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Friday, June 7, 2024

Grice ed Orazio

 


DIEQO RAPOLLA 



VITA 



DI 



CON RAGGUAGLI NOVISSIMI 



E CON NOTE DIFFUSE 



SULLA STORIA DELLA CITTÀ DI VENOSA 



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POR TIOI 

Premiato Stabilimento Tlpografloo Vesuviano 

1892 



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VITA 



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QVISTO OBAZIO FLACCO 



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DIEGO RAPOLLA 



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VITA 



DI 






CON RAGGUAGLI NGVISSIBO E CON NOTB DIFFUSE 
SULXiA 8TOBIA DBLLA OITTÀ DI VE1708A 

DI 

DIEQO RAPOLLA 

MOBILB VKN08IMO 

CAVALIKSB DELL*0RDI1CK DELLA CORONA D'ITALIA 

CITTADINO OMOKARIO DI POSTICI 

PXOrSSSOKB OMORARIO B SOaO DI VARIB ACCADBMIB 




PORTICI 

pTABILIMENTO JlPOQRAFICO yESUVIANO 

Corso Garibaldi, 173 
1893 



L'ijf.S'^ 



: \ 

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Riproduzione e traduzione vietate. 

Proprietà letteraria dell'autore, che si riserba tutti i dritti 

che gli concedono le leggi vigenti. 




'jfr^j^ **y^sP' ^^i^^'? '%S0^'-'''''*S^ '^S^ 



Dtnique quid psalterio canorius ? Quod in morem 
nostri Flacci et Gratci Pindari, nunc Jamòo 
CHrrit, nuHC Alcaico personal^ nunc Sapphico 
tumet, nunc semipede ingreditìtr. 

8. SlroUmo, pref. Cronaca ad Eusebio 



Sommo di poesìa mastro e di vita. 
Pisdnnont*, ad Orazio 



Venosino cantor, sci tu ì t'ascolto ! 

D'un si vivace 

Splendido colorir, d'un si fecondo 
Sublime imagjnar, d'una si ardita 
Felicità secura, 
Altro mortai non arricchì natura 



Xetattailo, Canto ad Orazio. 



Et tenuit mastras Humerosus Horatius aures, 
DutH ferii Ansonia carmina eulta lyra. 

Ovidio, Trist. 4. Elegia to. 



il mastro dei poeti, Orazio 

La cui lira per tutto manda il suono, 
E qual Pindaro Grecia, egli ornò Lazio. 

Tansillo, Canto al viceré di Napoli. 



Mais fapprend qu*aujourdhui Melpomene propose 
D'abaisser son cotAurne, et de parler en prose, 

Voltaire, EpItre à Horace. 



Sume superbiam 

Quaesitam meritis 



VenoBino. 





AI LETTORI 



Dauti - /■/. Cult. XIV. 



// cittadino di Venosa sentir devesi som- 
mamente orgoglioso per esser nato in così 
celebre terra, pili antica di Roma: splendida 
civitas, anche nel tempo dei Romani, splendi- 
dissima nei medio-evo, e patria, il che più 
monta, di Quinto Orazio Fiacco. 

Del grande Venosino smisurate innume- 
revoli sono state le produzioni letterarie che 
ne hanno decantato il nome, criticata F opera 



eterna, postillato e glossato ciascun verso o 
parola 

Non havvi paese al mondo che non abbia 
offerto suir altare del culto della poesia per- 
fetta di Orazio il suo attestato di reverente 
omaggio: Sopratutto in Germania, hi Fran- 
eia, in Inghilterra si son fatti studi prò fondi 
sulle opere del gran poeta italiano, e bio- 
grafie e ricerche storiche pregevolissime su 
tutto quello che riguarda la sua vita, ed i 
luoghi ove vissse. In Italia, ed in Roma par- 



ticolarmente, si cmiservano reliquie preziose 
di severe e dotte lucubrazioni su tal subietto. 
Duole non poco però che in Venosa, fra 
tanto lume d ingegni preclari che ha dato 
quel paese, non vi sia stato scrittore che ab- 
bia inneggiato ad Orazio con serietà e pro^ 
fondita, e con opera particolarmente a lui 
dedicata; ed era un dovere attraverso i se- 
coli venir lodato Orazio da gente venosina. 
Neppure un bronzo od una lapide parlava 
di lui sin oggi. '^ 



Ed invero il dottissimo cardinale Giovan 
Battista De Luca venosino perchè nei suoi 
quaranta volumi in folio non trovò il posto 
per seguire quello che un S. Girolamo iniziò? 
Luigi Tansillo, Orazio de Gervasiis, Donato 
de Brunis, sommi poeti venosini, Giovanni 
Dardo, anch' egli da Venosa, scrittore di bel- 
lissimi e maestrevoli carmi (ingeniosa et ve- 
nustissima carmina scripsit, disse M. Arcan- 
gelo Lupoli), perchè non composero poema 
sult immortale loro concittadino ? 



Che anzi giustamente Francesco Fioren- 
tino j nelle sue note ai sonetti del Tansillo, 
redarguisce costui, perchè « discorre di quello 
ix^che chiamava suo concittadino con un certo 
« risentimento che non è giusto, perché Ora- 
« zio non sdegnò altiero il soggiorno di Ve- 
« nosa: nei carmi del poeta latino ci è anzi 
(( un certo compiacimento nel ricordare la sua 
a patria ». Orazio fuggì da Venosa, sia per 
fini politici^ sia perchè stretto dalla necessità, 
sia perchè ogni genio sublitne sorvolando 



per forza arcana, trova pure in tutto il ter- 
restre spazio angusto confine! 

In luogo di e alitare tante vuote lodi ad una 
componente r aristocrazia di quei tristi tempi 
di feudalismo, che anzi lo sprezzava, non 
poteva il Tansillo toccare la sua lira can- 
tando di Orazio, stella che illumina il mondo 
e che egli stesso chiama ^maestro deipoetiy^ ? 

Hanno voi/ do forse rispettare il suo testa- 
mento: (( Mitte supervacuos honores ». Ma 
non è lecito negligere i sommi. 



Io, benché non degno di venir noverato fra 
cotanto senno, ho composto questo lavoro con 
gran fatica, con gran sudore, con gran reli- 
gione, essendomi prefisso con esso diradare 
molte idee oscure circa la vita e le opere di 
Orazio, riferire coti la maggiore esattezza 
quanto ad esse si associa, mettere in luce 
tutto quello che sin oggi si è scoperto, e che 
formava pel passato delle lacune negli scritti 
dei biografi anche più esatti italiani e stra- 
nieri. 



Ho pure aggiunto dei cenni storici sulla 
celebre Venosa, che si commettono con la vita 
del suo immortale concittadino. 

Tutto ciò mi è riuscito lieve, e mi è venuto 

» 

strenuamente compensato col fatto, che ho 
aggiunto, io venosino, un fiore al serto, che 
immarcescibile cinge la fronte sublime del 
grande italiano. 

Oggi fra tanto tramestio di sentimenti di- 
sparati, atti a spegnere ogni entusiasmo, ri- 
temprare gli animi alla fonte delle opere lei* 



terarie immortali come quelle di Orazio, ed 
il seguirne le norme che da esse emanano, 
o cittadini^ è quanto di meglio si può fare. 
Si respira così aura piti pura ; si resta an- 
negato in un Lete morale dolcissimo: si guar- 
da con occhio impassibile la vertiginosa corsa 
del torbido torrente della vita umana, da una 
sponda secura e tranquilla. 
Valete. 

Portici— Granatello 1892. 

DZE&O BAPOLLA 




PROLEGOMENI 



L mondo, questo pianeta, che pare 
sin oggi abbia il primato sul si- 
stema universale dei pianeti, perchè in 
esso vive l'uomo, il re della creazione, 
avverti , circa duemila anni or sono, 
una di quelle trasformazioni , uno di 
quegli avvenimenti, che segnano date incan- 
'cellabili, e che forse non più si verificheranno 
nei secoli futuri, tranne quando avverrà la 
fine -dell' età. Neil' aria pregna dì densissimi 



vapori guizzavano folgori rossicce ; reboava 
il tuono ; poi appariva luce sfolgorante, bian- 
chissima, divina. Le nefandezze, le turpitudini, 
la mollezza, la superbia, la degenerazione del 
genio del bene in quello del male erano 
giunte all'estremo limite del possibile. Era 
prossima l'ora delle rivendicazioni, della re- 
denzione, della riscossa voluta dalla ragione. 
Era vicina la nascita dell' Uomo-dio , an- 
nunziato, già da secoli, come apportatore di 
pace ed amore. Roma, caput mundi, impe- 
rava. Le aquile svolazzavano in liberi campi, 
ghermendo prede facili in difficili e remoti 
paesi. La potenza e la protervia dell'uomo si 
disegnavano al massimo grado. I grandi ed 
i piccoli, i padroni e gli schiavi, i senatori al- 
bagiosi , i cresi onnipotenti ed i gladiatori 
morituri. 

Roma già da sette secoli esisteva, quando 
l'umanità parve potersi paragonare al vapore 
chiuso in forte e potente recipiente che sem- 
bra prossimo a scoppiare. La civiltà dei Greci, 
le gesta ed il ricordo degli altri popoli, come 
i Cinesi , i Babilonesi ed i Persi , che vanta- 
vano maggiore e più antica coltura, eran pres- 



sochè cancellati da questi violenti conati di 
gente che era barbara e volea divenire inci- 
vilita. Neir immensa Roma, per la quale po- 
poli al sommo grado belligeri pugnavano 
sanguinosamente per potersi dire cittadini 
romani^ vagavano uomini quasi nudi, ed 
appena ornati da toghe e preziose porpore, 
che ne lasciavano scovrire i poderosi garetti 
e le erculee braccia ; e le altiere fronti pare- 
vano non use a piegarsi alle volubili e spesso 
avverse disposizioni del destino. Da Roma 
partiva quella voce imperiosa che comandava 
alle schiere invitte la conquista del mondo 
intero. 

Tutto pareva nascer gigante in quel tempo, 
e con l'impronta del misterioso e del sublime. 
Mario, Siila, Mitridate, Ottavio, Cinna, Giu- 
gurta, Pompeo, Cesare, Bruto, Antonio, Cleo- 
patra; Roma, Atene, Cartagine; Virgilio, Ti- 
bullo, Properzio, Ovidio, Sallustio, Cicerone, 
Giovenale , Tito Livio , Orazio , Mecenate , 
Augusto I 

Gli uomini, dalla civiltà, che lentamente in- 
vadeva, resi più chiaroveggenti, mal soffriva- 
no la schiavitù più abbietta. Fremevano e le- 



vavano ruggiti di leoni. E Mario era un leone 
della foresta : nato da vilissima gente, sorbì 
sin dall'infanzia il veleno dell' odio contro i 
potenti ed i gaudenti. Era smilzo, altissimo, 
nervoso, brutto, di volto terreo, come se quel 
colore della pelle dovesse indicarne la mal- 
vagità dell'animo, come dopo molti secoli in 
Marat. Di quei che vantavansi di nobile stirpe 
solea far aspro maneggio. 

Gridava fremente alle turbe spensierate e 
lussuriose : O voi altri, che vantate imagini 
lettighe e porpore, ne avrete di giorni tristi; 
verrà Y ora della rivendicazione sociale. II 
vostro cammino trionfale sarà arrestato da 
un fiume di sangue. Le vostre pompe su- 
perbe saranno oscurate da montagne di ca- 
daveri deformi 1 

Eppure Mario avea sortito dalla natura il 
genio uguale a quello di Cesare, suo grande 
nepote. Era guerriero nato. Vinse i Cimbri, 
aggiogò Giugurta, si unì con Siila. Con Siila 
stesso si misurò a suo forte discapito. Corse 
vagolante sulle rovine di Cartagine. Dipoi 
iniziò la fatale guerra sociale. Morì atterrito 
da visioni tremende 1 



A Siila scorrea nelle vene sangue gentile di 
patrizio. Avea fierissimo e troculento aspetto; 
era vendicativo oltre ogni credere, ma celava 
in petto cuor generoso e forte. 

Non poche migliaia di Sanniti restarono 
sgozzati al semplice muovere del suo soprac- 
ciglio, e nel sangue restò affogato anche lui, 
che invano entrava nel cotidiano bagno di es- 
senze per torsi di dosso la miriade di paras- 
siti e microbi che lo dilaceravano e lo spen- 
sero. E la lotta ferveva sorda, quasi ne fosse 
infetto il sangue degli umani, tra i servi e 
gli strapotenti. I mirmilloni ed i reziarii, 
nelle barbare e sanguinose lotte, formicola- 
vano, per appagare la sozza cupidigia di vec- 
chi lussuriosi e donne ben pasciute e coronate 
di rose, e briache e spossate dalla crapula 
e dal piacere. Era il preludio delle guerre 
servili. Dugentoventimila servi e Spartaco 
con centoventimila gladiatori produssero uno 
scoppio ed uno schianto formidabile, come 
potentissimo vulcano che erutti lapidi e lave. 
Licinio Crasso, quegli che rappresentava l'or- 
pellata repubblica, ne fece crocifiggere sei- 
mila. 



►^( 6 )»►- 

A spaventoso movimento, repressioni più 
spaventose. Licinio Crasso fu favolosamente 
ricco per le opime spoglie e per V oro rag- 
granellato con la confisca dei beni delle sue 
vittime e dei milioni di proscritti. 

Ma quell'oro di nefando acquisto vennegli 
fatto ingoiare fuso e bollente dinanzi agli 
stessi suoi figli. E trentamila Romani sgoz- 
zati dai Parti, ad Harron nella Mesopotamia, 
furono quelli che espiarono con lui V inau- 
dita ferocia. Spartaco gladiatore, di razza nu- 
mida e di regio sangue , morì da eroe nella 
fiera mischia sulla riva del Sele in Lucania, 
condottiero di stanche e poche agguerrite 
schiere di uomini oppressi. Fra Spartaco e 
Crasso, tra il gladiatore ed il potente, tra quel 
povero oppresso e quel ricco oppressore, es- 
servi dovea odio mortale. Perversi però e 
scelesti ambidue ! 

Cicerone e Catilina, sommo oratore ma 
ambiziosissimo l'uno, patrizio romano disso- 
luto l'altro. Dalla congiura del secondo, che 
mirava in realtà al nichilismo dei nostri giorni, 
e dalla fine del primo si videro strani risul- 
tati. Catilina cadde trafitto nel campo tra le 



sue schiere pugnaci per un ideale. Cicerone 
ebbe il capo e le mani mozzi e confitti ai ro- 
stri del foro romano, e la lingua foracchiata 
dall' aureo spillone della proterva Fulvia. 
Splendidi esempii agli ambiziosi I 

Mentre che alla magnifica Atene non re- 
stava che il primato nel mondo per le let- 
tere e per le scienze, e mentre V immensa 
Roma repubblicana si affraliva e s* incrude- 
liva tra la mollezza, i vizii, le congiure, i mas- 
sacri e le guerre , nasceva Cesare. 

Cesare lo si disse dapprima congiuratore 
con Catilina. Gli scorreva però nelle vene il 
sangue vile di Mario. Era rinfocolato da am- 
bizione smodata e livore. Fu uno dei più 
grandi uomini che nacquero nel mondo. Lottò 
da atleta gigante con Pompeo, nato da eque- 
stre famiglia e partigiano del nobile Siila, e 
Io vinse. Ma pianse quando i vili cortigiani 
gliene recarono la testa mozza, e volle punita 
la barbara adulazione. Era letterato di gran 
talento. Era generoso, ma sotto il mantello di 
leone ascondeva animo felino , vendicativo, 
dissimulatore. Catone preferì trapassarsi di 
propria mano il corpo con la spada, piutto- 



^( 8 )»^ 

sto che rendersi servo di Cesare. Cesare am- 
biva air imperio, alla tirannia. Vinse i Ger- 
mani, i Galli e Scipione, ma venne pugnalato. 

Bruto, il fiero repubblicano, il prediletto di 
Cesare, s' intinse pure del sangue di lui; si 
macchiò di parricidio, perchè la dittatura lo 
premeva come incubo, anelava alla libertà, 

E tale fu la progenie umana sin da che 
vide la luce. 

Cristo, r Uomo-dio, venne al mondo colla 
missione di pace tra gli uomini. Fatalmente 
però gli uomini si mantennero sempre gli 
' stessi. 

Adamo ribelle al Dio creatore; Caino fra- 
tricida per invidia e per sete di dominio. E 
da questi a Cesare, a Crasso, a Spartaco, a 
Bruto, tutti ambiziosi e ribelli; e da questi 
a Tiberio ed a Nerone, che ricreavansi degli 
spaventosi dirupi di Capri e delle fiaccole 
umane. *) 

E da questi ai Torquemada, agli autori 
degli auto-da-fè, dei roghi ove bruciarono 
Bruno, Savonarola, Arnaldo, Vanini. E da 
questi a Luigi XI, il compare di Tristano, 
ed a Carlo IX che dalle finestre del Louvre 



( 9 )»^ 



aizzava le orde a fare strage, e permise la tre- 
menda notte di S. Bartolomeo , a Robespierre 
che allagò il bel suolo di Francia col sangue 
delle vittime del Terrore ; al prigioniero di 
S. Elena, che seminò di stragi, rovine e morti 
buona parte del mondo ; sino a quelli, innu- 
merevoli, che in questo nostro secolo avven- 
turoso han messo a soqquadro l'universo con 
lotte ferocissime. 

Una è perciò la linea che appare precisa: 
l'odio dell'uomo contro il suo simile, contro 
qualsivoglia supremazia, servaggio od oppres- 
sione; mista a malvagità ammantata, sia dalla 
porpora, sia dai cenci; in diverse guise, nel- 
l'alto e nel basso, tra plebei e nobili, tra so- 
vrani e sudditi, tra volgo profano e menti 
elette, e persino tra letterati e tra i sacri mi- 
nistri delle diverse religioni; il quale odio 
malvagio personificato potrebbe raffigurarsi 
quale Encelado premuto dall' Etna. 

La scala della nequizia in tutti i tempi ha 
toccato i cieli, come quella biblica. . . . 

Tale era lo stato del mondo allorché nac- 
que Quinto Orazio Fiacco; e nelle sue vene 
scorreva sangue di schiavo. 




II. 



LA FAMIGLIA DEL POETA 




I ELLA vetustissima Venosa [Venu- 
sid), città situata tra la Puglia e la 
Lucania 3) , nel dì 8 dicembre dell'anno 
689 dalla fondazione di Roma, sessan- 
tacinque anni prima dell' era cristiana, 
essendo consoli L. Aurelio Cotta e L. 
Manlio Torquato , essendo Cesare compro- 
messo con la prima congiura di Catilina, per- 
chè sognava la caduta della repubblica e la 
dittatura, nacque Quinto Orazio Fiacco. Il 



nome di Quinto se lo appropriò lui stesso nel 
libro secondo delle satire. Orazio ognuno lo 
chiamò, ed egli stesso così sempre si nomò 
nei suoi scritti. Plutarco lo disse Fiacco 
nella vita di Lucullo, cioè orecchiuto, ed egli 
stesso, nell'Epodo XV e nella prima satira 
del secondo libro, così si cognominò. 

Ma tale soprannome non indicava che 
avesse orecchie deformi, bensì può riferirsi 
a lui, quello che egli stesso dice di essere 
di facilissima audizione, oppure che quelli 
di sua famiglia fossero distinti con tal no- 
mignolo, tra le non poche famiglie della 
tribù oraziana, della quale si discorrerà in 
appresso. 

In un antico manoscritto che si conserva 
nella Biblioteca Nazionale di Napoli, che 
vuoisi opera del dottissimo Jacopo Cenna, 
venosino, si asserisce che Orazio nacque 
nelle case dette, al tempo nel quale il Cenna 
scriveva, dei Plumbaroli, presso le mura della 
città, e presso certi molini, che in appresso 
(come rilevasi . nelle note del Cimaglia) ap- 
partennero ai Pironti venosini, e che oggi 
son quasi di fronte alla cattedrale, venendo 



^( 13 M^ 

dalla via di^S. Rocco, presso al luogo detto 
/e Sa/me. 

Suo padre era uno schiavo fatto libero. La 
quale condizione se non era tanto miserevole 
quanto quella dello schiavo, poteva dirsi av- 
vilitiva oltre, ogni credere; imperocché il li- 
berto ripeter doveva quella larva di libertà 
dal suo antico padrone; come cittadino ve- 
deasi privato del diritto al suffragio; aspirar 
non potea agli alti uffizii civili, e neppure a 
coprirsi le braccia e le dita di anella d' oro 
perchè venivagli rigorosamente proibito. Lo 
stesso matrimonio era per lui limitato nella 
cerchia dei suoi pari, perchè un liberto spo- 
sar non poteva sia la figliuola d' un senatore 
o d* un patrizio, sia altro essere nato libero 
od ingenuo, come diceasi allora. Viveva il 
liberto sotto la tutela del passato padrone, e 
lui malaugurato se a questo si fosse ribel- 
lato: ridiveniva schiavo. Spesso il suo pas- 
sato padrone se ne avvaleva per servizii ono- 
rifici, mediante lieve mercede. Malamente 
taluni vollero sostenere che il padre d'Orazio 
fosse libertino nel senso voluto da Svetonio 
in altri suoi scrìtti, e non nella biografia di 



-«( 14 ))^ 

Orazio, cioè figliuolo di liberto o figlio di 
schiavo fatto libero. Orazio, alludeìtttea suo 
padre, usa sempre la parola libertinus^ ma nel 
senso detto dapprima, volendo intendere che 
suo padre era stato schiavo, ed aveva avuto 
poi la libertà. Non vi pjiò cader dubbio al- 
cuno. \ 

. Il padre di Orazio prestava il servizio di 
riscotitore di tasse del comune di Venosa e 
di banditore, era un servus pubKcus; il Che 
dimostra che il suo passato padrone essere 
dovea di alto grado sociale, assegnandogli 
tali uffizii rimunerativi e non bassi, ed a ser- 
vizio della città. Nel suo stato perciò dirsi 
potea felice ed agiato, stantechè possedeva 
presso la Rendina, luogo neir agro di Ve- 
nosa, un fondicello che gli dava ( sebbene 
Orazio dicesse esser suo padre macro pan- 
per ugello) un conveniente provento, e 
quindi potette unire al suo impiego anche un 
negozio di salsamentario, o salumiere; e come 
vuoisi da Svetonio, Tunico biografo, così la- 
conico, ma purtroppo veritiero, veniva scher- 
nito il giovanetto Orazio dai suoi compagni 
di scuola così: Quottes ego, vidipatrem tuum 



( 15 ) 



brachio se emungentem ? ^) Ingiuria solita in 
quei tempi ai figli di salumaio, e che Cice- 
rone riferisce così: Quiesce tu cujus pater cu-- 
aito se emungere solebat. 5) 

Certa cosa è che non può ricavarsi da tutto 
ciò che Orazio ha scritto sopra i suoi geni- 
tori, né da altri scrittori suoi contemporanei, 
compreso lo stesso Svetonio, né il nome di 
suo padre, né il nome e la condizione di sua 
madre. 

Il Fabretto, celebre raccoglitore di iscri- 
zioni e sigle, riporta un frammento d' iscri- 
zione che dice leggersi sopra una casetta in 
Venosa, che erroneamente fu detta esser la 
casa di Orazio, così concepita: 

HORATI C. L. Dio .... 

MlTULLEIAE UX. . . . 

e che sì è voluta decifrare così: 

HoRATio DioDORo Caji Liberto 
MiTULLEjAE Uxori 6) 

La quale interpretazione importerebbe che 
il padre di Orazio nomar si dovesse Diodoro 
o Diocle, e sua madre Metulla. Ma é questo 



-«( i6 ))^ 

un falso indìzio, poiché in Venosa furonvi 
non pochi che si dissero Grazi, ed a qualcuno 
di questi è riferibile l'iscrizione funeraria. 

I due eruditi Grotefend, il Franke nei 
suoi Fasti Horatiani, ed il Milmam nella sua 
splendida opera The works of Q. Horatius 
Flaccus illustrateci , opinarono il padre di 
Orazio poter esser un discendente dell' il- 
lustre famiglia romana degli Orazii, e che ri- 
divenuto libero, avesse ripreso, secondo il 
costume del tempo, il proprio nome. Ma il 
Mommsen, nella sua opera Inscriptiones Re-- 
gni Neapolitani, riporta tredici iscrizioni rin- 
venute in Venosa indicanti l'esistenza di una 
tribù Hofatia, colonia romana, nella quale 
erano allistati gli abitanti della città di Ve- 
nosa. Il padre di Orazio faceva parte di que- 
sta colonia, non discendeva però dalla fami- 
glia degli Orazii, nel qual caso farebbero op- 
posizione le continue lamentazioni del figlio 
di vii nascimento. 

Né si potea concepire che , fra tanta chia- 
rezza di prosapia, da darsi pure il lusso di 
un' iscrizione sepolcrale , Orazio poi non 
enunziasse neppure il nome di quelli che gli 



-«( 17 )f^ 

aveano data la vita. Ed è poi noto, come si 
vedrà in appresso, che tutto venne confiscato 
alla famiglia di Orazio dopo la disfatta di Fi- 
lippi. Era anzi quella gente tenuta in bando, 
e del tutto sprovvista di mezzi, il che per- 
metter non poteva ad essi il foggiarsi lapidi 
con iscrizioni commemorative. 

G. Batt. Duhamel, nella sua opera Philo- 
sophia vetus et nova ad usum scholae, opina 
che un avo del poeta Orazio, assoldato nel- 
r esercito di Mitridate, venne nelle guerre del 
Ponto fatto prigioniero, e tradotto in Roma, 
e comprato da un questore venosino, dal 
quale si ebbe la libertà. Ma tale idea fanta- 
stica, come moltissime venute fuori dalla pen- 
na del letterato e filosofo del Calvados, non 
ha fondamento, mancando della parte princi- 
pale, cioè del nome del prigioniero, schiavo 
fatto libero, dal quale deriverebbe il padre di 
Orazio (di cui neppure sa dire il nome), che 
per tal guisa sarebbe stato figlio di liberto, 
non liberto, come era infatti; Orazio chia- 
mando sempre suo padre liòertinus, non nel 
senso voluto da Svetonio, e mostrando sem- 
pre rammarico per tale causa. 

3 



( i8) 



Altri poi (come rilevasi da vecchissime 
edizioni del gran poeta ) credettero assegnare 
al padre di Orazio il nome di Tubicino; ma 
pure questo va chiaramente emendato, stante- 
che si è voluto confondere il nomignolo del- 
l'uffizio che il padre di Orazio si aveva in 
Venosa, cioè di banditore. E siccome i ban- 
ditori in quel tempo solcano annunziarsi a 
suon di tuba, diceansi trombettieri ( tubicen^ 
tubicinis) quindi Tubicino ! Può quindi asse- 
rirsi che s'ignora del tutto il nome del padre 
di Orazio e quello della sua genitrice: se ne 
conoscono solo del tutto la condizione e lo 
stato del primo. Orazio disse essere stato suo 
padre uno schiavo, al quale venne concessa 
la libertà. Tale origine del suo casato lo mo- 
lestava acremente. E qui cade in acconcio 
notare che mentre Orazio non ha mai indi- 
cato il nome di suo padre e di sua madre, 
non ha mai nominata la città di Venosa. Con 
molta lucidità indica il luogo della sua na- 
scita e ne fa un piccolo cenno storico topo- 
grafico così concepito: Io non so con preci- 
sione se son Lucano o Pugliese, perché il 
colono venosino suole volgere l'aratro tra i 



( 19 ) 



due confini di queste due regioni. E che Luigi 
Tansillo venosino cosi traducendo imita nel 
suo canto al viceré di Napoli: 

Io non so se Lucani o se Pugliesi 
Siam noiy però ch'il venosin villano 
Ara i confini d'ambidue paesi..,,. 

Ed una colonia romana fu spedita in tal 
luogo, abitato prima da Sanniti, per iscacciar- 
neli, e per impedir poi che tale infesta gente 
corresse sopra Roma a molestarla come pel 
passato. Ed invero i Sanniti furono infesti non 
poco ai Romani come le storie luculentemen- 
te asseriscono. E tale colonia romana spedita 
in Venosa, secondo attesta Tito Livio, formar 
dovea guarentigia a tutta la regione pugliese 
e lucana, e mostra ad evidenza V importanza 
della città di Venosa in quei tempi. 

Orazio volle con precisione dichiararsi ap- 
partenente alla colonia ronìana che discac- 
ciava da Venosa i Sanniti. 

Eppure i Sanniti furono di razza Sabina, 
ed Orazio non pensava che la Sabina, cioè 
la patria prima dei Sanniti, formar dovea la 
sua seconda desiderata patria, la sua aspira- 



^ 20 >»^ 

zione. Oh coincidenze misteriose! Oh lumana 
commedia ! 

Eppure i costumi dei Sanniti furono qual 
si conviene a popolo belligero, sobrio e buo- 
no. Governavansi in austera repubblica, ed il 
sistema democratico formava la base delle 
loro istituzioni. Pei servigi resi alla patria 
davan persino le avvenenti compagne e le 
figlie come premio. O sacrifizio memorabile \ 
Nelle lunghe guerre coi Romani mostraronsi i 
Sabini più destri e valorosi. Venne però l'ora 
definitiva della sconfitta, e nell'eterna guerra 
tra le genti, il più forte li debellò. I Romani 
290 anni prima di Cristo li espugnarono del 
tutto. A questo ricordo allude Orazio allorché 
dice che la colonia venosina, debellati i San- 
niti, divenne propugnacolo contro le ossi- 
dioni di tal forte e belligera gente. Convien 
quindi notare che Orazio per quanto asserì 
esser nato sul suolo venosino, per tanto sem- 
bra mostrarsi superbo di appartenere alla co- 
lonia romana ivi residente: che anzi bisogne- 
rebbe assegnargli meritevolmente la taccia 
d' ingratissimo, perchè oltre a non nominare 
una sola volta in tutte le sue opere la patria 



•^ 21 )»- 

sua, come non precisa il nome ( e li avrebbe 
immortalati) né di suo padre, né di sua ma- 
dre, bensì il nome del suo primo maestro 
Flavio venosino e della sua castalda, Fidile^ 
cosi sacrilegamente si esprime: Sic quod-- 
cumque minabitur Eurus Fluctibus hesperiis, 
venusinae plectantur silvae, te sospite..... 

E Gargallo, quasi arrossendo, in tal guisa 
traduce, cangiando le venosine selve in lucani 
boschi: 

Còsi qualunque netnbo Euro Minaccia^ 
Ai flutti esperii^ di là ratto il muova 
A* lucan boschi^ e n'abbi tu bonaccia, 7) 

E per giunta in tutte le sue opere Orazio 
non nominando mai, come dissi, Venosa, 
spesso nomina Forenza, Acerenza, Banzi, 
TAufido (l'Ofanto odierno), il Vulture, il Ma- 
tino, Benevento, e con aspirazione invidiosa 
Taranto e Tivoli 1 E pure Venosa, lantichis- 
sima Venusia, era bella, com' è tuttora, su- 
perba, attraente, forte più del suo Tivoli , e 
dei luoghi dei monti Sabini. I grandi hanno 
tutti gravi e non poche mende, ma bilanciate 
con le qualità individuali, superiori e rare, 



-«( 22 )»- 

vanno cancellate. Salve perciò, o Orazio, 
sovrano poeta, onore della razza umana! 
Venosa, la patria tua, perdona tale non- 
curanza, e tale al certo involontaria irricono- 
scenza. L' hai ricolmata di gloria imperitura, 
indicando a chiare note che sorbisti le prime 
aure della vita sulle sue opime colline ; e ciò 
bastar deve per fare scomparire ogni traccia 
di livore o sdegno verso di te, se pur può 
albergare nell'animo di alcun tuo concitta- 
dino livore o sdegno, come invece alberga 
venerazione e maraviglia ! Salve, sommo poe-. 
tal Tu certo vivi ancora. Il tuo spirito im- 
mortale aleggia benefico genio del luogo su 
quella ancor bellissima terra; oppure da qual- 
che stella lucente gitta raggio amico che mo- 
stra la via al viandante in quelle selve lucane, 
od al nocchiero la via nera dell'antico mare 
Jonio, ove il bollente e rumoroso Aufido an- 
cora oggi si annega ! 
Orazio scrisse : 

Che qual figliuol di libertin trafitto 
Soft da tutti. 8) 

Invero Guerrazzi da savio sostiene: La 



-«( 23 )»- 

ignobilitàpiù che la chiarezza del Itg^taggio 
riuscire stimolo acuto a ben meritare; aven- 
do la natura concesso all'uomo maggiori po- 
tenze per acquistare, che non per mante- 
nere. ^^ 

L'assillo nonpertanto che tormentava Ora- 
zio era la sua nascita: perché non potendo 
schermirsi dai vili ma pur tormentosi frizzi 
della plebe che lo dicea discendente da schia- 
vo, rinfocolato dall'odio naturale di cui più 
su si è discusso, che gli bolliva in seno, e che 
il padre vieppiù incrudeliva, estolle la ma- 
gnanimità del suo genitore per averlo fatto 
educare, istruii^e e porre a livello dei giovani 
di buone famiglie ed agiate. Che anzi con 
boria e sicumere che mal velava lo struggersi 
interno, asseriva potersi porre a pari, egli 
figliuol di schiavo, coi figli dei senatori e dei 
cavalieri di quel tempo anche nella superba 
Romal 

Si vedrà in appresso quanto fosse ampollo- 
sa questa sua assertiva, allorché si noterà co- 
me egli stentar doveva per accaparrarsi sia 
l'amicizia di altri poeti più fortunati, sia dei 
grandi, che un solo fortuito caso gli permise 



avvicinare, e come molte volte ingiustamente 
ne restava mortificato, mendicandone le 
grazie, ed attendendo nove lunghi mesi per 
meritarsi l'onore di venire annoverato tra i 
commensali di Mecenate ! Giunse a rendersi 
maestro in cortigianeria a parecchi suoi gio- 
vani amici ed ammiratori ! 

Non è lecito credersi di più di quello che 
si è in realtà, né fidar troppo sul proprio me- 
rito, per quanto incontrastabile esso sia, in 
questa commedia umana nella quale regna 
sovrana V ingiustizia ! Il suo orgoglio come 
poeta diveniva ridevole quando si rivolgeva 
circa la sua condizione nella società nella 
quale viveva. Ma quel marchio che al solo 
presentarselo alla mente lo straziava a morte, 
il marchio di esser figliuolo di uno schiavo, 
gli faceva talvolta aver le traveggole. Riesce 
sublime quando esclama: 

Io disdegno e allontano 
Da me il vulgo profano 

Tacciasi ognun 

Vo*cantar^ de le Muse io sacerdote. »o) 

Egli lodò grandemente il padre, perché 



-«(25 )»- 

questi gì* inculcò dì fuggire dal luogo ove 
molto era conosciuta la sua origine, e di af- 
francarsi dalle prepotenze dei ricchi, dei se- 
natori, dei cavalieri e di ognuno con Y i- 
struzione, col coprirsi di gloria: e tanto ot- 
tenne. 

Orazio nacque, come si accennò, dodici 
anni prima della congiura di Catilina. Cele- 
bri erano in quel tempo tra i poeti Valerio 
Catullo, Licinio Calvo e molti altri. E tra i 
filosofi Terenzio Vario e Numidio Fegulo. 
E per l'arte tribunizia Cicerone, Ortensio e 
Quinto Catulo. In Venosa in quei tempi 
eravi pure una classe sociale che si distin- 
gueva dalla volgare, la quale frequentava la 
scuola di un maestro Flavio, del povero 
Flavio, che non avrebbe potuto mai augurar- 
si di divenir celebre per l'eternità, vedendosi 
consacrato nel libro di Orazio, che pur non 
dice il nome del suo genitore, della genitrice, 
della patria. A questa scuola attinse i primi 
rudimenti il piccolo Orazio. I suoi compagni 
lo schernivano; ed egli si vendicò ad oltranza 
col farsi in seguito beffe di essi e dei loro 
parenti nobili venosini I La povera nobiltà 



-«( 26 ))^ 

venosina, ") quella nobiltà che ebbe incisa 
in pietra pelasgica tale enfatica iscrizione : 

Ex LUCULLANORUM PrOLE RoMANA 

Aelius Restitutianus Vir Perfectissimus 

CORRBCTOR ApULIAE ET CaLABRIAE IN HONOREM 

Splendidae Civitatis Venusinorum 
Consecravit ") 

resta schernita e vilipesa dallo stile del sommo 
satirico. Quei rampolli di famiglie nobili ed 
agiate della città di Venosa dovean tenere a 
vile accumunarsi con Orazio e famiglia, stante 
che ne conoscevano Torigine. Fu questa una 
delle ragioni per cui il padre decise condurlo 
in Roma. Dovette poi notare nel giovanetto 
un ingegno precoce e svegliato che promet- 
teva alcun che di grande, e pensò abbiso- 
gnargli più ampli orizzonti e pabolo più ade- 
guato e conveniente. Orazio aveva circa otto 
anni o dieci al massimo, secondo il computo 
di Andrea Dacier, nella sua Chronologia an- 
norum Horatii, allorché giunse col padre 
in Roma, e cominciò a frequentare quelle 
scuole romane. Ed è caro quel vanto che 



-«( 27 )»- 

trasse Orazio quando nei suoi canti, ricor- 
dando il padre ed i felici giorni della pueri- 
zia, e sentendosi nella folla della scolaresca 
deir immensa città susurrare airorecchio di 
esser creduto di alto lignaggio, dice : 

Ma d'alti sensi osò condurre a Roma 
Me fanciulletto^ ad apparar quell'arti 
Che un cavaliere che un senatore insegna 
Ai propri figli, Allor se, come avviene 
In un popolo immenso^ avesse alcuno 
Gli abiti visto^ ed i seguaci servii 
Certo creduto avria spese sì fatte 
A me apprestarsi da retaggio avito 13) 

La quale ingenua confessione dimostra 

che il padre di Orazio, sebbene appartenente 
alla bassa condizione di liberto, non doveva 
essere scarso a pecunia, anzi bastevolmen- 
te ricco. Quanti miseri studenti , figliuoli 
di coloni agiati e signori delle provincie^ non 
vanno oggi in Napoli o nell'alma Roma ad 
apprender lettere o scienze ? Ma ben pochi 
vivono certo vita allegra, vestono panni di 
lusso, e possono farsi seguire da servi e 
staffieri con panieri ricolmi di succulenti ma- 
nicaretti od altre costose leccornie ! Orazio 



però per generoso e riconoscente sentimento 
riferisce al padre il potersi istruire con tanta 
comodità, né può tacciarsi di parabolano o 
falso, né molto meno di orgoglioso, lui, che 
abborriva dall'orpellato fastigio, e mordeva 
con denti velenosi i prodighi, i ricchi ed i 
centurioni venosini! Sotto l'usbergo d'una 
morale istintiva covava Tira repressa del 
figliuol del liberto 1 





ni. 

ORAZIO IN ROMA ED IN ATENE 



L padre d' Orazio condusse suo fi- 
" glìo in Roma nel 699 , cioè cin- 
quantacinque anni prima dell' era cri- 
stiana, non raggiungendo questi ancora 
i dieci anni di età. Forte baleno dì or- 
goglio e di stupore dovette abbagliare 
il piccolo venosino, ma pur cittadino romano, 
nel calpestare le aboliate strade della magnì- 
fica Roma. 

Ergevasi la città , che imperava allora su 



buona parte dell' orbe terraqueo, sui dodici 
celebri colli, dei quali il Vaticano, il Citorio, 
e quell'altro dove Tazio venne a fissarsi coi 
suoi Quiriti , rifulgono oggi maggiormente 
nel mondo , perchè dominio di validissime 
potenze: la tiara, e la monarchia costituzio- 
nale deir Italia unita e libera. Aveva ponti 
lunghi e meravigliosi, porte monumentali, 
mura che potean vantarsi più durature e in- 
concusse delle ciclopiche o pelasgiche o delle 
cinesi. Avea più di quattrocento templi ador- 
nati di colonne preziose, archi trionfali, obe- 
lischi fatti trasportare con ingentissime spese 
dalle più remote regioni del mondo onde si 
fosse palesata la grandezza delle vittorie ro- 
mane dalle spoglie ricavate dai potenti e 
riottosi nemici. 

Se però Roma mostravasi tanto superba e 
potente alla vista, il che poteva lusingare i 
sensi del piccolo viaggiatore (il quale poi non 
proveniva da paese barbaro e povero , bensì 
da Venosa, caput Apuliae, città monumen- 
tale e stupenda, siccome attestano le antiche 
carte e le lapidi che hanno sfidata la corro- 
sione dei secoli, "^)) non cessava di ascondere 



( 31 ) 



nella sua ampiezza e magnificenza gente av- 
vilita dalle discordie civili. Pel triunvirato di 
Cesare, Pompeo e Crasso (quel Crasso di cui 
più sopra si delineò la proterva jattanza), 
quel popolo, dapprima così forte e generoso, 
vedeva sfuggirsi, pel libertinaggio prepon- 
derante, la libertà che offriva ai cittadini la 
repubblica di Catone, repubblica ormai mo- 
ribonda. La mollezza ed il mal costume tor- 
cer facean lo sguardo ad ogni onesto e probo 
romano. E perciò Orazio stesso, allorché co- 
minciò a balenargli in mente il vero, scrisse 
che le cure del suo buon genitore, che gli fu 
guida permanente, fra tante grandezze e fra 
tanto scompiglio morale lo ritrassero dal ca- 
dere in brutture ed ignominie e dal venir tac- 
ciato di cattivo cittadino ; che anzi gli procu- 
rarono la stima dei buoni e dei veramente 
grandi. 

Il padre soleva giornalmente condurlo dai 
maestri più celebri della città, ed ai banchi di 
quelle scuole famose sedevano con lui figliuoli 
di senatori e di altre famiglie nobili ed alto- 
locate dell'alma Roma. Era sicuro il padre 
che non si sarebbe rinfacciato al giovanetto 



( 32 )»- 



Quinto Orazio la nascita vilissima, perchè 
s' ignorava donde fosse venuto : Y emporio 
immenso, oceano nel quale rifluivano tutti i 
popoli della terra, lo assorbivano. E lo schiavo 
fatto libero superava per lusso e per criterio 
sicuro moltissimi ingenui e gentiluomini. 

Orazio gliene fu gratissimo ; e scrisse che 
se avesse dovuto rinascere, ed avesse potuto 
scegliersi un padre, avrebbe scelto quello 
che gli die natura, non trovando altro uomo 
più coscenzioso, più perspicace, più amore- 
vole di questo ! Desta ammirazione e mera- 
viglia questa confessione, se si rifletta che il 
padre di Orazio era illetterato, e che era stato 
soggetto alla schiavitù 1 

Ed Orazio nel parlar di suo .padre include 
pure la madre sua, perchè dice: 

. ... io pago a' miei (genitori), di fasci 
E di sedie curuli avoli adorni 
Saprei spezzar . . . . »S) 

Le prime lettere gli furono apprese da Pu- 
pilio Orbilio da Benevento, che, come narra 
Svetonio, fu dottissimo grammatico in quel 
tempo e tra i migliori maestri sotto il con- 



solato di Cicerone. Visse centenario; morì 
povero , solita fine dei non pochi lavoratori 
coscenziosi ed indefessi. Era severissimo e 
non risparmiò la sua sferza allo stesso Ora- 
zio, che se lo rammentava con satirica soddi- 
sfazione. 

L'uso delle sferzate nella palma delle mani 
degli scolari, antico più del tempo del quale 
si discorre , formava sin negli ultimi nostri 
giorni un genere di punizione che la civiltà 
invadente va oggi disperdendo, siccome si è 
tolto il barbaro uso di bastonare e torturare 
i poveri folli ! Le cure morali debbono sosti- 
tuirsi a quelle corporali e costrittive. 

Alla scuola di Orbilio Pupilio cominciò 
Orazio ad alimentarsi della poesia latina; me- 
nando a memoria e tratteggiando le scene 
drammatiche del poeta Livio Andronico ed 
altri illustri. Come più sviluppavasi negli anni, 
cominciò ad attingere alle fonti delle lettere 
greche, che egli stesso poi definì le più pure 
e che dovevano occupare i dì e le notti degli 
scrittori. Omero, Anacreonte, Saffo , Archi- 
loco, Alceo, Stesicoro, Simonide, e non tra- 
lasciando i latini, a cominciar da Lucilio, che 

5 



gli fece acquistar gusto alla satira, furono i 
suoi modelli nel bello scrivere, e da essi ap- 
prese quell'arte divina , quella melodia am- 
maliatrice, che lo fecero addivenire il prìftio 
tra i lirici del mondo. Ed egli solea paì-ago- 
narsi all'ape industre del monte Matino (ser- 
vendosi per similitudine del nome d* un monte 
della sua Puglia, ma non del Vulture *^^ presso 
del quale spento vulcano ebbe la 'Cuna), cfee 
svolazzando di fiore in fiore ne suggeva da 
ciascuno quel tanto di dolce e poetico da for- 
mar xumti immortali 1 

Ed invero potrebbe qui riferirsi senza de- 
rogare l'aurea massima di Ovidio del prin- 
cipiis còsta, nel senso inverso, per<:hè i primi 
lampi del genio sogliono ajpparire nei primi 
anni, e non conviene smorzarli ostando le 
prime cure degli studii, e rendendo con ciò 
più malagevole la via della gloria a colui 
che alimenta in se quella che Orazio stesso 
disse divinae particulam aurae. Che se non 
si ottiene la gloria si resta nell' oscurità e 
neir oblio comune alla maggior parte degli 
umani ! Pochi possono veramente dirsi im- 
mortali, anzi pòchissimi. I componenti la ce- 



lebre accademia parigina vanno pure oggi 
designati col nome d' Immorfe/s. Ma vera- 
mente immortale apparve at^traverso i seicoli 
il grande cittadino di Venosa ! Noff pntftts 
moriarf Spontaneo sgorgò dal labjbrp ,di 
Orazio medesimo tale motto fatidicQj 

Orazio in;tantQ cominciò a coprirsi della 
toga virile nel sedicesimo anno di età. Er^ijo 
i primi voli deir^gelica farfalla. 

Ma le belle lettere non bastano ^ formare 
r uomo erudito, se vengono scompagnate d^- 
gli 5tudii filosofici : ed é quindi logico ,che 
CQpipiuta Orazio la carriera letteraria in Roma, 
e qon maggior probabilità, per seguire V an- 
dazzo di quella gioventù, ed essendo più che 
in JEloma stessa coltivate le scienze in Atene, 
mentre il padre se ne jimase nel natio luogo 
alla cura degl'interessi agrarii, a lui convenne 
recarsi nella capitale della Grecia. 

Or^io recossi in Atene nel 709 di Roma, 
cioè di età di circa vepti anni, insieme a bi- 
bulo, . ^ Valerio Messala, al figlio di Cice^-one 
e. fid, filtri giovani appartenenti alle ,migli9ri 
famiglie di Roma. 

Er^ quindi in compagnia onorevolissima 



( 36 )»- 



ed oltremodo lusinghiera, e ad altro, più che 
alle sue ricchezze avite, devesi attribuire tale 
dispendio per bene educarsi; poiché quel viag- 
gio ed il soggiorno in Grecia in quel tempo 
era insostenibile da chi poco possedeva, così 
che Cicerone, in una sua lettera ad Attico, 
scriveva che la spesa annuale per mantenere 
suo figlio in Atene ammontavagli all'ingente 
somma di ottantamila sesterzi , cioè a circa 
sedicimila lire di nostra moneta, secondo il 
computo di M. N. Bouillet. Si deve attribuire 
adunque piuttosto ad una particolare consi- 
derazione che si ebbe dai suoi maestri pel 
suo ingegno meraviglioso, ed alla sua attitu- 
dine e piacevolezza. 

Atene non valeva certo Roma, caput mun- 
di, ma dopo Roma era la più magnifica città 
della vecchia Europa in quel tempo, e per 
r arte e per le scienze bisognava assegnarle 
pure il primato. Atene, prima del tempo in 
cui visse Orazio, fu realmente una potente 
rivale di Roma. Ma Siila, poco prima che 
Orazio nascesse, laveva già doma ed aggio- 
gata al carro della potenza romana. Mitridate 
era stato disfatto, ed Archelao, suo primo con- 



-«( 37 )»- 

dottiero in Grecia, aveva assaporato quanto 
valide fossero le schiere col vessillo emble- 
matico deir aquila vittoriosa. Ad Atene restò 
dell'antica grandezza solo quella che venivale 
dalle arti belle e dalle scienze filosofiche. Le 
quali possanze sono più adamantine delle 
prezzolate aste guerriere. I potenti, lussuriosi 
e molli romani venivano a ritemprarsi V ani- 
mo in Atene come in un luogo sacro. 

Già circa quattrocento anni prima di Cri- 
sto, Platone aveva ideato quelle celebri ac- 
colte di filosofi, che nel giardino di Academo 
coltivavano con fervore religioso la scienza, 
e ne propalavano con apostolato meravi- 
glioso i progressi. Atene vantava Speusippo, 
Senocrate, Palemone, e nel seguirsi delle 
età Argesilao, Cameade, Zenone, Aristippo, 
Filone, ed Antioco di Ascalonia, che fé* driz- 
zar le orecchie al grande aquinate, siccome 
al ricchissimo Lucullo ed al fiero Bruto I 

A cosiffatte palestre s'adusò Orazio. Alle 
dottrine di tali sommi attinse le sue massi- 
me, la sua fede, il suo ideale. 

E da tali forti ingegni venutigli trasfusi i 
sistemi di Democrito e di Epicuro, sceveran- 



done la bruttura degli eccessi, se ne valse per 
sistema di vita e per regola della sua csi*^ 
stenza. Né dee credersi che Orazio sorbisse 
tali dottrine, siccome sogliono oggidì sor- 
birsi da taluni quelle demagogiche o dei se- 
guaci del socialismo, cioè senza freno e senea 
ponderazione, la qua! cosa importa ohe si 
rendano travisate e malvage, mentre in realtà 
conservano in loro stesse grande essenza di 
moralità. E se ben si considerano le vicende 
della vita di Orazio, e quello che egli stesso 
ne scrive ed inculca, quel suo seguire il si- 
stema d'Epicuro, ed il dirsene con frase tri- 
viale porcello con cotenna lucente della sua 
mandria, deve intendersi nel senso che il filo* 
sofr) francese Pietro Gassendi, nella sua^opera 
De vita et moribus Epicuri, ed anche più 
diffusamente nell'altra Syntagma filosopkiae 
Epicuri, indicava; cioè doversi alludere al- 
l'insieme della morale epicurea, che.detta.il 
piacere essere il sovrano bene dell' uomo 
quaggiù, e savio il cercare ogni mezzo. per ot- 
tenerlo allorché è onesto. E che per piacere 
non debbano intendersi solamente quelli idei 
senso, bensì quelli dell'animo. Edinvero,'Che 



il creato dall' onnipossente mano offra tanto 
solletico ai sensi ed offra pure tante svariate 
forme di piaceri da ricreare il corpo e lo spi- 
rito, è pure massima cristiana; derivandone 
da ciò quel risollevare l'animo riconoscente 
dell'uomo verso il creatore di siffatte peregri- 
ne bellezze e magnificenze. I piaceri dei sensi, 
che oggi, con le leggi divine del Vangelo, re- 
stano rinserrati in limiti minimi, ma pure 
esistenti, in tempi mitologici, siccome pel 
dettame di altre religioni che contano ancora 
numerosissimi adepti, erano fonte di beneme- 
renze, di olocausti, di premio. Non per nulla 
UKia dea fu detta Venere, e le si ergeano tem- 
pli e le si dedicavano misteriose funzioni e 
riti che oggi susciterebbero scandalo inaudito. 
Siccome io ho luculentemente dimostrato 
nella definizione etimologica di Venusia, '7) 
la Sicca Veneria è di origine caldaica, ed 
in Caldea solevasi alla colomba mistica er- 
.gere altari , donde il Succoth - Benoth , e le 
si sagrificavano vittime; ciò che vien indicato 
nel secondo libro de' Re nella Bibbia. E Ve- 
nosa discende in diretta linea da quella gente 
babilonese ; da essa prese il nome (Benoth- 



-«( 40 ) 



Benotsa- Venosa), ne conservò attraverso i se- 
coli taluni riti e costumi, ed ebbe da.essa in- 
generato arcanamente quell'istinto sensuale 
che controdistinse poi i suoi più celebri con- 
cittadini. L' impudicizia di Orazio è frutto 
della sua religione, è frutto delle massime di 
Epicuro, è vero : ma è pur vero che frutto 
delle massime di Epicuro furono la sua spec- 
chiata moralità nella vita sociale, la sua so- 
brietà, la sua modestia tra gli uguali, la sua 
saviezza estrinsecata in ciascuna parte del suo 
eterno lavoro, la sua prontezza a sferzare gli 
uomini che sotto il mantello di vita immaco- 
lata covano animo di gente perversa, di lupi 
rapaci, di volgo profano ! Il culto pei Ligu- 
rini, r addimostrarsi ambidestro, nel senso 
voluto da Montaigne, come attesta Gargallo, 
si deve, come ben osservano dotti 'scrittori 
(e diffusamente il barone Walckenaér nella 
sua splendida e dottissima opera Histoire de 
la vie et des poésies d Horace)^ all' andazzo 
romano, che di tal vituperio non si faceva 
scorno, anzi fuwi chi pubblicamente ne trae- 
va vanto. Riesce quindi incontrastabile che 
tre fatti essenziali costituiscono la base del 



sistema di vita di Orazio: l'odio sordo ed in- 
nato trasfusogli dal genitore liberto verso 
quelli che volevano sopraffare gli altri della 
stessa specie; le massime filosofiche di Epi- 
curo che gli vennero imbevute nella sua di- 
mora in Atene; Tesser nato in Venosa (chec- 
ché voglia dirsene circa la sua origine roma- 
na) essendo Venosa la città della Succoth- 
Benoth, come si accennò, avvalorando tale 
mia idea il parere di autorevoli uomini e ri- 
cavandola da documenti antichi. La voluttà 
che gì' infuse nel sangue l'aura venosina 
venne fecondata ed ingigantita dalle massime 
di Epicuro, l'odio istillatogli dal padre li- 
berto venne cementato dalle arringhe dema- 
gogiche di Bruto. 

Orazio conobbe Bruto in Atene, e si asse- 
risce senza ponderazione averlo seguito da 
Roma tra lo stuolo dei repubblicani fuggia- 
schi e decisi a guerreggiare in lontane re- 
gioni. Orazio del suo soggiorno in Atene 
non offre nei suoi canti notizie chiare e no- 
tevoli : fa però comprendere che si trattenne 
in quella città e si portò in essa pel solo fine 
di perfezionarsi nelle lettere e nelle scienze. 



( 42 ) 



Erano con lui, come si accennò, il figliuolo di 
Cicerone ed altri giovani baldi e magnanimi, 
siccome eravi pure una schiuma di spudorata 
gente raccogliticcia che Bruto imperatore tra- 
scinava seco per formar masse, e poter lot- 
tare anche per forza numerica preponderante 
con gli Ottaviani e con quelli di Antonio. 
Orazio aveva superato appena i venti anni. 
Non era esperto nella milizia. Era in quel 
tempo delicato e poco appariscente ; era ti- 
mido e niente atto all'arte tribunizia soste- 
nuta colla parola veemente. Con tutto ciò si 
ebbe il comando di una colonna di armati : 
lo si creò tribuno militare. Sei erano i tribuni 
militari che comandavano la legione romana 
nel regime repubblicano, alternando ogni 
due mesi il comando, al dir di Polibio, di 
Tito Livio e di altri scrittori latini. Orazio 
quindi potè trarre vanto con Mecenate, allor- 
ché ne divenne confidente, di aver coman- 
data un' intiera legione, più che seimila 
tra fanti e cavalieri. Cicerone chiamò il tri- 
bunato militare una magistratura, stantechè 
soleano i tribuni nelle legioni far da giudici. 
Dovette ad Orazio accordarsi tale onorifi- 



cenza all'essere in fama di dotto; ed è logico 
che l'acuta visione della mente e T ingegno 
pronto sanno avvalersi od inventare quelle 
finzioni strategiche che il più delle volte se- 
gnano il destino delle battaglie. 




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IV. 

REUCTA NON BENE PARMULA.. 



I ELLE ampie pianure della Macedo- 
nia eransi radunate le schiere di 
Bruto e di Cassio. In una notte dell'au- 
tunno del 712 di Roma, notte oscura e 
profonda, la pioggia scrosciava violenta 
sulle mal difese tende. Bruto stanco e 
spossato, ma non vinto dalle fatiche del cam- 
po (allora più che nelle mischie odierne mi- 
liti e duci soffrivano ugualmente privazioni, 
disagi e miserie), era assopito; allorché un 



rumore strano, uno schianto malaugurato lo 
scossero. Era tuono ? Era fulmine che Giove 
gli faceva balenar sul capo per incenerirlo? 
Il suo animo macchiato di non poche scelle- 
ratezze, prima tra le quali il vile e nefando 
parricidio, benché baldo ed impavido, restò 
spaventato. Ma non era che l'apparizione di 
uno spettro dall'occhio troculento, dal cipi- 
glio minaccioso. Ed avendo Bruto, esterre- 
fatto ed impugnando la spada, dimandato chi 
mai esso fosse. . . . (( Il tuo genio maligno, 
ci rivedremo a Filippi I » rispose, e scompar- 
ve fra gli scrosci del temporale nell' oscurità 
della notte. Bruto corsegli dietro, ma invano. 
Rientrò nella tenda affranto. La terribile vi- 
sione lo tenne desto e per molti giorni lo tor- 
mentò e lo afflisse. 

Allorché i congiurati ebbero pugnalato 
Cesare con inaudito tradimento, Marco An- 
tonio signoreggiò sui Romani. Ma Ottaviano, 
nipote del grande ucciso, ed Emilio Lepido, 
maestro della cavalleria sotto la dittatura, do- 
po sanguinosa messe dei cittadini devoti alla 
repubblica, tra i quali Marco Tullio, forma- 
rono, riunitisi in accordo scellerato con An- 



^( 47 )»- 

tonio, che tutto per se avrebbe voluto Tìm- 
perio, quel novello triunvìrato. Le angarie, 
le denunzie , le vendette , gli eccidii furono 
inauditi e feroci. I figliuoli stessi non perdo- 
navano ai loro genitori. Lepido consegnò 
alla vendetta di Antonio Suo fratello Paolo: 
riproduzione del delitto di Caino. Si figuri 
ognuno se gli schiavi, ai quali si promettea 
la libertà come compenso, non dovessero de- 
nunziare per la proscrizione e per lo stermi- 
nio i loro odiati padroni I 

Domata così V insurrezione in Roma , le 
schiere di Antonio e del giovane Ottaviano 
(il quale vinto da giusto sdegno, veniva tor- 
mentato dal desiderio di vendicare la morte 
di Cesare, ed ardeagli in petto la bramosia 
di poter lui ottenere quello che a Cesare ven- 
ne negato dalla sorte) volsero a perseguitare 
Bruto e Cassio , che in Grecia eransi rifugiati, 
seguiti da molti altri romani e da molta gio- 
ventù studiosa che popolava Atene , atten- 
dendo la riscossa. Erano Cassio e Bruto a 
venir a fatti d' armi per riprendere il soprav- 
vento, e ridare, secondo essi asserivano, la 
libertà a Roma , ripristinando la repubblica. 



e regalando alla patria la loro stessa persona, 
forse per divenire anche essi tiranni come 
quelli che volevano scacciare. Ed allo stuolo 
degli armati per terra contrapposero navigli 
poderosi in molti luoghi e maggiormente nel 
Mar di Corinto, ed erano a sufficienza prov- 
veduti di vettovaglie, danari, munizioni, e 
quel che più monta di entusiasmo, fierezza e 
noncuranza della vita, credendo molti di essi 
pugnare per una causa nobilissima. E tale 
infatti sarebbe stata, se si fosse trattato di ab- 
battere la tirannia, e far ottenere la libertà 
agli oppressi! Con tali procedimenti esser 
dovea non dubbia la sorte delle battaglie, e 
aggiunger si deve che doveansi misurare in 
luogo già da essi esplorato, e dove avean 
fatto lunga dimora: mentre che gli eserciti di 
Antonio ed Ottaviano erano in buona parte 
prezzolati e venivano da lontani lidi all' as- 
salto. 

Come dissi, la visione nella notte memo- 
rabile conturbò Bruto assai , sembrandogli 
tristissimo presagio. Cassio invano V andava 
confortando neir ora suprema della mischia, 
dicendogli che sempre per essi dovesse que- 



sta riuscir favorevole. Perchè se vincitori pur 
non fossero stati ed invece vinti, avrebbero 
sacrificato la loro vita alla libertà, ed il loro 
sangue avrebbe fruttificato, creando altro ger- 
me di eroi più destri e fortunati. 

Orazio comandava appunto una legione, 
come si accennò. Era tribuno nell'esercito di 
Bruto. Per quanto fosse stato seguace della 
pace e dedito solo ai tranquilli studii, non 
potette restar sordo alle concioni splendide 
del suo duce supremo, che armonizzavano 
colle sue idee di vera libertà, non di scom- 
posta e mal celata licenza e cupidigia di po- 
tere. L'entusiasmo l'invadeva: figlio di schia- 
vo, aborrente dalle dittature e dalle mollezze 
patrizie, egli aspettava l'occasione di vedersi 
di fronte, armata mano, ai potenti pieni di 
albagia e di orgoglio. 

Le prime avvisaglie furono favorevoli ai 
repubblicani, anzi ad essi tutto arrideva. Bruto 
vinse i Cesariani, e ne fé' strage. Le triremi 
romane vennero sconfitte dalle navi degli av- 
versari. Ma Cassio venne disfatto. I seguaci 
di Marco Antonio ne sconfissero con inaudita 
vittoria r armata; e Cassio stesso, secondo 

7 



^ 50 )»- 

che aveva promesso, volle sacrificarsi alla li- 
bertà. Si fé' recidere il capo (incredibile prova 
di fierezza) da un littore. Tanto potente era in 
quei petti il sentimento della libertà e del- 
l' amore della patria, oppure della simulata 
ambizione debellata, ciò che è più certo e ve- 
rosimile per molti di essi. 

La sconfitta di Cassio giunse fulminea ed 
inaspettata nel campo di Bruto. Lacerossi le 
vesti, strappossi i capelli, impallidì per ver- 
gogna e per paura. Il pugnale che ferì Ce- 
sare pendevagli sul capo come la spada di 
Damocle. Sentivasi il collo punzecchiato da 
esso, e ne smaniava. Quel ferro lo sentiva 
nelle carni; era roso sin nelle viscere, lui par- 
ricida I Si vide perduto sebben vincitore. Nel- 
la notte precedente alla battaglia decisiva 
della sorte delle sue genti nelle pianure di 
Filippi, rivide tra le angosce e lo spavento 
lo spettro minaccioso che gli avea prodotto 
tanto rovello. Si ricordò della minaccia già fat- 
tagli: (( Ci rivedremo a Filippi I » Sembrò ine- 
betito: non si mosse dal luogo ove giacca. 
Imprecò solo al destino con quelle parole 
sacrileghe: Virtus nomen inane estl 



Ma a qual sorta di virtù egli alludeva ? 

Albeggiava ! Era il 23 settembre, 42 anni 
prima dglla venuta di Cristo. Le milizie riunite 
di Antonio e di Ottaviano scagliaronsi impe- 
tuose sulle spaventate schiere di Bruto. Ne 
fecero aspra ragione. Il terreno era rosso del 
sangue degli accaniti e rabbiosi repubblicani. 
Molti fuggirono, anzi maggiore fu il numero 
di quelli che visto il certo massacro (e tra essi 
eravi Orazio) disertarono dal campo, e, ramin- 
gando, sbandaronsi. Si narra che Bruto, fattasi 
tener ferma la spada dal suo liberto Stratone, 
si gettasse velocissimo su di essa, e ne avesse 
così trapassato il corpo. Questa fu la fine di 
Bruto imperatore I Questa la sorte della bat- 
taglia di Filippi, che si combattea da molti pel 
nobile fine di trarre Roma dal giogo del di- 
spotismo e degli ambiziosi ! 

Plutarco, nella vita di Bruto, sostiene che 
a Bruto ed a Cassio la città di Atene propose 
si elevassero delle statue di bronzo I Si crede- 
vano eroi. Si narra pure che Porcia, figlia di 
Catone e moglie di Bruto, allorché seppe la 
fine eroica di questo non volle sopravviver- 
gli. Volle morire anch'essa con eroismo inau- 



-< 52 in- 
dite, ingoiando fieramente carboni ardenti ! 
Antonio volle in Roma la testa di Bruto. La 
fé' porre a pie della statua di Cesare, del pa- 
dre tradito. Tristissimo appare Bruto, perchè 
si avvalse del pugnale e della guerra civile per 
ottenere il suo intento, per far valere il suo 
ideale o forse per ambizione sorda e sete di 
dominio, sete per lo più comune a tutti quelli 
che agiscono pel proprio interesse, non per 
quello comune. Triste riesce altresì Ottavia- 
no, che, dissimulatore esimio ( ed anche co- 
dardo, perchè non comparve sul campo a pu- 
gnare coi suoi soldati), dopo le stragi e le 
rovine del triunvirato, scendeva in lizza per 
procurarsi l'imperio e per asservire i romani. 
E tra tanto vituperio il savio venosino, vero 
seguace dei precetti di Platone, di Democrito 
ed Epicuro, pensò seguire la maggior parte 
dei combattitori sventurati, e con essi a salva- 
mento ritrarsi, niente però impaurito delle 
conseguenze di quegli avvenimenti: perchè, 
lo cantò egli stesso con versi divini: 

Egli è pur dolce ed onorata sorte 

Per la patria morir 

Non popolo furente 
Di colpe istigatore non fier cipiglio 



( 53 ;»- 



Di tiranno 

può il giusto in sua sentenza invitto 

Scuoter giammai dal fermo suo consigli j; 

Con impavido ciglio 

Se de teiere spere in pezzi infrante 

L'alta compage piombi 

Sotto il suo minar fia che s* intombi. «7) 

Eppoi Orazio era un essere sacro protetto 
dai celesti, e lo sentiva, e lo scrisse a Pompeo 
Grofo, suo infelice commilitone: 

Teco provai guai fosse 

Filippi 

Quando ogni ardir si tacque, 

E 7 folle orgoglio fra la polve giacque. 

Me di dense aere cinse 

Tremante e tolse altoste agii Cillenio, 

Me difendono 

/ numi; ai numi sono 

Care la mia pleiade e la mia musa, i8) 

È parere quasi comune di pressoché tutti i 
comentatori, chiosatori di Orazio, che il re- 
lieta non beneparmula oraziano si debba al- 
ludere alla sorte toccata all'esercito raccogli- 
ticcio di Bruto, ed alla sua rotta disastrosa, 
non alla persona di Orazio che certamente 
non era in realtà, né si sarebbe svelato vi- 
gliacco ai suoi novelli protettori nemici di 



( 54 ) 



Bruto! Anzi l'accennare allo scacco subito 
dalle armi di Bruto solleticar dovea le orec- 
chie così delicate di Augusto e farne meglio 
rilucere la vittoria ! E già dopo la battaglia 
di Parsala, Bruto stesso, in luogo di sagrifi- 
carsi, cercò, ma invano, riconciliarsi con Ce- 
sare ! Taluni sono eroi per necessità o per 
forza maggiore; o spinti da una forza arcana 
e superiore, come il grande Napoleone. 

Tutti sono sepolti nelF oblio i morti di Fi- 
lippi. Orazio spento, si sarebbe spenta quella 
che Giovenale disse nella sua prima satira : 
Lucerna venosma, che illuminar doveva il 
mondo. 




DOPO LA TEMPESTA 



Po»«ti 


paon 

ri. 

(cgoa 

xo uà 


> umU, privo del tetto 
«npic.1, eha Bud«t 

■ var»(EUr bnpuko 

. SctDW col cV»l. 


Io rad<, 
Ven. d' 
Ha ti ri 


bi; rr'^ ^ 


MOrtlt. 



I accennò nei precedenti capitoli come 
Orazio venne ancora adolescente con- 
dotto dal padre in Roma, perchè, fornita 
la sua famiglia di sufficienti mezzi di for- 
tuna, potesse evitare i frizzi e gli scherni 
di quei nobili venosini, che forse scor- 
gendo in lui una superiorità di talento ed 
un' intelligenza precoce e non comune, l' in- 
vidiavano e gli rinfacciavano la vile nascita e 



•^( 56 )»- 

la permanenza in una bottega di basso com- 
merciante di salumi. 

Ed Orazio venuto in Roma ebbe un lampo 
di stolido orgoglio e pavoneggiavasi veden- 
dosi coperto di vesti di porpora, seguito dal 
liberto, che scusavagli il servitore, e sedendo 
sulle stesse scranne coi superbi figliuoli dei 
senatori e patrizii romani, che ignari del suo 
nascimento e lusingati da ingannevole appa- 
renza esterna, non disdegnarono di amicar- 
selo. E forse su quelle stesse scranne sedet- 
tero con lui Vario, Virgilio, Tibullo, Pro- 
perzio ed altri, che gli restarono amici e lo 
aiutarono nelle avversità. Horrea formicae 
tendunt manta nunquam: diceva lo sven- 
turato esule del Ponto, Ovidio, che sincera- 
mente ammirò e lodò il Venosino, soggiun- 
gendo poi: Si tempora fuerint nubila, solus 
crisi Orazio in fama di ricco e benestante 
avea trovato amici e favori. La procella della 
disfatta dellesercito di Bruto pose il poeta 
nella condizione di desiderare, negletto da 
tutti, i mezzi di sussistenza pur costretto a 
salir le altrui scale. È questa la solita condi- 
zione dei disgraziati nella commedia umana. 



Se per potenza di ricchezza o per capriccio di 
fortuna, intorno al nome di un qualsivoglia 
individuo, sia pur mediocre, si disegna l'au- 
reola della fama, egli vede raggrupparglisi in- 
torno uno sciame di adulatori, di parassiti e di 
fronti curve. Se fato avverso lo copre, resta 
solo, avvilito, dimenticato; ed è raro che trovi 
una mano amica che lo tragga dalle onde in- 
fide alla riva. Il genio solo si estolle sempre, 
e grandeggia pure nella sventura e tra i sog- 
ghigni deirinvido volgo ! 

Orazio, con molti suoi commilitoni, sban- 
dossi dopo la battaglia di Filippi e la morte 
di Bruto, e se ne venne con grandi rischi e 
pericoli in Italia. Giunto appena a Brindisi si 
rifugiò in Venosa sua patria, come luogo più 
prossimo al punto di sbarco sulla via di 
Roma, '^^ e che non avea riveduto da che 
era giovanetto. Credeva ritrovarvi l'agiatezza 
antica. Ma rinvenne invece squallore, mise- 
ria, pianto. 

Riferisce Appiano che Venosa venne scelta 
per divenire una colonia, da dividersi ai sol- 
dati vincitori, come terra conquistata sopra 
gente nemica. Tutto era stato confiscato a 

8 



-^( 58 )»- 

quelli che si credevano partigiani della re- 
pubblica di Bruto e di Cassio. 

Il campicello di Orazio, situato nelle ame- 
nissime campagne che cingono da lungi il 
Vulture, dove il nume tutelare lo aveva pre- 
servato dal veleno del serpe, la casetta dove 
aveva dormito i sonni dell'infanzia felice sul 
seno della nutrice venosina, e dove nei suoi 
primi anni aveva imparato ad amare la vita 
campestre, ed ogni benché minimo vesti- 
gio di ricchezza dei suoi parenti era sparito. 
Suo padre stesso, sopraffatto dalla sciagura, 
erasi spento. Il ricordo di Ofello lo ricon- 
fortò: e con l'animo affranto, ma sempre im- 
pavido, fuggì quel suolo sciagurato, e seb- 
bene profugo ed a malincuore (stante che l'in- 
golfarsi nella vita romana potea riuscire fa- 
tale a lui considerato nemico dei vincitori), 
senza però imprecare né al destino né agli 
autori di quelle esose misure di proscrizioni 
e confische. Lo stoicismo lo invadeva e scu- 
savagli il conforto della religione 1 

Cominciava intanto il Venosino a veder 
più chiaro nel mondo politico di quel tempo. 

La repubblica ideale, alla quale anelavano 



gli amanti della vera libertà, gli sembrò un 
sogno ineffettuabile, scorgendo che manca- 
vano la morigeratezza, l'ordine, la giusta fede 
negli dei e nella religione. Molti dei sedi- 
centi repubblicani eran peggiori dei seguaci 
del dittatore. Ottaviano valeva Bruto. Già 
Antonio era corso a soggiogare i Parti che 
incitati da un legato di Bruto eransi ribellati: 
ma per fatalità strana, cominciò a restar egli 
stesso soggiogato dai vezzi e dalle moine 
della proterva Cleopatra. 

Ottaviano coadiuvato dal ferreo Agrippa 
aveva debellato Pompeo. Il suo astro comin- 
ciava a brillare di una luce sfolgorante. Git- 
tava le saldissime basi della monarchia. Non 
aveva ancora il suo fulgore fugate le tenebre 
fitte delle intestine gare e discordie e delle 
guerre civili e dei partiti rivoluzionarii nel 
vastissimo impero. Né avea cominciato a 
dimostrare lucidamente che la sovranità mo- 
narchica, quando e retta da mente elevata e 
forte, suole sempre sovrabbondare di van- 
taggi straordinarii, più che nei governi retti 
da moltiplici duci : siccome il cavallo che 
morde il freno, e che venendo guidato da 



(6o) 



una sola mano perita e vigorosa obbedisce e 
si abbella più che se viene spinto a manca, a 
dritta ed a rovescio da molte redini fiacche 
ed impotenti. Orazio povero, proscritto, senza 
amicizia di potenti, col marchio indelebile di 
figliuol di schiavo, senza la guida del padre, 
che, come sovente egli stesso scrisse, lo avea 
preservato in tempi difficili da pericoli e dan- 
ni, non ritrovò altro aiuto che nello stilo e 
nelle tavolette ! Apollo, Mercurio, un iddio 
qualsiasi, il suo genio lo salvarono. Orazio 
cominciò a dettare le sue immortali poesie. 
Vuoisi dalla maggior parte degli scoliasti 
e comentatori e biografi di Orazio che la sua 
prima poesia fosse la settima satira del primo 
libro che oggi si conosce, nella quale sferza 
uno dei nemici suoi acerrimi, un tale Rupilio, 
cognominato Re. Era Rupilio un cavaliere 
romano nato in Preneste, che infingendosi ar- 
dente repubblicano, ed arrolatosi nelle schie- 
re di Bruto, militò sotto il comando di Orazio 
tribuno della legione. Mal soffriva il milite 
(che era invero di sangue nobile) che un fi- 
gliuol di schiavo, il giovine Fiacco, lo supe- 
rasse in grado. Soleva nei tempi perigliosi 



-«( 6i )j^ 

della mischia molestarlo con frizzi e dispetti 
accaniti, e con lui s'univano altri invidi suoi 
amici. Ritornarono a rivedersi in Roma, e 
colpita Orazio V occasione di una certa lite 
tra costui ed un tal Perseo, gli scaraventò 
furioso la freccia satirica, che termina con 
un' esclamazione di Perseo che bastò a far le 
vendette: 

Pei sommi Numi, esclama, e tu, che suoli 
Esterminare i re, Bruto, ti prego: 
Deh ! questo re perchè non strozzi ? Impresa 
Mal credi pur degna d* un Bruto è questa. 20) 

Ed in tal modo Orazio soleva stropicciare 
ben bene con italo aceto ( italus perfusus 
aceto ) i suoi invidiosi nemici, che non man- 
cano mai agli uomini, ma che sovrabbondano 
ai sommi; anzi, come serpi che strisciano in 
basso, tentano mordere il gigante che son- 
necchia, e talora l'avvelenano; ma desto lo 
temono, lo fuggono, e ne lasciano col capo 
le lingue trisulche schiacciate sotto il forte 
tallone. 

Orazio doveva avere ben marcate sul cra- 
nio la ventesimaseconda e ventesimaterza 
delle facoltà fondamentali del sistema di 



-«( 62 )j^ 

Gali : cioè lo spirito caustico ed umoristico, 
ed il talento poetico. ^*) Le satire furono 
le sue prime giostre che ne rilevarono V in- 
gegno, e ad esse aggiunse i lirici slanci delle 
prime odi. 

Abbenchè non sia bene stabilito precisa- 
mente quando Orazio abbia composta la bel- 
lissima ode alla nave, e per essa alla repub- 
blica, siccome sostengono il Cesarotti, il 
Walckenaèr, ed altri molti, io penso che si 
possa questa assegnare ai primi fulgori della 
sua mente, ai primi tocchi della sua lira. La 
compose quando occupato in Roma a ricer- 
care un impiego, che ottenne, e conoscendo 
Vario e Virgilio, sentivasi quasi certo di 
un'esistenza meno travagliata, accennando ai 
rischi che correvano altri suoi amici meno 
chiaroveggenti che volean ritentare la sorte 
imbarcandosi ed assoldandosi con qualche 
postumo seguace di Bruto. 

L'allegoria della repubblica raffigurata nel- 
la nave, si chiarisce non poco pensando allo 
stato di Roma nel seguirsi delle vittorie di 
Ottaviano dopo la battaglia di Filippi e della 
pubblica quiete che timidamente cominciava 



( 63 )) 



a mostrarsi. La repubblica si annegava. Ora- 
zio nell'ode suddetta dice: 

Di gomene già priva la carena, 

Al nuovo infuriar delt onda negra 

non piti regge o regger puote appena 



Ma ai moltiplici suoi detrattori ed invidi 
nemici fecero contrasto due sommi poeti, che 
forse risowenendosi degli studii fatti in sua 
compagnia, oppure attratti dalla fama del suo 
ingegno, presero ad amarlo e proteggerlo: 
Vario e Virgilio. 

Quintilio Vario (che non deve esser colui 
di cui Weichert ha scritto un cenno biografico 
col titolo: L. Varii vita et carmina, che molti 
confondono con Quintilio Vario, ma che no- 
mavasi Lucio) vuoisi da molti, e la cronaca 
di Eusebio sostiene, esser di Cremona, com- 
paesano quasi di Virgilio. Fu censore e giu- 
dice di poesie, e poeta insigne. Aveva una 
splendida villa al lato occidentale di Tivoli e 
prossima a quella che doveva formare la de- 
lizia del nostro poeta e le cui vestigia pros- 
sime alla grande magione di Mecenate, sulle 
pendici del monte Pesciavatori, sono visibili, 
e hanno dato \ area ad una chiesa che oggi 



( 64 ) 



nomasi Madonna di Quintiliolo. E pressi m 
ad esse si scorgono i resti della villa dell' a 
tro poeta Tucca, che legato era pure in am 
sta con Vario e con Virgilio ed Orazio. O^ 
gidì si scorge in tal luogo un edifizio rotond 
che pare esser dovea un piccolo Panteon, 
lo si noma tempio della Tosse, corruzione e 
Tucca. Esser dovea Vario quindi ricco e fé 
lice. Virgilio, il grande mantovano le cui ce 
neri posano sulle rive del ridentissimo golf 
partenopeo, a Mergellina, anche lui era stat( 
provato dalle sventure cadendo sotto le mi 
sure rigorose della confisca che ne aggiudica 
vano le vaste proprietà avite ai soldati de 
triunviri. Ma l'amicizia di Polli one e poi d 
Mecenate, amicizia cementata dal suo altissi 
mo ingegno, lo fece rientrare nel dominic 
della sua fortuna. Conservò per tale ricordo 
un cuore riconoscente e generoso verso i pii 
indigenti e percossi dalla medesima pena 
Amò poi Vario oltremodo: e T ode stupenda 
che gli diresse Orazio, colla quale tende a con 
solarlo della perdita di un così dolce amico 
rende troppo chiaro quanto fossero legat 
fra loro fraternamente quegli altissimi poeti 



-«( 65 )»- 

e quanta parte dovette prendere per proteg- 
gere e giovare allo sventurato e povero ve- 
nosino. 

Orazio dal suo canto non cessava di scri- 
vere in favore dei repubblicani, veri amanti 
di libertà, a rischio di perdersi, e sferzava 
atrocemente i cortigiani vilissimi di Ottavia- 
no, non osando di scrivere contro questo 
stesso, sia per giusta prudenza, sia perchè 
scorgeva in lui una qualche speranza di be- 
nefizio e di utile ai Romani e non comune va- 
lentia, sinché poi, come dirassi in appresso, 
lo innalzò alle stelle, scorgendo nel monarca, 
padre della patria, un uomo sommo. Galba, 
Crispo Sallustio, Cupennio Cumano, Tigel- 
lio ed altri, ebbero da lui fiere rampogne ed 
ammonimenti dettati da politici scopi e da 
sensi di alta moralità. Lo stesso Mecenate, 
al dir del dottissimo Weichert, prima che 
fosse divenuto suo amico, provò il sale ora- 
ziano, rimbrottandogli sotto il nomignolo di 
Malchino la sua effeminatezza , V esuberante 
prodigalità e Tesser troppo ligio alla tirannia. 
Orazio non risparmiava alcuno quando non 
vedeva chiara e netta l'illibatezza dei costumi. 

9 



(66) 



Svetonio, il solo antico biografo dì Grazie 
dice che egli comprò un ufficio di scriba ali 
questura di Roma, ed Orazio stesso lo ac 
cenna nelle sue epistole. L' acquisto fu fatt< 
dai suoi risparmi, dalla generosità dei sud 
detti suoi amici, oppure ebbe queir impiego 
quale retribuzione del posto di tribuno ch( 
aveva perduto ? 

È quello che non può asserirsi con preci 
sione. Il certo si è che V impiego di scriba, 
per quanto onorifico si fosse, non potea pa- 
ragonarsi a quello d' un comandante di una 
legione di seimila fanti e quattrocentocin- 
quanta cavalli, cioè ad un tribuno militare. 

Eranvi presso i romani diverse specie 
di cariche onorifiche, il cui titolare diceasi 
scriba, fra gli altri gli scribi edilizii. In una 
iscrizione, scopertasi in Napoli nel 1891, pres- 
so la Porta Nolana, per gli scavi nei lavori 
del risanamento, si narra che nel 14 settem- 
bre 71, essendo consoli L. Acilio Strabene e 
S. Neranio Capito, il consiglio comunale 
di Napoli, preseduto da Giulio Liviano, 
propose accordare onori funebri al defunto 
P. Plozio Faustino, scriba edilizio, che corri- 



-«( 67 )»- 

sponde oggi a segretario del municipio. La 
qualità dell' uffizio ammetteva che i funerali 
si facessero a pubbliche spese, siccome con 
pubblico danaro si acquistasse il luogo della 
sepoltura ed una quantità di profumi; ed il 
luogo scelto fu presso l'attuale Porta Nolana. 
I Napolitani erano ascritti alla tribù Marcia, 
mentre il Plozio, non napolitano, ed appar- 
tenente ad altra tribù, non avrebbe potuto ot- 
tener tali concessioni se non per l'importanza 
della carica che si designava: Scriba publicus 
Neapolitanorum aedilicius, segretario degli 
edili: per distinguerlo dagli scribi reipublicae 
Neapolitanorum cioè dagli scr^i officiaUs e 
quelli honorati. 

Appare chiaro però da novelle e precise in- 
vestigazioni fatte in questi ultimi anni da 
chiarissimi illustratori di Orazio, che inten- 
der si debba l' uffizio di scriba occupato dal 
poeta esser quello accennato da Cicerone 
nel terzo libro De natura deorum, quando 
parla del falsario Aleno, che contraffaceva le 
firme di coloro che diceansi scribae quaesto- 
rii sexprimi. La quale firma dava ai docu- 
menti pubblici la necessaria autenticità; per- 



( 68 >•- 



che, essendo gli scribi addetti al contenziose 
amministrativo, od alla pubblica contabilità, 
formavano un' autorità speciale, siccome la 
Gran Corte dei Conti dei nostri giorni. Essi 
formavano un collegio a parte e la carica era 
vitalizia ed inamovibile. 

Dalle antiche iscrizioni scoperte in Tivoli, 
e presso la via Nomentana in Roma nei pri- 
mi anni del secolo decimonono, come da altre 
che vennero con esattezza riportate e com- 
mentate dal Gruter, da Fabretto, da Donati, 
da Tommaso Reinesius, nella sua Syntagma 
inscriptionum, da Creili, da Mommsen, e da 
Visconti, si rileva appunto l'importanza del- 
Tuffizio di scriba. 

Hawene una di un Tito Sabidio Massimo, 
scriba della questura, ed appartenente al sur- 
referito collegio, al quale i Tiburtini innalza- 
rono un monumento in riconoscenza dell'alta 
protezione accordata da lui a questa città: 

T. Sabidio T. F. Pal. Maximo Scribae. 

Q. SEX. Prim. Bis. Praef. Fabrum. Pontifici. 

Salio. Curatori Fani Herculis. 

Tribuno. Aquarum. Q. Q. Patrono, Municipii. 

Locus Sepulturae. Datus, 



•^( 69 )»- 

VOLUNTATE. POPULI. DECRETO. SeNATUS. 

TlBURTIUM. 

Siccome quest'altra seguente iscrizione a 
Manio Valerio Basso antico tribuno di legio- 
ne come era stato Orazio, pubblicata nel 1854 
nel Giornale di Roma dal comm. Visconti, 
rende noto che la carica di scriba della que- 
stura soleva assegnarsi alla miglior classe 
dei cittadini, e talvolta solevasi contraccam- 
biare con la carica di tribuno delle milizie, 
acciocché se qualcuno fosse stato esonerato 
o per età o per volontà, trovar potesse un 
appannaggio adeguato al proprio valore, ed 
un meritato guiderdone: 

Man. Valerio. Man. F. Quir. Basso. 

Trib. Mil. Leg. III. Cyrenejae Scrib. Q. VI. 

Primo. Harispic. Maximo. 

Testamento. Fieri. Iussit. Siri Et. 

Fratri. Suo. 
Hs. L. M. N. Arbitratu. Heredum. 

Erroneamente quindi gli antichi interpreti 
della parola scriba e dell' impiego ottenuto 
da Orazio, e molti scoliasti e glossatori e 
biografi attribuirono solo il senso di copia- 



tori di pubblici atti, oppure notai o redatt 
di atti privati, all'ufficio di scriba. 

Tale dignità elevata, ottenuta solo per ii 
pegno di altissimi personaggi, rese ad Oi 
zio più facile V accesso ed il conversare e 
grandi ed i potenti di queir età, come si \ 
drà in appresso. 

U importanza poi di tale impiego ott 
nuto dal poeta si rileva anche da quello ci 
egli stesso scrisse nella satira sesta del libi 
secondo : 

Quinto , 

Ti pregano i notai che non ti scordi 

Di tornar oggi pel noto affare 

Al collegio d* altissima importanza ... 32) 

Anche il Gargallo spiega la parola scribi 
con la voce notato; ma non credo aver voluta 
egli intendere quello che oggidì importa h 
carica di notaio, bensì componente il collegio 
degli scribi questorii suddetti. 

Il sommo poeta trascorse dunque i primi 
anni della sua dimora in Roma tra Toccupa- 
zione che gli offriva tale dignità onorifica e 
lucrativa e tra i diletti della poesia. 

Non può asserirsi con piena conoscenza 
quanto Weichert, uno dei più indefessi il- 



lustratori del poeta, nella sua opera Poe- 
tarum latinorum, vuol sostenere, cioè che 
Orazio avesse solo ventisette anni allorché 
venne presentato a Mecenate, cioè nel 715 
di Roma. La cronologia diventa un mito 
quando si ravvolge in date così lontane e 
senza testimoni oculari. Volendo però se- 
guire tale opinione, adottata pure da Andrea 
Dacier, la presentazione di Orazio a Mece- 
nate successe quattro o cinque anni dopo 
la sua dimora in Roma. E Mecenate, il gran 
protettore degrillustri letterati di quel tempo, 
non lo ammise nella propria corte se non dopo 
averne conosciute le virtù, i pregi dell'animo 
e l'ingegno portentoso, e dopo aver giudicato 
se Vario e Virgilio, che glielo raccomanda- 
rono, avessero imberciato nel segno propo- 
nendolo pel novero dei suoi favoriti, quando 
era a sua conoscenza che Orazio aveva so- 
stenuto la carica di tribuno nelle legioni di 
Bruto, ed era fiero ed ardente repubblicano. 
Riesce quindi logico noverare la satira quarta 
del primo libro di Orazio come scritta poco 
prima che fosse a Mecenate presentato, stante 
che in essa si scusa con quelli che lamenta- 



•^( 72 )»- 

vansi delle sue punture, e gliele rimprove 
vano come poco coerenti per uno che int( 
deva guadagnarsi la stima dei grandi. ] 
egli vuol farsi credere semplice moralista 
filosofo che castiga, ridendo, i costumi, 
perciò egli si esprime presso a poco coi 
Il leggere satire, il veder frizzata la catti 
gente non riesce certo piacevol cosa a colo 
che hanno la coscienza poco monda. Ma e 
è puro ed integro ed onesto, non teme 
scudisciate del poeta, siccome disprezza 
calunnie dei malvagi. Poi non soglio io ai 
dar divulgando le mie composizioni nel 
piazze, nei trivii, nei simposii od anche nel 
accademie. Scrivo per semplice diletto, spini 
da forza arcana e per pura intenzione di ù 
del bene e purgare la società inondata d; 
vampiri, dai viziosi, dagli scelesti, dagVinv 
diosi, dagli scialacquatori di patrimoni eh 
costarono sudori a generazioni di lavorator 
Confesso d' aver anch' io dei difetti; ma ci: 
può mai tacciarmi d'aver tradita l'amicizia 
d'aver calunniato chi merita lode, d'aver 
scemato il merito, anzi non aver abbastanz; 
lodato i cittadini eminenti ed onesti? 



Un uomo che parla così di se stesso me- 
ritava venire annoverato tra quelli la cui ami 
cizia è un guadagno, un pregio, un onore. 

Vario e Virgilio lo presentarono a Me- 
cenate. 




IO 







VI. 

MECENATE 



iur> nurmi; • Kt» pu prtgjo la noa. 

cliL nciFBnlI iDroliJ. poicha ftllm lla^iu 
k ÉufanUl pad or nada td kncluopv. 

Gaxoallo — Trmd. di Oraiìa 



AIO Cilnio Mecenate nacque in 
Arezzo l'anno di Roma 686, e 
68 prima di Cristo, ai 13 d' aprile, 
-■ dalla nobilissima famiglia Cilnia, di- 
ì scendente dai re dell'Etruria, che erano 
quei guerrieri etruschi venuti a soc- 
correre Romolo nella guerra contro i Sabini. 
Nacque tre anni prima di Orazio. Visse i 
primi anni legato di amicìzia col giovane Ot- 




taviano, e fecero insieme gli studii delle h 
tere e delle scienze in Atene. 

Egli pure, seguendo le orme degli avi, 
intrepido guerriero, e seguì sempre il vitt 
rioso Cesare in tutte le battaglie per demoli 
la repubblica e difendere Roma dai nemi 
interni ed esterni. 

Non fu affetto dal morbo dell' ambizion 

Allorché Augusto divenne padrone del v 
stissìmo imperio, a Mecenate vennero ofFei 
i primi onori, i più ampii poteri; ma tutto eg 
rifiutava. Accolse solo le premure di Augusl 
di rappresentarlo quando si allontanava e 
Roma. 

Preferiva il sistema governativo a regim 
monarchico assoluto, piuttosto che quell 
retto a repubblica, e riuscì a far determinar 
col suo savio consiglio Augusto a conservar 
quel potere sovrano che per suoi fini particc 
lari avea deciso abbandonare. Si avvalse dell 
propria influenza, dei suoi disinteressati am 
monimenti e del suo credito per rendere Au 
gusto, imperatore e pontefice, proclive ali 
clemenza ed a far più manifesto il fastigio 
della monarchia. Amante del lusso, egli stes 



( 71 >- 



so spronava Augusto severo, economico e 
restio al grandeggiare, al rendersi sovrano 
per magnificenza e per sublimi intraprese edi- 
lizie e monumentali. 

Sposò Terenzia, donna di grandissima 
bellezza, ma altezzosa ed infedele. La ripudiò: 
ritornò ad essa sommesso: che non hawi 
grande uomo esente da mende , principal- 
mente dipendenti da procacia donnesca. So- 
stenne lotte atroci per dimenticarla, e non ne 
ebbe la forza. U illustre tedesco Meibom ^^^ 
la dipinge nel vero suo aspetto. 

Era scrittore forbito, piacevole ed erudito. 
Compose ( ma non sono giunte fino a noi ) 
una Storia naturale, la Vita di Augusto, e 
diverse tragedie e poesie. 

Possedeva enormi ricchezze, potendo quasi 
competere con Lucullo: largheggiava con ma- 
gnificenza regale. Ma quello che lo rese pro- 
verbiale nei secoli si fu \ aver protetto e be- 
neficato i sommi letterati del suo tempo. 

Virgilio, Vario, Terenzio, Tibullo, Catul- 
lo, Marziale ed il nostro grande poeta furono 
i suoi favoriti. Né la sua protezione si limi- 
tava a piccoli sussidii, ad inviti ai suoi son- 



tuosi conviti od a sterili raccomandazioni 
Bensì soleva rendersi splendido per largi 
zioni tali da bastare ad assicurare l'agiatezze 
per tutta la vita del protetto. Pochi sovran 
si sono succeduti sulla scena del mondo pro- 
dighi come Mecenate, e tanto avveduti nei 
dare ed innalzare chi realmente possedeva 
meriti personali così insigni da immortalare 
il protettore, considerandolo nei frutti del lorc 
ingegno. Solo in questi ultimi anni nelle ro- 
vine di Carseoli nel Lazio si rinvenne un bu- 
sto marmoreo di Mecenate. Le rovine della 
splendida sua villa a Tivoli non sarebbero 
bastate a rischiarare la sua vita e la sua gran- 
dezza senza la Lucerna venosma, che lo ha 
fatto rifulgere di luce splendidissima ed eterna. 
Il vero monumento imperituro a Mecenate 
glielo ha innalzato Orazio Fiacco venosino. 
Virgilio nelle Georgiche così decanta il suo 
insigne protettore: « O Mecenate, o decoro 
nostro e parte massima della nostra fama. » 
Ma Orazio si mostra più virile. Ritiene Me- 
cenate gloria, presidio, sostegno e forte scu- 
do della sua persona; ma non attribuisce a 
lui, bensì al proprio ingegno la propria im- 



-«( 79 )^ 

mortalità. La superbia Oraziana (superbia 
derivante dai meritati allori ) non comportava 
servilità comuni al volgo. 

Poteva forse il ricchissimo aretino forjiir- 
gli una sola favilla di quel genio che il gran 
cittadino di Venosa stesso definì particella di 
aura divina? 

Tutti i tesori di Golconda non equivalgono 
a quegli slanci di lirica sublime che non han- 
no avuto eguale in nessun mortale quaggiù ! 

Come si accennò innanzi, Orazio venne 
presentato a Mecenate mentre vivea occu- 
pato neir ufficio di scriba questorio, e nel 
comporre satire ed altre poesie, che aveano 
già richiamato l'attenzione degli altri eruditi 
del giorno. E ciò dovette succedere neir an- 
no 717 di Roma, cioè avendo egli già sor- 
passato il ventisettesimo anno. Egli stesso 
così descrive questa presentazione: 

r ottimo Virgilio 

Da pria^ poi Vario dissero chi fossi, 

' Né me figliuol di genitor preclaro 
Né me opulento possessor che scorra 
Suoi vasti campi su destrier pugliese^ 
Ma quel eh* io m* era espongo: accenti pochi^ 
Giusta tua usanza^ tu rispondi: io parto. '«) 



( 8o )m^ 



E dice pure: 

Fattomi al tuo cospetto, singhiozzando 
Pochi accenti succiai^ poiché alla lingua 
Era infantil pudor nodo ed inciampo . . . ^s) 

Donde nacque mai in Orazio tanta umiltà 
tanta bonomia e tanta confusione vedendos 
al cospetto dell' erudito e ricchissimo e pò 
tente Mecenate, se non dallo scorgere in lu 
un amico sincero che cordialmente e senzc 
vedute interessate lo proteggeva, e lo 'ponevc 
nel novero dei suoi favoriti, ciò che formava 
l'orgoglio di altri in quel tempo più in fams 
di lui, mentre pel contrario molti altri lo di- 
sprezzavano e lo invidiavano, e per tal fine 
cercavano fargli il maggior danno possibile? 
Aggiunger poi si deve che la magnificenza 
che circondava Mecenate, il suo palagio, la 
fila dei cortigiani che colle teste curve sino 
a toccare le lastre marmoree del pavimento, 
il suo prestigio dovettero colpire Orazio, che, 
per quanto impavido fosse, dovette risentirne 
certamente imbarazzo e confusione. 

Ti è occorso mai, o lettore, di presentarti, 
dopo un' aspettativa lunga ed ansiosa nelle 
anticamere, ad un sovrano? E se sei italiano. 



^( 8i )]»- 

ti trovasti mai alla presenza del gran Re Vit- 
torio Emanuele ? Quella figura atletica, chiu- 
sa nella cornice che cinge i re nelle reggie, 
colla divisa brillante di generale italiano, con 
quelli occhioni vividi e fieri che ti scendeano 
come saette sin nelle intime latebre dell'ani- 
mo, quasi a scrutarne le più riposte idee e 
sentimenti, non ti produsse alcuna emozio- 
ne ? Nulla avvertisti ? E se quel sovrano ti 
avesse di sua mano largita un' alta onorifi- 
cenza, od una lode schietta, non ti hai sentito 
sussultare il cuore di gioia, riconoscenza e 
compiacimento? Se nulla hai provato, dir 
debbo che l'animo tuo è insensibile come pie- 
tra fi-edda di sepolcro! Garibaldi, Cavour, 
Thiers^ lo stesso Bismark ed il grande taci- 
turno tedesco ebbero fieri sussulti dell'animo, 
quando la mano del gran re strinse la loro ! 

Discordanti ben vero appaiono le opinioni 
circa il tempo e l'età nella quale Orazio fu da 
Virgilio e da Vario presentato a Mecenate. 

Molti sostengono (e si riscontra nelle me- 
morie dei suoi moderni biografi) che siffatto 
avvenimento accadde nell'anno 735 o 736 di 
Roma, così che fanno succedere nel 737 il 



II 



•^( 82 )»- 

viaggio di Orazio con Mecenate a Brindisi 
e quindi pochi mesi dopo questa data la pub 
blicazione della satira quinta del libro primo 
che ne descrive facetamente il viaggio , l 
evoluzioni, gì' incontri avvenuti ed altri fat 
terelli piccanti. 

Ma nella Cronologia del Dacier, che devt 
stimarsi la più esatta disposizione degli av 
venimenti e degli anni nei quali Orazio com 
pose le sue poesie, attenendosi ai diversi con- 
solati sotto i quali Orazio accenna scrivere, 
viene indicato il viaggio di Brindisi nel 716, 
od in quel torno di tempo, cioè quando Ora- 
zio avea ventinove o trent' anni, e riesce ciò 
più presumibile. Poiché nelle opinioni con- 
trarie il poeta avrebbe fatto quel viaggio por- 
tando sulle spalle mezzo secolo: ed avuto ri- 
guardo alla sua salute un po' malandata ed 
alla circospezione a conservarsi, ed alla sua 
vita ritiratissima allorché vivea in Sabina e 
rifiutava perfino gli inviti di Augusto, non 
appare verosimile. Sia però come si voglia, 
certa cosa é che Mecenate riserbossi nove 
mesi per poterlo ammettere nel novero dei 
suoi amici stretti. 



( 83 ) 



Orazio, giovane ancora, erudito, giovialis- 
simo, baldo, perchè adusato agli esercizii 
aspri della milizia: sperto del mondo, perchè 
provato dalle sventure e chiaroveggente: a- 
mante del vivere allegro, buontempone, re- 
sistente alle libazioni dei cecubi e dei falerni, 
uccellatore esimio di donzelle e facile ad ade- 
scarle col vischio della poesia, dovea venir 
ricercato nelle brigate e nelle accolte dei dotti 
e dei viveurs di quel tempo. 

Era bel giovane, se non bellissimo, e ne 
menava vanto; ed i malanni della precoce se- 
nilità (dovuta agli studii indefessi), siccome la 
cisposità degli occhi ed i reumatismi, non 
aveanlo ancora reso solibus aptum, né biso- 
gnevole delle stufe calde di Cuma o delle 
fredde docce di Chiusi e di Gubbio. Tutto ciò 
fé' propendere la bilancia a suo favore. 

Mecenate, gran conoscitore degli uomini, 
ed indagatore minuzioso, specialmente trat- 
tandosi di quelli che doveano essergli sempre 
vicino e sui quali doveva fidare, lo volle con 
sé, dopo nove mesi di prove ed indagini, com- 
mensale ed ospite nelle sue splendide reggie. 

Si sostenne (al dir di Svetonio) da taluni 



-«( 84 ) 



detrattori del sommo poeta, che nel temp 
in cui Orazio fu presentato a Mecenate, ve 
nisse pubblicata in Roma una lettera sua i 
prosa, e dei versi elegiaci supplichevoli, co 
quali, adulando il ricchissimo Mecenate, n 
implorasse la protezione e l'accoglimento. Ms 
calunnia (e Svetonio stesso lo asserì) apparv 
più atroce e vile; tutto era apocrifo, si trat 
tava di libelli infamanti. Orazio non piatì sup 
plice nessun onore, provando in petto senti 
menti di fiera libertà; sentiva troppo di sé 
tanto che in luogo di adulare sferzava i cor 
tigiani e lo stesso Mecenate sino a dargl 
dell'effeminato e del Malchino. Il seguirsi de 
fatti di sua vita e le proverbiali espression 
di superbia che si notano nei suoi scritti, at 
testano lalto grado della sua alterigia , fie- 
rezza ed indipendenza. E non aveva poi h 
carica autorevole e redditizia di scriba que- 
storio in Roma ? E a lui, cui bastava tante 
poco, a lui nemico del lusso e delle albagie 
boriose dei grandi, come potette addebitarsi 
tanta viltà ? Molti scrittori dissero Orazio es- 
sere traduttore dei poeti greci. Frontone chia- 
mò Orazio memoriabilis poeta, e nient'altro. 



-«( 85 ) 

È noto del resto che il gran Venosino nei 
più antichi tempi non fu tenuto in quella no- 
minanza altissima, come ora si tiene. *^) 

Oh che gli uomini sogliono vedere sem- 
pre il male nel prossimo, e fingono non ve- 
derne il bene I 

L'adulazione, gli omaggi resi da Orazio a 
Mecenate ed Augusto, sono, derivati dal suo 
animo riconoscente e buono. Mecenate lo 
colmò di doni e favori. Orazio se l'ebbe a 
gran fortuna ed insperata, e per aver ester- 
nata la sua riconoscenza procacciossi la tac- 
cia di pettegolo e vile adulatore. 

Gotthold Lessing ^7) così si esprime : « La 
malizia regna sovrana negli apprezzamenti, 
come nelle altre cose. Che un letterato espri- 
ma le proprie idee sulla divinità in maniera 
da rendersi sublime, esponga le massime più 
belle sulla virtù, il volgo si guarderà bene 
dair ammirare il cuore da cui partono siffatti 
sentimenti, bensì gli si assegnerà la taccia 
di stravagante. Se poi, al contrario, allo 
scrittore sfugge il benché minimo biasime- 
vole fatto , lo si dirà derivante da un cuore 
cattivo, da un animo perverso. » 



-«( 86 ) 



Così giudicano gli uomini! 

Le massime così morali ed istruttive d 
Orazio, la sua circospezione, la sua religio 
ne, la sua integrità, la sua indomita fierezza 
il suo animo generoso ed affettuoso insieme 
la sua amicizia, che si svelava sempre sin 
cera e disinteressata, non furono bastevoli e 
liberarlo dal dente della calunnia e dai vita 
perii degr invidi ed ipocriti suoi ammiratori 

Quando altro i suoi nemici non potetterc 
fare, stabilirono la lega del silenzio, creden- 
do che Toblio l'avrebbe ricoperto; ed infatti 
ben pochi scrittori di quel tempo e soltantc 
qualcuno dei sommi furono quelli che ricor- 
darono Orazio. 

Oh stolti ! Orazio era stella sfolgoreg- 
giante di propria luce! 

Oh quanti avrebbero spedito (e ne spe- 
dirono certo, perché pregavano Orazio stesso 
a presentarle, ed Orazio negavasi) suppliche 
e petizioni a Mecenate per aversi quello 
che Orazio ottenne per suoi meriti straor- 
dinarii, e perchè forse a sua insaputa venne 
aiutato da Vario e Virgilio, i quali indi- 
pendenti e sommi non mercanteggiavano 



( 87 ) 



sulla virtù e suiramicizia ! Orazio conservò 
sempre una virile dignità, né fu mai pa- 
rassita o cortigiano di Mecenate, ma suo 
amico fedele, e fedele gli fu sino alla morte 
che li colpì, per istrana fatalità, insieme ! 

Svetonio riporta l'epigramma faceto ed 
amichevole che Mecenate ad Orazio diresse, 
che molto spiega e rischiara : 

Ni te visceribiis meis, Morati^ 
Plus jam diligo^ tu tuum sodaUm 
ninno me videas strigosiorem, 

(( Se io, o Orazio, non continuerò ad 
amarti più di me stesso, possa tu vedermi 
ridotto più sfiancato del mio muletto. » ^^) 
Al cardinale Ippolito d'Este, che non era 
certo al livello di Mecenate, né per inge- 
gno, né per ricchezza e potenza, e che ri- 
volse all'Ariosto quell'esclamazione avvili- 
ti va: « Donde traeste fuori, messer Ludo- 
vico, tante fanfaluche ? » Ariosto scriveva : 

Fa che la povertà meno m*incresca^ 

E fa che la ricchezza sì non m*ami 

Che di mia libertà per suo amor esca. 

Quel ch'io non spero aver fa eh* io non bramii 

Che né sdegno ne invidia mi consumi ... '9) 



-«( 88 )»- 

Si noti differenza di sentimenti ! 

Orazio così risponde al celebre giurecon 
sulto Caio Trebazio Testa, che lo consi 
gliava a celebrare coi carmi suoi immorta] 
le gesta di Ottaviano : 

Trebazio di Cesare tinvitto 

Osa le gesta celebrar^ sicuro 

Che ne otterrai ricca al lavor mercede, 
Orazio cedono ineguali 

A tanto desio le forze inferme. 

. . . . fuor che in propizio istante . . 

Mai non Jìa che di Fiacco accento voli, » 30) 

Ma questa è apologia bella e buona, ch< 
tu, o profano scrittore, tenti fare del som 
mo poetai a che tanto ti arrovelli? escla 
mera qualche pedante al mio indirizzo. Ec 
io a lui : Il mondo invecchiando peggiora 
Orazio non ha bisogno di apologisti. 

Io disdegno e allontano 
Da me il volgo profano 
Tacciasi ognun . » 30 

COSÌ egli sentenziò. Se dunque parlo pei 
giustificarlo, io, ultimo tra i suoi ammira 
ratori e disadorno narratore, lo fo perch< 
si riferisca ad esempio a tanti, che, non pa 



-«( 89 ) 



ragonabili ad Orazio, non son certo dispre- 
gevoli, ma che sentono nelle carni il pun- 
golo del sarcasmo dei letterati da dozzina, 
della vigliacca calunnia, deirimmeritato di- 
sprezzo . Forse per questi riescirà dolce 
sentire che il più grande dei lirici del mondo 
dovette trascorrere ore tristi, perchè qual ci- 
gnale fuggente, straziato da torme di cani, 
ritrovava nella satira l'antidoto a siffatto ve- 
leno. Orazio scrisse : 

Di giorno in giorno e d'ora in or piti grave 
Mi preme invidia * . sa) 

Provati, o lettore, se hai dell' ingegno o 
dell'estro a sollevarti un tantino sui tuoi 
stessi talloni: vedrai mille mani adunche che 
ti si poggeranno sulle spalle e tenteranno 
ricacciarti in basso. Il solo gigante con po- 
derosa stretta si libera da tali attacchi peri- 
gliosi, L' aquila sola librasi nei cieli, e spa- 
ziando lassù vede la sorda lotta che le si 
prepara in terra, ed in alto sempre maggior- 
mente vittoriosa si estolle 1 




13 




VII. 
LUSSO E MAGNIFICENZA 



; LLORCHÈ vuolsì da Roma andare a 
Tivoli, seguendo l'antica via Tibur- 
tina, dopo una salita lunghissima e leg- 
giera, che vi lascia guadagnar terreno 
in alto senza che se ne risenta molestia 
o iatica, si cominciano a goder di quelle 
prospettive incantevoli, che fanno dei con- 
torni di Roma i più splendidi luoghi di di- 
porto d'Europa. 

Allorché Roma diverrà popolata come 
Londra, queste vie, questi siti incomparabili 
riusciranno il ritrovo di quanto ewi di più 



nobile e ricco nel mondo, e si ritornerà 
godere di quello che gli antichi romani (vei 
e profondi conoscitori dei godimenti terre 
stri) pregustavano e preferivano. 

Su la via di Tivoli si scontra oggi, fra 1 
altre, la villa fatta costruire nel 1549 sui di 
segni di Pirro Ligorio, dal celebre cardinal 
Ippolito d'Este, che più sopra citossi, e eh 
Ariosto ha reso immortale. I panorami eh 
presentano le terrazze monumentali di tal 
villa, donde si rispecchiano la campagna re 
mana, i monti laziali, le terre sabine, e, com 
mare d'un bell'opalino, si disegna gigant 
rimmensa ed eterna città, riescono oltre ogn 
credere maravigliosi e destano maggiore en 
tusiasmo degli affreschi dello Zuccari e de 
Muziani. 

È questa il pregio principale di tal vili 
moderna, la quale fa correre il pensiero ali 
propinque rovine della villa che Mecenate s 
fé' costruire su tale altura, e che era tra 1 
più belle, sontuose e magnifiche nel tenjp^ 
nel quale Orazio visse. 

Dalla vastità dei ruderi, dalla magnificenz; 
dei cammini sotterranei, dalle cascate che do 



vettero artificialmente prodursi, deviando il 
corso dell' Aniene, la mente si raffigura quan- 
to gigantesco esser dovea questo palagio e 
questo dominio da re. Foltissime foreste do- 
veanlo cingere, che oggidì sonsi tramutate 
in poderi cospicui, coltivati ed ombreggiati 
da ulivi e frutteti. 

In quei tempi i querceti giganti e le al- 
tissime piante arboree e boschive rendean 
l'aria balsamica, che richiamavano stuoli di 
augelli canori, e facean sembrare quei piccoli 
colli quali gioghi alpini, tanto nericanti e 
silvestri si addimostravano. Una cacciagione 
abbondante e regalata e scelta ne rendea di- 
lettevole e proficuo il disperdersi tra quei sen- 
tieri ombrosi. Di tratto in tratto dei templi e 
dei chioschi dedicati agli dei formavano re- 
cessi tranquilli e devoti. Si scorgono ancora 
i ruderi del tempio della Sibilla, dell'altro di 
Vesta e quello di Ercole, la grotta di Nettuno 
e l'antro muschioso delle Sirene, ed il tempio 
della Vittoria [fanum Vacunaé), che vi mo- 
strano come quell'enorme distesa di terra fosse 
posseduta da munificente signore ed osse- 
quente agli dei. 



-«( 94 ) 



Delineavansi pure nelle callaie del bosco 
e sotto i porticati e gli ambulacri, statue mar 
moree d* illustri romani, con lapidi comme- 
morative, e bronzi istoriati, per ricordo dura- 
turo ai tardi nepoti. 

Dei palagi aggiunti all'immenso fabbri- 
cato servivano per le scuderie che contene- 
vano le più scelte accolte di cavalli d'ogni 
razza e paese: da quelle numide od africane , 
a quelle allevate nelle feconde pascione ro- 
mane, che anche oggidì forniscono prodotti 
maravigliosi, che possono gareggiare con le 
superbe mandre dell' Inghilterra o del Me- 
klemburgo. 

E le rimesse contenean le bighe e le qua- 
drighe, che erano splendidissime e tempestate 
di pietre rare e preziose, siccome usavasi in 
quel tempo; e noveravansi pure lettighe che 
eran di bronzo e legni rari e di argento ce- 
sellato, e ricoperte di stoffe peregrine, e da 
purpuree cortine ricamate con tanto lavorio 
da destare stupore. 

Degli schiavi negri venian mantenuti pel 
solo fine di portar sulle spalle tali lettighe, 
che davano al padrone un' aria nobile e di 



-«( 95 ) 



comando, e negli stolidi (e tali erano la mas- 
sima parte) un'idea di superiorità su quelli 
che facevano da bestie da soma. 

Eranvi ninfei, peschiere, bagni e vasche ric- 
chissime di scelti marmi, e palestre pei giuo- 
chi del disco, del salto, della corsa e del pu- 
gillato. Eranvi il teatro, Tanfiteatro, l'ippodro- 
mo, e portici lunghi e capaci di molto popolo, 
con filari di colonne d'ordine jonico, od imi- 
tanti i templi egiziani o babilonesi, che ser- 
vivano da passeggio nei giorni piovosi. 

L'interno poi del palagio nobile, nel quale 
dimorava il signore, era per se stesso una 
maraviglia. La fuga delle camere ornate nei 
soffitti da legni preziosi formanti cassettoni e 
scompartimenti a rilievo, e da bronzi e me- 
talli artisticamente lavorati, davano le verti- 
gini. 

I pavimenti erano formati da mosaici ed 
intarsi stupendi, e tanto levigati e lisci da pro- 
durre una lucentezza che abbagliava. La squi- 
sitezza greca ed il gusto severo e nobile del- 
l'arte romana gareggiavano a rendere sovra- 
na quella magione. Le dipinture delle paréti 
avean fregi vaghissimi, e vedute con capricci 



-^ 96 )»- 

nuovi a tocchi arditi, a colori accesi, dei pitt< 

più insigni del tempo: e negli antiporti, ne| 

impluvii e nei peristilii si passava di mara^ 

glia in maraviglia, tanto la mente degli ar 

sti ed il genio fecondo avean saputo produr 

accordi fastosi misti a severità magistrale. 

Pei trìclinii, pei talami, per le gallerie, p 

le sale dei conviti, sotto i portici interni stesi 

notavansi prodigi di maestria nell'arte del e 

pingere e dello scolpire, e scoprivansi mot 

gliature manifatturate con gai intrecci dì oi 

argenti, legni e metalli rarissimi e strani. I 

vedevi un tripode d'argento ove bruciavar 

aromi odorosissimi: là tazze gigantesche 

malachite o diaspro orientale. Più in là mei 

sole di lapislazzoli ed argento con sopravi st 

tue di oro di cesello greco. E poi anfore fai 

bricate a Ruvo od a Corinto, con figure ali 

goriche ed arabeschi artisticamente modell; 

ti, e con colori vivissimi, e lucernieri d'argent 

con colubri e serpi e sfingi e grifoni in riliev 

ricavati con sovrano bulino. 

E dalle logge sovrastanti ai portici mai 

morei scorgeansi quegli sfondi e prospetti ( 

laghetti e fontanelle e parchi ornati da piant 



esotiche e peregrine, e da statue gigantesche 
ed obelischi orientali. 

Tal era la villa di Mecenate sul colle ti- 
burtino, che gareggiava colle ville dei Luculli 
e degli imperadori, e superava di gran lunga 
le altre sontuose dimore degli opulenti ro- 
mani che decoravano quel punto del mondo, 
ove convergevano e si accumulavano tutte le 
mercatanzie dell'universo. 

Uno stuolo di valletti, ch'eran tutti model- 
lati da madre natura sulle forme di Antinoo, 
colle chiome dorate discinte sul collo di cigno; 
• schiavi pronti a sagrificarsi ad un gesto del 
padrone; cortigiani che godean l'alta prote- 
zione dell'uomo potente e munificentissimo; 
e liberti e donzelle leggiadre, col capo orna- 
to di rose primaticce e silvestri, e danzatrici 
e sonatrici seducentissime, e quant'altro può 
riuscire a ricreare lo spirito ed il cuore, po- 
polavano quel luogo, ed al grande offérivansi 
a diletto. 

Tali e più ricchi debbono considerarsi gli 

altri ostelli e manieri che possedeva Mecenate 

in Roma, e particolarmente notevole era il 

palagio magnifico sul monte Esquilino, dove 

13 



fecesi (come più tardi Carlo V sotto i voi 
toni deir Escuriale) innalzare un monumen- 
tale sepolcro, che racchiuse poi le sue ceneri 
e quelle di Orazio, come si dirà appresso. 
In tale palagio dovette ricevere il nostre 
sommo poeta, ed in queste dimore da re 
costui divenne familiare, ospite gratissimc 
e desiderato, tanto che poteva là dentro con- 
siderarsi come in casa propria. 

Ad Orazio, accostumato alla parsimonia, 
alla sobrietà, al « cantentus vivere parvo », 
dovettero riuscire ributtanti e fastidiose tante 
grandezze, tanto scialo ed un lusso così smo- 
dato. Ma Mecenate facevasi perdonare tali 
eccessi per la sua bontà, per la sua munifi- 
cenza, e principalmente perchè accoppiava a 

« 

tanto bene anche il tesoro della dottrina e 
proteggeva i letterati e gli onesti ed inte- 
merati. Orazio, seguace del precetto epicureo 
del nil admirari, compiacevasi invece di 
tanta maestà, e ne godeva come se gliene 
venisse per riverbero alcun bene, e lo ma- 
gnificava, ed il padrone portava alle stelle 
con non servile ma riconoscente omaggio. 
Ma all'uomo fornito di merito incontrasta- 



bile la fortuna suole non di rado scovrire non 
avaramente i suoi tesori. Orazio dalle reggie 
di Mecenate venne introdotto in quelle del 
sommo Augusto. Mecenate stesso, Pollione 
ed altri personaggi strapotenti lo presentaro- 
no con lusinghiere manifestazioni al signore 
dell'impero. 





vili. 

AUGUSTO 



AucuiTO — Lrtttr» ti 0r4uit, 



Cakoallo— TmJ. Ji Oriuii. 



j^:x RA tanto lusso, fra tanto apparato dì 
'^ grandezza, confuso fra gente awez- 
t J za ad incensare gli astri fiammeggianti, 

I ? grandeggiava ÌI sommo poeta forte del 

I I suo genio. Ed egli spesso fa notare que- 
" ' sto strano contrasto. Egli, figlio di li- 
berto, povero, di partito avverso a quello 
imperante, colla sola forza del suo stile, in- 
nalzossi su tutti, e si difese dai suoi sordidi 
ed invidi nemici, che agli uomini dotati di 



-«( I02 )»- 

prerogative superiori a quelle comuni, e prin 
cipalmente a coloro che dal cielo ottennero 
ingegno Sovrano, sembrano sorgere dinanz 
ad ogni pie sospinto ; e venne ricercato da 
più altolocati, e fu ad essi caro. 

Benvero le sorti di Roma spiegavano ah 
più ardita. Ottaviano ebbe dal Senato il titolc 
di Augusto. Era imperatore, tribuno, prò 
console a vita: lo si diceva padre della patrie 
e pontefice massimo. Aveva vinto AntoniOj 
che dai lacci perfidi della regina di Egitto, la 
formosissima e lasciva Cleopatra, era state 
arretito. Il vero ed unico padrone dell' im- 
pero romano era Ottaviano, e Y autorità su- 
prema, l'autocrazia gli die agio di poter do- 
mare le rimanenti schiere partigiane, che con 
moti intestini turbar volevano la quiete che 
felicitava Roma. Si proibirono le rumorose 
adunanze, i comizii rivoluzionarii; abolironsi 
i decreti di proscrizione con alto acume di 
senno politico e mostra di clemenza. 

Augusto regalò pure ai suoi soldati vin- 
citori buona parte delle province italiane e 
straniere più fertili ed ubertose. 

Venosa divenne colonia data in guider- 



-«( I03 )»- 

doneai veterani delle patrie battaglie, come 
quella che formava uno dei più splendidi 
gioielli della corona della monarchia. Così 
premiavasi il valore in quei tempi. 

Non è raro il caso oggi di leggere ne- 
crologie commemorative di veterani di bat- 
taglie gloriose tra le singole nazioni, che pure 
mutilati nelle membra, o consumati dalle fa- 
tiche dei campi, o deperiti per lunghe prigio- 
nie patite nelle passate tirannidi o per gravi 
lavori mentali, son restati sepolti nell'oblio, 
mentre vissero miseramente con modicissimo 
reddito, e morirono lasciando ai figli, oltre 
del nome onorato, una povertà dolorosa. 

Venne stabilita, anche per sicurezza del 
luogo ove Augusto dimorava, una schiera 
di soldati pretoriani, che per se sola formava 
un esercito. Era larghissimo verso il popolo, 
né mai i Romani videro tanto succedersi di 
feste e magnifiche giostre e spettacoli nei 
circhi, ed inaugurazioni di monumenti ed 
innalzamenti di templi agli dei qual ricono- 
scenza ed omaggio, come in quel tempo della 
signoria di Ottaviano Augusto, che lo dis- 
sero pur divo e gli elevarono statue. 



-«( 104 )»- 

I più potenti ingegni del tempo inneg 
giarono alla sua potenza, al suo splendore 
Virgilio, Vario, Properzio, Catullo, Tito Li 
vio e sopra tutti il nostro Orazio, e presso 
che tutte le menti elette di quel secolo ch< 
lo disse suo, furono volontariamente soggio 
gati dalla magnanimità di lui, e ne proclama 
rono la gloria che addivenne immortale. An* 
che, però, la vendetta, che col nome di giu- 
stizia sommaria forma un privilegio del nume, 
faceva scendere fulmini e pene sul capo dei 
colpevoli. Ed Ovidio Nasone meditò al Ponte 
la potenza dell' ira sovrana imitante quella 
di Giove tonante. 

Tutto ciò faceva mutar fede ai più incon- 
cussi. La luce del vero senza orpello né velo 
balenava nelle menti degl' intelligenti, sicché 
da cospiratori ed avversarli divenivano se- 
guaci del nuovo ordine di cose. Ed Orazio 
fu tra questi. Egli così scrisse: 



A te bensì vivente ancor^ di culto 
Noi Siam larghi anzitempo^ e alziamo altari 
Su cui giuran pel nome tuo, concordi 
Attestando che nulla unque mai sia nato, 
Che pari a te non ncucerà mai nulla. 33) 



( 105 ) 



Vide che Augusto giovava alla patria più 
delle sorde mene ed i vaniloqui e le gesta 
dei tribuni e degli ambiziosi. 

Sebbene V imperio venisse dirizzato a si- 
stema monarchico assoluto, gli sembrava che 
si godesse maggior libertà che sotto le molti- 
formi poliarchie della repubblica democratica, 
la quale sarebbe stata in quel tempo per- 
fetta (forse quella ideata da Platone), ma 
nel fatto erasi addimostrata nefasta e per- 
niciosa per r innata malignità degli uomini, 
che, per quanto amanti di libertà, sogliono 
spesso tralignare e lasciarsi vincere dall'am- 
bizione e dalla sete del dominio, della ven- 
detta, dcir oro. Nel seguirsi degli anni l'in- 
nata malignità degli uomini creò pure i ti- 
ranni che inguinarono le monarchie. Ma la 
giustizia sociale li falciò come messe adu- 
sta ed erba parassita, e la tirannide ebbe 
a lottare contro V ira del popolo e ne re- 
stò infranta qual vetro contro muro di bron- 
zo ! Da Tiberio e Nerone sino a Luigi XVI 
si vede chiara tale lotta ineguale. 

Poco dopo i fatti accennati, Mecenate, che 

aveva annoverato Orazio fra i suoi prediletti, 

14 



( io6 )i 



10 presentò al sommo Augusto. Per quante 
sublime fosse tale onore, per quanto splen- 
dida si addimostrasse la corte sovrana, ad 
Orazio non produsse quel forte imbarazzo 
che lo vinse allorché venne per la prima volta 
a Mecenate presentato; sia perchè i suoi nuo- 
vi ideali lo avevano spinto a venerare Au- 
gusto, sia perchè senti vasi spalleggiato da 
Mecenate, sia perchè ormai avvezzo alle reali 
magioni di questo, che superavano i palagi 
di Cesare. Che anzi, come si disse, quel po- 
tente spronava Augusto alla splendidezza ed 
a quella magnificenza a cui il sovrano pareva 
poco inclinato. È storia che Augusto usasse 
vesti dimesse fatte nelle sue stesse stanze, in 
luogo delle porpore peregrine e preziose de- 
gli epuloni di quel tempo. 

Aveasi poi Orazio quel pubblico impiego 
onorifico di scriba della questura che gli 

schiudeva le porte della reggia e doveva 
renderlo bene accetto ad Augusto. Ed Au- 
gusto era pur letterato e protettore dei let- 
terati e degli uomini di elevato ingegno. 

11 secolo suo fu il più fecondo di poeti, fi- 
losofi, oratori e scrittori insigni, come si 



( 107 ) 



disse, ed anche oggi nomasi secolo d'Au- 
gusto quel tempo aureo per le lettere e per 
gli scienziati. Pure negli scorsi ultimi anni 
una miriade di gents de lettres ha inondata 
r Europa, e tra questi non pochi poeti ce- 
sarei. Ma saranno essi immortali, e daranno 
r immortalità a quei che decantano ? La co- 
rona dell' immortalità, i grandi scrittori la 
danno ai grandi della terra, di rado la ri- 
cevono. Carlo IX scriveva a Ronsard, che 
venne proclamato il poeta francese per ec- 
cellenza: 

Tous deux igalement nous portons des couronnes: 
MaiSy roiy je la recus: poite^ tu les danne 

Che dir poi di certuni, i quali si pascono 
della beata illusione di divenir celebri sol 
perchè il loro nome si trova segnato tra le 
tante voluminose carte che la libertà di stam- 
pa ha oggi create nel mondo? 

Sciocchi e ciechi! TI merito vero si pa- 
lesa da se, e rifulge di proprio splendore, 
e r opera dell' uomo sol essa rimane salda, 
se ha tal valore da resistere alla possanza 
edace del tempo ed all'apatia dominante. Ne 



( io8 ) 

fornisca esempio il silenzio deplorevole e 

Vellejo Patercolo, che di tutti i grandi e pi( 
coli letterati dell'aureo secolo parlò, men 
che di Orazio nostro. La qual cosa non h 

scemato punto il valore di Orazio nella pc 

sterità. 

E qui cade in acconcio far notare che nes 
sun indovino avrebbe potuto pronosticare a 
venosino ignoto che un dì il divino Augu 
sto, r imperatore invitto, il potente sovrane 
di quasi tutto il mondo, gli avrebbe dirette 

lettere familiarissime, avrebbe desiderato 1; 
sua cooperazione, la sua compagnia, 1( 
avrebbe prescelto fra tutti i poeti esistent 
e gli avrebbe indettato i carmi più popolar 
e sublimi, gli avrebbe consegnato il suo sug 
gello di autorità, gli avrebbe detto ciò ch( 
Svetonio riporta dai brani delle lettere dal- 
l' imperatore ad Orazio dirette : « Surne Ubi 
« aliqutd juris apud me, tanquam si con- 
(( Victor mihi fueris.... Tuiqualem habeam 
(( memoriam, poteris ex Septimio nostro au- 
(( dire: nam incidit ut illa corani fieret a 
(( me tui mentio... Iratum me tibi scito, quod 
(( non in plerisque ejusmodi scriptis mecum 
« potissimiim loquaris. An vereris ne apud 



-«( 109 )^*^ 

« fosteros infame tibi sit , quod vtdearis fa- 
« miliaris nobis esse ?. ... Pertulit ad me 
« Dionisius libellum tuum, quem ego (ne 
« accusem brevitate), quantulus cumque est, 
« boni constilo. Vereri autem mihi videris 
(( ne majores libelli fui sint, quam if>se, sed 
c( si tibi natura deest, corpuscolum non 
« deest. )) 

Dai quali brani si rileva che Augusto non 
solo stimava Orazio al massimo grado, tanto 
da temere che essendo le sue opere immor- 
tali, non curasse d'immortalarlo in esse, 
quanto eragli amico intrinseco e con lui so- 
leva scherzare come con un suo pari. Ed 
Augusto non addivenne l'erede testamentario 
del poeta? Sono fatti che riescono incom- 
prensibili a quelli che non vogliono riflet- 
tere quanto grande sia la potenza del genio, 
dell' arte ! Il volo sublime spiccato dal vate 
venosino è un fenomeno che merita uno stu- 
dio speciale, e non altrimenti possono spie- 
garsi quelle poesie nelle quali la superbia 
e lo sprezzo del volgo profano fanno ma- 
nifesta quella grandezza sua, che chiarissima 
a lui stesso appariva. 



( no ) 



Di bronzo più durevole 
Ho un monumento alzato.,.^ 
Non Jta che basti a chiudere 

Me breve tomba intero 

Dair imo suolo alt etere 
Diran eh* io seppi alzarmi 
Primier su cetra italica 
Cigno d* Eolii carmi,,,.. 
Superba or va^ Melpomene 

Dei meritati allori 

Tutto il terrestre spazio 
È angusto a me confine,... 

Non io 

Da r urna e da la stigia 
Onda sarò ristretto^ 
Già del figliuol di Dedalo 
Io spiego ala piti ardita.... 
Laude fra tardi posteri 
Farà ch'io, guai per fresca 
Aura, arbuscel piti vegeto 
Ognor m^ innovi e cresca..,. 
La pompa è a me soverchia 
Che r altrui tombe onora,.,. 34) 

Colui che si esprimeva in questi termin 
sentir doveva di essere di gran lunga supe 
riore a tutto il resto degli uomini, e non rieso 
incomprensibile che abbia potuto divenire i 
favorito del potentissimo Augusto, siccom( 
lo era del generoso Mecenate. 

E che la superbia di Orazio fosse stafc 



-^ III )»- 

sprone ad acquisto di ricchezze ed onori e vuo- 
ta supremazia sui suoi simili, patentemente 
vien diniegato dal suo metodo di vita, dalle 
sue massime radicate di sobrietà e morigera- 
tezza, dal suo contentarsi del poco e godere 
della parsimonia. Mecenate ed Augusto po- 
teaii certo offerirgli più che un podere in Sa- 
bina, potean delegarlo proconsole in terre lon- 
tane, dove sarebbe ritornato ricco come Lu- 
cuUo; ma ciò sarebbe stato un offenderlo, un 
ferire la sua suscettibilità, un recargli fastidio, 
un attendersi un reciso rifiuto, perchè non 
eran questi i voti del venosino. 

È notorio che Orazio non usò altri di- 
stintivi di onorificenze se non lanello e gli 
ornamenti di giudice, ^5) ma valevasene sol- 
tanto per accompagnare Mecenate nei pub- 
blici ritrovi, perchè non amava certo che si 
fosse detto che l'amico del potente signore 
fosse un figliuol di liberto, bensì un cava- 
liere che comandato aveva una legione ro- 
mana! 

Un poderetto in luogo ameno, salubre, 
tranquillo e lontano dai rumori della gran 
città, un tetto sicuro, la certezza di vivere 



( 1J2 ) 



agiato, la vicinanza ai suoi sinceri amici 

protettori, ai quali dimostrava ad ogni p 

sospinto la sua riconoscenza: ciò gli era ne 

solo sufficiente ma sovrabbondante, e ne rii 

graziava le divinità! 

Ah che daddovero era una grand' anim 

quella di Orazio venosino ! O divino Verd 

o sommo Cantù, voi siete oggi esempi vi 

venti di uomini immortali aborrenti dalla st 

perba jattanza, e modesti, e cari ai popoli e 

all'Essere eterno che vi stampò ! Riesce fs 

cile notare nel passato, fatte le dovute ecce 

zioni, taluni pure letterati od artisti, ai qual 

riuscì appena in certa guisa a far risonar 

pel mondo la tromba della fama, che non pii 

si appagarono di piccoli poderi o rustich- 

casette, ma bramarono s'innalzassero monu 

menti a loro stessi viventi. Vollero onor 

sommi , castelli , parchi , magnificenza , fra 

stuono di accademie e di teatri, e scialo à 
superare i re della terra ! 









IX. 

LA VILLA SABINA 



SvsTomo — Vitt ili Orma 

L'ooohka eoM ■DgU kiL mlil non ibiHa, 

Qu«l oh* poHl*d«: PIA qaaL poco i mto^... 
Cari rfciuip « M mtJ crvLI. immL 

Gaioallo — Tra4. ili Orati 



I ell' esposizione della Promotrice 
del 1878 in Napoli si ammirava un 
cjuadro ad olio, segnato Orazio in viiia, 
dell'illustre pittore Camillo Miola, mio 
amico, autore della Sibilla, del San- 
sone al torchio, delle Danaidi, del 
Plauto^ e di altre pregevolissime tele riguar- 
danti r antichità, e dì cui l' Illustrazione ita- 
liana del 16 luglio 1882 faceva elogio som- 




( "4 ) 



mo, dichiarandolo uno dei migliori artii 
moderni d' Italia. 

Ed invero chi esamina quel quadro st 
pendo yien compreso d' ammirazione p 
l'arte e per la precisione storica che vi 
nota. Non palagio cinto da portici, o i 
parco, o da aiuole fiorite, non statue né ca 
celli con grifoni e sfingi di bronzo; ma ui 
modesta costruzione nascosta da un altissin 
albero, sul quale si arrampica un cespo g 
gantesco, che lo fa assomigliar ad un eno 
me roseto; con semplicità di colore, con pi 
cola corte, con finestrette modeste, da un 
delle quali pende una gabbiolina con un 
capinera, e da cui compare il busto di On 
zio che maschera una vaga donzella, dell 
quale si distinguono solo le belle fattezz< 
Ed Orazio da quella finestretta, con un ari 
da buontempone e da pacifico e contento boi 
ghese, non con figura arcigna di vecchio bai 
bassoro, siccome piacque figurarlo da moi 
ti, 3^) assiste al giocondo tripudio dei sue 
coloni, delle fantesche dai volti affascinan 
e procaci e dalle movenze lusinghiere, 
delle amiche di forme speciose; e dei Ligii 



( "5 >- 



rini e Batillì imberbi con lunghe chiome, che 
saltellando ed agitando nacchere e tirsi, si 
versan dalle anfore colme vini prelibati rac- 
colti nel podere. Una capretta randagia presso 
il rustico cancello di legno, apparisce spetta- 
trice innocua di quelle piacevolezze campestri. 
Basta veder quel quadro per formarsi una 
idea della proprietà che Orazio si ebbe in 
dono da Mecenate, unico dono che la sua 
modestia aggradì, e che confaceva al suo 
ideale. 

Orazio cosi enunzia la topografìa del suo 
podere rustico: 

Tutto di monti una catena il forma^ 
Se non che t interrompe opaca valle 
Ma così^ che sorgendo^ il destro lato 
Ne copre il sole^ e con fuggente carro 
Cadendo^ il manco ne vapora. Il clima 
Ne loderesti »7) 

Nella terza satira del secondo libro per 
la prima volta parla di tal dono che gli venne 
fatto da Mecenate nell' anno 721 , quando 
cioè Agrippa fu edile. Perchè, siccome opina 
il Dacier, nella sua Cronologia delle opere 
oraziane, tale satira in quel tempo fu scrit- 



( ii6 )»^ 



ta. Ed Orazio ringrazia cordialmente Mece- 
nate per tal dono che gli giungeva nel suo 
trentesimosecondo anno di età. 

La voracità del tempo che ogni traccia 
di opera distrugge ed oscura, fece del tutto 
scomparire le vestigia della villa di Orazio 
in Sabina. Solo la pertinace ricerca dei suoi 
ammiratori, e la religione che accompagnò 
i dotti archeologi nel voler rintracciare i ru- 
deri di tal fabbricato e podere, guidati dal 
lume nello stesso Orazio nelle descrizioni 
che ne fa nelle sue opere, fece in questi ul- 
timi anni stabilire il luogo preciso, la con- 
formazione e r area dove quella villa sor- 
geva, e dove il gran poeta, al dir di Sve- 
tonio, visse molti anni nel ritiro fin secessu) 
e nella quiete. 

Ch. Guill. Mitscherlich, dotto filologo prus- 
siano, nelle sue Racemationes venusinae , 
stampate nel 1827; Obbario, nelle sue no- 
te sulle epistole oraziane; e principalmente 
r opera che X illustre letterato abbate Cap- 
martin de Chaupy pubblicò in Roma nel 
1767-69, nel terzo volume, sulla Scoperta 
della casa di Orazio, possono offrire pre- 



-«( 117 ) 



zìose notizie sulle ricerche pazienti e sulle in- 
vestigazioni profonde e minuziose fatte per 
dar luce chiara a tale obbietto. 

Orazio disse che al suo piccolo fondo ba- 
stavano cinque lavoratori per menarlo a col- 
tura, i quali andavano a smerciarne le der- 
rate a Varia, piccola città lambita dall' Aniene, 
ed avean tutti alloggio nei fabbricati adia- 
centi a quelli che lui stesso abitava, e dove 
ciascuno soleva vivere con la propria fami- 
glia, tanto che dai fumajuoli delle cucine, sul 
far della sera, sprigionavansi cinque nuvo- 
lette azzurrognole che ne indicavano il ru- 
stico convito (cinque fuochi), ed il soggiorno 
tranquillo. 

Si costuma tuttodì dagli agiati proprietarii 
di terre nelle province meridionali di vivere 
nel proprio fondo circondati dai rispettivi 
coloni, e r occhio vigile del padrone non 
nuoce alla prosperità di esso. 

Si comincia pure oggi a comprendere dai 
ricchi possessori di latifondi che la pigra vita 
delle popolose città non ridonda a vantag- 
gio della loro fortuna. Si creino pure ca- 
stelli, e si viva in essi, ma si faccia dimora 



-«( ii8 ) 



presso la sorgente, donde si ricavano quel 
ricchezze che rendono disuguali gli uomii 
fra loro. Si renderebbe così possibile e pei 
donabile tale disuguaglianza!.... 

Il principale castaido di Orazio dovev 
nominarsi Davo, marito forse a quella Fi 
dile alla quale dirige consigli savissimi 
salutari con una sua epistola. Davo esser do 
veva un cattivo castaido, come lo son per h 
più quei villici che abituati da tempo a fa 
da padroni nel fondo, mal vedono un nuo 
vo signore venire ad imporre ad essi leggi ( 
dettami ed a sorvegliarli. Orazio lo rimbrotta 
acremente in una satira, ^s) perchè nelle fe- 
ste saturnali, solendosi concedere ai subal- 
terni piena facoltà di esternare i proprii sen- 
timenti senza poter venire redaguiti dal pa- 
drone, ancorché gliele cantassero amare, 
(e tal costume si è conservato sin negli ul- 
timi secoli scorsi, e Tansillo, venosino, nel 
suo sudicio e laido poema, che intitolò // 
yendemmtatore^vciostvò quanto quella libertà 
possa degenerare in licenza) svela il suo 
animo protervo, indocile e poco amante delle 
rusticane usanze e prosperità derivanti dalle 



( 119 )^ 



buone e fertili annate, e dall' amor del suolo 
opimo; che anzi si svela amante dei piaceri 
della città per quanto spregiatore delle gioje 
campestri, e sotto la veste del campagnuolo 
si nasconde un guattero tralignato, ed un 
operajo invido ed infingardo. 

Davo prima di entrare nel podere aveva 
servito dei signori romani nell* ufficio di 
mediastmus. Si figuri il bel tomol 

Il fondo si componeva di una selvetta ce- 
dua (dove al poeta successe quel fiero in- 
contro col lupo, ed un dio propizio lo fé' 
restare incolume) ricca di elei ed altri alberi 
ghiandiferi che servivano ad alimentare le 
piccole greggi. Vi si godeva nell* estate fre- 
scura e raccoglimento. Eravi un pomiere, ed 
un orto, nei quali pruni, susini e cornie ab- 
bondavano, con diverse altre specie di frutta 
delicate : né mancavano ulivi; tanto che ben 
potea dirsi di ritrovarsi a Taranto. La vite 
poi formava la parte più ricca del fondo, e 
dalla quale Orazio solea distillare quel cele- 
brato vinello che non disdegnava far gusta- 
re al palato di Mecenate. 

Nel mezzo del fondo scorreva un rivolo 



( I20 )»- 



di acqua freschissima, che ricascando in gt 
terelli e piogge, e purificandosi lungo le ghi 
je, formava poi una fonte limpida e crisfc 
lina da potersi paragonare al celebre fon 
Bandusia, che versava le sue pure linfe pres; 
la patria del poeta, e che ancora oggidì qu 
di Palazzo S. Gervasio chiamano Fontah 
di Venosa, presso il bosco di Banzi. La 

fontana 

D* acqua perenne a la magion vicina,,, '9> 

è appunto \ attuale fontana degli Oratir 
presso Tivoli. Il fonte Bandusia sta press 
Venosa nella strada che mena a Palazzo £ 
Gervasio, e X ode ad esso fu improvvisai 
da Orazio in una gita a Venosa per cacci, 
o diporto. 

Erroneamente si confondono queste du< 
fontane, \ una che irrigava il fondicello d 
Orazio in Sabina e l'altra più innanzi men 
tovato. 

Eranvi dappresso delle valli profonde nelk 
quali incanalavansi torrenti che solevano 
spesso trascinarsi dietro le speranze dei po- 
veri coloni, mentre formavano nella bella 



►^( 121 ))D^ 

stagione paesaggi incantevoli. Il sito era 
elevato ed oltremodo pittoresco, ma freddo 
troppo nel verno, ciò che ad Orazio doleva. 

Contro i venti boreali il podere veniva ri- 
parato dal Lucretile, monticello che poteva 
assomigliarsi ad una delle colline che cin- 
gono Venosa o ad uno dei picchi del Vul- 
ture. Poco distava dal fondo il tempio alla 
dea Vacuna, o alla dea della Vittoria, dove 
Orazio stesso soleva recarsi a passeggio, e 
dove al rezzo delle piante che circondavano 
le rovine di quel sacro luogo diresse a Fu- 
sco Aristio suo amico e confidente quella 
leggiadra epistola. ^^) 

Mandela e Varia erano i paesetti più pros- 
simi al podere del poeta, e la via per ve- 
nirne da Roma era la Nomentana, quella 
stessa di cui si serviva Mecenate per trasfe- 
rirsi alla sua magnifica residenza presso 
Tivoli. 

Mecenate, Quintilio Vario ed altri ricchi 
solean far quel viaggio da Roma nelle cam- 
pagne di Tivoli trascinati da bighe o qua- 
drighe comode e sfolgoranti, in men di due 
ore. Orazio soleva usare per tal viaggio un 

i6 



-«( 122 ))^ 

muletto con bisaccia a bardosso, che gli al 
lungava la durata del viaggio dì circa altr 
due ore, e facetamente berteggiava se stess» 
per tal modo di viaggiare, che sin oggi 
in uso in Basilicata e nella campagna ro 
mana. I massari ed i butteri romani usan< 
ancora tal genere di cavalcatura. *') 

Con tali dati sicuri cominciarono negl 
scorsi secoli le indagini per iscovrire pre- 
cisamente, fra tanti ruderi di ville nei din- 
torni di Tivoli, il luogo ove trovavasi la 
villa di Orazio. 

Flavio Biondo, nella prima metà del quin- 
dicesimo secolo, nella sua opera De Um- 
bria , con le ricerche fatte per tal riguar- 
do, ammise che la villa di Orazio fosse si- 
tuata a quindici miglia da Rieti, nel vil- 
laggio che oggi dicesi Poggio Mirteto. L'as- 
sertiva erronea sorse dallaver confuso la cit- 
tadina Vacone, feudo oggi della nobilissima 
famiglia romana Marini Clarelli, marchesi di 
Vacone (coi quali mi pregio essere in pa- 
rentado ^^)), col tempio suddetto della dea 
Vacuna, e furon molti che in quel tempo se- 
guirono una tale opinione. Finché nei prin- 



-•< 123 )»- 

cipii del secolo decimosesto il celebre geo- 
grafo di Danzica, Filippo Cluvier (leggasi 
la sua opera suir Italia antica), con ricerche 
pazientissime, venne a definire il punto dove 
trovavasi il paesello Varia, ove i coloni di 
Orazio andavano a vendere i prodotti del 
fondo, e Varia è appunto l'attuale borgo di 
Vicovaro. 

Tale scoperta produsse un' inesprimibile 
commozione tra i diligenti archeologi, perchè 
trovavasi tutto corrispondente a quanto Ora- 
zio esprimeva circa la sua proprietà in Sa- 
bina. La vicinanza al Fanum Vacunae, tem- 
pio di Vacuna o Rocca Giunone (attual- 
mente il paese Roccagiovine), il ruscelletto 
attuale la Licenza, che era la Digentia ora- 
ziana, il monte protettore dai venti e dai 
calori, il LMcretilis, oggidì monte detto Cor- 
ghiaietto. E quasi a conferma di tutto ciò era- 
vi un punto, che nomasi ancora, come voce 
di antica tradizione, ti colle del poéiello, cht è 
appunto la collinetta dove sorgeva la casa di 
abitazione, che formava il centro del podere. 

Si deve però al celebre Luca Holstenius, 
nella sua opera Ricerche sulla geografia, 



-«( 124 )»- 

1 667 — Annotazioni a Cluverio, e conte 
poraneo del Cluvier, l'aver rettificato l'erra 
del geografo di Danzica, l'aver indicato 
sere il Lucreiile, non il monte Librei 
quello alle cui pendici sorger dovea V a 
tazione del poeta. 

Holstenius con ricerche accurate rinven 
a due miglia da Vicovaro il ruscelletto e 
tuttodì dicesi la Licenza ( Gelidus Digem 
oraziana) , e presso Roccagiovine le rovi 
del tempio già al tempo del poeta in ista 
di sfacelo [putte Vacunae) e che venne 
Vespasiano riparato, siccome si rileva da u 
iscrizione ritrovata in quelle vicinanze ci 
dice: Vespasianus aedem victoriae restitu 

Fabretto, Lavella, Avati e tutti quasi j 
archeologi insigni di quel tempo seguiror 
con interesse tale definizione, che restò ass< 
data come la vera, e che videsi comprova 
da novelle . scoverte, e dalle dispute che s< 
guirono tra altri scrittori ed antiquarii frai 
cesi ed italiani. 

Si diedero quindi tutti a fare indagii 
per iscovrire il sito preciso della casa di On 
zio, avendone scoverto il punto del poden 



( 125 ) 



Nel bollettino archeologico dell' ateneo 
francese dell' aprile 1855 si rileva che gran 
luce apportò alla scoverta di Holstenius 
riscrizione che si legge nel palazzo baronale 
dei conti Bolognetti, situato presso il vil- 
laggio di Bardello, a pochi chilometri da 
Vicovaro. In essa apparve per la prima 
volta il nome di Mandela detta oggi G?;^- 
talupo, che è appunto il « Pagus » di cui 
parla Orazio; il che riunito al nome della 
Digentia quae Mandela bibit e del Lucretilis^ 
Corgnaletto, e del luogo che dicesi ancora 
collina del poetello, fecero stabilire definiti- 
vamente e con chiarezza il sito preciso della 
casa di abitazione del poeta. 

E si riuscì a tanto e con precisione som- 
ma, mercè le ricerche attivissime fatte nella 
metà del presente secolo da Nòel de Ver- 
ger, in compagnia del valentissimo ingegnere 
Pietro Rosa romano. Essi formarono una 
carta topografica dei luoghi sopra descritti, 
con l'indicazione del sito della villa oraziana. 
E tale pianta venne inserita dai signori Fir- 
min-Didot nell' edizione splendida in gran 
formato del 1855 delle opere di Orazio, di 



( 126 ) 



cui un esemplare si conserva nella bibliotc 
^ del Louvre. 

E il Nòel de Verger ^^^ così enunzia fc 
posizione, ed io traduco dal francese: Al 
là del villaggio moderno di Rocca Giovar, 
seguendo la via antica che si distacca* 
dalla via Valeria pei condursi da TiVi 
al tempio di Vacuna^ dopo di aver passa 
questo tempio, si arriva, montando sempf 
a una collina chiamata nel paese Colle d 
Poetello , al di là della quale si ossen 
un terrapieno artificiale regolare, oggi mes, 
a coltura, e che manifestamente appare aVi 
dovuto servire come area ad un edifizi 
Dei mattoni rotti dair aratro e mescola 
alla terra del campo sono i soli residui deli 
costruzione antica restata sul luogo; ma i 
forma del terrapieno, r averlo spianato, i 
regolarità dei suoi angoli, indicano il lavof 
deir uomo, e raffigurano la posizione arch 
tettonica delle ville romane di cui le peti 
dici dei monti Albani offrono nei dintori 
di Frascati, d' Albano, di Lavinia^ un cos 
gran numero di esempii. Non è piti quell 
un fondo di valle, è un poggerello elevai 



-«C( 127 ) 



in arcem ex urbe removi, ed intanto questa 
collinetta è perfettamente riparata ad oriente 
dal moftte del Corgnaletto , le cui vette si 
ravvicinano, difendendo il poggio dagli ar- 
dori del sole e dalle piogge che i venti di le-- 
vante soglioìto abbondare in questa parte del 
littorale mediterraneo. 
Ed infatti Orazio scrisse: 

Con r ameno LucretiU 

V arcadi collinette 

Fauno veloce ama cangiar sovente. 

Ed ei da ventipiovoliy 

Ognor le mie caprette^ 

Difende amico e da la state ardente. 44) 

Né bisogna omettere che molto oscuro 
era in Italia nel decimoquinto secolo tale 
punto riguardante la casa abitata da Orazio 
in Sabina, ed il suo podere. E basta leg- 
gere quanto il dottissimo Jacopo Cenna, ve- 
nosino, nella più volte citata cronaca an- 
tica di Venósa, manoscritto che conservasi 
nella Biblioteca nazionale di Napoli, nelle 
breve biografia del poeta dice, e che io tra- 
scrivo: .... Hebbe uua sua villa dotata di 
molte ricreai^ della quale ne ragiona nella 



^ 128 ) 



6* satyra del lib. 2.^ Et in altro loco chù 
lucretile il Mofite eh' era presso la sua 1 
Sabina. Per questo e da saper che uopi Nì 
lontano da Roma e fnontopoli terra la 
piazza pubblica e di una pietra durissimi 
color difierro inselciata naturalmente. Pn 
di essa viene il Fiume Far faro clic se j 
scola col Tevere. Questo Fiume e tnolto a 
no percioche per un gran spatio ch'egli 
sciato i monti dietro ni scorre per la ce 
pagna ma di ogfii intomo coverto da beli 
et frondosi alberi. E le càpagne per doì 
scorre son tutte eulte. Ne la quale amenissi 
pianura a man dritta su qsto fiume e 
bellissimo e gran monasterio chiamato r^ 
badia a Farfara che signoreggia da dì 
castelli: Or questa valle causata da Farfc 
et habitata da tante castelle e quella di 
hebbe Horatio Venusino la sua desideri 
villa e presso di essa hebbe una delitic 
selva; E fu tanto piacevole questa villa 
Horatio che pare che no si vegga mai sa 
in molti lochi di lodarla e di celebrarla 
Da tutto quello che si è sin qui espos 
deve dedursi che la villa di Orazio non e 



•^( 129 )»- 

situata in Tivoli, paese che il sommo poeta 
decanta, ma in quel di Tivoli, in Sabina ( ru- 
fis sui Sabini aut Tiburtini, al dir di Sve- 
tonio ) e presso la selva Tiburtina (luculum 
Tibumi). 

La villa oraziana era situata circa venti chi- 
lometri al nord-est dell* attuale Tivoli. L'in- 
canto della contrada fa proclamar Tivoli come 
il luogo desiderato, tal quale oggi si decanta 
il bel cielo di Napoli da chiunque dimora sia 
a Pozzuoli che a Portici, a Castellammare, a 
Sorrento od a Somma ! 

Le ricerche fatte e tanto felicemente riu- 
scite accreditano sempre più la fama del gran- 
de poeta presso tutte le nazioni del mondo. 
A nessun altro sommo mortale è stata con- 
cessa tanta venerazione da ricercarne con fa- 
tica e studii profondi il sito preciso ove passò 
i suoi giorni, come situata era la sua abi- 
tazione, come era esposta, come era formata. 
Come spiegare questo fenomeno d* investiga- 
zione attraverso i secoli, e sempre fresca, 
vigilante ed attiva? Si spiega facilmente col 
ripetere che la vita di Orazio, i suoi costu- 
mi , il suo modo di vivere eran fondati so- 

17 



-«( I30 )»- 

pra meriti acquisiti col lungo studio e co 
profonda conoscenza della vita umana e e 
gli uomini, e con criterio rettissimo. 

Proseguiamo un po' ad investigare la v 
intima del poeta, le sue credenze, le sue occ 
pazioni e le sue opinioni particolari cor 
uomo non come il primo lirico del mond 
Sarà uno studio fecondo ed istruttivo. 



;^.SSv 



'^AmMm'^"-^ 



•<%.. 




X. 

FILOSOFIA, RELIGIONE, INDOLE, 



A filosofia di Orazio poggiava sui 
' precetti e sulle màssime istillategli 
dai seguaci di Epicuro e di Demo- 
J I crito. Si fondavano le sue credenze sul 
; [ desiderio di ottenere per quanto più 
riuscisse possibile una felicità terrena. 
La qual felicità è pur troppo difficile ad ot- 
tenersi se si considera nel suo vero senso 
il valore di questa che ben venne definita 
commedia umana, poiché la parte che ad 



( 132 ) 



ognuno tocca rappresentare quaggiù può i 
scire di agevole attuazione: ma può pure 
facilmente riuscire insostenibile; stante 
la vita può venire tutta ordita di affanni, 
serie, pentimenti ed altri maggiori gua 
per giunta soprammodo attossicata dalla 
brevità, dallo spettro della morte. 

Deg'ii anni il breve termine 

Vieta ardir lunga speme 

Mentre parliam dileguasi 
V invida età; a due mani 

Stringi il dì d' oggi, 

Non aspettar domani. 45) 

Dove acciuffare la felicità terrena con 1 
prospettive ? 

Mal s' appiglia però colui che cerca co 
pensare le pene con le scarse e fugaci gi( 
che nella vita umana si godono, se non cei 
la sicura medela nella religione. Risulta fu 
di dubbio ciò nonostante che savia dottri 
è cercare di lenire quanto è possibile i doI( 
della vita: perchè la vita è un perenne f 
timento. Orazio scrisse 

dei casi il volgere 

Meglio è soffrire in pace 

Ma pazienza mitiga 

Ciò che non ha riparo. 46) 



( 133 ) 



Né dò è poca cosa, né priva di venire 
alimentata con giusto e morale criterio. Ed 
è appunto ciò che detta la filosofia oraziana. 

Orazio sentenzia che per poter meno sof- 
ft'ire, fa d* uopo desiderare il meno che si 
può, ambire quanto meno riesce possibile, 
contentarsi del poco: non lasciarsi vincere 
da gioja o dolore, (Vafaraxta di Laerzio, il 
m7 admirari) Tessere onesto: carpire quello 
che offre la terra di delizie e di godimenti 
leciti: non affliggersi del domani, che é una 
incognita, la quale si risolve per lo più dif- 
ferente da quanto si era preveduto: pensare 
che dopo la morte incomincia una novella 
vita che si rispecchia in quella trascorsa come 
compenso o pena. Per seguire tale analisi 
filosofica conviene esaminare quale culto am- 
mettevasi in quel tempo, e quale credenza 
coltivavano i Romani che non avevano an- 
cora bevuto queir elisire di vita del cristia- 
nesimo, questo battesimo di civiltà e di pro- 
gresso che apriva vastissimi orizzonti agli 
umani travagliati e sepolti nelle tenebre. 

La divinità, questa sfinge enimmatica in- 
visibile, quest' essenza misteriosa, quest' idea 



-M ^34 )»- 

che non cape in intelletto umano, esercitava 
(come esercita ed eserciterà sempre ) nelle 
menti di quei popoli un fascino podero- 
sissimo. 

I grandi ed i piccoli eran compresi da 
arcana paura, da terrore strano, da mistici- 
smo incomprensibile al figurarsi Giove to- 
nante, al sacrificare a Mercurio, ad Apollo, 
a Marte ed agli altri dei dell'Olimpo, a pre- 
gustare quelle dolcezze che circondavano il 
culto della dea Venere, quella divinità cal- 
daica raffigurata in una colomba misteriosa, 
e che pura e bianchissima si facea nascere 
dalla spuma del mare. 

E da queste venerazioni elevate e sublimi, 
quelle menti piccole e misere scendevano sino 
al basso della superstizione, sino al culto della 
dea Fortuna, sino allo sporco dio Priapo ed 
al dio Momo, che Orazio deride e beffeggia. 

Orazio era amante del culto sebbene scet- 
tico, apata e niente amico di parere il san- 
tusse. Se fosse stato cristiano sarebbe stato 
un credente esemplare, siccome lo fu Dante. 

Nei sacrificii, nelle feste, egli, sacerdote 
delle muse, inneggiava ad Apollo, a Mercu- 



( 135 ) 



rio, a Venere. Mischiava il suo canto a quello 
del popolo pieno di fede: chiedeva protezione 
ed assistenza ai numi, mentre il volgo se- 
guiva (come vedesi ancora tuttodì) a piedi 
scalzi le processioni di penitenza. 

Nei pericoli che corse nella vita avven- 
turosa, intravide sempre un essere sopran- 
naturale che lo traeva a salvamento. 

Allorché ferveva la lizza di Filippi e ne 
scampò. Mercurio lo ritrasse incolume e libe- 
ro. E ritornando egli in patria, la nave sulla 
quale era imbarcato, s'infranse tra gli scogli 
sicani di Palinuro. Una divina provviden- 
ziale potenza lo fé' scampare dal naufragio. 

Quando- viveva in Venosa ed era fanciul- 
letto, per negligenza dei suoi parenti, si di- 
sperse per quelle fitte boscaglie popolate di 
selvaggi animali e ceraste e vipere. Si as- 
sopì stanco sotto un fronzuto recesso: nel- 
r assopimento un serpente volea morderlo; 
un buon dio lo preservò dal velenoso dente I 
Quando nella selvetta Sabina venne assalito 
dal lupo: quando T albero maledetto fu sul 
punto di schiacciarlo non attribuì forse ad 
una forza superiore la salvezza? 



-«( 136 )»- 

Questo venir prodigiosamente preservato 
egli decanta spesso, e con ciò si mostra ri- 
conoscente agli dei protettori. 

L'idea della vita futura la fa tralucere 
manifestamente nel suo superbo epifonema 
a Non omnis mortary>\ cioè morirà il mio 
corpo marcescibile, ma Y anima mia soprav- 
viverà I In che cosa si discosta dalle credenze 
del cristianesimo, se si cangiano i nomi alla 
divinità che dall' alto dispone, assiste e pro- 
tegge ? 

O Jehova, o Dio, o Giove, uno è il prin- 
cipio, r esistenza d' un essere soprannaturale 
che tutto vede e dispone, e che premia o 
punisce. Non è la sommissione buddistica, 
bensì la virile sommissione ad una forza on- 
nipotente. Orazio diceva: 

Che Giove fra celesti 

Tien regno ^ il tuon creder ci feo primiero. ^^ 

E Vittor Hugo in questi ultimi tempi, ben- 
ché ammantato di scetticismo volteriano, gri- 
dava: // est, il est, il est! ■**) 

A tali credenze religiose mescolandosi la 



-c< 137 )»^ 

dottrina che bevve dalle massime di Epicuro, 
il quale insegnava il piacere essere il sovrano 
bene deiruomo, ma che intender devesi non 
solo i piaceri del senso voluti dalla natura, 
bensì più altamente quelli dello spirito, non 
poteva Orazio vivere diversamente da come 
visse, e non poteva la sua vita non riuscir 
di norma a tutti quelli che intendono tra- 
scorrere gli anni di questo pellegrinaggio il 
meno male che loro è concesso. Ed Orazio 
oltre alle dottrine di Epicuro, cercò seguire 
i precetti di Democrito, che poneva come 
principio di sapienza il ridersi stoicamente 
di tutto quello che quaggiù avviene e delle 
diverse pazzie degli uomini. Non altro esem- 
pio tenne presente il gran poeta nel com- 
porre la satira a Damasippo. È pur troppo 
vero che nella natura 'umana havvi un' in- 
nata follia permanente. Orazio diede a sé 
stesso del pazzo perchè poeta. La follia mor- 
bosa non è se non un estremo vizioso di 
quella che neir uomo esiste per natura. I pro- 
dighi, gli avari, i tiranni, gli ambiziosi, gli 
asceti, gli atei, i ribelli, gli sciocchi, i codar- 
di, gli albagiosi, gli analfabeti sono apparen- 



18 



( 138 ) 



temente sani, ma a tutti potrebbe non di- 
sconvenire r erba di Anticiro. 

Orazio sferza duramente, e talvolta, con- 
vien confessarlo, con osceno e ributtante lin- 
guaggio, coloro che ricercano le ricchezze 
con mezzi indecorosi. Eranvi, nel tempo nel 
quale egli visse, vecchie carcasse umane 
imputridite, che, cariche d'oro, credevano sol 
per questo dover essere corteggiate e lodate. 
Egli, seguace di Epicuro e di Democrito, e 
fervente adoratore della Venus decens , di- 
sprezza la bruttezza coperta di perle, e rispon- 
de con disdegnoso rifiuto, con X ottava ode 
degli Epodi, agli adescamenti perigliosi di 
siffatta gente. Meglio bellezza e gioventù con 
poco oro, che deformità e vecchiezza con 
imagini trionfali e scrigni ricolmi di tesori I 

Se si esamina bene, il talismano che pro- 
duce questa continua commemorazione sem- 
pre entusiastica del poeta venosino, si è lo 
scovrirsi in lui sotto le spoglie del gran li- 
rico un filosofo portentoso. Se si seguis- 
sero nella vita umana del tutto le massime 
morali oraziane, corrette dalle massime cri- 
stiane, e depurate degli errori derivanti dal- 



( 139 ) 



r età semibarbara, si avrebbe un completo 
e perenne secolo d'oro. Né occorrerebbe tra- 
sformarsi tutti in Cincinnati, che Orazio am- 
metteva la ricerca dei piaceri leciti e le co- 
modità della vita per quanto, bastino al be- 
nessere dell'uomo. 

U indole del poeta era proclive al retto, 
al giusto. Il suo naturale, benché disposto 
air irascibilità, veniva pure frenato dall' edu- 
cazione e dalla dottrina. I moti dell'ira in 
lui potevano raffigurarsi alla corda dell'arco, 
che, scoccato appena il dardo, diveniva lenta 
e non tesa. Irasci celerem^ tamen ut pia- 
cabilis essem. 

Orazio sferzava specialmente con potenti 
satire, gli avari principalmente, i simulatori 
ed uccellatori di testamenti e favori con arti 
insane, ed i sordidi accumulatori d' oro, sic- 
come i prodighi e quelli che mal fruivano 
delle loro ricchezze o ne usavano da Na- 
sidieni, che son proprio quelli che oggi i 
francesi dicono con bella voce parvenus. 
Questi gli riuscivano esosi oltremodo. Ca- 
rissima é quella satira nella quale racconta 
il pranzo dato da Nasidieno a Mecenate, e 



-^( 140 )»- 

rode al liberto Sesto Mena, che era un vii 
lano rifatto: 



Quanf è t odio natio 

Tra i lupi e tra gli agnelli 

Teco altrettanto è il mio. 



bei tuoi'tesor beato 
Benché ten vai bravando 
Tesor non cangia stato. 
Per la via sacra quando 
Con toga di sei braccia 
Muovi geometrizzando 
Non vedi guai si faccia 
Veder libera noja 
Nel volger d* ogni faccia ? <9) 

Il mondo non cangia con V invecchiare. 
Oggi i parvenus riescono più esosi di quelli 
del tempo dei Romani e pullulano e si mol- 
tiplicano come microbi. Appena un uomo 
volgarissimo, portato alle stelle da fortuna 
cieca o da intrighi o molte volte da nefande 
azioni, si crea una nominanza od una so- 
stanza ed abbonda in dovizie, vuol farla da 
principe di antica stirpe o da borioso pa- 
scià. Ma gli si attaglia male quellaria e quel 
fasto orpellato, che appena nasconde come 



-«( 141 )»- 

velata la nascita vile e Y agire da uomo 
doppio e finto. Lo stesso Sallustio, che sul 
monte Quirinale innalzava palagio da re ed 
orti maravigliosi, e cumulava ricchezze da 
Creso, svelava Y origine plebea nella sua 
immoralità sfacciata, nelle concussioni ma- 
nifeste. Egli confessava che « ma/e parta, 
male dilabuntur », ma non ne fu esempio, 
forse per aver coltivato il suo potente in- 
gegno che gli fece perdonare quelle insa- 
nie, e lo preservò da rovina e vendette. 

Tal quale ad un profumato messere in un 
circolo di gentiluomini gli si scoprisse sotto 
il mantello di taglio elegantissimo e di fine 
stoffa, una camicia bisunta e cenci e rattoppi! 
Sogliono oggi più di prima tali esseri appa- 
rir ridevoli, e nelle brigate si segnano a dito 
e vengono canzonati e conciati pel dì delle 
feste. Sprechino pure i loro danari in cene, 
pranzi, cocchi e cavalli; si adornino pure di 
croci e fasce d' ordini: i manichini unti e rat- 
toppati ne sveleranno Y origine e la pro- 
tervia. 

Gli uomini sommi non cambiano col can- 
giar della sorte, ma sono sempre eguali. Ora- 



-«( 142 )»- 

zio ne è un esempio lampante. Gian Gia- 
como Rousseau compariva nei fastosi balli 
di corte di Maria Antonietta in abito di cam- 
pagnuolo e di erborista. Francesco de San- 
tis vivea in una modesta casetta, mentre 
era ministro del regno d* Italia. Agostino 
De Pretis (per nominar solo italiani illustri 
contemporanei defunti) ricevette il magna- 
nimo re Umberto nel terzo piano d'un pa- 
lazzetto di Roma in un salotto non propor- 
zionato al più grande uomo politico d'Ita- 
lia in quel tempo. Onore al merito 1 

Gli avari, poi, formavano il bersaglio della 
satira oraziana. E con gli avari e la gente 
rifatta Orazio combatteva tutta quella miriade 
di esseri, i quali nel corso della loro esi- 
stenza pare non agiscano se non che alla 
maniera dei bruchi, e tra questi i falsi let- 
terati e i pedanti. Questi particolarmente bat- 
teva e ribatteva; e siccome gli si paravano 
perennemente tra i piedi, come serpi vele- 
nosi li schiacciava col più fiero sarcasmo. 





XI. 
VITA INTIMA 




_.RA2io non era per abitudine mat- 
tiniero. Egli stesso dice che get- 
^tavasi a dormire senza pensiero di 
doversi la dimane levare insieme col 
sole. Gettavasi a dormire, col cuor 
libero da ogni molestia o rimorso 
di aver mal fatto, dopo avere in sua casa 
assaporata, sia la scodella di ceci e lasagne 
conditi con cipolla, oppure delle buone carni 
con pingue lardo, o dei raperonzoU od altri 



-«( 144 ) 



erbaggi con olio fine delle sue tenute; m 
molto moderato per ordinario mostravasi 
parco nel giornaliero vitto. 

Me ulive^ me cicoria 

Pascono^ e lieve malva 

Piace util malva, e pratajuol lapazio, 
Agna immolata, né di sacri a Termine 
Del lupo un caprettin tolto allo strazio, so) 

Né disdegnò pascersi talora di acqua < 
sale intinto il tutto con olio fine, imitand( 
quel costume che vige tuttora presso Tin 
fima classe dei coloni venosini, di nutrirs 
di un miscuglio di pane, acqua e sale ec 
olio che vien detto acquasale. 

E ben, del pan col sale ottimamente 
Del ventre allora accheterà i latrati. sO 

Ofello, quell'altro povero possidente di 
Venosa, al quale furono tolte le terre, per 
che assegnate in guiderdone ai soldati d 
Ottaviano vincitore, gli fu sempre maestre 
in parsimonia e moderazione. 

Quindi non succulento pranzo meridiane 
o serotino ( i Romani solevano fare il lorc 



^( U5 )»^ 

pranzo di lusso e smodato nel mezzodì), in 
cui le vivande aromatizzate e le altre lec- 
cornie, che tanto bellamente nella sua satira 
contro i golosi disprezza e morde, gli avreb- 
bero impedito il sonno tranquillo e leggiero, 
esprimendosi invece così: 

La somma voluttà non già nel caro 
Odor dei ciòi, ma in te stesso annida 
Tu">(a più dolce salsa alle vivande 
Procaccia col sudor. 5^) 

Soleva in compagnia dei suoi familiari ed 
alle vezzose ancelle od amiche, aggiungere 
a queste semplici vivande un buon bicchiere 
di vino schietto e leggiero, che essi mede- 
simi avevano manipolato dopo la gioconda 
vendemmia. 

La sua mensa era linda, lucente, bianca, 
sulla quale campeggiava un vasello emble- 
matico ripieno di sale: e V aveva per caro 
auspicio e quale usanza religiosa. 

Il sale ha avuto grande importanza in tutti 
i tempi, persino nei culti. Presso gli Israe- 
liti serviva per purificare e consacrar la vit- 
tima nei sàcrifizii. L' acqua santa nostra è 

19 



( H6) 



mista al sale. Questa sua grande mondezza, 
non lo dissuadeva dall' invitare a convito 
amichevole, oltre ai suoi amici di condizione 
eguale alla sua, siccome Torquato, Settimio, 
LoUio, Quinzio Irpino, oppure delle donzelle 
di vita allegra ed avvenenti, come Fillide, 
Glicera, Cloe, Tindaride, anche il gran Me- 
cenate, al quale scriveva: 

n nauseoso lusso 

ammirar cessa. 

Grato ben giunger suole 
Sovente ai grandi il variar di scena. 
Cerca mensa frugai^ là dove ammessa 
Non è pompa d^ arazzi^ e non di porpora 
In pover tetto fa sparir le impronte 
Che affanno incide in accigliata fronte. 
Viriti m' è schermo^ ed il seguir m' è pregio 
Povertà senza fasto e senza sfregio. 53) 

Ed in tali circostanze straordinarie mo- 
strar si soleva galante a modo suo. Inco- 
minciava col prevenir gli amici che se con- 
servavano vino miglior del suo, Io portas- 
sero pure alla sua mensa che non se ne 
sarebbe offeso, anzi ne avrebbe bevuto un 
bicchierino di soverchio alla salute del do- 
natore. 



( H7 ) 



Orazio ammetteva che il vino rinfocolasse 
l'estro poetico, e perciò mal soffriva sedessero 
al suo desco gli astemii, sostenendo che pu- 
tirono di vino sin dall' alba le dolci muse. 

Prometteva ai commensali che li avrebbe 
collocati nel triclinio ciascuno presso a per- 
sona che non gli riuscisse antipatica o me- 
ritevole di troppe cerimonie. Né disdegnava 
riservare il posto ai più gai, ai più giovani 
e baldi, presso quelle generose donzelle ro- 
mane di bellezza e brio regine. La gentilez- 
za, poi, formava il principale suo pensiere. 
Così scriveva a Torquato: 

Già il focolare da un pezzo e le stoviglie 

Splendon rigovernate a farti onore 

A bere^ a sparger fiori io già son primo,.,. 

Che sozza coltre 

Che sordido mantil non giunga il nc^so 
Ad aggrinzarti^ che il boccale eh' il piatto 
Tal non sia che specchiarviti non possa 54) 

Né gli piacevano numerosi convitati, ma 
pochi, cari e buoni: 

Che caprino sentore ammorba i troppo 
Folti conviti. 55) 



-«(148 ) 



Riesce in vero gradito e dilettoso figi 
rarsi in mente il nostro Orazio, re del coi 
vito, con quel suo faccione pieno e rose^ 
ilare, faceto, coronato di rose, levigato 
terso colla cute, da sembrare un majaletl 
lustro e pinzo. 

Levatosi da letto, soleva andarsene a zoi 
zo per la sua terra, e dilettavasi a smuover 
glebe e sassi, adocchiare i filari delle vit 
curare gì' innesti delle piante e degli albei 
da frutta; della qual cosa solcano ridere 
vicini, 56) i quali conoscendo come Grazi 
frequentasse la corte, e che di Augusto e e 
Mecenate e di altri potenti fosse familiare 
non poteano persuadersi di questo suo amor 
per così rustiche e basse faccende campe 
stri. Non riflettevano essi che nella ment 
del venosino eravi fisso, incardinato il « m 
admirari y> secondo l'opinione di Laerzic 
e di Democrito. Orazio era dotato di « aia 
raxia » e le grandigie, il fasto, il lusso nor 
lo lusingavano punto, anzi ne era al somme 
disgustato, siccome ritrovava diletto in quelle 
sue. umili occupazioni. Ecco il suo savie 
consiglio: 



( H9 ) 



Alma al ben fare accorta 

Tu serbi • 

inflessibile 

A V oro abbagliator d* ogni pupilla. 57) 

E dopo le escursioni nel podere ponea 
mano a coltivar lo spirito, scrivendo, leg- 
gendo, meditando. 

Solca poi di tratto in tratto recarsi nella 
gran città, in Roma, sia pel disimpegno della 
sua carica di scriba della questura, sia per 
altre faccende, sia per coltivare le amicizie 
di Augusto, di Mecenate e di altri che egli 
stimava, principalmente versati nelle lettere 
e nelle scienze. Ma sen ritirava sfinito, perchè 
la folla dei postulatori, degl'intriganti, dei 
finti amici invidi e malvagi, degli zingani, 
dei ciurmatori, ruffiani, baratti e simili lor- 
dure, e dei molestissimi e garruli falsi lette- 
rati non lo avevano risparmiato. 

villa, e quando io rivedrotti^ e quando 
Potrò dei prischi saggi or fra i volumi 
Or tra il sonno e le pigre ore oziose 
Trarre de V egra vita un dolce oblio ì 
Li fave^ al Sannio, in parentela aggiunte 
E i buoni erbaggi come va conditi 
Nel pingue lardo, oh quando avrò sul desco I 



-«( I50 )»- 

notti I cene degli dei^ dov* io 
Presso il mio focolar coi miei m' assido^ 
E mangio^ ed alla vispa famiglinola 
Dei servii nati dai miei servii io stesso 
I già libati pria cibi dispenso! S^) 

Della sjpa persona soleva avere som 
cura, perchè quasi giornalmente immerge 
nel bagno, e dopo ungere si solea di o 
profumato e finissimo. Nel vestire most 
vasi dimesso e noncurante, ma non pe 
privo di gran pulitezza o da potersi dir < 
dicio e venir fuggito dalle avvenenti e pi 
fumate donzelle che soleva frequentare, 
della sua poca cura a farla da zerbino, M 
cenate amichevolmente soleva rimbrottar! 
ed Orazio che non la mandava buona a chi 
chessia, scherniva Mecenate dandogli del n 
mignolo di Malchino, perchè la sua vest 
alla foggia dei bellimbusti di quel tempo, 
addimostrava troppo corta, al segno da m< 
strare ciò che non è buono che si mosti 
Soleva fare dei viaggi con amici. Il viaggi 
a Brindisi fu quello che più lo commoss 
e se ne vanta perchè trovavasi in comps 
gnia di Mecenate e dei suoi più cari amie 
Virgilio, Vario, Tucca. E Mecenate in que 



( 151 ) 



viaggio esercitava T onorifica carica di mini- 
stro plenipotenziario dell' imperatore. 

Orazio usava il bagno quotidiano, tepidetto 
anzi che no, ciò che lo rendeva a lui pia- 
cevole ed igienico, perchè serviva a tener 
monda la persona, e fare che dalla pelle at- 
traverso i pori si scacciassero i germi dei 
malanni e dei veleni che si respirano nell'aria. 

Ed Orazio doveva dilettarsi pure dell'arte 
di Esculapio, siccome gli si affibiò la no- 
minanza di giureconsulto, al segno che Am- 
bugero scrisse un' opera intitolandola « De 
yurisprudentia Q. Horatii Placet » (Lipsia 
1740). Il celebre medico inglese Tasker 
cita non pochi versi di Orazio come ricette, 
sia per mali nervosi, che per la podagra, pel 
mal d' occhi e per altri malanni. 

Avvenne che in quel suo tempo un me- 
dico della corte di Augusto, un tale Musa, 
facesse propaganda e ponesse in voga l'uso 
del bagno nelle acque fredde. Orazio per ri- 
spetto umano cercò seguire le prescrizioni 
d' un così alto luminare della scienza: pensò 
lasciare i suoi cari bagni tepidi. Scrisse ad 
un suo amico, a Numonio Vaia, chiedendogli 



-«( 152 ) 



se lasciando nella state le sue favorite sta- 
zioni balneari di Cuma e di Pozzuoli e di 
Napoli, che avean pur tesoro di acque cal- 
dissime minerali, avrebbe trovato alloggio 
conveniente e buon vitto, economia e scel- 
tezza nei commestibili (ciò per lui formava 
r interesse maggiore) in Salerno, od a Ca- 
stellammare di Stabia, ove eranvi polle di 
acque freddissime, meglio che a Chiusi od 
a Gubbio. Ma fu tanto il suo ritegno ad av- 
valersi di cosiffatte prescrizioni, che è lecito 
arguire che appena assaporata siffatta medela 
per curare i nervi fiacchi, l'avesse abbandona- 
ta, e ritornato fosse all'antico sistema, for- 
tunatamente senza incoglierne danno. 

E qui cade in acconcio lasciare riflettere 
che non si cangia oggi il metodo ed il co- 
stume antico. Sonvi le stufe a Pozzuoli ed 
ai Bagnoli; sonvi le acque freddissime di Te- 
lese e della Porretta e di tanti altri luoghi 
d' Italia che richiamano moltissimo popolo. 
Molti ritempransi in forze e ne ritraggono 
salute; ma non pochi, malamente consigliati, 
acutizzano di più i loro malanni, o ne ri- 
trovan morte. Stolto è colui che incauta- 



( 153 ) 



mente segue i precetti della scienza pel solo 
fine di seguir la moda o landazzo del giorno ! 
Aggiunger si deve che Orazio, per quanto 
basso di statura, era un po' membruto, tar- 
chiato ed obeso. Augusto gli scriveva, al dir 
di Svetonio: « Sed si tibi statura deest, cor- 

pusculum non deest » E Svetonio: « Ha- 

bitu corporis brevis fuit, atque obesus. » 59) 
Era soggetto ai reumatismi ed al mal d'occhi. 
Come cura al primo difetto organico mal si 
addicea il bagno caldo, mentre pei reumi e 
per la cisposità il bagno freddo lo avrebbe 
rovinato del tutto. Ma X accorto venosino 
cominciò a far capo dai medici quando si 
vide agguantato dalla precoce vecchiezza. La 
vecchiezza è per se stessa un morbo, ed Ora- 
zio cercò curarne le conseguenze con la quiete. 
Fu questa la sua cura principale. E la rin- 
venne e gli riuscì salutarissima medela nei 
campi, nella Sabina. E non volea che gli si 
togliesse un tanto benefizio; ed a Mecenate 
che volea distorgliernelo così scrivea: 

Che non mi rendi 

Il saldo fianco, e su V angusta fronte 
Le nere chiome ì Rendimi il soave 
Mio favellar ^) 

20 



-«( 154 ) 



E poi riporta la graziosa favola del topo, 
che viveasene quieto, tranquillo e pasciuto in 
una bugna di grano, e la donnola invidiosa 
volea farnelo uscir fuori. Quel consiglio si- 
gnificava la sua rovina. Ed alla quiete dello 
spirito e del corpo Orazio accoppiava la par- 
simonia nei godimenti, che difendevalo da 
quelle infermità che sogliono atterrare gli 
smoderati ed i viziosi. 

Orazio, tra il guazzabuglio delle credenze 
pagane, che alla maggior parte dei dotti ap- 
parivano ridevoli, e da lui stesse venivano 
disprezzate e derise, conservava con gran ve- 
nerazione il culto alla colomba mistica, che 
poi si tradusse in Venere, sorta dalle bian- 
chissime spume del mare. 

Tale culto rimontava agli antichi Babilo- 
nesi, Persi e Caldei e si diffuse in Grecia 
ed attraversò i secoli sempre rinvigorito e 
seducente, sino i che il cristianesimo non 
lo purificò, dannandone il misticismo osceno 
e sostituendovi un sagramento immacolato. 

Orazio, nato in Venosa ed istruito in Atene, 
profondo in tutte le dottrine che arricchivano 
quei tempi, non doveva ignorare che nella 



sua patria vigeva la tradizione che nel pe- 
rimetro di essa, per comodo di tutta la co- 
Ionia fenicia, o caldaica di quella regione, 
si fosse eretto il primo famoso Succoth o 
tabernacolo per la divinità Benoth, dal quale 
derivò il nome di Venere e quello di Ve- 
nosa [Benoth, Benotsa, Fienosa), come più 
volte si è riferito. Quel tabernacolo non era 
se non quello che oggi si direbbe un luogo 
di turpissima depravazione superstiziosa. 

Così lo descrive Michele Arcangelo Lu- 
poli: 

(( In 60 enim tabernaculo, qui spurcissimi 
ritus obtinuertnty piget me Christianum ho- 
minem commemorare. Una iisdem Babilo- 
niis lex est omnibus modis foeda. Nampuel-^ 
lae semel in vita convenire in Veneris ta^ 
bemaculo solebant, consuetudinem cum adve- 
nis et externis viris habiturae. Porro in sin- 
gulis spatiis^ quae funiculis distincta, puel- 
lae sedebant, corollis redimitae, nec indefas 
consurgere, et abire, nisi prius hospes ali-^ 
quis, pecunia in ejus sinum iniecta, et rite 
venere Mylitta implorata, rem cum ea seor- 
sum a tempio habuerit. Atque hinc erat, ut 



-«( 156 )»- 

quae elagantiori erant adspectu citius disce- 
derent, quae contra deformi visu per bien- 
7itum, vel triennium, aliquando expectarent, 
quod usque ab abvena quopiam, ad turpe id 
opus seligeretur, quo putabant Venerem My- 
littam exptari... » ^^^ 

E se non vuoisi attribuire a tale uso il ta- 
bernacolo, così da definirlo « fanum filza- 
rum )), ben può dirsi che in esso « mulieres 
ante idolos prostituebantur y> come vuole san- 
to Attanasio, al dir dello stesso Lupoli e del 
Farao. ^^) Non mi è quindi riuscito straordi- 
nario ed inesplicabile quanto in appresso 
verrò esponendo circa le consuetudini do- 
mestiche di Orazio. 

Nelle molteplici edizioni delle opere del 
sommo poeta, le quali riportano la sua bio- 
grafia redatta da Svetonio Tranquillo, ho 
rilevato che si è tralasciata una notizia in- 
teressante che riguarda una sua pratica oc- 
culta, la quale può ben riferirsi al culto sur- 
riferito di misticismo caldaico. 

La vita di Orazio composta da Svetonio 
Tranquillo, che fu V unico che scrisse del 
gran venosino pochi anni dopo la morte di 



( IS7 ) 



lui, e che fa accrescere certezza alle investiga- 
zioni fatte neir analizzarne le opere, si com- 
pone non più di una sessantina di versi di 
stampa. Tutto è laconico e scritto fugace- 
mente, come se si trattasse d* un cenno ne- 
crologico. Sembra che Svetonio abbia vo- 
luto far notare con certa diffusione Solo l'a- 
micizia intima che legava Orazio ad Augusto, 
ed in essa si dilunga, fornendo preziosi brani 
di lettere. La quale riproduzione di brani di 
lettere di Augusto ad Orazio dirette forma- 
vano forse il soggetto che per la maggior 
parte dei contemporanei destar doveva in- 
teresse maggiore, e far di Orazio un uomo 
agli altri superiore per tanto onore. Il brano 
della biografia che è stato cancellato ( forse 
per purgarla), V ho rilevato da un' edizione 
olandese delle opere di Orazio del 1663, pub- 
blicata dal filologo inglese Giovanni Bond, 
che la prima volta comparve in Londra nel 
1614, e dopo se ne riprodussero diverse al- 
tre edizioni intere, ed è il seguente : 

(( Ad res venereas (Horatius) intemperan- 
tior traditur nani speculato cubiculo scorta 
dicitur , habuisse disposila , ut quocunque 



-«( 158 ))•- 

respextsset, tòt et imago e re f erre- 
tur....... )) 

Formava adunque per Fiacco un culto 
(( / ars Venerea » , ed egli addimostrava- 
sene tanto fervente, perchè nato nel luogo 
ove sorse il primo Succoth-Benoth. Nella 
cennata antica cronaca venosina del Cenna , 
il quale era pure investito della prima di- 
gnità del capitolo dell' insigne cattedrale di 
Venosa, si leggono i seguenti versi che rin- 
forzano la mia assertiva: « Alcuni, e spe- 
tialmente Nicolò Franco nelli suoi Dialoghi, 
vanno dicendo che Horatio Fiacco fusse stato 
in sua vita di costumi osceni, il che tutto 
è falsissimo, siccome lo testifica Ludovico 
Dolce nella vita di esso Horatio. » E Luigi 
Poinsinet de Sivry, eccelso poeta francese 
del 1700, nel suo poema. « L Emulation » 
va all'eccesso contrario, proclamando Orazio 
(( modéle de bravoure et de chasteté. » 

Ciò che forma adunque l'addentellato al 
dispregio di molte produzioni oraziane, viene 
per tal riguardo distrutto ; considerando che 
la sporcizia e l'oscenità, non erano poi in quei 
tempi una qualifica essenziale dell' immora- 



( 159 ) 



lità e della disonestà. Egli stesso ripetuta- 
mente bersaglia, bistratta, dispregia e colpi- 
sce gli adulteri, i violatori delle vergini, 
gl'incestuosi I Eran questi per lui grimmo- 
rali ed i disonesti. E se non è questo il cor- 
reggere i costumi, qual altro fondamento di 
morale, mancando la cristiana, poteva offrir- 
gliene sostegno ? 

Egli rampogna acremente i Romani d' ir- 
religione e lascivia. Egli volle vivere sempre 
celibe. Del nodo d'Imene aveva tale concetto 
d' alta responsabilità che non volle allacciar- 
sene, né restarne tenacemente avvinto. La 
moglie di Mecenate gli forniva un esempio 
troppo splendido d* incostanza, infedeltà e 
disonestà. Terenzia seguì Augusto in Asia 
abbandonando lo sposo. E non parea conve- 
niente al sagace venosino far la triste figura 
di Mecenate, intendendo professare V opi- 
nione di Seneca a tal riguardo, quando com- 
pose la biografia del marito dell' infedelis- 
sima Terenzia. (^^) 

Il suo celibato vien confermato dal non 
aver scritto mai carme o verso per donna 
che fosse stata sua moglie. 



( i6o ) 



E lo dice esplicito e chiaro nell'ode 8* del 
libro 3^: 

Te Mecenate il rimirar sorprende 
Che vivo cespo ardente^ e incensi^ e altari^ 
Io cèlibe^ di ?narzo a le calende 

E fior prepari. <**> 

E solo ad un celibe sarebbe convenuto far 
pompa di tante conoscenze di cortigiane e 
donne allegre. Lagage, Gige, dori, Barine, 
Foloe, Leuconoe, Noebule, Lidia, Neera, 
Glicera, Tindaride ed altre dimostrar posso- 
no, essendo state amanti riamate di Orazio, 
che se egli non aveva moglie, godeva non 
poco del benefizio inapprezzabile di essere li- 
bero e celibe. 




ìÀjiS^Ì 




se. "*-Sj 



XII. 



GLI ULTIMI ANNI DEL POETA 



GuOALio — Tml. di Orm 



, N moltissimi punti delle opere di 
Orazio appare che nella sua mente 
elevata si presentava l'immagine della 
morte, questo indecifrabile, nebuloso, 
oscurissimo problema, questo fatto in- 
cognito, pauroso e spaventevole. E dir 
ch'egli covava in petto un cuor di ferro, e so- 
steneva che : 

Con impavido ciglio 

Se delteteree spere in pezzi infrante 



( l62 ) 



Valta compage piombi 

Sotto il suo minar Jia che s* intombi, ^^s) 

Non poteva con tutto ciò esimersi da quella 
paura istintiva, da quel senso di terrore in- 
generato dal dover mancare alla vita, dal do- 
ver brancolare nelle tenebre dell'ignoto. 

...... Nato a morir ^ 

Tutti attende alfin quella profonda 

Che non conosce aurora unica notte . . 

Hctssi un giorno a calcar la stigia sponda . . . 

Presto rapì t inclito Achille morte 

E a me ciò farse offrir vorrà la sorte 

Necessità di morte 

Getta sovra ciascun 

Legge crudeli Ma pazienza mitiga 

Ciò che non ha riparo 

Tutti spigne tal forza ad ugual meta 

Che a pugnar seco è mortai forza inabile. 66) 

Tutta la sua filosofia: le massime di De- 
mocrito e di Epicuro, che facean precetto 
essenziale di dispregiare e non curare gli 
orrori del sepolcro, non bastarono a toglier 
questo pensiero ftinestissimo dalla mente di 
lui. In mille maniere lo rimuginava, lo com- 
mentava, compiacevasi tormentarsene. La lu- 
ce ed i fulgori delle verità cristiane non gli 
rischiaravano l'intelletto e non gli molcevano 



( i63 ) 



il dolore, promettendogli una patria lassù, 
sulle sfere, patria immutabile, bella d' ogni 
godimento ed allietata dalla vista di quel Dio 
rimuneratore e buono ed onnipotente. 

Ammetteva Y Èrebo e Y Olimpo, come so- 
levansi ammettere quei miti inverosimili ed 
incredibili, che acchetavano la bramosia di 
quei popoli privi di una fede consolatrice, 
che prometteva la beatitudine ventura come 
compenso alla vita onesta e laboriosa. 

Dato che il piacere terreno formar do- 
vesse la meta della felicità, che poteva spe- 
rarsene dalla vita futura? Il nulla, la distru- 
zione completa, la particella della materia 
andava a ricongiungersi alla materia: 



Noi cadendo 
Nella notte che non sgombra 
Più non siatn che polve ed ombra . 
Degli anni il breve termine 
Vieta ordir lunga speme: 
V ombre favoleggiate e la perpetua 
Notte già già ti preme, 67) 



Nella distruzione completa del suo essere 
Orazio ammetteva che soltanto una parte di 
se stesso sopravviver dovesse eterna: cioè il 



(J60 

frutto dei suoi sudori, il suo monumento: 
r anima sua. 

E tale credenza, che non era dubbio, gli 
scusava la fede nel!' immortalità dello spi- 
rito umano. 

L* (( omnis moriar », espressione tanto 
concisa per quanto chiara, spiega che non 
eravi dubbio in lui neir immortalità del- 
lanima. La paura della morte comune a tutti, 
sebbene con tanta jattanza, dalla maggior 
parte apparentemente sfidata, più che Ora- 
zio vinceva il suo protettore , Mecenate. E 
siccome la paura è attaccaticcia e conta- 
giosa, Orazio non addimostravasi meno al- 
larmato di lui. E tal pensiero dominante 
trapela nelle sue opere, come quell'altro, 
che lo mordeva sordo, della nascita vile ; né 
bastavagli a frenargli la lingua, la sua for- 
tezza e valentia. La paura della morte era 
così possente in Mecenate da fargli dettar 
quei versi riportati da Seneca, che non 
fanno grande onore al valoroso romano: 

Vita dum superest, bene est 
Hunc mihi vel acuta 
Si sedeam cruce^ sustine ! 68 ^ 



-«( i65 )»- 

Tanto grave e scoraggiante riusciva per 
lui tale idea, che avrebbe meglio amato ve- 
nire inchiodato in croce come l'ultimo dei 
malfattori e vivere, che farsi tragittar da Ca- 
ronte nella palude Acherontea. 

Orazio venivalo consolando con teneris- 
sime espressioni, perchè Orazio non era co- 
dardo, né intendea scoraggiarlo maggior- 
mente. Ma le sue espressioni non appro- 
davano gran che. Tentò alfine porre in ope- 
ra il savio consiglio, che la pena gli sa- 
rebbe venuta scemata sapendolo compagno 
nel dolore, ed è perciò che gli dice senza 
essere scevro di paura : 

, Non piace ai numi 

Che i tuoi si spengano pria dei miei lumi 
Un dì medesimo fia d* ambi estremo 
Ne il voto è perfido, inseparabili 
Andremo^ andremo. Che pria se muori 
Pur teco air ultimo comun mi trovi 
I nostri unanimi fuor S ogni esempio 
Astri consentono 69) 

E tale profetica consolazione, per istrana 
fatalità, si verificò pur troppo. Non è lecito 
veder tutto con tinte soprannaturali. Buona 
parte di quello che molti direbbero spirito 



-«( i66 )»►- 

profetico attribuir si deve alla paura della 
morte che premeva così Mecenate come O- 
razio. E la paura, il dubbio dell' ignoto, non 
è vigliaccheria, bensì è innata nella natura 
umana. Anzi prode è colui che questa paura 
affronta, e guarda imperterrito quella figura 
armata di falce, sfidandola sui campi delle 
battaglie, al letto degli appestati. 

Se non vi fosse terrore e spavento istin- 
tivo del morire, quale prodezza, qual valentia 
sarebbe affrontare impavido la mitraglia e le 
pesti, il mare irato ed il baleno delle armi 
nelle tenzoni cavalleresche ? 

L' amistà che legava Mecenate ad Orazio, 
il sentirsi quel grande consolato da lui così 
coraggiosamente lo fecero memore del poeta 
che l'assisteva nelFora estrema a preferenza 
degli altri. Nel suo testamento scriveva ad 
Augusto, al dir di Svetonio: (c Prendete cura 
di Orazio Fiacco come prendereste cura e 
terreste memoria di me stesso I » 

E riesce veramente straordinario come, 
morto appena Mecenate, che era già soffe- 
rente e presentiva la propria fine , dopo 
pochi giorni, un subitaneo malore colpì il 



( i67 )»- 



sommo poeta, da non lasciargli neppure il 
tempo di dettare in iscritto le sue ultime vo- 
lontà. Andonne misteriosamente a raggiun- 
gere r amico neir ima notte, siccome aveva 
promesso. 

Orazio morì neir anno di Roma 746, es- 
sendo consoli Caio Mario Censorino e Caio 
Asinio Gallo, nell'età di anni cinquantasette, 
due mesi e qualche giorno, cioè nel dì 27 
novembre. 

Già da qualche tempo varcati i dieci lu- 
stri, Orazio non senti vasi sano: accusava sof- 
ferenza ai nervi e malinconia che accom- 
pagnar sogliono per lo più quelli che tra- 
scorrono molte ore del giorno a logorarsi 
la mente coi severi studii. Perchè i visceri si 
rendono sofferenti per le occupazioni men- 
tali, e defatigata la mente, la tetraggine 
invade il cervello , principalmente quando 
gli anni incalzano. 

In una lettera che il poeta scriveva ad 
un compagno d'impiego nella questura, Cel- 
so Albinovano, suo amico, ma che giunto al- 
l' apogeo della grandezza, perchè ben ve- 
duto e careggiato dal giovane Nerone, erede 



( i68 



dell' imperio, mostravasi altezzoso e superbo 
(sebbene non manchi la nota sarcastica, ben- 
ché infermo , per questo favorito di ven- 
tura) così diceva : 

Dritto né ameno è di mia vita il corso^ 

Perché men della mente sano 

Che delt intero corpo^ udir vo' nulla, 
Nulla imparar che il morbo sgravi, I fidi 
Medici fanno orror, gli amici restia 
Perchè al sottrarmi al rio letargo intesi. 7o) 

Ed a Mecenate . scriveva : 

Ma di cor debil troppo e troppo infermo 
Me conoscendo^ chiederai tu quale 
Il mio far possa al tuo periglio schermo ?... 70 

Col corpo affranto dal peso degli anni, 
dalla vita trascorsa nelle fatiche mentali e 
nelle avventure e nei godimenti venerei, 
sopraggiunse ad Orazio la nuova della mor- 
tale malattia del suo Mecenate e la fine dì 
questo. Il colpo fu troppo violento e dovea 
riuscirgli fatale. La sua fibra debole non 
poteva resistere. Pomponio Porfirio, che con 
lo scoliaste Elanio Acrone, dilucida le la- 
coniche note di Svetonio, circa la vita di 
Orazio, dice che lo stato suo di salute era 



( i69 ) 



deteriorato assai con gli anni, che non gli 
conveniva più restar l'inverno nelle monta- 
gne della Sabina, nella sua cara villa : che 
svernar soleva a Tivoli (ed egli stesso lo 
scrisse) come il luogo più aprico: ce Tiburi 
enimi fere otium suwn conferebat , ibique 
carmina conseribebat.ì) E Tivoli desiderava 
Orazio infermo e pensava morirvi là. Così 
egli scriveva al fido amico Settimio: 

Oh tregua al vecchio fianco 

Tivoli dia 

Quivi piagnente di pietosa stilla 

Spargerai la calda delt amico vate favilla. 7^) 

Certuni erroneamente attribuirono la mor- 
te di Orazio a suicidio, tanto apparve strana 
la coincidenza della sua con la morte di Me- 
cenate. Ma deve venire del tutto bandita 
tale idea per le seguenti ragioni. Orazio 
dei suicidi soleva fare aspro maneggio, so- 
leva dileggiarli; e la storia di Empedocle, 
che ricorda ntìV^rfe poetica, chiaramente 
lo dimostra. Empedocle per desio di molta 
vanagloria e prodezza, invano precipitossi 
neir Etna. Ma la sua pantofola ne tradì la 
inutile bravura. 



22 



( I70 ) 



Esaminando imparzialmente e con co- 
scienza la vita di Orazio, si nota che ogni 
sua cura si volgeva a conservarla, sia che 
militasse a Filippi, sia che vivesse in Sa- 
bina. Era poi tarchiato ed obeso, e quindi 
facilmente proclive all' apoplessia. Che era 
già fiacco e malandato in salute nel suo 
undecimo lustro. Che il dolore della per- 
dita del suo più caro amico e protettore 
Mecenate (egli così amante degli amici e 
riconoscente) doveva avergli prodotto tale 
un rincrudimento dei suoi malanni da dar- 
gli la morte con colpo apopletico. E son 
numerosi gli esempii di fratelli od amici 
ancor forti e vegeti , che, toccati dalla re- 
pentina disparizione d* un fratello o d' un 
amico, li han seguiti immantinenti nella 
tomba sopraffatti da colpo di malore vio- 
lento. 

Non altrimenti deve pensarsi di Orazio. E 
che fu tale il suo genere di morte lo prova 
poi chiaramente il non avere avuto il tempo 
di tesser un elogio funebre al suo sommo 
protettore Mecenate, che aveva assistito negli 
ultimi momenti, mentre lo fé' con Virgilio e 



-«( 171 )»-* 

con altri. Eppoi non ebbe forza di scrivere 
il proprio testamento. 

Svetònio dice: (c Quum urgente si va- 
letudinis non sufficeret ad obbligandas testa- 
menti tabulas . )) 73) 

Dovette avvalersi di quello che, dice Giu- 
stiniano, prescrivevasi dal giure civile di 
quel tempo, cioè della prova testimoniale di 
sette cittadini, che dinanzi notaro provarono 
esser volontà del moribondo Orazio che l'im- 
peratore Augusto fosse il suo erede, Orazio 
per decidersi a lasciare erede \ imperatore , 
che consentì ad accettare \ eredità, doveva 
esser fornito di non pochi beni di fortuna. 
Che di fondi, che di valsente doveva aversi 
senza manco veruno un buon dato, stante 
la sua parsimonia. E lo certifica Svetònio 
quando accennando alle largizioni di Me- 
cenate e di Augusto dice: (( Unaque et al- 
tera liberalitate locupletavit. » 

Ma delle sue sostanze rimaste non ap- 
pare vestigio od accenno, meno della villa 
e del podere in Sabina, che han formato, 
come si disse, la paziente investigazione 
dei dotti archeologi e degli ammiratori 



( 172 ) 



del grande poeta. L' aver lui posseduto po- 
deri in Taranto, a Tivoli od a Roma, non 
è che una supposizione dei comentatori 
delle sue opere, che di. ciascuna sua aspi- 
razione han formato un dominio. Mentre 
chiaramente Orazio, nella sua diciottesima 
ode del secondo libro dice: (c Satis beatus 
unicis sabinis. » La quale esplicita dichiara- 
zione formò la base delle rimunerate inve- 
stigazioni archeologiche del Capmartin de 
Chaupy, siccome si accennò parlandosi della 
villa oraziana. Che anzi in Taranto è comune 
r idea falsa che Orazio si avesse colà un po- 
dere nel luogo detto ce Le Leggiadrezze ». 
Ma per quante ricerche siansi fatte dai dotti, 
principalmente dal Tommaso Nicolò d' A- 
quino, autore dell'opera Delle delizie Taran- 
tine, da Giambattista Gagliardo nella sua 
Descrizione topografica di Taranto, e da Ate- 
nisio Carducci, illustre letterato tarantino, 
nella sua versione dell' opera del D'Aquino, 
con note, non si è potuto affermare che Orazio 
avesse dominio in Taranto, ma soltanto ohe 
vi avesse fatto delle brevi escursioni per 
isvago. In Venosa poi, sua patria, non evvi 



( 173 ) 



vestigio di casa o podere a lui od ai suoi 
appartenuta, dovendosi credere erronea V as- 
sertiva di Jacopo Cenna, venosino, nella sua 
cronaca manoscritta, più volte mentovata, 
della città di Venosa del 1500, nella quale si 
dice aver posseduto Orazio una casa presso 
le antiche mura della città, a levante, forse 
alludendo a quella che si accennò nei capi- 
toli precedenti, appartenente ad uno della 
tribù Grazia romana, e di cui ritrovossi iscri- 
zione. E da tale ipotesi lascia derivare che 
dalle finestre di quella sua abitazione in Ve- 
nosa, Orazio spaziasse con lo sguardo sopra 
vastissime campagne, e da quella veduta 
venisse ispirato a dettare i versi : « Lauda- 
turque domus longas quae prospicit agros. » 
Perché non riferire invece con maggiore pro- 
babilità air agro Sabino ? Ciò si dimostra 
chiaramente erroneo, quando si riflette a tutto 
ciò che si è riferito nei capitoli precedenti 
circa la dimora di Orazio in Venosa, ove 
si trattenne solo adolescente : circa la con- 
fisca di tutti i beni della sua famiglia, perchè 
seguace di Bruto, e particolarmente per non 
averne fatto il menomo indizio in tutte le 



-«( 174 ))^ 

sue opere. Venosa ai tempi di Orazio era 
cinta da fitte boscaglie, e la lunga esten- 
sione dei campi asserita dal Cenna è un 
sogno. 

Che Orazio abbia fatto in Venosa qual- 
che rara apparizione , forse per diletto ed 
in compagnia d'amici, lo lascia desumere 
soltanto r ode al fonte di Bandusia, che 
rumoreggiava con polla cristallina ed ar- 
gentea nei fitti boschi di Banzi , dove es- 
sendosi recato Orazio a cacceggiare od a 
merendare, dovette improvvisare quei versi. 
Ciò a seconda dei pareri dei più dotti illu- 
stratori delle sue opere. 

Orazio, come si disse, nacque a dì 8 
dicembre del 689 dall' edificazione di Roma, 
essendo consoli Lucio Aurelio Cotta e Lu- 
cio Manlio Torquato. Morì a dì 27 no- 
vembre del 746 di Roma, consoli C. Mario 
Censorino, C/ Asinio Gallo , cioè nell' età 
di anni cinquantasette. Acrone scambia però, 
per errore dei copiatori delle sue opere , il 
numero LXXVII per LVII, assegnando ad 
Orazio anni settantasette. Ma Pietro Cri- 
nito asserisce: « Alti supra septuagesimum 



( 175 ) 



annum vixisse scribunt, quod ego tamen fai- 
sum existimo. » 

Ed Eusebio, nelle sue cronache, siccome 
Svetonio, ritengono con precisione gli anni 
della vita di Orazio essere stati cinquanta- 
sette, il primo dicendolo morto nel XXXIV 
anno di Augusto, il secondo asserendolo 
morto nelle date surriferite, e riportando i 
consolati rispettivi sotto cui nacque e morì ; 
dai quali limiti precisi estremi non è lecito 
discostarsi. 

Il suo cadavere venne trasportato , tra 
il compianto universale, in Roma, (non è 
indicato da alcuno antico scritto il luogo 
preciso ove morì), e rinchiuso nella tomba 
della famiglia Cilnia. Dacier sostiene, nelle 
sue annotazioni alla vita di Orazio di Sve- 
tonio, che Mecenate possedeva un superbo 
palazzo suir Esquilino, e presso ad esso 
una tomba monumentale. In questa ripo- 
sarono Mecenate ed Orazio. Mecenate ed 
Orazio vissero amicissimi, intrinseci, vera- 
mente uniti di pensieri e di amore ; benché 
l'uno nato di reale famiglia e di sangue 
purissimo, e X altro figliuol di liberto. 



-«( 176 ) 



Una possanza inesplicabile ed onnipotente 
li fece incontrare, divenire tra loro stretta- 
mente simpatici, e quindi insieme dormire 
nello stesso Ietto V ultimo sonno I 

Di Mecenate i tardi posteri ricorderanno 
le gesta e la gloria pel suono reboante della 
tromba della fama procacciatasi col proteg- 
gere generosamente quella schiera immor- 
tale di uomini che vissero nel secolo di Au- 
gusto. Il gran venosino vivrà eterno pel suo 
nionumento. È tutta sua la gloria che fa 
semprepiù, col trascorrer dei secoli, stupire 
l'umanità, e che non cesserà sinché traccia di 
vita sarawi sul globo. 

Del sommo poeta non si conservano sta- 
tue antiche o figure nei monumenti da po- 
terne precisare la struttura corporale ed i 
lineamenti. Ma dalle sue opere ne appare 
tanto chiaro il ritratto, che basta coordinare 
le parole che si riferiscono al suo fisico, per 
vederselo innanzi vivo e parlante. Egli de- 
scrive con certa vanagloria la lussuria dei 
suoi capelli d' un bel color d' ebano , che 
ombreggiavangli la fronte virile e balda, ma 
che gli anni e le cure aveano resi argentei. 



-«<( 177 )J^ 

Vantava freschezza di tinte ed una carna- 
gione levigata tanto da farlo andare in sol- 
luchero. 

Ammetteva che le donne dovessero amar- 
lo, più che per la valentia in verseggiare, per 
la sua amabile figura, pel sorriso che gl'infio- 
rava sempre il labbro corallino, per la sua 
gaiezza e per la piacevolissima conversazio- 
ne, pel tuono soave della sua voce. Tace circa 
r unico difetto suo, circa l'obesità, che si de- 
sume dagli scherzi e dai frizzi amichevoli che 
r imperatore Augusto soleva regalargli, sino 
a dargli del apurissimum et homuncionem le- 
pidissimum. Vereri sed si Ubi statura deest, 
corpusculum non deest. » E chiaramente Sve- 
tonio dice: « Habitu corporis brevis fuit 
atque obesus », siccome dinanzi si è accen- 
nato. Non cela però che aveva gli occhi af- 
fetti da cispa ed i capelli precocemente inca-r 
nutiti: che dell' esser detto Flaccus (cioè 
orecchiuto ) da Plutarco, non giova tenerne 
conto, potendosi alludere al soprannome 
scherzoso dato a quelli della famiglia del 
poeta. Ma cotesti non posson dirsi difetti 

corporali, bensì malanni che sogliono sopraf- 
fa 



-«( 178 )m^ 

fare gli uomini che hanno logorata la vita 
sui libri. Ed Orazio stancò la mente con pro- 
fonde vedute, e parlato aveva col proprio 
esempio. Egli scrivendo ai Pisoni, disse: 

Vói giorno e notte con assidua mano 
Svolgete ognora gli attici modelli 

Oprò, sudò, gelò, 74) 

Aveva poi con la milizia aspra, defatigati 
gli anni più teneri. Tutto ciò lascia chia- 
ramente definire essere stato Orazio Fiacco 
un beir uomo, nel più esteso senso della 
parola, meno per la statura. E mal si appi- 
gliano quegli autori che ritrassero Orazio 
alla foggia d'un parruccone piagnucoloso, 
poco simpatico e stralunato. Orazio non era 
tale. Non è difficile imbattersi anche oggidì 
con dei sedicenti sapienti, o dei sapienti dad- 
dovero, che lasciansi crescere un zazzerino 
ridicolo dietro la nuca, la barba ispida ed in- 
colta sotto il mento, e le unghie adunche 
alle sordide mani, lasciando errare sul pal- 
lido labbro un perenne risolino di scherno, 
sempre burberi ed altezzosi, ed atteggian- 
dosi a pose non dicevoli ad uomo a modo. 



-«( 179 >- 

Questi hanno improntata una certa tinta di 
pazzia benigna, che in luogo di ammira- 
zione suol destare compatimento, antipatia e 
ribrezzo. Le cellule del cervello, Y involucro 
osseo che le ricopre, il corpo umano, non 
han bisogno di quella veste esterna non 
naturale, oppur naturale, sian cenci o por- 
pore, adipe, globuli rossi, magrezza estrema, 
capelli o calvizie per foggiare un genio od 
un cretino I Si può essere profondo filo- 
sofo, saggio come gli antichi della Grecia, 
e conservar forme aristocratiche, linde, ma- 
nierose, affabili, con un corpo formato al 
pari di Antinoo. Orazio ne sia esempio lu- 
culento, e Foscolo e Byron e Leopardi 
negli ultimi scorsi anni così difformi tra 
loro. 

Assicura Giuseppe Ilario Eckhel, celebre 
antiquario austriaco, nella sua opera « Doc- 
trina Nummorum » e lo conferma Masson 
nella sua vita dì Orazio, nel capitolo inti- 
tolato « De Horatii effigie », essersi rin- 
venuti dei medaglioni di metallo, terminati 
nella loro circonferenza con un cerchio da 
tre a quattro millimetri di larghezza, e che 



( i8o ) 



possono ben rassomigliarsi alle nostre me- 
daglie commemorative o di onore, nei 
quali si vede inciso in un lato un busto , 
ed intorno ad esso la scritta chiarissima 
(( Horattus », mentre nell' altro lato la scritta 
n' è illegibile e consumata. Il busto anzi- 
detto è modellato esattamente a tenore di 
quanto più sopra si è esposto. Uno di essi 
si conserva nel museo del Louvre. E certo 
appaiono riproduzione di busti o medaglie 
d' onore di Orazio vivente, eseguiti nel 
quarto secolo dell' era volgare. Tale almeno 
è r opinione del dottissimo barone Walke- 
naèr. Nessun busto marmoreo, come si disse, 

« 

o di bronzo si è rinvenuto che ricordi il gran 
venosino. Deve però convenirsi che un uo- 
mo che ha da poco varcati i cinquant' anni, 
raro è che si renda deforme e barbogio. 
Anzi la razza umana generalmente suole 
giungere a questa età ancora atta a buona 
vegetazione, e ad abbellirsi e conservarsi. 
Se r aureola che circonfuse Orazio non 
fu il (( nomen imitile » e neppure X opi- 
nione che i suoi contemporanei ebbero di 
lui ( opinione poco proporzionata ai suoi 



-«( i8i )>9^ 

meriti, secondo che dottamente asserisce 
Leopardi, ^s) e negli anni seguenti non ebbe 
tra i dotti il primo posto, perchè Dante 
stesso chiamò Virgilio Aquila ed Orazio 
Satiro), maggiormente risulta la sua vera 
gloria dal sempre fecondo entusiasmo che 
per r eternità gli uomini risentiranno per 

lui 

Trascorsi appena nove anni dalla morte 
di Quinto Orazio Fiacco, nasceva Gesù Cri- 
sto, il rigeneratore dell'umanità. Oh età por- 
tentosa ! 




t»**.**^!-*-^*»**-*»*-*^-*-! 






^'^-^•S-^-f-fxf-****^»!**-?-^ 



XIII. 
L'ETERNO MONUMENTO ORAZIANO 



Ouao - za. I/I. - Ode XXX. 




HE dire di Orazio poeta, creatore 
nella letteratura latina di due ge- 
neri di poesie del tutto nuove, e che 
seppe far giungere ed elevare persino 
I la lettera all' eccelsitudine dì un ge- 
nere poetico? 
Quintiliano dice : '*' « Dei lirici Orazio è 
quasi il solo che merita di esser letto, poiché 
s'innalza talvolta con slancio ammirevole: è 
pieno di dolcezze e di grazie, e nelle varietà 



-«( i84 )»-* 

delle figure, delle espressioni, d' una felicis- 
sima audacia. » E Petronio ^7) continua as- 
serendo che (( fra i romani Virgilio ed Ora- 
zio sono accuratemente felici, come Omero 
ed i lirici greci. Perocché gli altri o non vi- 
dero la strada che conduce al lirico stile, o 
non ebbero il coraggio di batterla. » E que- 
st* opinione distrugge la miserabile assertiva 
di Frontone, ^s) al dir di Leopardi, ^9) che 
chianja Orazio Fiacco , siccome accennossi, 
appena poeta non isprezzabile [memorabilts 
poeta). Tanto potevano in questo possessore 
degli orti mecenaziani V invidia ed il livore, . 
che tra certi letterati sono solite malattie I 

Ma Lucano, Marziale, Virgilio, Vario, Ti- 
bullo, Ovidio, Petronio, Sidonio Apollinare, 
S. Girolamo, Venanzio Fortunato, Persio , 
Giovenale, Lattanzio , Alessandro Severo , 
Dante, Voltaire e cento altri, a coro una- 
nime, gridarono le lodi del gran venosino. 

Moltissimi eruditi si sono occupati di stu- 
diare precisamente le opere di Orazio. I più 
celebri fra essi nel mondo, siccome il Bent- 
lejo, il Masson, il Dacier, il Sanadon, il 
Passow, il Kirckner, il Franke, il Weber, 



( i85 )>9- 



il Grotefend, THart, il Milmon, lo Stalbaum, 
il Weichert, il Jahn, il Mitscherlich, il Dab- 
ner, il Jacòbs, il Leissing, il Margestern, 
il Walckenaer, il Siringar, il Manso, V O- 
relli, si avvalsero degl' interpetri antichi delle 
opere oraziane, Elenio Acrone, Pomponio 
Porfirio, e dell'altro che prendendo nome 
dal suo editore, si disse Scoliaste Cruchiano, 
non meno che di Emilio e Terenzio Scauro. 

Ciascuno di essi ha cercato desumere con 
pazienti ricerche il tempo nel quale Orazio 
scrisse le singole parti del suo eterno monu- 
mento. Cercherò notare le più interessanti 
investigazioni. 

Orazio dapprima scrisse le satire e ne 

compose il primo libro negli anni di Roma 

713-718 , non avendo ancora raggiunto il 

trentesimo anno. Pare che la prima di tutte 

sia stata la settima fatta neir inverno del 

713-714. In essa, siccome si accennò, irrompe 

con impeto sarcastico contro un tal Rupilio 

che con lui aveva militato nell'armata di Bruto, 

Segue poi la seconda scritta nell' autunno del 

714, nella quale parla in generale dei vizii di 

cui la società romana era infetta. La quarta 

24 



^ i86 ) 



satira fu scritta nell'estate del 715, ed in 
essa cerca scusarsi col pubblico dell' essersi 
mostrato un po' virulento nello sferzare la 
cattiva gente, e secondo il parere di Wei- 
chert fu questa la satira che i suoi amici 
Virgilio e Vario presentarono a Mecenate, 
avendo inculcato al poeta di scriverla per 
cattivarsi l'animo di quel potente. Scrisse 
la terza nel principio del 716, ed in essa fa 
vedere che mentre gli uomini sogliono cri- 
ticare i vizii altrui, son ciechi a vedere i 
proprii. Il Vangelo dice : « Tu suoli ve- 
dere il fuscello nell'occhio del tuo prossimo, 
e non vedi la trave che è lì lì per acce- 
carti ? )) Dopo poco tempo da che tale satira 
venne pubblicata, Orazio fu ammesso tra i 
commensali di Mecenate; infatti la satira 
quinta che descrive con gran lepidezza e pre- 
cisione un suo viaggio da Roma a Brindisi, 
vi fa risaltare la figura di Mecenate come 
attore principale e come uomo politico, spe- 
dito dal governo per delicati maneggi a quel 
luogo di sbarco ad abboccarsi con altri per- 
sonaggi influenti, e che compagni insepa- 
rabili di lui furono Orazio, Virgilio, Vario, 



( i87 ))^ 



Cocceio e Tucca. Compose poi la prima 
satira in omaggio al suo gran protettore, e 
pubblicando il libro nel 717-718, la pose 
come principale, perchè a lui dedicata e per 
testimoniargli la sua stima ed il suo affetto. 
Scrisse la nona dopo circa un anno per cor- 
reggere quei miserabili che invidiandogli la 
protezione di Mecenate, mostravano, .mor- 
dendolo col dente velenoso della livida in- 
vidia, di non esserne a parte. La bellissima 
satira sesta, nella quale pone la virtù come 
il vero blasone che onora gli umani, e l'ottava 
con la quale schernisce i superstiziosi e le 
donnacce, furono scritte, secondo l'opinione 
di Spohn, nel 719. 

Il libro degli Epodi era già stato com- 
posto da Orazio prima del cennato primo li- 
bro delle satire, ma fu pubblicato non prima 
del 729. 

Vuoisi che abbia preso il nome di Epodi 
dai versi Epodois di Archiloco, che fu l'in- 
ventore dei giambi, al dir di Diomede gram- 
matico. Sebbene altri sommi scrittori, com- 
preso il Gargallo nelle note, ammettano che 
epodi si dicesse il libro compilato da odi pò- 



^ i88 )m^ 

stume di Orazio, fondandosi sul termine gre- 
co epodem, che significa sopraccantare. 

Benteley, Weichert e Jahn sostengono che 
il secondo libro delle satire sia stato com- 
posto negli anni 719 a 729. E la terza del 
secondo libro delle satire sostengono essere 
stata scritta nella villa Sabina, nel 721, dimo- 
strando che già poco più che trentenne Orazio 
avea avuta donata quella proprietà. 

Riguardo alle odi, furono scritte, se- 
condo il parere di Butman, del Dacier e 
di altri dotti, nel 726 al 732 sino al 734, 
E da quest'anno ed i seguenti sino al 744, 
cioè nella sua età di anni cinquantacinque, 
solo l'ultima ad Augusto, come omaggio 
al più grand' uomo del secolo e suo insi* 
gne benefattore. 

Orazio dalla sua villa aveva spedito ad 
Augusto diversi scritti e molte delle let- 
tere surriferite, e gliele indirizzò con un 
viglietto umoristico consegnato ad un Vinio 
Frontone Asella, che è proprio l'epistola 
decima del primo libro. Augusto dopo aver 
letto tali componimenti, gli rispose così: 
(( Sappi che io sono teco sdegnato , per- 



-^( 189 )»►- 

che in molti di cotali scritti (come sono le 
satire e le epistole) tu non parli principal- 
mente con me. E forse che temi non ti sia 
per tornare ad infamia nella posterità, se tu 
mostri d'essere stato mio amico ?» A questo 
onorevole ed amorevole rimprovero Orazio 
rispose colla prima epistola del secondo libro, 
che è invero un capolavoro nel genere sotto 
ogni rispetto. 

Il primo libro delle epistole venne com- 
posto prima del quarto libro delle odi. 

Il carme secolare scritto per condiscen- 
dere al volere di Augusto fu composto nel 
737, cioè nel quarantottesimo anno d'Orazio. 
L'Arte poetica, che deve ritenersi il suo ca- 
polavoro, e che può dirsi una lettera di- 
dasailica indirizzata ai fratelli Pisoni , può 
benissimo classificarsi come terza nel secon- 
do libro delle epistole , e venne composta 
nel 741-742, mentre la prima epistola del 
secondo libro indirizzata ad Augusto vuoisi 
essere V ultimo lavoro del poeta, e fu com- 
posta nel 744, avendo il poeta V età di anni 
cinquantacinque. 

Nessun autore al mondo ha ottenuto tanta 



^ 190 ))^ 

pubblicità e diffusione e celebrità dalla sua 
opera, quanto Orazio Fiacco. È qualche cosa 
che sa quasi dell' inverosimile. 

Basta però per convincersene notare il 
numero straordinario delle edizioni delle sue 
opere, dacché ci furono tramandate, siansi es- 
se rinvenute in tavolette, papiri o palinsesti. 

Nessun erudito scrittore ha saputo sin oggi 
precisare chi sia stato il primo scopritore dei 
canti immortali di Orazio, né dove rinven- 
gasi la prima edizione di essi nei tempi re- 
motissimi composta. Vuoisi da taluni che 
in un museo inglese se ne conservi vestigio. 
Certissima cosa é che da molti secoli, sia 
in Italia che in Germania, in Francia ed in 
Inghilterra principalmente, le edizioni delle 
opere del gran poeta possono contarsi a cen- 
tinaia. Ed in ciascun anno sempre ntìove ne 
sorgono, unite a nuovi commenti , chiose e 
note illustratrici. È proprio l'arboscello pro- 
fetizzato da Orazio : 

Laude fra tardi posteri 
Farà ch'io guai per fresca 
Auray arbuscel più vegeto 
Ogn* or m* innuovi e cresca, 80 "i 



Quante opere insigni di altri uomini nati 
in Caldea, in Babilonia, in Cina, in Grecia 
ed altrove sono state composte nei secoli 
scorsi I E sono ignorate o perdute e scom- 
parse per sempre. E dei monumenti sanscriti 
di Persia, delle opere eccelse degli arabi che 
scrissero nei tempi del califfi e dei sultani, 
e dei codici vetusti dei dottissimi scrittori 
armeni, che invano i Mechitaristi tentarono 
illustrare, che cosa rimane ? O sono cadute 
neir oblio, o hawene un labilissimo ricordo, 
o giacciono ignorate in fondo a qualche pol- 
verosa biblioteca. Soltanto la Bibbia ha pro- 
dotto un fenomeno superiore, se pure non 
uguale, a quello del monumento oraziano. 
Alle opere di Orazio avvenne un simile me- 
raviglioso fatto. 

Sembrarono piccoli granelli di seme, che 
fruttificando, e dapprima poco curati (che dai 
suoi contemporanei, come si disse e lo con- 
fermò Leopardi, non furono tenute in quella 
stima che meritavano) divennero poi giganti. 
Le radici dell'albero, ormai reso smisurato, si 
distesero nelle viscere della terra, per tutte 
le latitudini, con gagliardia non mai vista. 



-^( 192 )»- 

E per disperdersene le tracce, per abbat- 
tere tale fenomenale vegetazione, bisogne- 
rebbe che la terra universa andasse in fran- 
tumi. 

Dalla nostra Italia, avventurosa patria del 
poeta, sino ai più ignorati angoli dei poli, 
appaiono vestigia del portentoso volume, 
in tutte le lingue tradotto e glossato. 

Ciascuna edizione, ciascun libro che tratta 
del monumento oraziano è una fronda fre- 
sca e vegeta che ci ricorda uno dei più 
grandi italiani. 

Non era scorso un secolo dopo la morte 
di Orazio , siccome attesta Giovenale, che 
già le opere di lui, dai suoi contempora- 
nei poco apprezzate, servirono in presso 
che tutte le scuole di Roma come libri di 
testo, unite a quelle di Virgilio; sicché deve 
arguirsi che non poche edizioni dovettero 
farsene in quei tempi remoti. Ma il primo 
editore conosciuto si è Vezio Agorio Ba- 
silio Mavorzio, che nel 527 studiò, con Fe- 
lice grammatico, sui manoscritti e ne fece 
redigere non pochi esemplari riveduti e cor- 
retti. 



^( 193 /»- 

Riuscirà tuttavia interessante Tenumerarne 
le seguenti edizioni principali antiche e mo- 
derne, che sono sparse pel mondo, sopra tali 
esemplari condotte: 

Edizione primaria, senza luogo ed anno, 
con 'caratteri romani, di fogli 147, di linee 
26, in folio piccolo. 

Altra che non porta data, né firma del ti- 
pografo che s' ignora. Si compone di un vo- 
lume in quarto di a 57 pagine, stampate in 
lettere rotonde, di forma poco graziosa. An- 
tichissima. Se ne conoscono solo due o tre 
esemplari in Inghilterra. 

Edizione pure senza luogo, senza data e 
senza tipografo conosciuto. Forma un volu- 
me in quarto di 125 pagine, pure in caratteri 
rotondi, ma molto belli, come quelli che si 
usavano verso la fine del 1400. 

1474. — Edizione di Napoli. In quarto per 
Arnauld de Bruxelles, pagine 168. 

1474. — Edizione di Milano. In quarto. 
Ant. Zarolus. Fatta sopra quella dì Napoli. 

1476-1477. — Milano. Filippo di Lavagna. 

1477-78-79. — Venezia. Filippo Conda- 
min. 

25 



( 194 ) 



1481. — Venezia. Senza nome di tipo- 
grafo. 

1482. — Milano. In folio. Per Antonio 
Miscomini, col comentario di Cristofaro 
Lantini. 

1482-1491. — Milano. In folio, con co- 
menti di Antonio Mancinello e degli antichi 
scoliasti. Edizioni ripetute molte volte. 

1495- — Strasburgo. In quarto. Grunin- 
ger. Opere di Orazio in latino, con testo 
stabilito sopra manoscritti preziosi antichi. 
Con molte incisioni. 

1501. — La prima edizione Aldina. Ver 
nezia. In 8.° (primo formato piccolo) Aldo 
Manuzio. 146 pagine. Rarissima e preziosa. 

1503. — Firenze. La prima dei Giunti in 
8.° Filippo Giunti. Rarissima. 

1505. — La prima Ascenziana in 8.° 

1509-1519-1527. — Venezia. Aldo Manu- 
zio. Riproduzioni. 

1521.-^1^^^11^. In 8.° Paganini. 

1553- — Venetiis. In quarto grande, di 
228 fogli. Petrum de Nicolinis de Sabio. 
Con note erudite di Erasmo de Roterda- 
mo, Angelo Poliziano ed altri. Rara. 



1555- — Venezia. Con postille di Gior- 
gio Fabricio di Basilea in 8.^ Antonio Mu- 
reto. 

1561. — Lione. Due volumi in quarto di 
Dionisio Lambino, che corresse ed interpretò 
magistralmente Orazio, avvalendosi di dieci 
antichi codici. Edizione ripetuta con molte 
correzioni ed aggiunte in Parigi nel 1567, 
in Francoforte nel 1577, ed in Parigi nuo- 
vamente nel 1577 e nel 1587. 

1566. — Anversa. Teodoro Pulman con 
critiche rinomate. 

1577. — Parigi. In 8^ Henry Stefano; 
anche con critiche. 

1578. — Anversa. In quarto. Alfonso Cru- 
chio. 

1597. — Leida. Con lo Scoliaste. Da un 
manoscritto Blandiniano antichissimo, ed 
altri della biblioteca dei benedettini di Gand 
andata in fuoco nel 1568, manoscritto ac- 
creditatissimo. 

1605. — Anversa. Daniele Heinsius. Due 
volumi in ottavo. 

1606. — Londra. Giovanni Bond. Stu- 
penda, bellissima I 



-^( 196 )»- 

1608. — Anversa. Sevino Torrenzio. In 
quarto con dottissimo comento. 

161 2. — Anversa. Edizione elzeviriana 
con note di Daniele Heinsius. Con disser- 
tazione dotta di tale letterato sopra le sa- 
tire. 

1629. — Anversa. Nuova edizione del 
medesimo, riveduta con note. 

1653. — Leida. Variorum, Editore Cor- 
nelius Schrevelius. 

1663. — Lugdunum Batavorum. Ex of- 
ficina Hackiana. Con comentari sceltissimi 
di varii per Giovanni Bond. Rara. Corne- 
lius Schrevelius accurante. Riproduzione. 

1670. — Anversa. Variorum. Sulla pre- 
cedente di Schrevelius, corretta. 

1681. — Parigi. In 12.°. Volumi dieci di 
Andrea Dacier. 

1681. — Tolosa. In 8.°. Pietro Rodellio, 
molte volte ricopiata. 

1681. — Parigi. Ad usum Delphini. Stu- 
penda. 

1696. — Parigi. Jouvensy. 

1 700-1 728 — Cambridge. Di Riccardo 
Bentley. 



^ 197 )»►- 

171 1. — Cambridge. Di Riccardo Bent- 
ley. Con gli studi i di tale scrittore sopra 
Orazio. In quarto. Monumento immortale 
dell'arte critica, lacerato dai contemporanei 
per livida invidia. Ripetuta l'edizione in 
Amsterdam nel 171 3 più volte, ed in Lipsia 
nel 1826. 

1729. — Parigi. Due volumi in quarto. 
Stefano Sanadon, con traduzione delle opere 
di Orazio molto stimata. 

1752, — Londra. Con note del Dacier. 
Ad usum Delphini. Rarissima e preziosa. 

1756. — La suddetta in Amsterdam, ri- 

■ 

veduta e corretta. Otto volumi in ottavo. 

1752. — Lipsia. In ottavo di Mattia Ge- 
snero ripetuta con aggiunzioni di Zeunio e 
Both nel 1822. 

1770. — Parigi. Edizione classica in ot- 
tavo di Giuseppe Valart. 

1774. — Napoli. Michele Stasi, con note 
di Ludovico Desprez. Due volumi in ottavo. 
Molto stimata. 

1778-1782. — Lipsia. Due volumi in ot- 
tavo, contenente solo le odi, con note ed 
illustrazione di Ch. D. Jhan. 



-^( 198 ) 



1783. — Edizione Bipontina. Ripetuta in 
Milano nel 1792. 

1791. — La stupenda edizione del Bo- 
doni in Parma. 

1794. — Londra. Due volumi in ottavo 
di Ghilberto Wakefield, con critica eccelsa. 

1799. — La più stupenda e magnifica si- 
nora edita di F. Didot. In folio. 

1800. — Lipsia. Due volumi in ottavo 
di Guglielmo Mitscherlinch. Mancano in essi 
le satire e le epistole, ma sono eruditissimi 
pomenti e note sulle altre opere e partico- 
larmente sul carme secolare. 

1802. — Lipsia. Di Guglielmo Baxter con 
note di Gessner e Zeunio. Composta sulla 
prima edizione dello stesso editore in Londra. 

1802-1824. — Lipsia. Ti^ volumi in ot- 
tavo del Doering. Riputatissima edizione per 
uso delle scuole. 

181 1. — Roma. Due volumi in ottavo di 
Carlo Fea. Con critica e note riputatissime. 
Edizione bellissima. 

181 2. — Parigi. Due volumi in ottavo di 
Charles Vanderbourg. Contiene solo le odi 
e gli epodi. Ma è superba. 



^ 199 )«►- 

1815. — Breslavia, In ottavo di L. Fed. 
Heindorf, con conienti eruditi e note. Con- 
tiene solo le satire. 

1820. — Maneim-Baden. Due volumi in 
ottavo di F. Both. 

1821. — Heidelberga. Ristampa dell'edi- 
zione di Carlo Fea di Roma con molte ag- 
giunte. 

1821. — Heidelberga. Due volumi in ot- 
tavo di Grevio. Contiene le sole odi. 

1823. — F. C. Jahn. Lipsia. Con scel- 
tissime note ed aggiunte. 

1828. — E. F. Schmid. Due volumi in 
ottavo. Contiene solo le epistole. 

1833. — Lugdunum Batavorum. Un vo- 
lume in ottavo. Edizione di Perlkamp. 

1838. — Zurigo, Gaspare Creili. Con 
biografia di Orazio e note. Libro erudi- 
tissimo e molte volte riprodotto, e partico- 
larmente l'ultima edizione quarta, accura- 
tamente emendata e corretta, sicché con ra- 
gione può dirsi la migliore. 

1838. — Venezia. Premiato con meda- 
glia d'oro. Di Giuseppe Antonelli, e con 
traduzione in versi e note del celebre mar- 



-^( 200 )>»- 

chese Tommaso Gargallo. Un volume in 
ottavo, preziosissimo. 

Della vita e delle opere di Orazio scris- 
sero pure con profondità di vedute e som- 
ma dottrina: 

Crist. Fred. Jacobs, Lecttones Venusinae, 
5 volumi in ottavo. Berlino 1817. 

Gotthold Leissing, De Horatio, 1 871, Ber- 
lino. 

Giovanni Masson, Vita di Orazio. Un vo- 
lume in ottavo. Leida 1703. 

Eichstedt , Critica ed osservazioni stille 
opere di Orazio. Jena, 1810, 181 1. 

Eusebio Baconiere de Salverte. Osserva- 
zioni sopra Orazio. Un volume in 8^. Pa- 
rigi, 1823. 

Cristofaro Martino Wieland, Traduzione 
delle opere di Orazio^ con note. Quattro 
volumi in ottavo, Berlino 1 824-1 827. 

Morgesten, Le satire e le epistole ora- 
ziane. Un volume in quarto, Lipsia 1801. 

E fra tutti primeggiano gli scrittori fran- 
cesi che convien notare: 

C. Boudens de Vanderbourg, Traduzione 
delle odi di Orazio in versi francesi con 



-«( 201 )l^ 

biografia ricavata da vecchissimo mano- 
scritto. 

Andrea Dacier, Horace. Opera latina-fran- 
cese. Dieci volumi in dodicesimo. Parigi, 
1 68 I-I 689. Più sopra mentovata, essa può 
definirsi una delle più dotte e belle edizioni 
delle opere del poeta. 

Sanadon, Les Batteux, Binet, Campenon, 
Goubaux, Barbet, Patin, Janin, Cass-Robi- 
ne, Daru, Ragon, Duchemin, Goupil, Cour- 
nol, Boulard, De Wailly, Halevy, Michaux, 
Lacroix, Dabner, Boileau, e l'insigne poli- 
grafo barone Walckenaèr, che nel 1840 
compilò una Storia della vita e delle poesie 
di Orazio, Parigi, due volumi in ottavo, 
opera dottissima ed insuperabile. 

E redizione grandiosa del Didot del 1855 
in Parigi, con tavole topografiche e note e 
biografia, che può asserirsi la più perfetta 
edizione del secolo. Riproduzione con ag- 
giunte di quella suddetta del 1799. 

E tra gr italiani il Metastasio, il Leo- 
pardi, TAlgarotti, il Corsetti, il Bertola, il 
Galiani, \ Alfieri, il Cesari, il Tommaseo, 

il Cesarotti, il Pagnini, Anton Maria Sal- 

26 



( 202 ) 



vini, il Pallavicini, il Colonnetti, il Bindi, 
il Gligerio Campanella, Emmanufele Rocco, 
ed altri molti scrittori di comenti e studii 
e saggi critici. 

Ma in Italia tra le molte traduzioni delle 
opere oraziane, la più perfetta e completa 
è quella del marchese Tommaso Gargallo, 
e le edizioni ne sono innumerevoli. In essa, 
facendo risaltare la bellezza della frase ora- 
ziana, tale ammirevole letterato ha cercato 
inciderne il concetto, abbellendola con versi 
armoniosissimi, che sembrano ispirati dalla 
musa stessa del gran poeta venosi no. 

Mi sono avvalso in questa mia opera ap- 
punto della traduzione del Gargallo, prin- 
cipalmente in quei passi della storia, nei quali 
era necessario dar luce alla dicitura con le 
stesse parole di Orazio, le quali forma- 
no, al dir del gran Fénélon, uno dei pregi 
massimi del poeta : « Jamais homme n'a 
donne un tour plus heureux à la parole 
Pour lui /aire signifier un beau sens, avec 
brteveté et deli e atesse. » ^') E perciò ser- 
vendomi dei versi sublimi frutto del forte 
ingegno del Gargallo, e dettati in purissima 



lingua italiana , per illustrare uno dei più 
grandi italiani, ho creduto far còsa grata ai 
miei concittadini, ai quali, per questo mio 
lavoro, chiedo venia e benevola approva- 
zione. 



M^ihr^^yr^'-i 




NOTE 









«li^^illl^^^l 



?^««j&>s>a«ji£iì^»ii^iufe«wuai'; 



(i)Da1 Municipio di Venosa nel 1 890 venne emesso 
il seguente proclama: « L'idea di onorare la memoria 

< dei suoi grandi e massimamente del gran poeta Quinto 

■ Orazio Fiacco, il nome del quale solo basta alla glo- 
« ria di Venosa, campeggiò e fu sempre viva nella 

< mente di ogni Venosino. T disparati tentativi fatti 

< nelle varie e successive epoche, come risulta dai mol- 

* tissimi documenti che si conservano, a chiare note 

< dimostrano che questa città, a niuna seconda nei 

< progressi morali e civili, ebbe sempre a cuore l'idea 

< di erìgere un monumento al suo immortale poeta, al 

< più grande dei linci latini. Gli ostacoli che quasi in 

■ ogni tempo si pararono d'innanzi, furono mai sempre 

< d' incaglio all' attuazione nel nobile divisamente; oggi 
( però le circostanze sono quanto mai propìzie, e Ve- 

* nosa, la città che si diceva : * Aut par, aut major, 
« tt tibi Roma fuit,ì'* Urbs Venusina nitet tantis di' 

■ corata sepuleris *, la patfia del Tansillo, del Maranta, 

■ del De Luca, del Lavista, ecc. vede con gioja giunto 



( 208 )»- 



il momento di poter attuare la bella idea, per sì lunga 
pezza vagheggiata. L 'iniziativa venne presa dalPistesso 
Municipio, il quale allo scopo deliberava la somma 
di L. 10,000 come base di attuazione del grandioso 
progetto. Un appello ora ad ogni paese civile, ad 
ogni uomo amante delle arti e del bello, ad ogni 
cultore di lettere, /icciò con la vària operosità si venga 
a quel tale risultato fìnale, perchè sia adeguatamente 
onorata la memoria del gran poeta, il quale con i 
i suoi carmi immortali formava il lustro non che di 
Venosa, ma dell' intero mondo letterario. — // sindaco 
Dottor Giuseppe Finto. » Sino al tempo della pub- 
blicazione di questa mia opera non si è ancora inau- 
gurato il progettato monumento. Ma certo, e bisogna 
augurarselo, ne è prossima la felice attuazione. 

Pietro Antonio Corsignani, nella sua opera « De 
ecclesia et civitate Venusiae—i 72S », così si esprime, ac- 
cennando al busto che si osserva nella piazza del Ca- 
stello in Venosa: e lato foro ornata^ ubi Ho- 

rata Venusini clarissimi poetae statua suspicitur, » 
G. Batt. Buhamel, con volo fantastico, sul finire del 
1600, aveva creato tale simulacro. Ed in Francia, nella 
celebre guida dell'Italia del sud J. du Pays, Parigi, 1865, 
alla pagina 449, parlando di Venosa, si legge: < Dans 
une des rues est une colonne surmontée du buste de 
Horace, » Ma colui che con massima esattezza scrìsse 
la storia di Venosa, il sommo M. Are. Lupoli ( Iter 
Venusinum 1793, pag. 211) così si esprime: < Hic or- 
tus Q, Horatius Flaccus^ qui nisi a^re perennius sibi 
monutnentutn vivens exegisset^ frustra quantivts pretii 
aliquod a civibus recepisset, Enim vero quae ex Tibur* 
tino lapide in foro posila est statua falso tanto poetae 
optime de patria merenti, adiudicatur, quum longe sub- 



•^( 209 )»- 

sequitam sapiat aetatem^ et nonnisi Benedictinae fami- 
liae^ ut mihi luculenter visum^ guemdam exprimat pa- 
trem, » 

(2) Ormai in Europa è celebratissimo il gran qua- 
dro del pittore russo Siemirandsky e Le fiaccole di Ne- 
rane 9, che tanta maraviglia destò in Parigi nell'espo- 
.sizione del I878i e che venne acquistato per 300000 
franchi dal granduca Costantino , zio dell' imperatore 
Alessandro III. A tale spaventevole idea si fermò il so- 
vrano artista Siemirandsky nel lumeggiare la tela por- 
tentosa! Negli orti neroniani si vedono i cristiani cro- 
cefissi o legati ad antenne, ravvolti in panni impeciati 
od in altre materie incendiarie. -Le antenne per dileggio 
vedonsi coronate di rose. Ai piedi di ciascun martire 
leggesi un cartello « Christianus incendiator urbis ». La 
folla briaca smania schiamazzando. Seguir dovea lo 
spettacolo crue^to^ al quale impavido e gaudente assi- 
steva Nerone: cioè si dava ftioco alle povere vittime 

Le fiamme nitrici però non purificavano 1' aere pestifero 
di nefandezze ed orrori. Da quelle fiaccole umane si 
elevava ai cieli una nuvola nera, dentro la quale pa- 
reva partissero delle voci, che. invero non erano gridi 
di vendetta, ma di perdono! 



(3) Venosa — (Venusia). Le città la cui origine 
perdesi nella notte dei tempi (quaggiù dove succede una 
continua trasformazione, sia organica, sia materiale, me- 
no però, quella naturale e morale, che non può dirsi tra- 
sformazione, ma progresso) hanno questo di sfavorevole 
che le sole congetture debbono bastare per accertare il 
vero. Babilonia, per non citarne altre, fabbricata da 

Nembrod il gran cacciatore, a seconda delle memorie 

27 



( 2 IO )»- 



più lontane, ed inesplorata e perduta pel resto del 
mondo tanto da restarne solo una memoria, dai fran- 
cesi Fresnel e Oppert venne descritta. Essi, dopo averne 
visitato le poche rovine, da queste potettero arguire 
con un certo fondamento di certezza, da non parer 
paradosso, né riuscire inverosimile il sostenere che il 
suo circuito era di quaranta chilometri: che aveva giar- 
dini e parchi al paragone dei quali i nostri d'Europa, 
sian pur quelli elaborati da Le Notre, non son che orti; 
che aveva cento porte di bronzo artistic&mente model* 
late; che aveva muraglie altissime da superar quelle di 
porcellana nella China, e scompartite in duecentocin- 
quanta torri maggiori, tra le quali la Rock Nembrod^ 
cioè quella che poi si disse la torre di Babel; che aveva 
palagi immensi degni dei re dell' Assiria, degni di Sar- 
danapalo, Baldassarre e Cirol 

È pur troppo scomparsa la grandissima città e 
con essa la civiltà che la dominava e le dava vita/ 
Babilonia è una memoria 1 

Venosa è città più antica di Roma, più di Napoli 
e di Atene; forse una delle più antiche città d' Europa. 
Atene fu fondata diciassette secoli prima dell' era vol- 
gare da Cecrope. Roma, 1' eterna città, otto secoli pri- 
ma di Cristo e cresce ancor oggi in grandezza e ma- 
gnificenza. Napoli, che si diceva prima Palepoli, cioè la 
vecchia città*, fu fondata dodici secoli prima di Cristo, 
da una colonia di Cuma Eolia dell' Asia Minore. Ve- 
nosa è una città Pelasgica, cioè fii fondata da una tri- 
bù orientale venti secoli prima di Cristo, e da essa 
prese il nome, gli usi, la religione. La prova più chiara 
della sua origine orientale o Giapetica^ ce la fornisce 
un frammento d'iscrizione sopra pietra durissima, che 
doveva far parte di un gran monumento eretto in Ve- 



-*( 211 )»- 

nosa dagli. Oschi o dai Sanniti o dagli Etruschi, ma 
certo in tempo molto remoto. Eccone il suo disegno: 



1i^(l)r.»IQRhH 



Le cifre che in esso appariscono sono state dai dotti 
archeologi e poliglotti copiate cosi : 



Fkuhtvrtai hit rui K 



Le quali voci, ricavandolo dalle riduzioni dei bronzi 
Eugubini, suonano in latino cosi : 



. Il che dimostra pure chiaramente l'orìgine del no- 
me di Venosa da * Benoth > deità orientale anteriore 



r^( 212 y»^ 

all'epoca del frammento ove è incisa l'iscrizione, e che 
nelle notizie sull' etimologia del nome della città di 
Venosa si disse da Benoth -' Benotsa'- Venosa^ siccome 
riferiscono Francesco M. Farao, nella lettera apologe- 
tica riguardante la Menippea di Pasquale Magnoni (Na- 
poli MDCCXCV), ed il sommo Lupoli, dal quale dovet- 
tero essere dal primo attinte molte preziose idee, perchè 
scrisse due anni innanzi. Ed il Markolis del frammento 
trova riscontro nell'iscrizione sopra pietra esistente in 
una antica casa della nobile famiglia Rapolla in Venosa, 
riportata dal Pratillo, dal Corsignani, dal Lupoli , dal 
Cimaglia, da Mommsen e da altri storici e raccoglitori 
di sigle, che viene così tradotta : 

MbKCUKI tMVIC. 8ACR. 

pro salute 
Pbassbmtis mostri 

Agaris Acnc. 

Come pure trova riscontro in una pietra di corniola 
incisa per anello, scoperta in Venosa ed appartenente 
alla famiglia Lupoli, siccome attesta il Farao nella cen- 
nata sua opera, che raffigura Mercurio coi calzari alati, 
con borsa a destra e caduceo a sinistra ed al disotto 
la scritta < Marckoa ». 

Con tali dati precisi un senso di orgoglio invade il 
cittadino di Venosa; e può bene esso ripetere le robu- 
ste esclamazioni dello Scaligero : Aut par, aut major^ 
te tibi^ Roma fuiì 

dell'accademico venosino Orazio de Gervasiis : 

vaga città 

Per cui veggo et invidia Italia tinta 



e dell'altro sommo poeta da -Venosa, Luigi Tansillo 

AltOf famoso e celebrato nido t 



-«( 213 )»- 

La grandezza di Venosa non deve congetturarsi ri- 
spetto alla sua magnificenza, che pur ve n*è stata, perchè 
non forma questo il suo massimo vanto; bensì nella sua 
antichità storica, nella sua nobiltà di antichissima data. 
Povera addivenne, ma si mantenne sempre nobile e 
generosa. I frantumi dei suoi monumenti hanno arric- 
chito molti or superai paesi, come dalle spoglie opime 
di case ìnagnatizie si fanno oggi belli molti moderni 
Epuloni. 

Paragonare Venosa a Roma, che dominava il mon- 
do anche molte centinaja d'anni prima del tempo di 
Orazio, sarebbe cader nelPiperbole, e volerla stoltamente 
adulare. Ebbe però il suo lustro maggiore sotto i Ro- 
mani : divenne sede del correttore di Puglia e di Cala- 
bria; ma trar deve il vero suo massimo vanto all'aver 
primeggiato e di essere esistita molto tempo prima di 
Roma, all' essere città Pelasgica. La si dice pure fondata 
da Diomede trojano, quello stesso che dicesi aver fon- 
data Benevento ed altre città nella regione meridionale 
d'Italia. 

Ai popoli pelasgici occorreva terra ferace, luogo 
ridente, cielo quasi orientale. E tanto in quel luogo ove 
dicesi Venosa rinvennero e tale sin oggi si conserva. 
Tre sono gli scrittori che hanno stampato opere sulla 
città di Venosa- antica, nei secoli scorsi sino ai nostri 
giorni, ma nessuno di essi venosino, tranne che non 
voglia aggiungersi come quarto Jacopo Cenna, il quale 
si dice autore di una cronaca della città di Venosa, che 
si conserva manoscritta malamente nella Biblioteca Na- 
zionale di Napoli. 

Jacopo Cenna morì nel 1614, secondo che attesta 
il Corsignani, il quale, pur non menzionanìlo tale sua 
opera, lo qualifica u vir sapientissimus » e lo dice autore 



t^( 214 )»- 

del « Catalogum antistitum suae patriae ». Neil' in- 
certezza che quel manoscritto sia originale, non accen- 
nandolo menomamente *nò Corsignani, né Cimaglia, né 
Lupoli, né altro scrittore autorevole, convien dunque 
ripetere che tre furono gli scrittori che con profondità 
di dottrina trattarono diffusamente della città di Venosa. 
Il più antico fra essi fu Pietro Astonio Corsignani, ve- 
scovo di Venosa, che nel 1728 pubblicò un libro inti- 
tolato « De ecclesia et civitate Venuside ». Vien poi 
Natale Mario Cimaglia, che nel 1757 pubblicò la stu- 
penda opera e Antiquitates Venusinae ». Ma limassi- 
mo tra tutti fu Michele Arcangelo Lupoli, che nel 1793 
pubblicò l'aureo immortale volume « Iter venusinum ». 

Il più antico, cioè il Corsignani,' trattando special- 
mente della città e dei cittadini di Venosa, poco del pro- 
prio vi ha aggiunto. Si avvale di qualche antico scono- 
sciuto manoscritto, e di qualche più antico scrittore, che 
di volo accenna notizie, siccome il Summonte, TUghel- 
lio, il Caracciolo, il De Luca venosino, il Pratillo ed 
altri, o forse attinge da qualche prezioso documento 
che conservar dbveasi nella badia di Cava de' Terreni 
o nella badia di Montecassino, siccome riporta lo sto- 
rico Giannone nella sua Storia del regno di Napoli, le 
quali notizie danno molta luce alla città di Venosa nel 
decimoquarto e decimoquinto secolo. 

Il Cimaglia si distende a lungo nel far congetture 
sul bel paese, e principalmente ha tentato di scoprire 
(come dalle iscrizioni caldaiche e persiane soleansi de- 
cifrare le magnitudini dei popoli che ergeano gli obe- 
lischi) quelle recondite cose e farne tesoro, come fecero 
il Fabretto, il Pratillo, il Mommsen ed altri tanti, per 
lacerare il velo fìtto che copre l'immagine d'una città, 
che del suo antico splendore e della sua magnificenza 



-«( 215 )»^ 

conserva ben pochi residui, la maggior parte sepolti ed 
oscuri. 

Tal cosa non può asserirsi circa il dottissimo Lu- 
poli^ che seguendo il cammino per giungere come meta 
a Venosa, segna ed illustra magistralmente quanto v'ha 
di antico e di oscuro nei paesi di Cisterna, MarigUano, 
Cimitile, Bajano, Cardinale, Mugnano, Monteforte, Avel- 
lino, Atripalda, Dentecane, Mirabella, Grottaminarda , 
Ariano, Ascoli, Torcila, e T Aufido, oggi rumoroso Ofanto, 
e persino il luogo che oggi ancora dicesi Rendina^ tra- 
versato dal modesto omonimo ruscello, e monta poi alla 
superba Venosa, e giunto in questa città, come la città 
per eccellenza, che tanto disastroso cammino e fatica 
gli ha dato, consacra ad essa immortali e stupende pa- 
gine. Fu tale l'entusiasmo destato dall'opera del Lupoli, 
da venirgli fatto omaggio di un volume di poesie, stam- 
pato in Napoli nel 1793, poesie di vari metri e lingue, prin- 
cipalmente latina, dettate da professori insigni, da som- 
me autorità ecclesiastiche ed altri letterati di gran fama, 
fra cui l'illustre Nicola Valletta, il cui sonetto per la sua 
originalità e finezza e sincerità mi piace qui trascrivere: 

Vivranno f sì le carte tue vivranno 
Che non ha dritto sopra lor la morte, 
Lupuli mio, e il ferreo dente e forte 
Del tempo edace dispreztar sapranno. 
Sicure in man (t eternità già stanno ! 
Solo quei genii ebber dal del tal sorte 
Ch* alle antiche memorie oscure e smorte 
Tolgono V ombra e nuova Itice danno. 
Alza altera per te la fronte ornai 
Tra V itale città sul mar Tirreno 
La mia sirena, e vibra lieti rai, 

m 

Sembra che dica : Ór son contento appieno, 
Per falsi dotti ho sospirato assai 
Toma la gloria a riposarmi in seno. 



-«{( 2l6 )»^ 

Ed il Lupoli a tanto coro di ben meritati elogi 
rispose : 

Pero poco mi par itaver fat(ora 

Loco alcuno non fu dov' io non corsi 
Nel vcmfsino suol presso o Untano, 
Non umil valle, non di monte dorso 
Dove fusse vestigio o di Romano 

di Greco idioma, e questo feci 

Marmi e memorie in piìi d'un loro sparte 
Con istudio raccolsi e con fatiche, 
E di tor ne vergai non poche carte. 

Chi può mai aver tanta baldanza di accingersi a 
comporre una storia di Venosa dopo aver letto V « Iter 
venusinum > di Michele Arcangelo Lupoli? Che cosa ag- 
giungervi da stenebrare il passato? Chi desidera perciò 
aver piena conoscenza di Venosa antica studii e pon- 
deri r e Iter venusinum » di cosi eccelso scrittore. 

Il tradurre in buona lingua italiana tale stupenda 
opera scritta in latino sarebbe una fatica vantaggiosa 
e meritoria. 

(4) Svetonio Tranquillo — Vita Morati, 

(5) Cicerone. Op. Lib. IV. Atl Herennium. 

(6) Fabretto. Cap. 9 — Num. 272. Inscrip. 

(7) Gargallo Tonìmaso — Traduzione delle opere 
di Q. Orazio Fiacco — Lib. i.®, ode 28.*" 

(8) Idem Loc. cit. lib. i.* satira 6.* 

(9) Guerrazzi G. D.— Orazioni. A Cosimo Delfante. 



r^( 217 )»- 

(io) Gargallo. Trad. di Orazio, lib. 3* od^ i.* 

(11) Della nobiltà venosina. — Non è conveniente 
avvalersi deirautorità del Summonte circa il fastigio della 
nobiltà venosina, perchè erroneamente si attribuisce al 
Summonte quel brevissimo e misero accenno sulla to- 
pografìa e sulle famiglie nobili di Venosa e privilegi 
annessi, il quale è opera di Tobia Almagiore, che per 
mezzo del libraio Antonio Bulifon nel 1675 in Napoli, fece 
inserire dopo Topera del Summonte « Istoria della città 
e Regno di Napoli » un trattatello intitolato « Raccolta 
di varie notitie historiche >, mentre con precisa diffu- 
sione si rilevano ragguagli in altre opere di altri autori. 
Ed invero, si rileva dal manoscritto antico più volte ci- 
tato, e che si conserva nella Biblioteca Nazionale in 
Napoli, redatto nel terminare del 1500, e che vuoisi 
opera dell' U. I. D. Jacopo Cenna, venosino, essere stata 
tradizione dei vecchi, che le mura della città di Venosa, 
mura raffìguranti quasi le costruzioni ciclopiche e che im- 
portarono spese colossali, fossero state innalzate da Lu- 
cullo, il celebre milionario del tempo dei Romani, e 
che fii lui che fece trasportare in Venosa buon numero 
di statue e preziosi marmi serviti di decorazione ai 
monumenti di quell'illustre città, sicché videsi creata 
per la conservazione di tali ricchezze artistiche, una carica 
onorifica che vien riportata dal Corsignani, dal Lupoli, 
siccome dal Cimaglia, dal Pratillo e da altri molti (non 
però dal Cenna suddetto^ nelle seguenti iscrizioni esi- 
stenti in Venosa. 





Bemusbi 


. MOMUMRNTUlf. 








POBLICX 


. rACTUM D. D. 






M. 


. MUTTIBMUS . 


L. F. C. Vibius . 


l. 


F. 


M. 


Bfsssius . F. 

OB 


F. M. Camillius 

. HONOREM. 


. l. 


F. 



28 



( 2l8 >•- 



M. Mumnius « L*. F. 

C. Vmn» . L. F. 

n . Vis . J. D. 

Statuas . KZ 

D. D. 
Rbficivmdas 

e. 

Fece pure LucuUo stabilire in detta città, attratte 
dalla magnificenza, salubrità e bellezza di essa, non po- 
che nobili famiglie romane, dalle quali poi derivarono 
quei componenti la nobiltà fiorente, che sino all'inva- 
sione dei barbari formavano il lustro di quella bellissima 
terra italiana. Né col seguirsi degli anni quella nobiltà 
scemò in prestigio, fasto e decoro, perchè sin nel 1 500 
e proseguendo poi fmchè fu abolito ogni privilegio, nei 
prìncipii del secolo presente, si vantò in Venosa un ti- 
tolo di. nobiltà da potersene fregiare con orgoglio. 

I sovrani che si successero nel regno di Napoli arric- 
chirono la nobiltà venosina di prerogative straordinarie, 
tra le quali primeggia quella concessa dall'imperatore 
Ludovico I con la quale si definiva non poter Ve- 
nosa venir data in feudo ad alcun signore o barone del 
regno ( il che poi per la instabilità di fede o per fini 
politici dei sovrani che si successero, non venne man- 
tenuto, siccome ad altre città è avvenuto), ma restar 
dovesse autonoma e libera di sé, governata dai suoi 
patrizii illustri, scelti dal popolo. 

E Ferdinando I di Aragona, che fece lunga dimora 
in Venosa, vi mandò l'illustrissimo suo figlio Don Fe- 
derigo, a visitarvi quei gentiluomini, ai quali poi diresse 
la seguente lettera : e Nobilibus et egregiis viris univer- 
« sitatis et hominibus civitatis Venusii, fidelibus nostri 
e dilecti. Come altre volte vi abbiamo scritto, noi de- 
< sideramo grandi mete che queste cacce si cóservino 
« e guardino per poterci pigliar piacere quando vene- 



( 219 ) 



€ remo da q.ste parti. E perciò noi al presente avemo 

< dato carico allllLmo Don Federigo nostro figlio che 
€ faccia mettere in ordine Tutti questi monti e Vi esor- 
c tiamo a voler co diligentia eseguire quàto per lui detto 
e nostro figlio sera ordinato, perchè ni farete servitù 

< singularìssima. 

< Datum in Castello Novo Neapoli sexto Februa- 
€ riis MCCCCLXXXVIIII. > 

E già precedentemente Ludovico II, il giovane, im- 
peratore d'Occidente, era venuto in Venosa a ripristi- 
narla dalle soflerte devastazioni; e della sua venuta v*ha 
memoria in un'antica lapide esistente nell'attuale semi- 
nario, un dì castello, prima che Pirro del Balzo avesse 
edificato quello che tuttora si ammira, coi ruderi dello 
splendido tempio della SS. Trinità, ove riposano le ce- 
neri di Roberto Guiscardo e di altri sommi guerrieri e 
duci , sovrani e bali dell' ordine supremo di Malta, il 
che fece dire a Giulio Cesare Scaligero : Gens Venu- 
Sina, nitet tantis honorata sepulcrisì 

L'iscrizione è la seguente : 

StIRPS LuDOVICUS FKANCOItUM 
UftBIS AMICUS DUM FUKHIS 

Sbupbr Rxgmabis 

Jums POTKNTEB 

E nella venuta in Venosa (riporta sempre il Cenna) 
del cardinal Consalvo, i nobili venosini si mostrarono 
magnifici e splendidi quanto dir non si può, e formarono 
un'accademia, che può porsi al pari delle più insigni ed 
illustri del regno. 

In detta accademia presedeva lo stesso cardinal 
Consalvo, con suo fratello, nel luogo detto Monte Albo, 
o MoQte Aureo, o Monte doro^ titolo della nobile casa 



-«( 220 )ì9^ 



Porfido venosina, (volgarmente oggi Montalto) che rap- 
presentava l'Olimpo. 

E che la nobiltà venosina fosse fiorente e riuscita 
insigne per tutto il regno, convien trascrivere quanto 
riferisce il Cenna suddetto, l'unico cronista del 1500 
per quanto disadorno scrittore : 

< Dall'antiquità e nobiltà di questa nostra città di 
Venosa, si estolle il capo per le grandi prerogative 
ed è più degna delle altre città, per l'amplissime 
cocéss.** di privilegi] di nobiltà dotata dalli serenis- 
simi principi che no" vi è città nel Regno di Napoli 
che sia illustrata di questi honori e prerogative spe- 
tiali no" eccettuando la città di Napoli capo del re- 
gno », la quale (soggiunge) ha per vanto 1' appar- 
tenere ai diversi seggi < ma li nobili della città di Ve- 
nosa, delli quali m'appajono infìniti privilegi, testimo- 
nianze e processi, godono per antiqui privilegi in segno 
della loro nobiltà darseli dall'eccellentia del prìncipe 
una cinquina la matina del giorno della S."''' Pasqua. 
Et uno quarto di castrato magliato di tre anni nel 

giorno di Pentecoste Antiquamente dalli 

Imperatori Romani questa usanza essere osservata da 
essi aver avuta orìgine Et solevano distri- 
buire alcuni pezzi di carne crude, alcun altra volta 
davano tai doni con misure di grano, et altre volte 
con danari, et altra volta donarono al Senato, tre- 
cento scuti.... ecc. ecc. > e così si enumerano molti 
doni che i sovrani solevano assegnare, per testimoniare 
fatti di valore e degni di stima e compenso. 

Trascrivo V elenco delle famiglie nobili venosine 
riportate dal surriferito Cenna, sino al terminare del 
1500, e quelle riportate da Pietro Antonio Corsignani 
nella sua opera « De Ecclesia et civitate Venusiae — 



-«( 221 )•- 

Historica monumenta selecta > edita, come si disse, ^el 
1723, che rimontano sino al precedente secolo deci- 
mosesto: 

Barbiani. — Dai quali nel 1434 derivò il conte di 
Cuneo, Alberico Barbiano, gran contestabile del Regno 
di Napoli, e condottiere di cavalieri venosini, del quale 
diflusamente parla il Giannone, nel quarto volume della 
sua Storia civile del regno di Napoli ed altri storici. 

Deitardis. 

Gomiti. 

Plumbaroli. — Da cui nel 1484 derivò un Corrado 
Plumbarolo , duce preclaro di cavalieri venosini sotto i 
re aragonesi. 

Maranta. — Che ebbe tre giureconsulti insigni, lu- 
minari del foro, nel 1600, e due illustri vescovi, dei 
quali quello di Calvi, di cui discorre a lungo il Gian- 
none, nel voi. 5^ lib. 32, in occasione della scandalosa 
e celebre causa di suor Giulia di Marco da Sepino, 
agitata nel 16 14 tra i teatini ed i gesuiti. E si dissero 
Roberto, Lucio, Fabio e Carlo. 

Cenna. — Da essa derivò quel Jacopo Cenna defi- 
nito dal Corsignani « Vir sapientissimus >. Era U. L 
D. e si dice autore della cronaca antica di Venosa, 
che, manoscritta, si conserva nella Biblioteca Nazionale 
di Napoli. 

Cappellani. — Una Laura Cappellano fu madre del 
celebre poeta venosino Luigi Tansillo, il cui padre era 
nobile nolano. 

Porfidi. — Celebre famiglia fregiata del titolo di 
conte di Montedpro, ed imparentata con la nobile casa 
Sozzi di Venosa, che tenea la gerenza del principe di 
Venosa, Nicolao Ludovisio, nipote di Gregorio XV. 

Fenice. 



-«( 222 ))^ 

Solimene. 

Casati, 

Consultnagni. 

Giustiniani, 

Caputi, 

Simone. 

Moncelli. 

Costanzo. — Famiglia proveniente da nobili vene- 
ziani. Fuvvi un Costanzo/ vescovo di Minervino, la cui 
nipote sposò nel 1641 1' U. I. D. Giustino Rapolla della 
nubile famiglia Rapolla di Venosa, dei quali il figlio 
Nicolao fu nel 1693 protonotario apostolico. 

De Bellis. 

De Luca. — Da cui derivò queir insigne cardinale 
Giovan Battista de Luca, onore della città di Venosa, 
autore di opere preclare in circa quaranta volumi in folio. 

Bruni. — Donato De Bruni fu celebre poeta ve- 
nosino. E Giordano Bruno o de Bruni, figlio del nobile 
Giovanni de Bruni da Nola, intrinseco del Tansillo (Gior- 
dano Bruno scrisse un epitaffio sulla sepoltura di Gia- 
copon Tansillo, figliQ del poeta venosino Luigi Tansillo, 
siccome attesta Minieri Riccio) non è forse da questa 
famiglia venosina derivato ? 

Fioriti. 

Tramaglia. 

Ttsct. 

Tommasini. 

Palogani. 

Pagani. 

Balbi. 

Sperindeo. 

Berlingieri. 

Violani. 



-«( 223 )»^ 

Gervasiis. — Orazio de Gervasiis fu il più insigne 
membro della celebre accademia venosina, e poeta fa- 
moso. 

Abenanti, 

Grossi. 

Protonotabilissimi, 

Capibianchi, 

Campanili. 

Ferrari, 

Faccipecora, 

Leonetto 

Troni, — Antonello Trono fu esimio nella legale 
palestra. 

Aloisiis, 

Rosa. 

Biscioni. 

De Vicariis. 

Rapolla. — Dalla quale derivarono il Clarissimus 
D. Venanzio U. I. D. vicario generale nel 1663 — Diego ^ 
U. I. D. Il Corsignani parlando di lui dice : « Romae 
triginta fere Annis Curiam laudabiliter prosecutus in 
legali f acuitale excellentissimus fuit. Ib idem anno j*joi 
ex hac vita discessit.^ — Donato U. I. D. — Ed il celeber- 
rimo D. Francesco giureconsulto, presidente della Regia 
Camera della Sommaria nel 1760, senatore del S. Con- 
siglio del regno di Napoli, uno dei settemviri del regio 
erario. Le sue principali opere furono: De Jureconsulto 
(1730) Difesa della Giurisprudenza. Risposta all'opera 
di Ludovico Antonio Muratori (1722) De jure Regni 
(1750). Opera eccelsa in quattro volumi in ottavo. 

Vitamore. 

Moncardi. 

Lauridia. 



( 224 ) 



De Jura o Thura. 

Sprioli, 

Leoparda, 

Sozzi. 

Altruda, . — Vito Altruda era cavaliere deirordine 
di Malta. 

Delle quali famiglie nobili riportate dal Cernia e 
dal Corsignani , due sole compaiono tuttavia esistenti 
in Venosa: la Rapolla e la Lauridia. Della seconda di 
essa si legge nella cattedrale di Venosa la seguente 
epigrafe, riportata dal Corsignani. 

JOANMi Baptistab Lauridia, Blasio, U. I. D. Patutio Venusino 

Et Ammae Fbrrabi Nobili Sbkbmsi 

Prognato 

MaTMBMATICIS, PMILOSOPHXaS, LeOAUBUS, ThKOLOGICIS ASTIBUS 
OPTIMB IMSTBUCTO U. I. LaUBBA, AC VbNUSIMAB ECCLBSIAB 

Canonicatu Insignito, humanab salutis 
Ann. oca. abtatis suab xxyii ad Supbbos 
Evocato, Dobunicus, bt Hibbonimus Fratbi 

DIGNI8SIM0 P 

• 

E la famiglia Rapolla imparentata sin dal 1 566 con 
la casa Cappellana e con la Casati, ed in appresso coi 
Costanzo nel 1641, con la Sozzi, con T Altruda, iscritta 
neir ordine di Malta, e con la Lauridia, conserva nella 
vetusta e stupenda cattedrale di Venosa V altare gen- 
tilizio, che il Cenna bellamente esalta come uno dei 
più degni di quel sacro luogo, e che appartenne prima 
alle nobili famiglie de Bellis e Tisci, e nel quale si am- 
mira un quadro pregevolissimo di S.^ Maria di Costan- 
tinopoli, e vi si leggono le seguenti iscrizioni : 

Sull* altare : 

HOC. S ACRU. BEAT AB .VIRGLNI. DIC AtEsCIPIO. DE3ELLA.U.LD.BT.HOR. 

DE . BELLA . A. EF. M. D. EQUES . DE . ORDINE .VICTORIAE .TISCI . EORUM. 

MATRIS . RESTAURANDUM . CURAVER . BIDCXVI. 



-«( 225 )»^ 



àACELL . HOC . MENSE . EPLÌ . DEVO LUTO . AEHUTAU . EPO . VSNO. 

FUrr . CONCESSO . VENANTIO . RAPOLL A . U . I . D. 

PRIMICERIO . VICARIO . GENLI . SUISQUE . HBREDIB . LT. 

SUCCESSO . ET . PATRONI . CONSENSUS . ACCESSIT . ANNO. 

MDCLXVU. 



Sotto l'altare: 

SACELLUM . HOC. 
NOBIUS . FAMILIAE . RAPOLLA . VENUSIMAB. . 
IN . VENUSTIOREM . QUAE . CERNITUR . FORMA. 
RSDIGrr . U . I . D . DIDACUS . RAPOLLA. 

Ed in un istrumento redatto da notar Nicola li 
Frusci di Venosa del dì 28 gennaio 1722 si rileva che 
dinanzi al magnifico giudice regio della città di Venosa, 
D. Saverio Compagno, e del vescovo del tempo ed 
altri molti, nel monastero di Santa Maria la Scala si 
volle inaugurare un'abitazione per uso esclusivo e pri- 
vilegiato delle monache educande della famiglia Rapolla, 
e vi si fé* innalzare inciso su pietra in fronte dell* ar- 
chitrave della porta che dà nel giardino di tal luogo, 
(e vi si vede tuttora) e sotto lo stemma della famiglia 
Rapolla, la seguente iscrizione: 

CUBICULUM . HOC . PROPRIO . SUO . ABBB. 

U . I. D . AX.OISIUS . Rapolla . Patritius . Vbmosinus. 

EkBGI . CUItAVtT . 121 . CRAT1AM . D. MaUAB . AnDRSAB. 

Rapolla . Momcalis • Profkssas . suak . kx . rmA-ntc. 

MXPOTXS . OmnOMQUB . SDCCBSSOBUM . DB . FAIIIUAB. 

UTBIUSQUB . SBZUS . QUAMDOCUMQUB . CASUS . OCCIDBBIT. 

ANNO DOMINI MDCCXXII. 

La casa Rapolla poi si è mantenuta sempre no- 
bilmente, tanto che nel 1807, essendosi recato a visi- 
tar Venosa, nel suo viaggio nelle provincie del reame 
il re Giuseppe Bonaparte, venne ospitato con gran ma- 
gnificenza per due giorni con tutti i generali e gli altri 

personaggi della sua splendida corte, dal nobile Venan- 

29 



•^( 226 )»^ 

zio Rapolla, al quale rilasciò certificato di sovrano com- 
t>iacimento per la ricevuta accoglienza, non avendo vo- 
luto quel fiero gentiluomo, già capitano sotto la repub- 
blica partenopea, e tornato da poco tempo da emigra- 
zione politica in Francia, accettare titoli, onori od altro 
compenso. Walckenaer nel 1° voi. pag. 4 della sua opera 
« Histoire de la vie et des poesies d' Horace^ dice: « La 
Venouse moderne à, malgré sa faible population , con^ 
serve quelque chose de plus que son nom et sa position 
antique^ pouisqu* elle est le siege d' un eveché, » Ormai 
ò noto, ed il Lavista nel suo opuscolo: Notizie istoriche 
degli antichi e presenti tempi della città di Venosa^ Po- 
tenza^ tipi Favata^ 1868 e Frediano Fiamma, rettore del 
seminario vescovile venosino, nelle sue note alla necro- 
logia del nobile Giuseppe Rapolla (Napoli, tipi Giannini 
1883) riportano, che essendosi disposto nel 181 8 di tra- 
sportare la sede del vescovado da Venosa a Minervino, 
con grandissimo nocumento alla patria di Fiacco, Ve- 
nanzio Rapolla tanto seppe destreggiarsi ed agire nella 
capitale del regno, ove venne trattato l'affare in Con- 
siglio di Stato, con impegno di illustri avvocati, da far 
distrarre tale improvvida risoluzione; ed anzi vi spese 
a tale scopo più di lire ventimila, che non volle per 
sua generosità gli venissero rimborsate. Veramente no- 
bile animo ) Splendido esempio di filantropia 1 

(12) Riportata da M. A. Lupoli nella sua opera 
< Iter Venusinum », da N. M. Cimaglia « Antiquitates 
venusinae », da P. A. Corsignani « De civitate Venusiae », 
Da Ughellio « Italia sacra », da Mommsen € Inscrip- 
tiones^y da P. Giannone « Storia civile del regno di Na^ 
poli^ voi. I. lib. 2. parag. 2.», da Freccia * Sub feu- 
dis », ecc. ecc. 



•^( 227 ))0^ 

(13) Gargallo Tommaso. Trad. di Orazio. Lib. i* 
sat. 6*. 

(i4) Della grandezza della città di Venosa — Non 
conviene esagerare. Il defunto egregio avvocato venosino 
Antonio La Vista (zio del celebre giovane Luigi La Vista, 
morto nella sanguinosa giornata del 15 maggio 1848 in 
Napoli), che diede alle stampe il pregevole opuscolo più 
sopra cennato, e che s' intitola « Notizie istoriche degli 
antichi e presenti tempi della città di Venosa », nel terzo 
capitolo, seguendo la falsa assertiva di altri scrittori, e 
fantasticando sul noto verso dello Scaligero « Aut par^ 
aut major ^ te tibi Roma fui », ne ritrasse la conseguenza 
che Venosa antica fosse stata una città abitata da pa^ 
recchie centinaia di migliaia di abitanti: che anzi avendo 
mal definiti i limiti indicati dagli autori, e da Orazio 
stesso, quando figuratamente parla del Vulture, nei quali 
limiti restava preclusa la città, assegna ad essa una cir- 
conferenza che può dirsi superiore a quella della stessa 
Roma. Perchè (vedi paradosso !) lasciasi partire il limite 
dalle pendici del monte Vulture, distante, come si dirà 
diffusamente nella nota riguardante tale vetta o monta- 
gna un tempo ignivoma, circa quaranta chilometri da 
Venosa, sino al fonte Bandusia o sin presso la foresta 
di Banzi, cioè sin presso I' attuale Palazzo S. Gervasio. 
Torno a dire che non conviene esagerare. Venosa è 
stata città popolosa, al dir di Dionigi D'Alicarnasso, ma 
questo scrittore si esprime, parlando di Venosa, così : 
« Urbem hominum frequentem ». E frequens urbs in 
latino suona città popolosa. Se voleva dirla popola- 
tissima , avrebbe detto : Urbem hominum frequentisi 
simam, 

I limiti di Venosa erano circoscritti dalle valli e dai 



•^( 228 )ì9^ 

piani che cingono le diverse colline, le qus^li si elevano 
di tratto in tratto in tutto l'agro chiuso dal fiume Oli- 
vento, e dalle altre derivazioni di esso. E quelle vallate 
e quei piani si scoprono anche oggi chiaramente dal- 
l'alto delle torri del castello baronale, dal quale un pa- 
norama incantevole si ammira. Venosa era cinta da fitte 
boscaglie, che confmavano col bosco di Banzi, dal quale 
si proseguiva per le foreste lucane {Lucania da luctis 
bosco). La gran foresta era segata da via maestra, e 
nel mezzo di essa si ergea una fontana, dalla quale zam- 
pillava una polla di acqua freschissima e limpida come 
cristallo, ed era la fontana di Banzi (fons Bandusia)^ 
ed oggi nomasi ancora fontana di Venosa. Ma quel luogo 
era selvoso ed inabitabile, e buono per cacceggiare , né 
vi si scoprono vestigia di abitazioni. Non così nel pe- 
rìmetro più sopra indicato, nel quale, sebbene fuori delle 
mura della città fortificata, si rinvengono vestigia e ru- 
deri di abitazioni, che lasciano chiaramente arguire es- 
sere stata abitata da cittadini di Venosa, che per molto 
tempo si governarono a comune, avendo per istemma 
un basilisco che si morde la coda, e sottovi la scritta 
Respublica Venusitia, I popoli che abitavano tali vaste 
zone avevano diversi nomi , siccome fossero tribù di- 
sparate, e molti luoghi conservano ancora tuttodì i nomi 
degli antichi abitatori. Eccone per esempio talune. Presso 
il fiume Olivento, verso mezzodì, rinvengonsi molte tracce 
di abitazioni di antichi popoli. Nei secoli primitivi della 
chiesa cristiana , cioè qualche anno dopo la morte di 
Orazio Fiacco, venne creato in tal luogo un tempio cri- 
stiano, forse sull'area o perimetro di un tempio pagano, 
siccome si costumava allora, che dedicossi poi a San 
Pietro, e si disse *$". Pietro ad Olivento , che corrotta- 
mente vuoisi interpretare « Adventum Petti », conget- 



•^( 229 )»^ 

turandosi che S. Pietro fosse venuto di persona ad inau- 
gurarlo, infervorando quei primi cristiani. 

A levante, a quattro miglia dal castello attuale di 
Venosa, si scorgono rovine di edifizii, abitati da gente 
che dicevasi Gervasia, A sei miglia da Venosa, verso 
nord-est, si scorgono molte rovine di edifizii e quindi di 
abitazioni di altra gente, ed il luogo si nomava Santo 
Stefano^ e presso ad esso v' è traccia di sontuoso ca- 
stello, che per la sua postura settentrionale fu detto Bo- 
riano o Boriano^ ed oggi forma un vasto podere nomi- 
nato Santo Stefano Boreano^ appartenente alla nobile 
famiglia RapoUa di Venosa, dando il nome a tutta la 
contrada. Ritornando verso il fiume divento, a tre miglia 
da esso, si distinguono ruderi di abitazioni, e doveva esi- 
stervi una popolazione che aveva il suo tempio dedi- 
cato àgli Angeli, e che oggi si dice: Trenf Angeli^ e 
presso questo luogo scorgonsi tracce antichissime di 
lava vulcanica, talune di forme gigantesche, che han for- 
mato un problema indecifrabile per gli scienziati , sic- 
come si dirà nella nota seguente, parlando del Monte 
Vulture. E più in là v' è traccia di altro popolo nel 
luogo che si noma Pantaleo. 

E poi SanzanellOy poi Mangana o Manganello^ e poi 
Musanna^ sinché si giunge al luogo popolato da una 
colonia Albanese di recente venuta con Giorgio Ca« 
striotto Scanderberg, che dicesi Maschito^ il qual luogo 
(oggi paesello popoloso, industre e ricco) non ha mai 
fatto parte della terra venosina, che anzi nella riparti- 
zione feudale venne quell'agro assegnato al duca d*An- 
dria, né mai il signor di Venosa o gli abati benedettini del 
monastero della Santissima Trinità vi ebbero dominio. 

Da un rapporto spedito al direttore generale del Real 
Museo e degli scavi d'antichità del Regno di Napoli, da 



-«{( 230 )>9^ 

quel preclara gentiluomo, mio defunto genitore, nobile 
Luigi Rapolla, direttore degli scavi di antichità nel di- 
stretto di Melfi, si legge quanto segue : « Mi aflretto 
parteciparle che non lungi da Venosa un terzo di 
miglio, mentre si attendeva allo scavo di arena in 
una grotta messa sul ciglione di una collina verso 
oriente, sovrastante al fiume che scorre nella vallata 
sottostante al tempio della Santissima Trinità, si è 
rinvenuto un lungo corridoio con altre strade la- 
terali, con una quantità di sepolcri scavati nel tufo, 
coperti da grossi mattoni antichi, con delle iscrizioni 
indecifrabili, fra le quali se ne osservano talune, cui 

soprasta una palma ed un'ampolla > E tale luogo 

si dice il Piano della Maddalena^ e scovronsi dintorno 
ad esso dei resti di fabbriche che indicano come un 
forte nucleo di abitanti viver doveva in tale spianata , 
che aveva il suo tempio dedicato alla Maria di Magdala, 
ed in quelle grotte scavate nel masso vi avevano la 
loro necropoli. Da tutto ciò può benissimo e con cer- 
tezza arguirsi che Venosa, chiusa nei limiti anzidetti, che 
si estendevano verso le colline, che oggidì diconsi Monte 
e Montalto sino al fiumicello divento, formava una va- 
sta città abitata da più di ottantamila uomini. Che ai 
tempo dei Romani era splendida per monumenti, statue 
e nobiltà, e conservossi tale sin presso al 1500, quando 
andò mano mano assottigliandosi per danni solTerti dai 
tremuoti, dalle pesti, dalle guerre e dall'aprirsi dei di- 
versi sbocchi a centri che cresceano in importanza, gran- 
dezza e magnificenza sia in Puglia che in Lucania. E 
venne tanto assottigliandosi da divenire un tempo un 
borgo, fortificato però, di poche centinaja di fuochi, sin- 
ché poi non risorse a novella vita. Quei pochi fieri abi- 
tanti, che avevano per emblema il basilisco che si morde 



-«( 231 )»- 

la coda, e la scritta: Respublica Venusina^ si conservaro- 
no però sempre eguali a loro stessi ed alla loro origine. 

In essa nacquero e vissero baldi guerrieri, come si 
disse, e letterati insigni e sommi giuristi ed eminenti 
ecclesiastici, sempre altieri, nobili e pieni di genio, de- 
stinati a grandi imprese. 

L' antica grandezza lasciò uno stampo in ciascun 
abitante di tale ameno e forte luogo. Ciascun abitante 
porta con sé una particella dell'aura divina, che emana 
da questa terra benedetta dal cielo, e tra le più belle 
e feraci dltalia. Il Bestini, nella sua opera Monetarii 
antiqui^ sostiene essersi coniate in Venosa delle monete 
raflìguranti Giove che gitta fulmini. Come esprimere me- 
glio figuratamente la potenza della città di Venosa ? Oggi 
Venosa colla libertà e col progresso è nuovamente ri- 
fiorita, e per ricchezze e lustro non è inferiore che a 
poche città meridionali d'Italia. 

(15) Gargallo Tommaso. Traduzione delle- opere di 
Quinto Orazio Fiacco — Lib. i." sat. 6*. 

(16) Il Vulture. — I due versi di Orazio nella sua 
ode quarta del libro terzo < Mefabulosae Vulture in 
Appulo'Altricis extra limen Apuliae^ ecc. > ed il « pios 
errare per lucos > han dato campo a non poche dispute 
tra i dotti e gli antichi scoliasti. Fuvvi tra gli altri per- 
sino il Bentley, il quale sostenne essere esistita una 
balia di Orazio nomata Apulia^ che in quel sogno del 
pargoletto prese parte, tenendolo addormentato in su le 
ginocchia, fuori la porta della sua casa rurale in Ve- 
nosa. Gargallo traduce : 

Da pueril trastullo 
Mentre io lasso, e dal sonno oltre alla soglia 



-«( 232 )»- 



De r Apula nutrici, amar faruimllo 
Giaceva sul V\lL?r appulo, di faglie 
Tutu a nuazi arhuscelli 
Fer siefe int4fniù a wu, gt idal^ mmgelli. 



Ma ben considerando questo bisticcio di Voltar 
appulo oltre la soglia (i confini) delt Apula nutrice^ si 
chiarisce che T Apula nutrice per Orazio era Venosa , 
usando il tutto per la parte, cioè la Puglia Daunia. 
Plinio, (libro 2. capo 12.) disse e Dauniorum colonia 
Venusia >, ed il Voltar appula alla soglia indicava la re- 
gione del Vultore, mentre il Vulture era situato nella 
Puglia Peucezia , quindi fuori dei confini della Puglia 
Daunia, patria di Orazio. Con tale criterio resta dilu* 
cidato questo passo di Orazio, il certo un po' oscuro 
per chi ignora la topografìa delia regione pugliese. È 
certo che Orazio intese parlare, nominando il Vulture , 
della catena appenninica minore dopo il Vulture, cioè 
i monti alle cui pendici Venosa era situata, che in quei 
tempi erano copèrti da fitte boscaglie, come una buona 
parte lo sono tuttora (contrada Monte, Monte Alto ecc.). 
Infatti accenna in seguito alla foreste di Banzi, {saltu- 
sque bandinas\ ad Acerenza {celsa nidum Acherantiae)^ 
a Forenza {humilis Ferenti)^ che son tutti luoghi che 
fan seguito anche oggi a tali boschi, che bisogna tra- 
scorrere per giungervi partendo da Venosa. Se Orazio 
avesse inteso parlare delle pendici del Vulture, come 
oggi s' indicano, avrebbe dovuto far cenno di Atella, 
RapoUa, Rionero, Barile, e di altri paesetti, che se non 
esistevano in quei -tempi , certo in tutto il perimetro 
della pendice del Vulture doveva esistere qualche traccia 
o zona di terra abitata, come la Rendina attuale, ove 
la taberna celebre è anteriore all'epoca romana della 
quale si discorre. 



I 



(J33j 

Del Vulture hanno ampiamente e dottamente trat- 
tato r abate Tata {Lettera sul Vulture 1778), Dau- 
beny {Narrative of on excursion to mount Vultur in 
Apulia— Oxford 1835), il prussiano Ermanno Abich, ^<^c- 
ed i dotti italiani Tenore e Gussone {Memorie sulle pe- 
regrinazioni in Puglia nel I834)i Ferdinando Fonseca 
(Osservazioni geognostiche sul Vulture 1845), ed infine 
i professori Palmieri e Scacchi che nel 1852 fecero una 
relazione sul Vulture alla Reale Accademia delle Scienze. 
In quest'ultima dottissima elucubrazione si rilevano 
le seguenti cose, che importano pel nostro compito. 
L* intera periferia del Vulture, vulcano estinto, è di di- 
ciotto miglia, e V area di dodici miglia quadrate ; e 
dal luogo ove esistono tracce manifeste di eruzioni vul- 
I caniche del Vulture, sino a Venosa, circondata da letti 

di fiumi, formati da grossi ciottoli di selce viva e non 
scorie vulcaniche, e tra essi il Lapilloso così detto per 
tale cagione, sonvi circa miglia venti. Nel lato orientale 
del Vulture si trovano molte colline prolungate sin presso 
Venosa , che in linea diretta può ritenersi dieci mi- 
glia lontano dal Pizzuto di Melfi, una delle vette del 
Vulture. Presso la fontana di Trent* Angeli nel terri- 
torio di Venosa, e circa dieci miglia dall' estinto cra- 
tere del Vulture, vi sono grossi strati di conglomerato 
vulcanico, che non senza grandissima maraviglia si pos- 
sono quivi vedere a tanta distanza dal vulcano. La 
cosa che poi desta stupore a vedere si è che tra i pezzi, 
ve ne sono non pochi di gran mole, ed uno di esso 
si è trovato del diametro di un metro e mezzo, che dà 
presso a poco il peso di quattromila chilogrammi. Que- 
sta circostanza rende assai diffìcile immaginare che essi 
abbiano potuto essere lanciati a dieci miglia di distanza 
dalle eruzioni del Vulture , ed ha fatto pure pensare 

30 



-«( 234 )»- 

che qualche altro vulcano vi potesse essere stato tra il 
corso del fiume divento e Venosa. E nella statistica go- 
vernativa della provincia di Basilicata, redatta dal Man- 
darini nel 1839, il Vulture è così indicato: « Il Vulture, 
« vulcano estinto, si eleva tutto isolato in forma gigan- 
« tesca, signoreggiando il piano venosino, e tutto quel 
< gran tratto di delizioso paese che si spande sino al- 
« l'Adriatico, Puglia denominato , avendo una circon- 
« ferenza di circa ventidue miglia. » 

Con tali dati certi, come è presumibile che Orazio 
intendesse alludere a gite o stazioni sul Vulture pro- 
priamente detto, così lontano, e non della regione mon- 
tuosa che cinge Venosa, che pure era albergo di serpi 
e ceraste, e di cignali ed animali selvaggi, come si man- 
tenne per tanto tempo , e come in piccola parte lo è 
tuttavia. 

E poi, quello che spiega, secondo il mio parere, chia- 
ramente il tutto, sono quelle voci < palumbes fcUm- 
losae » . 

Gli augelli idalii son proprie le colombe di Venere. 
E come ripetutamente si è detto, la colomba mistica 
formava il culto di Orazio e di tutta la regione Ve- 
nosina. Nessun chiosatore o comentatore delle opere 
oraziane sinora conosciuto ha riflettuto a tale fatto 
rilevante , e non ne ha indicata questa congettura 
che basta a dilucidare l' oscurità del passo sopra in- 
dicato. 

(17) Gargallo Tommaso. Traduzione delle opere di 
Q. Orazio Fiacco, lib. 3®. ode 3*. 

(18) Idem, luogo citato, lib. 2*., ode 7*. lib. i®. 
ode 17*. 



^( 235 )»- 

(19) Una compagnia estera progettava e approntava 
somme per una linea ferroviaria che avrebbe dovuto se- 
guire l'antica Via Appia, il che avrebbe arrecato gran 
benefìzio agl'Italiani (non ancora era ancora Roma la 
capitale d'Italia) ed accorciato di parecchie centinaia 
di chilometri la via che da Londra seguiva sino nel cen- 
tro della penisola italica , favorendo il cammino della 
valigia dell'Indie. La ferrovia avrebbe traversato anche 
le città di Presenzano, Benevento, Melfi, Venosa, Gra- 
vina, Altamura, Gioja, Martina, San Vito, misurando un 
percorso di 474 chilometri. Con tale ferrovia direttissima 
da Roma a Brindisi, l' etema città si poneva all' al- 
tezza della civiltà chiamata dai mutati tempi a grandi 
e sublimi destini, e si aprivano nuove fonti di ricchezze 
all'industria ed al commercio , perchè i forestieri e le 
mercanzie che transitavano per l'Oriente avrebbero pre- 
ferito tale via brevissima. Si volle per altri fini deviare, 
e solo nello scorso anno si sentì con giubilo comune 
presso Venosa il fischio della vaporiera. La quale prov- 
vida sebbene tarda giustizia resa a così celebri terre, si 
deve all'azione diligente di molti illustri patriotti, e par- 
ticolarmente del mio carissimo cugino comm. Giustino 
dei marchesi Fortunato, deputato al Parlamento italiano. 

(20) Gargallo Tommaso. Traduzione delle opere 
di Orazio Fiacco, lib. 1°. satira 7*. 

(21) Si noti al proposito strano casol Ero ado- 
lescente. I superiori del collegio dei Nobili in Napoli, 
dove feci i primi studii, mi condussero, come si usava 
spesso con tutti gli alunni, dal celebre medico Rama- 
glia. Venne il mio turno di visita. Non appena seduto, si 
vide con sorpresa il Ramaglia drizzarsi tutto sulla per- 



( 236 ) 



sona, fare atto di somma maraviglia ed esclamare: Ecco 
una testa modella pel sistema di Gali. E restai delle ore a 
soddisfare la curiosità scientifica del dottore e dei suoi as- 
sistenti. Allorché dimoravo a Parigi, la mia testa produsse 
lo stesso efletto a molti dotti versati nella craniologia. 
Non so come chiarire questa mia specialità. Se non che 
oggi che scrivo, penso a quel Giuseppe de Chenier,il quale 
pure, come Orazio, scrisse satire ed epistole, e che toccan- 
dosi la fronte esclamava: Il y a quelque ckose la! 

« 

(22) Gargallo Tommaso, loc. cit. lib. i*^. sat. 6*. 
C23) Meibam I. Vita di Mecenate, 

(24) Gargallo Tommaso, loc. cit. lib. i®. sat. 6*. 

(25) Idem loc. cit. lib. i"*. sat. 6*. 

(26) Leopardi. — Della fama avuta da Orazio presso 
gli antichi. Discorso igi?. Piane multum miki facetia- 
rum contulit istic Horatius Flaccus^ memorabilis poeta,.,. 
Pronto, Epist. ad M. Caesar lib. i"* Ep. i** Pietro Gior- 
dani soggiunge : Quel menioraòilis poeta non mi pare 
termine di poca stima , bensì voglia dire degno di es^ 
sere citato. Ma vi sembra giusto, egregio Giordani, che 
ad Orazio Fiacco, princeps aeolium Carmen^ si usi solo 
la cortesia di dichiararlo degno di essere citato? Sa- 
rebbe lo stesso che dire oggi di Dante , che le opere 
sue meritano di venir lette, come se si trattasse d* un 
romanzetto d*un letterato novellino. 

(27) Gotthold Leissing.— Opere Volume IV. Lettere 
sulla letteratura. 



-M 237 )^ 

(28) Svetonio — Vita Morati. Walckenaer nella sua 
Histoire de la vie et des poésies d'Horace^ tomo 1°, pa- 
gina 320, così traduce errando : Si déjà^ mon cher Ho- 
race^je ne faime plus que mes entrailles^ fiuisses tu 7toir 
ton ami plus efflanqué que Hinnius i... 

(29) Ludovico Ariosto. — Satira i*. 

(30) Gargallo Tommaso. — Traduzione delle opere 
di Orazio Fiacco, lib. 2'. sat. i'. 

(31) Idem loc. cit. odi. 

(32) Idem loc. cit. lib. 2^. satira 4*. 

(33) Idem loc. cit. lib. 2**. epistola i'. 

(34) Idem loc. cit. odi. 

(35) ••• Gittando insegne e anello equestre e toga... 
Gargallo Tommaso. Trad. di Orazio Fiacco. Lib. 2*. sat. 7*. 

(36) Nella sala del consiglio della deputazione pro- 
vinciale di Basilicata, si ammira un bel quadro del ce- 
lebre pittore venosino, defunto, Giacomo de Chirico, che 
mi fece dono della fotografìa di esso. Orazio vi appare 
troppo vecchio e brutto. Non lo dipinse così Barrias nelle 
sue pregiate tavole incise a Parigi. 

(37) Gargallo Tommaso. — Traduzione delle opere 
di Orazio Fiacco, lib. i*. epistola 16*. 

(38^ Orazio — libro 2.* satira 7.* 



( 238 ): 



(39) Gargallo Tommaso. — Traduzione delle opere di 
Orazio Fiacco. Lib. 2". sat. 4.* 

(40) Orazio. Libro 2.** epistola X, 

(41) Tommaso Niccolò d'Aquino « Delle Delizie 
Tarantine. Annotazioni del Carducci Atenisio al libro 
4*. Napoli 1771 ». Donde ha ricavato il traduttore ed 
annotatore Cataldantonio Atenisio Carducci, che Orazio 
soleva venirsene da Venosa a Taranto, a bardosso col 
fante, di un muletto scodato? 

(42) L'attuale marchesa di Vacone è D. Marian- 
na Giusso, dei duchi del Caldo, sorella di D. Maria 
Teresa Giusso nei Correale dei duchi del Caldo, mia 
suocera. 

(43) Noél de Verger — Prefazione alle opere di 0- 
razio del Didot. Parigi 1855- 

(44) Gargallo Tommaso. — Traduzione delle opere 
di Orazio Fiacco,* lib. i*. ode 17/ 

(45) Idem loc. cit. lib. i.*^ ode 4.' ed ode 2.* 

(46) Idem loc. cit. odi, lib. i"*. 24. 

(47) Idem loc. cit. odi. 

(48) Hugo Religions, 

(49) Gargallo Tommaso.— Traduzione delle opere 
di Orazio. Epodi. — ode 4.* 



-«( 239 )»^ 

(50) Idem loc. cit. lib. !• ode 31.* 

(51) Idem loc. cit. lib. 2^ sat. 2.* 

(52) Idem loc. cit. lib. 2°. sat. 2.* 

(53) Idem loc. cit. lib. 3*. ode 29.* 

(54) Idem loc. cit. lib. I^ epistola 5.* 

(55) Idem loc. cit. lib. p. epistola 5.' 
($6) Idem loc. cit. lib. i*. epistola 14.* 
(57) Idem lib. 4^ ode 9.* 

($8) Idem loc. cit. lib. 2^ sat. 6.* 

(59) Svetonio — Vita Morati, 

(60) Gargallo Tommaso, loco citato, lib. i». Epi- 
stola 7.* 

(61) Lupoli M. A. Iter venusinum. Capo 4.^ Dis- 
sert. I.* 

(62) Idem. idem. Farao M. Frane. Lettera apo* 
logetica sulla Menippea di Pasquale Magnimi, Napoli 

1795. 

(63) Seneca — Vita di Mecenate^ lettera 1 14. 

(64) Gargallo Tommaso, loc. cit. odi. 



( 240 ) 



(65) Idem loc. cit. lib. 3'. ode 3'. 

(66) Idem loc. cit. odi. 

(67) Idem idem. 

(68) Seneca. Opere 

(69) Gargallo Tomm. loc. cit. lib. 2*. ode 17*. 

(70) Idem loc. cit. lib. i"". epist 8*. 

(71) Idem loc. cit. Epodi, ode i*. 

(72) Idem loc. cit. lib. 2*. ode 6*. 

(73) Svetonio. — Vita Morati. 

(74) Spera ab. cav. Giuseppe. Trad, deU Epistola 
ai Pisoni di Orazio. Napoli— Morano 1880. A tale esi- 
mio letterato, lucano, mio amico , professore di lettere 
italiane nel liceo di Montecassino, fo partire da queste 
carte un saluto ed un ringraziamento per molte prege- 
voli sue opere donatemi con dediche lusinghiere. 

(75) Leopardi G. — Della fama avuta da Orazio 
presso gli antichi. — Discorso 1817. 

(76) Quintiliano — Institutiones, i* parag. 96. 

(77) Petronio Arhitro— Satire. 

(78) Frontone. Lettera a Cesare^ libro l* satira i'. 



( 241 ) 



(79) Leopardi G. — Della fama avuta da Orazio 
presso gli antichi, — Discorso, 1817. 

(go) Gargallo Tommaso. — Trad. di Orazio, lib. 30^ 
ode 30*. 

(%i) ¥éné\on—Dialogiu d^Horace et Virgile. 




3» 



INDICE 



Al LETTORI. 



I. Prolegomeni 

II. La famiglia del poeta . . . 
in. Orazio in Roma ed in Atene 
IV. Relieta non bene parmula A... 

V. Dopo la tempesta .... 
VI. Mecenate 



pag- 



VII. Lusso e magnificenza 

Vili. Augusto 

IX. La villa Sabina . . 



X. Filosofia, religione, indole 

XI. Vita intima 

Xn. Gli ultimi anni del poeta . . 
Xin. L'eterno monumento oraziano 
Note 



I 
II 
29 

45 
SS 
7S 
91 

IDI 

113 

131 

143 
161 

183 
207 




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PERE DELLO STESSO AUTORE 



n Patrizio e l'Abate — Un volume in i6», pag. 250, 
Tipi Di Angelis — Napoli, 1870. 

XTobiltà e 1)0rgh68ia — Un volume in 8*, pag. $00, Tifi 
Tarnese — Napou, 1877. 



Uemorìe storiche di Portici — 3* edizione — Un vo- 
lume in 8^ pag. 176 — Stabilimento Tipografico 
Vesuviano — Portici, I891. 



Presso Tautore — Napoli, Riviera di Chiaja, N. ijo 






Dei Conti Sì Bavoja— Un volume, in g*. pag. 109, Tipi 

Giannini — Napoli, 1886. ì 

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