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Thursday, June 6, 2024

GRICE ED OTTAVIANO

  « VOX AUGUSTA »    Francesco Petrarca, nel secondo capitolo del primo  libro delle Res memorandae, racconta d’essergli avve-  nuto, ancora giovinetto, di leggere un libriccino con-  tenente gli epigrammi e le lettere agli amici dell’im-  peratore Cesare Augusto, conditum facetissima gravitate  et luculentissima brevitate « adorno di forbita dignità  di stile e di eloquente brevità »; un volumetto quasi  intonso e mezzo divorato dalle tarme, che andò per-  duto, e che, per quanto disperatamente cercasse, il  Petrarca non riuscì più a trovare. I dotti dubitano  della veridicità della notizia, ma forse dubitano a torto,  giacchè nessuna ragione poteva avere Petrarca di men-  tire la notizia, e da nessun’altra fonte che dalla diretta  lettura avrebbe egli potuto derivare un giudizio così  vero e preciso sulle doti stilistiche degli scritti di  Augusto. Non resta, dunque, che dichiararci contenti  che a rivelare al mondo la grandezza di Cesare Augusto  scrittore sia stato il primo umanista d’Italia, e che a  nessun altro sia riuscito meglio che a lui di definire,  in fresco e saporoso latino, le caratteristiche dello stile    del figlio adottivo di Giulio Cesare.    202 I GRANDI ITALIANI    Molti secoli passarono prima che si ponesse di nuovo  mente ad Augusto scrittore, e solo quando fu ritrovata  l’iscrizione di Ankara in Anatolia i dotti si diedero a  raccogliere i frammenti degli scritti imperiali e a ripro-  durli più volte in edizioni belle e brutte, rintracciando  meticolosamente il benchè minimo frammento. Sulla  iscrizione dell’ Augusteo d’Ankara storici e filologi discu-  tono ancora, voglio dire che ancora non si sono messi  d’accordo sulla natura e significato di uno dei quattro  documenti che Augusto, nel 14 dopo Cristo, nel set-  tantesimo sesto anno di vita, consegnò, insieme col  testamento, alle vergini Vestali perchè alla sua morte  fossero letti in Senato. I quattro documenti erano le  disposizioni per i funerali, il resoconto delle sue gesta,  una relazione sulla situazione militare e finanziaria  dell’Impero, i consigli a Tiberio sul modo come reggere  e amministrare la cosa pubblica. Ci è giunto intiero  il secondo dei quattro documenti: ma non già nell’esem-  plare che Tiberio, obbedendo alla volontà di Augusto,  fece scolpire nel bronzo dei due pilastri collocati innanzi  al grandioso Mausoleo, che sorgeva, nella parte setten-  trionale del Campo Marzio, tra il Tevere e la via Fla-  minia; bensì nella copia che fu incisa nella pietra  dell’Augusteo di Ancyra, capitale della Galazia, cioè  nell’Augusteo di Ankara, capitale della nuova Turchia.  Ivi, nel capoluogo di una provincia romana, le Res  gestae Divi Augusti furono incise nel testo latino det-  tato dall’Imperatore e nella traduzione greca fatta ese-    AUGUSTO 203    guire dal successore Tiberio, perchè le parole di Cesare.  Augusto sonassero più intelligibili alle popolazioni  orientali.   Questa è l’iscrizione nota col nome di Monumentum  ancyranum, da venti anni a questa parte riprodotta  in un testo sempre meglio corretto, essendo stata rin-  venuta un’altra copia dell’originale latino nella colonia  imperiale di Antiochia di Pisidia. Ma, come ho detto  innanzi, i dotti discutono ancora sul significato del  documento, nel quale Augusto volle rendere pubblica  ragione delle cariche ricoperte, dei donativi elargiti e  delle imprese operate. E, purtroppo, anche in questo  caso, taluni critici, per cercare di scoprire i diversi  momenti della redazione dello scritto, hanno affermato  che il piano generale dell’opera è disorganico e disor-  dinato, che molte sono le incoerenze di alcune parti,  e che però Cesare Augusto ha redatto il documento  ampliandone uno precedente, più modesto e meglio  ordinato. Insomma... una quistione omerica, che, a  parer nostro, è facilissimo distruggere nelle sue false  ed ingannevoli argomentazioni con poche parole.    DI    Il documento di Augusto non è un bilancio, non  è un testamento politico, non è un'iscrizione del tipo  degli elogia; ma è rendiconto, testamento ed elogium,  perchè Augusto l’ha redatto quando si appressava il  giorno della morte. Per ciò stesso non rientra in nessun  genere. La solennità del latino del documento augusteo    DI    non è soltanto nello stile, ma è nei fatti che vi sono    204 I GRANDI ITALIANI    LI    esposti, e soprattutto è nel fatto che al Senato e al  Popolo di Roma parla il fondatore dell’Impero, il Padre  della Patria, Augusto, e non per esaltare la sua propria  opera, ma per proclamare che essa rimarrà in eterno  legata alla fedele collaborazione del Senato e del Popolo  di Roma.   Svetonio afferma che Augusto soleva scrivere tutto  ciò che dovesse dire, che scriveva perfino quello d’im-  portante che dovesse dire a sua moglie Livia; e che  si era assuefatto a scrivere meticolosamente i suoi  discorsi al punto che, quando la troppo cagionevole  gola gl’impedisse di arringare la folla, un araldo leg-  geva ad alta voce il suo manoscritto: praeconis voce ad  populum contionatus est. Perciò io dico che anche questo  documento è un discorso al Popolo di Roma: l’ultimo  discorso nel quale il Padre della Patria, Cesare Augusto,  rende conto dell’opera sua.   E le prove della mia affermazione sono la presunta  incoerenza e il presunto disordine scoperti e biasimati  dai critici. Ma non sono malinconicamente ridicoli quei  critici i quali cercano di dimostrare in « sede scientifica »  che Cesare avrebbe copiato da Posidonio molti capitoli  di un libro dei commentarii della guerra gallica (e sono,  purtroppo, Italiani); o questi altri (e fortunatamente  non sono Italiani) che scoprono in Augusto un errore di  cronologia? Giacchè, se dovessimo dar retta a costoro,  « Augusto avrebbe commesso l’errore di menzionare alla  fine del documento i due maggiori titoli del Pater    AUGUSTO 205    Patriae e di Augustus conferitigli dal Senato e dal  popolo negli anni 27 e 2 avanti Cristo. Invece che  nel trentaquattresimo e trentacinquesimo paragrafo,  Augusto avrebbe dovuto ricordarli, a giudizio di cotesti  critici, molto prima: chè insomma avrebbe dovuto fare  opera di storico mediocre e dimenticare di essere  Cesare Augusto. |   Leggete il documento. Esso comincia: annos unde-  viginti natus exercitum privato consilio et privata impensa  comparavi, per quem rem publicam a dominatione fac-  tionis oppressam in libertatem vindicavi: « all’età di  diciannove anni, di mia iniziativa e con danaro mio  apparecchiai un esercito, e con esso restituii libertà  allo Stato oppresso dalla prepotenza di una fazione ».  E si chiude così: « Tra il sesto e il settimo consolato  mio, dopo ch’ebbi soffocate le guerre civili ed assunto,  per universale consenso di tutti i cittadini, il supremo  potere, trasferii dalla mia persona all’arbitrio del Senato  e Popolo romano il governo della cosa pubblica. Per  questa mia benemerenza, mi fu conferito, con decreto  del Senato e Popolo romano, il titolo di Augustus...  Durante il tredicesimo mio consolato, il Senato, l’ordine  equestre e il Popolo romano mi acclamarono Padre  della Patria, e decretarono che questo titolo dovesse  essere iscritto nel vestibolo della mia casa e nella curia  Giulia, sotto la quadriga che per decreto del Senato  fu eretta ad onor mio. Quando redigevo questo docu-  mento, avevo settantasei anni ».    206 I GRANDI ITALIANI    Comincia: annos undeviginti natus...; finisce: annum  agebam septuagesimum sextum. Non dimentichiamo  questa chiara e significativa corrispondenza tra l’inizio  e la chiusa del documento, nella quale sono compresi  i cinquantasette anni della vita politica di Cesare  Augusto. O sembra, forse, strano che per sublime  orgoglio il primo cittadino della Roma imperiale, acco-  miatandosi per sempre dalla plebe romana, di tutti i  titoli e honores ch’egli ebbe in vita, voglia ricordare  alle generazioni avvenire il nome di Augustus e il  titolo di Pater Patriae? |  » Augusto era infermo, la morte si appressava non  temuta, ma serenamente attesa, chè infatti morì di  «bella morte». Egli parla per l’ultima volta al Senato e  Popolo di Roma, come un cittadino, che, amministrata  la cosa pubblica, dimesso dall’ufficio, consegni al suc-  cessore l’incarico e chieda, con coscienza onesta e proba,  il benservito. C’è in questo documento un crescendo  di tono, che verso la fine raggiunge il maestoso: dal  venticinquesimo paragrafo in poi esso si fa solenne  come litania: ... mare pacavi a praedonibus...; omnium  provinciarum populi romani fines auxi...; Aegyptum  imperio populi romani adieci...; colonias deduxi...; signa  militaria reciperavi...; Pannoniorum gentes imperio po-  puli romani subieci...; ad me ex India regum legationes  saepe missae sunt...; ad me supplices confugerunt reges...;  a me gentes Parthorum et Medorum reges habuerunt...;  e finalmente i due ultimi paragrafi sopratradotti. Sui    AUGUSTO I | 207    «mari ha debellato i pirati, ha allargato i territori di  tutte le provincie dell’Impero, ha aggiunto la nuova  provincia di Egitto, ha fondato nelle più lontane regioni  colonie di Roma, ha recuperato bandiere e vessilli: a  lui hanno fatto ricorso in atto di supplica i re di tante  nazioni, da lui le genti di Oriente hanno avuto i re  che avevano dimandati. Col trentesimo terzo paragrafo  si chiude il rendiconto delle imprese operate da Cesare  Augusto; nel trentaquattresimo e nel trentacinquesimo  paragrafo risuona il ricordo del nome di Augustus e  del titolo di Pater Patriae. Al Senato e Popolo romano,  alle genti tutte dell’Impero, alle generazioni avvenire  Augusto si raccomanda e consacra, prima che la sua  terrena giornata si chiuda, con quel nome solo e solo  con quel titolo.  *  ws   Cesare Augusto affidò il manoscritto alle vergini  Vestali perchè fosse consegnato dopo la sua morte al  Senato e inciso sul bronzo. Il successore Tiberio fece  riprodurre il testo com’era, con una brevissima appen-  dice e in ortografia un tantino diversa da quella prefe-  rita da Augusto, ma certo senza nessuna sostanziale  modificazione. Dunque, noi possediamo un’opera intera  di Augusto, la quale ci rivela la sua grande personalità  di scrittore.   Il latino di Augusto non è quello di Cesare. Augusto  scrive in prima persona, ma si può dire che in questo    208 I GRANDI ITALIANI    scritto egli raggiunga la stessa efficacia dei Commen-  tari. Non giudica, non aggiunge nessun commento ai  fatti che espone pacatamente e senza enfasi, ma dalla  secca enumerazione dei templi fondati, degli edifici  pubblici restaurati o costruiti, delle somme elargite  all’erario e alla plebs, delle genti soggiogate, dei nemici  sconfitti, delle terre conquistate, delle leggi promulgate,  spira il calore dell’epopea e della leggenda. La sua  opera appare, quale fu, colossale; e vien fatto di ripen-  sare ai primi quattro versi della prima epistola del  secondo libro di Orazio: «Se io tentassi di rubarti un  po’ di tempo con una lunga chiacchierata, o Cesare,  peccherei contro l’interesse dello Stato, giacchè da solo  sostieni tante e così gravi cure, e l’Italia difendi con  gli eserciti, e ne incivilisci i costumi, e con leggi la  emendi... ».   Epico è il tono di questo scritto di Augusto, anche  là dove sono riassunte in brevissime parole imprese  che durarono anni: « Colonie militari ho inviato in  Africa, in Sicilia, in Macedonia, nelle due Spagne, in  Acaia, in Asia, in Siria, nella Gallia Narbonense, in  Pisidia. E l’Italia diciotto colonie possiede; dedotte  per ordine mio, le quali, per tutto il tempo ch'io vissi,  sono state assai popolose e prosperose ». Leggendarie  appaiono le legioni, che, guidate da lui o dai generali  suoi « sotto ì suoi auspici», marciano, di conquista  in conquista, verso confini sempre più lontani; e avvolte  nella leggenda sembrano le triremi sue che fanno vela,    =_= 1 -:-—=- esse poni    “bi ski    AUGUSTO 209    audaci, verso nuovi lidi: « La mia flotta corse l’Oceano  dalla foce del Reno fino al territorio dei Cimbri ad  Oriente, dove, nè per terra, nè per mare, nessun Romano  prima di allora era giunto... ».   Augusto ha uno stile sobrio, nient’affatto enfatico,  e tuttavia solenne. Egli adopera vocaboli che sono  sempre esatti e tecnici, censuit, decrevit, ussit, creavit,  per dire che il Senato e Popolo romano ordinò, decretò,  comandò, nominò. La collocazione delle parole è sem-  plicissima, lineare, chiara, antiretorica, come in questo  periodo che è uno dei più ricchi sintatticamente: nomen  meum senatus consulto inclusum est in saltare carmen,  et sacrosanctus in perpetuum ut essem et, quoad viverem,  tribunicia potestas mihi esset, per legem sanctum est: « Il  mio nome per decreto del Senato fu compreso nel  carme dei Salii, e che inviolabile io fossi in perpetuo,  ed a vita avessi il potere tribunizio, fu per legge sancito».   Non fa mai il nome degli avversari suoi; tace quello  dei congiurati che assassinarono il padre suo Cesare:  qui parentem meum interfecerunt, eos in exilium expulsi  iudiciis legitimis ultus eorum facinus et postea bellum  inferentis rei publicae vici bis acie: «Quelli che assas-  sinarono il padre mio li cacciai in esilio punendo con  procedimento legale il loro delitto, e, in seguito, quando  essi portaron guerra allo Stato, per due fiate li sconfissi  in campo ». E continua, pacato e grave:   « Guerre per terra e sui mari, civili ed esterne,  in tutto il mondo più volte ho combattuto, e vincitore    14 — Coppota.    210 I GRANDI ITALIANI    risparmiai tutti i cittadini che dimandarono grazia.  Le genti straniere alle quali fu possibile, senza peri-  colo, perdonare, preferii conservarle anzi che distrug-  gerle. Sotto le mie bandiere circa cinquecentomila cit-  tadini romani militarono. Di essi più che trecentomila  mandai nelle colonie o feci ritornare ai loro municipi,  dopo ch’ebbero compiuto gli anni di servizio, e a tutti  assegnai terre oppure donai danaro a ricompensa del  servizio prestato. Seicento navi catturai, non inclu-  dendo in questo numero quelle di tonnellaggio inferiore  alle triremi.   « Entrai in Roma ovante, due volte: tre ebbi trionfi  solenni e ventuna volta fui acclamato imperator, seb-  bene il Senato mi decretasse un maggior numero di  trionfi, ai quali tutti rinunciai. L’alloro dei fasci lo  deposi in Campidoglio, e così sciolsi il voto che avevo  solennemente fatto in ogni guerra. Per le imprese feli-  cemente da me o dai miei generali sotto i miei auspici  operate in terra e sui mari, il Senato cinquantacinque  volte decretò che si rendessero grazie agli dèi immor-  tali. Ottocentonovanta furono i giorni nei quali, per  decreto del Senato, s’inalzarono pubbliche preci. Nove  re o figli di re furono nei miei trionfi condotti innanzi  al mio cocchio ». |   Ascoltatelo quando riassume in un periodo solo la  sua opera di legislatore: « Con leggi nuove da me  promulgate richiamai in vigore le consuetudini antiche  dei padri, che già cadevano in oblio nella nostra gene-    AUGUSTO 211    razione, e io stesso ho lasciato alle generazioni avvenire  esempi di molte cose, degni d’essere imitati ».  Sentitelo quando ricorda gli onori che il Senato e  Popolo di Roma conferì ai suoi due figli adottivi, e  leggerete in un brevissimo inciso il dolore del padre  per l’immatura morte di Gaio e Lucio Cesare, e l'umano  e affettuoso compiacimento suo nel ricordare che appena  quindicenni essi furono acclamati principi della gio-  ventù romana e designati consoli: « I due figli miei,  che il destino mi strappò ancor giovani, Gaio e Lucio  Cesare, il Senato e Popolo romano per farmi onore li  designò consoli appena quindicenni, che entrassero in  carica dopo cinque anni. E il Senato decretò che dal  giorno della loro presentazione nel Foro partecipas-  sero ai pubblici consigli. E tutti i cavalieri romani li  acclamarono principi della gioventù, e offrirono in  dono scudi e lancie di argento ». E, infine, ascoltatelo  quando ricorda gli anni di Azio e dell’ultima guerra  civile: « Mi giurò fedeltà l’Italia tutta intera, spon-  taneamente, e mi volle condottiero della guerra nella  quale vinsi ad Azio. Mi giurarono fedeltà anche le pro-  vincie delle Gallie, delle Spagne, d’Africa, di Sicilia,  di Sardegna ». I |  Augusto è scrittore accortissimo, che aborre da ogni  lenocinio sintattico o lessicale, ma che nel giuoco delle  congiunzioni, del polisindeto e dell’asindeto, riesce a  far leggiero o grave il tono della voce, più lento o più  celere, ma non mai concitato il movimento della frase.    14* — Coppota.    212 I GRANDI ITALIANI    Abbiamo letto or ora un esempio di asindeto, in cui  le pause tra un nome e l’altro delle provincie rendono  più solenne l’immagine del mondo romano stretto nel  giuramento intorno al suo Duce; eccone, invece, un  altro di polisindeto, là dove Augusto ricorda l’iscri-  zione dello scudo d’oro offertogli dal Senato il 27  avanti Cristo.  — Il testo originale dell’iscrizione era il seguente: « Il.  Senato e Popolo di Roma offrì ad Augusto questo  scudo per il suo valore clemenza giustizia pietà »:  ... virtutis clementiae iustitiae pietatis caussa (e natural-  mente virtus sta a significare l’opera del condottiero  di eserciti, e pietas il profondo ossequio alle istituzioni  religiose). Ma Augusto riunisce più efficacemente in  due endiadi le quattro virtù, essendo le due prime  proprie dell’opera sua di condottiero, le altre due del  magistrato civile e supremo amministratore dello Stato:  virtutis clementiaeque, iustitiae et pietatis caussa.  Perciò io dico che è molto difficile tradurre bene i  trentacinque paragrafi delle res gestae di Cesare Augusto.  A questa grande iscrizione, che Teodoro Mommsen  chiamò la regina delle iscrizioni latine, è mancato chi  la traducesse nella lingua del « Principe », perchè è stata  rinvenuta troppo tardi. Nei tempi moderni avrebbe  potuto tradurla solo il Tommaseo, ma non l’ha fatto  perchè non la conosceva. Ha tradotto solo le sette  parole che son citate da Svetonio nella vita di Augusto,  ed io le ho ripetute nella mia traduzione copiandole dal    AUGUSTO 213    Dizionario d’estetica, e le ripeto di nuovo con accanto  il latino di Augusto: bis ovans triumphavi et tris egi  curulis triumphos... « entrai in Roma ovante, due volte:  tre ebbi trionfi solenni». Solo la collocazione delle  parole semplice ed efficace, e un raro accorgimento  nella scelta dei vocaboli e dei sinonimi potrebbero  soddisfare il desiderio nostro di una traduzione ita-  liana che riproducesse gli effetti del latino di Cesare  Augusto. I   Augusto fu scrittore elegante e temperato. Svetonio  riferisce che egli scrisse molte cose in prosa di vario  genere, alcune delle quali leggeva nella conversazione  degli amici, quasi dinanzi a un uditorio come le Ri-  sposte a Bruto intorno a Catone, che da vecchio essen-  dosi messo a leggere, giunto un pezzo innanzi, final-  mente stanco dovè farne terminare a Tiberio la lettura;  le Esortazioni alla filosofia, ed alcune notizie Della sua  vita che espose in tredici libri giungendo fino alla  guerra cantabrica e non più in là. Compose anche  qualche verso. Rimaneva, al tempo di Svetonio, un  volumetto in esametri sulla Sicilia e un altro di Epi-  grammi, i quali egli era andato componendo durante  il bagno. Aveva anche incominciata con grande ala-  crità una tragedia, ma non essendo contento della  forma la distrusse, e agli amici che un giorno gli diman-  davano che facesse di bello il suo « Aiace », rispose  che il suo Aiace s’era buttato non sulla spada, ma  in una spugna.    214 I GRANDI ITALIANI    Spregiava di fare uso di vocaboli dotti e difficili   o com’egli stesso li definiva reconditorum verborum feto-  ribus. Aveva a noia i leziosi e gli arcaizzanti, ciascuno  vizioso nel suo genere, e talvolta li metteva in deri-  sione e sopra ogni altro il suo Mecenate di cui conti-  nuamente riprendeva «i riccioli stillanti unguento »,  come li chiamava. Non la perdonò neppure a Tiberio  che andava a caccia di parole stantie, e dava del  . matto a Marco Antonio, come colui che scriveva più  per farsi ammirare che per farsi intendere. Nei di-  scorsi, di alcuno dei quali leggesi in Cicerone menzione  entusiastica, sappiamo che si preoccupò di riuscire  eloquente senza mai ricorrere alla verbosità e pesante  sentenziosità dell’allora decadente oratoria. In una let-  tera alla nipote Agrippina, lodando l’ingegno di lei,  l’ammonisce che si studi di non scrivere o parlare in  modo disgustevole e lezioso. E per riuscir chiaro, sì  che tutti potessero capire, preferiva una sintassi lim-  pida ad una sintassi più armoniosa e serrata, e adope-  rava le preposizioni anche dinanzi ai nomi di città,  facendo cosa che un diligente maestro dei nostri tempi  sottolineerebbe con frego azzurro nel compito del ma-  laccorto scolaro. Svetonio, che ci racconta questi parti-  colari della grammatica e sintassi di Augusto, e che  ebbe modo di consultarne gli autografi, ricorda anche  che egli non divideva mai le parole in fine di riga per  terminarle nella riga seguente, ma le ripiegava. sotto  chiudendole con una linea curva. E aggiunge che    — AUGUSTO 215    l'ortografia di Augusto, abituato a scrivere per parlare,  era quella di chi scrive come pronunzia.   Se dobbiamo credere agli antichi, di Cesare Augusto  restarono famose le lettere. Raccolte per tempo in più  volumi e alcune di esse rimaste vaganti, non costitui-  rono mai un vero e proprio corpus, ma andarono a  poco a poco disperse. Esse non ebbero la buona e  cattiva ventura di entrare nelle scuole come libro di  testo, e neppure l’altra d’essere raccolte in antologia.  Restano però i giudizi degli antichi e alcuni frammenti  degni d’essere ricordati. Augusto discorreva alla buona,  familiarmente, sia che scrivesse di affari politici, sia  che si rivolgesse ad amici e parenti. Sollecitava Vir-  gilio che gli mandasse almeno l’abbozzo dei primi versi  dell’Eneide; scherzava con Orazio rimproverandolo che  non parlasse mai di lui, e chiedendogli se per caso  non credesse di rimanere infamato presso i posteri,  qualora dagli scritti suoi apparisse chiara la loro inti-  mità. All’amico Mecenate un giorno scrisse che essendo  infermo e tuttavia indaffarato in più cose, chiamava  e fargli da segretario il suo Orazio; lo richiamava  cioè dal parassitico desco del nobile etrusco alla sua  mensa di pontefice massimo: veniet ergo ab ista para-  sitica mensa ad hanc regiam, et nos in epistulis scri-  bendis adiuvabit. E un’altra volta gli scrisse una let-  tera che si chiudeva con questa forbita apostrofe:  « Salute o mio ebano di Medullia (città etrusca), avorio  di Etruria, laserpizio di Arezzo, perla tiberina, sme-    216 I GRANDI ITALIANI    raldo dei Cilnii, diaspro degli Iguvini, berillo di Por-  senna, carbonchio di Adria, e, per dirle tutte in una  parola, céccolo delle meretrici... ».   Suo nipote Gaio Cesare era da lui chiamato in  segno di affetto, asellus tucundissimus; e al figliastro  Tiberio egli scriveva lettere gonfie di tenerezza e con-  fidenza, raccontandogli come avesse passato il giorno,  quanto avesse perduto al giuoco, parlandogli dei suoi  digiuni imposti dalla cagionevole salute, e d’aver sboc-  concellato in lettiga, tornando al palazzo, un’oncia di  pane e pochi acini di uva secca. E quando Tiberio, il  quale militava lontano con gli eserciti, scriveva di essere  smagrito per le continue fatiche della campagna, ei lo  supplicava di riguardarsi, chè, alle cattive notizie della  sua salute, et ego et mater tua (Livia), expiremus et summa  imperti sui populus romanus periclitetur. Alla figlia Giulia  voleva un gran bene, e la licenziosa vita ch’ella condu-  ceva amareggiò assai l’animo suo: soleva dire di aver  due figlie, tutt'e due delicatissime, la res publica e Giulia;  e molto spesso nelle lettere, come riferisce il vecchio  Plinio, recriminava penosamente la dissolutezza di lei.   Umano egli era sempre e ricco di sentimento: qua-  lunque cosa scrivesse, politica o familiare, alieno da  ogni lenocinio di forma e incline piuttosto ad acco-  gliere espressioni còlte sulla bocca del popolo. Non  scriveva die quinto ma diequinte, chè così comune-  mente dicevasi; e, per esprimere la celerità di un  avvenimento, diceva ch’esso era accaduto più presta-    AUGUSTO 217    mente che non cuoce uno sparagio, celerius quam aspa-  ragi coquuntur; e per dir « stolto » adoperava baceolus  che corrisponde al nostro « baggeo »; e per dire che  stava male in salute diceva vapide se habere.   ‘+ Abbiamo poco dei suoi scritti, di intero la sola  iscrizione delle res gestae in latino, e alcuni decreti  ed editti in greco, non tradotti da lui direttamente,  ma certo da lui corretti e controllati. Svetonio racconta  che Augusto, sebbene conoscesse il greco e sempre lo  leggesse e studiasse, tuttavia non si provò mai a scri-  verlo, chè temeva di non conoscerlo abbastanza. Egli  aveva studiato con retori greci, i quali gli appresero  cose di larga erudizione; ma scrittore, come ci appare  nel lapidario latino della iscrizione delle res gestae,  egli s'era formato sull’esempio di Cesare, nell’azione ed  esperienza militare e politica di tutti i giorni. Aveva  innanzi tutto imparato ad evitare non la facondia, ma  la loquacità, e a reputare perciò che l’eloquenza con-  siste nel non far mostra di eloquenza: partem esse  eloquentiae putabat eloquentiam abscondere: che è poi  la grande virtù della parola destinata a commuovere  i popoli e a guidarli alla vittoria e all’impero.    *  * *    I contemporanei lo salutarono coi versi di Virgilio:  « ecco Cesare Augusto, l’eroe che ci era stato pro-  messo e che resusciterà nel Lazio e nelle campagne    218 I GRANDI ITALIANI    d’Italia, dove in antico regnava Saturno, l’età del-  l’oro; e l’Impero di Roma amplierà fino al Fezzan e  all’India, di là dalle vie delle stelle, fin dove l’instan-  cabile Atlante sostiene sulle spalle lo splendente astro  dei cieli». Lo avevano veduto « entrare tre volte in  trionfo nelle mura di Roma, e pagare agli dèi d’Italia  l’immortale tributo dei suoi voti consacrando più di  trecento templi », e fra l’applauso della folla e i canti  delle vergini e delle matrone, mentre sugli altari fumanti  cadevano immolati migliaia di tori, l'avevano ammi-  rato, « sulla soglia di marmo e di alabastro del tempio  di Apollo, ricevere dall’alto del trono i doni dei popoli  sottomessi per abbellire le magnifiche colonne del  superbo porticato ».   Sono passati duemila anni, e l’immagine virgiliana  dell’apoteosi di Augusto si è trasmessa, di generazione  in generazione, come l’immagine della pace romana  creata dall’eroismo e dalla vittoria delle legioni, e  . dalla volontà pura di uno spirito umanamente libero  trasformata in religione politica e ideale di civiltà:  riformatore della costituzione, difensore del territorio,  organizzatore dell’amministrazione e della società, Ce-  sare Augusto rappresenta la maestosa dignità dell’Im-  pero e il diritto fondamentale dello Stato. I simboli  del suo destino, l'adozione di Cesare, la battaglia di  Filippi, la vittoria d’Azio annunziano, nel tramonto  di Roma repubblicana, la luce di Roma imperiale;    più chiaramente ancora, il 16 gennaio del 27 avanti       AUGUSTO | 219    Cristo, l’annunzia il nuovo suo nome di Imperator Caesar  Augustus, che è un simbolo anch’esso e riunisce in un  solo destino l’eroe creatore e la volontà implacabil-  mente lucida del fondatore dell’Impero.   Religiosa eredità fu quella di Cesare: e infatti  duravano ancora le leggi, le istituzioni e gli ordina-  menti, coi quali Cesare era salito al potere e il culto  del Divus Iulius era diventato il culto dello Stato,  garanzia e patrimonio dell’Impero. Ma rafforzando e  difendendo la Romanità così che niente mai potesse  distruggerla, Augusto risolveva a favore dell’Occidente  l’antitesi tra l'Oriente e l'Occidente che Cesare aveva  drammaticamente vissuta negli ultimi anni della vita  sua, e che s’era ripresentata, fortunosa e tragica, nella  lotta tra Ottaviano non ancora Augusto e Marco An-.  tonio. È però costruendo in Occidente la Roma impe-  riale sognata e creata da Cesare, Augusto che aveva  da Cesare ereditato la legittimità aggiunse alla gran-  dezza del padre suo la gloria d’aver tenuto a battesimo  la civiltà europea.   Insieme con Cesare, egli è il simbolo della dignità  imperiale, e il nome suo di Imperator Caesar Augustus  consacra da duemila anni l’identificazione dell’Impero  con l’Occidente. Il titolo di Cesare dava il diritto di  successione al trono, quello di Augusto concedeva la  dignità imperiale: il rito iniziato dai Flavii e ufficial-  mente inaugurato da Adriano fu poi consacrato nelle  formule del protocollo. Creatore dell’Impero era Cesare,    220 | O I GRANDI ITALIANI    fondatore era Augusto, il quale era riuscito a far  sopravvivere l’opera e la gloria di Cesare in cinquan-  tasei anni di regno, e della santità di Cesare aveva  fatto il patrimonio e il fondamento dell’Impero. Appa-  riva dunque ricco di conseguenze per il mondo l’atto  di adozione, col quale Cesare aveva proclamato suo  erede il nipote di una sua sorella, quel giorno che in  terra di Spagna, alla vigilia di una battaglia, mentre  faceva tagliare un bosco per costruirvi il campo delle  legioni, ordinò si risparmiasse una palma come augurio  di vittoria, e quella sùbito gittò polloni alti e fiorenti.  Sul finire del Medioevo, all’albo della Rinascenza,  quando si inaugura la ricerca storica e si annunzia  fecondo di civiltà il quasi voluttuoso amore del passato,  e la Romanità risorge nella cultura e nell’arte nutrite  dalla possente vita dei sensi; allora i due nomi di  Cesare e di Augusto tornano ad essere creatori della  religione dell’Impero. Allora il romanticismo eroico del-  l’Umanesimo celebra ed esalta l’idea imperiale di Roma  con tanto devota ammirazione che gli Italiani dei  secoli futuri ne trarranno motivo di orgoglio e di  serena fede, quando il predone straniero spoglia e  insozza le loro terre; e da quel grido di amore per  l’antica grandezza romana nascerà un appassionato  libro del Risorgimento, sul primato della nostra gente  e sulla universale missione d’Italia. |  Allora, all’alba della Rinascenza, fiorirono le leg-    gende sui monumenti ch’erano rimasti segni tangibili    AUGUSTO 221    della sua presenza, a testimonio della grandezza di  Augusto. Ed Egli apparve garante del miracoloso destino  d’Italia, come nella formula dell’ultimo Impero che  salutava il nuovo imperatore con l’augurio che fosse  più fortunato di Augusto: felicior Augusto. E si divulgò  la fama che nel Mausoleo comunemente noto col nome  di Austa sorgesse circondata dalle tombe un’abside,  e Ottaviano e i sacerdoti suoi vi celebrassero sacrifizi  solenni, fra sacchi di terra raccolti d’ogni parte del  mondo a perpetuo ricordo delle genti sottomesse all’Im-  pero. L’Austa divenne una fortezza inespugnabile, la  fortezza più contesa di Roma, e « fu strascinato allo  campo dell’Austa » il cadavere di Cola di Rienzo e là  fu bruciato «in un fuoco di cardi secchi », in quegli    ‘anni che Francesco Petrarca scopriva e vaticinava    nella grandezza di Roma imperiale l’ideale politico  italiano, distruggendo ogni antitesi tra il passato e  l’avvenire. E dopo che nel duecento il maestro Mar-  chionne di Arezzo ehbe costruita presso il Mercato di  Traiano l’alta Torre delle Milizie, allora nacque, più  suggestiva e più vera, anche l’altra leggenda: che    ‘sotto la torre fosse un palazzo incantato e Augusto    vi riposasse da secoli. E un giorno si desterebbe dal  sonno e tutto armato uscirebbe con milizie e legioni,  quando Roma fosse pronta a reggere e guidare per la  seconda volta le sorti del mondo. 

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