononiensis  Gymnasii 
splendor  immortalis  »,  nientemeno  !  Questa  dedica  porta  la 
data  del  12  settembre  dello  stesso  anno,  ed  ha  nel  frontispizio 
la  ben  nota  xilografia,  sormontata  dal  nome  «  Magnus  Alexander 
Achillinus  »  ;  sotto  il  ritratto  di  lui,  tre  distici  di  Annibale 
Camillo  da  Correggio,  «  Artium  et  Medicine  discipulus  ».  La 
dedica  parrebbe  escludere  che  vi  fossero  edizioni  anteriori. 
La  stessa  opera,  col  titolo  De  humanis  corporis  anatomia, 
uscì  a  Venezia  nel  1521,  per  Io.  Ant.,  et  fratres  de  Sabio, 
con  la  stessa  dedica  di  Giovanni  Filoteo  a  Panfilo  Monti. 
Terza  stampa  della  stessa  opera  è  quella  che  apparve  nel 
FascicuUts  medicinae  di  Giovanni  de  Ketam,  ediz.  veneziana 
«  per  Caesarem  Arrivabenum  »,  del  1522.  In  questa  edizione 
l'opera  dell' Achilhni  forma  il  trattato  X  della  raccolta,  subito 
dopo  V Anatomia  del  Mondino,  e  porta  questo  titolo:  Anno- 
tationes anathomie  Alex.  Achil.  honon.;  ed  anch'essa  ha  la  de- 
dica del  1520  a  P.  Monti.  Dell'edizione  di  Venezia,  1516, 
in  fol.  secondo  il  Capparoni,  in  4°  secondo  lo  Hirsch,  nessuna 
traccia,  sebbene  altri  la  ricordino  per  sentita  dire.  Delle  edi- 
zioni posteriori  a  quella  del  1522  non  mi  sono  occupato.  Il 
colmo  in  questo  pasticcio  pseudo  erudito  è  raggiunto  dal 
Miinster  ^^z^  il  quale,  dopo  aver  parlato  della  prima  e  della 
seconda  opera  secondo  l'ordine  del  Capparoni  e  dello  Hirsch, 
aggiunge  di  suo  che  le  Annotai,  anatomicae  del  1520  pare  non 
siano  un  nuovo  trattato,  bensì  l'unione  delle  due  precedenti!  '23. 


I-'  Esempio  tipico  non  so  se  di  disinvoltura  o  d' improntitudine  let- 
teraria, da  parte  di  troppi  scrittori,  avvezzi  a  copiacchiare  come  scola- 
retti e  a  spacciare  per  certo  quello  che  hanno  appreso  soltanto  per 
sentito  dire. 

^^^  L.  e,  p.   72. 

1^3  Curioso  è  il  caso  di  A.  Pazzini.  Nello  studio  già  segnalato,  che  è 
del  1933,  sebbene  parli  di  «scritti  anatomici»  (p.  298),  egU  con  questa 
espressione  parrebbe  tuttavia  intendere  le  sole  Adnotationes  anato- 
micae che  nel  Fascicuhis  medicinae  del  Ketam  sarebbero  state  pubbli- 
cate, dice  lui,  col  titolo  in  Mundini  Anatomiam  adnotationes.  Invece 
nella  Storia  della  medicina,  voi.  I,  Soc.  Editr.  Libr.,  Milano,  1947,  p.  614, 


J 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  273 

Queste  Anotomicae  annotationes  che  il  maestro  bolognese 
aveva  lasciato  tra  le  sue  carte,  non  costituiscono  propria- 
mente un'opera  di  anatomia  umana  da  dare  alle  stampe,  ma 
lo  schema  forse  d'un'opera  che  egli  andava  preparando  e  per 
la  quale  raccoglieva  osservazioni  che  gli  era  accaduto  di  fare 
nel  corso  di  diverse  dissezioni  anatomiche  predisposte  da  lui 
stesso  o  insieme  ad  altri  colleghi.  Queste  dissezioni  avevano 
lo  scopo  di  riconoscere  nell'organismo  umano  quello  che 
si  legge  in  Galeno  o  in  Avicenna,  nel  Mondino  o  in  Ugo  da 
Siena.  Nel  corso  di  queste  ricognizioni  accade  talora  all'Achil- 
lini  di  notare  errori  commessi  dagli  anatomisti  precedenti, 
e  discordanze  fra  quello  che  leggeva  negli  scritti  di  costoro 
e  quello  che  gli  rivelava  l'esperienza.  Spesso  egli  ha  cura  di 
descriverci  il  procedimento  col  quale  egli  conduceva  la  dis- 
sezione, e  di  suggerire  il  modo  più  adatto  per  mettere  a  nudo, 
senza  lederlo,  quell'organo  o  tessuto  che  si  ha  in  animo  di 
studiare.  L'opera,  come  dicevo,  è  semphcemente  abbozzata; 
ma  anche  in  questo  stato,  essa  costituisce  un  notevole  docu- 
mento di  quello  che  s'andava  maturando  nelle  scuole  di  chi- 
rurgia. Mentre  le  rumorose  dispute  intorno  al  modo  d' in- 
tendere i  testi  classici  dell'anatomia  recavano  assai  scarsa 
luce  per  una  esatta  rappresentazione  della  struttura  dell'or- 
ganismo umano,  gì'  impetuosi  torrenti  di  parole  s'arrestavano, 
le  ire  si  placavano,  quando  gli  occhi  dell'anatomista  e  di  coloro 
che  gli  facevan  corona  nell'anfiteatro,  si  fissavano  su  quello 
che  il  coltello  metteva  a  nudo,  e  la  luce  dell'esperienza  rive- 
lava qualcosa  di  nuovo  e  d' insospettato.  Il  che  del  resto 
avvenne,  nel  secolo  XVI,  non  solo  nel  campo  dell'anatomia, 
ma  in  tutte  le  ricerche  concernenti  la  natura,  e  non  per  in- 
flusso dell'umanesimo  e  del  platonismo,  ma  per  un  processo 
di  critica  interna,  quasi  direi  di  autocombustione,  in  seno 
alle  scuole  aristoteliche.  Galileo  stesso  vien  dall'aristotelismo 
in  via  di  dissoluzione.  Il  Rinascimento  è  frutto  dell'approfon- 
dirsi e  dell'estendersi  dell'esperienza  in  tutti  i  campi  del  sa- 
pere   naturale. 

Com'  è  noto,  Panfilo  Monti  nel  1545,  mentr'era  professore 


vedo  che  è  ritornato  all'errore  del  Capparoni  e  dello  Hirsch.  Se  avesse 
dato  un'occhiata  alla  memoria  del  Mondini  e  all'opera  di  M.  Medici, 
oltre  alla  correzione  di  questo  errore,  vi  avrebbe  trovato  forse  qualcosa 
che  poteva  giovargli  anche  per  l'argomento  da  lui  trattato,  riguar- 
dante la  scoperta  della   membrana  timpanica. 

18 


274        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

a  Padova,  raccolse  in  un  volume  gli  Opera  omnia  dell' Achil- 
lini,  cioè  tutte  le  opere  che  il  maestro  bolognese  stesso  aveva 
dato  alle  stampe,  più  il  De  proportione  motuuni;  e  il  volume, 
edito  da  Geronimo  Scoto  a  Venezia,  fu  dedicato  al  patrizio 
veneziano  e  chiarissimo  filosofo  Sebastiano  Foscarini.  Perché 
ne  lasciò  fuori  le  Anotomicae  a?inotationes  ?  Non  certo  perché 
egli  non  le  ritenesse  autentiche;  ma  verosimilmente  perché  gh 
parvero,  come  sono,  opera  frammentaria,  piii  schema  e  ma- 
teria di  opera  che  opera  completamente  delineata;  o  forse 
anche  perché  quelle  note  gli  parvero  ormai  sorpassate  e  di 
scarso  valore,  dati  i  rapidi  progressi  che  l'anatomia  in  quegli 
anni  andava  facendo. 

Sì  che  agli  occhi  dell'alunno  editore  l'opera  dell' Achilhni 
degna  d'essere  presa  ancora  in  considerazione  e  tramandata 
e  meditata  era  opera  di  filosofo.  E  questa  sola  egli  intese  tra- 
mandarci con  l'edizione  da  lui  curata  1-4.  Con  le  Annoiationes 
il  Monti  trascurò  altresì  gì'  inediti  che  non  dovevano  mancare 
sia  tra  le  carte  del  maestro,  o  dispersi  in  riportazioni  di  scolari. 

9.  -  Se  ora  ci  chiediamo  quale  è  stato  il  giudizio  complessivo 
degli  storici  sull'opera  globale  dell'Achillini,  dobbiamo  con- 
statare, anzitutto,  che  troppi  son  coloro  che  ne  hanno  parlato 
per  sentito  dire.  E  questo  tanto  tra  gh  storici  della  filosofia 
quanto  tra  quelli  della  medicina.  Di  costoro  evidentemente 
non  è  da  tener  conto.  Come  non  è  da  tener  conto  di  giudizi 
come  quello  del  Munster  '^s,  il  quale  da  ciò  che  dell'Achilhni 
narra  a  modo  suo  il  Giovio,  è  indotto  a  rappresentarcelo 
come  «  schizzoide  >>  ! 

Il  primo  che  ha  parlato  dell'averroista  bolognese  dopo 
averne  scorse  le  opere,  se  non  tutte,  almeno  i  Qitoliheta  de 
intelligentiis,  fu,  tra  gli  storici  della  filosofia,  Francesco  Fio- 
rentino nel  suo  Pomponazzi  del  1868,  pp.  252-262.  E  a  quel 
che  ne  disse  allora  l'onesto  Fiorentino  si  rifanno  su  per  giù  gli 
storici  posteriori,  trascurando  però  taluni  giudizi  di  questo 
e  altri  esagerandone  fino  a  renderli  irriconoscibili.  Che  l'Achil- 
lini  fosse  un  averroista,  tutti  a  un  di  presso  s'accorsero;  ma 


1^4  Tuttavia  le  Anotomicae  annotationes  non  furon  mai  del  tutto  di- 
menticate e  il  nome  dell'Achillini  vien  ricordato  da  anatomisti  po- 
steriori, anche  quando  le  sue  opere  filosofiche  erano  ormai  cadute  del 
tutto  in  oblio. 

125  L.  e,  p.  59. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  275 

se  averroista  di  più  o  meno  stretta  osservanza  pareva  dubbio. 
La  tesi  che  l' intelletto  possibile,  forma  immateriale  e  incor- 
ruttibile, infima  delle  intelligenze  celesti,  è  unica  per  tutta  la 
specie  umana,  è  certamente  tesi  averroistica.  Ma  pareva  al 
Fiorentino  che  il  bolognese  si  discostasse  dallo  schietto  aver- 
roismo, perché  questo  riteneva  1'  intelletto  forma  assistente 
e  non  informante  dell'uomo,  l'Achillini  invece  ammetteva 
che  r  intelletto  umano,  pur  essendo  unico  per  tutta  la  specie, 
è  vera  forma  informante  che  dà  all'uomo  il  suo  essere  di  uomo. 
Se  non  che  lo  storico  calabrese  non  pare  s'accorgesse  che  con  que- 
sta seconda  tesi,  senza  rinnegare  la  prima,  la  dottrina  averroi- 
stica non  era  affatto  parzialmente  abbandonata,  ma  anzi 
approfondita;  e  che,  grazie  a  questo  approfondimento,  veni- 
vano a  cadere  tutte  o  gran  parte  di  quelle  obiezioni  che  si 
facevano  alla  tesi  averroistica,  di  spezzare  l'unità  del  soggetto 
umano  cui  s'attribuisce  l'atto  d' intendere.  E  già  prima,  Si- 
gieri  e  Tommaso  di  Wilton,  Paolo  Veneto  e  Giovanni  Pico, 
coetaneo  del  bolognese,  avevano  interpretato  il  pensiero 
d'Averroè  alla  stessa  maniera;  e  questo  non  per  motivi  di 
fede,  ma  per  eliminare  dalla  dottrina  aristoteUco-averroistica 
un  assurdo  evidente  sul  quale  speculavano  gli  avversari  del- 
l'averroismo; tanto  vero  che  l'anima  razionale  che  yien  detta 
informare  l'uomo,  resta  in  sé  unica  per  tutta  la  specie  umana. 
Non  è  pertanto  esatto  l'affermare  che  ogni  seguace  d'Averroè 
riteneva  l' intelletto  «  forma  assistente  »  dell'uomo  e  non 
«  forma  dans  esse  ». 

Il  Fiorentino  è  stato  colpito  anche  da  un  passo  del  De  eie- 
mentis  (II,  art.  5,  verso  la  fine),  ove  si  parla  dell'unione  del- 
l' intelletto  con  l'anima  sensitiva  dell'uomo,  come  abbiamo 
visto  più  su,  e  dove  l'Achillini  torna  ad  esporre  con  nuovi 
particolari  la  sua  dottrina  sigeriana  già  esposta  nei  Quolibeta 
de  intelligentiis.  Ad  un  certo  momento  si  domanda:  «  Quo- 
modo  stat  opinio  Aristotelis  cum  fide  ?»  —  giacché  tanto  l'inter- 
pretazione che  dà  del  pensiero  dello  Stagirita  Averroè,  quanto 
quella  che  ne  dà  Alessandro  d'Afrodisia,  secondo  la  ragion 
naturale,  discordan  dall'  insegnamento  della  fede.  E  il  nostro 
averroista  risponde:  Il  fatto  che  entrambe  discordin  dalla 
fede,  significa  che  tutte  e  due  son  false,  e  che  su  questo  punto, 
come  su  altri  non  pochi,  bisogna  che  noi  credenti  abbando- 
niamo il  filosofo;  ma  dovendo  scegliere  a  lume  di  ragione  tra 
quelle    due    interpretazioni,    entrambe    false,    quella    che    ha 


I 


276        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

miglior  verisimiglianza,  sceglieremo  quella  d'Averroè,  perché, 
sostenendo  questi  che  l'anima  è  forma  informante  che  dà 
all'uomo  l'essere  di  uomo,  viene  a  dire  che  l' intelletto,  nel- 
l'atto di  unirsi  all'uomo,  termina  il  processo  della  genera- 
zione umana  e  quindi  ha  in  qualche  modo  un  cominciamento 
nel  tempo,  come  appunto  insegna  la  fede. 

In  tutto  questo  non  vedo  né  incertezza  né  spossatezza  da 
parte  dell' Achillini;  né  tanto  meno  che  egli  si  senta  spinto 
«ad  accettare  l'averroismo  dopo  averlo  dichiarato  falso «'^ó. 
L'opposizione  tra  molte  tesi  difese  da  Aristotele  e  la  verità 
cristiana  era  comunemente  ammessa,  da  quando  Alberto 
Magno  aveva  proclamato  che  «  theologica  cum  Physicis  prin- 
cipiis  non  conveniunt»'-?,  e  che  al  filosofo  che  voglia  trattare 
delle  cose  naturali  secondo  i  principi  della  ragion  naturale, 
non  deve  importare  dei  miracoli  della  fede  '-8.  È  vero  che  Tom- 
maso, combattendo  l' interpretazione  averroistica  del  pen- 
siero d'Aristotele,  s'era  adoprato  ad  accordar  questo  col  pen- 
siero cristiano.  Ma  questo  concordismo  tomistico  non  era 
parso  né  di  buon  gusto  né  di  buon  augurio,  non  solo  ad  aver- 
roisti  come  Sigieri,  discepolo  in  questo  d'Alberto  Magno,  ma 
nemmeno  ad  alcuni  teologi  che  s'erano  ribellati  al  tentativo 
«  de  Aristotele  haeretico  facere  omnino  catholicum  ».  E  molti, 
non  solo  maestri  in  artibus,  ma  anche  teologi  e  commentatori 
delle  Sentenze  di  Pietro  Lombardo,  dalla  fine  del  secolo  XIII 
al  secolo  XVI,  ritennero  perfettamente  fondata  sul  testo 
aristotelico  e  legittima  l' interpretazione  averroistica,  salvo 
quando  questa  discordava  da  quella  di  altri  commentatori 
autorevolissimi,  come  Alessandro,  Filopono  od  altri  special- 
mente greci. 

Ora  ai  tempi  dell'Achillini  e  del  Pomponazzi,  a  Bologna 
come  a  Padova,  era  obbhgo  di  leggere  e  discutere  il  testo  ari- 
stotelico e  il  commento  d'Averroè.  Averroisti  si  dissero  tutti 
quelli  che,  rifiutando  il  concordismo  tomistico,  d' ispirazione 
avicenniana,  mostravano  ripugnanza  a  «  miscere  diversa 
brodia))i29,  e,  per  quello  che  concerneva  il  pensiero  aristotelico, 
s'attenevano  al  commento  averroistico.  Il  che  non  implicava 


^'^^  Fiorentino,  ib.,  p.  259. 
127  Metaphys.,  XI,  tr.  3,  e.   7. 

1-8  De  gen.   et  corr.,   I,   tr.    i,   cap.    22,   ad  t.  e.   14.  Cfr.  «Rivista   di 
Storia  d.  Filos.  »,  II,   1947,   PP-   ^97  ^gg.  V.  sopra,  p.  95. 
^29  V.   sopra,  p.   96. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  277 

affatto  che  essi  dovessero  accettare  le  dottrine  d'Aristotele 
quali  erano  esposte  da  Averroè,  come  loro  proprio  pensiero. 
Gli  averroisti  potevano  quindi  con  perfetta  coerenza  dichia- 
rare che  la  dottrina  dell'eternità  del  mondo  e  dell'unità  del- 
l' intelletto  era  dottrina  vera  e  necessaria  nel  sistema  del  pen- 
siero aristotelico;  ma  che  questa  dottrina  era  falsa  secondo 
la  fede  che  s' ispira  al  \"angelo  e  non  ai  libri  d'Aristotele. 
Il  che  è  perfettamente  vero  anche  per  noi. 

Questo  non  hanno  ancora  compreso  taluni  storici  della  filo- 
sofia. Uno  dei  quali '3",  dopo  aver  detto  che  «enger  an  dem 
averroistischen  Aristotehsmus  schloss  sich  Alex.  Achilhni  an 
(aus  Bologna,  war  Professor  der  Philosophie  u.  Medizin, 
zuerst  in  Padua  (!),  seit  1509  (!)  in  Bologna,  wo  er  um  1518  (!) 
starb)....  »,  aggiunge:  «  So  weit  Aristoteles  von  dem  christlichen 
Glaubensstandpunkt  (z.  B.  hinsichtlich  der  Schòpfung  der 
Welt)  abweicht,  ist  er  ini  Sinne  der  Kirchlichen  Lehre  zu  kor- 
rigieren  »  (la  sottolineazione  è  mia  e....  pour  cause).  Il  qual 
giudizio  vien  trasportato  di  sana  pianta  nella  massiccia  Storia 
della  filosofia  di  N.  Abbagnano  (voi.  II,  I,  U.T.E.T.,  1948, 
p.  70)  :  «  In  realtà  la  sua  preoccupazione  [dell' Achillini]  co- 
stante è  quella  di  correggere  la  dottrina  aristotelica  nel  senso 
dell'  insegnamento  ecclesiastico  »  (anche  questa  sottolineazione 
è  mia)  '31.   Ma  egli  v'aggiunge  qualcosa  di  suo,  che  aggrava 


'30  Ueberweg-Moog,  Die  Philos.  der  Neuzeit  bis  zuyn  Ende  des  X  Vili. 
Jahrh.,  Berlin,  1Q24,  p.  28.  E  già  prima  E.  Renan,  Averroès  et  l'averr., 
3*  ed.,  Parigi,  1S66,  p.  361:  "  Tout  en  reconnaissant  que  sur  ces  deux 
points  (l'unite  des  àmes  et  1'  immortalité  collective)  la  doctrine  d' Aver- 
roès est  conforme  à  Aristote,  Achillini  rejette  expressement  ces  théories 
comme  opposées  à  la  foi  ».  E  cita  H.  Ritter,  Gesch.  der  neneren  Philos., 
I  parte,  p.   383  sgg.,  citato  anche  dal  Fiorentino. 

'3'  La  stretta  aderenza  dell'Abbagnano  al  Moog  appare  anche  da 
quel  che  l'uno  e  l'altro  dicono  dello  Zimara.  Scrive  il  secondo:  «  Noch 
strenger  hielt  am  Averroismus  fort  M.  Ant.  Zimara  (aus  Neapel.... 
gestorb.  1532)....  In  ihnen  (Schriften)  suchte  auch  er  den  Averroismus 
mit  Kirche  zu  vereinen.  Die  Einheit  des  menschlichen  Intellektes  wird 
von  ihm  als  Einheit  der  allgemeinen  Erkenntnisprinzipien  gedeutet  ». 
E  l'Abbagnano:  «e  lo  stesso  [di  spogliare  l'aristotelismo  e  l'averroismo 
dei  loro  caratteri  originari  in  omaggio  ad  una  preoccupazione  dogma- 
tica] accade  nelle  dottrine  del  napoletano  M.  A.  Zimara  [ma  se  era  di 
S.  Pietro  in  Galatina  presso  Otranto,  tanto  che  a  Padova  lo  chiamavano 
l'Otranto  o  l'Otrantino  !]  (morto  nel  1532),  anch'egli  professore  a  Pa- 
dova, il  quale  interpretava  l'unità  dell'  intelletto,  sostenuta  dall'aver- 
roismo, come  l'unità  dei  principii  universali  della  conoscenza  ».  Dello 
stesso  avviso  pare  sia  anche  G.  Saitta,  //  pens.  ital.  nelV  Umanesimo 
e  nel  Rinasc,  voi.  II,  Bologna,  1950,  pp.  379-80:  «  Le  sue  Contradictiones 


\ 


278        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

assai  l'errore  dell'autore  tedesco:  «L'aristotelismo  e  l'aver- 
roismo sono  stati  qui  spogliati  dei  loro  caratteri  originari, 
in  omaggio  ad  una  preoccupazione  dogmatica  ».  Preoccupazione 
che  l'Achillini,  al  pari  degli  altri  averroisti,  non  mostra  mai 
d'avere,  anche  quando,  constatata  l'opposizione  fra  Aristotele 
e  il  dogma,  dice  esser  dovere  del  credente,  che  tale  voglia 
rimanere,  di  ripudiare  Aristotele,  non  di  correggerlo,  che  vor- 
rebbe dire  travisarlo.  In  questo  i  nostri  vecchi  erano  onesti 
e  coerenti. 

L'ottimo  E.  Garin  132  ricorda  la  breve  preghiera  che  si  legge 
in  principio  del  De  elementis:  «  Luminum  clarissima  lux,  qua 


ac  solutiones  ex  dictis  Aristotelis  et  Averrois  parlano  dell'unità  dell'  in- 
telletto di  tutti  gli  uomini  come  l'unità  dei  principii  universali  del 
conoscere  ».  Il  Moog  e  l'Abbagnano  non  citano  alcuna  fonte  della  loro 
affermazione.  Il  Saitta  invece  cita  le  Contradictiones  dello  Zimara, 
senza  però  indicare  un  punto  preciso.  Ma  egli  non  deve  averle  lette: 
che  lo  ritengo  troppo  intelligente,  se  le  avesse  lette,  da  lasciarsi  scap- 
pare simile  afferm_azione.  E  allora  ?  Allora  il  Moog,  l'Abbagnano  e  il 
Saitta  derivano,  direttamente  o  per  via  indiretta,  il  loro  giudizio  dal 
libro  del  Renan,  Averroès  et  l'averroisme,  ove  appunto  accade  di  leg- 
gere (ed.  cit.,  p.  375):  «L'unite  de  l' intellect  est  adoptée  dans  le  sens 
de  l'unite  des  principes  communs  de  l'esprit,  mais  ouvertement  rejetée 
en  ce  sens  qu'  il  n'y  aurait  qu'un  seul  principe  substantiel  de  la  raison 
humaine  ».  E  il  Renan  cita  le  Solutiones  contradicionum,  Averrois  Opera, 
t.  XI  dell'ediz.  di  Venezia  1560,  fol.  177V-188V  (più  semplice  e  più 
comodo  era  citare  le  stesse  Solutiones  contrad.  super  III  de  anima, 
contr.  XVI).  Se  il  Moog,  l'Abbagnano  e  il  Saitta  si  fossero  presa  la  briga 
di  andare  a  vedere  questo  luogo  dello  Zimara,  avrebbero  potuto  con- 
statare, con  non  poca  sorpresa,  che  il  Renan  quel  giorno  doveva  essere 
febbricitante  o  ubriaco  o  fortemente  distratto,  giacché  l'averroista 
otrantino  in  quel  luogo  dice  esattamente  il  contrario.  Ivi  lo  Zimara, 
che  s'era  proposto  di  conciliare  un'apparente  contradizione  fra  due 
affermazioni  d'Averroè,  riporta  un  brano  del  commento  di  Temistio 
al  De  anima,  ove  si  legge  appunto  ;  «  Unde  enim  communes  illae  animi 
conceptiones  praenotionesque  communes  omnibus  haberentur  ?  Unde 
indigentia  illa  impressaque  omnium  mentibus  primorum  notitia  con- 
stitisset,  natura  duce,  nulla  ratione,  nulla  doctrina  ?  Unde  postremo 
intelligere  mutuo  et  intelligi  vicissim  possemus,  nisi  iiniis  singularis 
intellectus  fttisset,  quem  communem  omnes  homines  haberemus  ?  ».  Pla- 
tone, osserva  lo  Zimara,  con  un  simile  ragionamento  aveva  dimostrato 
l'esistenza  deUe  idee.  Temistio  ed  Averroè  lo  usano  per  dimostrare 
l'unità  dell'intelletto;  se  no,  bisognerebbe  ammettere  che  la  scienza 
nell'alunno  si  generasse  da  quella  del  maestro  a  quel  modo  che,  secondo 
Aristotele,  il  fuoco  si  genera  dal  fuoco.  «  Hoc  autem  sequitur  secundum 
ponentes  pluralitatem  inteUectus,  ut  ipse  (Averroès)  opinatur....  ». 
Niente  di  più  si  legge  nell'opera  dello  Zimara,  il  quale  non  si  chiede 
affatto  se  questa  dottrina  s'accordi  o  meno  con  la  fede.  A  lui  basta 
chiarire  il  pensiero  d'Aristotele  e  del  suo  commentatore,  eliminando 
le  contradizioni.  V.  anche  sotto,  pp.  350-351. 
132  L.  e. 


APPUNTI    SU    ALESSANDRO    ACHILLINI  279 

omnes  aliae  veritates  illiistrantur,  me  per  umbras  materiae 
tutum  ab  errore  per  Filium  hominis  ducas  in  te  ipsum  ». 
E  l'accenno  a  una  breve  preghiera  è  anche  in  principio  del 
De  physico  aiiditu:  «Deus  illuminatio  mea  sit.  Primo  dubi- 
tatur....  ».  L'uso  di  dar  principio  ad  un'opera,  ed  anche  alla 
lezione,  nel  nome  di  Dio,  era  un  tempo  costume  di  ogni  buon 
cristiano  non  meno  che  di  ogni  fedele  maomettano.  Perciò 
non  parrà  strano  di  trovare  che  anche  il  Pomponazzi  al  suo 
corso  di  lezioni  sul  De  substantia  orhis,  cominciato  il  20  feb- 
braio 1507,  premettesse  una  «  oratiuncula  accomodata  », 
della  quale  però  il  raccoglitore  delle  lezioni  non  riporta  il 
tenore  133.  Né  si  creda  che  questo  fosse  formaHsmo  o  ipocrisia. 
Nella  maggior  parte  dei  casi,  non  vi  sono  serie  ragioni  per  du- 
bitare della  sincerità  di  chi  si  protestava  buon  cristiano, 
senza  per  questo  rinunziare  alla  sua  libertà  d' interprete  del 
pensiero  aristotelico;  libertà  che,  a  mio  avviso,  non  che  nuo- 
cere ha  giovato  molto  alla  fede,  non  costretta  violentemente 
negli  artificiosi  schemi  d'un  sistema  filosofico  ormai  in  via  di 
dissoluzione. 

E  così  maestro  Alessandro,  l'averroista  Alessandro  Achil- 
lini,  poteva  riposare  tranquillo  nella  chiesa  di  S.  Martino,  a 
Bologna,  come  tredici  anni  più  tardi  il  Peretto  mantovano 
in  quella  di  S.  Francesco  nella  sua  città  natale,  sotto  le  grandi 
ali  del  perdono  di  Dio. 


133  Cod.  Vat.  Regin.  lat.   1279,  f.  3r. 


X 

UN  ALTRO  SIGIERIANO 

DEI    PRIMI    DEL    CINQUECENTO 

GERONIMO  TAIAPIETRA  * 


Di  averroisti  della  corrente  di  Sigieri  di  Brabante  nel  Ri- 
nascimento italiano  m'era  accaduto  d' incontrare,  alcuni 
anni  addietro,  Giovanni  Pico  della  Mirandola,  Alessandro 
Achillini,  Agostino  Nifo  negli  anni  della  sua  giovinezza,  Ti- 
berio Bacilieri  e  Antonio  Bernardi  della  Mirandola '.  Ma  il  grup- 
po dei  sigieriani  doveva  essere  più  numeroso,  e  ad  esso  parreb- 
be che  avesse  aderito,  in  un  momento  del  suo  sviluppo  intel- 
lettuale, anche  il  Pomponazzi,  come  mi  propongo  di  dimo- 
strare a  suo  tempo.  Ma  fu,  da  parte  del  Peretto,  l'ultimo 
tentativo  di  salvare  l'esegesi  averroistica  d'Aristotele;  dopo  di 
che,  s'orientò  decisamente  verso  l'alessandrismo. 
Invece  un  altro  convinto  sigieriano  dei  primi  anni  del  Cin- 
quecento è  il  patrizio  veneziano  Geronimo  di  Cà  Taiapietra 
o  Taiapiera.  Costui,  figlio  del  quondam  Quintin  di  Cà  Taia- 
pietra, dopo  essere  stato  per  otto  anni  a  studiare  a  Padova, 
richiamato  in  famiglia  per  dedicarsi  alla  vita  pubblica,  come 
si  conveniva  ad  un  giovane  del  suo  rango  sociale,  s'accostò 
al  cardinale  Domenico  Grimani  del  titolo  di  S.  Marco  e  pa- 
triarca d'Aquileia,  non  che  munifico  protettore  degli  studi 
e  degli  studiosi  -,  per  averne  appoggio.  Fu  senza  dubbio  per 
suggerimento  del  Grimani  che  il  giovane  Taiapietra  si  preparò 
a  un  pubblico  cimento  per  coronare  col  dottorato  in  filosofia 
la  carriera  di  studi  intrapresa  a  Padova  e  terminata  con  la 


*  Dal  ((Giorn.  Crit.  d.   Filos.  Ital.  »,   XXXI,    1952,  pp.   306-330. 

'  Sigieri  di  Brabante  nel  pensiero  del  Rinascimento  italiano,  Roma, 
Edizioni  Italiane    1945. 

^  P.  Paschini,  Domenico  Grimani  cardinale  di  S.  Marco,  Roma, 
Edizioni  di   Storia  e   Letteratura,    1943. 


262         L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

licentia  docendi,  ossia  col  titolo  di  magister  artium.  L'occa- 
sione di  una  pubblica  disputa  s'offrì  con  la  convocazione, 
per  la  fine  della  primavera  del  1506,  del  capitolo  generale 
dell'  Ordine  dei  frati  minori,  del  quale  il  Grimani  era  cardinal 
protettore.  L'uso  di  siffatte  dispute  in  occasione  di  capitoli 
generali  dei  vari  ordini  religiosi  era  una  veneranda  usanza, 
vecchia  d'oltre  due  secoli. 

Sollecitato  dunque  dal  Grimani,  il  Taiapietra  si  recò  a  Roma 
per  dar  saggio  del  suo  sapere.  La  pubblica  discussione  ebbe 
luogo  in  una  solenne  riunione  di  dotti  tenuta  nella  residenza 
abituale  del  cardinale  a  Roma,  il  giorno  di  sabato  6  giugno 
1506  3.  L' indomani  mattina,  domenica  della  Trinità,  il  gio- 
vane dottorando  fu  presentato  a  papa  Giulio  II,  perché  si 
degnasse  conferirgli  il  titolo  di  dottore  in  ariibiis.  La  ceri- 
monia è  così  ricordata  nei  suoi  diari  da  Paride  Grassi  4,  maestro 
delle  cerimonie  del  papa.  Dopo  la  messa  cantata  del  cardi- 
nale Arboreo  e  la  creazione  da  parte  del  papa  di  un  milite 
aurato,  dice  il  Grassi: 

[f.    2i6v]    Creatio   doctoris   in   artibus   per  papani   in   capella. 

Cum  adhuc  papa  sederet,  superveneruiit  Cardinalis  de  Grimanis 
et  orator  venetus  qui  rogarunt  papam,  ut  dignaretur  quendam 
dominum  magistrum  [Hieronymum  Taiapietra]  doctorem  in 
artibus  creare,  qui,  ut  testificati  sunt,  bene  se  gessit  in  disputa- 
tionibus  cum  fratribus  ordinis  minorum  qui  venerant  ad  capitulum 
generale  etc.  Et  sic  sua  Sanctitas  absolute,  idest  sine  cerimoniis, 
ipsum  genuflexum  creavit  [f.  2i7r]  doctorem  hoc  modo,  videlicet: 
papa  ante  doctorandum  genuflexum  hec  verba  dixit,  videlicet: 
Intelleximus  a  Cardinali  de  Grimanis  et  ab  oratore  veneto  quod 
sis  in  artibus  exscellens  et  doctus,  quodque  in  disputationibus  pri- 
dianis  que  apud  edes  suas  habite  fuerunt  te  laudabiHter  exhi- 
bueris;  propterea  nos,  tam  ad  predictorum  relationem,  quam 
etiam  ad  intuitum  tue  virtutis  et  meritum,  creamus  te  doctorem 
in  artibus,  dantes  tibi  omnia  privilegia  que  alii  in  quibuscumque 
studiis  et  universitatibus  habere  consueverunt,  in  nomine  patris 
et  tìlii  et  spiritus  sancti  '. 

Quo  facto  ipse  doctor  osculato  pede  pape,  illi  gratias  agens, 
recessit.  Et  Cardinalis  de  Grimanis  et  orator  predicti  gratias 
etiam  pape  egerunt. 

Il  venerdì  successivo,  12  giugno,  la  notizia  del  fatto  era  già 
arrivata  a  Venezia,  poiché  Marin  Sanudo  "^  la  registra  sotto 


3  Fra  i  presenti  alla  disputa  era  l'Achillini.  V.  sopra,  pp.   252-53. 

4  Cod.  Vat.  lat.  4739,   f.    2i6v-2i7r. 

5  Diarii,  voi.  6,  col.  352. 


IL    SIGIERIANO    GERONIMO    TAIAPIETRA  283 

■questa  data  con  parole  che  attestano  la  fedeltà  del  cronista: 

Item,  come  a  dì....  sier  Hironinio  da  dia'  Taiapiera,  quondam 
sier  Quintino,  tene  le  conclusion  in  chaxa  dil  cardinale  Grimani. 
Et  el  cardinal  episcopo  di  Urbin  disputò  contro  una,  dicendo 
l'era  ereticha;  il  cardinale  Grimani  la  mantenne,  et  vinse;  et  così 
a  dì....   il  papa  lo  dotoroe. 

Siccome  la  notizia  giunta  da  Roma  non  indicava  il  giorno 
esatto  della  discussione  e  quello  del  conferimento  del  titolo 
dottorale,  l'onesto  Sanudo  lascia  i  due  spazi  in  bianco.  In 
compenso  ci  trasmette  due  notizie  preziose:  quella  dell'obie- 
zione che  il  cardinale  Gabriele  Gabrielli,  vescovo  di  Urbino, 
ebbe  a  fare  a  una  tesi  sostenuta  dal  Taiapietra,  perché,  a  suo 
parere,  «  l'era  ereticha  »,  e  quella  dell'  intervento  del  Gri- 
mani in  favore  del  suo  protetto. 

Del  resto,  prima  della  fine  del  mese  il  neo  dottore  era  già  di 
ritorno  a  Venezia;  poiché  negli  stessi  Diarii  di  Marin  Sanudo 
si   legge  6. 

A  dì  28  [giugno  1556].  Fo  gran  conscio.  Vene  uno  dotor  nuovo, 
vestito  de  scarlato,  si  ha  dotorato  a  Roma,  sier  Hironimo  da  cha' 
Taiapiera,  quondam  sier  Ouintin.  l'o  fato  podestà  de  Verona,  et 
niun    non   passò. 

Da  questo  momento  egli  entra  nella  carriera  amministra- 
tiva e  poUtica,  e  non  so  se  si  sia  più  occupato  di  filosofìa. 
Nei  Diarii  del  Sanudo  il  suo  nome  ricorre  spesso,  ma  sempre 
per  le  cariche  ricoperte  in  servigio  dello  stato  veneziano. 
Ciò  potrebbe  spiegare  perché  il  nome  di  Geronimo  Taiapietra 
sia  sfuggito  anche  al  diligentissimo  Luigi  Ferrari  che  l'omette 
sì  nella  prima  che  nella  seconda  edizione  del  suo  grande  Ono- 
masticon.  Né  in  fondo  avrebbe  interessato  molto  neppur  me, 
se  il  suo  nome  non  fosse  legato  a  un  suo  libro  del  quale  ritengo 
valga  la  pena  dire  qualcosa. 

Questo  libro  s' intitola:  Sunima  divinarum  ac  naturalium 
difficilium  quaestionum  Romae  in  capitiilo  generali  fratrum 
minorum  per  Hieronymum  Taiapietra,  patritium  Venetum, 
puhlice  discussarum.  E  fu  stampato  a  Venezia  «  a  domino 
Pincio  Mantuano.  Anno  Domini  M.CCCCC.VI.  die  VI  Aprilis  ». 
Il  libro  fu  pubblicato  dunque  il  6  aprile,  cioè  due  mesi  prima 

^  Ih.,  col.   260. 


2S4        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

della  discussione,  che  evidentemente  era  stata  preparata 
per  tempo  dal  cardinal  Grimani,  cui  la  Summa  è  dedicata. 
Recandosi  a  Roma,  il  Taiapietra  portava  con  sé  il  volume, 
come  programma  della  pubblica  discussione  che  doveva 
aver  luogo  il  6  giugno.  Così  aveva  fatto  Giovanni  Pico,  pubbli- 
cando nel  i486  le  novecento  Condusiones  per  la  disputa  che 
avrebbe  dovuto  tenersi  a  Roma  nel  gennaio  1487;  così  aveva 
fatto  anche  Vincenzo  Querini,  altro  patrizio  veneziano,  quando 
s'apprestava  a  discutere,  parimenti  in  Roma,  le  sue  Condu- 
siones, «  in  Ecclesia  Sanctorum  Apostolorum,  die  XXIX 
Mali  »  del  1502  7. 

L'opera,  come  dicevo,  è  dedicata  dall'autore  al  cardinale 
Domenico  Grimani.  Nella  dedica  il  Taiapietra  accenna  al 
distacco    forzato    dallo   studio    patavino: 

....  quum  mihi  mine  redeunduni  esset  ad  meos,  qui  me  in 
patriam  ex  celebratissimo  gymnasio  patavino,  in  quo  octo  iam 
perpetuis  annis  vitam  non  minus  honestam  quam  studiosam 
duxi,    centra   propriam    ferme   voluntatem    revocabant. 

A  Padova  dunque  aveva  dovuto  recarsi  al  principio  del- 
l'anno scolastico  1497-98,  quando  v'era  ancora  Agostino 
Nifo  da  Sessa.  Costui,  alunno  di  Nicoletto  Vernia,  aveva 
cominciato  a  insegnare  a  Padova  appena  ventunenne,  durante 
l'anno  accademico  1491-92,  nella  seconda  scuola  di  filosofìa 
straordinaria,  ove  professava  la  dottrina  averroistica  di  Si- 
gieri  di  Brabante.  Nel  1495  era  stato  promosso  alla  seconda 
scuola  ordinaria  come  concorrente  del  Pomponazzi,  col  quale 
debbono  essere  cominciati  fin  d'allora  i  litigi.  E  quando  nel 
1496  il  mantovano  si  dimise  dall'  insegnamento,  il  Nifo  fu 
chiamato  a  succedergli.  In  questi  anni  egli,  ambiziosissimo 
e  astuto,  mentre  si  dava  da  fare  per  schivare  l'accusa  d'eresia, 
combattendo  l'averroismo  prima  da  lui  professato  3,  per  non 


7  V.  sotto,  il  saggio  XIII,  p.   400. 

8  Nifo,  De  intellectu,  I,  tr.  2,  e.  9:  «  Longo  tempore  Averroy  va- 
cavi et,  ut  dixi,  hanc  opinionem  (di  Sigieri)  sequebar  ad  mentem  eius»; 
In  lib.  Destr.,  Ili,  dub.  2:  «  Peccatum  meum  longo  tempore».  Dalle 
indicazioni  cronologiche  fornite  dal  Nifo  stesso  in  quest'ultimo  scritto, 
Disp.  XIV,  dub.  I,  quaestio  3  in  fine,  e  dub.  3,  quaestio  5,  parrebbe 
che  ciò  vada  riferito  al  periodo  prima  del  1494.  Dalle  quali  indicazioni 
si  dovrebbe  dedurre  che  egli  fosse  nato  nel  1470,  oppure  verso  la  fine 
del  1469,  come  nelV Arbole  de  casa  Nipho  (nel  voi.  ms.  Historia  e  docu- 
menti della  famiglia   Nifo,   posseduto   da   Benedetto  Croce,   p.    212). 


IL    SIGIERIANO    GERONIMO    TAIAPIETRA  285 

inimicarsi  il  vescovo  Pietro  Barozzi,  anzi  per  procacciarsene 
la  benevolenza,  come  faceva  nello  stesso  tempo  quella  vecchia 
volpe  di  maestro  Nicoletto  9,  era  riuscito  a  circuire  molti 
giovani  delle  più  ragguardevoli  famiglie  patrizie  veneziane 
che  a  Padova  venivano  per  fare  i  loro  studi  e  procacciarsi  il 
titolo  di  «  dotor  »  tenuto  in  gran  conto  dal  governo  della  Se- 
renissima e  quasi  direi  indispensabile  per  l'accesso  a  talune 
cariche  dello  stato.  Suoi  discepoli  erano  stati  Vincenzo  Que- 
rini,  Geronimo  Bernardo  e  Antonio  Giustinian,  l'amicizia  dei 
quali  si  compiace  spesso  di  ricordare  ^°.  A  Francesco  Bra- 
gadin,  patrizio  veneto,  dice  egli  stesso  d'aver  dedicate  certe 
sue  Quaesiiones  de  anima  "  che  non  mi  risulta  fossero  mai 
stampate;  a  Lorenzo  Donato  dedica  nel  1497  l'edizione  da 
lui  curata  del  prologo  d'Averroè  alla  Fisica  '-;  a  Sebastiano 


9  V.  sopra,  i  saggi  IV,  V  e  VII. 

I''  Tutti  e  tre  son  ricordati  nei  Collectanea  s\x\De  auima,  III,  t.  e.  36, 
e  nel  commento  alla  Desimciio,  prol.  I,  dub.  8,  XIV,  dub.  3.  Da  quest'ul- 
timo luogo  si  rileva  che  tanto  Geronimo  quanto  il  padre  erano  morti 
prima  del  gennaio  1497,  quando  il  commento  alla  Destritctio  fu  stampato. 
Nel  luogo  citato  dei  Collectanea,  oltre  che  ai  tre  patrizi  veneziani  ri- 
cordati, raccomanda  il  suo  libro  anche  a  Pietro  Campesano,  medico 
e  filosofo  di  Bassano  che  in  quegli  anni  doveva  studiare  a  Padova. 
Egli  è  il  padre  del  poeta  di  Bassano  Alessandro  Campesano  (G.  B. 
Vergi,  Notizie  intorno  alla  vita  e  alle  opere  degli  scritt.  d.  città  di  Bass., 
e.  I,  Venezia,   1775,  pp.   16-17). 

"  Collect.,  prohemium:  «In  questionibus  meis  libri  de  anima  in- 
scriptis  domino  Francisco  Bragadeno  patricio  Veneto)'.  Marin  Sanuuo, 
Diarii,  II,  col.  579-580,  ricorda  una  disputa  avvenuta  in  Venezia  nel- 
l'aprile 1499  alla  presenza  del  patriarca  intorno  ad  alcune  tesi  pericolose, 
e  fra  coloro  che  intervennero  ad  essa  menziona  Giorgio  Pisani,  Marco 
Dandolo,  Marin  Zorzi,  Nicolò  Michiel,  Piero  Pasqualigo,  dottori,  Pietro 
Corner,  lacomo  Michiel,  Francesco  Bragadin  «  doctissimi  in  philo- 
sophia  ».  Nota  invece  la  mancanza  di  «  sier  Antonio  Zustinian,  dotor, 
che  leze  philosophia  ».  Su  Francesco  Bragadin,  v.  Zeno,  «  Giorn.  di 
letter.  »,   t.   V,   pp.   369,   362-364. 

12  Scrive  E.  Garin  a  propo  ito  dei  primi  scritti  del  Nifo  {Rinasci- 
tnento,  II,  1951,  p.  63):  «Innanzi  all'edizione  della  Fisica,  che  reca  la 
data  del  1495,  v' è  una  lettera  di  ringraziamento  a  Lorenzo  Donato.... 
In  uno  degli  esemplari  da  me  esaminati  la  dedica,  del  1495.  è  sul  verso 
di  una  carta  che  sul  recto  reca  una  lettera  con  cui  il  Nifo  presenta  per 
l'approvazione  il  suo  commento  alla  Destructio  destritctionum,  compi- 
lato fra  il  1494  e  il  gennaio  '97  ».  E  più  oltre:  «  Ad  ogni  modo  esce  nel  '95 
l'edizione  curata  dal  Nifo  della  Fisica  col  commento  d'Averroè  »  (p.  65). 
Dove  il  Garin  abbia  trovato  che  questa  edizione  della  Fisica  del  1495 
sia  stata  curata  dal  Nifo,  io  non  so.  So  invece  che  la  lettera  del  Nifo, 
anzi  del  Niffus  de  Suessa  a  Maestro  Nicolò  Grassetto,  francescano  e 
inquisitor  dell'eretica  pravità  (vedetelo  divotamente  genuflesso  ai  pie' 
della  Vergine,  a  Padova,  nella  chiesa  del  Santo,  di  fronte  alla  tomba 
di    Antonio    Trombetta),    è    sicuramente    posteriore    alla    stampa    del 


206        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

Badoèr  il  De  intellectu,  sostanzialmente  rimaneggiato  e  pub- 
blicato per  le  stampe  nel  1503,  quando  aveva  ormai  detto 
addio  a  Padova  e  prima  ancora  all'averroismo  i?;  per  Gero- 
nimo Bernardo  compone  il  De  sensu  agente,  compiuto  il  14 
giugno  1495,  ma  pubblicato  nel  1497,  quando  il  Bernardo  era 
morto,  e  dedicato  a  G.B.  Spinelli,  patrizio  partenopeo  m; 
al  Giustinian  dedica  il  commento  In  XII  Metapysicae  pubbli- 
cato nel  1505,  ma  composto  assai  prima  su  preghiera  di  Ge- 
ronimo Bernardo,  il  cui  nome  il  Nifo  accoppia  sempre  a  quello 
del  Giustinian;  a  Santo  Moro,  altro  giovane  patrizio  che  aveva 


commento  alla  Desiriictio,  non  solo  perché  si  riferisce  a  questa,  ma 
perché  è  stampata  nel  recto  di  un  mezzo  foglio  facente  parte  dell'ul- 
timo quinterno  di  questo  volume;  l'altra  metà  contiene  due  pagine 
della  Destnictio  (quinterno  q,  fol.  I2ir-v).  Il  verso  poi  del  mezzo  foglio, 
al  cui  recto  è  la  lettera  al  Grassetto,  reca  il  prologo  di  Averroè  alla  Fi- 
sica e  la  dedica  di  questo  prologo  al  pretore  Lorenzo  Donato,  per  la 
ragione  che  gli  editori  del  '95  l'avevano  omesso.  Niente  di  più. 

13  V.  sopra,  p.  102.  Alla  fine  del  trattato  stampato  si  legge:  «Et 
sic  consumatus  est  liber  de  intellectu.  26.  Augusti,  1492.  In  Patavino 
studio  ».  Ora  che  nel  1492  il  Nifo  abbia  scritto  una  Quaestio  de  intellectu 
(cfr.  la  dedica  del  De  intellectu  a  Seb.  Badoèr,  neU'ediz.  del  1503)  è 
verosimile;  ed  è  verosimile  che  l'avesse  scritta  in  senso  sigieriano,  tanto 
che  gli  emuli  poterono  accusarlo  d'eresia,  com'egli  stesso  ci  fa  sapere. 
Ma  che  questa  Quaestio  sia  identica  col  trattato  pubblicato  nel  1503, 
è  difficile  crederlo,  dopo  quel  che  egli  stesso  confessa  a  Sebastiano 
Badoèr  :  «  Placuit  quedam  tollere,  mutare  alia,  addere  plurima  »  !  Troppo 
interesse  aveva  il  Nifo  a  voler  far  credere  che  fin  dal  suo  primo  anno 
d' insegnamento  s'era  liberato  dall'averroismo  inviso  al  Barozzi.  Vuo- 
le il  Garin  un  esempio  della  fede  che  merita  il  Nifo  ?  Eccoghelo. 
Nell'edizione  dei  Collectanea  ch'egli  aveva  pronta  il  12  settembre 
1498,  e  che  vide  la  luce  per  la  stampa  col  titolo  In  librum  de 
anima  Aristotelis  et  Averrois  commentatio ,  a  Venezia,  «  per  Petrum 
de  Quarengiis  Bergomensem.  Studio  et  impensa  domini  Alexandri 
Calcidonij,  Pisaurensis.  M.ccccc.iij.  Die  x.  Maij  »,  dedicando  l'o- 
pera a  Baldassar  Miliani,  patrizio  partenopeo,  il  Nifo  vede  un  segno 
particolare  d'amicizia  neU'essersi  il  Calcidonio  addossate  le  spese  della 
stampa  del  volume:  «  quod  et  noster  Alexander  Calcedonius,  communis 
amicus,  tui  et  mei  amoris  omni  solertia  sumptibusque  prò  his  edere 
instituit  ».  Ebbene,  nella  ristampa  degli  stessissimi  Collectanea  nel  1522 
(Suessa,  Super  libros  de  anima,  Venetiis),  in  fine  della  prefazione  che  vi 
appose,  questo  barabba  osa  scrivere:  «Quantum  igitur  inique  Alex. 
Calcidonius  Collectanea  nostra  publicaverit  quantumve  venenose,  ex 
bisce  patet.  Ego  enim  publicare  illa  non  destinaveram,  nisi  nono  pressis 
anno  »  !  che  e  frase  oraziana  adattissima  a  imbrogliare  anche  meglio  le 
carte.  Ma  V.  anche  più  oltre,  p.   370,  n.   8. 

^4  L'opera  fu  pubblicata,  come  «  codicilus  »  al  commento  della  De- 
structio,  nel  1497.  Che  al  momento  della  pubblicazione  tanto  Geronimo 
Bernardo  che  suo  padre  fossero  morti,  risulta  dalla  frase  dello  stesso 
Nifo  in  fine  del  commento  alla  Destructio:  «quorum  animae  in  perpe- 
tuum  gaudeant  »,  confermata  dalla  dedica  del  commento  In  XII  Me- 
tapysicae al  Giustinian. 


IL    SIGIERIANO    GERONIMO    TAIAPIETRA  2S7 

avuto  alunno  a  Padova  negli  ultimi  anni,  dedica  il  commento 
al  De  beatitudine  animae  di  Averroè,  rimaneggiando  un  vecchio 
scartafaccio  del  periodo  averroistico,  di  mano  del  suo  alunno 
veronese  Bernardino  Plumazioij;  al  cardinale  Domenico  Gri- 
mani  dedica  nel  1497  il  commento  alla  Destructio  destnictionum , 
servendosi,  per  insinuarsi  nell'animo  del  cardinale,  dell'am.i- 
cizia  d'un  tal  prete  Prosdocimo  familiare  del  Grimani;  più 
tardi  nel  1504  gli  dedicherà  anche  il  trattato  De  primi  motoris 
infinitate;  e  nello  stesso  anno  dedicherà  a  Vincenzo  Querini 
il  De  diehus  cniicis. 

Ma  non  ostante  tutte  queste  amicizie  e  protezioni,  non  potè 
sottrarsi  ai  «  latrati  »,  com'egli  più  volte  si  duole,  dei  suoi 
colleghi  e  avversari.  Non  saprei  se  per  questa  o  per  altra 
ragione,  nel  1497,  si  allontanò  da  Padova.  Il  Facciolati  '^  per 
altro  informa  che  «  revocatus  est  anno  MCDXCVIII,  stipendio 
argenteorum  CXX  »  ;  il  che  lascerebbe  supporre  che  fra  le 
ragioni  del  malcontento  vi  fosse  anche  quella  dello  scarso 
stipendio.  Sappiamo  di  professori  che  correvano  là  dov'erano 
megUo  pagati,  e  che  spesso  la  minaccia  di  andarsene  era  un 
buon  mezzo  per  farsi  aumentare  lo  stipendio.  Ma  il  Facciolati 
ci  fa  sapere  che,  non  ostante  questo  aumento,  il  Nifo  «  anno 
vertente  rursus  abiit  »,  in  cerca  di  miglior  fortuna,  o  sempli- 
cemente per  sposarsi  con  Angela  Laudi  da  Sessa.  A  Padova 
non  tornò  più,  sebbene  siamo  informati  che  nell'ottobre  1503 
e   nel  gennaio   1504  egli  s'adoprava   per  tornarvi  17. 

Vi  tornò  invece  nell'ottobre  del  1499,  dopo  la  morte  di 
Nicoletto  Vernia,  il  Peretto  mantovano,  cioè  il  Pomponazzi, 


'5  Anche  quest'opera  porta  in  fine  la  dichiarazione:  «Compievi 
Patavii.  M.ccccxcii.  xiv  Maij  ».  Santo  Moro  si  addottorò  a  Padova 
nel  maggio  1505  (M.  Sanudo,  Diarii,  VI,  col.  163).  Quando  il  Nifo 
gli  dedica  l'opera,  sa  che  l'antico  scolaro  di  Padova  «nunc...  naturae 

mundique  interpretem gravissimum  evasisse  ».  Io  non  conosco  altre 

edizioni  anteriori  a  quella  scotina  di  Venezia  del  1524.  Di  Geronimo 
Bernardo  dice  (I,  comm.  56)  :  «  accepi  verba  haec  ut  iacent  in  codice 
meo,  quem  felix  illa  Hieronymi  Bernardi  memoria  olim  mihi  misit  ». 
Vi  sono  non  pochi  rimandi  al  trattato  De  inteUectii,  e  non  di  rado  nella 
stesura  che  esso  ebbe  dopo  la  revisione  ! 

16  Fasti   gymn.    patav.,    1,    parte    II,    p.    109. 

17  M.  Sanudo,  Diarii,  V,  col.  171,  766.  Anzi  sotto  la  data  del  25 
marzo  1504  (col.  972)  si  legge:  k  Item,  ave  lettere  de  l'orator  nostro  in 
corte,  che  domino  Agustino  Sexa,  qual  è  li,  vengi  a  lezer  a  Padoa,  et 
li  ha  dimandato.  Par  contento  venirvi,  et  è  facto  più  docto  di  quello 
era,    et    ha    studiato   in    grecho  ». 


26»        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

dopo  due  anni  d'assenza '8,  per  restarvi  ininterrottamente  fino 
all'assedio  della  città  nel  1509.  V'erano  poi  maestro  Pietro 
Trapolin,  averroista  moderato,  che  dall'  insegnamento  della 
filosofia  naturale  era  passato  a  medicina  teorica,  frate  Antonio 
Trombetta  francescano  e  fra  Geronimo  da  Monopoli  dome- 
nicano, che  insegnavano  in  concorrenza  la  metafisica,  l'uno 
ad  mentem  Scoti,  l'altro  ad  mentem  Thomae.  Dal  1500  all'estate 
del  1503  era  venuto  a  Padova  il  bolognese  Tiberio  Bacilieri, 
alunno  e  poi  collega  di  Alessandro  Achillini  del  quale  condi- 
videva le  idee  '9,  forse  a  sostituire  Antonio  Fracanziano  che  in 
seguito  ad  una  lite  fra  maestri  aveva  lasciato  lo  studio  pado- 
vano ed  aveva  seguito  a  Roma  il  nuovo  cardinale  Marco 
Corner  -0.  Ma  nell'ottobre  del  1503  il  Fracanziano  torna  a 
Padova  ad  occuparvi  la  seconda  cattedra  di  filosofia  ordinaria, 
in  concorrenza  col  Pomponazzi,  mentre  maestro  Tiberio, 
che  diceva  mancargli  appena  quattro  dita  per  arrivare  alla 
piena  e  perfetta  copulatio  con  l' intelletto  agente  -",  aveva 
accolto  r  invito   di  recarsi  a  Pavia. 

Sotto  la  guida  di  siffatti  maestri  il  giovane  Geronimo  Taia- 
pietra  aveva  fatto  i  suoi  studi  a  Padova;  e  con  lui  c'erano 
negli  stessi  anni,  su  per  giù,  Andrea  Mocenigo,  figlio  di  Leonardo 
e  nipote  del  doge  Giovanni;  Gaspare  Contarini,il  futuro  cardina- 
le; Antonio  Surian,  nipote  del  patriarca  di  Venezia  dello  stesso 
nome;  Santo  Moro,  e  altri  rampolli  delle  più  illustri  famiglie  pa- 
trizie veneziane.  Maestri  e  scolari  vivevano  uniti  da  uno  stesso 
spirito  goliardico  non  scompagnato  da  febbrile  ansia  di  sapere. 
Nel  dicembre  del  1500,  il  Peretto,  che  marciava  ormai  verso 
la  quarantina,  pensò  bene  di  accasarsi  con  una  gentil  donna 
padovana  figlia  di   Francesco   Dondi  dell'  Orologio.   Ed  ecco 


i^  Cfr.  Facciolati,  Fasti,  1.  e;  C.  Oliva,  Note  suW  insegnamento 
di  P.  Pomponazzi,  III,  in  «  Giorn.  crit.  d.  Filos.  Ital.  »,  VII,  1926, 
pp.    181-183. 

'9  Facciolati,  ib.,  p.  iii.  V.  sopra,  pp.  226-27.  Il  6  ag.  1501,  era  pre- 
sente ai  dottorati  in  artibìts  di  M.  Ant.  Zimara  e  di  Girol.  Oleari,  col 
titolo  di  «extraordinarius  philosophiae >>  (Arch.  d.  Curia  Vesc.  di  Padova, 
Acta  grad.,   voi.   47,   f.    i62r). 

20  Fr.  Franceschetti,  La  famiglia  dei  conti  Fracanzani  di  Verona, 
Vicenza  ed  Este  con  notizie  dei  loro  antenati  ecc.  Bari,  presso  la  Direz. 
del   Giorn.    Araldico,    1896,    pp.    30-31. 

21  Pomponazzi,  In  XII  Metaphys.,  ad  t.  e.  17:  «Ideo  Tiberius 
iactatus  solum  sibi  defìcere  quatuor  digitos  ad  hoc  ut  foelicitatem  istam 
pertingat  »  (Arezzo,  Bibl.  Fraternità  de'  Laici,  Ms.  389,  f.  248r;  Cod. 
Ambros.  A.  52  inf.,  f.   2o8r) . 


IL    SIGIERIANO    GERONIMO    TAIAPIETRA  289 

Andrea  Mocenigo  intonare  per  l'occasione  nn  epitalamio  in 
latino,  ove  tra  molte  reminiscenze  mitologiche  si  leggono 
questi  due  distici  molto  confidenziali  rivolti,  s' intende,  allo 
sposo  22  ; 

Ista  dies  omnes  reliquos  divellit  amores  : 
paecipit  haec  soli  perpetuoque  vaces. 

Substulit  ista  dies  sectari  fornice  tetra 
scorta  suburbano,  substulit  ista  dies.... 

Ma  la  giocondità  della  vita  studentesca  nel  rumoroso  e  gaio 
ambiente  dello  studio  patavino  non  distoglieva  questi  giovani 
patrizi  veneziani  dallo  scopo  per  cui  erano  venuti  sulle  rive 
del  Bacchigliene  tra  le  «  antenoree  mura».  E  Marin  Sanudo  23 
ci  fa  sapere  che  1'  11  maggio  1505,  «  zorno  di  Pasqua  di  mazzo, 
da  poi  disnar,  sier  Santo  Moro  di  sier  Marin,  studia  a  Padova, 
tene  le  conclusion  ai  Frari,  qual  è  impresse.  Arguì  molti,  videlicet 
domino  Laurentio  Bragadin,  leze  in  philosophia  [a  Venezia], 
sier  Piero  Pasqualigo  24,  dotor,  cavalier,  sier  Marin  Zorzi, 
dotor,  e  altri,  et  poi  andò  a  Padoa  et  si  dotoroe  ».  Ugualmente 
il  Sanudo  al  26  marzo  1506  annota  che  «  in  questo  zorno,  in 
la  chiesia  di  Frari,  fo  tenuto  le  conclusion  per  sier  Antonio 
Surian,  quondam  sier  Michiel,  nepote  del  patriarcha  nostro, 
qual  studia  a  Padoa.  Vi  fu  il  reverendissimo  patriarcha,  e 
l'orator  di  Franza  e  molti  patricii  invidati  e  dotori»-s.  Con 


-2  Io.  Brunatius,  Poìììponatius,  nella  Raccolta  di  opuscoli  scient.  e 
filos.,   t.    XLI,    Venezia,    1749,    pp.    34-35. 

-3  Diarii,   VI,  col.   163. 

24  Di  Piero  Pasqualigo  riferisce  il  Sanudo,  ib.,  I,  col.  631,  sotto  il 
22  maggio  1497,  che  a  Roma  «  haveva  tenuto  conclusion  publice  et  si 
aveva  facto  uno  honor  grandissimo  et  hora  sta  dotorado  nomine  pon- 
tificis  dal  cardinal  di  San  Zorzi  ».  E  sotto  il  19  giugno  1498  {ib.,  col.  964)  : 
«  Vene  da  Milan  in  questa  terra  Pietro  Pasqualigo,  dotor,  patricio 
veneto,  stato....  et  si  trovò  a  Milan  al  tempo  dil  capitolo  general  di  frati 
minori  dove  tene  le  conclusion  publiche.  Vi  fu  el  ducha  con  li  oratori, 
et  fu  molto  comendato,  come  si  have  lettere  di  Marco  Lupomano  orator 
nostro  nel  conscio  di  pregadi.  Questo  avia  studiato  a  Paris,  et  è  giovane 
di  età  de  anni  2....  et  è  doctissimo  ».  Il  Degli  Agostini,  Not.  storico- 
critiche  intorno  la  vita  e  le  opere  degli  scrittori  veneziani,  t.  II,  Venezia, 
1754.  P-  304.  dice  che  Piero  nel  1494  a  22  anni  sostenne  a  Parigi  due 
mila  conclusioni.  Anche  il  fratello  Lorenzo  Pasqualigo  aveva  studiato 
a    Parigi    (Sanuco,    ib.,    col.    51). 

-5  M.  Sanudo,  Diarii,  VI,  col.  324.  La  cronaca  di  questa  disputatio 
è  fatta  dallo  stesso  Surian  in  una  pagina  del  volume  in  cui  ricopiava  le 
lezioni  tenute  dal  Pomponazzi  sul  De  anima  nel  1500  e  nel  1504  (Ms. 
della  Bibl.  Naz.  di  Napoh,  Vili.  D.  81,  f.  76V,  già  descritto  da  P.  O. 
Kristeller,  in  «  Revue  intern.  de  philosophie  »,  V,   1951,   15,  pp.   148- 

19 


290        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

questa  pubblica  disputa  anche  il  Surian  conquistava  il  titolo 
di  «  dotor  »,  come  appare  da  quanto  il  Sanudo  ricorda  sotto  la 
data  del  12  luglio  -6.  E  sarei  quasi  tentato  di  credere  che,  allo 
scopo  di  conseguire  il  dottorato,  anche  Vincenzo  Querini 
affrontasse  a  Roma  la  solenne  disputa  cui  accennavo  e  alla 
quale  assistè  anche  Pietro  Bembo,  egli  pure  patrizio  veneziano, 
cavalier  ma  non  «  dotor  «  qual  era  invece  suo  padre. 

Quello  di  stampare  le  Conclusiones  per  la  pubblica  disputa 
non  mi  consta  che  fosse  un  obbligo;  ma  si  sa  che  Giovanni 
Pico  le  aveva  stampate  nel  i486,  il  Querini  le  aveva  stampate, 
«  impresse  »  le  aveva  Santo  Moro,  e  anche  il  Taiapietra  si  af- 


149),  ed  è  importante  perché  c'introduce  nel  bel  mezzo  dell'ambiente 
scolastico  padovano:  «  Que  disputatio  a  me  habita  fuit  Patavii  per 
biduum  1505,  more  veneto,  die  vero  22°  marcii.  Et  prima  die  argu- 
mentatus  est  dominus  Bernardus  de  Portenarijs,  florentinus  patritius, 
Artistarum  rector;  2°  loco  R.  dominus  Cristophorus  Marcellus,  patritius 
venetus,  prothonotarius  apostolicus;  3°  magister  Antonius  Trombeta 
ordinarius  Metaphysice,  Patavii  legens;  4"  Dominus  magister  Hie- 
ronymus  de  Monopoli,  ordinis  Thomistarum,  ordinariam  Metaphysice 
legens  [cfr.  Quètif-Echard,  Scriptores  Ord.  Praed.,  II,  p.  76];  5°  Do- 
minus magister  Antonius  faventinus  ordinariam  theorice  medicine  le- 
gens; 6°  Dominus  magister  Franciscus  de  Caballis,  brixiensis,  ordi- 
nariam practice  medicine  legens.  Et  disputatio  hec  habita  fuit  in  aede 
cathedrali,  in  choro  penes  altare  maius,  coram  R.mo  domino  D.  Petro 
Barocio,  episcopo  patavino,  et  magnificis  Andrea  Griti,  pretore,  Paulo 
Pisani  equite,   prefecto  Padue,   R.mo  D.    Hieronymo   Barbadico  primi- 

I 
cerio  Sancti  Marci.  Duravit  disputatio  usque  ad  24  —  horam  satis  fe- 

1 
liciter  die  dominico,  et  fuit  dominica  quadragesime  quarta.  1^  die  (et 
fuit  habita  in  salis  magnis),  primo  argumentatus  est  Dominus  magi- 
ster Mauricius  ordinis  Minorum  hybernicus,  preceptor,  ordinariam 
theologie  legens;  2°  Dominus  magister  Gaspar  perusinus  ordinis  Thomi- 
starum [cfr.  QuÈTiF-EcHARD,  1.  c,  p.  24],  Ordinariam  theologie  pro- 
fessus  et  profitens;  3°  Dominus  magister  Petrus  Trapolinus,  patavinus,, 
ordinariam  theorice  medicine  legens;  4°  Dominus  Petrus  mantuanus,. 
olim  preceptor;  5"  Dominus  Antonius  Fracancianus,  vicentinus,  ordi- 
narius philosophie,  ambo  professi  et  profìtentes.  Et  disputatio  fuit 
mane  Venetiis  autem  die  26  marcij,  die  Jovis,  in  aede  S.  Francisci 
Minorum;  et  interfuit  R.mus  Patriarca,  patruus  meus,  R.mus  D.  D.  ar- 
chiepiscopus  spalatensis,  D.  Bernardus  Zane,  R.mus  Marcus  Antonius 
Foscarenus,  episcopus  Emonensis  [cioè  di  Città  Nova  in  Istria],  R.mus 
D.  D.  Dominicus  episcopus  Chisamensis,  suffraganeus  R.mi  D.  Pa- 
triarche.  Argumentatus  est  in  primis  Dominus  Sebastianus  Foscharenus, 
doctor,  legens  lecturam  physice  Venetiis;  2° loco  R.mus  D.  D.  Bernardus 
Zane,  archiepiscopus  Spalatensis;  3°  loco  Dominus  Andreas  Mozenigus, 
doctor;  4"  D.  magister  Petrus  de  Cruce  ordinis  Minorum,  regens  ibi; 
5°  Dominus  Santes  Maurus,  doctor  etc.  Et  fuit  dies  felicissima.  Quare 
Deo  semper  honor  et  gloria  ». 
26  M.    Sanudo,    ib.,   col.  373. 


IL    SIGIEKIANO    GERONIMO    TAIAPIETRA  29I 

frettò  a  presentarle  stampate.  Più  tardi,  so  di  Matteo  Bin, 
le  cui  «  conclusiones  »,  dedicate  a  Nicolò  Michiel,  Procurator 
di  S.  Marco,  furon  discusse  a  Venezia  nel  dicembre  1510-7; 
e  so  pure  di  Giulio  Ruggiero,  discepolo  a  Padova  di  M.  An- 
tonio Genua,  che  stampa  le  sue  Positiones ,  cioè  le  sue  tesi, 
dedicandole  al  cardinale  Ercole  Gonzaga,  per  la  disputa  che 
doveva  aver  luogo  a  Padova  nella  chiesa  di  S.  Antonio  nel 
luglio  1557  ^8  ;  e  l'esempio  suo  sarà  seguito  due  anni  dopo 
da  un  altro  discepolo  del  Genua,  M.  Antonio  Mocenigo  29, 
nipote  di  Vincenzo  Diedo  patriarca  di  Venezia,  per  la  disputa 
che  doveva  aver  luogo,  come  nel  caso  di  Antonio  Surian,  a 
Venezia  e  a  Padova. 

Non  conosco  il  contenuto  delle  tesi  o  «  conclusion  »  soste- 
nute dal  Surian  e  dal  Moro;  conosco  invece  quello  delle  Con- 
clusiones del  Querini  e  del  Bin,  delle  Positiones  del  Rug- 
giero e  dei  Panidoxa  theoremataque  del  Mocenigo.  Il  Querini, 
discepolo  del  Nifo  quando  questi  aveva  già  abbandonato 
l'averroismo,  si  dichiara  apertamente  contro  Averroè  come 
aveva  fatto  il  maestro.  Invece  averroista  è  il  Bin;  e 
anche  il  Ruggiero  e  il  Mocenigo  sostengono  apertamente 
la  dottrina  averroistica  del  Genua  combinata  con  quella 
di  Simplicio.  Allo  stesso  modo  il  Taiapietra  è  un  risoluto  so- 
stenitore dell'averroismo  della  corrente  sigieriana,  del  quale, 
dopo  la  partenza  del  Nifo  da  Padova,  era  stato  sostenitore 
Tiberio  Bacilieri.  Ciò  apparirà  meglio  dall'esame  del  conte- 
nuto della  sua  opera. 

Un'aperta  professione  d'averroismo  accade  d' incontrare  tìn 
sulla  soglia  del  libro,  cioè  nel  proemio  intitolato  anch'esso 
al  Grimani.  Dopo  avere  accennato  ad  Aristotele  come  «  regula 


*7  La  rara  stampa  veneziana  della  Casa  G.  Tacuino,  è  posseduta 
dal  British  Museum,  1172,  h.  i  (i).  All'amico  Carlo  Dionisotti  son 
debitore  della  cortese  segnalazione  e  del  microfilm. 

^8  Positiones  hasce  de  vero  et  bono  Julius  Rugerius  ad  disceptandum 
proposuit.  In  quibus  si  quid  a  religione  ac  summa  veritate  dissentire  lector 
animadvertet ,  id  non  ex  animi  sententia,  sed  ex  Aristotelis  ac  veterum 
Philosophorum  placitis  pronunciatum  sciat.  Venetiis  mdlvii,  f.  yor 
Finis.  Disputabuntur  triduo  Patavij  in  tempio  D.  Antoni],  mense 
Julij,  Die...,  Hora....  Nella  sezione  ottava  «de  homine  quatenus  intel- 
ligit  et  speculatur  »  (fol.  54V  sgg.),  accade  d'incontrare  tutte  le  tesi 
dell'averroismo  Simpliciano  del  Genua,  coli'  idea  della  «  progressio  » 
dell'unico  intelletto  «  ad  secundas  vitas  »  nei  diversi  corpi  umani  ecc. 
Cfr.   sotto,   XIII,   p.    388   sgg. 

29  V.  sotto,  XIII,  p.  3   9  ^gg.. 


292        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

in  natura  »  secondo  il  noto  concetto  d'Averroè  3°,  il  giovane 
filosofo  veneziano  continua: 

Post  queni  prinius  floruit  Averroes  cordubensis,  qui  ex  graecis 
expositoribus  velut  ex  optimis  quibusdam  fontibus  philosophiam 
non  tam  hausisse  quam  expressisse  visus  est.  Eos  enim  insequi 
et  incessere  delectatus  est  apprime,  unde  is  solus  est  qui  condigne 
et  recte  apud  omnes  commentatoris  nomen  adeptus  fuit;  tantum 
enim  est  ex  agro  fertili  messem  tacere.  Hinc  est,  ut  qui  Averroem 
exacte  legerit,  et  suis  quaeque  locis  singulatim  singula  contu- 
lerit,  eius  doctrinam  facile  percipiet  ab  optimis  manasse  aucto- 
ribus.  Quid  enim  aliud  est  commentator  Averroes  quam  Alexander, 
Themistius,  Simplicius,  ac  demum  ipsemet  Aristoteles  transpo- 
situs  ?  Ouamobrem  et  nos  divino  beneficio  confisi,  non  vana  si- 
militer  gloriae  cupiditate  impulsi,  et  absque  ulla  prorsus  invidia, 
sed  solum  utilitatem  aliquam  studiosis  afterre  anhelantes,  penes 
horum  virorum  sententiam  quarumdam  diftlcilium  quaestionum 
summam  seu  compendium  ordinare  suscepimus:  ea  enim  beni- 
volentia  perypatheticos  prosequor  omnes,  et  praesertim  summum 
Aristotelem  eiusque  magnum  commentatorem  Averroem,  omnium 
philosophantium  vere  duces,  ut  si  quid  ex  illorum  disciplinis  de- 
prompserim,  quod  utile,  pulchrum  lionestumque  putem,  id  quippe 
omnibus  communicatum  esse  velim,  quo  omnes  literati  una 
mecum  ipsorum  rapiantur  amore  eosque  digna  veneratione  pro- 
sequantur   et   colant. 

Verum  nos,  divini  Platonis  De  legibus  imitati,  ut  scilicet  ne 
cuivis  liceat,  quae  aediderit,  aut  privatim  ostendere,  aut  in  usum 
publicum  concedere,  antequam  super  id  publici  et  idonei  con- 
stituti  iudices  ea  viderint  et  probarint  (quod  maxime  observant 
venerabiles  illi  magistri  parisienses),  opus  hoc  nostrum  in  stu- 
diosorum  communem  usum  concedere  ullo  pacto  voluimus,  ante- 
quam gravssima  amplissimi  Venetiarum  prothoflaminis  censura  et 
lima  castigetur;  cuius  quidem  titulis  et  laudibus  (nisi  defraudetur) 
solum  ipsemet  accedit  religiosissimus  antistes  Antonius  Surianus; 
simulque  nisi  prius  in  clarissimorum  virorum  conventu  et  corona 
opus  hoc  manutenerem  et  tutatus  essem. 

E  il  «  prothoflamen  »  di  Venezia,  cioè  il  patriarca  Antonio 
Surian,  zio  di  quell'altro  Antonio  Surian,  che  era  stato  disce- 
polo a  Padova  del  Pomponazzi  e  del  Fracanziano,  e  che  del 
Peretto  ci  ha  tramandato  le  lezioni  sul  De  anima  del  1500  e 
del  1504,  contenute  nel  codice  della  Bibl.  Naz.  di  Napoli, 
Vili.  D.  81,  studiato  dal  Kristeller,  il  buon  patriarca  di  Ve- 
nezia, dicevo,  dopo  aver  letta  l'opera  del  Taiapietra,  lungi 
dallo  scandolezzarsi  di  questa  aperta  esaltazione  d'Averroè, 


3°  De  anima.  III,  comm.   14. 


IL    SIGIERIANO    GERONIMO    TAIAPIKTRA  293 

che  avrebbe  fatto  fremere  il  vescovo  di  Padova,  Pietro  Ba- 
rozzi,  gli  scrive  questa  candida  letterina  che  si  legge  in  fondo 
al  volume: 

Filii  [sic)  diarissime,  praeclarum  opus  tuum,  in  quo  Aristotelis 
peripatheticorum  principis  et  Averrois  eius  fidi  et  luculentissimi 
commentatoris  sensum  diligenter  et  ad  unguem  examinasti,  non 
mediocri  gaudio  voluptateque  lectitavi,  eo  quod  te  philosophum 
praestantissimum  noverim,  tum  et  ortodoxae  matri  ecclesiae 
obsequentissimum.  Quo  fit  ut  te  quam  maximis  prosequamur 
laudibus,  magnisque  honoribus  te  decorandum  extollendumque 
censeamus.  Exinde  enim  persuaves  et  amenissimos  tibi  fructus 
acquires,  nec  modicam  saeculo  utilitatem,  patriaeque  nostrae 
gloriam   allaturus    es.    Vale. 

Eppure  l'averroismo  dell'opera  non  concerne  soltanto  una 
o  due  tesi  che  vi  siano  difese  quasi  di  passaggio,  ma  domina 
tutto  intero  il  volume,  dalla  prima  all'ultima  pagina;  salve 
sempre,  s' intende,  le  solite  proteste  d'obbligo,  chiaramente 
espresse  o  sottintese,  che  l'autore  cioè  non  persegue  altro 
intento  che  quello  di  esporre  qual  è  il  genuino  pensiero  d'Ari- 
stotele e  del  suo  fedele  commentatore,  senz'alcun  pregiudizio 
per  la  fede   e   per  gì'  insegnamenti   della   Chiesa. 

L'opera  si  divide  in  due  libri  :  il  primo  concerne  otto  problemi 
dibattutissimi  nelle  scuole  di  filosofìa,  alla  soluzione  dei  quali  son 
dedicati  altrettanti  trattati,  e  in  ciascuno  di  essi  un  capitolo 
è  consacrato  alla  esposizione  della  vera  dottrina  del  Filosofo 
e  del  suo  fedelissimo  interprete,  mentre  altri  son  riservati  a 
combattere  più  le  obiezioni  dei  «  cacoaverroisti  »,  com'egli 
li  chiama  (lib.  II,  tr.  i,  e.  7),  che  non  quelle  degli  avversari 
dell'averroismo.  Nel  primo  trattato  si  discute  il  problema  se 
unico  sia  il  principio  di  tutte  le  cose,  o  possa  esser  molteplice; 
e  nel  quinto  capitolo  «  philosophi  et  commentatoris  vera 
positio  inducitur  cum  suis  rationibus  et  fundamentis  ».  Nel 
secondo  trattato,  si  parla  della  immaterialità  e  semplicità 
divina;  e  nel  cap.  14  «  philosophi  et  commentatoris  vera  po- 
sitio inducitur  ».  Nel  terzo  trattato  si  dimostra  la  tipica  tesi 
averroistica  «  Deum  tantum  seipsum,  idest  essentiam  pro- 
priam  intelligere  ac  intueri  »;  e  nel  cap.  11  «  vera  positio  philo- 
sophi et  commentatoris  in  hac  materia  ponitur  ».  Nel  trattato 
quarto  si  pone  il  quesito  «  an  primus  motus,  qui  est  diurnus, 
sit  immediate  a  Deo  glorioso  »,  e  si  critica  la  tesi  dell'aver- 
roista  Giovanni  di  Jandun,  il  quale  sosteneva  che  Dio  non  può 


294        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

muovere  il  primo  mobile  se  non  per  mezzo  della  prima  intelli- 
genza; nel  cap.  6  poi  è  esposta  la  vera  opinione  del  filosofo 
e  del  SUO  commentatore  su  questo  argomento.  Nel  trattato 
quinto  è  presa  in  esame  la  vexata  quaestio,  se  Dio  sia  causa 
efficiente  delle  cose  eterne,  cioè  delle  intelligenze  e  dei  cieli, 
poiché  delle  cose  corruttibili  non  v'  è  dubbio  che  esse  non  pos- 
sono esser  prodotte  immediatamente  da  Dio.  È  noto  che  il 
teologo  agostiniano  Gregorio  da  Rimini  riteneva  che,  secondo 
Aristotele,  Dio  è  causa  finale  ultima  delle  intelligenze  e  dei 
cieli,  ma  non  causa  efficiente  del  loro  essere 31.  Il  Taiapietra, 
d'accordo  con  Sigieri  -,  è  del  parere  che,  pur  essendo  coe- 
terne a  Dio,  sì  le  intelligenze  motrici  che  i  cieli  incorruttibili 
son  tratti  all'esistenza  da  lui  per  via  di  vera  causalità  effi- 
ciente, e  in  proposito  intraprende  una  lunga  disquisizione  che 
dura  per  diversi  capitoli  contro  il  teologo  agostiniano;  giacché 
è  bene  si  sappia  che,  per  quanto  riguarda  l' interpretazione 
del  pensiero  d'Aristotele,  vi  furono  teologi  che  si  spinsero 
anche  più  in  là  di  taluni  averroisti.  Nel  cap.  13  è  esposta  la 
vera  dottrina  del  filosofo  e  del  commentatore  «  cum  suis  ra- 
tionibus  et  fundamentis  »,  che  è  poi  la  dottrina  sigieriana. 
Nel  trattato  sesto,  è  discusso  un  altro  problema  oggetto  di 
lunga  contesa,  fin  dai  tempi  di  Sigieri,  se  cioè  Dio  nel  muo- 
vere il  mondo  si  palesi  di  virtù  intensivamente  infinita  ossia, 
come  soleva  dirsi,  di  infinito  vigore.  Dopo  aver  combattuto 
r  interpretazione  che  d'Aristotele  avevan  dato  S.  Tommaso, 
Alberto  Magno  e  Duns  Scoto  e  quella  di  alcuni  averroisti  che, 
a  suo  giudizio,  falsavano  il  pensiero  d'Aristotele  e  d'Averroè, 
l'autore  passa  ad  esporre,  nel  cap.  io,  la  «  vera  positio  »  del- 
l'uno e  dell'altro,  riaffermando  la  sua  fiducia  nel  commen- 
tatore : 

Quum  inter  tot  celebres  philosophos,  nullus  adhiic  posterio- 
rum  philosophantium  aut  priorum,  praeter  Aristotelem,  inventus 
sit  qui  commentatori  Averroi  in  rebus  naturalibus  aut  divinis 
exponendis  equipolleat,  unde  merito  nomen  magni  et  certe  maximi 
commentatoris  est  assequutus,  ideo,  primae  philosophiae  princi- 
piis  innitendo,  in  hoc  quesito  ad  mentem  philosophi  et  commen- 


31  Lectura  in  II  Sent.,  dist.  i,  q.  i;  cfr.  Giov.  di  Baconthorpe, 
In  II  Sent.,  dist.  i,  q.  i;  Giov.  di  Jandun,  Meiaphys.,  II,  q.  5;  id., 
■Quaestiones  sup.   De  siibst.   orbis,   q.    14. 

32  Cfr.  F.  Van  Steenberghen,  Sig.  de  Brab.  d'après  ses  oeiivres 
inédites,   II    voi.,   Louvain,    1942,    p.  606.  V.  sopra,  p.   103. 


IL    SIGIERIANO    GERONIMO    TAIAPIETRA  295 

tatoris  dicimus  infinitum,  ut  proposito  attinet,  alias  infiniti  di- 
stinctiones  omittendo,  dupliciter  intelligi  posse:  vel  secundum 
tempus  et  durationem,  vel  secundum  virtutem  et  vigorem;  quo- 
rum unum  vocant  latini  infinitum  extensive,  et  alterum  intensive. 
Pro  quo  sciendum  quod  si  primum  principium  secundum  primum 
modum  infinitum  intelligatur,  hoc  utique  ad  mentem  philosophi 
et  commentatoris  concedendum  est,  quoniam  primus  motor 
motu  locali  uno  et  continuo  movet  per  infinitum  tempus;  et  sic 
etiam,  secundum  eos,  quaelibet  intelligentia  est  infinita;  quae- 
libet  enim  intelligentia  movet,  secundum  Aristotelem,  orbem 
proprium  motu  locali  circulari  infinito.  Potest  et  secundo  modo 
intelligi  primum  principium  esse  infinitum  in  qualitate  actionis, 
scilicet  in  vigore;  et  hoc  pacto  negat  philosophus  et  commen- 
tator. 

Ma  rendendosi  conto  che  un'affermazione  sì  grave  poteva 
sonare  sgradita  alle  orecchie  dei  teologi,  il  nostro  s'affretta 
a  dichiarare: 

Sed  quamvis  isti,  philosophus  scilicet  et  commentator,  sic 
dicant,  nihilominus  tamen  dico  secundum  fidem  et  veritatem, 
quod  deus,  qui  est  primum  principium,  est  virtutis  infinitae, 
scilicet  in  qualitate  actionis,  ita  quod  quantum  est  de  se  potest 
velocitare  motum  in  infinitum,  immo  movere  in  instanti,  nec  est 
limitata  sua  virtus  ad  actionem  determinatam  ;  et  hoc  absque 
omni  ambiguitate  verum  est,  non  tamen  potest  convinci  aut 
comprehendi  ex  sensatis;  et  ideo  non  est  mirum  si  philosophus 
ac  caeteri  antiquorum  naturales,  sensata  tantum  insequentes, 
illud  minime  comprehenderunt.  Quum  enim  deus  ipse  naturae  sit 
auctor,  potest  utique  plus  facere  quam  possit  natura  vel  natura- 
liter  comprehendi,  quoniam  quemadmodum  ipse  omnia  excedit 
in  infinitum,  sic  etiam  profecto  in  agendi  potentia.  Iccirco  iuxta 
illud  quod  primo  Esaias  et  postmodum  Paulus  dixerunt,  propter 
ista  et  alia  quae  oculus  non  vidit  nec  auris  audivit,  nec  in  cor 
hominis  ascendit,  sacrosantae  ecclesiae  sanctissimis  doctoribus 
sine  aliqua  haesitatione  credendum  est,  et  absque  aliqua  demon- 
stratione  aut  sensuum  experientia  etc. 

E  la  stessa  dichiarazione  ripete,  come  d'uso,  tutte  le  volte 
che  gli  accade  di  toccare  un  problema  intorno  al  quale  vi  sia 
conflitto  fra  la  filosofìa  e  la  teologia. 

Nel  settimo  trattato  si  chiede  se  il  numero  delle  intelUgenze 
motrici  debba  dedursi  dal  numero  dei  movimenti  e  delle  sfere 
celesti,  oppure  se  ve  ne  siano  di  non  addette  al  moto  dei  cieli; 
e  nel  cap.  4  è  esposta  al  solito  l'opinione  del  filosofo  e  del  com- 
mentatore, che  il  Taiapietra  ancora  una  volta  toglie  a  difen- 
dere. Inoltre  nel  cap.  12,  è  esposta  la  vera  opinione  del  filosofo 


296        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

e  del  commentatore,  che  la  nobiltà  delle  intelligenze  va  posta 
in  relazione  con  la  maggiore  ampiezza  e  altezza  delle  sfere 
da  esse  mosse.  Nell'ottavo  ed  ultimo  trattato  del  primo  libro, 
si  dibatte  l'annoso  problema,  se  la  materia  di  cui  constano  i 
cieli  sia  «  eiusdem  rationis  cum  materia  horum  inferiorum  »  ; 
e  di  nuovo  nel  cap.  12  viene  esposta  e  difesa  come  vera  la 
dottrina  d'Averroè,  la  quale  combacia  perfettamente  con 
quella  del  principe  dei  filosofi,  e  vi  si  dice  che  la  materia  dei 
cieli  non  è  in  potenza  a  diverse  forme,  ma  soltanto  a  diverse 
posizioni  locali. 

Il  secondo  libro  si  divide  in  sei  trattati.  Il  primo  dei  quali 
verte  sulla  natura  dell'anima  umana  e  precisamente  sul  pro- 
blema «  utrum  humana  et  rationalis  anima  sit  una  vel  plures, 
dans  esse  homini  et  immortalis».  Fin  dal  primo  capitolo  di  que- 
sto trattato,  l'autore  ci  palesa  candidamente  qual  è  il  suo  inten- 
to: anzitutto  rigetterà  tutte  le  opinioni  che  più  s'allontanano  da 
Aristotele  e  da  Averroè;  poi  riferirà  quelle  che  più  si  avvici- 
nano al  loro  pensiero  :  «  Demum  veram  philosophi  et  commen- 
tatoris  addemus  sententiam  ab  ea  quascunque  amovendo 
cavillationes,  ut  eius  veritas  clarior  appareat....  ».  Ed  egli 
non  meno  candidamente  spera  che  dalla  sua  fatica  verrà  non 
poco  giovamento  alla  restaurazione  della  filosofìa,  che  al  co- 
mune giudizio  degli  averroisti  pareva  in  quei  tempi  non  poco 
decaduta: 

Unde  speramus  laborem  hunc  nostrum  non  modo  rem  peri- 
patheticam,  idest  Averroycam,  adiuvaturum  esse,  verum  etiam 
aucturum,  quum  forte  scriptum  hoc  non  tantum  erit  causa  de- 
clarandi  rem  obscuram  et  latentem  multum  in  philosophia,  sed 
etiam  aliis,  hoc  est  bene  dispositis,  initium  fiet  vel  occasio  Iabo- 
randi in  doctrina  philosophi  et  commentatoris,  et  ad  communem 
utihtatem  quamphira  scitu  nobilissima  scribendi.  Et  sic  forte 
in  Italia  reviviscet  philosophia,  quae  temporibus  meis,  M.D.V., 
cum  philosophis  pessum  ivit,  adeo  ut  hac  tempestate  pauci 
vel  nulli  reperiantur  philosophi;  sunt  autem  in  precio  triviales, 
nebulones    et    sophistae  33;    sperandum    est  tamen    naturam    ali- 


33  È  un  lagno  che  Averroè  aveva  fatto  dei  filosofi  del  suo  tempo, 
nel  famoso  prologo  alla  Fisica;  ed  è  curioso  vedere  come  gli  averroisti 
della  fine  del  Quattrocento  e  dei  primi  del  Cinquecento  lo  ripetano  pei 
loro  tempi.  V  insiste  in  particolare  il  Pomponazzi,  parafrasando  sia 
il  prologo  al  primo  libro  della  Fisica  sia  quello  al  terzo  (Cod.  lat.  della 
Bibl.  Naz.  di  Parigi,  n.  6533,  f.  6v  e  lagr;  Arezzo,  Fratern.  de'  Laici, 
ms.  3QO,  f.  (x-jv,  e  ms.  300,  f.  igir.  Cfr.  «Giorn.  Crit.  d.  Filos.  Ital.  », 
XXX,    1951,    pp.    371-372). 


IL    SIGIERIANO    GERONIMO    TAIAPIETRA  29/ 

quando  nostri  misertam  iri,  et  nobis  integram  redituram  philo- 
sophiam  et  philosophos;  natura  namque  non  deficit  in  necessariis 
neque  abundat  in  superfluis.  Iccirco  laborandum  est  prò  viribus 
ut  ad  nos  redeat  niater  nostra  pliilosophia. 

Con  questa  speranza  nel  cuore,  che  la  filosofia  aristotelico- 
averroistica  minacciata  da  un  lato  dal  concordismo  tomistico 
che  la  svisava,  e  dall'altro  dalla  retorica  umanistica  che  la 
disprezzava  e  dileggiava,  il  nostro  giovane  averroista  si  ac- 
cinge a  difendere  quella  che  era  apparsa  la  più  ostica  delle 
tesi    averroistiche,    qual'  è    quella    dell'unità    dell'  intelletto. 

Ed  anzitutto  egli  espone  e  combatte,  sulla  scorta  d'Averroè,  la 
dottrina  di  Alessandro  d'Afrodisia,  intorno  alla  quale  si  dif- 
fonde per  ben  sei  lunghi  capitoli  (2-7).  Nel  cap.  4  accade  d' in- 
contrare questa  allusione  all'ambiente  filosofico  padovano: 
«  Conantur  quidam  alexandrei  et  acutissimi  viri  prò  Alexandro 
ad  rationes  Averroys  et  auctoritates  Aristotelis  respondere....  >>. 
Giusto  un  anno  prima,  nel  1504,  il  Pomponazzi,  che  stava  com- 
mentando a  Padova  il  terzo  del  De  anima,  s'era  posto  il  pro- 
blema dell'  immortalità  dell'anima,  e  pur  dichiarandosi  an- 
cora propenso  a  ritener  possibile  una  soluzione  positiva  del 
problema  secondo  la  ragione,  aveva  dimostrato  in  che  modo 
la  tesi  d'Alessandro  avrebbe  potuto  sostenersi.  Forse  allu- 
dendo al  Pomponazzi,  il  Taiapietra  nel  rintuzzare  le  ragioni 
degli  alessandristi  osserva  :  «  Etsi  Alexandrea  opinio  lumini 
tantum  innitendo  naturali  non  minus  forte  substentabilis 
sit  34  iuxta  fundamenta  sua,  quam  et  averroyca,  hoc  nihilo- 
minus  in  loco  ipsum  ad  intentionem  philosophi  minime  lo- 
quentem  fuisse  proculdubio  ostendemus  »  (cap.  5).  Nel  qual 
passo  è  quanto  mai  significativa  la  distinzione  fra  ciò  che  è 
sostenibile  «  lumini  tantum  innitendo  naturali  »,  e  ciò  che  è 
sostenibile  «ad  intentionem  philosophi».  A  prescindere  dai  fran- 
cescani che  di  questa  distinzione  facevano  largo  uso,  essa  è 
una  novità  nella  storia  dell'aristotelismo;  Aristotele  non  ha 
visto  tutto  quanto  si  può  vedere  col  lume  di  ragione;  la  ra- 
gione umana  può  spaziare  forse  oltre  i  confini  del  mondo  ari- 


34  Come  appunto  diceva  il  Pomponazzi,  commentando  il  terzo  libro 
del  De  anima  nel  1504  (Vedasi  P.  O.  Kristeller,  Two  impubi.  Que- 
stions  on  the  Soul  of  P.  Pomponazzi,  in  «  Medievalia  et  Humanistica  », 
Vili,  1955,  pp.  87-90,  94),  quando  il  Taiapietra  era  ancora  studente 
a  Padova. 


29o        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

stotelico  :  è  un'  idea  sulla  quale  insiste  più  volte  il  Pompo- 
nazzi  e  che  doveva  ferire  a  morte  l'autorità  di  cui  Aristotele, 
«maestro  e  duca  de  l'umana  ragione ))3s,  aveva  finora  goduto. 
Dopo  la  critica  della  tesi  alessandrista,  il  nostro  espone  e 
confuta  la  dottrina  di  Abubacher,  «  Averroys  socius  )>,  di  Aven- 
pace,  «  eius  magister  «,  quasi  fossero  due  persone  diverse,  di 
Avicenna  e  di  Alfarabi  (cap.  8)  ;  e  qui  eccolo  nel  cap.  9,  in 
quo  Aristotelis  et  Averroys  vera  positio  ponitur  in  hac  materia 
cum  suis  motivi s,  ad  esporci  l' interpretazione  sigieriana  del 
pensiero  di  questi  due  filosofi: 

Clini  binas  hiicusqne  illustrivim  peripatheticorum  opiniones 
ostenderimus,  qiias  tamqnam  impossibiles  omnino  ad,  mentem 
philosophi  reliquimus,  superest  videre  et  de  tertia,  quae  est 
Averroys  se  unicum  ad  intentionem  Aristotelis  loqui  pollicentis. 
Aliorum  autem  sapientum  opiniones  hoc  in  tractatu  non  inda- 
gamur.  Item  quia  intentio  nostra  in  praesentiarum  non  est  de 
omnibus  loqui,  sed  tantum  manifestare  quae  fuit  opinio  commen- 
tatoris,  et  quorundam  errorem  refellere,  qui  temporibus  nostris 
nonnulla  monstra  in  hac  materia  (ut  finxerunt  de  intentione 
Averroys)  enixi  sunt.  Tum  etiam,  ut  sententia  est  philosophi, 
thopicorum  primo,  capite  IX,  quolibet  proferente  contraria  opi- 
nionibus  sapientum  sollicitum  esse  stultum  est. 

De  anima  igitur  disceptantes  quadrifariam  circa  ipsius  in- 
coeptionem  loqui  poterant:  primo,  quod  quandoque  producta 
fuit  in  materia,  quandoque  corrupta:  quem  modum  sequutus 
est  Alexander  aphrodiseus,  ut  disputavimus  in  pracedentibus 
abunde  satis,  in  quo  quidem  tamquam  demonstratum  nobis 
palam  est,  rationalem  animam  non  a  corpore  incipere,  neque  in 
corpus  desinerei  illam  quoque  prò  parte  insequi  visi  sunt  arabum 
sapientes,  ut  supra  piane  constat.  Secundo,  quod  novum  acceperit 
esse,  quod  nunquam  perditura  sit:  et  hic  dicendi  modus  Platonis 
est,  cui  contradicit  philosophus  et  commentator,  Divinorum  XII, 
tex.  co.  XXXIX;  et  primo  Coeli,  tex.  co.  CXX;  alioquin  natura 
possibilis  verteretur  in  necessariam;  nullum  enim  novum  est 
perpetuum.  Tertio,  quod  nullum  eius  fuerit  initium,  sed  dissi- 
panda  quandoque  foret:  et  is  quoque  modus  impossibilis  est; 
omne  namque  aeternum  a  parte  ante  est  etiam  aeternum  a  parte 
post,  et  econtra,  ut  sententia  est  philosophi  et  commentatoris, 
ibidem,  primo  Coeli  et  mundi  3^;  nec  aliquis  hominum  dudum  id 
percepit,  quod  quum  perscrutata  non  sit  dignum,  absque  auctore 


35  Dante,  Conv.,  IV,  vi,  8. 

36  T.  e.  104-109  (e.  IO,  27gb  32-280=1  31).  A  questo  principio  del  De 
coelo  fa  appello  il  card.  Bessarione,  In  calimin.  Platonis,  III,  e.  22,  so- 
stendo  che,  per  Aristotele,  se  l'anima  è  immortale  ed  eterna  a 
parte  post,  deve  esserlo  anche  a  parte  ante,  con  tutti  gli  assurdi  che  dal 
punto  di  vista  aristotelico  ne  seguirebbero,  se  l'anima  intellettiva  fosse 


IL    SIGIERIANO    GEKOXn.O    TAIAPIF.TRA  209 

dimissum  fuit.  Quarto,  quod,  ncque  quandoque  cadet,  nec  exor- 
dium  ulluni  aliquando  acceperit:  si  igitur  rationalis  anima  nec 
incepit  cum  corpore,  nec  in  corpus  desinet,  sed  semper  fuit  et 
aniplius  semper  erit  immortalis  ac  substantia  semper  existens 
simplex  et  immixta,  humano  orbi  secundum  esse  unita,  non  tamen 
corruptibilis  nec  alterabilis  secundum  eius  substantiam,  opinio 
redditur  Aristotelis  scilicet  et  Averroys  et  multorum  tam  anti- 
quorum quam  modernorum  peripatheticorum,  ut  Themistii, 
Theophrasti,  Pythagorae  et  caeterorum  eiusdem  sectae.  Id  igitur 
in  quo  veriores  scilicet  peripathetici  concurrunt,  est  rationalem 
animam  nec  incipere  cum  corpore,  nec  etiam  incipere  ab  aliquo 
corporis,  nec  desinere  in  potentiam  corporis,  nec  in  corpus  ipsum, 
sed  esse  semper  qviid  immortale  divinum  et  impatibile. 

\'erum  id  in  quo  discreti  et  differentes  sunt  isti  viri,  hoc  porro 
loco  a  me  perscrutandum  non  expectetur:  tum  quia  prò  nunc 
tantum  philosophi  et  commentatoris  opinionem  venamur,  ex 
qua  ad  caeteras  quascumque  discrimen  colligere  poterimus; 
tum  quia  praeter  opinionem  opus  nostrum  multum  excresceret. 

Hanc  sententiam  comprobant  Aristotelis  auctoritates  mul- 
tae;  quarimi  quae  adversus  Alexandrum  iam  adductae  sunt 
nobis  sufficiant.  Motiva  autem  philosophorum  sunt  multa,  et 
primum  quod  ad  hoc  movit  Averroym,  fuit  ratio  fortis  quae  ex 
libro  De  substantia  orbis  piane  colligitur,  quoniam  nulla  forma 
inducta  in  materia  non  mediantibus  interminatis  dimensionibus  et 
non  per  dispositiones  qualitativas  et  quantitativas  praecedentes, 
simul  accipit  esse  cum  toto.  Sed  rationalis  anima  hominis 
huiusmodi   est.  Ergo  etc. 

Amplius  amne  quod  est  dominus  suorum  actuum  est  abstractum 
et  immortale.  Sed  anima  humana  intellectiva  talis  est.  Ergo  etc. 
Maior  utique  evidens  est  ex  se:  quod  enim  non  habet  dominium 
suorum  actuum,  ad  unam  tantum  partem  determinatur;  que- 
madmodum  ad  delectabile  appetitus  sensitivus;  et  talis  procul- 
dubio  est  materiae  immersus.  Minoris  autem  veritas  inductive 
declaratur:    nam    si   uni   vero   philosopho    vel   religioso   offeratur 


inoltre  moltiplicata  col  numero  degli  uomini.  Si  che  il  Bessarione  ne 
aveva  concluso:  «Igitur  alterum  de  his  duobus  dicat  necesse  est:  aut 
enim  unum  eundemque  intellectum  omnibus  esse,  aut  una  cum  corpore 
animam  interire  ».  E  se  egli  poteva  ritenere  [ib.,  e.  27)  che  nessuno 
era  riuscito  finora  a  dimostrare  la  falsità  della  tesi  averroistica  dell'unità 
dell'  intelletto,  secondo  i  principi  della  filosofia  aristotelica,  il  Pompo- 
nazzi,  che,  pur  ritenendo  perfettamente  aristotelica  questa  dottrina, 
la  considerava  stoltezza  {fatuitas),  almeno  fin  dal  1504  (cfr.  Kristeller, 
1.  e,  p.  93,  e  il  ms.  napol.  Vili.  E.  42,  f.  i86r),  troncò  nell'inverno 
1515-1516  le  sue  precedenti  esitazioni,  e  prese  a  sostenere  con  risolu- 
tezza la  tesi  che,  pur  essendo  quello  dell'  immortalità  dell'anima  un 
«  problema  neutrum  »,  tutti  i  principi  formulati  da  Aristotele,  e  se- 
gnatamente quello  stabilito  in  questo  luogo  del  De  caelo,  sembrano 
concludere  alla  mortalità  dell'anima.  Pochi  mesi  dopo  scrisse  il  trattatello 
De  immortalitate  aniniae.  Ma  sullo  sviluppo  del  pensiero  del  Perette  intor- 
no a  questo  argomento,  cfr.  «Giorn.  Crit.»,   XXXII,    I953.  PP-  45  e  175. 


300        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

puella,  appetitus  tunc  tendit  in  fornicationem,  quia  delecta- 
bile;  intellectus  autein  reicit  et  fugit,  quia  malum  et  propter 
offensionem  dei  proximique.  Ecce  igitur  qualiter  hominis  intel- 
lectiva  anima  domina  est  suorum  actuum,  quia  scilicet  potest 
delectabile  fugere  vel  persequi;  non  sic  autem  appetitus  ipse. 
Et  haec  fuit  ratio  divini  Platonis  in  Phaedone,  ibi  inter  omnes 
efficacior,  quam  olim  ab  eo  accepit  platonicus  Plotinus,  in  tractatu 
de  immortalitate  animae,  quam  etiam  adducit  divus  Albertus  in 
libro  De  origine  animae.  Et  fuit  haec  ratio  apud  aliquos  tantae 
effìcaciae  et  auctoritatis,  ut  palam  dixerint,  quod  qui  conatur 
hanc  solvere  rationem  fatuus  est. 

Rursum,  quod  intelligit  omnia  tam  materialia  quam  imma- 
terialia  est  iinmateriale,  et  per  consequens  immortale;  haec 
enim  se  consequuntur,  ut  constat  in  intelligentiis;  sed  intellectiva 
hominis  anima  omnia  comprehendit,  tam  scilicet  materialia  quam 
etiam  iinmaterialia  ;  igitur  immaterialis  est,  et  ex  consequenti 
immortalis.  ]\Iaioris  primam  partem  innuit  philosophus,  iii.  De 
anima,  tex.  co.  iiii,  quum  dixit,  quod  omne  recipiens  debet  esse 
denudatimi  a  natura  rei  receptae.  Secunda  etiam  pars  patet; 
alioquin  rationalis  anima  esset  organica,  et  sic  determinata  ad 
unum,  cuius  tamen  oppositum  in  nobismetipsis  comprehendimus. 
Minorem  vero  in  nobis  proculdubio  quottidie  experimur.  Quare 
etc.  Et  confirmatur,  nam  anima  nostra  intellectiva  universaliter 
et  abstracte  intelligit;  ergo  et  ipsa  est  abstracta  et  immortalis; 
secus  ipsa  esset  aut  aliquis  quinque  sensuum,  aut  sextus  sensus, 
et  sic  per  consequens  non  iniiversaliter  intelligeret  ;  quod  apud 
perypatheticos  est  valde  absurdum  et  manifeste  falsum.  Adhuc, 
si  ista  rationalis  anima  non  est  abstracta  et  immortalis,  tunc 
aut  est  complexio,  aut  forma  superaddita  complexioni;  sed  non 
primum,  quia  tunc  esset  accidens,  quod  nullus  sanae  mentis 
fateretur;  minus  etiam  secundum;  sequeretur  enim  ipsam  esse 
organicam  et  extensam,  et  sic  fìeret  determinata  ad  unum  que- 
madmodum  et  caeteri  sensus,  cuius  tamen  oppositum  in  nobis 
manifeste  percipimus  omnia  et  universaliter  percipientes. 

His  ita  prealibatis,  inquiunt  veriores  perypathetici  hunc  intel- 
lectum  materialem  esse  formam  perpetuam  ex  utroque  latere, 
loquendo  praecipue  ad  intentionem  philosophi  et  commentatoris, 
unicamque  omnibus  hominibus  inesse,  ac  minime  generabilem 
aut  corruptibilem  nec  eductam  de  potentia  materiae.  Amplius 
opinantur  ipsam  facere  per  se  unum  cum  homine  constituto  in 
esse  per  cogitativam;  et  ponunt  quod  intellectus  ipse  non  potest 
informare  materiam  non  informante  cogitativa;  non  enim  stat 
materia  absque  forma  constituta  in  esse  per  eam  ;  nec  potest 
intellectus  informare  sine  sua  proxima  et  ultima  dispositione, 
quae  quidem  est  cogitativa  respectu  intellectus;  unde,  esto  quod 
cogitativa  ipsa  non  sit  forma  generica,  ordinatur  nihilominus  in 
intellectum  propter  ipsius  essentialem  ordinem  ad  ipsum.  Nec 
econverso  potest  cogitativa  informare  materiam  et  ipso  quoque 
non  informante  intellectu;  positis  enim  informabili  ultimate 
disposito  et  ipso  informativo,   necessario   et  ipsa  insurgit  infor- 


\ 


IL    SIGIERIANO    GERONIMO    TAIAPIETRA  3OI 

niatio  37.  Est  autem  materia  informata  cogitativa  informabile 
propinquum  et  ultimate  dispositum  ad  humanum  recipiendum 
intellectum;  et  sic  potest  una  formia  substantialis  ad  aliam  esse 
dispositio,  dummodo  forma  illa  praeparans  non  sit  materiae  ratio 
recipiendi. 

Adduntque  post  haec  hunc  eumdem  intellectum  primo  et  ade- 
quate informare  totum  orbem  humanum;  secundario  vero  illius 
partes,  ut  scilicet  sunt  individua  hominis.  Nec  intellectui  humano, 
quamvis  sit  unicus  et  individuus,  pluribus  dare  esse  aeque  primo 
hominibus,  utputa  Socrati,  Fiatoni,  Ciceroni  et  sic  de  aliis,  re- 
pugnat;  in  via  namque  philosophi  et  commentatoris  constat 
intelligentias  esse  individua,  ut  xii.  Primae  Pìiilosophiae  et  in 
libris  De  coelo;  et  illa  eadem  esse  cum  suismet  quidditatibus; 
unde  intellectus  materialis,  quum  sententia  commentatoris,  se- 
cundo  Physice  auscultationis ,  infima  sit  intelligentiarum,  erit  et 
ipsa  individuum  et  sua  quidditas;  septimo  enim  Methaphysicae, 
comm.  xli,  et  iii.  De  anima,  comm.  ix  et  x,  in  abstractis  a  ma- 
teria non  differt  quidditas  ab  eo  cuius  est.  Intellectus  igitur  ma- 
terialis individuum  erit  et  singularis;  ob  id  tamen  nihil  prohibet, 
licet  intellectus  ipse  sit  etiam  quidditas  universalis,  dare  esse 
hoc  et  singulare  homini,  ut  iam  dictum  est.  Et  sic  apparet  quo- 
modo  esse  hominis,  in  eo  quod  homo,  est  ultimo  per  hunc  intel- 
lectum, et  quomodo  difterentia  hominis,  in  eo  quod  homo,  su- 
mitur  ultimate  ab  hoc  eodem  intellectu  ;  et  sic  quoque  individuum 
ipsum  humanum,  idest  constitutum  ex  cogitativa  tanquam  ex 
materiali,  et  ex  ipso  intellectu  tanquam  ex  formali,  utputa  Sortes 
vel  Plato,  habent  esse  hoc  ad  ipso  intellectu  ultimate.  A  materia 
autem  divisa  informabili  cogitativa  dimensionibus  mediantibus 
informante,  nascitur  possibilitas  multiplicationis  individuorum 
sub  eadem  specie;  quae  omnia  propter  esse  universale  ipsius 
intellectus,  ut  supra  diximus,  informari  possunt  ab  ilio,  et  ab 
eodem  sumere  esse  suum  verum  hoc  et  unum. 

Et  breviter  autumant  intellectum  ipsum  primo  esse  formam 
adequatam  totius  suae  sphaerae  humanae;  secundario  vero  par- 
tium  sphaerae,  ut  particularium  hominum,  hoc  scilicet  pacto 
quod,  inquantum  quidditas,  partiri  possit  per  materias  informatas 
dimensionibus  et  cogitativis,  inquantum  autem  individuum, 
est  id   esse  per  quod  individuum  hominis  est  hoc  ultimate. 

Dicuntque  praeterea  opinionem  esse  Averroys,  ut  intellectus 
uniatur  homini  non  tantum  ut  ars  et  motor  instrumento  et  or- 
gano, sed  etiam  secundum  operationem  et  esse.  Yocant  autem 
aliquid  alteri  vmiri  secundum  esse,  quando  illud  habet  esse  et 
nomen  ab  eo;  non  autem  audiunt  esse  prò  operatione,  iuxta 
illud   '  vivere  viventibus  est  esse  ',   nec  prò  esse   educto  de  po- 


37  Questa  tesi  si  trova  alla  lettera  nei  Quolibeta  de  intelligentiis  di 
Alessandro  Achillini  (v.  sopra,  pp.  206  e  246,),  e  il  NiFO,  De  intellectu, 
I,  tr.  3,  e.  18,  la  dice  tolta  dal  trattato  De  intellectu  di  Sigieri  (cfr.  il  mio 
Sig.   di  Brab.  nel  pens.  ecc.,  p.  18  e  p.  73). 


302        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

tentia    niateriae;    sed   per   esse    intelligunt   informationem    quam 
corpori   tribuit   intellectus. 

Dicunt  etiam  quod,  quando  aliqua  forma  unitur  alicui  mate- 
riae,  duo  debemus  considerare:  primum,  prout  ipsa  forma  ma- 
teriam  constituit  in  esse,  scilicet  prout  forma  materiam  informat 
eique  nomen  et  difììnitionem  concedit  simul,  prout  ipsa  forma  a 
materia  sustinetur  ac  ab  ea  dependet  in  esse  et  conservari  secun- 
dum  suum  genus  causae,  ac  etiam  ab  ea  in  operari  dependet; 
secundum  autem  prout  aliqua  forma  aliquod  subiectum  sive 
materiam  in  esse  constituit,  ipsa  tamen  per  subiectum  vel  ma- 
teriam in  esse  non  constituitur,  sicut  se  habet  intelligentia  et 
orbis;  et  huiusmodi  asserunt  se  habere  rationalem  animam  ad 
hominem,  sive  ad  orbem  humanum  et  suas  partes,  ut  iam  dictum 
est.  Dat  ante  intelligere  hanc  distinctionem  Averroys,  Physicorum 
primo,  comm.  Ixiii,  ubi  ait:  '  Et  quia  coelum  caret  hoc  subiecto, 
ideo  caret  forma  quae  substentetur  per  hoc  subiectum,  et  fuit 
necesse  ut  forma  eius  sit  liberata  ab  hoc  subiecto,  et  non  habet 
constitutionem  per  corpus  codeste,  sed  corpus  codeste  consti- 
tuitur per  illam,  ut  scies  alibi  '  etc.  Ex  quibus  apparet  aliquam 
esse  formam  subiectum  suum  tantum  constituens,  non  autem 
per  illud  constituta,  sicut  est  de  forma  codi  et  de  anima  intel- 
lectiva  in  proposito  nostro;  alia  vero  est  forma  constituens  su- 
biectum suum  in  esse,  ac  per  illud  ipsa  quoque  in  esse  constituta» 
Hoc  idem  dicitur  in  vili.  Physicae  auscultationis,  ex  comm.  lii.... 
Illud  idem  etiam  et  in  capite  ii.  De  substantia  orbis....  Hanc  eandem 
sententiam  possumus  sumere  a  commentatore  iii.  De  anima^ 
comm.  V.  et  comm.  xx,  non  minus  quam  a  Themistio,  ibidem  in 
Paraphrasi  sua  de  anima.  Caeterum  quod  ista  sit  opinio  commenta- 
toris  Averroys,   ex  verbis  suis  intdligi  potest.   Ait  enim.... 

Nel  cap.  IO,  il  Taiapietra  riferisce  le  obiezioni  che  a  lui 
facevano  gli  altri  averroisti,  i  quali  ritenevano  che  per  Averroè 
r  intelletto  è  separato  dall'uomo,  sì  che  «  intentio  fuit  commen- 
tatoris,  quod  intellectus  possibilis,  licet  sit  unicus  in  omnibus 
hominibus,  non  tamen  proprie  dat  esse,  sed  operationem,  eo 
modo  quo  dicunt  aliqui  intelligentiam  uniti  coelo,  non  dando 
ei  perfectiones  primas,  sed  tantum  secundas,  et  hoc  modo 
anima  ipsa  intellectiva  unitur  homini,  secundum  commen- 
tatorem,  mediantibus  scilicet  fantasmatibus  ».  Ed  anzi  tutto 
riferisce  cinque  obiezioni  ricavate  dalle  opere  dei  vecchi  aver- 
roisti. A  queste  ne  aggiunge  ben  ventisette  che  gli  movevano 
i  contemporanei,  irritati  dal  vedere  la  dottrina  d' Averroè 
interpretata  in  modo  così  diverso  dal  consueto  :  «  ex  modernis 
autem  inveniuntur  quos  adeo  positio  nostra  in  via  commen- 
tatoris  fastidit,  quod,  ut  eam  penitus  delerent,  omne  quasi 
possibile  induci  contra  illam  attulere  »,  Nel  riferire  questi  27 


IL    SIGIERIANO    GERONIMO    TAIATIETRA  303 

argomenti,  egli  usa  sempre  il  plurale  «  dicunt  »,  «  volunt  »  etc. 
Ma  giunto  alla  fine  del  capitolo,  abbandona  il  plurale  e  addita 
un  certo  dottore  contemporaneo  di  cui  però  non  fa  il  nome: 
«  Ex  his  potissime  vult  iste  doctor  colligere  positionem  hanc 
contradicere  fundamentis  Averroys  expresse,  ut  supra  dictum 
est.  Et  fortius  et  uberius  instetit  iste  homo  in  hac  materia,  quam 
aliquis  alter  quem  ego  unquam  viderim.  Et  iudicio  meo  multum 
laboravit  hic  vir,  sed  frustra....  ».  E  nel  capitolo  successivo, 
rispondendo  a  queste  obiezioni,  torna  ad  accennare  a  costui 
{ad  vigesimum  septimum)  :  «■  Et  certe  sum  admiratus  de  isto 
homine  qui  aliquas  tam  frivolas  rationes  aduxerit  ».  Quasi 
con  certezza  si  può  ritenere  che  questo  dottore  averroista  che 
inveiva  contro  quello  che  egli  riteneva  un  travisamento  del 
pensiero  d'Averroè,  fosse  Marcantonio  Zimara?^.  Ad  ogni 
modo  è  indubbio  che  la  controversia  non  era  tra  averroisti  e 
antiaverroisti,  ma  tra  averroisti  e  averroisti,  cioè  tra  primi 
cugini,  se  non  proprio  tra  fratclh  carnali.  Ed  erano  maestri 
dello  studio  patavino:  «Sed  post  hos  invenio  aliquos  qui  in 
gymnasio  publico  patavino  se  magnos  philosophos  faciunt, 
voluntque  per  urbem  digito  ostendi  ac  ab  omnibus  observari; 
sed  quo  iure  non  video  »  (/&.).  Alla  spocchia  di  questi  «  chaco- 
averroyci  expositores  »  il   Taiapietra  oppone   la  sua  superba 


"1^  Cfr.  sotto,  p.  340.  Marcantonio  Zimara,  che  nel  1505  de- 
dicava ad  Andrea  Mocenigo,  discepolo  del  Pomponazzi  (v.  sopra, 
p.  289)  la  Quaestio  de  principio  individuationis ,  le  Annotationes  in 
Ioannem  Gandavenseni  super  Quaestionibits  Metaphysicae  e  la  Quaestio 
de  triplici  causalitate  intelligentiae  (in  appendice  alle  Ouaesiiones  di 
Giov.  di  Jandun  sulla  Metafisica,  Venezia,  1505),  era  quello  che  meglio 
rappresentava  l'averroista  combattuto  dal  Taiapietra  (v.  sotto,  p.  34  ) 
sgg.).  Non  è  tuttavia  da  escludere  che  egli  si  riferisse  direttamente  al 
Pomponazzi,  che,  discutendo  dell'  immortalità  dell'anima,  nel  1504, 
aveva  combattuta  la  dottrina  sigieriana  in  questi  termini  (cfr.  Kri- 
steller,  1.  e,  p.  gì)  :  «  Alia  est  opinio  quorundam  se  averroistas  existi- 
mantium,  qui  dicunt  quod  anima  ita  se  habet  ad  corpus  sicut  forma  ad 
materiam.  Vult  autem  opinio  ista  quod  fuerit  de  intentione  Averrois, 
animam  intellectivam  esse  formam  dantem  esse  ipsi  corpori.  Formarum 
autem  dantium  esse  aliquae  sunt  constitutae  in  esse  per  subiectum 
et  eductae  de  potentia  subiecti  et  insunt  ex  mutua  dependentia  ei; 
aliae  vero  sunt  quae  nec  sunt  constitutae  in  esse  per  subiectum,  nec 
sunt  eductae  de  potentia  subiecti,  nec  insunt  ei  ex  mutua  dependentia, 
tamen  dant  esse  ipsi  subiecto.  Et  talis  forma  praesupponit  corpus 
organizatum  actu  existens,  et  [non]  inducitur  absque  disposinone 
praevia,  sed  praesupponit  omnes  conditiones  requisitas  ».  Le  stesse 
cose  nel  ms.  napol.  Vili.  E.  42,  f.  i84r.  Cfr.  «  Giorn.  Crit.  Filos.  Ital.  »,. 
XXXVII,   1958,  p.  346. 


304        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

certezza  di  essere  nel  vero  :  «  Et  haec  et  tanta  dixi,  quia  hanc 
viam  ad  mentem  commentatoris  caeteris  subtiliorem  et  pro- 
babiliorem  esse  existimo,  ac  ab  omni  contradictione  remo- 
tiorem  »  (cap.  11).  E  più  oltre:  «Et  ista  est  resoluta  doctrina 
philosophi,  et  panis  non  est  tradendus  canibus  »   (ib.). 

Nel  mio  studio  sulla  diffusione  del  commento  di  Simplicio 
al  De  anima  e  sulle  ripercussioni  ch'esso  ebbe  nelle  contro- 
versie della  fine  del  secolo  XV  e  di  quello  successivo,  ho  di- 
mostrato che  i  primi  a  trarne  profìtto  furono  Giovanni  Pico 
della  Mirandola  e  il  Nifo,  e  come  l'uno  e  l'altro,  ma  special- 
mente il  secondo,  avessero  trovato  in  Simplicio  una  conferma 
del  loro  averroismo  di  marca  sigieriana  39.  La  quale  opinione 
è  condivisa  dal  nostro,  che  nel  cap.  XII  così  scrive: 

Post  haec  omnia  invenitur  una  alia  opinio  quae  Simplicio  ascri- 
bitur,  qui  ex  intellectu  et  cogitativa  aggregai  animam  rationalem, 
quasi  ex  istis  compositam,  quae,  si  recte  intelligatur,  ad  iiostram 
opinionem  reducitur.  Puto  enim  quod,  quum  ipse  fuerit  unus 
ex  bonis  Aristotelis  expositoribus  (ut  omnes  graeci  latinique 
philosophi  de  ipso  testantur),  voluerit  cogitativam  realiter  di- 
stingui ab  intellectu  ;  verum  quoquo  modo  rationalis  anima  ex 
cogitativa  et  intellectu  componi  dicitur,  prò  quanto  cogitativa 
omnino  habet  introitum  in  essendo  animam  hominis  licet  non  ulti- 
mate, et  distinguendo  ipsum,  ac  ipsum  in  specie  non  ultimate 
reponendo.  Et  confirmatur  hoc,  quia  quae  ad  invicem  quoquo 
modo  vel  vere  componuntur,  ad  invicem  et  distinguuntur.  NTon 
autem  credo  Simplicium  tenere  cogitativam  et  intellectum  esse 
idem  realiter,  secundum  tamen  gradus  distinctos,  quoniam  tunc 
realiter  essent  plures  intellectus  generabiles  et  corruptibiles,  sicut 
de  cogitativis  evenit.  Et  hanc  sententiam  confirmat  Averroys, 
duodecimo  Methaphysicae,  comm.  xxxviii,  ubi  ait:  '  Et  ex  hoc 
quidem  apparet  bene  quod  Aristoteles  opinatur,  quod  forma 
hominum,  in  eo  quod  sunt  homines,  non  est  nisi  per  continua- 
tionem  eorum  cum  intellectu  qui  declaratur  in  libro  de  anima  '. 
Unde  patet  quod  Averroys  vult  quod  differentia  hominis,  in- 
quantum homo,  ultimate  sit  ab  intellectu.  Hoc  idem  sentit  Aver- 
roys in  Libro  destruc.  desiruc,  [disp.  i],  in  solutione  dubii  xxxiii, 
et  viii  ibidem.  Quare  etc...  Et  sic  etiam  verificatur  quod  intel- 
lectus is  non  est  actus  corporis,  idest  non  est  forma  educta  de 
potentia  materiae  ab  agente  scilicet  naturali,  ut  testatur  philo- 
sophus;  ob  id  tamen  nihil  prohibet  quod  intellectus  ipse  sit  actus 
corporis,  idest  forma  informans  corpus  et  dans  esse  corpori,  ut 
supra  iam  diximus....  Et  ex  his  habetur  haec  Simplicii  positio  in 
via  peripatheticorum  optime  tirmata. 


39  Vedansi  più  oltre  i  saggi  XIII  e  XIV. 


IL    SIGIERIANO    GERONIMO    TAIAPIETRA  305 

Indi  il  giovane  maestro,  dopo  aver  fatto  vedere  in  che  la 
tesi  d'Averroè  sull'  intelletto  possibile  differisca  dalla  dottrina 
di  Temistio  e  di  Plotino  (cap.  13),  e  dopo  aver  risolte  le  obie- 
zioni degli  altri  averroisti  e  degli  avversari  dell'averroismo 
(capp.  14-18),  torna  ad  insistere  che  la  sua  maniera  d' inten- 
dere il  pensiero  d'Averroè  concorda  in  tutto  e  per  tutto  con 
quanto  asserisce  il  commentatore  di  Cordova  e,  con  lui,  pen- 
sano i  migliori  averroisti,  a  capo  dei  quali  è  Sigieri  (cap.  ig)  : 

Ecce  ergo  qvio  modo  vult  ipse  (Avwroes)  intellectum,  inquan- 
tum quidditas,  partiri  per  materias  informatas  dimensionibus 
et  cogitativis;  inquantum  vero  est  individuum,  esse  id  per  quod 
individuum  hominis  est  hoc.  Intellectus  ergo,  ut  habet  esse  reale, 
est  forma  suo  orbi;  ut  autem  habet  esse  intentionale  et  univer- 
sale, est  materia  omnium  intellectuum  separatorum.  Et  ista  vi- 
detur  esse  plana  sententia  Averroys  in  hoc  quaesito,  ut  de  mente 
eius  tenent  praeclarissimi  viri  et  maxime,  inter  alios,  Subgerius, 
praecipuvis  averroysta.  Et  iste  fuit  discipulus  Alberti  et  contem- 
poraneus  Thomae,  et  qui,  in  quodam  suo  tractatu  De  intellecttt 
adversus  Thomam,  opinatur,  in  via  Averro^'S  et  philosophi,  in- 
tellectum materialem  esse  formam  perpetuam  ex  utroque  latere. 

Dal  modo  come  si  parla  qui  di  Sigieri,  è  evidente  che  il 
Taiapietra  aveva  presente  il  trattato  De  intellectu  del  Nifo 
che  era  stato  stampato  a  Venezia  nel  1503.  Ma  mentre  questi 
s'era  già  separato  dell'averroismo  professato  a  Padova  nei 
suoi  primi  anni  d' insegnamento,  il  giovane  filosofo  veneziano 
è  ancora  perfettamente  averroista,  e  si  direbbe  che  dalle  opere 
del  Nifo  abbia  attinto  soltanto  quel  che  gli  serviva  per  cono- 
scere il  pensiero  dell'averroista  brabantino,  del  quale  si  fa- 
ceva difensore  e  propugnatore  dinanzi  al  capitolo  generale 
dei  frati  minori  a  Roma,  contro  le  argomentazioni  del  Nifo 
stesso   ch'egli   rintuzza. 

Il  secondo  trattato  del  secondo  libro  ha  per  oggetto  1'  «  ul- 
tima prosperitas  et  beatitudo  »,  ossia  1'  £ÙSai!J.ovia  aristotelica, 
intorno  alla  quale  dissertarono  a  lungo  gli  averroisti.  Sigieri,  a 
quanto  riferisce  il  Nifo,  ne  aveva  parlato  in  un  libretto  De 
felicitate,  ed  aveva  sostenuto  in  proposito  forse  le  sue  più 
ardite  tesi  40.  Per  Aristotele  il  fine  supremo  dell'uomo,  in  quanto 
uomo,  consiste  nel  pieno  appagamento  del  desiderio  che  la 


40  Nifo,  De  intellectu,  II,  tr.  2,  e.  17;  De  beatitudine  animae,  II,  com- 
mento 21.  Vedasi  il  mio  Sigieri,  cit.,  pp.  22-28,  e  qui  sopra,  pp.  215-16. 

20 


306        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

mente  ha  di  sapere,  cioè  di  conoscere  la  realtà,  non  solo  nelle 
sue  manifestazioni  contingenti,  ma  nelle  sue  cause  e  ragioni 
eterne.  Occorre  quindi  che  la  mente  risalga,  al  di  là  del  mondo 
sensibile  e  di  quel  che  nasce  e  muore,  all'eterno  e  immuta- 
bile, al  mondo  metafisico,  al  cui  centro  è  il  principio  di  ogni 
intelligibilità  e  il  fine  ultimo  cui  le  cose  tutte  tendono.  Ma  può 
r  intelligenza  umana,  legata  com'  è  alla  sfera  della  sensibilità, 
giungere  a  conoscere  in  se  stessa  la  pura  realtà  ideale  di  Dio 
e  delle  intelligenze  motrici  intorno  a  lui  ?  Aristotele  non  dà 
una  soluzione  chiara  di  questo  problema;  e  perciò  i  suoi  com- 
mentatori greci  ed  arabi  l'avevano  cercata  nel  pensiero  pla- 
tonico e  neoplatonico,  elaborando  quella  tipica  dottrina  della 
copiilatio  della  mente  umana  con  l' intelletto  agente,  della 
quale  si  fece  un  necessario  complemento  dell'etica  aristote- 
lica. Se  r  intelletto  umano  non  fosse  capace  d' innalzarsi 
a  conoscere  in  se  stesse  le  sostanze  separate,  aveva  detto 
Averroè  nel  commento  i  al  secondo  della  Metafisica,  il  desi- 
derio umano  di  conoscere  la  verità  sarebbe  vano,  ed  inutile 
sarebbe  l'esistenza  di  tali  sostanze  che  noi  non  potremmo 
mai  arrivare  a  conoscere  nella  loro  vera  natura.  È  certo  in- 
teressante veder  posto  il  desiderio  umano  di  conoscere  a 
fondamento  dei  nostri  giudizi  intorno  alla  realtà.  Ma  a  ciò 
non  badarono  i  pensatori  medievali.  I  quali  si  sforzarono  piut- 
tosto d' intendere  come  la  conseguenza  fosse  dedotta  dalle 
premesse,  contro  S.  Tommaso  che  negava  la  legittimità  di 
questa  deduzione  4'.  In  che  modo  giustificasse  la  legittimità 
della  deduzione  Sigieri,  è  fatto  conoscere  dal  Nifo,  al  quale 
s' ispira  anche  questa  volta  il  giovane  patrizio  veneziano  nel 
riecheggiare  che  fa  la  dottrina  sigieriana: 

Onod  si  foret  hominibus  omnino  impossibile  (conoscere  in  se 
stesse  le  sostanze  separate  e  Dio)...,  tane  natura  ociose  egisset; 
fecisset  enim  id,  qnod  est  in  se  naturaliter  intellectum,  non  com- 
prehensum  ab  aliquo,  et  sic  esset  frustra,  quemadmodum  si  fe- 
cisset solem  non  comprehensum  ab  aliquo  visu.  Hanc  sequellam 
diversi  diversimode  deducunt;  quidam  enim  eam  sic  deducere 
consueverant.  Supposito  primo  quod  omnis  intellectio,  conve- 
niens  intellectui  possibili,  non  conveniat  quin  etiam  homini 
competat,  hoc  expresse  sensit  philosophus,  primo  De  anima, 
Lxiiii,  quicquid  dicant  alii;  hoc  quippe  supposito  negato,  aufertur 
omnis  via  commentatori  ad  probandum  coelum  intelligere;  quare 


41  S.  Tommaso,  In  Metaphys.,  II,  lect.   i. 


IL    SIGIERIANO    GERONIMO    TAIAPIETRA  307 

si  possibile  est  substantias  separatas  intelligi  ab  intellectu  possibili, 
possibile  est  quoque  substantias  separatas  intelligi  ab  hoc  homine. 
Quo  stante,  tunc  arguunt  sic.  Quandocumque  aliqua  reperitur 
forma  apta  non  recipi  in  maximo  receptivo  alicuius  generis,  illa 
eadem  non  est  receptibilis  in  minus  receptivo  eivisdem  generis. 
Sed  intellectus  possibilis  in  genere  intelligentiarum  est  maxime 
receptivus,  ut  constat  iii.  De  anima  42.  Igitur  si  primam  formam 
non  est  possibile  intellectum  possibilem  recipere,  ncque  etiam 
est  possibile  alium  intellectum  primam  ipsam  recipere  formam. 
Unde  omnes  frustrarentur  intelligentiae  mediae  ab  hoc  scilicet 
line,  qui  est  deum  gloriosum  et  sublimem  intelligere.  \'erum 
quandocumque  intellectus  abstractus  non  potest  intelligere  su- 
periora, ipse  non  potest  intelligere  inferiora;  sed  nulla  intelli- 
gentia  media  potest  primam  intelligere,  ut  iam  deductum  est; 
igitur  nulla  intelligentia  media  potest  et  intelligentiam  mediam 
intelligere  ;  sed  neque  deus  "  potest  intelligentias  medias  intelli- 
gere, ut  Divinovum  xii,  de  mente  Averroys  43  concluditur.  Et 
neque  intellectus  noster  possibilis,  ut  fatentur  adversarii,  eas 
intelligere  potest.  Igitur  intellectus  possibilis,  naturaliter  in  se 
intelligibilis,  non  est  ab  aliquo  comprehensus;  sic  patet  ociositas 
maxima  in  natura.  Ex  quo  habetur  quod,  nisi  abstracta  intelli- 
gerentur  a  nobis,  essent  utique  ociosa.  Et  haec  fuit  deductio 
Subgerii  44,  viri  in  familia  averroyca  non  obscuri  (Lib.  II,  tr.  2, 
e.  3)- 

Ma  il  Taiapietra  sa  che  non  tutti  gli  averroisti  convengono 
nel  modo  di  argomentare  di  Sigieri;  dal  quale  dissente  in  parti- 
colare  Giovanni   di   Jandun: 

Alii  autem,  ut  Ioannes  Gandavensis  in  Quaestionihus  suis  de 
anima,  quaestione  trigesima  septima  45,  aliter  deducunt.  Et  ipsi 
accipiunt  primo  quod  substantiae  separatae  comparantur  ad  in- 
tellectum nostrum  ut  formae  natae  intelligi;  intellectus  vero 
noster  comparatur  eis  ut  subiectum  natum  recipere  illas  comprehen- 
sive  et  spiritu aliter;  quod  ex  verbis  Averro3^s  multis  viis  probari 
potest.  Primo,  namque  intellectus  possibilis  ultimus  est  abstracto- 
rum;  sed  semper  infìmus  intellectus  est  materia  superioris,  infima 
enim  intelligentia  perficitur  a  superiori  sicut  materia  perficitur 
a  forma,  ut  dicunt  philosophi.  Et  confirmatur:  quoniam  vilius 
est  potentia  respectu  nobilis,  et  nobile  est  tanquam  actus  respectu 
vilis;  igitur,  quemadmodum  substantiae  separatae  sunt  natae 
ntelligi  secundum  earum  naturas,  ita  noster  intellectus  est  natus 


42  Arist.,  De  anima,  III,  t.  e.  5  (e.  4,  ^zgz,  21-24)  e  14  (429b  30sgg.). 

43  Poiché  secondo  Averroè,  Metaphys.,  XII,  comm.  51,  Dio  conosce 
soltanto  se  stesso  e  non  le  cose  inferiori  a  sé. 

44  Cfr.  NiFO,  De  intell.,  II,  tr.  2,  e.   11;  De  beat,  an.,   I,  comm.  53. 

45  O  meglio,  «  trigesima  sexta  ».  Ma  anche  questa  svista  è  nel  Nifo, 
De  intell.,  1.  e. 


3o8        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

perfici  ab  eis  secundum  suani  naturain.  Amplius,  intellectus  pos- 
sibilis  est  materia  omnium  abstractorum  et  omnium  intelligi- 
bilium;  sed.  materia  non  corruptibilis  ab  ipsis  formis  est  apta  et 
potens  suscipere  omnes  formas;  intellectus  igitur  noster  potest 
recipere  omnia  intelligibilia.  Accipiatur  igitur  prò  constanti, 
quod  intelligentiae  sint  potentes  intelligi  ab  intellectu  nostro 
potentia  quidem  naturali;  et  similiter  intellectus  noster  potest 
intelligere  illas  potentia  naturali,  sicut  et  ipsa  materia  potentia 
naturali  potest  omnes  suscipere  formas.  Quo  stante,  arguit  modo 
Ioannessic:  intellectus  possibilis,  corpori  continuus,  est  receptivus 
et  passivus  intellectionis  abstractarum  [intelligentiarum]  ;  ergo 
habet  naturalem  potentiam  recipiendi  intellectiones  earum,  per 
earum  scilicet  essentias;  ergo,  si  aliquando  per  cognitionem  non  at- 
tinget  eas,  tunc  natura  egisset  ociose,  quoniam  fecisset  illam  poten- 
tiam naturalem  intellectus  nostri  ad  illas  capessendas,  quae 
tamen  in  actum  nunquam  adduceretur.  Et  quod  haec  sit  Aver- 
roys  ratio,  declarat  ibidem  Ioannes  exemplo  eius.  Et  sic  patet 
quomodo  Ioannes  deducit  illam  sequellam,  exponendo  totam 
potentiam  intelligendi  ex  parte  nostri  intellectus,  et  non  ex  parte 
intelligentiarum,  ut  fecit  Subgerius,  qui  totam  intelligendi  po- 
tentiam  ad   substantias  separatas  convertit   {ib.). 

La  stretta  dipendenza  dell'averroista  veneziano  dal  Nife, 
si  rivela  oltre  che  dai  testi  citati,  anche  da  un  particolare  ca- 
ratteristico, là  dove  s'accenna  (cap,  5)  a  quell'esposizione  del 
pensiero  averroistico  che  «  veriores  averroyci....  exceperunt 
a  filio  Averroys  in  tractatu  suo  De  intellectu  »  46. 

Ma  comunque  interpretata,  la  dottrina  averroistica  sulla 
«  copulatio  »  e  sulla  «  felicitas  Averroistarum  »,  di  cui  era 
solito  beffarsi  il  Perette,  è  evidentemente  contraria  all'  in- 
segnamento teologico.  Perciò  il  Taiapietra  s'affretta  ad  ag- 
giungere : 

Verum  quicquid  dicatur  principiis  innitendo  naturalibus  ad 
mentem  philosophi  et  commentatoris,  nihilominus  secundum 
veram  theologorum  sententiam  dicimus  nullam  generi  humano  in 
hac  vita  contingere  posse  foelicitatem  et  beatitudinem,  sed  illam 
ei  servari  post  mortem  in  alio   statu.   Viatori  enim   non   potest 


46  NiFO,  De  intell.,  I,  tr.  4,  e.  12:  «Amplius,  filius  Averroys  in  tractatu 
de  intellectu»;  II,  tr.  2,  e.  5:  «  Declaravit  has  tres  demonstrationes 
filius  Averroys  in  tractatu  de  intellectu»,  cfr.  ib.,  e.  ii;  a  anche  nei 
Collectanea  III,  ad  t.  e.  36:  «et  hanc  domonstrationem  dedit  Alpheeh 
Averroys  filius  in  tractatu  quem  edidit  ad  instantiam  patris,  et  eam 
multum  laudavit  »;  e  più  oltre:  «  et  si  inspicies  librum  Alpheeh  Averrois 
filij  »;  e  ancora  più  giù:  «  Et  in  commentariis,  quos  scripsi  in  libro  feli- 
citatis    Averroys   et   eius   filii  ». 


IL    SIGIERIANO    GERONIMO    TAIAPIETRA  309 

inesse  foelicitas  nisi  in  patria,  nec  etiam  abstracta  ab  eo  cognosci 
possunt  cognitione  matutina,  sed  tantum  vespertina,  ut  sacri 
nostri  recte  sentiunt  theologi   (cap.   5). 

Con  siffatta  dichiarazione,  egli  ha  ottenuto  il  duplice  scopo, 
di  rassicurare  i  teologi  sulle  proprie  intenzioni,  e  di  poter  di- 
scutere con  tutta  libertà  intorno  al  vero  pensiero  del  filosofo 
e  del  commentatore.  E  di  questa  libertà,  procacciata  a  prezzo 
di  quella  dichiarazione,  approfitta  nel  modo  piìi  ampio,  atte- 
nendosi al  famoso  commento  36  del  terzo  libro  del  De  anima. 
Anzi  tutto,  coll'esporre  e  criticare  la  dottrina  di  Alessandro 
intorno  al  modo  come  l' intelletto  umano  giunge  ad  unirsi 
con  r  intelletto  agente,  che  per  l'Afrodisio  è  Dio  (capp.  6-11), 
e  quella  di  Avenpace  e  di  Temistio  (capp,  12-14);  poi  con  lo 
spiegare  e  difendere  la  tesi  che  ad  essi  oppone  Averroè,  «  qui 
inter  omnes  philosophos  post  Aristotelem  perfectior  fuit  et 
subtilior  »  (cap.  15).  Nei  capp.  17  e  18  il  Taiapietra  combatte 
r  interpretazione  che  del  pensiero  d'Averroè  dava  Giovanni 
di  Jandun,  il  quale  «  opinatus  est  quod  foelicitas  nostra  con- 
sistat  in  actu  sapientiali,  et  sit  sapientia  quae  habetur  Divi- 
normn  xii,  a  textu  commenti  xxix  usque  in  finem  ».  Come  si 
vede  la  fehcità  in  siffatta  teoria  era  a  portata  di  mano:  per 
quanto  astrusa,  la  Metafisica  aristotelica  non  è  poi  inintelli- 
gibile, e  sopra  tutto  abbastanza  facile  a  capire  è  la  parte  del 
XII  libro  che  parla  appunto  delle  sostanze  separate  che  muo- 
vono i  cieli,  e  della  pura  mente  di  Dio.  Ma  il  possesso  delle 
scienze  speculative  non  basta  alla  suprema  felicità  dell'  in- 
telletto umano,  occorre  l' inerenza  formale  del  primo  vero 
nella  mente  umana,  la  cui  potenza  resti  così  tutta  attuata. 
Il  possesso  delle  scienze  speculative  è  condizione  per  giungere 
a  questa  beatitudine  dell'  intelletto,  non  il  fine  ultimo  cui 
aspira  la  mente  umana,  che  riposa  solo  nel  possesso  del  vero 
eterno  «  fuor  del  qual  nessun  vero  si  spazia  ».  Ora  a  questo 
possesso  s'arriva  soltanto  con  la  coptilatio  o  continiiatio  del- 
l' intelletto  possibile  con  l' intelletto  agente,  sì  che  la  poten- 
zialità del  primo  sia  tutta  sommersa  e  assorbita  nell'attualità 
del  secondo  : 

Ipse  (commentator) ,  commento  xxxvi  (3ÌÌ  De  anima)  totiens 
allegato,  inquit  quod  in  adeptione  illa  nos  intelligimus  omnia  et 
sumus  sicut  dii,  et  quod  ille  modus  intelligendi  non  -currit  cursu 
scientiarum    cogitativarum,    quae    habentur    per    discursum,    sed 


3IO       l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

est  per  substantiam  intellectus  agentis,  in  quo  omnia  intuitive 
cognoscimus.  Convincitur  ergo  ad  intentionem  commentatoris, 
quod  ea  in  cognitione  intuitiva  nos  utique  foelicitamur;  non 
autem  in  illa  quae  in  Metaphysica  per  demonstrationem  habetur 
{ib.,    cap.    i8). 

Del  tutto  aderente  all'  interpretazione  sigieriana  del  pen- 
siero d'Averroè,  quale  ci  è  nota  per  l'esposizione  che  ne  fa  il 
Nifo  47  e  che  concorda  con  quanto  pensava  Alessandro  Achil- 
lini  48,  è  anche  l' interpretazione  che  della  «  vera  dottrina  » 
del  commentatore  ci  dà  il  Taiapietra: 

Superest  modo  circa  ambiguitatem  hanc  magni  commenta- 
toris afferre  sententiam,  quam  omnes  viri  sublimes  in  philosophia 
ac  in  secta  averroyca  primarii  nobiscum  integre  et  perfecte  sen- 
tiunt.  Opinamur  enim  itaque  foelicitatem  esse  deum.  Nam  as- 
sumpta  foelicitatis  diffinitione  prò  maiori,  tunc  si  addatur  haec 
minor,  videlicet:  sed  deus  est  ultimus  finis,  optimus,  propter 
se  eligibilis,  ad  nullum  aliud  ordinabilis,  cuius  gratia  omnia  eli- 
guntur,  bonus  et  perfectus,  pulcherrimus,  delectabilissimus,  per 
se  sufficiens,  honorabilis,  principium  et  causa  omnium  bonorum; 
ex  his  ergo  optime  convincitur,  quod  deus  est  foelicitas.  Foeli- 
citas  enim,  quia  rationem  totius  boni  amplectitur,  omnem  quietat 
voluntatem;  quia  vero  rationem  totius  entis  continet,  universum 
saciat  intellectum.  Sed  in  nullo  nisi  in  deo  verius  reperiuntur 
ratio  totius  boni  et  totius  entis.  Ergo  etc  49.  Et  hoc  forte,  et  sine 
forte,  balbutiendo  intellexerunt  vetustiores  ;  nec  valet  quod 
dicunt  quidam  moderniores,  quod  bene  concluditur  deum  esse 
foelicitatem  simpliciter,  sed  non  homini  propriam....  Sed  profecto 
hoc  nihil  est,  ut  piane  ostendimus  in  superiori  capite:  hanc  enim 
conclusionem  habent  Averroes  et  Aristoteles  expresse,  x.  Nicho- 
machiae,  capite  vii,  scilicet  quod  deus  est  foelicitas  sibi  et  aliis 
intelligentiis  et  etiam  homini  5°.  Solum  enim  ipse  est  perfectis- 
siinum  intelligibile  et  appetibile  propter  se;  in  eo  enim  eminenter 
reperitur  ratio  obiecti  intellectus  et  voluntatis,  immo  solum  ipse 
est  eminenter  omnia  bona  continens.  Et  confirmatur,  quoniam  id 
quo  foelicitantur  dii  omnes  est  suprema  hominis  et  omnium  foelici- 
tas; sed  deus  est  quo  omnes  foelicitantur;  omnes  enim  intellectus 
foelicitantur  intelligendo  deum;  sed  intellectio  qua  ipse  deus 
intelligitur  est  ipse  deus;  igitur  omnia  deo  foelicitantur.  Et  haec 
ratio  tota  est  philosophi,  x.  Nichomachiae,  cap.  x.  Quare  conclu- 
ditur quod  deus,  ipse  formaliter  est  foelicitas.  Amplius,  quo  foe- 


47  Cfr.  il  mio  Sigieri,  p.  24. 

48  V.  sopra,  pp.  213-215. 

49  Alla  lettera  dal  Nifo,  De  intellectu,  II,  tr.  2,  e.  2. 

50  Allude  forse  al  passo  àeWEtìi.  Nicom.,  X,  e.   7,   ii77b   30-32, 
forse  meglio  al  cap.   8,   ii78b  21-32,   e  al  cap.  9,   ii79a  23-32. 


IL    SIGIERIANO    GERONIMO    TAIAPIETRA  3II 

licitatur  deus,  foelicitantur  et  alii  omnes  intellectus,  ut  expressa 
est  sententia  philosophi,  Divinorum  xii,  et  praecipue  commen- 
tatoris,  ibi,  comm.  xxxviii.  Sed  deus  non  foelicitatur  nisi  dee, 
ut  inquit  vii.  Politicoruni  :  '  deus  foelix  quidem  est  et  beatus, 
propter  nullum  autem  extrinsecorum  bonorum,  sed  propter 
seipsum  ipse'51.  Deo,  ergo,  nedum  homo,  sed  omnia  foelicitantur. 
Sed  nihil  foelicitatur  nisi  foelicitate.  Deus  igitur  ipsa  est  foelicitas. 
Et  ex  hiis  verifìcantur  omnia  verba  Aristotelis  in  toto  libro  Ethi- 
coriim,  ubi  de  foelicitate  sermonem  habet  (cap.   ig). 

Giunto  alla  fine  del  secondo  trattato,  il  giovane  filosofo, 
rendendosi  ben  conto  che  siffatta  felicità  è  irraggiungibile  al- 
l'uomo in  questa  vita,  torna  ad  avvertire  il  lettore  che  tutto 
quello  che  abbiamo  udito  da  lui  su  questo  argomento,  ad  altro 
non  mirava  se  non  a  chiarire  qual  è  in  proposito  il  vero  pen- 
siero  d'Aristotele   e   d'Averroè: 

Hoc  enim,  in  explanandis  auctoribus,  expositoris  officium 
esse  consuevit,  ita  quod,  quid  ipse  velit  auctor,  et  determinet  et 
ad  verbum  interpretetur,  etiam  si  illud  falsum  sit,  ut  auctorum 
integrae  et  non  manchae,  fideles  et  non  depravatae  sententiae 
circa  quaeque  apud  omnes  recipiantur5-.   His  autem  sacri  nostri 


51  Poi.  (ediz.  Immisch.  Leipzig,  Teubner,  1929),  VII,  e.  i,  i323b 
24  sgg. 

52  Così  anche  il  Nifo  nella  lettera  all'  inquisitore  Nicolò  Grassetto, 
della  quale  è  stato  fatto  cenno  sopra  p.  285,  nota  12  :  «in  exponendis  enim 
auctoribus,  commentatoris  officium  solet  esse,  quid  ipse  auctor  velit  ac 
sentiat,  etiam  si  id  interdum  minime  verum  sit,  interpretari  ».  Di  questo 
che  è  non  solo  diritto  ma  dovere  di  ogni  interprete  onesto,  si  valsero 
tutti  gli  averroisti  per  esporre  con  la  massima  libertà  il  pensiero  d'Ari- 
stotele e  dei  suoi  interpreti.  Ma  il  Nifo,  per  entrare  nelle  buone  grazie 
dell'inquisitore,  aggiunge:  «  Itaque  ut  in  illis  quae  ad  philosophiam 
pertinebant,  philosophi  ac  interpretis  munere  functi,  ipsum  auctorem 
exposuimus;  ita  in  his  quae  fidei  catholicae  contraria  erant,  ultra  expo- 
sitoris terminos  evagati  (quemadmodum  hominem  christianum  decebat), 
ipsi  auctori  contradicimus  eiusque  opiniones  ac  dieta  omnia  theolo- 
gorum  nostrorum  auxilio  confutavimus  »  (quello  che  il  Taiapietra  e  in 
generale  gli  averroisti  non  fanno).   Del  che  l'inquisitore  gli  dà  atto: 

« placetque  mihi  quod  in  philosophia,  christianae  fidei  non  immemor, 

in  plurimis  philosophos  redargueris,  nihilque  in  toto  opere  invenerim 
quod  castigatione  dignum  censeam  »  (in  fine  del  volume  che  contiene 
il  commento  del  Nifo  alla  Desfritctio  e  il  De  sensu  agente,  nell'ediz.  ve- 
neziana del  1497).  Di  questo  zelo  nel  redarguire  e  confutare  le  dottrine 
dei  filosofi  ancora  di  più  che  nel  commento  alla  Destriictio,  il  Nifo  fa 
mostra  nel  De  intellectit,  riveduto  e  corretto  per  l'edizione  del  1503, 
ove  è  evidente  il  proposito  di  rifarsi  una  verginità  filosofica  antiaver- 
roistica,  adoprandosi  a  far  credere  che  il  suo  distacco  dall'averroismo 
risalga  al  1492  e  preceda  quello  del  suo  maestro  Nicoletto  Vernia: 
«  Hec  sunt  que  preceptor  defendit  ad  mentem  Platonis  et  Aristotelis 


312        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

theologi  iuxta  christianam  nostrani  religionem  multa  addunt, 
quae  nos  ex  testimonio  prophetarum  credimus;  et  ideo  ea  tantum 
asserta  esse  volumus,  non  quaerentes  ad  liaec  aliquam  rationem, 
sed  quantum  ortodoxa  ecclesia  praecipit,  procul  dubio  asseveramus. 
Itaque,  ut  philosophum  decet  ac  peripatheticum  hoc  in  tractatu 
quae  ad  philosophiam  pertinebant,  more  phisici  interpretis, 
declaravimus,  ubi  non  parum  boni  fecisse  arbitramur,  quum 
multa  in  naturali  philosophia  obscura  et  latentia  iuxta  senten- 
tiam  philosophi  et  eius  magni  commentatoris  Averroys  in  lucem 
ediderimus  et  ea  bene  dispositis  aperte  propalavimus   (cap.   21). 

A  questo  secondo  trattato  ne  seguono  altri  quattro,  concer- 
nenti rispettivamente  quattro  argomenti  di  filosofia  naturale 
fieramente  controversi  tra  gli  aristotelici  delle  varie  tendenze, 
e  cioè  :  «  Utrum  nec  ne  apud  philosophum  plures  substantiales 
formae  ad  invicem  realiter  distinctae  in  substantiali  composito 
sint  ponendae  »  (tr.  Ili)  ;  «  Utrum  ad  intentionem  philosophi 
dementa  remaneant  formaliter  in  mixto  »  (tr.  IV)  ;  «  Utrum 
simplex  elementum  alterari  possit  et  a  se  »  (tr.  V)  ;  «  De  quo- 
rumcunque  simplicium  sive  mixtorum  primo  ac  proprie  dicto 
elemento  »  (tr.  VI)  ;  e  su  tutti  e  quattro  questi  argomenti  il 
Taiapietra  difende  con  risolutezza  ed  energia  la  dottrina 
d'Averroè  come  quella  che  combacia  perfettamente  coli'  in- 
segnamento di  «  quello  glorioso  filosofo  al  quale  la  natura 
più  aperse  li  suoi  segreti»,  come  pensava  Dante 53.  Ma  di  sif- 
fatti argomenti  il  nostro  palato,  che  ha  assaporato  Hume  e 
Kant,  non  ha  più  il  gusto,  che  non  hanno  perduto  invece  i 
neotomisti,  ai  quali  è  giusto  che  queste  pagine  siano  segnalate. 

Tale  il  programma  che  l'allievo  dei  maestri  padovani  aveva 
preparato  per  la  solenne  disputa  romana  del  6  giugno  1506. 
A  parte  l'accenno  abbastanza  vago  che  Marin  Sanudo  fa  del- 
l'obiezione del  cardinal  Gabrielli  ad  una  delle  tesi  sostenute 
dal  dottorando,  perché  «  l'era  ereticha  »,  non  sappiamo  a 
quali  altri  assalti  dovette  tener  testa  il  giovane  averroista 
veneziano;  sappiamo  soltanto  che  egli  giostrò  da  bravo  e  che 
il  giorno  appresso  «  il  papa  lo  dotoroe  ».  O  tempora  ! 


in  eo  libello  quem  inscripsit  De  animorum  pluralitate,  quem  confecit 
compluribus  annis  post  nostrum  De  intellectti  librum  »  (Nifo,  De  anima, 
edizione  del  1522,  comm.  al  t.  5  verso  la  fine).  Eppure  il  Nifo  sapeva 
bene  che  il  Vernia,  nella  dedica  dell'opera  al  card.  Domenico  Grimani, 
aveva  dichiarato  di  avere  scritto  anch'egli  il  suo  trattato  nel  1492. 
Cfr.  sopra,  p.  108. 
53  Conv.,    Ili,    V.    7. 


XI 

UN'  IMPORTANTE  NOTIZIA  SU  SCRITTI 
DI  SIGIERI  A  BOLOGNA  E  A  PADOVA 
ALLA  FINE  DEL  SEC.  XV  * 


Nel  volume  su  Sigieri  di  Brabante  nel  pensiero  del  Rinasci- 
mento italiano,  ebbi  a  riunire  alcune  importanti  testimonianze 
intorno  a  due  e  forse  tre  scritti  dell'averroista  brabantino,  che 
si  leggevano  ancora  a  Bologna  e  a  Padova  alla  fine  del  se- 
colo XV.  Queste  testimonianze  si  trovano  per  la  massima  parte 
nel  De  intellectn  et  daemonibiis  di  Agostino  Nifo,  il  quale  pre- 
tende d'avere  scritto  quest'opera  a  Padova  nel  1492,  quando 
già  s'era  distaccato  dall'averroismo  sigieriano  cui  egli  aveva 
prima  aderito.  E  pare  che  in  quegli  anni,  se  non  proprio 
nel  1492,  prima  certo  del  1497,  egli  avesse  scritto  davvero 
una  Quaestio  de  intellectu  in  senso  sigieriano,  e  che  in  seguito, 
fra  il  1496-98,  per  evitare  la  taccia  di  eresia  e  guai  maggiori, 
rielaborasse  quella  Quaestio,  sino  a  farne  il  trattato  De  in- 
tellectu, stampato  per  la  prima  volta  nel  1503,  e  dedicato  a 
Sebastiano  Badoèr  morto  appunto  nel  1498:  che  di  edizioni 
anteriori  non  esistono  tracce  (cfr.  sopra,  p.  286).  In  tal  mo- 
do il  Nifo  cercava  di  far  credere  che  egli  aveva  preceduto  il 
suo  maestro  Nicoletto  Vernia  nell'abbandono  dell'averroismo 
(cfr.  sopra,  p.  311,   n.  52). 

Nel  De  intellectu  e  nel  commento  al  De  animae  beatitudine 
di  Averroè,  il  Nifo  si  riferiva  a  due  opere  di  Sigieri  o,  com'egU 
scriveva,  «  Sugerius  »,  «  Suggerius  »,  «  Subgerius,  vir  gravis, 
secte  Averro3^stice  fautor,  etate  Expositoris  [cioè  di  S.  Tom- 
maso] ,  discipulus  Alberti  »,  «  Subgerius  contemporaneus  Tho- 
me  ».    Queste    due   opere    sono    un    «  tractatus   de   intellectu, 


*  Dal  «Giorh.  Crit.  d.  Filos.  Ital.  »,  XXXV,   1956,  pp.   204-209. 


314        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

tertio  loco  inscriptus,  qui  fuit  missus  Thome,  prò  responsione 
ad  tractatum  suum  contra  Averroim  »,  e  un  «  liber  de  feli- 
citate »  che  pare  identico  col  «  tractatus  intelligentiarum  et 
beatitudinis  »,  ricordato  dallo  stesso  Nifo  nei  suoi  Colledanea 
sul  De  anima,  nell'edizione  veneziana  del  1503  e  in  quella 
del  1522,  nelle  quali  «  Subgerius  »  è  diventato  «  Subiegius  » 
(si  vedano  le  citazioni  nel  mio  volume,  pp.  18-30).  Ma  nel  suo 
trattatello  De  primi  motoris  infinitate,  portato  a  termine  nel 
1504,  quando  da  cinque  anni  aveva  lasciato  Padova,  il  Nifo 
sembra  attribuire  a  Sigieri  un  terzo  trattato  «  de  motore  primo 
et  materia  celi»  (cfr.  il  mio  voi.  cit.  p.  41). 

L'espressione  «  in  tractatu  suo  de  intellectu,  tertio  loco 
inscripto  »  potrebbe  intendersi  di  un  volume  di  scritti  sigie- 
riani,  ove  il  «  tractatus  de  intellectu  »  si  trovasse  trascritto 
al  terzo  posto  fra  altre  opere  dell'averroista  belga. 

Delle  varie  dottrine  attribuite  a  questo  Sugerius  o  Subgerius 
dal  Nifo,  due  giova  qui  ricordare:  quella  che  tende  a  mettere 
in  evidenza  il  procedimento  deduttivo  onde  Averroè  aveva 
concluso  che,  se  l' intelletto  umano  non  potesse  intendere  le 
sostanze  separate,  queste  sarebbero  inutili  {ociosae.  Cfr,  sopra, 
pp.  215-16)  ;  e  l'altra  che  afferma  che  ogni  intelligenza  in- 
feriore «  intelligit  sviperiorem  per  essentiam  superioris  »,  ossia 
in  quanto  l' intelligenza  superiore  l' informa  di  sé  intenzio- 
nalmente e  s'unisce   ad  essa  (v.  sopra,  pp.  195-198). 

Orbene:  quanto  alla  prima  di  queste  due  tesi,  sappiamo 
che  il  domenicano  Francesco  Silvestri  da  Ferrara,  nel  suo 
commento  alla  somma  Contra  gentiles  (III,  cap.  45,  n.  5), 
l'attribuisce  a  «  Rugerius  in  tractatu  suo  de  intellectu,  misso 
Beato  Thomae  prò  responsione  ad  tractatum  suum  contra 
Averroistas  ».  In  un  primo  momento,  avevo  pensato  (vedasi 
il  mio  voi.  cit.,  p.  23)  che  il  Silvestri  dipendesse  dal  Nifo  e  che 
«  Rugerius  »  fosse  un  errore  di  stampa  per  «  Sugerius  ».  Però 
avevo  aggiunto  :  «  ma  può  darsi  che  egli  citi  da  un  mano- 
scritto in  cui  il  nome  di  Sugerus.  era  già  stato  mutato  in 
Rtigerius. 

Qualche  luce  viene  ora  a  gettare  su  questa,  che  non  è  affatto 
una  quisquiglia,  l' importante  notizia  nella  quale  mi  sono 
imbattuto  scorrendo  il  codice  Marciano  (Lat.,  CI.  VI,  271  = 
2882),  che  contiene  le  Annotationes  in  jo  UJjro  de  anima  lectae 
in  hoc  anno  qui  fuit  1521,  die  vero  iovis  quae  fuit  2^  mensis 
ianuarij,  ah  excellentissimo  ac  celeberrimo  domifio    Ioanne  de 


SCRITTI    DI    SIGIERl    ALLA    FINE    DEL    SEC.    XV  3I5 

Mofìtedocha  hyspano,  unum  (sic)  trium  sui  temporis  philoso- 
phoriim  peritissimo,  trascritte  fra  il  1523  e  il  1524  dal  padovano 
Aurelio  Tedoldi,  dottore  nelle  arti,  «  ad  laudem  dei  —  dic'egli  — 
et  meae  amicae  quam  maxime  amo  »  (f.  256 v)  !  i. 

Giovanni  Montesdoch,  spagnolo,  aveva  studiato  a  Bologna, 
e  nello  studio  bolognese  aveva  insegnato  filosofia  naturale  in 
concorrenza  col  Pomponazzi  fino  all'anno  scolastico  1514-15, 
e  per  alcuni  anni  aveva  letto  anche  la  Metafisica.  Ma  in  seguito 
a  contrasti  che  ritengo  egli  avesse  col  Pomponazzi  -,  lasciò 
Bologna  e  andò  a  insegnare  a  Roma.  Da  Roma  appunto, 
per  un  ingaggio  vantaggioso  propostogli  dall'ambasciatore 
veneto  Marco  Minio,  passò  a  insegnare  filosofia  naturale  a 
Padova,  verso  la  fine  del  1520,  o  i  primi  di  gennaio  dello  stesso 
anno  1520  (secondo  lo  stile  veneziano;  quindi  1521),  iniziando 
il  corso  delle  lezioni  con  la  lettura  del  commento  averroistico 
al  De  anima.  Nella  lez.  43^,  sul  t.  e-.  14  del  terzo  libro,  egli 
venne  a  porsi  appunto  il  dibattuto  problema,  come  un'  intel- 
ligenza inferiore  conosca  le  intelligenze  superiori  ad  essa. 
Dopo  aver  riferite  varie  opinioni,  egli  accennava  a  quella 
«  moderna  »  sostenuta  dall'Achillini,  che  l' intelligenza  in- 
feriore conosce  quella  superiore  «  per  essentiam  superioris  ». 
Siffatta  tesi,  osservava  il  Montesdoch,  può  dirsi  «  moderna  » 
solo  in  quanto  alcuni  moderni,  come  l'Achillini,  se  la  sono 
appropriata.  Ma  prima  di  loro  e'  è  stato  Ruggiero  : 


1  Cosi  anche  nel  Marciano  lat.,  CI.  VI,  273  =  2884,  che  contiene 
le  lezioni  dello  stesso  Montesdoch  sul  primo  e  il  secondo  della  Fisica, 
del  1523-24,  il  Tedoldi  che  le  stava  trascrivendo  nel  1526,  interrompe 
la  16*  lez.  sul  secondo  libro,  con  questa  informazione  autobiografica 
(f.  365r)  :  «  Et  sic  sit  finis  huius  lecturae  nostrae  prò  praesenti  anno  1522, 
quae  fuit  die  mercuri]  8^  mensis  augusti  et  hora  ii'^  ad  laudem  dei  et 
beatae  mariae  [atque  amicae  meae  quam  maxime  amo,  quia  hodie] 
hora  19^  [habui  eam  in  brachiis  meis....  1».  Le  parole  tra  parentesi 
quadrate  son  coperte  d' inchiostro  e  solo  alcune  appena  leggibili.  Sotto 
è  un  quadrato  che  doveva  contenere  un  motto  o  un  piccolo  disegno.  Ma 
anch'esso  è  stato  coperto  d' inchiostro  nero.  E  alla  fine  della  lezione  66» 
sul  primo  libro  del  De  caelo,  commentato  dal  Montesdoch  nel  1522 
(Cod.  Marciano  lat.,  CI.  VI,  272  =  2883),  il  Tedoldi,  che  la  stava  co- 
piando nella  primavera  del  1524,  annota  (f.  272V)  :  «  Sed  quia  hora  est 
nimis  tarda,  et  quia  maxime  crucior  amore  meae  amicae,  ideo  valde 
fessus   cogor   non   amplius   scribere  ». 

2  Tanto  che,  lasciata  Bologna  da  un  pezzo,  il  Montesdoch  conservava 
ancora  del  Peretto  un  ricordo  disgustoso.  Nel  commento  infatti  al 
proemio  della  Fisica  (lez.  6*,  f.  i6r)  fa  menzione  di  lui  come  «  nimis 
monstruosus  »,  e  troppo  grossolani  ne  dichiara  i  ragionamenti:  «  dicit 
rationes  nimis  grossas  ». 


3l6        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Alia  positio  et  opinio  est  quae  est  opinio  non  moderna,  dato 
quod  moderni  eam  sibi  tribuant.  Sed  ante  eos  fuit  Rogerius; 
fuit  magnus  vir,  cuius  opera  non  habentur  impressa,  nec  vidi 
ea  nisi  in  bibliotheca  sanati  dominici  de  bononia,  et  ea  etiam 
vidi  romae  in  sanato  Ioanne  de  viridario.  Fuit  etiam  opinio  Ioannis 
de  ripa;  tamen  Alexander  Achillinus  sibi  eam  tribuit,  quomodo  2^ 
intelligentia  intelligat  primam    (Ms.   Maraiano  cit.,  f.    138V)  3. 

Che  questo  «  Rogerius  »  sia  il  «  Sugerius  »  o  «  Subgerius  » 
di  cui  parla  il  Nife  non  v'  è  dubbio.  Ma  l' importanza  di  questa 
informazione  del  Montesdoch  consiste  nell' averci  egli  indicato 
dove  aveva  visto  le  opere  di  questo  «  Rogerius  »  sostenitore 
della  dottrina  che  l'Achillini  spacciava  per  sua.  Queste  opere 
non  ancora  stampate,  bensì  manoscritte,  erano  state  viste 
da  lui  a  Bologna,  nella  biblioteca  del  convento  domenicano 
di  S.  Domenico,  e  dipoi  a  Padova,  nella  biblioteca  del  mona- 
stero di  S.  Giovanni  in  Verdara  dei  Canonici  Lateranensi. 
Veramente  nel  ms.  Marciano  si  legge  :  «  et  ea  etiam  vidi  romae 
in  sancto  Ioanne  de  viridario  w  ;  ma  è  evidente  che  al  posto  di 
«  romae  »  deve  leggersi  «  paduae  »  (supponendo  che  il  nome  di 
Padova  fosse  scritto  con  l' iniziale  maiuscola,  l'errore  di  let- 
tura si  spiega  facilmente)  ;  a  meno  che  non  debba  leggersi 
«  romae  [et]  in  sancto  Ioanne  de  viridario  ». 

Quanto  al  codice  veduto  a  S.  Domenico  di  Bologna,  par- 
rebbe trattarsi  di  quello  usato  da  Francesco  Silvestri  che, 
come  abbiamo  visto,  ne  ritenne  autore,  anch'egli,  «  Rogerius», 
che  si  ha  ragione  di  ritenere  identico  a  «  Sugerius  ».  Questo 
codice  non  figura  affatto  nei  cataloghi  di  S.  Domenico  pubbli- 
cati dal  p.  M.-H.  Laurent  [Fabio  Vigili  et  les  hibliothèques  de 
Bologne  au  début  du  xvie  siede  d'après  le  ms.  Barb.  latin  3185, 


3  E  nella  lez.  30^  (f.  q^v)  lo  stesso  Montesdoch  aveva  detto:  «Una 
est  opinio  Ioannis  de  ripa,  cuius  opera  sunt  bononiae  in  conventu  sancti 
lacobi,  qui  est  fratrum  Eremitarum.  Et  ipse  bene  intellexit  opinionem 
averrois  in  hoc  loco,  sicut  aliquis  alius....  Omnia  autem  [ab]  Ioanne  de 

ripa   accepit   Alexander  Achilinus ».   Come   risulta   dall'opera   del  p. 

Laurent,  citata  più  oltre,  il  commento  al  primo  delle  Sentenze,  cui  qui 
si  allude,  era  posseduto  non  solo  dalla  biblioteca  del  convento  di  S.  Gia- 
como (p.  132,  nn.  77  e  79),  ma  altresì  da  quella  di  S.  Domenico  (p.  27, 
n.  92)  e  da  quella  di  S.  Francesco  (p.  no,  n.  21).  In  questo  scritto 
(quaest.  2)  non  solo  Giovanni  da  Ripatransone  si  dilunga  in  ben  quattro 
articoli  sul  tema  qui  accennato,  ma  ci  offre  un'ampia  esposizione  del 
suo  modo  d' intendere  la  dottrina  averroistica  sulle  intelligenze  sepa- 
rate e  suir  intelletto  umano,  molto  vicina  e  spesso  identica  a  quella 
di  Sigieri. 


SCRITTI    DI    SIGIERI    ALLA    FINE    DEL    SEC.    XV  317 

in  «Studi  e  Testi»,  105.  Città  del  Vaticano,  1943).  Dove  è  an- 
dato a  finire  e  come  è  scomparso  ?  Siccome  esso  fu  visto  dal 
Silvestri,  che  nel  1516,  proprio  a  Bologna  nel  convento  di 
S.  Domenico,  aveva  portato  a  termine  il  suo  commento  alla 
somma  Cantra  gentiles,  e  dal  Montesdoch,  si  può  pensare  che 
esso  sia  stato  fatto  sparire  come  opera  d'averroista  inviso  ai 
domenicani,  che  l'averroismo  ritenevano  una  pericolosa  eresia, 
a  differenza  di  altri,  per  esempio  degh  eremitani  e  dei  carme- 
litani, assai  meno  ligi  al  tomismo.  Tanto  più  che  nel  1494 
Alessandro  Achillini,  come  ricorda  il  Montesdoch,  aveva  fatte 
sue  le  dottrine  dell'averroista  brabantino,  pur  evitando  di 
nominarlo,  nella  pubblica  disputa  tenuta  al  capitolo  generale 
dei  frati  minori,  nella  primavera  avanzata  di  quell'anno  (v. 
sopra,  pp.  195-98)  4. 

Quanto  all'esemplare  che  il  Montesdoch  dichiara  d'aver 
visto  nella  biblioteca  di  S.  Giovanni  in  Verdara,  a  Padova, 
ho  avuto  il  sospetto  che  esso  potesse  essere  una  copia  di  quello 
di  Bologna,  ordinata  da  Giovanni  Marcanova,  negli  anni  che 
questi  insegnava  a  Bologna,  e  quindi  passata  al  monastero  di 
Verdara  insieme  alla  biblioteca  di  lui.  Ma  dallo  studio  di  L.  Si- 
ghinolfi,  che  della  biblioteca  del  Marcanova  ha  pubblicato 
r  inventario  (nei  «  Collectanea  variae  doctrinae  »  in  onore 
di  Leone  S.  Olschki,  Monaco  di  Baviera,  1921,  pp.  187-222), 
non  risulta.  Questo  per  altro  non  vorrebbe  dir  molto,  perché 
spesso  r  inventario  è  assai  generico  e  contiene  non  pochi  nu- 
meri di  opere  anonime,  fra  le  quali  potevano  ben  trovarsi 
incastrate  quelle  di  Sigieri.  Al  notaio  premeva  più  di  elencare 
il  numero  dei  volumi  che  non  il  loro  effettivo  contenuto,  con- 
tentandosi d'un'  ispezione  molto  superficiale,  che  spesso 
rende  difficile  riconoscere  l'esatta  natura  di  opere  appena 
accennate  con  titoli  piuttosto  vaghi,  anche  senza  contare  i 
non  pochi  errori  di  trascrizione  commessi  dal  Sighinolfi. 

Si  potrebbe  pensare,  è  vero,  che  gli  scritti  di  Sigieri  fossero 
entrati  per  altra  via  che  non  fosse  quella  del  legato  testamen- 
tario del  Marcanova.  Ma  è  sicuro  che  essi  non  figurano  nel- 
l'elenco che  il  Tomasini  redasse  dei  manoscritti  di  Verdara 
nelle  Bibliothecae  Patavinae  maniiscriptae  puhlicae  et  privatae 


4  Ma  potrebbe  anche  darsi  che  l'opera  di  Sigieri  restasse  scono- 
sciuta o  fosse  dimenticata  dal  Vigili,  poiché  il  suo  catalogo  è  lungi 
dall'essere  completo. 


3l8        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

(Udine,  1639),  ^  nemmeno  in  quello  manoscritto  della  Marciana 
(Ital.,  ci.  XI,  323  =  7107);  sì  che  bisogna  rassegnarsi  a  pen- 
sare che,  già  prima  del  secolo  XVII,  gli  scritti  di  Sigieri  fos- 
sero ormai  spariti  anche  dalla  biblioteca  dei  Canonici  regolari 
Lateranensi  di  Padova. 

In  questa  biblioteca,  ch'era  assai  ricca,  non  mancavano  com- 
menti ad  Aristotele  e  trattazioni  concepiti,  queste  e  quelli, 
secondo  lo  spirito  averroistico.  V'era,  fra  l'altro,  l'ampia 
esposizione  del  servita  Urbano  Averroista  sul  commento 
d'Averroè  alla  Fisica,  che  il  Marcano  va  aveva  fatto  copiare 
a  sue  spese  a  Bologna,  nel  1456,  in  due  grossi  volumi  corretti 
e  postillati  di  sua  mano.  Quando,  nel  1492,  a  Venezia,  l'opera 
d'  Urbano  fu  data  alle  stampe  su  un  vecchio  codice  bolognese 
per  volontà  del  priore  generale  dei  Serviti,  Antonio  Alabanti, 
dietro  suggerimento  di  Nicoletto  Vernia,  questi  s'accorse  e 
fece  notare  che  il  codice  trovato  dall 'Alabanti  conteneva  la 
stessa  esposizione  alla  Fisica,  che  nella  copia  di  S.  Giovanni  in 
Verdara  era  attribuita  al  Marcanova  (cfr.  sopra  pp.  103-104). 

Ma  l'osservazione  del  Vernia  passò  inosservata;  e  anche  quan- 
do dal  monastero  padovano  il  codice  passò  alla  Marciana,  nei 
cataloghi  di  questa  l'opera  d' Urbano  restò  attribuita  al  Marca- 
nova,  sebbene  nelV explicit  sia  detto  (Lat.,  CI.  VI,  cod.  104, 
colloc.  2815,  f.  58orv)  che  il  nome  dell'autore  non  si  conosce: 
«  cuius  nomen  non  habetur  «  5. 

Ed  alla  stessa  biblioteca  di  S.  Giovanni  in  Verdara  e  ai  Ca- 
nonici regolari  Lateranensi,  che  abitavano  quel  monastero, 
era  particolarmente  affezionato  l'averroista  maestro  Nicoletto 
Vernia,  il  quale,  gravemente  ammalato,  il  2  novembre  1478, 
faceva  testamento  a  loro  favore  e,  qualche  anno  dopo,  faceva 
ad  essi  donazione  dei  suoi  libri  (vedasi  sopra,  p.  115). 
Per  quella  volta  la  negra  Parca  lo  risparmiò,  lasciandogli 
ancora  più  d'un  ventennio,  per  il  piacere  dei  suoi  colleghi 
ed  alunni,  per  le  sue  filosofiche  speculazioni  e  per  diverse 
marachelle    non    precisamente    filosofiche.    Ma    quando    sentì 


^  A  proposito  dell'opera  d'  Urbano,  che  nel  prologo  dell'edizione 
del  1492  si  dice  cominciata  il  primo  d'aprile  1334  (cfr.  sopra,  p.  103), 
gioverà  avvertire  che  il  p.  R.  M.  Taucci,  de'  Serviti,  /  maestri  della 
fac.  teolog.  di  Bologna,  in  «  Studi  stor.  sull'  Ord.  dei  Servi  di  Maria  », 
I.  1933.  PP-  31-34.  osservando  che  l'unico  maestro  servita  di  nome 
Urbano  fiorì  nell'ultimo  decennio  del  sec.  XIV  e  nei  primi  quattro 
decenni  del  sec.  XV,  propone  di  correggere  la  data  1334  in  1434. 


SCRITTI    DI    SIGIERI    ALLA    FINE    DEL    SEC.    XV  3I9 

che  la  morte  stava  ormai  per  ghermirlo,  il  3  agosto  1499  dettava 
le  sue  ultime  volontà,  in  Vicenza,  lasciando  ancora  tutti  i 
suoi  libri,  «  omnes  libros  graecos  et  latinos  »,  ai  Canonici  re- 
golari Lateranensi  del  monastero  di  S.  Bartolomeo  di  quella 
città,  perché  fossero  posti  nella  loro  biblioteca,  e  chiedeva 
altresì  d'esser  sepolto  nella  loro  chiesa  (v.  sopra,  pp.  108  e  126). 

Nella  biblioteca  di  S.  Giovanni  in  Verdara,  a  Padova,  par- 
rebbe dunque  che  il  Nifo,  discepolo  del  Vernia,  avesse  letto 
le  tre  opere  da  lui  citate  e  attribuite  al  «  grande  averroista  » 
Sugerius  o  Subgerius,  ov'egli  dichiara  d'avere  attinta  la  dot- 
trina, un  tempo  da  lui  seguita,  sul  modo  come  l'intelletto 
possibile,  unico  per  tutti  gli  uomini,  s'unisce  ai  singoli  e  può 
dirsi  vera  forma  «  dans  esse  homini  »   (v.  sopra,  pp.   208-10). 

Lo  stesso  Nifo,  nel  commento  alla  Destructio  destructionum, 
apparso  per  la  stampa  nel  gennaio  1497,  accenna  ad  una  di- 
scussione avuta  col  conte  della  Mirandola,  mentre  «  in  corbula  » 
si  recavano  a  Bologna  (I,  8  ;  v.  sotto,  p.  376).  Ritengo  che  questo 
viaggio  avvenisse  gli  ultimi  giorni  di  maggio  1494.  Per  la  Pente- 
coste di  quell'anno,  in  occasione  del  capitolo  generale  dei  frati 
predicatori  tenuto  a  Ferrara,  c'era  stata  una  solenne  disputa 
pubblica  alla  presenza  del  duca  Ercole  I,  e  il  giovane  dome- 
nicano Tommaso  de  \'io,  venuto  apposta  da  Padova  ove  inse- 
gnava Metafisica,  s'era  trovato  di  fronte  Giovanni  Pico  della 
Mirandola,  il  quale  gli  aveva  mosso  niente  meno  che  cento 
obiezioni  (cfr.  Mortier,  Histoire  des  Maitres  Généraux  de  l'ordre 
des  fr.  Precheurs.  t.  V,  Paris,  1911,  p.  143).  Pochi  giorni  dopo, 
verso  la  fine  del  mese  di  maggio,  anche  i  frati  minori  aduna- 
rono a  Bologna  il  loro  capitolo  generale  e,  secondo  il  costume, 
diramarono  inviti  ai  maestri  e  ai  dotti  delle  città  vicine  che 
avessero  desiderato  partecipare  alla  disputa  pubblica  che  si 
sarebbe  tenuta,  more  solito,  in  quell'occasione.  A  Bologna 
sarebbe  sceso  in  lizza  uno  dei  maestri  dello  studio  che  già 
cominciava  a  far  parlare  di  sé  per  la  sua  serrata  dialettica  e 
per  certa  nuova  maniera  d' intendere  l'averroismo.  L' invito 
doveva  solleticare  il  battagliero  conte  della  Mirandola  e  il 
Nifo,  che  verosimilmente  era  accorso  da  Padova  alla  disputa 
nella  quale  era  campione  un  suo  collega.  E  penso  che  tutti  e 
due  insieme  sian  partiti  da  Ferrara  per  trovarsi  alla  disputa 
che  il  jo  giugno,  seconda  domenica  dopo  Pentecoste,  l'Achil- 
lini   avrebbe  tenuto   a  S.   Francesco  in   Bologna. 

E  quale  non  dev'essere  stata  la  sua  sorpresa  nel  sentire  che 


320        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

maestro  Alessandro  Achillini  discettava  intorno  alle  Intelli- 
genze, da  quella  del  Primo  Motore  che  è  puro  atto,  giù  giù 
fino  air  intelletto  possibile  umano  che  è  pura  potenza,  e  con 
grande  risolutezza  e  abilità  dialettica  faceva  sua  la  dottrina 
averroistica  di  quel  «  Sugerius  »,  del  quale  anch'egli  aveva  letto 
gli  scritti  che  a  Padova  si  conservavano  in  S.  Giovanni  di  Ver- 
dara,  ove  ritengo  li  avesse  visti  e  letti  anche  il  Signore  della 
Mirandola.  Questa  risolutezza  del  collega  bolognese  deve  averlo 
tanto  più  meravigliato,  che  a  Padova  il  decreto  vescovile  del 
1489  aveva  assai  limitato  la  libertà  di  giostrare  sull'unità 
dell'  intelletto  umano,  ed  egli  e  il  Vernia  si  vedevan  costretti 
a  dissipare  i  sospetti  che  si  nutrivano  su  loro  come  averroisti. 
Nel  trattato  De  intellectii,  scritto  dal  Nifo  col  proposito  fin 
troppo  palese  di  rifarsi  una  verginità  antiaverroistica,  in  gara 
con  maestro  Nicoletto,  si  direbbe  ch'egli  prendesse  di  mira  i 
Quolibeta  de  inielligentiis,  pur  senza  nominare  l'autore  di  essi, 
delle  cui  dottrine  svelava  la  fonte  negli  scritti  di  Sigieri,  dal- 
l'Achillini  taciuta. 


XII 

MARCANTONIO  E  TEOFILO  ZIMARA: 
DUE    FILOSOFI    GALATINESI     DEL    CINQUECENTO 


Il  nome  di  Marcantonio  Zimara,  largamente  diffuso  nel  se- 
colo XVI,  è  strettamente  legato  alla  storia  dell'aristotelismo, 
e  in  particolare  di  quella  corrente  che  fu  l'averroismo,  anzi 
di  uno  speciale  indirizzo  di  questo  in  contrasto  con  altri  indi- 
rizzi che  si  reclamavano  ugualmente  da  Averroè,  il  Commen- 
tatore per  eccellenza  d'Aristotele,  l'arabo  Averrois  di  Cordova 
«  che  il  gran  commento  feo  ».  Invece  il  nome  del  figlio  di  lui, 
Teofilo,  è  rimasto  presso  che  sconosciuto,  fra  gli  storici  della 
filosofia  italiana.  Peggio  :  uno  di  questi  che  di  recente  ha  dedi- 
cato al  pensiero  italiano  del  Rinascimento  tre  grossi  volumi, 
Giuseppe  Saitta,  essendogli  accaduto  di  metter  la  mano, 
senza  volerlo,  sul  massiccio  e  diffuso  commento  di  Teofilo 
Zimara,  «  Marci  Antonii  F.  »,  al  De  anima,  ha  attribuito 
quest'opera  al  padre,  ignorando  l'esistenza  del  figlio.  E  fin 
qui  poco  male.  Ma  egli  s'  è  spinto  assai  più  in  là  ;  che  non  pare 
si  sia  reso  conto  che,  mentre  Marcantonio  è  un  averroista 
schietto  e  tutto  d'un  pezzo,  il  figlio  al  contrario  combatte 
apertamente  l'averroismo  e  propugna  un  platonismo  cristia- 
neggiato,  che,  divenuto  di  moda  tra  gli  umanisti  dopo  Marsilio 
Ficino,  si  proponeva  di  conciliare  Aristotele,  liberato  dal- 
l'esegesi averroistica,  con  Platone,  con  Plotino,  con  Proclo 
e  con  Simplicio.  E  questo  è  il  male  peggiore  che  poteva  capi- 
tare a  Teofilo,  che  cioè  il  grosso  volume  dedicato  al  cardinale 
Guglielmo  Sirleto,  e  dal  quale  s'attendeva  qualche  fama, 
non  solo  gli  fosse  tolto,  ma  ne  fosse  travisato  il  pensiero,  col 
ravvicinarlo  all'averroismo. 


*  Già  pubblicato  negli  «Atti  del  IV  Congresso  Storico  Pugliese». 
(«Archivio  Storico  Pugliese»,  Vili,  1955).  Sono  stati  apportati  alcuni 
notevoli  ritocchi. 

21 


322         L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

Ma  anche  intorno  a  Marcantonio  Zimara  accade  di  leggere 
nei  libri  di  storia  della  filosofia  grossi  spropositi,  che  mi  pro- 
pongo di  correggere,  raccogliendo  quello  che  di  certo  si  sa  in- 
torno a  lui  e  al  figlio  e  intorno  alle  loro  opere.  Ben  inteso, 
non  si  tratta  di  richiamare  l'attenzione  dello  storico  su  due 
astri  di  prima  grandezza  o,  come  si  direbbe  oggi,  su  due  fi- 
gure di  primo  piano  nel  complesso  panorama  del  nostro  Ri- 
nascimento: si  tratta  soltanto  di  mettere  nella  giusta  luce 
due  onesti  pensatori  che,  pur  senza  elevarsi  gran  che  sulla 
coltura  del  loro  tempo,  meritano  di  non  esser  dimenticati, 
perché  di  quella  coltura  sono  eminentemente  rappresentativi. 

I.  -  Marcantonio   Zimara. 

Di  lui  sappiamo  con  certezza  che  il  30  luglio  1501,  a 
ore  13,  sosteneva  a  Padova  la  discussione  preliminare  al 
dottorato  in  artibus,  ossia  fece  il  tentativum  nella  chiesa  di 
S.  Urbano,  ove  da  un  cinquantennio  soleva  riunirsi  il  «  Sacro 
Collegio  degli  Artisti  e  Medici»;  e  che  una  settimana  dopo,  il 
venerdì  6  agosto,  a  ore  20,  nell'aula  solita  d'esami  in  Vesco- 
vato, sostenne  il  privatum  examen  e  conseguì  il  grado  di  dottore 
in  artibus.  Il  filosofo  e  medico  Pietro  Trapolin  gli  conferì  le 
insegne  del  grado  a  nome  del  Sacro  Collegio.  Tutto  questo  è 
perfettamente  documentato  dagli  atti  del  Collegio  stesso 
(voi.  319),  nell'Archivio  antico  dell'  Università  di  Padova, 
e  dagli  Ada  graduum  presso  l'Archivio  di  quella  Curia  vescovile 
(voi.  47,  f.  i62r).  Da  notare:  presenti  come  testimoni  al  giu- 
ramento e  al  dottorato  erano  Pietro  Pomponazzi  e  Tiberio 
Bacilieri;  il  primo  ritornato  da  poco  a  Padova,  ove  insegnava 
filosofia  naturale  come  ordinario  primo  loco,  il  secondo  ve- 
nuto via  da  Bologna  per  contrasti  coi  colleghi,  e  straordinario 
della  stessa  materia.  In  questi  atti.  Marcantonio  è  detto  figlio 
«  quondam  Nicolai  Zimara  de  Sanctopetro  de  Galatina  terre 
Hydrunti  ». 

Altra  cosa  certa  è  ch'egli  potè  fare  gli  studi  di  filosofia  a 
Padova  grazie  all'aiuto  dello  zio  materno  Pietro  Bonuso, 
prelato  della  chiesa  di  S.  Pietro  in  Galatina,  al  quale  il  1°  ot- 
tobre 15 13  dedicò  l'edizione  dei  Subtilissima  Hervei  Natalis 
Britonis  Quodlibeta  undecim  cum  odo  ipsius  profundissimis 
tradatibus ,  da  lui  curata  per  l'editore  veneziano  Giorgio  Arri- 
vabene.   Anche  nella  dedica  della  Quaestio  de  primo  cognito 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  323 

(Venezia,  1508)  a  Marcantonio  Contarini,  figlio  di  Carlo,  ac- 
cenna espressamente  a  questo  zio  :  «  Petro  Bonusio,  pro- 
presuli, avunculo,  qui  me  semper  eque  ac  filium  carum  habuit 
fovitque,  cuique  non  minus  quam  parenti  mee  animam  hanc 
debere  me  libens  profiteor  ». 

Baldassar  Papadia  i  lo  dice  nato  da  povera  e  oscura  gente 
intorno  al  1470:  e  cita  in  proposito  un'  Epistola  ms.  di  Fran- 
cesco M.  Vernaleone,  che  esisteva  a  suo  tempo  presso  i  Signori 
Caroti.  Sulla  scorta  della  Quaestio  de  regressu  E xcellen fissimi 
Domini  Marci  Antonii  Zimarea  (nell'Ambrosiana  di  Milano, 
Cod.  S.  Q.  +.  II.  36,  ff.  232V-236V),  fui  indotto,  nella  prima 
edizione  di  questo  saggio,  a  supporre  un  primo  soggiorno  pa- 
dovano, anteriore  al  1490,  perché  l'autore  di  quella  Quaestio 
accenna  più  volte  a  discussioni  avute  con  Maestro  frate  Fran- 
cesco da  Nardo,  che  insegnava  Metafisica  a  Padova  «in  via  Tho- 
mae»,  mentre  frate  Antonio  Trombeta  insegnava  la  stessa  disci- 
plina «  in  via  Scoti  »,  e  che  morì  il  17  luglio  1489  (cfr.  A.  G. 
Erotto  e  G.  Zonta,  La  facoltà  teologica  di  Padova.  Padova, 
1922,  pp.  195-197):  «Ad  argumenta  praeceptoris  magistri 
Francisci  de  Nardo,  dico...;  sed  advertatis  quod  praeceptor 
meus  antequam  ingrederetur  ad  scolas  ad  legendum,  allo- 
cutus  fui  eum  supra  hoc,  ....et  dixit  mihi  »  (f.  135V). 

Ma  pili  tardi,  visto  il  codice  della  Nazionale  di  Napoli, 
Vili.  E.  42,  che  contiene  il  commento  del  Pomponazzi  ai  primi 
due  libri  del  De  anima  datato  1514,  ma  certamente  dell'anno 
scolastico  1508-1509,  e  il  commento  dello  stesso  Peretto  al 
terzo  libro,  del  1504,  m'accorsi  con  mia  sorpresa  che  quella 
Quaestio,  attribuita  allo  Zimara  nel  codice  Ambrosiano,  non 
è  affatto  di  questo,  sibbene  del  suo  maestro,  il  mantovano 
Pietro  Pomponazzi,  che  più  volte  ricorda  d'essere  stato  di- 
scepolo del  tomista  di  Nardo.  Quindi  cade  l' ipotesi  di  un  sog- 
giorno dello  Zimara  a  Padova,  prima  di  quello  indicato  dal 
Papadia,  il  quale  dice  che  lo  zio  materno,  Pietro  Bonuso, 
«  r  inviò  adulto  a  Padova  ».  Forse  intorno  al  1495  o  poco  dopo. 

Fra  i  venticinque  e  trent'anni,  egli  poteva  dirsi  veramente 
adulto.  E  se  a  Padova  giunse  quando  erano  già  morti  Fran- 
cesco da  Nardo  e  Pietro  Roccabonella,  vi  trovò  tuttavia 
maestri  provetti  che  godevano  già  di  gran  fama  o  giovani  che 
erano  sulla  via  di  procurarsela:   il  faceto  Nicoletto   Vernia, 


I  Memorie  storiche  della  città  di  Galatina,   Napoli    1792,    pp.    57-58. 


324        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

averroista  spregiudicato,  finché  il  vescovo  di  Padova,  Pietro 
Barozzi,  col  decreto  del  6  maggio  1489  non  l'obbligò  a  ravve- 
dersi, Pietro  Trapolin,  anch'egli  averroista,  ma  ben  più  mo- 
derato e  guardingo,  gli  scotisti  Antonio  Trombeta  e  Mau- 
rizio Ibernico,  il  Peretto  Mantovano  che  già  rivelava  una 
spiccata  tendenza  a  ribellarsi  all'averroismo  di  moda,  il  vi- 
centino Antonio  Fracanziano,  concorrente  del  Pomponazzi, 
Tiberio  Bacilieri  che  a  Padova  professava  l'averroismo  di 
marca  sigieriana  del  quale  a  Bologna  era  acerrimo  propu- 
gnatore Alessandro  Achillini.  Agostino  Nifo  aveva  lasciato 
con  gran  disdegno  lo  Studio  patavino  fin  dall'estate  del  1499, 
non  sappiamo  se  malcontento  dello  stipendio  o  per  dissensi 
coi  colleghi.  E  il  4  ottobre  dello  stesso  anno  il  Vernia  moriva, 
e  la  sua  cattedra  venne  appunto  coperta  col  richiamo  del 
Peretto,  cui  fu  dato  a  concorrente  il  Fracanziano. 

Di  questi  maestri,  il  Trapolin  fu  primo  promotore  del  dot- 
torato in  artihus  del  «  Sanpetrinate  »,  come  lo  Zimara  amava 
chiamarsi;  ma  di  lui  non  ho  trovato  cenno,  né  in  bene  né  in 
male,  nelle  opere  dell'alunno  \  Del  Pomponazzi  invece  parla 
spesso;  sebbene  il  rispetto  per  il  precettore  non  gì' impedisca 
di  combatterlo  su  varie  dottrine,  e  di  pigliarlo  di  mira  più 
volte  in  modo  assai  vivace  nella  Tabula  dihicidationum  in 
dictis  Aristotelis  et  Averrois,  e  particolarmente  nella  Quaestio 
de  immortalitate  animae.  Del  Bacilieri  combatte  la  tesi  che 
identifica  l' intelletto  agente  con  Dio,  che  egli  attribuisce, 
come  fa  anche  il  Pomponazzi,  ai  «  bononienses  ».  Al  Trom- 
beta accenna  anche  alla  fine  delle  Annotiones  sul  settimo 
della  Metafìsica  di  Giovanni  di  Jandun  :  «  in  his  omnibus 
subtilissime  repraehenditur  Ioannes  a  praeceptore  meo  Ma- 
gistro  Antonio  Trombeta  nostre  aetatis  in  metaphysicae 
speculationibus  viro  emeritissimo»;  nei  Theoremata,  iii:  «  An- 
tonius  Trombeta  excellens  in  scientia  divina  et  preceptor 
meus  venerandus  »  ;  e  nella  Quaestio  an  gravia  et  levia  etc. 
del  ms.  Magliabechiano,  XI,  67,  segnalatomi  dall'amico  Eu- 
genio Garin:  «  quantumcumque,  ut  dicebat  magister  meus 
Trombeta,  Franciscus  de  Neritono  dixerit  »  (f.  23r).  Che  egli 
poi  avesse  a  maestro  anche  Maurizio  Ibernico  è  attestato 
dal  francescano  Girolamo  Girelli  sulla  fine  del  suo  trattato 
De  speciebus  intelUgibilibus  diretto  contro  lo  Zimara:   «  Ipse 


3  Su  di  lui,  V.   sopra,  il  saggio  VII. 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  325 

autem  forte  erravit  propter  amorem  magistri  sui,    qui  fuit 
Mauritius  Hibernicus  ». 

Non  sappiamo  con  certezza  quand'egli  cominciò  a  insegnare 
come  lettore  pubblico;  poiché  le  lezioni  In  primuni  Posteriorum 
del  Cod.  Ambros.  D.  log  inf.,  ff.  i7r-29r,  potrebbero  essere 
state  tenute  privatamente  o  anche  pubblicamente  in  anni 
precedenti  al  dottorato  in  filosofia,  come  mi  risulta  essere 
intervenuto  a  Padova  per  il  mantovano  Benedetto  del  Triaca 
(1494),  per  Lorenzo  dal  Molino  di  Rovigo  (1499)  e  per  Fran- 
cesco Trapolin,  figlio  di  Piero  (1501).  In  fine  della  nona  le- 
zione sul  primo  libro  degli  Analitici  Posteriori  (f.  28r)  accade 
di  leggere  questo  curioso  invito  in  versi: 

Scire  volunt  onines,   niercedem  solvere  nemo: 
hoc  dixit  noster  qui  claret  in  orbe  Zimarra. 
In  catedra  manens,  dixit  prò  omnibus  una: 
solvite,  precor,  omnes,  si  vultis  doceri. 
In  domino  testor,  magnum  sumpsisse  laborem; 
hac  prò  doctrina,  propriam  vendidisse  casellam. 

E  in  margine  :  «  Quare  vobis  dico  :  si  librum  Posteriorum 
vultis  ut  aperiam,  solvite,  praecor,  omnes  ». 

Ma  non  dovette  passar  molto  dalla  laurea,  che  fu  assunto 
alla  «  lettura  »  straordinaria  di  filosofia  naturale.  Intanto, 
per  procacciarsi  da  vivere  e  poter  continuare  gli  studi,  curò 
per  gli  eredi  di  Ottaviano  Scoto  l'edizione  delle  Quaestiones 
in  duodecim  II.  Metaphysicae  di  Giovanni  di  Jandum,  arric- 
chendola di  citazioni  e  note  marginali.  L'  edizione  scotina, 
licenziata  il  1°  di  febbraio  1505,  oltre  alle  note  marginali, 
recava  in  appendice  alcune  opere  originali  che  possiamo  con- 
siderare tra  le  prime  del  nostro,  anteriori  a  questa  data. 

La  prima  è  una  diffusa  Quaestio  de  principio  individua- 
tionis  ad  intentionem  Averrois  et  Aristotelis,  di  ben  venti  co- 
lonne. Essa  è  dedicata  «  Magnifico  ac  excellenti  artium  Doctori 
domino   Andreae   Mocionigo    Patricio   Veneto  ». 

Questo  ((  M.cus  et  Doctissimus  vir,  D.  Andreas  Mocenico, 
natus  M.ci  et  Cl.mi  D.  Leonardi,  filli  olim  Serenissimi  prin- 
cipis  Venetiarum  D.  Jo.  Mocenici  »,  era  stato  proclamato 
dottore  in  artihus,  il  sabato  12  agosto  1503,  nella  cattedrale 
di  Padova,  con  grande  solennità,  come  s'addiceva  al  suo  alto 
rango,  «  assistentibus  M.cis  et  Cl.mis  dominis  Thoma  Mo- 
cenigo  praetore,  patruo,  et  Paulo  Trivisano  equite  praefecto 


326        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

urbis  [Paduae],  avunculo,  et  aliorum  praestantissimorum 
doctorum,  scholarium,  civiiim  et  praelatorum  corona,  per 
Rev.um  D.  Episcopum  [il  bellunese  Pietro  Barozzi],  eius 
domino  Vicario  recitante  ».  E  ciò  dopo  essere  stato  esaminato 
«  per  Venerandum  Collegium  artium  et  medicinae  Doctorum  », 
e  «  post  longas  lucubrationes  et  scholasticos  labores  et  publicas 
disputationes  ac  varia  virtutis  et  doctrinae  suae  experimenta  ». 
Primo  promotore  del  dottorato  era  stato  Pietro  Trapolin, 
che  anche  questa  volta  conferì  al  neo  dottore  le  insegne  del 
grado.  Nella  dedica  lo  Zimara  parla  del  nodo  d' indissolubile 
amicizia  che  lo  legava  al  Mocenigo.  In  realtà  erano  stati  am- 
bedue alunni  del  Trapolin  e  del  Pomponazzi,  insieme  al  «  go- 
beto  »  Lorenzo  Venier,  ad  Antonio  Surian  e  a  Gaspare  Con- 
tarini,  «  artium  scholares  »,  i  quali  nel  verbale  del  dottorato 
del   Mocenigo   figurano   da   testimoni    (v.  sopra,  p.   i68). 

Nella  stessa  dedica  il  nostro  accenna  al  turbamento  del  suo 
animo  per  le  notizie  che  gli  giungevano  da  S.  Pietro  in  Gala- 
tina,  saccheggiata  dal  ritorno  nel  1504  delle  milizie  spa- 
gnole per  cacciarne  le  francesi:  «  Pluribus  profecto  quam  pro- 
miseram  magnifìcientiam  vestram  speculationibus  donassem, 
nisi  iniqua  fortuna  patriam  meam  Sanctum  Petrum  de  Gala- 
tinis,  hispanis   militibus   populationi   dedisset  ». 

Alla  Quaestio  de  principio  individuationis  tengon  dietro  le 
Annotationes  in  Ioannem  Gandavensem  super  Quaestionihus 
Metaphysicae  eleganter  discussae  in  via  Aristotelis  et  sui  magni 
commentatoris  Averrois,  anch'esse  dedicate  ad  Andream  Mo- 
cionigum.  Su  molti  punti  lo  Zimara  aveva  ripreso  con  sem- 
plici note  marginali  il  modo  come  Giovanni  di  Jandun  espone 
il  pensiero  d'Averroè.  Ma  su  altri  punti  le  sue  riserve  esige- 
vano maggiore  spazio  che  non  fosse  quello  d'una  breve  nota; 
perciò  aggiunse  al  volume  questa  seconda  appendice,  ove 
espone  con  ben  maggiore  ampiezza  le  ragioni  del  suo  dissenso 
dall'averroista  di  Jandun,  la  cui  interpretazione  della  dottrina 
averroistica  aveva  suscitato  aspre  critiche  da  parte  degli 
averroisti  padovani  e  bolognesi,  tanto  che  Giovanni  Pico  della 
Mirandola  giudicava  che  egli,  «  ferme  in  omnibus  quaesitis 
philosophiae,  doctrinam  Averrois  corrupit  omnino  et  depra- 
vavit  »  {Conclus.  secundum  Avenroem,  3).  Intento  di  queste 
Annotationes  è  dunque  quello  di  stabilire  qual  è  il  vero  pen- 
siero del  commentatore  di  Cordova.  Ma  nel  far  ciò,  il  filosofo 
di  Galatina  si  diffonde  talora  sino  a  riesaminare  a  fondo  l'ar- 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  327 

gomento  discusso  e  a  scrivere  un  vero  e  proprio  trattato, 
come  fa  a  proposito  della  questione  12^  del  terzo  libro,  in  una 
disquisizione  di  ben  oltre  26  colonne. 

Una  terza  appendice  è  formata  dalla  Quaestio  de  triplici 
causalitate  intelligentiae ,  concernente  la  natura,  la  dipendenza 
e  la  finalità  delle  intelligenze  celesti  «  secundum  Aristotelis  et 
sui  Commentatoris  Averrois  sententiam  »,  problema  dibattu- 
tissimo  dal  secolo  XIII  al  XVI,  intorno  al  quale  lo  Zimara, 
come  già  Sigieri  di  Brabante,  difende  la  causalità  efficiente 
di  Dio  contro  quegli  averroisti  che,  come  l'eremitano  Gre- 
gorio da  Rimini,  la  negavano.  Una  frase  in  principio:  «vidi 
plures  tempore  meo,  1502,  philosophantes  »,  parrebbe  indi- 
care che  la  Quaestio  fu  scritta  in  quest'anno. 

Con  questo  volume,  stampato  nel  1505  e  che  si  diffuse  ra- 
pidamente in  tutta  Europa,  Marcantonio  Zimara  di  San 
Pietro  in  Galatina  in  terra  di  Otranto  si  presentava  agli  stu- 
diosi di  filosofia  come  un  interprete  agguerrito  e  acuto  del  pen- 
siero d'Aristotele  e  del  suo  grande  e  fedele  commentatore 
Averroè,  in  un  momento  quando  il  suo  maestro  e  dipoi  avver- 
sario, il  mantovano  Pietro  Pomponazzi,  non  aveva  ancora 
stampato  una  sola  riga.  Non  tutti  accettarono,  si  capisce, 
l'esegesi  dell'Otrantino,  com'era  chiamato  a  Padova,  anzi 
molti  presero  a  impugnarla,  su  questo  o  quell'argomento; 
ma  a  nessuno   era  consentito  ignorarla. 

Nello  stesso  anno  in  cui  curò  l'edizione  della  Metafisica 
dell'averroista  di  Jandun,  ne  preparò  altresì  quella  delle  Quae- 
stiones  super  Parvis  Naturalibus,  per  lo  stesso  editore  vene- 
ziano, dedicandola  a  Bartolomeo  Montagnana,  iunior,  pro- 
fessore di  medicina  nello  Studio  patavino  e  appartenente  a 
una  celebre  famiglia  di  medici  padovani.  La  qual  dedica 
m' indurrebbe  quasi  a  sospettare,  che  egli  si  stesse  preparando 
al  dottorato  in  medicina,  adulando  con  lodi  sperticate,  come 
era  d'uso,  un  membro  del  «  Sacro  Collegio  degli  Artisti  e 
Medici  »,  che  aveva  il  diritto  di  farsi  «  promotore  »  della  «  gra- 
zia »,  del  «  tentativo  »  e  infine  dell'  «  esame  privato  »,  nonché 
quello  di  conferire  le  insegne  dottorali  al  candidato. 

In  appendice  a  questo  volume,  lo  Zimara  stampò  la  Quaestio 
de  moventis  identitate  et  moti  ad  intentionem  peripateticorum 
subtiliter  et  resolute  Patavii  discussa,  e  la  dedicò  al  giovane 
«  Giovanni  Cristoforo  Capitani,  figlio  del  chiarissimo  medico 
Pietro»,  per  riconoscenza  dell'appoggio  che  ne  aveva  avuto: 


328        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

«  cui  denique  quicquid  dignitatis  in  Patavino  gymnasio  nuper 
assecutus  sum,   uni   acceptum   refero  ». 

Dello  stesso  periodo,  perché  ricordata  nelle  Solutiones  del 
1508  {Super  III  de  anima,  1^  Contr.  sul  comm.  5)  è  anche  la 
Quaestio  qua  species  intelligihiles  ad  mentem  Averrois  defen- 
duntur  ad  Magnificum  patritium  Venetum  Anfonium  Surianum, 
pubblicata  s.  1.  da  Francesco  Storcila  il  12  gennaio  1554,  e 
incorporata  nel  Tractatus  adversus  quaestionem  M.  Ant.  Zi- 
marae  de  speciehus  intelligibilihus  (Venezia,  1561)  del  fran- 
cescano Girolamo  Girelli  che  era  stato  alunno  del  Pompo- 
nazzi.  Lo  Zimara  prende  risolutamente  posizione  contro 
l'Achillini,  il  quale  aveva  negato  le  famose  «  specie  intelli- 
gibili »,  d'accordo  in  ciò  col  carmelitano  inglese  Giovanni  di 
Baconthorpe  e  con  Enrico  di  Gand.  Dell' Achillini  dice  anzi 
quel  che  Averroè  {De  caelo,  III  comm.  67)  aveva  detto  d'Avi- 
cenna, «  quod  videlicet  parvitas  exercitationis  ipsius  viri 
in  naturalibus  et  bona  confidentia  in  proprio  ingenio  deduxit 
ipsum  ad  maximos  errores  ».  L'argomento  era  stato  discusso 
a  Padova  nel  corso  del  1505  dal  Pomponazzi,  il  quale  non 
si  mostrò  meno  aspro  contro  l'Achillini;  e  proprio  Antonio 
Surian  ce  ne  ha  tramandata  la  quaestio  nel  codice  ms.  della 
Bibl.  Naz.  di  Napoh,  Vili.  D.  81  (ff.  83r-84r).  Un'altra  e 
pili  ampia  riportazione  si  trova  in  altro  ms.  della  stessa  Bi- 
blioteca, Vili.   E.   42,   ft.  I95r-20ir. 

Dalle  controversie  tra  i  vari  interpreti  d'Averroè,  trassero 
vantaggio  gli  avversari  dell'averroismo,  per  insinuare  che  il 
«  gran  commento  »  formicolava  di  contradizioni,  e  che  neppure 
Aristotele  ne  era  immune.  Sebbene  il  Pomponazzi  non  ri- 
fuggisse dal  dirsi  talora  «  averroista  »  o  «  commentista  »,  nel 
senso  che  egli,  seguendo  una  consuetudine  di  Padova  e  di 
Bologna,  leggeva  il  testo  d'Aristotele  e  il  commento  d'Averroè 
che  lo  accompagnava,  e  sulla  parafrasi  e  discussione  dell'uno 
e  dell'altro  conduceva  la  lezione,  non  di  meno,  con  tutto  il 
rispetto  per  l'uno  e  per  l'altro,  non  esitava  a  mettere  in  evi- 
denza le  incertezze  e  le  contradizioni  del  commentatore,  al 
quale  non  risparmiava  le  sue  critiche  e  i  suoi  sarcasmi.  Di- 
scepolo del  Peretto  mantovano,  lo  Zimara,  che  per  diversi 
anni,  dal  1500  al  1505,  ne  aveva  seguito  le  lezioni,  si  propose 
di  scolpare  tanto  Averroè  quanto  Aristotele  dalle  contradi- 
zioni ad  essi  attribuite  e  di  mostrare  che  esse  potevano,  con 
qualche  sottile  distinzione,  risolversi  nel  modo  più  plausibile. 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  329 

Nacquero  così,  fra  il  1505  e  il  1508  le  Solutiones  contra- 
dictionum  in  dictis  Averrois  che  nella  prima  redazione  uscirono, 
precedute  dalla  Quaestio  de  primo  cognito,  a  Venezia,  il  1° 
luglio  1508,  con  dedica  al  patrizio  veneziano,  «  magnifico 
Marcoantonio  Contareno  magnifici  domini  Caroli  filio  »,  al 
quale  il  Pomponazzi  dedicherà  nel  15 16  la  prima  stampa  del 
De  immortalitate  animae,  e  che  nel  1508  era  ancora  un  «  gio- 
vane »,  sebbene  versatissimo  negli  studi  della  filosofia  aristo- 
telica. Pochi  giorni  prima  gh  aveva  dedicato  i  trattati  logici 
di  Aristotele  col  commento  d'Averroè,  da  lui  curati  per  gli 
eredi  di  Ottaviano  Scoto   (Venezia,   1508,  20  giugno). 

La  Quaestio  de  primo  cognito  si  riallaccia  alle  lezioni  dello 
Zimara  sul  prologo  della  Fisica  aristotehca  (I,  t.  e.  2-5,  e.  i, 
i84a  16  sgg.).  L'autore  di  essa  discute  ampiamente  e  critica 
le  interpretazioni  che  del  testo  aristotelico  avevano  dato  il 
Burleo  e  Gregorio  da  Rimini,  dalla  parte  dei  «  nominales  », 
poi  quelle  di  Duns  Scoto  e  di  S.  Tommaso,  e  infine  oppone  ad 
esse  quella  che  giudica  più  conforme  al  commento  d'Averroè. 

Le  Solutiones  sono  opera  composta  a  tavolino,  «  succisivis 
horis  ac  tumultuarie  ».  Ma  che  lo  Zimara  prendesse  di  mira 
in  particolare  il  Peretto,  del  quale  si  tace  il  nome,  è  messo  in 
evidenza  dalla  lettera,  stampata  al  f.  46r  del  volume,  coli'  in- 
testazione «  Sylvius  Laurentius  a  portu  caballensis  clarissimo 
artium  et  medicine  doctori  Marco  Antonio  sanctipetrinati  et 
hidruntino,  ere  publico  in  Gymnasio  patavino  philosophiam 
profitenti  »,  la  quale  porta  la  data  «  ex  patavio,  idibus  Junij 
a  Natali  cristiano  M.  D.  VII  ».  Questo  ammiratore  e  forse 
discepolo  dell'otrantino  ricorda  appunto,  che  «  Petrus  man- 
tuanus  noster  philosophantium  nunc  primi  fere  nominis,  pu- 
blico auditorio  profiteri  solet,  hoc  Averroi  esse  genuinum,  ut, 
cum  implicita  omnibus  viribus  nervisque  explicare  contendit 
et  adnititur,  maxime  implicat,  eoque  fertur,  diffidente  con- 
scientia,  quo  denique  ipsum  impetus  errabunde  opinionis 
impellit  ».  Del  che  egli  pensa  fossero  da  incolpare  gli  ama- 
nuensi e  gli  stampatori  del  commento  averroistico,  per  incuria 
dei  quali  circolava  nelle  scuole  pieno   di  errori. 

Ma  non  soltanto  al  Pomponazzi  intendeva  opporsi  lo  Zi- 
mara, sì  anche  a  Giovanni  di  Jandun,  a  Gregorio  da  Rimini, 
al  Burleo,  ad  Alessandro  Achillini  e  al  Bacilieri,  che,  a  suo 
avviso,  con  errate  interpretazioni,  facevano  cadere  in  con- 
tradizione il  commentatore  arabo. 


330        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Il  Pomponazzi,  che  non  condivideva  con  lo  Zimara  e  l'Achil- 
lini  la  fiducia  nell'  infallibilità  d'Averroè,  scrollava  le  spalle 
ed  osava  negare  la  stessa  fiducia  perfino  ad  Aristotele,  pur 
ritenuto  da  Dante  «  maestro  e  duca  de  l'umana  ragione  », 
e  dagli  averroisti  «  regula  in  natura  et  exemplar  quod  natura 
invenit  ad  demonstrandum  ultimam  perfectionem  humanam  ». 
Le  contradizioni  di  Averroè  avevano  il  loro  fondamento  in 
non  poche  contradizioni  del  testo  aristotelico,  che  si  facevano 
sempre  più  palesi  con  le  nuove  traduzioni  del  periodo  uma- 
nistico. Perciò  intorno  al  1530,  lo  Zimara  riprese  in  mano  il 
libretto,  e  ne  preparò  un'edizione  più  completa,  con  l'aggiunta 
di  nuove  contradizioni  ch'egli  s'adopra  a  risolvere,  associando 
nel  titolo  alle  contradizioni  del  Commentatore  quelle  del  Filo- 
sofo: Solutiones  contradictionum  in  dictis  Aristotelis  et  Averrois. 

Dalla  lettera  di  Silvio  Lorenzo  da  Porto  appare  che  nel- 
l'anno scolastico  1506-1507  Marcantonio  Zimara,  dottore  non 
solo  in  artibus  ma  anche  in  medicina  (non  sono  però  in  grado 
di  dire  in  che  anno  egli  sostenesse  gli  esami  in  questa  materia), 
professava  pubblicamente  filosofia  naturale  nello  studio  pa- 
tavino, occupando  evidentemente  una  delle  due  «  letture  » 
straordinarie  col  modico  stipendio  di  47  ducati  d'argento, 
secondo  il  Facciolati  [Fasti  gymn.  patav.,  p.  II,  274),  ed  è 
naturale  che  aspirasse  ad  esser  promosso  alla  «  lettura  »  or- 
dinaria. Ora  a  metà  settembre  1508  era  rimasta  vacante  la 
«  lettura  »  ordinaria  «  secundo  loco  »  che  per  due  anni  aveva 
tenuto  Alessandro  Achillini,  richiamato  sulla  sua  cattedra  a 
Bologna  (v.  sopra,  p.  259).  Se  la  cattedra  vacante  fosse  stata  as- 
segnata al  «  Sanpetrinate  »,  questi  sarebbe  venuto  ad  essere  il 
«concorrente»  diretto,  cioè  l'antagonista,  del  Pomponazzi,  che  oc- 
cupava la  cattedra  ordinaria  «primo  loco»,  e  da  due  anni,  seb- 
bene non  fosse  cittadino  padovano,  era  stato  aggregato  al 
«  Sacro  Collegio  degli  Artisti  e  Medici  »  della  città.  Ma  per 
riuscire  ad  avere  il  posto  ambito  lo  Zimara  avrebbe  dovuto 
vincere  le  ostilità  che  si  era  creato  colle  polemiche  ingaggiate 
contro  il  Peretto,  il  quale  godeva  di  grande  stima  nello  Studio 
patavino,  e  contro  l'Achillini,  del  quale  era  ben  vivo  il  ricordo. 

Provvedere  a  coprire  la  cattedra  ordinaria  rimasta  vacante 
era  compito  del  Senato  veneziano;  e  gli  aspiranti  s'eran  dati 
da  fare  per  procacciarsi  autorevoli  appoggi  fra  i  membri  di 
questo,  che  ne  discusse  nella  riunione  del  21  ottobre  1508. 
Le  proposte  fatte  furon  tre  o  quattro.  Marin  Zorzi  propose 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  33 1 

Marco  Antonio  della  Torre,  «  fiol  dil  quondam  missier  maistro 
Hironimo  da  Verona,  qual  à  leto  e  leze  in  philosophia.  Misier 
Alvise  Pixani,  savio  a  terra  ferma,  messe  di  condur  missier 
Marco  da  Otranto,  che  etiam  leze  in  philosophia  extraordi- 
narie ».  Zorzi  Emo  propose  «  il  Sexa  che  è  a  Napoli,  o  ver  il 
Toseto  »,  cioè  Ludovico  Carensio,  detto  il  Toseto,  padovano, 
ma  che  da  diversi  anni  insegnava  filosofia  a  Ferrara,  e  che 
nel  15 17  ritornerà  in  patria  a  ricoprire  una  delle  cattedre  di 
medicina. 

È  interessante  vedere  che  fra  gli  aspiranti  era  anche  «  il 
Sexa  »,  cioè  Agostino  Nifo  da  Sessa,  il  quale  aveva  già  coperto 
la  cattedra  ordinaria  di  filosofia  «  primo  loco  »  a  Padova, 
fino  al  1499,  e  n'era  partito,  a  quanto  pare,  per  litigi  coi  col- 
leghi. Ora  egli  non  cessava  di  brigare  per  tornarvi,  ma  preten- 
deva uno  stipendio  che  il  senato  veneziano  non  era  disposto 
a  pagargli.  Leonardo  Anselmi,  console  di  Venezia  a  Napoli, 
informava  di  lì  a  poco,  che  il  Sexa  «  voj  vegnir  a  Padova  a 
lezer  im  philosophia.  El  qual  dice  voi  ducati  500  e  non  mancho, 
perché  dice  è  il  primo  homo  dil  mondo,  e  a  Napoli  leze  et 
medica;  sì  che  non  havendo  ditti  danari,  non  voi  vegnir» 
(M.  Sanudo,  VII,  col.  678).  Ma  appena  qualche  giorno  dopo  si 
dichiarava  disposto  a  venire  per  400  ducati  all'anno,  con 
ferma  di  tre  anni.  Queste  manovre  del  Nifo  dovettero  esser 
note  al  Pomponazzi,  che  nel  già  citato  commento  al  De  anima 
del  1508-9    prese    ad  attaccarlo  con  rinnovata  virulenza. 

Dopo  Zorzi  Emo  parlò  Polo  Pisani.  Vista  la  difficoltà  di 
addivenire  a  un  accordo  e  di  far  prevalere  il  suo  candidato, 
Alvise  Pisani  ripiegò  sulla  proposta  «  de  indusiar  »,  e  così 
«  fu  presa  la  indusia,  di  8  ballote  »  (M.  Sanudo,  Diarii,  VII, 
col.  653),  e  lo  Zimara  dovette  rassegnarsi  a  rimanere  alla 
«  lettura  »   straordinaria. 

Né  mi  consta  che  egli  fosse  promosso  nel  quinquennio 
immediatamente  successivo.  La  guerra  contro  la  lega  di  Cam- 
bra! ebbe  gravi  conseguenze  per  lo  studio  padovano.  Il  6 
giugno  1509,  le  truppe  imperiali  al  comando  di  Leonardo 
Trissino  entrarono  in  città,  e  lo  stesso  giorno  pare  venisse  a 
morte  Pietro  Trapolin.  Per  il  momento,  cioè  per  qualche  mese, 
il  turbamento  dell'ordine  pubblico  non  fu  grande;  si  tennero 
ancora  esami,  e  il  Pomponazzi,  per  esempio,  figura  ancora 
come   promotore   in   un   dottorato   del   2   luglio. 

Il  peggio  venne  dopo,  quando  i  veneziani  il  18  luglio  rioc- 


332         l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

cuparono  il  castello,  e  cominciarono  i  saccheggi  e  le  vendette 
contro  coloro  che  di  buon  animo  o  contro  voglia  s'eran  com- 
promessi coi  «  tedeschi  ».  Una  delle  famiglie  maggiormente 
colpite  fu  quella  dei  Trapolin.  Alberto  e  Roberto,  fratelli  del 
filosofo,  furon  presi  prigionieri  nella  riconquista  del  castello. 
Ma  già  due  giorni  prima  le  loro  case  e  quella  di  un  altro  loro 
fratello,  Nicolò,  furono  saccheggiate.  Ed  anche  la  casa  di  Pietro, 
che  era  nella  contrada  di  san  Leonardo,  non  lontano  dai  Car- 
mini, non  fu  risparmiata,  i  suoi  scritti  dispersi,  e  il  figlio  Giulio 
il  14  agosto  fatto  prigioniero  e  spedito  a  Venezia  con  altri  compa- 
gni (v.  sopra,  p.  172).  Il  governo  veneziano  fu  abbastanza  cle- 
mente con  molti  di  coloro  che  s'erano  sottomessi  al  dominio  im- 
periale su  Padova;  ma  fu  implacabile  con  quattro  dei  maggiori 
responsabili  di  favoreggiamento,  che  il  sabato  i^  dicembre  1509 
mandò  al  capestro:  «Primo  era  Alberto  Trapolin,  fo  fradello 
di  misser  Pietro  dotor  excellentissimo,  el  qual  Alberto  era 
di  XVI  al  governo  di  Padoa,  homo  di  gran  inzegno,  et  anche 
suo  avo  fo  apichato  a  Padoa  a  tempo  di  la  novità  di  misier 
Marsilio  di  Carrara  dil  1437.  Il  secondo  era  Lodovico  Conte.... 
Il  terzo  Bertuzi  Bagaroto,  dotor,  qual  lezeva  puhlice  in  iure 
canonico....  Il  quarto,  Jacomo  da  Lion,  dotor,  el  quale  fé'  la 
oration  a  l' imperator,  quando  se  deteno  i  padoani,  ne  la  qual 
dice  gran  mal  de'  veneziani»  (M.  Sanudo,  IX,  col.  358;  v. 
sopra,  p.  174). 

Fu  in  questo  periodo  di  rappresaglie  e  specialmente  quando 
alla  fine  di  settembre  le  truppe  imperiali  tornarono  ad  as- 
sediare la  città,  che  molti  cittadini  si  allontanarono  da  Padova 
e  insieme  ad  essi  molti  maestri  dello  Studio.  Fra  questi  cer- 
tamente anche  il  Pomponazzi,  il  quale  sulla  sua  cattedra  di 
Padova  non  fece  più  ritorno. 

E  Marcantonio  Zimara  ?  Si  dice  da  alcuni  che  lo  Studio 
rimanesse  chiuso  per  otto  anni,  fino  al  1517.  Ciò  non  è  del 
tutto  esatto.  Dagli  Ada  graduum  presso  l'Archivio  esistente 
della  Curia  Vescovile  di  Padova  (voi.  49),  risulta,  per 
esempio,  in  modo  indubbio,  che  1'  8  maggio  1510  Matteo 
Binno  de  Tomasis,  figlio  del  chirurgo  Mastro  Giacomo,  fece 
il  dottorato  in  artihus  (f.  4v),  che  1'  11  febbraio  1511  fece  il 
dottorato  in  iure  civili  Marco  Mantova  (f.  45),  che  il  2  dicembre 
dello  stesso  anno  Girolamo  Oldoini  fece  anch'egli  il  dottorato 
in  artihus  (f.  84V),  e  che  il  13  ottobre  1512  s'addottorò  in  ar- 
tihus il  magnifico  Francesco  del  fu  Gabriele  Morosini  (f.  I2ir). 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA 


333 


Sappiamo  ugualmente  di  altri  conferimenti  di  laurea  sia 
in  arti  e  medicina,  come  in  diritto  e  in  teologia.  Lo  Studio  pa- 
tavino, dunque,  anche  negli  anni  successivi  al  1509  e  ai  fatti 
accennati,  continuò  a  funzionare;  ma  evidentemente  in  modo 
ridotto,  e  meno  intensa  fu  la  sua  vita.  Ciò  si  constata  in  modo 
palpabile  esaminando  gli  stessi  Ada  gradimm,  e  più  ancora 
gli  Atti  del  «  Sacro  Collegio  degli  Artisti  e  Medici  »  (Arch. 
deirUniv.  di  Padova,  presso  quel  Rettorato,  fase.  321),  ove 
tra  il  1509  e  il  1512  è  un  salto.  Di  Marcantonio  Zimara  nessuna 
traccia  in  questi  Atti,  per  questi  anni,  se  ho  ben  veduto. 

Parrebbe,  dunque,  che  anche  lui  se  ne  fosse  andato.  Dove  ? 

L'edizione  dei  Quodliheta  dell'Hervaeus  che  uscì  a  Venezia, 
«per  Georgium  Arrivabenum,  1513,  die  primo  octobris  »,  ed 
è  curata  e  postillata  dallo  Zimara,  potrebbe  far  pensare  che 
questi  nel  1512-1513  fosse  a  Venezia.  Ma  la  lettera  con  la 
quale  dedica  la  sua  fatica  allo  zio  Pietro  Bonuso  mi  induce  a 
dubitarne.  Dice  infatti  in  essa  che  già  da  otto  anni  è  lontano 
dalla  patria.  E  aggiunge:  «Ego  enim,  postquam  Patavium, 
bonarum  artium  fontem,  applicui,  ita  impensam  die  noctuque 
philosophie  studio  operam  navavi,  ut  hinc  recesserim  nun- 
quam....  Anno  tamen  elapso  sarcinulas  collegeram,  accin- 
xeram  me  itineri  ad  te  advolaturus,  quando,  preter  spem, 
accademia  nostra  ad  dignissimam  me  philosophie  lectionem 
totis  cervicibus  succollavit  ».  Ora  se  egli  si  laureò  in  artibus 
nell'agosto  1501,  bisognerà  pensare  che  a  Padova  fosse  andato 
almeno  un  quattro  anni  prima,  cioè  al  più  tardi  nel  1497. 
La  lettera  dovrebbe  quindi  essere  del  1506.  E  i  conti  infatti 
tornano:  «anno  elapso»,  cioè  nel  1505  egli  dovette  essere 
chiamato,  «  preter  spem  »,  alla  «  lettura  »  straordinaria  di 
filosofia  naturale.  Sebbene  dunque  l'edizione  dei  Qiiodlibeta 
dell'  Hervaeus  uscisse  alla  luce  il  primo  ottobre  1513,  essa 
era  già  stata  preparata  e  consegnata  all'editore  veneziano 
fin  dal  1506. 

Alla  guerra  contro  la  lega  di  Cambrai  tenne  dietro  quella 
della  lega  sacra,  e  la  Lombardia,  la  Romagna  e  1'  Emilia  furon 
corse  da  milizie  francesi,  spagnole  e  papali.  Lasciata  Padova, 
ove  aveva  nutrito  la  speranza  di  farsi  strada  e  di  accrescere 
lo  splendore  della  sua  famiglia,  non  fu  facile  al  povero  filosofo 
trovarsi  un'altra  cattedra  a  Ferrara  o  a  Bologna,  com'era 
stato  facile  al  Peretto  mantovano.  Perciò  egli  dovette  deci- 
dersi a  ritornare  fra  i  suoi  a  S.  Pietro  in  Galatina,  ove  effetti- 


334        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

vamente  nel  15 14  lo  troviamo  sindaco  e  già  ammogliato  con 
una  tal  Porzia,  secondo  le  notizie  raccolte  da  Alessandro 
Tomaso  Arcudi  4  e  da  Baldassar  Papadia  5,  i  quali  prendono 
queste  notizie  dalla  Cronaca  di  S.  Pietro  in  Galatina  lasciata 
manoscritta  dal  medico  filosofo  e  letterato  Silvio  Arcudi, 
morto  a  72  anni  nel  1646. 

Prima  di  rimetter  piede  nella  terra  natale,  o  appena  vi  fu 
arrivato,  egli  dovette  pensare  a  propiziarsi  Giovanni  Ca- 
strioto,  duca  di  Ferrandina,  sotto  la  cui  giurisdizione,  per 
disposizione  del  governo  spagnolo,  si  trovava  S.  Pietro  in 
Galatina.  A  quest'uopo  mise  insieme  il  curioso  trattatello  dei 
Prohlemata  e  lo  dedicò  al  principe.  Non  mi  consta  che  lo  fa- 
cesse stampare;  io  ne  conosco  solo  l'edizione  che  ne  fu  fatta 
a  Venezia  nel  1536  ed  altre  posteriori.  Nella  dedica  appunto 
al  duca  di  Ferrandina  egli  dice  di  ammirare  in  lui  sopratutto 
((  charitatem  qua  literatos  amplecteris,  hac  tempestate  qua  oh 
bellorum  importunitates  pax  una  cum  litteris  inferire  visa  est  ». 
Siamo  dunque  negli  anni  che  tengon  dietro  al  1509.  E  poiché 
Giovanni  Castrioto  morì  il  2  agosto  1514,  il  libretto  è  certa- 
mente  anteriore   a   questa   data. 

Sindaco  della  piccola  sua  città  natale.  Marcantonio  si  tro- 
vava a  rappresentare  quella  comunità  nella  cauta  ma  energica 
difesa  delle  istituzioni  e  dei  privilegi  di  essa  contro  le  soper- 
chierie  di  Ferdinando  Castrioto,  successo  a  Giovanni.  In- 
tanto, un  anno  dopo,  nel  15 15,  gli  nacque  il  figlio  Teofilo, 
del  quale  diremo  fra  poco.  L' Arcudi  (p.  186)  parla  anche  d'un 
altro  figlio  avuto  prima,  Nicolò,  il  quale  fu  dottore  in  leggi 
a  Roma,  ove  testò  nel  1569.  Altri  due  figli  dovettero  nascergli 
più  tardi.  Ma  le  cure  familiari  e  quelle  pubbliche  non  lo  di- 
stolsero del  tutto  dagli  studi.  Fra  il  1517  e  il  1519,  uscirono  a 
Venezia,  curate  da  lui,  per  gli  eredi  di  Ottaviano  Scoto,  le 
seguenti  opere  di  Alberto  Magno  «  in  via  peripathetica  philo- 
sophi  theologique  profundissimi  »  :  Naturalia  ac  supernatu- 
ralia  (cioè  la  Fisica,  il  De  generatione  et  corrupfione,  il  De 
metheoris,  il  De  mineralihus,  il  De  anima,  il  De  intellectu  et 
intelligibili  e  la  Metafisica),  accompagnati  da  molte  annota- 
zioni marginali;  i  Parva  Naturalia  e  gli  Opuscula  (nella  dedica 
a  Marcantonio  Venier  del  fu  Cristoforo,  lo  Zimara  parrebbe 


4  Galatina  letterata,   Genova    1709,   pp.   171-S1. 

5  Op..  cit..  pp.   57-58. 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  335 

dichiarare  che  le  sue  «  castigationes  et  lucubrationes  »  si  li- 
mitano al  De  causis,  ma  verosimilmente  sue  sono  anche  quelle 
apposte  al  De  natura  locorum);  e  le  Due  partes  Summe....  de 
quatuor  coèvis.  Nell'edizione  di  quest'ultima  opera,  apparsa  il 
30  settembre  1519,  lo  Zimara  è  detto  «  philosophiam  Padue 
publice  profitentem  »,  espressione  che  forse  va  intesa  così 
«  dum  philosophiam  Padue  publice  profitebatur  ».  Poiché 
sembra  poco  probabile  che  in  quegli  anni  egli  fosse  tornato 
a  Padova  6. 

Dov'era,  dunque  ?  Quasi  certamente  a  Salerno,  chiamatovi 
da  quel  principe  Ferdinando  Sanseverino  che  amava  circon- 
darsi di  uomini  dotti  e  dava  impulso  al  rifiorire  degli  studi 
nella  sua  città.  Infatti  nella  dedica  allo  stesso  Sanseverino 
dei  Theoremata  compiuti  e  pubblicati  a  Napoli  nei  primi  mesi 
del  1523,  egli  dice:  «  Animadverti  hoc  ipsum  superioribus 
annis....  dum  philosophiam  Theoricamque  medicinae  publice 
in  tua  Salerno  profiterer  ». 

A  Salerno  aveva  insegnato  anche  il  Nifo,  dopo  ch'ebbe 
lasciato  Padova.  Lo  Zimara  accenna  ad  un  insegnamento  di 
più  anni  in  questa  città,  e  ci  fa  sapere  che,  oltre  alla  filosofìa, 
vi  avea  professato  anche  la  medicina  teorica.  Tuttavia  il  suo 
animo  era  rivolto  a  Padova. 

Dopo  i  fatti  del  1509,  dei  quali  abbiamo  fatto  cenno,  lo 
studio  padovano  condusse  per  più  anni  una  vita  stentata. 
Gli  scolari  eran  molto  diminuiti,  non  essendo  attratti  da 
maestri  di  grande  rinomanza.  La  città,  che  dall'affluenza  della 
popolazione  scolastica  traeva  lustro  e  vantaggio,  reclamava  a 
gran  voce  che  si  provvedesse  sollecitamente  al  bisogno,  per  il 
rifiorire  dell'università,  perché  «  sia  ritorna  il  Studio  come  era 
prima»  (M.  Sanudo,  XXIII,  527,  25  gennaio  1517).  E  agli 
oratori  padovani  che  questo  chiedevano  con  insistenza  fu 
risposto  dal  Principe  (?'&.,  562,  7  febbraio  1517):  «eramo 
contenti,  e  si  pratichi  di  condur  li  dotori,  perché  nostra  inten- 


6  Però  riferisce  M.  Sanudo  (XXVII,  col.  575,  23  agosto  1519), 
che  Marcantonio  Loredan,  capitanio  a  Padova,  venuto  in  Collegio  a 
Venezia,  informò  come  nello  studio  di  Padova  erano  a  quel  momento 
«  22  dotori  che  leze  artisti  e  26  giuristi,  e  portò  una  letera  per  certo 
dotor  verìa  a  lezer.  Scrive  ha  fato  perteghe  21  mila  800  ».  Se  per  av- 
ventura questo  «  dotor  »  fosse  lo  Zimara,  bisognerebbe  pensare  che  egli 
si  fosse  sobbarcato  nel  15 19  al  lungo  viaggio  a  Venezia,  sia  per  sorve- 
gliare la  stampa  di  Alberto  Magno,  sia  per  condurre  in  porto  le  trattative 
per  la  «  lettura  »  a  Padova. 


336        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

zion  è  di  ritornar  il  Studio  »  ;  la  quale  assicurazione  fu  rinno- 
vata il  21  dello  stesso  mese  {Ih.,  596).  Anzi,  narra  il  Sanudo 
(XXIV,  214)  che  il  7  maggio  1517,  «  dovendosi  comenzar  il 
Studio  a  Padoa,  fo  eletti  tre  doctori,  quali  dovessero  praticar 
condur  li  doctori  a  lezer  che  fusseno  excelienti;  i  quali  doctori 
sono  questi:  sier  Zorzi  Pixani,  sier  Marin  Zorzi,  et  sier  Antonio 
Zustinian  »  (cfr.  Ib.,  617,  29  agosto  1517,  e  XXVII,  50  e  55, 
14  marzo  1519). 

Il  15  settembre  15 17,  furon  «  ballotati  »  in  Collegio  i  «  rotuli  » 
dei  maestri  chiamati  a  leggere  sia  nella  facoltà  di  legge  come 
in  quella  delle  arti  e  medicina  (XXIV,  672).  Pareva  ormai 
che  le  cose  si  mettessero  bene.  Per  la  filosofia  «  al  secondo 
loco  »,  era  stato  chiamato  da  Ferrara  Nicolò  Prisciano  ed  era 
stato  promosso  il  veronese  Girolamo  Bagolino.  Ma  il  duca 
estense  sollecitava  nel  marzo  del  1520  il  Prisciano  a  tornare 
«  a  lezer  a  Ferrara  »  (XXVIII,  333,  9  marzo  1520)  ;  se  non 
che  il  maestro  di  lì  a  poco  morì,  e  fu  necessario  provvedere 
alla  sua  successione. 

Il  14  settembre  1520,  riferisce  il  Sanudo,  «  fo  scrito  a  Roma 
a  rOrator  nostro,  come  de  lì  si  ritrova  el  Spagnolo  [cioè  Gio- 
vanni Montesdoch],  qual  leze  l'ordinaria  di  philosophia,  il 
qual  alias  desiderava  venir  a  lezer  a  Padoa  al  primo  loco: 
per  tanto,  havendo  optima  fama,  vedi  si  'il  persevera  in  voler 
venir,  et  concludi  con  più  avantazo  el  poi  etc.  «  (XXIX,  181). 

Questo  maestro,  ancor  poco  conosciuto,  era  stato  collega 
di  Alessandro  Achillini  e  più  tardi  del  Pomponazzi  a  Bologna, 
ma  aveva  dovuto  abbandonare  quella  città  nell'estate  del  1515. 
Non  sapevamo  dove  fosse  andato.  Il  Sanudo  ora  ci  fa  sapere 
che  era  andato  lettore  di  filosofia  a  Roma,  non  essendo  stato 
accolto  a  Padova. 

Mentre  si  cercava  di  avviar  pratiche  per  condurre  lo  Spa- 
gnolo, pare  si  fosse  pensato  anche  al  «  Mantoan  »,  cioè  al  Pom- 
ponazzi che  era  a  Bologna;  e  il  consigliere  Marco  Minio  sug- 
geriva il  nome  di  Branda  Porro,  che  leggeva  filosofia  a  Pavia, 
ov'era  stato  alunno  di  Tiberio  Bacilieri  (M.  Sanudo,  XXIX, 
268,  3  ottobre  1520).  Ma  li  studenti,  nell'incertezza  di  avere 
valenti  maestri,  abbandonavano  Padova  e  anche  quelli  che 
s'apparecchiavano  al  dottorato  andavano  «  a  conventar  al- 
trove »,  in  barba  alla  legge,  quand'erano  sudditi  della  Sere- 
nissima [Ih.,  p.  313,  22  ottobre  1520).  Sicché  i  rettori  di  Pa- 
dova,   Marin   Zorzi,    podestà,    e    Alvise   Contarini,   capitanio, 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  337 

il  3  novembre  «  scriveno  il  Studio  va  in  mina,  per  non  vi  esser 
doctori  che  lezano,  e  li  scolari  forestieri  vanno  via,  e  li  nostri 
subditi,  non  stimando  le  leze,  non  voleno  più  star,  non  avendo 
doctori  da  i  quali  possano  udir....  »  {Ib.,  348). 

L'allarme  indusse  i  Savi  del  Consiglio  e  Terra  ferma  a  pren- 
dere una  decisione  sulla  proposta  «  di  condurre  a  lezer  nil 
Studio  di  Padoa....  domino  Zuan  Montesdocha,  Ispano,  leze  a 
Roma,  a  la  lettura  dil  primo  locho  di  Philosophia,  cum  sa- 
lario fiorini  600  a  l'anno....  Et  domino  Marco  Antonio  Ziniara, 
San  Petrinas,  di  terra  di  Otranto,  leze  a  Salerno  a  la  ordinaria 
di  teorica  overo  praticha  di  Medicina,  con  salario  fiorini  300 
a  l'anno  »   [Ib.). 

Presa  la  decisione,  le  trattative  col  Montesdoch  furon  portate 
sollecitamente  a  termine  (76.)  ;  quelle  invece  con  lo  Zimara 
andaron  per  le  lunghe.  Con  l'andata  a  Padova  dello  spagnolo, 
che  godeva  di  meritata  fama,  lo  Studio  parve  rifiorire.  Il  che 
fece  piacere  al  governo  veneziano,  che,  il  13  maggio  1521, 
s'affrettò  ad  informare  i  due  rettori  di  Padova  «  come  li  Rifor- 
matori dil  Studio  [che  erano  allora  Zorzi  Pisani,  Francesco 
Bragadin,  Antonio  Justinian,  par  habino  auto  aviso  domino 
Marco  di  Otranto  è  per  venir,  però  a  visi  li  scolari»  [Ib., 
XXX,    181). 

Se  non  che,  a  questo  punto,  debbo  segnalare  un'  indicazione 
che  trovo  nel  già  citato  cod.  Ambros.  S.  Q.  -(-.  II.  36,  e  che 
presenta  qualche  difficoltà  per  accordarsi  con  le  indicazioni 
precedenti.  In  questo  codice,  prima  della  Quaestio  de  regressu, 
attribuita  allo  Zimara,  ma  che  invece  è  del  Pomponazzi, 
come  ho  detto,  v'  è  anche  (f.  229r)  una  Quaestio  de  immorta- 
litate  animae  domini  Marci  Antonii  Zimarae  Venetiis  discussa 
corani  Duce  et  Senatoribus,  la  quale  è  cosa  diversa  dalla  Quaestio 
sullo  stesso  argomento  nel  cod.  Parigino,  Bibl.  Nationale, 
ms.  lat.  6450,  di  cui  dirò  più  giù.  La  Quaestio  Ambrosiana  è 
assai  più  succinta.  In  essa  son  ricordati  il  cardinale  di  S.  Do- 
menico, cioè  il  Gaetano,  «  et  praeceptor  meus  »,  che  è  il  Pom- 
ponazzi (f.  23ir-v).  Alla  fine  (f.  232r)  si  legge:  «  Gratias  itaque 
ago  dominationibus  vestris  quae  dignatae  sunt  nostrae  lectioni 
adesse.  Haec  dieta  sufficiant  de  ista  difficillima  quaestione, 
die  ultimo  martii  1520,  et  fuit  punctus  Pascatis  domini  nostri 
yesu   christi.    finis  ». 

Orbene,  nel  1520,  la  Pasqua  cadde  non  il  31  marzo,  ma  1'  8 
aprile.  Invece  l'anno  successivo  1521  la  Pasqua  cadde  proprio 
22 


338        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

l'ultimo  di  marzo.  Dunque  nel  manoscritto  Ambrosiano,  che 
è  una  copia  di  mano  di  fra  Zaccaria  da  Milano,  del  1553,  v'  è 
certamente  un  errore   di  trascrizione. 

Supponendo  che  per  la  Pasqua  del  152 1  lo  Zimara  fosse 
venuto  da  Salerno  a  Venezia,  per  saggiare  il  terreno,  egli 
potrebbe  avere  avuto  abboccamenti  coi  Riformatori  della 
Studio,  onde  conoscere  meglio  le  condizioni  che  il  Consiglio 
era  disposto  a  fargh,  parendogli  pochi  300  fiorini;  e  quindi, 
ripartito  per  Salerno,  in  maggio  avrebbe  fatto  sapere  di  esser 
disposto  ad  accettarle  e  ad  assumere  l' insegnamento  a  Pa- 
dova. Tutto  questo,  ben  inteso,  presupponendo  che  la  Quaestio 
veneziana  de  immortalitate  animae  sia  davvero  dello  Zimara, 

Ma  ormai  era  tardi,  poiché,  mentre  al  primo  luogo  leggeva 
l'ordinaria  di  filosofìa  il  Montesdoch,  al  secondo  luogo  era 
stato  chiamato  da  Pavia  Branda  Porro.  Per  il  momento  lo 
Zimara  doveva  rinunziare  a  Padova  e  restarsene  a  Salerno^ 
Ma  il  16  marzo  1523  lo  troviamo  lettore  di  Metafisica  nelle 
scuole  pubbliche  di  S.  Lorenzo  a  Napoli,  Ciò  appare  dalla 
expiicit  dei  Theoremata  usciti  a  Napoli  a  questa  data,  con  un 
epigramma  di  Pietro  Gravina:  «Compievi  hoc  opus  Neapoli, 
anno  Domini  Millesimo  quingentesimo  vigesimo  tertio,  dum 
scientiam  divinam  publico  stipendio  legerem  apud  sanctum 
Laurentium,  sub  regimine  Reverendi  patris  Fratris  Antonini 
de  Antorosa  de  Neapoli  cui  ego  plurimum  debeo  ». 

A  Napoli  forse  egli  era  già  l'anno  precedente,  quando,  se- 
condo l'Arcudi  7  e  il  Papadia,  il  filosofo  e  il  suo  conterraneo,  il 
giurista  Pietro  Vernaleone,  sarebbero  stati  inviati  dalla  comu- 
nità di  Galatina,  per  protestare  presso  il  vice-re  contro  i  so- 
prusi di  Fernando  Castrioto,  e  per  chiedere  che  fossero  ri- 
spettati i  suoi  antichi  privilegi.  L'Arcudi  anzi  riferisce  una 
lettera  dello  Zimara  «  Nobilibus  Magnificisque  viris  Sindico 
et  Regimini  Universitatis  S.  Petri  in  Galatina  »,  del  29  set- 
tembre 1522,  per  esortare  i  suoi  concittadini  a  mantenersi 
calmi  ed  attendere  con  fiducia. 

Ma  anche  da  Napoli  il  suo  pensiero  doveva  esser  rivolto 
a  Padova;  e  l'occasione  di  tornarvi  si  presentò  nell'estate 
del  1525,  quando  il  Montesdoch  chiese  al  Senato  veneziana 
licenza  di  andarsene,  e  questo  glie  l'accordò. 

Pietro  Bembo  in  due  lettere  a  Gian  Batt.  Rannusio,  del  17 

7  Op.  cit.,   pp.    ijb--j-j. 


MARCANTONIO    E    TEOFILO     ZIMARA  339 

•Bgosto  e  del  6  ottobre  1525  ^  ci  fa  sapere,  non  senza  amarezza, 
come   le   cose   andarono. 

Giovanni  Montesdoch  a  Padova  era  tenuto  in  grande  consi- 
derazione ed  era  riuscito  a  farsi  un  nome,  secondo  la  testi- 
monianza del  Bembo,  quale  non  aveva  avuto  prima.  Ma  non 
debbono  essergli  mancate  accuse  per  la  sua  spregiudicatezza 
neir  interpretare  Aristotele,  sì  da  parte  degli  averroisti  sì  da 
parte  dei  teologi,  se  è  vero  quanto  egli  stesso  ci  fa  sapere  in 
una  lezione  del  1525  sul  terzo  del  De  anima  (Parigi,  Bibl. 
Nation.,  ms.  lat.  6450,  pp.  139-40):  «  Cum  isti  fratres  vident 
philosophum,  dicunt:  haereticus  est;  ut  mihi  olim  accidit, 
dum  disputarem  in  capitulo  generali  fratrum  S.  Dominici...; 
et  quia  eos  male  tractabam,  dixerunt  3*^  die,  me  esse  haere- 
ticum  ». 

Non  so  se  per  queste  ragioni,  oppure,  come  insinua  il  Bembo, 
nella  lettera  a  Gian  Batt.  Rannusio  del  17  agosto  di  quel- 
l'anno, per  ottenere  l'offerta  d'un  aumento  di  stipendio, 
senza  farne  aperta  richiesta,  il  maestro  spagnolo  chiese  li- 
cenza d'andarsene  altrove.  Il  Bembo,  che  pure  era  informato 
dei  maneggi  per  condurre  il  Montesdoch  a  Pisa,  ove  poi  ef- 
fettivamente andò  con  lo  stipendio  di  800  fiorini,  sperava 
che  con  l'offerta  di  «  cento  ducati  d'aumento  »  lo  si  potesse 
trattenere  con  vantaggio  dello  Studio  padovano,  poiché  dopo 
la  morte  del  Pomponazzi  si  prevedeva  uno  spopolamento  dello 
Studio  bolognese  :  «  Se  lo  Spagnolo  resta,  questo  anno  averemo 
qui  la  maggior  parte  degli  artisti  dello  studio  di  Bologna. 
E  già  il  Sig.  Ercole  Gonzaga,  fratello  del  Marchese,  che  è 
stato  forse  tre  anni  o  più  a  Bologna  per  udire  il  Perette,  fa 
cercar  casa  qui,  per  venir  ad  udir  costui»  [Ib.). 

Ma  le  cose  non  andarono  secondo  il  suggerimento  e  il  desi- 
derio del  prelato,  che  arrivava  a  cose  fatte;  poiché  Marin 
Sanudo  (voi.  XL,  col.  34)  ci  fa  sapere  che  il  16  luglio  era  già 
stato  «  posto,  per  li  ditti  [Savii  del  Conscio  e  Savii  di  terra 
ferma],  condur  a  lezer  in  ditto  Studio  [di  Padoa]  in  philo- 
sophia  domino  Marco  di  Otranto,  qual  ha  lecto  in  molti  Studi, 
videlicet  in  la  lectione  de  philosophia,  per  do  anni  di  fermo 
et  uno  de  rispetto  in  libertà  di  la  Signoria  nostra  con  salario 
di  fiorini  450  a  l'anno  ». 

La   decisione   rimasta  segreta    dovette   divulgarsi   alla   fine 


8  opere,   \enezia   1729,  p.   Ili,  p.    118. 


340        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

di  settembre,  e  il  Rannusio  non  tardò  a  informarne  l'amico. 
Il  quale  gli  rispose  da  Padova  il  6  ottobre  esprimendogli  il 
suo  disappunto. 

Da  questa  lettera  si  rileva  che  responsabili  del  negato  au- 
mento al  Montesdoch  e  della  chiamata  dello  Zimara  furono 
i  due  patrizi  veneziani  Marin  Zorzi  e  Francesco  Bragadin, 
riformatori  dello  studio  di  Padova,  i  quali  si  avvicendarono  per 
molti  anni  in  questo  ufficio  con  altri  patrizi  che  avevano  fatto 
gli  studi  a  Padova  e  vi  avevano  conseguito  il  titolo  di  «  dotor  ». 
E  il  risentimento  del  Bembo  si  rivolge  specialmente  contro  il 
primo  dei  due  riformatori:  «  M.  Marino  ha  voluto  guastar 
questo  bello  ed  onorato  Studio,  di  cui  egli  è  guardiano;  e  gli 
è  molto  ben  venuto  fatto  il  pensiero.  Se  le  altre  sue  imprese 
così  bene  gli  succederanno,  sarà  felicissimo.  Non  parlo  di  M. 
Francesco,  percioché  io  intendo  da  ogni  lato,  che  il  voler 
condur  qui  codesto  Otranto  è  solo  invenzion  di  M.  Marino, 
e  non  di  lui.  Il  quale  Otranto  è  già  da  ora  tanto  in  odio  di 
questi  scolari  tutti  dall'un  capo  all'altro,  che  se  ne  ridono  con 
isdegno.  Perciocché  dicono  che  ha  dottrina  tutta  barbara  e 
confusa,  ed  è  semplice  Averroista;  il  quale  autore  a  questi 
dì  assai  si  lascia  da  parte  da  i  buoni  dottori  ed  attendesi 
alle  sposizioni  de'  commenti  Greci,  ed  a  far  progresso  ne'  testi. 
E  costui  pare  che  sia  tutto  barbaro  e  pieno  di  quella  feccia  di 
dottrina,  che  ora  si  fugge,  come  la  mala  ventura.  Siate  sicuro, 
che  questo  povero  studio  quest'anno,  quanto  alle  arti  non 
avrà  quattro  scolari  oltre  quelli  del  nostro  dominio,  che  ci 
staranno  mal  lor  grado,  e  sarà  l'ultimo  di  tutti  gli  studi  ». 
E  più  giù  :  «  Questi  sono  i  governi  e  giudicii  di  M.  Marin  Gior- 
gio, che  pare  appunto,  che  porti  odio  a  tutti  quelli,  che  sanno 
le  belle  e  buone  lettere,  o  che  le  vogliano  apparare  e  sapere  ». 

Anche  di  Sebastiano  Foscarini,  che  più  volte  coprì  la  carica 
di  riformatore  dello  Studio  padovano  e  dimostrò  «  rara  dot- 
trina »  nello  esporre  a  Venezia,  nelle  scuole  di  Rialto,  «  le  cose 
diffìcili  di  Aristotile  e  di  Averrois  il  gran  commentatore  »  9, 
il  Bembo  pronunzia,  in  una  lettera  allo  stesso  Rannusio, 
del  7  luglio  1532 1",  un  giudizio  analogo:  «il  qual  Foscarini 
non  so  come  par  che  sempre  abbia  avuto  in  odio  tutte  le  buone 
lettere  in  ogni  facoltà  ». 


'  A.  ZhNO,  in   «Giorn.  de'  Letterati  d'Italia»,  t.  V,  1711,  pp.  366-69. 
t"  Opere,   III,   p.    408. 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  34I 

Bisogna  però  riconoscere  che,  l'una  e  l'altra  volta,  il  Bembo 
scriveva  con  l'animo  irritato,  per  le  difficoltà  che,  tanto  lo 
Zorzi  quanto  il  Foscarini,  opponevano  a  due  suoi  raccoman- 
dati. 

A  questo  s'aggiunga  che  il  patriziato  veneziano  era  stato 
in  gran  parte  educato,  per  quanto  concerne  la  filosofia,  alla 
tradizione  aristotelico-averroistica,  e  che  a  questa  si  mostrava 
assai  attaccato,  come  provano  numerosi  documenti.  Il  Bembo, 
invece,  veniva  dalla  scuola  di  retorica  ed  era  insomma  un 
«  umanista  »,  e  piuttosto  che  sobbarcarsi  allo  studio  della 
filosofia  aristotelico-averroistica,  rinunziò  al  titolo  di  dottore 
i>i  artihus,  del  quale  invece  s'adornava  suo  padre,  Bernardo, 
«  dotor  e  cavalier  ».  In  lui  l'avversione  per  l'aristotelismo  e 
l'averroismo,  ereditata  dal  Petrarca,  era,  potremmo  dire, 
congenita.  Come  gran  parte  degli  umanisti,  egli  non  ebbe  mai 
il  gusto  per  i  problemi  della  filosofia  e  della  scienza  che  appas- 
sionavano i  maestri  e  gli  scolari  della  facoltà  delle  «  arti  ». 
Il  suo  aspro  giudizio  su  «  codesto  Otranto  »  è  espressione  di  un 
conflitto  più  vasto,  non  ancora  risolto,  nel  pensiero  del  Rina- 
scimento, che  vide  coabitare  tra  le  mura  della  stessa  città 
Pietro  Bembo  e    Marcantonio   Zimara. 

Titolare  della  «  lettura  »  ordinaria  di  filosofia  <(  primo  loco  », 
il  maestro  otrantino  aveva  per  concorrente  Marcantonio  de' 
Passeri  o  de  Janna,  detto  comunemente  il  Genua  o  Zenoa. 
Questi  era  figlio  di  un  altro  illustre  maestro  della  stessa  fa- 
coltà delle  Arti  e  Medicina,  Nicolò  Genua,  morto  nel  1522, 
e,  come  il  padre,  anche  Marcantonio,  addottorato  intorno 
al  1512,  era  membro  autorevole  fin  da  quell'anno  del  «  Sacro 
Collegio  degli  Artisti  e  Medici  ».  A  principio  dello  stesso  anno 
scolastico  1525-26,  insieme  allo  Zimara,  faceva  ritorno  a  Pa- 
dova da  Bologna  il  giovane  Sperone  Speroni,  chiamato  ancora 
Speronello,  ad  occuparvi  la  cattedra  straordinaria  di  filo- 
sofia «  secundo  loco  ».  Il  venticinquenne  Speronello  era  a 
Padova  il  geloso  custode  della  memoria  del  Pomponazzi,  del 
quale  soleva  parlare  con  affetto  ed  ammirazione  con  Lazzaro 
Bonamico  da  Bassano,  quando  questi  venne  chiamato  a  in- 
segnar retorica  e  lettere  greche   nello   Studio   padovano. 

Ma  l'antagonista  più  terribile  era  per  il  nostro  il  giovane 
Genua.  I  maestri  che  insegnavano  in  concorrenza  si  sorve- 
gliavano a  vicenda,  per  mezzo  degli  appunti  che  prende- 
vano gli  alunni,  i  quali  li  facevano  passare  nelle  mani  dei 


342        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

loro  compagni  e  del  concorrente.  Nascevano  così,  tra  i  due 
concorrenti,  dispute  che  dalle  aule  scolastiche,  al  Bò,  si  tra- 
scinavano al  «  circolo  dei  filosofi  »  al  portico  del  palazzo  pre- 
torio, ove  risiedeva  il  Podestà  (con  termine  umanistico  chia- 
mato Praetor),  a  pochi  passi  dal  Bò,  e  dove  la  sera  si  racco- 
glievano maestri  e  scolari  per  le  loro  schermaglie  dialettiche. 
Nel  circolo  dei  filosofi  «  ad  porticum  praetoriam  »  Paolo  Giovio, 
studente  a  Padova,  avea  visto,  fra  il  novembre  1506  e  la  pri- 
mavera del  1507,  alle  prese  tra  loro  il  Peretto  Mantovano  e 
Alessandro  Achillini  (v.  sopra,  pp.  255-58).  Al  1525  si  riferisce  in- 
vece la  disputa  cui  s'accenna  in  questa  nota  manoscritta,  che  il 
Papadia  (p.  59,  n.  3)  dice  d'aver  letto  in  un'opera  dello  Zimara: 
<i  Die  3  mensis  decembris  15 15.  Patavii,  in  circulis  qui  fiebant  per 
sind.  (?)  magistrum  Albertum,  Methaphysice  professorem,  et  do- 
minum  Marcum  x\ntonium  lanuensem  concurrentem  eximii 
domini  Marci  Antonii  Zimarae  S.  Petrinatis,  philosophi  or- 
dinarii.  Circulus  quidem  erat  de  virtute  primi  motoris  ».  Ove 
la  cifra  15 15  va  letta  sicuramente  1525,  poiché  solo  in  quest'anno 
il  Genua  si  trovò  ad  essere  concorrente  dello  Zimara,  e  Maestro 
Alberto  Pasquale  da  Udine  non  fu  professore  di  Metafisica  a 
Padova  se  non  dal  1518  al  1531.  «  Tempore  meo  Paduae,  dum 
in  circulis  disputarem  »,  dice  di  sé  il  Nostro,  a  proposito  della 
teoria  che  il  sangue  si  genera  dal  fegato  [Tabula,  alla  voce 
Cor   et   iecur) . 

Al  circolo  dei  filosofi  appunto  debbono  essersi  rivelati  i 
dissensi  fra  lo  Zimara  e  il  suo  concorrente.  Marcantonio  Genua. 
Conoscitore  del  commento  averroistico  in  tutti  i  particolari, 
lo  Zimara  non  solo  non  tollerava  che  si  accusasse  il  Commen- 
tatore d'essersi  spesso  contradetto,  ma  insorgeva  contro  tutti 
i  tentativi  degli  «  iuniores  »  di  allontanarsi  dalla  tradizione 
che  il  pensiero  averroistico  aveva  ormai  fissato  in  alcuni 
ben  definiti  e  precisi  caposaldi.  Ora,  a  prescindere  dalla  inter- 
pretazione sigieriana  della  dottrina  averroistica,  della  quale 
mi  sono  più  volte  occupato,  Giovanni  Pico  della  Mirandola, 
che  aveva  studiato  a  Padova  sotto  maestri  averroisti,  aveva 
portato  nell'esegesi  del  pensiero  averroistico  concetti  attinti 
al  commento  di  Simplicio  al  De  anima,  che  egli  pare  fosse  il 
primo  a  conoscere  e  a  divulgare  con  le  sue  Conclusiones  noit- 
gentae  del  i486.  Il  commento  di  Simplicio  cominciò  a  circolare, 
dapprima  nel  testo  greco,  poi  anche  in  una  traduzione  latina 
di  cui  fece  uso  sicuramente  Agostino  Nifo,  ora  sconosciuta. 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  343 

e  ben  presto  dovette  attirare  l'attenzione  del  giovane  concor- 
rente  dello   Zimara,    Marcantonio   Genua    (v.    saggio    XIII). 

Quasi  mezzo  secolo  prima,  Ermolao  Barbaro  insinuava  che 
Averroè  non  aveva  fatto  che  rubacchiare  dai  greci.  Il  Genua, 
senza  accusare  di  plagio  il  commentatore  arabo,  riteneva  di 
poterne  additare  la  fonte  precipua  nel  commento  greco  di 
Simplicio  al  De  anima.  «  Intelletto  agente  »  e  «  intelletto  possi- 
bile »  sono  due  momenti  della  «  discesa  »  di  quell'unico  intel- 
letto che,  perfetto  in  sé,  decade  dalla  sua  perfezione,  per 
unirsi,  nell'organismo  umano,  alle  «  seconde  vite  »,  cioè  alla 
vita  vegetativa  e  sensitiva.  Ma  pur  disceso  nel  mondo  tene- 
broso della  sensibilità,  questo  intelletto  porta  con  sé  il  ricordo 
offuscato  del  mondo  intelhgibile,  dal  quale,  stimolato  dalle 
immagini  sensibili  che  di  quel  mondo  son  pallida  ombra,  co- 
mincia l'ascesa  per  il  ritorno  alla  contemplazione  delle  idee 
eterne  e  immutabili.  In  tal  modo  l'averroismo  veniva  inca- 
nalato nella  grande  corrente  neoplatonica  dell'umanesimo 
ficiniano. 

Tutto  questo,  dal  punto  di  vista  dell'  interpretazione  lette- 
rale d' Averroè,  era  eresia;  e  tale  la  ritenne  senza  dubbio  il 
filosofo  di  Galatina.  Non  più  averroisti  dovevano  dirsi  il  Genua 
e  i  suoi  seguaci,  ma  simpliciani,  come  infatti  cominciarono 
ad  esser  chiamati. 

E  questi  simpliciani  cominciarono  a  parlare  un  linguaggio 
nuox'o,  facendo  uso  di  una  nuova  terminologia,  e  scrivendo 
un  latino  meno  ingrato  all'orecchio  abituato  all'armonia  della 
retorica  umanistica.  Anzi,  taluno  giunse  fino  a  dire  che  si 
potevano  ormai  mettere  in  sofiìtta  gli  scritti  d'Averroè,  irti 
di  tanti  barbarismi  e  di  tante  oscurità,  ora  che  Marcantonio 
Genua  aveva  dimostrato,  che  tutto  quello  che  si  legge  nel 
barbarico  linguaggio  delle  traduzioni  latine  d'Averroè,  era 
già  stato  detto  in  modo  piìi  elegante  e  con  maggiore  chiarezza 
da  Teofrasto,  da  Temistio  e  da  Simplicio. 

Quando  il  padovano  Giovanni  Fasolo  osava  scrivere  queste 
empietà,  lo  Zimara  era  già  morto.  Ma  prima  di  morire,  du- 
rante il  suo  secondo  soggiorno  a  Padova,  egli  deve  aver  sentito 
profondo  disgusto  per  queste  deviazioni  degh  «  iuniores  »,  e 
deve  averne  tratto  conferma  a  quanto  aveva  scritto  nei  Pro- 
hlemata  a  Giovanni  Castrioto  (LXXIX),  che  forse  ai  nostri 
tempi  "  natura  hominum  diminuta  et  imbecilhs  est  »,  come 
pareva  a  Solino  e  a  Pietro  d'Abano.  Non,  beninteso,  in  tutto 


344        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

il  mondo,  poiché  Averroè  aveva  dimostrato  «  mundum  qua- 
libet  aetate  perfectum  esse,  nullumque  esse  momentum,  quo- 
his,  quae  ad  sui  decorem  perfectionem  atque  integritatem 
attinent,  careat  »:  ma  certamente  a  Padova  e  nelle  parti 
vicine,  sì  che  la  vera  filosofia  era  esulata  allora  in  altre  parti 
della  terra  abitata  a  noi  sconosciute  ;  <(  non  enim  totius  habi- 
tabilis  terrae  perfectio  nobis  innotescit  ».  Ma  allora  gli  era- 
balenato  anche  il  dubbio,  che  fosse  un'  inclinazione  naturale 
dell'uomo  quella  di  dir  bene  del  passato  e  male  del  suo  tempo. 

Al  qual  luogo  dei  Prohlemata  si  riferisce  espressamente 
l'olivetano  P.  D.  Secondo  Lancellotti  nel  suo  L'Hoggidì  o 
vero  il  mondo  non  peggiore  né  piìi  calamitoso  del  passato  ", 
per  presentarci  lo  Zimara  come  «  il  trombettiere  »  degli  «  hog- 
gidiani  »,  ossia  dei  «  laudatores  temporis  acti  »,  che,  ripetitori 
di  vecchie  dottrine  e  refrattari  ad  ogni  rinnovamento,  deplo- 
rano gli  ardimenti  delle  nuove  generazioni  e,  tentennando  il 
capo,  van  brontolando  che  le  cose  «  oggidì  »  vanno  male. 
Così  egli  restava  quel  barbaro  e  ostinato  averroista,  qual 
parve  a  Pietro  Bembo  nella  lettera  al  Rannusio.  Averroisti 
erano  anche  il  Genua  e  i  suoi  alunni;  ma  costoro  s'erano  ado- 
prati  a  modernizzare  Averroè  e  a  renderne  il  linguaggio  meno 
stridente  al  timpano  degli  umanisti.  Così  farà  anche  Francesco 
Piccolomini  da  Siena,  che  a  Padova  continuò  a  tenere  alta  la. 
bandiera  dell'averroismo  dopo  la  morte  del  Genua  (1563), 
sino  ai  primi  anni  del  secolo  successivo,  col  plauso  degli 
scolari  e  del  senato  veneto. 

Invece  lo  Zimara,  compiuto  il  triennio  per  il  quale  era  stato 
ingaggiato,  dovette  lasciar  Padova,  ove  il  29  ottobre  1529 
era  chiamato  "  ad  philosophiam  extraordinariam....  in  primo 
loco  »  Vincenzo  Maggi  da  Brescia,  suo  discepolo,  addottorato 
in  artibus  appena  da  un  anno,  ma  uomo  di  grande  acume  e 
buon  conoscitore  del  greco  che,  lasciata  Padova  nel  1542, 
illustrò,  nell'ultimo  ventennio  di  sua  vita,  lo  Studio  di  Ferrara 
del  suo  non  comune  sapere,  del  quale  purtroppo,  se  ne  togli 
le  poche  cose  stampate,  non  ci  restano  che  scarse  reliquie 
manoscritte.  Nel  1531  la  cattedra  tenuta  dallo  Zimara  era 
ancora  vacante.  Ma  l'anno  successivo  venne  assegnata  al 
Genua,  cui  fu  dato  per  concorrente  il  Maggi  (Arch.  Antico 
dell'  Univ.  di  Padova,  Raccolta  Minato,  Rotuh,  242,  ff.  4r-7r). 

"   Venezia   1646,  p.  6  sgg. 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  ^45 

Al  periodo  del  secondo  insegnamento  padovano  dell'  Otran- 
tino  ritengo  appartenga  la  Quaestio  de  immorialitate  animae 
secundum  Peripateticos  cantra  oppositum  tenenies,  scilicet 
Magistrum  Petrum  Pomponatium,  del  cod.  lat.  6450  della 
Bibliothèque  Nationale  di  Parigi,  ff.  201V-224V.  Nello  stesso 
codice,  pp.  321-332,  v'  è  la  stessa  Quaestio  de  immortalitate 
animae  per  M.  Ani.  Zimaram,  scritta  d'altra  mano.  L'una  e 
l'altra  copia  hanno  aggiunte  e  note  marginali.  Il  codice,  che 
contiene  anche  le  lezioni  di  Giovanni  Montesdoch  sul  terzo 
del  De  anima,  tenute  a  Padova  nell'anno  scolastico  1524-25, 
è  stato  messo  insieme  con  fascicoli  diversi  che  originariamente 
avevano  ciascuno  propria  numerazione,  diversa  dalla  moderna. 

Come  ho  già  detto  di  sopra,  questa  Quaestio  del  codice  Pa- 
rigino è  cosa  diversa  da  quella  del  cod.  Ambrosiano  S.  Q.  -[-•  H- 
36,  disputata  a  Venezia  per  la  Pasqua  1521,  se  questa  è  vera- 
mente dello  Zimara. 

Del  secondo  periodo  padovano  sono  sicuramente  le  Specu- 
lationes  sul  primo  libro  del  De  anima  e  i  Collectanea  sui  primi 
tre  testi  del  secondo  libro,  nello  stesso  cod.  Ambr.  S.  Q.  -f . 
II,  36.  Eccone  il  titolo  (f.  237r):  Speculationes  super  primo 
de  Anima  Aristotelis  collectae  sub  excellentissimo  et  eximio 
philosopho  Marco  Antonio  Zimara  in  Gimnasio  Patavino 
Philosophiam  puhlice  profitente.  M.  D.  XXVII.  Al  238V  è 
ricordato  «Petrus  Pomponatius,  praeceptor  meus»;  e  al 
f.  242r,  «  dictum  Pomponatii  in  Dejensorio  suo,  cap.  5  ». 
Fol.  274r:  Collectanea  in  secundum  lihrum  de  Anima  Aristotelis 
ex  lectionibus  publicis  excell.  et  eximii  philosophi  Domini  Marci 
Antonii  Zimarae  in  Achademia  Patavina,  M.  5528  (sic  !), 
die  ij  Januarii. 

Nella  Biblioteca  Ambrosiana  v'  è  altresì  il  codice  A.  152 
inf.,  ff.  ir-ggv,  che  contiene  Marci  Antonii  Zimarae  in  primum 
Physicorum.  È  un'esposizione  assai  diffusa,  con  numerose 
aggiunte  e  note  marginali,  del  prologo  e  del  commento  aver- 
roistico  a  questo  libro  dell'opera  aristotelica.  La  distinzione 
in  lezioni  dimostra  che  si  tratta  d'un  lavoro  scolastico.  Le 
note  e  le  aggiunte  parrebbero  dimostrare  che  è  autografo. 
Vi  sono  varie  autocitazioni  e  rimandi  ai  Theoremata  e  alle 
Solutiones  contradictionum  in  dictis  Averrois.  Al  f.  18,  s' in- 
contra questa  nota  marginale:  «Pro  hoc  vide  Zimaram,  in 
solutione  ultimae  contradictionis  12.  mefaphysicae,  scilicet 
t.  41,  et  quae  ibi  scripsi  ».  Più  volte  son  ricordati  l'Achillini, 


346        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL  XVI 

il  Bacilieri,  il  Nife,  ma  più  spesso  Simone  Porzio,  del  quale 
lo  Zimara  doveva  possedere  le  lezioni  manoscritte  sulla  Fisica, 
o  il  De  rerum  naturalium  principiis  stampato  più  tardi. 

Nel  cod.  parigino  6450,  già  ricordato,  alla  p.  237,  corretta 
in  236,  si  ha  il  principio  di  una  Quaestio  de  motu  gravium  et 
levium  examinata  a  Marco  AntP  Zimara,  la  quale  resta  inter- 
rotta alla  fine  della  pagina  stessa,  appena  l'autore  ha  accen- 
nato all'ordine  che  avrebbe  seguito  nella  discussione  di  essa. 
Dopo  che  Eugenio  Garin  («  Giorn.  Crit.  d.  Filos.  Ital.  »,  XXXVI, 
1957,  p.  534)  m'ebbe  informato  che  l' intera  Quaestio  è  con- 
tenuta nel  ms.  Magliab.  XI,  67,  ho  potuto  vederla  e  accer- 
tarmi che  essa  porta  la  data  del  12  maggio  1526.  Anche  questo 
argomento  era  stato  trattato  a  Padova  dal  Pomponazzi,  in 
una  quaestio  «  dum  legeret  librum  8.  Phvsicorum,  anno  Do- 
mini 1500  »  (Cod.  della  Bibl.  Naz.  di  NapoH,  Vili.  D.  81, 
f.  I3ir;  e  Bibl.  Laur.,  cod.  Ashburn,  1048,  f.  5ir),  quando 
lo  Zimara  era  suo  alunno.  E  lo  svolgimento  che  questo  dà 
al  tema  risente  di  quello  del  maestro.  Dopo  l'esposizione  e 
la  critica  di  cinque  opinioni  da  lui  rifiutate,  lo  Zimara  si  di- 
chiara per  la  tesi  averroistica  (f.  8v  sgg.)  che  egli  difende 
contro  le  obiezioni  di  Gregorio  da  Rimini  e  i  «  bononienses  » 
(f.  lorv).  Nello  stesso  cod.  parigino  6450,  pp.  301-312,  è  dello 
stesso  Zimara  anche  una  Quaestio  de  quanti tatibus  interminatis, 
notata  da  Richard  Lemay  nei  prolegomena  alla  sua  ottima 
edizione  Petri  Pomponatii  Mant.,  Libri  quinque  de  Fato.... 
((  Thesaurus  Mundi  »,  Lugano,  1957,  p.  xxx. 

Altre  quattro  opere,  finora  a  noi  rimaste  sconosciute,  si 
trovan  ricordate  dal  nostro  nella  Tabula  dilucidationum  in 
dictis  Aristotelis  et  Averrois  della  quale  diremo  tra  poco.  Esse 
sono:  le  Quaestiones  miscellaneae  concernenti  problemi  fisici 
(son  ricordate  nella  Tabula  alle  espressioni  Elementa  conside- 
rant'ur  e  Mathematicae  scientiae)  ;  il  trattato  De  differentiis 
naturae  et  artis,  ricordato  sotto  l'espressione  Alchimiae  artem 
possibilem;  un  trattato  De  intelligentiis,  sotto  l'espressione 
Corpus  codeste  ita  se  habet,  ove  accenna  a  un  errore  del  Pom- 
ponazzi nel  leggere  un  luogo  del  De  caelo,  u  qui  ab  ipsa  tandem 
veritate  coactus  in  senio  mutavit  sententiam  »  ;  e  infine  un 
Liber  de  intellectu,  citato  sotto  l'espressione  Anima  aliquid 
melius  e  diretto  anch'esso,  almeno  in  parte,  contro  il  Pompo- 
nazzi. Una  quinta  opera  ugualmente  sconosciuta,  la  Quaestio 
de  mixtione,  è  ricordata  nelle  Contradictiones  del  Colliget,  II. 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  347 

Di  queste  cinque  opere  non  conosco  alcun  manoscritto. 
Ma  debbo  confessare  d'esser  ben  lontano  dall'aver  condotte 
a  termine  le  ricerche  che  possono  farsi  per  ritrovarle.  E  vero- 
similmente vi  saranno  altri  scritti  a  me  sconosciuti  dei  quali 
l'autore  stesso  non  fa  cenno. 

Ma  dove  si  recò  lo  Zimara  quand'ebbe  lasciato  nel  1528 
la  cattedra  di  Padova  ?  Nessuna  notizia  in  proposito.  Dovunque 
però  si  recasse,  egli  attese  a  preparare  una  nuova  edizione  delle 
Solutiones  contradictionum  che  dev'essere  apparsa  poco  dopo 
il  1530,  poiché  a  quanto  si  legge  «  in  contradictionibus  nuper 
editis  »  o  «  in  concordantiis  nuper  editis  »  si  rimanda  più  volte 
nella  Tabula.  Nella  nuova  edizione,  che  non  saprei  dire  con 
esattezza  quando  e  dove  uscì,  il  numero  delle  contradizioni 
risolte  è  notevolmente  accresciuto  su  quello  dell'edizione  del 
1508.  Inoltre,  sono  state  aggiunte  nuove  contradizioni  notate 
in  alcuni  libri  del  Colliget  di  Averroè. 

Nello  stesso  tempo  egli  attese  a  comporre  la  TabtUa  diluci- 
dationum  e  a  fare  alcune  aggiunte  ai  Theoremata.  La  nuova 
edizione  dei  Theoremata  apparve  a  Venezia  nel  1539,  presso 
Ottaviano  Scoto  Secondo  che  la  dedica  allo  stesso  principe 
di  Salerno,  Ferdinando  Sanseverino,  cui  era  stata  dedicata  dallo 
Zimara  stesso  l'edizione  del  1523,  secondo  il  desiderio  espresso 
dal  figlio  che  lo  Scoto  presenta  al  principe  :  «  Hic  est  Theo- 
philus,  Marci  Antonii  fìlius,  a  quo  ego  haec  scripta  accepi, 
iuvenis  egregio  ingenio  praeditus,  et  in  studiis  philosophiae 
optimi  nominis  et  spei,  qui,  cum  te  non  minus  quam  olim 
pater  suus  in  praesentia  colat  atque  observet,  non  indignus  est 
quin  abs  te  etiam  diligatur  ». 

La  Tabula  dilucidationum  era  uscita  due  anni  prima,  nel 
1537,  anch'essa  a  Venezia,  presso  lo  stesso  editore  Ottaviano 
Scoto,  a  cura  di  Agostino  Ricco  da  Lucca,  il  quale  la  dedi- 
cava a  Ercole  II  d'  Este.  Nella  dedicatoria  all'  Estense,  con 
data  «  Patavii,  nonis  septembris  1537  »,  il  Ricco  parla  di  que- 
st'opera come  molto  attesa  e  lasciata  inedita  dall'autore, 
«  quae  M.  Antonius  Zimara....  scripta  reliquerat  »,  e  dell'autore 
stesso  dice:  «  dum  viveret  ».  Dunque,  questi  era  morto  sicu- 
ramente prima  del  5  settembre  1537.  Da  quanto  tempo  ? 
Comunemente  si  dà  come  anno  della  sua  morte  il  1532.  Ma 
questa  data  sembra  ricavata  unicamente  dal  fatto  che  nel 
1532  Marcantonio  Genua  ne  occupò  la  cattedra  rimasta  va- 
cante  per   alcuni    anni.    L'Arcudi   dichiara   di   niente   sapere 


348        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

sull'anno  e  sul  luogo  della  morte  del  suo  conterraneo.  Le  sue 
fonti  tacevano.  Tuttavia  egli  riferisce  questo  che  non  saprei 
se  epitafìo   o  piuttosto   epigramma   di   Michele    Raguseo: 

Zimara  hoc  in  tumolo  est:  scivit  veteraque  novaque 
Omnia,  quae  scierant  nesciverantque  viri. 

Troppo  e  troppo  poco,  per  noi.  Certo  prima  del  1532  gli  era 
morta  la  moglie  Porzia,  madre  di  quattro  figlioletti,  come  si 
ricava  dal  seguente  Epitaphium  Portiae  iixoris  Marci  Ayitonii 
Zimarae  philosophi  insignis,  composto  dall'umanista  napole- 
tano Pietro  Gravina  [Poematum  libri  ad  Illustrem  Ioannem 
Franciscum  de  Capua  Palentimn  Comitem.  Napoli  1532,  f.  25V, 
e  segnalatomi  dal  caro  amico  Carlo  Dionisotti: 

Liquisti  assidue  lachrymantem  cara  maritum 

Portia,  de  medio  sic  mihi  rapta  sinu. 
Utque  magis  doleam  viridi  decerpta  iuventa, 

quatuor  orbatis,  hei  mihi,  pignoribus. 
Nulla  tuum  Zimaram  faciet  sapientia  fortem, 

nulla  dies  minuet  vulnera,   nulla  manus. 
Saucia  mens  iusto  succumbit  vieta  dolori, 

nec  sine  te  est  animi,  quae  fuit  antea,  quies. 
Una  tamen  miseros  spes  est  abrumpere  fletus 

quando  una  unanimes  nos  teget  urna  duos. 

La  Tabula  pertanto  fu  la  sua  ultima  opera.  Il  Saitta,  accen- 
nando ad  essa  e  ai  Theoremata,  dice  che  «  sono  una  specie  di 
glossari,  minuziosi  e  pedanteschi,  sebbene  assai  utili  ».  Ve- 
ramente i  glossari  io  non  so  immaginarli  altro  che  «  minu- 
ziosi e  pedanteschi»,  perché  siano  veramente  utili;  giacché 
essi  son  come  le  accademie:  si  fanno  o  non  si  fanno.  Ma  poi  i 
Theoremata  non  sono  affatto  un  glossario,  sibbene  «  memo- 
rabilium  propositionum  limitationes  »,  ossia  la  dimostrazione 
del  modo  come  vanno  intese  alcune  famose  tesi  d'Aristotele 
e  d'Averroè,  che  taluni  avevano  stravolto  a  significati  che  non 
hanno.  La  Tabula,  sì,  ha  l'aspetto  d'un  glossario  a  chi  la  guarda 
superficialmente;  ma  in  realtà  essa  non  tende  ad  altro  che  a 
chiarire  i  punti  oscuri  e  controversi  degli  scritti  d'Aristotele 
e  d'Averroè  concernenti  la  filosofia  naturale  e  la  Metafisica. 
Cosi  ne  restano  esclusi  i  trattati  che  compongono  l'Organon 
e  le  opere  morali.  Sebbene  l'autore  segua  l'ordine  alfabetico 
dei  glossari,  egli  si  sofferma  e  batte  sopra  tutto  su  quelle  espres- 
sioni e  concetti  che  erano  oggetto  di  accese  dispute  fra  gli 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  349 

averroisti  e  i  loro  avversari  o  tra  averroisti  e  averroisti.  Indi 
le  frequenti  digressioni  ora  «  centra  Thomam  »,  ora  «  contra 
Egidium  »,   «contra  Scotum  »,   ecc.,  ora  contro  l'Achillini  e 
«  bononienses  »,  ora  contro  il  Pomponazzi,  ora  contro  Giovanni 
di  Baconthorpe  e  Gregorio  da  Rimini,  più  averroisti  di  Averroè. 

Più  che  come  indice  e  glossario,  la  Tabula  è  importante  per 
queste  digressioni  che  talora  formano  dei  piccoli  e  assai 
diffusi  trattatelli  a  sé  e  servono  ottimamente  a  chiarire 
molti  punti  oscuri  nella  storia  dell'aristotelismo  e  dell'aver- 
roismo, e  a  determinare  l'esatta  posizione  sia  dello  Zimara 
stesso  sia  di  altri  averroisti  nelle  controversie  filosofiche  alla 
fine  del  medio  evo  e  nel  Rinascimento. 

Abbiamo  già  detto  che  egli  vuol  essere  il  fedelissimo  inter- 
prete della  dottrina  di  Averroè  contro  ogni  sorta  di  devia- 
zionismo. Deviazionisti  sono  per  lui  anzi  tutto  Paolo  Veneto, 
poi  i  bolognesi  Alessandro  Achillini  e  Tiberio  Bacilieri,  da  lui 
conosciuti  di  persona  a  Padova,  e  il  veneziano  Geronimo 
Taiapietra  già  suo  condiscepolo  a  Padova,  i  quali  tutti  pre- 
tendevano che  l'anima  intellettiva  «  ex  mente  Averrois  » 
fosse  «  forma  formaliter  perficiens  et  dans  esse  homini  ».  Questi 
tre  ultimi  poi  aggravavano  il  loro  errore,  asserendo  che  «  ex 
mente  Averrois  »  l' intelletto  agente  è  Dio.  Su  questa  devia- 
zione dal  vero  pensiero  d' Averroè,  lo  Zimara  aveva  cominciato 
a  battere  fin  dagli  anni  del  suo  primo  insegnamento  a  Padova, 
e  segnatamente  nelle  Solutiones  contradictiomim  del  1508,  e 
specialmente  in  quella  assai  diffusa  sul  t.  e.  38  del  XII  della 
Metafisica  (la  decimaquarta  dell'edizione  accresciuta),  contro 
quei  «  defensores  Averrois  »  che,  incapaci  di  ribattere  altri- 
menti gli  argomenti  di  S.  Tommaso  contro  la  tesi  dell'unità 
dell'  intelletto  umano,  «  devenerunt  ad  hoc,  ut  dicerent  animam 
intellectivam  esse  veram  formam  dantem  verum  esse  sub- 
stantiale  homini  ad  intentionem  Averrois  »  (cfr.  il  mio  5/- 
gieri....  nel  pens.  ecc.,  pp.  91-92).  Lo  Zimara  si  ribella 
a  questo  tentativo  dei  sigieriani:  «  Nos  autem  volumus, 
veritatis  amore  adstricti  et  christianae  religionis  vinculo 
coacti,  ostendere  opinionem  istam  minime  fuisse  de  intentione 
Averrois,  ut,  destructo  fundamento  super  quo  isti  innituntur, 
destruatur  positio  unitatis  intellectus.  Licet  enim  veritas  ista 
sit,  animam  intellectivam  esse  formam  substantialem  hominis, 
dico  tamen  Averroem  istam  veritatem  non  vidisse  »,  come 
non  l'aveva  vista  neppure  Aristotele  (cfr.  Tabula,   ad  v.   In- 


350        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

telleciiis  authoritate  Aierrois  in  disp.  prima....).  Tutto  ciò 
è  nello  stile  del  più  puro  averroismo,  per  chi  se  n'  intende. 

Ma,  insomma.  Marcantonio  Zimara  ritiene  vera  o  no  la 
dottrina  dell'unità  dell'  intelletto  ?  Evidentemente,  egli,  come 
credente,  la  respinge  e  la  dichiara  falsa.  Ma  questo  è  fuori  di 
discussione.  V  è  però  un  altro  punto  sul  quale  giova  conoscere 
il  suo  pensiero,  in  quanto  egli,  come  il  Pomponazzi,  il  Vernia, 
il  Trapolin,  l'Achillini  e  gli  altri  suoi  colleghi  e  maestri,  era 
chiamato  a  leggere  ed  esporre  le  opere  naturali  di  Aristotele. 
La  dottrina  dell'unità  dell'  intelletto  umano,  secondo  il  pen- 
siero di  Aristotele,  è  vera  e  necessaria,  come  volevano  Averroè 
e  gli  averroisti,  oppure  è  falsa  e  non  rispondente  affatto  al 
pensiero  dello  Stagirita,  come,  al  contrario,  pretendevano 
Tommaso,  Duns  Scoto  e  altri  ?  La  questione  va  posta,  ed  ef- 
fettivamente era  posta,  in  questi  termini.  Il  non  averlo  ca- 
pito ha  dato  luogo  a  gravi  incomprensioni  da  parte  degli 
storici  della  filosofia,  che  farneticano  di  una  inconcepibile 
«  dottrina  »   della   doppia   verità. 

Orbene,  il  Renan,  Averroès  et  V Averro'isme,  3^  ed.,  Parigi, 
1866,  p.  375,  nella  pagina  che  dedica  allo  Zimara,  scriveva: 
«  L'unite  de  l' intellect  est  adoptée  dans  le  sens  de  l'unite 
des  principes  communs  de  l'esprit,  mais  rejetée  en  ce  sens 
qui  il  n'y  aurait  qu'un  seul  principe  substantiel  de  la  raison 
humaine  ».  E  cita  a  conferma  di  questa  asserzione  le  So- 
lutiones  contradictionum  super  III  de  anima,  e  precisamente 
la  XVL  che  egli  leggeva  nell'edizione  degli  Opera  omnia  di 
Aristotele  col  commento  d'Averroè,  t.  XI,  Venezia,  1560, 
ff.  177V-178V.  Neanche  a  farlo  apposta,  lo  Zimara  in  quel 
luogo  dice  tutto  il  contrario.  Ecco  infatti  quel  che  ivi  si  legge: 

Decimasexta  contradictio  est  in  commento  27.  Habet  Aver- 
roès quod  scientia  in  potentia  generatur  a  scientia  in  actu.  Sed 
huius  oppositum  habet  3.  de  aiiima,  comm.  5,  in  sohitione  ter- 
tiae  quaestionis,  ubi  habet  hoc  prò  inconvenienti,  quia  tunc 
scientia  quae  est  in  magistro  esset  generans  scientiam  quae  est 
in  discipulo,  sicut  ignis  generat  abum  ignem  sibi  similem. 

Debes  scire  quod  Averroes  hanc  consequentiam  et  rationem 
accepit  a  Themistio,  super  3.  de  anima,  cap.  32  et  33  [secondo  la 
traduzione  di  Ermolao  Barbaro].  Themistius  autem  videtur  de- 
duxisse  iUud  ex  sententia  Platonis;  inquit  enim  cap.  32:  «quod 
si  cui  extrema  opinio  incredenda  videatur,  omnes  homines,  qui  ex 
actu  et  potentia  conditi  dicimur,  ad  unicum  intellectum  agentem 
referri,  unde  consistimus  sumusque  homines,  nihil  est  quamobrem 
aversari  absterrerive  debeat.  Unde  enim  communes  illae  animi  con- 


MARCANTONIO    E    TF.OFII.O    ZIMARA  35I 

ceptiones  praenotionesque  communes  omnibus  haberentur  ?  Unde 
ingenita  illa  impressaque  omnium  mentibus  primorum  noticia  con- 
stitisset,  natura  duce,  nulla  ratione,  nulla  doctrina  ?  Unde  postre- 
mo intelligere  mutuo  et  intelligi  vicissim  possemus,  nisi  unus 
singularisque  intellectus  fuisset,  quem  communem  omnes  homines 
haberemus?  Quocirca  verissime  illud  apud  Platonem  legitur:  «  Nisi, 
inquit,  hominibus  coinmunia  essent  multa,  sed  proprium  quid 
aut  impromiscuum  contineretur  in  singulis,  non  esset  admodum 
facile  ostendere  et  significare  alteri  voluntatem  suam  ».  Haec  ille. 
Nos  autem  alias  declaravimus  Platonis  authoritatem  non  pro- 
cedere de  intellectus  unitate,  cum  totum  studium  Academicorum 
sit  in  plurificatione  et  immortalitate  animarum  humanarum; 
sed  illud  dictum  Platonis  erat  propter  ideas  ponendas;  nam  nisi 
esset  una  communis  idea  in  qua  homines  convenirent,  non  facile 
alter  alteri  suos  conceptus  posset  exprimere.  Ista  autem  ratio 
Themistii  et  Averrois,  ut  alias  deduxi,  multas  habet  instantias; 
sed  quidquid  sit,  prò  nunc  dico  secundum  ipsum  scientiam  non 
posse  generari  a  scientia  sicut  ignis  generatur  ab  igne.  Hoc  autem 
sequitur  secundum  ponentes  pluralitatem  intellectus,  ut  ipse 
opinatur.  Ouod  quomodo  declaratur,  non  est  praesentis  ne- 
gotii.  Si  qua  tamen  est  declaratio,  vide  quae  dicit  Themistius; 
et  isto  modo  negavit  ipse  generari  scientiam  a  scientia.  Tamen 
quod  scientia  absolute  alia  via  non  possit  generari  quantum  ad 
individuum,  nullibi  ipse  dixit  hoc;  immo  praesens  commentum  est 
contra  illos  qui  tenent  nostrum  scire  esse  reminisci  secundum 
Averroem.  Sed  videant,  quaeso,  commentum  secundum  primi 
Posteriorum,  et  commentum  48  et  49  primi  Metaphysicae,  et  7. 
Metaphysicae,  commento  58,  et  in  fine  secundi  Posteriorum,  et 
in  commento  super  libro  De  sensu  et  sensato  in  columna  tertia, 
et  3.  De  anima,  commento  5  et  20,  et  6.  Ethicoruyn,  capitulo  4,  et 
tunc  videbunt  utrum  ista  fuerit  opinio  Averrois  nec  ne.  Ista  volui- 
mus  notare,  ne  verbositas  aliquorum  mentem  Averrois  perverteret. 

Come  Platone  dall'unità  dei  principi  del  sapere  era  risalito 
alla  esistenza  dell'  idea  una  ed  eterna  per  ogni  specie  di  esseri, 
così  Temistio  e  Averroè  ne  avevano  dedotto  l'unità  dell'  in- 
telletto per  tutti  gli  uomini  ;  che  senza  dubbio  è  il  motivo  pla- 
tonico dell'averroismo:  tanto  è  lontano  lo  Zimara  dal  ripu- 
diare la  tesi  averroistica  dal  punto  di  vista  filosofico.  Tuttavia 
l'affermazione  del  Renan  è  stata  accolta  come  oro  colato  dal 
Moog  nell'edizione  da  lui  riveduta  dello  Ueberweg,  Die  Philos. 
der  Neuzeit  bis  zum  Ende  des  XVIII.  Jahrh.,  Berlin,  1924, 
p.  28,  e  dal  Saitta,  Il  pens.  ital.  nell'Uman.  e  nel  Rinasc, 
voi.  II,  Bologna,  1950,  pp.  379-80.  Dal  Moog  copia  l'Abba- 
gnano, nella  sua  Storia  della  filosofia^-.  Segno  che  la  «verbo- 


12  Torino,   Utet,   IT,  p.    70.  ^'edi  anche  sopra  pp.   277-278. 


352        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

sitas  »  cui  intendeva  opporsi  lo  Zimara  non  è  ancora  passata 
di  moda. 

Certo,  questi  sapeva  bene  qual  fosse  il  debole  della  tesi 
averroistica,  anche  dal  punto  di  vista  strettamente  aristote- 
lico e  filosofico  ;  e  gli  «  inconvenientia  «  nei  quali  essa  urtava, 
erano  stati  fatti  rilevare,  a  suo  parere,  da  San  Tommaso 
meglio  che  da  ogni  altro.  Anzi  nella  Tabula,  a  proposito  del 
detto  di  Averroè  «  Unum  in  numero  non  invenitur  in  plu- 
ribus  »  {Metaphys.,  I,  comm.  31),  contro  l'esistenza  delle 
idee* platoniche,  egli  osserva:  «  Cogita,  quia  videtur  procedere 
etiam  contra  unitatem  intellectus  ».  Che  questo  sarebbe  il 
caso  della  interpretazione  sigieriana  dell'Achillini,  secondo 
la  quale  l' intelletto,  uno  in  sé,  sarebbe  poi  forma  che  dà 
l'essere  ai  singoli.  Perciò,  un  po'  piti  giìi,  lo  stesso  Zimara,  a 
proposito  della  tesi  aristotelico-averroistica  :  «  Unum  apud 
multa  simul  non  erit  »  {Met.,  VII,  t.  e.  57),  osserva  del  pari: 
«  Unde  elicitur  ratio  ardua  contra  unitatem  intellectus  per^ 
fidi  [era  l'aggettivo  del  quale  gli  averroisti  cristiani  grati- 
ficavano il  Commentatore  di  Cordova,  e  significa  «  infedele  «] 
Averrois.  Aristoteles  enim  arguit  contra  ydeas  Platonis,  et 
est  valde  difficile  evadere  ab  huiusmodi  ratione;  et  qui  tenent 
in  via  eius,  animam  intellectivam  esse  formam  dantem  esse 
formaliter  homini,  nullo  pacto  habent  aliquam  apparentem 
responsionem   ad   hoc,   sicut   patet   intelligenti  ». 

Allo  Zimara,  in  conclusione,  non  importa  niente  di  sapere 
se  Aristotele  e  Averroè,  il  quale  altro  non  è  «  nisi  Aristoteles 
transpositus  »  {Tabula  alla  v.  Speculativarum  scientiarum 
Theologia),  s'accordano  o  no  con  la  fede.  Questo  può  bene 
importare  a  Tommaso  che  persegue  un  intento  apologetico 
concordistico.  Ma  non  a  lui,  che  è  e  vuol  rimanere  puro  inter- 
prete del  pensiero  aristotelico. 

Così  anche  per  quello  che  riguarda  l' intelletto  agente  e 
r  intelletto  possibile,  secondo  Averroè,  egli  si  rifa  a  Temistio: 
e  Teneo  cum  Themistio  intellectum  possibilem  et  agentem  esse 
unum  subiecto  et  ratione  sola  distingui....  »  {Tab.,  alla  v. 
Intellectus  utriusque  pontifìcium) .  L'uno  e  l'altro  sono  due 
aspetti  di  una  stessa  intelHgenza  separata,  l' intelhgenza  della 
specie  umana,  che  s'unisce  ai  singoli  non  come  forma  inerente 
o  informante  e  «  dans  esse»,  ma  come  forma  assistente;  nel 
che  lo  Zimara  era  d'accordo  col  Genua  (vedi  sotto,  pp.  389-93), 
contro    l'Achillini    e    i    sigieriani,   i   quali   avevan   finito    col- 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  353 

r  identificare  l' intelletto  agente  con  Dio,  che  nella  «  copu- 
latio  »  diventa  forma  delle  menti  inferiori  ad  esso  e  (v.  sopra, 
pp.  210  sgg.). 

C'è  invece  un  altro  punto  sul  quale  lo  Zimara  è  d'accordo 
coi  sigieriani  contro  una  specie  d'averroismo  che,  per  inten- 
derci, chiamerò  teologico,  del  quale  mi  occuperò  in  uno  studio 
a  parte.  L'argomento  cui  alludo  concerne  la  dipendenza  degli 
esseri  che  formano  la  compagine  del  mondo  dal  primo  Motore 
immobile. 

Secondo  alcuni  teologi  della  prima  metà  del  secolo  XIV, 
non  solo  l' idea  di  creazione  è  esclusivamente  cristiana,  ma 
altresì  quella  della  dipendenza  dei  corpi  celesti  e  delle  intelH- 
genze  motrici  da  Dio  come  da  causa  efficiente,  che,  secondo 
taluni  averroisti,  li  avrebbe  prodotti,  non  per  un  atto  di  li- 
bera creazione,  ma  per  necessità  di  natura  o,  come  si  diceva, 
«  per  simplicem  emanationem  »  e  «  per  naturalem  resultan- 
tiam  »  o  «  sequelam  ».  Com'  è  noto,  S.  Tommaso  riconosceva 
che  la  creazione  nel  tempo  non  può  dimostrarsi  con  la  ragione  ; 
ma  con  la  ragione  può  ben  dimostrarsi  che  la  produzione  del 
mondo  da  parte  di  Dio,  anche  posta  l'eternità  del  mondo  stesso, 
è  pur  sempre  il  risultato  di  un  atto  di  libera  volontà  crea- 
trice. Gli  averroisti  della  corrente  sigieriana  negavano  la  li- 
bera creazione,  ma  ammettevano  la  causalità  efficiente  di 
Dio,  sia  pur  naturale  e  necessaria.  I  teologi  di  cui  parlo  si 
spingevano  ben  più  in  là  nella  loro  interpretazione  averroi- 
stica  del  pensiero  di  Aristotele.  Essi  sono  i  carmelitani  Ge- 
rardo da  Bologna  e  Giovanni  di  Baconthorpe,  l'agostiniano 
Gregorio  da  Rimini  e  il  teologo  inglese  Tommaso  di  Wilton 
{cfr.  Enciclopedia  Filosofica,  IV,  col.  1264). 

Gerardo  da  Bologna,  Giovanni  di  Baconthorpe  e  Gregorio 
da  Rimini  negavano  puramente  e  semphcemente,  «  ex  in- 
tentione  Philosophi  et  Commentatoris  »,  che  le  intelHgenze 
motrici  e  i  corpi  celesti  fossero  prodotti  da  Dio  come  da  causa 
efficiente.  Invece  Tommaso  di  Wilton  attenuava  un  poco 
questa  tesi.  Per  lui  le  intelligenze  separate  sono  coeterne  a 
Dio,  e  senza  causa  efficiente;  non  così  tuttavia  i  corpi  celesti, 
che,  pur  essendo  eterni,  «  sunt  a  deo  efficienter,  sicut  a  causa 
totali  vel  partiali  »,  supponendo  che  Dio  cooperi  alla  loro 
produzione   da  parte   delle   intelligenze   motrici. 

Lo  Zimara  non  accenna  a  Gerardo  e  a  Tommaso  di  Wilton, 
•dei  quali  pur  conosceva  il  pensiero  per  quel  che  leggeva  nel- 

23 


354        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

l'opera  del  Baconthorpe,  dei  cui  Quodliheta  aveva  curato 
l'edizione  per  gli  eredi  di  Ottaviano  Scoto  (Venezia,  27  set- 
tembre 1527);  ma  ricorda  invece  con  insistenza  neW^.  Tabula 
l'errore  del  Baconthorpe  stesso  e  di  Gregorio  da  Rimini,  «  qui 
tenent  ex  mente  Aristotelis  et  Averrois  caelum  et  substantias 
aeternas  non  habere  causam  aeternam  effectricem  »  {Tah.,  in 
princ).  E  così  un'altra  dozzina  di  volte  i  nomi  del  carmelitano 
inglese  e  dell'agostiniano  italiano  sono  associati  come  quelli 
dei  piti  noti  sostenitori  di  questa  interpretazione  del  pen- 
siero aristotelico-averroistico,  che  egli  combatte  con  riso- 
lutezza ed  energia,  pur  sapendo  come  «  ista  quaestio  in  via 
Peripateticorum  ardua  sit  et  ambigua:  Eudemus  enim  et 
Alexander  (ut  recitat  Simplicius  in  principio  Physicae  auscul- 
tati.onis)  tenuerunt  Deum,  secundum  mentem  Aristotelis, 
non  esse  causam  efficientem,  sed  finalem  tantum  et  formalem 
aeternorum.  Ammonius  tamen  et  Simplicius  et  Io.  Gram- 
maticus  oppositum  tenuerunt  et  multi  sapientes.  Veruntamen 
quicquid  sit  de  Aristotele,  unum  scio  indubitanter,  Averroem 
tenuisse  de  mente  Philosophi,  aeterna  esse  causata  in  triplici 
genere   causae  »    [Ih.).  ,-:-..,^^ 

Dopo  il  Baconthorpe  e  Gregorio  da  Rimini,  l'avversario 
pili  spesso  preso  a  bersaglio  da  Marcantonio  è  il  Pomponazzi, 
del  quale  ricorda  il  De  immortalitate ,  anzi  il  libello  De  niQrta- 
litate  animae,  l'Apologia  e  il  Defensorium,  ma  mostra  di  co- 
noscerne anche  le  lezioni  inedite.  Egli  combatte  la  tesi  pom- 
ponaziana  della  «  mortalità  »,  alla  quale  oppone  quella  aver- 
roistica;  ma  l'immortalità  dell'intelletto  da  lui  difesa  non  è 
quella,  beninteso,  della  personalità  individuale  dei  tomisti, 
sì  quella  dell'  intelletto  unico  ed  eterno  della  specie  umana, 
sebbene  egli  ritenga  questa  dottrina  averroistica,  come  cre- 
dente, una  fatuità,  al  pari  del  Perette  mantovano. 

Vi  sono  altri  punti  della  sua  interpretazione  dell'averroismo 
sui  quali  converrebbe  fermarci;  ma  quelli  che  ho  toccato,  mi 
pare  che  bastino  a  lumeggiare  a  sufficienza  la  sua  personalità 
filosofica. 

Alla  fine  dell'edizione  delle  Solutiones  contradictionum 
del  1508  si  legge: 

Et  sic  est  finis  omnium  solutionum  ad  contradictiones  Averrois 
super  tota  philosophia  naturali  et  super  tota  metaphysica,  ad 
laudem  oninipotentis  dei  et  gloriosissime  virginis;  in  quibus  si 
quid  dictum  est,  quod  a  veritate  fidei  nostre  dissonare  videtur. 


MARCA NTOX IO    E    TEOFILO    ZIMARA  ^55 

illud  ex  philosophoruin  mente  et  Averrois,  cuius  nos  interpretes 
fuimiis,  dictum  sit.  Ego  autem  in  omnibus  romane  ecclesie  me 
submitto  prò  veritate  fidei  nostre,  prò  qua  bis  patiar  mori,  prò 
qua  bis  moriar  ìibens. 


II.  -  Teofilo  Zimara. 

A  Marcantonio  Zimara  sopravvissero  almeno  due  figli: 
Nicolò,  che  doveva  essere  il  primogenito  e  portava  il  nome  del 
nonno  paterno,  morto  prima  del  6  agosto  1501,  e  Teofilo,  che 
il  Papadia  13  dice  nato  nel  1515,  «come  da  hbri  battesimaU». 
Nicolò  fu  giurista,  come  il  suo  concittadino  Pietro  Vernaleone, 
amico  di  suo  padre,  ed  anzi  avrebbe  professato  leggi  a  Roma, 
ove,  morendo  nel  1569,  avrebbe  fatto  testamento  a  favore 
dell'università  di  Galatina  (Arcudi,  p.  186).  Teofilo  invece  si 
addottorò  «  in  artibus  et  medicina  ».  Dove,  non  saprei  dire. 
Nel  1539,  quando  Ottaviano  Scoto  Secondo  lo  segnalava  al  prin- 
cipe di  Salerno,  come  giovane  fornito  d'ingegno,  «in  studiis  phi- 
losophiae  optimi  nominis  et  spei»  (v.  sopra,  p.  347),  non  aveva 
più  di  diciannove  anni  e  doveva  essere  ancora  studente.  Più  tardi 
lo  troviamo  medico  a  Lecce,  dove  prese  moglie  e  finì  per  sta- 
bilirsi, e  dove,  prima  del  1565,  gli  dirigeva  le  sue  lettere  l'amico 
umanista  Q.  Mario  Corrado  di  Oria  di  Brindisi,  che  umanità 
aveva  insegnato  a  Napoli  e  a  Salerno '4.  Il  Corrado  teneva  in 
gran  conto  la  scienza  medica  del  suo  conterraneo  e  s'era  gio- 
vato dei  suggerimenti  di  lui.  Neil'  Ep.  148,  gli  ricorda  il  padre 
'(  qui  fuit  lumen  Italiae  »  per  la  sua  dottrina  e  onestà. 

Ma  la  pratica  della  medicina  non  gli  tolse  il  gusto  delle  let- 
tere e  in  particolare  della  filosofia.  Non  so  se  egli  conosceva 
l'aspro  giudizio  del  Bembo  su  suo  padre.  Ma  non  è  improba- 
bile, poiché  le  due  lettere  al  Rannusio  erano  di  pubblica  ra- 
gione fin  dal  1550.  E  se  egli  conobbe  quel  giudizio  non  bene- 
volo, dovette  trarne  incitamento  a  far  sì  che  esso  non  rica- 
desse anche  su  di  lui.  Nel  che  egli  riuscì  così  bene,  che  l' Arcudi 
potè  dire  di  lui  che  «divenne  filosofo  platonico,  siccome  il  padre 
era  stato  aristotelico  ed  averroista  ».  Questo  amore  per  le 
lettere  e  per  la  filosofia  platonica  spiega  la  lunga  amicizia  che 
lo  legava  al  cardinale  Guglielmo  Sirleto,  cui  dedicò,  il  1°  marzo 


13  Op.  cit.,  p.  60. 

14  Cfr.  Q.  M.  Corradi,   Epistolaruììi  libri    Vili,  Venezia   1565,  pp. 
24,   148,   155,   156. 


^^6        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

1584,  da  Lecce,  il  suo  grande  commento  al  De  anima  di  Ari- 
stotele. 

Oltre  a  quest'opera,  della  quale  vedremo  ora  l' indole, 
l'Arcudi  fa  menzione  anche  di  un'opera  di  Teoiilo  sulla  Meta- 
fisica, che  l'autore  aveva  ordinato  per  la  stampa;  «ma  pre- 
venuto da  matura  morte  settuagenario  in  Lecce  nel  1589,  ri- 
mase in  mano  de'  figli  che,  degenerando  dalla  virtù  del  padre 
e  de  l'avo,  fecero  più  stima  delle  ricchezze  che  de'  scritti  ere- 
ditati, onde  volentieri  diedero  copia  a  chi  la  volle;  ed  andò 
qualche  tempo  manoscritta  per  le  mani  de'  dotti»  (p.   185). 

Altre  notizie  su  di  lui  non  sono  riuscito  a  pescare.  Sì  che  il 
nome  di  Teofilo  resta  legato,  almeno  per  ora,  se  qualche  for- 
tunato ritrovamento  non  viene  a  gettar  nuova  luce  su  di  lui, 
ai  diffusi  commentari  In  tres  Aristotelis  libros  de  Anima  (Ve- 
netiis,  apud  Juntas.  MDLXXXIIII),  di  ben  404  fogli,  di  quat- 
tro fitte  colonne  ciascuno,  e  preceduti  da  un  proemio  di  XV 
fogli,  nel  quale  egli  espone  l' intento  dell'opera  e  un  sommario 
della   dottrina   dei   neoplatonici   sull'anima. 

Se  ora  vogliamo  dare  uno  sguardo  all'  indole  di  questi  com- 
mentari, trattandosi  del  figlio  di  Marcantonio  Zimara,  la 
prima  cosa  che  vien  fatto  di  chiederci  è  di  conoscere  qual  è 
la  posizione  di  lui  di  fronte  all'averroismo.  Ora  la  dottrina 
averroistica  intorno  all'  intelletto  umano  è  compendiata  quasi 
per  intero  nella  grande  digressione  inserita  nel  commento  5 
al  terzo  libro  del  De  anima.  Ebbene,  se  apriamo  l'opera  di 
Teofilo  a  questo  punto  (fi.  293 vb  G-297vb  F),  vi  troviamo 
un'esposizione  fedelissima  del  pensiero  del  commentatore 
arabo.  Ma  nei  ff.  297vb  G-298vb  F,  segue  una  decisa  «  impro- 
batio  Averrois  »,  la  quale  si  conclude  con  queste  parole  :  «  quae 
de  copulatione  intellectorum  in  actu  nobiscum,  quae  ve  de 
unitate  ac  multitudine,  aeternitate  et  mortalitate  intellectus 
speculativi,  atque  de  unitate  intellectus  materialis  atque 
agentis  scripsit,  falsa  esse  credimus,  et  neque  Platonis  neque 
Aristotelis  dogmati  consentanea;  atque  totum  impium  esse 
Themistii  atque  Averrois  commentum....  ».  Continuando  poi 
la  sua  critica  degli  argomenti  in  favore  della  tesi  averroistica, 
ribadisce  :  «  Commentum  huiusmodi  Averrois  aeque  impium 
atque  ab  omni  philosophia  alienum  putandum  est  ».  E  ancora 
(f.  299ra)  :  «  Quamobrem  portentosa  haec  de  unitate  intellectus 
fiumani  opinio  ac  prorsus  impia  Themistn  atque  Averrois 
explodenda  est  atque  a  tota  philosophia  arcenda,  idque  nulli 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  357 

non  persiiasum  est,  quem  et  religio  moveat  et  leges  rectaque 
vivendi   ratio  ». 

Un'altra  ampia  esposizione  del  pensiero  d'Averroè  sul  fa- 
moso testo  36  dello  stesso  libro,  e  che  concerne  la  «  copulatio  » 
dell'  intelletto  possibile  coli'  intelletto  agente,  s' incontra  nel- 
l'opera di  Teofilo  ai  ff.  362ra-365va.  E  subito  dopo  tien  dietro 
una  minuziosa  critica  della  teoria  averroistica  (ff.  365va- 
368ra). 

Su  questo  punto  dunque  nessun  dubbio  è  possibile:  la  po- 
sizione di  Teofilo  nei  riguardi  dell'averroismo  è  diametralmente 
opposta  a  quella  di  suo  padre. 

Ma  v'  è  un  altro  punto  intorno  al  quale  la  differenza  tra 
padre  e  figlio  non  è  meno  evidente.  Come  abbiamo  visto, 
Marcantonio  Zimara  non  solo  scrisse  una  Quaestio  de  inimor- 
talitate  animae  cantra  P.  Pomponatium,  ma  spesso  ritorna  su 
questo  argomento  nella  Tabula  e  sullo  stesso  soggetto  tenne 
perfino  una  disputa  a  Venezia  «  coram  Duce  et  Senatoribus  », 
se  dobbiamo  prestar  fede  al  codice  Ambrosiano  che  glie  l'at- 
tribuisce. 

Teofilo  invece  è  d'avviso,  che  invano  s'adoprino  tutti  coloro 
che  pretendono  di  ricavare  dal  De  anima  d'Aristotele  una  di- 
mostrazione rigorosa  dell'immortalità  dell'anima  umana: 
«  quo  patet  quam  longe  absint  a  vero  sensu  Aristotelis  inter- 
pretes  eius  loca  citantes  ex  libro  De  anima  ad  ostendendum 
animam  esse  immortalem,  cum  nihil  nisi  dubitando  ac  sine 
demonstratione  in  foto  ilio  commentario  dixerit,  quasi  id 
ad  primam  philosophiam  pertineret....  »  (fol.  23va  G.).  Il  che 
egli  estende,  con  non  poca  nostra  meraviglia,  allo  stesso  Pla- 
tone (f.  24vb  F)  : 

Ouibus  patet,  quam  inanis  eorum  sit  contentio,  qui  opinantur 
Aristotelem  quaestionem  de  animae  immortahtate  in  hoc  libro 
ex  professo  diffinivisse.  Cumque  id  naturae  nostrae  viribus  inac- 
cessibile indicibileque  sit,  non  aliter  quam  divino  mentis  instinctu 
afflatuque  per  fìdem  asserendum  et  absque  ulla  haesitatione  verum 
esse  dedendum.  Sane  quaecumque  ad  id  probandum  inventa 
sunt,  vim  demonstrationis  non  habent,  sed  probabilia  tantum 
sunt,  ut  suis  in  locis  ostendemus.  Eoque  divus  Plato  animae  na- 
turam  iunctam  corpori,  qualis  sit  nosci  haudquaquam  posse 
ait,  Glaucoque  marino  eam  comparat  [Rep.,X.  6ii  ci].  Non  aliter 
Galenus,  Platonem  imitatus,  ingenue  fatetur  nihil  se  certi  ac 
demonstrativa  ratione  posse  de  animae  essentia  asserere.  Quum 
potius,  si  evidentia  spectes,  unde  ducenda  est  demonstratio, 
operationesque    manifestas    animae,    cum    nulla    rationalis    sine 


358         l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

phantasia  sit,  suspicaberis-  potius  niaterialem  esse  eius  essentiam. 
Quod  Aristoteles  hic  innuere  videtur,  cum  ait,  videri  omnes 
animae  affectus  cum  corpore  esse.  Atque  hoc  est  in  causa,  cur 
Plato  eam  corpori  iunctam  Glauco  marino  similem  dicat,  et  ex 
liis  quae  affectat  potius  quam  ex  actionibus  huiusmodi  mani- 
festis,  existimandam  putet,  nimirum  ex  amore  divinorum  atque 
aeternitatis. 

E  di  nuovo  nel  commento  al  t.  36  del  terzo  libro  (f.  36irb  D)  : 

Diciinus  nulla  evidenti  ratione  demonstrari  posse  intellectum 
separata  intelligere,  sed  sine  ulla  denionstratione  eos  tantum  af- 
firmare  id  posse  qui  experti  sunt.  Quamobrem  etsi  multa  proba- 
biliter  philosophi  super  ea  re  scripsere,  multaque  nobis  explicata 
sunt  ad  hoc  spectantia  ex  Academicis  Peripateticisque  tradi- 
tionibus,  nil  tamen  de  immortalitate  animae  nisi  ex  certa  fide  ac 
religione    divinoque    instinctu    asserimus. 

V  è  poi  un'altra  ragione,  perché  tutti  gli  sforzi  per  di- 
mostrare r  immortalità  dell'anima  umana  non  possono  rag- 
giungere una  vera  certezza:  l'anima  è  venuta  all'esistenza  per 
un  atto  del  volere  divino,  e  perciò  anche  la  sua  sopravvivenza 
al  corpo  non  può  essere  che  un  dono  divino  (f .  I04ra)  : 

Nos  autem  in  quaestione  hac  nulla  ratione  certa  explicabili, 
divino  fidei  religionisque  nostrae  instinctu  afflati,  dicimus  animam 
non  aliter  quam  universum  rerum  ordinem  ex  nihilo  creatum  ab 
opifice  summo,  nec  tam  suopte  ingenio  quam  voluntate  divina 
indissolubilem  ;  orta  enim  omnia  suapte  natura  occidunt,  quid- 
quid  aliter  philosophi  sentiant,  non  tam  certa  demonstratione 
subnixi  quam  probabilibus  persuasi  rationibus.  Nam  et  divus 
Plato  ita  existimasse  videtur,  ubi  ait  coelestes  deos  natura  quidem 
sua  genitos  esse,  opificis  autem  decreto  aeternos  (cfr.  Timeo, 
41-A). 

Non  si  può  dire  che  sul  tema  dell'  immortalità  vi  sia,  fra  il 
padre  e  il  figlio,  diametrale  opposizione;  v' è  soltanto  una 
profonda  e  insanabile  divergenza.  Per  Marcantonio,  l' intelletto 
umano  è  immortale  perché  esso  è  una  sostanza  separata, 
unica  per  tutti  gli  uomini,  ai  quali  s'unisce  per  via  delle  im- 
magini sensibili  di  cui  abbisogna,  ma  in  sé  non  ha  avuto  co- 
minciamento  nel  tempo  né  avrà  mai  fine,  al  pari  delle  altre 
intelligenze  separate.  Ora  la  tesi  dell'unità  e  separazione 
dell'  intelletto  umano  è,  per  Teofilo,  la  cosa  più  assurda  che 
sia  mai  stata  escogitata  in  filosofia,  anche  dal  punto  di  vista 
strettamente    aristotelico.    GÌ'  intelletti    umani    sono    molti- 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  359 

plicati  col  numero  dei  singoli  uomini.  E  appunto  per  le  sin- 
gole anime  umane  si  pone  il  problema  dell'  immortalità, 
per  lui,  come  per  il  Pomponazzi  e  per  il  credente;  sopra  tutto 
per  questo.  Ebbene,  questa  immortalità  personale  di  ogni  e 
singola  anima  umana  la  filosofia  non  ce  la  garantisce  con  di- 
mostrazioni ineccepibili;  tutt'al  più  ne  acuisce  in  noi  il  desi- 
derio con  argomenti  probabili,  ma  apodittici  no.  E  questo 
va  detto  non  soltanto  della  filosofia  aristotelica  (e  già  Duns 
Scoto,  Biagio  Pelacani  da  Parma,  il  domenicano  Tommaso 
de  Vio  e  il  Peretto  Mantovano  in  modo  più  risoluto  d'ogni 
altro   l'avevano   detto),    ma   altresì   della   fiJosofia   platonica- 

Quest'ultima  affermazione  è  quella  che  più  ci  coglie  di  sor- 
presa, anche  per  l' insistenza  con  la  quale  Teofilo  la  ripete. 
Chi  ha  letto  il  Fedone,  il  Fedro,  il  decimo  della  Reptibblica, 
il  Timeo,  e  la  Theologia  platonica  del  Ficino,  ne  ha  riportato 
r  impressione  che  l' immortalità  dell'anima  o  1'  ha  dimostrata 
Platone  o  bisogna  rinunziare  ad  ogni  dimostrazione  filoso- 
fica. Ora  con  l'accenno  al  mito  di  Glauco  e  alle  parole  del 
Timeo  sembra  accreditata  la  tesi  pomponaziana  che  a  Padova 
e  altrove  aveva  trovato,  nella  seconda  metà  del  secolo  XVI, 
nuovi  sostenitori. 

Ma  vi  sono  altri  punti  intorno  ai  quali  il  dissenso  fra  Mar- 
cantonio e  suo  figlio  Teofilo  è  irriducibile.  Il  primo  in  generale 
ritiene  che  sia  impossibile  accordare  Aristotele  con  Platone; 
il  secondo  invece  dichiara  di  essersi  proposto  proprio  questo 
accordo,  che  egli  ritiene  possibile,  per  il  tramite  di  Proclo, 
di  Ammonio,  di  Simplicio  e  di  altri  commentatori  greci: 
«  Nunc  quoniam  mens  nostra  est  Academica  Peripateticis  ad 
communem  usum  sodare,  ut  polhciti  sumus,  ....  id  non  aliter 
praestare  possumus,  quam  si  abscuros  Prodi,  Ammonii, 
Simplicii  et  caeterorum  sensus  expUcaverimus,  etsi  prolixior 
futura  est  haec  disceptatio....  »  (f.  Vv);  e  perciò  intraprende 
una   diffusa  esposizione   del  loro   pensiero. 

In  particolare.  Marcantonio  ritiene  impossibile  questo 
accordo  per  quel  che  concerne  la  teoria  platonica  delle  idee 
e  il  tema  della  reminiscenza,  e  si  scaglia  contro  coloro  che 
avevano  osato  sostenere  che  il  dissidio  fra  Platone  e  Aristotele 
intorno  a  questi  due  argomenti  si  riduce  in  sostanza  a  una 
discrepanza  di  parole  {Tabula,  ad  v.  Ydeas  esse  rationes  se- 
pai'atas,  ad  v.  Plato  opinabatur  quod  disciplina  e  segg.,  e  an- 
cora ad  V.   Univer salia  Platonica  si  darentur).  Invece  Teofilo 


360        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

è  del  parere,  che  non  soltanto  Aristotele  non  respinge  la  dot- 
trina platonica  delle  idee  (f.  i3ra  segg.),  ma  che  anzi  si  pos- 
sano allegare  molti  luoghi  aristotelici  in  difesa  di  essa  (f.  I5ra)  ; 
«  et  Ficinus  eam  ob  rem  recte  ait,  quae  ab  Aristotele  in  mo- 
ralibus  adversus  Idaeas  obiiciuntur,  lusus  potius  esse  quam 
seria,  ubi  Platonis  dogma  de  ipso  bono  oppugnat  »  (f.  I5rb). 
Aristotele  nega,  sì,  le  idee  come  le  intendono  i  commentatori 
latini  e  in  particolare  gli  averroisti,  cioè  come  realtà  universali 
e  separate,  per  sé  stanti  al  di  sopra  dei  singoh,  ma  non  quali 
esemplari  esistenti  «  ante  rem  »  nella  mente  dell'artefice  eterno^ 
com'era  appunto  il  pensiero  di  Platone  rettamente  inteso  da 
Sant'Agostino   (ff.   I7ira-i73rb,   e  più  volte  altrove). 

Più  audace  potrebbe  sembrare  da  parte  di  Teofilo  il  tenta- 
tivo di  ritrovare  nella  dottrina  aristotelica  dell'  intelletto 
agente  una  consonanza  con  quella  della  reminiscenza  pla- 
tonica, in  opposizione  alla  quale  lo  Stagirita  l'aveva  elabo- 
rata su  un  principio  della  sua  Metafisica,  se  anche  questo 
tentativo  non  fosse  già  stato  compiuto  da  Simplicio,  al  quale 
il  medico-filosofo  di  Lecce  espressamente  si  appella: 

Quamobrem  ahter  [ab  lamblico]  dicimus  cum  Simplicio  Ari- 
stotelem  idem  fere  cum  Platone  de  rationibus  animae  sensisse; 
nam  verum  est  animae  insitas  esse  essentialesque  rerum  formas,. 
quoniam  in  parte  eius  superiore,  nimirum  in  intellectu  in  actu, 
ita  insunt.  Et  rursus  intellectum  inferiorem  idest  materialem, 
tabellae  in  qua  nihil  est  scriptum  comparat,  quoniam  is  in  potentia 
mera  est  ad  omnia  intelligibilia,  antequam  ad  actum  promoveatur, 
Latere  vero  in  anima  dicuntur,  quoniam  antequam  phantasmatis 
{sic)  rebusque  sensibilibus  suscitetur  intellectus  is  progrediens 
ad  intelligendum,  non  illustratur  ab  agente,  et  velut  densa  cali- 
gine illa  circumfunduntur;  in  lucem  vero  aeduntur  promique 
dicuntur,  ut  ab  intellectu  agente  intellectui  in  potentia  insi- 
nuantur  a  rebus  externis,  sensu  et  phantasia  percito.  Repetitum 
enim  superius  nobis  saepe  est,  tres  esse  animae  rationalis  facul- 
tates  sive  tres  intellectus,  dignitate  perfectioneque  et  gradibus 
distinctos:  nempe  intellectum  in  actu,  qui  essentialis  dicitur, 
quod  formas  essentiales  habeat,  hoc  est  in  substantia  sua,  et 
quoniam  idem  in  eo  est  substantia  intellectus  et  intellectio  et  in- 
tellectum, nec  quicquam  in  eo  est  quod  substantia  non  sit  eius; 
secundo  loco  intellectum  in  habitu  a  superiore  ilio  perfectum 
formis,  quae  velut  habitus  sunt,  atque  extra  eius  substantiam  ; 
tertio  intellectum  in  potentia,  qui  imperfectus  est,  aptus  tamen  ab 
intellectu  essentiali  adornari  illustrarique,  in  prima  potentia 
puraque  existens,  nihilque  actu  habens  eorum  quae  intelligit, 
antequam  intelligat,  de  quo  putat  Simplicius  dictum  esse,  quod 
tabellae  sit  similis,   in  qua  nihil  descriptum  sit. 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  361 

Porro  si  de  diversis  animae  facultatibus  interpreteris,  utrumque 
verum  est:  quod  insitae  sint  intellectui  rationes  rerum  omnium, 
et  quod  velut  tabella  sit  non  scripta.  Rursus  addiscere  putat 
reminisci  esse,  quatenus  praeeunt  in  anima  rationes  rerum  intel- 
ligibilium;  et  recens  parta  disciplina,  quoniam  nuper  in  intellectu 
materiali  rerum  intelligibilium  species  obsignatae  sunt.  Neque 
eadem  est  pars  intellectus  cui  insitas  esse  rerum  formas  asseruit 
Plato,  atque  ea  quam  Aristoteles  nihil  esse  actu  asserit  antequam 
intelligat.  Porro  esse  aliquam  animae  partem,  quae  rerum  formas 
intelligibiles  habeat,  Aristoteles  docet,  asserens  in  anima  esse 
aliquid  quod  omnia  facit,  coque  omnia  in  actu  sit.  Quippe  intel- 
lectus in  actu  intellectui  in  potentia  formas  intelligibiles  haudqua- 
quam  communicaret,  si  eas  in  se  prius  non  obtineret  (ff.  3i2rb- 
3i2va). 

Perciò,  già  prima  egli  aveva  affermato  che  Aristotele  non 
può  esser  capito  senza  una  buona  conoscenza  della  filosofìa 
platonica,  e  che  sognano  i  commentatori  arabi  e  i  latini  quando 
si  avventurano  nell'  interpretazione  dei  passi  più  difficili  di 
Aristotele  senza  avere  inteso  il  pensiero  del  suo  maestro: 

Conspicuum  quoque  hinc  fìt,  in  parte  animae  rationali  expli- 
canda  Aristotelem  Platonem  imitatum,  solisque  verbis,  non  sensu, 
ab  eo  discrepasse....  Perspicuum  quoque  et  illud  fit,  Aristotelis 
sensum  introspicere  cupientem  non  ignarum  veteris  Platonicaeque 
disciplinae  esse  oportere;  et  tum  Arabes  tum  Arabum  sectatores 
Latinos  interpretes  saepe  eam  ob  rem  in  enarrandis  obscurissimis 
eius  verbis  hallucinari   (f.  305va). 

E  altrove  (f .  338va)  : 

In  quo  Platonis  mentem  tenuisse  Aristoteles  recte  censetur, 
nempe  quod  anima  duplici  constet  essentia:  altera  circa  corpora 
partibili,  altera  impartibili;  et  illam  quidem  formis  absolutis 
ac  per  se  intelligibilibus  congruere....  In  quo  non  solum  sensum 
Platonis  comprobat,  sed  ipsis  eius  verbis,  praeter  morem  tamen 
suum,    utitur:    nam   de   verbo   saepe   contendit. 

Se  la  buon'anima  di  suo  padre  che  si  arrovellava  al  sentir 
dire,  «  non  esse  discordiam  inter  magistrum,  scihcet  Platonem, 
et  discipulum  Aristotelem,  nisi  in  verbis  tantum  »,  e  dichia- 
rava «  maxima  admiratione  dignum  si  Aristoteles  non  discrepat 
nisi  in  verbis  tantum  in  positione  ydearum,  sed  in  solis  vo- 
cibus  »,  avesse  sorpreso  il  figlio  mentre  scriveva  simili  eresie, 
non  avrebbe  mancato  di  chiedergli  :  «  Cur  igitur  in  ipsa  logica 
eas  insectatur  ?  dicit  enim  in  libro  primo  Posteriorum  :  'gaudeant 


362        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

ydeae  Platonis;  monstra  enim  sunt  '  »;  ed  ancora  avrebbe 
esclamato:  «O  per  vitam  meam,  quomodo  praeclara  ingenia 
allucinantur  in  re  clarissima  !  »  {Tabula,  ad  v.  Ydeas  esse 
rationes  separaias) . 

Né  si  pensi  che  manchi  a  Teofilo  una  sufficiente  conoscenza 
del  commento  averroistico.  No,  egli  lo  conosce  in  tutti  i  par- 
ticolari, e  lo  tiene  costantemente  presente,  sì  che  la  sua  in- 
terpretazione del  pensiero  aristotelico  emerge  da  una  inin- 
terrotta polemica  contro  Averroè  e  quei  latini  che  ne  seguono 
la  traccia.  L'avversione  ch'egli  dimostra  per  gli  «  arabi  »  e 
per  gli  «  arabum  sectatores  latinos  »,  deriva  dall'aver  con- 
statato che  costoro  ignorano  la  filosofia  di  Platone  e  i  ten- 
tativi dei  commentatori  greci  per  ristabilire  l'armonia  fra 
l'Accademia  e  il  Peripato.  Mentre  Marcantonio  s'era  fermato 
ad  Averroè  e  a  Temistio,  Teofilo  conosce  Platone  e  Plotino, 
Porfirio  e  Giamblico,  Proclo  e  Prisciano  Lido,  ma  sopra  tutto 
Simplicio,  rimasto  sconosciuto  al  Ficino,  non  però  a  Giovanni 
Pico  e  agli  averroisti  padovani  che  si  dissero  Simpliciani 
specialmente  a  Marcantonio  Genua.  Ma  il  Genua,  concorrente 
di  Marcantonio  Zimara,  aveva  impresso  all'averroismo  un 
orientamento  che  sembrava  svisarne  la  vera  fisionomia  sto- 
rica. Il  figlio  di  Marcantonio  Zimara  resta  fedele  ali'  interpre- 
tazione che  dell'averroismo  aveva  dato  il  padre;  e  movendo 
appunto  da  questa  interpretazione,  l'oppone  a  quella  dei 
commentatori  neoplatonizzanti  e  specialmente  a  quella  di 
Proclo  e  di  Simplicio,  ch'egli  giudica,  sia  pur  con  riserve, 
aver  meglio  degli  altri  inteso  il  pensiero  d'Aristotele. 

Luigi  Prato,  che  promosse  l'edizione  dei  commenti  di  Teo- 
filo al  De  anima,  nella  avvertenza  al  lettore,  posta  in  testa 
al  volume,  dice  di  averne  conosciuto  il  tenore  dalla  viva  voce 
dell'autore  (non  sappiamo  se  a  Lecce  o  a  Venezia)  e  d'averlo 
molte  volte  supplicato  di  mandarli  a  Venezia,  onde  l'opera 
fosse  stampata  a  vantaggio  degli  studiosi,  tanti  erano,  a  suo 
avviso,  i  pregi  di  essa.  E  promette  che,  se  la  stampa  riuscirà 
di  gradimento  al  pubblico,  egli  si  adoprerà  «  ut  in  posterum 
apte  politeque  alia  Zymarae  opera  edantur  ».  Quali  siano 
queste  «altre  opere»  di  Teofilo  da  dare  alla  luce,  oltre  alla  Meta- 
fisica della  quale  parla  l'Arcudi,  è  difficile  sapere.  Certo,  la  vita 
intellettuale  di  lui,  non  ostante  l'esercizio  dell'arte  medica, 
dev'essere  stata  molto  intensa,  come  attestano  la  sua  vasta 
erudizione  e  le  sue  discussioni  critiche.  Ma  l'opera  stampata 


MARCANTONIO    E    TEOFILO    ZIMARA  363 

non  dovette  avere  quel  successo  che  l'editore  e  l'autore  se 
ne  attendevano;  che  gli  esemplari  che  si  incontrano  nelle 
pubbliche  biblioteche,  senza  essere  rarissimi,  non  sono  nep- 
pure così  frequenti,  come,  per  esempio,  le  Solutiones  contra- 
dictionum  e  i  TheoremoJa  di  suo  Padre;  e  ancora  più  rari  son 
coloro  che  all'opera  di  Teofilo  accennano  o  ne  discutono. 

E  di  ciò  v'  è  bene  una  ragione.  Oltre  alla  prolissità  del- 
l'opera e  alle  innumerevoli  ripetizioni,  v'era  già  sul  mercato 
librario  un'abbastanza  copiosa  letteratura  che  perseguiva  lo 
stesso  intento  del  filosofo  di  Lecce,  di  dimostrare  l'accordo 
fra  Aristotele  e  Platone;  anzi,  potremmo  dire  che  il  tema, 
già  abbastanza  sfruttato,  cominciava  ormai  nel  1584  a  pas- 
sare di  m.oda.  Altri  problemi  s'affacciavano  all'orizzonte  filo- 
sofico e  scientifico,  e  i  termini  dei  vecchi  problemi  si  spo- 
stavano. Così  l'opera  di  Teofilo  Zimara  e  il  nome  di  lui  rapi- 
damente furon  sommersi  nell'onda  letea,  mentre  le  opere  di 
Marcantonio  continuarono  ancora  per  qualche  tempo  ad  essere 
discusse  dai  superstiti  aristotelici  e  dagli  ultimi  epigoni  del- 
l'averroismo. 

A  Galatina,  fin  verso  la  metà  del  secolo  XVII,  si  mostravano 
ancora  le  case  degli  Zimara  passate  in  proprietà  agli  Arcudi. 
Di  esse  così  parlava  nel  1709  Alessandro  Tomaso  Arcudi,  do- 
menicano, nella  sua  Galatina  letterata:  «Sopra  tre  porte  della 
sala  eran  dipinti  tre  ritratti,  di  Aristotele,  di  Platone  e  di 
Averroè.  Su  le  porte  a  fronte  della  porta  principale  della  sala, 
dove  soleva  abitare  Marc' Antonio,  filosofo  peripatetico,  era 
Aristotele  ed  Averroè;  sopra  quella  di  man  sinistra  che  con- 
duce all'appartamento  che  corrisponde  alla  piazza,  era  Pla- 
tone, essendo  solito  abitare  Teofilo,  filosofo  platonico.  Queste 
immagini  conservate  fino  al  1665,  fece  cancellare  D.  Alfonso 
Arcudi....  »  (p.  186),  per  ampliare  e  rimodernare  le  fabbriche 
antiche. 


XIII 

IL  COMMENTO  DI  SIMPLICIO   AL  DE   ANIMA 

NELLE  CONTROVERSIE  DELLA  FINE  DEL  SECOLO  XV 

E  DEL  SECOLO  XVI  * 


I.  Traduzioni  umanistiche  dei  commentatori  greci  del  De  anima: 
Temistio,  Aless.  d'Afrodisia,  Filopono,  Simplicio.  —  2.  Conoscenza 
che  del  commento  di  Simplicio  ebbero  Pico  della  Mirandola  e  Ago- 
stino Nifo.  —  3.  Simplicio  nello  studio  padovano:  M.  Antonio  Genua 
e  la  sua  scuola.  Averroisti  e  simpliciani.  —  4.  L'umanista  G.  Fasolo 
esorta  a  mettere  in  disparte  Averroè  e  ad  attenersi  a  Simplicio.  — 
5.  Discepoli  del  Genua:  M.  Antonio  Mocenigo  e  Gian  Paolo  Per- 
numia.  —  6.  Francesco  da  Vimercate,  Rinaldo  Odoni  e  Simone 
Simoni.  II  card.  Bessarione  e  l'averroismo.  —  7.  Federico  Pendasio, 
Giacomo    ZabareUa,    Flaminio    Nobili    e    Antonio    Montecatino.    — 

8.  Francesco  Piccolomini  e  la  sua  interpretazione  di  Simplicio.   — • 

9.  Conclusione:  il  ti^amonto  dell'averroismo. 

I.  -  A  rinfocolare  le  controversie  che  s'erano  accese,  nella  se- 
conda metà  del  secolo  XIII,  sulla  dottrina  aristotelica  del- 
l' intelletto,  sopravvenne,  verso  la  fine  del  secolo  XV,  la 
conoscenza  della  Parafrasi  di  Temistio  e  dei  commenti  di 
Alessandro  d'Afrodisia,  di  Filopono  e  di  Simplicio  al  De  anima. 

A  dir  vero,  la  Parafrasi  che  Temistio  aveva  fatto  del  trat- 
tato psicologico  d'Aristotele,  tradotta  in  latino,  come  ormai 
sappiamo,  dal  domenicano  fiammingo  Guglielmo  di  Moerbeke, 
nel  novembre  1267,  a  Viterbo,  era  stata  usata  da  S.  Tommaso 
nel  Tractatus  de  unitate  intellectus  cantra  averroistas,  nel  suo 
commento  al  De  anima  e  in  altri  scritti  i.  Successivamente  la 


*  Dall'"  Archivio  di  Filosofia  ».  Voi.  di  Testi  umanistici  inediti  sul 
«De    anima».    Padova,    Editoria    Liviana,    1951,    pp.    139-206. 

^  Cfr.  G.  Verbeke,  Les  sources  et  la  chronologie  du  Commentaire 
de  S.  Thomas  d'Aquin  au  De  anima  d'Aristote,  in  «  Revue  philosophique 
de  Louvain  »,  t.  55  (nov.  1947),  PP-  3i4"338-  A  cura  dello  stesso  G.  Ver- 
beke è  uscito  dipoi  Themistius,  Commentaire  sur  le  Traile  de  l'dme 
d'Ar-ìstote.  Traditction  de  G.  de  Moerbeke.  Ed.  critique  et  étude  sur 
l'utilisation.  «  Corpus  Commentariorum  in  Arist.  Graecorum  »,  i.  Pu- 
blications  universit.   de  Louvain,   Paris,    1957. 


366        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

troviamo  citata  nelle  Quaestiones  de  anima  intellectiva  di 
Sigieri,  nello  Speculum  divinorum  et  quorumdam  naturalium 
di  Enrico  Bate  da  Malines  e  da  altri  non  pochi  autori.  Pure 
una  grande  diffusione  essa  non  ebbe  mai,  e  nel  periodo  uma- 
nistico fu  presso  che  dimenticata.  Perciò  la  traduzione  latina 
che  Ermolao  o  Almorò  Barbaro  die  in  luce,  nel  148 1,  di  questa 
e  delle  altre  Paraphrases  di  Temistio,  parve  un  tale  avveni- 
mento letterario  degno  delle  più  sperticate  lodi  tributate  dai 
contemporanei  al  giovane  patrizio  veneziano.  Il  volume, 
dedicato  a  papa  Sisto,  ebbe  a  Treviso  una  mediocre  edizione. 
I  procedimenti  meccanici  della  stampa  si  rivelavano  ancora 
inferiori  all'arte  del  trascrivere  a  mano  in  bella  scrittura  su 
pagine  alluminate  da  vivaci  colori  e  da  superbe  iniziali  in- 
trecciate a  bizzarri  disegni.  Come  il  papa  ebbe  in  mano  il 
volume,  non  dovette  celare  il  suo  disappunto,  e  diede  ordine 
al  ben  noto  amanuense  o  «  librarius  »  della  Biblioteca  Apostolica 
Vaticana,  Salvato  da  Cagli,  di  farne  una  copia  manoscritta 
degna  dell'opera.  E  questi  vi  s'adoprò  coli'  intento  dichia- 
rato, «  ut  lucem  quam  exemplaris  impressure  vicio  pene 
amisit,  se  non  amisisse  penitus  cognoscat  ».  L'esemplare  tratto 
per  mano  di  Salvato  costituisce  oggi  il  magnifico  codice  Vat. 
lat.  2142.  V  è  chi  pensa  anc'oggi,  forse  non  senza  qualche 
fondamento,  che  la  fotografìa,  il  cinematografo  e  la  radio 
abbiano  seriamente  danneggiato  la  pittura,  il  teatro  e  l'arte 
musicale.  Allo  stesso  modo  taluni  bibliofili  della  fine  del  Quat- 
trocento non  parvero  gran  che  entusiasti  dell'arte  della  stampa. 
È  doveroso  tuttavia  riconoscere  che,  senza  questo  mezzo 
meccanico,  la  traduzione  del  Barbaro  non  avrebbe  avuto  la 
rapida  diffusione  che  ebbe,  per  merito  di  questa  e  delle  suc- 
cessive edizioni   veneziane. 

Come  sappiamo,  Averroè,  nel  notissimo  commento  quinto 
del  terzo  libro  del  De  anima,  e  di  nuovo  nel  commento  tren- 
tasei, aveva  additato  come  primi  sostenitori  della  dottrina 
dell'  intelletto  separato  ed  unico  per  tutta  la  specie  umana, 
Teofrasto  e  Temistio;  accogliendo  la  tesi  di  Temistio,  Averroè 
s'era  dato  cura  di  modificarla  solo  parzialmente,  per  poter 
meglio  sottrarsi  ad  alcune  obiezioni  che  parevano  altrimenti 
insolubili.  Ma  Tommaso  d'Aquino,  nel  Tradahis  de  unitaie 
intellectus  (cap.  II,  §§  51-53),  appigliandosi  ad  alcune  espres- 
sioni del  parafraste  bizantino,  aveva  preteso  di  trarne  profitto 
contro  l'averroismo.   Ora  l'opera  di  Temistio  stava  là,  tra- 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  ))  367 

dotta  in  elegante  latino,  a  portata  di  mano,  sì  che  anche 
quegli  averroisti  e  tomisti  che  non  sapevan  di  greco,  erano  in 
grado  di  convincersi,  se  avesse  ragione  l'Aquinate  o  il  com- 
mentatore arabo.  E  gli  averroisti,  più  dei  loro  avversari, 
trassero  profitto  dalla  fatica  di  Ermolao  Barbaro,  che  preten- 
deva d'avere  scoperto  nel  commentatore  arabo  quasi  un  pla- 
giario di  quello  greco. 

Se  non  che,  nelle  discussioni  che  seguirono,  per  quanto  la 
traduzione  del  Barbaro  fosse  elegante,  non  tutti  la  trovaron 
sempre  sufficientemente  chiara;  sì  che  fu  necessario  in  molti 
casi  ricorrere  al  testo  greco.  Il  confronto  della  traduzione  di 
Almorò  col  testo  greco  non  tardò  a  sorprendere  gì'  intendenti. 
Uno  dei  quali  fu  il  conte  Ludovico  Nogarola  da  Verona.  Egli 
aveva  imparato  il  greco  a  Padova  sotto  la  guida  del  cretese 
Marco  Musuro  negli  anni  che  precedono  la  guerra  di  Venezia 
contro  la  lega  di  Cambrai.  Più  tardi  egli  fu  discepolo  del  Pom- 
ponazzi  a  Bologna.  Narra  dunque  il  Nogarola,  nella  dedica 
della  nuova  traduzione  del  terzo  libro  di  Temistio  cui  dovette 
accingersi  '-,  com'egli  da  giovinetto  fosse  stato  un  ammira- 
tore entusiasta  della  traduzione  del  Barbaro  che  tutti  levavano 
alle  stelle  come  cosa  stupenda.  Ma  tosto  aggiunge: 

Verum.  postea  quam,  progrediente  aetatc,  Themistium  dili- 
gentius  evolvere  atque  eins  verba  graeca  cum  Hermolai  inter- 
pretatione  conferre  mihi  licuit,  facile  perspexi  eundem  in  eo 
transferendo,  qui  etiam  admodum  corruptus  ac  depravatus  esset, 
satis  licenter  per  aetatem  lusisse. 

Il  Barbaro,  infatti,  aveva  condotto  a  termine  la  sua  fatica 
poco  più  che  venticinquenne,  e  per  di  più  s'era  servito  d'un 
testo  difettoso.  Egli  poi,  quasi  spregiando  la  chiarezza  cice- 
roniana, sembrava  dar  la  caccia  alle  eleganze  dello  stile  pli- 
niano  ed  apuleiano;  sì  che  il  Nogarola  una  volta  è  costretto 
ad  esclamare  che  nessuno  l' intende  all'  infuori  degl'  indovini 
e  degli  strolaghi:  «Hermolai  interpretationem,  praeter  vates 
et  ariolos,  intelliget  nemo  !»  3.  E  fu  appunto  col  proposito  di 


2  Themistii  Euphradae,  In  tertium  de  Anima  Libriun  Paraphyasis 
a  Ludovico  Nogarola,  Comite,  in  Latinum  conversa.  Quibus  (sic  !) 
nonnulla  addita  sunt  Scìiolia  (nel  volume  delle  Paraphvases  di  Temistio, 
tradotte  in  latino  da  Ermolao  Barbaro,  Venezia,  apud  Hier.  Scotum, 
1559.  P-  -14)-  Il  Nogarola  dedica  la  sua  traduzione  al  Cardinale  Giulio 
da  Montefeltro-Della  Rovere,  fratello  del  duca  d'  Urbino,  Guidobaldo  II. 

3  Schol.   ad  partic.   XXXIV. 


368         l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

venire  incontro  alla  «gioventù  studiosa»,  ossia  a  coloro  che  non 
erano  in  grado  di  leggere  Temistio  nel  testo  greco  e  di  isti- 
tuirne il  raffronto  colla  versione  del  Barbaro,  che  egli,  già 
uomo  maturo,  pose  mano  alla  sua  traduzione,  corredandola 
di  opportune  osservazioni  critiche,  per  mettere  in  evidenza 
le  difficoltà  che  l' intelligenza  del  pensiero  di  Temistio  presen- 
tava. 

Eppure  anche  il  diligente  lavoro  del  Nogarola  parve  ad 
alcuno  troppo  ciceroniano  e  troppo  lontano  dal  linguaggio 
usato  nelle  scuole;  tanto  che  Federico  Bonaventura  da  Ur- 
bino sentirà  ancora  il  bisogno,  nel  1627,  di  dare  in  luce  una 
terza  traduzione  latina  della  Paraphrasis  in  tertitim  de  anima. 

Non  minore  importanza  ebbe  la  versione  latina  che  il  pa- 
trizio veneziano  Girolamo  Donato,  amico  del  Barbaro  e  di 
Pico  della  Mirandola,  pubblicò  a  Brescia,  nel  1495,  à&W'Enar- 
ratio  de  anima  di  Alessandro  d'Afrodisia.  Della  complessa 
opera  esegetica  e  filosofica  di  questo  interprete  greco  d'Ari- 
stotele, ricordato  talora  dai  commentatori  greci  come  l'ese- 
geta per  eccellenza,  ebbero  ampia  conoscenza  i  peripatetici 
arabi  e  in  particolare  Averroè,  il  quale  spesso  lo  cita  e  ne  rias- 
sume il  pensiero,  mostrando  per  lui  il  più  grande  rispetto, 
anche  quando  ne  critica  la  dottrina,  come  nel  commento  ai 
famosi  testi  V,  XIV  e  XXXVI  del  terzo  libro  del  De  anima  4. 
Attraverso  appunto  la  critica  d'Alessandro,  Averroè  aveva 
maturato  la  sua  dottrina  dell'  intelletto  separato  ed  unico. 
Secondo  l'esposizione  averroistica  del  pensiero  dell' Afrodisio, 
r  intelletto  possibile  non  è  altro  che  una  preparazione  o  dispo- 
sizione dell'organismo  umano,  già  vivo  di  vita  sensitiva,  a 
ricevere  l'azione  dell'  intelletto  agente  che,  per  Alessandro, 
è  Dio.  Virtù  essenzialmente  organica,  l'anima  dell'uomo  su- 
bisce le  vicende  del  corpo,  e,  come  questo,  è  mortale. 

Nella  Scolastica  cristiana,  delle  opere  d'Alessandro  non  si 
conobbero  che  pochi  estratti.  Dei  quali  il  più  importante  è 
quello  noto  col  titolo  De  intellectu  et  intellecto  5,  abbastanza 
diffuso  nel  medio  evo,  e  stampato  due  volte  nei  primi  decenni 
del  secolo  XVI 6.  Attraverso  la  conoscenza  di  questo  estratto 


4  Cfr.  G.  Théry,  O.  P.,  Alexandre  d'Aphrodise.  Aperfu  sur  V  in- 
fluence  de  sa  noétiqite,  «  Bibliothèque  Thomiste  »,  VII,  Le  Saulchoir  Kain 
(Belgique),    1926,  pp.   34-67. 

5  Théry,  pp.  68-104. 

6  Théry,  pp.   69-83. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  ))  369 

■e,  più  ancora,  attraverso  la  polemica  averroistica,  l'essenza 
del  pensiero  alessandrista  aveva  finito  per  cristallizzarsi  in 
questi  capi:  i)  l' intelletto  possibile  dell'uomo  è  una  disposi- 
zione organica  del  corpo  umano;  2)  l'intelletto  agente,  che 
trae  l' intelletto  possibile  dalla  potenza  all'atto,  è  la  luce 
della  Prima  Causa;  3)  l'anima  razionale  di  ogni  uomo  è  mor- 
tale, x^nzi  quest'ultima  affermazione,  conseguenza  delle  prime 
due,  bastava  da  sola,  per  gli  scolastici,  a  riassumere  e  a  ca- 
ratterizzare l'alessandrismo,  che  taluno  non  esitò  talora  a 
mettere  in  un  fascio   coll'epicureismo. 

Contro  il  comune  parere  che  attribuiva  la  dottrina  della 
mortalità  all'Afrodisio,  si  levò  Pico  della  Mirandola;  il  quale 
in  capo  alle  otto  «  Conclusiones  secundum  Alexandrum  Aphro- 
diseum  »,  pone  questa:  «Anima  rationalis  est  immortahs  ». 
Non  è  la  prima  né  la  sola  affermazione  paradossale  che  accade 
d' incontrare  tra  le  novecento  Conclusiones  che  avrebbero 
dovuto  disputarsi  a  Roma  nel  1487;  né  è  facile  intravedere  lo 
sviluppo  che  il  giovane  conte  della  Mirandola  intendeva  darle. 
Forse  egli  faceva  leva  sul  commento  XVII  di  Averroè  al  XII 
libro  della  Metafisica  e  sulla  contradizione  che  lo  stesso  Averroè 
credeva  d'aver  sorpreso  fra  il  commento  d'Alessandro  al  De 
anima,  e  la  trattazione  speciale  edita  col  titolo  De  anima  libri 
mantissa,  ove  1'  «  intellectus  adeptus  »  non  è  l' intelletto 
agente  puro  e  semplice,  ma  l' intelletto  agente  divenuto  forma 
dell'  intelletto   potenziale  7.    In    questo   stato   l' intelletto   po- 


7  AvERR.,  Metaph.,  XII,  comm.  17:  «  Dicit  Alexander:  quaeren- 
dum  est  si  aliqua  istarum  formarum  remanet  postquam  compositum 
corrumpitur;  deinde  narravit  unde  veniat  ad  hanc  quaestionem.  Quo- 
niam,  quia  anima  hominis  est  forma  eius,  et  intellectus  est  aliqua  forma 
•et  virtus  animae,  remanet  postquam  homo  corrumpitur,  possibile  est 
ut  aliqua  forma  materialis  remaneat,  postquam  compositum  corrum- 
pitur, sed  non  tota  anima  remanet.  Quaedam  enim  virtutes  animae 
non  habent  esse  nisi  cum  materia:  ut  cibabilis  et  sensibilis  et  imagi- 
nativa  et  desiderativa.  Ncque  etiam  iste  intellectus  qui  est  virtus  animae 
et  existimatur  quod  est  pars  eius,  possibile  est  ut  remaneat.  Intellectus 
enim  quem  dicit  in  libro  De  anima,  scilicet  quod  remanet,  scilicet  intel- 
lectus adeptus,  non  est  intellectus  iste,  ncque  etiam  est  pars  animae, 
ncque  est  etiam  forma  materialis,  ut  declaratum  est  illic.  Et  dicit 
^,  forte  ",  quia  demonstratio  super  hoc  non  est  istius  artis,  sed  libri  De 
anima.  Et  hoc  quod  dicit  Alexander,  est  sua  opinio  de  intellectu,  sci- 
licet quod  nullus  intellectus  remanet  nisi  adeptus  ».  E  nel  commento  al 
De  anima,  III,  ad  t.  36,  Averroè,  rilevate  le  ambiguità  di  linguaggio  che 
accade  d'  incontrare  nel  commento  d'Alessandro  al  De  anima  (cfr.  l'edi- 
zione berlinese  del  Bruns,  Commentaria  in  Arisi,  graeca,  voi.  II,  par- 
te I,  p.  90,  IO  sgg.,  91,  I  sgg.)  e  nel  trattato  «quem  fecit  De  intellectu 

24 


370        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

tenziale,  attuato  in  tutta  la  sua  potenzialità,  si  corrompe 
certamente  in  quanto  intelletto  potenziale,  ma  acquista  una 
più  alta  maniera  d'esistenza  nella  completa  attuazione  della 
sua  capacità,  nell'unione  perfetta  coli' intelletto  agente;  e 
in  questo  consiste  appunto  la  sua  immortalità. 

Io  non  so  se  al  Pico  o  ad  altri  alluda  il  Nifo  nel  De  intel- 
lectu  (I,  tr.  I,  e.  7),  quando  accenna  a  quei  «  praestantissimi 
viri  ex  latinorum  secta,  acutissimi  ingenii  »,  i  quali  presero- 
a  difendere  Alessandro  dall'accusa,  mossagli  da  Averroè, 
d'aver  negato  l' immortalità  dell'anima  razionale.  Certo  è^ 
ad  ogni  modo,  che  lo  stesso  Nifo  nei  Collectanea  in  lihrum  de 
animai,  dopo  aver  rilevato  la  contradizione  fra  i  due  scritti 
d'Alessandro,  segnalata  da  Averroè,  pone  in  rilievo  la  buona 
volontà  o  «  amicitia  »   di   questo   per  appianarla  r 

Est  ergo  amicitia  Averrois  hec,  quod  intellectus  potentie  ante 
copulationem  non  potest  intelligere  substantias  separatas,  quid 
tunc  efficereiur  eternus;  et  hoc  pacto  intelligit  in  libro  de  anima 
Alexander.  Ipse  vero  [cioè  V  intellectus  potentie],  post  copula- 
tionem [cum  intellectu  agente  ut  forma],  intelligit  [substantias 
separatas]  et  facit  nos  intelligere,  quoniam  tunc  est  summe  ele- 
vatus  per  perfectionem  habitam  ex  scientiis  speculativis,  adeo  ut 
quasi  abstractus  factus  est  potens  uniri  illi  intellectui    [agenti]. 


secundum  opinionen  Aristotelis  «  (ed.  Bruns,  1.  e,  p.  108,  19  sgg.,  iio„ 
30  sgg.),  cerca  di  riassumerne  il  pensiero  in  questo  modo:  «  Manifestum 
est  igitur  quod  intelligit  per  hunc  sermonem,  quod  quando  intellectus 
qui  est  in  actu  fuerit  causa  secundum  formam  intellectus  materialis  in 
actione  eius  propria  (et  hoc  erit  per  ascensionem  intellectus  materialis 
apud  illam  formam),  tunc  dicetur  intellectus  adeptus;  quoniam  in  illa 
dispositione  erimus  intelligentes  per  ipsum,  quoniam  est  forma  nobis, 
quoniam  tunc  erit  ultima  forma  nobis.  Sustentatio  igitur  istius  opinionis 
est,  quod  intellectus  agens  est  prima  causa  agens  intellectum  mate- 
rialem  et  intellectum  qui  est  in  habitu;  et  ideo  non  copulatur  nobiscum 
primo;  et  intelligimus  per  ipsum  ras  abstractas.  Cum  igitur  intellectus- 
materialis  fuerit  perfectus,  tunc  agens  lìet  forma  materialis  et  copu- 
labitur  nobiscum,  et  intelligemus  per  ipsum  alias  res  abstractas;  non 
ita  quod  intellectus  qui  est  in  habitu  intelligat  hunc  intellectum,  cum 
intellectus  qui  est  in  habitu  est  generabilis  et  corruptibilis,  iste  autem 
non  est  generabilis  ncque  corruptibilis  «.  Nell'atto  della  copitlatio  V  in- 
telletto potenziale  è  soggetto  informato  dall'  intelletto  agente.  L'  intel- 
lectus adeptiis  è  lo  stesso  soggetto  di  cui  l'agente  è  forma. 

S  Stampati  insieme  al  commento  dello  stesso  Nifo  al  De  anima 
(Venezia,  1522,  e  dipoi  altre  volte).  Cfr.  Ili,  coUect.  ad  t.  e.  36,  f.  196,  3, 
Una  prima  edizione  col  titolo  Super  tres  libros  de  anima  era  uscita  a 
Venezia,  il  io  maggio  1503,  a  spese  di  Alessandro  Calcidonio,  e  il  Nifo 
l'aveva  dedicata  al  patrizio  partenopeo  Baldassare  Miliani.  Non  si  sa 
quindi  a  che  miri  la  protesta  del  Nifo,  alla  fine  della  prefazione  del  1522, 
contro  l'edizione  calcidoniana.   Cfr.  sopra,  p.    286,  n.  16. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    »  DE    ANIMA  »  37I 

Così,  pensa  Averroè,  a  giudizio  del  Nifo,  l'intelletto  potenzia- 
le, tratto  dal  seno  della  materia,  potrebbe  dirsi,  secondo  Alessan- 
dro, che  sopravviva  immortale  nel  suo  congiungimento  coli' in- 
telletto agente.  Se  non  che,  —  osserva  il  commentatore  arabo,  — 
questo  non  è  possibile,  nella  dottrina  di  Aristotele,  il  quale 
non  concederebbe  mai  che  una  cosa  generata  possa  farsi  eterna. 
Perciò  il  Nifo  osserva  che  la  contradizione  fra  i  due  testi  del- 
l'Afrodisio  si  eliminerebbe  meglio  colla  teoria  di  Simplicio, 
il  quale  attribuisce  ad  Alessandro  d'aver  pensato  a  un  duplice 
intelletto  potenziale:  l'uno  generato  e  quindi  mortale;  l'altro, 
eterno   ed   immortale: 

Simplicius  vero  aliter  verba  Alexandri  concordat,  per  dupli- 
cem  intellectum  materialem,  scilicet  generabilem,  et  alterum 
eternum;  quos  Theophrastus  in  libro  de  anima  dicit,  et  Plutar- 
chus  Rhodius  et  alii.  Intellectum  enim  generabilem  ponit  non 
intelligere  agentein;  sed  bene  alterum.  Et  sic  nulla  erit  diffe- 
rentia  inter  hos,  scilicet  Alexandrum  et  Averroem,  Themistium 
et  Simplicium  9. 

Il  Nifo  riferisce  anche  in  che  modo  taluni  tentavano  di 
difendere  il  commentatore  d'Afrodisia: 

Dixerunt  quidam  viri,  quod  quemadmodum  catholici  sentiunt 
de  anima,  ita  et  Alexander  de  intellectu.  Volunt  enim  catholici, 
quod  anima  in  pura  natura  non  copulatur  deo  in  statu  felicitatis 
nec  ante  mortem  nec  post;  sed  requiritur  quoddam  lumen  super- 
naturale,  quo  anima  elevatur  a  propria  natura  et  redditur  summe 
capax  felicitatis.  Sic  Alexander  estimat.  Dicit  quod  per  intellecta 
speculativa  elevatur  et  abstrahitur,  adeo  ut  effìciatur  capax 
intellectionis  eius;  et  sic  ante  et  post  [mortem]  intelligit  agentem; 
nec  oportet  ut  fiat  eternus  nisi  secundum  quid.  i° 

Le  discussioni  cui  abbiamo  accennato,  dimostrano  quanto 
grande  fosse  il  bisogno  che  l'opera  d'Alessandro  fosse  portata 
a  conoscenza  dei  filosofi.  A  questo  bisogno  venne  incontro 
dapprima  Girolamo  Donato  con  la  sua  traduzione  del  trattato 
sul  De  anima,  cui  s'aggiunse  più  tardi,  nel  1546,  la  traduzione 
della  Mantissa  (considerata  come  il  secondo  libro  della  stessa 
opera),  per  opera  di  Angelo  Caninio  d'Anghiari,  mentre  nel 
1536  era  stato  stampato  a  Venezia  il  testo  greco  delle  due 
opere.  La  conoscenza  diretta  del  testo  parve  dar  ragione  a 

9  ib. 

10  Ib. 


37-         L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

coloro  i  quali  ritenevano  Alessandro  deciso  sostenitore  della 
mortalità  dell'anima  umana.  Non  mancarono  tuttavia  i  dis- 
seftzienti  dall'opinione  ormai  comune.  Uno  di  costoro  è  Ago- 
stino Steuco  da  Gubbio.  Questi  nel  1542  sosteneva  che  la  tesi 
di  Alessandro,  secondo  la  quale  l'anima  è  una  crasi,  atto  e 
forma  risultante  dalla  mescolanza  degli  elementi,  riguarda 
l'anima  corporea  che  è  certamente  corruttibile  e  mortale. 
Ma  l'Afrodisio  pone  altresì  nell'uomo  un'anima  simile  a  quella 
degli  dèi,  venuta  in  noi  dal  di  fuori  e  immortale".  Nel  1578, 
il  veneziano  Antonio  Polo,  nella  sua  Abbreviatio  veritatis 
animae  ratioìialis,  lib.  Ili,  «  Disgressio  in  defensione  Alexandri 
circa  immortalitatem  animae»^-,  dopo  aver  ricordato  la  prima 
delle  «  Conclusiones  »  di  Pico  «  secundum  Alexandrum  »,  si 
appiglia  ai  testi  che  paiono  favorire  la  tesi  dell'  immortalità, 
e  ribatte  le  ragioni  contrarie,  spiegando  che  il  corrompersi 
dell'  intelletto  in  potenza  non  è  altro  che  il  passare  di  esso 
all'atto,  mercé  la  luce  dell'  intelletto  agente  che  viene  in  noi 
dal  di  fuori  13.  Ma  questi  sporadici  tentativi  non  riuscirono  a 
prevalere  sull'opinione  ormai  divulgata,  che  per  Alessandro 
d'Afrodisia  l'anima  umana  perisce  col  corpo,  come  pensavano 
il  Pomponazzi,  Simone  Porzio,  Vincenzo  Madio,  Giulio  Ca- 
stellani, Bassiano  Landò  e  Polo  Loredan,  tutti  alessandristi, 
ed  anche  gli  averroisti,  che,  in  questo,  erano  generalmente 
d'accordo  coi  loro  avversari. 

Un  altro  nome  ricorre  di  frequente  nei  commenti  del  Rinasci- 
mento al  De  anima  :  quello  di  Giovanni  Filopono,  detto  anche 
Giovanni  Grammatico  o  Giovanni  Cristiano.  A  questo  commen- 


di AuGUSTiNi  Steuchi  EUGUBINI,  De  perenni  philosophia  libri  X, 
Basilea,    1542,   lib.   IX,   capp.   21-22. 

12  Ant.  Poli  Veneti,  Abbreviatio  veritatis  animae  rationalis.  Ve- 
netiis,  apud  Simonem  Galignanum  de  Karera,  M.D.LXXVIII,  lib.  Ili, 
pp.  94-102,  Disgressio  in  defensione  Alexandri  circa  immortalitatem 
aniinae. 

^3  Ib.,  pp.  96-98.  Il  Polo,  a  sostegno  della  sua  tesi,  cita  questo  passo 
del  De  animae  beatitudine  d'Averroè  (cfr.  l'edizione  veneziana  del  1524, 
col  commento  del  Nifo,  I,  t.  38)  :  «  Si  intellectus  materialis  est  substantia 
aeterna,  ut  omnes  expositores  fatentur,  nihil  prohibet  quin  possit 
intelligere  rem  aeternam;  et  si  est  praeparatio,  ut  dicit  Alexander, 
nihil  prohibet  quin  efficiatur  aeterna,  ut  Avenasar  fatetur  ».  Prima  dello 
Steuco  e  del  Polo,  aveva  difeso  Alessandro  d'Afrodisia,  dalla  taccia  di 
negatore  dell'immortalità  dell'anima,  Cristoforo  Marcello,  Universalis 
de  anima  trad-itionis  opus.  Venezia,  1508,  18  gennaio  (stile  veneto; 
dunque  1509),  V,  capp.  3-5.  L'opera  è  dedicata  a  Girolamo  Donato, 
oratore  veneziano  alla  corte  di  Giulio  II. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    '(  DE    ANIMA  »  373 

tatore  greco  d'Aristotele  accenna  più  volte  Averroè  ;  ma  i  latini 
del  medio  evo  non  ne  conobbero  le  opere,  tranne  un  notevole 
frammento  del  commento  al  terzo  libro  del  De  anima  (capp.  4-9) , 
nella  traduzione  latina  che  Guglielmo  di  Moerbeke  ne  fece  a  Vi- 
terbo nel  1268  M.  Questo  frammento  fu  largamente  usato  da 
Enrico  Bate  da  Malines,  compatriotta  ed  amico  del  tradut- 
tore, nel  suo  Specnliim  divinorum  et  quorumdam  naturalium , 
e  da  altri  alla  fine  del  secolo  XIII  e  a  principio  del  successivo; 
ma  esso  rimase  sconosciuto  nel  Rinascimento.  Poiché  il  terzo 
libro  nell'edizione  veneta  del  testo  greco  del  De  anima,  cu- 
rato da  Vittore  Trincavelli,  nel  1535,  è  cosa  assai  diversa,  ed 
è  ritenuto  opera  di  Stefano  d'Alessandria.  Pure  su  questo 
testo,  riprodotto  anche  nei  Commentaria  in  Aristotelem  graeca 
di  Berlino,  voi.  XV,  a  cura  dello  Hayduck,  fu  condotta  la 
traduzione  latina  di  Matteo  Dalbò  (a  Bove),  pubblicata  a 
Venezia  nel  1544,  e  quella  di  Genziano  Hervetus  stam.pata 
nello  stesso  anno  a  Lione. 

Ma  il  commento  al  De  anima  più  discusso  nel  Cinquecento 
fu  senza  dubbio  quello  di  Sim.plicio,  rimasto  sconosciuto  agli 
scolastici  e  trascurato  anche  da  Averroè,  che  pure  aveva  una 
larga  conoscenza  dei  commentatori  greci.  La  fortuna  del 
commento  di  Simplicio  al  De  anima  d'Aristotele  nel  Rinasci- 
mento e  r  influenza  che  esso  esercitò  nelle  discussioni  prò  e 
contro  l'averroismo  ormai  prossimo  al  tramonto,  saranno 
oggetto  delle  pagine   che  seguono. 


2.  -  Il  primo  che  utilizzò  il  commento  di  Simplicio  al  Deanima, 
fu,  per  quel  che  ne  so,  Giovanni  Pico  della  Mirandola.  Dall'  In- 
ventarius  librorum  Io.  Pici  Mirandulae  del  codice  Vat.  lat. 
3436,  risulta  che  Pico  possedeva  un  esemplare  dell'opera '5  sicu- 


^4  Cfr.  M.  Grabmann,  Mittelalt.  latein.  Uebersetzungen  von  Schrif- 
ten  der  Aristoteles-Kommentatoren  Johannes  Philoponos,  Alexander 
von  Aphrodisias  und  Themistios,  nei  «  Sitzungsber.  der  Bayer.  Akad. 
d.  Wissensch.  »,  Philos.-philol.  u.  hist.  Abteil.,  Miinchen,  1928,  Heft  5, 
pp.  6-48.  Id.,  Guglielmo  di  Moerbeke  O.  P.  il  traduttore  delle  opere  d'Ari- 
stotele, nei  «  Misceli.  Historiae  Pontificiae  »,  voi.  XI,  Roma,  1946, 
pp.  140-147;  M.  DE  Corte,  Le  commentaire  de  Jean  Philopon  sur  le  troi- 
sième   livre   du    «  Traile   de    l'dme  »   d'Aristote.   Liège-Paris,    1934. 

^5  Pearl  Kibre,  The  library  of  Pico  della  Mirandola.  New  York, 
Morningside  Heights.  Columbia  University  Press.  M.CM. XXXVI,  p.  170, 
n.  447. 


374        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

ramente  in  greco,  procuratogli  forse  da  Baldassar  Millia vacca, 
che  il  mirandolano  sollecita  in  una  sua  lettera  i^  a  procurargli 
il  commento  di  Giovanni  Grammatico  alla  Fisica  e  alla  Me- 
tafisica, e  che  commenti  d'Alessandro  d'Afrodisia  aveva  pre- 
stato a  Ermolao  Barbaro  '7.  E  dall'opera  di  Simplicio  il  signore 
della  Mirandola  traeva  ben  nove  «  conclusiones  w,  per  la  so- 
lenne disputa  che  avrebbe  dovuto  tenersi  a  Roma.  Eccone 
il  testo: 

[Conclusiones']  secundum  Simplicium  IX.  -  i.  -  Cognoscere 
actum  suum  non  est  commune  cuihbet  sensui  exteriori,  sed  humanis 
sensibus  est  speciale  ^^. 

2.  -  Aristoteles  in  libro  tertio  de  anima  non  tractat  nisi  de 
parte   rationali  i9. 

3.  -  Ciim  anima  in  se  perfecte  redit,  lune  intellectiis  agens 
ab  intellectu  possibili  Uberatur  20. 

4.  -  Eadem  pars  rationalis,  ut  seipsam  exiens,  dicitur  intel- 
lectus  possibilis,  ut  vero  est  talis  ut  seipsam,  ut  possibilis  est, 
possit  perficere,  dicitur  intellectus  agens  ^i. 

5.  -  Eadem  pars  rationalis,  ut  extra  se  vadens  et  procedens, 
perfìcitur  speciebus  quae  in  ipsa  sunt;  ut  manens  est,  dicitur 
intellectus  in  habitu  --. 

6.  -  Sciri  potest  ex  praecedentibus  conclusionibus,  quare  in- 
tellectus agens  quandoque  arti,  quandoque  habitui,  quandoque 
lumini   assimiletur  -3. 

7.  -  Passio  a  sensibili  facta  in  organo  solo,  sensatio  in  anima 
sola  recipitur  24. 

8.  -  Sicut  lumen  colores  non  facit  colores,  sed  praeexistentes 
colores,  potentia  visibiles,  facit  actu  visibiles,  ita  intellectus 
agens  non  facit  species  cum  non  essent  prius,  sed  actu  praeexi- 
stentes species,  potentia  cognoscibiles,  facit  actu  cognoscibiles  ^5. 

9.  -  Cum  dicit  Aristoteles,  non  recordari  nos  post  mortem, 
quia  passivus  intellectus  corrumpitur,  per  passivum  intellectum 
possibilem   intellectum   intelligit  -^. 


16  In  Opera,  Venetiis,   1557,  p.  251. 

^7  Erm.  Barbaro,  Epistolae  Orationes  et  Carmina.  Ed.  crit.  a  cura 
di  Vittore  Branca,   Firenze,    1943,   voi.   II,  p.   39,   CXXIII. 

18  Cfr.  Arist.,  De  anima.  III,  e.  2,  425b  12  sgg.  ;  Simplicio,  In  li- 
bros  Arist.  de  Anima,  ed.  M.  Hayduck  («  Commentaria  in  Arist.  graeca  », 
voi.  XI),  pp.  187-193;  S.  Tommaso,  In  III  de  anima,  lectio  2;  Nifo, 
Collectanea  in  II  de   anima   (ediz.    citata),   ad  t.   e.    136-139. 

'9  Simplicio,  pp.  172,  4  sgg.,   187,  17,  e  pp.  217-223. 

20  Simplicio,  pp.  240,  18  sgg.,  241,  16  sgg.,  247,  33  sgg. 

21  Simplicio,  pp.  240-248. 
"  Simplicio,  p.  229,  3-35. 

23  Simplicio,  p.  241,   20  sgg. 

-4  Simplicio,  pp.   124,  33  sgg.,   161-167,   192-194,   196-197. 

25  Simplicio,  pp.  241,  39  -  243,  6,  331,   18-21. 

26  Simplicio,  p.  247,   27  sgg. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  375 

È  noto  che  Pico,  pur  accogliendo  la  tesi  avveroistica  del- 
l'unità dell'  intelletto,  aveva  creduto  che  questa  dottrina 
potesse  conciliarsi  coli'  individualità  della  coscienza  umana  e 
con  la  sopravvivenza  di  questa  alla  morte  27.  Unendosi  al- 
l' individuo,  l' intelletto  unico  trae  all'atto  quelle  capacità 
e  disposizioni  che  sono  nell'organismo  corporeo  dotato  di  vita 
sensibile,  e  crea  in  esso  una  realtà  spirituale  nuova,  che  prima 
dell'unione  non  esisteva  e  che,  una  volta  attuata,  è  capace  di 
persistere  nel  proprio  essere.  A  intendere  questo  processo 
d' individualizzazione  dell'  intelletto  unico,  il  Mirandolano 
era  aiutato  da  Plotino,  come  ho  mostrato  altra  volta -8,  e  più 
particolarmente  da  Proclo  e  da  Simplicio. 

Quest'ultimo,  facendo  sua  la  dottrina  di  Giamblico,  cui 
espressamente  si  riferisce  -9,  gli  parlava  d'un  primo  intelletto 
non  partecipato  e  quindi  d'un  intelletto  partecipato,  dal 
quale  dipende  l'anima  o  mente  razionale.  Questa,  in  quanto 
rivolta  alla  mente  superiore  di  cui  è  partecipe,  ne  rispecchia 
in  sé  le  idee  eterne,  che  impresse  nella  mente  umana  si  dicono 
«ragioni  (Xóyot),  e  fruisce  della  stessa  eternità  e  permanenza 
nell'essere,  propria  di  quella  {vo\jq  ó  (xévwv).  Ma  in  quanto  è 
rivolta  invece  al  mondo  inferiore  della  sensibilità  e  s'unisce 
alla  vita  animalesca  e  a  quella  vegetativa  {auiJ.KXz-KO[iéwu 
Toù  Xóyou  èv  T-^  Tipòi;  rò  oò>[i.a  poTrf)  nxXq  Seuxépac?  yoù  acù(jLaTOct.S£CTt 
^coaig)  30,  è  detta  uscire  fuori  di  sé  {slq  tÒ  e^co  Trpotcóv)  3', 
con  frase  che  curiosamente  ricorda  un'analoga  espressione 
hegeliana.  La  mente  che  permane  in  se  stessa,  in  un  atto  con- 
templativo che  dura  eterno,  è  identificata  da  Simplicio  con 
quello  che  fu  detto  1'  «  intelletto  agente  »  che  è  atto  sostan- 
ziale per  sua  natura  e  «  non  intende  ora  sì  ora  no  »,  come 
s'esprime  Aristotele  32;  invece  la  mente  in  quanto  esce  fuori 


-7  E.  Garin,  Giovanni  Pico  della  Mirandola.  Vita  e  dottrina.  «  Pub- 
blicazioni della  R.  Università  degli  Studi  di  Firenze.  Facoltà  di  Lettere 
e  Filosofia».  Ili  Serie,  voi.  V;  Firenze,  1937,  P-  84;  B.  Nardi,  Sigieri 
di  Brabante  nel  pensiero  del  Rinascimento  italiano.  Roma,  Edizioni 
Italiane,  1945,  pp.  159-160;  Id.,  Individualità  e  immortalità  nell'aver- 
roismo e  nel  tomismo,  in  «  Archivio  di  Filosofia.  Organo  dell'  Istituto  di 
Studi  Filosofici  »,  voi.  dedicato  al  Probletna  dell'  immortalità,  Roma, 
1946,    pp.    120-121. 

28  Sigieri  di  Brab.,   cit.,  pp.   160-169. 

-9  Simplicio,  p.  217,  27,  313,  2. 

30  Simplicio,  p.  218,  33. 

31  Simplicio,  p.  229,  3. 

32  Arist.,  De  anima,  III,  e.  5,  43oa  22. 


376        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

di  sé  s' identifica  con  l' intelletto  in  potenza  o  intelletto  pos- 
sibile o  passivo.  Il  conoscere  umano  comincia  dall'esperienza 
sensibile,  e  consiste  in  una  liberazione  progressiva  dalla  pas- 
sività e  nel  ritorno  (àvaSpo^xv))  alla  pura  contemplazione  del. 
mondo  ideale  33. 

Questo  concetto  di  un  intelletto  che  permane  in  se  stesso,, 
e,  uscendo  da  sé,  s'unisce  al  mondo  della  sensibilità  per  ritor- 
nare a  sé,  in  un  circolo  eterno,  sedusse  il  signore  della  Miran- 
dola, intento  a  risolvere  il  problema  averroistico  della  «  co- 
pulatio  »,  ossia  del  congiungimento  dell'unico  intelletto  col- 
r  individuo,  che  era  stato  il  problema  di  Sigieri,  anzi  dello 
stesso  Averroè  34. 

Questo  problema  doveva  essere  assillante  nel  suo  animo. 
Il  Nifo  narra  a  questo  proposito  l'episodio  d'un  incontro  con 
lui  e  di  una  discussione  che  dev'essere  avvenuta  nella  prima- 
vera 1494.  Il  giovane  Suessano,  che  professava  filosofia  a  Pa- 
dova, aveva  avuto  dal  suo  alunno  Girolamo  Bernardo,  di 
famiglia  patrizia  veneziana,  un  esemplare  della  Destrttctio 
destructionum  Algazelis  di  Averroè,  che  pochi  conoscevano, 
e  stava  preparandone  un  commento  che,  iniziato  nel  1494,, 
fu  stampato  a  Venezia  nel  1497.  Un  passo  di  Algazele  fermò  a. 
lungo  l'attenzione   di  lui.   Diceva  il  filosofo   arabo; 

Forte  aliquis  diceret,  quod  opinio  Platonis  est  vera,  videlicet 
quod  anima  est  una  et  antiqua,  et  dividitiir  divisione  corponim, 
et  in  corporea  separatione  redit  ad  suam  radicem  et  unitur. 

Due  cose  sono  notevoli  in  questo  passo  d'Algazele:  anzi- 
tutto, che  la  dottrina  dell'unità  dell'  intelletto  venga  attri- 
buita a  Platone;  indi,  che  vi  s'accenni  alla  possibilità,  intra- 
vista da  alcuni,  di  conciliare  la  tesi  dell'unità  con  quella  della 
molteplicità  numerica  e  individuale  delle  anime.  Ora  il  Nifo 
racconta  com'egli,  abbattutosi  nel  conte  della  Mirandola,  che 
insieme  a  lui  era  diretto  in  dihgenza  alla  volta  di  Bologna, 
ebbe  a  palesargli  i  suoi  dubbi  su  quest'argomento.  E  il  Mi- 
randolano,  che  evidentemente  la  pensava  come  di  Platone 
riferisce  Algazele,  cercò  di  far  capire  il  suo  pensiero  al  com- 


33  Simplicio,  p.  240  sgg. 

34  B.  Nardi,  Introduzione  a  S.  Tommaso  d'Aquino,  Trattato  sul- 
l'unità dell'intelletto  contro  gli  averroisti.  Firenze,  Sansoni,  1938,, 
PP-  43-50- 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  377 

pagno  di  viaggio  con  questo  curioso  paragone.  Come  per 
costruire  una  volta  o  un  arco  fa  mestieri  di  quella  impalcatura 
di  legno  che  li  sostenga  e  che  dicesi  centina;  ma  poi,  quando 
son  costruiti,  la  volta  e  l'arco  si  reggon  da  sé,  senz'armatura; 
così  una  sola  idea  di  tutte  le  anime  sorregge  ed  aiuta  ognuna 
di  esse  a  venire  all'esistenza,  via  via  che  per  virtù  di  genera- 
zione si  formano  i  loro  corpi;  quando  poi  il  corpo  vivente  è 
già  formato,  rimane  in  esso  un'ombra  o  vestigio  che  dicesi 
anima.  Alla  morte  del  corpo,  le  anime  singole  ritornano  al 
loro  «  semenzaio  »,  che  è  quell'unica  idea  della  quale,  nella 
loro  individualità  particolare,  erano  ombra,  vestigio  e  riflesso  35. 
Per  Platone  dunque,  quale  era  inteso  da  alcuni  prima  d'Aver- 
roè,  e  quale  piaceva  al  Pico  d' intenderlo,  tutte  le  anime 
singole  sono  un'anima  sola  nella  loro  «radice»;  sono  invece 
molte,  in  quanto  suoi  germogli  nei  corpi,  ossia  in  quanto  l'anima 
che  è  una  in  sé  si  comunica  e  si  propaga  negl'  individui  della 
specie  umana,  uscendo,  come  diceva  Simplicio,  fuori  di  sé. 
Anche  a  fare  un  po'  di  tara  sui  particolari'  del  racconto  del 
Nifo,  la  sostanza  del  racconto  sembra  conforme  allo  spirito 
della  filosofia  pichiana,  nel  momento  in  cui  il  Mirandolano, 
senza  rinnegare  il  suo  averroismo  del  periodo  padovano,  s' in- 
dustriava di  svolgerlo  in  senso  platonico. 

Non  saprei  se  dal  Pico  o  da  altri  il  Suessano  abbia  avuto 
notizia  del  commento  di  Simplicio  al  De  anima.  Certo  è  che 
egli  ricorda  più  volte  l' interpretazione  simpliciana  della  dot- 
trina aristotelica  in  opere  composte  a  Padova  prima  del  1498, 
prima  di  lasciare  quello  studio.  Una  di  queste  sono  i  Collectanea 
super  lihros  de  anima,  che  il  Nifo  aveva  approntato  per  la 
pubblicazione,  nel  1498,  e  mandato  a  Baldassare  Miliani, 
patrizio  partenopeo,  coli'  intento  che  ne  accogliesse  la  dedica, 
e  all'abate  Roselo  Salinatore,  suo  concittadino,  per  averne 
il  giudizio  36.  Nel  1503  essi  furon  pubblicati,  con  dedica  del 
Nifo  al  Mihani,  dall'editore  veneziano  Alessandro  Calci- 
donio,  mentre  l'autore,  se  la  sua  asserzione  merita  fede,  aveva 


35  Nifo,  In  librum  Destructio  destructionum  Averrois  commenta- 
ri!,   disp.    I,    dub.    8;    cfr.   disp.    IV,    dub.    7.  V.  sopra,  p.  319. 

36  Come  ho  già  avvertito,  i  Collectanea  furono  stampati  dal  Nifo 
una  prima  volta  nel  1503,  e  di  nuovo  nel  1522  insieme  al  suo  nuovo 
commento.  L'ultimo  dei  Collectanea,  assai  prolisso,  ma  ricco  d'  impor- 
tanti notizie,  riguarda  il  famoso  t.  36  del  terzo  libro  del  De  anima, 
e  la  non  meno  famosa  digressione  d'Averroè  intorno  a  questo  testo. 


378        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

stabilito  di  non  darli  alla  luce  prima  che  fossero  trascorsi  i  nove 
anni  oraziani  dalla  loro  composizione  37;  sì  che  si  può  pensare 
che  essi  siano  una  delle  prime  fatiche  del  suessano  poco  più 
che   ventenne. 

Ora  in  principio  di  questi  Collectanea  sul  terzo  libro,  il 
Nifo  accenna  alla  questione  dibattuta  fra  gli  espositori,  cui 
si  riferisce  la  seconda  delle  «  conclusiones  »  del  Pico  «  secundum 
Simplicium  »,  di  quale  intelletto  Aristotele  intenda  parlare 
in  questa  terza  parte  della  sua  opera: 

Verum  circa  intentionem  huius  tertii  apud  expositores  fuit 
difficultas  non  parva.  Primi  enim  expositores,  quos  impugnare 
videtur  lamblicus,  sentire  [videntur]  intentionem  huius  esse 
de  intellectu  imparticipabili,  qui  actu  est  summus  ac  vita  essen- 
tialiter  optima  et  per  se  ab  anima  separabihs.  Ad  quos  obiicit 
lambHcus  et  inquit:  «  Quidnam  et  qualis  separabilis  ab  anima 
intellectus,  et  quod  prima  substantia  et  impartibilis  et  optima 
vita  et  summus  actus  et  idem  intellegibile  et  intellectio  et  intel- 
lectus et  eternitas  et  perfectio  et  quies  et  terminus  et  causa  omnium, 
12.  Metaphysice  dictum  est»38.  Non  ergo  et  hic  de  Deo  pertractan- 
dum.  Sed  hoc  lamblici  argumentum  pace  sua  nihil  est.... 

Ideo  et  aliter  lamblicus  inquit:  «  Magis  vero  nunc  qualis  quis 
a  nostra  anima  participatus  intellectus  dicendum))39.  Sed  quid 
velit  lamblicus,  SimpHcius  laborat  exponere.  Ubi  debes  scire, 
quod  duplex  est  intellectus:  participatus  et  imparticipatus.  Omnis 
enim  forma,  scilicet  quae  idea  dicitur,  indivisibilis  est  et  terminus 
seipso;  anima  autem  est  divisibilis,  ut  reflexa  ipsius  denotat  actio: 
erit  ergo  anima  hominis  vita  hominis  secundum  se  partibilis  ac 
divisibilis.  Verum,  prout  intellectu  participat,  in  impartibilitatem 
cadit  ac  in  terminum  et  indivisionem.  Erit  ergo  anima  hominis 
vita  hominis,  cuius  intellectus  est  forma.  Anima  enim  ipsa  in- 
dividua est  in  corpore,  ut  Stoici  inquiunt.  Ut  vero  particeps  est 
intellectus,  impartibilis  ac  indivisibilis  redditur  partitione  et 
reditione.  Differt  vero  intellectus  participatus  ab  imparticipato  : 
ille  enim  non  manet  in  se,  sed  alterius  anime  est  forma;  impar- 
ticipatus autem  in  se  manet,  ac  per  se  separatus  est  et  terminus. 
Et  sic  imaginatur  aliud  esse  animam,  et  aliud  intellectum,  lam- 
blicus; anima  enim  vita  est  animalis  humani;  intellectus  vero 
forma  erit  anime. 

Sed  quoniam  lamblicus  non  videtur  differre  a  Plotino,  ideo, 
ut  melius  lamblici  opinio  clarescat,  Plotini  sententiam  expedit 
enarrare....  Erit  ergo  ordo:  deus  forma  est  intellectus;  intellectus 


37  Ciò  è  dichiarato  dal  Nifo  alla  fine  della  prefazione  premessa  al- 
l'edizione del  1522  identica  a  quella  del  1503,  a  quanto  ho  potuto  vedere. 
V.   sopra,   pp.    2'-6,   n.   13,  370,    n.   8. 

38  Cfr.    Simplicio,  p.  217,  23-27. 

39  Simplicio,  p.   217,  29. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  379 

vero  anime;  anima  rationalis  vivi  humani.  Erit  ergo  intentio, 
apud  lamblicum,  huius  libri  de  intellectu  participato,  qui  forma 
est  anime  rationalis,   que  homo  est,   platonice  loquendo.... 

Alitar  et  post  hunc  Simplicius.  Intentionem  enim  huius  libri 
de  anima  rationali  dicit  esse.  Imaginatur  enim  aliud  esse  vitam 
hominis,  et  aliud  rationalem  animam,  et  aliud  animam  totam 
ipsius.  Vitam  enim  appellat  ipse  cum  prioribus  intentionem  ho- 
minis, scilicet  animalis  humani,  que  est  actus  et  perfectio  speci- 
lìcans  hominem;  rationalis  vero  anima  est  actus  huius  anime, 
sicut  lumen  diaphani;  ex  quibus  duobus  resultat  tota  anima 
hominis.  Erunt  ergo  anime  humane  partes  due,  scilicet  rationalis 
anima  et  vita  ipsa,  qxie  simul  totam  hominis  animam  constituunt. 
Est  autem  apud  ipsum  duplex  intellectus,  scilicet  quo  ad  divina 
copulatur  anima,  et  hic  forte  agens  est  intellectus;  alter  quo  ad 
materialia,  et  hic  quandoque  potestate  et  imperfectus  existit, 
non  quia  in  se  non  intelligit,  sed  quoniam  ab  alio  scientiam  habet, 
ut  a  primo,  et  respectu  hominis  quandoque  et  perfectus  est  et 
completus,  et  hoc  quando  perfecte  toti  homini  unitur.  Erit  ergo 
intentio  huius  [libri]  loqui  de  parte,  idest  de  anima  rationali, 
qua  anima  scilicet  hominis  intelligit  et  sapit;  idest,  de  rationali 
anima,   que  pars  est  anime  hominis,   scrutandum....  4°. 

In  questo  passo  dei  Collecianea,  a  parte  l' interpretazione 
più  o  meno  esatta  che  il  Nife  ci  dà  del  pensiero  di  Simplicio, 
è  certo  che  vi  sono  frasi  prese  alla  lettera  dal  commento  di 
questo.  Ora,  nel  secondo  commento  che  il  Suessano  recò  a 
termine  nel  15 19,  maestro  a  Pisa,  avendo  egli  modificato  il 
suo   modo   d'intendere,   ci   fa   questa   confessione: 

Animadverte,  tamen  in  Collectaneis  nos  dixisse,  de  mente  Sim- 
plicii,  intentionem  Aristotelis  hic  esse  de  anima  rationali  que 
est  pars  anime  humane,  cum  in  greco  eum  non  viderim  tunc. 
At  postquam  eum  legi  in  proprio  fonte,  reperi  eum  opinari  ut 
dictum  est,  et  non  ut  in  Collectaneis  dixi  41. 

E  non  di  meno  il  commento  di  Simplicio  è  ricordato  e  di- 
scusso parecchie  volte  negli  stessi  Collecianea,  nel  corso  del 
secondo  libro,  con  espressioni  le  quali  non  lasciano  dubbio 
che  l'opera  del  commentatore  greco  fosse  familiare  al  Nifo. 
Se  questi  pertanto  non  la  possedeva  in  greco,  vuol  dire  che  la 
possedeva  tradotta.  Questa  traduzione,  anteriore  d'un  mezzo 
secolo  a  quella  di  Giovanni  Fasolo,   mi   è  sconosciuta.  Essa 


40  Nifo,  De  anima,  Venezia,    1522,  Collect.  ad  t.  e.   i. 

41  Nifo,  ib.,  comm.  ad  t.  e.   i. 


380        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

ad  ogni  modo  doveva  essere  molto  imperfetta,  sì  da  accrescere 
le  oscurità  che  sono  già  nel  testo  greco.  Il  Nifo  poi  dovette 
affrontare  la  lettura  di  Simplicio  con  l'animo  di  trovarvi  una 
conferma  alle  proprie  idee  sigieriane. 

Egli  stesso  confessa  di  avere  per  lungo  tempo  aderito  alla 
dottrina  di  Averroè  nell'  interpretazione  che  di  questa  dava 
Sigieri  nel  Tractatus  de  intellectu  scritto  in  risposta  al  Tractatus 
de  unitale  intellecUis  di  S.  Tommaso  43.  I  capisaldi  di  questa 
dottrina,  che  il  Nifo  dichiara  d'avere  attinto  al  trattato  di 
Sigieri43,  sono  i  seguenti:  i)  l'intelletto  possibile  è  unico  per 
tutta  la  specie  umana;  2)  esso,  per  attuare  tutta  la  sua  potenza, 
ha  bisogno  di  trovarsi  unito  in  ogni  momento  a  una  moltitu- 
dine d' individui  umani  che  gli  forniscono  le  specie  sensibili, 
senza  delle  quali  esso  niente  può  intendere;  3)  l'unione  tra 
r  intelletto  possibile  e  la  «  cogitativa  »,  che  è  la  più  alta  fa- 
coltà dell'anima  sensitiva,  è  un'unione  sostanziale,  e  non  sem- 
plicemente accidentale,  come  pensavano  altri  averroisti,  sì 
che  può  dirsi  che  l'uno  e  l'altra  son  parti  ond'  è  costituita 
l'anima  razionale  dell'uomo;  4)  l'anima  razionale,  costituita 
dall'unione  della  cogitativa  coli'  intelletto,  che  in  sé  è  unico, 
può  dirsi  veramente  «  forma  informante  »,  e  non  soltanto 
«  assistente  »  dell'uomo,  tale  cioè  che  dà  a  questo  il  suo  essere 
di  animale  ragionevole,  contrariamente  a  quanto  asserivano 
altri  averroisti,  i  quali  sostenevano  che  l'anima  intellettiva 
è  soltanto  forma  assistente. 

Questa  dottrina  sigieriana  è  presentata  dal  Nifo  come 
schietta  farina  del  sacco  averroistico,  senza  che  sia  fatto  il 
nome  di  Sigieri  né  quello  di  Simplicio,  nel  commento  che  il 
suessano  scrisse  a  Padova  sul  dodicesimo  della  Metafìsica 
(ad  t.  e.  17  e  38)  e  nell'esposizione  della  Destructio  destructio- 
num  (disp.  I,  dub.  23;  IV,  7;  XIV,  i,  quaestio  4)  pubblicata 
nel  1497.  Invece  nel  De  intellectu  essa  è  esposta  due  volte: 
nel  lib.  I,  tr.  3,  e.  16,  è  presentata  come  dottrina  di  Simplicio; 
nel  cap.  18,  come  dottrina  di  Sigieri  tendente  a  trovare  una 
via  di  mezzo  «  inter  latinos  et  averroycos  ».  Siccome  m'  è 
già  accaduto  di  richiamare  l'attenzione  sulla  dottrina  che  il 
Nifo  attribuisce  a  Sigieri,  non  è  forse  inutile  che  con  essa  si 
raffronti  questo  riassunto  che  nella  stessa  opera  il  suessano 


43  Cfr.   B.   Nardi,    Sigieri  di  Brab.,   cit.,  p.  14. 

43  I  luoghi  del  Nifo  sono  riuniti  nel  mio  volume  ora  citato,  pp.  13-21. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  ))  381 

ci  ammannisce,  ancora  una  volta,  del  pensiero  di  Simplicio, 
prima  di  averne  conosciuto  il  commento  «in  proprio  fonte»: 

Si  rationales  animae  erunt  plures  et  intellectus  unus,  sic  Sim- 
plicii  erit  positio.  Imaginatur  enim  Simplicius,  ex  intellectu  et 
omnibus  praecedentibus  formis,  in  corpore  humano  praeviis, 
constitui  rationalem  animam,  quae  quidam  est  totum  quoddam 
constituens  in  esse  hominem.  Et  quoniam  cogitativa  seu  sensitiva 
anima  praecedens  est  multiplicata,  procul  dubio  rationalis  anima 
est  numerata  per  corpora.  Quemadmodum  enim  materia  est  una 
privatione  formarum  in  se,  et  tamen  per  formas  partitur  et  fit 
altera  alteraque,  sicut  altera  atque  altera  est  forma;  sic  intellectus 
unus  potentiae  fit  alius  atque  alius,  prout  alteri  atque  alteri  sen- 
sitivae  unitur  secundum  esse;  et  sic  fiunt  plures  animae  ratio- 
nales   secundum    corpora,    licet    intellectus    sit   unus. 

Et  si  dicas  :  —  Ergo  rationalis  anima  est  corruptibilis,  —  con- 
cedunt  rationalem  animam  esse  corruptibilem  totam  ratione 
partis,  quae  est  totum  praecedens  eam  in  corpore  humano;  tamen 
intellectus  in  se  incorruptibilis  est.  Est  enim  una  anima  numero 
unius  hominis:  cuius  una  pars  est  intellectus  incorruptibilis,  et 
altera  pars  est  totum  quod  praecedit,  scilicet  sensitiva  et  vege- 
tativa, quae  est  unum  faciens  cum  intellectu.  Et  sic  totum  id 
est  corruptibile  ratione  praecedentis  partis;  intellectus  autem 
sempiternus.  Et  hoc  sentire  videtur  Aristoteles  12.  Divmornm 
dicens:  «  In  quibusdam  enim  nihil  prohibet;  ut  si  est  anima  tale; 
non  omnis  »,  idest  tota,  «  sed  intellectus;  omnem  namque  impossi- 
bile est  f orsan  » 44.  Ecce  quo  pacto  Aristoteles  dicit  totam  animam 
esse    corruptibilem,    sed    intellectus  permanet. 

Et  si  dicis:  —  Quando  corrumpitur  totum,  ubi  remanet  intel- 
lectus ?  —  dicunt  quidam  quod  remanet  in  se,  sicut  materia: 
quando  enim  generatur  homo,  statim  accipit  intellectum  tanquam 
partem  animae  suae;  et  quando  corrumpitur,  perdit  animam,  licet 
intellectus  remaneat. 

Et  apud  Simplicium  salvatur  multitudo  rationalium  anima- 
rum,  et  quomodo  rationalis  anima  dat  esse  homini,  et  salvatur 
sempiternitas    intellectus.... 

liane  positionem  multi  credunt  esse  mentem  Platonis,  que- 
madmodum Algazel.  Inquit  enim:  «Et  forte  aliquis  diceret, 
quod  opinio  Platonis  est  vera,  quod  anima  est  una  et  antiqua, 
et  dividitur  divisione  corporum;  et  in  corporea  separatione  redit 
ad  suam  radicem  et  unitur  ».  Haec  ille  in  libro  Destructio  destructio- 
nuììi,  dubio  octavo  primae  disputationis.  Ubi  Averroes,  in  so- 
lutione  illius  dubii,  inquit:  «Et  ideo  anima  Petri  et  anima  Gui- 


44  Arist.,  Metaph.,  XII,  t.  e.  17,  e.  3,  io7oa  25-27.  Allo  stesso  modo 
intende  questo  luogo  d'Aristotele  il  Nifo,  In  duodecinmm  Metaphysices 
Arisf.  et  Aver....  ad  Antoniiim  lustinianum  Patritium  Venetiim  (Venetiis.... 
Die  30  lulii  1526;  ma  la  prima  edizione  a  spese  di  Al.  Calcidonio  è  del 
1505),  t.  e.  17.  In  quest'opera  degli  ultimi  anni  del  suo  soggiorno  pado- 
vano,  il   Nifo   è  ancora  s  sieriano,    ma  non  cita   Simplicio. 


382         l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

lelmi  quodammodo  possunt  dici  una  et  eadem,  ut  puta  ex  parte 
formae,  et  sunt  multae  alio  modo,  videlicet  respectu  subiecto- 
rum  ».  Et  ibidem,  in  solutione  dubii  23.  ait:  «  Omnes  communiter 
opinati  sunt,  quod  animae  innovatio  est  relativa,  scilicet  quod 
haec  innovatio  est  eius  adiunctio  cum  corporeis  possibiliter  dictam 
adiunctionem  recipientibus,  eo  modo  quo  praeparationes  et  po- 
testates  speculorum  recipiunt  adiunctionem  solis  radiorum  ». 
Ergo  ex  mente  Averrois  p^ositio  haec  videtur  esse,  et  non  tantum 
Simplicii.  Idem  etiam  sentire  videtur  Averroes  comm.  38.  duo- 
decimi Divinorum.  Inquit  enim:  «Et  ex  hoc  quidem  apparet 
bene,  quod  Aristoteles  opinatur  quod  forma  hominum,  in  eo 
quod  sunt  homines,  non  est  nisi  per  continuationem  eorum  cum 
intellectu,  quod  declaratur  in  libro  De  anima  ».  Ecce  quo  pacto 
piane  positionem  hanc  Simplicii  sentit  Averroes,  occasione  horum 
verborum  et  multorum  aliorum.  Aliqui  credunt  positionem  hanc 
esse  intentionein  Averrois,  scilicet  quod  rationalis  anima  sit 
composita  ex  intellectu  potentiae  et  toto  praecedente,  scilicet 
vegetativo  sensitivoque  :  ex  quibus  terminatur  ac  conficitur  forma 
quaedam  simplex,  quae  actu  est  vegetativa,  sensitiva  ac  ratio- 
nalis; quae  forma  sit  hominis,  secundum  esse  multiplicata  per 
homines  ac  numerata,  licet  intellectus  sit  unus  in  se,  ut  diximus. 

Questo  il  Nife  scriveva  prima  di  conoscere  il  testo  greco  di 
Simplicio;  ma  anche  quando  ebbe  tra  mano  l'esposizione 
simpliciana  del  De  anima  nella  lingua  originale,  e  ne  trasse 
vantaggio  per  recare  a  termine  nel  1519,  insegnante  a  Pisa, 
il  suo  ultimo  commento  sull'opera  d'Aristotele,  stampato 
insieme  ai  Collectanea  nel  1522,  corresse,  sì,  molti  errori  e 
inesattezze  in  cui  era  incorso  nelle  opere  giovanili,  ma  per  quel 
che  si  riferisce  all'interpretazione  della  dottrina  di  Simplicio 
intorno  all'unità  dell'  intelletto  possibile  e  al  modo  di  unirsi 
di  questo  coll'anima  sensitiva,  rimase  fermo  nell'opinione 
che  la  tesi  del  commentatore  greco  fosse  sostanzialmente 
identica  con  quella  d'Averroè45.  E  sebbene  fosse  ormai  tra- 
scorso un  ventennio  da  che  aveva  lasciato  lo  studio  padovano, 
il  ricordo  di  quegli  anni  lontani,  in  cui  gli  pareva  d'aver  tro- 
vato nella  dottrina  di  Sigieri  un  modo  plausibile  di  risolvere 
gli  argomenti  tomistici,  e  di  Sigieri  discuteva  con  Pico  della 
Mirandola,  sembra  ad  un  tratto  ridestarsi,  sebbene  in  modo 
molto  confuso,   nella  sua  mente: 

Simplicius  arbitratus  est  omnium  hominum  intellectum  unum 
numero    esse;    rationales    vero    (animas)    prò    hominum    numero 


45  B.  Nardi,   Sigieri   di  Brab.,  cit.,   pp.  43-44. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  383 

multiplicari.  Non  desunt  qui  positionem  hanc  Avverei  tribuant, 
ut  Rogerius  et  Suggerius  uterque  Bacconitanus,  Thomaeque 
coetanei.  Hi  enim  in  eorum  libellis,  quos  adversus  Thomam  scrip- 
serunt  prò  defensione  Averrois,  non  modo  positionem  hanc  Averroi, 
sed   omnibus  graecis  expositoribus  attribuerunt  46. 

Questo  inestricabile  garbuglio  di  nomi  e  di  idee  era  tutto 
quello  che  il  Nifo,  divenuto  ormai  tomista  a  modo  suo  e  conte 
palatino,  col  privilegio  di  fregiarsi  del  titolo  di  «  Medices  », 
conferitogli  da  Leone  X  nel  1520,  ricordava  del  suo  insegna- 
mento a  Padova;  ma  era  un  ricordo  che  diventava  di  giorno 
in  giorno  più  sbiadito  e  confuso  nel  suo  spirito  abbagliato 
dallo  sfarzo  delle  aule  principesche  e  tutto  preso  dalla  brama 
di  procacciarsi  privilegi  ed  onori,  senza  celare  le  tardive  fiam- 
melle che  accendeva  nel  suo  maturo  cuore  il  seducente  aspetto 
di  qualche  bella  cortigiana. 


3.  -  Anche  quando  il  Nifo  ne  fu  partito,  a  Padova  si  con- 
tinuò per  molto  tempo  a  studiare  il  commento  di  Simplicio 
al  De  anima  e  ad  interpretarne  il  pensiero  in  senso  averroi- 
stico.  Giulio  Castellani  da  Faenza,  che  a  Ferrara  aveva  avuto 
per  maestro  il  bresciano  Vincenzo  Maggi  o  Madio,  alessan- 
drista,  narra47  com'egli  avesse  trovato  il  commento  di  Sim- 
plicio oscuro  ed  involuto  nella  maniera  d'esprimersi,  e  che 
anche  dopo  la  seconda  e  la  terza  lettura  gli  rimanevano  pa- 
recchi dubbi.  Ma  avendo  avuto  occasione  di  recarsi  a  Padova, 
fra  il  1562  e  il  1563,  trovò  in  questa  città  uomini  eminenti 
nello  studio  della  filosofia  e  delle  buone  arti,  che  gli  chiari- 
rono appieno  le  sue  dubbiezze  :  e  Ita  sane  complura  Simplicii 
tenebricosa  dieta  illustrarunt  claraque  et  apertissima  red- 
diderunt  ». 

Quale  idea  il  Castellani  si  fosse  fatta  della  dottrina  di  Sim- 
plicio intorno  alla  mente  umana,  dopo  averne  discusso  coi 
dotti  padovani,  si  può  capire  da  questa  esposizione  che  egli 


46  76.,  p.  44. 

47  luLii  Castellanii,  Faventini,  In  libvos  Aristotelis  de  humano 
intellectii  disputationes  sive  lucidissimi  commentarii  ex  doctrina  chri- 
stianorum  auciorum  ac  philosophorum  antiquoriim  descripti.  Ad  Cosmum 
Medicem  Florentinorum  ac  Senensiuni  ducem.  Venetiis,  MDLXVII. 
Lib.  I,  cap.  2,  fol.  5v-yr. 


384        l'aristotelismo     padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

ne  fa  e  che  giova  conoscere: 

Simplicius  igitur,  atque  ii  qui  illuni  praecipue  sectantur  et 
eius  sententiam  explicant,  humanam  nientem  unani  tantum 
numero  esse  dicunt,  istamque  in  intelligentiarum  ordinem  col- 
locant;  tametsi  eam  longe  omnium  infimam  et  humano  orbi 
assistere  arbitrantur.  Quam  etiam  liomini  nequaquam  dare 
esse  affirmant  (ita  loquuntur  philosophi,  et  saepe  eorum  verbis 
facilioris  doctrinae  gratia  uti  nos  oportebit)  ;  sed  aliud  statuunt 
genus  animae,  quam  Cogitativam  vocant,  a  quo  informatur  homo  : 
ex  Cogitativa  enim  et  corpore  organico,  tanquam  ex  materia 
et  forma,  conflatur  liomo;  ex  mente  et  homine,  tanquam  ex  nauta 
et  navi,  nobilius  quoddam  atque  divinum  compositum  oritur, 
quippe  quod  intellectus  nobilissimam  ac  divinam  tantum  homini 
operationem  praebet. 

Come  già  il  Nifo,  dunque,  anche  questi  maestri  padovani 
del  tempo  del  Castellani,  facevano  risalire  a  Simplicio  la  tesi 
averroistica  dell'unità  dell'  intelletto.  Ma  mentre  il  suessano 
attribuiva  a  Simplicio  la  tesi  sigieriana,  un  tempo  difesa  da 
Paolo  Veneto  e,  piìi  tardi,  da  Alessandro  Achillini,  da  Ti- 
berio Bacilieri  e  da  Geronimo  Taiapietra,  secondo  la  quale 
r  intelletto  unico  s'unisce  alla  «  cogitativa  »  in  modo  da  for- 
mare con  questa  una  sola  anima  individuale  e  razionale  che, 
tutta  intera,  è  forma  dell'uomo  e  dà  a  questo  il  suo  essere 
di  uomo,  i  padovani  cui  accenna  il  faentino  ritenevano,  al 
contrario,  che  l' intelletto  s'unisce  alla  «  cogitativa  »  soltanto 
come  «  forma  assistente  «  e  non  come  «  forma  informante  », 
ossia,  secondo  l'espressione  aristotelica,  «  sicut  nauta    navi  «, 

Continua  poi  il  Castellani,  sviluppando  concetti  accennati 
anche  in  alcune  delle  <(  conclusiones  »,  che  abbiamo  riferito, 
dei  Pico: 

Addunt,  praeterea,  humanum  intellectum  formas  et  rationes 
omnium  rerum  in  se  ipso  possidere,  ut  etiam  aliae  intelligentiae 
obtinent.  Etenim,  arbitrantur  isti,  quaecumque  nostrae  vel 
divinae  mentes  comprehendunt,  ea  tantum  de  causa  intelligere, 
quod  illorum  omnium  ideas  et  rationes  in  se  ipsis  contemplentur. 

Cum  vero  mens  humana  sit  infima  et  ignobilissima  omnium 
intelligentiarum,  hoc  sortita  est  (aiunt  isti)  ut  extra  se  progre- 
diatur,  recedensque  a  substantia  propria  ad  humana  corpora 
labatur:  a  qua  quidem  indignitate  caeterae  omnes  remotae  sunt. 
In  eiusmodi  autem  lapsu,  tametsi  cum  ea  formae  etiam  illae  et 
rationes  progrediuntur,  in  stultitiam  tamen  ac  ignorationem, 
cum  sui  ipsius  cum  omnium  aliarum  rerum,  decidit.  Siquidem  cum 
mole  corporis  opprimatur,   omnem   amittit  perfectionem,   et  na- 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  385 

turam  potestatis  assumit,  fitque  tabellae  non  scriptae  consimilis, 
Quae  nihilominus  iterum  consequi  amissam  nobilitatem  appetit: 
sed  eain  non  recuperai,  nisi  cum  in  rationes  illas,  quae  in  ipsa 
existunt,  conversa  fuerit  et  acquisierit  habitum,  propter  quem 
mens  deinde  seu  intellectus  in  habitu  vocatur. 

Duobus  enim  modis  volunt  intellectum  nostrum  nobiscum 
copulari:  priori  sane,  quando  in  ortu  quamprimum  cogitativa 
introducta  fuerit,  cum  nobis  pueris  iungitur,  et  est  similis  nautae 
qui  ingressus  est  navem  sed  nondum  operatur;  altero  vero  modo 
nobiscum  coniungitur,  cum  et  contemplandi  et  agendi  habitus 
consecutus  fuerit.  Verum  hos  habitus  dum  ille  assequi  et  in  pri- 
stinam  reverti  perfectionem  contendit,  indiget  phantasmatibus 
(phantasmata  enim  appellant  philosophi  rerum  imagines  et 
simulacra  quae  a  sensibus  imprimuntur  in  phantasia),  non  quidem 
ut  ab  ilHs  species  recipiat  illaque  intelHgat  (absurdum  enim  putant, 
si  intellectus  aeternus  a  phantasmate  caduco  perficiatur),  verum 
ut  ab  eis  occasionem  sumat  contemplandi  formas  quae  in  ipso 
resident  unaque  cum  eo  progressae  sunt.  Atque  eiusmodi  quidem 
ratione  intellectus,  antequam  perfectionem  suam  adeptus  sit, 
utitur  phantasia;  cum  autem  perfectus  fuerit,  nulla  amplius 
ope  phantasiae  indiget,  sed  eum  ex  se  ipso  intelligentem  phan- 
tasia insequitur,  perinde  ac  orbis  sequitur  intelligentiam  quae 
illum  sub  ratione   finis  movet. 

Così  gli  averroisti  che  si  dissero  anche  «  simpliciani  »  finirono 
per  accogliere  una  dottrina  del  conoscere  schiettamente  pla- 
tonica o,  se  vogliamo,  neoplatonica,  che  coll'averroismo  me- 
dievale non  ha  più  nulla  che  fare.  Anche  in  questo  Pico  della 
Mirandola  è  stato  maestro  a  questi  averroisti  padovani. 

Da  questa  dottrina  gnoseologica  dipende  quanto  riferisce 
ancora  il  Castellani: 

Ad  haec  asserunt  isti  intellectum  nostrum,  quamquam  est 
unus  tantum  secundum  rem,  tria  tamen  sortiri  nomina  et  ra- 
tiones: tres  enim  in  nomine  reperiuntur  intellectus,  non  quidem 
re,   sed  tantum  ratione  differentes. 

Primus  dicitur  potestate  intellectus,  et  ille  est  qui  extra  se 
progressus  est,  et  a.  propria  substantia  procul  abest,  nec  potest 
absque  labore  et  sine  occasione  phantasmatum  intelligere.  Se- 
cundus  est  intellectus  in  habitu,  vel  intellectus  secundum  actum, 
ut  vocat  Aristoteles,  qui  velut  sciens  homo  evasit,  et  formas 
atque  rationes,  quae  in  eo  sunt,  quotiescunque  velit,  ex  se  ipso 
contemplandi  vim  habet.  Tertium  agentem  vocant,  quem  dicunt 
esse  vim  huius  intelligentiae  praestantiorem,  quippe  qui  extra 
non  labitur,  sed  in  se  ipso  manet,  et  omnes  in  se  rationes  ac 
ideas  retinet,  quo,  sumpta  a  phantasmatibus  occasione,  eas 
reponere    valeat  in   intellectum   potestate. 

Quamobrem  addunt  isti,  cum  hic  intellectus  agens,  non  solum 

25 


386        l'aristotelismo    padovano    dal    SF.COLO    XIV    AL    XVI 

intelligibiles  formas  illuminet,  sed  eas  etiam  in  potestate  intellec- 
tum  recondat,  praeterea  cum  in  ilio  impetu,  qui  extra  fit,  seiiinctus- 
quodam  modo  sit  ab  eiusmodi  formis,  simulque  iisdem  progre- 
dientibus  colligatus,  perbelle  eum  simul  tanquam  artem,  et  rursus- 
tanquam  habitum  ac  lumen  tacere  Aristoteles  tradidit.  Siquidera 
ars  ab  eis  quae  efficit  separatur;  lumen  vero  abiis  quae  illustrantur, 
et  habitus  ab  iis  quae  habitum  possident,  minime  seiungi  videntur.. 
Eiusmodi  vero  intellectus  agens  est  alterius  intellectus,  qui  po- 
testate dicitur,  habitus  et  perfectio;  etenim,  cum  huic  veluti 
forma  copulatur,  ex  utroque  fit  intelligentia  semper  actu  intel- 
ligens,  tuncque  homo  beatitudinem  illam  et  felicitatem  adeptus- 
est,   qua  postrema  et  maxiina  frui  possit. 

Qual  era  pertanto  la  posizione  dei  simpliciani  nella  contro- 
versia suir  immortalità  dell'anima  allora  dibattutis^ima,  dopo 
la  comparsa  del  trattato  del  Pomponazzi  ?  Anche  di  questo 
argomento   tocca  il   Castellani: 

Tandem  isti  eo  moti  fundamento,  quo  firmatum  est,  omne 
quod  ortum  habet  necessario  quoque  ad  interitum  venire,  aiunt 
hos  tres  intellectus,  de  quibus  supra  locuti  sumus,  in  homine  re- 
stingui.  Humanus  quidem  intellectus,  ea  ratione  qua  intelligentia 
est,  et  secundum  substantiam  propriam  ac  simpliciter  (ut  utar 
eorum  verbis)  incorruptibilis  et  aeternus  est;  secundum  quid 
autem  et  ea  nomina  quae  iam  illi  sunt  attributa  in  singularibus 
hominibus,  destruitur:  siquidem  intellectus  quatenus  possibilis, 
quatenus  habitu,  quatenus  agens  dicitur,  interit,  quoniam  qua- 
tenus possibilis,  quatenus  in  habitu,  quatenus  agens,  in  nobis 
etiam    gignitur. 

Questa,  conclude  il  faentino,  era  l'opinione  di  Simplicio- 
e  dei  suoi  seguaci,  i  quali  la  ritenevano  presso  che  identica 
a  quella  di  Averroè: 

Haec  est  Simplicii  et  eius  sectatorum  opinio,  cuius  capita,  faci- 
lius  et  clarius  quam  fieri  potuit,  recensuimus,  cum  saepe  ipsiusmet 
Simplicii  et  sectatorum  verbis  uti  nos  oportuerit.  Hanc  etiam 
eandem  prope  esse  cum  Averrois  sententia,  inquiunt  simpliciani. 

I  simpliciani  di  Padova  coi  quali  ebbe  a  intrattenersi  Giulio 
Castellani  erano  senza  dubbio  gli  scolari  di  Marc'Antonio 
Passero  o  de'  Passeri,  detto  comunemente  il  Genua  (Genoa, 
Genova,  Zenoa,  Janna),  se  pure  egli  non  fece  in  tempo  a  co- 
noscere questo  maestro  venuto  a  morte  più  che  settantenne, 
nel  1563,  tra  il  comune  rimpianto  di  numerosi  allievi  che  ne 
ricordavano   la   singolare   perizia   nell'  interpretare   Aristotele 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL     (  DE    ANIMA  »  387 

e  ne  levavano  alle  stelle,  anche  in  versi,  il  nome  oggi  presso  che 
sconosciuto  48. 

Figlio  di  Nicolò  Genua,  che,  addottorato  in  artibus  a  Pa- 
dova il  13  nov.  1475,  e  in  medicina  il  6  ott.  1500,  era  stato 
collegiato  ed  aveva  pure  insegnato  arti  e  dipoi  medicina  nel 
patrio  Studio,  Marc' Antonio  s'addottorò  anch'egli  in  artibus 
et  medicina  fra  il  1511-12  e  iniziò  la  sua  carriera  nel  1517, 
reggendo  la  seconda  scuola  di  filosofia  straordinaria.  Nel 
15 18,  passò  alla  prima  cattedra  di  filosofia  straordinaria; 
nel  1523,  alla  seconda  cattedra  di  filosofia  ordinaria,  e  nel  1525 
si  trovò  ad  esser  concorrente  di  M.  A.  Zimara;  ma  nel  1531 
lasciò  questa  cattedra  a  Vincenzo  Maggi,  per  salire  sulla  prima, 
che  occupò  con  gran  fama  e  frequenza  di  alunni  fino  alla  sua 
morte  49.  Il  suo  commento  In  tres  libros  Aristotelis  de  anima  vide 
la  luce  postumo  nel  1576,  a  cura  di  Giacomo  Fratelli  e  di  Gian- 
carlo Saraceno,  che  usarono  del  manoscritto  posseduto  dalla 
figlia  del  filosofo,  donna  Laura,  e  dal  marito  di  questa,  Gi- 
rolamo Dotti,  e  si  giovarono  dell'aiuto  del  canonico  Daulo 
Dotti  fratello  di  Girolamo  S".  L'edizione  fu  dedicata  al  conte 
Giacomo  Zabarella,  che  era  stato  discepolo  del  Genua,  e  in 


48  Glottochrysii  Petri  Fidentii  Iunctaei  Montagnanensis,  Ad  M. 
Antonium  Genuam  philosophum  Patavinum  undeqitaque  doctissiinum 
Carmen  panegyriciini.  Venetiis,  MDXLVII.  Anche  l'umanista  Paolo  Ma- 
nuzio {Epistolarum  libri  XII,  Venetiis,  MDLXXXVIII,  Lib.  IV,  5, 
p.  182)  cosi  scrive  a  Vincenzo  Pinelli,  allievo  del  Genua:  «  In  philosophia 
quidem,  cum  operam  des  M.  Antonio  Genuae,  cui  veterum  doctri- 
narum  arcana  patent,  quo  nemo  peritior  Aristotelis  interpres,  nemo  vir 
melior  usquam  vivit,   nihil  mediocre  neque  nos  a  te    expectamus  ». 

49  G.  Vedova,  Biografia  degli  scrittori  padovani.  Voi.  I,  Padova, 
1832,  pp.   451-460. 

50  Marci  Antonii  Passeri,  cognomento  Genuae,  Patavini  philoso- 
phi  sua  tempestate  facile  principis  et  in  Academia  Patavina  philosophiae 
publici  professoris,  In  tres  libros  Aristotelis  de  Anima  exactissimi  com- 
mentarii,  Jacobi  Pratelli,  Monteflorensis  medici  et  Joannis  Caroli 
Saraceni  diligentia  recogniti  et  repurgati.  Venetiis,  apud  Damianum 
Zenarum  et  socios,  1576.  Gian  Carlo  Saraceno,  nella  presentazione  del- 
l'opera al  lettore,  nel  tessere  le  lodi  del  Genua,  accenna  perfino  ad 
un'origine  leggendaria  della  famiglia  Passeri  che  si  pretendeva  traesse 
origine,  nientemeno,  «  ex  illustri  Passerinorum  familia,  qui  Mantuae  et 
Mutinae  ohm  imperaverunt,  postea  eiecti  Genuam  sese  receperunt, 
demum  Patavium  commigraverunt  ».  Lo  stesso  Saraceno  sbozza  del 
filosofo  questo  ritratto:  «  Ipse  formosissimo  corpore,  procera  statura, 
venustissima  facie  et  vivacissimis  oculis  ingenii  acumen  praeseferen- 
tibus  naturae  benignitate  fuit  insignitus.  Ipse  in  Aristotele  publice 
e.xplanando,  in  Averroe  interpretando,  in  Simplicio  dilucidando,  postre- 
moque   in   Peripateticorum   placitis   exponendis,   eam   gloriam   quadra- 


388        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

quell'anno  copriva  la  seconda  cattedra  di  filosofia  straordi- 
naria nello  studio  padovano.  Due  redazioni  alquanto  diverse, 
ma  sostanzialmente  concordi  nel  pensiero,  ho  potuto  vedere 
nei  codici  Vat.  lat.  4704-4707.  I  primi  due  numeri  contengono 
ognuno  il  commento  al  primo  e  al  secondo  libro  del  De  anima, 
riportato  da  Gian  Paolo  Pernumia,  «  legente  Excellentissimo 
Genua,  Aristotelis  Aesculapio  »,  senza  data  dell'anno.  Il 
numero  4706  è  il  commento  al  terzo  libro,  in  73  lezioni  te- 
nute nell'anno  scolastico  1543-1544.  Il  numero  4707  è  pari- 
mente un  commento  al  terzo  libro  in  104  lezioni,  senza  indi- 
cazione dell'anno  in   cui  furon  tenute  51. 

Il  commento  del  Genua  al  De  anima  è  uno  dei  più  notevoli 
del  Rinascimento,  per  ricchezza  d' informazioni  e  per  l'uso 
che  vi  si  fa  del  commento  di  Simplicio,  nell'  intento  di  mo- 
strarne l'accordo  sostanziale  con  la  dottrina  averroistica. 
Va  tenuto  presente  intanto  che  nel  1527  l'opera  di  Simplicio 
veniva  stampata  in  greco  a  Venezia  in  edizione  aldina,  e  che 
lo  stesso  anno  usciva,  a  spese  degli  eredi  di  Ottaviano  Scoto, 
una  nuova  edizione  delle  Paraphrases  di  Temistio,  tradotte  da 
Ermolao  Barbaro,  coi  margini  arricchiti  di  copiose  note  ap- 
poste «  ab  Excellentissimo  quodam  philosopho  »,  nelle  quali 
il  pensiero  di  Temistio  intorno  al  De  anima  è  chiarito  con  con- 
tinui richiami  a  Filopono  e  specialmente  a  Simplicio.  Sì  che 
possiamo  considerare  l'opera  di  quest'ultimo,  ormai  facil- 
mente accessibile  agli  studiosi,  di  dominio  pubblico. 

E  uno  dei  primi  a  procurarsela  dovette  essere  certamente 
il  Genua.  Il  quale,  polemizzando  col  Nifo,  ne  rileva  i  frequenti 
fraintendimenti,  fino  ad  esprimere  su  di  lui  questo  grave  ap- 


ginta  annorum  spatio  Patavio  obtinuit,  quae  raro  admodum  et  per- 
quam  paucis  concessa  fuit  ».  M.  A.  Genua  morì  a  Padova  nel  1563,  e 
fu  sepolto  nella  tomba  paterna  a  S.  Giovanni  in  Verdora  che,  dopo  la 
soppressione  del  monastero,  fu  trasferita  nel  secondo  chiostro  del  Santo, 
insieme  a  quelle  del  Calfurnio,  del  Robortello  e  di  Lazzaro  Bonamico, 
le   quali  hanno   la  stessa  provenienza. 

51  L'appellativo  di  «  Esculapio  d'Aristotele  »  è  dato  al  Genua  an- 
che neir  incipit  e  neìVexplicit  dei  tre  codici  Vat.  lat.  4704,  4705,  4706.  Il 
medico  e  filosofo  piemontese  Antonio  Berga,  il  quale  era  stato  discepolo 
del  Genua  a  Padova,  ne  stampò  in  un  piccolo  libretto  la  discussione 
suir  immortalità  dell'anima  cui  aveva  assistito,  e  che  nel  cod.  Vat.  lat. 
4706  occupa  le  lezioni  LXV  (f.  22ir)  -  LXXIII  (f.  224V),  mentre  nel  Vat. 
lat.  4707  prende  le  lezioni  XCVII  (p.  427)-CIV  (p.  488)  :  Disputatio  de 
intellectus  immani  immortalitate  ex  dissertationibus  Marci  Antoni!  Ge- 
NUAE,  Patavini  peripatetici  insignis.  In  Monte  Regali.  Excudebat  Leo- 
nardus   Torrentinus.   M.D.LXV. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL     "  DE    ANIMA  »  389 

prezzamento  Si  :  «Doctor  iste,  in  cognoscenda  opinione  Sim- 
plicii,  caligai  in  sole  !  ».  Il  suessano,  come  sappiamo,  attri- 
buiva al  commentatore  neoplatonico  la  tesi  sigieriana,  che 
l'anima  razionale,  risultante  dall'unione  dell'  intelletto  alla 
«  cogitativa  »,  è  forma  informante  e  costituente  dell'uomo. 
Per  il  filosofo  padovano,  al  contrario,  «  anima  intellectiva  non 
est  perfectio  corporis  ut  aliae  formae  materiales,  sed  assi- 
stens  et  ut  nauta  navi...;  intellectus  humanus  assistit  homini 
ut  intelligentia  orbi» 53.  Non  forma  dunque  informante,  ma 
assistente,  è  l' intelletto,  il  quale  s'unisce  all'anima  cogita- 
tiva che  sola  è  la  vera  forma  informante  del  corpo  umano. 
Su  questo  concetto  il  Genua  torna  spesso: 

Nos  vero,  tenentes  quod  intellectus  sit  actus  ut  nauta,  cum 
aliis  graecis,  notamus  intelligentiam  humanam  ultimam  esse 
intelligentiarum  omnium,  eaque  ratione  omnium  imperfectis- 
simam,  ut  Averroes  [dicit]  ;  eaque  ratione,  qua  intelligentia  est, 
habet  suum  orbem,  qui  humana  sphaera  est;  ratione  qua  imper- 
fectissima,  habet  quinetiam  sphaeram  illam  imperfectissimam, 
quae  per  successionem  in  esse  perpetuo  salvatur...;  et  perinde 
in  homine  est  ut  intelligentia  in  orbe,  scilicet  cuilibet  particolae 
assistens  et  intrinsecus  existens,  non  tamen  semper  actu  operans 
ut    intelligentia  54. 

Sententia  Averrois  fuit,  quod  intellectus  humanus  hominibus 
assisteret,  sive  humanae  naturae,  tanquam  sphaerae  sibi  propriae: 
et,  cum  natura  illa  in  individuis  duntaxat  reperiatur  humanis, 
consequenter  in  illis  assistens  erit  intellectus,  ut  colligitur  in 
commento  5.  CoroUarie  sequitur,  quod  intelligentia  ista  a  se  ipsa. 


52  Genua,  In  tres  libros  Arisi,  de  anima,  III,  ad  t.  e.  18,  f.  155,  3. 
Anche  altrove  il  Genua  così  parla  del  Nife  :  «  At  mea  quidem  sententia, 
doctor  iste  non  intellexit  Simphcium  »  (III,  ad  t.  e.  26,  fol.  167,  2); 
«  Suessanus  secundum  SimpHciuin  introducens,  de  more  ipsum  non  in- 
telligens,  inquit....  At  bonus  iste  philosophus  non  cognovit  quae  dieta 
sint  a  Simplicio  »  [Ib.,  ad  t.  e.  27,  f.  168,  1):  «  Unde  bonus  iste  doctor 
non  bene  accepit  Simplicium  »  (Ih.,  ad  t.  e.  36,  f.  176,  2).  Parimente 
Federico  Pendasio,  del  quale  sarà  parlato  più  oltre,  interdiceva  ai  suoi 
alunni  l'esposizione  del  Suessano,  perché  costui,  diceva  il  Pendasio, 
«  nihil  prorsus  meo  iudicio,  intellexit  quantum  spectat  ad  intelligendum 
Simplicium  et  veterum  sententias  »  (//;  ìibrum  jum  de  anima,  cod.  della 
Biblioteca  Universitaria  di  Padova,  n.  1264,  lez.  VII,  p.  272).  Più  grave 
è  il  giudizio  che  sul  Nifo  pronunzia  Giulio  Castellani,  0.  e,  i.  iv,  perché 
non  riguarda  1'  incapacità  del  Suessano  a  intender  Simplicio,  ma  investe 
tutta  intera  la  sua  personalità  di  pensatore:  «  Augustinus  etiam  Sues- 
sanus, vir  magis  sua  aetate  Celebris  quam  constans  philosophus,  longis- 

simis  verbis  nec  semel  eandem  causam  egit Cuius  quidem  viri  scripta 

ut   non   contempsi,   ita   etiam   nunquam   valde   probavi  ». 

53  Genua,  I,  ad  t.  e.   16,  f.  25,   i. 

54  Genua,  II,  ad  t.  e.   11,  f.  37,   2. 


390        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

ut  intelligentia  est,  perfectione  aliqua  distet,  et  discatur  se 
ipsa  progrediens,  ut  Siniplicius  et  ipse  innuit  in  prologo  huius  55. 
Fuit  sententia  Averrois  quod  intellectus  possibilis  per  assi- 
stentiam  eo  modo  uniretur  homini,  quomodo  intelligentia  unitur 
orbi,  unione  scilicet  naturali;  quae  quidem  in  priori  natura  est 
principium  intrinsecum  assistens  5^. 

L' insistenza  su  questo  concetto  che  l'unione  dell'  intelletto 
all'uomo  è  analoga  a  quella  dell'  intelligenza  motrice  alla  sua 
sfera,  più  intima  dell'unione  del  nocchiero  con  la  nave,  deriva 
dalla  distinzione  fatta  da  Averroè57  e  da  Sigieri  di  Brabante5S, 
ed  accolta  anche  da  Enrico  Bate  da  Malines59,  nello  Speculuni 
divinonim  et  quorumdam  naturalium  opera  che  Pico  della  Mi- 
randola il  6  marzo  1487  otteneva  in  prestito  dalla  Biblioteca 
Vaticana  e  ne  faceva  poi  trarre  la  copia  che  figura  nella  sua 
biblioteca  60.  Vi  sono  forme,  dicevano  Averroè  e  Sigieri,  che 
costituiscono  gli  esseri  materiali  e  son  costituite  dalla  materia 
nella  quale  sono  immerse,  e  ve  ne  sono  di  quelle  che  costi- 
tuiscono ma  in  sé  non  sono  costituite.  Di  questa  seconda 
specie  sono  appunto  le  intelligenze  motrici  dei  cieli  e  l' intel- 
letto umano.  A  siffatta  distinzione  si  appiglia  anche  il  Genua: 

Notanda  est  distinctio  de  forma:  quaedam  dicitur  forma  quia 
dat  esse  specifìcum;  dicitur  etiam  forma  quae  assistit  formato, 
et  est  in  formato  intrinsecum  principium  operationis;  et  tale 
non  distinguitur  a  corpore  loco  et  subiecto....  Vel,  secundum 
Averroem,  dicendum:  datur  forma  constituta  in  esse  per  su- 
biectum,  et  datur  non  constituta,  primo  cap.  De  substantia  orbis, 
octavo  Physicorum,  52,  primo  Physicorum,  63.  Intellectiva  est 
non  constituta.  Sed  dubium  est,  utrum  subiectum  constituatur 
per  ipsam.  Dicendum  quod  non  unitur  corpori  secundum  esse 
specifìcum,    sed   illi   dat   esse   nobile  ^i. 


55  Genua,  III,  ad  t.  e.  2,  f.   128,  2. 

56  Genua,  III,  ad  t.  e.   2,  f.   132,  4. 

57  AvERR.,  De  substantia  orbis  cuni  Joannis  Gandavensis  exposi- 
tione.  Venetiis,  ap.  haeredem  Hier.  Scoti.  MDLXXXVIII.  Cap.  I, 
f.  83,  1-2;  cfr.  dello  stesso  Averr.,  De  coelo,  II,  comm.  3;  Phys.,  I, 
comm.  63,  Vili,  comm.  52. 

5^  Cfr.  B.  Nardi,  Sig.  di  Brab.  nel  pens.  del  Rinasc,  pp.  15,  41, 
100-102. 

59  Ib.,  pp.    175-177. 

^°  Pearl  Kibre,  The  library  of  Pico  d.  Mirandola,  cit.,  p.  200,  n.  603; 
G.  Mercati,  Codici  latini  Pico  Grimani  Pio.  Città  del  Vaticano,  1938, 
P-  53.  nota  4;  Maria  Bertòla,  I  due  primi  registri  di  prestito  della  Bi- 
blioteca Apostolica  Vaticana.  Codici  latini  3964  e  3966.  Città  del  Vaticano, 
1942,  p.   80,   nota  2. 

61  Genua,   0.  e,   III,   ad  t.   e.   2,  f.    132,  3. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  391 

Sciendum  quod  ex  eo  quod  Socrates  dicitur  compositum  ex  cor- 
pore  et  anima,  cogitativa  non  dicitur  formaliter  intelligere;  sed 
ut  fit  unum  ex  intellectu  et  tali  composito.  Nam  intellectus, 
ut  incorporeus,  loco  et  subiecto  a  Socrate  cogitante  distinctus 
non  est,  cum  naturaliter  inclinetur  et  moveatur  ad  similitudiiiem 
rei  cognoscendae  ex  speciebus  existentibus  in  anima  cogitativa: 
et  sic  est  intrinsecum  operans  et  homini  appropriatum^^;  quare 
ubi  cogitativa  ibi  intellectus  humanus,  et  e  converso ^3.  Non  se- 
quitur:  «  itaque  per  accidens  »  [che  era  l'obiezione  del  Nifo  d'ac- 
cordo con  S.  Tommaso];  et  quamvis  sit  extra  formam  specificam 
[che  è  la  cogitativa],  habet  tamen  ad  illam  a  natura  essentialem 
habitudinem,  quam  habet  et  intelligentia  ad  orbem  64. 

Questo  intelletto,  considerato  in  se  stesso,  non  può  essere 
che  uno  solo  per  tutta  la  specie  umana,  secondo  il  pensiero 
d'Averroè,  d'accordo  in  questo  con  tutti  i  commentatori 
greci,  fatta  eccezione  d'Alessandro.  E  con  Averroè  è  d'accordo 
anche   Simplicio  : 

Eandem  sententiam  voluit  Simplicius  in  prologo  huius  tertii, 
cum  dicat:  «  Una  enim  existit  anima  nostra  rationalis;  dico  quae 
simul  manet,  et  plurificatur  in  eo  quod  ad  corpus  vergit,  non  pure 
manens  neque  penitus  distans,  sed  partim  manens,  partim  a  se 
ipsa  progressa  «65. 

Affermata  l'unità  dell'  intelletto,  sembra  al  Genua  d'aver 
trovato  nel  concetto  neoplatonico  della  «  progressione  »,  sul 
quale  tante  volte  Simplicio  ritorna,  la  soluzione  del  più  arduo 
problema  averroistico,  come  l' intelletto,  unico  in  sé,  s' indi- 
vidualizzi nel  singolo,  senza  perdere  la  sua  universalità: 


62  Questa  tipica  frase  è  di  Sigieri,  Quaestiones  de  anima  intellectiva, 
III  (ed.  Mandonnet,  Siger  de  Brabant  et  l'averroisme  latin  au  XlIIe 
siede,  lime  partie.  Louvain,  1908,  pp.  154-156).  Dallo  scritto  di  Sigieri 
l'aveva  presa  e  fatta  sua  Giovanni  di  Jandun,  Super  lihros  Arist.  de 
anima,   III,   q.   5. 

63  Anche  questo  concetto  è  attribuito  dal  Nifo,  De  intellectu,  l,  tr.  3, 
•e.  18,  a  Sigieri:  «Et  addit  (Subgerius,  contemporaneus  Thome,  in 
quodam  tractatu  misso  Thome  in  responsione  ad  illum  Thome):  ,,  nec 
potest  intellectus  informare  materiam,  non  informante  cogitativa....  Nec 
potest  cogitativa  informare  materiam,  non  informante  intellectu  "  ». 
•Cfr.  B.  Nardi,   Sigieri  di  Brah.,  cit.,  p.   18. 

64  Genua,  III,  ad  t.  e.  5,  f.   138,  3. 

65  Genua,  III,  ad  t.  e.  5,  f.  139,  3;  cfr.  Simplicio,  In  libros  Arist. 
de  anima,  ed.  Hayduck,  pp.  223,  28-31;  Jac.  Zabarella,  De  mente 
Jiumana  (inserito  nel  commento  dello  stesso  autore  al  De  anima,  Pa- 
dova,  1605,  lib.   II,  dopo  il  t.  e.   Il),  e.   IO. 


392        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Dicendum  itaque  secundum  divinam  Simplicii  introductionem, 
quod  cum  intellectus,  qui  a  propria  perfectione  elapsus  est,  ad 
sensus  conversus  sit,  ncque  formas  illas  intellectuales  habet  ut  ma- 
nens,  susceptivus  tamen  illarum  esse  dicitur;  non  autem  ut  potentia 
talis;  quare  per  species  a  sensibus  acceptas  quodammodo  dispo- 
situs  et  habitu  redditus  talis;  nam  species  tales  sunt  veluti  extrema 
vestigia  formarum  illarum,  quae  vere  sunt  intellectuales.  Quare 
ab  istis  aliquo  modo  ascendens,  excitatus  ad  inquisitionem  ve- 
rarum  formarum,  ab  ea  substantia  animae  quae  manet,  sive 
virtute  counitus,  perficitur  denique  per  eas  quae  in  ipso  manent 
formas,  atque  ab  unita  sibi  intellectione.  Hoc  autem  fìt  partim 
aliunde,  imo  ab  alteris  manentibus;  partim  a  seipso;  quoniam 
unus  quodam  modo  est  ipse,  qui  manet  et  progreditur.  At  per- 
fectio  quae  est  in  ipso  egresso,  non  est  eadem  cum  ea  quae  in 
ipso  manet;  sed  secundum  habitum  dicitur;  habitus  autem  est 
circa   substantiam,   non   autem   substantia  est  ^6. 

Quapropter  notandum,  ex  divina  Simplicii  expositione,  quod 
anima  quae  progreditur  ad  secundas  vitas  ^7,  non  manet  penitus 
ab  illis  separata,  sed  connectitur  illis;  et  sic  habitui  et  lumini 
assimilatur ;  et  prius  arti 68....  Comparatur  intellectus  arti,  habitui 
et  lumini.  Sicut  ars  suas  in  se  virtute  formas  arte  illa  factorum 
tenet,  easdem  in  materia  disposita  producit;  sic  et  activus  in- 
tellectus quas  in  se  tenet  ideas,  quae  formae  materiales  sunt  vir- 
tute, in  passivum  intellectum  formaliter  cum  materia  atque 
accidentibus  illam  consequentibus  in  communi  producit,  simul 
agens  cum  ideis  et  progrediendo  perfìciens  ad  has  secundas  vitas. 
Comparatur  etiam  habitui,  quia  manens  intellectus  ille,  ideis, 
veluti  habitui  cuidam  perfectissimo,  similis  est;  secundum  quem 
sensum  forte  nominavit  Themistius  speculativum  intellectum 
aeternum.  Comparatur  et  lumini,  ut,  sicuti  lumen  colores  in 
tenebris  existentes,  eaque  ratione  invisibiles,  actu  visibiles  reddit, 
et  visum  illustrat  ut  videat,  sic  et  activus  intellectus  progressas 
ideas,  cum  intellectu  latitantes,  illustrat  simul  et  intelligibiles 
reddit....  Postremo  concludit  Simplicius  quod  similitudo  stat 
in  hoc:  ut  lux  actu  existentes  colores,  potentia  tamen  visibiles, 
reddit  actu  visibiles,  sic  et  qui  actu  formas  perfìcit,  quae  passivo 
intellectui  cognoscibiles  sunt,  ita  ut  non  dicatur  potentia  in  in- 
tellectu formas  illas  esse,  ut  nullo  modo  sint,  sed  tanquam  exi- 
stentia  quidem,   non  cognita  autem  69. 


66  Genua,   III,  ad  t.  e.   8,  f.    144,   3. 

67  AeuTsrpaL  ^wai  chiama  Simplicio  fp.  4,  2;  28,  27;  142,  2)  la  (puTix-f] 
e  la  aìo-9-/]Tixy]  ^w/),  che  chiama  pure  C^ocl  csoyLocuoeiSzTq  (p.  218,  34; 
243,  17)  o  anche  ^toat  àzoipiaTOi  (p.  16,  5;  77,  19;  78,  32),  in  contrap- 
posizione coll'anima  e  la  vita  razionale  (XoyixT]  e  voepà  ^cor)). 

68  Simplicio,  p.  242,  20  sgg. 

69  Genua,  III,  ad  t.  e.  18,  f.  155,  3;  cfr.  Simplicio,  p.  242,  39 
sgg.;  311,  18-21.  Si  veda,  indietro  (p.  374),  l'ottava  delle  «  concliisiones  » 
di  Pico  della  Mirandola   «  secundum   Simplicium  ». 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  393 

In  questa  irpò?  tò  acojxa  poizTj,  r  intelletto  puro  che  porta  con 
sé  r  immagine  del  mondo  ideale,  s' individualizza  al  contatto 
delle  «  seconde  vite  corporee  «,  cioè  della  vita  vegetativa  e 
sensitiva.  Ma  in  questo  individualizzarsi  perde  gran  parte 
della  sua  originaria  perfezione,  offuscato  dalla  caligine  dei 
sensi.  Nella  sua  purità  esso  è  pensiero  in  atto  congiunto  colla 
«  mente  al  di  sopra  dell'anima  »,  e  il  pensare  è  la  sua  stessa 
sostanza,  sì  che  non  pensa  «  ora  sì  ora  no  »,  ma  è  pensiero 
eterno,  come  quello  della  mente  di  cui  partecipa.  Al  contatto 
invece  delle  «  seconde  vite  corporee  »,  diventa  intelletto  po- 
tenziale o  passivo,  né  può  ridestarsi  dal  torpore  in  cui  è  caduto 
se  non  è  aiutato  dai  fantasmi  della  sensibilità.  Quindi  il  pro- 
cesso conoscitivo  è  un'ascesa  che  comincia  aristotelicamente 
dai  sensi,  ma  si  compie  platonicamente  colla  liberazione  dalla 
sensibilità  e  col  ritorno  alla  contemplazione  del  mondo 
intelligibile.  Nel  qual  ritorno  alla  conoscenza  dei  puri  intelli- 
gibih,  separati  da  ogni  rapporto  colla  materia,  senza  alcun 
bisogno  di  sensibili  immagini,  consiste,  sì  per  gli  averroisti 
come  pei  platonici,  la  suprema  perfezione  e  la  beatitudine 
dell'  intelligenza.  In  tal  modo  il  Genua,  come  prima  di  lui  il 
Pico,  ritrovava  nell'averroismo  i  fondamentali  motivi  del 
platonismo,  e  preparava  la  risoluzione  di  quello,  ormai  vi- 
cino al  tramonto,  in  questo  che  risorgeva  esuberante  di  nuova 
vitalità. 

Il  commento  del  Genua  al  terzo  libro  del  De  anima  si  chiude 
con  una  lunga  e  nutrita  discussione  intorno  a  quella  che  può 
ben  dirsi  la  questione  filosofica  più  dibattuta  nel  secolo  XVI, 
concernente  l' immortalità  dell'anima.  La  storia  di  questa 
grande  controversia  ci  è  narrata,  quanto  alle  sue  origini  e  ai 
suoi  primi  sviluppi,  da  Francesco  Fiorentino  nel  suo  libro  su 
Pietro  Pomponazzi,  e  dal  Padre  M.  H.  Laurent  nella  dotta 
introduzione  alla  ristampa  del  commento  del  Cardinal  Gae- 
tano al  De  anima  d'Aristotele.  Ma  è  una  storia  incompleta, 
poiché  ne  restano  esclusi  troppi  di  coloro  che  presero  parte  alla 
polemica,  la  quale  in  certi  momenti  assunse  toni  altamente 
patetici.  Il  Genua,  per  esempio,  rimase  totalmente  scono- 
sciuto al  Fiorentino,  che,  incappato  una  volta  nel  nome  di 
questo  filosofo,  mostra  di  non  sapere  neppure  chi  fosse. 

Ora  la  discussione  che  il  Genua  intraprende  dello  scabroso 
argomento  è  una  delle  più  animate  e  sottili.  Tanto  nella  reda- 
zione stampata  nel  1576,  cui  precede  la  stampa  isolata  che  di 


394        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

questa  disputatio  preparò  nel  1565  Antonio  Berga,  quanto 
nelle  due  redazioni  manoscritte  della  Biblioteca  Vaticana, 
essa  è  una  serrata  critica  della  tesi  alessandrista  del  Pompo- 
nazzi,  alla  quale  il  Genua  oppone  la  dottrina  di  Temistio,  di 
Simplicio  e  d'Averroè.  Secondo  questi  filosofi  i  quali  preten- 
dono di  derivare  il  loro  pensiero  da  Teofrasto,  discepolo  im- 
mediato d'Aristotele,  l' intelletto  umano  è  immortale  ed  eterno 
nella  propria  sostanza,  in  quanto  esso  è  unico  ed  eterna- 
mente unito  alla  specie  umana  che  parimente  è  eterna;  esso 
si  corrompe,  invece,  e  muore  accidentalmente  nelle  sue  indi- 
vidualizzazioni contingenti,  cioè  in  quanto  unito  a  questo  o 
a  queir  individuo  particolare.  In  questo  il  Genua  si  è  scostato 
dalla  via  battuta  da  Pico  della  Mirandola;  il  quale,  nelle 
«  conclusiones  secundum  Avenroem  »,  pur  ammettendo  una 
sola  anima  intellettiva  in  tutti  gli  uomini,  affermava  esser 
possibile  che  l'anima  di  ciascun  individuo  sopravviva  alla 
morte   in   quello   che   essa   ha   d' individuale  7". 


4.  -  Discepolo  e  ammiratore  di  Marc'Antonio  Genua  a 
Padova  era  il  padovano  Giovanni  Pascolo  o  Fasolo,  professore 
di  umane  lettere  in  quella  università  dal  1545  al  1571,  nel 
quale  anno  venne  a  morte.  L'entusiasmo  suscitato  in  lui  dalle 
lezioni  del  Genua,  seguite  per  diversi  anni,  lo  invogliò 
a  cimentarsi  colla  traduzione  del  commento  di  Simplicio  al 
De  anima,  da  che  non  tutti  erano  in  grado  di  leggerlo  corrente- 
mente nella  lingua  originale.  La  traduzione  del  Fasolo  fu 
pubblicata  a  Venezia  nel  1543,  ed  era  dedicata  a  Cristoforo 
da  Madruzzo,  vescovo  principe  di  Trento  7'. 


70  Cfr.  quanto  abbiamo  detto  sopra,  pp.  376-77. 

71  SiMPLicii,  Commentarii  in  libros  de  aiiinia  Aristoielis,  quos 
IoANNES  Faseolus  patavinus  ex  graecis  latinos  fecit,  atque  illustrissimo 
et  optimo  Tridenti  Episcopo  ac  Principi  Christophoro  de  Madrucio  dica- 
vit.  Accesserunt  autem  et  tres  eiusdem  Faseoli  epistolae.  Quarum 
prima  imperitos  inelegantesque  latinos  interpretes  deserendos  admonet. 
Altera  vero  arabes  quoque  relinquendos  probat.  At  tertia  ad  bonas 
literas  probatissimosque  authores  praeclara  ingenia,  ornatissimi  viri 
Ioannis  Baptistae  Campegii  Episcopi  Maioricensis  exemplo,  hortatur. 
Venetiis,  apud  Octavianum  Scotum,  1543.  Un  decennio  più  tardi  usci 
la  traduzione  di  Evangelista  Longo:  Commentarla  Simplicii,  profun- 
dissimi  et  acutissimi  philosophi,  in  tres  libros  de  anima  Aristotelis, 
de  graeca  lingua  in  latinam  nuperrime  translata,  Evangelista  Lungo 
AsuLANO  interprete.  Advertat  tamen  Lector  interpretem  multa  quae  in 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  395 

Educato  al  gusto  delle  buone  lettere,  il  traduttore  di  Sim- 
plicio non  nasconde  la  sua  ripugnanza  per  il  gergo  barbarico 
degli  scotisti,  dei  tomisti  e  degli  averroisti,  dei  quali  sa  d'at- 
tirarsi  contro   le   ire: 

Aderunt  enim  iniquo  iratoque  in  me  animo  et  iuniores  et  se- 
niores istorum  temporum  philosophi,  magnaeque  in  primis  ac 
pertinaces  eorum  qui  aut  Ioannem  illum  Scotum  aut  Divum 
Thomam  sequuntur  catervae.  Quorum  nonnullos,  ob  imperitos 
inelegantesque  latinos  interpretes  eorumque  duces  a  me  reprehen- 
sos,  mihi  infensos  novi.  Alii  vero  existunt,  qui  rrieum  illud  Arabum 
deserendorum  consilium  nulla  ratione  pati  quaeunt.  At  cum  ma- 
gnam  partem  politiorum  literarum  penitus  ignari  sint,  qua  animi 
aequitate  meas  ad  bonas  Htera§  cohortationes  suscepturos  pu- 
tandum  est  ?  Malunt  etenim  hi,  quod  commune  semper  vitium 
fuit,  quae  callent  didicisse,  quam,  ea  dediscendo,  alia  sibi  nunc, 
exacta  iam  aetate,  discenda  proponere.  Infantiamque  atque 
imperitiam  suam  ita  amant,  ut  neminem  nisi  in  Illa  sua  facce 
atque   infelicitate   doctum  futurum   existiment  7-. 

E  nella  lettera  indirizzata  «  bonarum  literarum  studiosis  », 
che  segue  subito  dopo  la  dedica,  esorta  a  liberarsi  dai  commenti 
latini  d'Aristotele  e  di  ritornare  a  quelli  greci,  specialmente 
di  Simplicio  e  di  Temistio: 

Interpretati  igitur  Aristotelis  libros  sunt  Albertus,  Egidius, 
Burleus,  Suessanus  horumque  consimiles  non  pauci.  In  quorum 
interpretationibus,  ut  cuilibet  notum  esse  potest,  illud  eorum  vi- 
detur  propositum,  ut  omnem  orationis  ornatum  atque  adeo  puram 
ac  integram  latinitatem  despiciant,  et  se  rerum  solum  explana- 
tores  profiteantur.  In  quibus  tamen  ii  plerumque  sunt,  qui  adeo 
ab  illius  philosophi  mente  et  intelligentia  aberrent,  ut  alia 
omnia  noverint,  praeter  ea  quae  is  declarare  voluerit.  Quod  ibi 
locorum  praesertim  iis  accidit,  ubi  malora,  praestantiora  ac 
diviniora  traduntur.  De  mentis  nostrae  immortalitate  quo- 
tusquisque  ex  his  existit  qui  nostrum  Aristotelem  non  longe  secus 
ac  senserit,  sensisse  dicat  ?  Consulamus  Simplicium,  consulamus 
Themistium:  quam  apud  eos  omnia  certa  ac  perspicua  sunt, 
intelligemus.  Sed  quid  unum  vobis  locum  cito  ?  Sexcenti  alii 
sunt,  in  quibus  se  nullam  Aristotelis  sensorum  cognitionem  adeptos 


prima  translatione  bene  fuerant  versa  in  linguam  latinam,  in  suam 
traduxisse,  ut  sciant  omnes  hunc  non  livore,  sed  veritatis  amore,  er- 
roribus  compluribus  authorem  expurgasse,  id  quod  omnes  aequi  boni- 
que  consulant.  Venetiis,  apud  Hier.  Scotum.  MDLIII.  In  sostanza 
l'Asolano  viene  a  dire  che  la  sua  è  una  revisione  e  un  emendamento 
della  traduzione  del  Fasolo. 
7-  Dedica  al  Madruzzo. 


396        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

praeseferunt.  Quare,  si  quae  omnibus  in  promptu  sunt,  tantum 
ii  assequi  videntur,  quae  vero  obscuritatis  aliquid  habent  lumenque 
desiderant,  hos  omnino  fugiunt.  Graecique  contra  nihil  non  rectis- 
sime  atque  verissime  explicant.  Cur  hos  neglectos,  in  illisque 
operam    nostrani    consumptam    malumus  ? 

Un  documento  di  primo  ordine  è  poi  la  lettera  che  il  Fasolo 
pone  in  testa  alla  traduzione  del  secondo  libro  73  e  che  vai  la 
pena  di  riferire  per  intero.  Da  otto  anni  egli  seguiva  le  lezioni 
del  Genua  sulla  filosofia  naturale  e  per  ben  tre  volte  lo  aveva 
udito  esporre  i  libri  De  anima,  mostrando  il  perfetto  accordo 
tra  Simplicio  e  Averroè  nell'  interpretazione  del  pensiero  dello 
Stagirita.  Rivolgendosi  ora  ai  suoi  condiscepoli  i  quali,  al  par 
di  lui,  avevano  appreso  dalla  viva  voce  del  Genua  che  Averroè 
aveva  attinto  la  sua  dottrina  al  commento  di  Simplicio,  faceva 
loro  notare  che,  pur  riconoscendo  l'accordo  quanto  al  pen- 
siero, il  linguaggio  del  greco  era  piano  e  passabilmente  ele- 
gante, quello  invece  dell'arabo  era  ispido,  barbarico  e  pieno 
di  dubbiezze.  A  che  prò'  allora  continuare  a  logorarsi  sugli 
scritti  di  Averroè,  se  tutto  quello  che  di  buono  è  nel  suo  com- 
mento, si  trova  con  minor  fatica  e  maggior  diletto  nell'espo- 
sizione di  Simplicio  ? 

Ma  ecco  il  testo  della  lettera: 

Studiosioribus  praestantissimi  philosophi  ac  peripateticorum 
principis  M.  Antonii  Passeri  auditoribus  Ioannes  Faseolus  S.P.D. 

Secundi  huiusce  libri  initium  praeclaram  mihi  occasionem 
praebere  videtur,  ut  quaedam  vobiscum,  optimi  condiscipuli, 
agata.  De  quibus  licet  separatim  cum  aliquibus  persaepe  locutus 
sim,  attamen,  quoniam  nunquam  antehac  huiusmodi  oblata 
mihi  fuit  facultas,  eam  nunc  non  praetermittam. 

Ad  octavi  namque  iam  anni  finem  ventum  est,  ex  quo  prae- 
stantissimum  philosophum  ac  his  temporibus  peripateticorum 
principem  M.  Antonium  Passerum  audiens,  naturali  scientiae 
operam  do.  Unde  et  Naturali s  auditionis  et  horuin  De  anima 
librorum  expositionem  ter  ab  eo  accepi.  Quae  eam  sane  ob  causam 
commeinorare  vohii,  quo  quae  de  huiusmodi  rebus  a.  me  dicentur, 
ab  eo  dici  perspicere  possitis,  qui  et  quae  loquatur  noverit,  et 
quae   cognoscat   vere  narrare  possit. 

Multi  nainque  cum  sint  Aristotelis  interpretes,  attamen  duos 
ubique  fere  locorum  a  clarissimo  Doctore  nostro  aliis  anteponi 
animadverti.  Quod  haud  ob  id  sane  ab  eo  factum  fuit  quod  alieni 

73  Fol.  35V. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  397 

addictus  esset;  sed  quia,  veritati  servieiis,  hos  rectius  in  Ari- 
stotelis   obscuris   abditisque   sententiis   sensisse   cognorit. 

Quorum  alter  ille  est,  quem  vix  ob  nonnullorum  fastidium 
sine  praefatione  nominare  audeo.  Arabem  autem  illum  significo, 
quem  Averroem  vocant.  Qui  licet,  si  verba  spectare  velimus, 
obscurus,  ieiunus,  incultus,  horridus  atque  omnino  barbarus 
dici  possit,  attamen  is  persaepe  est,  sine  quo  vix  ad  veram  Ari- 
stotelicorum    sensorum    cognitionem    pervenire    queamus. 

Alter  vero  hic  est,  quem  media  in  Graecia  natum  mea  nunc 
opera  latine  loqui  videtis.  De  cuius  scribendi  ratione  illud  tantum 
dicam,  quod  ut  et  philosophus  et  interpres  absque  ulla  dubita- 
tione  scripsit.  Quapropter  nihil  sane  mirum  cuiquam  videri  debet, 
si  dum  res  difficillimas,  ab  hominumque  notitia  remotas,  investigat, 
in  linguae  elegantia  atque  nitore  haud  omnino  occupatus  est. 
Licet  ncque  hunc  eam  ob  causam  esse  concedam,  qui  hac  in  re 
ullum  subeat  reprehensionis  genus.  Caeterum,  si  res  ipsas  rerum- 
que  notitiam  tibi  proponas,  Dii  boni,  qui  quantusque  erit  ? 
Is  namque  est,  qui  vere  Aristotelis  scripta  exponat,  qui  quae 
vir  ille  acutissimus  noverit  videat,  qui  omnem  antiquorum  vel 
Platonicorum  vel  Pythagoraeorum  disciplinam  teneat,  qui  eos 
defendere  valeat,  cuiusque  denique  opera  non  pauci  Aristotelis 
libri,   hique  in  primis,   a  nobis  intelligi  possint. 

Quare  iam  illud  vobis  persuasum  esse  debet,  nullum  esse, 
qui,  praeter  hunc,  in  manibus  habendus  sit.  Alii  namque  omnes 
(Themistio  tamen  excepto,  quem  non  in  interpretum  sed  in  auto- 
rum  excellentiorum  potius  numero,  propter  divinam  brevem  atque 
absolutam  illam  complectendi  rationem,  colloco)  duobus  his, 
de  quibus  mentio  facta  fuit,  cedunt.  Verum  et  Inter  hos  ita  sese 
res  habet,  ut  quicquid  boni,  in  his  praesertim  De  anima  libris, 
Arabs  ille  dixerit,  de  hoc  sumpserit.  Si  quid  vero  rarum  atque 
novum  nec  satis  cui  adhaereatur  dignum  adduxerit,  illud  suum  sit. 

Quam  sane  ob  rem,  quo  ii  pacto,  qui  ibi  tempus  conterent, 
se  praeterea  excusandos  putent  non  video;  cum  iam  eum,  per 
quem  ille  recte  dicit,  habeant,  et  ita  habeant  ut  nihil  purum  atque 
syncerum  nisi  elegans  ac  nitidum  in  eo  reperiri  possit.  Ibi  autem 
omnia  horride  atque  barbare  scripta;  nonnullaque  haud  recte, 
cum  in  philosophia  tum  in  Aristotelicarum  sententiarum  expo- 
sitione,  extent  inventa. 

Huc  itaque,  optimi  mihique  carissimi  adulescentes,  huc 
spectate,  huc  mentem  illam  vestram  atque  ingenii  acumen  di- 
rigite;  alios  omnes  negligite;  Simplicium  unum  vobis  die  noctuque 
versandum  proponite.  Vobis  iam  dux  praestantissimus  ipse  noster 
Doctor  M.  Antonius  exsistit;  vobis  hunc  tradit,  vobis  commendat, 
vobis  in  caelum  laudibus  effert.  Quicquid  Averroi  hactenus  tri- 
buit,  eam  ob  causam  fecit,  quia  vos  hoc  carere  videbat.  Quo 
namque  uti  non  possis,  licet  habeas,  attamen  sine  eo  esse  videris. 
At  is  nunc  Faseoli  vestri  opera  latinus  factus  est,  et  ita  factus 
ut  perpauci  forsan  antehac  Aristotelis  interpretes  ita  facti 
sint.  Quare  et  in  hoc  vestram  omnem  operam  collocate,  et  illum 
iam   de   manibus   deponite. 


398        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Confido  enini,  si  aliquid  in  hoc  stndii  posueritis,  illud  qiiam- 
primum  eventuruin,  ut  tum  praestantissimae  ac  maximae  in 
philosophia  res  notae  fiant,  tum  ita  tractentur,  ut  priscorum,  et 
graecorum  et  latinorum,  splendorem  referant.  Quae  huiusmodi 
nempe   sunt,    ut   ubi   ambo   videris,    nihil  praeterea   requiras. 

Haec  itaque  sunt,  quae,  propter  incredibilem  quandain  meam 
erga  vos  benevolentiam,  mihi  hoc  loco  vobiscum  commentari 
visuin  est.  Verum,  ne  longior  iam  sim,  ad  rem  ipsam  accedo. 
Vos  quo  soletis  studio  bonis  literis  incumbite  meque  amate. 

Come  si  vede,  questo  del  Fasolo  è  un  appello,  rivolto  in 
nome  del  buon  gusto,  agli  studiosi,  perché  vogliano  cessare 
di  lambiccarsi  il  cervello  sulle  irte  pagine  del  commento  aver- 
roistico,  per  dedicarsi  alla  lettura  di  Simplicio  e  di  Temistio. 
Ciò  equivaleva  a  disfarsi  d' Averroè  per  Simplicio  ;  o  più  esatta- 
mente a  liquidare  l'averroismo,  convogliandolo  nel  grande 
lìume  reale  del  platonismo. 

Su  questo  motivo  l'umanista  padovano  ritorna  anche  nella 
lettera  premessa  alla  sua  traduzione  del  commento  al  terzo 
libro  del  De  anima  74,  e  indirizzata  al  bolognese  Gian  Battista 
Campeggi,  vescovo  di  Maiorca,  figlio  del  Cardinale  Lorenzo 
Campeggi  e  fratello  del  Cardinale  Alessandro,  vescovo  di 
Bologna.  Anche  il  Campeggi  era  stato  a  lungo  discepolo  del 
Genua  e  condiscepolo  del  Fasolo.  Il  13  dicembre  1545,  sarà 
lui  ad  aprire  il  concilio  di  Trento  con  una  memorabile  allo- 
cuzione De  tuenda  religione.  Nella  lettera  indirizzatagli,  il 
Fasolo  torna  a  insistere  sull'  idea  che  la  decadenza  degli  studi 
derivasse  dall'aver  posto  in  dimenticanza  gli  scrittori  greci, 
e  dall'aver  preferito  ad  essi  scrittori  barbari: 

Plus  namque  apud  me  valet  benevolentia  illa  qua  bonarum  li- 
terarum  studiosos  prosequor,  quam  vel  Averrois  vel  Alberti  vel 
Egidii  vel  Burlei  vel  Suessani  vel  aliorum  non  paucorum,  de 
quibus  me  nonnunquam  mentionem  tacere  pudet,   autoritas. 

Da  notare  che  nell'elenco  di  questi  commentatori  d'Aristo- 
tele, che  egli  nomina  con  rossore,  non  figura  il  nome  dell' Aqui- 
nate.  Tuttavia  non  risparmia  il  suo  disprezzo  per  le  «  magnae,... 
ac  pertinaces  eorum  qui  aut  Ioannem  illuni  Scotum  aut  Di- 
vum    Thomam    sequuntur    catervae  »,    come    s'esprime    nella 


74  Fol.  78r. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL     (  DE    ANIMA  »  399 

dedica  al  Madruzzo.  Si  che  non  è  soltanto  contro  Averroè 
ch'egli  si  rivolta,  ma  contro  tutte  le  sopravvivenze  della 
Scolastica  nel  Rinascimento. 


5.  -  L'appello  del  Fascio  a  mettere  disparte  Averroè  non 
valse  ad  impedire  che  le  opere  dell'arabo  continuassero  an- 
cora per  oltre  un  cinquantennio  ad  essere  lette  e  discusse,  ed 
anzi  tutto  stampate  e  spacciate.  Anche  coloro  che  erano 
persuasi  di  quanto  era  andato  dimostrando  il  Genua,  non 
ebbero  il  cuore  di  staccarsi  da  Averroè,  ma  si  contentarono  di 
accoppiarne  la  lettura  con  quella  di  Simplicio.  Tale  è  il  caso 
di  Marc'Antonio  Mocenigo,  patrizio  veneziano,  il  quale  nel 
1559  pubblicò  un  elenco  di  ben  1334  «  paradoxa  »  e  «  theo- 
remata  »  tratti  dalla  filosofia  di  Aristotele  e  destinati  ad  ar- 
gomento di  pubbliche  dispute  da  tenersi  a  Venezia  e  a  Pa- 
dova 75.  Nella  dedica  allo  zio  materno,  Vincenzo  Diedo,  pa- 
triarca di  Venezia,  ci  fa  sapere  d'essersi  recato  a  Padova  gio- 
vinetto e  d'avervi  trascorsa  parte  della  sua  adolescenza,  de- 
dicandosi con  ardore  dapprima  allo  studio  delle  lettere  umane, 
dipoi  a  quello  della  dialettica,  e  infine  a  tutte  le  parti  della 
filosofia.  Nelle  scuole  di  Padova  aveva  seguito  le  lezioni  dei 
più  dotti  maestri  e  lette  molte  opere,  sì  che  a  vent'anni,  non 
ostante  la  malferma  salute,  s'era  procacciato  quella  cultura 
filosofica,  della  quale  intendeva  dare  un  saggio,  accettando  la 
pubblica  discussione  su  così  numerosi  argomenti 76.  Anch'egli, 
dunque,  è  stato  sicuramente  allievo  del  Genua.  Se  vi  fosse  alcun 
dubbio  basterebbe,  a  togliercelo,  l'esame  di  questi  suoi  pa- 
radossi e   teoremi. 

L'opera,  a  somiglianza  delle  Conchtsiones  di  Pico  della 
Mirandola,  o,  meglio  ancora,  a  somiglianza  delle  Conclusiones 
che  un   altro  giovane   patrizio   veneziano,   Vincenzo  Querini, 


75  Marci  Antoni:  Mocenici,  patritii  veneti,  De  eo  qiiod  est:  para- 
doxa theoremataque  ex  Aristotelis  philosophia  depvotnpta,  quae  Venetiis 
atqiie  Patavii  publice  disputanda  proponniititr.  Venetiis,  apud  Cominum 
de  Tridino,  Montisf errati.   Anno  MDLIX. 

76  «  Patavium  multos  abbine  annos  (fateor  equidem)  veni;  hic 
omnem  pene  meam  pueritiam,  bic  et  quandam  meae  adolescentiae  par- 
tem  consumpsi,  bumanioribus  primo  quidem  hteris,  postea  vero  diale- 
cticae  omnibusque  philosopbiae  partibus  operam  dadi.  Eruditissimos 
bos  viros  aiidivi,  multos  libros  evolvi,  et,  quantum  in  me  fuit,  semper 
elaboravi,  quo  hominis  quidem  nomine  dignus  haberi  possem  ». 


400        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

«  tres  et  viginti  annos  natus  »,  aveva  sostenuto  a  Roma  in 
una  solenne  disputa  che  ebbe  luogo  alla  fine  di  maggio  del 
1502  nella  chiesa  dei  Santi  Apostoh  77,  presente  Pietro  Bem- 
bo, è  formata  da  enunciati  disposti  in  ordine  sistematico 
e  concernenti  la  metafisica,  la  fisica,  la  psicologia,  l'etica,  la 
logica  e  l'astrologia  78.  La  formulazione  di  ogni  teorema  non 
è  puramente  schematica,  ma  fatta  in  modo  da  accennare  a 
un  principio  di  dimostrazione  ;  sì  che  nell'  insieme  l'opera 
del  Mocenigo  presenta  l'aspetto  di  un  compendio  di  tutta  la 
filosofia  aristotelica,  disegnato  dal  punto  di  vista  dell'autore. 
Ai  fini  di  questa  ricerca,  sono  sopra  tutto  i  teoremi  concer- 
nenti l'anima  umana  che  attirano  l'attenzione.  Anzi  tutto  il 
Mocenigo,  come  ogni  buon  averroista,  non  manca  di  dichia- 
rare, ((  quod,  cum  in  iis  quae  dicturi  sumus  philosophi  a  sanctis- 
sima  nostra  lege  dissentiant,  nos  disputandi  grafia,  non  ex 
animi  sententia,  falsas  philosophorum  opiniones  sustinemus))79. 
Riferite  le  varie  opinioni  intorno  al  problema  se  l' intelletto 
sia  «  forma  dans  esse  homini  »,  ne  prospetta  questa  soluzione  : 

Quae  omnes  opiniones  (iudicio  meo)  false  sunt;  rectius  igitur 
cum  Plotino,  Themistio  atque  lamblicho  dicendum,  intellectum 
non  simpliciter  dare  esse,  nec  simpliciter  tantum  secundum  ope- 
rationem  nobis  uniri;  sed  medio  se  habet  modo.  Dare  tamen 
esse  cum  ipsis  fateri  possumus,  formamque  esse  qua  homo  actu 
sit  id  quod  sit,  motorem  insuper  et  agens;  hac  eadem  ratione  posse 
dici  immortalem  et  sempiternum  esse,  cum  hoc  quod  homini 
det  esse,  defendam  8°. 

Questo  intelletto  poi,  secondo  il  pensiero  dei  filosofi  e  di 
Averroè,  non  può  essere  che  uno  solo  per  tutti  gli  uomini, 


77  Conclusiones  Vincenti!  Quirini,  patritii  veneti,  Romae  dispu- 
tandae.  Senza  note  tipografiche.  Ma  dopo  la  dedica  a  papa  Alessandro  VI 
e  r  indice  dei  capitoli,  si  ha  questo  titolo  pivi  completo  Conci.  Vinc. 
QuiR.,  patr.  ven.,  Romae  in  Ecclesia  sanctorum  Apostoloriim,  die  XXIX 
Maii,  hora  XVIII,  disputandae.  Che  ciò  fosse  accaduto  il  29  maggio 
1501,  avevo  pensato  nella  prima  edizione  di  questo  scritto;  ma  il  mio 
amico  Carlo  Dionisotti,  espertissimo  di  cose  che  riguardano  il  Bembo, 
dubita  dell'esattezza  di  questa  data  che  consiglia  di  protrarre  d'un  anno; 
cfr.  del  resto  M.  Sanudo,  IV,  col.  293.  Il  Querini  aveva  studiato  per  molti 
anni  a  Padova,  ed  aveva  avuto  a  maestro  il  Nifo.  Cfr.  sopra,  pp.  285-   7. 

78  Si  tratta  in  complesso  di  ben  1334  tesi,  numero  che,  se  sorpassa 
quello  delle  Conclusiones  di  Pico  della  Mirandola,  è  assai  inferiore  al 
numero  delle  Conclusiones  del  Guerini. 

79  Mocenigo,  II,  n.  689. 

80  Ib.,  n.  704. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  40I 

e  molteplice  soltanto  per  un  rispetto  molto  accidentale  che 
esso   ha  coi  singoli: 

Unus  hic  numero  est,  cum  multitudo  individuorum  sub  eadem 
specie  in  aeternis  reperiri  nequeat.  Valeant  igitur  ii  qui  ad  philo- 
sophorum  mentem  sustinere  coguntur  (conantur  ?)  ipsum  multi- 
plicatum  esse:  non  enim  secundum  numerum  individuorum, 
aut  ratione  specierum  aut  phantasmatum,  sicut  credit  Averroes; 
sed  simpliciter  unus  est,  et  nonnisi  respectu  quodam  nimis  acci- 
dentali multiplicatus  esse  potest.  Ouae  conclusio  nullo  alio  modo, 
nisi  secundum  philosophorum  et  Averrois  fatuitatem,  quam 
omnino  reiicimus  et  falsam  credimus,   sustineri  potest  ^i. 

Su  questi  due  capisaldi  dell'averroismo,  il  Mocenigo  innesta, 
d'accordo  col  Genua,  la  teoria  di  SimpHcio  intorno  alla  mente 
che  rimane  in  sé  e  alla  mente  che  esce  fuori  di  sé  per  unirsi 
alla  vita  organica.  E  prima  di  tutto  ricorre  a  Simplicio  per 
risolvere  il  problema  delle  specie  intelHgibili.  che  tanti  ruscelli 
d'inchiostro  aveva  fatto  versare  (v.  sopra,  pp.  231-33  e  328). 

At  nos  cum  Theophrasto  atque  Themistio,  veris  atque  legi- 
timis  Aristotelis  interoretibus,  qui  licet  philosophice  non  tamen 
vere  loquuntur,  dicimus  mentem  humanam  de  novo  aliquid 
non  suscipere,  sed  rerum  omnium  in  se  rationes  habere,  atque 
per  illas  de  rebus  iudicium  tacere,  sive  quidem  illa  progressa  fue- 
rit,  quo  modo  nunc  de  ea  loquimur,  vel  ut  in  se  manens  supre- 
maque  entia  cognoscens.  Ouodammodo  igitur  opinionis  Platonis 
Aristoteles  extat.  Dicimus  id  secundum  philosophos  dici,  cum 
in  rei  veritate  falsa  sit,   neque  id   credimus  ^-. 

Quae  verissima  ut  clareat  opinio,  altius  quaedam  repetenda 
erunt.  Scire  igitur  licet  intellectum  nostrum,  dum  ad  entia  in 
duplici  serie  constituta  refertur,  duplicem  quoque  naturam  et 
nomen  sortiri.  Cum  enim  ad  materialia  refertur  progressus  dicitur, 
cum  ad  immaterialia  in  se  manens.  Progressus  appellatur  quo- 
niam  a  sua  progreditur  perfectione,  dum  obiectum  vile  oppositum 
habet;  immanens  vero,  cum  in  sua  perfectione  manet  ex  intel- 
lectione  supernarum  mentium  §3. 

Nei  testi  riferiti  il  nome  di  Simplicio  non  è  fatto,  ma  le  pa- 
role e  il  pensiero  son  bene  di  lui.  E  di  lui  è  pure  la  dottrina, 
già  accolta  dal  Genua,  che  l' intelletto  agente  d'Aristotele 
altro  non  sia  se  non  l' intelletto  che  rimane  in  sé,  mentre  l' in- 


81  Ib.. 

n. 

705- 

8*   Ib., 

n. 

720. 

83  Ib., 

n. 

721. 

26 


402        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

telletto  possibile  è  da  identificare  coli' intelletto  progrediente; 
e  che,  infine,  intelletto  possibile  ed  agente  non  siano  che  aspetti 
di  uno  stesso  indivisibile  intelletto  :  «  qua  in  re  »  (osserva  il 
Mocenigo,  orientato  ormai  verso  il  platonismo)  «  quantum 
fuerit    allucinatus   Averroes....    patebit))84. 

Altro  discepolo  del  Genua  fu  il  padovano  Gian  Paolo  Per- 
numia,  che  abbiamo  già  incontrato  come  raccoglitore  delle 
lezioni  del  maestro  sul  primo  e  il  secondo  libro  del  De  anima.. 
Professore  di  filosofia  e  di  medicina  nella  sua  città  natale, 
egli  era  morto  poco  prima  del  1564,  quando  l'editore  veneto 
Simone  Galignano,  per  soddisfare  al  desiderio  dei  discepoli, 
pubblicò  un  volume  di  Terapeutica  che  Gian  Paolo  aveva  la- 
sciato inedito  nelle  mani  del  fratello,  il  giureconsulto  Trifone 
Pernumia  ^5.  Questi,  nel  permettere  la  pubblicazione,  promet- 
teva, se  gli  otto  libri  della  Terapeutica  fossero  stati  bene  ac- 
colti, di  allestire  la  stampa  di  dieci  altri  libri  «  quos  de  modo 
philosophandi  contra  barbaras  sectas  ad  mentem  Aristotelis  et 
graecorum  composuit  (Gian  Paolo),  ac  totidem  diversae 
materiae  ».  Antonio  Polo,  veneziano  ed  amico  del  Pernumia, 
ne  tesse  un  elogio  sperticato,  nel  quale  l'elogiato  è  detto  addi- 
rittura «  aetatis  nostrae  perfectum  numen  »,  talché  «  facile 
ab  omnibus  elegans  medicus,  optimus  philosophus,  atque 
orthodoxae  fidei  Christianus  sanctissimus  et  sacrae  paginae 


84  Ib.,  nn.  707-714.  Il  12  aprile  1561  il  Mocenigo  sostituì  nell'inse- 
gnamento della  filosofia  a  Venezia  Agostino  Valier  nipote  del  Card.  Lo- 
dovico Navagero.  Nei  pochi  anni  che  tenne  la  cattedra  egli  concepì 
il  disegno  di  due  grandi  opere,  il  De  mari,  che  pare  fosse  già  prontlo 
per  la  stampa  nel  1569,  e  il  De  iransitu  hoininis  ad  Deiim,  del  quale  s  00 
il  primo  volume  vide  la  luce  a  Venezia  presso  Bologno  Zaltieri,  i  569 
(ma  nel  1581  ne  fu  cambiato  il  frontispizio  in  questo:  De  anima  eiusque 
in  Deum  raptu).  La  salute  cagionevole  e  vari  casi  della  sua  vita  gì'  im- 
pedirono di  condurre  a  termine  tanto  la  prima  che  la  seconda  opera. 
Quest'ultima  del  resto,  a  giudicare  dalla  parte  pubblicata,  non  fa  che 
svolgere  il  pensiero  dei  Paradoxa,  convogliando  il  pensiero  averroi- 
stico  in  quello  neoplatonico  e  in  una  mistica  intellettualistica  quale 
poteva  risultare  da  simile  intruglio  di  averroismo,  di  platonismo  e  di 
pensiero  teologico  cristiano.  Pare  che  nel  1584  fosse  accusato  e  pro- 
cessato «  per  intelligenze  con  Spagna  ».  Ma  l'accusa  dev'esser  finita 
in  nulla,  se  due  anni  dopo  fu  eletto  vescovo  di  Ceneda  (cfr.  Cicosna, 
Iscriz.  veneziane,  VI,  p.  622). 

85  IoANNis  Pauli  Pernumia,  Patavini  philosophi  ac  medici  etc, 
Therapeutica  sive  medendi  ratio  affectus  omnes  praeter  naturam  nuper 
in  liicem  edita.  Venetiis,  apud  Simonem  Galignanum  de  Karera. 
MDLXIIII.  Il  volume  è  dedicato  al  filosofo  Lodovico  Demolins  de  Roc- 
caforte, medico  del  duca  di  Savoia.  Segue  la  prefazione  dello  stesso 
Gian  Paolo  Pernumia,  cui  tien  dietro  la  dichiarazione  del  fratello  Trifone. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  4O3 

altissimus  theologus  existimari  possit»^^,  g  con  tutto  ciò  egli 
era,  come  filosofo,  un  convinto  averroista  alla  maniera  del 
Genua. 

Infatti  lo  stesso  editore  Simone  Galignano  nel  1570  stampò 
a  Padova  l'opera  dello  stesso  Gian  Paolo  Pernumia,  Philo- 
sophia  naturalis,  che  è  un  compendio  di  tutti  i  «  libri  natu- 
rales  »  d'Aristotele  e  delle  discussioni  che  intorno  ad  essi  s'erano 
accese  87.  Il  quarto  Ubro  tratta  dell'anima  e  delle  funzioni  di 
essa.  Nel  capitolo  VI  si  parla  dell'anima  intellettiva  in  parti- 
colare, e  vi  si  sostiene  che  l' intelletto  nell'uomo  è  una  sostanza 
e  un'essenza  realmente  distinta  dall'anima  vegetativa  e  sen- 
sitiva, e  non  una  facoltà  dell'anima  nel  senso  dei  tomisti  ^^, 
e  che  esso  non  dà  all'uomo  il  suo  essere  specifico  di  uomo  come 
forma  informante,  ma  soltanto  come  forma  assistente,  contro 
il  parere  del  Nifo,  del  Pomponazzi  e  di  Scoto  ^9.  A  quest'ul- 
timo, che  riteneva  il  solo  Averroè  sostenitore  di  siffatta  dot- 
trina, questo  santissimo  cristiano  e  altissimo  teologo  del 
Cinquecento  non  esita  a  rispondere  che  egli  s' ingannava: 

Quod  autem  addit  Scotus,  solum  Averroem  liane  fictionem 
imaginatum  fuisse,  respondendum  sane  est,  in  errore  fuisse  Scotum, 
cum  Averroes  hoc  acceperit  ab  omnibus  graecis,  Themistio,  Sim- 
pUcio,  Ioanne  Philopono,  Theophrasto.  Qui  omnes,  Alexandre 
excepto,  voluerunt  animam  intellectivam  assistere  sicuti  nautam 
in   navi  9°. 

E  col  nome  di  Simplicio  riappare  la  dottrina  simpliciana 
dell'  intelletto  che  permane  in  sé  e  dell'  intelletto  che  esce 
fuori  di  sé,  insieme  alla  tipica  dottrina  del  conoscere,  che  già 
abbiamo  incontrato  nel  Genua  e  nel  Mocenigo: 


86  Ib.  L'elogio  del  Pernumia  fatto  dal  Polo  segue  alla  dichiarazione 
del  fratello. 

87  Io.  Pauli  Pernumia,  Patavini,  Philosophia  naturalis  ordine  de- 
finito tradita,  quod  a  nuUo  hactenus  factum  est,  cui  adiectus  est  trac- 
tatorum  omnium  copiosissimus  index.  Patavii,  apud  Simonem  GaUgna- 
num  de  Karera.  MDLXX.  Dedica  a  Giovanni  Sambuco,  con  data  da 
Padova  del  i  settembre  1569.  Questo  tentativo  del  Pernumia  di  esporre 
in  modo  continuativo  tutta  la  «  filosofia  naturale  »  d'Aristotele,  seguendo 
l'ordine  fissato  dai  libri  fisici  dello  Stagirita,  sarà  imitato  da  Giacomo 
Zabarella  e  da  Francesco  Piccolomini,  ed  era  alla  sua  volta  un'  imita- 
zione della  Stimma  naturalium  di  Paolo  Veneto. 

88  Ib.,  fol.    ii2r-ii4V. 

89  Ib.,  fol.   115. 

90  Ib.,  fol.   115. 


404        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

Dictum  illud  Averrois,  12.  commento  primi  De  anima,  ubi 
ait  impossibile  esse  intellectum  intelligere  sine  phantasia  et  non 
esse  superficietenus  intelligendum,  intelligendum  eo  modo  quo 
intelligitur  a  Simplicio,  a  quo  illud  accepit:  nempe  quod  intel- 
lectiva  anima  in  primo  sui  ortu  et  statu  egressa  est  a  se,  et  quo- 
dammodo  imperfecta  et  possibilis,   efificitur  in  actu   etc.  91. 

Sequitur  ut  ostendamus,  utrum  eodem  modo  intelligat  (in- 
tellectus)  ut  est  progressus  et  ut  est  manens,  an  vero  diverso 
modo.  Respondendum  est  cum  Aristotele,  26.  tertii  De  anima, 
secundum  expositionem  Simplicii,  quod  diverso  modo  operatur 
ut  est  progressa  et  ut  est  manens  ac  mens...  Porro  dicendum 
intellectum  possibilem  esse  eiusdem  essentiae  cum  intellectu 
agente,  ac  nasci  solum,  ut  inquit  Simplicius,  huiusmodi  imper- 
fectione  ob  cadentiam  ipsius  intellectus  in  corpus,  quia  scilicet 
extra   seipsum   vergat  9^. 

Quare  dicendum  cum  Simplicio,  quod  intellectus  non  perfi- 
citur  ab  bis  materialibus  et  a  phantasmatibus,  sed  occasione  ab 
eis  accepta  convertitur  ad  agentem.  Qui  agens  suo  lumina  illu- 
minat   ideam   progressam   etc.  93. 


6.  -  Né  soltanto  i  discepoli  del  Genua  si  adopravano  a  trarre 
dalla  loro  parte  Simplicio,  ma  anche  averroisti  d'altre  tendenze. 
Uno  di  questi  è  il  milanese  Francesco  da  Vimercate,  che  nel 
1540  Francesco  I  aveva  chiamato  a  Parigi  a  professarvi  filosofia 
e  a  commentare  Aristotele  nel  testo  greco.  Nel  1543  il  Vimer- 
cate pubbhcò  a  Parigi  il  commento  a  una  parte  del  terzo  libro 
del  De  anima,  seguito  dalla  De  anima  rationali  peripatetica 
disceptatio')'i.  Più  tardi,  forse  nel  1561,  lasciò  la  Francia  e  passò 
ad  insegnare  a  Torino,  ove  cessò  di  vivere  nel  1570. 

Nel  commento  al  De  anima,  Simplicio  è  citato  una  ventina 
di  volte.  Qualche  volta  è  criticato,  qualche  altra  è  semplice- 
mente ricordato;  altre  volte  si  dichiara  che  è  stato  frainteso 
dal  Nifo,  del  quale  è  perfino  denunciata  l' impudenza  95. 


91  Ib.,  fol.   ii6r. 

92  Ib.,  fol.   118. 

93  Ib.,  fol.   I22rb. 

94  Commentarii  in  tertium  librnm  Aristotelis  de  anima,  Francisco 
A  VicoMERCATE,  Me  dlolanensl,  Parisiis  stipendio  Regio  philosophiam 
graece  profìtente,  authore.  Eiusdem,  De  anima  rationali  peripatetica 
disceptatio.  Parisiis,  ex  officina  Christiani  Wecheli  etc.  1543.  Una  se- 
conda edizione  fu  fatta  a  Venezia,  presso  l'erede  di  Girolamo  Scoto, 
nel  1566.  Intorno  al  Vimercate,  cfr.  Argelati,  Bibl.  Script.  Medici., 
t.  II,  parte  I,  pp.   3658  sgg. 

95  Cap.  Ili,  p.  36a  (secondo  l'edizione  veneziana,  cui  mi  riferisco 
anche  nelle  citazioni  che  seguono). 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  4O5 

Più  importante  è  la  Disceptatio,  sicuramente  posteriore  al 
commento  e  dedicata  a  Pietro  du  Chastel,  vescovo  di  Tulle. 
Nella  prima  questione,  il  Vimercate,  dopo  aver  discusso  con 
Cicerone  e  col  Poliziano  sul  significato  del  termine  h)-zXt/ziy. 
e  sulla  retta  grafia  di  questa  parola,  e  dopo  aver  criticato  la 
tesi  di  Alessandro  d'Afrodisia,  di  S.  Tommaso  e  dei  latini  che 
ritengono  l' intelletto  forma  informante  del  corpo  umano, 
dichiara  di  accettare   la  tesi  opposta: 

Altera  (secta)  est  Themistii,  Simplicii,  Philoponi  et,  inter 
latinos,  Gandavensis,  aliorumque  quoruradam,  qui  animae  defì- 
nitionem  ab  Aristotele  assignatam  perpendentes,  ....  secundum 
aliquas  partes  animarti  corporis  formani  esse,  secundum  autem 
alias  moderari  tantum  et  assistere  defenderunt.  Cum  enim  tres 
animae  fiumane  facultates  praecipuas,  vegetatricem,  sensitivam  et 
intellectivam,  impartitus  fuerit  Aristoteles...,  duarum  primarum, 
vegetatricis,  inquam,  et  sensitivae  ratione,  animam  corporis  for- 
mam  esse  ;  quod  vero  ad  intellectum  illum  contemplativum  spec- 
tat,  moderatricem,  quae  toto  corpore  tamquam  organo  utatur,  ex 
Aristotelis  sententia  asseruerunt.  Quorum  sane  opinioni,  ubi  dili- 
genter  omnia  quae  apud  Aristotelem  leguntur  perpendissem,  ve- 
ritate  cogente  subscribere  sum  coactus.... 

Est  itaque  anima  intelligens,  vel,  ut  verius  loquamur,  intel- 
lectus,  corporis  entelechia,  hoc  est  perfectio,  non  quae  esse  speci- 
ficum  eidem  tribuat  (nam,  praeter  ea  quae  dieta  dunt,  cum  corpore 
interire  oporteret,  cuius  oppositum  ex  Aristotelis  sententia  defen- 
demus),  sed  quae  assistat  tantum  et  intellectionem  hominibus 
impartiatur  9^. 

La  seconda  questione  della  Disceptatio  è  dedicata  all'  im- 
mortalità dell'anima,  che  il  Vimercate  difende  contro  Ales- 
sandro d'Afrodisia  e  contro  il  Pomponazzi,  dal  suo  punto  di 
vista  averroistico,  in  quanto  l' intelletto  è  in  se  stesso  una  so- 
stanza separata,  indipendente  dal  corpo,  ed  è  capace  d' in- 
tendere le  sostanze  separate: 

Sane  intellectum  nostrum  ea  quae  a  materia  suapte  natura 
abiuncta  sunt  intelligere,  in  confesso  est  apud  Theophrastum, 
Themistium,  Simplicium,  Philoponum,  Commentatore  m  et  alios, 
quemadmodum   ex  eorum  dictis  luce   clarius   cognosci   potest97. 


96  Pag.  4Sb. 

97  Pag.  55a.  È  interessante  per  altro  sapere,  che  il  Vimercate  con- 
fessa (p.  5ia)  d'avere  un  tempo  seguito  l' interpretazione  d'Alessandro 
d'Afrodisia,   e   d'averla  poi   abbandonata. 


406        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV   AL   XVI 

L' intelletto  umano  è  separabile  dal  corpo  nella  sua  propria 
natura,  non  perché  possa  una  volta  o  l'altra  separarsi  da  questo 
o  quel  corpo  ;  che  anzi  esso  è  eternamente  unito  agi'  individui 
della  specie  umana;  ma  perché  non  è  forma  informante,  sib- 
bene  forma  semplicemente  assistente,  e  quindi  non  va  soggetto 
alle  vicissitudini  del  corpo: 

Respondeo  ego,  cum  separabilem  intellectum  ponimus  ex 
Aristotelis  sententia,  non  eo  modo  separabilem  intelligere,  ut 
aliquando  per  se  absque  ullo  corpore  constare  possit;  sed  separa- 
bilem, hoc  est  a  natura  corporis  non  pendentem,  tametsi  ei  semper 
assistat,  nec  cum  ilio  intereuntem,  sed  aeternum  semperque  ma- 
nentem,  quamvis  hic  vel  ille  homo  intereat  9^. 

Il  nome  di  Simplicio  torna  ad  essere  unito  a  quello  di  coloro 
che  con  Teofrasto  insegnarono  l'unità  dell'  intelletto  : 

Una  (secta)  est  Theophrasti,  quem  imitati  sunt  Themistius, 
Simplicius,  Commentator  et  qui  eius  doctrinam  profitentur, 
quorum  omnium  sententia  fuit,  intellectum  humanum  unicum 
esse  in  omnibus  hominibus,  qui  illis  assisteret,  perinde  ac  sol  sive 
eius  lumen  toti  mundo  assistit,  illumque  illuminans  perficit;  et  ob 
eam  rem  aeternum,  qui  non  tunc  incipiat  cum  homines  nascuntur, 
sed  ab  aeternitate  praeexistens  omnes  quotquot  oriuntur  appre- 
hendat  et  quodammodo  complectatur  effciatque  ut  phantasmatibus 
in  phantasia  existentibus  queat  contemplari,  quomodo  solis  lumen 
non  tunc  gignitur  primum,  cum  homo  videre  incipit,  sed,  antea 
praeexistens,  hominem  oculos  primum  aperientem  illuminat, 
et  quandiu  oculos  apertos  habuerit,  ut  videre  possit  facultatem 
mpartitur  99. 

A  capo  dell'altra  sètta  sta  Alessandro  d'Afrodisia.  Per 
costui  r  intelletto  possibile  è  una  disposizione  dell'organismo, 
e  perciò  molteplice  secondo  il  numero  degli  individui  umani, 
insieme  ai  quali  nasce  e  muore.  Anche  Algazele,  tra  gli  arabi, 
e  S.  Tommaso,  seguito  da  molti  latini,  ritengono  gì'  intelletti 
umani  molteplici;  tranne  che  costoro,  a  differenza  dell'Afro- 
disio,  pensano  siano  immortah. 

Esaminate  le  ragioni  in  favore  dell'una  e  dell'altra  tesi,  il 
Vimercate  trova  che  quelle  in  sostegno  dell'unità  sono  piìi 
efficaci  e  più   conformi  ai  principi  aristotelici: 


98  Pag.  55a-b. 

99  Pag.  56b. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  407 

Quamobrem,  ut  Aristotelem  in  eam  partem  inclinasse  credam, 
quasi  compellunt;  tametsi  hanc  suam  opinionem  testimoniis  claris 
et  apertis  palam  facere  noluerit,  ob  eam  forte  causam  quod  et 
vulgo  vix  credi  potuisset  et  multa,  quae  ad  mores  vit^mque  ci- 
vilem  spectant,   per  eam  aboleri  pertimesceret...! 

Tuttavia  Aristotele  non  potè  tener  celato  il  suo  pensiero 
a  Teofrasto.  Da  Teofrasto  la  dottrina  dell'unità  dell'  intelletto 
fu  palesata  a  Temistio: 

quem  subsecutus  est  Simplicius;  qui,  tametsi  non  adeo  per- 
spicue ut  alii,  unum  tamen  et  ipse  intellectum  asseruit,  et  illum 
quidem  aeternum,  ex  quo  cum  formis  omnibus  in  corpore  humano 
praeviis,  videlicet  cogitatrice  et  aliis,  anima  rationalis  sit  confecta, 
mviltiplicata  quidem  cogitatricis  ratione,  sed  ut  intellectu  parti- 
cipans  unica  in  omnibus  existens  1°°. 

Il  Vimercate  a  questo  punto  trae  profitto  dalla  critica  che 
il  Cardinal  Bessarione  aveva  fatto  del  tentativo  di  Giorgio 
da  Trebisonda,  di  attribuire  ad  Aristotele  la  tesi  cristiana, 
che  l'anima  intellettiva  sia  forma  sostanziale  del  corpo  umano, 
che  essa  dia  a  questo  il  suo  essere  specifico  e  con  esso  si  molti- 
plichi, e  che,  pur  essendo  venuta  all'esistenza  insieme  al 
corpo,  gli  sopravviva  ^01.  Il  Bessarione,  che  conosceva  a  fondo 
il  pensiero  d'Aristotele  e  quello  d'Averroè,  aveva  dimostrato 
che  la  dottrina  attribuita  allo  Stagirita  dal  Trapesunzio,  è, 
sì,  dottrina  particolare  della  nostra  fede,  ma  non  s'accorda 
in  verun  modo  coi  principi  più  certi  della  filosofia  peripate- 
tica. Ed  anzi  tutto  è  impossibile,  per  Aristotele,  che  un  essere 
sia  eterno  «  a  parte  post  «  e  non  lo  sia  "  a  parte  ante  ».  Inoltre, 
se  le  anime  sono  numerate  coi  corpi  di  cui  son  forma,  siccome 
per  Aristotele  il  mondo  è  eterno,  bisognerebbe  ammettere  che 
un  numero  infinito  di  anime,  per  una  durata  infinita,  è  rimasto 
senza  il  proprio  corpo,  fino  al  momento  che  questo  non  è 
venuto  all'esistenza;  oppure  dovremmo  pensare  che  ciascuna 
anima  s'  è  unita  successivamente  a  un  numero  infinito  di 
corpi,   passando   da  uno   all'altro,   com.e  insegnava  Pitagora. 


100  Pag.  57a-b. 

loi  Bessarionis,  In  cahinmiatoreni  Platonis  libri  IV.  Textum  grae- 
cum  addita  vetere  versione  latina  primnm  edidit  L.  Mohler.  Paderbo- 
nae,  1927.  Nelle  «  Ouellen  und  Forschungen  aus  dem  Gebiete  der  Ge- 
schichte  »  della  Gòrres-Gesellschaft,  voi.  XXII.  Lib.  Ili,  e.  22,  pp. 
270  sgg. 


408        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Ora  tutto  ciò  è  assurdo  nella  filosofia  aristotelica.  Ma  v'  è 
di  piìi:  se  l'anima  umana  è  numerata  col  numero  dei  corpi  e 
se  al  disfacimento  del  corpo  essa  sopravvive  immortale,  siccome, 
la  specie  umana  è  eterna  e  infinito  è  il  numero  degli  uomini 
finora  apparsi  sulla  terra,  ne  segue  necessariamente  che  debba 
esservi  un  numero  di  spiriti  separati  infinito  in  atto:  il  che 
Aristotele  ritiene  assurdo  al  pari  di  S.  Tommaso.  Dunque, 
aveva  concluso  il  Bessarione,  uno  dei  due:  o  l'intelletto,  per 
Aristotele,  è  uno  solo  per  tutti  gli  uomini,  come  vuole  Averroè, 
oppure  dobbiamo  dire  che  le  anime  umane  muoiano  coi  loro 
corpi,  come  pensa  Alessandro  d'Afrodisia  i»-. 

Non  mi  consta  che  altri,  prima  del  Vimercate,  avesse  ri- 
chiamato l'attenzione  su  questo  vigoroso  modo  d'argomentare 
del  Bessarione,  il  quale  in  questa  sua  maniera  d' intendere 
Aristotele  ragiona  da  perfetto  averroista"3.  E  dal  Bessarione  il 
Vimercate  imparava  a  conoscere  anche  il  pensiero  di  Tommaso 
di  Wilton  o  Tommaso  Anglico,  un  altro  averroista  del  quale 
è  ancora  troppo  poco  conosciuto  il  pensiero  ^04. 


102  ,(  igitur  alterum  de  his  duobus  dicat  necesse  est:  aut  enim  unum 
eundenque  intellectum  omnibus  esse,  aut  una  cum  corpore  animam 
interire.  Qua  fit,  ut  nemo  ex  Aristotelis  opinione  possit  dicere  animam 
extingui  ad  corporis  extinctionem  et  eandem  post  corporis  corruptionem 
permanere»  (pp.  374-375)- 

i°3  Attraverso  la  critica  che  il  Bessarione  fa  della  maniera  d'inter- 
pretare la  dottrina  aristotelica  sull'anima  da  parte  del  Trapesunzio, 
non  è  difficile  accorgersi  che  egli  colpisce  anche  l' interpretazione  to- 
mistica; ed  è  una  critica  accorta,  perché  sostenuta  da  ammissioni  dello 
stesso  S.  Tommaso,  che  il  Bessarione  ha  l'avvedutezza  di  citare. 

104  Intorno  a  Tommaso  di  Wilton,  cfr.  C.  Michalschi,  Le  criticisme 
et  le  scepticisme  dans  la  philosophie  dii  XI  Ve  siede,  in  «  Bulletin  internat. 
de  l'Academie  Polonaise  des  Sciences  et  des  Lettres  »,  1923,  Classe  d'  hi- 
stoire  et  de  philosophie,  pp.  49-52;  Id.,  La  lutte  pour  l'àme  à  Oxford  et 
à  Paris  au  XI  Ve  siede,  in  «  Proceedings  of  the  seventh  intern.  Congress 
of  Philosophy  ».  Oxford,  1931,  pp.  508-515;  B.  Nardi,  Sigieri  di  Brab. 
nel pens.,  pp.  102-105.  La  dottrina  del  Wilton  sull'intelletto  umano  ci  era 
nota,  fino  a  poco  tempo  addietro,  soltanto  da  una  testimonianza  di  Gio- 
vanni di  Baconthorpe  (In  II  sent.,  dist.  19,  a.  2),  riferita  e  parafrasata 
dal  Nifo  (De  anima,  III,  comm.  ad  t.  5)  e  da  altri.  Ora  si  conoscono 
di  Tommaso  Anglico  anche  alcune  quaestiones  del  Quodlibet  parzial- 
mente conservato  nel  Codice  Borghesiano  latino  n.  36.  Ma  la  quaestio 
riguardante  l'anima  intellettiva,  insieme  ad  altre  elencate  nella  tabula, 
è  mancante.  Tuttavia  nella  quaestio  intorno  all'eternità  del  mondo,  ri- 
spondendo all'obiezione  tratta  dal  numero  infinito  delle  anime,  il  Wil- 
ton risponde  (f ol.  yóvb)  :  «  Ad  aliud  de  infinitate  animarum  :  non  valet 
quantum  ad  intentionem  Aristotelis;  nam,  ut  alias  probavi,  in  quaestio- 
ne  qua  quaeritur,  utrum  probari  potest  evidenter,  quod  intellectiva  sit 
actus  corporis,  non  fuit  de  mente  Philosophi,  quod  anima  incipiat  et 
cum   hoc  sit  incorruptibilis  ex  parte  post;  huius  enim  contrarium  prò- 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  4O9 

L'ultimo  argomento  trattato  dal  milanese  nella  sua  Di- 
sceptatio  è  quello  dell'  intelletto  agente,  intorno  al  quale  gli 
stessi  paripatetici  non  sono  d'accordo  tra  loro.  Sì  che,  mentre 
l'Afrodisio  ritiene  che  intelletto  agente-delie  nostre  anime  sia 
Dio,  seguito  in  questo  da  Alessandro  Achillini,  che  pure  si 
professava  averroista  e  questa  tesi  attribuiva  al  Commen- 
tatore di  Cordova  105,  altri,  come  Filopono  e  S.  Tommaso, 
pensano  che  l'intelletto  agente  sia  una  facoltà  o  una  parte 
dell'anima  umana.  Dagli  uni  e  dagli  altri  dissentono  Teofrasto 
e  Temistio,  i  quali  ritengono  che  l' intelletto  agente  è  parte 
dell'anima  razionale,  ma  nello  stesso  tempo  è  unico  in  tutti 


bat  ex  intentione,  primo  Caeli  et  mundi.  Et  credo  quod  opinio  sua  de 
intellectiva  sit  illa  quam  Commentator  sibi  imponit,  sicut  dixi  in  illa 
quaestione  praedicta.  Et  sic  argumentum  de  infìnitate  animarum  non 
valet  centra  Philosophum,  cuna  [/.  nisi]  vellemus  facere  Aristotelem  om- 
nino  catholicum,  et  dicere  quod  de  mente  sua  sit  quod  animae  numeren- 
tur  ad  numerationem  corporum,  et  cum  hoc  maneant  semper  ex  parte 
post  »  (debbo  alla  cortesia  della  Dott.  Anneliese  Maier  la  segnalazione 
di  questo  passo).  La  quaestio  cui  allude  il  Wilton,  potrebbe  essere  quella 
contenuta  nel  Codice  n.  63  (fol.  52r-54a)  del  Balliol  College  di  Oxford, 
«  An  intellectivam  esse  formam  corporis  possit  ratione  necessaria  pro- 
bari et  convinci  evidenter  »,  che  l'amico  prof.  Lorenzo  Minio  -  Paluello 
ha  assunto  l'eroica  fatica  di  trascrivermi.  Purtroppo  questa  quaestio, 
che  doveva  essere  molto  lunga,  nel  codice  di  Oxford  è  incompleta  e  non 
va  oltre  la  parte  espositiva  del  pensiero  di  Averroè.  Ma  quale  doveva 
esserne  la  conclusione,  oltre  che  dalla  testimonianza  del  Baconthorpe  e 
dal  passo  del  cod.  Borgh.  36,  si  rileva  da  questa  esplicita  citazione  del 
Bessarione  (1.  e.)  :  «  Thomas  vero  Anglicus  in  ea  quaestione,  quam  de 
intellectu  scribit:  ,,  Arbitror,  inquit,  Aristotelem  et  Averroem  eiusdem 
fuisse  opinionis  et,  quod  ad  primum  articulum  pertinet,  eam  sententiam 
Aristotelis  esse,  ut  intellectus  incorruptibilis  quidem  sit.  Sed  cum  omne 
incorruptibile  sit  ingenerabile,  iudicio  eiusdem  Philosophi,  sequitur  ut 
aeternus  sit  tam  parte  ante  quam  parte  post.  Quod  autem  ad  secundum 
pertinet,  licet  nec  Aristoteles  nec  Commentator  posuerit  individua  in  ge- 
nere substantiae  distingui  sub  eadem  specie  per  quantitatem  aut  per 
aliquid  exterius,  sed  per  interius,  tamen  multitudinem  individuorum 
speciei  eiusdem  in  corruptibilibus  tantum  posuerunt,  quoniam  natura 
speciei  servari  in  uno  individuo  non  potest.  Quam  ob  rem,  ubi  tota 
species  in  uno  aliquo  servari  posse  videbatur,  frustra  poni  eiusdem  spe- 
ciei individua  putaverunt,  nec  adiici  oportere  conditiones  individuales 
speciei  arbitrati  sunt.  Itaque  in  formis  carentibus  materia  nec  suo  esse 
dependentibus  ex  materia  singula  individua  singulis  speciebus  posue- 
runt, ut  duodecimo  Metaphysicae  [t.  e.  49  =  e.  8,  io74a  23]  constat  "  ». 
Una  importante  serie  di  Quaestiones  di  T.  di  Wilton  sul  De  anima  è 
nel  cod.  91  del  BalHol  College  di  Oxford;  ma  mancano  proprio  quelle 
sul  terzo  libro.  La  Dott.  A.  Maier,  Wilhelm  von  Alnwicks  Bologneser 
Quaestionen  gegen  den  Averroismus  (in  Gregorianum,  XXX,  I949.  PP- 
265-308),  ha  recato  un  notevole  contributo  alla  ricostruzione  del  pen- 
siero  wiltoniano. 

105  Cfr.  sopra,  pp.   210  sgg. 


4IO        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

gli  uomini  ed  eterno.  Dello  stesso  avviso  pensa  il  Vimercate 
fosse   anche   Simplicio  : 

Hanc  vero  opinionem  Simplicius  quoque  sequutus  fuisse  vide- 
tur,  qui  agentem  intellectum  nominavit  substantialem  animae  ra- 
tionalis  intellectum,  abiunctum  et  ab  ea  participatum,  cuius  unita- 
tem  licet  nuUibi  expresserit,  cum  tamen  participatum  eum  vocat, 
quidpiam  quod  a  multis  participetur,  unum  et  idem  existens, 
indicare  se  ostendit.  Commentator  quoque  eiusdem  sententiae 
extitit,  quemadmodum  a  Gandavensi,  in  suis  de  (hac)  materia 
disceptationibus,  fuit  ostensum  confirmatumque....  Huic  opinioni 
atque  sententiae  ego  quoque  subscribo  ^°^. 

Alla  Peripatetica  disceptatio  del  Vimercate  ha  largamente 
attinto,  traducendone  intere  pagine,  l'averroista  veneziano 
Rinaldo  Odoni,  cognato  del  celebre  umanista  Paolo  Manuzio 
e  zio  materno  di  Aldo  il  giovane  i»?.  L'Odoni,  che,  studente  a 
Perugia,  era  stato  accolto  al  seguito  di  Don  Flavio  Orsini, 
a  dimostrargli  il  suo  attaccamento  e  nello  stesso  tempo  per 
offrirgli  una  primizia  delle  sue  fatiche,  dedicò  al  suo  protet- 
tore, nel  1557,  il  Discorso  per  via  peripatetica,  ove  si  dimostra 
se  l'anima,  secondo  Aristotele,  è  mortale  0  immortale ^°^ ,  nella  spe- 
ranza forse  che  il  plagio  d'un'opera  stampata  a  Venezia  sarebbe 
passato  inosservato  in  Francia.  Le  citazioni  per  tanto  che  di 
Simplicio  accade  di  trovare  nel  Discorso  dell'  Odoni,  come  pure 
il  riferimento  al  Cardinal  Bessarione  e  a  Tommaso  Anglico, 
sono  di  seconda  mano. 

Plagio  invece  non  può  dirsi  la  Peripatetica  sententia  de 
mentis  humanae  unitale  che  il  lucchese  Simone  Simoni  intro- 
duce ne'  suoi  Antis  chegkiana,  sebbene  sia  evidente  la  sua  di- 
pendenza dal  Vimercate,  ritenuto  da  lui  «  nostri  temporis 
philosophorum  omnium  princeps  ».  Come  il  Vimercate,  anche 
il  Simoni  si  fa  forte  dell'autorità  del  Bessarione  e  di  Tommaso 
di  Wilton;  ma  al  nome  di  Simplicio  aggiunge  quello  di  Pri- 
sciano  Lido,  e  a  quello    dell'  inglese  i  nomi  di  Marc' Antonio 


106  VicoMERCATi,   Perip.   discept.,   p.    óaa. 

107  Em.  Ant.  Cicogna,  Delle  iscrizioni  veneziane  raccolte  e  ilhistrate, 
voi.   Ili,   Venezia,    1834,   pp.   436-437. 

108  In  Venezia,  MDLVII.  Edizione  Aldina.  Nel  1560  ne  fu  fatta  una 
riproduzione  esattamente  uguale.  Nel  1558,  ne  usci  a  Parigi  una  tradu- 
zione latina  ad  opera  di  Giacomo  Charpentier,  il  quale  la  ricorda  nello 
scritto  Plafonis  cum  Aristotele  in  universa  philosophia  comparafio,  Pari- 
siis,  1573,  Pars  posterior,  e.   18,  p.  45. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «DE    ANIMA»  4II 

Genua  e  di  Francesco  Piccolomini,  del  quale  ultimo  fu  disce- 
polo a  Padova  "9: 

Unicae  huic  sphaerae  humanae  quae  menti  subiicitur,  quamvis 
in  multos  et  innumerabiles  homines  dispartitae,  mens  una  humana 
coniungitur  ut  entelechia  (non  tamen  informans,  ut  Alexander 
voluit)  assistitque:  coniungitur,  inquam,  ut  organo  suo  artifex 
quo  utitur,  maiori  tamen  coniunctione  atque  efficacitate....  quam 
nauta  navi  coniungatur;  ita  ut  quamvis  intelligere  nos  extime- 
mus,  quia  coniuncti  hoc  modo  sumus  menti  quae  intelligit,  non 
tamen  inde  sequatur  navim  etiam  nautae  intelligentiae  coniunctam 
(quod  Suessanus  obiicit)  esse  intellecturam.  Penetrat  enim  omnia 
vis  et  substantia  incorporea  spiritualis,  qualis  nauta  non  est. 
Finge  (ut  Themistii  exemplo  utar)  excussorem  in  aere  aut  in 
ferro  esse,  non  extrinsecus,  sed  intrinsecus:  nonne  pervadet  pe- 
netrabitque  materiam  universam  ?  Coniungitur  item  statim  ab 
ortu,  non  tanquam  ex  aliquo  veniens,  ut  censuit  (referente  The- 
mistio)  Theophrastus  ;  sed  ut  in  suo  collata  orbe  hominibus  orien- 
tibus  illieo  adsit,  et  proportionem  quandam  sui,  absque  tamen 
uUa  diminutione,  impartiatur  ;  non  tunc  incipiens  cum  nascuntur 
homines,  sed  ab  aeternitate  praeexistens,  omnes  quotquot  oriuntur 
apprehendens  atque  complectens.  Sic  solem  dicimus  nascentem 
omnibus  adesse  lumenque  tribuere  illustrandoque  singula  per- 
ficere;  quod  tamen  lumen  solis  non  tunc  gignitur  primum,  cum 
videre  homo  incipit,  sed  praeexistens  homines  primum  oculos 
aperientes  illustrat,  et,  quandiu  apertos  eos  habuerint,  facultatem 
videndi   iisdem   impartitur.... 

Hanc  de  mente  humana  sententiam  exposuerunt  interpretes 
Aristotelis  celebriores,  quamquam,  ut  obscure  ista  variis  in  locis 
proponunt,  ita  etiam  non  parum  in  aliquibus  ad  naturam  mentis 
pertinentibus  inter  se  dissentire  videntur....  Nec  solus  Averroes 
et  graeci  quidam  (ut  ait  Schegkius)  sensum  Aristotelis  in  hunc 
modum    sunt   interpretati,    sed   omnes   uno   Alexandro   excepto; 


109  Simonis  Simonii,  Lucensis,  Medici  et  Philosophi  doctiss.  et  Pro- 
fessoris  Lipsiensis,  Anfischegkianorum  liber  untts  correctits  et  ancfus  etc. 
Basileae,  MDLXXI,  pp.  123-126.  Nella  dedica  del  commento  In  libros 

Aristotelis de  sensuum  instrumentis  et  de  his  quae  sub  sensum  cadunt, 

e  del  De  memoria  et  reminiscentia,  Ginevra,  1566,  al  principe  elettore 
palatino  Federico,  il  Simoni  stesso  e'  informa  d'essersi  addottorato 
a  Padova,  dopo  avervi  studiato  per  un  triennio  sotto  Francesco  Pic- 
colomini, del  quale  diremo  più  oltre.  Quivi  egli  ci  dà  altre  notizie  sulla 
sua  fuga  a  Ginevra,  ed  altre  ancora  negli  Antischegkiana,  e  segnata- 
mente sulla  sua  andata  a  Parigi  e  in  Germania  e  sulle  polemiche  avute 
coi  calvinisti  e  i  luterani,  la  cui  intransigenza  teologica  dovette  fargli 
rimpiangere  la  libertà  di  ciii  godevano  in  Italia  gli  averroisti  anche  nei 
primi  anni  della  Controriforma.  Su  di  lui,  vedasi  anche  Arturo  Pascal, 
Da  Lucca  a  Ginevra,  in  «  Riv.  Stor.  Ital.  »,  LI,  1934,  pp.  482-498,  e 
D.  Cantimori,  Un  italiano  contemporaneo  di  Bruno  a  Lipsia,  in  «  Studi 
Germanici  »,   III,   445-466. 


412         l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

qui  in  aliquibus  etiam  locis  quam  sibi,  quod  ad  hoc  argumentum 
attinet,  parum  constet,  neminem  esse  puto  qui  non  animadver- 
terit.  Theophrastus  idem  hac  de  re  docuit  quod  Averroes.... 
Philoponus,  Themistius,  Simplicius,  Priscianus  Lydus,  Plutar- 
chus,  Avicenna;  ex  iatinis  autem  prope  innumerabiles,  ut  Achil- 
linus,  Ziniara,  landunus,  Bessarion  cardinalis,  Thomas  Anglus, 
Marcus  Antonius  lanua,  Franciscus  Carokis  Piccolomineus, 
Antonius  Mirandolanus,  Franciscus  Vicomercatus  in  eandem 
sententiam  discesserunt  :  atque  adeo  ut  Bessarion,  doctrinae  peri- 
pateticae  studiosissimus,  postquam  valde  laborasset,  clarissimis 
verbis  testatus  sit,  eos  qui  unicam  numero  esse  hominum  animam 
statuerunt  nondum  convinci  physicis  rationibus  potuisse  "o;  et 
Vicomercatus,  ipse  quoque  nostri  temporis  philosophorum  omnium 
princeps,  dixerit,  nihil  ex  peripateticis  principiis  afferri  posse, 
quod  ex  iisdem  principiis  facile  non  dissolvatur.  Et  in  summa, 
nulla  est  res  de  qua  philosophorum  doctissimorum  hodie  sunt 
tam  definitae  sententiae  quani  de  ista  controversia  videtur  esse. 

Il  commento  di  Simplicio  al  De  anima  che  tale  e  tanta  in- 
fluenza esercitava  sulla  scuola  padovana,  era  rimasto  invece 
sconosciuto  ai  bolognesi  Alessandro  Achillini  e  Tiberio  Ba- 
cilieri,  nonché  a  Luca  Prassicio  d'Aversa,  il  quale  nel  1521 
era  intervenuto,  già  vecchio,  nella  polemica  fra  il  Pompo- 
nazzi  e  il  Nifo,  difendendo  senza  vigore  contro  l'uno  e  l'altro 
il  più  rigido  e  intransigente  averroismo  "i.  Ed  anche  Ludo- 
vico Boccadiferro  (Buccaferreus),  che  dal  15 17  insegnò  filo- 
sofia a  Bologna,  partitone  Giovanni  di  Montesdoch,  sino  alla 
sua  morte,  nel  1545,  salvo  tre  anni  d' interruzione  dal  1524 
al  1527,  e  che  ci  ha  lasciato  un  commento  al  De  anima,  stam- 
pato, e  una  Quaestio  de  immortalitate  animae,  trattata  in  ben 
undici  lezioni  manoscritte  che  ci  restano  in  due  redazioni 
un  po'  diverse  (Vat.  lat.,  cod.  4701,  ff.  86V-133V,  cod.  4710, 
ff .  204r-255r,  e  cod.  Magliabech.,  Conv.,  Soppr.,  F.  51,  ff.  96-147), 
mostra  di  non  tenere  in  alcun  conto  l'esposizione  di  Simplicio, 
che  pur  cita  qualche  volta  e   discute  di  sfuggita. 

Sicché  possiamo  concludere,  da  quanto  abbiamo  detto, 
che  la  fortuna  dell'opera  di  questo  commentatore  greco  in- 
torno al  De  anima  è  essenzialmente  legata  allo  studio  padovano. 


11°  Bessar.,   In  calumn.   Platonis,   III,   e.   27,   p.   409. 

m  Quesito  de  immortalitate  aniine  intellective  secundum  mentem,  Ari- 
stotelis  a  nemine  verius  quam,  ah  averroi  interpretati  a  seculo  latitans, 
nuperrime  vero  a  Domino  Luca  Prassicio,  Patricio  Aversano,  in  cla- 
rissimam   lucem  ediicta.   Napoli,    1521,    15   novembre. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  4I3 


7.  -  Ma  se  il  Genua  e  la  sua  scuola  accolsero  col  più  grande 
favore  la  dottrina  di  Simplicio  intorno  all'  intelletto,  con  la 
venuta  a  Padova  di  nuovi  professori  non  tardarono  a  mani- 
festarsi i  dissensi,  e  riguardo  all'attendibilità  dell'  interpreta- 
zione simpliciana  della  dottrina  aristotelica,  e  riguardo  alla 
possibilità  di  conciliarla  con  quella  averroistica. 

Nel  gennaio  del  156 1  era  venuto  a  Padova  da  Perugia  il 
senese  Francesco  Piccolomini,  come  professore  della  prima 
scuola  di  filosofia  straordinaria,  ove  nel  1564  ebbe  per  concor- 
rente il  mantovano  Federico  Pendasio.  Nell'ottobre  del  1565, 
l'uno  e  l'altro  furon  dati  per  successori  al  Genua  nella  scuola 
di  filosofia  ordinaria"-.  Averroista  il  Piccolomini,  alessandrista 
moderato  il  Pendasio,  ben  tosto  scoppiò  fra  il  senese  e  il  man- 
tovano un'astiosa  polemica,  della  quale  son  documento  le 
rispettive  apologie  pervenute  manoscritte  fino  a  noi  "3. 

Pare  fosse  il  Pendasio  ad  attaccare,  accusando  averroisti 
e  simpliciani  d'aver  falsato  Aristotele.  Il  Piccolomini,  che  si 
ritenne  preso  di  mira  dal  collega,  non  mancò  di  reagire,  tac- 
ciando gli  alessandristi  di  allucinati  e  ignoranti.  Senza  che 
uno  facesse  il  nome  dell'altro,  le  allusioni  da  una  parte  e  dal- 
l'altra semibravano  abbastanza  trasparenti.  Ciascuno  dei  due, 
attraverso  le  informazioni  degli  alunni  e  i  quaderni  d'appunti, 
spiava  le  mosse  dell'avversario;  finché  il  Pendasio  per  primo. 


112  Iac.  Facciolati,  Fasti  gymiiasii  Patavini,  parte  III,  pp.  275, 
279,  281.  A  Federico  Pendasio  dedica  alcune  pagine  Francesco  Fio- 
rentino, Pietro  Pomponazzi.  Studi  storici  sulla  scuola  bolognese  e  pa- 
dovana nel  secolo  XVI.  Firenze,  Le  Monnier,  1868,  pp.  362-383.  Notizie 
biografiche  su  di  lui,  negli  Almanacchi  di  L.  C.  Volta,  presso  la  Bi- 
blioteca Comunale  di  Mantova,  ove  si  conserva  anche  un  ritratto  del 
filosofo;  negli  appunti  del  conte  Carlo  d'Arco  sulle  famiglie  mantovane, 
presso  l'Archivio  Gonzaga,  nella  stessa  città  (debbo  queste  notizie  alla 
cortesia  dell'amico  prof.  Cesare  Ferrarini  buon'anima,  già  solerte  direttore 
di  quella  Biblioteca  Comunale)  ;  e  in  G.  Fantuzzi,  Notizie  degli  scrittori  bo- 
lognesi, t.  VI,  Bologna,  1788,  pp.  340-342.  Perl'  insegnamento  del  Penda- 
sio a  Bologna,  si  veda  U.  Dallari,  I  Rotitli  dei  lettori  Legisti  e  Artisti 
dello  Studio  bolognese  dal  1384  al  lygg.  Bologna,  Regia  Tipografìa,  1888- 
1891,  per  gli  anni  1571-1603,  durante  i  quali  fu  professore  in  quell'uni- 
versità. 

113  Delle  due  Apologie  conosco  due  manoscritti:  quello  cartaceo  m 
folio  di  S.  Andrea  della  Valle,  n.  92,  presso  la  Biblioteca  Nazionale 
di  Roma,  Fondi  minori,  n.  1729,  del  sec.  XVI;  e  quello  parimente  car- 
taceo in  folio,  del  sec.  XVI,  della  Biblioteca  Universitaria  di  Padova, 
n.   663,   I. 


414        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

sentendosi  bersagliato,  tolse  in  mano  la  penna  e  vergò  le  tre- 
dici lezioni  della  sua  Apologia,  provocando  il  collega  a  una 
pubblica  disputa.  Ciò  dovette  essere  sul  finire  del  1568  o  nei 
primi  mesi  del  1569;  poiché  il  Piccolomini,  senza  raccogliere 
la  sfida  alla  pubbfica  discussione,  pensò  di  rispondere  al  suo 
rivale  alessandrista  in  una  lezione  tenuta  a  Padova  il  2  marzo 
di  quell'anno.  Il  Pendasio  gli  replicò  con  la  tredicesima  le- 
zione della  sua  Apologia.  Il  Piccolomini,  che  credeva  d'esser- 
sela sbrigata  alla  svelta,  com'ebbe  visto  il  nuovo  attacco, 
dovette  decidersi,  il  20  aprile  e  i  giorni  successivi,  a  tenere 
alcune  lezioni  per  dargli  una  risposta  meno  evasiva.  Il  man- 
tovano, in  una  specie  di  riassunto  della  controversia,  volle 
dir  l'ultima  parola,  intrattenendo  i  suoi  ascoltatori  per  due 
lezioni,  tenute  senza  dubbio  alla  fine  d'aprile  o  a  principio 
di  maggio.  Non  saprei  se  la  polemica  avesse  ulteriori  sviluppi, 
come  parrebbe  suggerire  il  codice  Urbinate  latino  1456 
(fol.  8ir-85r)  che  contiene  una  Quinta  pars  Apologiae  ex.mi 
Peniasii.  Certo  è  che  i  rapporti  fra  i  due  maestri  dovettero 
restare  molto  tesi,  finché  nel  1571  il  Pendasio  accolse  l' invito 
dello  studio  bolognese,  e  a  Bologna  restò  ininterrottamente 
fino  al  dicembre  1603,  quando  venne  a  morte. 

Di  lui  ci  restano  intorno  all'argomento  dell'anima  diverse 
opere  manoscritte,  che  risalgono  al  periodo  padovano  del  suo 
insegnamento.  Anzi  tutto,  le  Lectiones  et  quaestiones  del  co- 
dice Urbin.  lat.  1480.  Le  lezioni  sul  primo  e  il  secondo  libro 
del  Da  animz  furon  tenute  a  Padova  nel  1566.  L' inizio  delle 
lezioni  sul  terzo  libro  pjrta  la  data  del  14  novembre  dello 
stesso  anno  (fol.  7ir).  Colla  seconda  lezione  sul  testo  IV  di 
quel  libro  comincia  l'esposizione  e  la  critica  del  pensiero  di 
Simplicio,  che  si  protraggono  nelle  lezioni  successive.  Più 
oltre  (fol.  i85r),  la  questione  An  anima  intellectiva  sit  forma 
dans  esse;  indi  (fol.  217V)  altra  questione  de  muUiplicitate 
animcirum,  e  di  nuovo  (fol.  237r)  Quaestio  ex.mi  Pend.  an 
anima,  sit  forma  informxns  vel  assisfens.  Viene  da  ultimo  il 
Tractatus  de  im^nor talliate  anirme  Preolarissimi  Philosophi 
Federici  Peniasii  Mantuani,  con  questa  precisa  data  :  «  XI 
calendas   lunij    M.DLXX  ». 

Un  codice  d^lla  Biblioteca  Nazionale  di  Roma  (Fondi  mi- 
nori 1728,  S.  Andrea  della  Valle,  n.  81)  contiene  ì'Absolutis- 
sim.z  lectura  super  primos  treieoim  textus  tertii  Libri  de  Anima 
ah   Ex.m-)  Domino   Feierico   Peniasio   Philosopho   Mantua.no, 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «DE   ANIMA»  415 

olim  in  Augustissimo  Gimnasio  Patavino  hahita.  Evidentemente 
quel  treieoim  è  un  errore  invece  di  uniecim.  Poiché  queste  52 
lezioni  non  vanno  più  in  là  del  testo  undecimo,  e  dell'esposi- 
zione dei  primi  undici  testi  fatta  a  Padova  il  Pendasio  parla 
anche  neW Apologia. 

Il  cod.  92  di  S.  Andrea  della  Valle,  oltre  dlV Apologia,  con- 
tiene anche  la  questione  An  anima  intellectiva  sit  forma  dans 
esse  homini  (fol.  80)  e,  privo  del  titolo,  il  De  animae  immorta- 
litate  (fol.   no) . 

V  è  poi  il  codice  dell'Universitaria  di  Padova  1264,  Lectiones 
excellentissimi  Philosophi  Federici  Peniasii  in  lihros  de  Anima, 
già  studiato  da  Francesco  Fiorentino,  che  contiene  trenta 
lezioni  sul  primo  e  secondo  libro  (pp.  1-224),  quindi  75  lezioni 
sul  terzo  libro  con  questo  titolo:  Federici  Pendasii  in  Gymnasio 
Patavino  primo  loco  philosophiam  profitentis  in  lihrum  jum  de 
Anima  lectiones  dictatae  1577,  <l^<^s  ego  Aloysius  Quirinus 
excepi.  La  data  del  1577  dev'essere  un  errore  invece  del  1567; 
oppure  essa  deve  riferirsi  all'anno  della  trascrizione  fattane 
dal  Qusrini,  il  quale  s'era  procurato  molte  opere  manoscritte 
del  Pendasio,  del  Mercenario,  del  Piccolomini,  del  Petrella, 
del  Genua,  del  Cremonini  e  di  Bernardino  Tomitano,  che, 
morendo  vecchissima  nel  1653,  lasciò  in  legato  al  monastero 
veneziano  di  S.  Giorgio  Maggiore  "4.  Del  resto  le  prime  52  le- 
zioni sono  identiche  con  quelle  del  cod.  91  di  S.  Andrea  della 
Valle,  che  sappiamo  tenute  a  Padova,  e  in  molte  parti  identiche 
nella  sostanza  a  quelle  del  codice  Urbin.  lat.  1480.  Da  ultimo 
il  codice  padovano  contiene  il  De  animae  immortalitate,  nella 
forma  sostanzialmente  identica  a  qusUa  del  codice  92  di  S. 
Andrea  della  Valle  e  dell'  Urbinate,  ove,  come  abbiamo  visto, 
porta  la  data  del  22  maggio   1570 . 

Federico  Pendasio  è  pensatore  coltissimo  e  spesso  assai 
acuto.  Spregiatore  del  commento  averroistico,  gli  preferisce, 
in  generale,  quello  d'Alessandro  d'Afrodisia,  tranne  sull'argo- 
mento dell'  immortalità  dell'anima,  a  differenza  del  piacen- 
tino  Bassiano    Landò   che   era  un   alessandrista  integrale  "S. 


^14  Cicogna,  Delle  iscrizioni  veneziane,  t.  I,  p.  163;  t.  IV,  p.  599,  n.  i. 

"5  Bassiani  L.\ndi,  Piacentini,  summi  philosophi  graecarumque 
litterarum  peritissimi,  in  Patavino  gymnasio  medicinae  theoricen  ma- 
gna cum  laude  profitentis.  In  tres  Aristotelis  libros  de  anima,  iam  pridem 
ab  eodem  e  graeco  conversos,  oppido  quam  elegans  ac  nova  expositio,  ver- 


4l6        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Buon  conoscitore  di  Platone,  di  Plotino,  di  Proclo  e  degli  altri 
neoplatonici,  il  Pendasio  non  tardò  ad  accorgersi  che  l' inter- 
pretazione del  pensiero  Simpliciano  da  parte  del  Nifo  era  un 
grossolano  fraintendimento;  né  molto  piti  attendibile  doveva 
apparirgli  quella  del  Genua  e  della  sua  scuola.  Quanto  al  Nifo, 
interdiceva  perfino  ai  suoi  scolari  di  discuterne:  «  Imo  in- 
terdico vobis  penitus  expositionem  Suessani:  nihil  prorsus, 
meo  iudicio,  intellexit  quantum  spectat  ad  intelligendum  Sim- 
plicii  et  veterum  sententias  »"6.  Nella  lezione  settima  del  terzo 
libro  del  De  anima  egli  intraprende  un'esposizione  compa- 
rativa della  dottrina  del  commentatore  greco,  facendone  ve- 
dere la  piena  rispondenza  col  pensiero  di  Platone  e  dei  neopla- 
tonici; si  ferma  sul  concetto  di  «intelletto  partecipato»  e  ne 
mostra  il  significato  equivoco,  sforzandosi  di  chiarirlo,  allo 
scopo  d' infirmare  l' interpretazione  di  tutti  coloro  che  pre- 
tendevano di  trovare  nella  dottrina  di  Simplicio  la  tesi  aver- 
roistica  dell'unità  dell'  intelletto.  L'esposizione  e  la  critica 
di  SimpHcio  si  protrae  per  alcune  lezioni  dopo  la  settima  "7, 


borum  misteria  (sic)  Auctorisque  sensum  miro  quodam  artificio  reserans. 
Venetiis,  ap.  Hier.  Scottum  [sic],  1569.  Di  lui  ci  restano  anche  altre 
opere  di  medicina.  Nel  1544  insegnava  a  Padova  nella  seconda  scuola 
di  filosofia  straordinaria.  L'anno  dopo  passò  alla  prima  scuola  di  me- 
dicina teorica  ordinaria,  mentre  alla  seconda  cattedra  di  filosofia  straor- 
dinaria veniva  chiamato  il  piemontese  Gian  Gabriele  Alberto,  esso  pure 
alessandrista  e  avversario  di  Gian  Giacomo  Pavesi,  col  quale  ebbe 
un'astiosa  e  rumorosa  polemica.  Dell'Alberto  e  del  Landò  narra  An- 
tonio Polo  [Abbreviano  verit.  animae  rationalis,  p.  105):  «Recorder, 
cum  essem  Patavii,  quemdam  Gabrielem  Albertum,  Pedemontanum, 
tribus  mensibus  quaestionent  de  immortalitate  animae  pertractasse, 
et  in  fine  omnis  resolutionis  dixit,  ut  ignarus  et  impius:  ,,  Nisi  esset 
Plato,  tenerem  mortalitatem  animae  ".  Simihter  quidam  Bascianus 
[sic)  Landus,  qui  privatim  tertium  Aristotelis  de  anima  multis  nobilibus 
scholaribus  exponebat  ad  mentem  impii  Pomponatii,  dicebat:  ,,  Mihi 
displicet  vobis  legere  impietatem;  sed  Aristotelis  littera  sic  ait,  et  ipse 
sic  tenet  ".  Unde  videns  ego  et  considerans  has  suas  expositiones  falsas 
esse,  praesentibus  omnibus  scholaribus,  per  viam  epilogi,  omnia  sua 
argumenta  reassumpsi  et  reieci,  et  secundum  veritatem  Aristotelis, 
exposui.  Qui  nolens  respondere,  sed  tacens,  dicebat:  ,,  Sic  ait  Aristo- 
teles  ".  Et  deinde  dedignatus  noluit  amplius  ut  ego  audirem  suas  falsas 
lectiones.  Sed  sicut  falso  veritatem  docebant,  sic,  permittente  Deo, 
ambo  ab  incognitis  trucidati  fuere,  et  sic  poenas  suae  impietatis  sol- 
verunt  ».  Il  Landò  fu  assassinato  nell'ottobre  1563.  Un  altro  risoluto 
alessandrista  è  il  patrizio  veneziano  Polo  Loredan,  autore  anch'egli 
d'un  commento  In  tres  libros  Aristotelis  de  anima.  Venetiis,  ap.  Ro- 
bertum  Meiettum,  MDXCVI. 

"6  Ms.   della   Bibl.    Univ.    di   Padova,    n.1264,   p.    272. 

1^7  Ib.,  p.  272  sgg. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  4I7 

essendo  il  Pendasio  consapevole  come  la  pensassero  su  questo 
argomento  gli  scolari  del  Genua. 

L  a  risolutezza  messa  dal  filosofo  mantovano  nel  combattere 
le  pretese  degli  averroisti,  di  tirare  al  loro  mulino  l'acqua  del 
commento  di  Simplicio,  dovette  indurre  qualche  discepolo 
del  Genua  a  rivedere  le  proprie  convinzioni.  Uno  di  questi 
alunni  del  Genua  fu  Giacomo  Zabarella,  insegnante  a  Padova 
nella  prima  scuola  di  logica  dal  1564  al  1567,  quando  passò 
alla  seconda  scuola  di  filosofia  straordinaria.  Nel  1577  fu  pro- 
mosso alla  prima  scuola  straordinaria  e  nel  1585  alla  seconda 
scuola  di  filosofia  ordinaria.  Morì  nel  1589.  Egli  pure  ebbe  un 
vivace  contrasto  col  Piccolomini  per  questioni  di  logica  "8. 
Sebbene  nel  1576  accettasse  di  buon  grado  la  dedica  dell'edi- 
zione veneziana  del  commento  del  Genua  al  De  anima,  egli 
era  assai  più  vicino  al  Pendasio,  nel  modo  d' intendere  Ari- 
stotele, che  non  al  suo  maestro,  del  quale  pur  conservava  un 
grato  e   affettuoso  ricordo. 

Anche  lo  Zabarella,  come  il  Genua  e  il  Nifo,  attribuisce  a 
Simplicio  la  dottrina  dell'unità  dell'  intelletto.  Ma  là  dove  il 
Nifo  e  il  Genua  danno  la  cosa  per  sicura,  lo  Zabarella  intro- 
duce l'opinione  di  Simplicio  con  un  videtnr  "9: 

Videtur  quidem  Simplicius  in  2.  contextu  illiiis  libri  3.  [De 
anima']  dicere  animam  rationalem  secundum  se  unam  esse,  per 
suam  autem  in  corpus  progressionem  multiplicari,  sed  hoc  aliis 
pluribus  Simplicii  figmentis  adnumerandum  est;  multa  enim 
dicit,  quae  simul  esse  nequeunt  et  manifestam  repugnantiam 
habent,  veluti  animam  rationalem  totam  esse  in  se  manentem 
et  perfectam,  et  totam  esse  lapsam  in  corpus  et  imperfectam, 
eamque  unam  numero  esse  secundum  se,  in  hominibus  autem  esse 
multiplicatam,  et  alia  eiusmodi  quae  ncque  esse,  ncque  cogitatione 
comprehendi  a  nobis  possunt. 

Tuttavia  quest'anima  che,  una  in  sé,  si  moltiplica  nei  corpi 
umani,  s'unisce  a  questi  non  soltanto  come  forma  assistente. 


118  cfr.  Pietro  Ragnisco,  Giacomo  Zabarella:  il  filosofo.  La  pole- 
mica tra  Fr.  Piccolomini  e  G.  Z.  nella  università  di  Padova,  in  «  Atti 
del  R.  Istituto  Veneto  di  Scienze,  Lettere  ed  Arti  »,  serie  VI,  Venezia, 
1886,  t.  IV,  parte  II,  pp.  217-252. 

"9  De  mente  hnmana  e.  io.  Questo  trattato  che  fa  parte  del  De  rebus 
naturalibus,  pubblicato  a  Venezia  nel  1589-1590,  è  stato  inserito  nel 
commento  al  De  anima  (II,  subito  dopo  il  commento  al  t.  11),  insieme 
agli  altri  trattati  psicologici,  dal  figlio  Francesco  Zabarella  che  curò 
la   pubblicazione  postuma  a  Venezia  nel  1605. 

27 


4l8        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

bensì  come  vera  forma  informante,  proprio  alla  maniera  che 
pretendevano  il  Nifo  e  l'Achillini,  con  grande  e  incompren- 
sibile meraviglia,  per  quest'ultimo,  dello  Zabarella  i^".  Il  quale 
nel  suo  commento  al  De  anima  i^i  loda  Simplicio  per  avere  otti- 
mamente compreso  in  che  senso  Aristotele  compara  l'anima 
razionale  al  nocchiero  che  guida  e  regge  la  nave: 

Veram  huius  loci  iiiterpretationem  ego  puto  sumendam  esse 
ex  Simplicio,  qui,  licet  maxime  omnium  existimaverit  animam 
nostram  rationalem  esse  a  corpore  separabilem  et  immortalem, 
tamen  verum  horum  verborum  sensum  non  ignoravit,  et  optime 
exposuit  in  quo  consistat  haec  comparatio  animae  cum  nauta. 
Putavit  Simplicius  animam  rationalem  humanam  d,uos  habere 
status:  unum  quatenus  in  se  manet,  alterum  ut  est  pregressa  in 
corpus;  ac  in  se  manens  est  forma  abstracta  a  corpore,  semper 
intelligens  et  beata  ;  ut  pregressa  in  corpus,  dicitur  anima  homi- 
nis,  nec  semper  intelligit,  sed  cum  studio  et  labore,  et  est  forma 
hominis.  Non  enim  negat  Simpbcius,  animam  rationalem  humanam 
esse  formam  informantein,  etsi  putat  esse  a  corpore  separabilem 
secundum  essentiam,  licet,  quatenus  est  actus  corporis,  et  anima 
possit  dici  inseparabilis,  quia  extra  hominem  non  est  amplius 
anima.  Ideo  inquit  Simplicius,  Aristotelem  in  his  libris  non  con- 
siderare nec  definire  animam  rationalem,  nisi  prout  est  anima  et 
est  iuncta  corpori,  cui  dat  esse.  Haec  igitur,  ita  considerata, 
habet  duos  respectus  ad  corpus:  unum,  quatenus  est  eius  fonna 
et  actus  primus;  alterum  vero,  quatenus  utitur  corpore  iam  infor- 
mato ab  ipsa,  et  ipsum  regit  sicut  nauta  navim.  Itaque  non  vult 
Simplicius,  quod  dicere  animam  esse  ut  nautam  in  navi,  sit  ne- 
gare eam  esse  formam  informantem;  sed  vult  simul  iunctas  esse 
in  anima  has  duas  conditiones:  informat  enim  corpus,  et  ipsum 
informatum  gubernat  ut  nauta  navim.  Certe  optime  intellexit 
SimpUcius  istam  Aristotelis  comparationem  animae  cum  nauta; 
non  enim  in  hoc  consistit  haec  similitudo,  quod,  sicut  nauta  est 
abstractus  a  navi  nec  dat  illi  esse,  ita  anima  sit  forma  abstracta 
non  dans  esse  corpori,  sicut  Averroes  putat;  sed  in  hoc  solum 
quod,  sicut  nauta  navim  regit,  ita  anima  regit  corpus;  in  reliquis 
sunt  dissimiles. 


120  Dg  mente  humana,  cap.  ii:  «  Nam  si  anima  rationalis  est  forma 
dans  esse  homini...,  necesse  est  ut  sit  multiplicata....  Consequentia 
autem  manifesta  est  et  ab  Averroistis  concessa....  Solus  tamen  Achil- 
linus  hanc  consequentiam  negare  ausus  est,  in  Quolibeto  3,  dubio  2  :  inquit 
enim  animam  rationalem  esse  formam  vere  informantem  et  esse 
unam  numero  in  tota  humana  specie,  non  multiplicatam,  ecc.  ».  È  la 
tesi  che  il  Nifo  attesta  essere  stata  sostenuta  da  Sigieri.  Vedi  sopra, 
pp.   208-210. 

131  II,  ad  t.   II. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  4I9 

Se  Simplicio  merita  lode  per  aver  ritenuto  che  l'anima 
razionale  è  forma  informante  del  corpo,  pur  essendo  unica  in 
se  stessa,  non  si  riesce  a  capire  come  lo  Zabarella  possa  af- 
fermare che  l'Achilhni  fu  il  solo  a  non  rendersi  conto  della 
«  manifesta  ripugnanza  »  che  lo  stesso  Zabarella,  come  abbiamo 
visto,  aveva  scoperto  nelle  due  tesi  sostenute  dal  commen- 
tatore greco. 

Più  oltre,  in  principio  del  commentoal  terzo  Libro  del  De 
anima  122,  volendo,  come  il  Pendasio,  determinare  con  esat- 
tezza che  cosa  sia  quella  «  particula  animae  qua  et  cognoscit 
anima  et  sapitw^s,  lo  Zabarella  si  trova  ancora  dinanzi  l'inter- 
pretazione che  Simplicio  aveva  dato  di  questo  testo  aristo- 
teUco  1-4,  e  per  chiarirla  sente  il  bisogno  di  spiegare  al  lettore, 
una  volta  per  tutte,  la  teoria,  sulla  quale  il  commentatore 
greco  ritorna  di  continuo,  dei  quattro  gradi  degli  esseri,  che 
sono:  l'intelletto  divino  non  partecipato,  l'intelletto  di  cui 
partecipano  gli  esseri  intelUgenti  inferiori  a  Dio,  l'anima  ra- 
zionale e  la  natura.  L'anima  razionale,  che  occupa  il  terzo 
gradino  in  questa  scala  discendente,  può  essere  considerata 
in  tre  momenti  o  «stati»  differenti:  in  quanto  permane  in  sé, 
nella  sua  perfezione  intellettuale,  tutta  atto  senz'ombra  di 
potenza,  anzi  atto  sostanziale;  in  quanto,  uscita  fuori  di  sé, 
s'unisce  al  corpo,  decadendo  dalla  sua  perfezione  contem- 
plativa e  facendosi  pura  potenza;  in  quanto,  permanendo  in 
se  stessa,  agisce  su  di  sé  decaduta  e,  stimolata  dai  sensi,  si 
risolleva  dallo  stato  di  pura  potenzialità,  per  ritornare  a  sé 
e  riconquistare  la  sua  originaria  perfezione.  Come  intelletto 
in  sé,  dicesi  intelletto  agente;  come  intelletto  decaduto,  di- 
cesi intelletto  possibile;  come  intelletto  che  ritorna  a  sé,  è 
detto  intelletto  in  abito.  Al  di  sotto  dell'  intelletto  stanno  le 
«  seconde  vite  »,  cioè  la  vita  vegetativa  e  quella  sensitiva, 
cui  r  intelletto,  decadendo  dalla  sua  perfezione,  s'unisce. 
Aristotele  chiama  «  anima  »  l'aggregato  risultante  dall'  in- 
telletto con  le  «  seconde  vite  ».  Di  questo  aggregato  l' intelletto, 
che  è  una  natura  diversa  dall'anima  vegetativa  e  sensitiva, 
sarebbe  appunto  quella  «  particella  che  conosce  e  discerne  ». 
Dopo  questo  riassunto  della  dottrina  di  Simplicio,  nel  quale 


122  Ad  t.  e.   I. 

123  Arist.,  De  aniììia,  III,  e.  4,   429a  io   (t.  e.  i). 

124  Ed.   Hayduck,  p.   217  sgg. 


420         l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

lo  Zabarella  oscilla  tra  l' interpretazione  del  Genua  e  quella 
del  Nife,  egli  passa  a  discutere  le  obiezioni  che  a  questa  dot- 
trina eran  mosse  dai  suoi  contemporanei.  Ma  già  egli,  non 
meno  del  Pendasio,  l'aveva  dichiarata  del  tutto  aliena  dal 
pensiero  d'Aristotele  e  ispirata  piuttosto  alle  fantasticherie 
dei  platonici. 

Col  Pendasio  e  con  lo  Zabarella  era  d'accordo  anche  il 
lucchese  Flaminio  Nobih,  professore  di  filosofia  nell'univer- 
sità di  Pisa,  e  dipoi  a  Roma  "5,  Nella  sua  opera  De  hominis 
felicitate,  dedicata  a  Pio  IV,  ci  dà  questa  interpretazione  del 
pensiero  di  Simplicio,  la  quale  risente  evidentemente  di  quella 
del  Nifo  1-6; 

Simplicius  vero  existimat  ex  ipsa  mente  (quam  et  ipse  unicam 
in  omnibus  hominibus  ponit,  non  tamen  eandem  censet  esse  quam 
mvuìdi  animam)  et  ex  reliquis  formis,  quae  prius  in  corpore  humano 
existunt,  ut  anima  vegetabilis  et  sentiens,  componi  qvioddam  totum 
quod  animam  rationis  compotem  veramque  ac  postremam  hominis 
formam  vocat.  Ita  tot  animae  rationis  compotes  sunt,  quot  sunt 
humana  corpora.  Nam  quemadmodum  materies  illa  prima  est 
una  numero  privatione  omnium  formarum,  partitur  tamen  postea 
per  formas  et  multiplex  evadit,  ita  mens  humana,  quamvis,  si 
per  se  spectetur,  unica  sit,  alteri  tamen  atque  alteri  animae  sen- 
tienti  in  diversis  hominibus  coniuncta,  quasi  in  phires  partes 
tribuitur  ac  multiplex  fit.  Ouare  anima  rationis  compos  interitui 
obnoxia  est,  non  quidem  ex  parte  mentis,  quae  est  aeterna,  sed 
ex  parte  caeterarum  formarum  quae  in  homine  cum  mente  sunt 
copulatae  et  mortali  simt  conditione  127.  Haec  igitur  mens  in  se 
manens,   a  superioribus  mentibus  formata,   illas  intelligit.    Intel- 


125  Nato  a  Lucca  nel  1533,  dopo  avere  studiato  filosofìa  e  medicina 
a  Pisa,  passò  nel  1554  a  Ferrara,  ove  ascoltò  le  lezioni  di  Vincenzo 
Madio  o  Maggi  e  strinse  amicizia  con  Antonio  Montecatino,  col  Tasso 
e  con  Annibale  Caro.  A  Ferrara  compose  il  Trattato  dell'amore  humano, 
che  più  tardi  fu  stampato  a  Lucca,  nel  1567,  e  un  esemplare  del  quale 
ci  è  pervenuto  postillato  in  margine  dal  Tasso;  cfr.  Il  trattato  del- 
l'amore humano  di  Flaminio  Nobili  con  le  postille  autografe  di  T. 
Tasso,  pubblicato  da  P.  D.  Pasolini  in  occasione  del  terzo  centenario 
dalla  morte  del  Poeta.  Roma,  E.  Loescher  e  C,  1895.  Dal  1560  fu  let- 
tore di  logica  e  di  diritto  ecclesiastico  a  Pisa;  più  tardi  passò  a  Roma. 
Paganini,   Flaminio  Nobili,   studio  biografico.   Torino,   Speirani,    1884. 

^26  Fl.  Nobilis,  Lucensis,  Philosophiae  in  Pisano  Gymnasio  Doc- 
toris,  De  hominis  felicitate  libri  tres  ad  Pium  Quartìim.  De  vera  et  falsa 
voluptate  libri  duo.  De  honore  liber  unus  ad  Franciscum  Medicem  Flo- 
rentinorum  et  Senensium  principem.  Lucae,  ap.  Vinc.  Busdracum. 
MDLXIII.    De   hom..    felic,    III,  e.  28,   pp.    243-244. 

1-7  II  Nobili  fin  qui  riassume  il  Nifo,  De  iniellectu,  I,  tr.  3,  e.  16  (che 
abbiamo  riferito  più  su). 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    a  DE    ANIMA  »  42 1 

ligit  etiam  inferiora,  cum  illorum  ideae  sibi  sint  a  prima  mente, 
quam.  Platonici  Dei  lìlium  et  mundum  intelligibilem  vocant, 
impertitae  et  communicatae.  Pregressa  autera  fato  quodam  ad 
corpus  hoc  quasi  caecatur  et  fit  capax;  qua  tamen  retinet  adhuc 
non  nihil  prioris  naturae,  efficiens  vocatur.  Phantasmata  autem 
nihil  fere  aliud  praestant,  quam  ut  mentem  quasi  consopitani 
excitent,  ita  ut  ad  se  redeat;  revertenteque  ad  sese  nostrani  tunc 
consequimur  felicitatem.  Quam  sententiam  si  Simplicius  habuit,  ut 
certe  videtur  habuisse,  ncque  Tliemistio  ncque  Averroi  concedere 
debet,    ut   maiores   nugas    dixerint. 

Siffatta  dottrina,  —  osserva  ancora  il  Nobili  ^-^,  —  è  ritenuta 
da  alcuni  collimare  con  quella  di  Platone,  mentre  altri  son 
di  parere  che  s'accordi  meglio  col  pensiero  neoplatonico  di 
Plotino,  di  Calci  dio,  di  Giamblico  e  di  Proclo  . 

Amico  del  Nobili  e  alunno  anch'egli  di  Vincenzo  Madio  ^^9 
era  Antonio  Montecatino,  nobile  ferrarese,  che  il  17  aprile 
1568  era  stato  chiamato  a  coprire  la  cattedra  di  filosofia  nello 
studio  di  quella  città.  Più  tardi,  segretario  d'Alfonso  II  d'  Este, 
fu  accusato  d'aver  fatto  perdere  al  Tasso  il  favore  della  corte; 
ma  pare  senza  ragione.  Usato  in  diverse  ambascerie,  finì  per 
cadere  in  disgrazia,  nel  1597,  e  fu  radiato  dal  ruolo  degli  sti- 
pendiati 130.  Ci  resta  di  lui  un  commento  al  terzo  libro  del  De 
anima,  esposto  nel  1572  e  pubblicato  quattro  anni  dopo  su 
appunti  ed  a  cura  del  suo  alunno  Girolamo  Bovio  '31.  Questi, 
in  una  nota  marginale,  e'  informa  che  il  maestro  aveva  di- 
segnato di  scrivere  tre  opsre  intorno  alla  filosofia  aristotelica: 
anzitutto,  le  ParUtiones  et  resolutiones  su  tutti  i  trattati  dolle 
Stagirita;  quindi  una  Concordia  della  dottrina  d'Aristotele 
con   quella  di   Platone   e   d'altri  filosofi;   infine,   nn' Apologia 


128  F.  Nobili,  0.  e,  III,  cap.  29,  p.  245. 

"9  G.  Pardi,  Lo  studio  di  Ferrara  nei  secoli  XV  e  XVI.  Ferrara, 
i9°3.  PP-  164-165;  Solerti,  Vita  di  T.  Tasso.  Torino-Roma,  Loescher, 
1895,  I,  pp.  242  sgg. 

13°  TiRABOSCHi,  Storia  della  letteratura  italiana,  voi.  Ili,  Milano 
1834,  p.  474. 

131  Antonii  Montecatini,  Ferrariensis,  In  eam  partem  iij  libri  Ari- 
stotelis  de  anima,  quae  est  de  mente  humana,  leciiira  continens  partitiones 
resolutionesque,  exemplum  earum  quas  in  omnia  eiusdem  Aristotelis 
opera  Aiictor  meditabatur.  Adiunctis  quibusdavn  scholiis,  quaestionibus 
et  in  digressiones  Averrois  digressionibus.  Omnia  a  Hieronymo  Bovio, 
Ferrariensi,  collecta  et  edita.  Ad  Serenissimum  Principem  Alfonsiim  II, 
Ferrar iae  Ducem.  Ferrariae,  ex  typis  Haeredum  Francisci  Rubei, 
MDLXXVI.   Il  testo  aristotelico   è  in  greco. 


422        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

d'Aristotele  contro  i  suoi  detrattori  132.  Il  commento  al  terzo 
del  De  anima  doveva  far  parte  della  prima  di  queste  tre  opere. 
Anche  al  Montecatino,  che  professa  un  moderato  averroismo 
colorito  di  riflessi  platonici,  accade  spesso  di  ricordare  il  com- 
mento di  Simplicio  al  De  anima  e  di  discutere  alcune  interpre- 
tazioni che  del  pensiero  e  della  lettera  d'Aristotele  vi  si  leg- 
gono; ma  lo  fa  senza  impegnarsi  a  fondo,  per  il  momento, 
perché  intendeva  ritornarvi  nella  Concordia,  alla  quale  più 
volte  egli  rimanda.  Ecco,  ad  esempio,  come  parla  di  lui  a 
proposito  del  testo  aristotelico  ove  s'afferma  che  l' intelletto 
è  impassibile  133: 

Simplicius  longe  alio  modo  quam  reliqui  haec  verba  interpre- 
tatur  àTra-S-èi;  elvat.  Ait  Aristotelem  (cui  verbum  Trào/Eiv  signi- 
ficaverit  superiori  in  textu  «  suscipere  «  atque  «  habere  aliunde  » 
ea  quae  cognoscuntur)  affirmare  nunc  haud  immerito,  mentem 
progredientem  et  imperfectam,  de  qua  sit  ei  instituta  disputatio, 
esse  impatibilem,  propterea  quod  ista  mens  progrediens  imperfecta 
nondum  habeat  suscipiatve,  sed  possit  tantum  longo  post  tempore 
suscipere  habereque  aliunde  species  substantiarum.  Quam  rem 
ut  declaret,  addit  multa  alia  de  intellectione  huius  mentis,  cui  reli- 
qua  similiter  attributa  accommodat,  quae  hoc  textu  traduntur. 
Sed  relinquendus  ille  est  cum  mentibus  suis  :  quae  altior  supe- 
riorque  est  quam  sit  substantia  animae,  tum  quae  participari 
non  potest  (àfi.é'&exTov  ipse  appellat),  tum  quae  est  animae  parti- 
cipata  (ipse  vocat  [i.£Texó[jL£vov),  quae  animarla  seu  substantialis 
est  animae  ipsius;  et  quae  manens  seu  stabilis,  et  quae  progre- 
diens ac  fluens  pars  animariae;  quae  imperfecta  progrediens,  et 
quae  perfecta;  et  quae  aliae  minus  etiam  quam  istae  distant  (et 
distant  istae  ratione  tantum),  sive  ad  contemplandum  pertineant, 
sive  ad  praxim.  Nam  declarari  omnino,  quae  de  his  mentibus  Sim- 
plicius scribit,  non  possunt  sine  mysteriis  philosophiae  Platoni- 
corum,   a  quibus  hoc  anno  supersedendum  duximus. 

Anche  nel  commento  del  testo  21  dello  stesso  libro  del- 
l'opera aristotelica,  passando  in  rassegna  ben  dodici  opinioni 
degli  interpreti  sulla  natura  dell'  intelletto  agente,  s' imbatte 
(4^  opinione)  nella  dottrina  di  Simplicio  che  già  conosciamo: 

Quum....  novissimam  ipse  quandam  mentem  et  substantiam 
separatam,  omnium  minime  perfectam,  statuat,  eam  postea 
asserit  in  confinio  materialium  materiaeque  expertium  formarum, 


'3'  Questo  disegno  che  il  Montecatino  s'era  proposto  di  recare  a 
cumpimento,  ci  è  fatto  conoscere  da  Girolamo  Bovio  nel  proemio  al- 
l'opera del  maestro  e,  di  nuovo,  in  una  nota  marginale  a  p.  179. 

133  Ad  t.  3,  p.  37. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  423 

in  se  ipsa  manere  semper,  et  tamen,  quum  maneat,  extra  quoque 
ad,  humana  corpora  progressam  ita  cum  imaginatione  copulari, 
ut  in  unoquoque  nostrum  ex  ea  et  imaginatione  una  efficiatur 
anima  rationis  compos,  quae  nostra  sit  forma.  Sane  quidem  eam 
manentem  in  se  simplicem  expertemque  partium  et  nihil  aliud. 
quam  mentem,  perpetuo  cum  superiora,  iis  ipsis  formatam,  sua 
substantia  intueri,  tum  ideas  inferiorum  impertitas  sibi  a  prima 
mente  et  communicatas  contemplari;  at  vero  progressam  pene 
obrvii    corporis   involucro    obscurarique  etc.  ^34. 

Caratteristico  anche  in  questa  esposizione  del  Montecatino 
il  dirsi  che  la  mente,  che  pure  è  una  sostanza  separata,  s'unisce 
all'  immaginativa  individuale,  per  costituire,  insieme  a  questa, 
una  sola  anima  razionale  che  è  forma  di  ciascuno.  Forma  in- 
formante, come  volevano  con  Sigieri,  l'Achillini  e  il  Nifo,  op- 
pure soltanto  forma  assistente,  come  preferiva  il  Genua  ? 
Il  ferrarese  non  ce  lo  dice,  contentantosi  di  osservare  che  le 
oscurità  del  pensiero  di  Simplicio  possono  essere  chiarite  solo 
alla  luce  dei  principi  platonici,  dei  quali  promette  di  trattare 
nella    Concordia  135  : 

Ecce  quomodo  Simplicius  ultimam  omnium  substantiarum 
separatarum  mentem  effcientem  dicat,  eamque....  ne  substantia 
quidem  nedum  subsistentia  a  materiali  diversam,  sed  ratione 
duntaxat  et  habitudine  quadam.  Quamquam  haec  fortasse  obscu- 
riora  sunt,  non  delibatis  ante  Platonicis  principiis,  quod  in  Con- 
cordia efificimus. 

Non  sono  riuscito  ad  appurare  se  il  Montecatino  con- 
dusse mai  a  termine  questa  abbozzata  Concordia,  preso  co- 
me fu  presto  dagl'  intrighi  della  corte  ferrarese  che  lo  allon- 
tanarono dagli  studi.  Ma  noi  sappiamo  già,  che  a  stabihre 
questa  concordia  s'era  accinto  il  conte  della  Mirandola  e 
Concordia,  novant'anni  prima  con  ben  altro  vigore  specu- 
lativo che  non  quello  di  questo  modesto  ruminatore  di  mal 
digeste   dottrine   altrui. 


8.  -  Se  il  Fasolo  non  riuscì  a  persuadere  gli  averroisti  perché 
mettessero  Averroè  in  soffitta,  ottenne  almeno  che  essi  ne 
alternassero  la  lettura  coi  commenti  greci  del  De  anima  che, 


134  Ad  t.   21,  p.  272. 

135  Ih.,  p.  273. 


424        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

nel  testo  originale  e  in  traduzioni  latine,  solerti  editori  vene- 
ziani avevano  messo  alla  portata  di  tutti;  ed  ottenne  altresì 
che,  temperato  il  loro  fanatismo  per  il  Commentatore  di 
Cordova,  s'adoprassero  a  svilupparne  i  motivi  platonici  e  a 
tentarne  l'accordo  col  pensiero  degli  interpreti  greci;  ottenne 
infine  che,  smesso  il  gergo  barbarico  che  rende  ingrata  e  fa- 
ticosa anche  ai  meglio  esercitati  la  lettura  del  «  gran  com- 
mento »,  scrivessero  un  latino  più  levigato  e  quasi  elegante. 

Negli  scritti  del  Genua  e  del  Montecatino,  averroisti,  non 
meno  che  in  quelH  del  Porzio,  del  Castellani,  del  Pendasio  e 
dello  Zabarella,  alessandristi,  i  più  importanti  commenti 
greci  sul  De  anima,  da  Alessandro  a  Temistio,  da  Simplicio 
a  Filopono,  sono  ormai  tutti  allineati  alla  battaglia  prò  e 
contro  l'averroismo,  e  già  comincia  a  farsi  il  nome  di  qualche 
altro  interprete  greco  meno  noto,  come  quello  di  Plutarco 
d'Atene,  di  Marino  e  di  Prisciano  Lido. 

A  quest'ultimo  Francesco  Piccolomini  sospettò  dovesse 
attribuirsi  il  commento  al  De  anima  che  porta  in  fronte  il 
nome   di  Simplicio. 

Abbiamo  già  accennato  all'averroista  Francesco  Piccolo- 
mini  come  a  collega  ed  avversario  del  Pendasio  e  dello  Za- 
barella. La  polemica  col  primo  era  cessata  da  che  il  Pendasio 
era  passato  a  Bologna  ^i^'.  Invece  la  controversia  col  secondo 
ebbe  inizio  colla  pubblicazione  da  parte  del  senese  nel  1583 
della  Universa  philosophia  de  movibus,  nella  quale  il  Picco- 
lomini fece  alcuni  rilievi  al  collega  intorno  al  ragionamento 
regressivo  '37.  A  questi  rilievi  lo  Zabarella  rispose  con  l'Apologia 
pubblicata  nel  1584,  cui  l'avversario  replicò  col  Comes  poli- 
ticus,  pubblicato  un  decennio  dopo,  nel  1594  '3^. 


136  E  il  Piccolomini,  come  diremo  fra  poco,  poteva  ormai  accennare 
a  lui  come  ad  uomo  integerrimo  e  dottissimo. 

137  Universa  philosophia  de  movibus  a  Francisco  Piccolomineo,  Se- 
nense,  Philosophiam  in  Academia  Patavina  e  prima  sede  interpretante, 
nunc  primum  in  decem  gradus  redacta  et  explicata.  Amplissimo  Sere- 
nissimoque  Senatui  veneto  dicata.  Venetiis.  Apud  Franciscum  de  Fran- 
ciscis  Senensem,  MDLXXXIII.  Introductio,  capp.  17-24.  Sull'origine  e 
lo  sviluppo  della  polemica  fra  il  Piccolomini  e  lo  Zabarella,  si  veda  il 
già  citato  studio  di  P.  Ragnisco,  Giac.  Zab.:  il  filosofo  ecc.;  ma  l'ar- 
gomento era  già  stato  discusso  un  secolo  prima  da  Francesco  da  Nardo, 
e  dipoi  più  volte  dal  Pomponazzi;  cfr.  «  Giorn.  Crit.  d.  Filos.  Ital.  », 
XXXVII,   1958,  p.   341,  e  qui  sopra,  p.  323. 

138  G.  Zabarella,  De  doctrinae  ordine  apologia.  Venezia,  1584.  F. 
Piccolomini,  Comes  politicus  prò  recta  ordinis  ratione  propugnaior. 
Venezia,    1594. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  ))  425 

h' Universa  philosophia  de  morihus  del  Piccolomini  è  un'opera 
veramente  notevole  per  l'ampiezza  del  disegno  e  per  una  certa 
solennità  dello  stile,  qual  si  conveniva  all'amplissimo  e  se- 
renissimo Senato  veneto  cui  era  dedicata.  Pur  seguendo  lo 
schema  dell'  Etìlica  Nicomachea,  e  restando  in  sostanza  fe- 
dele alle  dottrine  capitali  dello  Stagirita,  il  senese  discute  le 
teorie  morali  del  platonismo  e,  se  dissente  da  coloro  che  pre- 
tendevano d'avere  scoperto  la  perfetta  identità  di  vedute  fra 
Aristotele  e  Platone,  non  condivide  neppure  l'atteggiamento 
di  coloro  che,  presone  a  guida  infallibile  uno,  ritenevano  di  poter 
fare  a  meno   dell'altro: 

Asserere  Platonem  de  omnibus  cum  Aristotele  consentire, 
profecto  falsum  censeo;  et  qui  universum  concilium  sunt  poUiciti, 
ut  Ioannes  Ficus,  Simplicius,  Boetius  et  alii  viri  celebres,  potius 
indicarunt  reverentiam  suam  erga  utrumque  humanae  sapientiae 
lumen,  quam  rem  aptam  perfici  et  principiis  eorum  congruentem. 
Quod  opera  patefecerunt  Simplicius  nonnullique  recentiorum,  qui, 
cum  id  praestare  conati  sunt,  in  conspicuos  lapsi  sunt  errores; 
frequenter  enim  sententiam  pervertunt  Platonis,  nonnunquam 
eam  Aristotelis,  saepe  utramque  '39. 

Cum...  sermo  praecesserit  de  graecorum  sapientibus,  Inter  quos 
Plato  et  Aristoteles  perinde  ac  duo  splendidissima  lumina  refulse- 
runt,  iure  animus  sapientiae  amator  quaeret,  quinam  eorum  Inter 
sapientes  re  vera  sibi  principatum  vendicaverit.  Et  iure  quaeret, 
nam  animorum  acies,  in  splendorem  sapientiae  eorum  conversa,  ab 
exuperanti  lumine  circumfusa,  potius  obumbratur  et  obtunditur, 
quam  valeat  exacte  iudicare,  quinam  alteri  praestet  et  in  sapientiae 
regia  regium  sibi  locum  optet.  Non  defuere  nonnulli,  animo  ac 
iudicio  adeo  perverse  affecti,  ut  utrumque  tanquam  nugacem, 
mendacem  et  levem  neglexerint.  Alii  minus  insanientes,  unum 
maximi  fecerunt,  spreto  altero.  Qui  oppositae  fuere  conditionis: 
nonnulli  enim  Platonem  tantum  commendarunt,  neglecto  Aristo- 
tele; alii  vice  versa  neglecto  Platone,  solum  Aristotelem  laudibus 
extulerunt.  At  viri  omnes  acriore  iudicio  praediti  utrumque  re 
vera  humanae  sapientiae  lumen  iudicarunt.  Qui  deinde  ob  eximiam 
in  eos  reverentiam,  vel  eos  conciliare  vel  eorum  decreta  prò  veri 
indagatione  accurate  invicem  conferre  conati  sunt.  Et  hi  postremi 
profecto  via  regia  ad  sapientiam  progrediuntur,  et  caeteris  longe 
sunt  anteponendo  Nam  qui  Aristotelem  cum  Platone  de  rebus 
altissimis  continenter  disputantem  interpretantur,  nec  exacte 
quid  re  vera  senserit  Plato  praenoverunt,  non  audita  parte  iudi- 
cium  proferunt  et,  tanquam  caeci,  eorum  asseclas  in  foveas  te- 
nebrarum  detrudunt.  Et  iure  utrumque  maximi  tacere  debemus, 
cum  ambo  fuerint  tales,  ut  distincta  quadam  via  ad  culmen  sa- 


139  Piccolomini,    Univ.  philos.  de  moribus,  grad.   Ili,  e.  20,  p.  163. 


426        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

pientiae  progressi,  aeque  ad  illud  se  extulerunt;  nam  in  utroque 
proprium  aliquid  reperitur,  in  quo  nemini  est  secundus,  talisque 
utriusque  est  absolutio,  ut,  ab  animo  recte  affecto  degustata, 
nihil  ultra  in  eo  genere  desideretur  14°. 

E  istituito  un  confronto  fra  il  modo  di  procedere  dei  due 
filosofi,  il  Piccolomini  conclude: 

Constat  itaque  inter  fiumana  sapientia  fulgentes,  Aristotelem 
et  Platonem  sibi  principatum  optasse;  constat  utrumque  suo 
genere  esse  summum,  nobis  utilissimum,  a  nobisque  accurate  legen- 
dum.  Quod  enim  illi  suo  progrediendi  genere  non  praestiterunt, 
alius  praebere  non  valet,  et  qui  ad  alterutrum  eorum  sibi  viam 
obstruit,  uno  se  mentis  oculo  privat;  quique  eos  omni  ex  parte 
conciliare  nituntur,  cum  eorum  viae  sint  distinctae,  omnia  ever- 
tunt,  confundunt,  eis  adversantur,  et  genera  duo  progrediendi 
utilissima  et  distincta   inutiliter  permiscendo  evertunt.  {Ib.,  274). 

Fra  coloro  che  hanno  battuto  la  via  regia,  tenendosi  ugual- 
mente lontani  da  ogni  fanatismo  sia  per  Aristotele  che  per 
Platone,  ed  hanno  tratto  profitto  dall'uno  e  dall'altro,  senza 
confonderne  le  dottrine,  il  filosofo  padovano  si  compiace  di 
ricordare  Vincenzo  Madio,  «  vir  acri  quodam  iudicio  prae- 
ditus  »,  Marc'Antonio  Genua,  «  vir  singulari  grafia  insignis  », 
del  quale  era  stato  collega  nei  primi  anni  del  suo  insegnamento 
a  Padova,  e  Francesco  da  Vimercate,  scomparsi  ormai  tutti 
e  tre.  Tra  i  viventi  addita,  come  chiari  esempi  del  buon  filo- 
sofare, Federico  Pendasio  che,  dopo  essergli  stato  collega  a 
Padova  per  un  settennio,  ora  insegnava  con  lustro  a  Bologna, 
insieme  a  Nicolò  Turchi,  uomo  anch'egli  di  grande  acume  e  di 
soUda  dottrina;  poi  Gian  Bernardino  Longo,  professore  a 
Napoli,  Girolamo  da  Ponte  e  Flaminio  Nobili  a  Roma;  Fran- 
cesco Verini  Secondo  e  Francesco  Buonamico  a  Pisa;  infine, 
Antonio  Montecatino,  «  vir  sublimi  ingenio  summaque  eru- 
ditione  »,  che  a  Ferrara  aveva  esposto  coi  suoi  «  dottissimi 
commenti  »  il  terzo  libro  del  De  anima.  Né  tace  di  Pietro 
Diedo,  per  le  Disputationes  de  anima,  né  d'Andrea  Diedo  per  il 
trattato  De  hahitihus  mentis.  Tutti  costoro,  a  parere  del  Pic- 
colomini, avevano  saputo  giovarsi  della  lettura  degli  scritti  di 
Platone  non  meno  che  di  quelli  dello  Stagirita  141.  Di  uno  solo 


HO  Ib.,  grad.  V,  e.  23,  pp.  270-273. 
141  Ib. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  427 

egli  non  fa  motto:  dello  Zabarella;  e  ciò  è  tanto  più  signifi- 
cativo, in  quanto  aveva  ormai  finito  per  dimenticare  l'antica 
ruggine  col  Pendasio. 

Abbiamo  visto  il  Piccolomini  accusare  Simplicio  ed  alcuni 
moderni  di  avere  sovente  sovvertito  la  dottrina  di  Platone  e 
quella  d'Aristotele,  per  averle  confuse  insieme  nell'  intento 
di  accordarle.  Ma  com'egli  giudicasse  il  commento  di  Simplicio 
al  De  anima,  si  vedrà  meglio  dagli  altri  scritti.  Nel  1596, 
usciva  per  le  stampe  il  trattato  De  humana  mente,  diviso  in 
tre  libri  m^,  ove  la  dottrina  del  commentatore  greco  è  posta  a 
raffronto  con  quella  di  altri  interpreti  d'Aristotele.  Ed  anzi 
tutto,  per  quello  che  concerne  l' intelletto  agente,  esposta  e 
criticata  la  tesi  di  Alessandro,  accolta  anche  dal  Pendasio  ms 
e  dallo  Zabarella  '44,  il  senese  ricorda  un  gruppo  di  opinioni 
derivate  «ex  Academicorum  principiis...,  vario  tamen  modo 
assumptis,  explicatis  et  approbatis  ».  Fra  i  sostenitori  di  queste 
opinioni  son  menzionati   anche   Averroè   e   Simphcio: 

Clini  enim,  ex  Academicorum  sententia,  sub  Dee  sit  mens 
non  participata,  mox  mens  in  anima  participata,  quae  mens  ideis 
est  praedita,  tertio  succedat  anima  rationalis  in  se  manens,  quarto 
anima  rationalis  pregressa:  nonnulli  mentem  participatam,  alii 
animam  rationalem  in  se  manentem  dixere  Mentem  Agentem, 
ut  retuli  in  praecedentibus;  et  Averroes  mentem  quamdam  parti- 
cipatam visus  est  eam  existimasse,  Simplicius  animam  rationalem 
in  se  manentem,  Themistius,  non  secernens  mentem  ab  anima 
rationali,  modo  quodam  mediare  videtur.  Hi  omnes  consentiunt, 
primo,  quia  Mentem  Agentem  aiunt  praeditam  ideis,  sive  ratio- 
nibus;  secundo,  quia  considerant  duplex  intelligendi  genus,  unum 
per  essentiam  Agentis,  alterum  per  phantasmata  ;  tertio,  quia 
in  connexione  cum  Agente  constituunt  summum  hominis  bonum; 
quarto,  quia  in  fonte  et  origine  Mentis  unitionem  reperiri  aiunt, 
quamvis  extrinsecus  adsit  multitudo  et  varietas.  In  attinentibus 
autem  ad  distinctionem  Mentis  Agentis  ab  ea  potestatis,  quidam 
magis,  alii  minus  eas  distinguunt,  ut   ex    dictis    conspicuum  est. 

At  procul  dubio  plurima  horum  conspicue  pugnant  cum  prin- 


142  Fr.  Piccolominei,  Senensis,  in  Academia  Patavina  philosophi 
primi,  Librorum  ad  scientiam  de  natura  attinentiiim  pars  quinta,  in 
qua  considerantitr  pertinentia  ad  animam.  Illustrissimo  et  Reverendis- 
simo Marco  Cornelio  Patavii  episcopo  dicata.  Venetiis,  apud  Frane, 
de  Franciscis  Senensem  MDXCVI,    ff.  59-109. 

143  Cod.  della  bibl.  univers.  di  Padova  1264,  In  III  de  anima,  lez. 
66,  pp.  756-763;   Cod.   Urbin.   lat.    1480,   f.    i8ir  sgg. 

144  De  mente  agente  (inserito  nel  commento  dello  stesso  Zabarella 
al  De  anima,  III,  dopo  il  comm.  al  testo  XX),  capp.  11-14. 


428        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

cipiis  Aristotelis,  et  praesertim  quod  dicunt  de  ideis,  sive  insertis 
rationibus,  de  anima  in  se  manente  et  pregressa,  et  similibus  : 
mens  enim,   cum  sit  essentia  simplex,   ubi  est,   tota  estji45. 

A  parte  tutto  ciò,  anche  il  Piccolomini,  come  il  Genua  e  il 
Montecatino,  è  d'accordo  con  Simplicio  nel  ritenere  che  fra 
r  intelletto  agente  e  quello  possibile  v'  è  solo  una  differenza 
di  ragione,   non   di   natura: 

Sed  caeteris  praetermissis,  lioc  solum  ostendam:  Mentem 
Agentem  esse  partem  animae  nostrae  non  distinctam  essentia 
a  Mente  potestate  '4''. 

Colligamus  itaque  mentem  hominis  esse  particulam  humanae 
animae,  et  esse  essentiam  unain,  cui  distincta  ratione  duae  diffe- 
rentiae  competunt,  agendi  et  patiendi,  invicem  non  pugnantes  M?. 

Più  oltre,  il  Piccolomini  si  pone  il  problema,  dibattutis- 
simo  nel  Cinquecento  non  meno  che  nella  Scolastica,  «  an  mens 
humana  valeat  intelligere  singularia  ».  Fra  le  tesi  da  lui  com- 
battute, v'  è  quella  che  egli  attribuisce  a  Simplicio,  a  Plu- 
tarco d'Atene  e  a  Prisciano  Lido.  A  parere  di  costoro,  è  proprio 
della  mente  che  sta  sopra  l'anima  conoscere  le  idee,  dell'anima 
razionale  le  «  rationes  naturae  »,  i  «  semina  materiae  »,  le 
«  umbrae  formarum  ».  Ora  le  idee  son  causa  delle  «  rationes  », 
queste  dei  «  semina  »,  e  questi  ultimi  delle  «  umbrae  ».  Ciò 
posto,  la  mente  che  è  sopra  l'anima  conosce  il  particolare 
neir  idea  come  nella  causa  prima  ;  la  mente  che  è  propria 
dell'anima,  in  quanto  permane  in  sé  congiunta  con  la  mente 
superiore,  conosce  il  particolare  nelle  ragioni  insite  ad  essa, 
come  nella  causa  prossima;  in  quanto  invece,  uscendo  fuori 
di  sé,  inclina  al  corpo  e  al  mondo  dei  sensi,  conosce  il  parti- 
colare per  mezzo  delle  immagini  sensibiU,  come  effetti  delle 
ragioni  e  delle  idee.  Questa  dottrina  di  Simplicio,  nota  il  Pic- 
colomini, anzi  che  chiarire  il  pensiero  d'Aristotele,  lo  per- 
turba e  l'offusca,  poiché  muove  da  principi  platonici  del  tutto 
diversi:  «  Simphcius,  haec  tribuens  Aristoteli,  evertit,  non 
explicat  sententiam  eius»i48.  Perciò  a  siffatta  soluzione  del 
problema  egli  preferisce  quella  di  Duns  Scoto,  il  quale  pensava 
che  il  singolo  è  per  se  stesso  intelligibile  come  singolo  :  opinione 


145  Piccolomini,  De  humana  mente,   I,  e. 

146  Ib. 

147  Ib.,  e.   12. 

148  Ib.,  e.   17. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  «  429 

che  ebbe  anche  nel  Rinascimento  non  pochi  sostenitori,  i 
quah  la  difesero  contro  l'opposta  tesi  tomistica. 

Il  secondo  libro  del  De  humana  mente  tratta,  in  ben  sedici 
capitoli,  dell'  immortalità  dell'anima  «  ex  sententia  Aristo- 
telis  »  contro  l' interpretazione  alessandrista  del  Pomponazzi, 
del  Porzio,  del  Madio  e  del  Card.  Gaetano.  Ma  vera  immortalità 
non  compete  se  non  alla  mente  in  quanto  è  una  sostanza 
separata  ed  unica  per  tutta  la  specie  umana,  non  in  quanto  è 
temporaneamente  unita  a  questo  o  a  quell'  individuo  parti- 
colare. La  mente  infatti,  secondo  il  pensiero  d'Aristotele 
esposto  e  interpretato  dal  Piccolomini  '49,  non  è  forma  intrin- 
seca del  corpo  umano  e  non  dà  a  questo  l'essere  che  ha  in 
quanto  organismo  animale,  ma  è  «  forma  formarum  »,  come 
aveva  detto  Temistio,  cioè  s'unisce  all'organismo  umano  già 
informato  dalla  forma  della  vita  sensibile  e  da  quella  della 
vita  vegetale,  e  gli  conferisce  un  più  alto  grado  di  perfezione, 
la  razionalità.  E  se  la  mente  è  una  sostanza  in  sé  disgiunta 
dall'organismo  vivente,  dovremo  dire  che  essa  non  è  indivi- 
duata dal  corpo,  e  perciò  è  unica  per  tutti  gli  uomini. 

Di  solito  gli  averroisti  ammettevano  che  Aristotele  non  si 
fosse  mai  posto,  in  modo  esplicito,  il  problema  dell'  unità 
dell'intelletto;  ma  ritenevano  pure  che  la  teoria  dell'unità 
era  stata  dedotta  con  rigore  logico  dai  principi  più  certi  della 
sua  filosofìa  dall'acume  di  Temistio  e  d'Averroè,  che  meglio 
d'ogni  altro  ne  intesero  la  dottrina.  Il  Piccolomini  procede 
con  maggiore  cautela.  Anzi  tutto,  egli  riconosce  che  Aristo- 
tele, il  cui  ingegno  era  rivolto  a  scrutare  il  mondo  fisico  e  i 
fenomeni  che  cadono  sotto  i  sensi,  in  nessuna  sua  opera  fa 
mai  cenno  della  teoria  dell'unità  o  molteplicità  delle  anime 
umane.  Ma  aggiunge  altresì,  «  progrediendo  per  principia  et 
decreta  Aristotelis  »,  che  questi  si  mostra  più  incline  alla  tesi 
dell'unità  che  non  a  quella  della  molteplicità.  E  a  sostegno 
di  questa  interpretazione  del  pensiero  dello  Stagirita  il  senese 
adduce  quattro  argomenti,  ricavati  da  sicure  dottrine  aristo- 
teliche. Con  tutto  ciò,  egh  è  d'avviso  che  quella  dell'unità 
della  mente,  prima  d'Aristotele,  fosse  già  dottrina  di  Pla- 
tone non  contradetta  dal  discepolo  ^S». 

Al  qual  proposito,  il  Piccolomini  osserva  che  il  pensiero  di 


149  Ib.,  II,  e.  18. 

150  Ib.,  II,  capp.   19-20. 


43  O        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Platone  su  quest'oscuro  argomento  è  variamente  inteso  dai 
suoi  interpreti.  Alcuni  infatti,  indotti  da  quanto  si  legge 
nel  Timeo,  e  nel  decimo  della  Repubblica,  ritennero  che  dal- 
l' idea  unica  dell'anima  derivasse  in  primo  luogo  l'anima  del 
mondo,  indi  le  anime  delle  sfere  e  delle  stelle;  da  queste  di- 
scendono in  un  certo  numero  definito  le  anime  umane,  che, 
trascorso  il  periodo  della  vita  terrena,  ritornano  ciascuna 
alla  propria  stella,  per  reincarnarsi  successivamente  e  tornar 
di  nuovo  alle  stelle;  e  così  di  seguito  senza  fine.  Altri  al  con- 
trario pensarono  che  dall'  idea  dell'anima  derivasse  soltanto 
l'anima  del  mondo,  e  che  le  altre  anime  non  fossero  se  non 
partecipazioni  della  vita  di  questa.  Ma  il  Piccolomini  trova 
che  v'  è  una  terza  interpretazione  del  concetto  platonico, 
più  plausibile  delle   prime  due: 

Propterea  est  explicatio  tertia,  quam  caeteris  puto  praeferen- 
dam,  et  est  ea  Plotini  et  Numenii,  putantium  ideam  animae  unam 
esse,  et  ex  ea  prodire,  per  gradus,  omnes  participationes  ani- 
marum,  vel  proximius  vel  remotius,  adeo  ut  ea  mundi  sit  prima 
participatio,  sequantur  mox  participationes  animarum  sphaeris 
et  stellis  caeli  competentium.  Quae  participatio  ita  se  habet,  ut, 
si  per  imaginationem  cuncta  corpora  abolerentur,  universae  animae 
in  unam  redirent,  tanquam  in  fontem,  veluti  de  solis  luce  et 
lumine  ex  ea  prodeunte  se  habere  existimandum  est.  Caeteras 
autem  animas,  sub  rationali  positas,  dicebat  esse  idola  et  umbras 
animarum  prodeuntes  per  semen  et  corpus,  ex  anima  rationali.... 

Colligamus  itaque,  ex  sententia  Platonis,  quod  primo  est 
Deus,  sub  Deo  mens  non  participata  et  in  se  manens,  ad  quam 
pertinent  non  participatae  ideae;  quae  mens  tanquam  sol  unica 
est,  et  a  nonnullis  ponitur  non  distincta  a  Deo,  ab  aliis  autem, 
ut  a  Plotino  et  Numenio,  distincta.  Ex  mente  non  participata 
pendent,  ut  radii,  mentes  participatae,  quarum  participes  red- 
duntur  animae;  ideo  extrinsecus  per  animas  multiplicantur.  In 
tertio  gradu  posita  est  anima  quae,  ex  parte  fontis,  nempe  ideae 
eius,  una  est;  ex  parte  corporum  primo  participantium  sunt  nu- 
mero definitae.  Prima  tamen  participatio  est  ea  animae  mundi; 
ex  parte  vero  participantium  mortalium  per  consecutionem  et 
conspirationem  primorum  sunt  numero  indefinitae. 

Sic  anima  est  una  ex  parte  fundamenti,  plures  ex  parte  parti- 
cipantium; una  intrinsecus,  plures  extrinsecus;  una  prò  absoluto, 
plures    ratione    variorum    ad    quae   refertur....  ^S^. 

Onesta,  conclude  Piccolomini,  deve  ritenersi  fosse  l'opinione 
di  Simplicio;  né  avevano  torto  Averroè  e  Algazele  di  attri- 

151  Ih.,  e.  19. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  43 1 

buirla  a  Platone: 

Hanc  quoque  puto  fuisse  opinionem  Simplicii;  nec  perperam 
Averroes,  in  prima  disputatione  contra  Algazelem,  una  cum 
Algazele  tribuit  Fiatoni,  quod  existimaverit  animam  omnium 
unam  esse;  quam  sententiam  reprobavit  Algazel,  approbat  autem 
Averroes....  ^S-. 

Una  volta  tanto,  dunque,  Simplicio  l'avrebbe  azzeccata, 
anche  per  il  filosofo  senese.  La  tesi  dell'unità  dell'  intelletto 
sarebbe  una  tesi  essenzialmente  platonica,  che  Aristotele 
non  solo  non  avrebbe  combattuta,  ma  anzi  avrebbe  accolta, 
o,  per  lo  meno,  avrebbe  provato  per  essa  una  spiccata  propen- 
sione. Si  capisce  che  siffatta  dottrina  è  del  tutto  contraria  al- 
l' insegnamento  della  fede,  e  perciò  da  respingere  come  falsa 
e  assurda.  Ma  Platone  ed  Aristotele  non  furono  illuminati 
dalla  luce  della  rivelazione,  ed  è  già  molto  se  riuscirono  a 
vedere  con  le  sole  forze  della  ragione  l'eternità  della  mente '53. 

Nel  IÒDI,  il  Piccolomini  lasciava  l' insegnamento,  per  ri- 
tirarsi nella  città  natale,  ove  di  li  a  tre  anni  moriva  in  tarda 
età.  Due  anni  prima  della  morte,  dava  alla  luce  VExpositio 
in  tres  libro s  de  anima,  e  in  appendice  pubblicava  quei  Capita 
sententiae  Simplicii  ex  commentariis  librorum  de  anima  de- 
prompta,  nei  quali  riesaminava  a  fondo  la  posizione  di  Sim- 
plicio di  fronte  ad  Aristotele. 

Anzi  tutto,  il  Piccolomini  solleva  ora  un  problema  che  nes- 
suno degli  editori  e  dei  critici  di  questo  commentatore  greco 
dello  Stagirita  s'  è  mai  posto.  Confrontando  il  modo  di  pro- 
cedere di  Simplicio  nei  commenti  alla  Fisica  e  al  De  cacio, 
ampio  e  pieno  di  digressioni,  doxografie  e  discussioni,  con 
quello,  piuttosto  stringato  e  zeppo  di  ripetizioni,  del  De  anima, 
il  senese  è  portato  a  dubitare  dell'autenticità  di  quest'ultimo 
commento  : 

Consuevit  Simplicius  in  explicandis  libris  Physicorum  et  De  coelo, 
asiaticorum  more,  satis  esse  effusus  et  latus,  saepe  et  late  consue- 
vit digredi  adversus  Philoponum,  saepenumero  consuevit  referre 
sententiam  Alexandri  et  cum  eo  disserere.  Interpres  autem  horum 
librorum  De  anima  potius  est  laconicus  et  nil  relatorum  servat.  '54 


152  Ib.  Si  ricordi   quanto  s'  è   detto,   nel  secondo  paragrafo,  del  giu- 
dizio di   Pico  della  Mirandola  intorno  a  questa  opinione. 

153  Ib.,  e.   20. 

154  Fr.   Piccolomini,   Expositio  in  tres  libros  Arisi,  de    anima.  Ve- 
netiis,    1602,   f.    2i6r. 


432         l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Perciò  egli  sospetta  che  il  vero  autore  del  commento  al 
De  anima,  che  va  sotto  il  nome  di  Simplicio,  sia  piuttosto 
Prisciano  Lido,  che  al  pari  di  quello  s'era  adoprato  a  metter 
d'accordo  peripatetici  e  platonici.  Prisciano  ci  ha  lasciato  una 
metafrasi  di  un  trattatello  di  Teofrasto  De  phaniasia  et  in- 
tellectione,  la  quale  era  stata  tradotta  in  latino  e  commentata 
da  Marsilio  Ficino  e  stampata  in  greco  a  Basilea,  nel  1541, 
in  appendice  agli  scritti  superstiti  dello  stesso  Teofrasto. 
Il  Piccolomini  ne  mette  in  rilievo  la  stretta  affinità  col  com- 
mento al  De  anima  attribuito  a  Simplicio: 

Quae  Paraphrasis  extat,  et  modus  loquendi  necnon  sententia 
simillima  est  sententiae  et  modo  loquendi  horum  commenta- 
riorum  libri  De  anima.  Quod  confirmo,  quia  auctor  horum  com- 
mentariorum,  in  secundo  De  anima,  contextu  74,  loquens  de  lumine 
et  coloribus,  ait  se  id  explicasse  in  compendio  Theophrasti;  et 
legitur  in  eo  compendio  sive  Paraphrasi,  cap.  25,  29  et  30.  In- 
super  idem  Priscianus,  in  eo  compendio,  mentionem  facit  suorum 
commentariorum  in  libros  De  anima.  Praeterea,  ut  auctor  horum 
commentariorum,  ita  ille  Paraphrasis  in  Theophrastimi  sequuntur 
lamblicum,  ut  patet  ex  initio  expositionis  horum  librorum  et  ex 
primo  ac  decimotertio  capitulo  Paraphrasis  de  phantasia.  In- 
super,  ambo  frequentar  mentionem  faciunt  Plutarchi  Lydi, 
Nestorio  geniti  ^55. 

Del  resto,  Prisciano  Lido  era  amico  di  Simplicio;  e  tutti  e 
due,  insieme  a  Damaselo  e  ad  altri  quattro  compagni,  dopo  la 
chiusura  della  scuola  d'Atene,  si  recarono  nel  531  in  Persia, 
per  chiedere  la  protezione  di  Cosroe  L  Sicché  il  dubbio  sul- 
l'appartenenza del  commento  al  De  anima  a  Prisciano  piut- 
tosto che  a  Simplicio,  è  di  secondaria  importanza,  dal  momento 
che  entrambi  seguivano  uno  stesso  indirizzo  che  deriva  da 
Giamblico. 

Ciò  premesso,  il  Piccolomini  trova  che  l'universo  consta, 
per  Simplicio  o  Prisciano  che  sia,  di  otto  gradi  principali  di 
esseri  : 

Quorum  supremus  est  Deus;  cui  succedit  mens  non  partici- 
pata;  in  tertio  refulget  mens  participata;  in  quarto  residet  anima 
rationis  compos;  in  quinto  idola  et  vestigia  animae;  in  sexto 
natura  seminibus  praedita;  in  septimo  umbrae,  imitationes  et 
participationes  idearum;   infima  omnium  est  materia  ^56. 


155  Ib. 

156  Ib.,  f.  2i6v. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  433 

Di  questi  otto  gradi,  quello  che  maggiormente  e'  interessa 
è  l'anima  razionale;  e  su  di  essa  il  senese  si  ferma  più  a  lungo, 
avendo  cura  di  distinguerla  dalla  «  mente  participata  »,  che 
è  al  di  sopra  delle  anime  umane: 

Quarta  est  anima  rationalis,  quae  vere  et  proprie  anima  est. 
Haec  distinguitur  a  mente  [participata]  :  nam  menti  competunt 
ideae,  animae  rationes;  mens  prorsus  est  immobilis,  praeterquam 
ex  esse  ad  agere,  anima  ex  se  mobilis;  niens  est  supra  generatio- 
nem,  animae  modo  quodam  generatio  competit  et  constitutio 
ex  primis  principiis,  ut  constat  ex  Timaeo.  Haec  est  ea  anima 
quae  ab  Aristotele,  in  tertio  Da  anima,  nuncupatur  voij^,  hoc  est 
mens,  quae  non  est  Mens  absolute,  sed  animaria  et  rationalis; 
et  haec  est  ea  mens,  de  qua  est  sermo  in  tertio  De  anima,  quae 
mens  dicitur  per  comparationem  cum  sensu,  et  quia  Mentis  est 
particeps,  per  quam  formatur,  terminatur  et  unitur. 

Haec  animaria  mens,  ad  instar  lani,  duplici  quasi  facie  prae- 
dita,  vel  consideratur  ut  conversa  ad  supera,  et  cum  participata 
Mente  nectitur,  per  quam  ad  superiora  elevatur  eisque  fruitur, 
ac  ita  dicitur  in  se  pure  manens  et  diviniora  intuens;  vel  consi- 
deratur ut  in  se  quidem  manet,  ita  tamen  ut  ad  infera  conver- 
tatur  eaque  pariat,  illustret,  formet  ac  perficiat;  tertio  consi- 
deratur non  amplius  ut  manens,  sed  ut  pregressa,  veluti  radii 
corporis  lucidi  considerantur  in  perspicuo,  ut  progressi  a  lucido 
et  non  manentes  in  eo;  et  quemadmodum  radii  illi  dicuntur 
produci  a  lucido,  ita  haec  mens  pregressa,  relata  ad  manentem, 
dicitur  vita  secunda  ab  ea  genita. 

Quae  mens  animaria  et  rationalis  pregressa,  vel  est  imper- 
fecta,  ut  in  pueris  et  rudibus,  vel  perfecta  habituque  praedita, 
ut  in  viro  sapiente.  Dum  consideratur  ut  pure  in  se  manet  et 
solum  ad  supera  vertitur,  non  dicitur  «  particula  animae»;  dum 
secundo  consideratur,  vel  ut  in  se  quidem  manet,  at  non  pure, 
sed  ad  infera  vertitur  eaque  format  et  perfìcit,  vel  solum  ad  ea 
progreditur,  sic  redditur  «  particula  animae  »  et  consideratur  in 
tertio  De  anima.  Ac  priore  quidem  consideratione  dicitur  «  mens 
agens  »  ;  posteriore  vero  «  mens  potestate  »,  sive  imperfecta  sive 
perfecta  sit,  et  dicitur  mens  animaria  i57. 

Visto  che  cosa  è  l'anima  razionale,  resta  ora  da  vedere  in 
che  modo  essa  s'unisce  all'uomo  e  in  particolare  se  e  in  che 
senso  può  dirsi  forma  dell'uomo,  e  se  essa  è  moltiplicata  col 
numero  dei  corpi  umani,  oppure  è  unica  per  tutti  gli  uomini. 
La  risposta  a  questi  due  quesiti  ci  dirà  fino  a  che  punto  Sim- 
plicio, secondo  l'avviso  del  Piccolomini,  è  d'accordo  con 
Averroè. 


157  76.,  f.  aiyr. 

28 


434        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

Quanto  al  primo  problema,  l'anima  razionale  può  ben 
dirsi  essenza  dell'uomo,  secondo  Simplicio,  ma  non  forma  in- 
formante del  corpo: 

Haec  anima  rationalis  est  verus  homo,  qui  definitur  quod  sit 
«anima  rationalis,  Mentis  particeps,  corpore  utens »  158 ;  nec  pro- 
prie materiam  format,  sed  posteriores  vitas,  non  tamen  sine 
corpore,  e  materia  edit,  quae  materiam  formant,  et  animai  ac 
corpus  vivens  constituunt,  adeo  ut  homo  sit  sola  anima  ratio- 
nalis, animai  vero  et  vivens  composita  sint  i59. 

Vere  forme  dell'organismo  vivente  sono,  dunque,  le  «  se- 
conde vite  »,  cioè  la  vita  sensitiva  e  quella  vegetativa.  Ma  queste 
«  seconde  vite  »  sono  suscitate  nella  materia,  per  un  processo 
emanativo  di  decadenza,  dalla  stessa  anima  razionale,  la  quale 
in  se  stessa  è  indipendente  dal  corpo.  Qualcosa  di  simile  si 
legge  nel  commento  d'Alberto  Magno  al  De  anima,  là  dove 
dice  che  l'anima  intellettiva  «  in  essentia  sua  et  perfectiori 
potestate  non  communicat  corpori  »,  e  che  tuttavia  è  congiunta 
all'organismo  corporeo  «per  alias  virtutes  suasw'^o  che  sono  la 
sua  parte  vegetativa  e  sensitiva,  tratte  dalla  potenza  della 
materia  per  opera  della  virtù  formativa  ;  la  quale  «  non  edu- 
ceret  eas  hoc  modo  prout  sunt  potentiae  rationalis  et  intel- 
lectualis  formae  et  substantiae,  nisi  secundum  quod  ipsa 
formativa  movetur  informata  ab  intellectu  universaliter  mo- 
vente in  opere  generationisw'^i.  Ma  mentre  per  Alberto  la  vita 
vegetativa  e  quella  sensitiva,  tratte  dalla  potenza  della  ma- 
teria, sono  spinte  ad  unirsi  all'  intelletto,  per  formare  con  questo 
una  sola  anima  che  è  forma  del  corpo  umano,  le  «  seconde 
vite  »  di  Simplicio  sono  un  prodotto  deteriore,  quasi  direi 
spurio,  dell'anima  razionale  che,  sola,  dà  all'uomo  la  sua 
natura  di  uomo,   e   perciò   ne   costituisce  l'essenza  specifica. 

Est  quidem  anima  rationalis  essentia  hominis  et  id  quod  est 
homo;  non  autem  est  forma  formans  materiam,  alioquin  male 
ab  Academicis  definitur  homo;  et  decipiuntur  illi,  qui,  ex  Acade- 


15S  Secondo  la  celebre  definizione  attribuita  a  Platone  da  Nemesio, 
De    nat.    hominis,    e.    2. 

^59  PiccoLOMiNi,  1.  e,  f.   217V. 

^6o  Alberto  Magno,  De  anima,  III.,  tr.  2.,  e.  12.  Cfr.  Archivio  di 
filosofia.  Organo  dell'  Istituto  di  Studi  filosofici,  Anno  XV,  voi.  Ili  e  IV, 
1946,  p.    116;   Rivista  di  storia  della  filosofia,   II,    1947,  pp.   212-214. 

^^^  Alberto  Magno,  De  natura  et  origine  animae,  I,  e.  5.  Cfr.  Giornale 
critico   della  filosofia  italiana,    XII,    193 1,   pp.    447-456. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  435 

micoruin  sententia,  aiunt  animain  rationaleni  formare  hominem. 
Hinc  anima  rationalis  solum  dicitur  «  utens  corpore  ».  Sensus 
autem  dividitur  in  formantem  et  utentem:  formans  est  extensus 
et  dividuus;  utens  vero  individuus  et  ubique  totus.  Hinc  in  tertio 
De  anima,  quinquagesimo  octavo,  ait  Simplicius,  eas  quae  sunt 
in  materia  non  vere  esse  formas;  absolute  enim  et  proprie  formae 
ab  eo  illae  dicuntur  quae  solutae  sunt  a  corpore,  quarum 
infima  est  anima  rationalis.  Et  quamvis  in  postremo  commen- 
tario secundi  De  anima  dicat:  «  humanam  formam  intelligimus 
consistere  in  vita  quae  per  rationem  perficitur,  terminatas  habente 
mensuras  secundum  tempus  »  ^^^,  non  tamen  ob  id  denotat  animam 
rationalem  formare  materiam,  sed  solum  eam  esse  hominis  es- 
sentiam  et  conditionem,  ut  ex  variis  ab  eo  relatis  conspicue  elici 
potest  163. 

Nel  trattato  De  hiimana  mente,  come  abbiamo  visto,  il  Pic- 
colomini  riteneva  che  Simplicio  condividesse  l'opinione,  at- 
tribuita a  Platone,  dell'unità  dell'anima  razionale;  e  sappiamo 
ormai  che  questa  tesi  era  attribuita  a  Simplicio  dal  Nifo, 
dal  Genua  e  da  altri.  Negli  ultimi  anni  del  suo  insegnamento, 
il  senese  ebbe  a  modificare  questo  suo  parere.  Egli  ha  cura 
anzi  tutto  di  distinguere  la  Mente  non  partecipata,  che  nella 
gerarchia  degli  esseri  occupa  il  primo  grado  dopo  Dio,  dalle 
menti  partecipate: 

Loquendo  de  Mente  non  participata,  non  constat  an  una  vel 
plures  sint,  et  de  hoc  nihil  distincte  protulit  Simplicius.  Cum 
Plotino  magis  videtur  statuenda  una....  Ex  ad  verso  lamblicus 
et  Proclus,  quos  praesertim  sequitur  Simplicius,  eas  statuunt 
plures....  Simplicius,  in  primo  contextu  tertii  De  anima^^4,  similiter 
plures  affirmat,  inquiens  :  «  Differt  haec  participata  forma  a  primis 
et  non  participatis  formis,  ut  quae  participetur  ».  Res  itaque  est 
dubia;  et  prò  resolutione  dicendum  censeo,  mentem  non  partici- 
patam  dupliciter  considerari:  primo,  absolute  secundum  se  et 
iuncta  supremo  Uno,  ac  ita  esse  unam  per  participationem; 
secundo,  ut  recedit  ab  Uno  et  est  terminus  supremus  participa- 
tarum    mentium,    qua    ratione    est    multiplex....  165. 

Non  così  è  dell'anima  razionale,  che  forma  il  quarto  grado 
nella  scala  discendente  degli  esseri;  ed  è  proprio  qui  che  il 


162  Simplicio,  De  anima,  ed.  Hayduck,  p.  21S,  20  (ad  III,  e.  4,  52qa 
io;  non  dunque  «in  postremo  commentario  secundi  libri»,  ma  «in 
primo  commentario  tertii  »,  secondo  la  divisione  averroistica  del  testo 
aristotelico  seguita  anche  dal  Piccolomini  e  dai  traduttori  di  Simplicio). 

163  Piccolomini,  ib.,  f.  217V. 

164  Simplicio,  De  anima,  ed.  Hayduck,  p.  218,  4  sgj. 

165  Piccolomini,  ib.,  i.  2i8r. 


436        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Piccolomini  sembra  aver  mutato  parere  nei  riguardi  di  Sim- 
plicio : 

Animae  rationales,  ex  sententia  Simplicii,  non  una  sunt,  ut 
nonnulli  ex  Platonicis,  et  cum  eis  Averroes,  existiniarunt;  nec 
tot  quot  fuerunt  et  futuri  sunt  homines,  ut  censent  Divus  Thomas 
et  Alexander;  sed  certo  et  definito  numero  sunt  praeditae,  quae 
ab  aeterno  ex  idea  Mentis  manarunt.  Qui  numerus  nec  crescit 
unquain  nec  minuitur,  sed  animae  singulae  varias  vivunt  vitas, 
et  ex  una  in  aliam  vitam,  quasi  in  orbem,  revolvuntur;  nonnun- 
quam  enim  haerent  vehiculo  aethereo,  in  coque  edunt  facultatem 
sensuum...,  nonnunquara  vehiculo  aereo...,  acita  per  varios  ascen- 
sus  in  caelum  et  descensus  servant  generationem  hominum  aeter- 
nam,  ut  colligitur  ex  Simplicio  in  II  De  anima,  cont.  8  et  23,  e 
in  III  De  anima,  cont.  20  et  21,  ut  etiam  putarunt  lamblicus  et 
Proclus,    quos   sequitur  Simplicius  ^^^. 

Coir  idea  platonica  del  numero  determinato  delle  anime 
che,  discese  ognuna  nel  proprio  corpo,  se  ne  separano  per 
tornare  ad  unirsi  ad  altri  corpi,  in  un  ciclo  eterno  di  transmi- 
grazioni, taluni  pensavano  si  potesse  risolvere  la  difficoltà, 
che  gli  averroisti  facevano  a  chi  riteneva  le  anime  moltipli- 
cate col  numero  dei  corpi  e  immortali.  Se  infatti  il  mondo, 
per  Aristotele,  è  eterno,  ed  eterna  la  specie  umana,  bisogne- 
rebbe ammettere  un  numero  infinito  in  atto  di  anime  separate 
dai  loro  corpi.  Di  questa  difficoltà  s'era  fatto  forte  anche  il 
Bessarione,  come  abbiamo  visto,  per  dar  ragione  ad  Averroè 
neir  interpretazione  del  pensiero  d'Aristotele. 

Ma  resta  un'altra  difficoltà.  S.  Tommaso  ed  altri  avversari 
dell'avverroismo  pretendevano  che,  secondo  la  dottrina  aristo- 
telica, l'anima  intellettiva  fosse  individuata  e  moltiplicata 
di  numero  soltanto  per  la  sua  unione  al  corpo;  essi  anzi  pen- 
savano che  le  forme  separate  non  fossero  suscettibili  di  molte- 
plicità numerica.  Ma  se  l'anima  è  individuata  dal  corpo,  non 
si  riesce  a  capire  come  possa  mantenere  questa  individualità 
quando  n'  è  separata.  Tanto  meno  si  capisce  com'essa  possa 
passare  da  un  corpo  all'altro,  secondo  la  dottrina  platonica, 
senza  che  ne  resti  spezzato  il  particolare  legame  che  essa 
ha  contratto  con  un  corpo  determinato,  e  senza  che  la  sua  in- 
dividualità sia  cangiata.  Questa  difficoltà  non  esiste  per  Sim- 
plicio, come  non  esiste  per  Giamblico  e  per  Proclo: 


166  Piccolomini,  ib.,  f.  2i8v. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  437 

Distinguuntur  ab  invicem  aniinae  non  per  relationeni  ad 
proprium  corpus,  nam  variis  haerere  valent:  ex  quo  patet  quod 
non  proprie  formant,  sed  insinuantur  et  perinde  ac  nautae  assi- 
stunt  et  utuntur.  Sed  distinguuntur  per  proprias  individuas  con- 
ditiones,  quas  ex  variis  stellis,  ex  quibus  pendent,  recipiunt,  non 
secus  ac  invicem  variarum  stellarum  radii  secernuntur.  Plotinus, 
in  libro  De  dubiis  aniniae  primo,  cap.  sexto  ^^7,  inquit  distinctionem 
animarum  prodire  vel  ex  corpore,  vel  ex  recessu  ab  anima  uni- 
versa, vel  ex  relatione  varia  ad  Mentem.  Mox  cap.  15  inquit,  difte- 
rentes  reddi  animas  vel  distinctione  corporum  quibus  insinuantur, 
vel  ob  fortunas  et  educationes,  vel  ipsae  demum  ex  se  ipsis  dif- 
ferentias  deferunt,  etc.  Putat  enim  Plotinus  universe  eandem 
esse  animae  essentiam.  Simplicius  vero,  una  cum  lamblico  et 
Proclo,  magis  eas  distinguit  et  se  ipsis  distingui  affirmat  propriis 
quibusdam  differentiis  individuantibus,  procedentibus  ex  infinito 
et  terminis  animae  competentibus,  tanquam  ex  modo  materiae 
et  formae  '68_ 

Su  questi  «  termini  »  o  proprietà  intrinseche  che  rendono 
fra  loro  numericamente  differenti  le  anime,  avevano  richiamato 
l'attenzione  Marsilio  Ficino  e  il  Nifo,  i  quah  ne  avevano  no- 
tato r  identità  con  le  «haecceitates»  degli  scotisti  ^h;  ed  io  ho 
avuto  occasione  di  ricordare  in  proposito  il  pensiero  di  Enrico 
Bate  da  Mahnes,  traduttore  di  vari  opuscoli  di  Proclo  e  pre- 
cursore di  quasi  due  secoli  del  platonismo  del  Ficino  e  di  Pico 
della  Mirandola  i7'\  Il  Piccolomini  comprese  che  siffatta  dot- 
trina dell'  individuazione  si  opponeva  direttamente  all'aver- 
roismo, e  risolveva  la  difficoltà,  che  abbiamo  segnalata,  assai 
meglio  di  quel  che  non  avesse  saputo  fare  S.  Tommaso:  ogni 
coscienza  umana  costituisce  in  se  stessa  una  individuahtà 
insopprimibile  e  irriducibile,  un  modo  particolare  di  rifran- 
gere la  luce  che  effonde  intorno  a  sé  il  sole  eterno. 

Ma  anche  nella  sua  irriducibile  individualità,  l'anima  ra- 
zionale è  intimamente  connessa  colla  Mente  che  è  sopra  di 
essa,  e  da  quella  attinge  le  ragioni  che  la  guidano  nel  giudicare 
le  cose  che  scorge  sotto  di  sé,  nel  modo  che  abbiamo  appreso 
dal  Genua  e  dal  Castellani.  Quell'unità  del  pensiero,  che  co- 
stituisce il  motivo  gnoseologico  fondamentale  dell'averroismo, 
nella  dottrina  di  Simplicio  è  concihata  colla  plurahtà  numerica 
dei  soggetti  pensanti. 


1^7  Plotino,  Eìui.,   IV,  III,  e.  6. 

168  Piccolomini,   ib.,  p.  2i8v. 

169  Cff.  B.  Nardi,   Sigieri  di  Brah.,   cit.,  pp.   161-163. 
17"  Ib.,  p.    179. 


438        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Utile  ad  intendere  la  settima  delle  nove  conclusioni  che 
Pico  della  Mirandola  aveva  attinto  al  commento  di  Simplicio 
al  De  anima,  e  che  noi  abbiamo  riportato,  è  quanto  il  Picco- 
lomini  scrive  a  proposito  della  dottrina  di  questo  commen- 
tatore greco   intorno   alla  sensazione: 

Descendendo  ad  sensum,  qui  ex  anima  rationali,  tanquam 
vestigium,  idolum  et  umbra,  prodire  dicitur,  in  eo  non  praecipue 
servantur  rationes,  cum  non  praecipue  sit  anima,  sed  servantur 
umbrae  et  imagines  earum.  Quae  vis  sentiens  duplici  fungitur 
officio:  nam  format  instrumentum  suum,  eoque  utitur;  hinc  divi- 
ditur  in  utentem  et  formantem.  Ut  format,  magis  extenditur  et 
dividua  redditur  per  corporis  divisionem;  ut  vero  utitur,  individua 
est  totaque  est  in  toto....  Haec  divisio  solum  competit  animae 
rationali  quatenus  effundit  inferiores  vitas,  formantes  corpus, 
quibus  ea  utitur,  at  non  proprie,  ut  dixi. 

Quo  pacto  facultas  sentiens  sit  principium  sentiendi,  decla- 
ratur  a  Simplicio  in  I  De  anima,  cont.  75,  in  II,  52  et  62,  et  saepe 
alibi.  Eius  sententia  haec.  est.  Primo  sensibile  externum  agit  in 
instrumentum  sensus,  ac  ita  instrumentum  ratione  materiae 
patitur;  quae  passio  non  interitus  sed  perfectio  est.  Ratione  autem 
facultatis  formantis  agit,  quatenus  per  eam  illa  sensorii  perpessio 
redditur  spiritualior  et  purior;  quae  actio  non  est  iudicium,  sed 
dispositio  ad  illud.  Mox  ea  affectio,  syncerior  reddita,  attingit 
rationem  nectiturque  cum  ea,  ut  effectus  cum  sua  causa.  Et 
tunc  facultas  utens  per  rationes  consimiles  consimilium  promit 
iudicium,  adeo  ut  per  unam  albedinis  insitam  rationem,  sive 
dulcedinis,  iudicium  promat  singularum  albedinum  et  dulce- 
dinum;  et  id  iudicium  dicitur  actio  non  formantis  sed  utentis. 

Quae  facultas  dicitur  reddi  simihs  obiecto,  non  quia  ab  eo 
aliquid  recipiat,  sed  quia  per  rationem  ei  respondentem  agit  et 
iudicat.  Sic  sentire  est  agere,  praecurrente  tamen  instrumenti 
perpessione.  Similitudo  autem  per  quam  sentiens  redditur  simile 
obiecto  est  triplex:  prima  pertinet  ad  passionem  organi;  secunda, 
ad  actionem  formantis;  tertia,  ad  actionem  utentis,  quae  prae- 
cipua  est;  adeo  ut  anima  reddatur  similis  rei  sensibili,  non  quia 
ab  ea  aliquid  suscipiat,  sed  quia  per  propriam  eius  rationem  agit. 

Insuper,  discrimen  est  inter  sensum  et  mentem,  quia  sensus 
cognoscit  per  rationes  ei  insitas,  at  non  cognoscit  rationes;  mens 
autem   intelligit   nedum  per  rationes,   sed  etiam  rationes....  ^71. 

Ritornando  a  parlare  dell'anima  razionale  secondo  la  dot- 
trina di  Simplicio,  il  Piccolomini,  che  innanzi  aveva  parlato 
dei  gradi  pei  quali  l'anima,  che  permane  in  sé,  esce  fuori  di 
sé  e  discende  nel  corpo  umano,  viene  ora  a  trattare  dell'ascesa 


171   PiccoLOMTNi,  ib.,  f.   aigr. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    <'  DE    ANIMA  »  439 

ossia  del  ritorno   di  essa  alla  sua  originaria  perfezione.    Se  i 
sono  i  gradi  di  questa  ascesa: 

Mens....  ut  per  descensum  redditur  imperfecta,  ita  per  ascen- 
sum  perficitur.  Nam  cum  sit  pregressa  et  imperfecta,  primo  per- 
ficitur  habitu.  Quo  ornata,  formatur  mente  agente,  hoc  est  a  se 
ut  in  se  manet,  cum  conversione  ad  infera.  Tertio,  elevatur  ad 
gradum  in  se  pure  manentis.  Per  quem  gradum  quarto  ascendit 
in  Mentem  participatam,  a  qua  formatur;  et  eius  rationes  cum 
ideis  participatis  nectuntur  ab  eisque  formantur  et  perficiuntur. 
Ex  quo  gradu  quarto  elevatur  in  quintum,  nimirum  in  Mentem 
non  participatam  eiusque  ideas,  munere  quarum  extollitur.  Sexto 
in  Deum,  caput  idearum  et  mentium;  in  quem  cum  pervenerit, 
summo  fruitur  bono,  quod  adumbrate  solum  ei  competere  potest 
dum  fuerit  huic  crasso  corpori  iuncta  ^1-. 

Con  quest'ultima  affermazione  il  Piccolomini  tende  a  sotto- 
lineare un  altro  dissenso  fra  Simplicio  e  gli  averroisti,  su  un 
punto  che  al  senese  stava  particolarmente  a  cuore.  È  noto 
che  una  delle  più  ardite  tesi  dell'averroismo  è  quella  della 
«  copulatio  »,  ossia  del  congiungimento  dell'  intelletto  umano 
coir  intelletto  agente  identificato  con  un'  intelligenza  separata 
che  per  alcuni  averroisti  è  Dio  173.  Per  tale  congiungimento,  la 
potenza  dell'  intelletto  umano  sarebbe  totalmente  attuata 
e  l'uomo,  fatto  capace  di  conoscere  nella  loro  essenza  le  in- 
telHgenze  separate,  raggiungerebbe  il  sommo  bene  cui  la  mente 
aspira,  in  una  specie  di  indiamento.  Questa  mistica  ampia- 
mente svolta  da  Alberto  Magno  nel  secondo  libro  del  De  in- 
tellectu  et  intelligibili  ^74,  da  Sigieri  nel  Liher  de  felicitate  e  da 
Alessandro  Achillini  nei  Qiioliheta  de  intelligentiis  ^75,  ma  de- 
risa dal  Pomponazzi,  fu  abbandonata  nel  secolo  XVI  dal 
Montecatino  e  dal  Piccolomini.  Il  primo,  arrivato  a  commen- 
tare il  famoso  testo  XXXVI  del  terzo  libro  del  De  anima, 
dichiara  di  respingere  la  dottrina  dei  commentatori  greci  ed 
arabi  intorno  al  preteso  congiungimento  dell'  intelletto  umano 
in  questa  vita  con  le  sostanze  separate: 

Ita  hanc  rem  cum  latinis  Thoma  et  Scoto,  contra  graecos  et 
arabes,     quos     Albertus     sequitur,     determinamus.     Ridemusque 


172  Ib.,  f.  219V. 

173  Cfr.    AvERROÈ,    De    anima.    III,    comm.    36;    B.    Nardi,    Sigieri 
di  Brab.,  cit.,   pp.   21-29,  nonché  qui  sopra  il  saggio  VI. 

174  Cfr.     Riv.  di  storia  della  filos.,   II,   1947     21,     pp.     215-220. 

175  V.  sopra,  il  saggio  VIII,   §  4. 


44C 


l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV   AL    XVI 


fictitiam  illam  mentis  nostrae,  quandiu  cum  corpore  coniuncta 
est,  copulationem  ex  lumine  naturali,  sine  gratia,  cum  separatis 
substantiis;  quam  inducere  arabes  student  in  scholam  peripa- 
teticam,  somniant  platonici  quidam,  non  testimonium  de  se  ipsis 
dicentes,  quod  ita  sit,  non  afterentes  rationem  ullam  firmam, 
nisi  illa  est  firma,  quam  Averroes  facit  in  prima  commentatione 
primi  minoris  Postnaturalium,  sed  declarantes  tantummodo, 
commemoratione  exemplorum  similitudinumque,  qualis  ea  sit 
copulatio;  perinde  ac  si  quispiam  conaretur  estendere  qualis 
esset  Chimaera  aut  Centaurus  176. 

D'accordo  col  Montecatino,  anche  il  Piccolomini  espone  la 
dottrina  averroistica  sul  modo  come  la  mente  umana  arriva 
a  congiungersi  con  le  sostanze  separate,  e,  dopo  avere  osser- 
vato che  Averroè  su  questo  punto  gli  sembra  «satis  obscurus»!??, 
ne  ribatte  gli  argomenti,  ritenendo  che  l'uomo  non  possa  in 
questa  vita,  colle  sue  forze  naturali,  pervenire  al  grado  di 
beatitudine  che  gli  averroisti  pretendevano  '"S. 

E  poiché  questi  s'adopravano  a  tirar  Simplicio  dalla  loro 
parte,  egli  ne  espone  il  pensiero  in  modo  da  togliere  ad  essi 
anche  questa  illusione.  Il  congiungimento  della  mente  umana 
con  la  mente  divina,  non  è  possibile  se  non  dopo  che  l'anima 
s'  è  separata  dal  peso  del  corpo  ed  ha  raggiunta  l' immortahtà. 
Dotata  di  una  sua  propria  e  intrinseca  individuaHtà,  l'anima 
umana,  per  Simplicio,  è  capace  di  ritrarsi  dalla  vita  corporea 
e  di  continuare  a  pensare  e  a  volere,  anche  quando  la  compa- 
gine  del  corpo  s'  è   disciolta  '79. 

Tale,  concludendo,  il  senese  ritiene  fosse  la  dottrina  di 
Simplicio,  checché  altri  ne  pensasse: 

Hanc  ego  puto  fuisse  sententiam  Simplicii  in  expositione  li- 
brorum  De  anima,  quam  partim  elicio  ex  verbis  eius,  partim 
ex  lamblico  et  Proclo,  quos  sibi  duces  statuit;  nec  propterea  me 
latet  M.  Antonium  lanuam,  lulium  Castellanum  et  alios  nonnullos 
viros  sapientia  celebres  plurima  ad  eam  attinentia  secus  retulisse, 
in  quorum  varietate  morari  nolo.  Haec  profecto  est  sententia 
praeclarissimorum  Academicorum  ;  Simpiicius  autem  se  medium 
constituens,  conciliique  cupidus,  ait  hanc  quoque  fuisse  senten- 
tiam Aristotelis  et  in  hanc  etiam  nititur  trahere  verba  et 
sententias  eius[dem]  Aristotelis.  Nec    desunt    viri  docti     qui    ei 


176  A.  Montecatino,  In  III  de  anima,  cit.,  ad  t.  e.  36,  p.  451. 

177  Piccolomini,   Univ.  philos.  de  moribus,  gradus  IX,  e.  34,  p.  517. 

178  Ib.,  capp.  35-38,  pp.  518-526. 

179  Piccolomini,  Capita  sententiae  Simplicii,  f.   219V. 


IL    COMMENTO    DI    SIMPLICIO    AL    «  DE    ANIMA  »  44! 

adhaereant.  Ego  tamen  puto  de  multis  Aristotelem  a  Platone 
dissentire,  in  quorum  explicatione  a  Simplicio  recedendum  existi- 
marem  i8o_ 

Ed  enumera  ben  ventiquattro  punti  concernenti  il  suo  dis- 
senso dal  commentatore  greco,  sul  modo  tenuto  da  questo 
di  sforzare  il  testo  aristotelico  per  trarlo  in  senso  platonico  ^^K 


9.  -  Le  vicende,  che  abbiamo  narrato,  del  commento  di 
Simplicio  al  De  anima,  nel  Rinascimento,  durante  il  periodo 
che  va  da  Pico  della  Mirandola  a  Francesco  Piccolomini,  mi 
pare  dimostrino  che  la  fortuna  di  questo  commento  è  essen_ 
zialmente  legata  alla  storia  dell'ultimo  averroismo.  Mentre 
alcuni  averroisti,  chiusi  nell'angusto  ambito  della  scuola, 
continuavano  a  parlare  un  linguaggio  ostico,  che  si  faceva  di 
giorno  in  giorno  sempre  piìi  incomprensibile,  altri,  meno 
gretti,  apersero  l'animo  fiducioso  alla  nuova  cultura  classica 
e  tentaron  di  rinnovarsi.  I  primi,  anche  se  fra  essi  erano  in- 
gegni acuti  e  pensatori  audaci  come  Alessandro  Achillini, 
furon  presto  votati  all'  oblio,  senza  speranza  che  una  nuova 
generazione  tentasse  piìi  tardi  di  farne  rivivere  il  pensiero. 
I  secondi,  invece,  smesso  l' irto  linguaggio  della  scuola,  osa- 
rono, appoggiandosi  ai  commenti  di  Temistio  e  di  Simplicio 
e  seguendo  l'esempio  del  Pico,  di  svolgere  la  dottrina  d'Averroè, 
orientandola  verso  il  platonismo.  Come  quei  due  antichi  com- 
mentatori greci,  anche  questi  averroisti  si  proposero  di  ac- 
cordare Aristotele  con  Platone,  A  quest'uopo  impararono 
anch'essi  il  greco,  per  poter  leggere  nella  lingua  originale  non 
soltanto  gli  scritti  di  questi  due  filosofi,  ma  altresì  quei  com- 
menti che  perseguivano  lo  stesso  proposito  di  conciliazione. 
Grazie  ai  loro  sforzi,  l'averroismo  potè  godere  ancora  d'un 
secolo  di  vita,  sino  alla  fine  del  Cinquecento. 

Ma  alla  fine  di  questo  secolo,  l'averroismo  come  scuola 
tramonta  per  sempre.  Nella  loro  fedeltà  ad  Aristotele,  gli 
averroisti  furono  i  più  ostinati  avversari  di  ogni  rinnovamento 
scientifico,  sì  nel  campo  dell'astronomia  come  in  quelli  della 
fisica  e  della  medicina.  Non  che  al  sistema  copernicano,  essi 


i8o  Ibid. 

i8i  Ib.,  ff.    219-221V. 


442        L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 

s'opposero  perfino  alla  dottrina  tolemaica  degli  eccentrici 
e  degli  epicicli  !  In  un  tempo  in  cui  si  faceva  sempre  più  strada 
r  idea  della  possibilità  d'un  mondo  infinito,  essi  continuavano 
a  negare  l' infinità  intensiva  della  virtù  del  primo  motore. 
Assurdo  era  per  loro  tutto  quello  che  non  entrasse  negli  schemi 
della  Fisica  aristotelica,  che  neanche  Dio  avrebbe  potuto 
modificare.  Il  nascere  della  nuova  fisica  matematica  e  della 
nuova  filosofia  della  natura  fece  crollare  «  ab  imis  funda- 
mentis  »  la  costruzione  aristotelica  del  mondo,  e  i  primi  ad 
esser  travolti  e  sepolti  sotto  le  rovine  furono  gli  averroisti, 
come  quelli  che  non  avevano  aspirato  ad  altra  gloria  che 
d'essere  i  più  intrepidi  difensori  d'una  fortezza  ormai  sman- 
tellata. 

Anche  la  fiducia  da  essi  riposta  nel  commento  di  Simplicio 
al  De  anima  ebbe  a  subire  una  forte  scossa,  quando  il  Picco- 
lomini  dimostrò  che  l' interpretazione  del  Genua  e  della  sua 
scuola  era  un  continuo  fraintendimento  della  genuina  dottrina 
di  questo  commentatore  greco.  Collega  del  Piccolomini  a 
Padova,  dopo  il  1592,  era  un  altro  giovane  toscano  che  a 
Pisa  aveva  acquistato  familiarità  col  commento  di  Simplicio 
alla  Fisica  e  al  De  caelo.  Il  nome  del  commentatore  greco 
d'Aristotele  doveva  esser  rimasto  legato  nella  sua  memoria 
ai  primi  scontri  coU'aristotelismo,  già  nell'ateneo  pisano. 
A  Padova  quel  nome,  così  spesso  ripetuto  nel  clamore  delle 
dispute,  dovette  certo  svegliare  nell'animo  del  giovane  maestro 
propenso  a  cogliere,  da  buon  toscano,  il  lato  umoristico  delle 
cose,  un  vivo  senso  di  ilarità  che,  coll'andare  del  tempo,  ec- 
citò la  sua  fantasia  a  creare  la  divertente  caricatura  del  dotto 
pedante,  che  nel  Dialogo  dei  massimi  sistemi  impersona  l'ul- 
timo borioso  e  goffo  difensore  della  scienza  aristotelica. 


XIV 
LA  FINE  DELL'AVERROISMO  * 


Gli  storici  del  pensiero  medievale  ci  hanno  dato  dell'aver- 
roismo un  concetto  che  forse  non  è  del  tutto  esatto  e  che  bi- 
sognerà sottoporre  a  una  revisione  critica. 

Dalla  vecchia  opera  d'  Ernesto  Renan,  Averroès  et  l'aver- 
roisme,  fino  alla  grande  monografia  del  p.  Mandonnet,  Siger  de 
Brabant  et  l'averroisme  latin  aii  XlIIe  siede,  anzi  fino  alla 
più  recente  monografia  di  Fernand  Van  Steenberghen,  Sig. 
de  Brab.  d'après  ses  ceiivres  inédites,  l'averroismo  è  presentato 
come  un'eresia  dotta,  un  movimento  eterodosso,  un'anticipa- 
zione storica  del  «  libero  pensiero  »,  o,  com'  è  stato  anche 
detto,  r  «  Aufklàrung  »  medievale. 

Il  maggiore  responsabile  di  questa  interpretazione  storica 
dell'averroismo  è  stato  S.  Tommaso  d'Aquino,  tutto  preso 
com'era  dal  bisogno  di  dimostrare  il  perfetto  accordo  fra  la 
scienza  e  la  fede,  tra  la  filosofia  aristotelica,  che  nel  medio  evo 
era  considerata  come  la  filosofia  per  eccellenza,  la  filosofia 
tout-court,  e  la  teologia  cristiana.  Secondo  lo  spirito  del  con- 
cordismo tomistico,  Averroè  fu,  prima  di  tutto,  «non  tam 
peripateticus  quam  peripateticae  philosophiae  depravator  »  ; 
fu  quindi  il  primo  sostenitore  d'una  dottrina,  che,  filosofica- 
mente assurda,  doveva  giudicarsi  eretica  dal  punto  di  vista 
della  rivelazione   cristiana   e   proscriversi   come   tale. 

Ispirate  a  questo  concetto  tomistico  dell'averroismo  sono 
quelle  figurazioni  artistiche  che  s'ammirano  a  Firenze  nella 
Cappella   degli    Spagnuoli,   nella   tela   del   Traini    nella   chiesa 


*  Dal  voi.  Pensée  hitmanìste  et  tradition  chrétienne  aiix  XVe  et  XV le 
siècles,  «  Publications  de  la  Société  d'études  italiennes  »,  Parigi,  1948, 
pp.   139-151- 


444        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV   AL    XVI 

domenicana  di  S.  Caterina  a  Pisa,  nel  dipinto  di  Benozzo 
Gozzoli  al  Louvre  e  in  quello  di  Filippino  Lippi  in  S.  Maria 
sopra  Minerva  a  Roma,  rappresentanti  il  trionfo  di  S.  Tom- 
maso. In  esse,  Averroè  è  raffigurato  prostrato  nella  polvere 
ai  piedi  del  dottore  d'Aquino,  a  significare  la  vittoria  della 
verità  cristiana  sull'eresia  e  sul  gentilesimo. 

Del  resto,  l'Aquinate  non  fu  il  solo  a  scorgere  nell'averroismo 
un  pericolo  per  la  fede:  le  due  condanne  pronunziate  nel  1270 
e  nel  1277  dal  vescovo  di  Parigi  col  consenso  dei  maestri  di 
teologia  dell'università,  dimostrano  che  le  autorità  eccle- 
siastiche, le  quali  seguivano  con  occhio  vigile  le  discussioni 
in  seno  all'  università  parigina,  erano  seriamente  preoccupate 
dell'atteggiamento  di  Sigieri  di  Brabante,  di  Bernieri  di  Ni- 
velles,  di  Gosvino  de  la  Chapelle  e  di  Boezio  di  Dacia.  E  i 
primi  tre,  canonici  tutti  e  tre  a  Liegi  e  maestri  a  Parigi,  furon 
citati  nel  novembre  1276  dall'  inquisitore  di  Francia  a  Saint 
Quintin,  come  veementemente  sospetti  d'eresia. 

Eppure,  malgrado  tutto  quello  che  S.  Tommaso  aveva 
scritto  contro  l'averroismo,  anzi  malgrado  le  condanne  da 
parte  del  vescovo  di  Parigi,  l'averroismo  continuò  ad  avere 
una  vita  assai  prospera  per  ben  tre  secoli.  A  Parigi  stessa, 
nella  stessa  facoltà  delle  arti,  ove  aveva  insegnato  Sigieri, 
troviamo,  nei  primi  decenni  del  secolo  XIV,  quel  Giovanni 
di  Jandun  che  senza  dubbio  fu  il  più  strenuo  e  il  più  sistema- 
tico difensore  dell'averroismo  a  Parigi.  E  mentre  noi  sten- 
tiamo a  ritrovare  oggi  qualche  brandello  della  produzione 
letteraria  del  grande  Sigieri,  «  Segerus  magnus  »,  com'  è  chia- 
mato in  alcuni  manoscritti  del  secolo  XIV,  noi  possediamo 
innumerevoli  manoscritti  e  molte  edizioni  a  stampa  di  quasi 
tutti  gli  scritti  di  Giovanni  di  Jandun.  Attraverso  le  prolisse 
discussioni  di  G.  di  Jandun,  e  le  copiose  notizie  che  egli  ci  ha 
tramandato,  è  consentito  di  farci  un'  idea  esatta  della  vitalità 
dell'averroismo  parigino,  e  di  trarne  la  convinzione  che  le 
condanne  contro  di  esso,  se  non  erano  del  tutto  dimenticate, 
avevano   finito   per   perdere   ogni   valore. 

A  questo  risultato  avevano  contribuito  alcuni  teologi,  i 
quali  non  esitarono  a  dichiarare  apertamente  inconcludenti 
gli  argomenti  che  S.  Tommaso  aveva  adoperato  per  combattere 
l'averroismo.  Questi  teologi  si  chiam.avano  Enrico  di  Harclay, 
maestro  e  cancelhere  a  Oxford,  Gerardo  da  Bologna,  carme- 
litano, Pietro  d'x\uriole,  francescano,  Giovanni  di  Baconthorpe, 


LA    FINE    dell'averroismo  445 

altro  carmelitano,  che  gli  averroisti  padovani  della  fine  del 
secolo  XV  non  esitarono  a  salutare  col  nome  di  «  princeps 
averroistarum  ». 

L'amico  p.  B.  Xiberta  ha  buon  giuoco  quando  dimostra  che 
Giovanni  di  Baconthorpe  non  professò  mai  la  dottrina  dell'unità 
dell'intelletto.  Ma  io  aggiungerò  che  nemmeno  Sigieri,  nemmeno 
Giovanni  di  Jandun  professarono  mai  le  tesi  che  si  attribui- 
rono agli  averroisti,  poiché  essi  ebbero  sempre  l'accorgimento 
di  dichiarare  che  parlavano  non  come  cristiani,  ma  come 
filosofi.  Ora  la  filosofia  del  medio  evo,  come  ha  ben  compreso 
il  p.  Laurent,  non  è  come  per  noi  moderni  sapere  assoluto, 
cioè  spirito  critico  dell'uomo  che  organizza  la  propria  espe- 
rienza, tutta  la  propria  esperienza,  in  una  visione  unitaria 
della  vita  e  del  mondo.  La  filosofia  dei  medievali  è  una  dot- 
trina organica  della  natura  e  delle  cause  naturali  quale  era 
stata  elaborata  da  Aristotele,  che  mussulmani  e  cristiani 
accettarono,  perché  né  il  cristianesimo  né  l' islamismo  si 
erano  curati  di  dare  all'uomo  una  dottrina  dell'ordinamento 
cosmico.  Nel  Vangelo  e  nel  Corano  una  filosofia  della  natura 
manca.  La  filosofia  aristotelica  suppliva  a  questa  mancanza. 
Accettandola,  tanto  i  mussulmani  quanto  i  cristiani,  senti- 
rono che  la  filosofia  aristotelica  era  cosa  ben  diversa  dalla 
rivelazione  religiosa  sia  del  Corano  che  del  Vangelo.  Ma, 
mentre  Avicenna  tra  gli  arabi  e  S.  Tommaso  tra  i  pensatori 
cristiani  del  medio  evo  si  sforzarono  di  accordare  la  filosofia 
aristotelica  col  pensiero  teologico,  Averroè  al  contrario  di- 
mostrò che  per  arrivare  a  questo  accordo  bisognava  falsare  i 
principi  fondamentali  della  metafisica  aristotelica,  ed  egli 
denunciava  Avicenna  come  il  maggiore  falsificatore  del  pen- 
siero  d'Aristotele. 

Aveva  ragione   od   aveva   torto    Averroè  ? 

Non  è  possibile  affrontare  così  alla  sbrigativa  un  problema 
come  questo,  che  è  prima  di  tutto  un  problema  di  ordine  er- 
meneutico e  filologico.  E  l'averroismo  è  appunto,  anzi  essen- 
zialmente, un'  interpretazione  del  pensiero  d'Aristotele,  di- 
versa e,  su  molti  punti,  opposta  a  quella  di  Avicenna  e  di 
S.  Tommaso.  Quando  l'averroista  dichiara:  —  Di  necessità 
io  concludo,  che  l'anima  razionale  è  unica  per  tutti  gli  uomini; 
ma  per  fede  penso  che  le  anime  sono  molteplici  ed  indi- 
viduali —  ,  vuol  dire:  dati  i  principi  della  metafisica  aristo- 
telica,   ne    segue   necessariamente   l'unità    dell'  intelletto.    La 


446        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

ragione  umana  che  ha  per  sua  guida  Aristotele,  non  riesce, 
senza  la  luce  della  fede,  a  vedere  la  falsità  di  quei  principi. 

Come  già  dicevo,  non  soltanto  gli  averroisti,  ma  anche  i 
teologi  che  ho  ricordato,  ed  ai  quali  potrei  aggiungere  Gu- 
glielmo di  Occam  ed  altri  ancora,  giungevano  alla  stessa  con- 
clusione :  r  interpretazione  tomistica  di  Aristotele  non  è 
interpretazione  spregiudicata,  ma  un'  interpretazione  che 
obbedisce  ad  un  proposito  deliberatamente  concordista  e 
apologetico,  già  denunciato  da  Enrico  di  Harclay  e  dal  carme- 
litano Gerardo  da  Bologna,  e  cioè  «  de  Aristotele  haeretico 
tacere   catholicum  ». 

Un  ugual  tentativo  sarà  rinnovato  in  pieno  umanesimo  da 
Giorgio  di  Trebisonda,  contro  il  quale  si  scaglia  il  Cardinale 
Bessarione  nell'opera  /;:  calumniatoyeni  Platonis.  Come  S. 
Tommaso,  il  Trapesunzio  sosteneva  che,  secondo  la  dottrina 
di  Aristotele,  l'anima  intellettiva  è  forma  sostanziale  del 
corpo  umano,  al  quale  dà  il  suo  essere  specifico;  che  essa  è 
moltiplicata  col  numero  dei  corpi;  che  essa  è  cominciata  col 
corpo,  ma  col  corpo  non  finisce,  essendo  immortale  a  parte  post. 
Il  Bessarione,  che  attraverso  il  Trapesunzio  colpisce  lo  stesso 
Aquinate,  osserva  che  siffatta  interpretazione  del  pensiero 
aristotelico  si  oppone  direttamente  ai  principi  più  certi  della 
Metafisica  d'Aristotele.  Per  lo  Stagirita  non  può  essere  immor- 
tale a  parte  post,  quello  che  non  è  perpetuo  e  immortale  a 
parte  ante.  Perciò,  se  l'anima  umana  è  immortale  a  parte  post, 
non  può  avere  avuto  principio  insieme  al  corpo,  ma  deve 
esistere  dall'eternità.  Sì  che,  se  fosse  vera  l' interpretazione 
di  S.  Tommaso  e  del  Trapesunzio,  se  cioè  l'anima  razionale 
fosse  forma  sostanziale  del  corpo  e  moltiplicata  insieme  a  que- 
sto, bisognerebbe  ammettere  che  un  numero  infinito  di  anime 
dall'eternità  attendono  il  momento  di  unirsi  al  corpo  di  cui 
sono  forma,  restando  intanto  prive  della  loro  naturale  per- 
fezione: oppure  che  un  numero  finito  di  anime  s'incarni  suc- 
cessivamente in  corpi  diversi,  in  un  ciclo  eterno  d' infinite 
reincarnazioni:  cose  tutte  che  Aristottle  ritiene  assurde. 
Dunque,  conclude  il  Bessarione,  secondo  la  genuina  dottrina 
d'Aristotele,  o  si  deve  ammettere  con  Alessandro  d'Afrodisia 
che  l'anima  muore  col  corpo,  oppure  è  necessario  concludere 
con  Averroè,  che  l'intelletto  umano  è  uno  solo  per  tutti  gli 
uomini,  ed  è  eterno  a  parte  ante  e  a  parte  post.  E  che  in  que- 
st'ultimo modo  vada  inteso  Aristotele,  è  confermato  dal  Bes- 


LA    FINE    dell'averroismo  447 

sarione  coH'autorità  d'un  averroista  inglese,  Tommaso  di 
Wilton,  che  verso  la  metà  del  secolo  XIV  aveva  insegnato 
ad  Oxford  le  stesse  dottrine  che  Sigieri  e  Giovanni  di  Jandun 
avevano  insegnato   a   Parigi. 

Tutto  quello  che  Giorgio  di  Trebisonda  e  S.  Tommaso  spac- 
ciano come  dottrina  di  Aristotele,  dice  ancora  il  Cardinal 
Bessarione,  è  dottrina  particolare  della  nostra  fede  e  niente 
ha  che  fare  coll'aristotelismo.  E  non  mi  farebbe  meraviglia, 
aggiunge  il  Bessarione,  se  di  questo  passo  s'arrivasse  a  trovare 
in  Aristotele  il  dogma  dell'  incarnazione,  della  passione  e  della 
resurrezione  di  Cristo,  e  a  profanare  in  tal  modo  i  più  santi 
misteri   della   nostra   fede. 

Ottant'anni  dopo  che  il  grande  Bessarione  ebbe  scritto  la 
sua  opera  contro  il  Trapesunzio,  un  averroista  italiano  che  qui 
a  Parigi  era  stato  chiamato  da  Francesco  I  a  insegnare  la 
filosofìa  sul  testo  greco  d'Aristotele,  il  milanese  Francesco 
da  Vimercate,  alla  fine  della  sua  Peripatetica  disceptatio> 
stampata  a  Parigi,  in  «  Officina  Christiani  Wecheli  »,  nel- 
l'anno 1543,  ispirandosi  al  Bessarione,  osserva  molto  giusta- 
mente, che  coloro  che  hanno  bisogno  di  confermare  la  loro 
fede  coH'autorità  di  Aristotele,  non  sembrano  aver  molta 
fiducia  nella  parola  di  Cristo.  E  poco  più  di  un  ventennio 
dopo,  esattamente  nel  1567,  un  altro  aristotelico  italiano, 
ma  non  averroista,  bensì  alessandrista,  Giulio  Castellani  da 
Faenza,  diceva  che  coloro  che  esitano  a  prender  posizione  e  a 
dichiarare  il  loro  pensiero  per  ciò  che  riguarda  i  problemi 
dello  spirito  umano,  per  paura  di  trovarsi  in  contrasto  colla 
fede,  «  profecto  huiusmodi  homines  ignorare  videntur,  quam 
Christiana  fìdes  et  charitas  a  philosophandi  ratione  distet, 
et  quam  nullius  sint  ponderis  Aristotelis  inventa  et  argumen- 
tationes  ad  sanctissimae  religionis  nostrae  decreta  labe- 
factanda  ».  E  conclude  con  un  linguaggio  da  gran  galantuomo, 
senza  falsi  pudori:  «  Audacter  igitur  etiam  possumus  de  animi 
nostri  substantia  ac  perpetuitate  disserere,  perpendereque 
diligenter  quid  de  eo  discernendum  voluerit  Aristoteles.  Si 
quideni  cum  nos  philosophamus,  ex  aliorum  sententia  loquimur, 
semperque,  ut  christiani,  Sacrarum  Litterarum  preciosissima 
monumenta  pie  colenda  et  observanda  supponimus  ». 

Ecco  dunque  a  che  cosa  si  riduce  la  così  detta  «  dottrina 
della  doppia  verità  »,  della  quale  si  sono  scandalizzati  gli  sto- 
rici moderni  della  filosofìa.  Non  se  ne  scandalizzarono  invece 


448        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

gl'inquisitori  dell'eretica  pravità;  ai  c]uali  interessava  medio- 
cremente di  sapere  come  la  pensasse  Aristotele.  Ad  essi  ba- 
stava di  sapere  che  sia  gli  averroisti  che  gli  alessandristi  non 
ponevano  in  discussione  le  verità  rivelate,  bensì  la  dottrina 
di  Aristotele.  Che  se  poi  Aristotele  non  s'accordava  alla  fede 
di  Cristo,  tanto  peggio  per  lui;  e  tanto  peggio  per  chi  lasciava 
Cristo  per  Aristotele. 

S'oda,  per  esempio,  quest'avvertenza  che  Polo  Loredan, 
patrizio  veneziano,  rivolge  al  lettore  nell'atto  di  congedare 
per  la  stampa  il  suo  commento  al  De  anima  condotto  secondo 
lo  spirito  alessandrista  del  Pomponazzi,  del  Porzio  e  del  Ca- 
stellani, e  dedicato  nel  1596  al  serenissimo  duca  d'Urbino, 
Francesco  Maria  da  Montefeltro:  «Pie  lector,  haec  mea  com- 
mentarla pie  legito,  et  tantum  mentem  Philosophi  hic  inter- 
pretari  scito;  et  me  interpretem  christianum  et  Sanctae  Ro- 
manae  Ecclesiae  filium  esse  advertito,  et  prò  Domino  nostro 
lesu  et  Ecclesia  mori  paratum  habeto;  Aristotelem  christia- 
num non  extitisse  notato,  nec  ipsum  Christiane  scripsisse 
nec  Christiane  expositum  observato.  Fidem  Christi  Dei  et 
Dei  filli  tot  tantisque  miraculis  firmatam  inspicito,  auctori- 
tate  Aristotelis  non  indigeto,  et  si  quae  veritatem  catholicam 
turbantia  legeris,  tamquam  falsa  et  ab  Aristotele  impio  prolata 
prò   firmo  et  indubitato  habeto  tenetoque.  Vale  ». 

Perciò  le  autorità  ecclesiastiche,  dai  primi  anni  del  se- 
colo XIV  in  poi,  avevano  finito  per  acquetarsi  a  siffatte  di- 
chiarazioni, e  lasciarono  sia  agli  averroisti  che  agli  alessandristi 
la  più  ampia  libertà  di  discussione  e  di  critica.  Le  difficoltà 
che  i  dantisti  trovano  ad  intendere  come  Dante  possa  aver 
messo  nel  suo  Paradiso,  a  fianco  di  S.  Tommaso,  un  averroista 
qual  era  stato  Sigieri  di  Brabante,  e  farne  l'elogio  che  Dante 
fa  pronunciare  allo  stesso  Tommaso  d'Aquino,  derivano  da 
due  cose:  primo,  dal  non  aver  capito  la  particolare  natura 
della  filosofia  di  Dante;  secondo,  dal  non  aver  capito  che  cosa 
è   stato   l'averroismo. 

Questi  commentatori  di  Dante,  invece  di  guardare  alla 
figurazione  dantesca  in  se  stessa  e  in  rapporto  al  pensiero 
del  poeta  che  pone  «  Averrois  che  '1  gran  commento  feo  » 
tra  gli  spiriti  magni  del  nobile  castello,  si  son  lasciati  for- 
viare dalle  raffigurazioni  cui  accennavo  in  principio,  e  nelle 
quali  Averroè  è  prostrato  nella  polvere  ai  piedi  di  S.  Tom- 
maso. 


LA    FINE    DFXL  AVERROISMO  449 

A  queste  figurazioni  d' ispirazione  domenicana  e  tomistica 
parrebbe  opporsi  invece  quella  d' ispirazione  agostiniana  che 
Giusto  dipinse,  poco  prima  del  1370,  nella  cappella  dei  Cor- 
telieri  annessa  alla  chiesa  degli  Eremitani  a  Padova,  ove 
aveva  insegnato  Gregorio  da  Rimini.  Dalle  descrizioni  che 
un  secolo  dopo  ne  lasciò  Hermann  Schedel,  in  questo  affresco 
del  Menabuoi  Averroè  era  dipinto  a  fianco  di  Maestro  Alberto 
da  Padova,  teologo  eremitano  morto  nel  1328,  e  del  beato 
Giovanni  della  Lana  da  Bologna,  filosofo  e  teologo  ed  an- 
ch'esso eremitano,  morto,   a  quanto  pare,    intorno   al   1350. 

Questo  affresco  deve  avere  impressionato  il  giovane  ere- 
mitano Paolo  Veneto  che  pochi  decenni  dopo,  reduce  an- 
ch'egli,  al  pari  di  Gregorio  da  Rimini,  dalle  scuole  di  Oxford 
e  di  Parigi,  e  salito  sulla  cattedra  di  filosofia  nelle  scuole  an- 
nesse al  convento  agostiniano  di  Padova,  ispirò  il  suo  insegna- 
mento alla  dottrina  sigeriana,  sforzandosi  di  dimostrare  in 
che  modo  l' intelletto,  unico  per  tutta  la  specie  umana,  riesce 
ad  individualizzarsi  nei  singoli.  lAlla  stessa  dottrina  sige- 
riana s' ispirano  verso  la  fine  del  secolo  XV,  Pico  della  Mi- 
randola, Alessandro  AchiUini,  Agostino  Nifo,  Tiberio  Ba- 
cilieri  e  altri. 

L'averroismo  che  ormai  pareva  avere  esaurita  la  sua  vi- 
talità a  Parigi  ed  a  Oxford,  sopraffatto  dallo  scotismo  e  dal- 
l'occamismo,  s'era  ridotto  ormai  nelle  sue  due  ultime  fortezze 
di  Padova  e  di  Bologna.  Accade  ancora  di  trovare  qualche 
altro  averroista  altrove,  come  Luca  Prassicio  a  Napoh,  che 
già  vecchio  intervenne  nel  1521  nella  polemica  fra  il  Pompo- 
nazzi  ed  il  Nifo.  Ma  nel  suo  rigido  attaccamento  al  testo  aver- 
roistico,  egli  parlava  un  linguaggio  che  si  faceva  di  giorno  in 
giorno  più  incomprensibile. 

Anche  a  Bologna,  ove  l'averroismo  sigeriano  aveva  trovato 
alla  fine  del  Quattrocento  nell'Achillini  un  difensore  ardito  e 
destro,  non  ebbe  in  Ludovico  Boccadiferro  un  successore 
degno  di  tanto  maestro.  A  Padova  invece  l'averroismo  prese 
a  rinnovarsi,  sotto  la  spinta  del  Platonismo. 

Nel  1481  era  uscita  a  Treviso  la  traduzione  che  Ermolao 
Barbaro  aveva  fatto  delle  Parafrasi  di  Temistio.  A  questo 
interprete  bizantino  e  a  Teofrasto,  Averroè  stesso  aveva  fatto 
risalire  la  dottrina  dell'unità  dell'  intelletto.  Non  fa  quindi 
meraviglia  che  gli  averroisti  si  ponessero  a  studiare  con  parti- 
colare interesse   la    parafrasi  temistiana  del  De  anima,  nella 

29 


450        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

traduzione  del  Barbaro,  visto  che  la  traduzione  medievale  di 
Guglielmo  di  Moerbeke  era  diventata  estremamente  rara, 
e  del  resto  era  oltremodo  ostica  all'orecchio  degli  umanisti. 
Ma  assai  più  della  parafrasi  di  Temistio,  contribuì  al  rinnova- 
mento dell'averroismo  padovano  la  conoscenza  del  commento 
di  Simplicio  al  De  anima,  rimasto  sconosciuto  ai   medievali. 

Il  primo  che,  a  mio  parere,  conobbe  ed  usò  il  commento 
di  Simplicio  al  De  anima  fu  Pico  della  Mirandola,  il  quale  ne 
estrasse  ben  nove  tesi  delle  900  preparate  nel  i486  per  k 
disputa  da  tenere  a  Roma,  che  poi  non  ebbe  luogo.  Il  com- 
mento di  Simplicio  dovette  attirare  l'attenzione  del  Pico, 
perché  pareva  contenere  un  elemento  che  poteva  essere  pre— ^ 
zioso  a  risolvere  il  problema  centrale  dell'averroismo  e  che 
è  il  problema  centrale  di  tutta  la  filosofia,  e  cioè:  in  che  modo 
r  intelletto  che  è  un  principio  di  conoscenza  universale  e  che 
nella  sua  natura  trascende  l' individuo,  si  comunica  a  questo, 
puntualizzandosi  nello  spazio  e  nel  tempo.  Come  ho  dimo- 
strato più  volte,  il  significato  storico  ed  il  valore  filosofico 
dell'averroismo  consiste  appunto  nello  sforzo  di  risolvere 
questo  problema,  che,  posto  dai  medievali  in  termini,  se  vo- 
gliamo, contingenti  e  per  noi  inconsueti,  è  il  problema  eterno 
della  filosofia.  Il  trattato  di  Sigieri  di  Brabante,  De  intellectu, 
scritto  in  risposta  al  trattato  di  S.  Tommaso  contro  gli  aver- 
roisti,  questo  trattato  di  Sigieri  che  si  leggeva  ancora  a  Pa- 
dova negli  ultimi  decenni  del  sec.  XV,  suggeriva  al  signore 
della  Mirandola,  studente  a  Padova  ed  averroista,  una  solu- 
zione della  quale  si  ha  l'accenno  in  due  delle  «  conclusiones 
secundum  Avenroem»:  da  un  lato,  l'anima  intellettiva  è 
una  sola  in  tutti  gli  uomini;  dall'altro,  sembra  possibile  al 
Pico,  da  un  punto  di  vista  strettamente  averroistico,  che  la 
mia  anima,  così  particolarmente  mia  da  distinguersi  dall'anima 
di  ogni  altro  uomo,  possa  conservare  la  sua  individualità 
anche  dopo  la  morte. 

L'elemento  prezioso  che  il  commento  di  Simplicio  forniva 
al  Pico,  consiste  nell'  idea,  derivata  da  Proclo  e  da  Giambhco, 
di  un  intelletto  che,  uno  in  sé,  è  capace  di  parteciparsi,  uscendo 
fuori  di  sé,  in  una  discesa  progressiva  verso  le  «seconde  vite», 
cioè  la  vita  vegetale  e  quella  animale,  per  poi  ritornare  in  sé, 
in  un  circolo  eterno  che  ricorda,  anche  nella  curiosa  coinci- 
denza dell'espressione  verbale,  il  processo  hegeliano  dell'  idea 
in  sé  che,  uscita  fuori  di  sé,  ritorna  a  sé  come  spirito. 


LA    FINE    DELL  AVERROISMO  45 1 

Non  è  il  caso  d' indugiarmi  piìi  oltre  ;  ma  non  posso  non 
ricordare  la  curiosa  immagine  che  il  Pico  suggeriva  al 
Nifo,  professore  a  Padova,  durante  il  viaggio  che  insieme  eb- 
bero a  fare  diretti  entrambi  a  Bologna.  L'unità  dell'  intelletto 
umano  non  è  altro  che  l'unità  dell'  idea  platonica,  che  si  co- 
munica ai  singoli  rimanendo,  in  se  stessa,  una,  indivisibile  e 
immoltiplicabile.  Ma,  nel  comunicarsi  ai  singoli,  essa  lascia 
in  questi  un'  impronta  e  un  vestigio  che  permane  e  costituisce 
r  individuahtà  dei  singoli.  E,  per  rendere  il  suo  concetto, 
il  mirandolano  ricorreva  a  questo  paragone.  Come  per  co- 
struire un  arco  o  una  volta  è  necessaria  quell'  impalcatura 
che  chiamano  centina;  ma  quando  l'arco  o  la  volta  sono  co- 
struiti, si  reggono  da  sé,  senza  bisogno  di  sostegno;  così  l'anima 
individuale  è  una  partecipazione  dell'anima  universale,  la 
quale  nel  corpo  di  ogni  individuo  umano' lascia  un'impronta 
in  cui  consiste  l' individualità  di  ogni  uomo. 

In  tal  modo  il  mirandolano  non  ripudiava  affatto  il  suo 
averroismo  del  periodo  padovano;  ma  anzi  l'approfondiva  e  lo 
giustificava  con  un  concetto  neoplatonico,  sì  che  il  problema, 
nel  quale  si  dibattevano  senza  via  d'uscita  gli  averroisti, 
pareva  avviato  alla  soluzione. 

Agostino  Nifo,  professore  a  Padova  dal  1492  al  1499,  uomo 
di  vasta  erudizione,  ma  confusionario  e  pretenzioso,  credette 
in  un  primo  momento  di  aver  trovato  nel  commento  di  Sim- 
pUcio  la  piena  conferma  alla  tesi  sigeriana,  che  egli  ci  attesta 
di  aver  accolto  nella  sua  prima  giovinezza  e  poi  con  molta 
disinvoltura  abbandonato. 

La  vivacità  chiassosa  ed  arrogante  che  il  Nifo  metteva  nel 
difendere  le  proprie  idee  e  nel  combattere  le  altrui,  contribuì 
ad  attirare  l'attenzione  sul  commento  di  Simphcio,  del  quale 
frattanto  fu  preparata  l'edizione  in  greco  che  uscì  a  Venezia 
nel  1527,  presso  i  Manuzio.  Colui  che  pur  senza  condividere 
le  idee  del  Nifo,  anzi  combattendole  apertamente,  si  diede 
con  ardore  a  studiare  il  commento  di  Simplicio  al  De  anima, 
fu  Marcantonio  de'  Passeri,  detto  il  Genua,  professore  di  filo- 
sofia nello  studio  di  Padova  dal  15 17  all'anno  della  sua  morte 
nel  1563.  Di  costui  ci  resta  un  importante  commento  al  De 
anima,  pubblicato  postumo  nel  1576,  a  Venezia,  ad  opera  di 
fedeli  alhevi  che  si  giovarono  dei  manoscritti  lasciati  dal 
maestro.  Altre  due  redazioni  dello  stesso  corso,  tenuto  in  anni 
diversi,   ci  restano   manoscritte  nella  Biblioteca  Vaticana. 


452         l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

Averroista,  il  Genua  riteneva  di  poter  proclamare  il  pieno 
accordo  fra  Averroè  e  «  il  divino  Simplicio  »,  sia  sulla  tesi  del- 
l'unità dell'  intelletto,  sia  su  quella  che  vuole,  contro  la  cor- 
rente sigeriana  del  Nifo,  l'anima  razionale  forma  assistente  e 
non  inerente  o  «  informante  »  del  corpo  umano.  Inoltre,  egli 
constatava  l'accordo  tra  il  commentatore  greco  e  quello  arabo 
anche  su  altri  punti,  segnatamente  sulla  conoscenza.  Nel 
far  ciò,  egli  si  ado prava  a  sviluppare  alcuni  motivi  platonici 
che  realmente  erano  latenti  nel  pensiero  averroistico.  Natu- 
ralmente il  Genua  fu  uno  dei  più  risoluti  avversari  dell'ales- 
sandrismo,  e  riprese  per  proprio  conto,  come  altri  averroisti, 
la  polemica  contro  il  Pomponazzi  e  il  Porzio,  i  quali,  al  pari 
di  Vincenzo  Maggi,  di  Bassiano  Landò  e  di  Giulio  Castellani, 
s'erano  dichiarati  per    Alessandro  d'Afrodisia. 

L'avvicinamento  di  Averroè  a  Simplicio,  mentre  forniva 
nuove  armi  agli  averroisti,  sembrò  per  un  momento  smus- 
sare l'antagonismo  tra  la  filosofìa  aristotelica  e  quella  pla- 
tonica, la  quale  aveva  avuto  nel  Ficino  un  sagace  rinnova- 
tore. La  scuola  del  Genua  pareva  anzi  aver  trovato  nel  neo- 
platonismo la  soluzione  di  quelle  difficoltà,  che  furon  lo  scoglio 
contro  il  quale  l'averroismo  doveva  naufragare. 

L'entusiasmo  dei  discepoli  incoraggiava  ed  assecondava 
l'opera  del  maestro.  Fra  questi  merita  di  essere  segnalato 
Giovanni  Fasolo,  professore  di  lettere  umane  nello  studio 
padovano.  Era  da  otto  anni  allievo  del  Genua  e  ben  tre  volte 
aveva  udito  il  maestro  esporre  il  De  anima,  quando  condusse 
a  termine  la  traduzione  in  latino  del  commento  di  Simplicio 
sul  trattato  aristotelico,  stampata  a  Venezia  nel  1543.  Nella 
lettera  indirizzata  agli  alunni  del  Genua,  e  premessa  alla 
traduzione  del  secondo  libro  di  Simplicio,  il  Fasolo,  dopo  aver 
loro  ricordato,  come  il  maestro  solesse  a  tutti  gli  altri  commen- 
tatori d'Aristotele  anteporre  Averroè  e  Simplicio,  afferma  che 
tutto  quanto  v'  è  di  buono  nei  libri  dell'arabo,  questi  1'  ha 
appreso  dal  commentatore  greco.  E  sebbene  egli  riconosca, 
che,  su  alcuni  punti,  non  s'arriverebbe  a  capire  Aristotele 
senza  il  commento  averroistico,  tuttavia  ne  mette  in  rilievo 
lo  stile,  più  che  disadorno,  irto,  oscuro,  barbarico,  mentre 
l'esposizione  di  Simplicio  è  piana,  senza  ambiguità,  ed  ele- 
gante. Forte  di  questa  constatazione,  e  più  ancora  dell'esempio 
del  maestro,  che  non  si  stancava  di  lodare  la  divina  esposi- 
zione dell'  interprete  greco,  il  Fasolo  rivolge  una  calda  esor- 


LA    FINE    DELL  AVERROISMO  453 

tazione  ai  suoi  condiscepoli,  perché  vogliano,  ora  che  il  com- 
mento di  Simplicio  è  reso  facilmente  accessibile  a  tutti,  ces- 
sare di  logorarsi  il  cervello  sulle  pagine  scabrose  di  Averroè, 
e  s'affidino  invece  all'espositore  greco.  Si  buttino  pur  via  tutti 
gli  altri  commenti,  quelli  d'Alberto  Magno,  d'  Egidio  Romano, 
del  Burleo,  del  Suessano  e  d'altri  insieme  a  quello  d' Averroè, 
e  si  studi  invece  di  giorno  e  di  notte  soltanto  Simphcio:  «  alios 
negligite;  Simplicium  unum  vobis  die  noctuque  versandum 
proponite  w. 

Questo  vivace  appello  rivolto  dall'umanista  padovano  a 
cacciar  dalle  scuole  Averroè,  era  fatto,  a  dir  vero,  più  in  nome 
dell'eleganza  e  del  buon  gusto  letterario,  che  non  nel  nome 
della  filosofìa;  e  pochi  l'accolsero.  Sicché  Averroè  continuò 
ad  essere  stampato,  letto  e  discusso  «  in  utramque  partem  » 
nelle  scuole  di  filosofia  durante  tutto  il  Cinquecento.  Ma 
quell'appello,  ad  ogni  modo,  è  significativo  del  disgusto  che 
cominciava  così  apertamente  a  manifestarsi  per  l'averroismo 
ormai  prossimo  al  tramonto. 

Chi  credesse  che  a  questo  tramonto  abbiano  contribuito  lo 
spirito  della  controriforma  e  i  divieti  ecclesiastici,  s' inganne- 
rebbe. Chiarito  ormai  quello  che  era  il  significato  dell'averroismo 
come  sistema  interpretativo  del  pensiero  aristotelico,  fu  ri- 
conosciuta tanto  agli  averroisti  quanto  agh  alessandristi  la 
più  spregiudicata  libertà  di  discussione  delle  loro  dottrine 
«  filosofiche  ».  Se  qualche  tentativo  fu  fatto,  da  parte  di  qual- 
che zelante,  di  Hmitare  siffatta  hbertà,  si  tratta  di  zelo  ec- 
cessivo e  di  eccezioni  sporadiche. 

L'averroismo  volse  al  tramonto  sul  finire  del  secolo  XVI  e 
sul  cominciare  del  secolo  successivo,  perché  al  tramonto  vol- 
geva ormai  l'aristotelismo,  del  quale  l'averroismo  pretendeva 
d'essere  la  più  fedele  interpretazione.  L'aristotelismo  a  sua 
volta  finiva  per  interna  dissoluzione,  sotto  i  colpi  della  critica 
occamistica,  la  quale,  svalutando  la  conoscenza  astrattiva, 
metteva  in  evidenza  lo  pseudo  matematismo  dei  procedimenti 
gnoseologici  che  sono  alla  base  del  sistema  aristotelico  della 
natura,  e  additava  nella  conoscenza  intuitiva  lo  strumento 
della  ricerca  scientifica. 

La  stessa  opposizione  tra  ciò  che  è  vero  per  fede  e  quello 

che  è  da  pensare  secondo  la  «filosofia»,  se  pur  in  qualche  modo 

giovò  a  rivendicare  la  Hbertà  della  critica  entro  i  confini  della 

filosofia  aristotehca,  finì  per  rendere  sempre  più  estraneo  al 

29  * 


454        l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 

cristianesimo  raristotelismo  averroistico,  il  quale  si  rivelava 
incapace  di  sistemare  l'esperienza  religiosa  che  trae  impulso 
dal  Vangelo.  11  platonismo  invece  era  parso  al  Ficino  una  specie 
di  propedeutica  al  cristianesimo,  sì  che  sembrava  agevole 
sviluppare  in  senso  cristiano  i  motivi  religiosi  che  racchiudeva. 

S'aggiunga  a  questo  l'asperità  di  un  linguaggio  che  lacerava 
le  orecchie  abituate  dall'umanesimo  all'armonia  e  al  numero 
della  retorica  classica. 

Ma  quello  che  determinò  il  crollo  definitivo  dell'aristoter- 
lismo  e  dell'averroismo,  fu  il  nascere  di  una  nuova  filosofia 
della  natura,  fondata  su  un  nuovo  metodo  di  ricerca  scienti- 
fica: la  logica  dell'esperienza.  Mentre  i  precursori  di  Coper- 
nico, da  Nicola  d'Oresme  in  poi,  avevano  rimesso  in  discussione 
l'antica  ipotesi  pitagorica  del  moto  della  terra,  l'averroista  bolo- 
gnese Alessandro  Achillini  alla  fine  del  secolo  XV  e  nel  primo  de- 
cennio del  XVI  combatteva  perfino,  come  troppo  ardita,  la  dot- 
trina tolemaica  degli  eccentrici  e  degli  epicicli,  per  ritornare  a 
quella  aristotelica  delle  sfere  concentriche  alla  terra,  considerata 
il  centro  immobile  dell'universo.  E  mentre  alcuni  scolastici  del 
sec.  XIV  avevano  dimostrato  la  possibilità  di  un  universo  infinito 
creato  da  Dio,  ed  avevano  preparato  la  via  al  Cardinal  Cusano 
e  al  Bruno,  gli  averroisti  del  Quattrocento  e  del  Cinquecento 
continuavano  ancora  a  sostenere  che  il  mondo  non  si  esten- 
desse al  di  là  dell'ottava  sfera  o,  tutt'al  più,  del  primo  mobile,, 
che  Dio  stesso,  nella  sua  onnipotenza,  non  potesse  creare  altri 
mondi  diversi  da  questo,  e  che  il  moto  del  primo  mobile  fosse 
un  movimento  assoluto,  come  punti  di  riferimento  assoluti 
erano,  per  loro,  il  centro  della  terra  e  la  convessità  della  prima 
sfera.  Questa  angusta  concezione  dell'universo  fisico  crollava 
come  un  castello  di  carte,  il  giorno  in  cui,  col  dialogo  della 
Cena  delle  ceneri  e  con  quello  Dell'universo  infinito  e  mondi, 
il  concetto  dell'  infinito  faceva  irruzione  nella  filosofia  della 
natura  e  conduceva  alla  scoperta  della  relatività  di  tutte  le 
determinazioni  spaziali  e  temporali.  L'averroismo  fu  sepolto 
sotto  le  rovine  della  fisica  aristotelica. 

Ed  anche  il  tentativo  del  Pico  e  del  Genua  di  svolgere  ta- 
luni motivi  del  pensiero  averroistico  in  senso  platonico,  col- 
l'aiuto  del  commento  di  Temistio  e  di  Simplicio  e  sopratutto- 
col  sussidio  di  Plotino,  non  valse  a  salvare  1'  averroismo  come 
sistema.  Per  ciò  che  si  riferisce  al  commento  di  Simplicio,  nel 
quale  avevano  riposto  le  loro  speranze  il  Genua  ed  i  suoi  pa- 


LA    FINE    dell'averroismo  455 

do  vani,  non  passarono  molti  anni  che  Francesco  Piccolomini, 
il  quale  dopo  la  morte  del  Genua  ne  occupò  la  cattedra  fino 
al  suo  ritiro  nel  1601,  potè  dimostrare,  con  un  accurato  esame 
dell'opera  del  commentatore  greco,  che  la  dottrina  di  Simplicio, 
al  pari  di  quella  di  Proclo,  di  Giamblico  e  di  Prisciano  Lido, 
non  s'accordava  affatto,  come  avevano  preteso  il  Genua  e  il 
Nifo,  colla  teoria  averroistica  dell'unità  dell'  intelletto.  E  se 
nell'averroismo  v'erano  effettivamente  quei  motivi  platonici 
che  ne  svolse  Pico  della  Mirandola,  ciò  che  dell'averroismo 
sopravisse  e,  mettiamo  pure,  sopravive  alla  dissoluzione  del 
sistema,  ha  finito  per  fondersi  col  pensiero  platonico  successivo. 
Lo  stesso  problema  del  rapporto  dell'  intelletto  coli'  indi- 
viduo, ossia  del  valore  universale  dell'  intendere  e  dell'  indi- 
vidualità dell'atto  che  intende,  che  è  il  problema  centrale  del- 
l'avveroismo  medievale  e  del  Rinascimento,  s'  è  rivelato  mal 
posto,  pei  termini  nei  quali  era  enunciato,  e  conveniva  mutare 
i  termini  per  trovarne  la  soluzione. 


INDICE  ONOMASTICO  E   DOXOGRAFICO 


Abano  (Pietro  d')  :  1-74,  75,  iii, 
229,   241,   242,   247,   248,   343. 

Abbagnano  N.:   277-78,   351. 

Abubacher:  144,  298  (v.  Aven- 
pace). 

Accoramboni  G.  :   164. 

Achillini  A.:  106,  139,  142,  143, 
166,  171,  179-279,  281,  282,  288, 
301,  310,  315,  316,  317,  319, 
320,  324,  328,  329,  330,  336, 
342,  349,  352,  384.  409.  412, 
418,    419,    439,    441,    449,    454. 

Achillini  C:   225,   240. 

Achillini  G.  F.  :  226,  249,  251, 
263,   271,   272. 

Aeternitni  a  parte  post,  aeternum 
a  parte  ante  :   298. 

Agenti  univoci  e  sinonimi:  v. 
Cause  u.  e  5. 

Agostino   (S.):    17,   53,   68,    192. 

Agostino  Moravo:    160. 

Alabanti  A.:    103,   318. 

Albategni  o  Albattani:    170. 

Alberto  G.   G.:  416. 

Alberto  Magno:  29,  73,  78,  95, 
96,  104,  105,  107,  108,  127,  128, 

135,  136,  137,  138,  139,  143. 
145,  146,  221,  247,  276,  294, 
300,  395,  434,  439. 

Alberto  di  Padova:   75,  449. 

Alberto  di  Sassonia,  o  Albertuccio: 
103,  104,  107,  117,  239,  247,  262. 

Albumasar:  34. 

Alcocodem:   34. 

Alessandrismo:  59,   64,  97. 

Alessandristi:   413    (v.   Averroisti). 

Alessandro  d'Afrodisia:  4,  13,  14 
19,  41,  49,  62,  64,  67,  69,  87 
128,  129,  130,  131,  132,  134 
144,  154,  204,  211,  236,  239 
276,  297,  298,  309,  354,  365 
368-72,  374,  391,  405,  406,  408 
409,   424,   427,   436,   446,   452. 


Alessandro  di  Hales:   145,   146. 
Alf arabi    (Alpharabius),  Abu   Na- 

sar)  :  14,  41,  42,   128,   130,   131, 

134,   137,   144,   298. 
Algazel  (Al-Gazali)  :  9,  14,  41,  42, 

88,   376,    381,   406,   430-31. 
Alnwich  G.:   75. 
Alpheeh,   Averrois  filius:  308. 
Alvise  da  Brescia:   172. 
Ammonio:   354. 
Anassagora:  3,  4,    14,   16,   40,   59, 

68,    182. 
Anatomia:   249-50,   271-73. 
Angeli:   202-203. 
Anima  razionale   0   intellettiva   (v. 

anche  Intellectus  e  Uomo):  3-18, 

59-69,  70,  78,  80,  83-85,  87,  108. 

109,    180,    181,    208,    218,    233, 

242-46,  276,   298-302,  349,  354. 

378-79,     381-82,     407,     417-21, 

430-  433-35.  439- 
Animarum     descensus     et     indivi- 
duano: 436,  438-39,  449-51- 
Anima    umana    {Immortai .    dell')  : 

68,    156,    219-20,    297,    298-301, 

354,    357-59,    369-72,    381,    393- 

94,  408,  429,  446. 
Anima  delle  piante  e  degli  animali: 

11,   78,   79,   80. 
Anima  mundi:  430. 
Annibale  Camillo  da  Coreggio:  272. 
Anselmi  L.  :    123,   331. 
Antonio  Andrès:    105. 
Antonio  da  Faenza,  v.  Cittadini  A. 
Antonio  da  Rimini:    157. 
Antorosa   (Antonino  de)  :   338. 
Apollonio  di  Tiana:    134. 
Aquila   (Sebastiano  dell'):    152. 
Aquilano  (de  Aquila)   G.  :   124-26. 

151-53.   159,   162-63,   168-69. 
Aquinate,    Aquino,    v.    Tommaso 

d'Aq. 
Arcamona  A.:    123. 


458 


L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 


Arcudi  A.  :   363. 

Arcudi  S.  :  334. 

Arcudi  T.:   334.347.355.356,302. 

Argelati  F.  :  404. 

Aristotele:  3-6,  7,  11,  14-16,  19, 
30,  40-43,  55,  60,  63-65,  67,  70, 
72,  80,  84-88,  90,  91,  95-97, 
99,  104-108,  127-30,  132-33,  135, 
140,  182,  184,  186-90,  192,  201, 
207,  213-14,  220,  230,  234,  237, 
242,  243,  262,  263,  298-300,  357, 
374.  405.  407.  408,  429. 

Aristotele  (Infallibilità  d')  :  255, 
330. 

Aristotele  (Contradizioni  d')  : 
230. 

Aristotele  concordato  con  Plato- 
ne: 359-62,  363,  401,  425-26, 
440-41. 

Aristotele   (Pseudo)  :   239. 

Aristotelismo:  255-57  (v-  Averroi- 
smo). 

Asìn  Palacios  M.  :  42. 

Astrologia  Giudiziaria:   27,   29-37, 

73- 

Aulo  Gellio:   70. 

Avanzo   G.  :    159-61,    167. 

Avenpace  (v.  anche  Abubacher)  : 
128,    130-31,    134,   298,   309. 

Averroè  (Averroys,  il  Commenta- 
tore per  eccellenza  di  Arist.)  : 
V,  2-5,  11-13,  16,  19,  30,  40-47, 
61-68,  72,  75,  79,  80,  82-88,  90, 
91,   99,    104-108,    127-132,    134- 

136,  138,  140,  144,  145,  155, 
184,  185,  187-189,  192,  201, 
203-207,  211,  213,  214,  218,  230, 
232,  233,  237,  242,  244,  254, 
292-94,  298,  299,  304,  305,  307, 
308,  328,  344,  350-59,  356-57, 
366,  368-71,  381-82,  390,  391, 
397-98,  399,  403-405.  408,  411- 
12,    427,    429,    430-31,    443-44, 

452-53- 

Averroè  (Contradizioni   d')  :  330. 

Averrois  filius,  v.   Alpheeh. 

Averroismo:  V,  59,  75,  97,  127  sgg., 
153-55.  255-57,  276,  291-94, 
343.  349,  413-14.  443-46,  449, 
453-54- 

Avicenna:  3,  6,  11,  12,  14,  16,  17, 
19,  22,  37,  41,  42,  46,  61,  63,65, 
72,   88,   89,   128,    130,   134,    136, 

137,  144,  148,  156,  177,  178,  203, 
223,  234,  241,  250,  254,  273  298, 
328,  412,  445. 


Bacilieri  T.,  106,  165,  166,  180, 
226-27,  231,  252,  254,  257,  281, 
288,    291,    322,    324,    329,    336, 

346.  349.   384.  412.  449- 
Baconthorpe    (Giovanni   di):    154, 
185,    187,    233,    294,    328,    349, 

353-54.   408,   444-45- 
Badoèr    S.  :    101,    102,    103,    115, 

116,   285,   286,   313. 
Baeumker  C.  :   203. 
Bagaroto  B.  :   172,    174,    175,  332, 

400. 
Bagolino  Gir.:   160,   167,  336. 
Baldassarre  da  Chiusi:    112. 
Barbarigo  A.:  108,  110,  iii,  124. 
Barbarigo  G.  :    167,   290. 
Barbaro    E.:     343,     350,     366-68, 

374.   388,  449-50. 
Barozzi  P.  :  93,  98-102,   108,   153, 

155.  156,  160-61,  169,  179,  228, 

285,  290,  324,  326. 
Barzon  A.:  150,  162. 
Basilio  Troiano:  231. 
Bate  E.:   78,    137,   366,   373,  390, 

437- 
Baumgartner  M.  :   70. 
Beatitudo,   v.    Copulatio,   Felicitas, 

Perfectio. 
Bembo  P.  :  167,  338-41.  344.  355- 
Benavides,  Bonavites,  G.  P.  :  152. 
Benavides     Marco,     detto     Marco 

Mantova,  152,  332. 
Benedetto  del  Tiriaca  o  del  Triaca  : 

147,   170,  325. 
Benedettucci  C.  :    118. 
Benozzo  Gozzoli:  444. 
Benzi  Fr.  :    151. 
Bernardi    A.,     Mirandolano:    281, 

412. 
Bernardino  da  Feltre:   113-14. 
Bernardo   Gir.:    285-87,    376. 
Bernieri  da  Nivelles:  98,  444. 
Bertela  M.  :   390. 
Bertoldo   di  Mosburg:    137. 
Bessarione:    298-99,    407-10,    412, 

436,  446-47- 
Betoni  Gir.:   263. 
Bettini  S.:   75. 

Biagio   Pelacani,    v.    Pelacani   B. 
Bin  o  Binno  Jacopo  de'  Tornasi: 

173.   332. 
Bin  o  Binno  Matteo  de'  Tomasi: 

173,   291.   332. 
Boccadiferro  L.  :    241,   412,   449. 
Boezio:   51,  425. 
Boezio  di  Dacia:   444. 


INDICE    ONOMASTICO    E    DOXOGRAFICO 


459 


Bolderio  G.  :   104,   177. 

Bonamico   L.  :    173,    341,    388. 

Bonaventura    (San):    31,    146. 

Bonaventura  F.  :   368. 

Bonet  N.  :    180. 

Bonus  o  de  Bono  Gir.:   263. 

Bonuso  P.  :  322-23,  333. 

Bovio  (Dal  Bò)  Gir.:  421-22. 

Bradwardine  T.  :   262. 

Bragadin   Fr.  :    286,    337,    340. 

Bragadin  L.  :   168,   289. 

Branca  V.:   374. 

Branda  Porro:  336,  338. 

Brenzio  A.:    148. 

Bres.san  B.  :    175. 

Brotto  G.:   115,   149,  323. 

Brunacci  G.  :   150,   289. 

Bruno  G.  :   96,    186,    192,   454. 

Bruns  I.  :   369-70. 

Burana  G.   F.  :   166. 

Buridano  G.  :   247,   263. 

Burleo  (Burley)  Gualt.  :   103,   106, 

115,   232,   239,   329,   395- 
Buzacarini  D.:   175. 
Buzacarini  G.  :    175. 

Calcaterra    C.  :    266-67. 

Calcidio:  421. 

Calcidonio  A.:  286,  370,  377,  381. 

Calcidationes  (v.  anche  Latitudo 
formarum)  :   220,   262. 

Calculator,  v.  Suisset. 

Calfurnio  G.  :  388. 

Campano  G.  :   262. 

Camillo  da  Coreggio:   272. 

Campeggi  A.:   398. 

Campeggi  G.   B.  :  394,   398. 

Campeggi  G.  Z.:   148,   251. 

Campeggi  L.  :  251,  398. 

Campeggi  T.  :   147. 

Campesano  A.:   285. 

Campesano  P.  :   285. 

Caninio  A.  :   371. 

Cantimori  D.:  411. 

Capitani  G.  C.  :   327. 

Capitani  P.  :  327. 

Capparoni  P.  :  258,  271,  272,  273. 

Capuano  Fr.  :   169. 

Caravegi  G.  Ben.:   231. 

Carensio  L.,  detto  il  Toseto  Pa- 
dovano:  331. 

Caro  A.  :  420. 

Carpi  (Iacopo  Berengario  da)  :  125, 
250. 

Carrano  A.:    169. 

Carrati  B.  :   225. 


Casio  Gir.   de'   Medici:   267. 

Casserio  G.  :   250. 

Castellani  G.:  372,  383-86,  389, 
424,   437,   440,   447,   448,   452. 

Castrioto  F.  :   334,   338. 

Castrioto  G.  :  334,   343. 

Causa  Prima:  44-45,  49-52.  188- 
92,    194-95.   294. 

Causalità  efficiente  e  e.  finale:  188- 
92,  193-94.  294.  327.  353- 

Cause  intermedie:  45,   188. 

Cause  univoche  esinanirne:  45,  47. 

Cavalcanti  G.  :   80. 

Cavalli  (de  Caballis,  ab  Equis)  Fr.  : 
169,   290. 

Champier  Cr.  :   29. 

Champier  Sin.:  27-39. 

Charpentier  G.  :  410. 

Chirurgia  :  249-50. 

Cicerone:  70,  405. 

Cicogna  E.  A.:  410,  415. 

Cieli  :  numero,  201  ;  ordine,  200- 
204;  dipendenza  dal  primo  Mo- 
tore, 255;  animazione,  235,  254; 
sfere  celesti,  228-29,  234-36;  v. 
Motori  celesti,  Eccentrica  ed  epi- 
cicli,  Influenze  celesti. 

Cielo,  se  finito  o  infinito:   236. 

Circolazioni   cosmiche:  46,   236-37. 

Cittadini  A.  da  Faenza:  76,  169, 
290. 

Clough  Cecil  H.:   17S. 

Coclite  B.  :  239. 

Cogitativa  (o  Intellectus  passivus, 
Imaginativa)  :  65,  66,  79-80,  83, 
8^,  180-81,  206,  209,  230,  243- 
46,    300,    380,    384,    391. 

Colchodea:   241. 

Commentatore,    v.    Averroè. 

Complexio    (v.    anche    Mixtio)  :    8, 

50,  54- 

Concorrenza  (Istituto  padovano 
della):    123-24. 

Contarini  A.  :  336. 

Contarini  G.  :  167,  168,  173,  288, 
326. 

Contarini  L.  :    174. 

Contarini  M.  A.:   173,   323,  329. 

Conte  L.  :    172,    174,   332. 

Contingenza:   238. 

Copernico   N.  :    169,    170,    454. 

Capulatio  o  Continuatio  intellectus 
possibilis  cum  intellectu  agente 
(v.  anche  Intellectus  adeptus,  Fe- 
licitas)  :  99,  106,  128-29,  132  sgg-, 
135.    136,    140.    142-43.    181-82, 


460 


L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 


212-20,     255,     288,    306-11,    357, 

370,   371,   439-41- 
Corner  G.  :   168. 
Corner  M.  :   285,   288. 
Corradino  da  Bergamo:   153. 
Corrado  d'Oria  O.  M.  :   355. 
Coxe  H.  O.  :  76,   119. 
Creazione:    14,    16,    37-39,    41-45, 

49.    193-94.   235-36,   353. 
Cristo  «  primogenitus  omnis  crea- 

turàe  »:   123-24. 
Cristoforo  da  Recanati:  115,  117- 

19,   122-24,   153.   158. 
Croce  B.  :  284. 
Cusano  N.  :  454. 

Dalais  F.  :   29. 

Dalbò  M.:  373. 

Da  Lion   G.  :    172,    174,    332. 

Dallari  U.:  413. 

Dalla  Scrofa,  famiglia  vicentina; 
122. 

Dal  Molino  L.  :   166,  325. 

Damaselo  :  432. 

Dandolo  M.  :   285. 

Dante:  5,  19,  30.  3^.  33.  5i.  54. 
61,  64,  72,  74,  78,  86,  90,  199, 
203,  214,  235,  243,  264,  312, 
330,  448. 

Da  Porto  L.  :    174. 

D'Arco  C.  :  413. 

De  caitsis  (Liber)  :  45,   51. 

De  Corte  M.  :  373. 

Degli  Agostini,   G.  :   289. 

De  Ketam  G.:  271-72. 

Del  Bene  A.:   160. 

Della  Pozza  A.:   122. 

Democrito:   14,   40. 

Demolins   L.,  402. 

Demoni:   24,   229. 

Denifle  H.  e  Chàtelain  Ch.  :  185, 
187,   237. 

De  Renzi  S.  :  271. 

De  Wulf  M.:  8. 

Dimensiones  interminatae  :  254. 

Diede  A.  :  426. 

Diedo  P.  :  426. 

Diedo  V.:  291,  399. 

Dio  (v.  anche  Causa  prima  o 
Motore  primo)  :  causa  efficiente 
e  finale,  49-51.  181-93,  234,  353; 
forma  del  primo  cielo,  189,  201, 
234;  Motore  primo,  187-93; 
Infinità  e  onnipotenza  di  D., 
236,  294;  se  conosca  «alia  a 
se»:    187-88. 


Dionigi  Areopagita  (Pseudo):  192, 

203. 
Dionisotti  C.  :   160,  291,   148,  400. 
Domenico  Indiano:   248. 
Donato  A.:   174. 
Donato  G.  :  368,  371,   372. 
Donato  L.  :    124,   162,   285. 
Donato  P.  :    174. 

Dondi  dall'Orologio  C.  :  171,  288. 
Dondi  dall'  Orologio  Fr.  :  171,  288. 
Dorighello  Fr.  :    152. 
Dotti  D.:  387. 
Dotti  G.:  387. 
Du  Chastel  P.  :  405. 
Duhem  P.  :  42,  48,  54,   76. 
Duns   Scoto   G.:    17,    26,   44,-72, 

96,  145,  146,  154,  186,  294,  329, 

358.   395,   403,   428,   439- 
Duns  Scoto  G.    (Pseudo):    16,   43 

(v.   Vitale  du    Four). 
Duodo  P.  :    174. 

Eccardo  di  Hochheim:   137. 
Eccentrici    ed    epicicli:    228,    442, 

454   (v.   anche  Cieli). 
Egidio  Romano:   83,   89,  96,    103, 

104,    117,   206,  395. 
Egnazio  G.  B.  :    170. 
Elementi    (v.    anche    Complexio    e 

Mixtio):  241;  proprietà,   247. 
Elia  del  Medigo:   186. 
Emo  A.:   174. 
Emo  Z.:   331. 
Empedocle:    14,    15,  40. 
Enrico  di  Gand:  17,  44,  232,  233, 

328. 
Enrico   di   Harclay,    444,    446. 
Entisbery  (cioè  G.  di  Heytesbury) 

112,   246,   262. 
Eternità    del    mondo:    45-48,    156, 

353.  436. 
Eucliph  G.,  V.  Wyclif.  G. 
Eudemo:  354. 
Endosso:   201. 
Eustachio  Rudio:   250. 

Facciolati  lac:  117,  119,  169, 
175,    287,    288,    330,    413. 

Faenza  (Antonio  da  E.),  v.  Cit- 
tadini. 

Fantuzzi   G.  :    260,    271,    413. 

Faseolo  o  Fasolo  G.  :  343,  379, 
394-99,  423,  452. 

Favaro  A.  :   20. 

Federico  Romano:   152. 

Felici   (Gir.  de'):   168. 


INDICE    ONOMASTICO    E    DOXOGRAFICO 


461 


Felicitas  (v.  anche  CopMlaiio)  '.106, 
139-40,     142-44,     181,     212-220, 

305-311.  371- 
Ferrari  L.  :  383. 
Ferrari  S.:    1-3,   8,    lo-ii,    17,   20- 

21,  23-25,  27-28,  32,  35,  36,  38- 

43,  45-53.  55-57.  59-70.   248. 

Ferrarini  C.  :  413. 

Ficino  M.:  145,  146,  234,  321, 
360,  362,  432,  437,  452. 

Fidentius  Petruslunctarius:  387. 

Filippo  de  Thoriaco,   29. 

Filopono  (Philoponus,  Ioannes 
Grammaticus)  :  40,  44,  276, 
354.  372-73.  374.  388,  403, 
405.  424- 

Filosofia.  La  F.  pei  medievali,  445; 
F.  e  teologia,  17,  44,  53,  55-56, 
58,  70,  71-74  (v.  anche  Verità)  ; 
F.  e  cultura,  VI-VII;  F.  e  Me- 
dicina, 158;  migrazione  della  F., 
344;  rinnovamento  della  F.  in 
Italia:   296. 

Filosofo  (II)  per  eccellenza:  v. 
Aristotele. 

Fiorentino  Fr.  :  147,  206,  266, 
274,  275,  276,  277,  393,  413,  415. 

Fogolari  G.  :    152. 

Fontana  O.:   152. 

Forma  sostanziale  :  successione 
delle  forme,  7-8  ;  produzione  o 
generazione  delle  forme,  14-18; 
«  dator  formarum  »,  14-18,  45, 
80,  241;  «forma  corporeitatis  », 
241;  «forma  mixtionis  »,  242; 
«  formarum  intensio  ac  remis- 
sio  »,  242-43  (v.  anche  Calcu- 
lationes)  ;  «  forma  constuens  »  e 
«  forma  constituta  »,  302,  390. 

Formativa,  v.  Informativa. 

Foscarini  M.  A.:   167,   290. 

Foscarini  Seb.  :  168,  274,  290, 
340,  341- 

Fracanziano  o  Fracanzano  A.  : 
125,  162,  164-66,  254,  288,  290, 
292,  324. 

Franceschetti  Fr.  :   288. 

Francesco  Securo  da  Nardo:   112, 

323.   324.   424- 
Francia  Fr.  :  226. 
Frati  L.  :  260,  268. 

Gabrielli  G.  :  283,  312. 
Gaeta  F.  :  99. 

Gaetano  (Card.),  v.  Tommaso  de 
Vio. 


Gaetano  da  Thiene:  99,   iii,   116, 

117,   119,   124,   153,   158. 
Galeno  (Galenus,  Galienus)  :  3,  4, 

5,  19,  59.  61,  72,  250,  273,  357. 
Galil^ei  G.  :   105,  273,  442. 
Gambalunga  F.  :  264. 
Gand,  v.  Enrico  di  G. 
Gandavo     (de),     Gandavensis,     v. 

Jandun  (Giov.  di). 
Garin  E.:  28,   103,   141,  142,  143, 

266-67,    278,    285-86,    324,   347, 

375- 

Gaspare  da  Perugia:  390. 

Gaurico  L.  :  225,  226,  228. 

Gazzoni  M.  :   161. 

Generazione  [cause  della)  :  86. 

Generazione  univoca:  v.  Cause  uni- 
voche. 

Gentile  G.  :   70. 

Gentile  da  Foligno:  54. 

Genua   (De  lanua)  C.:   169. 

Genua  (De  lanua,  de'  Passeri)  L.  : 

387. 
Genua  (De  lanua,  de'  Passeri)  N.  : 

173.    178.   341.  387- 

Genua  M.  A.,  figlio  del  preced.: 
173,  178,  291,  341,  342,  343, 
344.  352.  362,  386-94,  396-97, 
398,  399.  401.  403.  411.  412, 
413,  416,  417,  420,  424,  426, 
428,    435,    437,    440-51,    454-55. 

Genuli  C.  F.  :   253. 

Gerardo  da  Bologna:  353,  444, 
446. 

Gerardo  da  Cremona:  239. 

Gesuati:   257. 

Ghero  R.  :   267. 

Giacobiti,  V.  lacobitae. 

Giamblico  (lamblicus)  :  362,  375, 
378,   400,   412,   432,   435,   455. 

Gian  Michele  de   Bredepalea:  120. 

Gian  Pietro  de  Cararijs:   120. 

Giason  dal  Maino:   153. 

Gilson  E.:  95,   130,  223. 

Giordano  B.,  v.   Bruno  G. 

Giordano  de  Nemore:   262. 

Giorgio  da  Trebisonda,  407,  446- 

47- 

Giorgione:    170. 

Giovanni  Grammatico,  v.  Filo- 
pono. 

Giovanni  della  Lana:   75,   449. 

Giovanni  del  Pian  del  Carpine: 
246. 

Giovanni  da  Ripatransone  :  316. 

Giovanni  da  Schio:    152,    165. 


462         l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 


Giovio  P.  :   171,   257-58,  267,  274, 

342. 
Girelli  G.:   233-34,   328. 
Girolamo  da  Monopoli:   2S8,   290. 
Girolamo  dal  Muro  Nuovo:   159. 
Girolamo  (Pseudo  S.)  :   105. 
Girolamo    da    Verona,     v.     Torre 

(G.  della  T.). 
Giulio  II:   253,   260,  282. 
Giustinian     A.:     159,     285,     286, 

336,  337- 
Giustinian  G.  :   174. 
Giusto  de'  Menabuoi:   75,  449. 
Gonzaga  E.:  339. 
Gosvin   de   la   Chapelle:    98,    444. 
Grabmann  M.  :   373. 
Gradenigo  M.  :    167. 
Graiff  C.  A.:   193,    195. 
Grassetto  N.:   285-86,   311. 
Grassi  P.  :   282. 
Gravia  et  levia:   247. 
Gravina  P.  :  338,   348. 
Graziadio  da  Venezia:    120. 
Gregorio  Magno  (S.)  :   203. 
Gregorio  da  Rimini:  96,  154,  186, 

294.    327.    329,    346,    349,    353. 

354.  449- 
Grimani    D.:    99,    109,    148,    153, 

159,  252,  253,  281-84,  287,  291, 

312. 
Gritti  A.  :   390. 
Grutero  G.  :   267. 
Guglielmo  di  Moerbeke,  v.  Moer- 

beke. 
Guido  da  Pesaro:   251. 
Guinizelli  G.  :   loi. 

Hain  Lud.  :   228,   263. 

Haly  ben  Rodoam:   3,  4,   5,   19. 

Halyabbas:  22,   61. 

Hauréau  B.  :   20. 

Hayduck  M.  :  373,  374,  419,  436. 

Helias  Cretensis,  v.  Elia  del  Me- 
digo. 

Hervaeus  Natalis:  332. 

Hervetus  G.  :   373. 

Heytesbury  W.,  v.  Entisbery. 

Hirsch  Aug.  :   271,   273. 

Homo  significai  coniposituni  ex 
corpore  et  intellectu:  206,  300, 
384,  391.  Honiinis  dignitas:  141  ; 
Homo,  microcosmus,  nexus  supe- 
rioruni  cuni  inferioribus  :  141- 
142. 

Horen,  v.  Oresme  (Nic.  d'). 

H  vie  eh:   34. 


lacobitae  (Giacobiti)  :  3,  5,  19,  21, 

58,   59,  60,  61. 
Iacopo    da    S.    Martino,    o    I.    da 

Napoli:   183. 
Iacopo  da  Venezia:    120. 
Ibernico,  v.  Maurizio  I. 
Ideae,   ideales   rationes:    343,    360- 

62,   385,   391,   423,   428,   432. 
Imaginativa,  v.   Cogitativa. 
Imagines  astrologicae:   25-26,   37. 
Impetus:   247. 
Individiiationis principiitìn:  8,  436- 

37- 

Informativa   [Vis):   3-6,   59,   60. 

Intellectus  (talora  Mens).  I.  voca- 
tiis,  3,  19,  61;  /.  assimilativus, 
136;  /.  accomodatus,  11,  12,  63; 
/.  acqitisitus,  adeptus  (v.  Co- 
pìtlatio),  91,  106,  129,  130,  134, 
136.  369,  370.  384-85;  I-  pos- 
sibilis,  potentialis,  materialis,  3, 
4,  IO,  II,  62,  63,  64,  66,  68, 
80-84,  87-89,  91-99,  100,  109, 
128-32,  134,  136,  137,  155-56. 
180-82,  187,  204-10,  217,  401- 
02;  /.  possibilis  unitas,  87,  155, 
204-07,  230,  233-34,  350-52,  356, 
358,  375.  380,  382-84,  391,  400- 
02,  405,  406,  417,  429,  435-37. 
446,  449,  450,  451;  /.  poss.  pura 
potentia  in  genere  intelligibilium , 
207,  230,  307;  7.  poss.  unio  ad 
corpus,  82-84,  86,  180-81,  208, 
210,  243-46,  299-302,  303-305, 
343.    349.    380,    384-85.    389-93. 

400,  405-06,  418,  420,  423,  433- 
36,  438-39.  449;  ^-  agens,  3,  11, 
12,  42,  62-64,  88-91,  129-32, 
134-35,  181,  267,  208-11,  217, 
234,    243,    351-52,    360-61,    369. 

401,  402,  409-10,  427-28,  433; 
/.  perfectionis,  in  actu,  in  habitii, 
speculativus,  11,  63,  345;  /.  pro- 
grediens  ad  secundas  vitas,  I.  de- 
scensus,  343,  360,  375-76.  39i- 
93.  401.  404.  417-23.  430.  433- 
35.  438,  450;  /.  ascensus,  439; 
I.  tviplex  in  homine,  385-86; 
/.  impartecipabilis,  partecipabi- 
lis,  pariicipatus,  378,  416,  430, 
432,  435;  /.  forma  animae,  378; 
/.  passivus  (v.  Imaginativa,  Co- 
gitativa),  62. 

Intellectum  (Intelligibile,  species 
intigibilis.  Idea)  :  205-06,  230- 
33-   328. 


INDICE    ONOMASTICO    E    DOXOGRAFICO 


463 


Jntellectiis  et  voluntas:    214. 
Intelligentia  prima  (v.  Dio,  Motore 

primo  immobile)  :  234. 
Intelligentiae  separatae  (v.  anche 
Sustantiae  separatae):  91,  127 
sgg.,  131  sgg.,  138,  140,  181, 
182,  188,  193-204;  Intelligen- 
tiariim  individuatio,  206,  301, 
436;  Int.  motrici  (v.  anche 
Cieli),  202,  229,  230,  295;  In- 
telligentia inferior  cognoscit  su- 
periorem  per  essentiam  superio- 
ris,  195-199,;  Se  e  come  la  mente 
umana  conosca  le  Int.  separate, 
216-20,  306-308,  314;  Intelli- 
gentiae propinquae  uni  puro  et 
longique  ab  ipso,  200-203,  221; 
Intelligentiae  an  dent  esse  caelo, 
234;  dipendenza  dal  Primo  mo- 
tore,  353-54. 

Intentiones  imaginatae,  phanta- 
smata:   83. 

Intentiones  priinae  et  seciindae  : 
107. 

Ioannes  Canonicus:    105. 

Ippocrate:   147-48. 

Isacco  IsraeHta:    137,   203. 

Jandun  (Giovani  di).  Io.  de  Gan- 
davo,  Gandavensis:  81,  83,  92, 
105,  139,  140,  185-86,  188,  200, 
216,  293-94,  307,  309,  324-26, 
391,    405.    41^.    444.    445.    447- 

Kant  I.,   82,   230. 
Keeler  L.   W.  :   57,   222. 
Kibre  Pearl:   373,   390. 
Krebs  E.:   203. 

Kristeller  P.  O.:  147,  289,  292, 
297.   299,   303- 

Lana  (Domenico  della)  :   250. 
Lancellotti  (P.  D.  Secondo)  :  344. 
Landò  B.  :  372,   415-16,   452. 
Languardo  E.:    103,    117. 
Latitudo  formarum  (v.  anche  For- 

niarum  intensio  et  remissio)  :  183. 
Latituto  intellectintiir.   182-83,   186, 

192,   220. 
Latomus  I.   Berganus:   267. 
Laurent  M.-H.:  222-23,  3i6,  393, 

393,  445- 
Lemay  R.  :   346. 
Leone  X:   251,  263,  383. 
Libertà   e   contingenza:    238. 
Libertà  e  necessità:   189-92. 


Liceto  F.  :    105. 
Lippi  Filippino:   444. 
Lodovico  o  Luiz  A.:   27. 
Lodovico   da   Varthema;    248. 
Longo  E.:   394. 
Longo  G.   B.:  426. 
Loredan  G.  :   174. 
Loredan  L.  :    180. 
Loredan  M.  A.:    174,    335. 
Loredan  P.  :  372,  416,    448. 
Lucano,   34. 
Luigi  da  Porto:   149. 
Lullo  R.  :   20,   74. 
Luogo  naturale:   247. 
Lorenzo  da  Noale:   124,   151,   153, 
159,    162. 

Madio,  v.  Maggi. 

Madruzzo  Cr.  :   394-95. 

Maggi  o  Madio  V.:  344,  372,  383, 
387,   421,   426,   429,  452. 

Maier  A.:  75,  98,  107,  183,  221, 
247,   262,  409. 

Malchiavello  G.  :    102,    153. 

Malipiero  V.:   169. 

Mandonnet  P.  :  181,  193,  194,  196, 
207,  209,  241,  391,  443. 

Mantova  Marco,  v.   Benavides. 

Manupello  N.  :   115,   116,   162. 

Manuzio  Aldo,  il  giovane,   410. 

Manuzio  P.  :  387,  410. 

Marco  Polo:  247,  248. 

Marino:  424. 

Marliani  G.  :   262-63. 

Marsilio  da  Carrara:  172,  174,  332. 

MarsiUo  di  Inghem:  103,  117,  247. 

Martino  da  Lendinara  (Fra)  :  98, 
loi,    155. 

Martinotti  G.  :   249. 

Materia  prima:   241,  432. 

Matteo  da  Ripalta:   77. 

Maurizio  Ibernico  (C  Fihely, 
detto  M.  I.)  :  169,  290,  324,  325. 

Mazzetti  S.:  225,   226. 

Mazzuchelli  G.  M.  :   271. 

Medici  M.  :   264,   271,   273. 

Medicinae  prae stantia:   105-106. 

Memo  G.  B.:   168. 

Memoria  e  Reminiscenza:   80. 

Mente  [Mens),  v.  Intelletto,  Ani- 
ma intellettiva. 

Mente  prima  (v.  anche  Dio,  Intel- 
ligentia prima):    182,    199,   430. 

Mercati  G.  :  390. 

Mercuri  (Biagio  de')  :   250. 

Merhno  V.:    108. 


464         l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 


Michalski  C,  408. 
Michiel  T.:   285. 
Michiel  N.:  285,  291. 
Microcasmus:  v.  Homo. 
Miliani  B.:   370,   377. 
Miliavacca  B.:  374. 
Minio  M.  :  315,  336. 
Minio-Palnello  L.  :  409. 
Miracoli:    21-23,    52-54,    70,    134, 

229. 
Mistica  averroistica:  127  sgg.,  134, 

439- 

Mixtio  elementaris  (v.  anche  Coni- 

plexio):  8,   241. 
Mocenigo  A.;  167-68,  288-90,  303, 

325- 
Mocenigo  G.  :    168,  325. 
Mocenigo  L.  :   168,  325. 
Mocenigo  M.  A.  :  291,  399-402,  403. 
Mocenigo  T.  :   168,   325. 
Moerbeke  (Gugl.  di)  :  23,  365,  373, 

450. 
Mohler  L.  :  407. 

Moisò  Maimonide:    134,    137,   203. 
Molin  A.:   169. 
Momigliano  F.  :   77. 
Mondi  (Impossibilità  di  pili)  :  236. 
Mondini  Fr.  :   271,  273. 
Mondino  de'  Liuzzi:  249,  250,  272, 

273- 
Mondo   intelligibile    [Reminiscenza 

del):  343.  360. 
Monopsichismo,    o    Panpsichismo: 

12,   127. 
Montagnana     (Bartol.     da):     168, 

327   (iunior). 
Montagnana  L.  :   173. 
Montagnana  P.  :   173. 
Montecatino  A.:  420-24,  426,  440. 
Montesdoch  G.  :  137,  315-17,  336- 

40,  345,  412. 
Monti  Panf.  :   183,  229,  272-74. 
Moog  W.,   V.   Ueberweg. 
Moro  S.:    167,    169,    286-87,    289- 

90. 
Morosini  A.  :    161. 
Morosini  F.  :   173,  332. 
Morosini  G.  :   173,  332. 
Mortier  P.  :   319. 
Moto  naturale:  65,  247. 
Moto  violento:   247. 
Moto  celeste    (Eternità   del)  :    236. 
Motore  immobile  (Primo):  182,;  se 

muova  con  vigore  infinito,  184- 

86,     294;    forma    dell'universo, 

188-192,   229. 


Aloiori  celesti  (v.  anche  Intelli- 
genze separate  e  Cieli):  182, 
188,  200,  229;  rapporto  coli' am- 
piezza e  la  velocità  dei  cieli: 
200-204. 

Mùller   G.,    v.    Regiomontano. 

Miindus   qualibet  aetate   perfectus: 

344- 
Munk  S.:    131. 
Mùnster  L.  :  252,  260,  264-66,  268, 

274- 
Mussato  G.   F.  :    176. 
Musuro  M.:   367. 

Nallino  A.:   241. 

Napoli,  V.  Iacopo  da  N. 

Nardi  B.  :  5-7,  17,  33,  42,  54,  55, 
62,  67,  78,  90,  95,  96,  97,  116, 
130,  138,  142,  166,  199,  219, 
223,  375.  376. 

Natura  umana   (Decadenza  della)  : 

343- 

Necromanzia:  23-26. 

Nemesio:  434. 

Nicoletto  Vernia,  v.   Vernia  N. 

Nicolò  di  S.  Sofia:   120. 

Nifo  (Niphus)  A.  da  Sessa  (Sues- 
sanus)  :  86,  loi,  102,  109-11, 
114.  123,  130,  138,  139,  143, 
149,  160-66,  179-81,  185-86, 
189-90,  195,  197,  206-07,  210- 
16,  218,  227,  228,  246,  281,  284- 
86,  301,  305,  307-08,  310-11, 
313-14,  316,  310-20,  324,  331, 
345,  342,  370-72,  376-84,  388- 
89,  391.  395,  403.  412,  416-18, 
420-21,   435,   437,   449,   451. 

Nobili  F.  :  420-21,  426. 

Nogarola  L.  :  367-68. 

Numenio:  430. 

Occam  G.  :  446. 

Odi  o  Oddi   (Rin.  degli):    169. 

Odoni  R.  :   410. 

Oldoino  G.  :   173,  332. 

Oleari  G.  :   288. 

Oliva  C.:   114,   288. 

Omero:    137. 

Oratio   astronomica:    28,    37. 

Oresme  (Nicolò  d')  :  133,  221,  247, 

262,  454. 
Orestano  Fr.  :  97. 
Orlandi  P.  A.:   266,   26S. 

Pagallo  G.  F.  :  76. 
Paganini  P.  :  420. 


INDICE    ONOMASTICO    E    DOXOGRAFICO 


465 


Panpsichismo,   v.   Monopsichismo. 

Panizza  L.  :   177-78. 

Paolo  Apostolo:   188. 

Paolo  dal  Fiume:    151,    153,    158. 

Paolo  dalla  Pergola:  99,  103,  ii5. 

Paolo  Veneto  (P.  Nicoletti  da 
Udine):  75-93>  HQ,  i53.  228, 
262,  275,  349,  384,  403,  449. 

Paolo  Francesco  Veneto:  75. 

Papadia  B.:  323,  334,  335. 

Papadopoli  N.  C.  :   176. 

Pardi  G.  :  421. 

Particolari   (Conoscenza  dei)  :  428. 

Pascal  C.  :  411. 

Pasolini  P.  D.  :  420. 

Paschini  P.  :  281. 

Pasquale  A.  :   342. 

Pasquali-Alidosi  G.  N.  :  250,  265, 
268. 

Pasqualigo  L.  :   228,   289. 

Pasqualigo  P.  :   228,  285,   289. 

Passeri  (De'),  v.  Genua. 

Pazzini  A.,  249,  272. 

Peckam  (fra  G.)  :  78. 

Pelacani  B.  :   98,   247,   262,   358. 

Pelli  Negre   (G.   F.  delle):   167. 

Pendasio  F.  :  413-17,  419,  224, 
426,  427. 

Peretto,  v.  Pomponazzi. 

Perfecfio:  106,  132  (v.  anche 
Forma  e  Copnlatio). 

Pernumia  G.  P.  :  388,  402-04. 

Pernumia  Tr.  :  402. 

Persiani  R.:    122-24. 

Peurbach  G.  :    169. 

Philosophus,   V.   Aristotele. 

Piccolomini  Fr.  :  V,  344,  403,  411, 
412-15,    417,    424-42,    455. 

Pico  della  Mirandola  G.  :  20,  28, 
140-46,  180,  227-20,  275,  281, 
284,  304,  319-20,  326,  342,  362, 
368-70,  372-77.  384.  390.  392- 
94.  399,  423.  425.  426,  431,  437. 
441,  450-51,  454-55- 

Pico  della  Mirandola  G.  Fr.  :  20, 
23-25,  27-28,  53. 

Pietro  de  Cruce:   290. 

Pietro  da  Mantova:   246. 

Pietro  da  Reggio:  21. 

Pietro  Veneto:  30. 

Pinelli  V.:  387. 

Pio  A.:   163. 

Pisani  A.:  331. 

Pisani  G.:  285,  336,  337. 

Pisani  P.  :  290,  331. 

Pitagora:   86,   87,  299. 


Pitagorici:   299. 

Platone:  V,  23,  25,  37,  69,  96, 
98,  106-07,  111-14,  123-25,  147, 
150-52,  156,  158-59,  161-63, 
165-67,  169-73,  176-78,  220,  222, 
229,  231-32,  246-47,  254-58,  263- 
64,  279,  281,  284,  287-90,  292, 
296-97,  308,  315,  322-23,  421. 
Tentativi  di  accordare  P.  con 
Aristotele:  359-63,  377,  381, 
425-27,    429-30,   434,    440-41. 

Platonici:    13,   40,    144,   422,   436. 

Plotino:  140,  300,  305,  362,  375, 
378,    400,    421,    430,    435,    437, 

454- 

Plumazio  B.:   166,   287. 

Plutarco  d'Atene:  371,  412-15, 
424,  428. 

Podestà  B.:   259. 

Polcastro  G.  :   152-53. 

Polcastro  o  Porcastro  S.:  148,  152. 

Poliziano  A.:  405. 

Polo  A.:   372,  402-03,  416. 

Pomponazzi  P.  da  Mantova,  detto 
il  Peretto  Mantovano:  V,  23, 
25,  37,  69,  96,  98,  106-07,  III- 
14,  123,  124-25,  147,  150-52, 
156,  158-59,  161-63,  165-67.  169- 
73,  176-78,  220,  222,  229,  231- 
32,  246-47,  254-58,  263-64,  279, 
281,  284,  287-90,  292,  296-97, 
308,  315,  322-24,  327-31-  333. 
336-37.  339,  341-42,  345-46,' 
350.  354.  358-59.  372,  403,  412. 
416,  424,  428,  439,  448-49,  452. 

Ponte  (Gir.  da)  :  426. 

Porfirio:  9,   84,   294,   362. 

Portenari  A.:    176. 

Portenari  B.  :   290. 

Porto  V.  :   239-40. 

Porzio  S.:    372,   424,   429,    448. 

Praecantatio:   2.j,   36,   37,   38. 

Prassicio  L.  :  412,  449. 

Fratelli  G.:  387. 

Prisciano  N.  :  336. 

Prisciano  Lido:  362,  412,  424,  427, 

432,   455-    . 
Probabilia:  46-47. 
Proclo:    14,    221,    362,    375,    421, 

435-37,  455- 
Profezia:  140. 
Prospero  da  Reggio:   239. 

Querengo  F.  :    165. 
Querini  A_.,  415. 
Quétif-Echard:  290. 


466 


L  ARISTOTELISMO    PADOVANO    DAL    SECOLO    XIV    AL    XVI 


Quirini  L.  :    119. 

Quirini    e    Querini    V.:    125,    162, 
167,  284-87,  291,  399,  400. 

Ragnisco  P.  :  99-100,  102-04,  log, 

122,    162,   417,   424. 
Raguseo  M.  :  348. 
Rangoni  A.:   180,   248. 
Rannusio  G.  B.  :  338-40. 
Rappi     Cristoforo,     v.     Crist.     da 

Recanati. 
Rasis:   22. 
Regiomontano  (Miiller  G.  da  Kò- 

nigsberg) :   169. 
Reminiscenza,  v.  Memoria. 
Renan  E.:   39,   266,   277-78,   250- 

51,  443- 
Ricco  A.:  347. 

Risurrezione  dei   morti:   22-25. 
Ritter  H.,  277. 
Roberto  Kilwardby:   81. 
Robortello  Fr.  :   388. 
Roccabonella  P.  :  151-53,  158,  171, 

323- 
Rochelle  (fr.  Giov.  de  la)  :   78. 
Roselli  A.:   151,   157. 
Roselli  Fr.  :   157,   175. 
Roselli  Trapolin  Maria:   151,   157. 
Rugerijs  (Lod.  de):    168. 
Rugerius,  per  Sugerius:  314,  315, 

316,   383. 
Ruggiero  G.  :   291. 

Sabellico  M.  A.:   170. 

Saitta  G.:  277,  321,   348,  351. 

Salinatore  R.  :  377. 

Salomonius  I.  :   119,   176. 

Salvato  da  Cagli:  366. 

Sambin  P.  :   115,   122,   149. 

Sanseverino  F.  :  335. 

Sansone  F.  :   179. 

Sanudo   o    Sanuto   M.  :    102,    123, 

125,    163,    165-68,    170-71,    173- 

74,    282-83,    285,    287,    289,312, 

331.   335-37.   339,  400. 
Saraceno  G.  C.  :  387. 
Savorgnan  A.:   175. 
Scaligero  G.  C.  :   176. 
Scardeone  B.  :   21,  23. 
Schedel  H.:  75,  429. 
Schegkius  I.:  411. 
Schlosser  (J.  von)  :   75. 
Scienza  umana:    70-73    (v.   anche 

Intellectus,  Intellectum,   Ideae). 
Scoto    Ottaviano    Secondo:    347, 

355- 


Segarizzi  A.:    116. 

Securo,  v.   Francesco  da  Nardo. 

Sepulveda   G.    Genesio:    105. 

Serapione:    13. 

Sermoneta  A.:    103,    151,    164. 

Serrano  P.  :    105. 

Sessa,  Suessano,  Sexa,  v.  Nifo. 

Sighinolfì  L.  :   317. 

Sigieri  di  Brabante:  57,  67,  72- 
73,  75-76,  80-81,  83-  86,  88,  90, 
92,  98,  107,  127,  138-40,  142, 
145,  155,  180,  181,  185,  189- 
90,  193-98,  200,  205-09,  212-15, 
218-19,  222-23,  241,  246,  275, 
284,  294,  305-07,  313-20,  327, 
380,  382-83,  390-91,  439,  444- 
45,  447,  450. 

Silvestri  (Frane,  de'  S.,  detto  il 
Ferrariensis)  :  215,  223,  314, 
316-17. 

Silvestro  (Padre)  da  Valsansibio: 
116. 

Simeoni  L.  :   261-62. 

Simone  o  Simeone  d'  Este:   168. 

Simoni  Simone:  410-12. 

Simpliciani:  343,   384,   386  ,413. 

Simplicio:  304,  342-43,  354,  360, 
362,  365,  371,  373-442.  450-55- 

Sirleto  G.  :  321,  355. 

Sisto  IV:   366. 

Socrate:    105,   123. 

Solerti  A.:   421. 

Solino:   343. 

Sostanze  separate  (v.  anche  Intel- 
ligenze sep.):  127  sgg.  Se  ab- 
biano una  causa  efficiente,  253- 
54.  Se  e  come  la  mente  umana 
conosce  le  5.  5.,  138,  181, 
215-20,  306-08,  314. 

Sparaini  (Assalone  de')  da  Ce- 
sena:   152. 

Species  intelligibile  s,  v.  Intelle- 
ctum. 

Speroni  B.  :    156,    168,    169,    174. 

Speroni  Sperone:    156,   341. 

Spina  B.  :   222. 

Spinelli  G.  B.  :   173,   286. 

Spinola  G.  :  252. 

Starniti  (?  maestro  de'):   165. 

Steenhawer  J.,  v.   Latomus. 

Stefano  d'Alessandria:   373. 

Stegmùller  F.  :    181,   196,   207. 

Steinschneider  M.  :   155. 

Steuco  A.   Eugubino:   172. 

Storcila  Fr.  :   328. 

Suessano,  v.  Nifo. 


INDICE    ONOMASTICO    E    DOXOGRAFICO 


467 


Suisset,  cioè  R.  Swineshead,  detto 

il   «  Calculator  »,    112,   246,  262. 
Surian  A.,    Patriarca  di  Venezia: 

290,   292-93. 
Surian  A.,  nip.  del  prec:   168-69, 

231,  233,  288-91,  326. 
Suriano  G.  :  77. 
Suriano  I.:   77. 
Sylvius    Laurentius    a    Portu    Ca- 

ballensis:   329. 
Swineshead,   v.   Suisset. 

Taddeo  da  Parma:   92. 

Taiapietra  G.  :  167,  180,  252-53, 
281-312,   349,   384. 

Taiapietra  Q.  :   281. 

Tasso  T.  :  420. 

Taucci  R.  M.:  318. 

Tavole  Alfonsine:   170. 

Tedoldi  A.:  315. 

Teodorico  di  Vriberg:    137,    203. 

Temistio:  11-15,  67,  131-32,  211, 
220,  299,  302,  304-05,  309,  343, 
350-52,  356,  365-68,  371,  392, 
395.  398,  400-01,  403,  405-07, 
409,  411,  412,  424,  429,  441, 
449,  450,  454. 

Teofrasto:     299,     343,    366,    371, 

403.  405-07.  409,  411-13.  449- 

Teologia,  v.  Filosofia  e  Teol.  e 
Verità  {Pretesa  dottrina  delia- 
doppia)  . 

Terra,  se  dovunque  abitabile:   247. 

Théry  G.  :   368. 

Thorndike  L.  :   29,   264,   270. 

Tiepolo  N.  :    167. 

Tiraboschi  Gir.:  39,   240,  421. 

Tiriaca,  v.  Benedetto  del  T. 

Tolomeo:    20,   31,   48,    170,    201. 

Tomasini  G.  F.  :  317. 

Tommaso  (S.)  d'Aquino:  4-7,  12, 
17,  26,  31,  43-45,  47,  49.  50,  5^. 
57,  61-62,  64,  70-74,  77-78, 
86,  89,  91,  96,  104-05,  127-28, 
130,  135.  138,  140,  154.  184, 
185,  195,  198-99.  204-07,  214, 
219,  222,  232,  242,  294,  306, 
329,  352,  365-66,  374,  395,  405, 
408,  436,  439,  443-45.  447-48. 

Tommaso    di    Strasburgo:    21-23, 

27.   52. 
Tommaso  de  Vio,  detto  il  Cardi- 
nal   Gaetano:     186,    209,    223, 

319,  337,  358,  393.  429- 
Tommaso  di  Wilton:  75,  81,  155, 
275.   353.   408-10,   412,   447. 


Torre   (Gir.   dalla  T.   da  Verona)  : 

124-26,   153,   159,   162-63,   131- 
Torre  (M.   A.  dalla):  331. 
Tosetto,   V.  Carensio. 
Tostado  A.:    105. 
Traini  Fr.  :  443. 
Trapolin  Alba:   157,   172,   175. 
Tropolin  Alberto:   148-49,   171-72, 

174-75.   332. 
Trapolin  Aless.:  157,   172,  175-76. 
Trapolin  Antonio:    157,    i6g,    175. 
Trapolin  Fr.,  senior:    149-51. 
Trapolin  Fr.,  iunior:   157,  166-67, 

172,    176,   325. 
Trapolin  Gir.:    148. 
Trapolin  Giulio:  157,  172-76,  332. 
Trapolin  Lanzaroto:    149. 
Trapolin    Maria:     151,     157,     172,. 

175-76. 
Trapolin  Marina  in   De  Lazzara: 

176. 
Trapolin  M.  A.:   176. 
Trapolin    Nicolò:    150,    172,    175, 

332. 
Trapolin  Pietro,  senior:   101,   147- 

78,  288,  290,  322,  324,  326,  331, 

332,  350. 
Trapolin  Pietro,  iunior:   176. 
Trapolin    R.  :     150,     172,     174-75, 

332. 
Trapolin  Trapolin:   175. 
Trapolin  Ubaldo:    149. 
Trevisan  A.:    169. 
Trevisan  P.  :    168,   325. 
Trincavelli  V.:   373. 
Trionfo  A.:   239. 
Trissino  L.  :    131. 
Trombeta  o  Tubeta  A.:  loS,  169, 

179,   288,   290,   323,  324. 
Tumminelli  G.  :   267. 
Turchi   N.  :   426. 

Ueberweg  F.  :    70,   351. 

Ueberweg  F.-Moog  W.  :  277-78. 

Ugo  Benzi  da  Siena:   250,   273. 

Ulrico  da  Strasburgo:   137. 

Universale  (v.  anche  Intellectus)  : 
9,  IO,  66,  83-85;  universalia 
physica,  realia:   107. 

Universo  aristotelico  (v.  anche 
Dio,  Causa  prima.  Motore  pri- 
mo): 184,  188-92,  454;  se  finito 
o  infinito,  236,  454;  eternità  e 
necessità  dell'u.:   190-92. 

Valentinelli  G.  :   76,   77. 


l'aristotelismo    padovano    dal    secolo    XIV    AL    XVI 


Valier  A.:  402. 

Vanni-Rovighi  S.  :  92. 

Van  Steenberghen  F.  :  127,  189, 
193,   196,   237,   294,   443. 

Vedova  G.  :   170,  387. 

Venier  C.  :   334. 

Venier  L.  :   167-68,   180,  326. 

Venier  M.  A.:  334. 

Venier  P.  :   174. 

Verbeke  G.  :   365. 

Verci  G.   B.;   285. 

Verini  Fr.   Secondo:  426^ 

Verità  (Pretesa  dottrina  della  dop- 
pia): 55-58,  71-75,  95-98,  143. 
223,  275-79,  295,  297,  308-09, 
311-12,  349-50,  354-55,  431. 
447-48,   453-54- 

Vernaleone  F.  M.  :  323. 

Vernaleone  P.  :  338. 

Vernia  A.:    115. 

Vernia  Nicoletto  da  Chieti  :  V,  95- 
14,  115-126,  151,  153,  156,  158- 
62,  164-65,  179,  284-85,  287, 
311,  313,  318-20,  323-24.  350- 

Vimercate  (Frane,  da):  404-10, 
426,  447. 

Virgilio:  264. 

Virtus  sancta  (v.  Intellectus  assi- 
milativus):   136. 

Visione  beatifica:   198,  371. 

Vitale  dii  Four:    16,  43. 

Vitale  G.  :   267. 


Vittori  B.:   164,  263. 
Volta  L.  C.  :   413. 

Voluntas  et  intellectus:   214. 

Wadding  L.  :    113,    179. 
Wyclif  G.:   89. 

Xiberta  B.  :  445. 


Zabarella  G.  :  V,  208-09,  387,  391 

403,    417-21,    424,    427. 
Zaccaria  da  Milano:   338. 
Zane  B.  :   290. 
Zeno  A.:  340. 
Zimara  M.  A.:  167,  173,  186,  187 

188,  231,  233,  277-78,  288,  303 

321-63,  387,  412. 
Zimara   Nicolò,   padre   di   M.    A. 

Z2Z . 

Zimara    Nicolò,    figlio    di    M.    A. 

334.   355- 
Zimara  Porzia:   334,   348. 
Zimara    Teofilo:     321,     334,     347 

355-63- 
Zerbo  G.  :    125,   126,   157-59,    163 

166. 
Zerbo  P.  :   168. 
Zonta  G.:   115,   149,  323- 
Zorzi  M.  :  69-70,  167-68,  285,  289 

330.  336.  340.  341- 


Finito  di  stampare 

nello  Stabilimento  Tipografico  Soc.  p.  Az. 

già   G.    Civelli  -  Firenze 

il  i8  Settembre  igsS 

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