Wednesday, November 13, 2024

GRICE ITALO A/Z F FERRA

 

Grice e Ferrabino: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della terza Roma – la base mitologica del latino – scuola di Cuneo – filosofia cuneana – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cuneo). Filosofo cuneano. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Cuneo, Piemonte. Grice: “I like Ferrabino; if I were not into the unity of philosophy, I would say he is a philosophical historian – and a Roman historian, too! Strictly, a philosopher of Roman history, alla Gibbon!”  “Si compie il mio ottantesimo anno. Declinano le stelle della sera sulla diuturna milizia di storia e di magistero che fu la mia vocazione, non tradita ma superata. Misticamente m'accoglie la dimora del Verbo dove l'Io s'incontra col suo Dio nascosto.” Figlio di Angelica Toesca, donna sensibile e generosa e di Vincenzo Agostino, funzionario dello Stato, uomo dalla natura affettuosa e sobria e di idee agnostiche, che per questo motivo non volle far battezzare i figli. Compe il primo ciclo di studi dimostrandosi subito allievo modello e con rare doti di intelligenza. Prosegue gli studi classici a Cremona, e quando la famiglia dovette nuovamente trasferirsi in Alessandria, terminato il Liceo, si iscrive a Torino. Inizia a frequentare assiduamente l'ambiente universitario dedicandosi con il massimo impegno allo studio e dando lezioni private per non dover pesare troppo sulle finanze paterne. Il suo tutore è Graf. Verso il terzo anno iniziò a seguire con crescente interesse la filosofia antica frequentando le lezioni di SANCTIS (si veda), sotto il quale si laurea con “Kalypso”. Insegna a a Torino, Palermo, Napoli, e Padova. È rettore dell'ateneo fino al anno in cui ottenne la cattedra di filosofia romana presso a Roma. Morta la moglie, F. conclude il suo periodo di avvicinamento alla religione cattolica facendosi battezzare. Sposa Paola Zancan, proveniente da agiata e cattolica famiglia, con la quale si stabil a Roma. Inizia in quel periodo a frequentare "La Cittadella d’Assisi" diventando grande amico di ROSSI (si veda), fondatore di “Pro Civitate Christiana” e “La Rocca”. Ad Assisi, F. prende l'abitudine di trascorrere con la moglie e le nipoti lunghi periodi durante le vacanze estive alternate a quelle trascorse a Fregene. Venne eletto senatore per la democrazia cristiana e rimane al Senato. Divenne presidente dell’ENCICLOPEDIA ITALIANA, incarico che detenne, insieme a quello di direttore scientifico. Èstato intanto incaricato di presiedere al Consiglio Superiore dell’Accademie e promosse il Centro nazionale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche diventandone il presidente. Divenne corrispondente dell'Accademia del LINCEI e corrispondente nazionale della stessa e presidente dell'Istituto italiano per la storia antica.  Presidente della Società Nazionale "Dante Alighieri" e insieme a Cappelletti (si veda), fonda "Il Veltro".  Pubblica sull'Italia romana, l'età dei Cesari, la filosofia fatalistica della storia. Alter opere: “Calisso: la storia di un mito” (Bocca, Torino) – with a  section on the myth among the Latins, and a later section on the treatment by Roman authors, “Arato di Sicione e l'idea federale” (Monnier, Firenze); “L'impero ateniese” – note that it’s Roman empire and impero ateniense, but BRITISH empire not London empire, and American empire, rather than Washington empire – “La dissoluzione della libertà nella Grecia antica” (Milani, Padova); “L'Italia romana” (Mondadori, Milano); “GIULIO (si veda) Cesare” (Unione Tipografica, Torinese); “La vocazione umana”  (Edizione Ivrea, Ivrea); “L'esperienza Cristiana” (Libreria Draghi, Padova); “Le speranze immortali” (Società per Azioni, Padova); “Trilogia del Cristo” (Le tre venezie); “Adamo” (Morcelliana, Brescia); “Le vie della storia romana” (Sansoni, Firenze, “Rivelazione e cultura” (La Scuola, Brescia); “Storia dell'uomo avanti e dopo Cristo” (Pro Civitate Christiana, Assisi); “L'essenza del Romanesimo” (Tumminelli, Roma); “L'inno del Simposio di S. Metodio Martire” (Giappichelli, Torino); “Storia di Roma” (Tumminelli, Roma); “La filosofia della storia” (Sansoni); “Trasfigurazioni” (Martello, Milano); “Pagine italiane,  Il Veltro, Roma); “Misticamente” (Stamperia Valdonega, Verona); “La bonifica benedettina” (Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia dell'Arte Antica: Classica e Orientale, (presidente), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, Dizionario Enciclopedico Illustrato,  Jannaccone, Sturzo, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Treccani, Roma, Nel Centenario Della Battaglia Del Volturno, Ente Autonomo Volturno, Napoli. Prefazione in  Misticamente, Verona, L'Erma di Bretschneider, Il figlio dell'uomo (nella testimonianza di Matteo) II: Il figlio di Dio (nella testimonianza di  Giovanni) III: Il risorto (nella testimonianza di Paolo), Lincei, Roma. Treccani, Dizionario biografico degli italiani.  Roma è il sogno de' miei giovani anni, l'idea-madre nel concetto della mente, la religione dell'anima; Cv'entrai, la sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e quasi adorando. Per me, Roma è - ed è tuttavia malgrado le vergogne dell'oggi - il Tempio dell'umanità; da Roma escirà quando che sia la trasformazione religiosa che darà, per la terza volta, uni- tà morale all'Europa!. Così, MAZZINI (si veda) ricorda il proprio ingresso nella città poco dopo che vi era stata proclamata la repubblica; e, insieme a ciò, ribadiva l'importanza che Roma aveva nella sua visione politica, secondo la quale l'unità e l'indipendenza d'Italia si collegavano a una missione universale di liberazione dei popoli e a una vera e pro- pria riforma religiosa. Dopo la Roma dei Cesari – GIULIO (si veda) Cesare -- e la Roma dei Papi, affermava in tono profetico Mazzini, sarebbe nata la Roma del Popolo, centro della nuova religione dell'umanità. Si trattava di una. concezione peculiare, in cui confluivano tuttavia vari elementi .dell!! cultura dell'epoca: dall'enfasi con cui il romanticismo aveva predi- cato l'idea della particolare missione di ciascun popolo, al posto che l'istruzione scolastica riservavaalla storia greco-romana, alimentan- do indirettamente la passione per le idee di libertà e di repubblica. È indicativo che anche in un uomo dalla cultura piuttosto approssi- mativa come Garibaldi avesserolargo spazio concetti fon- dati su reminiscenze classiche, in primo luogo romane, da cui deri- torità moderatrice del pontefice; inoltre il «primato» italiano veni- va fatto dipendere proprio dalla presenza di quella Roma «cattolica e poqtificale» che Mazzini voleva invece distruggere. Tuttavia era anch'esso un modo di'legare inscindibilmente Roma all'Italia. Non era sempre stato così. Nei primi decenni del secolo - ha scritto Chabod. Roma era stata relegata sullo sfondo e, in sua vece, entusiasmi e affetti s'eran riversati verso l'Italia medievale, l'Italia dei Comuni, di Pontida, della' Lega Lombarda e di Legnano, l'Italia di Gregorio VII e di Alessandro II!, o, ancor più su, l'Italia di Arduino, nella quale s'eran visti gli albori della nazione italiana»2.Dopo la Repubblica romana del 1849,invece, il richiamo a Roma divenne centrale nel processo di indipendenza nazionale, per l'aura di gloria che aveva accompagnato la sconfitta e anche per il particolare ruolo di traino che su questo argomento svolsero Mazzini e i democratici. Ma l'importanza di quel richiamo dipende, in fondo, dalle peculiarità stesse dell'idea nazionale italiana, che s'era fondata e costruita su richiami al passato e alla tradizione culturale che ben difficilmente avrebbero potuto prescindere da Roma. L <<Rompaer me è l'Italia», scrive Garibaldi nelle sue memorie3. E non diversamente pensava un democratico pur così lontano dal profetismo mazziniano come Cattaneo. Anche Cavour ebbe a riconoscere quel nesso strettissimo, affermando nel famoso discor-. ì'- sodel25marzo1861che<< Roma sola deveessere la capitale d'ItaLlia. .Dopo la spedizione tentata da Garibaldi, Romao o morte divenne la parola d'ordine de~~e~~~~ E~.!:!c~i), I~trog~) Verni che parevano loro dimentichi àel comploo-supremodi riCongIunge- re la città all'Italia. Gli uomini della Destra, in realtà, eranoimpe- gnati ad affrontare le grandi e gravi questioni legate alla costruzione del nuovo Stato e, per la soluzione del problema di Roma, confida- vano soprattutto nel formarsi di condizioni internazionali favorevo- li (ciò che avvenne appunto nel 1870). Anche i moderati tuttavia, benché estranei alla concezione eroicizzante della politica comune a tanta parte della Sinistra, erano partecipi a modo loro del mito di Roma. La presenza nell'Urbe, in quanto centro della cattolicità, di un'idea universale induceva infatti, nei democratici come nei mode- rati, la convinzione che da Roma italiana avrebbe dovuto irradiarsi ~- 2F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari, Laterza, Treves, Videa di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano- Napoli, Ricciardi, Cavour, Discorsi parlamentari, a cura di D. Cantimori, Torino, Einaudi, TIfascino dell'idea di Roma andava ben oltre l'area di influenza del mazzinianesimo. Si irradiava infatti anche negli ambienti neoguelfi, sullascia del giobertiano Primatomoralee civile degliItaliani. Certo, quest'opera si collocavaper molti aspetti agli antipodi del disegno mazziniano: contro l'idea di ridurre l'Italif-lad un unico Stato Gioberti proponeva una confederazione «sotloTiìu- 'Mazzini, Note autobiografiche, Milano, Rizzoli,  messa~&!o anch'esso universale: la nuova religione dell'umanità f p r MazzInl, la libertà religiosa (cioè la separazione tra Stato e Chie- sa) per molti esponenti della Destra, oppure il trionfo dd libero pensiero e della scienza sulle rovine dell'«oscurantismo clericale», secondo quanto auspicavano soprattutto gli esponenti della Sinistra5. I sogni d'una missione che la nuova Roma ayrebb~ ~ovuto an- vunciare àl-morido-stndèvano' piùes' eÌnéntecon1a reaIiJiai uno"Sfa- to'debole e arretrato, e di modesta caratura internazionale. Così il mito mazziniano della terza Roma si dissolse presto, e analoga sorte toccò alle speranze di un rinnovamento religioso che si irradiasse dalla nuova capitale o alla visione di una missione di Roma quale centro universale di scienza.Tuttavia, Roma avevarappresentato un «mito animatore» dd Ri~rgimento (secondo una definizitJhe di Volpe) 6,era ormai troppo connessa con l'idea italiana, perché i fantasmi romani, tanto lungamente evocati, potessero dav- vero dileguarsi. L'invito, che pure qualcuno formulò, a «dimentica- re il passato» dovevadunque rimanere disatteso, e il richiamo a Roma avrebbe influenzato a lungo il modo in cui gli italiani consideravano se stessi e il proprio paese. i I Ii I I ~ j guerriera e con,qui~tatrice,cara soprattutto ai nazionalisti, sensibili .per parte loro anChe al fascino che emanava dalla Roma cristiana, alla.Roma laica e anticlericale cdebrata da democratici e massoni nei' cotilizi dd 20 settembre. Ma proprio questo è una conferma della pervasività dd tema, dellasuaineliminabilitàdaldiscorsopub- blico dell'epoca. Ciò non toglie che nelle evocazionidd mito di Roma (e di molteplici e diversi miti, anzi) ci fosse molto artificio e un sen- tore, spesso, di imparaticcio ginnasiale;questo non dipendeva però - come a molti è sembrato - da una co!maturata propensione degli italiani agli eroismi verbali e alla retorica magniloquente, ben- sì dall~particolare storia dd nostro paese rlSenzagli ideali «romanh> non V]sarebbero state molte delle tragedie che hanno segnato la storia dell'Italia unita; <<ma, probabilmente - osservava Rosario Romeo-, non ci sarebbe stata neppure l'Italia»8. La permanenza e diffusione dei miti romani dipese anche dal- l'insegnamento di una scuola che fu in larga misura di impronta carducciana. Carducci, infatti, ebbe un ruolo essenziale nd diffon- dere gli ideali risorgimentali tra le nuove generazioni, ma anche, per ciò stesso, nd tener deste aspirazioni e mitologie romane che a que- gli ideali erano inscindibilmente connesse. Cdebrò la <,deaRoma» in tanti versi famosi, mandati a memoria da generazioni di italiani; !masoprattutto alimentòilriferimentQa Roma come base di un confronto tra la viltà dd presente, da un lato, e, dall' altro, l'antica gran- , dezza e l'eroismo romano degli uomini dd Risorgimento. In sostanza, Carducci tradusse e diffuse in poesia un giudizio formulato da Mazzini. Questi aveva stigmatizzato che l'Italia fosse andata in Roma «codardamente»; e il poeta, da parte sua, cantò l'epopea risibile dell'Italia che sale in Campidoglio tra lo starnazzare delle oche. Mazzini riservò parole di fuoco a un'Italia unita «corrotta in sul nascere e diseredata d'ogni missione», a uno Stato cui mancava «l'ali- to fecondatore di Dio, l'anima della Nazione»9.E Carducci fissò in versi assai noti 1'opposizione tra 1'aspirazioneitaliana a rinnovare la gloriadi Roma e la realtà meschirtadiunan UOVB!lisanzio. Così,nd MITO DI ROMA rivisitato da Carducci, si materializzavaun demento di fondo della cultura politica dell'Italia unita, una specie - potremmo dire - di bovarismo nazionale, c.onsistente nella difficoltà acommisurareimezziaifini,nd rimproverocostantedd sognoalla realtà, nella oscillazione perenne tra sentimenti di superiorità e un senso amaro di inadeguatezza. 8R Romeo, Vitadi Cavour, Bari, Laterza.Note autobiografiche, (da una lettera). Nell'ultimo tratto dell'Ottocento, cioè nell'epoca dell'imperialismo e deIcolonialismo, ~Q~~ venne invocata a giustificazione ! di un particolare diritto italiano all'espansione e della necessità che il..n.1JQv~'. Regengouagliassela grandezza dei suoi progenitori roma- ni. Questo, ad esempio, proclamò Crispi, che in gioventù era stato mazziniano. E in effetti di questo spostamento dd mito della terza Roma dalla emancipazione dei popoli alla espansione della propria nazione si trova qualche traccia già nell'ultimo Mazzini, che rilevava nd 1871 come, nd <<motoinevitabilechechiama l'Europa aincivili- re le regioni Mricane», Tunisi dovesse spettare per contiguità geo- graficaall'Italia. Esullecimedell'Adante- proseguiva- svento- lò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterra- neo si chiamò Mare nostro. Fummo padroni, fino al V secolo, di tutta quella regione. Oggi i Francesi l'adocchiano e l'avranno tra non molto se noi non l'abbiamo»7. Certamente, nell'Italia liberale i riferimenti a Roma ebbero vari, e spesso opposti significati:si andava dalla cdebrazione dell'Urbe .( I , Su tutto ciò resta fondamentale Chabod, Stona della poli#ca estera italiana, Mazzini, Politica internazionale, in Scritti editi ed inea#hImollt, Volpe,Italiamoderna F,irenze, Sansoni, Galeati.  Ricerca Terza Roma concetto storico Lingua Segui Modifica Terza Roma o Nuova Roma è un'espressione che ha due accezioni. Aquila bicipite, stemma imperiale dell'Impero Romano d'Oriente. Si può riferire alla città russa di Mosca, intendendo in questo caso per «prima Roma» l'antica capitaledell'Impero Romano e per «seconda Roma» la città di Costantinopoli, oggi Istanbul, ex-capitale dell'Impero Bizantino o Impero Romano d'Oriente.  Per «Terza Roma» ci si può riferire anche alla terza epoca della città di Roma: quella in cui assolve il ruolo di capitale d'Italia, seguita alle prime due epoche, quella della Roma dei Cesari e quella della Roma dei papi.  Uso del termine per Mosca. Uso del termine in Italia. L'espressione «Terza Roma» venne usata anche da Giuseppe Mazzini durante il Risorgimento italianoriferendosi al superamento sia della Roma antica sia della «Roma dei papi»: la terza epoca della storia di Roma avrebbe dovuto essere contraddistinta dai nuovi ideali patriottici di libertà e uguaglianza con cui fare da modello all'Italia e all'Europa intera. L'ideale mazziniano sarà ripreso in epoca fascista e riadattato da diversi esponenti del regime come Enrico Corradini, che interpretarono la Terza Roma come l'avvento di una nuova civiltà. Lo stesso Mussolini, in un discorso pronunciato in Campidoglio, profetizzava una nuova era per Roma che avrebbe visto il territorio dell'Urbe espandersi fino ad approdare a uno sbocco sul mare.[3]  Una lunga citazione del suo discorso venne scolpita su una facciata del Palazzo degli Uffici all'Eur realizzato su progetto dell'architetto Gaetano Minucci:   «La Terza Roma si dilaterà sopra altri colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno»  La costruzione del quartiere dell'Eur nel 1942 avrebbe appunto rappresentato il primo passo in questa direzione. Iscrizione sul Palazzo alle Fontane nel quartiere EUR di Roma Fusatoshi Fujisawa, La terza Roma. Dal Risorgimento al Fascismo, Tokyo. Parallelamente in Germania si stava affermando il cosiddetto Terzo Reich. ^ Discorso pronunciato in Campidoglio per l'insediamento del primo Governatore di Roma. Utopia e scenario del regime, Venezia, Cataloghi Marsilio, Antica Roma Costantinopoli Mosca (Russia) Storia di Roma Terza Roma, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Portale Italia   Portale Russia   Portale Storia PAGINE CORRELATE Costantinopoli capitale dell'Impero romano d'Oriente Milion Successione dell'Impero romano. Pl€°Ifl  ffRMBIKOjI.  % H. ^>M- Z%!^-'^^J1'V, j^i;»-' AL bO FLRRABI MO Kf\\ypso PIC BIBLIOTtCB S?254 bi SCIENZE nODLRME r"i'BOCCB EDIT. KALYPSO  F.  KALYPSO Saggio d'una Storia del Mito TORINO  BOCCA. KALYPSO. STORIA. La storia del mito . È necessaria e legittima Il suo triplice valore. Caratteri. Il genio mitopeico. Kalypso. Andromeda. Prima di Euripide, Euripide, Dopo Euripide, La Demetra d'Enna Il mito siculo, Il mito greco. Il mito  siracusano. Il mito contaminato. L'abigeato di Caco. Presso gli Indiani e i Greci. Presso i Latini. I poeti. Gli storici. I razionalisti. Cirene mitica    11 sostrato storico. L' " Eea , di Cirene e d'Aristeo. Cirene in Tessaglia. Cirene in  Libia. Euripilo ed Eufemo. Gl’Eufemidi e Batto. Kalypso. L'intuizione mitica. Le manifestazioni mitiche,. L'evoluzione della mitopeja letteraria, Il flusso e riflusso delle saghe, La fine,  - INDAGINE. Andromeda „ Il racconto di Ferecide Perseo. Acrisie,  Preto, Polidette, Ditti. Atena e la Gorgone  Medusa. Cefeo, Fineo e Cassiopea, 341 — I  miti etimologici presso Erodoto (VII 61) ed EU ani co  (frr. 159. 160), I frammenti dell'* Andromeda „  di Euripide, Euripide nel 412 Il culto di Demetra inEnnajart. La questione. I caratteri del culto ennense   nell'età storica. Il primitivo probabile nucleo   siculo, Le versioni greche del nitto di Kora,L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420  11 problema, Il valore del mito indiano. Vergilio e Ovidio ; Properzio. Livio e Dionisio. I particolari etiologici del culto.  Gli eruditi, Cirene mitica Bibliografia e metodo, La ninfa Cirene, Apollo Carneo. Aristeo, La ricostruzione dell'Eea di Cirene. Euripilo ed Eu-  femo, Gli Argonauti in Libia. Callimaco e il mito di Cirene. Esegesi novissima STORIA La Storia del Mito.     I, — nitto di Kora. L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420  Il problema. Il valore del mito indiano. Vergilio e Ovidio. Properzio. Livio e Dionisio. I particolari etiologici del culto. Gli eruditi. Cirene mitica. Bibliografia e metodo. La ninfa Cirene. Apollo Carneo. Aristeo. La ricostruzione dell'Eea di Cirene. Euripilo ed Eufemo. Gli Argonauti in Libia. Callimaco e il mito di Cirene. Esegesi novissima,  STORIA. F. Kalypso.  La Storia del Mito. È necessaria e legittima. Non esatta, anzi può dirsi fallace la nozione del mito che è più diffusa. Andromeda, esposta  sullo scoglio al mostro marino; la ninfa Cirene,  domatrice di leoni ; Cora di Demetra, rapita da  Aidoneo; Caco che, ladro di bovi, la forza d’Ercole piegò annientandolo. Tali persone e  vicende, come l'altre il cui insieme assunse presso noi nome di MITOLOGIA greca e LATINA, inducono,  ciascuna, al pensiero un racconto, non pur definito ne’termini e preciso ne’particolari, ma costante nel contenuto, si da valere (usando  espressioni proprie a fenomeni differenti) per E cosi rispettivamente ogni volta chC; Nel saggio si allude a uno  fra questi quattro miti. classico o canonico, da apparire quel mito. Né il  prevalente costume, a pari di molti, è senza  motivi: già che si ricollega per un lato ai modi  che, nel concepire ed esporre miti, tennero i  compilatori alessandrini, quando miti non più s’inventavano, ma si raccoglievano in contesti dotti, e a scopo di conservazione erudita ciascuno si ordina secondo uno schema principale, ne’margini sol tanto apposte discrepanze minori e facili a obliterarsi. Si ricollega esso  costume per altro lato al vezzo, malo quanto  diffuso, suffragato dall'ignoranza, pel quale la saga chiude in sé una sostanza di verità, in  ispecie storica; si che, la verità non potendo  esser che singola, unico similmente sarebbe l’'intreccio della FIABA onde è compresa. Ora, poiché i criterii de’gramatici in nessun modo possono essere più i nostri; e né meno è più nostra, per ciò che non sodisfa la riflessione né il senso storico, una tanto facile fede nella veridicità del RACCONTO MITOLOGICO. Bisogna risolutamente farsi a considerare qual via puo divenire la buona non che la nuova. Sùbito sgombra la mente di assai equivoci e  di troppe astrazioni il porre, con precisione storica, i materiali grezzi della mitologia. Ilmito  di Cirene, dimostrano questi, non esiste. Meglio, esiste bensì, ma soltanto dopo le odi  pitioniche di Pindaro, i capitoli erodotei, l'inno  di Callimaco, questa o quell'altra anfora, un'iscrizione di Rodi. Dopo ciò, e dopo tutto che è andato perduto nell'esserci trasmesso dai secoli e  che di conseguenza ignoriamo. In altre parole, l'indagine concreta non conosce se non un complesso di componimenti letterarii, manufatti artistici, riti cultuali; e sente entro ciascun componimento, ciascun manufatto, ciascun culto, in sé  e per sé, IL MITO. All'infuori, questo può tuttavia  sussistere. E per vero in due modi risulta da  quelli, sia per ordinata compilazione, sia per alterazion fantastica. Ma è allora diverso e  nuovo, UN ALTRO MITO [cf. Grice on ‘myth’ – “Meaning Revisited”] a pena affine a qualunque  l'uno di quelli. pm-e rende conto dei varii  componimenti manufatti culti e spiega i singoli  stadii e i singoli trapassi. Ma in tal caso è divenuto, non la forma canonica o classica, bensì  LA STORIA DEL MITO. L’artista clie ci ripete una fra le molteplici fiabe pagane, prosegue, e non termina, una serie di vicende, cui sottostò quella FIABA già nel passato. Egli, insomma, elabora UNA FIABA NUOVA, la quale può essere per certe analogie di casi e  identità di nomi avvicinata a talune antiche  meglio che ad altre, ma non diviene per questo  la fiaba di  quei nomi e di quei casi. Questa in  qualclie modo ci dà, solo, lo storico, comprendendo nel suo dire tutte le trascorse apparenze  della FAVOLA e organandole geneticamente ed  evolutivamente. Chi vuole IL MITO di Andromeda, ne legga LA STORIA. Se non che, ond'è nato il concetto di racconti principi nella mitologia pagana? Da due radici: UN FATTO, e una tendenza. Riandando storie di  miti accade di avvertire, chi anche sia grossolano osservatore, quale e quanta rete d’interessi  politici, di orgogli civici, di odii regionali, di vanti principeschi, di rivalità religiose, ricopra,  musco boschivo, il crescente tronco della LEGGENDA. Indi, la preferenza decisa vien concessa,  in certo luogo e in certo momento, a quella tra le  forme esprimenti LA SAGA, la qual contenga il  particolare simpatico, L’ANEDDOTOfavorevole, o  (che basta) si atteggi nella luce che più appaga. Un fine pratico, per conseguenza, può CANONIZZARE i miti altre volte, l’ala d' un poeta, la  vigoria d'uno storico. O, infine, il più fortuito  caso. Sempre, tuttavia, a canto di questa preminenza d'una fra le forme mitiche, valse a  traviare il pensiero, l'abito, ch'è talora il vezzo, dell'astrazione, sovente inopportuna. E perché, comparati tra loro DIVERSI RACCONTI D’UNA SAGA,  parte coincideno, e pareva il più, parte differano, e sembra il meno. Si ritenne lecito  prescinder dalle differenze per insistere su le  coincidenze, e di queste costituire la saga, e  quelle giustaporre in guisa di varianti secondarie. Cosi le simiglianze riscontrate in cinque  testi di cinque autori intorno alle vicende, poniamo, di Cora, legittimavano la creazione arbitraria d'un FITTIZIO MITO di Cora. Grossolano  errore contrassegnato di superficialità. Difatti,  oltre le minori discrepanze notate, pure sotto l’uguali apparenze slontanava l'un l'altro i varii  testi alcunché, men ponderabile forse, ma altrettanto reale: LA COMPLESSIVA INTONAZIONE DEL RACCONTO. Il paesaggio medesimo, certo; ma incombente la luce di tramutati soli. L'artificio è cosi palese che stupisce potesse ingannare e  diffondersi. E pure condusse più oltre: a fìngere, dopo IL MITO di ciascun personaggio – e. g. GANIMEDE, ENEA, EURIALO, NISO, ROMOLO, REMO, CORIOLANO -- , IL MITO IN SÉ, quasi ENTE SEPARATO, capace di influssi attivi e passivi; senza che diviene tosto palese, come cotesto ente non sussiste se non col suo predecessore logico; come quest'ultimo sorga d’una contaminazione di varie forme letterarie artistiche cultuali; come quindi uniche esse forme  costituiscano la realtà da pensarsi e studiarsi. Alle quali noi ritorniamo con franchezza; per  asserire, e lo asserimmo dianzi, che conoscerle  significa giustificarne le vicende. Ossia: per affermare che SOLO STORICAMENTE SI PUÒ CONOSCERE IL MITO. Ma dopo tale asserto, e  dopo scoperti i motivi reconditi dell’equivoco consueto, rimane ancor dubbio, se o no è legittima LA STORIA DEL MITO. Difatti chi sa d’aver  innanzi espressioni multiformi, cui sono mezzo le più disparate materie, DALLA PAROLA AL COLORE, DAL BRONZO AL GESTO SACERDOTALE, può sospettare a ragione che trasceglier quelle espressioni, connetterle in serie, narrarle in istoria dove accadere per nessi, non intimi, ma estrinseci: per  identità di nomi di figure d’imprese; mentre  tempi lontani, fibre tanto varie d'uomini, caratteri cosi mutati d’ambiente, sembrerebbero permettere, o comandare, la distinzion più recisa.  Sospetto lecito, questo -- ma specioso. Non importa che certa temperie (dico, ad esempio, l'epoca d’OTTAVIANO, o il magistero di OVIDIO) accosti molto fra loro due saghe di soggetto diverso;  là dove lontananza d'anni e di spazii separan  spesso saghe dell'identico soggetto. Ciò vale, o ci  ajuta, a informarci dell'epoca augustea o di  Ovidio, e del posto che LA MITOLOGIA prende in  quella o presso questo. Ma è d'altra parte irrecusabile che ciascuna espressione di un mito, in qualsivoglia materia avvenga, è stretta alle  precedenti da un vincolo più profondo e più intimo che l’argomento: le conosce, ciò è, e le  ri-elabora. Disposte quindi in serie cronologica  coteste espressioni, ciascuna è materia greggia  rispetto alle successive, ed è sintesi originale  (anche negativamente originale, si capisce) a  confronto con le anteriori. Ne segue che la storia  ha buon diritto di farle scaturire l'una dall'altra:  essa, co’suoi criterii di tempi e di luoghi, con  tutti i sussidii di cui può valersi, riesce a costruirne quasi una genealogia; della quale i rami  e i gradi son segnati da reciproci influssi più o  meno profondi, da modelli più o meno diversi,  sempre da caratteri intrinseci ed essenziali. Del  resto, il resultato medesimo o, se piace di più,  il medesimo soggetto di questa, che diciamo, STORIA DEL MITO ne legittima, dopo gl’argomenti  or ora esposti, la esistenza. Giunge essa a costruire sopra VARIANTI FORME FAVOLOSE un individuo organico e definito: individuo ch'è, come  mostrammo, LA LEGGENDA. Ma quali sono per essere i modi di tale istoria?  Il suo procedimento è chiaro. Raccolte, supponiamo, le espressioni del racconto su Cirene  o su Cora, sia per notizie tramandate sia per  industria di congetture ne è, quasi sempre, presto determinato l’ordine cronologico, se non nelle sue minuzie, almeno in linee sufficienti. Solo di poi s'inizia un più arduo lavoro. Il pensiero, insomma, prende a conoscere quelle espressioni. Di ciascuna distingue prima gli elementi costitutivi. Ciò sono I PARTICOLARI DELLA SAGA, e  quanti ne sieno espressi, e quali, che scene e che  episodi!: in sèguito, ne ravvisa la tempera, il  punto di veduta onde i particolari le scene gli  episodii furon guardati: per ultimo, discerne ove  consiste o se esista la forza sintetica che i par-  ticolari le scene gli episodii trascelse, aggruppò,  fuse. Triplice processo: valevole come per un  carme, cosi per una pittura e, checché sembri,  per un culto. Giusta poi le risultanze di questa  nostra fatica, le diverse espressioni mitiche in-  torno a Cirene o a Cora, si raccolgono, quasi  per sé, secondo nessi ed influssi, sino a costruire  lo schema delle lor geniture. Allora lo scopo è  conseguito e l'indagine ha fine; mentre un'altra  specie di conoscenza si avvia: non più dubitosa,  qual si conviene alla ricerca, e faticosa di controversie; ma conscia e sicura. Quel che rimane  incerto è delimitato; quel che può essere certo,  è posseduto; si che le lacune e il ricolmo si distinguono nette. Altrui giudizii su la materia  son superati con l'approvarli o respingerli o modificarli. E insomma stabilito l'ordine; pel quale  lo schema ch'era conquista ultima dell'indagine,  diviene poi quasi base; e sovr' esso si erige, pei  suoi muri maestri nei suoi archi di commessione  co' suoi travi intelajati, 1’edificio definitivo. Il  mito ha la propria storia.   Il mito è, da questo momento, vera ricchezza  nello spirito nostro. Si obietta che è acquisto  mal certo, però che sieno per pensarsi o seriversi ancora, nell'avvenire come nel passato, di  quella stessa leggenda storie molto o poco di-  verse con asserzioni contradittorie alle prece-  denti e con intelletto nuovo. Il clie ridonda in  parte al difetto delle nostre fonti, mal perve-  nuteci frammentarie o lacunose, e in parte alla  discordia dei pensieri individuali. Ma né l'una  né l'altra verità scema l'importanza dell'acquisto.  E in primo luogo : l'insufficienza delle fonti tra-  mandate o è cosi fatta che impedisca la storia  o pure solo qua e colà la fiacca. Se l'impedisce  (e son taluni casi), il danno è davvero grave.  Ma, ove solo la fiacchi (e sonvi gradazioni mol-  teplici che non perseguiamo qui), la jattura può  variare di entità ma si riduce tutta, in ultimo,  al fenomeno comune della individuale memoria  e, traverso questa, della memoria collettiva; si  riduce, quindi, alla condizione imprescindibile  della nostra conoscenza intorno al passato. In se-  condo luogo, il differire degli storici intorno a una  saga, se dimostra che nessuna storia deve a nes-  suno parere domma, prova insieme che ciascuna  è acquisizione viva a cui lo spirito muove libero  per indursi ad accettarla, e poi difenderla, con  agile freschezza e cura non intermessa ; attesta  quindi di ciascuna l'importanza, assidua perchè  dinamica. Nell'uno e nell'altro luogo, poi:  quello spirito che ha conosciuto la storia d'una  leggenda, o di per se o con assimilare 1' opera  altrui, ferma con ciò duplice possesso; sia tra-  mutando in organismo il tutto insieme inorga-  nico delle fonti; sia impregnando della propria  essenza quell'organismo. Ha, in somma, composto  armonia del discorde, e reso personale l'alieno. Quindi, l'acquisto, come non dubbio, cosi è anche  materiato della più alta virtù di pensiero. Dura  come una fatica ; splende come una vittoria. Che  se di poi mutazioni intervengano e pentimenti,  non se ne scema, ma più tosto se ne innalza,  superando, il pregio insigne. H quale consiste, fi-  nalmente, nell'aver provocato la sintesi, se non  immutabile, certo personale, in tutta la serie co-  nosciuta di determinate espressioni mitiche, lon-  tane e disperse.   Il mito è, dunque, da quel punto viva ric-  chezza nello spirito nostro. Se facile mostrare  tal verità, sottile è però discernere i valori di-  versi della conoscenza in quella guisa procurata.  Ma è necessario, per farla più conscia.   Lo storico si è, durante i successivi momenti  della saga, uguagliato a' successivi artefici di essa.  Un ignoto cantor popolare vi trasfuse il suo sogno?  Io, per comprenderlo, debbo mirare con gli occhi  di lui ; e dinanzi a me la visione ha da concre-  tarsi in quelle fogge che f m-on di lui. Erodoto ?  Pindaro? Claudio Claudiano? Uno appresso al-  l'altro, s'immedesimano per l'istante con lo sto-  rico e questi con loro, fin quando similmente a  ciascuno la materia si sublimi in arte. Tuttavia,  in si fatte individuazioni, o mischianze con gl'in-  dividui creatori, la Storia avverte tosto il suo  vantaggio. Nell'atto d'intuire la saga il poeta o  il pittore muovono dalle sue forme anteriori, che  conoscono, verso la nuova espressione, che igno-  rano e producono; a quell'atto rifacendosi l'in-  telligenza dello storico, deve muovere tanto dalla  loro espressione quanto dall'altre precedenti, e  quella conosce, e queste conosce del pari. Si che là dove l'artista si trova di fronte a un che di  imprevisto, in cui l' impreveggibile è determi-  nato dalla potenza della sua energia creativa ;  per contro lo storico si trova sùbito a conoscere,  traverso l'opera compiuta, appunto quella po-  tenza dell'artista e può ponderarla e giudicarla.  L'effetto è che non solo egli si è identificato  con una delle espressioni nelle quali la saga  visse, ma anche l'ha valutata. L'attimo di pos-  sesso si conclude in giudizio. — Di più lo storico  non si considera pago né pur di questo giudizio  che già di per sé lo eleva sopra l'artista in-  tuente : vi avverte un valor m omentaneo e, te-  nendo l'occhio a ben più alto segno, vuole e può  assurgere a quell'intuizione sintetica della saga,  da cui appajono giustificate le intuizioni singole  degli stadii e delle forme come dallo scopo il  mezzo. Tale pregio, che è della storia del mito,  può quindi esser detto pregio intuitivo.   Ce n'è un secondo: scientifico. Non poche di-  scipline difatti van di continuo preparando al  pensiero cognizioni che gli giovino nell' opera  sua: attinenti ai linguaggi dell' antichità, agli  scrittori co' lor caratteri e con la misura in cui  sono attendibili, ai culti con le fogge che di-  vennero consuetudinarie, ai popoli con le cre-  denze e i pregiudizii, con le superbie le ire e le  menzogne. Certo, non son leggi rigide e fisse,  quelle che cotesto discipline ci offrono, né tanto  meno impongono ceppi all'intelligenza. Sono,  più tosto, formule in cui l'esperienze vannosi  condensando; consigli, che risparmino fatica in-  dividuale o suppliscano a irrimediabili ignoranze.  Costituiscono il tesoro comune, cui possono tutti riferirsi, che è stolto trascurare, né si può senza  fallacia. Orbene ; anche le cognizioni cosi cumu-  late lungo gli anni da tanti sforzi concordi,  convergono nella storia della leggenda; e quanto  più numerose, meglio l'afforzano, rassodandole  l'ossatura, e permettendole o promettendole con-  senso più vasto e interesse più vario. — Fra tutte,  precipue quelle in cui s'è tradotta la coscienza  dell'antico e recente, vicino e lontano, favoleg-  giare : maraviglioso sempre, di rado inconsueto.  Cento numi agresti si rinvengono fra cento po-  poli, dagli Urali alle Ande, dall'Islanda all'E-  quatore. E i riti, le danze, i canti, i vestimenti,  le fiabe, si mischiano somigliandosi e differendo  insieme, vario concento sopra un ritmo unico:  che ogni gente reca il suo contributo. E cielo,  monti, acque silvestri marine lacustri, paschi  pingui di bovi opimi, biade che la golpe uccide,  biade che la zolla e il Sole indorano, notti il-  luni, meriggi piovosi, silenzii delle cime, fragori  delle spiagge e dei tuoni, fauci di caverne e fen-  diture del suolo : l'immenso respiro pànico, che  penetra pei sensi ed abbacina l'anime, ritoma  costante nelle voci e nei gesti di viventi in terre  lontane. E ritornando erudisce l'uomo dell'uomo.  Ond'è che son opere in cui questa varietà spe-  ciosa è ricercata con amore intento, disposta  con cura e scrupolo in chiaro ordine (1). Ivi     (1) Cito ad esempio W. Makshardt Mythologische For-  schungen (Strasburg); H. Usexer Sintfluthsagen (Bonn); J. G. Frazer The golden Bough ^ spec. parte V  Spirits ofthe corn and of the wild (London 1912); W. v. Bau-     molte leggende sono narrate, molte cerimonie  descritte, quelle che gli uomini dicono e com-  piono da quando sorge il lor Sole a quando tra-  monta, e quelle anche che la notte conosce. Ma  ivi nessuna leggenda vale per sé, nessun rito  pel suo modo; anzi, non a pena ripetuta l'una,  tracciato l'altro, si distrugge tosto l'individua-  zione, perché si vuole, badando al generale ed  al comune, conseguire identità spirituali contro  distanze di tempi di luoghi e differenze di forme.  Vi si fa propedeutica; non storia. — Cosi in altre  opere, le quali scaltriscono su gì' infingimenti  obliqui di interessate invenzioni che non è lieve  scoprire ; o vero su i traviamenti della intelli-  genza che tenta le cause del fenomeno ignoto,  ma s'abbaglia di fantasmi. Avvertono, queste,  come un nome frainteso generasse talvolta un  popolare etimo errato, e l'etimo la fiaba: come  Scaevola connesso con l'aggettivo che significa  " mancino „ determinò il racconto dell'intrepido  Muzio e della destra bruciata. Insegnano che  per dar ragione al nome di una città (Roma?)  s'inventò pari pari un eroe o un nume (Romolo?).  Spiegano che un culto greco fra culti romani  parve agli antichi giustificato col narrare qual-  mente al dio stesso fosse piaciuto recarsi da  l'Eliade nel Lazio. Procurano, infine, di segnare  in classi i fatti; e creano alle classi fin la de-  nominazione discorrendo di " miti etimologici „  per i primi casi ; di " miti etiologici „ per l'ul-     DissiN Adonis und Esmun (Leipzig); E. S. Haktland  The legend of Perseus (voli. 3, London 1894-6). timo (1). Tutti bisogna che lo storico sappia, per  sviscerare gli stadii della sua saga, senza equi-  voco grande né troppe dubbiezze. — Di tutti,  quindi, è conscia la storia di una leggenda. La  quale leggenda nel tempo stesso cbe ne riesce de-  finita, si da impedir confusioni con altre pur si-  miglianti, si allaccia poi tutta, o quasi tutta, con  le formule della propedeutica confermandole in  presso che ogni sua vicenda. Non che in tal  modo scemi la singolarità sua propria; e allora  perché farne storia? Né manco che non aggiunga  tal volta materia alla propedeutica medesima;  già che questa non è mai conchiusa, e di con-  tinuo si accresce, per l'appunto come la espe-  rienza dell'uomo in cui la contenemmo. Ma anzi  la storia di un mito ha questo pregio scientifico:  mentre è impregnata, come più latamente può,  del sapere collettivo intorno alla propria ma-  teria; mentre è dissimile da quel sapere, ed esiste  per la sua dissimiglianza ; è pronta a contri-  buirvi con tutta sé medesima, per quanto con-  tiene di insolito, e per quanto riafferma del con-  sueto.  Terzo pregio è un altro, fors' anche maggiore.  Cfr. G. De Sanctis Per la scienza dell'antichità (Torino), ove in polemica è chiarito assai  bene anche con esempii il contenuto di quelle due deno-  minazioni. — Chi poi voglia avere rapidamente un'idea  su la vastità e gl'indirizzi dell'indagine mitologica può  per gli anni 1898-1905 consultare la intelligente ras-  segna di 0. Gruppeìu " Jahresbericht tìber die Fortschritte  der klassischen Altertumswissenschaft „ Supplementband. Filosofico, si riferisce a un' alta visione del jiassato e del presente. La saga è dell' uomo, nasce  di lui, or come nebbia da piani pigri, or come  da lago ninfea. Le vicende della luce la iridano  durante un giorno, e le compongono varia bel-  lezza, fin che la tenebra giunga. Ma il motivo  delle trasfigurazioni luminose come del soprav-  venir tenebroso, è secreto dello spirito umano.  Secreto dell'uomo, che ha fermati i suoi saldi  piedi sul suolo tenace, e vede intorno a sé la  meraviglia del cielo nel sole nelle nubi negli  astri, purezze nivee e dentate di vette inviola-  bili, scompigli di chiome arboree nello squassar  dei vènti, rigidità delle rupi cui arcana opera  finge sembianze umane, mefiti di putizze dagli  acri fumi ; vede, e conosce, mentre un empito  indicibile gli urta su la fronte le tempie, illu-  dendolo centro a quel mondo ; o mentre una forza  ineffabile lo gitta prono nello stupore che pa-  venta ed adora. Secreto, in fine, dell'uomo che  con occhi incerti guata, fra il mento e i capelli,  la maschera fosca del suo rivale, ad apprenderlo  ed eluderlo ; e con occhi scaltri studia nel moto  i muscoli e gli artigli della belva silvana, per  farla sua preda o imitarne il destro miracolo ;  e poi, con occhi ebbri di sogno, nelle improv-  vise forme che la natura plasma tra cielo e terra,  nelle prepotenti energie che essa suscita ovunque,  ammira il volto del suo nimico o la violenza  della fiera. Appresso, su la prima trama esigua,  quasi ragna d' oro fra due rami d' un mirto, si  consuma la dolorosa fatica dei posteri ; che l'in-  venzione originaria non si perde, ma, serbata  tal volta in reliquarii preziosi, salva altre volte per caso, regge su le sue fila tenui il trascorrer  lento e difficile dei travagli clie martellano Fu-  manità nei secoli e le rodono il cuore invincibile.  Ogni fiaba s'impregna cosi di sapori dolci e agri,  forti ed amari : abbrividisce delle cose tremende,  s'esalta delle cose salienti, supplica, spera, esorta,  rampogna. Il suo intreccio si foggia su i meandri  dello spirito. E nello spirito la sua virtii cerca  le potenze dell' espressione ; stimola 1' energia  onde si crea il diafano contesto verbale o si  plasma nella dura materia il moto o si finge l'an-  sito nel colore; e con lei genera creature d'ale  e di fiamma, o per lei si corrompe in miserevoli  mostri e deformi. Far quindi la storia del mito  significa spremerne cotesto succo occulto, il quale  si mischia col nostro più profondo pensiero su  la vita e saggia le nostre idee sul bello sul  buono sul vero, su l'uomo e la forza della sua  visione, e la forza della sua espressione, e il suo  lungo cammino. — Idee che costituiscono d'altro  lato lo scheletro stesso della storia d' un mito.  Del quale il trapasso di forme può venir conce-  pito geneticamente, l'una determinando l'altra ;  o staticamente, i nessi essendo privi di forza  generatrice; o in rapporto all'evolversi comples-  sivo dello spirito ; o in altre maniere, di cui cia-  scuna dipende da una teoria filosofica. Persino  chi per orror metafisico mai abbia voluto im-  pacciarsi di problemi si fatti, porterà la sua av-  versione nella storia e ve ne lascerà i segni,  non giova dire di quale specie. Onde la cono-  scenza del mito di Caco o di Andromeda, pur  contenendosi nei termini di un limitatissimo fe-  nomeno, pur fermando nel pensiero una porzioncella minima del grande moto di cui tutto  il passato è pieno nella memoria degli anni,  tuttavia impegna con sé un'idea di quel moto  e del nostro pensiero: la stimola e la cimenta.  FILOSOFIA: senza cui, il breve mito sarebbe assai  poco ; con cui, diviene moltissimo.     in. — Caratteri.   Che se a quest'ultimo i3regio filosofico pen-  siamo ora aggiunti in perfetta fusione di Storia  gli altri due, intuitivo e scientifico, non appare  sùbito qual sia la lega comune onde tanto com-  patto è il resultato. Ma lega si rivela l'intel-  letto dello storico ; ove i concetti assimilati dalle  discipline propedeutiche, e le idee elaborate dal  pensiero meditante, s'illuminano di luce nuova  nella vita dellintuizione, quando vengono esposti  all'attrito della realtà testimoniata. — Di più  non può dirsi: che ha da restare intatto il mi-  stero creativo. Tuttavia, pur da questo si vede  come larghissima parte della intelligenza vada  a imprimere la storia d'una semplice saga; come  quindi questa storia sia, anzi tutto, soggettiva.  Né forse è detto ciò senza stupore di molti ;  perché prevale oggi il principio della oggetti-  vità storica, tanto che il riconoscimento del con-  trario nell'opera di chi che sia suona quasi a  rampogna. Si avvezzano cosi i lettori d'istorie a  cercarvi le parole della certezza assoluta, allet-  tandoli con un equivoco ch'è quasi una mistifi-  cazione. Si proclami dunque chiaro e alto. Nel racconto delle vicende storielle per cui un mito  si svolse sono le stimmate d'una personalità; né  solo, ma il valore di quel racconto è in queste  stimmate ; in quanto la personalità, non pure as-  somma, si anche fonde e ritempra, com'è neces-  sario, quelle cognizioni dottrinali, quella teoria  filosofica, quella geniale potenza intuitiva, che  si riconoscono indispensabili alla costruzione  d'una qual siasi storia; e in quanto, inoltre,  dalla misura di esse cognizioni teoria potenza  e del loro commettersi, dalla misura, in breve,  della personalità medesima, è segnato il pregio  del contesto narrativo.   Dal qual evidentissimo principio si definisce  anche l'atteggiamento di chi legge a fronte di  chi ha scritto. Non accettazione sùbita ; né re-  verenza ad autorità indiscussa : invece, ragione-  vole assenso, ora parziale ora totale, ora nei par-  ticolari ora nella sintesi. E sempre, al di là degli  uni e dell'altra, valutazione del pensiero che è  solo responsabile e che, scoprendosi con ardi-  tezza, accetta onestamente d'essere imputato.  Compito arduo, adunque, è il leggere non meno  che lo scrivere storie; si che può ben dirsi, che  quasi mai viene assolto integro. Ma, per lo più,  solo per il lato si adempie che costituisce l'in-  teresse onde mosse la lettura ; e da quel lato  soltanto sogliono originarsi le censure, le più  modeste e le più burbanzose. E a volta a volta la  storia della saga di Cirene deve soddisfare le  pretese del filosofo, la dottrina dello scienziato,  il gusto del contemplatore. Ora, affinché sia più  lieve a tutti costoro l'opera di critica rielabo-  ratrice, lo storico mostra sempre (fra noi, almeno; non costumava cosi Tucidide, né Ma-  chiavelli ; con pena della moderna indagine)  mostra, in una qualunque parte del suo lavoro,  i mezzi di cui si è valso e le vie che ha seguite;  onde ne è pronto il riscontro (1).   Per che si giunge a scoprire l'opposto aspetto  della soggettività fin qui rilevata. Quando l'ar-  tefice medesimo scinde, pei lettori critici, l'opera  propria ; allora, sopra le testimonianze e le for-  mule e i giudizii, ch'egli cita e discute, si fan  concrete ed esteriori le sue idee e intuizioni, si  cristallizzano in materia nuova su la materia  che vedemmo preesistere allo storico. Accade  perciò, da tal momento, che si possa misurare  quanto ciascuna individuazione sia piena di  realtà, cimentandola con tutti gli elementi, di-  venuti esteriori e concreti, di cui nella intimità  e fluidezza dello spirito creativo essa si era nu-  trita. Il critico, se è (fenomeno raro) compiuto,  vaglia, in qualità di scienziato di filosofo di  individuatore, tutti questi elementi, scissi prima,  organati poi; e valuta il pregio dei singoli e  della mischianza loro. Cosi, quel che fu già ema-  nazione viva d'una vivente persona; imponde-  rabile, quindi, oltre la sfera di essa persona; e  definito, per tanto, '' soggettivo „ : diventa pas-  sibile di metro, di scandaglio e di analisi; defi-  nito, per tanto, " oggettivo „.   Sempre, per opera dello storico la leggenda  assume la finitezza della persona e i caratteri  dell'organismo. Si scevera da l'altre: è quella.     (1) In questo volume ciò è fatto nel libro II: Indagine.    una. Le sue vicende hanno, inoltre, un principio  e un termine, per conseguenza un culmine ; v'è  quindi un nascimento e un corrompimento, fra  cui si tocca la maturità. La storia d'una saga  sarebbe dunque una ^ storia catastrofica ,, e sul  suo finire sonerebbe l'elegia, inetta a risuscitar  la creatura morta, ma pretensiosa di balsa-  marla? (1). Si risponde: è catastrofica; già che  si chiude col dissolversi di quel che al suo inizio  si compone : non è elegiaca ; però che, pur la-  mentando , se crede , la morte avvenuta, ne  indaga i motivi e prociu-a comprenderli col pen-  siero senza stingerli col sentimento. Ma en-  trambe queste risposte esigono d'esser più am-  piamente delucidate.   Qualche pagina innanzi fu provato (per quanto  io credo) che non solo è necessaria la storia  del mito per conoscer il mito, ma è in tutto  legittima, perché opera sopra un individuo pre-  ciso il quale ha una reale e non disconoscibile  esistenza. E. già sappiamo del pari che quell'in-  dividuo risulta da una serie di stadii, e ciascun  d'essi non può star solo, ma è in intima atti-  nenza coi precedenti e coi successivi. — Ora pos-  siamo specificare meglio : che ciascuno stadio  rappresenta una creazione spirituale. Sia di poco  o di molto momento, vi è immancabile l'attività     (1) Contro le storie catastrofiche ed elegiache si pro-  nuncia Benedetto Croce in Questioni storiografiche [" Atti  dell'Acc. Pontaniana]. Egli muove, s' intende, dalla sua identifica-  zione della storia con la filosofia. d'un artefice che ha segnato di sé medesimo,  con grande o con piccola impronta, la materia  leggendaria. Ognuno di questi artefici apporta  speciali energie e del mito sviluppa potenze che  o vi giacevano celate o n'erano state mal svolte.  Per conseguenza, astraendo si possono conside-  rare, in un qual siasi stadio leggendario, tre ele-  menti : la manifestazione, senza  cui non sa-  rebbe ; la sostanza del mito desunta dagli stadii  anteriori ; l'energia innovatrice dell'artefice. Di  qui, son possibili varie evenienze: o che a un  certo momento ogni manifestazione cessi, per  qual siasi motivo, sebbene ce ne fosse la potenza  ancora negli spiriti e nel mito; o che la mani-  festazione appaja inadeguata alle precedenti e  per ciò monca e non bastevole ; o che, in fine,  l'energie dell'artefice apportino alla sostanza  della saga violenze che la rinneghino. Nel primo  caso, la catastrofe è sùbita e tronca un rigoglio;  nel secondo è preceduta da uno scadimento, che  la prepara; nel terzo, da una corrosione, che la  vuole ; i quali due ultimi è evidente che debban  spesso coincidere. Ma la catastrofe, la morte, è  sempre. E la storia, in quanto storia, deve nar-  rarla, come narrò il nascimento ; ed essere, ine-  vitabilmente, catastrofica.   Non è, dicemmo, elegiaca. Sarebbe, senza  dubbio, se lo spegnersi d'una luce non signifi-  casse, fra gli uomini che hanno assiduo il fer-  mentar delle forze nello spirito, l'accensione di  un'altra, di più altre, quasi pel ripetersi ardito  di magie misteriose. Ma qui dove dai vecchi  ceppi si spiccano a dieci i virgulti giovani, v'è  motivo a sconforto sol tanto per chi brami, come meglio, la distruzion del tutto. Rimane, per  altro, legittimo, se non lo sconforto, il senso del  danno. Lo stampo di Caco s'infranse, e qual  egli era stato concepito, quale gli artefici l'ave-  vano formato, ninna potenza terrena può ri-  crearlo indipendentemente: un individuo inso-  stituibile scompare. E^ scomparso, non lui solo  perdiamo. Molte saghe venner create con bel-  l'impeto dalla giovine mitopeja dei Pagani; molte,  non tutte le nate, si svolsero traverso gl'inni  dei poeti, i bronzi degli statuarii, i gesti sacer-  dotali; non molte, poche divennero nell'epoca  del pili adulto pensiero classico, quando per con-  taminazioni la ricchezza del numero si fu as-  sottigliata in bellezza della specie. E ogni nuova  morte sminuisce quella dovizia di una unità,  scema questa bellezza di grande efficacia : quel  che sottentra è copia e grazia dello spirito  umano, della mitopeja classica non più... Una  maggior individualità, dunque, è minacciata  dalle morti di questi minori individui mitici.  Un colpo di accetta, ognuna ; e la quercia si  squassa. Il genio mitopeico.Quella individualità maggiore è oramai em-  brionalmente posseduta dal nostro pensiero.   Quando siasi letta la saga di Andromeda, e  poi di Cirene, e di Caco, e anche di Cora;  appresso, non si conoscono pure quattro vite di  saghe, come fossero di eroi o di santi o di statisti; ma è già vivo, se anche non maturo, nel-  l'intelletto un nuovo sapere. La ancor recente  esperienza, rotti i termini entro cui si è for-  mata, tenta di organarsi in altro stampo, in-  frange l'intuizione del singolo per disporsi, in  che ? come ? Per la risposta, da principio ingan-  nano due parvenze, contradittorie nella forma,  entrambe erronee.   La prima parvenza è brevemente questa. Con  l'ajuto delle cognizioni acquisite nello studio  di quattro miti si possono perseguire due com-  piti differenti. Uno, più modesto, consiste nel  raccogliere tutti i fatti constatati durante lo  studio e nel disporli con altro criterio che il cro-  nologico e genetico : nel guardare, in breve, il  medesimo mondo, nei medesimi margini, ma da  altro pimto di veduta. H secondo compito, in  vece, costringe a trascendere i limiti segnati  dalle quattro saghe, fino ad affermare di tutte le  saghe qualcosa che per le quattro soltanto venne  sperimentato : costringe a varcare verso l'ignoto  l'esperienza acquisita, pregiudicando da questa  quello. Entrambi i compiti hanno natura e scopo  pratico ; come quelli che servono a concludere  ordinatamente sotto la specie di leggi (nel se-  condo caso) o di formule (nel primo) esperienze  compiute storicamente sotto la specie delFindi-  viduo. E sono , perché pratici , utilissimi ; né  giova, secondo piace a taluno, predicarli ride-  voli o in altro modo spregiarli. — Non mostrano,  tuttavia, lo stremo di quanto possa e voglia il  nostro pensiero, elaborato che abbia un certo  numero di storie su fiabe. Non può esistere un  soggetto vivo cui attribuire quelle formule e quelle leggi, si cke gli aderiscano come i carat-  teri all'uomo ; ond'è che ci appajono e le une e  le altre, dopo che arbitrarie, insufficienti. Arbi-  trarie le formule, perché incardinate su criterii che  non sono immanenti al loro soggetto, ignoto e  irreale, ma che vengono dal di fuori imposti alla  massa dei fatti storici ; e le leggi, perchè teme-  rariamente affermano più del conosciuto, impe-  gnando in sé, insieme con il già intuito, il non  mai visto. Cosi le prime, avulse dalla realtà  viva onde germinano, incadaveriscono in freddo  schema e, come schema, lasciano straripare oltre  di sé e sfuggire sotto di sé la vita vera delle  quattro saghe ; le seconde, pur danneggiando  tal vita nella stessa guisa, non sodisfano i^oi  affatto un intelletto veramente avido di sapere  concreto : entrambe, quindi, definimmo or ora  insufficienti.   Fallita la prova di questa parvenza, l'altra  vediamo qual sia, e ]Derché non appaghi. Dove fu  avvertita mancanza d'un soggetto che sostituisca  nella nuova opera i miti, soggetti delle singole  storie, ci s'illude di coglierne uno ; se ne crea  uno difatti, f)ur che si astragga un poco come  suole il pensiero. Si crea un (diciamo) ente o spi-  rito, cui competano tutti i caratteri dei varii in-  telletti che influirono, di stadio in stadio, su  l'uno o su l'altro dei quattro miti storicamente  appresi; cui, quindi, appartengano patriottismo  e fede, scettico scherno e dubbio religioso, pre-  occupazione sociale, sensualità voluttuosa e i)re-  giudizio manchevole ; e che concilii inoltre ogni  virtù in una sintesi superiore alle contradizioni  apparenti. Cotesto ente o spirito avrebbe, forse.  esso pure una evoluzione, e certi stadii lungo i  quali si disporrebbero le sue energie e i suoi  attributi. Parrebbe, per tanto, assai bene passibile  di storia. — Ma l'artificio più palese l'ha origina to.  Difatti, mentre chi narra la storia di un mito  opera (vedemmo) su stadii, che sono di per sé  congiunti, e che senza nesso non sono né pure  compiutamente intelligibili ; i caratteri in vece  e le energie di quel pseudo spirito vengono solo  per caso delimitati, avvicinati e graduati : già  che unico motivo per cui quel falso ente si af-  ferma con alcune qualità, e non altre, con alcune  vicende, e non altre, è la scelta, precedente-  mente fatta con criteri! estranei, di quattro miti,  e non d'altri. Che se dieci o diversi fossero, gli  attributi muterebbero numero, specie e succes-  sione. Segue, che è necessario guardarsi dall'in-  sistere sopra un soggetto cosi fittizio, se non si  voglia ricadere negli stessi vantaggi pratici e  svantaggi teorici in cui trascinano formule e leggi.  Vinto l'errore, la salute appare spontanea.  Basta che si trovi uno spirito, il qual sia vero  e non artificiato, intuibile dallo storico e sog-  getto vivo delle nostre esperienze anteriori, li-  mitate per qualità e per quantità. Ora, se è  (come dicemmo) arbitrario determinare un in-  dividuo mitopeico valevole per quattro miti,  perché è introdotto dal caso, ossia dalla nostra  anterior ricerca, il numero di quattro : soppri-  mendo quel numero, ci troveremo dinanzi a un  reale individuo, allo spirito greco-romano in  quanto elabora saghe, o al genio mitopeico dei  Pagani: dinanzi, ciò è, a un che di esistito ef-  fettivamente, di certamente vivifìcabile, di indùbitabilmente storico. Qui il pensiero si ritrova  a suo agio e, intuendo, lotta a sottomettersi la  realtà proteiforme ; qui formule e leggi vanno  a confluire nella materia ignea , rimettendo di  lor rigidezza fino a liquefarsi nel flusso incan-  descente. — E conquistato una volta questo certo  soggetto, si comprende d'un tratto come tutto  che si afferma nell'ambito delle quattro fiabe  conosciute vale ed è esatto per il genio mito-  peico, ne è la storia ; è, sol tanto, incompiuto e  insufficiente : perché lembo di un tutto ; lembo  casuale di un tutto reale. Ma, appunto in forza  di questo tutto, ha importanza, dev'essere affer-  mato, e può assumere, esprimendosi, un tono  generale. La medesima sua incompiutezza poi  è solo in parte insufficienza. E, in quanto oltre  alle quattro fiabe cónte altre assai sarebbero a  disposizione del pensiero che volesse conoscerle  in istoria e attribuirle poi al genio mitopeico.  Non è, quando si avverta che, i)ur conoscendo  tutte le fiabe, quel genio mitopeico risulterebbe  per noi sempre, dalle fortune del caso e dal de-  corso del tempo, privo di qualche sua saga, e  quindi scemo di talune energie, per guisa che  dovrà in ogni maniera venir intuito traverso  molte si ma non tutte le sue manifestazioni ;  non dissimilmente dall'indole degli uomini che  la sorte ci pone su la via o dalle vicende degli  istituti che remoti echi ci tramandano irrego-  lari.  Quattro miti son dunque poco i3er pos-  sedere, nei suoi confini e nelle sue virtù, l'animo  leggendario dei Pagani ; tuttavia il loro inse-  gnamento è certo, se bene incompiuto; insuffi-  ciente, non arbitrario. Cosi le storie di quattro miti conducono alla  storia della mitopeja. La quale pertanto non  può consistere nell'insieme inorganico di quelle  quattro singole storie, se si mantenga incom-  piuta, né, se voglia integrarsi, nell'insieme inor-  ganico delle storie su le varie saghe conosciute.  Tale è l'uso dei manuali; ed è uso degno del  nome e dei libri: che noi vedemmo dianzi la  esigenza di quella più larga istoria emergere a  punto dal succedersi (che è stimolo, dunque, non  sodisf acimento) di taluni racconti men larghi.  Come, per analogia, le biografie di cento indi-  vidui non souD la storia della nazione cui ap-  partengono, e che li comprende in sé e in sé li  distrugge. Flutti nel mare, le molteplici saghe  non s'individuano che a patto di delimitar  volta per volta il total genio mitopeico in mar-  gini che non sono i suoi proprii. E a quel modo  che l'Uomo non attua le sue potenze tutte se  non nella umanità ; il Mito non sviluppa tutte  le sue virtù se non se nella mitopeja. E tutte  non si conoscono, che spezzando in un testo più  ampio i termini in cui si conchiusero le cono-  scenze dei singoli. — Evidenza pari ha, o do-  vrebbe avere, un altro vero eh' è parallelo a  questo. Dianzi, giustificandosi legittima la storia  di un mito, nell'atto di mostrare come le mol-  teplici manifestazioni leggendarie potessero ag-  grupparsi in tanti cespiti quanti sono i nomi e  le fondamentali vicende che accomunano ta-  lune fra esse ; disegnavasi pure , come possi-  bile, l'impresa di ridurre quelle manifestazioni  molteplici più tosto sotto le rubriche delle di-  verse epoche e dei differenti luoghi, per comporre, con criterio cronologico e geografico, la  storia della mitopeja pagana lungo i secoli e  traverso le regioni del mondo classico. Età per  età si vedrebbero gli spiriti, informati da quella  determinata temperie, intervenire su tutto il pa-  trimonio favoloso; e ciascuna avrebbe le sue  predilezioni nello scegliere i soggetti e le sue  attitudini nel foggiarli. Or bene : dopo una tale  opera, cosi se siasi estesa a intero l'ambito tem-  porale e regionale dei Gentili, come se sia stata  ristretta in taluni confini di paese o di momento,  è tutto sodisfatto il desiderio di conoscenza?  o pure, anche da essa deriva allo spirito un bi-  sogno più alto? Senza dubbio, un paragone  con l'insieme inorganico delle singole storie di  miti sarebbe a sproposito. In questo secondo caso  difatti v'è organicità : ogni epoca influendo su  la susseguente dopo che la precedente su essa  aveva operato ; ogni luogo fra i Glreco-romani  riconnettendosi, quant'alla mitopeja, con qualcbe  altro, o in senso negativo o in positivo. Ma, a  parte tal rilievo, è certo che il bisogno sussiste  tuttavia. Sopra le differenze più o men no-  tevoli fra regioni e tempi, colpisce in tutt'e due  i casi la costanza con cui talune energie del-  l'anima nostra, e sol tanto quelle, e sempre quelle,  influiscono su le saghe: siano la fede e Tamor  patrio, il senso naturalistico e l'acume psicolo-  gico, lo scetticismo ragionevole ed il razionale.  Colpisce che, come più si risalga nei secoli, meno  fra esse intervengono nella mitopeja, fin che  alle scaturigini pochissime si ritrovano ; e che,  come più si discenda nei secoli, non solo si ac-  crescono per numero ma quasi si succedono per dignità, tramandandosi tal volta nel corso la  fiaccola, umanamente. Si comprende che son le  potenze del genio pagano in officio di mitopeja ;  s'indovina, entro la libertà delle manifestazioni,  cosi traverso l'epoche come sotto i cespiti no-  minativi, un'armonia ch'è ancora imprecisa ma  merita indagine; e si desidera cercare questa  armonia e quelle potenze.   Concetti empirici, dunque, tali potenze? ar-  bitrio di astrazione a scopo pratico? Non cosi.  Il tono generico è solo esteriore ; nell'intimo, chi  ben guardi, ciascuna di quelle parole vuol indi-  care qualcosa di assai individuo e concreto : al-  tr' e tante energie spirituali che, in certi momenti  della storia, e in determinati punti della terra,  hanno gittate singolari riflessi su la saga, ora  iridandola di sfumature, ora riardendola fin nel-  l'essenza : altr'e tanti fatti passibili di storia, e  solo per storia conoscibili. Le carità patrie di  Euripide e di Vergilio ; i razionalismi di Dio-  nisio e di Luciano ; le religioni d'un esiodeo e  d'un latino : fatta breccia nei confini onde sto-  ricamente son racchiusi entro un'opera e un  temperamento, si compenetrano, ricalcano l'un  l'altro i caratteri comuni, contraddistinguono le  differenze, quelli e queste ordinano in sintesi:  fino a divenire, in diverso contesto storico, la  carità patria, il razionalismo, la religione del  genio mitopeico pagano,con valore (si vide) bensi  non compiuto, ma pm- sufficiente ; generale e in-  dividuato a un tempo. Generale, rispetto alle sin-  gole saghe: individuato, rispetto al genio mito-  peico. ,— Di che può aversi riprova. A quel modo  che durante la storia d'una specifi.ca fiaba, l’interesse più attento soverchia il cerchio breve del  palco ove poche persone son mosse in non molte  vicende, e tocca, al di là, la forza animatrice di  quel moto ; del pari, per l'interesse più attento,  anche gli amor patrii di Vergilio e di Euripide,  e i razionalismi di Dionisio e di Luciano, com-  petono fin da principio , dopo che a Vergilio a  Luciano a Dionisio ad Euripide, alla mentalità  pagana di cui son pregni, alla vita de' Grreco-  romani nella quale immersi son trascinati su-  bendo e reagendo, come massi che il fiume ha  composti e disgretola poi con la medesima forza.  Si che, a rigor di discorso, già i successivi stadii  d'un mito superano il mito, e si proiettano, in  altra serie, su lo sfondo comune, dove li dispone  non più affinità di nomi e di casi, ma di potenze  spmtuali.   Però a questa disposizione nuova manca tut-  tora l'ordine della successione : che è, anche,  l'ordine secondo cui la mitopeja si evolve. Non  può valerci più, adesso, il criterio cronologico :  atto bensì a graduare strati di leggende ; inetto  del tutto a decider, con certezza che non sia di  pallida congettura o non nasca da arbitrio di  pregiudizio, a decider se la fede versi la purezza  delle sue acque nel mito prima che l' analisi  psicologica vi gitti i suoi dati. Interrogata al  proposito, ogni saga darebbe una propria ri-  sposta, diversa secondo vicende casuali o neces-  sarie (1). Qualcuna persino mostrerebbe con-  temporanee le manifestazioni in apparenza più  Sul valore di queste es^pressioni LA STORIA DEL MITO   disparate o in sostanza più contradittorie. E, per  tanto, necessario sceglier altro mezzo allo scopo  di vedere il genio mitopeico vivere, com'è d'ogni  individuo definito, evolvendo le sue speciali  energie. Ora, esso ha, tra i Pagani, alcune espres-  sioni che ci richiamano senza dubbio alla sua  origine ; altre, che ci riportano quasi con cer-  tezza al suo termine. Basta dunque, jier graduare  ciascuna delle caratteristiche mitopeiche, com-  pararle o alle qualità originarie o agl i ultimi  corrompimenti. Ma perché più certe appajono le  prime, a esse la com[)arazione va riferita. E  tanto più si sente, allora, tarda (nell'essenza)  quell'energia che, acquisita allo spirito mito-  peico, più lo distorna dai suoi primi sogni : per  essa, in vero, lo spirito procede, nel tutto suo  insieme, a una tappa nuova ; si che il momento  della conquista è ben paragonabile all'oscillazione d'una lancetta sul quadrante : s'inizia l'ora.  Una storia compiuta dovrebbe però seguire il  mostrarsi di ciascuna energia, segnalando il  punto in cui dopo la precedente essa confluisce  nella saga a nutrirla e deformarla, e precisando  il modo del deformare. Una storia, per contro,  incompiuta e provvisoria dovrebbe, facendo i  suoi raffronti, mantenersi entro gli argini della  sua incompiutezza, col tratteggiare senza dise-  gnarle le linee dell'opera propria. Tutt'e due  vedrebbero , oltre l'assiduo rinnovellarsi delle  forme e il disordine scapigliato in ciascuna saga  introdotto dall'insita sorte, la vasta e chiara  armonia del complessivo progresso geniale, le  cui pietre miliari hanno nome dalle potenze del-  l'animo e dalle forze del pensiero. Legame, da ultimo, fra quel disordine e questa  armonia, apparirebbe la constatazione che tutte  quasi le saghe, le quali la storia può scegliere  a suo oggetto, fanno testimonianza di sé di  fronte a noi, in lavori di arte letteraria e ma-  nuale o in riti di culto, quando oramai o per  intiero o in buona parte lo spirito onde sono  elaborate ha acquisito le sue virtù: pel che  quest'ultime possono manifestarsi od occultarsi,  secondo nessi stabiliti non dal loro reciproco  grado, ma dalle vicende della fiaba. Succede, in  somma, nei singoli miti, un perpetuo rinnovarsi  di quei fenomeni che segnano, ciascuno, un di-  verso stadio del genio mitopeico ; rinnovarsi che  non è senza evoluzione ma con evoluzione di-  versa dall'originaria. Condizioni di ambiente  fanno si che in una sola età, l'augustea, la leg-  genda di Caco si manifesti infusa di x^atriottismo  e zelo religioso presso Vergilio, incrinata di  scettico dubbio e di saccente sofisticheria presso  Dionisio ; ma, contro questa contemporaneità  cronologica, non esitiamo a proclamare più ve-  tusta l'una forma a petto dell'altra nel riguardo  della complessiva mitopeja. Tal certezza si con-  forta, in questo caso, dell'esame delle fonti, donde  appare VergiKo attingere a più antica sorgente  che Dionisio ; certezza dovrebbe durar tuttavia  anche quando il riscontro non fosse possibile  per qual siasi motivo. Com'è del mito di An-  dromeda, il quale è già scaduto in un tentativo  di travestimento storico allor che Euripide lo  solleva al culmine della sua vita penetrandolo  di passione patria e di pensiero religioso. Crii è  che la mitopeja ha oramai il possesso sicuro di ciascuna tra quelle sue forze e di volta in  volta ne fa uso secondo richieggano sorti di-  verse. Spetta all'occliio dello storico separare,  caso per caso, dal suo rinnovarsi il primigenio  acquisto: per decidere se lo stadio di una fiaba  sia evolutivo solo rispetto agli stadii anteriori  di quella fiaba; o sia in vece, insieme, evolutivo  nel progresso del genio mitopeico.   Va perduto cosi l'impetuoso rigoglio di forme,  per cui le figure si moltiplicano disponendosi  l'una a canto dell'altra, affini sorelle, non iden-  tiche aggeminazioni ; e i casi si ripetono e s'in-  trecciano simiglianti e differenti ; e si dispon-  gono in racconti svariati, che ciascuno possiede,  quasi nome personale, una peculiare orma, né  confusioni son lecite, e taluno, fatto vivo dal-  l'arte, ha destino qualche volta non perituro.  La storia della mitopeja per contro diviene  scaltra a scoprire, in luogo dell'abbondanza  creativa, la limitatezza fondamentale della ma-  nifestazione : il sottostrato di potenza definita,  di là dalla superficie delle creazioni che si tra-  mutano lungo serie senza termine e fogge senza  numero. — E né meno qui, in quest'altro ufficio,  essa si converte in scienza astraente e classifi-  cante. Quando vengono disegnate le vie che la  mitopeja trovò per le sue creature, si adoperano  certo concetti empirici e partizioni; quali fra  letteratura e arte pittorica, fra statuaria e culto,  per cui il filosofo userebbe termini ben diversi.  Ma i medesimi concetti intervengono nelle storie  dei singoli miti, insieme con altri, e non impe-  discono che quelle storie concretino individui  ben precisi e reali. Si che a ogni modo la loro presenza non può decidere senz'altro contro  la natura storica di un' opera. Difatti, ancor  questa di cui parliamo lata storia mitopeica  fonde leggi categorie e formule nello scoprire:  in primo luogo, i confini entro cui tutte le ma-  nifestazioni favolose son racchiuse; in secondo  luogo, i gradi secondo cui esse sono disposte;  onde riesce a precisare una risposta a questo  problema, ch'è denso di realtà storica : con che  mezzi e con quale sodisfacimento lo spirito  pagano mitopeico si manifesta ?  Il badile ed  il coltello han diritto alla loro epopea, dopo le  pagine ove Tincruento travaglio campestre e la  sanguinolenta strage hanno diffuso riflessi dolci  e selvaggi.   Ma poi che questa diversa istoria del genio  mitopeico, nel suo nascere, nel succedersi delle  sue potenze, nell'ordine dei suoi mezzi, siasi  compiuta, e non ancora conchiusa, riapparirà a  sua volta catastrofica e non elegiaca : segnando,  senza sconforto, la fine della mitopeja pagana.  — Non senza rimpianto però, ch'è differente cosa.  Non vediamo pili Centauri scender galoppando  dai ventosi antri dei monti : né per noi ogni sera  il Sole muove verso l'ombra a combattere mostri  marini e piegare tracotanza di violenti. Quella  cecità e questa negazione sono stati il prezzo  con cui pagammo altri spettacoli ed altre cer-  tezze. Ma il prezzo duole, nel fondo del cuore,  alla nostra avarizia di uomini, a questa cupi-  digia di opulenza spirituale.  Sin qui tentammo della mitopeja e della sua  storia il concetto compiuto. Ma un motivo, che  si forma nella pratica degli studii e della vita,  e si rafforza di esigenze, estranee bensì alle  fiabe e alle storie loro, ma non agli storici ; un  motivo interviene spesso a ridurre le indagini  e le ricostruzioni del mito nei confini di una sol  tanto fra le maniere dell'espressione mitica: nei  confini della letteratura. Certo, il genio lette-  rario dei Grreci e dei Latini ha saputo rendere  immortale il tessuto de' suoi sogni mitici con  l'opera di non so qual spola d'oro. E anche sia  concesso senz'altro esser la letteratura di gran  lunga preminente rispetto e alle altre arti e ad  ogni diversa forma del significare le saghe (1).  Non cessa però che di queste ridurre la storia  nell'ambito di pur una fra le loro espressioni è  compiere una arbitraria amputazione. Lealmente  riconoscendola, questa colpa è grave.   Né medicabile. Si può palliarla: come suole  lo storico dell'arte richiamarsi per accenni alla  storia civile e alla letteraria ; e cosi in reci-  proca guisa. In ispecie quando, per le lacune  che sono ampie e non rade nel pur ricco pa-  trimonio trasmessoci dagli antichi, uno o più  stadii d'un mito sieno costituiti da nessuna forma  di letteratura, bensi da prodotti scolpiti o dipinti o in altro modo artisticamente lavorati  dall'attrezzo e dalla mano. Allora la storia monca  deve a forza integrarsi di quella sua parte che  un caso rende ben necessaria e come vitale. Con  simile pensiero è fatto ricorso alle notizie cul-  tuali, e le formule de' sacerdoti le litanie dei fe-  deli si cercano, farmachi preziosi, a supplire e  lenire organiche deficienze. Ma la plenitudine  non è se non nell'intreccio del tutto ; e i rife-  rimenti, fìngendola, tradiscono il vuoto.   Mal colmato, il difetto permane, e si appaja con  la incompiutezza cui limitate esperienze entro  esiguo numero di miti costringono il ritratto  del genio pagano facitore di saghe. Permane :  la sua radice s'insinua fra stretto] e rupestri, si  che non è pronto lo svellerla ; ineffettuabile tal  volta. Onde avviene che dinanzi la storia insuf-  ficiente cosi della singola favola come della total  mitopeja antica , la nostra insoddisfazione si  cresce del diffìcile sforzo per rimanerne sgom-  bri. Tant'è: nell'isola ove piaceva a Kalypso di  amarlo, con promessa di rendergli " senza vec-  chiezza né morte per sempre „ la vita, Odisseo,  da la rupe a fronte del mare, piangeva la pa-  tria lontana. L'anno avanti Cristo quattrocento dodici Eu-  ripide fece rappresentare in Atene una sua tra-  gedia intitolata Andromeda^ alla quale forniva  materia un episodio del mito di Perseo. Ma se  l'opera dramatica aveva tratto dalla saga la so-  stanza a nutrire la sua compagine, nell'opera  la saga viveva una vita altra da l'anteriore:  però che lunga già e complessa ne fosse stata,  innanzi, l'evoluzione.   Antichissimamente, negli anni cui corrispon-  dono, eco affievolita, i più vetusti canti della  epopea e poche mal certe tracce, una assai uber-     ei) Cfr. per tutto questo cap. l'Indagine in libro II  cap. I; di cui si citano i §§ nelle note successive.   tosa terra di Grecia aveva fecondato di sé un  semplice racconto (1).   Si narrava in Tessaglia, e in ispecie nella  pianura pelasgia che fu detta Pelasgiotide poi,  di un re, cui era regno in Ai'go (Pelasgico),  molto potente ma triste. Vecchio, difatti, e non  lontano da morte, egli era tuttora senza prole  maschile, unica essendogli nata una figlia a  nome Danae. Ansioso per l' avvenire di sua  schiatta, si sarebbe recato a consultare in Delfi  l'oracolo di Apollo, dal quale ebbe in risposta,  non essergli per nascer maschi se non da Danae,  ma dovergli il nipote togliere e trono e vita.  Non fu vano il grave mònito; ed ogni cura fu  posta a che la vergine restasse dal generare,  contro la sorte. Ma Preto, fratello del re Acrisio,  riusci occultamente a renderla madre d'un bimbo  che fu chiamato Perseo. La nascita, che si volle  tener celata, fu in vece scoperta e causò l'irosa  vendetta del re impaurito, il quale decretava  che la giovine e il neonato fossero, — come  Preto per altra parte fu, — cacciati, e derelitti  in balìa della violenta natura e delle intemperie.  Mossero Danae e Perseo verso l'oriente e per-  vennero in Magnesia: ove per loro fortuna li  accolse un pescatore, Ditti, che li ospitò di poi  nella casa sua e del fratel Polidette. Il bambino  crebbe fanciullo, giovane agile e vigoroso: tra  i coetanei valente in giuochi ginnici ove nerbo  di muscoli e destrezza di ginocchia d'occhi di  braccia si rivelassero. Allora piacque al caso     (1) Cfr. § II e III.  che il re di Larisa indicesse fra' giovani ima  gara pubblica e che all'agone partecipasse l'a-  dolescente Perseo e assistesse il vecchio Acrisio  ospite del dinaste vicino. Accadde l'inevitabile,  che la Pizia aveva predetto e a cui non si poteva  sfuggire: il disco venne dalla mano di Perseo  lanciato, — opera d'un nume! — contro le de-  boli membra del nonno, che ne fu morto. L'o-  racolo per tal modo compiendosi, il nepote ri-  conosciuto si ebbe il trono e la dignità dell'avo.  Una tal fiaba parrebbe germogliata, semplice  e intiera, su dal suolo mitico d'una tribù aria,  frutto non insolito d'un seme a più altri simi-  gliante: ove la stessa sua trasparenza non ne  scernesse, una ad una, le fibre. C'è, in quel breve  racconto, lo spunto originario della morte inflitta  dal giovine, che si rivendica l'avvenire, al vecchio  progenitore, che il passato ha curvo e fiacco :  dal Sole, — ciò sono, — nascente circonfuso di  purpureo sangue, per illuminare l'oggi, al Sole  occidente verso il bujo, circonfuso di pm-pureo  sangue, dopo aver rischiarato il jeri. Durante la  notte, nell'ombre, il delitto si è compiuto ; e  l'astro giovine regna in luogo dell'antico, nato  da una Danae (donna di quei Danai che nella  leggenda combattono i Liei o ^' Luminosi „) e  sorto, oltre la linea dell'orizzonte, su dalle case  sotterranee diPolidette ("l'accoglitoredi molti „  sovrano dell'oltretomba). A cotesto schema rozzo,  cui è il mal grato biancore di ossa a pena  commesse, diedero nel principio veste di muscoli  e colori i nomi locali, che tante reminiscenze di  bellezza e di rigoglio traevano con sé e richiama-  vano a tanti concreti particolari della realtà : le pianure d'Argo Pelasgico ; Larisa ; il venerando  oracolo di Delfi; le montagne della Magnesia  in ispecie, nell'est, dalle cui giogaje ride prima  la luce su i pascoli, e che dalle grotte temibili,  disagiato ospizio di fuggiaschi, recavano al mito  un brivido tra di paura e di pietà.   Di poi sul racconto naturalistico, come i3Ìù  venne foggiandosi in forme di plastica umana,  s'innestò una di quelle novelle, simili tra loro  come tra essi i cristalli di medesima specie, nelle  quali il popolo par condensare, con la propria  esperienza, la propria filosofìa della vita, i^erché  vi fissa gli esempli tipici delle consuete vicende  (per lo più, familiari) e le sembianze caratteri-  stiche delle figure che sospinge la sorte comune.  Traverso la fantasia delle masse, come traverso  un vaglio singolare, il complesso, per esempio, dei  pastori o de' pescatori e l'insieme de' vizii e delle  virtù che in genere presso quelli si riscontrano,  si affina in una selezione di cui è vano cercar le  leggi, per comporsi nella sintesi d'un personaggio  tradizionale con tradizionali e pregi e difetti : il  pastore, dico, o il pescatore soccorrevole e  onesto che come suo alleva, dopo averlo accolto  ed ospitato, il figlio non suo. Analogo è lo schema  della fanciulla cui nasce illegittimo un bimbo e  che l'ira del padre discaccia per pena. Grracili  virgulti quello e questo ; cosi fatti però che im-  provvisa linfa vi rifluisce non a pena s'immet-  tano sopra una determinata leggenda : cui recano,  per altro, non esiguo contributo in compiutezza  e bellezza. Nella Pelasgiotide appunto impres-  sero alla fiaba tutta una diversa vivacità roman-  zesca e forza dramatica. Non fu tuttavia sovrapporsi d'uno strato a un altro, cosi che il  più recente prevalesse sul più antico fino a ri-  durlo in oblio: fu, come mi espressi, innesto;  onde l'essenza solare di Perseo, la sede orientale  del bujo Polidette, permasero a costituire il  volto significativo del mito durante tutto questo  primo stadio, tessalico, della sua formazione.   Il che fu chiaro in sèguito (1). L'Argo Pelasgico  o v'erano re nella fiaba Acrisio prima e Perseo poi,  venne confondendosi, nei canti dei poeti e per gli  scambi! mitici fra i varii popoli della Grecia, con  altro Argo, che sorgeva a offuscar in gloria e  potenza il più antico, ed era situato in un con-  chiuso piano del Peloponneso fra monti e mare,  nell'oriente della penisola. I due Argo furon  quindi, in realtà, uno: prima il tessalico, poi  il peloponnesiaco; per guisa che a questo si  riportarono via via le leggende che a quello  si erano dianzi riferite. Fra l'altre, anche la  nostra di Perseo: il quale divenne adunque, se  pm" nipote dello stesso nonno, rampollo di  schiatta cresciuta sopra altro suolo. La popola-  zione argolica assimilò ben presto la saga tes-  sala con i suoi particolari e le sue figure: persino  l'accenno a la Magnesia, che quanto mai discon-  veniva alle sedi mutate, si serbò in solco pro-  fondo ; persino, e specialmente, la morte di  Acrisio in Larisa, cui grande varco di terre e  di mare separava dal Peloponneso, si mantenne  non alterata. Al conservarsi contribuirono due  motivi. La Magnesia era nel mito ricordata per mezzo del suo eponimo Magnete, che si fìngeva  padre di Polidette e Ditti: facile quindi sottrarre  al nome della persona ogni valore di riferimento  al luogo geografico e ripeterlo fuor d'ogni atti-  nenza concreta, A Larisa poi durò alquanto un  sacrario {heroon) dedicato ad Acrisie : sicuro  perno adimque, che nemmeno la nuova leggenda  poteva facilmente trascurare.   Ma col proceder degli anni tutto che nel mito  non fosse o compatibile senz'altro con la mutata  sede o ineliminabile per cause intrinseche fini  con l'alterarsi. Il ricetto, in particolare, ove Ditti  figlio di Magnete avrebbe accolto Danae, e il  padre di Perseo vennero corretti e adattati: né  è a dirsi qual de' due ritocchi sia il più antico ;  ma si vede bene quale è per essere il più impor-  tante. A Preto fu, nella seduzion furtiva, sosti-  tuito Zeus, il dio veneratissimo in Argo, da cui  si faceva discendere anche l'eroe eponimo Argo :  già che forse piacque cosi adombrare quel Preto  che in Argolide doveva riuscir meno noto, e che  aveva, per quanto ci è dato supporre, contenuto  naturalistico simile a Zeus. Ai monti poi della  Magnesia, pur permanendo Magnete, fu sosti-  tuita l'isola di Serifo ch'è di fronte all'orientai  costa del Peloponneso nel mare del golfo argivo.  Perché quell'isola fosse la prescelta, s'ignora;  notevole a ogni modo è che per essa un lembo  di territorio jonico sia tocco dalla leggenda nata  fra Eoli e trapiantata in Argolide. Da Argo fra  tanto il mito si diffonde: attinge Micene, pe-  netra a Tirinto. Nella quale anzi cosi si radica,  che s'inventò come Perseo, ucciso il nonno,  avesse onta di rientrare in Argo e preferissenceder questa, per riceverne Tirinto, a suo cugino  Megapènte figlio di Preto.   Se non che: con l'irradiarsi la saga, perno  Argo, nel Peloponneso; e col pervenire essa in  territorio jonico: si prepara all'evoluzione futura  una base duplice in cui son contenuti potenzial-  mente due ulteriori sviluppi. Entrambi si devol-  vono nel fatto, simiglianti tra loro per sostrato  e valore, e paralleli in modo che non è riuscibile  lo stabilire la priorità dell'uno su l'altro.   Era leggenda fra i Joni (1) che la dea Atena,  cui molto culto si tributava e particolar reve-  renza, recasse sopra il suo scudo la testa di un  mostro pauroso e ricinto d'ombre : Medusa, una  delle Gròrgoni dimoranti al limite estremo del-  l'Oceano, oltre la terra, dove il Sole scompare  e si profonda nel bujo. Su lo scudo quel capo  significava trofeo d'una vittoria conseguita dal-  l'iddia avverso la protervia nefasta di quella  figlia di abissi marini. La leggenda era antica,  traccia della natura xDrima ond'era informata  Atena, divinità della luce solare, nume del tem-  porale, in cui più vivo è il contrasto fra le forze  luminose e la potenza delle tenebre. E del Sole  per vero un altro attributo si riferiva, tra i  Joni, alla dea Pallade: il possesso d'una cappa,  lavorata nella pelle canina, onde si dissimulava  il suo splendoreogni qualvolta piacesse a lei  di occultarsi : a quel modo che l'astro sparisce  agli occhi umani per molte ore vestendosi di oscuro. C'erano adunque, in racconti embrionali  tuttavia, spunti di gesta eroiche o divine: le  quali, se si accoglievano bene nella figura di  Atena, non formavano ancora intorno alla sua  persona una veste cosi aderente, che non fosse  possibile separamela in parte con lievi altera-  zioni. Si direbbe anzi che la vittoria contro la  Gròrgone e la proprietà della cappa invisibile si  riportavano assai meglio al sostrato naturalistico  della Dea che non al suo individuo, alla folgo-  rante luce che non alla sostanza corporea della  effigie umanata. E perché Perseo quando per-  venne in Serifo, e come in Serifo in Atene in  Mileto nella Jonia, ancor traeva alimento al suo  essere dall'energia naturale (la veemenza del  Sole) di cui era forma e onde era nato, e poteva  pertanto in facil guisa accostarsi, simile nume, a  Pallade; accadde che a lui pure si attribuissero  e l'impresa contro Medusa e il cappuccio ca-  nino : cosi che alla dea non rimase altro ufficio  se non quello di ajutare e protegger l'eroe. Fu  quasi una contaminazione delle due leggende  in una; ma di due leggende non indipendenti  né ciascuna distinta per sé, si di due che si originavano da una medesima intuizione delle forze  naturali, e aggeminate si erano dopo che aspetti  simigliantissimi dell'unico Astro avevan tolto  in luoghi distinti doppio nome di Atena e di  Perseo.   Il racconto che ne nacque, come prese a vi-  vere d'una essenza propria, ebbe la sorte d'ogni  materia vivente in organismo : si accrebbe. La  fantasia che plasma le leggende ha certi suoi  modi, quasi formule, quasi schemi, nei quali va foggiando analoghe le sue opere : essa imprime  del suo segno terreno il racconto di quegli spet-  tacoli della Natui'a cui aveva già dato volti  e gesti umani : prende una seconda volta pos-  sesso della sua materia. Cosi non concede essa  all'eroe, — e sia pur grande d'assai più che  l'uomo, e assistito da soccorrevoli iddii. — facile  e pronto il conquisto; vuole sia arduo: prepa-  rato con forza ed astuzia. Ecco imaginati talis-  mani senza cui l'opera non può compiersi e per  i quali trovare si richiederanno altre fatiche :  ecco pensata, prima dell'impresa, un'awentui'a  preparatoria, ch'è mezzo non fine , ma non è  dispensabile : e all'avventura apparecchiati i per-  sonaggi. — Qui, furono le figure in cui la novella  fissa ed esagera la vecchiaia: le tre sorelle Graje,  canute fin dalla nascita, veggenti, tre, per un  occhio solo vicendevolmente, masticanti, tre, con  un dente. Esse, — si narrò, — sapevano la sede  di certe Ninfe dai calzari alati, senza cui non  era concesso ad uomo trasvolar fino al limite  dell'Oceano presso le Gòrgóni, e dalla bisaccia  (xi^iaig) magica, che fosse atta a contenere, dopo  spiccato, il capo di Medusa. Perseo vi si recò  dunque ma non ottenne né quelli né questa se  prima non ebbe con violenza privato le tre vec-  chiarde dell' occhio e del dente , esigendo a  compenso della restituzione i due oggetti cui  mirava.   Gli fu agevole poi, auspice Atena, conseguire  lo scopo. Arma gli venne attribuita la falce.  Ermes glie l'avrebbe donata, nume in particolare  diletto, se pur non quanto Atena, agli Ateniesi;  il quale, avendo allora già assunto rilievo di dio luminoso, era affine a Perseo e dicevole soc-  corritore contro i mostri bui. Cosi erasi d'assai  allargata la saga.   A concliiuder la quale non rimaneva oramai  se non motivare l'impresa strana del fanciullo  cacciato con la madre da Argo e accolto in Serifo.  Cronologicamente essa non poteva cadere ciie  nell'intervallo fra l'ordine iniquo di Acrisio e il  ritorno del giovine sul trono avito. Logicamente  la causa dell'avventura e del pericolo aveva a  connettersi con gli ospiti di Danae : Ditti e Po-  lidette. E poiché non certo l'originalità è più  ricercata nella mitopeja, fu sfruttato ancor qui  un comune motivo leggendario, stracco per quel  che parrebbe a noi, non tuttavia si sterile da  non riuscire ad arricchii'e la fiaba di quei tramiti  episodici onde abbisognava. Come contro la Chi-  mera fu spinto Bellerofonte da chi ne desiderò  la morte; come Q-iàsone in Colchide venne in-  viato perché perdesse nell'arduo cimento la vita;  cosi Perseo avrebbe assunto il rischio medusèo  per stimolo di Polidette, che innamorato di  Danae bramava toglier di mezzo il giovine di-  fensor della donna.   Oramai il racconto era compiuto : armonico,  organico, uno: vibrava d'una forza sintetica dalla  quale eran fusi i diversi elementi confluitivi da  parti lontane. 11 lavorio invisibile di penetra-  zione, lata e i)rofonda, nel suolo jonico a traverso strati naturalistici e nove] listici aveva  dato alla fine il suo bel frutto maturo.   Analogo al processo d'evoluzione mitica per  cui il nucleo tessalo-argolico della saga s'era accresciuto d'un episodio e di due campeggianti  figure, Atena e Medusa, fu l'altro che in diverso  terreno preparò novella sixnigliante (1). Ma, a  un tempo, incomparabilmente più complesso ed  inviluppato: tanto che l'indagine riesce a rico-  struirlo non con la fondata probabilità ch'è con-  cessa all'esame del mito di Medusa, ma con in-  certezze non jDOclie, e con grande cautela. Se  l'ipotesi non erra, due personaggi costituirono i  X^erni fondamentali di quel processo: e l'uno è  Perseo nella sua natura di eroe luminoso in lotta  con i mostri tenebrosi ; l'altro è Cassiepèa o, —  come il suo nome significa senza dubbio, — la  " millantatrice „; tipo popolaresco della donna  orgogliosa troppo di sua bellezza che osa com-  petere in gara ineguale con le Dee, e n'è punita  per fiere pene nella sua prole. Due perni adunque  di essenza diversa, che l'uno è naturalistico,  novellistico l'altro ; cui tuttavia compete un co-  mune carattere precipuo: l'attitudine, cioè, a  commettersi con più altri elementi, a raccoglierli  intorno a sé, quasi per energia magnetica; cosi  da allacciare in maglia e in rete più trame mi-  tiche distinte. Per essi si formarono due compa-  gini leggendarie che insieme li contenevano e  n'erano quindi accostate fra loro. —   L'una. Si conosceva, fra i Peloponnesiaci in  particolare, un re mitico Càfeo o, in altra forma,  Cèfeo, che sarà x)iù tardi venerato con carattere  e attributi di divinità ctonia in Cafìe, luogo del-  l'Arcadia ; e che veniva creduto signore di popoli abitanti all'orizzonte fra la luce e l'ombra.  Quivi eran, secondo già l'epopea omerica, gli  Etiopi, arsi appunto dal Sol nascente e dal tra-  montante, tòcchi dal bujo per un lato, immersi  nella vampa per l'altro. Cèfeo dunque re degli  Etiopi reggeva il suo popolo in quelle stesse  lontane regioni, o in tutt'affatto conformi, nelle  quali ritrovammo aver sede le Grorgoni, e verso  cui come a simili mete muovono in awentm'a  i simili eroi solari. Che anche fra gli Etiopi  nella terra di Cefeo fosse condotto Perseo, è a  pena bisogno, — quindi, — di dire. Per scopo fu  scelto non an mostro specifico, quale Medusa,  ma una vagamente indicata belva che sorgesse  da l'onde a esterminio e terrore: il ketos. Soc-  correvole, nell'officio di Atena contro la preda  gorgonèa, s'indusse un diffuso tipo di Vergine,  strenua in combattere, ignara di mollezze fe-  minee, il cui maschio nome istesso rendeva ima-  gine di possanza non muliebre si virile: l'An-  dromeda. Qual motivo in fine si ritrovasse alla  impresa ignoriamo; ma possiam senza errore  fìngercene uno non dissimile da quel che ap-  prendemmo nell'altro episodio , cosi concorde  con questo per contenuto forma e valore. Si  ottiene un mito modellato sopra i medesimi  schemi su cui è foggiata l'impresa fra i Joni ;  nel quale i nomi a pena pajon mutati; ma  tutte le tinte sarebber identiche se non fosser  d'alquanto più sbiadite, e tutti i particolari in-  variati se non apparissero scemi al paragone.  Un arricchimento però venne ad esso mito  quando Cassiepèa vi fu introdotta. E consistette  non nell' aggiungersi d'un personaggio all'azione. si più tosto nel trasformarsi profondo del signi-  ficato complessivo che quell'acquisto ebbe a pre-  parare. Due avventure di Perseo contro mostri  delle tenebre non potevano non venir avvicinate  prima, e dissimilate i)oi. Si tramutò Tuna, la  minore e più svigorita. E fu iDer un evolversi,  si direbbe spontaneo, della sostanza eroica di  Andromeda. La " Maschia v, si andò raggenti-  lendo fin che si transfuse del tutto nel tipo  novellistico della fanciulla che l'eroe libera di  prigionia, ama e sposa. Gli era stata al fianco  nella lotta, in gara aveva lanciato i sassi contro  il ketos avanzante dal mare, — e un vaso del  secolo sesto ce raffigura nell'atto sgraziato del  lancio, — constringendole e movendole le membra  l'animo pugnace. Fu poi dinanzi al prode, premio  insigne alla vittoria, bella non forte. Allora, di-  venne indispensabile giustificar la cattività della  fanciulla, motivar la lotta di Perseo contro il  mostro a liberarla : e Cassiepea servi allo scopo.  n vanto della " millantatrice „, dalle Dee offese  punito nella vita giovine e florida della figlia,  — Andromeda fu tramutata in sua figlia, —  sarebbe appunto stato la causa prima del peri-  colo orrendo e della pugna eroica. Per tal modo  tutto l'aspetto originario dell'episodio è alterato,  nel profondo. La seconda forma possiede la vita  che non la prima. E individuata come non la  prima.   Da l'una a l'altra segna il passaggio Andro-  meda trasformantesi, e accanto a lei resta Cefeo  che con lei si evolve. Ma se questi sono di tal  mito i personaggi caratteristici, i fondamentali  sono Perseo e Cassiepea. Cassiepea e Perseo prevalsero pure, sembra,  in un'altra leggenda differente di origine. Pro-  tagonista è qui Fineo : divinità del fosco setten-  trione di cui le saghe lumeggiarono due aspetti  opposti. Benefico e malefico egli può esser difatti :  secondo che dietro lui muova il rigente turbine  del nord a offuscare le chiarità solatie ; o che la  freschezza dei suoi vènti temperi l'afe estive ri-  cacciando a mezzodì gli affocati avversarli che il  Sole suscita su l'equatore. Quest'ultimo carattere  fu, in vero, la base del racconto, giusta cui egli  sarebbe stato fin nelle sue sedi assalito dalle  Arpie, mostruosi uccelli, mossegli contro da  Elios ene sarebbe perito senza l'intervento de'fìgli  di Bòrea i quali respinsero le moleste e perse-  guitarono a ritroso fin là dond'erano venute. In  tutto parallelo al formarsi di questo mito delle  Arpie, ma mosso da principio diverso, fu il for-  marsi della nostra saga intorno a Fineo. Contro  di lui il Sole non si sarebbe levato col maleficio  deleterio de' suoi vènti meridionali, ma con la  forza purificatrice dei suoi raggi chiari: per  vincerlo, non per esserne sopraffatto. Non l'au-  tunno sopravviene, nella nostra leggenda, a miti-  gare le ardenze della riarsa estate ; si la prima-  vera a dissipar le brume e i geli foschi dello  inverno.   Ora l'eroe solare che trionfa del re nordico  fu, — sembra, — appunto Perseo, in singoiar  duello. E cotesto embrionale racconto, cercò, e  trovò, un motivo in Cassiepea : ancor una volta  pare che il vanto di lei fosse addotto a spiegar  la sorte inferiore di Fineo, — suo figlio : figlio  per vero alla donna ce lo testimonia l'epica che  si dice da Esiodo. Col che si ottenne anche  di fornire compiutezza romanzesca alla favola,  quando il significato naturalistico ne andasse  smarrito. C era dunque la materia , idonea a  produrre, ove uno spirito creatore trovasse in sé  il levame opportuno, un mito pur esso drama-  tico né meno denso di bellezza poetica. In vece,  prima ancora che riuscisse a comporsi in opera  ben delimitata, fu travolta e assorbita in diverso  complesso. Però che i due intrecci di Andromeda e di Fineo,  ne' quali entrambi Perseo e Cassiepea appari-  vano non pure nell'identità de' nomi ma e nella  analogia degli uffici, non potevano rimanere  distinti: e tanto meno potevano se, — come non  è provato ma è forse da ritenere, — un mede-  simo suolo li generava. Si com penetrarono di-  fatti fin che divennero una narrazione sola in  cui gli elementi delle due generatrici sussiste-  vano tuttavia presso che integri, là sol tanto  alterati ove fosse parso inevitabile alla logica  della commessura. Rimase il duello fra Perseo  e Fineo; rimase la discendenza di Andromeda  da Cassiepea: ma,  e fu il segno della con-  nessione fra le 'due saghe indipendenti,  la  causa della lotta fra i due eroi, fu rintracciata  non più nel supposto vanto d'una madre, ma  nella stessa precedente vittoria di Perseo contro  il ketos e nelle successive nozze. Fineo, si disse,  sarebbe stato il promesso sposo di Andromeda  avanti la venuta del giovine liberatore: cosi  ignavo prima a soccorrerla, come presuntuoso  poi nell'accampare diritti di precedenza. Inascol-  tato ricorse, ancora si disse, al coperto agguato con l'armi. Fu abbattuto. Cosi si conchiuse questa  fiaba di doppia scatuiigine : senza che nulla dei  due miti che vi si fusero (su Cefeo l'uno e An-  dromeda, su rineo r altro) andasse perduto,  tranne il nesso di maternità fra Cassiepea e  Fineo.   Chi confronti ora da un lato l'avventura me-  dusèa di Perseo con l'assistenza di Atena ed  Ermes, e l'impresa d'altro lato avverso il ketos  con il premio della vergine e il contrasto con  Fineo ; e si fermi alla superfìcie variopinta dei  due episodii, senza indagarne il significato re-  condito ; non vi trova pili tracce di quella simi-  gliali za che le saghe della "Maschia,, e della  Gorgone rendeva pallide entrambe ; bensì li av-  verte dramaticamente diversi, materiati entrambi  di moti sentimentali ma or verso la madre Danae  or verso la liberata Andromeda; di cimenti pe-  rigliosi ma ora contro Medusa spietata ora contro  la famelica belva ora contro l'imbelle ostinato.  La cosi ottenuta diversità formale, permise a  chi volle aggruppare intorno al nome di Perseo  tutte le vicende di lui, di comporre queste due  in ordine insieme con la nascita dell'eroe e la  uccisione del nonno Acrisio. — Un'opera siffatta  fu compiuta da Ferecide, il quale ci trasmise  tutto il mito, nel suo insieme organico, e di-  venne per tanto la base prima d'ogni ricerca  costruttrice (1). Ne possediamo un sunto per opera d'uno scoliaste; lacunoso, j)erò, onde è  necessario integrarlo col testo del ben più tardo  Apollodoro. Non ridaremo qui la trama disa-  dorna. Essa non è più per noi, nella forma con  cui ci pervenne, il corpo, plasmatosi dopo la  lunga gestazione per effetto della sintesi nar-  rativa; ma è, di quel corpo, lo scheletro. Dalla  nascita misteriosa vediamo Perseo compiere ,  dopo l'infanzia trascorsa in Serifo, le sue av-  venture, la medusèa e l'etiopica, per ritornar-  sene in Serifo a impietrar Polidette e in Larisa  a uccidere per equivoco Acrisio, stabilendo poi  in Tirinto il suo regno, che Argo gli era di-  venuta infesta. Ma effetto dell'esser stata rac-  colta in sintesi la serie delle gesta eroiche di  Perseo non fu solo di fargli attribuire per  arma contro Fineo il capo della Gorgone o di  condurre sul trono di Argo Andromeda re-  gina; ma fu, più tosto e meglio, di sottraiTe  all' episodio del ketos ogni vita autonoma :  valse esso qual momento d'una complessiva  azione ed ebbe valore di conseguenza da un  lato, di premessa da l'altro. Parte d'un tutto,  doveva dal tutto ricever sua norma e sua im-  portanza: fin che al meno non ne fosse mu-  tato il sostanziai contenuto; e l'essenza sua  romanzesca, — gradita a' novellatori, tanto più  quanto più di fatti si 'arricchiva la trama, di  particolari le vicende, di gesti le figure, — non  si trasformasse in essenza diversa.   Nel molto che andò perduto eran certo forme  varie di cotesta indispensabile trasformazione.  Una ne ravvisiamo tuttavia appresso gli storici del secolo quinto (1). Per essi la favola  di Perseo e Andromeda acquista una impor-  tanza nuova di reliquia fededegna serbata a  traverso gli anni. La cagione è un avvicina-  mento verbale : uno de' consueti di cui si com-  piacque la fantasia degli anticM nel conato  e nella pretesa di farsi pensiero critico : fra  Perseo e i Persiani. L' analogia non etimolo-  gica ma fonica indusse a ritener quello capo-  stipite di questi: non direttamente però, si bene  per mezzo d'un figlio suo di cui fu coniato  il nome " Perse „ per più di verisimiglianza.  A dar poi un aspetto anche meglio credibile  alla congettm^a fu addotto il nome d'impronta  ària di cui doveva esser memoria fra i Persiani,  " Artèi „: questo ritenendosi epiteto primitivo ;  quello, posteriore, tolto dall'eroe e dalla sua  discendenza. Naturalmente si lasciò, a tal fine,  sbiadire fino alla scomparsa il ricordo degli  Etiopi, sudditi di Cefeo nella più antica saga:  però che essi si riconoscessero, in quell'epoca,  or mai identici a reali " Etiopi „, situati al sud  dell' Egitto. In luogo loro si coniarono i " Ce-  fèni „ desumendoli, come traspare, dall'ap-  pellativo medesimo del re. E si pensò che a  Cefeo succedesse nel regno il nipote Perse, figlio  di Andromeda e Perseo ; che Perse, guidando i  Cefeni, li conducesse a sottometter gli Artei ;  e il popolo fuso dei vincitori e vinti da lui  si denominasse Persiano. La garbata ricostru-  zione critica non fini in questo : perché, difatti, i Cefeni con Perse sarebbero mossi a sottoporsi  gli Artei? La risposta si trovò combinando  questa congettm:"a con un'altra. Oltre ai Caldèi  semiti che avevan sede intorno a Babilonia,  eran noti altri Caldei abitanti lungo il Ponto,  presso i Mariandini e i Paflàgoni; e il gruppo  esiguo di questi si riteneva un ramo da quelli  staccatosi in età antichissime. Poiché inoltre  sul Ponto la leggenda delle Arpie affermava  abitar Fineo fratello di Cefeo e principe per  tanto dei Cefeni; fu facile dire che i Cefeni  avevano abbandonato la regione loro, allor  quando da Babilonia i Caldei eran mossi verso  il nord. E costrurre quindi in un sol tutto la  trasmigrazione totale cosi: da Babilonia si di-  parte una schiera di Caldei ad occupare la  terra settentrionale dei Cefeni e scaccia questi ;  che si spingono verso gli Allei, li sottomet-  tono e insieme divengono il popolo de' Persiani.   Se non che questa mitopeja di eruditi pur  riuscendo a staccar l'episodio di Andromeda in  singoiar guisa dalla leggenda di Perseo, infon-  dendogli una essenza nuova dissonante dal resto  della fiaba , finiva però in una soppressione  dell'avventura. La venuta di Perseo fra i Ce-  feni, la lotta col ketos, le nozze con Andro-  meda, il duello con Fineo, sono un niente a  petto della conseguenza precipua su cui ogni  altro fatto s'impernia : la nascita di Perse. Le  premesse non hanno più vita artistica; le con-  seguenze, ne hanno una storica. Una pseudo  realtà nasce; ma la bellezza muore.   Per tanto, se le gravi lacune del nostro pa-  trimonio letterario troppo non ci traggono in inganno, l'episodio di Andromeda, che nacque  dal combinarsi di esigui intrecci leggendarii»  emergenti a lor volta su da rigide abitudini  mentali e in mezzo a consueti aspetti della  fantasia mitopeica, non solo perde presto la  sua autonomia col commettersi ad altre vicende,  ma indugiò a svincolarsi da F impaccio, e a cir-  coscriversi in forma e colore : a bastanza, perché  il senso critico lo adulterasse e , un poco , lo  vituperasse.     n. — Euripide.   Fu sorte della tragedia dare a esso episodio  di Andromeda il contenuto nuovo : che non fu  né romanzesco né storico ; ma psicologico. Di  altri non ci rimase sufficiente notizia. Di Euri-  pide possediamo i frammenti bastevoli a rico-  struire il drama, se non ne' suoi particolari di  arte e nelle sue forme di tecnica teatrale, certo  nelle sue linee maestre (1).   Era consuetudine ferrea che la tragedia nei  suoi episodii svolgesse un mito. Ma in quale  modo i tragedi pervenissero all' elezione del  tema e alla scelta dell'argomento non è possi-  bile dire, per la oscurità imperscrutabile de' pro-  cessi artistici tal volta inconsci, e per la penui'ia I frammenti, naturalmente, son citati  e tradotti su Nauck Fragmenta tragicorum graecorum^  (Lipsia 1889).  delle notizie tradizionali. Sol tanto si può con  qualche chiarezza intendere come il problema di  arte si presentasse al poeta allor quando si ac-  cinse a elaborare la fiaba di Perseo e Andro-  meda ; come, in somma, lo spirito di lui pren-  desse possesso, nell'impeto creatore, della materia  leggendaria. Nel mito del ketos si trovavano fusi,  come ai)pare dal testo di Ferecide, due elementi  distinti : e l'uno era il divino, palese nel potere  singolare della Gorgone e nel volo miracoloso tra-  verso l'aria, segni d'una forza mossa da l'alto per  consenso di Dei ; e l'altro era l'umano, sensibile  nell'amore dell'eroe con la fanciulla, nel corruccio  di Fineo, nel vanto di Cassieijea, nel patto nu-  ziale di Cefeo. Entrambi cotesti elementi trovano  la loro unità in un terzo, che è, in somma, del  mito il carattere eroico e la forma romanzesca.  Euripide adunque ebbe , dinanzi al suo pen-  siero, l'umano, il divino, l'eroico. Di questi, uno  suscitava spontaneamente il suo più vivo inte-  resse. Non solo difatti egli staccava nella tra-  gedia l'episodio mitico dalla serie narrativa sua  I)ropria; ma lo indirizzava al fine, eh' è di tutta  la dramatica greca, di appassionare non la fan-  tasia bensì il sentimento degli sf)ettatori; e lo  sottoponeva all'esigenza di \àbrare per pregio  e forza intrinseci non per smaglianza esteriore  di tinte. Le menti in cui il mito ora si accoglie,  come sono ben lontane da quelle che l'hanno  creato dinanzi la natura e complicato in novella,  cosi son anche più mature dell'altre che ne han  goduto, con puerile compiacenza, lo straordinario  e l'impossibile. Per certo le più antiche e le  moderne cerca van tutte nella saga una verità ;  ma la verità naturalistica e la verità eroica non  appagavano ora quei cittadini di Atene che vi  desideravano una verità psichica. Ora, con si fatto  spostarsi dell'interesse mitologico, il colorito ro-  manzesco che un tempo riusciva opportuna o  indispensabile commessione fra i due diversi  elementi della fiaba, sopravviveva adesso, in-  sieme col divino, quale materia in apparenza  superflua. In qual maniera difatti allivellare  sopra un piano medesimo una gesta miracolosa,  un affetto terreno, un intervento di Dei? E  ovvio però che il poeta non vide, come qui cri-  ticamente si espone, il suo problema; ma che  lo intui da artista. A punto per questo egli non  ebbe un modo costante di risolverlo in tutte le  sue opere; ma il genio gli soccorse, or peggio  or meglio, di volta in volta, e a seconda dei casi  in guise diverse.   Poiché ci sono rimaste nella loro integrità  V Elettra ch'è del 413 e V Elena ch'è di quel  medesimo 412 da cui V Andromeda si data, in-  trawediamo a bastanza la vita dello spirito  euripideo nel torno di tempo in cui la sua arte  tentava il nodo mitico di Perseo. Il nucleo primo cosi dell'una come dell'altra  tragedia è un contrasto di passioni. Elettra ed  Oreste che, contro ogni vincolo di stirpe, per     (1) L'analisi, che segue, del pensiero religioso e so-  ciale d'Euripide intorno al 412 è fatta di sul testo (edi-  zione Murray Oxford s. a.) di&WEletta e AqW Elettra ed  emana da quello. Di più cfr. § Vili. vendicare il padre uccidono la madre ; clie odiano  fino a darle la morte la donna da cui nacquero,  ma le sono tuttavia carnalmente congiunti, cosi  che col sangue di lei scorre nelle lor vene una  indicibile virtù di amore e rispetto : proten-  dono da la scena una dolorante maschera umana ;  fraterna con la grande pallida faccia intenta  dagli scanni del teatro. — E quando Menelao re-  duce da Troja naufraga su le spiagge d'Egitto  recando con sé la riconquistata Elena ; e vi s'im-  batte nell'Elena vera, quella che gli Dei re-  carono celatamente in Egitto, mentre un vuoto  simulacro fuggiva con Paride e presedeva alla  decennale guerra; e la gioja irrompente per la  ritrovata sposa s'urta nello spirito del principe  con lo sconforto per i travagli sopportati in  vano e la vita gittata in vano da centina] a di  prodi : allora con la sua s'agita la sorte di tutte  le creature terrene, cui piacere e sofferenza giun-  gono inseparabili per tramutarsi a vicenda l'uno  nell'altra.— E in queste situazioni palese l'immer-  gersi dell'artista nella sostanza dei personaggi,  nella correntia delle vicende, con un oblio com-  pleto di tutto l'estraneo : stolto cercarvi un si-  stema filosofico applicato, co' suoi postulati ge-  nerali, ai casi particolari. Qui l'uomo è espresso,  dal profondo, con la freschezza d'una polla cui  s'apra nel terreno la via. Ma di qui non è pos-  sibile indurre riferimenti con l'ambiente storico  del poeta o, peggio, conseguenze intorno allo  stato psichico di lui in quegli anni; ma solo  intorno al consueto modo della sua forza d'arte.  L'animo di Euripide si rivela più in là. In  quello anzitutto che dalla tradizione egli accettò. ANDROMEDA Giacché nei miti di Clitemestra uccisa e di  Elena in Egitto erano affermati fatti ch'egli non  poteva respingerené poteva non alterare. Tali  l'oracolo delfico di Apollo, che avrebbe imposto  a Oreste di compiere l'esecrando delitto ; e l'or-  dine di Zeus, che Ermes recasse di nascosto  Elena in Egitto e un simulacro inviasse a Troja,  permettendo sperpero immane di energie e va-  lore. Cotali interventi divini eran la premessa  indispensabile dell'azione ; divennero per Euri-  pide radice di nuova tragicità : però che, tanto  più gli parve orribile il delitto di Elettra, in  quanto era ineluttabile ; e in quanto voluto dal  Dio sommo, tanto più spaventoso il vacuo scempio  di vite intorno ad Ilio. Sotto questo aspetto  adunque le parti divine della tragedia si con-  nettono per lui strettamente con il travaglio  umano ; ma costituiscono una forza cieca e  buja contro cui bisogna urtare : simile al peso  corporeo che non s'evita con gli slanci dello  spirito, all'aderenza col suolo che non si sopprime  con i trovati dell'ingegno.   Onde il poeta accettò l'oracolo di Apollo ; ma  chiese ' come potè il Dio saggio ordinar cose  non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri,  "Febo Febo... — taccio: certo egli è saggio;  ma vaticinò cose non saggio „ (1) : o sia non ri-  spose. E anche si domandava, e fece suo inter-  prete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei  e fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non  distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi     (1) Elett. vv. 1245-6.  rispondere con una parola ch'è poco o molto,  àvdyxr] " Necessità „ (1). E chiaro : il suo spirito  s' è formato un concetto alto della divinità :  giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non  può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia,  né alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene :  e quel concetto urta contro le affermazioni del  mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta;  non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta per-  plesso ; non decide, ma porge intatta la que-  stione al pubblico , dopo averla agitata col  prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di in-  telligenza.   Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si  comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite  ha voluto il ratto della bellissima per opera di  Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di  conseguir il fine, e a Paride concede una par-  venza di quel corpo che nella realtà si cela ap-  presso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa  delle feminette continua ; e mentre la dea amante  vuol Elena sposa di Teoclìmeno, successo a  Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva  e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su  la terra fra tanto, uomini e donne, migliori che  gli " abitatori delle case olimpie ,,, procedono  secondo purezza di virtù : Elena si mantiene  fedele al marito lontano e sopp ' come potè il Dio saggio ordinar cose  non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri,  "Febo Febo... — taccio: certo egli è saggio;  ma vaticinò cose non saggio „ (1) : o sia non ri-  spose. E anche si domandava, e fece suo inter-  prete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei  e fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non  distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi     (1) Elett. rispondere con una parola ch'è poco o molto,  àvdyxr] " Necessità „ (1). E chiaro : il suo spirito  s' è formato un concetto alto della divinità :  giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non  può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia,  né alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene :  e quel concetto urta contro le affermazioni del  mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta;  non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta per-  plesso ; non decide, ma porge intatta la que-  stione al pubblico , dopo averla agitata col  prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di in-  telligenza.   Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si  comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite  ha voluto il ratto della bellissima per opera di  Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di  conseguir il fine, e a Paride concede una par-  venza di quel corpo che nella realtà si cela ap-  presso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa  delle feminette continua ; e mentre la dea amante  vuol Elena sposa di Teoclìmeno, successo a  Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva  e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su  la terra fra tanto, uomini e donne, migliori che  gli " abitatori delle case olimpie ,,, procedono  secondo purezza di virtù : Elena si mantiene  fedele al marito lontano e sopp orta paziente  l'ignominia che cade sopra lei incolpevole, con-  fusa con il simulacro ; Teonoe, sorella di Teo-  climeno, ajuta lei nel proposito, non il fratello     (1) Elett. vv. 1298-1301.  ne' suoi tentativi di coniugio ; Menelao è onesto,  cortese e affettuoso. Che dunque ? Cotesti iddii  sarebbero d'assai più piccini, nell'animo, che i  terreni ? risibili ? Eui'ipide non dice. Anche qui  il problema si formula ; ma nulla lo risolve ;  nessun raggio fende il cumulo nero nel cielo.  Osserva il Coro (1) : " Chi è dio, chi non dio, chi  semidio? qual fra i mortali, anche spingendo  molto lontano la sua ricerca, dirà di saperlo?  quale, dopo aver visto l'opere divine or qua  or là balzare con contradittorie e inaspettate  vicende? ,,. Nessuno risponde.   Questo silenzio è una tragedia a sé. Non si  svolge materialmente su la scena, accanto i per-  sonaggi sé moventi, ma è nello spirito del poeta,  ed è a noi non meno fraterna. Ben sua, la se-  conda tragedia, più che la prima. Non di com-  passione, di simpatia geniale verso la sofferenza  d'un'Elettra o d'un Menelao ; ma di spasimo e  strazio interiore. E la tragedia del dubbio. La  quale nasce ad Euripide nel seno medesimo della  sua arte, lungi a ogni filosofìa. Il suo pensiero  di critico e filosofo, nel fatto, ha superato or mai  la concezione omerica e infantile degli Dei, non  vi crede ; l'ha sostituita con una più matura.  Ma, poeta, vi deve credere per rivivere il suo  mito, che rivivere gli bisogna per crear il drama.  Poeta, sente l'urto fra le due idee; se ne tor-  menta : ripete a chi l'ode la favola bella degli  antichi, fa trasparire a chi l'intende la sua filo-     (1) Elena tv. 1136 sgg.    sofia ; questa e quella compone, senz'accordo  logico, entro il suo affanno.   Ma oltre agl'interventi divini, che la tradizione  postulava nel mito, ed Euripide accetta trava-  gliandosene ; sono neW Elettra e, di più anche  hqW Eìena^ giunte che il poeta solo volle e in  cui espresse il pili personale tra' suoi aneliti ;  intrusioni sgorgate da un animo che, non pure  assorbe in sé per rielaborarla la saga, ma nella  saga si profonda e si abbandona, anche con  quelle forze e ricchezze che le sarebbero estranee.   Tale s'originò nel drama di Clitemestra la  figura del contadino, povero e rozzo, ma pur  squisito di sentimenti e schietto di azioni :  VaixovQyóc,, a cui Elettra sarebbe stata costretta  in sposa dalla madre, la qual ne temeva i figli  se nati da nobile genitore. Egli, come apprese  la condizione della fanciulla che gli veniva de-  stinata e gli scopi della regina, fece rinunzia a'  suoi diritti coniugali, pur continuando ad ospi-  tare nell'umile sua capanna la donna e fìngendo,  per eluder la maligna, nozze felici. A lui, quando  aijpare su la scena verso l'alba e l'ultime ombre  son vinte da le prime luci, fanno sfondo i campi  arati e le file degli alberi e i freschi pozzi : la  Terra, la grande generatrice di frutti buoni e di  forze sane. Dopo, ogni suo gesto è virile e so-  brio, contenuto e cordiale ; il suo spirito si rivela  semplice perché diritto : e mentre Elettra ed  Oreste si laniano di x^assioni, di odii, di paure,  egli va crescendo in valore fino a superarli nella  sua persona salda e nel suo fermo polso. Né  basta. Il poeta, sottolineando sé stesso, richiama  gli sguardi su la sua creatura : e ad Oreste fa   A. Feekabino, Kalypso. 5   esclamare con maraviglia un poco attonita:  "Ahimé! Non v'ò criterio alcuno a distinguere  la nobiltà : v'è scompiglio nella natura degli  uomini. Ecco io vidi esser da nulla il figlio di  padre generoso; e rampolli onesti di genitori  perversi ; la penuria nello spirito d'un ricco ; la  magnanimità in un corpo povero. C'ome orien-  tarsi ? secondo il danaro ? mal fido criterio  questo sarebbe : secondo la povertà ? ma la mi-  seria è una malattia, cattivo maestro è il bi-  sogno : secondo l'esercizio dell'armi ? ma cM  risguardando a la lancia giudicherebbe qual  sia il virtuoso ? Meglio sembra lasciare inde-  cisi codesti problemi. Costui per esempio grande  non è fra gli Argivi [VadTOVQyóg], non insigne  per rinomata schiatta : è uno dei molti : e pure  si rivela ottimo „. Ottimo si che la sua onesta  figura divien quasi di maniera e par disegnata  per dimostrar una tesi o attingere uno scopo.  Quale tesi o quale scopo si propose Euripide  nel concepirla e nello stagliarla?   Non meno larga che neìV Elettra è nelV Elena  la novità introdotta. E anzitutto nella scelta  medesima della favola : un mito secondario che  risale a Stesicoro (2) e che, a lato della principal  leggenda di Menelao e Paride a Troja, sem-  brava destinato a viversi gramo nell'oblio. Il  tragico lo preferi per motivi ch'è vano indagare;  che forse si assommano nel desiderio di met-     (1) Elett. vv. 367 sgg.   (2) Cfr. Bethe Helene in Pauly-Wissowa " R. Encyclo-  pàdie , VII (1912) pag. 2833. terne in risalto il singoiar contenuto. La donna  bellissima che, secondo la tradizione diffusa, sa-  rebbe stata causa unica di ire e guerre per un  decennio, di sventure ed errori per altri dieci  anni di poi ; la donna su cui pittarono tutti gli  strali dell'ironia del sarcasmo e fin dell'odio i  poeti misogini ; è di colpo trasformata nella più  pura e casta moglie che fiaba conosca. Ella ha  giurato a Menelao di " morire ma non mai vio-  lare il letto „ (1) ; né ha giurato in vano, che di  morire è sul punto, e attiene la parola, ed è  beata di cadere, — dice al marito, — " vicino a  te „ (2). E a lei fa degno riscontro (forse troppo)  il coniugale amore di Menelao ; che le afferma  " Privo di te, io finirò la vita „ (3). Onde sol più  li preoccupa di scomparir degnamente cosi " da  acquistare gloria „ (4). Ora tanta fedeltà di af-  fetti traverso anni e vicende acquista il suo più  vero significato quando venga contrapposta al-  l'adulterio di Clitemestra verso Agamemnone,  di cui era intessuta l' Elettra. Fra questa di-  fatti e V Elena le attinenze sono indubbie, non  pure cronologicamente, ma anche, e si direbbe  più, spiritualmente : su la fine difatti di quella  prima viene annunziato e svolto in breve il  tema della seconda (5). E le attinenze diven-  gono palesi quando le due cognate si parago-  nino fra loro e le due sorti. Clitemestra non è  presso Euripide se non la malvagia donna : tale  la condanna Elettra che le rinfaccia il lusso e i     (1) Elena v. 836. (2) Ih. v. 837. (3) Ih. v. 840.  (4) Ib. V. 841. (5) Elett. v. 1278 sgg.    vezzi durante l'assenza del re. Si difende ella  bensì rimproverando ad Agamemnone l'uccisione  di Ifigenia ; in vano : " la moglie bisogna che, s'è  savia, tutto consenta al marito „ (1); non è giustoj  per una figlia, ammazzar lo sposo, uomo insigne  nell'Eliade (2). No, — osserva sdegnata Elettra,  — tu nascesti cattiva (3) : " tu, prima che fosse  decisa l'uccisione della tua figlia, lontano appena  da le sue case il marito, intrecciavi allo sj^ecchio  le bionde trecce della tua chioma „ (4) : e " la  donna che, assente il marito, adorna la sua bel-  lezza, si cancelli come cattiva „ (5). Appropriato  amico di cotesta non buona, figura Egisto, non  prode, non nobile, ma ambizioso della sua grazia  corporea e avventurato sol tanto fra mezzo alle  donne. C'è dunque nelle due tragedie il riscontro  fra due coppie : riscontro a base morale, ma in-  trodotto dall'arbitrio dell'artista in miti privi  d'ogni cosi fatta preoccupazione. E perché intro-  dotto? perché l'arbitrio?   Alla domanda che per la seconda volta in  breve esame ci si presenta non si deve rispon-  dere se non dopo aver rilevato un altro parti-  colare. Il Nunzio, veduto vanii*e in fumo il  simulacro d'Elena e ridursi in nulla sforzi du-  rissimi e sacrifìzii immensi, si accende di sdegno  contro gl'indovini che, prendendo parte all'im-  presa, non scorsero la verità, non svelarono il  comune abbaglio, né evitarono vittime inutili.  Dice al suo Signore : " Vedi quanto l' opere Elett. V. 1052. (2) Ih. vv. 1066 sgg. (3) ib. v. 1061.  (4) Ib. vv. 1069-71. (5) Ib. vv. 1072-3. degli auguri sono stolte e menzognere!... Cal-  cante non disse né rivelò all'esercito vedendo  gli amici morire per una nuvola ; e né pure  Eleno : e la città fu predata in vano. Dirai forse,  che un Dio non volle. E perché allora ci rivol-  giamo agli auguri ? agli Dei basta far sacrifizio  invocando fortuna ; e non badar ai vaticinii :  furono inventati ad allettaménto della vita, ma  nessun ozioso divenne ricco per gl'ignispicii. Il  senno e il buon consiglio sono l'augure mi-  gliore „ (1). Per contro è nella tragedia perso-  naggio, non pur dramaticamente notevole, ma  anche moralmente insigne, Teonoe sorella di  Teoclimeno, la quale dagli Dei possiede la virtù  di saper tutte quante cose avvengono ; è quindi  invasa da una potenza profetica analoga alla  magia d'un Calcante o d'un Eleno. Ma ella è  buona, ella è giusta, ella è savia : sa, ove occorra,  tacere al fratello gli avvenimenti più vicini af-  finché trionfi la fede amorosa di Elena e Me-  nelao. Perché aver creato questo contrasto ? Che  non è fittizio né casuale : Euripide parla cosi  per bocca del Nunzio come per bocca de' Dio-  scuri lodanti Teonoe : esprime in entrambi i casi  il suo più soggettivo pensiero.   In questo suo pensiero sta di fatti la ragione  e dell'esser stato concepito VadxovQyóg, e della  purezza di Elena, e del dissidio tra le due forme  di vaticinio. Il poeta è percosso da un'unica ansia,  di cui quelle son le forme momentanee ; è morso     (1) Elena vv. 744     da convinzioni contradittorie, di cui quelli sono  gl'indizii occasionali.   Egli appare un moralista. Ecco i personaggi  per cui parteggia con simpatia : una moglie  onesta, un marito fedele, un'indovina equa ; la  figura che crea con compiacenza paterna : un  lavoratore dignitoso e saggio ; gli esseri che av-  versa acre e violento : un bellimbusto galante,  una feminetta vana, un augm'e stolto. Da un  lato coloro che rientrano nel suo concetto del  bene e del giusto ; dall'altro quelli che appar-  tengono al suo concetto del male e dell'iniquo.  Ed è dicevole : nessuno può disconvenire sul  principio che regola la sua morale ; solo la  espressione può venirne discussa.   Ma quando gli si scruta più dentro nell'animo  ci s'accorge che quel bene e quel giusto egli  vuole a prò dello Stato, che VavtovQyóg egli re-  puta degno e capace di governare la pubblica  cosa, che di mariti e di mogli simili ad Elcna  e Menelao gli piace constituita la polis a scopo  di fermezza e quiete politica. Ci s'accorge che  il suo occhio mira più in là d'una teoria morale:  mira, fiso e intento, ad Atene, alla patria. Mentre  scrive, navi e uomini ateniesi sono in pericolo  in Sicilia : pericolo grave che si tramuterà di K  a poco in disastro immane. I Dioscuri si affret-  tano a conchiuder V Elettra perché debbon " sal-  vare le prore nel mar siciliano „. Il Peloponneso  minaccia dal Sud. Negli altri territori! la sorte  non volge migliore. E all'interno ? E peggio. La  democrazia non dà buoni frutti dopo la morte  di Pericle. Il partito de' temperati si alterna nel  potere con quello degli estremi : ed è tale la     EURIPIDE 71     sfortuna di Atene che gli uni non attingono il  governo se non quando le disfatte han dimo-  strato rinettitudine degli altri, e non son per  per lasciarlo fin che disastri non li colpiscano  a lor volta. Ogni mutamento è una esperienza;  ed ogni esperienza, fruttifera di tosco (1). Sopra  tutti, male comune nell'inettitudine comune, si  stende la piovra della cupidigia, la sete del gua-  dagno a ogni costo e in ogni modo. Corrono  massime cui ciascuno informa l'opere se non le  parole : ' beato chi è ricco ', ' la ricchezza è po-  tenza ', ' il ricco è libero, anche se schiavo ; il  povero è servo, anche se cittadino'; 'l'uomo è  il danaro '. E la sete inesausta travolge ognuno  in una lotta, ove il pregio morale non conta,  la forza intellettiva non importa più che il tesoro  cumulato ; forse meno. Aspra e grovigliata situazione adunque ; dif-  ficile a risolversi. Che per risolverla bisognava  superarla ; piegar la realtà possedendola sino al  fondo, conoscendola in ogni forma ed esigenza.  E difatti voci di riforma e tentativi d'un ri-  volgimento costituzionale serpeggiavano e fer-  mentavano all'oscuro : si preparava la rivolu-  zione dei Quattrocento. Il lievito che era in tutta  la materia sociale toccò Euripide ; il suo spi-  rito ne fu macerato e sconvolto : però che contro  l'immediata e ineluttabile realtà dello Stato, ine-  riva il suo ideale con i pallidi sogni. Egli non Cfr. su questi anni Beloch Attische Politik (Leipzig  1884). Naturalmente il rapido quadro che se ne dà qui  è veduto con gli occhi di Euripide.  segui né l'uno né l'altro dei partiti. Fu in vece  con la classe di mezzo. Ebbe il cuore con gli  adxovgyoi della sua fantasia, con l'Elene e i Me-  nelai del suo mito. Trasfuse l'esigenza politica,  che il suo genio d'artista non poteva né doveva  sodisfare, in esigenza morale: spostando i pro-  blemi dalla sfera pratica a quella etica. E di-  venne malinconico di speranze deluse e rina-  scenti. A canto alla tragedia religiosa sussistette  nel suo spirito quest'altra: di patriota, di sta-  tista, che è a bastanza acuto per vedere i pro-  blemi, troppo poeta per saperli risolvere.Tragedia  flebile, nella quale confluiscono, — opportuna-  mente, — tutte quante le quistioni minori della  vita sociale e familiare ; le contese minute su  questa legge o quel decreto : le spine sparse  lungo i sentieri del grande roveto. Tale l'invet-  tiva contro gli auguri, secondaria piaga dello  Stato ateniese e di tutte le poleis greche, che  repugnava, ancor \)\\x che al suo intelletto di  filosofo evoluto, alla sua coscienza di cittadino  probo ; e il riscontro di Teonoe in cui il vero  dono divino si rivela appunto pel modo del suo  uso e la bontà delle sue conseguenze. " Attuale „  corruccio ancor questo: che favore di auguri  aveva secondato l'infausta spedizione siciliana.  Cosi tutta Atene può entrare, ed entra, nel-  l'animo del poeta per tal via: melanconico spi-  raglio alla più intensa vita.   Mirabile di intuito psicologico nell'elaborar la  materia umana del mito ; pensoso su' dubbii della Tucidide VII 50; Vili 1.religione e della filosofia ; preoccupato dalle  sorti politiclie e dalle condizioni sociali della  sua patria Atene : Euripide crea i drami fra l'urto  di due interiori tragedie. Crea, dopo V Elettra e  con VElena^ V Andromeda.   Il suo spirito si fece largo, sùbito, di fra i par-  ticolari minori e grinciampanti aneddoti della  saga ; e colse di questa il profondo cuore. Nel  pensiero di chi imaginò la lotta di Perseo col  ketos la tragedia era nel combattimento delle  due potenze avverse ; l'ansia, nell'esito incerto.  Nel pensiero di cìii raccolse, ordinando, tutta la  leggenda dell'eroe argivo e ne divenne mito-  grafo, la bellezza era constituita dal numero e  dall'intreccio delle gesta. Nel pensiero, ora, del  poeta di Atene, il pregio consistette nell'amore  di Perseo e di Andromeda : il congiungersi dei  due giovini fu ritmo fondamentale all'opera in  cui novellamente l'antico mito viveva. Ogni altro  elemento si dispose intorno a questo : dal quale  ebbero tutti l'armonia di composizione. Era il  primo flusso del nuovo sangue infuso nella  vecchia compagine: fu vigoroso ancor pili che  non sembri.   Come dichiarano i frammenti, a l'inizio della  tragedia appariva la fanciulla sospesa a una  rupe, in abiti di cerimonia festiva, mestissima e  piangente. I lamenti di lei Eco ripete da lungi;  non lontano è il mare onde la belva vorace  verrà al selvaggio convito ; sono li presso, in  Coro, fanciulle etiopi, le eguali di Andromeda,  che tentano vani conforti a la tremenda scia-  gm-a. E notte. All'alba il ketos deve sopravve-  nire. E nell'animo degli astanti la deprecazione del male imminente lotta con la tormentosa  ansia pel greve indugio : l'attesa gravita su i  capi come un mostro informe. " sacra notte,  qual lungo cammino con i cavalli percorri, reg-  gendo il tuo cocchio su gli stellanti dorsi del  divino etra, traverso il santissimo Olim^DO ! „ (1):  tale parla nei silenzii l'aspettazione. E il cuore  si ribella contro l'asprezza del fato e la trista  disparità del dolore : " loerché più larga parte  di mali Andromeda s'ebbe^ che misera è presso  alla morte ? „ (2). Il Coro s'impietosisce e tenta  il conforto dividendo il dolore : " perché chi soffre  sente alleviato il suo male, se del pianto fa  parte con altri „ (3). La sofferenza che sta nel  petto, senza sollievo, con la durezza della ma-  teria minerale, e non prorompe se non per voci  d'ira e suoni di sdegno, non a pena ha inteso il  moto compassionevole delle compagne, si di-  scioglie nella rievocazione lacrimosa di tutta la  vicenda : la vanità f eminea e il puntiglio divino  onde la fanciulla fu addotta, incolpevole, alla  pena. I presupj)osti dell'eiDisodio vibrano non di  forza narrativa, si di spasimo lirico : che si as-  sommano nel presente pianto della figlia pu-  nita, e di quel pianto s'impregnano. Ve su la  scena, nell'ambiente creatovi dall'arte, un'amara  voluttà del dolore stesso onde si soffre, e una  insistenza : non sposa a nozze, — e delle nozze  avrebbe diritto pel fiore della sua giovinezza,  — ma vittima a sacrifizio la fanciulla è recata;  non fra i cori delle compagne, si avvinta in funi     (1) Fr. 114. (2) Fr. 115. (3) Fr. 119. e tra il compianto virgineo (1). Ma a rompere  Tuniformità di questo tormento, giunge a tra-  verso l'aria con l'alato piede Perseo, reduce dal  rischio di morte incontro a Medusa: il capo ne  reca in Argo (2). E radioso della sua recente  gloria ; bello della sua giovinezza. Stupisce  prima : "" Dei ! a qual terra di barbari col   veloce sandalo siam giunti? (3) Che vedo?   Timagine d'una vergine, come scolpita da mano  sapiente tra i rupestri rilievi! „ (4). Si fa poi sol-  lecito. E richiede l'avvinta. Ma invano. " Tu  taci „ — la persuade — " ma il silenzio è inade-  guato interprete del pensiero „ (5). Non senza ran-  cuna son le prime parole di quella : " ma tu chi  sei ? „ ; se non che la forza stessa del dolore la  tradisce e senz'altro, per la veemenza del sof-  frire, non definisce audace colui che persiste nel  voler sapere, si comx)assionevole : " ma tu chi  sei, c'hai pietà del mio male ? „ (6). " vergine,  ho pietà di te che veggo sospesa „ (7). Ogni  freddezza si dissipa. Quel che d'ostile era an-  cora nelle parole della fanciulla si placa. Quel  che di vago era nell'animo dell'eroe si concreta. Fr. 117, 121-122. Convengo col Bethe " Jahrb. des  Arch. Inst. „ XI (1896) pa^. 252 sgg. che questa scena, nei  particolari esteriori, è rappresentata sul cratere del Beri.  Mus. Inv. N. 3237. Lascio indiscussa la quistione, però,   ntorno al coro che il Bethe riconoscerebbe nella figura  a sinistra di Ermes.   (2) Fr. 123. (3) Principio del fr. 124. Fr. 125, parafrasi. (5) Fr. 126. (6) Fr. 127.  (7) ibid. Inverto l'ordine dei due versi ipoteticamente  dato dal Nauck.   La frase dell'uno accende quella dell'altra ; si  susseguono rincalzandosi per armonizzarsi in un  concento unico di vivace simpatia vicendevole.  E alla fine la generosità dell'eroe, la quale si  forma adesso assai più nell'inconscio secreto del  cuore desideroso che nella vigoria dei muscoli  forti e pronti, erompe in promessa : " vergine!  s'io ti salvi, mi sarai grata?,, (1), Egli si è tradite-  la sua prodezza non vuole compenso per solito ;  la gloria gli è premio valevole. Ma quel che ora  chiede è più che una gloria : è il possesso ma-  gnifico, Andromeda intende ; se non che il suo  animo troppo è ancora tenuto dall'imminenza  mortale per abbandonarsi alla fede: teme d'il-  ludersi : e lo dice " Non m' esser cagione di  pianto, inducendomi speranze! „. La risposta, che  nasce da l'immensità del suo soffrire, può parer  dura al generoso offertore; l'istinto femineo se  ne avvede e la spinge a soggiungere : non per  colpa di te " ma molto può avvenire contro  l'aspettazione... „ (2), La speranza di campar la  vita non è nata o almeno non è del tutto salda;  è nata la fiducia in Perseo. Ma questi, in nome  del suo passato di vittoria, della sua strenua  energia, dell'animo bramoso che lo incende e gli  moltiplica le forze, riesce finalmente a trasci-  narla con sé nel sogno, a persuaderle certa la  liberazione prossima. E Andromeda allora lascia  ch'esca diritto dall'anima il grido di promessa  onde è dato al giovane, oltre l'avanzante mostro  oltre la minacciata morte, su la rupe triste sul     (1) Fr. 129. (2) Fr. 131.    mare vicino, gaudio maraviglioso : " Straniero !  e tu conducimi, come tu vuoi, sia ancella, sia  moglie, sia schiava ! Abbi pietà di me che soffro  tutto; mi sciogli dai vincoli! Perseo com-  batterà difatti il ketos sorgente da " l'Atlantico  mare „. E gli s'affollerà intorno " tutto il popolo  dei pastori : a ristoro della fatica, chi recando  una tazza d'edera colma di latte, chi succo di  grappoli „. I principi, " in casa, a torno la tavola  del banchetto „. Si vuoterà il xéÀsiog, la coppa  del salvatore (2).   Sùbito profondo si manifesta, in questa ch'è  la fondamental intuizione psicologica della tra-  gedia, il progresso rispetto al mito ferecideo. In  quello Andromeda non è più, nel suo intrinseco  valore, che una fronda di alloro o un raro cammeo  offerto da Cefeo al vincitore Perseo. La fan-  ciulla è mezzo nelle loro mani ; come è vittima  nelle mani di Cassiepea. L'anima le è sottratta:  meglio, l'anima non le è data. Euripide per  contro ne fa il centro della scena : plasmandola  d'una sostanza indipendente, la costituisce di  sensazioni affetti empiti ; e, conchiudendola in  una persona non comparabile con altre, la crea  fuor dalla materia ove si giaceva informe. Ella  gitta nell'aria lo spirito sofferente; eia natura  mesta le si accoglie d'intorno nel compianto di  Eco. Ella contrappone il proprio forsennato de-  siderio di vivere alla sorte tremenda che la vuol  morta ; e ogni volto, dal cielo dalla terra dal  mare, la guarda. E quando il giovine eroe giunge,     (1) Frr. 132 e 128. (2) Dai frr. 145-148.    la divinità di lui si menoma e si abbassa di-  nanzi la sventiu'a di lei: ella è chiusa in una  corazza dura di dolore, ed egli supplica. Poi,  tutto sembra invertirsi : nel riandar le sue glorie  Perseo si accresce, nel narrar la sua doglia An-  dromeda si piega in lacrime, e il giovane ve-  nuto per l'aria pare alla fine attrarre sopra di  sé, ch'è per affrontare il ketos, tutta la luce.  Ma è parvenza fallace. La vergine lancia al  fervido desiderio del prode il grido della sua  dedizione, — e si afferma per tanto di nuovo,  vivace, nella sua libertà che dalla passione forma  il volere, del volere compone il proprio decreto.  La " Maschia „ che nel primitivo antichissimo  mito ajutava d'opera e di consiglio Perseo contro  la belva, era più vigorosa corporalmente; non  era cosi forte nell'interiore spirito. Certo, nella  tragedia euripidea, una tanto geniale innova-  zione doveva sembrare anche anarchica urtando  contro le consuetudini legali e morali della vita  ateniese; e per ciò senza dubbio si dovette ve-  lare e temiDcrare agli occhi dei cittadini. E  chiaro che Cefeo interveniva in qualche modo,  o prima o dopo, a simulare la sanzione paterna,  e a ricomporre nello schema giuridico la mossa  ardita della figlia. E fine si manifestava forse,  in questo, l'arte del poeta. Ma s'ignora.   L'intervento, tuttavia, di Cefeo non fu senza  effetti. L'amore della vergine che prima della  lotta trionfale era come offuscato di paura e di  speranza egoistica se ben legittima, dopo si velò  di malinconia contrastando con gli affetti filiali.  " Conducimi con te „ aveva esclamato : dove ?  Lontano : in Ai'go, in Serif o. Ma ell'era unica al vecchio padre canuto : e la dipartita ne diveniva  grave, aspra la lontananza : era svèlta ancora  (da un eroe, sia pure, non dalla morte) alla vec-  chiezza di lui. Accanto al padre, la madre : col-  pevole, è vero, del rischio; madre tuttavia. Nel  doloroso contrasto levasi l'appello al dio che  travaglia, a Eros, il quale dovrebbe soccorrere  i mortali che affligge : " Ma tu, tiranno di uomini  e Dei, Eros, o non mostrarci belle le cose belle  o ajuta benigno gli amanti che penano pene di  cui tu sei l'artefice ! E, per tal modo facendo,  onorando sarai ai mortali ; non facendo, per lo  stesso insegnare l'amore, tu perderai la grazia  di che ti onorano „ (1). Calda invocazione che tanto  piacque al pubblico perché nella veemenza del-  l'amante incontro al Dio della sua passione tras-  pare il profondo gaudio, onde, pur nel soffrire,  non invoca la salute del morbo, ma un ajuto a  tollerarlo. Eros soccorrerà nel fatto : l'amore  vince.   Era ancor questa una giunta di Euripide al  mito. Ma secondaria: un che di convenzionale  la gravava ; non improntandola il segno del pen-  siero innovatore, ma parendo scaturir ovvia  dalla situazione medesima. Per ciò lo spirito del-  l'artista, inappagato, volle nutrir d'altro sangue  quel dissidio sorto dalla pietà e dall' affetto  e dirizzarlo a scopi diversi, più profondi o più  larghi. S'innestarono difatti sopra l'analisi psi-  cologica queir ansia pregna di preoccupazione Fr. 136, leggendo dvìjzots al v. 5. Cfr. § VII. politica, quel travaglio complesso di meditazione  sociale, che vedemmo costituire Tuna delle due  tragedie soggettive al poeta e tutta l'opera ma-  gnificamente arricchire. Quando l'ingegno di lui  crede di aver esaurito per una via la materia  psichica del dramma, una nuova senza indugio  gli s'apre : cessa di toccare la più schietta ma  generica umanità del suo pubblico, per eccitarne  peculiari moti e destarne i singolari interessi.  Parlava all'uomo : parla all'ateniese. E, al solito,  l'idealismo lo tradisce, conducendolo senz'altro  alla difesa della giovinezza e della passione, da  lui concette e atteggiate sotto la piti seducente  specie: a Perseo e Andromeda fa esprimere il  pensiero eh' egli dilige; a Cefeo e forse a Cas-  siepea spetta di combatterlo. Qualunque sia la  quistione giuridica o sociale o politica di cui è  per far cenno, dalla sola impostatura dei ter-  mini si comprende che Euripide, — anche una  volta, — aspira a risolvere una difficoltà em-  pirica col criterio non dell' utile e del pratico  ma del buono e del bello.   La quistione poi non è sola, si consta più ve-  ramente di due. I genitori della vergine s'ar-  mano oltre che dei proprii diritti sentimentali,  di sofismi ed argomentazioni. Il congiungimento  degli esseri si trasforma in un contratto econo-  mico: nel quale l'eroe detronizzato, e cresciuto  da la pietà ospitale, ha troppo palesemente la  peggio di fronte a le ricchezze dell'unica figlia  del fastoso re etiopico. Dice l'un parente : " Oro  io voglio sovra tutto avere nelle mie case : anche  se schiavo, onorabile è l'uomo ricco ; il libero, bi-  sognoso, a nulla riesce : l'oro riconosci causa della felicità! „ (1). Che importa forza di gioventù,  ardimento di cuore ? clie importa la gloria im-  mortale, per cui " già morto, già sotto la terra, sii  venerato ancora „ ? Nulla : " è vano : fin ch'uno  viva, l'agio gli giova „ (2). Né basta obiettargli,  con l'esempio recente, che si può per ricchezze  fiorire, e tuttavia giacersi nella sventura (3).  Risponde, al ricco anche la sventura esser più  lieve che al povero: già che quello non soffre  se non del presente ; questo " ogni giorno spa-  venta il futuro, che non sia dell' attuale il do-  lore avvenire più grande „ (4). Il dissidio fra la  fiducia idealistica e il materialismo gretto si as-  somma in una sentenza : " questa delle ricchezze  è la maggiore : nobili nozze contrarre „ (5). Eu-  ripide ha torto ; la ragion pratica lo deve con-  dannare, se pure lo asseconda il sentimento. Ha  torto tanto più quanto che egli ha lo sguardo non  al singolo caso svolgentesi su la scena, ma alla  plutocrazia d'Atene e alla cupidigia immorale  dei suoi concittadini. Ma se il fine propostosi dal  tragico non vien conseguito, un altro lo è, più  dramatico : di far sorgere il dubbio, di irritare  la piaga, di stimolare i cuori. La memoria è  recente della sconfitta tócca in Sicilia ; è vivo il  lutto de' numerosi uomini perduti ; dalle Latomie  di Siracusa gli urli de' suppliziati giungono an-  cora in Atene ; ognuno interroga l' imminente  destino; ma le risposte scavano inutili l'aria tor-  bida d'ansie. Su questi spiriti Euripide lasciando  Fr. 142. (2) Fr. 154. Cfr. § VII.   (3) Fr. 143. (4) Fr. 135. (5) Fr. 137.   A. Ferbabiko, Kalypso. cader la sua massima morale il suo rigido e  teorico principio, se non insegna una via, dis-  gusta del presente cammino.   Nel male generico poi rocchio di lui scorge,  e rileva, un difetto specifico. Nel 451 a. C, —  quarant'anni circa prima deìVAndromeda^ — Pe-  ricle aveva proposto e fatto votare un psèfisma,  secondo cui si ritenevano illegittimi (vód'Oi) i  nati da genitori di cui l'uno fosse non cittadino.  E tale legge era durata in vigore di poi fino  ad attirarsi nel 414 gli strali sarcastici di Ari-  stofane. In verità se si pensa agli scambii con-  tinui fra Aliene e gli alleati e gli stranieri, ci  s'avvede subito in qual forte numero gli Ate-  niesi dovevano veder diseredati i x3roprii figli e  decaduti a un grado inferiore, solo per aver con-  tratto unioni con donne straniere. Pericle stesso  fu colpito a causa di Aspasia da Mileto. Né  solo il sentimento coniugale e l'affetto paterno  urtava quel decreto incresciosamente; ma tutte  le esigenze politi clie gli eran contrarie. Se né  pure la cittadinanza dello sposo poteva far ate-  niese, per esempio, una donna nata in città della  Lega marittima, dura e perigliosa barriera si  rincalzava fra gli alleati ed Atene, la quale pur  del loro ajuto di continuo abbisognava, e su la  loro fedele assistenza doveva contare specie du-  rante le guerre infelici. Onde il largo spirito  euripideo, il qual tutto accoglieva che agitasse  la società de' suoi tempi, si giovò dell'attributo  etnico che la saga conferiva ad Andromeda per  riproporre al suo pubblico il quesito scabro. Ad  Andromeda difatti diceva il padre, — o la madre :  " Non voglio che tu n' abbia figli illegittimi ! che, ai legittimi in nulla essendo inferiori, sof-  frono per legge: da questo è necessario che ti  guardi„ (1). L'accortezza artistica di un cosi fatto  mònito è pari alla profondità del problema toc-  cato. Perseo accoglie su di sé le simpatie non  pur dell'autore si del pubblico, per la sua ge-  nerosa attitudine verso la vergine. Ch'egli proprio  sia la eventual vittima della dura legge ; che  la ragion giuridica stia con il cattivo genio della  tragedia avverso il buono : trasporta l' uditorio  intiero contro il decreto e gli strappa, non per  raziocinio ma per sentimento, il solenne biasimo.  Aristofane muove a riso se un suo cotale perde  l'eredità a causa del psèfisma periclèo. Eurij^ide  indigna se fìnge Perseo offeso non nell' avere  ma, dopo un estremo rischio, nel giusto com-  penso d' amore. All' architettura passionale la  scenica doveva corrispondere per modo che non  s'adombrasse alcuno né dell'anacronismo né del-  l'irrazionaUtà (2), di cui qualche mediocre spirito  potrebbe menare grande scalpore.   Anacronismo e irrazionalità era difatti mo-  strare Perseo ed Andromeda sotto l'aspetto —  che so ? — di Pericle e Aspasia : l'arte forse non  se ne avvide, certo non li discoperse. Ma restano  essi indizio d'un' alterazione del mito ben più  profonda ed esiziale di quella operata dalla ge-  nialità iDsicologica : ch'era tuttavia un modo di     (1) Fr. 141. Cfr. § VII.   (2) Mi piace qui ricordare l'arguto e acuto studio di  G. Fraccaroli su L'irrazionale nella letteratura (To-  rino 1903).  rivivere il mito, di serrare e appalesare i tramiti  fra la nostra essenza umana e le favolose vi-  cende. Invece, una volta intrusi fini di ripren-  sione politica e di biasimo sociale sopra la trama  della sa^a, essa ne rimane soffocata e asservita.  Eppure il poeta che, a proposito di Perseo e del  ketos, affronta problemi proprii dello statista, non  prosegue se non l'opera del mitologo che, al me-  desimo proposito, finse l'amore di Andromeda e  il vanto di Cassiepea : quegli immette nel mito  la società, questi l'uomo ; e tutt'e due sviluppano  r antropomorfismo contenuto nel primissimo  germe. Si assiste cosi a una penetrazione suc-  cessiva e graduale del fenomeno solare nella  sostanza umana. Ma quanto più l'assorbimento  procede, tanto meno il mito serbasi, qual era,  mito di maraviglia cui si presta la fede non ra-  zionale ma fantastica: tanto meglio si tramuta  in paradigma d'una teoria logica, in schema di  una tesi politica. In vero, dopo che Perseo è di-  venuto pretesto a un problema giuridico, egli  è per diventare l'esempio aggraziato d'una fra  le possibili soluzioni : segno che già l'intelletto  si preoccupa d'altro. Cosi la saga si avvince alla  vita con nuovi sottili filamenti, che non valgono  però le sue prime rigogliose radici.   Mentre da questo lato la leggenda si profonda  verso la terra, per l'altro richiama al cielo i pen-  sieri. Il religioso spirito di Euripide non mancò  di agitare, anche per Andromeda e Perseo e le  vicende loro, i dubbii e le incertezze della fede.  Quanto e come, è impossibile dire: solo per bar-  lumi s'intravvede alcunché : " Non vedi come  la divinità sconvolge la sorte ? in un giorno ri-     EUKIPIDE 85     volge l'un qua l'altro là Quegli era felice ;   lui, un dio oscurò dell'antico splendore: piega  la vita, piega la fortuna con lo spirar dei  vènti „ (1), " Non v' è mortale che nasca felice,  senza che in molto l'assecondi il Divino „ (2).  E ancora: " La Giustizia si dice esser figlia di  Zeus e seder presso ai falli degli uomini „ (3).  Né manca un moto d'ira contro la divinità che  ha voluto il sacrifizio di Andromeda ; ma è  espresso in forma accorta e velata : non avverso  a Posidone e alle Nereidi, si a Cefeo che ha ub-  bidito loro. " Spietato è quegli „ — dice ad An-  dromeda il Coro — " che dopo averti generata,  o afflittissima fra i mortali, ti concesse all'Ade  in favor della patria ! „ (4). Di questi frammenti  il principale, da cui traggono luce gli altri, è  intorno a Dike, la Giustizia : e si compie esso  con un suo analogo, rimastoci della Melanippe  incatenata (5). " Pensate voi che le colpe bal-  zino su con le ali presso gli Dei? e che poi  qualcuno vi sia per inscriverle entro le tavo-  lette di 'Zeus? che Zeus le vegga e ne renda  giustizia ai mortali? L'intiero cielo non baste-  rebbe, se Zeus volesse annotare i peccati degli  uomini ; non basterebbe Egli stesso a tutti esa-  minarli e aggiudicare le pene. Aprite gli occhi :  Dike [non è là su: ella] è qui basso, vicino a voi,,.  Dunque Euripide ha un concetto di giustizia     (1) Fr. 152-3. Nel primo leggo (Aolgav al v. 2. Nel se-  condo, Tòv al V. 1. (2) Fr. 150.   (3) Fr. 151. Leggo àf^aQziag, non TifioìQlag.   (4) Fr. 120. (5j Fr. 506.  a cui non vede rispondere né l'opere né i de-  creti divini, a cui gli pare meglio s' addica la  condotta degli uomini. Per lui v' è disaccordo  fra Zeus eDike: questa non può seder presso  quello. Per lui v'è incoerenza fra colpe e pene:  queste mal rispondono a quelle né sempre presso  al " fallo dei mortali „ abita Griustizia. In verità:  un re felice è tramutato in infelicissimo per  l'ambizione di talune iddie ; un eroe vittorioso  non ha la gioja del premio e deve superare  nuovi contrasti; la figlia è punita per la madre.  E pure tutto ciò vogliono gli Dei dall'alto. Che  cos'è dio? che cosa non dio? che cosa semidio?  La domanda angosciosa, — l'eterna del dubbio  tragico, - — ritorna, e accompagna, in tono mi-  nore, il concerto delle passioni eroiche e dei problemi sociali.   Ma cotesto non è più mito. E critica del mito :  in quanto esso contiene un ricco elemento religioso. Critica singolare però : che è insieme atto  di negazione e atto di fede. Euripide accetta la  leggenda, la narra senza alterarne il lineamento  essenziale. Solo dopo si domanda s'essa riveli  un legittimo procedere della divinità. E la sua  risposta ha un sottinteso profondo. Egli po-  trebbe difatti negar di credere al racconto per  le azioni che vi sono attribuite agli Dei. Al con-  trario, perché le sente, dopo averle psicologica-  mente vivificate, umane e, come umane, verisi-  mili, se ne fa una base al suo dubbio di filosofo.  E una maniera di sceverar, nella fiaba, la in-  corruttibile verità, — il dolore l'amore la morte,  — dalla verità caduca, onde sorgono gli aspetti  e le forme divine. Se non che essa verità caduca non è morta, ha vita in assai spiriti an-  cora: quindi la ribellione è difficile, faticosa; lo  svilupparsi da' suoi impacci è un travaglio. E  il tentativo di ripossedere totalmente il mito  fallisce; una rocca resta inespugnata. Cosi fu adunque, dal genio artistico di Euri-  pide investito il problema che la leggenda eroica  di Perseo e Andromeda offriva al suo magistero.  Della leggenda la sostanza umana fu la più  riccamente rielaborata : quella in cui lo spirito  creatore si profondò con la sua potenza d'in-  tuito da un lato, con le sue preoccupazioni di  politica da l'altro; quella per cui l'animo si com-  piacque della finzione antica, e la godette ri-  creandola. L'elemento divino fu contemplato con  occhi di esitazione, accettato quasi rassegnata-  mente. Al di sopra si conservava intanto la patina  eroica, lo splendore delle avventure, la maestà  delle figure e dei gesti. Perseo giunge a volo.;  reca il capo di Medusa; trionfa di un mostro  orrendo : v'è quanto basta perché chi s' appaga  dell' ap]3arenza lo senta d' un' altra specie, im-  mensamente lontano. Non si sa se nella tra-  gedia avesse luogo, come nel racconto di Fere-  cide, l'ostilità di Fineo e il duello fra i due rivali:  certo questo fu, se mai, un fatto di più, non un  sentimento nuovo: rientrò insomma nella sfera  estrinseca eroica della tragedia. Ma sostanza  umana, elemento divino, vernice romanzesca non  trovarono la loro sintesi se non nell'unità dello  spirito euripideo : sintesi che non è concordia  logica, né armonia estetica ; si bene vita in an-  goscioso travaglio ; nel quale l'intuito psicolo-  gico e l'affanno politico e il dubbio religioso si fondono ; pel quale il personaggio di Perseo,  la sorte di Perseo assommano in un solo vivo  vertice le divergenti passioni dell' intera tra-  gedia. Per comprender questa nella sua forma  poliedrica, per ravvisarla una, oltre le superfìcie  molteplici, bisogna aver ricostruito l'animo del  poeta e essersi immedesimati con lui. Con lui  potè identificarsi anche il popolo d'Atene: una  sola volta: quello stesso anno 412 onde nacque  e in cui fu rappresentato il drama. Preoccu-  pato del pari, aveva sotto gli occhi uguali spet-  tacoli, sentimenti simili ne scaturivano. Agli  spettatori come al poeta il fato travaglioso  dell'eroe, audace generoso e mal soccorso dagli  Dei, suscitando il dubbio d'una vera Dike, si  tramutava a poco a poco in un'altra angoscia più  sorda di spavento : chi avrebbe retto e vigilato,  da l'alto, le infortunate vicende della grande  Atene ? Questo Perseo che la leggenda pretende  argivo, si è quasi fatto cittadino ateniese dinanzi  gl'inconsci risguardanti, da quando un psèfìsma  di Pericle viene opposto al suo amore; si è quasi  fatto simbolo concreto e doloroso di Atene, da  quando il suo impulso ideale vien premuto dalla  material cupidigia. L'incerto futuro che lo elude  ha la maschera ambigua dell' avvenire che at-  tende, lontano, la Città confusa. A lui definisce  la sorte Atena, apparendo a predirgli le nozze  con Andromeda, il ritorno in Argo, l'assunzione  in cielo con la sposa e Cefeo e Cassiepea tra-  mutati in constellazioni. I problemi umani della  sua vita sono tronchi da un intervento divino :  non resoluti. Onde più tragico ricade sugli ascol-  tanti il timore per le imminenti sorti della patria; s'accresce il senso vivace del mistero che  regola le fortune terrene.   Se non che Tessersi l'umano, il celeste e l'eroico  del mito compaginati negli spiriti di Euripide  e del primo suo pubblico, non significa che si  fosser fusi nell'opera d'arte: perché la scissione  può, nello spirito, comporsi per il dolore me-  desimo di cui è causa; ma rende, senza dubbio,  disarmonica la forma estetica che la esi^rime-  Quindi l'unità è momentanea, non stabile. Le  diverse materie della leggenda si serbano dis-  gregate e inorganiche. E, non potendosi nel  tempo, se non per via di critica, riprodurre iden-  tico l'ambiente spirituale del tragedo e dell'età  che fu sua, le innovazioni che al mito ne erano  derivate non accolgono simpatie e non trovan  cultori. Ond' è che il drama nella storia della  fiaba rappresentò una pausa senza echi. Dopo Euripide.   Si assiste, nell'ulteriore vicenda del mito, a un  lento ma spiccato impoverirsi della sua vita.  Fino ad Euripide, il processo era stato, in vece,  di arricchimento; la tendenza verso una polie-  drica complessità: onde naturalismo e novel-  Hstica s'eran da prima complicati insieme, avevan  avuto giunta dal romanzesco, per attingere il  sommo della pienezza nel dramatico travaglio  del pensiero religioso e politico, il vertice del-  l'altitudine nella fine intuizione psicologica. Dopo  Euripide, la parabola discende sino ai confini  d'una più consueta mediocrità: si che par nel  principio che fuor dalla corteccia non si sviluppi  se non il midollo originario della fiaba, ma si  mostra poi ch'esso medesimo è presso che inari-  dito. Che la saga non ritorna in sua vecchiezza  alle fogge giovanili, acerbe più che esigue; si bene  lo spirito che negli inizii verso lei convergeva intiero, vie meglio alimentandola nel suo assiduo allargarsi, se ne distrae ora insensibilmente, e si  immerge in altre creazioni. L'impoverirsi della  leggenda di Andromeda è parallelo al formarsi  del disinteresse mitico; ed è quindi preludio d'un  nuovo stadio spirituale, in cui l'uomo, colmato  a pena uno stampo, prende a foggiarsene e  riempire un altro : maggiore. Il lamento ch'è solito allo storico del mito si  deve ripetere ancor qui: assai fu perduto che ci  avrebbe di molto giovato nello studio di cosi  fatta decadenza mitica. Non son più che quattro  gli autori, in cui ci ritorni il racconto del ketos;  ma per fortuna rappresenta ciascuno una tappa  caratteristica.   Apollodoro, raccogliendo nella Biblioteca con  l'altre ancor questa favola, si riconnette a Ferecide : muove ciò è, non dalle forme eh' essa  aveva assunte nei più vicini tempi, ma dalla sua  origine. Né vi aggiunge gran cosa ; al più, pio-     ti) Dal numero è escluso Igino Fav., come quello  che contiene varianti di particolari, ma non imprime  d'un propi'io segno la fiaba.  coli insignificanti particolari; qua e colà, quasi  in margine, ferma la notizia d' una tradizione  alcun poco diversa dalla ferecidea. Chi legga  distratto vi bada a pena. Vi s' indugia sol chi  abbia intenti d'investigazione erudita : nel che  si appalesa dunque la caratteristica di questo  strato evolutivo. All'autore che la narra la leg-  genda è morta: è cadavere che egli ricompone  fra bende, con qualche cautela, a fin che poco  di quelle membra che furono organismo vada  disperso. E vi sono ragioni pratiche per cui,  nell'opera, si preferisca modello l'antichissimo  compilatore ; presso il quale è già armonia di  contesto e compiutezza di termini. V'è, inoltre,  una ragione più alta, intima alla logica dello  sviluppo storico, onde Euripide dev' essere ta-  ciuto : la singolare opera di lui non ha vinto, e  la volgata con tutte le sue piccole e grandi va-  rianti è oltre; più sopra o più sotto, non importa ;  è distinta e prevale. Quindi ben fa chi compila  a lasciar quella in oblio: le compete luogo fra  le produzioni libere dell'arte, non fra le specifiche  della mitopeja; già che la distinzione deve va-  lere, se mai per alcuno, per il mitografo tardo.   Se non che tale aspetto non fu del solo Apol-  lodoro. Anche di un poeta. Ovidio mosse del  pari, se pure non nell'atto materiale del suo la-  voro, certo nella sfera fantastica della sua mente,  da Ferecide : o sia da quelle che in Ferecide  erano le fondamentali intuizioni della saga. Ciò sono : lo stupore simpatico verso il romanzesco ;  la ricchezza dei gesti e dei movimenti nei per-  sonaggi ; il pathos sobrio dell' idillio fra i due  giovini. Ciascuna di queste intuizioni è ripresa  e svolta a costituire l'ordito del racconto; e sol  tanto entro i loro limiti il poeta si concede di  imitare altre fonti, sia pure Euripide.   Il romanzesco imprenta tutto quanto il com-  patto manipolo degli esametri tra la fine del  quarto e il principio del quinto libro nelle Me-  tamorfosi. Sottinteso costante e necessario è il  miracolo della potenza oltreumana: dal volo  che conduce Perseo fra i Cefeni, alla virtù del  capo gorgoneo che termina l'episodio. In appa-  renza però Ovidio non se ne compiace con la  maraviglia schietta di Ferecide ; si tenta di com-  primerlo in termini di umanità. E fallacia. Certo,  il ketos avanzante al feroce convito vien pa-  ragonato a nave rapida: onde n'è ridotto il con-  fine mostruoso. E Perseo gli piomba di sopra  con l'empito discendente dell'aquila: non insolito  spettacolo. Ed essa belva si dibatte a simi-  glianza di cignale fra cani in torma : scena cui  è abitudine nella vita comune. E lo scoppiar  degli applausi su la spiaggia dopo la vittoria  dell'eroe richiama l'eco dei fragorosi anfiteatri.  In realtà, queste similitudini umane riescono una  più sicura esaltazione dello stupefacente: — ne-  cessarie perché le intuizioni si concretino, escano  dall'indefinito ferecideo, e conseguano una pla-  sticità chiusa e viva, che non sarebbe senza il  riscontro consueto e terreno : — utili, di più, per  creare, di là del riscontro, il contrasto fra lo  straordinario e il normale. Si compie qui, accanto a un magistero d' arte più evoluto che  vede i particolari e li esprime non li accenna,  uno sforzo per accrescere la distanza di cui se-  parasi la terra dal cielo, la creatura dal semidio.  Gli corrisponde il rombo del verso. A che fine?  Per la metamorfosi che conchiude, in due ri-  prese, il racconto. In quella il romanzesco si  dissolve, come in sua foce : il capo di Medusa  che impietra in coralli le verghe del mare e  converte lo stuolo dei congiurati in affoltata  marmorea di statue danno una sanzione estrema  a l'inverosimile che precede. Non in egual modo,  a dir vero ; che ciascuna di quelle trasforma-  zioni ha importanza speciale, né può valere se  non congiunta con la prima o la seconda delle  scene in cui il racconto si divide.   La prima è intorno alla venuta di Perseo, al  duello con la fiera, alla vittoria (1).   Novamente da l'una parte e da l'altra egli si av-  vince con le penne i piedi ; della curva spada sì arma :  e il limpido etra fende movendo i talari. D'intoi'no e  di sotto innumeri genti lasciate, scorge le schiatte  etiopiche e i campi cefèi. Ivi l'ingiusto Ammone aveva  ingiunto che l'incolpevole Andromeda della materna  lingua scontasse le colpe. Lei come l'Abantìade vide,  avvinta le braccia su la dura rupe, se Paura lieve non  avesse agitato i capelli né gh occhi stillato un tepido  pianto, opera di marmo l'avrebbe creduta. Ignaro ne  avvampa e stupisce, e rapito all'aspetto dell'apparsa     (1) IV vv. 665-752. Traduco sul testo di H. Magnus  (Berlino 1914).  bellezza dimentica quasi d'agitare le penne per l'aria.  Si ferma. "0 tu — dice — degna non di queste ca-  tene, ma di quelle che serran fra loro i cupidi amanti,  il nome a chi '1 chiede rivela della terra e di te, e  perché porti legami „. Si tace ella da prima né osa  parlare, vergine, a un uomo : delle mani celerebbesi il  volto pudico, se legata non fosse. Gli occhi, — e poteva,  — di sgorgante pianto colmava. A lui, che insiste più  spesso, svela, perché celar non sembrasse delitti suoi  proprii, il nome della terra e di sé, e quanta fosse  stata fiducia della materna bellezza.   Ancor non compiuto il racconto, l'onda risuona :  avanzando, la belva a l'immenso mare sovrasta, e molta  sotto il petto acqua soggioga. Stride la vergine. Do-  loroso il padre, e insieme la madre è presente : miseri  entrambi, più giustamente questa. Non recano ajuto con  sé, ma, come vuole il momento, pianti e lamenti, e si  serrano al corpo legato. Or cosi l'ospite parla : " Di la-  crime molti giorni vi potranno restare ; a porger sal-  vezza è breve l'ora. Questa s'io vi chiedessi, — Perseo  nato da Giove e da quella che rinchiusa Giove fé'  pregna d'oro fecondo; Perseo vincitor della Gorgone  anguicoma, e per gli spazii etèrei agitando le ali vo-  latore ardito, — sarei qual genero a tutti, per certo, an-  teposto. A tante doti io tento di aggiungere un bene-  fizio, pur che m'assistan gli Dei. Che, dal mio valore  salvata, sia mia, fo patto ,. Accettano (chi avrebbe per  vero esitato ?) e pregano, e promettono inoltre in dote  il lor regno, i genitori.   Ecco, quale nave veloce solca col prominente rostro  le acque, da sudanti braccia di giovini condotta ; tale  la fiera, spartendo con l'empito del petto le onde, tanto  dalla rupe distava, quanto del cielo interposto possa  Balearica fionda col piombo vibrato varcare : allorquando d'un sùbito il giovane, da i piedi respinta la terra,  alto si leva verso le nubi. Come alla sommità dell'acque  fu vista l'ombra dell'uomo, s'infuria contro la vista  ombra la belva. E come l'uccel di Giove, vedendo che  nel campo sgombro un serpe al Sole le livide terga  concede, da dietro lo afferra, perché la nefasta bocca non  torca, e figge i bramosi artigli nella cervice squammea;  cosi con volo rapido a piombo calando pel vuoto, della  fiera fremente oppresse le terga, nel fianco destro l'Ina-  chide le nascose il ferro, fin dove è ricurvo (1). Laniata  da grave ferita, ora eretta si aderge nell'aria, ora si  asconde nell'acque, ora voltando si avventa a guisa di  fiero cignale cui la turba de' cani latranti d'intorno  spaura. Egli causa con l'ale veloci gli avidi morsi ;  adesso le terga soprasparse di cave conchiglie, adesso dei  fianchi i margini, adesso dove la tenuissima coda si  termina in pesce, ovunque si porga indifesa, flagella  con la spada falcata. La belva da le fauci vome i fiotti  misti con purpureo sangue. Le penne asperse s'appe-  santiron madide : né Perseo osando più oltre affidarsi  a' zuppi talari, scorse uno scoglio che col supremo  vertice l'onde supera chete, è coperto da l'onde agitate.  A quello poggiato, con la sinistra della rupe tenendo i  gioghi estremi, tre quattro volte inferisce la spada nei  fianchi colpiti.   D'applausi il clamore riempie la spiaggia e le su-  perne case de' Numi. S'allietano, lo salutano genero, au-  silio della schiatta e salvator io proclamano, Cassìope e Per avere una idea precisa della " spada ricurva ,  " falcata „ di Perseo e per comprendere il v. 720  {curvo tenus hamo) si veda il disegno in Roscher Lexicon  d. Gr. ti. R. Mythologie III 2 (Leipzig Cefeo padre. Sciolta da le catene s'avanza la vergine,  della fatica e causa e premio. Egli in acqua attinta  purifica le vincitrici mani : e perché dura non offenda  l'arena il capo gorgoneo, fé' molle di foglie il terreno,  virgulti distese nati nel mare, e sopra vi pose la testa  di Medusa Porcinide. Il recente virgulto, dal succoso  midollo ancor vivo assorbì la forza del mostro, al con-  tatto di questo fu duro, nelle fronde e nei rami assunse  rigidezza inusata. Ma sperimentan le ninfe del pelago il  mu-abile fatto in più verghe e con gaudio lo vedon  ripetersi uguale. Poi che di quelle i semi sparser su  l'acque, ancora ai coralli la stessa natura è rimasta,  che dal tocco dell'aria ricevan durezza, e ciò ch'era  verga nel mare, sopra il mare sasso diventi.   Seguono le scene di festoso tripudio cui s'ab-  bandonano con Cefeo e Cassiepea i Cefeni tutti.  E si termina, col libro quarto, il primo episodio,  per sé stante, del mito. Chi lo cerchi più a fondo, deve soffermarsi  sopra il dialogo fra Perseo e Andromeda, fra  Perseo e Cefeo con Cassiepea. Vibra, ivi, il sen-  timento attorno cui Ferecide aveva trovato rac-  colta la fiaba del ketos. Ma, si direbbe, in sor-  dina. Un che d'ignoto par che l'attenui come  d'un velo. Cosa non senza maraviglia, giustifi-  candosi tutto il successivo evento appunto dal  sorger dell'amore in Perseo e dalla promessa  del padre. Anzi, se l'origine dei coralli è il  vertice avventuroso del racconto, questa scena a  l'inizio dovrebbe esser il perno sentimentale o,  meglio, umano. Ora in ciò a punto è la causa  del poco rilievo concessole dal poeta. Il suo  senso d'arte l'avverti che questo poteva divenire  "iin elemento disgregatore, una disarmonia nel-  l'opera: e la passione tramutò in accordo nu-  ziale. I due protagonisti impiccioliscono visibil-  mente: ella s'induce a rivelare allo straniero il  perché di sua xDOsitura " a fin clie non sembri  celare colpe sue proprie „, — e accusa la madre:  egli sciorina dinanzi ai piangenti genitori, mentre  la belva avanza e il terror tragico martella i  cuori, i proprii titoli, quelli per cui si ritiene  onorevole genero al re. I più generosi appajono,  poveretti, quei due vecchi che di tutto cuore  danno, con la figlia, il regno! Si che l'artista  fu, in questo argomento, volubile ; né gli soccorse  alcuno di quei fini tratti di psicologia di cui è  capace in altri casi. I soli accenni più appropriati  toglie a Euripide: tali lo stupor del veniente  Perseo per l'aria, e il pudore silenzioso della  vergine. Ma deliba a pena il calice, e l'ampiezza  numerica della forma cela l'esiguità della intui-  zione. Il romanzo gli ha, non pur scemato, ma  un poco anche guasto la vita.   Dopo che tra grande esultanza si sono raccolti  a banchetto nuziale il re e la regina con la  figlia e il genero nuovo, si fa innanzi Fineo. E  l'uomo di Ferecide: il fratello di Cefeo già fidan-  zato con Andromeda ; il quale non ha avuto il  coraggio di liberarla col proprio rischio ; ma  tenta ora di riaverla quando il ketos è ben  morto.   Mentre fra mezzo alla schiera cefena quell' im-  prese (1) l'eroe danaejo racconta, gli atrii regali riempie     (1) Le precedenti sue avventure : le Graje, Medusa, ecc. una turba fremente ; sorge un clamore, non di canti  alle feste nuziali, ma d'annunzio a feroce contesa. E  i conviti mutati in sìibiti tumulti potresti assomigliare  a golfo che, quieto, sollevi in onde commosse la fervida  rabbia dei vènti.   Primo Fineo tra quelli, temerario autore della con-  tesa, agitando un'asta di frassino con bronzea punta,  " Ecco „ dice * ecco, mi avanzo a vendetta della car-  pita sposa. Né a me te le penne, né sottrarrà Giove  in falso oro converso „ (1). A lui clie tentava scagliare,  Cefeo opponeva " Che fai ? qual mente ti spinge in-  furiato al delitto ? tale grazia si rende a ineriti grandi ?  con questa mercede compensi la vita di lei ch'è sal-  vata ? La quale ritolse, se tu cerchi il vero, non Perseo  a te, ma l'aspro nume delle Nereidi, ma il cornìgero  Ammone, ma quella belva del mare che veniva per  farsi satolla delle viscere mie ! Allora rapita ti fu,  quand'era a morire. Se non se, crudele, ciò stesso tu  brami, che muoja, e t'allieti del nostro dolore. non  basta che nel tuo cospetto ella fu avvinta ? che nullo  soccorso recasti, tu sposo, tu zio ? in oltre, ti duoli  che fu da taluno salvata, e gli carpisci il premio ?  Questo se a te grande paresse, da quegli scogli dov'era  affisso l'avresti richiesto. Ora lascia che quegli il qual  lo richiese, pel qual non è orba questa vecchiezza, si  porti quanto con opre e parole pattuì ; e comprendi  come lui s'antepone non a te, ma a una morte sicui'a „.   Non cede Fineo a' consigli del fratello, anzi     (1) È forse inutile ricordare che, secondo il mito, Zeus  avrebbe generato Perseo (sopra pag. 94) cadendo dal sof-  fitto in forma di pioggia aurea nel grembo di Danae.  comincia il combattere. E il racconto si distende  lungo per circa due centinaja di versi : che la  battaglia è seguita ne' suoi particolari con ab-  bondanza di nomi di persone di gesti. Il tu-  multo è grande (1).   " Le congiurate schiere d'ogni lato combatton per  la causa che impugna inerito e fede. Per questi il va-  namente pio suocero, e con la madre la nuova sposa,  son favorevoli, e d'ululato riempiono gli atrii. Ma  prevaleva il suon dell'armi e il gemito dei caduti „.  Per poco ancora dura la lotta. " Però quando alla  turba soccombere vide il valore, Perseo : " Poi che  mi costringete voi stessi, ausilio richiederò al nemico.  Rivolga il viso chi, propizio, è presente „ : e trasse il  capo della Gorgone. " Cerca un altro, che i tuoi vanti  commuovano! „ esclamò Tèscelo; ma, mentre con la  mano apprestavasi a scagliare il dardo fatale, in tal  gesto rimase statua di marmo ,. All'ultimo è pro-  strato, dopo assai altri come Tescelo irrigiditi dal  mostro meduseo, lo stesso Fineo. E implora : " Vinci,  Perseo : allontana i fieri mostri, togli il capo impie-  trante della tua Medusa, qual che si sia. Togli, ti prego.  Non odio ci spinse a contesa, né brama di regno ; per  la sposa movemmo le armi ; migliore fu la tua causa  per opre, pel tempo la mia. Non m'è grave di cedere.  Nulla, fortissimo, fuor che quest'anima concedi a  me! tuo il resto ti sia „. A lui, che cosi parlava, né  risguardare ardiva quello cui con la voce pregava,  rispose : " Ciò che, o timidissimo Fineo, concederti  posso, ed al vile è dono ben grande, — lascia il timore.  ; la parafrasi è dei vv. 150 sgg.   ti concederò: da ferro non sarai violato. Che anzi  vo' darti un monumento che duri perenne ; e sempre,  nella casa del suocero nostro, sarai guardato si che la  mia sposa da l'imagine del fidanzato abbia conforto „.  E lo impietra.   Cosi la vasta e agitata folla che nel principio  commoveva la scena si tramuta in un popolo  rigido di statue, di cui ciascuna serba, nella fis-  sità, un gesto di vita. Ed è qui a punto il car-  dine del secondo episodio mitico: efficace tra-  passo per il quale la compiacenza ferecidea  verso la riccliezza del movimento e l'ampiezza  dell'azione si sublima in motivo di armoniosa  bellezza. Che è quasi esclusivamente merito di  Ovidio; come di quello che, sviluppando a sé  tutta la seconda parte della leggenda, la equi-  librò con l'ampUarne, ai due estremi, il combat-  mento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto.  Inserì nella sua materia anche la nobile fede  di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo  a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non  priva di malignità né di un grossolano sale.  Se bene già questa non era una giunta che com-  piesse, si più tosto una intrusione che alterava,  il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche  le vicende della contesa; e tradusse il duello in  una battaglia omerica; — cadendo nella più  stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pleto-  rico : non diverso, si bene monotono. Nella scialba  sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine,  senza garbo né acume, tracce d' umane pas-  sioni. Della cui banale mediocrità s' intende  quindi il motivo : fu necessario all'autore inspessirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' im-  menso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui  or là, la perizia tecnica foggia il verso con  eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nel-  l'insieme, sopra un ben intuito fondamental con-  trasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e  rigonfia gli elementi dell'opera.   E ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto  nel primo episodio: volubile superficialità psico-  logica accanto a larghezza romanzesca. Ma ana-  logo è nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro  il poeta non ha colto il cuore del mito, né ha,  da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non  avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con  il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea :  pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse  la tentò con approcci successivi, e di ciascuno  rimase una traccia: ora piacque l'analisi psichica,  ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agita-  zione bellicosa; in parte fu possibile imitare  Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun  punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno  amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte  le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che  reagisce pigramente se ben non dorma ancora.  In realtà lo spirito è distolto ; vive altrove.   Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è  molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia  nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo  dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di  Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos  è a pena morto. In non si sa qual recesso del  mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé quattro ciance. È un mormorio di donnicciuole  con un rivenditore del mercato. L'uno dà le  notizie ; l'altre gli si fanno attorno, — e ov'è la  bellezza dei volti? — con moti curiosi: ora  questa ora quella alza la voce ; le compagne in  tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare  de' più recenti fatti, e l'amico li ha appresi ori-  gliando. L'eco della terra par muovere da una  lontananza. Ma la terra è presente (1).   Tritone e le Nereidi.   Tbit. — Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste  contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non fé'  danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso già  esso medesimo.   Ner. — Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta  come ésca la vergine, lo assalse ed uccise, attenden-  dolo in agguato con molti guerrieri ?   Trit. — No. Ma voi conoscete, — credo o Ifianassa  — Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul  mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno  e che per compassione di loro voi avete salvato.   Ifian. — So di chi parli: suppongo che ora sia  un giovine e molto prode e bello di aspetto.   Trit. — Egli uccise il ketos.   If. — E perché, o Tritone ? non questo compenso  per vero egli ci doveva.   Trit. — Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu man-  dato contro le Gorgoni per compiere al re quest'im-  presa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia...   If. — Come, o Tritone ? solo ? o conduceva com-  pagni? che altrimenti la via è difficile.  Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner).  Tbit. — Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito  d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimora-  vano, esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il  capo a Medusa e scapparsene a volo.   If. — Ma come le guardava ? sono difatti inguar-  dabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo  di esse.   Trit. — Atena col porgli innanzi lo scudo (queste  cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a  Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Me-  dusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio :  allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre  riguardando nell'imagine, recise con la falce nella  destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destas-  sero volò via.   Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già  basso su la terra volando scorge Andromeda esposta  sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o dèi !,  sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da  prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la  causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore  (bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise  di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso  come per divorar Andromeda ; e il giovine, penden-  dogli di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo  colpi, con l'altra gli mostrò la Gorgone e lo fece pietra:  la belva tosto mori e divenne rigida in molte membra,  quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli  della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre  scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole;  e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la condurrà  in Argo : cosi che in luogo della morte ella trovò un  marito, e non comune.   Ir. — Io già dell'avvenuto non mi sdegno; che colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre  menava vanto e riteneva d'esser più bella ?   DoB. — Ma in tal modo, come madre, avrebbe  sofferto per la figlia sua.   If. — Non rammentiamo più tali cose, o Doride,  se una donna barbara ciarlò un po' più del giusto.  Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la  figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze.   Certo, la terra è presente. E nei gesti che si  sottintendono ; e, più, nei confini mentali degli  interlocutori. L'arte di Luciano li designa con  perizia finissima nelle varie domande chemuovon  a Tritone le Nereidi. Da principio, annunziata  la morte del ketos, suppongono, com'era più  semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo :  — è il primo ingresso dello stupefacente. Perseo  s'era recato in Libia. E quelle pensano a una  regolare spedizione con compagni, ^' che altri-  menti la via è difficile „. Ragionan bene; ma,  per altro, Perseo volava : — nuova maraviglia.  Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come  la guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da  quel momento Tritone può continuar ininter-  rotto. E continua; ma svela, in un suo breve  inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle  interrogazioni. Perché Perseo fu " preso da  amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava  salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per  l'animo dell'eroe, che in esso quella non è causa  sufficiente e appropriata ; bensì smaschera l'ar-  tificio del mitologo, e mostra la passione in-  ventata a giustificare la salvezza della vergine.  E una critica genetica, diremmo oggi. Ed è la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie  di Nereo. Il dono delle ali è rilevato come stro-  mento mitopeico perché Perseo potesse recarsi  in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo ar-  tefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima  nefasta efficacia che le si soleva attribuire  Dunque, è deduzione implicita, ci fu una  interessata volontà, la qual condusse con varie  furberie il giovine in Libia e contro Medusa e  fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che ima-  ginò taluno. Passo a passo i colpi son recati,  fin che la leggenda non ha più una base di fede,  si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde  si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Ne-  reidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero  da cui sono animate è, non cosi ristretto da non  concepir l'insueto, ma largo a bastanza da ne-  garlo. E nell'ultime parole la larghezza si ac-  cresce d'un contenuto morale , estrema vetta di  cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto  colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto  che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ;  né dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza  d'una donna barbara con loro. Son questi, si,  ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la  coscienza etica di Euripide; ma la tragedia  manca, né può sussistere adesso. La fiaba è stata  svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde  il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora  il cuore stesso dell'artista.   Come un luogo comune dell'ornamentazione  retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue  Astronomiche^ a proposito delle costellazioni denominate da Perseo e da Andromeda. Ma  senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso  (non importa se anteriore nel tempo) assai men  vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel  quale l'intellettual sorriso della critica è tutta-  via indizio di un sopravvissuto interesse, come  a passato recente e sentito ancora. Manilio per  contro segue l'andazzo letterario, e non illumina  né pure con la luce della sfera più alta le te-  nebre deir ormai superata. La conversione dei  personaggi in astri, che presso Euripide era  giunta a troncare ardui problemi dello spirito,  diviene qui lo spunto, donde il raccónto si di-  parte : le è anzi asservito il racconto medesimo,  il quale nella mente all'astrologo imbelletta la  pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva tro-  vato favor di accoglienza fra i Latini (1). Si  che qui si misura, con precisa esattezza, il re-  gresso dell'efficacia leggendaria.   Né Luciano né Manilio accennano a Fineo.  Se per ciò si connettano con il tragico che, —  forse, — non gli aveva trovato luogo nel drama,  non è a dirsi. La natura del tema, in entrambi,  giustifica il silenzio: che Fineo non divenne  astro né ebbe attinenze col ketos. Per contro è  notevole che non essi, come non Apollodoro né  Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E  per chiaro motivo. Creata quella nel momento  del culminante interesse pel mito, scompare di     (1) Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^  (Miinchen) II 2 pagg. 28 e 37.  poi con lo scemarsi della simpatia traverso le  posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della  parabola, che segna lo sviluppo di questa leg-  genda, sta adunque una singolare originalità  ch'è in contrapposto ad un tempo con gli stadii  precedenti e con i successivi. E una singolare  ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa  diretta.   Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che  mille metri sul mare, non lungi a un lago cui  oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella  antichità, sopra una larga groppa dei monti  Erei (2), onde, traverso l'aria diafana delle au-  rore e dei tramonti settembrini, le pupille be-  vono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi  solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. De-  metra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia     (1) Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II,  di cui nelle note successive si citano i §§. La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Ca-  strogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig LA DEMETRA d'bNNA   di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli  anni di Cicerone templi statue culto. Le donne,  cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano  forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo da  Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa  da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pen-  siero divoto, supplice per la famiglia ed i campi,  timoroso dell'ire e delle vendette divine: però  elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo  del matrimonio e delle spighe, sembrasse ve-  gliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane  in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione  l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta  contro il mal governo di Verre, l'origine anti-  chissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ;  ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i riti  sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da ogni  popolo senza contrasto (1). Contrasto certo non  sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense  si guardava, come a reliquia dei tempi, con un  profondo rispetto, che le arcane leggende dei  primordii rendevano più intimo e sentito.   Né la memoria secreta del popolo o il suo  pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi  che, — forse, — la Storia oggi, molti nessi rav-  visando e molte trasformazioni che s'ignoravano  allora, riesce a dare un più saldo fondamento  alla credenza di quei Siciliani, un contenuto  meglio ampio al loro ricordo; se bene diffìcil-  mente serbi la grata bellezza poetica di cui in-  sieme erano pregnanti religione e mito.  CicER. in Verr. IV 106.     IL MITO SICULO. È probabile che gli avvenimenti seguissero  cosi (1).   Enna, nella sua forte positura montana, è da  presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici  appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a cercar  rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX  avanti l'èra. Le coste, più agevole sede, eran  divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente  di predatori troppo ben armati perché fosse riu-  scibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei vio-  lenti s'era per alcun tempo spostato verso l'in-  terno il processo evolutivo che, non senza influssi  esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età  eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava  fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ;  tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza anche  il pensiero religioso, con la leggenda divina che  n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavven-  tura, dagli scavi archeologici noi siamo assai  meglio informati su gli oggetti delle più ve-  tuste necropoli e su gli stili loro, che non su la  maturità mentale, su gli dèi, su le fiabe, di  questa tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra  tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare  una caratteristica dell'intelletto siculo antichis-  simo la quale valga a contraddistinguerne, p. es.,  i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e  nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri  l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a  linee sommarie e incompiute.   Per ciò la congettura ancor che acuta lascia intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli del-  l'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger  il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'isti-  tuto familiare, erano stati il tesoro comune che  gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso  le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie  meglio possedute e costituite col cessar del no-  madismo, avevano per sé più e più secoli di  trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro  celata forza e importanza, due poli essenziali  nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto,  da attrarre parecchie fra le medesime divinità  della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divi-  nità delle tenebre e di quella morte, che la mente  bambina dei primitivi, iDer non averne compreso  il profondo valore e la non palese bellezza, cir-  condava di ombra nelle celate viscere della terra  ove scompajono i corpi di uomini'ed animali.   Di questi due poli religiosi seguire a ritroso  la progressiva formazione, conduce a origini tra  sé lontane. Il naturismo che venera l'albero e il  sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ;  l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spi-  rito del sasso e la potenza del seme ; il più ma-  turo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di  tutta la terra una divinità sola o di tutte le  biade: ci riassumono, — nei loro gradi più re-  cisi, e nelle loro sfumature assai meno formula-  bili, — la storia sintetica del Nume agreste, il  quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e  disciplina intorno al suo proprio culto. È un'a-  scesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : è  un germogliare della credenza su da quel suolo  cui si richiama. — Altra via tien la famiglia nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che  è morto dopo aver in vita esercitata la suprema  autorità su le mogli e i figli ; ed è morto la-  sciando nella dimora le cose tutte che già furono  segnate del suo possesso e cedendole ai succes-  sori insieme con le vendette da compiere e gli  odii da esaurire; ed è morto spezzando con l'ul-  timo alito la compagine che si raccoglieva in-  torno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo  che li legava per la sua difesa : rappresenta con  la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché  l'ombra di lui non debba venir placata dai ne-  poti, e il suo nome di " Padre „ ripetuto. E  quando, anche qui, la intelligenza divien sensi-  bile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si  accostano si penetrano si fondono nella simi-  glianza della lor figura, la divinità del Padre  è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a in-  fluire su l'altre simili della Madre (ove anche il  matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio  della Figlia; le quali presuppongono però sensi  d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti  tra i diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo  vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa  di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e,  in sintesi, protegge per la sua parte la vita fa-  miliare. Ed è processo comparativamente recente,  se si pensa all'istituto e agli affetti che lo pre-  cedono; ma è comparativamente vetusto se si  pensa alla non piccola serie di alterazioni cui  già è andato soggetto in poemi antichi come gli  omerici.   Ma, se la formazione originaria degli iddii  agresti su dalla natura è diversa da quella dei   A. Febeabino, Kalypso. 8     familiari su dalla morte , non mancano , tra le  due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto  de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicende-  volmente, è ben noto. Ma nel caso speciale  anche più efficace influenza vi doveva essere.  Però che la terra sola faccia (se fecondata dal  cielo) prosperare il gregge ed i figli, — la fa-  miglia, in somma. Il campo dell'erba e quel  delle biade son la ricchezza; perché sono il nu-  trimento la salute la vigoria, de' buoi e delle  capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre  vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indo-  rasse al sole la spiga; il Padre morto, perché  protegga i suoi che lo placano e pregano, deve  tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine,  e provveder che carestia non affami gli agri-  coltori.  Antica accanto a questa, ma anche  maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la  nascita dei figli per opera delle madri, e il ger-  mogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a  pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi,  se non i primissimi, uomini apersero gli occhi:  la conservazione e la rinnovazione perenne di  quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più  seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice,  in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare  di figli il tuo solco „: e intende il talamo ma-  ritale (1). E o può sembrare un antropomorfismo  capovolto : una figurazione dell'uomo a simi-  glianza della terra. Se non che, in realtà, deve  più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo- Biade I 303, Euripide Fenici 18.   morfismo, per cui il fenomeno naturale assume,  nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto  dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto del-  Taria, è padre della pioggia, e i campi hanno  dopo il raccolto un abbandono puerperale. E  tra le forme questa appare certo antichissima:  perché, anche psicologicamente, sembra tosto  suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica  e dalla importanza, tanto della generazione  umana , quanto della produzione terrestre : e  perché è contraddistinta da una elementare  semplicità, che la rende compatibile con uno  stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad  ogni modo, — come principio ad effetto, forma anteriore a quella teogonia che figura  gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in fa-  miglie composte da genitori e figli, da parenti  ed affini.   Or come per un lato le divinità dei campi  e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor  nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda  richiamano al pensiero quelli che sotto la terra  regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto  il seme per lunghi mesi; sotto la terra profon-  dano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano  con tanta forza e tenacia che duro è abbattere  una quercia; sotto terra scompaiono tal volta  alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano polle,  che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dis-  setano del pari la bocca dei bimbi e i grumi  inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono  il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso,  di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda  della spiga, ad esempio, matura e granita, che s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e ad  essi deve in parte tornare di poi. La Dea che  la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli  Dei inferi forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i  due, diversi.   Quanto però sono facili rapporti fra la zolla  feconda e l'invisibile profondità sotterranea,  tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo.  La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno  forza e colore, spirano nella vegetazione la loro  secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la  crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è  onusto di grappoli, l'Astro sol tanto par dargli  il verde per le frondi e il rosso per i frutti.  Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo  perché l'aria l'impregni, da la calda aria pure  essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si  flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,  l'assalto cieco della gragnuola convertono in  desolazione la speranza, in strage la messe. Le  potenze della luce e della volta celeste reggono,  per una grande lor parte, benigne o maligne, le  vicende della terra ferace.   A tale stadio di evoluzione religiosa (1) eran  assai probabilmente giunti i Siculi quando in  Enna si elaborò il mito. E tutti i concetti fonda-  mentali, tutti i principali stami di questo inci-  piente tessuto sacro, nel mito appunto conversero. Quando delle figurazioni che si accennarono Una sintesi su la religione degl’arii e sull’antichissima romana, in SANCTIS (si veda), STORIA DEI ROMANI  I  (Torino) capp. Ili e Vili.    è ormai ricca la mente, le fiabe che possono es-  serne conteste sono molteplici, e solo il caso o  la preponderante importanza di taluno tra i fe-  nomeni riesce a far prevalere qualunque l'una  di esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe  o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla sic-  cità o squassato dai vènti ; il suo nascer e i  primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta  brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e  l'abbondante capellatura delle arèste ; la semina-  gione e il riposo invernale: posson del pari offrire  contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi  sotto sembianza umana e familiare, si attengono  per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo  e delle tenebre. — Ma principalissimo è senza  dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo,  onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che  il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto  la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad  elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui  avevan parte le nozze della figlia tolta alla  madre; le nozze richiamò in una delle forme  consuete, il ratto. Fece salire su la terra la po-  tenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le at-  tribuì. Disse il lamento della Madre biada cui  la biada sua Figlia è rapita, simile al lamento  delle madri umane. Alla scena disegnò lo sfondo  delle selve che circondavano il lago di Pergo,  da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito  il Dio inferno.   A questo poco si limita quel che nella proba-  bilità storica la congettura può affermare della  originaria saga sicula. Però che troppo esigue  tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più tardi, da nuove vicende, e non fermata, — quel  che più importa, — in canti che il pregio del-  l'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ;  i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse me-  moria traverso gli anni; ma col suggello del  segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti  e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai  riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo :  il nome delle Dee agresti, antichissimo; quel  del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto  il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma  ogni rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi  è, e resterà, nelle tenebre.    E certo tenebre graverebbero del pari sopra  un altro consimile mito e culto in Grecia, ove  l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito  ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò la  leggenda furono, secondo è verisimile, a un di  presso quei medesimi che si possono tracciare  in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe  sono strette, come i due popoli, da intima pa-  rentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dis-  simili certo ma certo anche analoghi fra loro.   Se non che quando l'arte, almeno nella più  vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il  mito presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto  uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)ro-  babilmente nell'antichissima Enna. Certo nel-  Vlnno omerico a Demetra^ il quale è da attribuire, sembra, al secolo VII avanti l'èra (1), la  leggenda si preoccupa, non pur di adombrare  le vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe  di giustificar la periodicità costante con cui la  seminagione la vegetazione e il raccolto si al-  ternano nei mesi dell'anno : coglie in somma il  fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre il  singolo momento. La figlia pertanto è tolta  prima, poi ricondotta alla madre; col patto però  cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare  nel grembo della terra, soggiornando con vicenda  alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre.  La ragione del fatto è cercata, com'è ovvio, nel-  l'essersi ormai consumato tra la rapita e il dio  rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel  simbolo di questo, il gustato frutto del melo-  grano.   Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale matu-  rità mitica, l'Inno a Demetra palesa anche di-  venuta più ricca la leggenda. Un primo a ba-  stanza antico innesto accrescitivo è da scorgersi  nella presenza di Ecate " bendata di luce ,, e  di Elios " chdaro figlio di Iperione ,. ; i quali,  giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade  il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e  affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate,  sia la Luna che risplende su le notti della  terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni  e vede tutto degli uomini: sono probabilmente     (1) T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns  (London 1904) pag. 10 sgg.  i pili arcaici personaggi entrati su la scena ac-  canto ai protagonisti : però che essi fossero i più  adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „  su la " Figlia „ perduta, essi che son gli occhi  diurni e notturni del cielo. Né l'originario lor  valore è al tutto obliterato nel carme; se bene  non vi permanga senza alterazione.   Di più, altro segno di compiutosi progresso  mitico, nell'Inno ogni figura è precisa perché  risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede  con sicurezza una teologia e una teogonia. Cia-  scun Dio è figlio di un certo, padre di un altro  e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben  suo. Le due principali Dee del racconto, le di-  vinità agresti, hanno assunto definito aspetto. La  Madre, la Signora delle biade " Demetra „, ha  profondamente evoluto la sua duplice essenza  agricola e familiare : è delirante nel suo dolore  di madre cui l'unica figlia è tolta X3er tradi-  mento ; è d'altra parte padrona della vita degli  uomini, che può prosperar per il dono grami-  minaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta in  somma al supremo vertice la sua natura umana  e la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco  " Cora „, spazia, vivente d'una vita che par s'a-  limenti da sangue nostro, su tutti i campi ov'è  vegetazione, e le grazie della sua feminea gio-  vinezza cercan a preferenza fiori profumi e  prati. Il suo valore naturalistico dì seme che  i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra :  è dea, è bella, è ingenua, e le vergini Oceanine  le fanno corteo. Presso agli agresti, con uguale  individuata determinatezza appajono gli Dei sot-  terranei, addotti da quel vincolo di analogia che vedemmo pili sopra. L'infero Nume rapitore  è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la vasta  moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non  gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per  preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo  cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo cocchio  è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco,  siede Persèfone, regina fra i trapassati com'egli  re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide  larve. — Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii  supremi, partecipano alle scene del dramma :  Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e  numi; Iride, messaggera di lui a Demetra per  placarne il dolore, se bene vano le riesca il  viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto,  che induce Ade a cedere la recente conquista.  — Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si  stringono attinenze come sogliono tra gli umani :  Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di  cui è padre, appar fratello di Demetra : Zeus,  risplendente face della terra, è germano di Ade,  come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella  secreta germinazione del grano. Uniche non po-  tevano congiungersi in parentela, perché s'eli-  devano l'una con l'altra, Cora e Persèfone : la  rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poiché  il contrasto non si poteva dalla fantasia supe-  rare in altro modo, il quale non offendesse l'una  delle Dee, le due figure diverse si ridussero a  differenti nomi dalla medesima persona scam-  bievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto il tono austero della Regina, di cui tuttavia  mitigava la maschera accigliata. La creatura  leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne  delle due onde fu composta, ma risultò armo-  nica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la  Madre, rigidezza e austerità fra i morti i^resso  il marito.   Il poeta adunque ricevette dalla tradizione  una trama di leggenda ben più ricca che la  povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi  più precisi e raccolti in gruppo organico. Vi  apportò in oltre la sua arte che addusse la saga  a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli  difatti non senza raccoglimento religioso né  senza coscienza, al meno complessiva, del suo  significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto  quale una creazione bella dello sph'ito : come il  suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare  il torso nudo di un efebo o le ginocchia del  vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui,  sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla  sua origine; e le mani pajono comporla e pla-  smarla allora per la prima volta in un fervore  pacato di concezione e di espressione. Tutto  si ordina secondo un'architettura severa, dal re-  spiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo  di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei  secoli lontanissimi è, più che in ogni altro  senso, in un tranquillo godimento. Segno non  piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'ef-  ficacia che all'arte compete qual balsamo delle  belle creature mitiche.   Intercalato però nel mito è un lungo racconto,  diverso (1). Demetra, appreso da Elios il nome  del rapitore, in preda alla sua folle sofferenza  giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra  un sasso, " la pietra del pianto „, assumendo  l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le  figlie del Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono  col chiederle e col darle notizie: attratte anzi  dalla simpatia che spira il sembiante venerando,  l'invitano nella casa della madre loro, Metanira,  accennandole d'un bimbo di recente nato cui  ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la  Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta  al piccolo Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vor-  rebbe donare il sacro dono dell'immortalità ;  onde di notte lo pone, con certe sue arti ma-  giche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si  accresce di vigore e acquista la virtù sovrumana.  Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e  scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e  distrugge l'incantesimo. Demofonte non sarà  libero di morte. Ma per compenso la Madre  delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini!  Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti  del suo culto. — A spiegare, appimto, il culto che  in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a  Demetra è dunque indirizzata tutta questa ampia  parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come  nei particolari costituisce dunque un complesso  etiologico ben distinto dal complesso mitologico.  E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava  quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo  rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel primo  fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della  vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno  alla Dea agreste innominata, la saga si sarebbe  potuta complicare di personaggi e di episodii, ri-  vestendo un venerando colore di antichità sacra.  Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie  deirinno attraggono la nostra attenzione (1).  All'uno e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale  che importa porre in tutto il suo risalto. Questa:  nel momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli  uomini conoscono già l'uso del grano, come si  semini e come cresca fra le zolle ; quel momento  anzi cagiona un temporaneo danno ai campi :  che " molti nei campi in vano trascinarono i  bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco  orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini  tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „ (2).  E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona alla  Madre la figlia per " due terzi del volgente  anno „ ritorna in terra la gloria del biondo cibo.  Il soggiorno di Demetra in Eleusi è contempo-  raneo al danno, e la sua conseguenza si riduce  intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma,  appare qui a bastanza conservato il contenuto  originario del mito naturalistico: se difatti De-  metra è la biada il cui chicco scompar sotterra  per germinare e risorgere culmo, è giusto che  le biade esistano prima del ratto sotterraneo,  scompaiano poi, riappajano col ritorno della rapita. E la sentenza di Zeus giova a rendere  periodico, ma senza dolore, questo alternarsi  agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di uma-  nità siasi trasfuso nel racconto a velarne il si-  gnificato primitivo, questo permase non corrotto;  si che la leggenda dell'Inno merita il nome di  prisca.   E noi la diremo protoattica, in confronto con  un'altra meno antica (del V secolo) che, per  essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica.  Questa seconda concepisce il mondo ignaro di  messe prima che si compisse il ratto, esperto  solo di poi : di maniera che la violenza di Ade  è causa, oltre che de' Misteri e del giudizio di  Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la semi-  nagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di  Trittolemo : nome che ricorre già nell'Inno qual  di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una  con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura  per contro che appare adesso la prima volta,  e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria pla-  stica pittorica, col carattere di adolescente gio-  vinezza e con l'officio di maestro nella fatica no-  vissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il  pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la  triade recente spezza lo schema anteriore rico-  stituendone un altro. Nel quale, dunque, non si  oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma  acquista un valore riflesso : perché il rapimento  di Cora diviene, meglio che la trasfigurazione  umana della sorte graminacea, l'inizio storico,  cronologicamente e geograficamente inteso, del  grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto  non sostituisce soltanto con importanza maggiore Trittolemo al Demofonte deirinno per la  magia del fuoco ; bensi sopprime anche la ven-  detta di Demetra, che in verità non avrebbe più  modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira,  genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a  quella condizione di misera vita, ch'è acconcia  a uomini privi della vera e primissima fonte  di agio.   Accetta permase questa leggenda. Nel suo  largo diffondersi subì, è vero, non pochie, sviluppando a sé  tutta la seconda parte della leggenda, la equi-  librò con l'ampUarne, ai due estremi, il combat-  mento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto.  Inserì nella sua materia anche la nobile fede  di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo  a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non  priva di malignità né di un grossolano sale.  Se bene già questa non era una giunta che com-  piesse, si più tosto una intrusione che alterava,  il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche  le vicende della contesa; e tradusse il duello in  una battaglia omerica; — cadendo nella più  stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pleto-  rico : non diverso, si bene monotono. Nella scialba  sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine,  senza garbo né acume, tracce d' umane pas-  sioni. Della cui banale mediocrità s' intende  quindi il motivo : fu necessario all'autore inspessirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' im-  menso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui  or là, la perizia tecnica foggia il verso con  eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nel-  l'insieme, sopra un ben intuito fondamental con-  trasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e  rigonfia gli elementi dell'opera.   E ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto  nel primo episodio: volubile superficialità psico-  logica accanto a larghezza romanzesca. Ma ana-  logo è nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro  il poeta non ha colto il cuore del mito, né ha,  da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non  avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con  il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea :  pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse  la tentò con approcci successivi, e di ciascuno  rimase una traccia: ora piacque l'analisi psichica,  ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agita-  zione bellicosa; in parte fu possibile imitare  Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun  punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno  amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte  le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che  reagisce pigramente se ben non dorma ancora.  In realtà lo spirito è distolto ; vive altrove.   Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è  molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia  nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo  dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di  Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos  è a pena morto. In non si sa qual recesso del  mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé quattro ciance. È un mormorio di donnicciuole  con un rivenditore del mercato. L'uno dà le  notizie ; l'altre gli si fanno attorno, — e ov'è la  bellezza dei volti? — con moti curiosi: ora  questa ora quella alza la voce ; le compagne in  tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare  de' più recenti fatti, e l'amico li ha appresi ori-  gliando. L'eco della terra par muovere da una  lontananza. Ma la terra è presente.   Tritone e le Nereidi.   Tbit. — Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste  contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non fé'  danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso già  esso medesimo.   Ner. — Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta  come ésca la vergine, lo assalse ed uccise, attenden-  dolo in agguato con molti guerrieri ?   Trit. — No. Ma voi conoscete, — credo o Ifianassa  — Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul  mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno  e che per compassione di loro voi avete salvato.   Ifian. — So di chi parli: suppongo che ora sia  un giovine e molto prode e bello di aspetto. Trit. — Egli uccise il ketos.   If. — E perché, o Tritone ? non questo compenso  per vero egli ci doveva.   Trit. — Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu man-  dato contro le Gorgoni per compiere al re quest'im-  presa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia...   If. — Come, o Tritone ? solo ? o conduceva com-  pagni? che altrimenti la via è difficile.     (1) Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner).   Tbit. — Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito  d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimora-  vano, esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il  capo a Medusa e scapparsene a volo.   If. — Ma come le guardava ? sono difatti inguar-  dabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo  di esse.   Trit. — Atena col porgli innanzi lo scudo (queste  cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a  Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Me-  dusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio :  allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre  riguardando nell'imagine, recise con la falce nella  destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destas-  sero volò via.   Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già  basso su la terra volando scorge Andromeda esposta  sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o dèi !,  sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da  prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la  causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore  (bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise  di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso  come per divorar Andromeda ; e il giovine, penden-  dogli di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo  colpi, con l'altra gli mostrò la Gorgone e lo fece pietra:  la belva tosto mori e divenne rigida in molte membra,  quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli  della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre  scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole;  e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la condurrà  in Argo : cosi che in luogo della morte ella trovò un  marito, e non comune.   Ir. — Io già dell'avvenuto non mi sdegno; che colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre  menava vanto e riteneva d'esser più bella ?   DoB. — Ma in tal modo, come madre, avrebbe  sofferto per la figlia sua.   If. — Non rammentiamo più tali cose, o Doride,  se una donna barbara ciarlò un po' più del giusto.  Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la  figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze.   Certo, la terra è presente. E nei gesti che si  sottintendono ; e, più, nei confini mentali degli  interlocutori. L'arte di Luciano li designa con  perizia finissima nelle varie domande chemuovon  a Tritone le Nereidi. Da principio, annunziata  la morte del ketos, suppongono, com'era più  semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo :  — è il primo ingresso dello stupefacente. Perseo  s'era recato in Libia. E quelle pensano a una  regolare spedizione con compagni, ^' che altri-  menti la via è difficile „. Ragionan bene; ma,  per altro, Perseo volava : — nuova maraviglia.  Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come  la guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da  quel momento Tritone può continuar ininter-  rotto. E continua; ma svela, in un suo breve  inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle  interrogazioni. Perché Perseo fu " preso da  amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava  salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per  l'animo dell'eroe, che in esso quella non è causa  sufficiente e appropriata ; bensì smaschera l'ar-  tificio del mitologo, e mostra la passione in-  ventata a giustificare la salvezza della vergine.  E una critica genetica, diremmo oggi. Ed è la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie  di Nereo. Il dono delle ali è rilevato come stro-  mento mitopeico perché Perseo potesse recarsi  in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo ar-  tefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima  nefasta efficacia che le si soleva attribuire  Dunque, — è deduzione implicita, — ci fu una  interessata volontà, la qual condusse con varie  furberie il giovine in Libia e contro Medusa e  fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che ima-  ginò taluno. Passo a passo i colpi son recati,  fin che la leggenda non ha più una base di fede,  si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde  si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Ne-  reidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero  da cui sono animate è, non cosi ristretto da non  concepir l'insueto, ma largo a bastanza da ne-  garlo. E nell'ultime parole la larghezza si ac-  cresce d'un contenuto morale , estrema vetta di  cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto  colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto  che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ;  né dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza  d'una donna barbara con loro. Son questi, si,  ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la  coscienza etica di Euripide; ma la tragedia  manca, né può sussistere adesso. La fiaba è stata  svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde  il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora  il cuore stesso dell'artista.   Come un luogo comune dell'ornamentazione  retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue  Astronomiche^ a proposito delle costellazioni denominate da Perseo e da Andromeda. Ma  senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso  (non importa se anteriore nel tempo) assai men  vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel  quale l'intellettual sorriso della critica è tutta-  via indizio di un sopravvissuto interesse, come  a passato recente e sentito ancora. Manilio per  contro segue l'andazzo letterario, e non illumina  né pure con la luce della sfera più alta le te-  nebre deir ormai superata. La conversione dei  personaggi in astri, che presso Euripide era  giunta a troncare ardui problemi dello spirito,  diviene qui lo spunto, donde il raccónto si di-  parte : le è anzi asservito il racconto medesimo,  il quale nella mente all'astrologo imbelletta la  pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva tro-  vato favor di accoglienza fra i Latini (1). Si  che qui si misura, con precisa esattezza, il re-  gresso dell'efficacia leggendaria.   Né Luciano né Manilio accennano a Fineo.  Se per ciò si connettano con il tragico che, —  forse, — non gli aveva trovato luogo nel drama,  non è a dirsi. La natura del tema, in entrambi,  giustifica il silenzio: che Fineo non divenne  astro né ebbe attinenze col ketos. Per contro è  notevole che non essi, come non Apollodoro né  Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E  per chiaro motivo. Creata quella nel momento  del culminante interesse pel mito, scompare di Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^  (Miinchen 1913) II 2 pagg. 28 e 37. poi con lo scemarsi della simpatia traverso le  posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della  parabola, che segna lo sviluppo di questa leg-  genda, sta adunque una singolare originalità  ch'è in contrapposto ad un tempo con gli stadii  precedenti e con i successivi. E una singolare  ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa  diretta.  Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che  mille metri sul mare, non lungi a un lago cui  oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella  antichità, sopra una larga groppa dei monti  Erei (2), onde, traverso l'aria diafana delle au-  rore e dei tramonti settembrini, le pupille be-  vono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi  solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. De-  metra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia     (1) Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II,  di cui nelle note successive si citano i §§.   (2) La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Ca-  strogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig LA DEMETRA d'bNNA   di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli  anni di Cicerone templi statue culto. Le donne,  cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano  forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo da  Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa  da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pen-  siero divoto, supplice per la famiglia ed i campi,  timoroso dell'ire e delle vendette divine: però  elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo  del matrimonio e delle spighe, sembrasse ve-  gliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane  in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione  l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta  contro il mal governo di Verre, l'origine anti-  chissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ;  ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i riti  sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da ogni  popolo senza contrasto (1). Contrasto certo non  sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense  si guardava, come a reliquia dei tempi, con un  profondo rispetto, che le arcane leggende dei  primordii rendevano più intimo e sentito.   Né la memoria secreta del popolo o il suo  pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi  che, — forse, — la Storia oggi, molti nessi rav-  visando e molte trasformazioni che s'ignoravano  allora, riesce a dare un più saldo fondamento  alla credenza di quei Siciliani, un contenuto  meglio ampio al loro ricordo; se bene diffìcil-  mente serbi la grata bellezza poetica di cui in-  sieme erano pregnanti religione e mito. CICERONE (si veda) in Verr. IV 106.  È probabile che gli avvenimenti seguissero  cosi (1).   Enna, nella sua forte positura montana, è da  presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici  appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a cercar  rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX  avanti l'èra. Le coste, più agevole sede, eran  divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente  di predatori troppo ben armati perché fosse riu-  scibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei vio-  lenti s'era per alcun tempo spostato verso l'in-  terno il processo evolutivo che, non senza influssi  esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età  eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava  fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ;  tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza anche  il pensiero religioso, con la leggenda divina che  n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavven-  tura, dagli scavi archeologici noi siamo assai  meglio informati su gli oggetti delle più ve-  tuste necropoli e su gli stili loro, che non su la  maturità mentale, su gli dèi, su le fiabe, di  questa tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra  tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare  una caratteristica dell'intelletto siculo antichis-  simo la quale valga a contraddistinguerne, p. es.,  i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e  nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri  l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a  linee sommarie e incompiute.   Per ciò la congettura ancor che acuta lascia     (Ij Cfr. §§ 1 e III.     112 III. - intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli del-  l'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger  il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'isti-  tuto familiare, erano stati il tesoro comune che  gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso  le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie  meglio possedute e costituite col cessar del no-  madismo, avevano per sé più e più secoli di  trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro  celata forza e importanza, due poli essenziali  nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto,  da attrarre parecchie fra le medesime divinità  della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divi-  nità delle tenebre e di quella morte, che la mente  bambina dei primitivi, iDer non averne compreso  il profondo valore e la non palese bellezza, cir-  condava di ombra nelle celate viscere della terra  ove scompajono i corpi di uomini'ed animali.   Di questi due poli religiosi seguire a ritroso  la progressiva formazione, conduce a origini tra  sé lontane. Il naturismo che venera l'albero e il  sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ;  l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spi-  rito del sasso e la potenza del seme ; il più ma-  turo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di  tutta la terra una divinità sola o di tutte le  biade: ci riassumono, — nei loro gradi più re-  cisi, e nelle loro sfumature assai meno formula-  bili, — la storia sintetica del Nume agreste, il  quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e  disciplina intorno al suo proprio culto. È un'a-  scesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : è  un germogliare della credenza su da quel suolo  cui si richiama. — Altra via tien la famiglia nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che  è morto dopo aver in vita esercitata la suprema  autorità su le mogli e i figli ; ed è morto la-  sciando nella dimora le cose tutte che già furono  segnate del suo possesso e cedendole ai succes-  sori insieme con le vendette da compiere e gli  odii da esaurire; ed è morto spezzando con l'ul-  timo alito la compagine che si raccoglieva in-  torno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo  che li legava per la sua difesa : rappresenta con  la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché  l'ombra di lui non debba venir placata dai ne-  poti, e il suo nome di " Padre „ ripetuto. E  quando, anche qui, la intelligenza divien sensi-  bile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si  accostano si penetrano si fondono nella simi-  glianza della lor figura, la divinità del Padre  è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a in-  fluire su l'altre simili della Madre (ove anche il  matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio  della Figlia; le quali presuppongono però sensi  d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti  tra i diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo  vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa  di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e,  in sintesi, protegge per la sua parte la vita fa-  miliare. Ed è processo comparativamente recente,  se si pensa all'istituto e agli affetti che lo pre-  cedono; ma è comparativamente vetusto se si  pensa alla non piccola serie di alterazioni cui  già è andato soggetto in poemi antichi come gli  omerici.   Ma, se la formazione originaria degli iddii  agresti su dalla natura è diversa da quella dei familiari su dalla morte , non mancano , tra le  due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto  de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicende-  volmente, è ben noto. Ma nel caso speciale  anche più efficace influenza vi doveva essere.  Però che la terra sola faccia (se fecondata dal  cielo) prosperare il gregge ed i figli, — la fa-  miglia, in somma. Il campo dell'erba e quel  delle biade son la ricchezza; perché sono il nu-  trimento la salute la vigoria, de' buoi e delle  capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre  vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indo-  rasse al sole la spiga; il Padre morto, perché  protegga i suoi che lo placano e pregano, deve  tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine,  e provveder che carestia non affami gli agri-  coltori. — Antica accanto a questa, ma anche  maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la  nascita dei figli per opera delle madri, e il ger-  mogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a  pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi,  se non i primissimi, uomini apersero gli occhi:  la conservazione e la rinnovazione perenne di  quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più  seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice,  in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare  di figli il tuo solco „: e intende il talamo ma-  ritale (1). E o può sembrare un antropomorfismo  capovolto : una figurazione dell'uomo a simi-  glianza della terra. Se non che, in realtà, deve  più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo- Biade I 303, Euripide Fenici 18. morfismo, per cui il fenomeno naturale assume,  nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto  dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto del-  Taria, è padre della pioggia, e i campi hanno  dopo il raccolto un abbandono puerperale. E  tra le forme questa appare certo antichissima:  perché, anche psicologicamente, sembra tosto  suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica  e dalla importanza, tanto della generazione  umana , quanto della produzione terrestre : e  perché è contraddistinta da una elementare  semplicità, che la rende compatibile con uno  stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad  ogni modo, — come principio ad effetto, —  forma anteriore a quella teogonia che figura  gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in fa-  miglie composte da genitori e figli, da parenti  ed affini.   Or come per un lato le divinità dei campi  e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor  nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda  richiamano al pensiero quelli che sotto la terra  regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto  il seme per lunghi mesi; sotto la terra profon-  dano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano  con tanta forza e tenacia che duro è abbattere  una quercia; sotto terra scompaiono tal volta  alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano polle,  che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dis-  setano del pari la bocca dei bimbi e i grumi  inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono  il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso,  di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda  della spiga, ad esempio, matura e granita, che s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e ad  essi deve in parte tornare di poi. La Dea che  la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli  Dei inferi forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i  due, diversi.   Quanto però sono facili rapporti fra la zolla  feconda e l'invisibile profondità sotterranea,  tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo.  La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno  forza e colore, spirano nella vegetazione la loro  secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la  crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è  onusto di grappoli, l'Astro sol tanto par dargli  il verde per le frondi e il rosso per i frutti.  Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo  perché l'aria l'impregni, da la calda aria pure  essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si  flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,  l'assalto cieco della gragnuola convertono in  desolazione la speranza, in strage la messe. Le  potenze della luce e della volta celeste reggono,  per una grande lor parte, benigne o maligne, le  vicende della terra ferace.   A tale stadio di evoluzione religiosa (1) eran  assai probabilmente giunti i Siculi quando in  Enna si elaborò il mito. E tutti i concetti fonda-  mentali, tutti i principali stami di questo inci-  piente tessuto sacro, nel mito appunto conversero. Quando delle figurazioni che si accennarono  Una sintesi su la religione degli Indoeuropei e su  Fantichissima romana, in De Sanctis Storia dei Romani I  (Torino 1907) capp. Ili e Vili.  è ormai ricca la mente, le fiabe che possono es-  serne conteste sono molteplici, e solo il caso o  la preponderante importanza di taluno tra i fe-  nomeni riesce a far prevalere qualunque l'una  di esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe  o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla sic-  cità o squassato dai vènti ; il suo nascer e i  primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta  brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e  l'abbondante capellatura delle arèste ; la semina-  gione e il riposo invernale: posson del pari offrire  contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi  sotto sembianza umana e familiare, si attengono  per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo  e delle tenebre. — Ma principalissimo è senza  dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo,  onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che  il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto  la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad  elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui  avevan parte le nozze della figlia tolta alla  madre; le nozze richiamò in una delle forme  consuete, il ratto. Fece salire su la terra la po-  tenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le at-  tribuì. Disse il lamento della Madre biada cui  la biada sua Figlia è rapita, simile al lamento  delle madri umane. Alla scena disegnò lo sfondo  delle selve che circondavano il lago di Pergo,  da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito  il Dio inferno.   A questo poco si limita quel che nella proba-  bilità storica la congettura può affermare della  originaria saga sicula. Però che troppo esigue  tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più tardi, da nuove vicende, e non fermata, — quel  che più importa, — in canti che il pregio del-  l'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ;  i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse me-  moria traverso gli anni; ma col suggello del  segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti  e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai  riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo :  il nome delle Dee agresti, antichissimo; quel  del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto  il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma  ogni rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi  è, e resterà, nelle tenebre.     n. — Il mito greco.   E certo tenebre graverebbero del pari sopra  un altro consimile mito e culto in Grecia, ove  l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito  ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò la  leggenda furono, secondo è verisimile, a un di  presso quei medesimi che si possono tracciare  in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe  sono strette, come i due popoli, da intima pa-  rentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dis-  simili certo ma certo anche analoghi fra loro.   Se non che quando l'arte, almeno nella più  vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il  mito presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto  uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)ro-  babilmente nell'antichissima Enna. Certo nel-  Vlnno omerico a Demetra^ il quale è da attribuire, sembra, al secolo VII avanti l'èra (1), la  leggenda si preoccupa, non pur di adombrare  le vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe  di giustificar la periodicità costante con cui la  seminagione la vegetazione e il raccolto si al-  ternano nei mesi dell'anno : coglie in somma il  fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre il  singolo momento. La figlia pertanto è tolta  prima, poi ricondotta alla madre; col patto però  cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare  nel grembo della terra, soggiornando con vicenda  alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre.  La ragione del fatto è cercata, com'è ovvio, nel-  l'essersi ormai consumato tra la rapita e il dio  rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel  simbolo di questo, il gustato frutto del melo-  grano.   Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale matu-  rità mitica, l'Inno a Demetra palesa anche di-  venuta più ricca la leggenda. Un primo a ba-  stanza antico innesto accrescitivo è da scorgersi  nella presenza di Ecate " bendata di luce ,, e  di Elios " chdaro figlio di Iperione ,. ; i quali,  giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade  il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e  affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate,  sia la Luna che risplende su le notti della  terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni  e vede tutto degli uomini: sono probabilmente     (1) T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns  (London LA DKMETRA d'eNNA   i pili arcaici personaggi entrati su la scena ac-  canto ai protagonisti : però che essi fossero i più  adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „  su la " Figlia „ perduta, essi che son gli occhi  diurni e notturni del cielo. Né l'originario lor  valore è al tutto obliterato nel carme; se bene  non vi permanga senza alterazione.   Di più, altro segno di compiutosi progresso  mitico, nell'Inno ogni figura è precisa perché  risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede  con sicurezza una teologia e una teogonia. Cia-  scun Dio è figlio di un certo, padre di un altro  e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben  suo. Le due principali Dee del racconto, le di-  vinità agresti, hanno assunto definito aspetto. La  Madre, la Signora delle biade " Demetra „, ha  profondamente evoluto la sua duplice essenza  agricola e familiare : è delirante nel suo dolore  di madre cui l'unica figlia è tolta X3er tradi-  mento ; è d'altra parte padrona della vita degli  uomini, che può prosperar per il dono grami-  minaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta in  somma al supremo vertice la sua natura umana  e la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco  " Cora „, spazia, vivente d'una vita che par s'a-  limenti da sangue nostro, su tutti i campi ov'è  vegetazione, e le grazie della sua feminea gio-  vinezza cercan a preferenza fiori profumi e  prati. Il suo valore naturalistico dì seme che  i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra :  è dea, è bella, è ingenua, e le vergini Oceanine  le fanno corteo. — Presso agli agresti, con uguale  individuata determinatezza appajono gli Dei sot-  terranei, addotti da quel vincolo di analogia che vedemmo pili sopra (1). L'infero Nume rapitore  è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la vasta  moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non  gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per  preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo  cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo cocchio  è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco,  siede Persèfone, regina fra i trapassati com'egli  re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide  larve. — Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii  supremi, partecipano alle scene del dramma :  Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e  numi; Iride, messaggera di lui a Demetra per  placarne il dolore, se bene vano le riesca il  viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto,  che induce Ade a cedere la recente conquista.  — Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si  stringono attinenze come sogliono tra gli umani :  Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di  cui è padre, appar fratello di Demetra : Zeus,  risplendente face della terra, è germano di Ade,  come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella  secreta germinazione del grano. Uniche non po-  tevano congiungersi in parentela, perché s'eli-  devano l'una con l'altra, Cora e Persèfone : la  rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poiché  il contrasto non si poteva dalla fantasia supe-  rare in altro modo, il quale non offendesse l'una  delle Dee, le due figure diverse si ridussero a  differenti nomi dalla medesima persona scam-  bievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto il tono austero della Regina, di cui tuttavia  mitigava la maschera accigliata. La creatura  leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne  delle due onde fu composta, ma risultò armo-  nica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la  Madre, rigidezza e austerità fra i morti i^resso  il marito.   Il poeta adunque ricevette dalla tradizione  una trama di leggenda ben più ricca che la  povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi  più precisi e raccolti in gruppo organico. Vi  apportò in oltre la sua arte che addusse la saga  a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli  difatti non senza raccoglimento religioso né  senza coscienza, al meno complessiva, del suo  significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto  quale una creazione bella dello sph'ito : come il  suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare  il torso nudo di un efebo o le ginocchia del  vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui,  sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla  sua origine; e le mani pajono comporla e pla-  smarla allora per la prima volta in un fervore  pacato di concezione e di espressione. Tutto  si ordina secondo un'architettura severa, dal re-  spiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo  di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei  secoli lontanissimi è, più che in ogni altro  senso, in un tranquillo godimento. Segno non  piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'ef-  ficacia che all'arte compete qual balsamo delle  belle creature mitiche.   Intercalato però nel mito è un lungo racconto, diverso (1). Demetra, appreso da Elios il nome  del rapitore, in preda alla sua folle sofferenza  giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra  un sasso, " la pietra del pianto „, assumendo  l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le  figlie del Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono  col chiederle e col darle notizie: attratte anzi  dalla simpatia che spira il sembiante venerando,  l'invitano nella casa della madre loro, Metanira,  accennandole d'un bimbo di recente nato cui  ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la  Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta  al piccolo Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vor-  rebbe donare il sacro dono dell'immortalità ;  onde di notte lo pone, con certe sue arti ma-  giche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si  accresce di vigore e acquista la virtù sovrumana.  Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e  scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e  distrugge l'incantesimo. Demofonte non sarà  libero di morte. Ma per compenso la Madre  delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini!  Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti  del suo culto. A spiegare, appimto, il culto che  in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a  Demetra è dunque indirizzata tutta questa ampia  parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come  nei particolari costituisce dunque un complesso  etiologico ben distinto dal complesso mitologico.  E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava  quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e     (1) Yv. 91-304.  soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo  rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel primo  fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della  vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno  alla Dea agreste innominata, la saga si sarebbe  potuta complicare di personaggi e di episodii, ri-  vestendo un venerando colore di antichità sacra.  Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie  deirinno attraggono la nostra attenzione (1).  All'uno e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale  che importa porre in tutto il suo risalto. Questa:  nel momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli  uomini conoscono già l'uso del grano, come si  semini e come cresca fra le zolle ; quel momento  anzi cagiona un temporaneo danno ai campi :  che " molti nei campi in vano trascinarono i  bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco  orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini  tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „ (2).  E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona alla  Madre la figlia per " due terzi del volgente  anno „ ritorna in terra la gloria del biondo cibo.  Il soggiorno di Demetra in Eleusi è contempo-  raneo al danno, e la sua conseguenza si riduce  intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma,  appare qui a bastanza conservato il contenuto  originario del mito naturalistico: se difatti De-  metra è la biada il cui chicco scompar sotterra  per germinare e risorgere culmo, è giusto che  le biade esistano prima del ratto sotterraneo,  scompaiano poi, riappajano col ritorno della rapita. E la sentenza di Zeus giova a rendere  periodico, ma senza dolore, questo alternarsi  agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di uma-  nità siasi trasfuso nel racconto a velarne il si-  gnificato primitivo, questo permase non corrotto;  si che la leggenda dell'Inno merita il nome di  prisca.   E noi la diremo protoattica, in confronto con  un'altra meno antica (del V secolo) che, per  essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica.  Questa seconda concepisce il mondo ignaro di  messe prima che si compisse il ratto, esperto  solo di poi : di maniera che la violenza di Ade  è causa, oltre che de' Misteri e del giudizio di  Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la semi-  nagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di  Trittolemo : nome che ricorre già nell'Inno qual  di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una  con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura  per contro che appare adesso la prima volta,  e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria pla-  stica pittorica, col carattere di adolescente gio-  vinezza e con l'officio di maestro nella fatica no-  vissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il  pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la  triade recente spezza lo schema anteriore rico-  stituendone un altro. Nel quale, dunque, non si  oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma  acquista un valore riflesso : perché il rapimento  di Cora diviene, meglio che la trasfigurazione  umana della sorte graminacea, l'inizio storico,  cronologicamente e geograficamente inteso, del  grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto  non sostituisce soltanto con importanza maggiore Trittolemo al Demofonte deirinno per la  magia del fuoco ; bensi sopprime anche la ven-  detta di Demetra, che in verità non avrebbe più  modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira,  genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a  quella condizione di misera vita, ch'è acconcia  a uomini privi della vera e primissima fonte  di agio.   Accetta permase questa leggenda. Nel suo  largo diffondersi subì, è vero, non pochimuta-  menti, né tutti soltanto di particolari; giacché,  dovunque a Demetra e Cora fosse culto, divenne  costume lecito alterare la saga per adattarla  alle esigenze e ai vanti locali. Ma sul xjullulare  di coteste piccole invenzioni essa si ergeva con  l'alto suo fusto, destinata a varcare i confini di  un Comune per attingere gli estremi del mondo  colto. Unica può starle a paro, per intima vì-  goria di concepimento, e per potenza espansiva,  la favola composta nell'ambito di quel moto  filosofico e religioso onde il pensiero greco, e  specie nell'Attica, fu travagliato al tempo dei  Pisistratidi, moto che conosciamo col termine di  " Orficismo „. Serbandosi solo le due Dee e  Trittolemo, nuova veste di nomi e nuovo in-  treccio di casi assunse il mito di Cora fra gli  Orfici ; ma non tutti i suoi particolari ci impor-  tano qui : quelli soltanto che furono poi efficaci  sul vetusto nucleo leggendario dei Siculi in Enna.   Però che tutt'e tre, la proto e neoattica e  l'orfica, s'incontrassero queste versioni greche  con la siciliana, tenace per antichità, infantile per  incompiutezza. E dall'incontro scaturiva un lungo  moto di storia.      in. Il mito siracusano.   I Siculi, che si erano ritirati su i monti del-  l'interno perché incapaci di resistere ai predoni  dell'Oriente venuti a loro traverso i mari, e che  in Enna avevan con più insistenza fissato il lor  mito agreste, lasciarono nello scorcio dell'^TH se-  colo le coste dell'isola popolarsi di Greci, sonare  dei nuovi linguaggi e dell'armi nnove, ornarsi  di sedi le quali si trasformavano via via, dive-  nendo sempre più salde più ampie più belle, in  città ricche. E gli EUeni in quel secolo e nel VII  e nel VI seguenti, trovando sgombro per sé il  terreno, o sgombro facendolo con distruggere  e sottoporre gl'indigeni, s'insediarono nella teri'a  siciliana con tutto agio, fino a giungere in breve  a fiore civile intellettuale e artistico grandis-  simo in paragone di quelli, e a distendere sn  tutte le portuose spiagge dell' isola un incan-  cellabile smalto greco (1). Dèi miti templi ceri-  monie della loro mentalità religiosa si radicano  ivi senza resistenza, e, nel trapiantamento fuor  dalla patria, pajon rinascere con rinnovellata  vigoria e bellezza.   Certo la lor somma di progresso spirituale e Ampio racconto su la colonizzazione greca dell'Oc-  cidente, in HoLM Storia della Sicilia (trad. ital.) voi. I  (Torino 1896) lib. Il; Freeman History of Sicihj voi. I  (Oxford 1891); Pais Storia della Sicilia e Magna Grecia  voi. I (Torino 1894). di culto civico, accopj)iandosi con la congenita  irrequieta genialità e l'inconculcabile aspira-  zione ad accrescere il possesso, doveva spingerli  presto a violare i segreti delle regioni più in-  terne e a portarvi il soffio della propria opera  contro le resistenze dei Siculi, non restii ad evol-  versi si a sottomettersi. E forse, traverso anche  i commerci di scambio, a Enna ebbero a per-  venire folate di vento greco fin dal secolo VI.  Eorse (1). Ma quante e quali nessuno direbbe ;  perclié non la minima traccia n' è rimasta ; né  fino ad ora gli scavi archeologici e' illuminano  alcun poco.   La palese influenza dei Grreci su Enna co-  mincia nel V secolo e per opera di Sii^acusa.  Dopo che Gelone ebbe, con il sussidio del suo  alleato Terone tiranno di Agrigento, sconfìtti ad  Imera circa il 480 a. C. gli eserciti cartaginesi  di Amilcare, Enna entrò nella sfera siracusana  e ne fu assorbita. Qual resistenza politica op-  ponesse non importa qui sapere. Senza dubbio  oppose una resistenza riguardo al suo culto e  al suo mito, che non poterono venir eliminati,  ma rispettati dovettero essere. La risultante di  queste due forze (la siracusana che assorbiva e  la ennense che non cedeva) fu una leggenda,  la quale impropriamente si direbbe contaminata,  perché è più tosto un compromesso di politica  religiosa, una formula felice per conciliare le  pretese o, se piace, i diritti dei due centri diversi. In Siracusa Grelone fu un institutore e un pro-  pagatore zelante del culto delle greche iddie  Demetra e Cora (-Persefone). Di queste il culto  aveva, — come fu visto poc' anzi, — a base il  mito del rapimento. E a quel modo che nel-  r Inno a Demetra la favola naturalistica , non  spoglia della sua prisca indeterminatezza, vien  ad arte connessa con un preciso e determinato  centro religioso, Eleusi; cosi un' analoga ten-  denza doveva indurre i Siracusani, per mezzo  dei loro sacerdoti e poeti (questi gli artefici delle  saghe), a sostituire i nomi dei lor proprii luoglii  alle indeterminate frasi del racconto mitico e a  applicare quest'ultimo non senza artifìcio su le  cerimonie sacre vigenti nella loro città. Era un  moto religioso, tanto spontaneo e consueto fra  Greci, quanto egoisticamente esclusivo, per la  preferenza che cosi ciascun paese si attribuisce  di fronte a un certo nume. Di qui nascono di-  fatti sovente contese tra regioni ; in particolare  se vi partecipa, com'è per le dee agresti, il vanto  della maggior fecondità d'un suolo a paragone  d'un altro. Né pare che Siracusa derogasse alla  generale tendenza: però che ci sia rimasto in-  dizio, se bene esiguo, d' una sua leggenda la  quale vi s'informa per l'appunto. ^q\V Epitafìo  di Bione (1) ch'è del sec. I a. C. non che in altri  testi il ratto di Cora è localizzato su l'Etna ;  onde Ade sarebbe molto dicevolmente scaturito,  come da una delle bocche dell'Erebo e del sot-  terraneo fuoco. Che se accanto a questo parti-     ci) V. 133.   A. Ferrabino, Kalypao.     colare si pone Taltro, secondo cui il Dio infer-  nale si apre la via del ritorno presso lo stagno  di Ciane (1); si ottengono i due estremi punti  topografici di una saga che adatta il vecchio  mito greco agl'interessi di Siracusa: perché Ciane  è una palude nelle vicinanze della città ; e sulla  zona dell'Etna l'influenza politica e militare dei  Siracusani si è sempre estesa o nel fatto o nel-  l'intenzioni. Ma come tale tentativo mitico pret-  tamente libero da Enna dimostra qual fosse  l'impulso originario del culto instituito da Ge-  lone ; cosi la penombra in cui permane e la ca-  ducità che lo contraddistingue provano quanto  diffìcile fosse serbar nella leggenda di Demetra  l'indipendenza contro i diritti di prima occu-  pante che competevano alla fiaba dei Siculi.   La quale s'imponeva difatti tanto più quanto  maggiormente s' era, traverso gli anni molti,  radicata nelle coscienze degl'indigeni rifugiati  su i monti, e quanto era più stretta, nel nucleo  essenziale per lo meno, la sua simiglianza con  il mito ellenico. Il ratto, sul lago di Pergo po-  tevasi rivestir di fogge e definire con nomi  greci ; non asportare dal lago : ove del resto la  feracità del luogo e la credenza, anche greca,  che dai laghi o da vicine grotte sorgessero so-  vente i numi sotterranei, ne difendevan la vita.   E difatti il ratto rimase. I Siracusani die-  dero alla divinità delle biade il nome di De-  metra; ne chiamaron la figlia col duplice ter-  mine di Cora-Persef one ; il rapitore con quello V. sotto pag. 131.  di Ade o Aidoneo. Colorirono i loro artisti tutto  l'episodio con quei pennelli che gli Elleni ben  sapevano, e con quei particolari che eran dive-  nuti fissi e tradizionali. Ma sottostettero ai di-  ritti di precedenza. Nel resto si valsero del campo  libero : la palude siracusana di Ciane fu l'aper-  tura per il ritorno, dopo che Ade sul cocchio vi  aveva da Enna trascinata Cora-Persefone. A  Siracusa, sembra, si poneva pure 1' " anagoge „  di Cora dall' Èrebo alla terra su bianchi ca-  valli. E noi non sappiamo molto di più; ma  è facile che altri particolari della leggenda si  connettessero al culto ai suoi riti ed ai sacer-  doti. Suggello poi di questo compromesso reli-  gioso tra Enna e Siracusa è l' elaborazione ca-  ratteristica d'un motivo orfico attinente al ratto  di Cora. Questa avrebbe avuto compagne du-  rante la raccolta dei fiori (1' " antologia „), oltre  le Oceanine, anche Artemide ed Atena, le dee  vergini. Ora Artemide grandemente importava  nel culto siracusano ; Atena in quello di Imera,  città a Siracusa amica durante le guerre del  V secolo specie contro Atene. Per ciò in uno  dei suoi rami la leggenda, la quale ancor qui  si vede costretta a riconoscere che a Demetra  doveva esser spettata la signoria di Enna, at-  tribuisce al meno quella di Imera ad Atena, di  Siracusa ad Artemide ; introducendo pertanto  questi due luoghi per obliqua via a lato di Enna  e, quel che importava, al medesimo livello.   Conchiuso in tal modo il compromesso tra l'esigenze dell'antichissima saga ennense e le pretese  della pili recentemente sopraggiunta saga sira-  cusana, i due centri dovettero trovarsi concordi nell'adattare a sé la figura e gli uffici di Trit-  tolemo. Non poteva esservi dubbio. A Enna  Cora è rapita mentre coglie fiori mirabili per  vaghezza e profumo ; presso Ciane Cora scende  sotterra e in Siracusa risale alla luce; Demetra  e la figlia prediligono l'isola e dal suo ombelico  la proteggono; Atena ed Artemide, compagne  alla violata, signoreggiano due città siciliane ;  il suolo è opulento di biade come non altrove :  certo dunque che in Sicilia, non altrove, cadde  il primo seme, e il primo culmo spuntò da zolla  sicana. Ma la leggenda neoattica, prevalente,  diceva l'attico Trittolemo beneficato primo del  grano. Bisognava dunque, da che respinger Trit-  tolemo non era dicevole, adattarlo in Sii^acusa  ed Enna. E l'adattamento avvenne non senza  garbo (1). Si concedette che un eleusinio, Tritto-  lemo, avesse avuto il favore di Demetra e co-  municato alle terre il dono preziosissimo; si con-  cedette che ciò accadesse in occasione del ratto  di Cora ; e fu lasciato cosi senza ritocco tutto  il racconto. Ma, — gli si premise, — già dianzi,  avanti il ratto e avanti Trittolemo, la Sicilia  produceva grano, prediletta alle due Dee per la  sua fertilità e scelta a loro dimora. Quindi, —  si conchiuse, — Trittolemo fu primo rispetto  agli altri popoli; secondo dopo i Siciliani. Una  separazione dunque della Sicilia dal restante  paese, onde il ratto divenne il momento pro-  pizio per diffondere al mondo il privilegio si-  culo. Che era non poco orgoglio. Dopo ciò esistevano in Sicilia oramai tutti  senz'eccezione gli elementi per un ben contesto  tessuto leggendario che un poeta potesse far  suo tema : i luoghi pittoreschi fra Enna e Sira-  cusa offrivano dicevole sfondo, il racconto mi-  tico aveva i suoi punti topografici fìssi e armo-  nicamente collegati ; il culto preparava salda e  e vasta base per un'accorta serie di invenzioni  etiologiche ; gli stessi orgogli delle singole città  s'eran tradotti in accrescimenti della favola, la  stessa gara con Eleusi le aveva tribuito qualche  particolare non privo di attraenza. Né manca-  rono forse i cantori che la materia non inde-  gnamente lusingasse. E pure a noi non rimane  se non il testo, povero non chiaro e senza vi-  goria espressiva, di Diodoro che attinge a Timeo.  Perché tutto vivace si senta il contrasto fra la  potenzialità artistica del mito e la mancata  espressione di esso, eh' è a un tempo mancata  intuizione, piace qui tradurre dalla Biblioteca  istorica (1), lasciando il racconto nel suo disor-  dinato svolgimento.   I Sicelioti che abitano l' isola appresero dai loro  progenitori la fama, tramandatasi traverso il tempo  nelle generazioni, ch'essa fosse sacra a Demetra e Cora;  ... e che le predette Dee in questa isola primamente ap-  parvero ; e che questa per prima produsse il fi-utto del  grano a cagione della feracità del suolo... (2). A riprova     (1) Cfr. Geffcken Timaios' Geographie des Westens in  Phi lologische Untersuchungen , XIII (1892) pag. 103 sgg.   (2) DioDORo V 2, 3. 4 passim.      adducono il ratto di Cora che avvenne in quest'isola  e che mostra chiarissimamente come in questa le Dee  soggiornassero e di questa sovra tutto si compiacessero.   Favoleggiano poi che il ratto di Cora accadde ne'  prati intorno ad Enna. Questo luogo è vicino alla città,  per viole insigne e altri fiori d'ogni genere, e degno  di vedersi. A causa del profumo di quei fiori si narra  che i cani avvezzi a cacciare perdon le tracce ottun-  dendosi loro la naturai virtù. È il prato predetto  piano e d'ogni parte ben irriguo; ai lati però scosceso  e rotto tutt'intorno da burroni. Sembra giacere nel  mezzo dell'isola : per che è detto anche da alcuni l'om-  belico della Sicilia. Ha vicino boschi e, intorno a  questi, paludi, e un grande speco con apertura sot-  terranea rivolta a settentrione; dal quale favoleggiano  che balzasse col cocchio Plutone a rapire Cora. Le  viole e gli altri fiori colà odoranti rimangon fioriti mi-  racolosamente per l'intero anno e rendono lo spetta-  colo pittoresco e gradito.   Favoleggiano ancora che insieme con Cora cre-  scessero Atena e Artemide, tutt'e tre vergini, e che  insieme raccogliessero fioH e preparassero in comune  il peplo al padre Zeus. Per l'intimità e la conversa-  zione reciproca si compiacquero specialmente di que-  st'isola; e ciascuna si ebbe un territorio : Atena dalle  parti di Imera..., cosi che gli indigeni consacrarono a  lei la città e il territorio chiamato fino ad oggi Atenèo :  Artemide ebbe in Siracusa dagli Iddii l'isola che per  lei è da oracoli e uomini chiamata Ortigia: e, pa-  rimenti alle due predette dee, anche Cora ottenne i  prati intorno a Enna. Favoleggiano poi che Plutone,  compiuto il ratto, recò Cora sul cocchio presso Sira-  cusa ; e che, spalancata la terra, scomparve con la rapita  nell'Ade ; e che ivi fece sgorgare la fonte detta Ciane. Dopo il ratto di Cora favoleggiano che Demetra,  non potendo ritrovare la figlia, accese fiaccole nei  crateri dell'Etna, si recò in molte parti della terra  abitata e beneficò, donando il frutto del grano, gli uo-  mini i quali meglio l'accolsero. Più benignamente aven-  dola accolta gli Ateniesi, a essi primi dopo i Sicelioti  donò il frutto del grano ; pel che questo popolo più  d'ogni altro onora la dea con splendidi sacrifìzii e coi  misteri eleusinii... (1).   Il mito siracusano è qui per intero : ogni linea  ne viene accennata; pietra a pietra, chi nùmeri,  l'edifìcio esiste. Né mancano (che noi trala-  sciammo per brevità) cenni etiologici alle feste  sacre. Fece difetto il genio architettonico: e il  difetto si tradisce ogni volta che Diodoro ri-  pete, — ed è spesso, — quel suo " favoleggiano „.  Altri; non egli: eh' è estraneo a quel che rac-  conta. Modello insigne, questo, del come possano  mascelle di erudito maciullare e rugumare il  fiore della saga. Il mito contaminato.   Il mito siracusano di Demetra e Cora, imper-  niato in Enna e Ciane, e nato dal compromesso  dei due centri religiosi, venne accolto nell'am-  biente poetico di Alessandria. E fu questo l'i- DioDOBo V 3-4:, 4 con qualche omissione.  nizio d'una sua vita nuova. In Alessandria (1) di  fatti, oltre alla forma siracusana della favola,  erano affluite, ed affluivano, la primitiva forma  dell' Inno omerico, insieme con la variante di  Trittolemo inventor dell'aratro : cosi che quella  diveniva la fucina ove cotesti elementi, parte  simili, parte dissimili, mossi da origini diverse,  avevan da commettersi l'un l'altro e penetrarsi.  E non pur cotesti elementi precipui ; bensì anche  alcuni altri secondarii, che per varie ragioni fos-  sero riusciti a trascendere i limiti della medio-  crità espressiva e della ristrettezza geografica,  per intrudersi nella letteratura tradizionale. La  mitopeja orfica in ispecie aveva trovato acco-  glienza favorevole nel colto ambiente alessan-  drino ; e a canto d'essa fiorivano ivi le differenti  e notevoli saghe metamorfiche, che presso i più  antichi non erano se non una forma, fra l'altre,  dell'intuizione naturalistica, e che il gusto po-  steriore, compiacendosene, moltiplicò artefece. La  storia per tanto del mito siculo fuor di Sicilia  è la storia della sua seconda immersione nel  flusso del pensiero e dell'arte greca; è la storia  del successivo accogliersi intorno ad esso di  giunte e di innovazioni via via più complesse.   Si sono smarrite per noi parecchie fra l'opere  dell'arte letteraria in cui cotesto processo ci sa-  rebbe stato trasparente: dei maggiori alessan-  drini medesimi. Sola di quelle ci è rimasta traccia Sul culto di Demetra e Cora in Alessandria cfr., p. es.,  Scolio a Callimaco Inni VI (Schneider I 133).  e tal volta quasi copia in autori romani. Con  questo valore, ci appare un ampio tratto del  quinto delle Metamorfosi ovidiane (1), in cui  appunto si rivela la contaminazione fra diverse  correnti leggendarie.   Vige l'indirizzo siracusano, — senza dubbio.  Anzi vi si manifesta con talun nuovo partico-  lare ; cosi il poeta sembra seguire più tosto una  tradizione tutt'affatto sicula, che abbandonarsi  a una variazion fantastica, quando nel luogo  di Ecate fa dare a Demetra, durante la ricerca  affannosa e dolorante di Cora, il primo indizio  del ratto dalla fonte Ciane ; e in luogo di Elios  introduce la ninfa del siracusano lago di Are-  tusa, nell'isola di Ortigia fra mezzo i due Porti.  Se non che questi elementi siciliani, che al pari  di Enna pajono saldati con il concetto duplice  di una Sicilia esperta del grano prima del ratto  e di una umanità esperta sol dopo (si ricordi  Timeo), qui invece sono trasfusi in uno schema  diverso. Quando Proserpina è rapita, la terra, se  non tutta per buona parte, già ha avuto il dono  del seme ; e Cerere del suo dolore si vendica col  privare gli uomini di aratri di bovi di spighe :  dunque, come nel mito protoattico. Ma, come  nel neoattico, Trittolemo, dopo il verdetto di  Giove, sparge per segno di pace la semenza. E i  due miti si conciliano nel pensiero che uguale bi-  sogno del nuovo dono ha cosi la zolla mai colta  come quella di cui per la vendetta divina fu  pretermessa la coltura. In tale contaminazione     (1) Vv. 341-661. Cfr. § IV. dei due miti protoattico e neoattico la saga si-  ciliana s'inquadra umiliandosi un poco, col porre  la propria terra fra più altre, prima nel godere  le biade, i)oi nel riaverle. Resta il vanto di fer-  tilità singolare e di fedeltà a Demetra.   D'altra parte il poeta asseconda, cosi per l'at-  titudine sua mentale come per la natura del  suo tema, con particolar compiacenza l'impulso  letterario delle metamorfosi. Sembra persino che  ogni vicenda del mito in tanto gì' importi in  quanto si risolve in uno di cotesti travestimenti  di forme. Ciane, ad esempio, che solo perché  palude era sembrata luogo dicevole alla scom-  parsa di Ade come un lago alla comparsa, offre  spunto a una d'esse, quale ninfa tramutata in  acqua. E anche. L'episodio di Cora-Persefone  che gusta la melagrana è sfruttato per immet-  tervi un Ascalafo ; il quale scorge la Dea nel-  l'atto, ne riferisce ed è converso in gufo. Sovra  tutto però, l'efficacia della tradizione letteraria  si risente in Ovidio per il tentativo di analisi  psicologica nei personaggi: in Cora special-  mente, per cui egli giunge sino a finezze troppo  cerebrali per esser vere, sino a farla piangere,  non che per il ratto, j)er lo smarrimento dei  fiori raccolti. Anzi, passionale diventa tutto  l' antefatto del mito : il ratto è voluto , non  da un decreto di Zeus, bensì da Afrodite cui è  sdegno che tante dee si sottraggano al suo po-  tere e che libero ne resti il medesimo Ade (la-  tinamente Dite). Amore sostituisce cosi, quando  psicologico diviene il racconto, un particolare  che, allor che esso era naturalistico, valeva con  tutt' altra importanza: la fecondante pioggia. Tuttavia lo spunto viene, non senza garbo, in-  serito sullo sfondo siciliano della fiaba : Afrodite  difatti è l'Ericina, che i Siculi facevan oggetto  di culto singolare. Cosi perché pili appaja la  giustizia di Griove e ne risalti la umanità del  mito, l'anno è pel doppio soggiorno di Proser-  pina con la madre e col marito diviso a mezzo  non più per terzi. Simile attenzione psicologica  governa i discorsi di Aretusa a Demetra, di De-  metra a Giove, materiati di accortezza feminea  e l'uno e l'altro. Al qual carattere corrisponde  poi lo studio dei gesti in ciascuna figura, per  toccare di quelli che a ciascun momento del-  l'animo competono, là dove tecniche mitologiche  più elementari non cercano se non il consueto  e costante attributo del Nume : cosi che Aretusa,  e basti per tutti l' esempio solo, ritrae  prima di parlare i capelli roridi via dalla fronte  sino alle orecchie per lasciar nudi la bocca e  il viso. Siam lontani dal cristallizzato epiteto  omerico che s'addice alla Dea; il gesto si con-  viene alla donna. Siamo allo stremo dell' alle-  goria agreste. E su la soglia dell'umanità.   Non lungi a le mura di Enna son le profonde  aeque d'un lago: Pergo, di nome. Più numerosi non  spande canti di cigno Caìstro su l'onde scorrenti. L'acque  corona una selva, d'ogni lato le cinge ; con le sue fronde  è di schermo alla vampa solare. Frescura, i rami;  purpurei fiori dà l'umida terra. Primavera è perjDetua.   Mentre nel bosco Proserpina gioca ed or viole or     (1) Vv. 885 sgg. Edizione H. Magnus (Berlino 1914).  gigli candidi coglie, mentre con fanciullesca cura seno  e canestri empie e nella raccolta studia superar le com-  pagne — ad un punto è veduta amata rapita da  Dite. Tanto fu pronto amore! Atterrita la Diva con  mesta voce madre e compagne chiamava; la madre  più spesso ; e poi che lacerata dal sommo s'era la veste,  da r allentata tunica caddero i fiori raccolti. Ed ecco  anche questa sventura, cosi fur ingenui gli anni pue-  rili, il virgineo dolore commosse. Il rapitor regge il  cocchio, e ciascuno chiamando per nome esorta i ca-  valli: scuote su colli e criniere le redini tinte di fer-  ruggine persa (1).   È nel mezzo fra Ciane ed Aretusa un golfo d'an-  gusti bracci raccolto e chiuso. Quivi fu già — e dal  suo nome lo stagno ha nome — tra le siciliane ninfe  notissima, Ciane. Ella fino a sommo il ventre sorse  tra mezzo il gorgo, e riconobbe la Dea. " Non più lungi  andrete ! „ esclamò " non puoi di Cerere essere il ge-  nero contra sua voglia: chiederla non rapirla dovevi.  Che se m'è lecito alle grandi le piccole cose accostare,  me pure Anàpi amava; ma pregata sposa mi addusse  non, come questa, atterrita „. Disse, e con aperte le  braccia si oppose. Non più non più l'ira il Saturnio  frenava: i cavalli terribile esortando, nel fondo del gorgo  il vibrato scettro regale con forte braccio affondò : la  terra percossa una via pel Tàrtaro aperse ed i preci-  piti carri nel mezzo della voragine accolse. Ma Ciane,  la rapita Dea piangendo ed i violati diritti della sua  fonte, tacita soffri ferita inconsolabile e si consunse  tutta di pianto. Neil' acque di cui grande nume già  era, or s'estenuava: molli le membra, flettevansi     (1) Omessi i vv. 405-8.     l'ossa, la rigidezza perdevano l'unghie ; le tenerissime  parti da prima si sciolser fra tutte, le cerulee chiome,  le dita le gambe ed i piedi, che di delicate membra  in acque gelide il trapasso è breve: gli omeri poi e  le terga ed i fianchi vanescendo ed il petto in tenui  si dissolvono rivi: nelle tramutate vene alla fine al  vivo sangue la linfa subentra, e nulla rimane che  prender si possa (1).   Per quali terre la Dea, e per quali acque errasse,  lungo indugio sarebbe narrare. A lei che cercava venne  meno la ten'a. Ritornò in Sicilia ; e mentre ogni dove  indaga vagando , a Ciane viene. Tutto le avrebbe  narrato, se non fosse mutata; ma lei che voleva, non  ajutavan la bocca e la lingua, né con altro poteva  parlare. Ma segni palesi ella diede e indizio alla madre:  di Persefone il cinto, in quel luogo per caso caduto  nel gurgite sacro, a fiore dell'acqua mostrava. Come  lo riconobbe, quasi il ratto appena allora apprendesse,  i disadorni capelli si lacerava la Dea ed una e più  volte il petto con le sue mani percosse.   Dove la figlia si sia ancora non sa ; ma le terre  biasima tutte ed ingrate le chiama né degne del  dono di biade: Trinacria su tutte, dove le tracce del  danno aveva trovate. Ed ecco colà di sua mano spez-  zava gli aratri che fendono duri le glebe, ed a pari  morte nell'ira mandava e i coloni ed i bovi aratori,  ed ai campi di sperdere il lor aflSdato tesoro ordinò,  ed i semi corruppe. La molto nota nel mondo fertilità  del paese è fiaccata: senza far césto muojon le biade,  ed ora le vizia l'eccesso di sole ed ora di piogge l'ec- Omessi i w. 438-461: errore di Cerere; metamor-  fosi di Ascalabo.  cesso, le stelle ed i vènti fan danno, gli sparsi semi  ingordi nccelli colgono, triboli e loglio fan guerra a  le piante del grano e non estirpabil gramigna.   Il capo allora da l'elèe onde solleva Alfèjade e  dalla fronte le roride chiome a l'orecchie ritrae. Dice:  " tu della vergine cercata nel mondo, o tu genitrice  di biade, cessa da tue immense fatiche e da la vio-  lenta ira contro la teiTa a te fida. Non ha colpa la terra ;  la rapina tollerò contro sua voglia. Né per la pati'ia sup-  plico : ospite son qui venuta. Pisa è mia patria, l'Elide  diede i nataK. Sicania abito straniera, ma d'ogni suolo  pili grata m'è questa terra. Ai-etusa, questi ora ho per  penati, questa per sede : e tu clementissima la salva !  Perché mi sia mossa per tanto spazio, e per tanto grande  mare all'Ortigia mi rechi, tempo verrà ch'io ti dica, op-  portuno, quando alleviato TatìPanno e migliore il tuo  volto sarà. A me un sotterraneo varco offre il cam-  mino e, traverso profonde caverne scendendo, qui il capo  sollevo e a le stelle di nuovo mi avvezzo. Or mentre là  sotto nel gurgite Stigio scorreva, là sotto dai nostri  occhi veduta la tua Proserpina fu. Triste ella per vero,  né per anco tranquilla nel volto; — ma Regina, ma  nell'oscuro mondo Signora, ma dell'inferno tiranno  Sposa potente „.   La madre udendo le voci stupisce ed impietra, ed  attonita a lungo rimane. Appena dal grave dolore la  grave demenza è rimossa, a l'aure superne col cocchio  ella ascende. Ivi tenebrosa il volto, scarmigliata i ca-  pelli, d'odio riarsa, stié innanzi a Giove. " Per il mio  (dice) supplice a te venni o Giove e per il tuo sangue !  se nessuno gode favore la madre, la figlia il padre com-  muova; né meno cara — preghiamo — ti sia perché  da nostro parto nata. La figlia che a lungo cercai ecco  rinvenni: — se rinvenire tu chiami il perder più cex-to,    se rinvenire tu chiami il saper dove sia. Rapita, sop-  porto : pur ch'egK la renda : che d'un marito predone  degna non è la tua figlia..., se anche mia figlia non è ,.  E Giove obiettava : " Pegno comune e gravame a me  con te è la figlia. Ma, se i veri nomi alle cose noi  vogliam dare, non è questa un'offesa : è amore ! Né ci  sarà quel genero a vergogna, sol che tu voglia o  Dea. Se pur altri pregi non sieno , qua! pregio è fra-  tello dirsi di Giove ! Né mancano gli altri ; né fuor  che per sorte mi cede. Ma se tanto di separarli hai  desiderio, ritomi Proserpina al cielo, fermo il patto  restando che con la bocca là giù cibo alcuno non  abbia toccato: che delle Parche tal fu la legge „.   Avea detto. Ma Cerere è ferma di ricondur la figlia.  Non cosi vogliono i fati ; la vergine aveva rotto il di-  giuno e, ingenua errando per gli adorni giardini, dal  ricurvo albero dispiccato un pomo fenicio e fuor da  la gialla corteccia sette chicchi fra i denti premuti (1).   Ma, tra il fratello e la mesta sorella, imparziale,  il volgente anno per mezzo Giove divide. Ora la Dea,  di due regni nume comune, altrettanti mesi è con la  madre, altrettanti è con lo sposo. D'animo si muta  ella e di volto ; e la fronte che dianzi poteva allo stesso  Dite mesta parere, lieta fronte diviene: simile a Sole  che da gravide nubi coperto era già e da le vinte nubi  riappare (2).   A coppia i serpenti la fertile Dea al cocchio ag-  gioga, e costringe coi freni le bocche, e nel mezzo per  l'aria fra il cielo e la terra coire e conduce il lieve     (1) Omessi i vv. 538-563: metamorfosi di Ascalafo e  delle Sirene.   (2j Omessi i vv. 572-641 : metamorfosi di Aretusa.  SUO carro nella città Tritonide, a Trittolemo : e parte  dei semi donati comandava di sparger sul suolo mai  colto, parte sul suolo dopo assai tempo rilavorato.   Contaminato ma diversamente, ci appare il  racconto appresso Ovidio medesimo, nei Fasti  libro quarto (1). Occasione gli è offerta dai ro-  mani Ludi Cereri. E alle cerimonie rituali tien  difatti rocchio alquanto il poeta (o il suo mo-  dello).   La mente che ricorda il racconto delle Meta-  morfosi, pur riconoscendo nel principio del nuovo  carme (2), con la mano del medesimo poeta, il  I)aesaggio siculo del ratto, nota tuttavia un ri-  tegno, quasi una schiva attenzione per evitar  d'insistervi troppo. In Enna le Dee sono invi-  tate da Aretusa; non quella è la lor sede: né  nella palude Ciane si sprofonda Dite, o al meno  non è detto. Il mito sorto dal compromesso ta-  cito fra Enna e Siracusa è senza dubbio noto ;  ma non usurpa da signore lo schema greco più  antico: vi s'insinua. E quando la ricerca affan-  nosa della Madre comincia (" dai tuoi campi, o  Enna „), Ciane l'Anapo Oela Ortigia Mègara  Imera Agrigento Tauromènio Camarina ed altri  luoghi ancora e i tre capi Peloro Pachino e Li-  libeo, offrono bensì materia alla fantasia del  poeta non ignaro di geografìa siciliana, ma sono  per ciò a punto introdotti dal suo solo arbitrio  nella leggenda, onde costituiscono un elenco di     (1) Vv. 393-620. Edizione H. Peter* (Leipzig 1907). Confronta § IV.   (2) Vv. 419-50.  nomi regionali, non già altr'e tanti addentellati  mitici. C'è dunque una cauta fedeltà al mito  siracusano : speciosa fedeltà che è per risolversi  sùbito dopo in abbandono.   Quel che oggi si chiama la Cereale Eleusi, questo del  vecchio Cèleo fu il campo.   Egli in casa porta le ghiande e le more spiccate  agli spini e le risecche legna pel focolare che l'arda.  La figlia piccina riconduce due caprette dal monte ;  e nella zana un tenero figlio giace malato. " Madre „  la fanciulla dice — e commossa è la Diva pel nome  di madre — " che fai in solitarii luoghi senza com-  pagnia ? „ . Si sofferma anche il vecchio, quantunque  il peso lo spinga, e la prega, ella vada sotto il come che  misero tetto della sua capanna. Si rifiuta. Assemprava  una vecchia e d'una mitra i capelli avea cinti. A quello,  che insiste, tali parole risponde : " Salvo tu stia ! e  padre per sempre. A me fu rapita la figlia. Oh la tua  sorte di quanto è migliore che la mia sorte!. Disse,  e come di lacrima — che non piangon gli Dei —  cadde sul tepido seno una lucida goccia. Piangon, del  pari teneri in cuore, la fanciulla ed il vecchio ; e  dopo, del giusto vecchio le parole son queste : " Se a  te, che la piangi rapita, sia salva la figlia, levati, non  disprezzare il tetto della misera casa „. Cui la Dea  " Conducimi „ dice " come mi potessi costringer, hai  ben saputo ! „ . E s'alza dal sasso ed al vecchio tien  dietro.   Alla compagna la guida racconta, come sia il figlio  malato e sonni non prenda ma vegli pel male. Ella, pria  di varcare la povera soglia, soporoso il papavero coglie  lene nella terra agreste. Mentre raccoglie, si narra che  ne gustasse con bocca obliosa, e involontaria rompesse   A. Ferrabino, Kalypso. 10    la lunga fame: — e perché della notte in principio  ella finiva i digiuni, gl'iniziati ritengon per tempo del  cibo l'apparir delle stelle.   Come varcò la soglia, piena di pianto vede ogni  cosa : già speranza alcuna non v'era di salvezza pel  bimbo. Salutata la madre — Metanìra la madre si  chiama — alla sua congiunger degnava la bocca pue-  rile. Fugge il pallore, sùbite forze vengon nel corpo:  tanto vigore viene da la celeste bocca. Tutta la casa è  lieta : la madre il padre — ciò sono — e la figlia :  tutta la casa, quei tre. Pongon tosto le mense, e cagli  stemprati nel latte e pomi e nei favi suoi proprii miele  dorato. L'alma Cerere non mangia, ma a te, o bimbo,  a bere con tiepido latte dà i papaveri causa del  sonno.   Della notte era il mezzo, era nel placido sonno  silenzio ; ed ella nel grembo Trittolemo prende, con la  mano tre volte lo palpa, tre dice scongiuri : — scon-  giuri, che non ripete parola mortale. E nel focolare il  corpo del bimbo entro la calda cinigia nasconde, che  l'ardore purghi l'umano incarco. Si scuote dal sonno la  madre a torto pietosa, ed insensata esclama " che fai ? ,  e rapisce dal fuoco le membra. A lei la Dea : " Per  non esser scellerata tal fosti „ dice ; " vani i miei doni  divengon pel timore materno. Questi sarà bensì mor-  tale; ma primo e con aratro e con seme da le colti-  vate terre coglierà premii „.   " Disse : uscendo d'una nube s'avvolse, su i serpenti  sali, e con l'alato cocchio Cerere riparte „ (1).   Qui non è più il racconto dell'Inno con il     (1) Vv. 507-562.  mito protoattico ; non è né meno il racconto di  Timeo con il mito siracusano : però che a diffe-  renza profonda dal primo la umanità è presen-  tata ignara di biade e cibata di ghiande prima  del ratto; e a differenza caratteristica dal se-  condo la Sicilia non ha privilegio alcuno rispetto  all'altre terre. Qui dunque è il mito neoattico»  di cui dicemmo, che ha sostituito Trittolemo  a Demofonte nella magia del fuoco, e ha tra-  mutato il semplice istitutore di un rituale sacro  nel giovinetto onde per favore della Dea un  inestimabile benefizio si largiva agli umani.  Celeo e Metanira recano identici i loro nomi,  ma intorno ad essi il polito palazzo regale s'è  tramutato in povera capanna: sul desco stanno  cagli; nei cuori è ingenua ignoranza. Cosi per-  tanto la versione siciliana, dianzi cautamente se-  guita, è soppiantata, senz'urti, da una seconda.  Ma finisce apjjena questo brano, che un terzo  influsso si rivela. Come nell' Inno, informatori  di Cerere su la persona del rapitore sono due  astri ; identico è il nome dell'uno, il Sole (EHos) ;  analogo l'officio dell'altro. Elice, che è però non  la Luna (Ecate), ma la stella dell'Orsa maggiore  che mai non tramonta nel mare, e per ciò tutto  vede, di notte. D'altra parte, dopo il colloquio  fra Cerere e Griove, questi decide di dividere  l'anno in due parti perché Proserpina rimanga  sei mesi col marito e sei con la madre (1). Ora,  Elice sostituisce Ecate perché preferita nella con-  sueta mitopoetica alessandrina; e l'anno diviso Vv. .575-614.  pel mezzo già ritrovammo nel gusto alessandrino  delle Metamorfosi. E sotto la medesima luce  posson venire considerati anche l'idilliaca scena  in casa di Celeo, dal tono dolce dal colore de-  licato dall'insieme grazioso ; e il quadro del flo-  rilegio in Enna.   L'arte però converte la triplice mischianza  in armonia. Onde la vicenda si snoda men lenta  che nelle Metamorfosi, s'indugia solo nel pasto-  rale abbandono di Eleusi, e diviene rapida nel  termine ove più personaggi agiscono e parlano  con una stringata prontezza che culmina forse  nelle parole di Ermes " La rapita ruppe il di-  giuno con tre di quei grani che le melagrane ri-  copron con molle corteccia „ (1). Le varie correnti  mitiche son fuse ed è scomparsa ogni traccia di  mosaico mitologico; una inspirazione centrale  muove tutto il carme, lo ricollega con qualche  sparso accenno a questo o a quel particolare del  culto, su dal culto lo stacca elevandolo a ricordo  solenne del benefìzio divino, scaturito dal dolore  d'una Madre e compiuto nella capanna d'un  misero. La gratitudine verso la Dea si traduce  bensì in sacrifìzii suini e in vestimenta candide,  ma non è di origine religiosa, si più tosto muove  da una intima commozione umana, di simpatia  per la sofferenza eterna, per la semplicità pri-  meva, per la faticosa Terra.   Nei Fasti quindi minor parte è fatta al mito  siracusano; ma per compenso è conseguito più  alto pregio letterario che non nell'altro carme     (1) Vv. 606-7.  ovidiano, ove il poeta con l'innesto delle frequenti  trasformazioni deforma la sua materia, or ridu-  cendola a magrezza or distraendola a rimoti  oggetti.   Oltre che elementi siculi proto e neoattici,  anche particolari orfici compose insieme con  abbondanza Claudiano nel poemetto che al Ratto  di Proserpina volle dedicare, senza per altro  condurlo a termine. Grli spunti siciliani sono i  ben noti: Enna sede del rapimento, Ciane op-  pressa dal rapitore e tramutata in fonte (1), le  fiaccole notturne accese su l'Etna. Gli spunti  protoattici dovevano esser copiosi nella parte  del poemetto che non fu scritta e trattava del  soggiorno della Madre in Eleusi, forse nella casa  di Coleo e Metanira. Gli spunti neoattici in fine  si assommano nella figura di Trittolemo a cui  par probabile che venisse attribuito il dono delle  biade (2). Su questa trama vennero innestati  parecchi motivi che si dovevano all'orficismo.  Leggevasi presso gli Orfici che Demetra aveva  affidato la propria figlia alle Ninfe ai Coribanti  e ai Cm-eti e che in loro custodia Cora trascor-  reva il tempo intenta a tessere un tessuto ove  fossero affigurate le stelle del cielo. E ancora :  che il ratto accadde si per volontà del Fato  {òaifiovog aiarj) sotto cui traspare il favore di  Zeus pluvio, ma con l' inganno delle sorelle  {pvvófiaifioì) : o sia Artemide ed Atena. Più tardi  cotesta circostanza fu alterata ; da chi, pare, non     (1) III 246 sgg. (2) I 12 sgg., Ili 51.s'accorse o non volle accorgersi che il concorso  delle due Dee al ratto non era se non un asse-  condar le leggi fatali e irremovibili ; ma ritenne  che più nobile officio loro, nel punto in cui Cora,  vergine com'esse erano vergini, soggiaceva a  violenza, fosse la lotta contro il fosco Aidoneo :  nelVElena di Euripide difatti (1) elleno gli ap-  pajono ostili. Se non che scemato cosi al ratto  il favore di Atena e d'Artemide, a compenso vi  fu introdotto quello, che pareva più dicevole,  d'Afrodite, nume propizio agli amori (2). L'an-  tico aneddoto orfico pertanto fu e rinnovato nel  suo contenuto e ampliato nelle sue linee : rimase  tuttavia, e Claudiano ne fece suo possesso. Molte  altre fiabe erano nella poesia orfica attinenti a  Demetra e a Persef one ; ma poi che vertono su  quella parte la quale nel poemetto sul Ratto  non è svolta sarà qui da tacerne. Oramai difatti  sono stati raccolti tutti i materiali che da tri-  plice fonte il poeta adunò per l'opera sua e che  gli bastarono, con giunte e innovazioni, a nar-  rare del ratto e i precedenti e le primissime  conseguenze. Importa ora vedere come lo spirito  del poeta investisse quella sostanza leggendaria  e la elaborasse esprimendo.   Il suo racconto si spezza spontaneamente in  due parti: delle quali la prima ha termine col  ratto. Plutone nell'Ade è infelice perché privo  di moglie e ignaro delle dolcezze che la pater-  nità concede. Tanto l'assilla il suo veemente  Vv. 1301 sgg.   (2) V. Igino Fav. 146 e cfr. § IV. desiderio, ch'egli giunge a minacciare lo stesso  Zeus di sovvertirgli l'ordine dell'universo e li-  berare i Titani incatenati, ove non sia fatto pago.  E Zeus, intimorito, cede e promette: solo è in  dubbio intorno alla scelta della sposa, già che  nessuna volentieri accetterebbe marito il tene-  broso Re dei morti. Contemporanea a cotesta  scena però si svolge l'altra in cui Demetra, per  sottrarre l'unica sua figlia Cora allo stuolo degli  insistenti proci fra cui Apollo e Ares primeg-  giano, la reca in Sicilia ove l'affida alle cure  della nutrice Elettra delle Ninfe e di Ciane (ri-  tornano, — come si vede, — sott' altra specie, le  orfiche Ninfe e i Coribanti e i Cureti) e la ritiene  certa da ogni attentato sotto l'alta protezione  celeste del padre Zeus : onde si ritorna ella poi  in Frigia appresso Cibele. Si congiungono alla  fine queste due linee narrative da quando il  Signore degli Dei decide di maritare Cora ap-  punto, profittando della lontananza materna, a  Plutone, e j)repara le nozze. Connivente Afro-  dite, egli fa si che la vergine esca con le com-  pagne e Artemide ed Atena e la stessa dea del-  l'amore a raccoglier fiori su i prati smaglianti  di Enna e che su quelli, balzando improvviso  dal suolo spalancato in voragine, la rapisca il  sotterraneo Nume. Grande scompiglio ne sorge.  Fuggono le giovani amiche. Atena e Artemide  tentano opporsi con l'armi che sono lor proprie.  Ma Zeus da l'alto tuona il suo assentimento. E  presto Cora, trascinata dai cavalli dell'oltretomba,  fa il suo solenne ingresso nelle sedi buje, ove  l'accolgono, con festa ch'è insueta colà, gl'iddii  torvi e le paurose iddie de' regni flegetontèi. La seconda parte possiede quell'unità di strut-  tura che manca a questa prima. Il centro natu-  rale dell'azione è offerto da Demetra; intorno  a cui ogni altra luce si deve comporre. La Madre  non vive tranquilli i giorni presso i Frigi: un  presentimento vago ma assiduo la turba con  sogni atri che mal si dileguano nel risveglio.  Alla fine, decide di abbandonar le terre di Ci-  bele e recarsi a visitar la figlia fra i Siciliani.  Parte, tutto temendo, nulla sperando. Da Imigi  le appajono i luoghi ove s'aspetta di trovar  Cora ; ma ben presto scorge deserta e sconvolta  la casa. Entra, e vede incompiuta l'opera tessile  della vergine, e lacrimante in profondo dolore  la nutrice Elettra. Chiede con voce ch'è già di  disperazione; e apprende il ratto. Lo schianto  le è però quasi sùbito superato dallo sdegno  contro gli Dei tutti, e Zeus in ispecie, che per-  misero il delitto, lo lasciarono impune, non cu-  rando se per tal modo si sovvertissero leggi di  giustizia e principii di morale. Giura che non  cesserà di percorrere, intenta alla ricerca, l'uni-  verso intero fin che non le sia ritrovata la figlia.  E la ricerca inizia senz'altro, dopo aver fatto a  sé, per la notte, fiaccole di due pini recisi presso  il fiume Aci in bosco sacro a Zeus.   Il resto si desidera. Ne importa gran fatto,  che poco più apprenderemmo nel sèguito. Il  poeta si era assunto ben grave soma, chi guardi  alla difficoltà insita in ogni forma leggendaria,  ove sempre la materia poetica è molta, ma sorda  ad artefice che non sia di assai fermo polso; e  ove la stessa potenziale bellezza contribuisce a  rendere scabro l'officio dell'attuarla. Claudiano vi mancò: non esito a dire che vi mancò per  intiero (1). Noi lo giudichiamo qui a fronte della  sua saga, e possiamo farlo con pienezza di giu-  dizio, che la sua saga è la nostra: abbiam appreso  a conoscerla da l'origine lungo la vita complessa.  Non c'illude quindi, — e sarebbe facile errore,  — quella, che prima colpisce, bellezza formale  di particolari, eleganza di scene, armonia di  verso. Riconosciamo cotesti pregi ; ma come  perfezion delle parti in un tutto su cui si volge  il nostro interesse e l'esame più vero. Né la per-  fezione stessa è anche da concedersi intera :  guasta per certa esuberanza, che assempra il  vecchio pescatore teocriteo dalle vene gonfie sul  collo, spiace dopo le prove d'un'arte più cauta  se bene già troppo a sé indulgente. Ma in ogni  modo, sopra le singole pennellate riuscite e  oltre le mancate, com'è composto il grande  affresco ?   Claudiano avverti primi, e svolse gli spunti  psichici di cui tutto il racconto è pregno: non  diversamente operando, in ciò, da Ovidio. Le sue  dee per tanto divennero donne; uomini, i suoi  numi. E suo grande compiacimento si fu narrare  ora il cordoglio della madre, ora lo spavento  della figlia; qua i coniugali rimpianti di Plu-  tone, là le dolcezze filiali di Cora. Se non che  in Ovidio tal via era tenuta con due pregi: la  accorta profondità dell'investigazione intima; e,     (1) Giudizio opposto tenne W. Pater, nel suo garbato  essay su Demeter and Persephone in " Greek Studies ,  (London LA DEMETRA d'eNNA   inoltre, una grazia di tocco per cui, oltre la  donna o l'uomo, figuravan sempre senza stri-  denza di contrasti la Dea e il Dio. Nel Ratto  per contro cosi quello come questo pregio man-  cano del tutto. Nulla, che non sia vieto e grosso-  lano richiamo di motivi abusati, è infuso nel-  l'ordito passionale; le finezze di certi gesti, le  sfumature di talune emozioni gli sono ignote ;  i suoi personaggi, non pur non condensano la  loro personalità per l'arte di lui, si scemano per  la imperizia fin quel vigore e scancellano quella  determinatezza ch'era lor impressa dalla tradi-  zionale teologia. Una madre, una figlia, un ma-  rito recente, un giudice un po' pauroso e a  bastanza ingiusto: ecco i protagonisti: non im-  portano nomi, non colori, non linee. Basta, che  per ciascun tipo sono applicati i luoghi comuni  della retorica.   Che se poi ci s'avvicina alla scena, colpisce  la solennità jeratica dei paesaggi. Lungo periodo  di versi circoscrive la Sicilia con un senso di  sacro rispetto. Enna, poco prima che le Dee  l'onorino di lor presenza, invoca da Zefiro splen-  dor di fiori ; ed ha nell'atto una compostezza e  un contenuto orgoglio matronali. La Frigia  lontana riceve da Cibele, quasi un recondito  balsamo religioso. Persino il bosco onde Demetra  svelle i due pini a illuminare la notte è un lucus  Jovis. Lo sfondo, pertanto, delle scene, se pur  varia, è tuttavia sempre ampio alto e severo :  non è in proporzione con la statura degli attori ;  o meglio, non con la loro statura d'uomini, si  con un'altra, fittizia, di Dei. Onde si a\^erte il  primo contrasto, che par creato a posta dal poeta,     IL MITO CONTAMINATO fra la diminuita materia divina della fiaba e  l'accresciuta materia terrena: quasi fosse stato  trasferito al paesaggio il decoro che avrebbe  dovuto essere dei Numi.   Primo contrasto ; non solo. Ben presto si nota  che nessuno dei consueti attributi è stato tolto  da Claudiano né a Demetra né a Cora né a  Plutone né ad Atena né ad Artemide né ad  alcun'altra figura celeste del poemetto. Il re dei  morti Ila tutta la sua terrificante corte ; la ver-  gine Figlia ha intero il suo sèguito di bellissime  ninfe; hanno l'armi Pallade e la Cacciatrice,  quella lo scudo gorgonèo, questa l'arco e le  frecce; la Madre corre per l'aria su cocchio trai-  nato da draghi e doma leoni. Il meccanismo  oltreumano resta inalterato, e il poeta v'insiste.  Ond'è che la vita umana e affettiva vi è poi  spirata dentro senza che Fautore mostri di ac-  corgersi del dissidio che ne risulta. Il quale è,  a volte, men grave. Ma a volte attinge a dirit-  tura il grottesco e tramuta il poema in com-  media. Quando, — gli esempii potrebber essere  moltissimi, desunti ogni cento versi ; basti l'uno  più notevole, — quando Plutone ha rapito Cora  e ne ha uditi i primi gemiti e poi gli urli e i  lamenti pietosi e le invocazioni alla Madre, si  commuove : " Da tali detti il feroce e dal pianto  vezzoso è convinto, e sente i palpiti del primo  amore. Le lacrime (le) deterge con ferruginea  tunica, e con pacata voce consola il mesto do-  lore (di lei) „ (1). E, questa, una innovazione di     (1) II 273-276.  Claudiano : già che le parole che seguono e che  vantano di Plutone i pregi qual marito e re son  le medesime che l' Inno attribuiva ad Elios e  Ovidio a Giove, per consolar Demetra. Ma rin-  novazione a punto svela a maraviglia a qual  grado di risibile pervenga il poeta nel colorire  pateticamente quello spauracchio " feroce „ di  Aidoneo che egli stesso ha poc'anzi dipinto mostro  a tutte tremendo.   Dai medesimi errori iniziali consegue l'essere  artisticamente (non dico logicamente, che sa-  rebbe inutile rilevarlo) mal connesso il mondo  divino del breve poema. Tutti gli Dei balzano  all'improvviso su dalla terra al cielo. Demetra  ridiviene di colpo sorella di Zeus, dopo che il  tono dei suoi lamenti e l'incertezza dell'angoscia  ce l'avevano affigurata di Zeus suddita umile e  meschina al pari d'una qualsiasi siracusana.  Ciascun dio sembra supinamente soggetto a Zeus;  ma Zeus a sua volta prende a impaurirsi e tre-  mare non a pena Plutone lo minaccia di far liberi  i Titani. Non c'ispirano quindi reverenza né ti-  more cotesti numi ambigui. E l'invettiva che  contr'essi scaglia la Madre nell'ira non è per nulla  sacrilega : ci scende fredda nel pensiero, perché  è vuota cosi di dolore materno come di ribellion  religiosa. Se per poco fosse spinta in là la ten-  denza del poeta, i suoi dèi finirebbero con l'ap-  parirci, nella loro scema sostanza um^ana, e tra-  cotante pompa esteriore, marionette fìngenti per  gioco di fili occulti e virtù di orpelli gravità  olimpica, in un consesso di stolidi e in una fa-  miglia disamorata. L'errore d'intuizione artistica  in fine culmina in quel solenne decreto di Zeus con cui s'apre il libroni: il quale vorrebbe mo-  strare come, col decretar da Demetra il dono  del seme, la suprema volontà sapesse ritrarre  un vantaggio agli uomini dalla vicenda di Cora;  ma non prova nel fatto se non quanto Claudiano  ha deformato il sommo Iddio.   Conchiudendo , il poeta è giunto proprio al  contrario di quel che era compito dell'arte: ha  dissimilato in luogo di ordinare in armonia ; ha  contrapposto, in vece di avvicinare senza con-  trasto. Ora, gli elementi del dissidio erano già  tutti nella primitiva saga di Cora, e avevan  perdurato identici lungo il suo evolversi. E pure  non gli avevamo avvertiti: non so che secreta  forza li faceva coerire in unità e bellezza. Se  adesso adunque si frangono e s'iu"tano, segno è  che non pure s'è svigorita l'arte, ma l'orga-  nismo del mito è moribondo, — e si dissolve.   Cosi né pur la contaminazione di motivi,  desunti dalle più diverse fonti, riesce a infon-  dere ricchezza di contenuto alla leggenda agreste.  Un più profondo guasto la uccide, senza rimedio.  Onde finisce l'ultima forma di quell'antichissimo  racconto siculo, che una prima volta aveva sen-  tito, per opera di Siracusa, vigoroso l'influsso  greco, e trovò una seconda volta, traverso gli  AlessandiTni, arricchimento di bellezza poetica  da iDrincipio, gravame in sèguito di mal con-  gesti elementi. Indra e Vritra si combattono.   Nel profondo cielo dove il Sole si vela di ar-  dore, Indra teneva le sue smaglianti mucche al  pascolo e lasciava vagare leggère, qua e colà,  nell'azzurro. Non sfuggirono a Vritra, turpe fi-  gura di serx^e dalle tre teste, né tentarono in  vano la sua maligna cupidigia. Le rapi, e tras-  sele nell'antro che gli era dimora; e ve le tenne  secrete. I ben colorati animali furono avvolti  dalle tenebre, celati sotto un' incupita parvenza  uniforme. Ma Indra corse alla vendetta. Dal-  l'antro, ove segregato si stava il bottino, gli     (1) Per tutto questo capitolo v. Vlndagine, in libro II  cap. Ili ; di cui si citano i §§ nelle note successive.  giunse un profondo e rauco muggito che gli svelò  e il furto e il luogo. Vi si precipita, fende con  la sua possente forza la grotta, di frecce e di  clava colpisce più e più volte il mostro nemico,  l'abbatte, lo uccide. E riconduce le mucche nel  cielo, onde lasciano esse scorrere il latte fin  sopra la terra.   Cosi nel Rigveda indiano (1) si adombra per  noi la vicenda del temporale, i bianchi cirri sparsi  per l'azzurro mutandosi in torvi cumuli, che  dopo tuoni e lampi scatenano benefica la pioggia.   L' odio , che un' anima paganamente infusa  nella natura nutre acre contro il velame dal  quale è tal volta celato il Sole agli sguardi, ha  sentito nelle nubi gravide d'acqua e di fuoco  la presenza di una forza attiva, e nemica cosi  della luce benefica come della fiamma benefica,  però che si compiaccia, in vece, di tenebrori e  di vampe distruggitrici. Vampe escono dalla  caverna di Vritra : fulmini percuotono 1' opere  umane e le annientano. Il bujo della notte;  l'ombra dei secreti abissi sotterranei, ove occhio  non si spinge, e che, quando spiragli appajono  traverso il suolo, atterriscono i cuori ; l'atra  tinta del fumo , che gì' incendii sprigionano,  pregno di odori corrotti, su dai possessi degli  uomini ; l'ambiguo rossastro delle lame di fuoco,  che s'insinuano avide fra cosa e cosa, per far  di tutte cenere uguale ; la negra cortina dei cu-  muli ; l'abbagliante incandescenza del baleno,  che acceca le pupille: — questi colori queste     (1) Cfr. fino a pag. 163 § E.     PRESSO gl'indiani E I GRECI 161   forme quest' energie si accostano nel pensiero  primitivo, si compongono variamente e diversi  si foggiano in figurazioni molte, ripetendo però  con ritmo unico il malefìcio costante e il duro  danno, in antitesi violenta contro il dono, in cui  è prodigo l'Astro, di luce e di calore. La fiam-  mata che cuoce l'alimento è una scintilla tolta  dal Sole per gli uomini : e, come il Sole, ha virtù  di respingere l'oscurità intomo a sé. La fiam-  mata in vece che rade una selva è nemica del  Sole perché nemica dell'uomo: e, poi che teme  la luce solare, s'avvolge di bujo. La mente bam-  bina non sa che la tenebra è un modo della  luce, e che il fuoco è un solo principio, distrugga  o giovi. Contrappone le parvenze ; crea, dagli  effetti, delle antinomie fallaci nelle cause.   Cosi fatto l'atteggiamento fondamentale del  pensiero. Che è comune, come si sa, agli Arii ;  e comuni, se bene traverso le differenze a volte  non piccole, sono le forme di cui si veste e le  associazioni psichiche di cui si vale : l'antropo-  morfismo, ciò sono, ed i nessi fra la notte e il  sotterraneo mondo, fra il bujo e la fiamma ma-  lefica, fra gli ascosi meandri del suolo ed il cielo.  E questo d'ogni singolo mito del fuoco, quale  che sia per esserne il valore più immediato, per-  mane il riposto senso di allegoria naturalistica.  Anzi, in grazia a punto di essa affinità di con-  cetti, poco importa se la fiaba si connetta più  tosto con la freccia del fulmine che squarcia il  perso involucro dei nuvoli, o più tosto col dente  infocato che appare impro\^iso e avido tra le  sph'e di un fumo caliginoso, o altrimenti con  altro. Griacché la fantasia primigenia, la quale ha narrato sotto la specie dell'uomo una spet-  tacolosa vicenda della natura, deve esser stata  indotta dalle medesime sue associazioni analo-  giclie a ripetere, nelle aridità della concezione,  un solo racconto per fenomeni simili.   Ciò spiega perché, fuor del E-igveda, il mito  ritorni bensì presso assai popoli arii, ma presso  pochi come là simboleggi il temporale. Presso  gli Eranii tramutato si è, pur serbando pa-  recchie simiglianze, in una forma, per cui Tistrj^a  e Apaosha si combattono ; e a dirittura rinno-  vato in altra forma, la quale, per il nesso che  nel pensiero già intercede fra tenebra e male,  luce e bene, trasporta il mito a significare il  contrasto tra Ormuzd il buono e il cattivo  Ahriman.   Che se, dopo averle spiegate, non grande  conto è da farsi di queste trasposizioni della  fiaba da uno ad altro fenomeno ; molto mag-  giore se ne deve attribuire in vece all'alterarsi  o al persistere di taluni particolari significanti.  In essi è il segno di qilanto si accosti o allon-  tani dalla saga originaria il nuovo racconto :  simili a quei tratti caratteristici che perman-  gono a contraddistinguere il volto di una fa-  miglia nei secoli. E quando del mito si è poi  perduto tutto il senso riposto, restano testimoni  veritieri ed irrefutabili dell'origine prima e di-  mostrano che in fondo scarsa fu la elaborazione  innovatrice sul modello più antico. Quando in  vece un significato s'intrude sopra e contro l'o-  riginario e lo modifica o lo soffoca, si perdono  insieme i primitivi particolari episodici, come  un muro coinvolge nella sua caduta gli affreschi. o solo tanti se ne serbano quanti non discon-  vengono al nuovo dominante pensiero. Giacclié  l'energia conservatrice insita in quei partico-  lari è costituita, in somma, da una non più co-  sciente memoria dell'importanza essenziale clie  tutti, in vario modo, avevano, quando ancora  la saga travestiva un reale fenomeno. E cessa  pertanto, allorclié al ricordo incosciente sot-  tentra nel racconto la coscienza d'un contenuto  e d'un fine diverso.   Un fine e un contenuto del tutto nuovi ha  assunti il mito primitivo appresso i Greci. Ed  ecco difatti tramutarsi anche la foggia este-  riore e l'intreccio dei casi. Come il furto di buoi  perpetrato a danno d'una divinità solare venisse  narrato insieme con la successiva vendetta nelle  saghe antichissime degli Elleni, ignoriamo : e  ci sembra inutile pel nostro assunto la conget-  tura. Certo che in secolo a bastanza antico la  metamorfosi del racconto si rivela profondis-  sima. L'omerico i Inno a Ermes è la nostra fonte  in una sua ampia parte(1). Ed è pervaso tutto  dalla minore anima greca: quella che baratta  e commercia; che ruba con astuzia, e nega con  impudenza ; che è scaltra in ben parlare, e av-  volge di parole artificiate, di periodi fluenti,  di frasi ambigue, d'esclamazioni infinte e do-     li) Tralascio tutte le quistioni su gli " strati ,, la  cronologia, ecc. dell'/nno, come estranee al tema. Con-  fronta A. Gemoll Die homerischen Hymnen (Leipzig 1886)  181 sgg. e T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns  (London 1904) 128 sgg. mande coperte, l'infelice derubato ; che giura  invocando i men pericolosi dèi, nella speranza  di averli meglio indulgenti ; che non ignora al-  cuna furberia, e si vanta di tutte ; e nessuno  più le crede, e ognuno le s'arma di sospetto, ma  ne resta poco o molto gabbato. L'uomo il quale  discorre a lungo e lascia i suoi detti vagare per  l'aria, incurante se assai ne cadano a vuoto,  certo che giungono in parte al brocco, e tiene  fra tanto i suoi occhi, sotto le palpebre basse,  fissi qua e là su oggetti che non guarda; il  Grreco dei proverbi e dei motti ironici: vive in-  tiero, per una fresca vivacità di dipintura, nel  ladro di buoi. E lo ritrae la maggiore anima  greca, la virile, cui la cupidigia di guadagno  s'è congiunta con la brama di gloria, cui il buono  è anche bello, e forza indirizzata al suo fine è  anche il bene. Ma fra questa maggiore e la mi-  nore anima greca i tramiti non sono affatto  tronchi. Onde una celata coscienza della supe-  riorità di quello spirito che può, se voglia, rin-  chiudere in un labii"into di dubbii e di certezze,  entrambi illusorii, l'intelligenza del suo inter-  locutore, serpeggia per il racconto. E un sorriso  di compiacimento interno lo illumina : il sorriso  mal palese degli aruspici, secondo Catone; il  sorriso, dagli occhi assai più che dalla bocca,  con cui gli ambasciatori d'Atene dovevan ac-  cogliere, pacati d'indulgenza ironica, la dichia-  razione frequente dei Peloponnesiaci : " Grli Ate-  niesi discorrono troppo bene perché si possa lor  credere „. C è un biasimo tacito del furto ; ma  c'è una lode sobria del ladro abile. E la com-  media nasce. Comico, il racconto eh' era stato tragico allorquando Vritra cadeva sotto la in-  vitta clava di Indra.   Perno del mito diviene adunque l'astuzia clie  elude la forza. I protagonisti sono mutati. Ca-  duti taluni particolari, altri s'improvvisano dal  largo patrimonio novellistico. Lo sfondo è di-  verso, perchè alla furberia del mortale compete  scena la terra, come alla violenza del mostruoso  iddio sede il cielo. Resta la pascente mandra di-  vina, di splendido aspetto ; e il secreto del furto ;  e l'antro ove l'ombra accoglie i mugghianti.  Apollo è il derubato, Ermes il ladro; Ermes, nella  sera del giorno in cui nacque, piccolo bimbo di  inverosimile forza e di mente già dotta nelle  oblique vie. Fra il neonato dalla tenera pelle  ed esigua statura, e il Dio vigoroso e alto, si  svolge la principal scena. Due altre la precedono.   La prima narra il furto. Non è opera di vio-  lenza, ma di scaltrezza. I buoi, — cinquanta, —  pascevano nella Pieria mentre " con il suo carro  e i cavalli „ il Sole spariva sotto la terra. Ermes,  per celare ogni traccia dell' abigeato sul suolo  sabbioso, condusse le bestie all'indietro, intrec-  ciando per sé accorti e leggeri sandali con vin-  castri e sarmenti. Giunto presso TAlfeo cela la  refurtiva in una grotta " da la volta elevata „.  Poi, ritorna presso la madre, sul monte Cillène.   E ha luogo la seconda scena (1).   E di Cillene, tosto, egli ai divi gioghi toi'nava in  sul mattino ; né per la lunga via alcuno scontrossi con  Vv. 142 sgg. Edizione T. W. Allen (Oxford l'abigeato di caco   lui o tra gli Dei beati o tra i mortali uomini; e non la-  travano i cani. Ermete, il benefico figlio di Zeus,  obliquo per il serrarne della casa scomparve, simile  a vento d'autunno o pure a la nebbia. Avanza dix-itto  nell'antro fino al ricco recesso, piano coi piedi mo-  vendo : né così fa rumore sul suolo. Subitamente entrò  nella zana l'inclito Ermes, le fasce a le spaUe avvol-  gendo, come d'un piccolo bimbo che in braccio alla  balia i lini scompone coi piedi (1). Ma non sfuggiva  l'Iddio alla sua madre Dea, che gli disse parole.   " E perchè mai tu, o ben furbo, e donde in ora di  notte ne giungi, o cinto d'inverecondia ? Ed ecco te  pi'eveggo, da indissolubili vincoli intorno allo sterno  legato, uscir da queste soglie fra le mani di Apollo, o  finir per recarti a predar nelle valli al pari di ladro.  Pèrditi, stolto : che per grande sventura ti generava il  Padre agli uomini mortali e agl'immortali Dei „.   Ed Ermete a lei scaltre parole rendeva : " Madre,  perché queste cose tu m'ammonisci, come ad un piccolo  bimbo, che malizie ben poche conosca nel cuore, e ti-  mido tema fin della madre i rimprocei ? Ma io un'arte  apprendere voglio, ch'è la più bella (2). Né fra gli Dei  immortali spogli di doni e negletti, quivi restando, ci  rimarremo come tu vuoi. Meglio è per sempre fre-  quentar gl'immortali ricco ed agiato di beni e di messi  che nella casa sederci, nell'oscura caverna. Quanto ad  onore, il convenevole anch'io voglio ottenere, ben come  Apollo. E se il mio padre non me lo dona, io stesso  per certo tenterò — che posso — dei rapinatori dive-  nire il capo. Che se mi ricerchi il figlio dell'illustre     (1) Omesso il v. 153.  Omesso il v. 167 ch'è corrotto.  Latòna, altr'e tanto (io mi credo) avrebbe in ricambio  e anche più : mi reco in Pitóne al saccheggio della  grande sua casa, molto da quella rubando stupendi  tripodi ed oro e lebéti, molto sfavillante ferro, e vesti  di molte. Tu certo vedrai — se ti piaccia „.   n senso d'umanità e la sostanza greca che  sono divenuti il nucleo nuovo del mito appa-  iono qui in tutta la loro vivace contrapiDOsizione  alla forma indiana di cui fu veduto. Perché la  difesa, che il poeta adorna cosi bene su le labbra  bambine, è un breve mal represso anelito di sim-  patia per il ladro perspicace ed ardimentoso,  simile a profondo brivido onde nelle fibre arcane  della carne si ax)provi quel che la ragione con-  danna. Ben altro era l'odio atterrito per cui, nel  Rigveda, il rapinatore trascinava la sua mole  serpentina nel dimenio orrendo delle tre teste.  Là, freme il ribrezzo contro Vritra, l'ignobile, e  l'ombra della sua caverna, dalla quale il mug-  ghio bovino suscita un' eco di sgomento negli  animi. Qui, noi abbiamo ormai preso parte in  favor del breve Ermes fasciato, che si crogiola  di caldo nella zana, orgoglioso senza pudore  di quanto ha compiuto, pronto a difender sé e  la i)ropria opera, certo di saperla proseguire nel  futuro. E non v' è dubbio che a Maja piac-  ciano le vesti che l'arti del figlio le recheranno  rapite! Le due spanne onde il corpicino si mi-  sura sono molto piccola cosa di fronte alle cin-  quanta terga di tori: e nella grazia furbesca del  contrasto, che la onnipotenza divina giustifica  e legittima, sta il motivo della simpatia e nostra  e del poeta. l'abigeato di caco   Come lui (1) scorse di Zeus e di Màjade il figlio,  adirato pel furto dei bovi l'arciero Apollo, dentro la  fascia odorosa s'immerse : quale del legno la cenere  molta brace di ceppi nasconde all'intorno, tale celava  sé stesso Ermes, il Lungisaettante vedendo : in breve  raccolse il capo le mani ed i piedi, come se per bagno  dolce sonno chiamasse a ristoro, sveglio restando però.  Il figlio di Leto e di Zeus riconobbe, né gli sfuggì,  la montana bellissima ninfa con il suo figlio, bimbo  piccino, avvolto dentro ingannevoli astuzie. Della grande  casa i recessi mirando, con la splendida chiave tre ri-  postigli schiudeva, di nettare colmi e di gradita am-  brosia : molto oro ed argento dentro giaceva, molte  della Ninfa purpuree vesti e smaglianti : tutto che dei  beati dentro sogliono avere le sacre dimore. Della  grande casa i seni esplorati, il Latoide con detti par-  lava ad Ermes illustre.   " bimbo che nella zana ti giaci, mostrami i bovi :  presto, che tosto in disdicevole modo contenderemo fra  noi. Ti piglierò ti scaglierò nel fosco Tartaro nella te-  nebra triste irreparabile ; né te la madre né il padre  alla luce potrà ritrarre ; ma' sotto terra errerai primeg-  giando fra i bimbi „.   Ed Ermete a lui scaltre parole rendeva : " Latoide,  qual mai aspro discorso parlasti ? e perché ricercando  agresti bovi qui sei venuto ? Non vidi, non so, né  d'altri intesi parole, né mostrare potrei, né vprenderne  premio, né somiglio ad un ladro di buoi, uomo pos-  sente. Non questo è da me, e prima altre cose mi piac-  ciono : il sonno a me piace, ed il latte della mia  madre, e attorno alle spalle le fasce, ed i tiepidi bagni.     (1) Vv. 235 sgg.  Nessuno potrebbe sapere donde sorse tale contesa,  che per vero gran maraviglia fra gl'immortali sarebbe  che un bimbo nato da poco varcasse la soglia fra  mezzo di bovi silvani. Oh male tu parli ! Ieri mi nacqui ;  i piedi son molli ; scabra, di sotto, la teri'a. Ma se vuoi,  su la testa del padre un grande giuramento farò : né  io — affermo — né io stesso fai causa, né vidi alcun  altro ladro dei vostri buoi — checché i bovi si sieno,  poi che per fama sol tanto ne odo „.   Cosi dunque parlò, e di frequente con le palpebre  ammiccava, inarcando le ciglia, e qua e là guar-  dando (1). Ma a lui lene ridendo l'arciero Apollo ri-  spose :   " amico, in dolo scaltro e in inganni, io preveggo  per vero che spesso per invader le ben abitate case  durante la notte, più c'uno stenderai sul suolo, senza  rumore ripulendo la casa : tale tu parli. E molti nelle  valli dei monti molesterai agresti pastori, allor che,  bramoso di carne, t'imbatta in mandre di bovi o in  pecore lanute. Ma via! l'ultimo ed estremo sonno se  non vuoi dormire, scendi dalla zana, o compagno della  nera notte. Questo per certo anche poi tra gl'immor-  tali avi'ai officio, di esser per sempre chiamato capo  dei ladri „.   Cosi disse adunque e il bimbo prendendo trasse  Apolline Febo. Allora, il forte Argicida, tra le mani  levato, tutto serio, un presagio emetteva, ardito servo  del ventre, e messaggero impronto. Dopo esso, starnuti  tosto : poi che Apollo l'udiva, da le mani sul suolo  l'illustre Ermes gittava. Gli si mise dinanzi e, pur af-  frettando il cammino, Ermes gabbava ed a lui diceva  Omesso il v. l'abigeato di oaco   parole : * Coraggio, o fasciato, figlio di Majade e Zeus:  con questi presagi troverò pure, alla fine, i capi ga-  gliardi dei buoi : tu, per altro, m'insegnerai la strada „ .   La contesa continua un po', fin che si deci-  dono entrambi a recarsi nel cospetto del Cronio  Zeus per aver giustizia. Li Ermete giura di nuovo  solennemente il falso ; ma poco vale. Pur troppo  Zeus conosce ogni cosa e anche dell' abigeato  ben sa. Sorride, il gran Dio, e comanda ai due  Dei di cercare insieme " con animo concorde „  i buoi e ad Ermes ordina d'indicarne il rifugio.  Ubbidiscono. E la commedia finisce come le com-  medie sogliono terminare: con una buona pace.   Di essa rimangono cardini notevoli l'accor-  tezza del trascinare le mucche all'indietro per  disperderne l'orme e travolger gl'indizii ; e l'in-  sistente ammiccante spergiui'o di Ermes dinanzi  ad Apollo ed a Zeus : particolari che, pur ap-  partenendo forse ad antiche trame novellistiche,  sono tuttavia qui per il loro piglio maliziato  probabilmente a bastanza tardi.  Presso i Latini.   Le fila s'intrecciano poi presso gl'Italici, e  presso i Latini in ispecie (1).   Né della trasposizione, per cui il mito vien  riportato da un fenomeno all'altro analogo ; né  Cfr., di qui fino a pag. 182, § V e (in parte) § VI.  dell'intrusione, per la quale un nuovo signifi-  cato scaccia, d'entro lo schema leggendario, l'an-  tico, e rinnova per conseguenza i particolari del  racconto : si deve tener parola a proposito della  saga romana di Caco. Altre vicende essa ha su-  bite allor quando ci appare formata in età di  storia. Non quelle. Segno certo, che rimase da  prima ben radicata nella memoria delle gene-  razioni, approfondita nel sangue della stirpe ;  che vi si cristallizzò in una foggia, la quale  non aveva più il contenuto cosciente della an-  tica, ma dell'antica tutti serbava i tratti, anche  i più minuti, e dall'antica ripetendo il suo essere  ne diveniva veneranda e intangibile. E però al-  lora che r elaborazione artistica sopravvenne  con voce più sicura e lievito più possente, non  potè distruggere per ricreare ; dovette co-  stringersi nella materia, né sorda né asx^ra, ma  irrigidita dai secoli : sopravveniva difatto troppo  tardi. Il rispetto, per vero, di tutti i particolari,  che furono proprii della saga primordiale aria e  che si rinvengono intatti nel Rigveda, contraddi-  stingue, senza eccezione, la serie intiera delle  vicende che il racconto attraversa di poi, tanto  nei carmi dei poeti, quanto nelle storie e nelle  interpretazioni dei dotti.   La presentazione dei protagonisti. Però che  forse la differenza più notevole fra il racconto  indiano e il probabile, d'una probabilità ottimamente fondata, — i^rimitivo racconto latino,  consista nei mutati nomi delle iDersone. Né è da  ammirare. Sono molteplici gli aspetti onde un  qual siasi spettacolo naturale si presenta all'occhio ingenuo : e tanto più quanto meno il pensiero  scorge tra i varii il nesso unico e ha vigoria per  riportare ciascun parvente alla sola sostanza.  Ogni aspetto poi si presta a tramutarsi, da  prima, assai più che in una personale figura  di Dio, in un nome cui risponde una sbiadita  ombra divina. Spiccatisi più tardi dal comune  ceppo ario i rami diversi, l'evoluzione linguistica  da un lato trasforma quei nomi per fenomeni  fonetici appresso le differenti razze; dall'altro,  il caso lascia smarrire taluni di essi, e taluno  fa prevalere, addensando di questo il contenuto  e concretando il valore (1). Cosi l'intuizione fon-  damentale della fiamma aveva certo moltissimi  termini che le corrispondevano : ma uno ne trion-  fava là, ed un altro qui. Onde accade che un  solo mito del fuoco possa rinvenirsi in fogge  bensì quasi identiche presso gl'Indiani e i La-  tini, — ma non mai con identici nomi.   La presentazione, adunque, dei protagonisti.  Quando i Latini (e forse si potrebbe dii-e sen-  z'altro gl'Italici ; ma, se bene intorno a ciò le  loro leggende ci appajono per barlumi, in fondo  ne siamo all'oscuro, ed è quindi prudenza non  affermare alcun che) ripeterono l'antichissimo  mito indoeuropeo senza ancora averne dimen-  ticato il valore naturalistico, s'indussero ad usare  i nomi di Caco e di un non sappiamo se Garano  o Recarano. Di fronte ai quali la storia si trova  in ben diverse condizioni. Non solo il primo è Cfr. G. De Sanctis Storia dei Bomani I (Torino  1907) 88.  ben certo, là dove il secondo non è né pur for-  malmente sicuro e varia nei due testi ove ap-  pare sol tanto ; ma quello è analizzabile con un  etimo di cui riflessi si rinvengono pure fra i  Grreci, e questo offre difficoltà molto maggiori.  Glie in Caco ritorni la radice che anche in xaio)  (" brucio, ardo „) e nel prenestino Caeculus, è  probabilissimo e consuona bene alla sua natura  ed ai suoi offìcii. Ma Garano-Recarano è restio  a tentativi cosi fatti ; ed è preferibile compren-  derlo fra gli dèi cui non è di certa analisi il  nome. Inoltre a lui toccò di esser più tardi sop-  piantato da un altro Iddio, ond'è impossibile  definire, quali sieno gli attributi suoi proprii, e  quali al personaggio sieno stati aggiunti dal  secondo attore. Unica certezza, cbe se fu pre-  scelto a significare la forza della natm-a la quale  nel Rigveda esprime Indra, da Indra non dif-  ferì forse troppo. E difatti Caco non differisce  né pure, nel tutt' insieme, molto da Vritra. In-  dubitata è la forma mostruosa ; certo è l'atto del  vomitar fuoco da le fauci e nerissimo fumo ;  congetturabile, l'orribile cervice tripartita. Un  antro immane è sua dimora, fra le tenebre cupe.  AlFintorno, egli rapisce e distrugge: né forza  gli resiste, né ostacolo lo rattiene. Il terrore lo  circonda. L'odio invano lo minaccia. Tale sua  effìgie ripugnante ed immonda però si deve  riferire ad un secondo stadio del suo evolversi  mitico , perché son tracce palesi d'una sua più  vasta comprensione. Egli dovette, ciò è, nell'i-  nizio, valere come non pur malefico si anche  fuoco benefico: e senza dubbio i due aspetti  antitetici erano potenzialmente, più che in lui,     174 IV. - l'abigeato di caco   nel suo nome. Difatti sotto sembianze piacevoli  ed amicali Cacu ritorna presso gli Etruschi in  certi specclii dipinti che ne pervennero unica  reliquia. E, sopra tutto, in Roma è attestato il  culto d'una Caca^ cui vergini avrebbero con as-  sidua cura vigilato un sacro focolare, non dissi-  milmente da Vesta. Eorse il termine non signi-  ficava da principio se non il fuoco nell'atto  dell'ardere e in quanto arde ; e solo poi le due  contrapposte concezioni della fiamma conflui-  rono in esso, e valsero a derivarne ben due  figure divine. Il terzo stadio in fine della sua  evoluzione Caco toccava quando nei posteriori  tentativi di genealogie divine divenne figlio di  Vulcano, che aveva a sua volta assunto il primo  posto fra i Numi della fiamma.   Dei due protagonisti, il furto e il duello si  svolgeva quasi certamente in modo simile al  racconto del Rigveda. Vi ritornavano il muggito  bovino rivelatore dell'inganno; le frecce e la  clava, forse ; con certezza, la distruzione violenta  della caverna e l'abbattimento del mostro tra  il fragore il fumo ed il fuoco. E tutto il mito  latino si esauriva, per quanto ci è concesso sa-  pere, dentro questi termini : senza né originalità  sua propria di particolari e di figure né sma-  glianza singolare di colorito formale. Un primo arricchimento gli derivò dall'avere,  in proceder di tempi, localizzato con più esat-  tezza la fiaba, — topograficamente vaga nelle  origini, come quasi ogni altra. Nello spazzo  che s'apre su la riva sinistra del Tevere tra il  Palatino a oriente, a sud l'Aventino, il Campi-  doglio a nord, e dove erano nell'età storica il Foro Boario e il Velabro, trovò la sua fìssa sede la  saga. E fu più vicina alla terra, e più lontana  come dal cielo cosi dal suo proprio senso natura-  listico. Fra i colli romani essa divenne il racconto  di avventure terrene, il ricordo di tempi lonta-  nissimi, di cui testimoni unici restavano i monti  ed il fiume. Prese a trasformarsi in una leggenda  che la pretende a storia accampando una verità  fallace e diversa dalla sua prima, ben j)ìu ef-  fettiva. Un particolare locale s'insinua : la ca-  verna di Caco è pensata nel monte Aventino. E,  assai più di quanto possiamo scorgere nelle te-  stimonianze, i luoghi ove poi saranno le scalae  Caci e Vatrium Caci danno contributo di pic-  coli nuovi tocchi precisanti alla fiaba. La quale  si forma pertanto colà in uno stadio, che è il  suo primo fra i Latini, e di cui il colle Aven-  tino e i due numi Caco e Garano-Recarano co-  stituiscono i iDerni.   Acquistare una sede significa però per un mito,  non pure raggiungere una consistenza e saldezza  maggiori, bensi allargarsi via via per attinenze  nuove, suggerite dai luoghi ove altri miti son  radicati. E un contagio cui il suolo serve di  conduttore: e che qui fu invero non presto, ma  fu per compenso profondo. Quando il dio greco  Eracle penetrasse nel patrimonio leggendario  latino e sotto la veste di Ercole venisse defini-  tivamente adottato è e sarà del tutto incerto (1).  Senza dubbio poi alquanto tempo dovette tras-  correre innanzi ch'egli potesse fondersi con gli     (1) Cfr. De Sanctis St. d. R. l'abigeato di caco   dèi latini a lui simiglianti o per qual si voglia  modo contigui : prima, dovette divenire familiare,  ottenere culto e insediarsi sugli altari, esser co-  nosciuto anche nei suoi minori attributi, assi-  milarsi infine air ambiente. Non presto dunque  dall' " Ara massima „ ove nel Foro Boario gli  si faceva sacrifizio, presso al Palatino, soprav-  venne ad assorbire in sé ed annientare la figura  di Grarano-Recarano. La quale difatti non cade  in cosi profondo oblio clie non se ne serbino  tracce fra gli eruditi dell'età imperiale. Ma come  l'ebbe assorbita. Ercole prevalse onninamente.  Il dio solare poco noto che era di fronte al dio  solare notissimo, impresso di grecità? A en-  trambi, sembra, competevano e le frecce  e la clava: simboli dei raggi della Stella. E le  lotte erculee avverso l'Ade o avverso Neleo non  erano se non se i riscontri analoghi del duello  fra Grarano-Recarano e Caco. Ma là dove l'uno  apparteneva a una religione poco evoluta qual  la latina, l'altre recavano con sé grande matu-  rità religiosa. Una poi di cotesto imprese di  Eracle, la fatica con cui uccise il ^' ruggente „  Gerione e gli tolse la stux)enda mandra, offriva  il pretesto per rinsaldare quel nesso fra Ercole  e Caco, che circostanze di luogo e simiglianza  di forma e contenuto tanto favorivano. Fra Eritia  nell'occidente spagnolo, ove quella fatica avrebbe  avuto luogo, e la Grecia, cui doveva ritornare  l'eroe, l' Italia era ponte, e nell' Italia Roma.  Della positura geografica approfittarono molti  facitori di saghe per le loro combinazioni (1); Per es. Stesicoeo nella sua Gerioneide: cfr. U. Man-     per nessuna forse cosi felicemente come per la  latina di Caco. Giacché la vittoria conseguita in  Eritia sul Ruggente giustificava, oltre che la  presenza di Ercole su l'Aventino, il possesso  della mandra che Caco rapisce.   In progressione, quanto più Ercole prevaleva  su Recarano-Grarano, tanto più s'allargò la leg-  genda. Vi si aggiunsero i particolari sul culto  romano dell'eroe nel Foro Boario, e se ne fece  tutto un paragrafo nuovo del racconto, contrad-  distinto per profondi caratteri dal resto. Non più  il mito della natura; ma l'impasto non sempre  coerente di etiologie, con le quali si tenta di  spiegare l'uno o l'altro aspetto del rituale, un  costume, un gesto, projettando il tutto, senza  prospettiva di tempo, sopra uno schermo unico.  Del paragrafo che cosi accresce la leggenda,  uno strato appare, se l'ipotesi non erra, di unica  origine; rispetto a cui sussistono inserzioni più  tarde.   Addette al culto di Ercole nell'Ara Massima  erano in età storica, prima che il servizio vi  fosse assunto da pubblici ufficiali (anno 312 a. C),  le famiglie dei Potizii e dei Pinarii ; se non che  a questi ultimi sembra che non spettasse come  a quei primi di partecipare al banchetto in cui  dopo il sacrifizio si consumavano i resti delle  vittime. Era inoltre uso di offrire al Nume la  decima, per consueto, d'un proprio guadagno o CUBO La Urica classica greca in Sicilia e nella Magna  Grecia I (Pisa 1912) (" Annali della R. Scuola Normale  Sup. di Pisa l'abigeato di caco   d'un bottino conseguito in guerra : e l'offerta era  lecita cosi a generali come a privati cittadini.  Il primo fra questi fatti e forse anche il secondo  costituiscono la trama originaria della leggenda  etiologica. Per essa Ercole avrebbe instituito,  subito dopo la sua vittoria su Caco, un altare,  l'Ara Massima, e vi avrebbe sacrificato la decima  del bottino strappato al mostro: sacrifizio cui  sarebber stati partecipi membri dei Potizii e dei  Pinarii, con zelo e per tempo quelli, con ritardo  questi onde non poteron partecipare al ban-  chetto delle viscere. Ercole decretò allora che  tale nei secoli restasse il costume fra le due  famiglie.   Se non che dal culto erculeo dell'Ara le donne  erano escluse. Anche qui occorrendo un motivo,  non si pensò che in Roma Ercole è anche dio  della generazione maschile ; ma si disse che le  donne avevano offeso il Nume, in qualche ma-  niera, durante quel primo sacrifizio. L'etiologia  dev'essere a bastanza tarda, e discorda nei testi  ov'è riferita. Per gli uni Carmenta (e la Porta  Carmentalis che ne ha il nome è prossima al  Foro Boario) avrebbe respinto l'invito di assi-  stere l'eroe presso l'ara ; o vi sarebbe pervenuta  in ritardo : ancor più che i Pinarii ! Per una reda-  zione forse più antica in vece, donne rinchiuse  presso il Velabro pel culto della Bona Dea avreb-  bero, per mezzo della loro sacerdotessa, rifiutato  al Dio sitibondo di concedergli un po' d'acqua,  per non lasciar violare il sacrario da un uomo :  — onde la vendetta di lui. E anche recente è,  sembra, il nesso che si strinse fra Ercole e un'ara,  esistente vicino alla Porta Trigemina non lungi al Foro Boario, dedicata Jovi inventori. Certo  è secondario, e per ciò non da tutti accolto, il  particolare che essa fosse eretta da Ercole per  ringraziare, col sacrifizio di un giovenco, il  suo padre Giove.   Ora, se tutti cotesti accrescimenti leggendarii,  i quali si commettono con la figura di Ercole  ed il culto di lui nell'Ara Massima, rappresen-  tano, pur tenendo conto di talune interpola-  zioni più tarde, nel complesso un secondo stadio  del racconto; un terzo venne di poi a sovrap-  porsi. Entrò nel mito la figura di Evandro. Le  cause furono, come per Ercole, due. L'una è  identica per entrambi : la contiguità delle sedi ;  poiché di Evandro era un altare presso la Porta  Trigemina non lungi all'Aventino e al Foro  Boario. L'altra è analoga, non uguale. Come per  Ercole era valsa la simiglianza di lui con Ga-  rano-Recarano, cosi per Evandro influì la forma  del suo nome. La mente non matura che cerca  di motivarsi le tradizioni, quasi sem^^re ritiene  d'aver tutto spiegato allor che ha supposto l'e-  timo d'un termine. Caco ad esempio venne, —  e forse da eruditi greci, — accostato per omo-  fonia all'aggettivo xaTtó^ ^' cattivo ^ ; il quale  parve del resto convenir bene al mostruoso la-  drone. D'altra parte Euander che volto in greco  divenne EdavÓQog, fu inteso " buon uomo „. Indi  fu facile il riscontro tra il " malvagio ,, del-  l'Aventino e il •' buon uomo „ della Porta Tri-  gemina.   Evandro era, — in una leggenda che qui non  l'abigeato di caco   accade di analizzare (1), — un signore di Arcadi  dalla Grecia venuti a insediarsi sul Palatino,  accanto agli Aborigeni retti da Fauno. La sua  persona pareva dunque acconcia a esser legata  per più attinenze con quella di Ercole e Caco;  e se il racconto lo avesse accolto in età pili  antica senza dubbio troveremmo una volgata  concorde intorno a ciò. L'accoglimento in vece  fu tardo, e la volgata non esiste. Esistono rac-  conti cbe oscillano, dalla forma in cui egli è  ostile ad Ercole, alla forma in cui egli ospita  Feroe e gli rende culto. Ma evidentemente la  natura stessa dei suoi ra^Dporti etimologici con  Caco rende certo ch'egli dovette in prevalenza  figurar contro di questo e a favore del greco  figlio di Zeus.   In questo medesimo terzo stadio venne a  confluire, confondendovisi, e innestandosi con  Evandro, un'altra tarda invenzione. Quella Car-  menta, di cui era un anticbissimo sacrario presso  la Porta Carmentalis e che già vedevamo usu-  fruita per una etiologia del racconto, fu in altra  guisa sfruttata per accrescere di solennità la  venuta di Ercole in Roma e immetterla nelle tra-  dizioni più propriamente indigene. Ella avrebbe,  cioè, predetto in un suo vaticinio l'avvento del-  l'eroe e la futura divinità di lui. Il fato cosi  rendeva veneranda la gesta; e la favoletta ser-  viva assai bene a vantare per antichissimo fra  tutti il culto romano di Ercole. Tarda trovata,  che si foggia tal volta coi nomi, in vece che di L'analisi v. in De Sanctis St. d. R. Carmenta, di Nicostrata, di Temide o, presso  Greci, con quel dell'oracolo Delfico. Tarda, che  si trovò la maniera di unire all'altra di Evandro»  questo facendo figlio o amico della profetessa, e  col ricordo del vaticinio giustificando l'acco-  glienza di lui al Tirinzio.   Basti di coteste invenzioni, cosi povere e re-  centi che anche presso i poeti mal si collegano  col restante racconto. E impossibile dire chi per  primo abbia in un testo scritto accolto il nucleo  leggendario più antico, dai successivi stadi!  delFetà volgenti deformato in parte, in parte  svolto e compiuto ; chi abbia, bene o male com-  posto un organismo di quel che era opera, non  del tutto compaginata, d' una lenta e libera  evoluzione traverso slanci fantastici ed erudi-  zieni grame. Sol tanto si può congetturare che  Ennio commettesse nel suo poema la materia  come del primo (Caco), cosi anche del secondo  stadio (Ercole), al meno nella sua più vetusta  parte. E di poi un annalista del II sec. a. C. desse  adito al terzo stadio (Evandro) ed alle sue pro-  paggini.   La quale ipotesi potrebbe sussistere parallela-  mente ad un' altra che giustifica assai bene ta-  luni aspetti del mito di Caco ax)presso gli scrit-  tori dell'età augustea. E probabile difatti, la  fiaba greca di , Ermes ed Apollo, che l' Inno  omerico divulgava in degna veste d'arte e con  autorevole efficacia, non rimanesse senza influsso  su quel mito il quale tra i Latini riproduce, con  fedeltà maggiore, lo stesso unico spunto alle-  gorico indoeuropeo. E se l'abigeato del figlio di l'abigeato di caco   Maja fu nella mente di talun culto scrittore, come Ennio, non privo di analogie con l'a-  bigeato di Caco, da quello questo ebbe forse a  ripetere qualche particolare attinente più tosto  all'astuzia che alla forza. Tale lo scaltro accor-  gimento del condurre per la coda all'indietro i  buoi fino all'antro per disperderne le tracce ;  tale anche lo spergiuro del ladro che nega il  furto : questi difatti ritrovammo nella G-recia  tratti essenziali della saga rielaborata.   Certamente però, quanto al di là di coteste  innovazioni e giunte s'è conservato intatto il  primo profilo del mito, cosi che i particolari  posteriori si sono aggregati ma non sostituiti  ai precedenti ; tanto se ne son venute alterando  la luce e la prospettiva e se n'è obliterata la  coscienza. Chi ricorda più se la rapina e la  vendetta narrino del temporale che il Sole vince  o del fuoco malefico e tenebroso cui la luce è  nemica ? Ora, il fenomeno naturale è lontano :  la terra il cielo il fiume ^ sono intorno alla leg-  genda, non dentro ; la colorano, non la costi-  tuiscono. Ora, essa è duplice nella sua parvenza.  Narrata con un certo abbandono della fantasia,  con una cura precisa di non omettere le più  vivide tinte, è una fiaba, da ripetersi perché  gradita, da ripetersi con arte per non guastarla,  da apprezzarsi come l'eco di due cose venerande :  il tempo e la bellezza. E i poeti la toccheranno  con il loro tocco più lieve e più esperto. Tra-  mandata in vece con un ritegno sobrio che la  contenga dentro i margini dell'umano e dell'e-  roico, riman sospesa ambigua tra la realtà e il  sogno, che la fiaba muore e non è storia ancora; riempirebbe la lacuna dei tempi bui, ma non  elimina ogni dubbio e non genera certezza di co-  noscenza. E gli storici dotati di senso d'arte la  riprodurranno guardinghi e pur non spiacenti.  Una fiaba, dunque, presso e il poeta e lo  storico. Ma una, cui quello è pago di ammirare,  questo è desideroso di credere. Noi non posse-  diamo però né i versi degli artisti più antichi  né le prose dei più antichi annalisti che in  Roma accolsero il mito : solo li conosciamo ri-  prodotti e compiuti nell'opere mature dell'età di  Augusto.  ni. — I Poeti.   Quando, dopo Ennio, l'arte incastonò nel verso  il fulgore della fiaba, già la tecnica aveva po-  lito r esametro e , temprandolo per la forza»  l'aveva reso agile per la grazia delle movenze.  La parola regnava : scelta, limata, contesta, vi-  geva nel tono quanto nel significato; aveva un  senso nel pensiero, e un ritmo nella frase. Espri-  meva, e aggiungeva. E il mito visse nella pa-  rola, che gli divenne fine più che mezzo. Valse  in quella come la congiuntura nella vita: per  gli effetti che produceva, scelto a pretesto o a  tema di un carme; per i distici che l'infrena-  vano e gli esametri in cui adagiavasi; per gli  aggettivi che esigeva e i sostantivi ove si distil-  lava. Ond' è che raro il poeta innovò, sempre  quasi si attenne alla tradizione. L'arte era nel-  l'abigeato di caco   l'adattamento, che non fosse trito, della ribelle  massa linguistica allo schema rigido e inviola-  bile : mentre la licenza facilitava l'opera, il me-  rito splendeva nel difficile. Il gesto della mano  che elegge e soppesa la parola, simboleggia,  riguardo a Caco, l'opera e di Properzio e di  Vergilio e di Ovidio: emblema cui sol tanto  non si attennero là dove altro procedere esigesse  il general tema dell'opera loro, — il quarto  libro delle Elegie^ l'ottavo déìTEneide^ il primo  dei Fasti. Properzio occupa rispetto agli altri due un  posto singolare. La sua dipendenza da Vergilio,  difficile cronologicamente a dimostrarsi, è anche  artisticamente improbabile, cosi che gli sembra  più tosto parallelo. In tal caso, sia che egli at-  tingesse a un modello diverso, sia che con  Ennio non contaminasse altre fonti, sia che in-  fine si ritenesse lecita una libertà maggiore, il suo racconto non comprende Evandro, il terzo  stadio della leggenda, ma, solo i due primi. Caco  ed Ercole : per noi è quindi, qual che ne sia la  causa, un esempio della forma che avrebbe po-  tuto assumere la fiaba senza il mito etimologico  sul " cattivo „ ladro.   Pel resto, il racconto è in tutto personale. I  vero tema dell'elegia è Ercole Anfitrioniade, in  qualità di Dio venerato nel foro boario con  rito greco e senso romano. La sua sola figura  campeggia in due quadri, che uniscono egli e il momento del tempo e la postura della scena.  Nel primo combatte Caco in una lotta breve-  mente descritta, la quale sembra importare al  poeta più nel suo insieme cbe nei particolari.  Nel secondo invoca dalle donne, raccolte nel mi-  stico culto della Bona Dea, l'acqua che gli ne-  gano e ne trae vendetta. Sono dunque le due  sole avversioni che Teroe abbia trovate innanzi  a sé sul suolo dell'Urbe, superate entrambe con  un moto di violenza, concretate entrambe in  prescrizione di rito. Una caverna dell'Aventino,  e il riposto limitare sacro d'un bosco presso il  Velabro, si fanno riscontro; le tre teste di Caco,  e le chiome bianche d'una sacerdotessa. E l'an-  tichissimo mito della natura si dispone allo  stesso piano e nella medesima luce del recente  mito etiologico. L'arte, serbata la bellezza di  quello, ha creato la bellezza di questo ; svolgen-  done una fantasiosa scena cui rende grata e  fresca il murmure d'un fonte.   Quando l'Anfitriomade da le tue stalle, o Eritia,  aveva stornato i giovenchi, vincitor venne agli alti pe-  corosi palatini monti, ed i bovi stanchi stanco egli  stesso posò, là dove il Velàbro con la sua propria cor-  rente stagnava, dove su le urbane acque apriva le vele  il nocchiero. Ma su la terra dell'infido Caco salvi non  furono : quegli di furto Giove macchiava. Indigeno  Caco si era, ladrone da l'antro pauroso, che suoni  emetteva per tre bocche divisi. Egh, perchè non fos-Properzio Elegie IV 9; edizione Phillimore^  (Oxford l'abigeato di caco   sere indizi! certi di palese rapina, per la coda al-  l'indietro trasse nell'antro i buoi ; ma non sfuggiva  al Dio: i giovenchi muggirono il ladro, del ladro le  tane spietate l'ira abbatté. Dalla Menalia clava le tre  tempie percosso, giacque Caco, ed Alcide si parla :  " bovi andate, o d'Ercole bovi andate, fatica estrema  della clava nostra, due volte da me ricercati, due volte  mia preda, o buoi, ed i campi Boarii con lungo mug-  gito sacrate : il pascolo vostro sarà nobile Foro di  Eoma „.   Avea detto, e per la sete ond'è secco il palato il volto  è contratto ma nessun'acqua gli procacciava umida la  terra. Il riso ode lungi di rinchiuse fanciulle. In om-  brosa cerchia gli alberi un bosco avevan formato, clau-  sura di feminea dea, con venerandi fonti e sacelli, a  maschio nessuno impunemente aperti. Le riposte soglie  purpuree bende velavano; nella vecchia dimora odoroso  fuoco splendeva ; il tempio adornava con lunghe fronde  un pioppo e cantanti uccelli densa ombra copriva.   Quivi egli corre, con ammucchiata la polvere su  l'arida barba, e parole non degne d'un Dio gitta di-  nanzi all'ingresso : " voij che nel sacro recesso del  bosco giocate, aprite, vi prego, allo stanco eroe ospi-  tale il santuario ! Erro una fonte cercando, e qui in-  torno è sonoro di acque ; del ruscello mi basta quanto  nel concavo palmo si accoglie. Udiste di alcuno che  il mondo con le spalle sostenne ? Quegli son io : Al-  cide la sostenuta terra mi chiama. Chi dell'Erculea  clava le forti imjirese non ode ? e contro le immense  fiere le non mai vane frecce ? e che ad un uomo solo  si diradar le tenebre di Stige? E s'anche celebraste Omesso il v. [42J.    sacrifizio all'avversa Giunone ? le sue acque non mi  avrebbe negate la stessa matrigna. Ma se qualcuno il  mio volto e del leone il vello e le chiome riarse dal  libico Sole spaventano, io pure, in veste Sidonia, compii  offici di schiava, e cotidiani pennecchi con Lida co-  nocchia ; ed anche a me cinse una fascia morbida l'ir-  suto petto e fui con le dure mani garbata fanciulla ,.   Con tali detti Alcide ; ma con tali l'alma sacerdo-  tessa, da purpureo nastro ricinta le chiome bianche :  * Non riguardar, o straniero, e lascia l'inviolabil bosco;  ritirati or su, abbandona, sicuro fuggendo, la soglia. Per  temibile legge interdetta ai maschi, si venera un'ara  che del rimoto sacello si fa riparo. Con gran danno  scorse il vate Tiresia Pallade mentre, la Gorgone de-  posta, le forti membra lavava! Altre fonti gli Dei ti  donino : quest'acqua scorre per le fanciulle solo, ap-  partata dentro limitare secreto „.   Cosi la vecchia : quegli con le spalle scuote gli opachi  battenti : né l'uscio chiuso all'adirata sete resiste. Ma  poi che col ruscello bevuto aveva placato l'ardore, un  triste giuro con le a pena rasciutte labbra pronuncia.  " Quest'angolo del mondo ora me con i miei fati ac-  coglie : questa terra a me stanco s'apre con pena. La  massima ara „ egli dice " che dai ritrovati greggi è  consacrata, l'ara da queste mani Massima fatta, questa  nessuna donna mai veneri, perché senza vendetta non  resti la sete d'Ercole escluso „.   Padre santo salve! di cui si compiace oramai  l'avversa Giunone ; o santo vogliti rivolgere benigno al  libro mio.   Cosi il breve carme assempra il magistero  delle pause musicali, cui si affida più espressione  tal volta che al contesto delle note : giacché l'abigeato di caco   quando il mito vive di forza verbale, la pausa  lo costituisce non meno della parola. Dal com-  plesso della leggenda volgata e nota, che rin-  chiude abbozzato nella mente di tutti il lavoro  dell'arte, il poeta crea con pochi tocchi i rilievi  e le luci, le ombre e gli sfondi lascia alla me-  moria comune ; e nel silenzio di lui vibra il ri-  cordo di tutti. Noi non sappiamo oggi a pieno  ciò che tale ricordo potesse supplire; ma in  parte l'abbiamo supposto, in parte ci verrà  mostrato da Vergilio ed Ovidio. Intendiamo per  tanto quest'arte. E insieme ne scorgiamo il ca-  rattere profondo: è eulta. Il mito, nella sua  squisitezza formale, è dottrina; e il compiacimento del poeta è di una garbata esumazione  dinanzi a lettori cui la raffinatezza ha svigorito  la forza delle sensazioni. Non il senso religiosa  non l'idea nazionale anima quei distici, se bene  dell'uno e dell'altra vi sieno echi. Li regola un  senso fine dello stile e un gusto aristocratico  dell'accenno sapiente, della misurata allusione  mitologica. Nei limiti dell'arte, che non può esser mai  volgare, assai meno aristocratica, ma in compenso atta a una più vasta cerchia di lettori, è  la narrazione di Vergilio: perché l'informano  quei caldi sensi trascendenti, i quali sono Tamor  patrio e la santità della fede. Dentro la cornice  del poema, che esalta la nazione nei suoi principi! primi, ed è percorso tutto dal rispetto alla  leggenda, come a quella onde scaturisce l'orgoglio del nome romano e si giustifica la gloriosa istoria dei tempi più vicini; accanto alla I POETI figura del pio eroe Enea, che opera per volere  di Griove e abbassa la fronte sotto l'afflato de-  gl'incombenti Numi : il mito, cbe narra Tinsti-  tuzione del culto erculeo, e celebra età anteriori  alla venuta dei Trojani nel Lazio, non può non  essere circonfuso d'una luce due volte sacra, e  ascoltato in atteggiamento inchinevole. Il libro  ottavo dell'Eneide si equilibra su i due suoi  estremi: comincia con le lotte cruente di Enea  contro Turno; finisce con l'inno alle mirabili  vittorie romane e alla battaglia d'Azio, signi-  ficate da Vulcano su lo scudo dell'eroe. Dalle  prime alle estreme gesta, balza il pensiero senza  intervallo in un constante sentimento ; e, nella  compagine salda degli esametri, appajono le  divinità di tre Dei, Venere Ercole e Vulcano.  La leggenda si affonda nella realtà; la religione  le penetra entrambe ; e il canto muove dalle ra-  dici profonde dei profondi sentimenti del popolo  che diede la fantasia alle fiabe, i soldati forti  alle imprese, al culto i divoti.   Per ciò, e il mito di Caco vien esposto durante un sacrifizio ad Ercole, e spazia abbon-  dante di particolari. Qui è detto quel che Properzio accenna. Qui Ennio non si lùchiama, ma  si sostituisce. E la primordiale figura della saga,  Caco, non è svolta meno della seconda, Ercole, né della terza, Evandro: però che  rappresentino, in ordine, la divinità mostruosa  e la divinità bella e un antichissimo assetto poli-  tico presso il colle Palatino. E tutt'e tre sono  edizione Sabbadini' (Torino). l'abigeato di caco   cosi collegate che Evandro, il quale dà il segno  dell'epoca, è il narratore, e nel racconto di lui  le due forze divine si combattono. Il combatti-  mento assume, difatti, la parte più notevole  perché il canto intiero suona d'armi e perché  nella lotta si rivelano a pieno tutti gli aspetti  dei due awersarii. Quindi, per l'esigenze del  tema generale, il mito adombra quei particolari  di astuzia che supponemmo dedotti dalla Grecia,  e lumeggia bene ogni forma di violenza; riconducendoci per obliqua via alla sua probabile  foggia originaria: breve in ispecie l'accenno  allo spergiuro del ladro, che più si accosta al  furbo diniego di Ermes. Ma allora, quasi insensibilmente, il gravitar  dell'importanza su questo duello ne accresce le  conseguenze e, insieme col pretenzioso sfondo  storico, le spinge al di là dell'origine di un culto.  Poiché il poeta vuol credere alla leggenda, e la  pareggia alla storia, in Caco con la belva muore  la vita selvaggia, e dalla sua fine principia non  sol tanto il rito d'Ercole, con i Potizii e i Pi-  narii, ma la quiete per gli abitanti del Palatino.  E il suo cadavere trascinato per i piedi empie  d'un'avida curiosità le menti e non basta ad  appagare i cuori, atterriti dal lor terrore morto;  e i fuochi spenti su le fauci somigliano un  simbolo. Le lotte saran poi di guerrieri con  guerrieri. E sull’Aventino, ove ENEA contempla  ancora le tracce del passato, i contemporanei  d'OTTAVIANO (si veda) scorgono marmoree dimore. Parla Evandro ad ENEA: Guarda da prima questo masso tra le rupi sospeso:  e come lungi son sparsi i macigni, e deserta è la di-  mora nel monte, e rovinarono le pietre in frana. Qui  fu la spelonca, remota     in suo immenso recesso, che il  semiumano Caco di feroce aspetto abitava non tócca  dai raggi del sole ; e sempre di strage recente era  calda la terra ed affissi su la soglia violenta pende-  vano volti foschi di lurida tabe. A un tal mostro Vulcano era padre, del quale atri fuochi dalla bocca recendo trascinava la sua vasta mole. A noi bramanti  il tempo alla fine recava soccorso, e l'avvento del Dio.   Infatti vendicator supremo Alcide giunse, di Gerìone  ucciso e deUe spoglie superbo, e i tori ingenti qui  vittorioso guidava, e la valle ed il fiume occupavano  i buoi. Ma l'efferata mente bramosa di Caco — a ciò  che nullo delitto ed inganno inosato o intentato restasse dal pascolo quattro di mirabile corpo tori  distorna e altr'e tante di magnifiche forme giovenche.  Poi, perchè nessun'orma diretta vi sia, per la coda li  trascina nell'antro, del cammino capovolgendo gl'indizii,  e li occulta nell'opaca caverna. Traccia nessuna guidava chi cercasse allo speco. Fra tanto, quando già dal pascolo il gregge pasciuto moveva l'Anfitrionìade, e procacciava il partire, nella  partenza mugghiano i buoi e tutta di lamenti riempion  la selva e con clamore abbandonano i colli. Alle voci  una delle giovenche rispose per l'enorme antro mugghiando, onde deluse le speranze di Caco la prigioniera. Allor per la rabbia il dolore d'Alcide d'atra bile  riarse: con la mano afferra l'armi e la quercia gra-  vata di nocchi, e a corsa raggiunge l'erta dell'aereo  monte. Per la prima volta videro i nostri occhi Caco  pauroso e turbato. Fugge senz'altro più veloce dell'Euro, l'antro raggiunge : ai piedi il timore presta le l'abigeato di caco   ali. A pena vi s'era rinchiuso, ed un immane macigno,  che per ferro e per l'arte patema stava sospeso, avea  fatto cadere le catene spezzando, e di quello munito  le porte rinchiuse : ed ecco furente nel cuore incalza il Tirinzio, e ogni accesso indagava, ratto qua  e là movendo, e digrignando i denti. Tre volte, d'ira  fremente, tutto perlustra il monte Aventino : tre volte  le pietrose soglie in vano tenta : tre volte, stanco, nella  valle riposa.  Vera, tra i diruti intorno macigni, acuminata una  roccia, a la caverna sorgente sul dorso, altissima allo  sguardo, sede opportuna a nidi d'inauspicati uccelli.  Questa che, prona, dal giogo a sinistra incombeva sul  fiume, verso destra all'incontro spingendo scrollava; da  le profonde radici la strappa e la svelle ; indi d'un sù-  bito la scaglia con impeto onde risuona l'etra gran-  dissimo, sussultano le rive, e si ritira spaventato il  fiume. E lo speco, e di Caco la reggia immane appar  scoperta, e l'ombrosa caverna si mostrò nel profondo,  non diversa che se nel profondo spalancandosi per  forza secreta la terra aprisse le inferne sedi e di-  schiudesse gl'invisi agli Dei pallidi regni, e dall'alto  l'immenso bàratro si scorgesse, e pel penetrato lucore  tremassero i Mani. Lui, colto improvviso da la inattesa luce e nella cava  rupe rinchiuso e per insolito modo ruggente, di sopra Alcide opprime di dardi, e si vale di tutte le armi, e  con rami l'incalza e con enormi macigni. Quegli allora  (non sopravanza difatti al pericolo scampo nessuno)  da le fauci, mirabile a dirsi, moltissimo fumo  vomita, ed avvolge la casa in caligine cieca, agli occhi  togliendo il vedere, e nell'antro una fumosa notte  aduna, tenebre miste con fuoco. Non sopporta Alcide  'nel cuore, e con precipite salto si scaglia nel fuoco,  là dove più fitto il fumo volge sua spira e nel  grande speco fluttua atra la nebbia. Qui nelle tenebre  afferra in stretto nodo Caco, che vani incendii rece,  compresso schiacciato gli esorbitan occhi e la gola si  ingorga di sangue. Si spalanca tosto, abbattute le porte, la nera casa:  i buoi rubati, la spergiurata rapina, riappajono al  cielo, e il deforme cadavere è trascinato pei piedi.  Non possono placarsi i cuori mirando gli occhi tre-  mendi, il volto, ed il petto della mezza fiera, villoso  di séte, e su le fauci i fuochi spenti.   Da allora gli si celebra onore, e i posteri lieti ricordarono il giorno ; e primo Potizio institutore ne fu con  la schiatta Pinaria, custode del sacrifizio erculeo. Que-  st'ara Ercole eresse nel bosco, che massima sempre  verrà detta da noi, e massima sempre sarà.   AVIRGILIO (si veda) sembrerebbe di poter fare seguire  senz'altro OVIDIO (si veda); che lo imita su questo punto  assai strettamente e ne finge anche il senso  religioso e patrio, non inoioportuni né l'uno né  l'altro in quei Fasti ove si rassegnano le feste  sacre e nazionali di Roma. In realtà sotto una  superficiale simiglianza si cela ben profonda  differenza. La vita artistica del mito, pregnante  in Properzio, rigogliosa in Vergilio, vi agonizza.  Ce ne accorgiamo prima dalla parola; che s'è  esaurita, che non osa violare il modello i^er  rinnovarne le linee e si sforza imj)otente di  mutarne i suoni. Cosi che si perde nel vanto  piccolo d'un nuovo vocabolo coniato, allor che -- edizione Petee (Lipsia). l'abigeato di caco  claviger è detto con falsa audacia Ercole;  si sminuisce nel gioco artificioso d'una frase,  quando è eletta a costituire un verso cosi: Dira viro facies, vires prò corpore, corpus  Grande;   sorride bolsa nel bisticcio etimologico Cacus   non leve malum Non è più la finezza properziana e la ricca concisione: è il lezio ricercato a far un poco attonito chi legga. Ciò spiega poi anche la freddezza riposta di  tutto il racconto. Di esso l'occasione son le Carmentalia dell'll gennaio, e il legame che alla  cerimonia sacra lo congiunge è rappresentato  dal nesso ' Carmenta-Evandro-Ercole-Caco. Carmenta difatti, e perché madre di Evandro, e  perché profetessa del culto erculeo, giustifica  tutta la seconda parte del carme ovidiano. Ma  il legame è sottile. Carmenta, numen pì-aesens della poesia, ne è lontana dal verso;  e la sua lontananza nell'essenza e nella forma  (e nell'essenza persiste forse anche quando cessa  nella forma) sottrae parte della forza reKgiosa  al mito: il quale tutta l'avrebbe avuta, se rac-  contato a proposito der sacrifìcio ad Ercole nel  12 agosto.   E parte similmente della sua forza patria la  fiaba smarrisce (inconscio il poeta) per il co-  lore eh' è dato alla figura di Evandro. Questi  non è più, come in Vergilio, il re che, ormai  latinizzato, ajuta Enea, e appare nell'atto di celebrar un sacro rito romano : è lo straniero, l'Ar-  cade, giunto da poco, nuovo alla terra, foru-  scito dalla sua patria, il quale lia bisogno ad  apprezzar il Lazio dell'incitamento e dello sprone  materno. Indi, senza dubbio, la luce, per coerenza  al tema, si addensa su la figura di Carmenta;  ma il figlio di lei se ne menoma. E menomato,  stronca il vigore nazionale del mito. Non solo :  che ^ stabant nova tecta „ quando Ercole giunse,  straniero egli pure. Unico indigeno, Caco: ossia  proprio il personaggio odioso del racconto ; Caco terrore ed infamia della selva aventina. Cosi  una inezia apparente ha tramutato la situa-  zione. Ma l'inezia non sarebbe sfuggita all'ar-  tista se il suo sentimento patrio fosse stato, nei  riguardi di questo mito, reale ed efficace. In  vece egli imitò Vergilio nella superfìcie; e all'artifizio di tale imitazione sospese il suo racconto. Pur nella facile vena del verso, nella sonorità  scorrevole, nella fantasia corriva, l'artifizio s'eleva ad arte. Ecco i bovi d'Eritia conduce colà il clavigero eroe  che del lungo orbe ha misurato il percorso. Mentre lui  ospita la casa d'Evandro, incustoditi vagano pei campi  feraci i bovi. Il mattino sorgeva, e desto dal sonno il  Tirinzio pastore dal novero avverte mancare due tori.  Del tacito furto non vede, cercando, vestigia; le bestie  airindietro aveva tratte Caco nell'antro ; Caco, terrore  ed infamia della selva aventina, danno non lieve a l'abigeato di caco   stranieri e a vicini. Spietato è del forte l'aspetto, le forze  rispondono al corpo, il corpo ha grande. Del mostro,  Mulcìbero è padre : per casa, ingente di lunghi recessi  ha una spelonca nascosta, che mal troverebbero fino le  belve. Teste all'ingresso e braccia pendono infisse: la  terra squallida d'umane ossa biancheggia. Con la mal  serbata parte dei buoi, o nato da Giove, ne andavi :  diedero un mugghio i nibati con rauco suono. " Ac-  colgo il richiamo „ dice e, seguendo la voce, vincitor  per la selva all'empio antro perviene. L'adito quegli con  un masso strappato dal monte aveva munito, che  cinque a stento e cinque avrebbero smosso pariglie.  Delle spalle questi si serve anche il cielo v'aveva  posato e il peso immane smuove crollando. L'abbatte, e il fragore lo stesso etra spaventa ; da la pe-  sante mole percossa cede la terra. Da prima, venuti  alle mani, Caco combatte, e feroce con travi e con sassi  sostien la difesa. Ma poscia che non n'ha vantaggio,  ricorre, mal forte, alle arti del padre, e fiamme vo-  mita da la sonora bocca. Le quali sempre che esala,  crederesti che respiri Tifeo e che dal fuoco dell'Etna  ratto baleno si scagli. Alcide, incalza, e la vibrata tri-  nocchiuta mazza dell'avversario il capo tre quattro  volte percuote. Egli cade, e misto col sangue vomita  il fumo, e batte morendo col vasto petto la terra.   Un toro fra quelli, o Giove, t'immola il vincitore, e  chiama Evandro con gli agricoltoii. A sé costituiva  quell'ara che Massima è detta : qui, dove una parte  dell'Urbe ha il nome dal bue. Né tace la madre di  Evandro, che prossimo è il tempo, in cui la terra  abbia a bastanza goduto l'Ercole suo.  Il gesto più significante clie insieme compiano  Livio e Dionisio (i due storici dell'età di Augusto,  i quali riferirono la leggenda di Caco) è la di-  chiarazione con cui rifiutano di accettare respon-  sabilità per quanto raccontano. Cosi si suol  tramandare dice Livio; e richiama tacitamente  le parole del suo prologo: né di affermare né  di negare ho in animo. E Dionisio: " vi sono  intorno al nume d'Eracle racconti più favolosi,   e altri più credibili. Il più favoloso è questo. E vero che, nel gesto comune, Livio crede più  di Dionisio ; tuttavia entrambi hanno accettato  l'opinione che il mito abbia un contenuto storico (opinione la quale, come si disse dianzi, dovette  prender radice col primo insediarsi laleggenda  sull'Aventino) ed entrambi si pongono, e risol-  vono male, il problema della sua attendibilità.   Anzi, per diminuire quasi l'importanza stessa  del problema, giunsero ad accrescerla. Se aves-  sero riferito il racconto com'è in Vergilio, né  pur Livio, con la scarsa perspicacia critica che lo  segnala, avrebbe esitato a respingerlo tra le fa-  vole. In vece essi lo trovano attenuato presso i  più antichi annalisti: lo rinvengono sotto quella  veste di fiaba si, ma umana, che vedemmo con-  venirgli alla fine delia sua evoluzione. Caco  vale a dire,^non vome fiamma né è un mostro. E  (Ij Su Livio e Dionisio l'abigeato di caco   un uomo malvagio (xaxóg), un violento, un ladro : uomo. La possibilità terrena informa la fiaba  e non ammette sopra sé che l'eroico, Ercole ;  onde le due forze divine avverse si spogliano  del soprannaturale e il valore del racconto pesa  assai più sul furto che su la vendetta. In questa  difatti troppo palese appare la natura mostruosa  di Caco, troppo il padre mitico di lui si rivela  nelle armi ch'egli usa. Un cenno breve dà, cosi  in Livio come in Dionisio, notizia della vittoria  d'Ercole. All'offesa serve la clava, arma d'eroe.  Alla difesa dovrebbe valere l'ajuto dei vicini ;  ma il malvagio lo invoca in vano.   Resta, tuttavia, la fiaba. Il colore la tradisce,  i buoi stupendi di Gerione la palesano. Fuor  dai nitidi periodi di Livio appaiono, negl'incu-  naboli di Roma, il fiume Tevere cosparso le ripe  di erbosi pascoli, ed Ercole dormiente nella queta  ombra sotto il peso del cibo e del vino. Sorge  l'aurora, si svolge la ricerca inutile, la vendetta ;  poi una breve folla d'uomini vigorosi si accoglie  intorno a un'ara, consuma il sacrificio fumante,  il banchetto ; su tutto, il carme profetico di Car-  menta. E l'aura favolosa si forma, oltre il pre-  ciso linguaggio prosastico, nel pensiero di chi  legge. Resta la fiaba. E nella trama della storia  si tinge d'una gravità un po' paludata, d'una  serietà riflessiva, le quali non la soffocano affatto, si al contrario l'abbellano di un candore  ingenuo.   Ma solo la stessa arte di Livio può dare quel  senso secreto -- edizione Weissknbohn'^ (Lipsia). GLI STORICI Che Ercole in quei luoghi conducesse dopo l'ucci-  sione di Gerione magnifici buoi e che presso il fiume  Tevere, per dove aveva nuotando traghettato innanzi  a sé la mandra, in luogo erboso si giacesse, stanco  egli stesso del viaggio e per ristorar con la quiete e con  un buon pascolo i buoi, si suol tramandare. Ivi, come  per la gravezza del cibo e del vino il sopore l'oppresse, un pastore di quei dintorni, a nome Caco e di  violenta forza, allettato dalla bellezza dei buoi e volendo stornar quella preda, perché, se avesse spinto  all'inuanzi la mandra verso la spelonca, le impronte  medesime vi avrebbero addotto il padrone nella ricerca,  trasse per le code all'indietro verso la spelonca i bovi,  quelli insigni per bellezza. Ercole in sul far dell'aurora  come, desto dal sonno, esaminò con gli occhi il gregge  e s'accorse che una parte ne mancava dal numero,  si diresse alla vicina spelonca, se per caso colà conducesser le impronte. Quando queste vide tutte rivolte  al di fuori né altrove dirette, confuso e mal certo  prese a condurre la mandra lungi dall'inospite luogo.  Ma poi, avendo alcune delle giovenche sospinte mug-  gito, come accade, per desiderio delle restanti, il risponder dalla spelonca dei buoi rinchiusi rivolse Ercole.  Lui che assaltava la spelonca Caco tentò di rattener  con la forza, ma colpito dalla clava in vano invocando   l'ajuto dei pastori cadde. Evandro allora reggeva quei   luoghi. Quest'Evandro, turbato dall'accorrer dei pa-  stori trepidanti pel forestiero reo di manifesta ucsione, dopo ch'ebbe udito il fatto e del fatto la causa,  scorgendo l'aspetto e i modi dell'eroe alquanto mag-  giori e più augusti degli umani, gli chiede chi mai  Omesso in parte il l'abigeato di caco   si sia. Quando il nome e la paternità e la patria ne  apprese: nato da Giove, Ercole , disse salve!  Che tu avresti accresciuto il numero dei celesti pre-  disse a me la madre, veritiera interprete degli Dei, e  che a te qui un'ara sarebbe stata dedicata, la quale  un giorno il popolo più opulento della terra chiamerà massima e venererà secondo il tuo rito. Dando la  destra Ercole dichiara di accoglier l'augurio e di adempiere i fati, instituita e dedicata a lui l'ara. Ivi allora  per la prima volta con una stupenda giovenca della  mandra il sacrifizio di Ercole, attendendo al ministero  e al banchetto i Potizii e i Pinarii, che allora eran le  famiglie più insigni abitanti quei luoghi, fu celebrato.  Ora accadde che i Potizii fosser pronti per tempo e ad  essi venissero imbandite le interiora, i Pinarii giun-  gessero per i restanti cibi ma già consumate le interiora. Di qui rimase stabilito, finché la schiatta dei  Pinarii visse, che non mangiassero le interiora del sacrifizio. I Potizii istruiti da Evandro furon i capi di  quella cerimonia per molte età, fin quando trasferito a  pubblici servi il ministero sacro della famiglia, tutta  la schiatta dei Potizii peri.   Tale, nell'insieme, è Dionisio: se se ne  toglie che Caco è per lui non un pastor ma un  predone dei luoglii; che Carmenta è mutata in  Temide; che il ladro, interrogato, nega la  sua rapina ; che Ercole, prima che a sé, alza un  altare a Giove Inventore; e pochi altri particolari minori su la cui natura e sul cui valore  non è qui da dir nulla, poi che fiu'on sopra vagliati. Se non che in Dionisio è, di più, una  stanchezza che Livio ignora. Si dilunga per due  capitoli sopra un racconto cui non crede affatto;  scrive ciascun particolare, ma reputa di vedervi  adombrato un simbolo che rivelerà poi, con si-  cumera da erudito certo di sé e del proprio  sapere (povera certezza in vero!). Eppure non  è nervoso; non sorvola né condensa: insiste e  stanca. Il suo pensiero critico è estraneo: si  afferma all'inizio, si ritrae poi, non ricompare  se non alla fine : Intorno ad Ercole questo è  il racconto favoloso che si tramanda. Alla  fiaba manca l'amore. I Razionalisti.   Quando alla fiaba manca l'amore, essa non può  che singhiozzare i suoi ultimi guizzi fra le  stretto j e fatali del razionalismo. I don Ferrante  dell'erudizione romana trovarono il fatto loro»  come i poeti in Ennio, gli storici negli an-  tichi annalisti, negli annalisti dell'età dei  Gracchi: Cassio Emina e Gneo Gelilo. Su la forma precisa del racconto che si trovava presso  l'uno e l'altro siam tanto jdoco certi quanto non  possiamo dubitare su la forma generale. Entrambi, abbandonandosi alla più rigorosa critica  razionalista, concordano nel ridurre il mito a un  gramo cencio per tramutarlo in realtà; ma si l'abigeato di caco   direbbe che il primo abbia l'occhio più tosto  alla redazione poetica della favola siccome ap-  parve poi in Vergilio ed era apparsa prima in  Ennio, il secondo invece si parta più tosto dalla  redazione storica che con riserve riprodurranno  Livio e Dionisio.   Cassio Emina difatti narrava un preteso " racconto veritiero „ ove Caco appariva in qualità di  servo. Suo padrone sarebbe stato Evandro, il  buono Evandro signore del cattivo servo. Cotesta concezione fondamentale ci ritorna in due  testimonianze, ma un po' diversamente: presso  il commentator di Vergilio Servio e il suo inter-  polatore ; e presso uno scritto L'origine del  popolo romano^ opera probabile d'un erudito  del IV secolo che compilava con grami intenti  storici. Quest'ultimo solo cita Cassio per sua  fonte; il primo sembra contaminarlo con altre  informazioni, ma certo non l'ignora. Per Servio  adunque (e chi l'interpola) Caco fu un uomo,  soggetto al re degli Arcadi, che per l'abitudine  malvagia di devastare i campi col fuoco fu detto  vomitar fumo e fiamme dalla bocca. Il nome  gli venne dal greco xanóg col ritiro dell'accento^  come fu di 'EMvtj in Hélena. Ercole lo abbatté  ponendo fine al suo mal fare. Dunque: il rac-  conto di Vergilio resta, ma, ridotto Ercole a  uomo forte e il fuoco di Caco a simbolo, è tra-  visato nella sua essenza. A tale effetto furono  bastevoli tre interventi del razionalismo: l'uno  a spiegar e ridurre la natura mostruosa del  ladro, l'altro a legittimarne il nome, l'ultimo a  giustificarne i rapporti con Evandro. Più in  là si spinge in vece L'origine nell' attinger forse  più compiutamente, certo in modo più esclusivo, a Cassio Emina. Non solo Ercole è un uomo  forte (il suo vero nome è Recarano), e Caco uno  schiavo ribelle; ma il furto è punito per autorità di Evandro senza duello né lotta. I motivi  razionali di questa notevole soppressione son  due : lo scrittore non aveva spiegato allegoricamente il fuoco di Caco e doveva quindi sorvolare su la circostanza in cui più il fuoco ha  parte ; la qual necessità poi gli servi anche per  metter in rilievo la buona figura di Evandro e  la giustizia di lui. Ma in cosi fare egli si allontana dalla fiaba poetica molto più che non  appaja Servio, se bene come questo la tenga  presente. Come però questa di Cassio Emina doveva  essere, rispetto ad Ennio, una considerevole riduzione del mito fantastico nei termini della  realtà possibile, ma, rispetto al racconto degli  annalisti più antichi, non era se non se un lieve  i tocco; cosi su questo racconto altri critici in-  rtervennero assai più profondamente. Ridurre il  mostro a servo: ecco una trovata buona. Ma  m.utare l'uomo singolo in condottiero di eserciti:  ecco uno spunto ottimo per inquadrare meglio  nella storia dei popoli anche la breve favola.  Quest'atteggiamento era assunto in Gelilo; e  da un contemporaneo di lui, per qual si voglia  via, la derivò a sé Dionisio per il suo più credibile racconto; edizione Jacoby (Lipsia).  l'abigeato di caco  Quale capitano fra tutti fortissimo nei tempi suoi e  comandante d'un numeroso esercito, Eracle percorse  tutta la terra compresa dall'Oceano; abbattendo, ove  c'ei'ano, le tirannidi gravi ed aspre per i sudditi o le  repubbliche violente e dannose ai vicini o i ridotti di uomini dalla condotta selvaggia ed iniqui uccisori di  stranieri; instituendo in vece legittimi regni e savie  repubbliche e costumanze socievoli e umanitarie; collegando inoltre gli Elleni con i barbari, i popoli marittimi  con i continentali, che fin allora vivevano disuniti e  diffidenti; eostruendo città ne' luoghi deserti, deviando  fiumi che inondavano i piani, aprendo strade nei monti  inaccessibili; e l'altre opere compiendo, per modo che  l'intiera terra ed il mare divenisse comune pel vantaggio  di tutti. Venne dunque in Italia, non da solo né conducendo una mandra di buoi (né di fatti la regione è  sulla via di chi si rechi ad Argo dall'Iberia, né per aver  traversato la contrada avi'ebbe meritato tanto onore);  ma guidando numeroso esercito per sottomettere e  dominare questi abitanti dopo avere ormai soggiogato  l'Iberia: e a colà permanere più a lungo fu costretto  e dall'assenza della flotta phe avvenne pel soprag-  giunger dell'inverno e dal non accettare tutti i  popoli che occupavano l'Italia di sottoporsi a lui.  Quindi è narrata la sottomissione armata dei  LIGURI, non che d'altri ; per continuare: Fra costoro che furono superati in battaglia, si  dice che anche il favoleggiato Caco dei Romani, un  re affatto barbaro e signore di sudditi selvaggi avesse con Eracle contesa, perché occupando luoghi forti  era di danno ai finitimi. Costui, tosto ch'ebbe appreso  Eracle essersi accampato nella pianura vicina, con apparecchio da ladrone attaccò in sùbita mossa l'eser-  cito dormiente, e quanto del bottino rinvenne incusto-  dito caricandosene predò. Dopo però, stretto d'assedio  dagli Elleni, vide i presidi! conquistati a forza e fu  ucciso egli stesso nelle fortificazioni. Abbattuti i pre-  sidi! di lui, i territorii all'intorno presero per sé i seguaci d'Eracle e alcuni Arcadi con Evandro. Quest'ultima asserzione rivela quanta libertà  il razionalista si arrogasse; fino a far giunger  nel Lazio insieme con Ercole quell'Evandro si-  gnore degli Arcadi che la volgata afferma in-  sediato sul Palatino al momento del duello.  Libertà intesa al servizio del vero " secondo i  filosofi e gli storici come s'esprime Servio, ossia di quella critica, che conduce a creare,  accanto alla favola più propria una fiaba fittizia e  grottesca : la fiaba dell'Ercole errante in awen-  tm'e cavalleresche, a liberare gli oppressi, render  civili i barbari, pacificar i nemici. Né del resto  sarebbe cosi risibile un tale sforzo verso il  " vero „, né cosi miserandi apparirebber i suoi  risultati; se non gl'inquinasse una mal celata  boria, un vanto sicuro di superiorità intellettiva  che è solamente sterile miseria.   Su queste rovine pochi poveri racconti si stre-  mano ancora. Evandro richiama con sé la figura  di Fauno di cui era divenuto un equivalente  sotto l'aspetto di buona mitezza: Fauno attira  il nome di Latino, suo figlio : il sacrario di Caca  suggerisce la storiella che la dea abbia otte- l'abigeato di caco   nuto il culto sacro rivelando il furto di Caco,  suo fratello.   Poi, è il silenzio.   Singolare sorte della saga, in verità. Ricca  di densa materia; vissuta traverso il succedersi  delle geniture in una propaggine del vigoroso  ceppo ario; maturatasi lentamente tra il Pala-  tino l'Aventino e il Tevere : ebbe nel II se-  colo a. C. non pur la sua forma poetica e la  sua foggia istorica, si anclie soffri su quella e  su questa lo spruzzo livido dei razionalisti : per  modo, che sopra il quadruplice schema l'età più  possente del pensiero romano, l'augustea, non  seppe se non disporre adorne trame di ben va-  gliate parole, ma di poco varii disegni. Onde il  mito ebbe preclusa nel sèguito ogni ulteriore  vita : però che dovesse morire intero con l'estin-  guersi la potenza alla sua bellezza verbale.  Cirene mitica <i).  Il sostrato storico. Ricamo magnifico, pel quale dedussero i più  eletti stami poeti, tra quanti furono nell'antichità, grandissimi, il mito greco di Cirene e di  Apollo, l'uno a l'altra amante, ha però nella  storia reale una sua trama di fatti concreti e in  parte sicuri, da cui deriva direttamente o indirettamente tutte le proprie successive forme e  in cui è da ricercare il motivo appunto di questa  evolventesi trasformazione. Se il Peloponneso,  con due suoi luoghi in ispecie, Sparta e il Tènaro; se Tera, l'isola che nell'Egeo sta a set- Per tutto queeto capitolo vedi Vlndagine in libro II  cap. IV. Nelle note successive indicheremo solo i rispettivi paragrafi. CIRENE MITICA tentrione di Creta; se la Libia, ferace di gregge  e di frutti, costituiscono alla leggenda lo sfondo  geografico: certo fra questi perni essenziali si  svolgono gli avvenimenti, di cui gli uni trovano  nella fiaba un riflesso e una deformazione im-  mediata, gli altri solo in modo mediato danno  impulso a talune vicende, determinano qualche  figura, causano pochi episodi! Grià in tempo antichissimo, intorno al secolo  decimo a. C, sciami di coloni s'eran condotti  fuor dal Peloponneso in Tera, costituendo a  quest 'isola un' incancellabile fìsonomia dorica.  Più tardi sol tanto, presso che nel secolo VI,  sembra Sparta abbia inviato colà uomini suoi,  a suggellare della sua particolar impronta il  carattere e la storia di quella breve terra. Ma  fin dallo scorcio dell'età precedente una mano  di cittadini Terei abbandonava con ardire la  spiaggia patria per avventurarsi nel mare, oltre  Creta, fino in Libia. Comunque l'impresa nei  particolari procedesse, quali che fossero le fatiche sostenute e gli ostacoli superati, i coloni  non posero in vano il piede su la terra straniera :  la quale divenne per essi fiorente di fiore civile,  prospera di ricchezza, famosa al mondo; da essi  si ebbe i suoi Re. Largo era dunque il volo con-  cesso alla ricordevole fantasia dei discendenti,  perseguendo il tramutar delle sedi dalla penisola Cfr. Beloch Griechische Geschichte; Bo-  soLT Griechische Geschichte : Malten Kyrene  C Philologische Untersuchungen.   a l'isola, dall'isola al continente. E la lunga  vicenda fu, come nella memoria, cosi nel mito;  ma quale è la realtà in cristallo iridato.   Però che la memoria fosse alterata da quell'am-  pio patrimonio di figure di\dne e leggendarie, il  quale è pregio d'ogni stirpe greca, in diversa  misui^a; e giungendo alla s^Diaggia insueta recassero i Terei, nell'anima, il loro spirituale pos-  sesso di Dei di Ninfe di Dee : Numi abita-  tori del cielo della terra del mare. E allargato,  di li a non molto, già nel principio del secolo VI,  fu ancora l'ambito dei culti e delle figurazioni.  Regnando difatti Batto II della stirpe che prima  aveva ivi instaurato il soglio regale, un notevole  flusso di nuovi coloni pervenne alla Libia, pervadendo e mischiando l' antica massa. Giungevano dal Peloponneso, e tra essi gli Arcadi  distinti per la lor propria dissimiglianza. Griungevano dall'isole egee, e tra essi i Cretesi, precipui  per la loro importante sede. Rinnovarono la  stirpe corrompendone l'uniformità; apx)ortarono  un soffio diverso e molteplice ad alimentare di  parole mistiche e di riti i sacri fuochi accesi dai  venuti prima. E furono per le vicende delle fiabe  locali di efficacia non piccola ; grandissima. Non  soltanto perché apportatori di nuovi elementi al  racconto; ma anche perché, numerosi, costitui-  rono a sé un centro secondario di creazione e  diffusione mitica, in antitesi al principale, cui  la casa regnante tribuiva più solenne sanzione e  la priorità donava un più schietto rilievo. Ond'era,  Ebodoto da questi due distinti gruppi del popolo greco  in Libia formato, quasi per intiero, il sostrato  mitico delle leggende cirenaiche.   Tuttavia, né questo, che pur ora è stato detto,  sostrato mitico, né quella, che fu tratteggiata,  realtà storica, sarebbero bastevoli a chiarire,  soli, le mature forme della favola di Cirene e  Apollo; ove sfuggisse il centro vero, il proprio  crogiuolo, nel quale divenne creazione viva e  vitale, possente d'un suo secreto alito di pura  bellezza, organata in una palese e pur varia  armonia, la massa confusa e diffusa che si sprecava candescendo in poveri rigagnoli senz'ordine.  Quel centro, quel crogiuolo fu l'antichissimo san-  tuario di Apollo in Delfi, già noto all'epopea  vetusta ch'è detta di Omero. Ivi la favola libica  si tramutò in mito greco: era d'una stirpe, divenne d'un popolo ; era d'una regione, se ne im-  possessò l'arte, universale.   E l'arte fu in fine la plasmatrice maggiore di  quel mondo fantastico, cui diede l'espressione  con voci perenni. L'epica esiodea , l'ode pitica  di Pindaro, l'inno di Callimaco, il racconto di  Erodoto, il carme didascalico di Vergilio in-  tonarono per quell'armonia le note.  n. — L' " Bea ., di Cirene e d'Aristeo. D drappello d'uomini terei che s'insediava primo  sulla proda del mare libico recava con sé, principalissimo tra i suoi Iddii, idoleggiato con spe-  ciale e insigne culto, uno il cui doppio nome  serbava ricordo di antica vicenda: Apollo Carneo.  Carneo era stato il Dio dell'età più antiche, venerato di profondo e rispetto e amore fra i po-  l}oli dori. Sol più tardi il nume di Febo Apolline era sorvenuto, in uno slancio di prepotente  predominio, a fondere con sé, come quella che  gii era per qualche carattere e attribuzione simigliante ed afiine, la vetusta divinità dorica.  E dalla mischianza, per nulla inconsueta, eran  nati il nome nuovo di termine duplice, e la  figura nuova in cui le linee primordiali soprav-  vivevano accanto alle ultimamente tracciate ;  senza vero dissidio, a causa della sostanziale  contiguità dei concetti, il Febo dei Delfi acco-  standosi al Carneo dei Dori. E ad Apollo Carneo  non fu, nella terra libica, pretermesso il culto.  Anzi, poiché dopo alcun tempo i coloni trovarono nella patria nuova un'abbondante fontana  da cui l'acqua scorreva copiosa a fecondare il  suolo riarso, a quel Nume appunto questa sor-  gente ricchezza delle glebe fu piamente dedicata. A torno il " fonte di Apollo „, nel luogo  ove conosciamo la città di Cirene, posò una schiera  di cittadini terei. Fra tanto, rapido era l'accostarsi de' coloni  alla stirpe dei Libi la cui compattezza venivan  variegando in un disegno ellenico: e come alla  stirpe, cosi a' costumi, cosi alla lingua. Appresero, per ciò, che la notevole polla chiamata dal Carneo aveva pure, nella parlata indigena, un  suo appellativo: era detta '^ Gira „. Onde, presso  a quel più greco, questo ijiù libico nome rimase.  E poiché alla fantasia per abitudine secolare si  popolavan di Driadi gli alberi e di Ninfe le  sorgive, nell'acqua si vide abitatrice una vergine  fanciulla, diva del luogo: " quella di Gira suonò l'espressione; e grecamente " Cirene „  (KvQi^vf], Kvqdva). E fu ella quasi il simbolo,  e certo il segno, del penetrarsi cbe il popolo indigeno e il sopraggiunto venivan facendo ; e  tanto più doveva apparir cara ai Dori quanto  più a' luoghi s'avvezzavano e le generazioni si  succedevano. Era destinata a compaginarsi per  impulso crescente con essi ; cosi che nessuno stupisce di vederla scelta a riprodurre, direi eternare, in sé l'opera che quelli spesero per adat-  tare il paese e renderlo quetamente abitabile. Fu difatti rappresentata qual Dea cacciatrice  (nÓTvia d-i]Q(òv) nell'atto di afferrare crollare  abbattere un leone: sola, E nell'atto fu in  breve ferma per sempre, irrigidendolo come  in uno schema, fissandolo in un gesto tipico.  Rimase.   La Signora delle belve e la Ninfa di Gira era,  e per l'uno e per l'altro de' suoi attributi, insen-  sibilmente e inevitabilmente condotta presso  Apollo Carneo : protettore della fonte ov'ella  abitava, e antico Dio del popolo che simboleg-  giava ormai ella. Divennero amanti divini ;  amanti li narrò il sogno nuovo. E cosi il nodo  l' " EEA „ primo del tessuto mitico s'era allacciato. In  Libia si compievano le nozze ; e Libia, l'eponima  del paese, la divinità che dava al nome della  regione una grazia feminea, fu difatti la pronuba benigna e ospitale, cortese di favori agli  sposi.   Il pensiero era in un felice momento creativo :  in uno di quei momenti in cui il volo non si  tronca; e non si perde, e né meno si smarrisce,  la spinta prima. In quest'atmosfera innovatrice,  ove pareva urgesse il bisogno di costituire allo  Stato nascente un diverso patrimonio anche di  leggende, fu sùbito còlta l'analogia fra Cirene,  che reprimendo le belve e prodigando l'acque  procacciava agli agricoltori quiete e abbondanza;  Apollo Carneo, la cui natura solare era, in guisa  eminente, beneiica alle zolle ; e Aristeo, un gio-  vinetto iddio, il quale in Libia era giunto non  sappiamo ben d'onde. Egli era il caratteristico  protettore dei campi ove crescon le messi, dei  pascoli ove erran le mandre e le gregge, degli  aratori e dei pastori. Tale si venerava in assai  regioni greche, e fu presto diffuso sopra un'am-  plissima area : fino in Italia, fino in Sicilia, fino  in Sardegna, da un lato; fino in Tracia, da l'altro.  Nell'isole del mar Egeo aveva culto ; culto in Ar-  cadia. che dunque dall'isole si spingesse in  Libia o che da l'Arcadia lo recassero i venuti  all'appello di Batto II ; egli fu là. E, sia per la  natura sua propria assimilantesi, sia per la legge,  onde la fantasia greca è governata, di non lasciar  nume alcuno isolato ; come altrove s'era commesso con Dioniso dalle feraci viti o con Ninfe  indigene propizie agli aratri, cosi nell'Africa si congiunse, e presto, con la coppia amante; av-  vicinandosi forse prima a Febo, a quella guisa  che gli Arcadi lo dicevan non pur Aristeo ma  "Apollo Aristeo,,; o prima a Cirene: ad en-  trambi tuttavia divenendo figlio dopo aver ac-  costato l'uno, necessariamente. Portava egli con  sé tutt'una serie di attributi e di nessi, dei quali  alcuni gli eran più intimi; altri più proprii eran  di paesi lontani, sua antica sede. Congiunto era  con Agrèo, nume cacciatore; con Opàone, cu-  stode di gregge; con Nò mio, pastore; x^ersino  con Zeus padre. Né il dio delle terre coltivate  poteva non esser attinente, nel racconto, a Gea.  la madre TeiTa; e alle Ore, le fanciulle vario-  pinte il cui corso regola la vicenda dei raccolti,  e allieta o attrista i contadini a volta a volta :  attinenze indubbie, e antiche certo, ma costitui-  tesi s'ignora in qual luogo prima. Spiccatamente  però egli era tessalico : in Tessaglia è forse da  vedere fin la sua origine; di Tessaglia a ogni  modo gli venne la sua più speciale sembianza:  dalla pianura fertilissima in Grecia. Onde è pro-  babile che ivi fosse da tempo unito con il " giu-  stissimo tra i Centauri ,,, Chirone: quegli mede-  simo che, secondo l'epopea, ammaestrò nella  salutare arte medica Pèleo, e di questo il figlio  Achille, e Asclepio il sanatore eccellente di ferite. Accanto dunque alla coppia d'Apollo e  Cirene, la quale recava mischiati i suoi caratteri  delfici dorici e libici, il dio fanciullo era a preferenza tessalico. niade Di questa situazione profittò accortamente chi  ebbe a elaborare il mito in Delfi o nel flusso  letterario originatosi da Delfi. Colà la leggenda  in naturai guisa si riportava a cagione della  figura di Febo; sotto il supremo patronato del  quale la favola ricevette un più ampio svolgi-  mento. Ma per ben comprendere di esso l'origine  e i modi, è necessario badare a quella ch'è dei  rifacimenti leggendarii delfici la più profonda, se  ben forse più riposta, caratteristica. Tendono  tutti bensì, e in primissima linea, a rilevar l'im-  portanza del nume Apolline venerato nel locale  santuario; ma e tendono a intrecciare, sotto di  lui, le fila di più e diversi miti, ancor che sieno  (e meglio se sieno) attinenti a diverse e fin lon-  tane regioni. Un esempio: per più punti simili,  Asclepio di Tessaglia e Apollo di Delfi, dèi sa-  natori entrambi, dovevan facilmente unirsi nel  racconto, e spontaneamente Apollo aveva da  soverchiar Asclepio: orbene, a Delfi se ne trae  lo spunto per trasportar nei piani di Larisa e  di Tricca il dio di Pito. Ardimento anche mag-  giore permetteva la favola africana: il Carneo di  Libia e l'Aristeo di Tessaglia favorivano l'orditura d'un'ampia tela fra due paesi lontani e ben  separati; la quale filo maestro contenesse Febo  Latoide, identificato già col primo e padre già  del secondo; e come su punti estremi si fissasse  su la città di Cirene e su le vette del Pelio. E tra  Cirene e il Pelio Febo Latoide fu mosso, tra  la sede dell'amata e la sede del figlio. Cosi fatta opera era compiuta nell' " Eea „ di  Cirene e di Aristeo, appartenente all'epica detta  di Esiodo. Due versi ce ne giunsero, unici: " O  quale in Ftia, donata di bellezza dalle Cariti,  presso l'acque del Pèneo abitava la bella Cirene „. Il resto del carme si ricostruisce per  congettura. Figlia del tessalo Ipsèo, re dei  Làpiti, e nipote del Penco, fiume locale, Cirene  crebbe vigorosa e animosa, strenua in combat-  tere. Durante la lotta con un leone la sorprese  Apollo e, còlto da amore, si ebbe da Chirone  la profezia delle nozze. La rapi dunque e la recò  sul cocchio aureo in Libia, ove Libia la ninfa  li accolse. Un bimbo nacque: Aristeo. Il j)adre  recò questo presso le Ore e Gea che l'allevarono  e fecero di lui un immortale simile a Zeus, ad  Apollo simile, un Agreo cacciante, un Opaone  custode di gregge, un Nomio pastore. Tale  lo schema breve della fiaba. Ove si riconosce,  senz'altro, il corteggio dei numi che nel racconto  penetrarono al sèguito del fanciullo tessalo  Aristeo; e sùbito si avverte il colorito libico  riflessovi da Cirene; e né meno s'indugia a inten-  der perché, volendo insieme serbar intatto il  carattere tessalico del giovinetto e non cancellare  l'episodio della sua nascita in Africa, venisse  alla madre attribuita prosapia fra i Làpiti presso  i Centauri. S'otteneva cosi, è vero, di raffigurar  popolosi di leoni queti piani della Tessaglia; ma  qual poeta ha mai temuto d'essere illogico '?  E fuor di questo, la trama era pregevole per  molta armonia ; e sovra tutto per un'intima leg-  gera grazia di tocco che temperava con l'amore  del dio la salvatichezza della fanciulla; per una accorta sapienza prospettica nel disegnare le  scene su lo sfondo di due feracissime terre, onde  senza contrasto si rilevava, ben stagliato, in  gesto benefico, il giovine Aristeo ; per un intimo  senso sacro in fine diffuso nel carme, traverso  le parole di Chirone dal molto senno e assai  venerando, sino a dargli temperatamente un  tono religioso.   Che stupenda, del resto, fosse la concezione,  dimostrò la sua vita ulteriore presso gl'imitanti  poeti. Fascinati questi, oltre che dall'aura di  sogno emanante fuor della fiaba, anche dalle  lusinghe di cui eran ricche cosi la vecchia culla  dei canti greci, la Tessaglia, come la nuova fiorentissima colonia dorica, la Cirenaica. Per l'una  il mito si riallacciava alle tradizioni vetuste, per  l'altra si commetteva alle vicende di uno Stato.  Ma era inevitabile che questi due poli, ben armonizzati (all'inf uori della irrazionalità su i leoni)  dall'Eea, attraessero poi in modo palese cia-  scuno a sé la materia; e la Ninfa tendesse a  divenire di qui quasi totalmente tessala, a ridi-  venire di là quasi esclusivamente libica. Due  filoni se ne originarono, non privi né l'uno né  l'altro, all'origine, di tracce lasciate dall'Eea,  unica fonte primitiva; ma ben divergenti in  processo di tempo: l'uno che con Aristeo tras-  porta sul Penco la stabile sede di Cirene: l'altro  che con Apollo rinforza e rincalza i tratti afri-  cani di lei.   Su la via per la quale Cirene jDerverrà a sta-  bilirsi in Tessaglia la prima tappa è compiuta  dall'ode pitica nona di Pindaro, nel 474 a C,  in onore del cireneo Telesicrate, vittorioso nella  corsa in armi   La patria del vincitore cui il canto è indiriz-  zato dovrebbe far supporre che amplissimamente  sul racconto pindarico si esercitasse l'influenza  libica. Fu, in vece, limitatissima. E ben deve  ridursi a un unico particolare. Ove l'Eea introdu-  ceva Libia accogliente gli amanti, Pindaro che  conosce tanto questo particolare e tanto lo ricorda  da valersene nel suo carme (1), non esita a dise-  gnar in vece, nel principio del carme medesimo,  la figura di Afrodite dal piede d'argento: riu-  scendo a un doppione. Perché ? Ad Afrodite era  dedicato un giardino in Cirene e a lei si ren-  deva culto con qualche importanza ; onde fu che  la notizia regionale s' insinuò non pur a modi-  ficar la trama del racconto esiodeo ma a dupli-  carne un tratto. Accanto a questa ben lieve al-  terazione può esser posta un'altra, meno visibile,  e dovuta a causa diversa. Apollo era con Ermes  strettamente congiunto nel mito; v'era tra  essi quasi un vincolo che ove Funo stava l'altro  adducesse. Quest'attinenza fu il motivo per il quale, in Pindaro, altrimenti da l'Eea, non  Apollo, ma Ermes ebbe a recare il recente nato  Aristeo presso le Ore e Crea: ufficio, a ogni  modo, ben dicevole a lui. Delle quali intrusioni  però assai più notabile è la non compiuta au-  dacia con cui il poeta svolge la profezia di Ghi-  rone. Contro di essa si ribellava la sua coscienza  religiosa e la sua dottrina, ove a ciascun Iddio  eran assegnati attributi fissi e certi da non vio-  larsi da non obliarsi, ed erano al tutto scono-  sciute, riprovevoli, le confusioni le incertezze  dei primi canti divini. Già che, i^er esempio,  Apollo era, nell'essenza, l'onnisciente e profe-  tante Nume, troppo illogica e, diciamo, troppo  antropomorfica risultava la scena in cui al Vate  da un Centauro vengono vaticinate le nozze.  Sùbito lo vede Pindaro ; si ribella, ma a metà 5  protesta, non totalmente. Dimostra l'inconsi-  stenza dell'episodio, poi lo accetta con un sorriso ed un sospiro. Fuori però di queste tre deviazioni il suo inno  riproduce l'Eea. Splendidamente per vero.  Voglio, con le altocinte Cariti Telesicrate procla-  mando, il Pitionica di bronzeo scudo, fortunato e  prode, celebrare, corona di Cirene agitatrice di cavalli: Questa un giorno dai ventosi sonori antri del Pelio  il chiomato Latoide rapi ; condusse Egli su l'aureo  cocchio la Vergine selvaggia là, dove d'una terra in  gregge ed in biade ferace l'institui Signora, ad abitar  Edizione di Schrodeer (Lipsia).  la terza amabile fiorente radice del mondo. Accolse  Afrodite dal piede d'argento il Delio ospite, le divine  redini toccando con mano lieve: e per loro sul dolce  letto gi'ato diffuse pudore, in comuni nuziali vincoli  l'Iddio mischiando e la figlia d'Ipsèo ampio possente:   Ipsèo, re allora dei bellicosi Làpiti, da l'Ocèano  seconda genitura eroica ; lui un tempo negl'incliti an- fratti del Pindo generò, goduto il letto del Pèneo, la  Nàjade Creusa, nata dalla Terra ; egli la figlia di belle  braccia crebbe, Cirene. La quale, né de' telai amava l'alterna vicenda, né i  gaudii delle danze fra casalinghe amiche ; ma, con  bronzei dardi e con spada lottando, l'ispide belve uc-  cidere. E molta per vero e queta pace ella ai bovi  procacciava del padre, e poco spendeva del sonno che,  dolce compagno di letto, su le ciglia si stende verso  l'aurora. Sorprese lei un giorno, sola, in lotta senz'armi  con vigoroso leone, il lungisaettante Apollo d'ampia  faretra. Sùbito dalle sue stanze chiamò con grida  Chirone: " Lascia il venerando recesso, o Filiride,  lascia ! l'animo d'una donna e la grande possanza stu-  pisci, quale lotta con impavida fronte sostiene, giovi-  netta dal cuore all'impi'esa più alto: di paura non le  treman gli spiriti ! Chi lei fi-a gli uomini generò ? da  quale schiatta rampollata degli ombrosi monti abita  le caverne ? Forza illimitata manifesta in vero.. È lecito l'inclita mia mano avvicinare a lei, e dal letto  tondere il fiore dolcissimo ? .,  A lui il forte Centauro, con sopracciglio benigno chiaro ridendo, tosto il suo divisamento rispose : Se-   Nel V. 19 leggo òeCvcùv per óeljivoìv col Bergk. crete alla savia persuasione sono le chiavi dei sacri  amori, o Febo ; e cosi fra gli Dei come fra gli uomini  questo del pari è pudore : palesemente il dolce letto  la prima volta salire. Ma ora te, cui non si conviene  menzogna, mite desiderio indusse a parlare queste  finte parole. Tu, onde sia interroghi la schiatta della  fanciulla, o Signore? tu, che di tutte le cose conosci il fine e tutte le vie: e quante di primavera germina  foglie la terra; e quante nel mare e nei fiumi da  l'empito dei flutti e dei vènti sono agitate réne ; e quel  che sarà e donde sarà, ben vedi! Ma, se anche coi  profeti bisogna gareggiare, dirò : a costei sposo venisti  su questa balza ; e oltre il mare devi portarla, nell'in-  signe giardino di Zeus. Donna di città ivi la porrai  raccogliendo l'isolano popolo sul colle c'ha cintura di  piani. Allora la diva Libia dagli ampi pascoli acco-  glierà l'inclita sposa benignamente nelle case d'oro ;  parte della terra a lei tosto donando, possesso comune,  non spoglia di tutte fruttifere piante né ignara di  belve. Ivi ella un fanciullo genererà, da l'illustre Ermes  di poi ritolto alla cara madre, e recato alla Terra e  alle Ore di ben costrutto trono. Queste su le ginocchia  al piccino di nettare le labbra e d'ambrosia stil-  leranno: lui rendendo immortale, uno Zeus, un pui-o  Apollo, delizia agli uomini diletti, un Opaone cu-  stode di gregge, un Agreo cacciante, Nomio pastore:  altri lui nominando Aristeo „. Nella pausa che succede a quest'inno, se ne  sente inevitabilmente refficacia anticirenaica. La  più bella e la maggior sua scena si svolge fuor  di Libia, in Tessaglia; i progenitori tessalici  della fanciulla son rammentati; narrate le sue  imprese virginali su le vette ventose del Pelio;  né il suo figlio pure s'indugia su la sponda afri-  cana. E tuttavia non per questi motivi, di per  sé valevoli, l'ode pindarica scema IL SIGNIFICATO PRIMORDIALE di Cirene; si perché, continuando  l'impulso dell'Eea, sanziona in lei, più assai che  l'eroina indigena venerata e creata da un popolo  in uno Stato, la comune divinità ellenica sposa  di Apollo e madre di Aristeo, Apollo delfico e  Aristeo tessalico ; e le dà per tanto, come plinto  alla sua statua, l'Eliade; come credenti al suo  culto, gli EUeni. A testimoniar tuttavia, effìcacenaente, su l'origine vera della Ninfa resta la sua lotta col  leone: particolare di precipuo sapore africano.  E questo pure andò, in progresso di vicende,  eliminato. Apollonio Rodio ne' suoi Argonauti  nel trattar da erudito la leggenda avverti l'in-  coerenza di quell'episodio che a due veri poeti  era sfuggita ; e lo soppresse senz'altro. Per lui.  Apollo scorge la vergine in Tessaglia intenta a  custodire gregge e di li la rapisce, senza lo speciale motivo della forza ammiranda di lei, in  Libia. In Libia le ninfe sotterranee (x&óviai  vv/i,g)ai) li accolgono: le quali son, come tutrici,  numi del paese e occupano presso il nuovo poeta  sapiente, cui la sminuita fantasia e l'accresciuta  dottrina tolgono d'intuire la bellezza nella personificazione d'una terra, il luogo dell'eponima  ninfa Libia. Apollo poi recherà il nato Aristeo  alle Muse, sue allevatrici: ove delle Muse il  concetto è attratto dalla fama del Latoide qual  Musagète. Che più resta della Signora delle  belve e Dea della fontana? L'esiguo accenno  alle nozze compiutesi in Libia e al soggiorno duraturo della sposa colà. La maggior luce è  gittata su Aristeo, su la sua nascita e le sue  vicende ulteriori: l'africana, nel contesto, è un  momento. Contro questa general tendenza di  Apollonio non starebbe che la soppressione della  profezia del Centauro. Pindaro, discutendola,  l'aveva serbata; egli, più razionale e men rispettoso, l'elimina. Ma appunto perché a lui tutta  la leggenda si presenta in un'aura tessala, sente  poi il bisogno di non perdere totalmente questa  figura, cosi dicevole al suo pensiero; e la ram-  menta quindi, in altro luogo, come partecipe  all'educazione del Fanciullo pastore, insieme  con le Muse. Non più grande né più intenso  poteva essere, sembra, l'influsso della patria  acquisita contro la patria e prima e vera.   E fu più grande e fu più intenso. Bastò che  un poeta, Vergilio, riprendesse il racconto, im-  perniandolo, ancor più che i suoi predecessori,  su Aristeo. L'inevitabile avvenne. Dinanzi la  memore mente dell'artista (o della sua fonte)  è il noto e diffuso episodio omerico di Achille  invocante nella passion dell'ira e dello sconforto  la madre Tetide su la riva del mare. Quando  dunque egli ha narrato come il Fanciullo perdesse  il prezioso suo alveare, gli piace di figm^arselo nell'atto dell'eroe epico ; e lo conduce verso la madre  Cirene. Di questa l'Eea diceva padre Ipseo e  nonno il fiume Peneo. Con una assai piccola  libertà il j)oeta la dice figlia non di quello ma  di questo ; e ottiene cosi di farla abitare nel profondo gorgo paterno e di addurre su la sponda  della corrente acqua il Giovinetto afflitto da  eccessivo dolore. Non oblia Apollo, che a lui fa  breve cenno; ma al fantasioso innovatore del  mito tutta la scena si transfigura. Nuovo sfondo  è il talamo recondito di Penco ove le Ninfe  vivono.   Aristeo pastore fuggiva la ralle di Tempe penèa,  perdute, si narra, per morbo e per fame le api.  Triste, fé' sosta presso il sacro capo del fiume ; molto  lagnandosi, e così invocando la madre: " Madre Ci-  rene, madre, che il profondo abiti di questo gùrgite,  perché da preclara stirpe di Dei, se (come dici)  Apollo mi è padre, inviso ai fati mi generasti? o  il tuo amore per noi dove hai gittato? perché onori  celesti sperar mi facevi ? Ecco : fin questi onori ter-  reni, che a me alacre con pena procacciava solerte  custodia di biada e bestiame, ho perduti, te avendo  per madre. Or su or su : svelli di tua stessa mano le  beate selve ! apporta il nemico fuoco a le stalle ! distruggi le messi! i seminati riardi! e la temprata bi-  penne vibra neUe viti ! se tanto fastidio ti px-ese della  mia fama. La madre il lamento senti nel talamo del fiume  profondo. A lei d'intorno lane milèsie le Ninfe fila-  vano, lane di verdastro colore ritinte : Drimo e Santo e  Ligèa e Fillòdoce, sparse le chiome splendide su i  bianchi colh; e Cidippe e Lieorìade bionda: vergine l'una, esperta l'altra allora a pena i dolori del Georgiche edizione Hietzkl (Oxford).  Omesso il v. parto; e Clio e la sorella Bèroe. oceanine entrambe,  entrambe d'oro, di colorate pelli entrambe fasciate (1) ;  ed in fine, le saette deposte, la veloce Aretusa. Fra le  quali Olimene nan-ava di Vulcano la vana fatica e  l'astuzia di Marte e i dolci furti, e i frequenti anno-  verava dal Caos amori di Dei. Or mentre nel racconto  rapite devolvon dai fusi i molli pennecchi, novamente  il pianto di Aristeo percosse le orecchie materne. Su  i cristallini seggi stupirono tutte. Ma innanzi a l'altre  sorelle Aretusa a guatare dalla suprema onda il biondo  capo levò.   E da lungi: di tanto gemito non atterrita in  vano, Cirene sorella : egli stesso, la tua massima cura,  Aristeo! , tristemente lacrima presso l'onda del tuo  padre Penco : e te chiama crudele , . Allor percossa la  mente di nuovo terrore la madre:  Conducilo, or su,  conducilo a noi; è lecito a lui toccare le soglie di-  vine ,. E insieme, al profondo fiume comanda di  lasciar per V ingi'esso del giovine adito largo. Lui  l'onda ricinge, ricurva di montagna in guisa, e nel  vasto seno lo accoglie e sotto il fiume l'invia. Già la  sede della madre ammirando, ne andava egli, e gli  umidi regni, i laghi rinchiusi in spelonche, i risonanti  boschi ; stupefatto da l'ingente moto dell'acque tutti  osservava i fiumi sotto la grande terra fiuenti. Dopo che fu sotto il redine pomicoso tetto del ta-  lamo giunto, e conosciuti lievi ebbe Cirene i pianti  del figlio ; alle mani danno le sorelle a vece limpida  l'acqua ; mantili recano di tonduti velli ; gravan  di cibi le mense ; colmi calici dispongono. Odoran gli  Omesso il v. Omessi i vv.] altari d'arabi incensi. E la madre: " Prendi, dice,  la tazza di meònio bacco. Libiamo a l'Ocèano „. E  insieme, prega ella l'Oceano padre delle cose e le Ninfe  sorelle, che proteggon cento le selve, e i fiumi cento. Tre  volte del liquido nettare cosparse il fuoco ardente ;  tre volte la sottoposta fiamma al sommo del tetto  avvampò.   Mentre duran le cure ninfali, noi indugiamo  a convincerci d'esser tuttora dinanzi a una stessa  Cirene. In realtà, d'identico non rimase che il  nome. L'Eea aveva posti accanto, creando una  scena singolare, la Ninfa vincitrice del leone,  Apollo ammirato, e il Centauro in atto profetico ;  ed era stata, in cosi fare, scaltra ed ingenua.  Pindaro piomba su la scena col suo volo rapido  di aquila: con Chirone si corruccia e si tra-  stulla ; par clie debba annientarlo con un colpo  d'artiglio della sua fede evoluta; ne cava in vece  un motteggiatore ironico del Dio, e ne fa un epi-  sodio marginale, quasi comico, e un poco inoppor-  tuno : — ma Apollo e Cirene pone l'uno dell'altra  a fronte; e sopr'essi non l'amore, non tanto la  cupidigia, quanto la Necessità, onde debbono  unirsi, onde il Nume s'è recato su quel poggio  montano, e ha da portare la selvaggia nella  terra dei Libi. Anzi, la Legge, che è la prota-  gonista men palese e più reale del duetto, de-  termina essa sola l'episodio centaureo che segue,  e gli dà, essa sola, quel contenuto da cui è sce-  mato e quasi annullato il comico inevitabile.  Sicché la Pitia addensa la materia vasta del-  l'Eea, nel nodo di un momento: ma uno di  quelli che la sorte prepara e rende decisivi nei secoli. Due Muse austere, di Storia e di Reli-  gione, han toccato le loro ardue corde su l'arpa   •ttemplice. VIRGILIO (si veda), e tanto tempo era trascorso! fu più indipendente nel trasfonder sé entro il mito.  Si rammentò dell'ombre fresche sotto cupole  silvane ; e gli fu nel cuore la bramosia con cui  aveva assai volte spinto il viso nei misteri li-  quidi dei fiumi e del mare, fin sotto là dove il  Sole non giunge. E negli occhi gli fu l'imagine  che è nell'acque: la vita delle rive, capovolta  sopra uno sfondo d'inconsistenza e di fuggevolezza, l'uomo nel divino. E l'uomo fu il VIRGILIO (si veda) georgico. Quindi bellezze carnali soffuse di  grazia e immerse in un pudico garbo di colori  e di movenze; costumi domestici di fusi e di  conocchie, uso agreste di vivande parche e di  sacrifizii larghi ; tranquillità villereccia di rac-  conti, e brio, salace forse, non lubrico, di aneddoti  e facezie. Sovra ogni cosa, poi, assemprato  dallo stillar non triste delle grotte sotterranee,  dall'umidore non nocivo di margini erbosi, sovra ogni cosa, il pianto, un po' futile, di Aristeo,  e le bambinesche imprecazioni, e lo spavento,  non estremo, della madre, e il racconsolo ultimo,  flebile ancor esso. Questo tono, appunto, flebile,  questo sapor non ripugnevole di lacrime, nel  recesso romantico, nega, da solo, l'antico mito  della Cacciatrice, vigorosa senz'arme in contro  alla belva, lo nega nell'origine e nell'intimo, più  che ogni variante di particolari o differenza di  luoghi o contrasto di episodii. C'è aria di Man-  tova; non, come in Cirenaica, calura di ghibli  conscio di ruggiti; non, come presso Pindaro, impetuoso vento del Pelio. Il mito è diverso.  Molle e prolisso nepote di un avo ferrigno e  conciso. Ma è necessario non dimenticare che di tanto  trapasso, se il terreno è lo spirito vergiliano,  la radice è l'aver posto nell'acque, non più  della sorgente Gira, ma del paterno fiume tes-  salo, colei clie i Dori avevan veduta sterminare  le belve, e procacciar pace agli aratori nel franger  glebe. Ed è, questa, si rammenti anche, l'estrema foce della vena mitica clie, dall'Eea,  trovò in Aristeo la sua origine prima e il fti'inio  motivo ; questo è l'ultimo effetto dello spostarsi  la materia mitica dall'un polo, la Libia, all'altro,  la Tessaglia. Narra in vece Acesandro, storico cireneo  vissuto come, regnando in Libia un Euripilo, da Apollo  fosse in Libia trasportata Cirene; e come, poiché  un leone infestava il paese, Euripilo offrisse in  premio a chi uccidesse la belva il regno. Cirene  l'abbatté, e ottenne il trono. E press'a poco  identico è il racconto d'un altro storico, Filarco.  Entrambi adunque lumeggiano a preferenza  l'aspetto libico della Ninfa. E fin l'episodio, culminante, della lotta con il leone avviene  dicevolmente, non in Tessaglia, ma in Africa, a  difesa del paese e per iniziativa di un re indi-  geno, Euripilo. Né cotesta è accorta correzione di eruditi ra-  zionalisti. Il contesto medesimo ci appare difatti  negli esametri martellati d'un poeta cireneo: di  Callimaco; segno che la fiaba possiede, come  una non dubbia energia vitale, cosi radici assai  vaste e assai profonde nel territorio cirenaico.  Di Apollo e Cirene egli abbozza, nel suo Inno  ad Apollo^ rapidamente un quadro che ha per  sottinteso un racconto analogo a quel di Ace-  s andrò. In verità molto fu lieto Febo, quando i succinti se-  guaci di Bellona tra le bionde figlie di Libia danzarono,  il sacro tempo ad essi venuto delle Cameadi. Non ancor  potevano alla fonte di Gira accostarsi i Dori; ma la  fitta di boscaglie Azili abitavano. Essi riguardò il  Signore, egli stesso, e alla sua sposa additava : sul  colle dei Mirti dove la figlia di Ipseo uccise il leone,  infesto d'Euripilo ai buoi. Di quella più gradita danza  non vide ApoUo mai; né a città alcuna tanto giovò  quanto a Cirene, memore dell'antico ratto. L'antico ratto è quel medesimo narrato dal-  l'Eea e da Pindaro ; ma il racconto di Callimaco,  come quello di Acesandro, è da l'Eea molto lon-  tano. Siam bene in Libia ; bene è lungi la Tessaglia; e il leone rugge da vero su le sabbie  del deserto. Per che modo e traverso che vicenda  si giungesse a cotesta forma della saga, che due Il testo di Callimaco è del WilamowiTz^ (Berlino).  Domina la fontana di Gira. CIRENE MITICA   storici e un poeta indigeno ripetono analoga-  mente, è indicato, nel medesimo carme calli-  macheo, dal processo del pensiero artistico.   Un gruppo di giovini si fìnge, nell'inizio, rac-  colto in un recesso ove son palme e allori, gli alberi di Febo Apolline; e nelFaria sta,  grave e dolce, il senso sacro del Dio imminente. Oli quale di Apollo croliossi la fronda d'alloro,  quale tutto il recesso ! Lungi lungi l'impuro ! Già già  a la porta col bello piede Febo percuote. Non vedi?  Stormi dolce lene la Delia palma d'un sùbito; il cigno  nell'aere soavemente canta. Da soli or disserratevi pa-  letti dell'uscio; da soli, chiavistelli : però clie il Dio non è  juii lontano. Giovini, al canto ed aUa danza or vi ap-  parecchiate! Apollo non a tutti appare; ai generosi,  pure. Chi lui scorge, è grande; chi non lo vede, pie-  colo è quegli. Noi ti vedi'emo o Lungisaettante ; e non  mai saremo esigui.   Nell'èmpito di ardore sacro e, più, poetico che  trascina Callimaco , alquanto si svolge cosi  da prima il fervoroso esordio ; il quale non è  tuttavia vano, ma serve a preparare, animan-  dola della sua vita illuminandola del suo lucore,  la lauda che vi si farà poi del Dio e l'enume-  razione delle bellezze di lui e degli attributi.  Egli è Nomio, nei pascoli. Egli è l'Ecistère, fon-  dator di città. Quadrienne pose le fondamenta  in Ortigia.   E Febo anche la mia città ferace [Cirene] a Batto  indicò :  corvo, fu guida al popolo che si recava  iu Libia, propizio al colono : e fé' giuramento di mura  donare ai nostri Re. Sempre buon giuratore è Apollo- La città di Callimaco è dunque fondata, egli  dice, dal Latoide e sotto la protezione di lui re-  stano i Sovrani. Quest'è fra il Dio e Cirene una  attinenza nuova e diversa, clie non avevamo fino  ad ora conosciuta. Apollo non è lo sposo di una  Vergine cacciatrice, ma il fondatore della città  che di quella lia il nome: si che accanto al  nesso pindarico del Nume e della Ninfa amanti,  si dispone quest'altro nesso, diverso. Ed è la  prima novità che ci sorprende. Una lunga parentesi segue poi in cui si rintracciano le sedi del culto di Apollo Carneo: Apollo, molti te chiamano Boedromio ; molti  Clario; ovunque a te sono assai nomi. Io però  Carneo te chiamo : mi è patrio costume cosi. Sparta,  Carneo, fu la tua prima sede: seconda Tera: terza  poi Cirene. Da Sparta te il sesto rampollo di Edipo conduce alla colonia Tera; da Tera te il sanato Aristotele recò in terra d'Asbisti e splendido ti eresse un  tempio , un'annua cerimonia in città istituendo, in  cui molti fan l'estrema caduta su l'anca per te tori, o  Signore. 'l'j 1^ Carneo molto pregato! i tuoi altari  fiori in primavera recano, quanti variopinti le Ore  adducono mentre lo Zefiro spira rugiade: dolce croco,  l'inverno. Sempre a te è fuoco perenne ; né mai la ce-  nere rode carbone di jeri.  Cfr. Erodoto e il sèguito del nostro testo.  Traluce qui nella vicenda del culto al Carneo  la realtà storica dei coloni dori mossi da Sparta  a Tera nel sec. VI e, nel VII, da Tera in Libia:  vanno, e li segue il Dio. Appare qui, di più, quel  " sesto nepote di Edipo „ e quell'Aristotele che  avrebbero, a punto, contribuito ai due trapassi.  Ed è la novità seconda. Sùbito appresso vengono dal poeta indotte,  figure prime su la scena, Apollo e Cirene sul  colle dei Mirti in atto di contemplar, vedemmo  dianzi, i coloni Dori danzanti tra le fanciulle  libiche: sùbito appresso, dunque, al brano in cui  Cirene è asserita colonia di Apollo, e allo squarcio  dove dal Peloponneso a Tera e in Libia vien perseguito il culto di Carneo e il trapasso dei  Dori. Comprendiamo allora da tale succedersi  dell'imagini, che l'Euripilodi cui la Ninfa avrebbe  quotato il regno deve essere in rapporto mitico  appunto con quei due spunti favolosi poco prima,  più che svolti, accennati: con la fondazione di  Cirene per opera di Apollo; e con le migrazioni  dei coloni dal Peloponneso, traverso Tera, in  Libia. Comprendiamo che al racconto più prettamente libico su la Signora delle belve è prefazione una saga su l'origine di essa colonia  cirenaica, saga in cui è da ricercare la causa di  quello. Ed è da ricercare, anche, il motivo per che la  coppia di Apollo e Cirene s'aderge qui, su quel  suo colle dei Mirti, con un'energia nuova, che non  è la pindarica e oltrepassa l'Eea. Da prima di  fatti genera maraviglia che in un carme reli-  gioso, qual'è l'Inno in apparenza, si rilevi assai  meno che in un epinicio quel rispetto austero e  insieme divotamente inchinevole il quale costituisce Tanima della scena pindarica. Eppure  tutto l'Inno parrebbe mosso da quel medesimo  vento che, dal Nume, agita la palma delia e la  fronda peneja. Non è. Un sentimento vivace spira,  bensi; ma è patriottico: è del cittadino verso  chiunque, e sia dio, protegge le mura della sua  Città e il trono dei suoi Re ; non del fedele verso  (luel solo, ed è Dio, da cui è rapito nell'assoluto.  Quindi il breve componimento si spezza in due  parti diverse tenute insieme, male, da un elenco  dei pregi e degli attributi di Apollo. La prima  di quelle parti è mossa da una contenuta esal-  tazione patriottica che si veste, abito non suo,  del i^aramento religioso, si schematizza nella  scena rituale: ivi Callimaco non sa trovar che  scarsa armonia di struttura, e abusa di formule  innovate sol con sapienza verbale. La parte seconda, in vece, lascia prorompere la stessa esaltazione patriottica, ma questa volta verso espressioni sue proprie ed adeguate: ivi è la glorifìcazion della patria nel suo bel passato. L'artificio  si discioglie in arte. Ma il bel passato della patria Cirenaica è la  leggenda. E la leggenda bisogna a noi oramai,  sospettatala, rivivere tutta. Euripilo ed Eufemo.   Regna in Cirene una famiglia, la quale,  per ricorrere in essa il nome Batto e per esser  ritenuto un Batto primo re del luogo, era detta  I dei Battiadi. Di quel primo sovrano si serbava  memoria, e accanto al più vulgato si ricordava un altro nome: Aristotele. Anzi era sorta in  qualche maniera a questo proposito una leggenda  etimologica: avvicinandosi cioè Batto al greco  verbo ^atTaQi^o) (balbettare) si raccontava d'una  sua balbuzie dalla quale avrebbe avuto il nomi-  gnolo (1). Ma ben più su di lui si spingeva la  genealogia fittizia dei Battiadi ; a simiglianza  difatti d'altre molte case regnanti, sostenevano  essi di scendere da un eroe : un Euf emo, che rite-  nevan figlio di Posidone e di stirpe beotica. Qua-  lunque valore tal j)retesa avesse e comunque si  fosse originata, a ogni modo raggiungeva lo  scopo di collegare i Re con un Dio: scopo, si  sa, non infrequente in fra i Sovrani. E poiché  tra la Libia e la Beozia un nesso era tutt' altro  che palese, fu facile lasciar in breve cadere  nell'ombra il particolare della patria di Eufemo  o, per lo meno, non accentuarlo con insistenza (2).  Ottimo appiglio inoltre era quell'Eufemo, a  fin di compiacere un desiderio che diremo non  illegittimo per regnanti. Bisognava, per rendere  più sacrosanta più fatale la signoria de' Battiadi  in Libia, che qualche avvenimento degli antichissimi tempi, di tempi narrati nelle epoi^ee  dai cantori di eroi, non pur la giustificasse, si  anche la rendesse a dirittura inevitabile. E se  già Eufemo fosse stato su la spiaggia africana,  ben poteva quello essere il punto in cui il Fato  Studniczka Kyrene (Leipzig) 96. ineluttabile toglieva inizio, e si stringeva il nodo  primordiale delle vicende future. Cosi piacque  loro di imaginar la fiaba.   Sono questi i due dati (l'Eufemo capostipite,  l'Eufemo in Libia) su cui deve aggirarsi tutta  la tradizione della colonia cirenaica. Ed entrambi  seppe assai opportunamente disporre svolgere e  compiere quella fucina medesima che aveva fog-  giato l'Eea di Cirene. E fu con gli stessi modi  e risultati analoghi. Come allora si vide la grezza  materia indigena imprimersi di uno stampo ellenico e assimilare in sua roventezza talun'altra  fiaba estranea; cosi si scorge ora il territorio  leggendario dei Greci spigolato a favore e di  Eufemo e dei Battiadi suoi nepoti. E d'Eufemo  questa è l'Eea, la quale risponde, abilmente, a  due domande: con chi e quando fu in Libia  Eufemo, il figlio di Posidone? quali vicende  traversarono e quali vie tennero i discendenti  di lui, fino a Batto, per raggiunger la Libia e  compiere il fato? Alla prima dimanda fu sodisfatto con un  antico spunto mitico, assai propizio. Si racconta che gli Argonauti compagni di Griàsone  ìran giunti, in certo punto del loro viaggio, al  [lago Tritonio {Ufivri TQiTùìvig), ove sarebbero stati impacciati nel proseguimento. Cotesto lago  'era quello ove venne detersa Atena nascente da  Zeus ed era riconosciuto poi (prima indipendente  da luoghi concreti) nella palude ch'è presso  la piccola Sirte, nell'odierna Tunisia: all'estremo  limite occidentale, verso l'occaso del sole. Quivi  sarebbe apparso loro il dio del luogo Tritone e,  placato col dono d'un tripode, avrebbe ammae-  i  strato gli eroi su la via da tenere fuor dalle  strette. Episodio dunque atto quant'altro mai a  favorir qual si voglia racconto di anticM soggiorni greci in Africa. Quando, ad esempio, lo  spartano Dorieo tentò di colonizzare quei luoghi, la novella fu rinverniciata a  prò di lui cosi: dopo aver ricevuto il dono e  aver ajutato i naviganti, il Dio profetò che il  tripode rinvenuto da un discendente degli Argonauti avrebbe determinato presso il lago la fon-  dazione di cento città greche. Malauguratamente  Dorieo falli nel suo tentativo, non lungi da Tri-  poli, al Cinipe, fiume tra le due Sirti: e il  tripode non fu rinvenuto perché le cento città  non crebbero. Ora in modo analogo procedette  TEea in grazia dei Battiadi. Per essa gli Argonauti sarebber pure giunti alla palude Tritònide ;  ma a un'altra del medesimo nome: a un lago  chiamato cosi presso l'odierna Bengasi (si pen-  sino i '' laghi salati „), in temtorio dunque della  Cirenaica. Inoltre colà si presentò loro non Tritone, ma un diverso nume: Euripilo (2). Il quale  è, come la sua denominazione significa, il Dio  della " larga porta ,, infernale ; molto diffuso in  vero tra i Q-reci e localizzato di preferenza, qual  divinità ctonia, presso grotte e antri ove la  volta rocciosa s' inarchi su la buja ombra. Cosi  appunto vicino ai laghi salati s'apre la bocca  orrida del Gioh onde le acque profluiscono fuor  dalle tenebre alla luce : e chi vi si avventuri non  può far all'oscuro lungo viaggio su l'onde, che  Erodoto. ben presto la fiaccola è troppo scialbo chiarore, e  v'è al corpo concreto delFuomo esiguo spazio,  molto alle fantasime deirimaginazione spaurita.  I Dori scorsero i\'i la voragine dell'Ade e sentirono ivi presente il dio Euripilo. Lui dunque  addussero al prossimo lago Tritonio e lui nar-  rarono farsi incontro ai compagni di Griasone  in luogo di Tritone. Con una variazione poi del  motivo originario, egli fu fatto donare una zolla  non ottenere un tripode. Chi la ricevette? Eufemo. L'avo dei Battiadi fu imaginato per tanto  Argonauta allo scopo di poterlo far x)aTtecipare  al \'iaggio che doveva sanzionare il dominio dei  suoi favolosi discendenti. Non vano dono in vero,  né inutile a chi Tebbe tra mani I però che fosse  fatidico e necessitasse molte vicende av\'enire. D'Eufemo i nepoti toccheranno come lui quel  lago, ritorneranno nelle terre di Euripilo.   Per quali cammini? Era la dimanda seconda. Alla risposta forniva argomento anzi tutto  la realtà della storia: il Peloponneso, l'isola di  Tera, la Libia (le tre tappe storiche de' coloni  Dori di Cirenaica) dovevan essere almeno i tre  punti obbligati e le tre tappe della via compiuta  dai discendenti di Eufemo. Ad esse tre una quarta  ne aggiunse il mito : poiché Eufemo era di-  venuto Argonauta, e già l'epopea omerica co-  nosceva, come sede temporanea di Griasone e dei  compagni di lui, l'isola di Lemno, di fronte a la  costa trojana e all'apertura dell'Ellesponto (Dar-  danelli). Accettate e fissate queste come pietre miliari su la strada, ancora bisognava addurre  i motivi per i quali i nati da Eufemo dall'una  all'altra di quelle sedi si trasportassero: e i mo-  tivi dovevano tutti accogliersi e disporsi intorno  alla prima causa e centrale, il dono della zolla  d'Euripilo. Eufemo dunque dalla Libia, rice-  \aita la piota africana, si recò con i navigatori  iVArgo in Lemno e con essi là procreò, giusta il  mito assai vetusto, da l'isolane donne una schiatta  nuova. Questa aveva ora da recarsi nel Pelo-  ponneso e da toccar quella Sparta che inviò pure una colonia a Tera; ma perché?  A giustificare si disse che nel Peloponneso era  la patria di Eufemo; e poiché Posidone gli era,  nella leggenda, padre e poiché al capo Tènaro  Posidone aveva, coll'appellativo di Greàoco e con  valore di divinità ctonia, rinomatissimo culto,  ivi fu asserita la propria sede di quello. Ciò  non era senza incoerenze : al contrario, Eufemo  {£v(prifiElv) non aveva fin allora avuto carattere  alcuno di nume sotterraneo, e gli fu tribuito; era  precipuamente beota, e diventò tenario; non  godeva di venerazione presso il Geaoco, e vi  venne imaginato. Ma l'incoerenza non è, com'è  noto, affatto l'eccezione non pur nell'arte si  anche nel mito. E qui ben trascurabile riusciva : di  fronte al risultato, raggiunto, di spiegare il  viaggio da Lemno al Tenaro come un ritorno  nei luoghi del packe. Ed eccellente riusciva : per  il vantaggio, conseguito, d'innestare nel racconto  le relazioni fra gli Eufèmidi e Sparta, come con  quella ch'era al Tenaro non lungi. Inverati or  dunque questi primi due scopi, era d'uopo con  pari arte legittimar l'approdo in Tera. E qui lo spunto fu favorito da un aneddoto epico. Odisseo  na\dgante con l'otre di Eolo, ove tutti i maligni  vènti eran raccldusi, fu tradito nel sonno dai  compagni; dai quali sciolto l'otre contro il di-  vieto, la nave rifuggi da la pietrosa Itaca.  Similmente l'Eea narrò che su VArgo la gleba  d'Euripilo, ben custodita dai servi, era poi  stata, in un istante di men vigile attenzione,  travolta dall'acqua del mare: sin che, su l'onde  e le correnti, pervenne all'isola di Tera. Per ciò,  non essendo essa da Eufemo stata recata sul  Tenaro nella sua patria, ma dai flutti all'isola,  da l'isola non dal Tenaro partirono i coloni. Ma se cosi fatta partenza era voluta dai fati, il  segno ne fu offerto e il momento scelto per  opera di Apollo nel suo santuario delfico. Colà  essendosi Batto recato a cagion della sua mal  sicm^a voce {§aTxaQÌl,o)), n'ebbe 1' ordine espresso  di colonizzar quel tratto della spiaggia africana :  ove sarebbe guarito dell'ingrato difetto. Lode  dunque, ben meritata, al Dio. Ultima invenzione questa che rivela il luogo ove la leggenda  degli Eufemidi si elabora e fa d'improvviso su  tutte le vicende camjjeggiare Febo ; ma che si  riconnette assai bene con la figura del Latoide  in qualità di Ecistere o colonizzatore, siccome  già rinvenimmo in Callimaco. Il calcolo poi  genealogico fissava nella quarta generazione dopo  l'Argonauta l'abbandono del Peloponneso; nella  diciassettesima la spedizione verso la Libia.  Con la qual serie di invenzioni episodiche l'Eea Odissea v. 46. Malte. aveva alla fine assolto anche il secondo tra i  suoi due compiti fondamentali. Essa era dunque intessuta sovi^a un canovaccio  dall'apparenza assai più logica che fantastica;  ciascuna delle sue trovate secondarie era indi-  rizzata a un ben preciso fine e sodisfaceva a  un bisogno del ragionamento; al ragionamento  ai suoi scopi alle sue esigenze eran subordinati  i particolari, anche minuti, inerenti agli eroi e  alle sedi loro. E tuttavia quell'era opera di eccellenza poetica. Queste, che pajono a noi am-  bizioncelle dinastiche e pretese mediocri ; questi,  che ci sembrano fini pratici non artistici: eran  nella realtà stimoli possenti della fantasia ; la  quale, obliando ben jjresto l'origine delle sue  imagini e il termine, spaziava poi nel suo proprio  regno da inconcussa signora. E la bella favola,  creata, ignorava il compenso del suo mercenario  creatore. L'accortezza medesima con cui vi si  profìtta di analogie nominali per accostare, ad  esempio, Eufemo traverso Posidone al Tenaro;  la prontezza con cui vi si sfruttano i vecchi  motivi dell'epopea e degli Argonauti; j)otrebber  essere mezzucci d'artifizio : ma sono in vece fun-  zioni spontanee della mente ricca di antiche  e recenti novelle, di miti radiosi e tenebrosi. Nel-  l'ardenza del fuoco inventivo, come le impurità  si distruggono, cosi si avvicinano i diversi, si  mischiano i contigui. Ond'è che il dovere dello  storico, intento a ricercar la causa d'ogni linea  nel disegno leggendario, incresce al contempla-  tore della bellezza. La quale riappare, con tutta la sua unità sin-  tetica, nell'inno smagliante di Pindaro, quarto tra le Pitiche, in onore del re cireneo Arcesilao  vincente col cocchio. Oggi bisogna, o Musa, che tu stia presso un valo-  roso amico, Re dell'equestre Cirene, a fine di spirare  col trionfante Arcesilao l'aura degli inni dovuta ai  Latoidi e a Pitone. In Delfi un giorno, presso le dorate aquile di Zeus,  presente Apollo, la sacerdotessa profetò Batto colo-  nizzatore della ferace Libia: 'avrebbe, la sacra isola  lasciata, costrutto una città di bei cocchi sul risplen-  dente colle e di Medea compiuto, con la settima e  decima generazione, il detto Tereo ; il qual l'animosa  figlia d'Eéta disse da la bocca immortale un di, la re-  gina dei Colehi '.   Disse Medea cosi ai semidivini navigatori del prode  Giasone: " Udite, figli di prodi e uomini e Dei! Af-  fermo che da quest'isola (1) battuta dai flutti, nelle  sedi di Zeus Ammone [Libia] la figlia di Epafo tra-  pianterà una stirpe cara ai mortali. Con i delfini di  brevi pinne scambiate veloci cavalle ; le redini coi  remi; guideranno vorticosi cocchi. Il fatidico segno  è per mutare Tei-a in madre di grandi città; il segno  che su le foci del Tritonio lago, da un Dio a uomo  simile, donante in dono ospitale una zolla, ricevette Eufemo dalla prora disceso benigno su lui Cronio  Zeus fé' rimbombar un tuono quando gli s'imbattè, mentre l'ancora di bronzee marre, briglia della veloce  Argo, sospendevano alla nave. Dodici giorni già la  portavamo, trave marina, dall'Oceano trattala per i miei   (Tera).  consigli, su i deserti dorsi della Terra. Allora solitario un dèmone avanzò, bello assunto l'aspetto di  venerando uomo : con amici detti fece principio, come  ai sopravvenienti ospiti i generosi le mense offron  da prima. Ma la scusa del dolce ritorno ci vietava  l'indugio. Disse Euripilo nomarsi, figlio del Geàoco  immortale Enosigèo : riconobbe la fretta : sùbito allora,  con la destra divelta dal suolo una piota, l' improvvi-  sato dono ospitale volle donare. Non si rifiutò l'eroe,  ma balzato su la riva, a la mano porgendo la mano,  ricevette la fatidica zolla. Veggo che essa, travolta fuor  della nave, galleggia sul mare coi flutti, di sera,  l'umido pelago seguendo: che certo spesso furon  esortati i servi, che allevian le fatiche, di lei custodire;  ma gli animi loro obliarono. Ed ecco in quest'isola  l'eterno s'è riverso seme della Libia d'ampie contrade, prima del tempo. Che se in vece gittato l'avesse in  patria, a canto della sotterranea bocca dell'Ade, sul  sacro Tènaro, il sire Eufemo figlio dell'equestre Posidone  che un di Europa nata da Tizio generò presso le  sponde del Cefiso, nella quarta generazione allora il  sangue di lui avrebbe toccato l'ampio continente con i  Danai, da la vasta Lacedemone partitisi da l'Argivo  golfo e da Micene. Adesso per contro nobili discen-  denti troverà nei letti di straniere donne, i quali, col  favor degli Dei, giunti a quest'isola genereranno un  Eroe signore nei piani di cupa nuvolaglia: a lui nella  molto dorata casa Febo , a lui in epoca futura disceso al tempio Pitico, vaticinando ricorderà di condur  . popolo su navi presso l'opimo santuario niliaco del  figlio di Crono. Tali di Medea le schierate parole. S'impaurirono,  immobili silenziosi, gli eroi simili a Dei, gli accorti  detti ascoltando. beato figlio di Polimnesto, te giusta il discorso  di Medea elesse l'oracolo dell'Ape delfica con spontaneo accento: la quale te, tre volte salutato, dichiarò  fatidico re di Cirene, te per la imperfetta voce inter-  rogante qual rimedio vi fosse appresso gli Dei!   Il conchiuso ciclo dell'ode si termina col santuario delfico da cui aveva tolto l'inizio : nel  mezzo stanno le vicende di Eufemo e dei ne-  poti. Le quali sono in altro brano anche più  esplicitamente significate, ancor su la trama  dell'Eea: dico nei versi. E  su le distese dell'Oceano e nel XJurpureo mare e  tra le mariticide donne di Lemno furono essi  Ivi un giorno o notti fatali il seme   accolsero della raggiante vostra fortuna (o Bat-  tiadi); ivi infatti la stirpe di Eufemo piantata,  per l'avvenir sempre fiori. E mescolatisi di  poi per sedi coi Lacedemoni, abitarono l'antica isola Calliste (Tera): dalla quale a Voi  il Latoide concesse di far prosperare con gli Dei  le i^ianure di Libia e di abitare, con savio con-  siglio regnando, la divina città di Cirene dall'aureo trono Ma questo secondo sviluppo del mito, se è più  minuto, è anche assai inferiore rispetto al primo,  n quale mostra quanto profondamente l'animo  severo e ascetico di Pindaro consentisse e con-  cordasse con il contenuto riposto della leggenda  cirenaica. Le due profezie (l'una, da cui comincia  e che sul finire richiama, della Pizia; Faltra, (Batto-Aristotele). (Gli Argonauti). b svolta con ampiezza, di Medea) son come il motto  ripetuto sur un soffitto nel ricorrere dei fregi :  significano con insistenza l'unico essenziale e fon-  damentale concetto del mito, il Fato onde il  regno dei Battiadi è voluto nei tempi. Medea  con il veggente occhio lo prevede. La Pizia con  la bocca immortale lo attua. Gli uomini si scemano a strumenti della sorte; s'accrescono a suoi  eletti. Se non che il Fato è non soltanto il  nucleo del mito, ma l'intima fede di Pindaro, che è apx^unto stimolata dalle esteriori circo-  stanze in cui fu composta l'ode. Aveva egli avuto  incarico di indurre il re, Arcesilao di Cirene, col  vantarne la vittoria, a riaccogliere in città il f oruscito Damofilo; ne era nuovo a tali offici non  graziosi e vi si vedeva sovente 'costretto. Di qui  un'amara tristezza: non pure pel rimorso secreto,  e qua e là palese, di piegar la sua Musa a com-  pito venale ; si anche ]3ev un coperto pessimismo  umano, onde crollava con uguale sfiducia il capo  dinanzi al forte che aveva vinto la gara come  dinanzi all'opulento che l'aveva pagato. Per lui  ricchezza e prodezza vengono all'uomo dal de-  stino dagli Dei, e l'uomo non se ne scordi, e  per sé lasci levare in minor tono il vanto, si  massimo per i Numi che l'hanno in protezion  benigna. Il fato dunque ancora. Tal coincidenza  fra la propria fede e il nucleo del mito fu còlta  dal poeta con un balzo magnifico di rapidità  intuitiva: Arcesilao vince a Pito; da Pito muove  Batto; ecco il trapasso esterno : un destino  solo fa vittorioso Arcesilao e colonizzatore Batto;  ecco il midollo intimo a questo organismo lirico.  Il resto, lo scopo pratico dell'ode è cosi obliato che Pindaro deve ritornarci su con uno sforzo alla  fine, quand'è ormai arido e gli si spingon a fior  dell'animo i men nobili desiderii e una certa  compiacenza d'intrigo. Per ora, nell'inizio, tutto  è divino. Ma quella che comincia non è l'epopea  d'un eroe, né l'inno sacro ad un Dio: è l'elegia  d'uno spirito d'uomo.   La strada su cui Pindaro s'è lanciato non è  la " carrozzabile „ (à/ia^izóg) : è nuova , aperta  con un colpo di fantasia geniale. Oggi sarebbe  una scena coreografica ; a quei tempi uno spet-  tacolo dei misteri eleusinii ; sempre , il basso-rilievo d'uno scultore che faccia i corpi come  le anime, concreti di evanescenza. Nella notte  dei tempi Medea, maga di semplici e vate del  futuro, dice agli eroi irrigiditi d'ansia la sua  profezia. Sono circa cento kola percorsi da un  brivido unico, che culmina alla fine nell'invoca-  zione a Batto, vibrante di fede. Se non che, su  la strada nuova ed insueta non dura l'imaginazione: già l'episodio di Euripilo apparso agli  Argonauti s'era innestato con diversissima effi-  cienza nel gran quadro di Medea vaticinante,  come quello che vi recava tempere più pesanti  e meno diafane. Con esso episodio si riconnette  poi, non appena cessato l'anelito dell'incom-  bente fato, l'ami^io racconto su i motivi e sulle  vicende onde mosse e per che riusci la impresa  degli Argonauti: ampio racconto che ha tutto  una nuova serenità omerica, una placidezza di  lunghi favellari, un indugio molle su i modi  delle vesti e i sussurri delle folle, un tono, in  somma, appreso dai rapsodi. Giasone fermo su  la piazza di Fere con le due lance e il doppio costume, l'abboccamento con Pelia, i banchetti  di cinque notti e cinque giorni, l'accorgimento  obliquo del Re contro il giovine, l'elenco degli  eroi saliti su l'Argo: questa è l'altra strada, la carrozzabile Pindaro vi entra franco e libero; lo illude la facilità con cui la fantasia  gli crea nuove scene: nelle quali egli dà segni  dell'attitudine sua di statuario creatore della vita  neirimmobilità. Ma a poco a poco la concision  vigorosa scompare; la scena diviene atto, l'atto  dramma; e una imperfetta dramaticità trava-  glia lo spirito del poeta per affermarsi, senza  riuscirvi, o per integrarsi, senza poterlo. Egli si  distrae troppo, una parola lo devia spesso, gli  manca la sicurezza del ritaglio e il coraggio di  sacrificare i trucioli. E continua cosi, a lungo,  faticandosi, irritandosi: l'opera gli riesce un in-  sieme di momenti, scelti senza acume di tragedo, e cuciti con lungaggini di epico. Lascia  un luogo e un gruppo per correre nell'altro  luogo e presso l'altro grupx30 a cercarvi quel  che là non aveva trovato; non si sodisfa; riprende; e cade senza lena alla fine. Allora grida  con sdegno: è troppo lungo per me seguir  la carrozzabile! E sul suo spirito esausto  hanno presa, soli oramai, gli scopi materiali del  carme. Termina in pesce. Falliva adunque l'epopea il dramma l'inno  sacro. Eppure Pindaro è tempora che sa gittare  un'ostia armoniosa su l'altare del Dio ; né sempre  sbigottisce di fronte all'eroe ed all'uomo, ma  tal volta li costringe col suo verso in perfetti  camagli. Perché, quindi, gli mancò quell'arte  nella quarta Pitica? La risposta è nella natura stessa del suo errore. Tutta quella ricerca affannosa d'una base ove consistere cli'è il racconto  degli Argonauti è piena di maraviglie oltre  umane e di giustizie divine. Giasone viene a  rivendicare appunto il sacrosanto diritto di sedere sul trono tolto ingiustamente agli avi; e  nel paese dei Colclii, come già lungo il viaggio,  le sue gesta sono insolite non di coraggio ma  di miracolo. Il fuoco dei mostri non l'offende,  né i colpi del drago. Par chiaro, pertanto, che  il poeta poteva credersi avvolto sempre da quel-  l'atmosfera di fatalità grandiosa la quale sommerge in sé il tereo detto di Medea. Ma  s'ingannò, ed è qui la sua elegia. Toccava il romanzesco della novella, il mirabile della fiaba,  dopo essersi abbandonato, supino il volto, nell'estasi santa. La magia lo deludeva con una  maschera di religione; il cuore non pago pungendolo a irrequetudine. Cosi la sua arte non  propriamente gli mancò, ma più veramente  venne provandosi in vano a molti cimenti sotto  cui è una continua insoddisfazione intima: la  insoddisfazione dello spirito che ha aderito intiero a un impeto di profonda religione e, non  accorgendosi a tempo del transito verso minori  sfere, s'agita come per men perfetti gusti. Ora  quella adesione era stata possibile nel cuore di  un mito: il mito dei Battiadi, in cui pulsa, ori-  gine e scopo della sua stessa vita, il senso so-  lenne d'una prov^ddenza e volontà fatale. Sicché  poche volte una saga ebbe più consono poeta;  pochissime, un tal inno è rimasto documento  lirico della mischianza dell'uno con l'altra e  dell'elegiaca nostalgia che ne consegue.  Una cosi compiuta intuizion del mito non ha  più Erodoto (1). Il sicuro suo equilibrio lo porta  anzi a svolgere della saga proprio quella parte  che Pindaro meno degnava di cure : dove, difatti, il poeta volge tutto il suo compiacimento  verso Tetà primeve, verso Eufemo e gli Argo-  nauti , Euripilo ed Apollo, eroi e numi ; lo  storico è pien di zelo per i discendenti di coloro, }3er gli Eufemidi, per l'Euf emide preferito  Batto, non eroi né numi ma uomini. Il primo  era assorto nella premessa della leggenda; il  secondo corre alle conseguenze. Delle conseguenze Pindaro stesso aveva bensì fatto cenno,  non più nella Pitia quarta, ma nella quinta; gli accadde però per sbalzi e  tratti non connessi, senza organismo, e senza  profondità di attenzione. Vide Batto porre in  fuga i leoni africani perché recò loro una  lingua d'oltre mare; vide i Terei guidati da  Aristotele fondar templi e instituir cerimonie:  tutto in pochi kola de' quali la lode di Apollo  è lo scopo vero e precipuo. Ben altro Erodoto:  a lui la fiaba, che non è proprio fiaba, comincia  anzi dagli Eufemidi e da Lemno ; quel che pre-  cede è avvolto in un silenzio il quale può essere  incredulità, è forse sol tanto indifferenza. Cosi  lo storico comincia a narrare. Egli narra con Cfr. Malten.  una ingenuità dagli ocelli un poco attoniti e  forse un poco sorridenti; molto si compiace nei particolari minuti; molto più pensa di poter la  tradizione degli Eufemidi connettere con altre  indipendenti. Ecco, a suo dire, da Lemno partono non  solo gli Eufemidi ma i più fra i nepoti degli  Argonauti, di cui quelli sono porzione. Onde gli  accade di giustificar doppiamente il loro sog-  giorno nel Peloponneso: sul Taigeto, non lon-  tano dal Tenaro, perché ivi (si sottintende; egli  non dice) è la sede di Eufemo; a Sparta, perché  i Tindaridi lacedemoni navigavan su VA?-go :  ritornan dunque " nelle sedi dei padri „. A tutti  X)oi dà il nome di Minii. Minii e Ai^gonauti son  difatti concetti affini (su la cui origine non è  qui dicevole indagare) ben presto uniti e tal  volta identificati. Per spiegar poi la loro par-  tenza da Lemno richiama la leggenda, a bastanza  tarda, dei Pelasgi cacciati dall'Attica nell'isola:  i quali avrebbero sloggiato i Minii. Ma è com-  binazione grama e non primitiva. In fine,  i Minii, giunti nel Peloponneso per quella causa,  per quale si recarono in Tera? Esisteva, come  un mito cirenaico dei Battiadi, cosi un mito,  ma j)iù tardo, tereo su la colonia spartana giunta  nell’isola; e in esso si parlava  di un " Tera „, palese eponimo dell'isola, che vi  avrebbe condotto taluni Lacedemoni e le avrebbe  dato il suo nome. Di tal mito trae vantaggio lo  storico per far muovere parte de' Minii insieme con  quei Lacedemoni, il cui capo Tera avrebbe  fatto loro la profferta. Uniti navigarono dunque  su tre triacòntori verso l'isola. Ivi, bisogna supporre, i Minii si serbaron distinti dagli altri  cittadini, al meno come schiatta; laddove il  trono fu ottenuto, è ovvio, dai discendenti di  quel Tera.   [In proceder di tempo] Grinno figlio di Esania e  discendente di cotesto Tera, essendo re dell'isola  di Tera, si recò a Delfi per condurre dalla città un'eca-  tombe. Lo seguiva, insieme con altri cittadini, Batto  figlio di Polimnesto, per stirpe appartenente agli Eufemidi dei Minii. A cotesto Grinno re dei Terei clie  lo interrogava intorno ad altre cose, la Pizia rispose  di fondare in Libia una città. Quegli obiettò dicendo:  Ma io, o Signore, sono già vecchio e pesante nel  moto: tu dunque comanda di far queste cose a qualcuno di questi giovini. A un tempo disse queste  cose e accennò a Batto. Allora tali avvenimenti. Più  tardi, andatisene, trascurarono l'oracolo non sapendo  in qual luogo della terra fosse la Libia né osando  inviare una colonia in un'impresa ignota. Per  sette anni dopo ciò non pioveva in Tera, durante i  quali le piante tutte dell'isola tranne una s'inaridirono.  Ai Terei allora che l'interrogavano la Pizia rinfacciò  la colonia in Libia. E poiché non avevano altro rimedio al male, mandarono in Creta messaggeri per ricercar se qualcuno dei Cretesi o dei meteci fosse per-  venuto in Libia. Vagando per l'isola, costoro giunsero  anche alla città di Itano, nella quale s'imbatterono in  un pescatore di porpora a nome Corobio, che dichiara d'esser arrivato, portandolo i vènti, in Libia e, di  Libia, all'isola Platea. Assoldato costui, lo condussero  Cfr. Erodoto. a Tera, e da Tera parti da prima un'avanguardia non  numerosa. Avendoli Corobio guidati a quest'isola di  Platea, vi lasciarono Corobio con cibi per alquanti  mesi e tornarono essi rapidamente ad informare i Terei  intorno all'isola. Ma indugiandosi costoro più del con-  venuto, a Corobio venne meno ogni cosa. In sèguito  una nave Samia, di cui era nocchiero Coleo, diretta in  Egitto, fu portata dinanzi a questa Platea. I Samii  appresero da Coi'obio l'avvenuto e gli lasciarono cibi  per un anno. I Cirenei e i Terei strinsero a partir da  quel fatto grande amicizia coi Samii. I Terei che  avevan lasciato Corobio nell'isola, giunti a Tera an-  nunziarono d'aver occupata un'isola di fronte alla  Libia. Ai Terei piacque d'inviarvi il fratello sorteggiato  in gara col fratello e uomini da tutti i distretti che  erano sette : a loro preposero condottiero e re Batto.  Cosi inviano due navi pentecòntori a Platea (1).   Questo racconto riesce notevole anche perché  vi è taciuta con arte la balbuzie di Batto senza  che al consulto dell'oracolo si sostituisca altro  preciso motivo; e perché vi appare la volontà  di attribuire, oltre che ai Terei anche ai Cretesi  e ai Samii qualche parte nella colonizzazione  della Libia. Volontà, la quale risponde, eviden-  temente, a una tendenza politica tarda: a giustificar le relazioni e di commercio e d'altro fra  lo Stato cirenaico e le due importanti isole. Ora  a xDunto questo facile rilievo addita il luogo  Cfr. Eeodoto. Il brano che riguarda l'ul-  teriore storia dei Samii è omesso perchè estraneo al  nostro mito. Edizione Hude (Oxford)] onde Erodoto trasse tutta la sua fiaba. Egli fu  verso la metà del V secolo in Cirene. Ivi erano,  come si dice, due focolari mitici : l'uno dei  primi coloni, l'altro dei secondi venuti sotto il  re Batto II. Tra quelli, che tenevano il governo  e avevan quindi desiderio di giustificar con il  mito non pure il regno dei Battiadi ma anche  la loro politica, raccolse la narrazione tradotta  pur ora. Tra quegli altri in vece che osteggiavano i Re  e i loro predecessori attinse un'altra fiaba. La  quale non è se non questa medesima ove Aristotele del LIZIO sia divenuto e balbuziente e bastardo, e  i coloni Terei appajano pochi di numero e cac-  ciati dall'isola per opera dei lor proprii concittadini. E poiché Creta, per la sua stessa posi-  tm-a geografica fra Tera e la Libia, non poteva  facilmente esser soppressa nel racconto, ne fu  tratto con accortezza profitto per far aiDparire  anche di impura discendenza il primo colono  Batto. Cosi:   Vi è a Creta una città Gasso nella quale era re  Etearco; che, avendo una figlia orfana, a nome Frò-  nime, sposò un'altra donna. Costei, entrata in casa,  volle anche nel fatto esser matrigna verso Fronime,  procacciandole danni e macchinando ogni male contro  di essa. Alla fine calunniatala d'insana lascivia persuase  il marito che le cose stavano cosi. Questi indotto dalla  moglie concepì un piano infame contro la figlia. Vi era  infatti ad Gasso un commerciante Tereo, Temisone.  II sostrato storico. Costui Etearco invitò a banchetto ospitale e fece giu-  rare che lo avrebbe servito in ciò di cui lo pregasse.  Quando quegli ebbe giurato, gli consegnò la figlia sua  propria e gl'ingiunse di condurla via e d'immergerla  nel mare. Temisone in vece, sdegnato per l'inganno del  giuramento, sciolse i vincoli ospitali e fece cosi: prese  la fanciulla e salpò ; quando poi fu in alto mare,  adempiendo il giuramento di Etearco, la legò con funi  e l'immerse nel mare; ma la ritrasse poi e si recò a  Tera. Colà Polimnesto, insigne cittadino tereo, fece  Fronime sua concubina. Trascorso del tempo, nacque  ad essa un figlio balbo e di sbilenca voce, cui fu  posto il nome di Batto... [A Batto la Pizia interrogata  d'un rimedio per la balbuzie, impose di colonizzar la  Libia, ma solo dopo una lunga serie di sventure e un  secondo comando inviarono i Terei Batto con due  navi pentecòntori]. Navigando verso la Libia costoro  non riuscirono ad altro fare che ritornarsene a Tera.  Ma i Terei cacciarono i reduci e non consentirono che  si avvicinassero alla spiaggia; ordinarono invece di navigare indietro. Essi, costretti, navigarono indietro, e  occuparono l'isola che giace sopra la Libia, la quale, come fu detto, si chiama Platea.   Ma se tal versione della fiaba aveva il preciso  scopo di sminuire i Battiadi, anche l'altra non  serbava più in Erodoto la intima e possente vigoria pindarica. C'è una troppo spessa pàtina  di comune e piatta concretezza umana, su questa  leggenda, oramai. Le figure hanno scemato la Erodoto. Sono omesse le considerazioni  personali di Erodoto sul nome Batto. loro statura; le voci, abbassato il tono; i gesti,  ristretta l'ampiezza; fin l'oracolo delfico ha  rimesso della sua dignità religiosa, un poco a  pena, e a stento riesce a dargli valore di vene-  rando il sèguito delle sventure che puniscono  la trasgressione del suo ordine. Qui il mito vuol  esser storia con esagerata pretesa: ne ingoffisce  ed ingaglioffa alquanto. E in quell'aspetto della  sua evoluzione che permette la esegesi degli  eruditi o la prepara o quasi l'attende. Gruardando ora a distanza questa tradizione  dei Battiadi, se ne distinguono ben chiare e  rilevate tre figure essenziali : Apollo Latoide,  di cui con pari insistenza Pindaro ed Erodoto  ripetono l'opera importante nell'impingere i co-  loni; Eufemo, capostipite della casata e com-  pagno di Giasone ; Euripilo infine, nume indigete  d'una grotta libica, simbolo, in sembianza d'uomo  e con valore divino, della pili antica vita afri-  cana anteriore ai Greci, strumento per ciò eletto  dai Fati a preparare dei Greci l'avvento. Ma  Apollo era il Dio medesimo che, nell'Eea di  Aristeo, aveva condotto Cirene dalla Tessaglia  in Libia. Euripilo è il nome stesso che ritorna  in Callimaco come d'un re da cui la Signora  delle belve ha il trono. Si profila dunque ora  compiuta tutta l'ossatura di questa compagine  mitica. Due Eee stanno a fronte : di Cirene e Aristeo, luna; l'altra di Eufemo. Diverso hanno il con-  tenuto e diversa leggenda elaborano: della Ninfa,  la prima; dei Battiadi, la seconda. Ma comuni  sono e il rilievo di Apollo e il suolo libico e la  origine delfica. Simili dunque e differenti. In  forza della lor dissimiglianza restano in più  d'una evoluzione lontane: cosi l'Eea d'Aristeo  tocca, da un lato, il massimo del suo adulterarsi  tessalico; l'Eea di Eufemo raggiunge, dall'altro,  la maggior sua umana pianezza; senza che si  formino attinenze e stringano nessi. Ma in forza  della loro simiglianza giungono per diversa via,  in uno stadio della lor vicenda, a compenetrarsi : cosi TEuripilo dell'una Eea s'intrude nell'altra, da Eufemo si trasporta a Cirene; e la  Ninfa della fontana j)assa a proteggere (insieme  con Febo) i coloni dori danzanti tra le fanciulle  libiche, la lottatrice solitaria si circonda d'un  popolo. Unici restano distinti, di qua e di là,  Eufemo ed Aristeo : i due perni delle due  Eee. Nel centro, punto del contatto, il carme  di Callimaco. All'un fianco, di Pindaro la Pitia e VIRGILIO (si veda); all'altro, Erodoto e la Pitia  quarta.   Lo schema di cotesta evoluzione mitologica  è dunque complesso come un quadro genealo-  gico. E per vero le singole forme della saga  son congiunte da intime attinenze di derivazion  vicendevole; alle quali tutte predomina il nesso  fra la Cirenaica e Delfi, nesso che di tanto  vasto e lento propagginarsi mitopoetico è, quasi  capostipite, la origine prima.  Il mito è miracolo.   L'occliio vede il chicco di grano scender fra  le zolle, il Sole sparire nel mare, la luce vincer  le tenebre: vede piccole cose ed esigui spetta-  coli che appena lo affaticano lo abbagliano lo  trattengono, e che UN NULLA BASTA A SIGNIFICARE. Ma se all'occhio dia lo spirito una freschezza  nuova, una maraviglia ingenua, un acume creato  di verginità animatrice, fuor dal mondo reale  il fatto e la cosa escono trasfigurati, esalano  la lor concretezza in trasparenza, sfumano i [In questo capitolo gli esempii addotti son desunti  dai precedenti capp. Ma ci dispenseremo dalle continue citazioni.] loro contorni in nuove linee: si tramutano  in una specie nuova. Il Sole che tramonta nel  mare era il mondo esteriore, vivo della sua vita  secreta. Il vecchio re che il figlio uccide è il  mondo interiore, vivo della vita spirituale. E il  miracolo si è già compiuto: restio ad analisi  nella sua complessa essenza ed inesauribile ric-  chezza: figlio del mistero, perché nato da una  energia la quale tanto meglio si cela, quanto  più si manifesta varia: nato dall'uomo. Il filo-  sofo, riflesso dell'età tarde (1), indaga l'opera  mirabile, ne scevera taluni elementi : il più, il  fondo vero, — il miracolo dello spirito transfi-  gurante, — si perde fra le sue dita incerte. Quindi,  il mito solare è di origine oscura come le vicende,  che narra, dell'Astro. E il mito del seme è miste-  rioso nel suo principio come la fecondazione  della gleba.   Per ciò la saga naturalistica vibra tutta d'un  afflato lirico. E il canto dell'anima umana nel-  l'atto di coglier la vita al di fuori, di possedere  con suggello suo proprio quel che i sensi avver-  tono. Contiene quasi un ebro balzar ferigno dall' interno all' esterno ; e pur racchiude insieme  un' illuminata elaborazione intima, un assorbi-  mento dell'esterno nell'interno. Esulta nello sco-  prir la natura, e le dà un nome e la umanizza. Cfr. p. e. la teoria dell'illusione presso Steinthal  Einleitung in die Psychologie und SPRACHWISSENSCHAFT; e quella dell'appercezione (impressione,  associazione, appercezione) presso Wundt Volkerpsychologie (Leipzig) per avvicinarla allo spirito. Quando l'aratore ha  segnato diritto il suo solco, obbedendo al secreto  istinto geometrico della stirpe e imponendo alla  Terra indomita il segno dell'Uomo, ha preceduto  con atto analogo colui che armerà di clava, per  assomigliarlo agli umani, il Sole vittorioso contro  il bujo. Onde l'individuo in cui più intenso il  miracolo mitopeico si avvera, esalta in sé tutta  la razza, le dà la sua anima come una divina  coppa cui tutti e attingano e contribuiscano;  è l'eletto a godere il brivido e a lanciare il  prorompente grido della vittoria, conseguita  sopra la sensibile natura dallo spirito scosso fin  nelle radici profonde; è il mortale che, calcando  la terra, volge in breve giro il suo braccio, in  più ampio, e pur ristretto, orizzonte il suo  sguardo, ma dice in sé stesso di fronte all'universo dei suoi sensi “ti capisco.” La malinconia  dello scienziato moderno che sa di non poter  dare alla forza ignota, o mal palese in talune  forme, che un nome, e non crede d'aver capito  l'essenza quando ha vestito d'un aspetto umano  il fenomeno, è lungi di secoli. Quegli che ha  scoperto tra la luce e l'uomo un nesso, tra il  cielo e l'uomo, tra il mare e l'uomo, sente, trion-  fando di felice ignoranza, che ha, allora solo,  veduto la luce il cielo ed il mare.   Ma lo spirito umano, nell'atto di travestir di  sé il mare ed il cielo, di foggiar volti all'ar-  cobaleno e alla fiamma ed alla spiga, e di  scorgere nella vicenda delle stagioni un fatto  come civile, non va però si oltre in questo suo  bello errore, da non serbar, della forza immane  rivelata da quei fenomeni, del mistero per cui avvengono e sono ref rattarii all'intervento nostro,  traccia alcuna; né, per serbarla, trova modo più  efficace che trasportare il tutto in una sfera più  che la consueta possente e a cui esso medesimo  soggiace. Cosi il mito naturalistico si svolge su  la scena del divino. E il fenomeno mitologico  s'intreccia e si compone con il fenomeno religioso, seguendo con questo una simigliante evo-  luzione dal naturismo all'animismo al perso-  nismo, per la quale si complica si allarga si  condensa, e giunge ad acquisire diversa bellezza  perdendo l'originaria trasparenza. Si che nel  principio ogni mito della natura è un racconto  intorno ad un nume; e sia pur rozzo il racconto  e rozzo il nume. La creazione della saga, adunque, somiglia  per tre aspetti a tre diversi ordini di elaborazion  spirituale : perché infonde la vita a individui che  la fantasia par animare di un soffio e la realtà  foggiar a sua sembianza, è analoga all'opera del-  l'arte ; perché finge i motivi dei fenomeni e quasi  li spiega dinanzi al pensiero non ancora ben  destro, è affine ai procedimenti scientifici che  insegnano le cause dei fatti ; perché, da ultimo,  induce l'animo a reverenza d'un potere più largo  più alto, or solo più forte or anche più buono,  rasenta l'intuito di Dio e il senso religioso. Non può, tuttavia, identificarsi con alcuno fra  quei tre ordini disparati. Anche quello con cui  sembra meglio coincidere è per vero disforme:  l'opera dell'arte non è accompagnata dalla coscienza di certezza e di apprendimento che è  (vedemmo) insita nella fiaba; non è quindi se-  guita, come la fiaba, da una tradizione di rispetto,  per cui venga riprodotta e amata traverso le  succedentisi geniture. La fede mistica per contro,  quando sente la divinità vivere e spirare, e la  vede risplendere, non si menoma in individua-  zioni personificate e denominate, si più tosto in  formule ove all'Essere è congiunto l'attributo. Dalla scienza che mira alle leggi generali su  dai fatti specifici, che raggruppa in classi, riordina in ischemi, è necessario dir lontanissima la  saga? la quale dal singolo fenomeno trae la sua  materia, e scorge ogni giorno un diverso Sole  farsi occiduo, ogni stagione un diverso seme  scender fra le zolle ; e soltanto tardi scopre le  ripetizioni delle apparenze e le identità fonda-  mentali; ed è già matura quando narra Cora  ritornar ogni anno, con sorte alterna, alla madre  e al marito. Anzi, lungo ciascuno di quei tre  ordini lo spirito si evolve in guisa indipendente; fin che da l'una delle tre mete sopravviene a  deformare o incrinare o addirittura distruggere  il processo mitologico. Quanto l'artista, e specie  il letterario, violi con la sua indomabile licenza  la primordial purezza della favola è in queste  pagine segnato con studio. Né qui si tace come  anche la religione scavi alacre nella polpa stessa  del mito, fin nel ricettacolo della sua virtù ri-  posta, e lo vuoti del succo secrétovi dalle sca-  turigini prime. Ma, violento senza pietà, lo  scienziato non erige ove non abbia prima di-  strutto ; e ogni sua parola che afferma, nega in  pari tempo la saga. Diverso dall'arte dalla fede dalla scienza, che  cos'è dunque il mito?  Badiamo anzi tutto che in esso il soddisfacimento pseudo-scientifico non è essenziale quanto  il resto, ma un poco estraneo. Forse, dopo aver  pensato il conflitto fra tenebre e luce sotto la  specie di lotta fra l'uomo forte e bello e l'uomo  torvo e mostruoso, il pensiero, poveramente cri-  tico, si appaga della rappresentazione come di  causa; ed è quella medesima che stimola un  senso rudimentale di questa: o forse, è il con-  trario ; e l'uomo crea la saga i^er apprendere, e  per spiegarsi le forze naturali le plasma umana-  mente e umanamente le fa vivere. Certo, negli  inizii ogni fenomeno pare, trasfigurato, causa di  sé stesso : ma incerto rimane se la ricerca della  causa preceda o segua la trasfigurazione, la de-  termini o ne scaturisca. Oggi nel bimbo si av-  verano entrambi i casi, cbé la fragile mente or  si chiede, dinanzi al sorgere della Luna dal mare, perché?; ora con spontaneo moto traveste in  fogge fantastiche la veduta dei sensi. Comunque,  sia certo l'un modo, o sia sicuro l'altro, il mito  serba il nucleo più vero, là dove è il suo secreto,  intatto dalla pseudo-scienza. Accade un temporale; e un altro; e un terzo; molti: diversi sx)i-  riti li contemiDlano; tutti (supponiamo) si dimandano il motivo dello scompiglio dei bagliori  dei tuoni; ognuno, per contro, crea una favola  differente; a tutti (supponiamo) la favola creata  è spiegazion del fenomeno apparso. L'identità  dell'impulso iniziale o, se cosi vuol credersi,  dell'effetto ultimo iDermane contradittoria alla  varietà delle creature mitologiche. Queste, superando sempre e l'uno e l'altro, s'ergono animate  da una congenita forza eh' è propria, splendenti  d'una bellezza intima ch'è peculiare a loro. Più tardi si scorgono bensi le simiglianze fra i varii  temporali e si adduce la falsa causa comune; ma  allora la saga non deve nascere, si trasforma  in vece e, accrescendosi di un particolar nuovo  clie la integra, raggiunge una taiDpa del suo  evolversi: dall'esterno dunque si muove questo  ulteriore intervento. Cosi il racconto di Cora  rapita sotterra e riapparsa in terra si compie  poi del giudizio di Zeus e del ritorno periodico ;  ma era. E si compie, fin che al meno l'attitudine  scientifica non si maturi cosi da non poter più  arrotondare la fiaba, ma da doverla oppugnare  e distruggere. Né anche Tintuizione religiosa però dev'essere  senz'altro inclusa nel fenomeno mitico. E quella,  difatti, estremamente varia e vasta; trascen-  dendo la natura e le sue forze, si nutre anche  d'ogni altra esperienza attinta all'ambito che è  più specialmente umano. I primitivi avvertono  Dio nella famiglia, e onorano di culto la dea  Madre e il dio Padre; lo sospettano o persin lo  affermano nell'individuo che più sa e più intende,  onde inchinano il Vate. E pure ammesso che  primieramente la divinità appaja traverso la  luce del Sole e il risucchio del mare, non si di-  mentichi che, in quei casi, l'uomo primevo si  pone in contatto con la sovrapotente forza della  Natura, in cui è Dio, ma non tutto Dio; che,  ciò è, egli si trova in un primo stadio della sua  evoluzione religiosa, oltre il quale deve progre-  dire ed entro il quale non intuisce, a dir vero,  se non se la sola Natura; che, quindi, il mito  coincide con il senso di Dio, ma con un aspetto  un momento, transitorii e insufficienti, di quel senso. E allora è più esatto affermare, la saga  contener l'intuito della possanza naturale rivelata nel fenomeno.   Da ultimo, molta luce viene anche dall'ana-  lisi di quelle che dicemmo trasformazioni e individuazioni artistiche: il vecchio re che cade  dal suo trono e cui succede il figlio; la donna  che le rapiscono la figlia per nozze; il duello  fra Perseo e Fineo. Qui sono i tipi dell'espe-  rienza consueta; qui accennano le figure che  jeri vide il mitopoeta, che vede oggi, e domani  di nuovo; i casi, di cui ha acquistato l'abito  il suo pensiero. Le forme della consuetudine sociale alle quali è avvezzo gli aderiscono alla  fantasia come una veste indistruttibile. E somigliano ai mezzi espressivi della tecnica che ogni  artefice possiede e che sono, nel suo spirito, quasi  le vie ove s'incanala l'intuizione. Lo scultore ha  l'esercizio della creta plasmanda; è sicuro del  proprio pollice ; la mano gli vale una certezza :  si che traverso questo possesso egli vede la statua  e foggia la statua. Il poeta sa giacente nel suo  scrigno celato la materia ambrata del Verbo e  la numerosa del Ritmo: onde ricava stimolo e  mezzo all'imaginare. Il facitor del mito aveva  limiti non varcabili alla sua ricchezza: le parole  eran acconce a dire le vicende sociali e a de-  scriver le forme umane ; la vita arborea non  possedeva moto se non per braccia, e il suo prin-  cipio non era da esprimersi se non con l'imagine  dell'uomo ; sola la umanità si possedeva dall'in-  terno, immersi in lei; la Natura si affrontava  dall'esterno: a questa quella unica poteva per  tanto fornire linee e procacciar significazioni. Il l'intuiziqne mitica Sole è lontano ; nuoce e giova a noi fuori di noi; come narrarlo? E un re. Il seme cresce nella  spiga celato allo sguardo, sta nel pugno ma è  diverso dal pugno, cade nel suolo ma è diverso  dall'occliio che lo vede: come narrarlo? E la  creatura tolta alla madre. In progresso di tempo  l'uomo troverà i termini atti ad esprimere il corso  apparente del Sole e il trapasso del chicco; non  li ha trovati allora. Allora serve per la Natura  l'umano; l'umano è quasi tecnica all'intuizione  naturalistica. E l'analogia (non identità, si  badi) è i3rofonda; come quella che si regge anche  su l'indissolubile nesso intercedente tanto fra le  diverse intuizioni artistiche e le rispettive tec-  niche, quanto fra il fenomeno naturale e le forme  umane. V'è, tra l'uno e l'altre, vincolo di reci-  procità, si che queste par violino bensi quello,  ma par insieme che il primo esiga senza scampo  il sussidio di tal violazione. Parvenze entrambe  vere, che di tutt'e due il mito è complesso. Ac-  cade quindi che si possa decidere dell'epoca in  cui una saga fu da principio narrata, per ciò  solo, che gli elementi umani e i dati dell'espe-  rienza sociale sono, nel groppo originario, scarsi  o abondevoli. E accadde per converso che taluni  fenomeni non determinassero la loro leggenda,  se non quando li potè assalire e trascolorare una  copia maggiore di consuetudini nostre. Si pensi. Perseo contro la belva ed Ercole contro Caco  sono analoghe manifestazioni dell'urto fra luce tenebra ; ma quella non presuppone che l'uomo,  la selce acuminata, la fiera; quest'altra in vece  3ontiene già l'uso della mandra, la proprietà, e  costume dell'abigeato. Si pensi, anche: le vicende agresti del seme e della spiga non diven-  gono vicende, o siano trama narrativa, che a  patto di convertirsi in rito nuziale; anteriormente  non esistono, clié non sono intuibili. Come (con-  tinua l'analogia) non esiste per me, ignaro di  plastica, la posa statuaria, che gli occhi vedono  senza il consenso dello spirito seguace. Analogia, non identità. Che il divario è tosto sensibile, non a pena si rifletta alla rispondenza che  è fra l'arti e le tecniche, in contrapposto alla  ineguaglianza che è fra l'umano e il naturale.  Le tecniche non esistono che per l'arti, ne costi-  tuiscono la preparazione voluta, né servono ad  altro che non sieno l'arti, né hanno radici altrove  che nell'arti. Il loro progredire è verso un affi-  namento che permetta di sottoporre sempre più  e sem^Dre meglio la materia sorda al possesso  artistico. E il loro affinamento esalta sempre più  e sempre meglio le arti; non le nega non le di-  strugge già mai. La storia della mitologia per  contro attesta, nelle sue pagine severe, che, come  sia salita a più grosso valore la somma delle  esperienze umane, di quelle esperienze (ciò sono)  traverso cui il fenomeno della Natura passa tra-  sfigurandosi, incontanente questo legame s'infrange, si che a due poli estremi la vita sociale  e gii spettacoli naturali si esprimono con indipendenza. L'accresciutasi esperienza ha tocche  le discrepanze superando le affinità; e la perizia  esercitatasi martella, per le discrepanze, fogge  diverse da le dicevoli per le affinità. Si dichiara ora pertanto l'oscuro testo. Nel mito è  una visione manchevole del mondo esteriore all'uomo, limitata alle crasse sue simiglianze co^   i  jH   mondo interiore all'uomo. Nel mito è, per converso, una vision manclievole di questo ultimo  mondo, ignara del suo contrapposto con quel  primo. Quindi fra l'uno e l'altro di essi un rapporto sol temporaneo, perclié solo parallelo alla  doppia manchevolezza. Ma perché le due insufiicienti visioni sono le uniche per ora acquisite,  e iDerché la duplice acquisizione è avvenuta sul  fondamento delle crasse analogie, il rapporto  dev'essere ed è, anche, necessario e indispensabile; ed è, anche, bastevole ai primitivi bisogni.   Dunque conchiudendo si avrà ; ogni mito è un  detei'minato avvenimento naturale intuito come  forza so"VT.'apotente e veduto a traverso l'umano  in una mischianza che li deforma entrambi:   come forza sovrapotente e divina; indi  il rispetto della tradizione letteraria, l'onore del  culto, e il pregio di motivazione scientifica; in una mischianza che li deforma entrambi; indi la fine della mitopeja con l'eccesso della deformazione e l'imxDOssibilità della mischianza.  Vita, per ciò, e morte. Quale la vita, e onde  la morte, sarà detto appresso. Scaturita, la mitopeja si moltiplica multifor-  memente e si altera evolvendosi. Ma immutati Questo nostro risultato storico intorno al mito contraddice CROCE (si veda) (VICO (si veda)) per cui il mito è un universale fantastico restano, fra tanto trasfigurarsi di innovazioni e  di creazioni, i modi e i mezzi della manifestazione mitica. La quale quindi è necessario pre-  cisare, innanzi che s'imprenda l'indagine sul  viver e sul morire mitopeico. Poi che il fenomeno della Natura dovette, per  affiorare su le coscienze, traversar l'umano, pati  d'esser contemplato come l'umano, in tutti i rispetti; ciò è: quale linea, volume, colore, moto  psichico e gesto corporeo ; e fu scolpito nella ma-  teria, dipinto su le tavole, narrato con parole. Poi che d'altra parte il fenomeno della Natura  rimase luminoso della magnificenza divina, richiese di penetrare nei culti e nei riti in cui  ai Numi offrono i terreni l'olocausto dei loro  puri e torbidi cuori. Sono dunque due grandi  categorie espressive; e su i caratteri di ciascuna  in generale non è qui da far cenno, che ne trattano apposite discipline. Qui basta notare come  sieno entrambe primigenie, coeve tutt'e due  agl'incunaboli della saga; la quale quindi le  trovò senz'altro, sbocchi dicevoli alla sua vitalità  impetuosa. Il fuoco sotterraneo, rompendo la  crosta terrestre e scorrendo in lava, ebbe apparecchiati i canali al suo corso ardente. Che anzi  non si sarebbe né meno levato in un respiro  immane, ove non si fossero rinvenute le vie atte  al suo sfogo. Or è certo che dopo la nascita fu  dalla mitopeja tentato di continuo l'allargamento  di quei suoi mezzi; riuscendole senza dubbio di  svolgerli e di migliorarli, col secondare l'affinarsi  verbale, scultorio, pittorico, religioso. Ma falli,  se mai avvenne, ogni prova d'acquistare alla saga  quell'espressioni ch'erano potenziali all'ora del ritò LE MANIFESTAZIONI MITICHE primo suo crearsi, e attuali divennero solo più  tardi. IL TERMINE FILOSOFICO, la parola scientifica  (vocaboli astratti) fuggirono la leggenda come  si respingono sostanze non consentanee. E in un  dialogo di Platone la fiaba fu racconto anche  se le si immettesse, come allegoria, un'astrazione: l'astrazione riuscendo espressa, sia pure inadeguatamente, dalla fiaba; mai questa da quella,  in alcun modo. Un poema sacro o patriottico, i  frontoni d'un tempio, l'umbone d'uno scudo, il  ventre d'un' anfora, il tergo di uno specchio: qui la saga si foggia a rivelare or l'una or  l'altra delle sue congenite potenze, senza dis-  sonare. L'arte. E quello, in cui la antichissima  intuizione della Natura esala uno dei suoi profumi pili reconditi, e non tra i meno intensi :  il culto.   Il mito può esser nel culto.  AUor quando su l'Ara massima si sacrificano  tori ad Ercole, in Roma, si narra la lotta del  dio contro il ladrone Caco. Persino nelle feste  di Carmenta o in quelle di Evandro il richiamo  della saga, se non certo, è possibile ; è in parte  sottinteso nelle menti dei fedeli. In Enna non  si venera Demetra senza ripetere il ratto di  Cora e, molto più, senza affigurarlo concreta-  mente. Nelle feste cirenaiche di Apollo Carneo  le danze trovan riscontro con i leggendarii balli  dei Dori in mezzo alle fanciulle di Libia. Le forme però di questa interferenza fra culto  e saga sono varie. Nella più tipica, e ad un  tempo più semplice, il gesto del rito ripete la  vicenda mitica. Il cocchio trainato da cavalli bianchi, tra il popolo e i sacerdoti adunati a  Siracusa, fìnge l'azione onde Cora fu ri addotta  alla Madre; e pretende di fingerla nel luogo  istesso ove l'anagoge avvenne. Il medesimo è del ratto. E ad Eleusi si mostrava la pietra  del pianto che aveva parte non piccola nel  culto e su cui Demetra si sarebbe seduta nel  cordoglio prima d'incontrarvi le figlie di Celeo. Ma nessuno di cotesti esempii è tanto significa-  tivo, quanto il dramma greco nel suo contenuto  mitico. Né pure in Euripide, ove la concezione  è cosi moderna e lo spirito maturo cosi largamente innova, è andato perduto il carattere peculiare della tragedia o s'è cancellato il segno  delle attinenze antiche fra il lavoro letterario e  il culto sacro. Per le quali, in fondo, il dramma  appariva quasi la ripetizione gestita del mito,  il mito riprodotto attorno ad un altare, da persone che ne affiguravano gli eroi, in vicende che  ne rendeno la trama. Appariva, in somma,  una specie di culto in cui il rispetto religioso  era ben presente, ben si sentiva l'ambrosia dei  numi; e tuttavia l'azione e il gesto awiavansi  a prendere il sopravvento. Appariva un culto  modellato sul mito.   Questa però, se è la più tipica interferenza tra  i due fenomeni umani, perché in essa la saga  offre al rituale i modi i tempi e i luoghi, non  è la sola né forse la più consueta. Un'altra è  frequentissima: per cui avviene appunto il con-  trario. Nel culto, molti fra gli atti obbligatorii  Pindaro Olimpica e lo scolio.  e tradizionali si riportano, idìiì che ad un determinato racconto leggendario intorno al dio che  si venera, agli attributi di quel dio alle sue  mansioni alle sue ordinarie potenze: le quali si  invocano in circostanze favorevoli, si supplicano  benigne; o vero si irrogano lontane, si distornano  con offerte e con formule ritenute idonee. Vi  hanno inoltre, pure estranei al mito, atti religiosi sorti in momenti diversi, per caso, per  coincidenze fortuite, per iniziative, anche intenzionate, di sacerdoti e di governatori. Si danno  infine templi e altari elevati, fuori di un certo  mito, per un nume cui il mito fu collegato  lDÌd tardi; come l'ara d'Ercole nel Foro Boario  che esistette innanzi all'avvento del Tirinzio  nella saga di Caco. Ora, tal complesso cultuale,  che è solo parallelo o, peggio, solo per incidenza  contiguo al racconto leggendario, non ne dura  a lungo estraneo, ma finisce col penetrarvi e  costituirvi un capitolo interpolato. E questa la  massa delle etiologie, che notammo neìVInìio a  Deìnefra, e che rinvenimmo a proposito dell'abi-  geato del ladrone latino. Sempre, in questi  esempii, il contesto narrativo si amplia a van-  taggio e ad interesse della realtà religiosa : fenomeno che attinse il suo vertice in quei casi,  ma non ne appajono in questo scritto, che  tutta quanta la leggenda nasce dal rito. Ebbene. Nella prima delle due interferenze  notate, troviamo la leggenda esprimersi per  mezzo del culto. Nella seconda, il modo opposto.  Fra le due non difettano attinenze; né è diffi-  cile decidere intorno alla priorità. I miti etiologici che scaturiscono dall'esercizio religioso sono senza dubbio, al pari degli etimologici, alquanto  più tardi degli spontanei miti naturalistici e per  solito, a differenza di questi, tristanzuoli. Anche,  la prima interferenza intacca e interessa intiera  la leggenda: onde il culto di Demetra investe  tutto il mito di Demetra, e il dramma tragico  tutta la saga di Andromeda; laddove la seconda  interferenza presuppone la leggenda, l'adotta,  non l'identifica con sé. Tuttavia, se ben si guardi,  la diversità non è tanto profonda quanto parrebbe. In entrambi i casi, difatti, dura un'antitesi irrimediabile tra mito e culto. Del mito  sussiste sempre qualcosa, che non affluisce al  culto, ma lo prepara, lo motiva; permane un  che di non riducibile: fra una scena e l'altra  del rituale, fra un episodio e l'altro del dramma,  qualcosa è sottinteso, alcuni avvenimenti son  accaduti, che si rivelano nelle loro conseguenze,  ma si riferiscono a un diverso contesto: nel-  l'intervallo fra il sacrifizio a Giove Inventore  e quello su l'Ara Massima, si pensa, o si deve  narrare, l'apparir di Evandro con i Potizii e i  Pinarii, e quanto è poscia scritto: nel mezzo  tra la Catagoge e l'Anagoge sta il giudizio di  Zeus insieme con l'altre vicende : prima che  Perseo appaja ad Andromeda avvinta su la rupe  e agli spettatori stupefatti, egli ha compiuto  delle gesta e conquistato il capo della Gorgone ;  il che si deve dire, come in postilla, ma non  appartiene più al dramma sacro, bensi risale al  mito. Del mito, adunque, il culto illumina alcuni  tratti, essenziali se si vuole, esprime taluni punti;  ma si integra poi con interstizii d'ombra o con  premesse a pena accennate o con parentesi suppletive. Al che corrisponde quel che deve dirsi  sulla impotenza espressiva del mito rispetto al  culto ; la quale è però fatta più tosto di abbondanza, ijerché quello per solito trascende questo;  consta tuttavia anche di debolezza. L'avventura  mitica di Cirene, invero, traduce assai poco del  culto ad Apollo Carneo: e le cerimonie eleusinie  0, in genere, greche in onore di Demetra non  sono a sufficienza chiarite dal solo ratto di Persefone, si debbono venir comentate col sussidio  e d'altri mezzi e degli attributi che alla Dea  spettano in testi estranei a quella saga. Qui,  come altrove, il culto traspare nella leggenda,  ma per uno spiraglio solamente.   Il fenomeno cultuale e il fenomeno mitologico  non sono dunque idonei a esprimersi l'un l'altro.  Ciò può sembrare da prima strano, da poi che  si disse poc'anzi il nesso che li stringe. Strano  invece cessa di essere, quando si ponga mente  (che si disse pure poc'anzi) alla distinta natura  di tutt'e due: l'uno segue, se bene per solito con  lentezza, il maturarsi del pensiero religioso e l'af-  finarsi della sensibilità mistica, cosi che molto  si modifica, e si perfeziona di disinteresse, col-  l'evolversi del concetto di Dio; l'altro per contro  nasce da un'intuizione della natura che deve  permanere durabile, e vive nel suo profondo di  vita indipendente dalla religiosa. Due rami,  dunque, bensì dello stesso tronco; ma rami  diversi. I quali s'incontrano come si vide ; e non  accidentalmente, giacché non si spiegherebbe la  costanza dell'incontro nei casi diversi ; ma per  due motivi.  1^ Ci è ben noto, per l'anteriore discorso, il carattere scientifico che assume la saga o già prima  del suo concretarsi o sùbito dopo. Ora, valendo  qual spiegazione del fenomeno essa tradisce  tosto un aspetto di utilità pratica ch'è quanto  mai confacente alle menti primitive (né solo a  quelle). Se il fulmine è la clava immane che  un Dio a volto d'uomo brandisce e agita con  braccio più che d'uomo possente, se ne stornerà  la minaccia e l'esizio con il j)lacare l'ira al  Nume dal cuore d'uomo : venerandolo di offerte,  in culto. E della spiga granita, della messe co-  j)iosa, è più salda la speranza se con gli aratori  l'attende una Dea, madre alla Spiga: e comune  suona il tripudio, come comune il lutto per il  rapimento: a lusinga, i mortali secondan pianto  e gioja dell'Immortale. Qui il sogno si af fioca,  si appanna; o no, ch'è meglio, si sgombra delle  nebbie rosate e si converte nell'egoismo quoti-  diano, ch'è il pane, il benessere, la vita.  Ma l'altro motivo per cui culto e mito in-  terferiscono sta nella concretezza plastica, che è  di talune cerimonie del culto, e che le assempra  all'opera dello statuario, ossia le avvicina all'arte. Quando di fatti la parola narra Demetra  trasmigrante per le terre con due fiaccole accese  su l'Etna, ha virtù di riprodurre nel suono la  figura dei sacerdoti agitanti le tede nelle cerimonie di Eleusi. E quando il ketos apparisse  vorace e si apprestasse alla vettovaglia umana,  riescirebbe a rendere nell'atto la forza conchiusa  del racconto. Il paludamento ed il gesto corri-  spondono all'elezione e alla disposizione verbale. Ma non vi rispondono a pieno; e costituiscono  anzi forme secondarie dell'esprimersi, come un  volto contratto nell'angoscia sottintende ma non  significa il dolore medesimo che il poeta piange  nell'elegia; né l'urlo del viandante assalito crea  nella carne vivente la divina maschera di Laocoonte (BELVEDERE).   Per tanto, non pure mito e culto non si so-  vrappongono del tutto; ma, anche là dove pajono  coincidere, il culto risulta una imperfetta espressione del mito. Accanto alla quale perdura sempre,  e per integrarla nella quantità e per elevarla  nella qualità, la forma primaria e più acconcia: l'arte. Onde, nel fatto, all'arte aspirano,  quasi a compimento ed abbellimento, le varie  forme del culto, come i minerali alle fogge cristalline. E la statua, il dipinto, il rilievo, insieme  con la poesia, emergono, fiori di alto stelo, su da  quella gramigna ch'è il racconto dei sacerdoti  e il disadorno ricordo delle generazioni. Tuttavia nell'arte stessa il mito trova diversa  efficienza di espressione. Il vasajo, che affigura la saga di Andromeda su la materia  tornita e preparata alle vernici, si ripete, traverso la serie dei suoi modelli, ad un'antica  forma del racconto caduta già in oblio nella let-  teratura ; ed è , solo , sufficiente per indurci a  costruire quella forma, di cui altre tracce non  sono rimaste. Ma sarebbe anche in questo specialissimo caso ardimento soverchio asserire in-  dipendente l'opera dei colori di lui. Giacché, in  tanto lo comprendiamo, e in tanto ci serve a  simboleggiare un intero strato mitico, in quanto  la letteratura possiede gli strati posteriori. Ci fa  risalire a una narrazione ; non ce la narra, per sé. E del pari un bassorilievo ove Ades e  Persefone seggano sul trono tenendo fra le dita  tre spighe, richiama le nostre cognizioni sul  ratto della fanciulla, le conferma; ma non ce le  fornirebbe mai, per sé. Il motivo n'è palese per le  esigenze ineluttabili della scultura e pittura. Non  possono essere indipendenti dal racconto parlato  quelle arti che non debbono né fermare l'istante  né descrivere il moto. Il momento è la loro mi-  sura, ai due estremi della quale sono invarcabili  colonne d'Ercole. L'accenno è il loro mezzo per  rendere una vicenda, per fìngere il moto nella  statica. E né meno costituendo in serie i lor  prodotti riescono a rendersi autonome dalla  forma letteraria; che una Via Crucis raffigu-  rata da un genio non è se non mirabile chiosa  agli Evangeli. Non pure, adunque, il mito è fenomeno, nella sua  espressione, a preferenza artistico; ma anche è  precipuamente letterario. La letteratura sola ha il  vantaggio di esprimerlo intiero, di insegnarcelo  se l'ignoriamo, di non abbisognare né di com-  pimenti né di premesse. Cotesto privilegio però  non s'intende tutto, che prescindendo da alquante  restrizioni. Bisogna, in primo luogo, ricordare  che il patrimonio delle lettere antiche ci giunse i  guasto e lacunoso, per dissipar lo stupore che,  contro la conchiusione recente, nasce dal ricordo  Annali dell'Istituto tav. Su i rapporti fra arte e letteratura mitopoetica  scrisse belle pagine C. Robert BUd und Lied (Philologische Untersuchungen, Berlin. dell'esame condotto intorno a quattro notevoli  miti. Si comprende difatti allora che, se le epopee  omerica ed esiodea, ad esempio, ci fosser per-  venute nella loro opulenza, il sussidio dell'arte  plastica alla Storia sarebbe ben diverso: non  cosi indispensabile né tanto notevole. La poesia  basterebbe. Bisogna inoltre allargare i termini  onde è concbiuso il concetto di letteratura: non  fermando l'occliio pure alla forma eletta, alla  ninfea emergente sul pelo dell'acque chete; ma  comprendendo nel vocabolo anche le manife-  stazioni più povere e grame, il racconto d'un  antistite, l'osservazione inetta d'un erudito, la  favola ciarlata fra i fedeli. Perché, se si consi-  dera nella sua ampiezza tutta questa saliente marea, che si diparte da bassissimi fondi ed  espugna ben erte rupi, pervasa da un assiduo  moto di ascesa, insito nell'intimo o sospeso su  le forme come una legge fatale; se si scorge  il fremito creativo trascorrere in corsi e ricorsi  da Pindaro all'atleta, da l'atleta a VIRGILIO (si veda), da  l'umile all'eccelso, toccare le donne di Siracusa  e la mente di Timeo, raggiungere la Biblioteca  di Diodoro e la corte imperiale di Roma, pervadere l'abitante dell'Aventino e l'Annalista  dell'età travagliose: si appalesa a pieno il  dominio, indipendente e incomparabile, che sul  Mito possiede la Parola.   Ed è dominio attivo. Il verbo non s'imprime  su l'intuizione, se non in una sintesi, che è sempre  originale, com'è sempre imprevedibile prima del  suo compiersi, e non del tutto sceverabile dopo.  E un castone che costringe il diamante ora a  smussare una punta ora ad arrotondare uno spi- f?olo. Ogni racconto letterario di un mito, scritto  e parlato, ne è una forma nuova che non si può  ridurre, senza violenza o astrazione, a un'altra.  In questo, l'arte figurata e il culto, a parte  la loro incompiutezza che si vide, somigliano  alla letteratura; ma, anche in questo, le restano  addietro: perché serbano più tenaci, e l'una e  l'altro, non appena possedutala, una certa forma  e una certa versione d'una saga incidendola  per anni e anni in dati tipi e modi ; laddove la  parola ha una sua duttile mobilità, una sua  invitta energia innovatrice, che si tradiscono  nelle sfumature; fino a che l'imitatore, inconsa-  j)evolmente, travisa il modello, e Ovidio si dilunga intorno a Caco dall'Eneide, della quale  vuol ricalcare l'orme. La misura tuttavia d'una  cosi fatta attività di dominio, come distingue  tra loro le forme dell'arte, cosi gradua le specie  letterarie medesime, ed è il criterio del loro  pregio. La goffa nutrice che ripete la saga al  poppante innova bensì, che non s'evita; ma per  vero minimamente, a confronto dello storico e  del poeta: l'angolo del prisma è troppo esiguo,  al paragone, e la luce ne devia cosi poco che  si trascura. La personalità della parola è quella  di chi narra ; non si annienta mai, ma o si strema;  o si invigorisce: e il mito ne riceve più o meno ] individuate le sue forme. Onde è lecita per comodo di ricerca, se non esattissima in tutto, la  distinzione in due grandi categorie, separate per;  una diversa potenza creativa, dei contesti verbali in cui la fiaba si esprime: nell'una stanno  gli sterili e gl'impotenti, nell'altra i vigorosi:  fecondatori.  Senza traccia, come senza nome e senza gloria,  rimangono, e son massa, quelli: i ripetitori  menni. Non dispregevoli né pur essi, clie sono  la gleba rude, disprezzata ma indispensabile,  senza cui non esiste nulla e da cui tutto si ri-  pete. Sono del resto costoro, nella lor supinità  passiva, cosi tenaci nel rispettare per manco di  fantasia le fogge tradizionali, come utili a vagliar le innovazioni, che, diffidando, non accet-  tano se non quando una forza geniale le imponga,  e costanti ad applaudirle poi, assicurandone, col  ripeterle, la esistenza. Somigliano agli spettatori, dinanzi a cui i tragedi vedevano agitarsi  le sorti delle loro creature, e che si serbavan  fedeli alle opere premiate. Per essi avviene la  selezione e si conserva la vita. Cosi che quando  non uno pili ne sopravvive, com'è oggi fra il  popolo nostro per i miti pagani, la favola è ben  morta, s'anche l'arte ne tenti con tocco divino  la resurrezione. Le radici sono inaridite. Ma non possono d'altra parte raccogliersi in  un solo tutto i fecondatori del mito: che la  energia mitica non è semx)re la bellezza. Tal  volta l'artista dà il suo suono alla favola d'un  creatore ch'è disadorno: esiste il mitologo che  ordisce; esiste il mitopoeta che contesse ad  arazzo. Verità di non poca importanza, come  quella che serve a spiegare, perché il mito duri  e s'evolva anche durante periodi in cui l'arte si  tace, o compia anteriormente all'arte uno svi-  luppo assai grande. Cosi, pur tenendo conto dei  carmi perduti, ritorna nel nostro, pensiero la  trasformazione profonda subita dalla fiaba aria j)i"esso i Grreci prima di vestirsi nell’lnno a Ermes di begli esametri omerici: o  pmi'e il comporsi della saga siracusana di De-  metra avanti a Timeo e agli Alessandrini. Né  senza traccia è rimasta, come senza nome d'in-  dividui, l'opera di cotesti facitori non artisti o,  per dir meglio, scarsamente artisti: dei mitologi.  Ai nomi delle persone, clie mancano e non varrebbero, possiamo sostituire quelli dei centri  onde il moto di elaborazione mosse e si propagò:  quali Delfi per la saga cirenaica, lo spazzo del  Foro Boario per il furto di Caco, Argo per le  imprese di Perseo: feraci campi di rigogliosa  messe, tra cui raro langue il ciano e il papa-  vero, e su cui ci vien fatto di gittare obliquo lo  sguardo traverso i voli di Pindaro i colori di VIRGILIO (si veda) il racconto di Ferecide. In generale, per  conseguenza, la mitopoetica vigoreggia come un  progresso rispetto alla mitologia (1). E tale as-  serzione è sempre vera, se intesa a dovere: perocché il progresso può essere istantaneo e com-  piersi nell'attimo medesimo della innovazione,  ma né pui^e allora manca. Non sappiamo se  l'autor dell'^ea di Eufemo metta in versi il  lavoro mitologico di un predecessore o crei esso  medesimo la saga che contamina le pretese dei  Battiadi con la spedizione degli Argonauti al  lago Tritonio: non sappiamo né sapremo, e la Per chiarezza: mitopeja dico la complessiva ela-  borazione mitica (letteraria, artistica, cultuale). Fra l'elaborazioni mitopeiche della letteratura distinguo la mi-  tologica dalla mitopoetica che sola ha pregio  estetico. verità elude con volti ambigui i nostri occki  incerti. Ma se, come si ritiene meglio probabile,  la contaminazione balza insieme con il ritmo  dallo spirito di lui, è segno che, per fortunata  sorte, il gusto estetico coincidette con la vigoria  generatrice. E il caso è, in Grecia specialmente,  non raro; ed è ben motivato dalle premesse  nostre. Quando, difatti, il mitologo preferecideo raccolga in un racconto su Perseo il mito tessalo  e il peloponnesiaco, e li fonda con gli elementi  jonici, che si dissero sopra, stringe membra  prima incoerenti in tale organismo d'intuizione  unitaria, che è del tutto normale, se egli stesso  riveli una a pena minore vigoria nell'esprimer  quello col verso; se appaja egli stesso anche  mitopoeta. Sa vedere di più, e sa dire meglio,  che gli altri. Il nesso è cosi ovvio, che sembrerebbe quasi insolita la contingenza, in cui al  più dell'intuizione non rispondesse il meglio  dell'espressione. Insolita certo; ma assai meno  che non sembri, a causa dell'indole propria di  ; talune stirpi e della natura speciale di certe in-  [novazioni mitiche. Nel fatto, TRA I ROMANI è  [facilissimo che una fiaba si innovi appresso un  [arido annalista e che quindi scada dal carme  )opolare allo schema di un rozzo diario: tale  [fu, tra l'altro, la sorte della leggenda di Caco  [allorché, forse, un greco v'introdusse, per con-  [•asto etimologico, Evandro la prima volta, pur  [senza avere alcun intento, si badi, di rasionalismo. E, ancora tra i Romani, è probabile  3he il capitolo delle etiologie inerenti al culto  [di Ercole si aggiungesse a quella stessa leggenda  in una forma regrediente, che non attingeva alcun pregio artistico. Tuttavia lasciando un necessario margine a simili casi, per solito si varca  d'un salto dalla medesima mente il varco che  intercede, non ampio e non breve, fra la  innovazione mitica e la procreazione d'un'opera  d'arte. Superato tal varco, o per felicità d'ingegno o  per maturità conseguita nel tempo, e attinto il  vertice più bello, si apre una serie nuova d'in-  novazioni mitopoetiche, che son ben diverse dalle  mitologiche. Ma un facile criterio le distingue  senza possibile equivoco. Le une hanno un fine  che è estraneo alle altre ; le une si dipartono da  esigenze che sono estranee alle altre. Lo scrittore, che altera la leggenda nel comporre, ob-  bedisce a uno scopo d'arte, cosciente o non con-  sapevole che l'obbedienza sia: un istinto, o il  suo gusto culto e fine, lo avvertono di dar quel  ritocco, mutar questo colore, adombrare una  figura, correggere la prospettiva ; il pubblico spe-  ciale cui si rivolge gli suggerisce, rimanendogli  dinanzi al pensiero dui'ante il lavoro, di conce-  dersi certi accenni e taluni richiami, di svilup-  pare più ampiamente una parte. Per contro il mi-  tologo, che è tale prima d'essere artista, tende  a una mèta mitica : pensa al patrimonio leggen-  dario, o nel suo insieme o in uno de' suoi vigorosi rami, e a quello procura di recar contributo,  adunando, intorno a un nome di eroe o di nume,  tutte le gesta attribuitegli. Ovvero cerca una  mèta politica o altrimenti pratica : per conciliare  le pretese di due luoghi intorno a una Dea, si  chiamino anche i luoghi Siracusa ed Enna; per  esaltare una dinastia, e sia essa dei Battiadi ; per comprimere mia città avversaria, quale Tera; per  lodar un oracolo, il precipuo fra molti, il Delfico.  In ogni caso, muove da esigenze che non sono  quelle del suo tema letterario, né consistono nel  tono d'un poema su Enea o d'un canto su le  Metamorfosi; ma che sono inerenti a un indi-  rizzo mitologico.   I due ordini d'innovazioni però, pur essendo  tanto ben distinti nel fine e nell'origine, eserci-  tano, l'uno su l'altro, continui influssi. E l'imagine che rende la loro reciproca condizione, è  quella della pila voltaica ove il succedersi alternato dei dischi di rame e di zinco permette lo  scoccare sintetico della scintilla. Ogni mito difatti non potrebbe entrare in quel componimento  letterario ove deve alterarsi, se per effetto della  sua intrinseca evoluzione mitologica non avesse  conseguito già un certo stadio; e per converso,  poi. il colore diversamente sfumato dall'arte  la variata prospettiva sono a punto cause  che permetteranno ad altro mitologo l'aggiun-  gere o il contaminare. Dopo che, nei carmi del  popolo, la leggenda di Caco è andata smarrendo  il suo senso allegorico antichissimo, per assumerne, a gradi, uno storico ben diverso: allora  solo, Ercole può sottentrare a Garano-Recarano,  e il gruppo delle etiologie incunearsi nel racconto. E allora solo la fiaba di Perseo e An-  dromeda è matura per una interpretazione psi-  cologica e sociale nella tragedia, quando il  mitologo l'ha dissimilata dalla lotta contro la  Grorgone, cui era identica. Un ardimento giustifica  l'altro; un passo prepara il susseguente: non  importa se i fini del primo non sieno per l'appunto quelli del secondo. Anzi, perché, come si  vide, l'innovazione mitologica avviene talvolta  in una con la innovazione mitopoetica, lo storico  resta esitante, in quei casi, prima di decidere da  quale fra esse sia mosso l'impulso, a quale tocchi  la precedenza, non nel tempo, ma nella respon-  sabilità del nuovo stadio raggiunto dalla saga.  Nessuno cosi saprebbe dire, fuor che in conget-  tura mal certa, se un poeta o un mitologo abbia,  per esigenza d'arte e ritocco estetico, o per scoilo  di chiarezza genealogica e armonia anagrafica,  identificato primo Persefone con Cora. I confini  sbiadiscono indecisi, la sintesi creatrice non ri-  trova chiare le sue vere cause. Questi casi am-  moniscono lo storico a cancellare ogni categoria empirica allor quando si accinge ad esporre  l'evolversi nella letteratura del genio mitopeico  pagano. Da due radici trae vigore la mitopéja al suo  arricchimento progressivo e al suo lungo variarsi:  dall'elaborare gli elementi spirituali onde consta  negli inizii ; e dall'acquisirne nuovi a sé stessa.  Curiosità scientifica, senso del divino, intuito  dell'uomo e della natura, immanendo nella saga  costituiscono costantemente altr'e tanti tentacoli,  che attirano verso di essa i prodotti del più  maturo pensiero scientifico, spirito religioso, abito  di contemplazione umana e sociale. Ma inoltre l'evoluzione della mitopeja letteraria nuove energie se le aggiungono; nuove, le quali  son sorte non da uno sviluppo delle primissime  antiche, ma da un superamento deciso di queste. Siffatta opera duplice e immane di rinnovamento si comijie entro certi ampi limiti temporali. Da principio, ogni fenomeno, ogni aspetto del  medesimo fenomeno, ogni nesso, ogni sfumatura,  sono sufficienti impulsi alla creazione d'un mito:  nuovo, se pur non profondamente diverso dal  complesso dei suoi analoghi. E il fermentante  rigoglio della giovinezza. E la festa dei frutici  che il suolo ferace esprime da sé, per l'esuberanza della sua forza, in unico impeto con le  roveri e i pioppi. Si che le figure si moltipKcano  disponendosi l'una a canto dell'altra, affini sorelle, non identiche aggeminazioni ; e i casi si  addensano e s'intrecciano, uno appresso all'altro,  simiglianti e differenti, e si dispongono in racconti svariati, che ciascuno i^ossiede, quasi nome  personale, un peculiare suggello. La mitologia indiana serba traccia di questo pletorico groviglio  li fiabe, X30C0 dissimili ma non uguali, intrecciate Era loro per tenui fili. Nella greca la traccia è  linore: perché già in essa sono sopravvissute  [unicamente le forme, in genere, geniali, cui la  [singolarità medesima apprestasse vigoria e resistenza vitale, laddove le più scialbe, e per ciò  stesso meno individuate, vennero assorbite da  pelle cui somigliavano. Tuttavia, anche fra gli  lElleni il durar l'uno accanto all'altro i miti, che  man tutti il medesimo sostrato naturalistico, di  [Eracle nell'Ade, di Eracle contro Gerione, di Eracle contro Nèleo, di Perseo contro la Gorgone, di Perseo contro il ketos, attesta l'antichissima fecondità originaria in favole dissociate  per minime differenze, per esigui e mal certi  confini, e prova anche come la mente creatrice  da sé e dalla propria stirpe sapesse a ciascuna  derivar notevole forza di vita e non scarsa energia  personale. Di questo periodo di creazione mitica e di  moltiplicazione, le quattro saghe del nostro studio  additano gli ultimi, e non miserevoli, bagliori  tra il VI e V secolo avanti l'èra. In tale età difatti, che l'occhio della storia può riguardar  sicuro traverso poche nebbie^ la letteratura mi-  tica si accresce della fiaba duplice di Cirene e  della siracusana di Demetra. Entrambe sono cosi  vigorose e determinate che non possono in verun  modo confondersi con le lor sorelle. E tuttavia né  Tuna né l'altra sono originali. Non originali anzi  tutto, perché non escono, se bene adorne poi,  dall'arte, di stupenda efficacia poetica : Pindaro  Ovidio Vergilio le ritrovano in sottili ragne do-  rate su la loro cetra, non escono da un bisogno  lirico incomprimibile: ma sono posteriori a un  fine pratico, in grazia del quale soltanto sussi-  stono, ma a malgrado del quale splendono di  magnificenza. Per ciò non creano, ma compon-  gono elementi noti, sfruttando intrecci anteriori. La saga degli Argonauti era ; conteneva il  lor soggiorno in Libia. I Cirenei se ne valsero,  e dissero di Eufemo e della zolla e d'Euripilo e  dei coloni giunti da Tera sul luogo del dono.  Cosi il ratto di Cora in Enna, la sua catagoge  presso la palude Ciane, non sono se non le sosti-    l'evoluzione della mitopeja letteraria tuzioni d'un patriottismo locale ai termini ed alle  forme d'un antichissimo racconto greco. Singolari apparizioni mitiche queste, adunque : nelle  quali si unisce un cotale spirito di riflessione,  un quasi gretto senso di praticità, con una indu-  bitabile freschezza creativa, un abbandono lan-  guido di sogno. Questo permise il loro travestimento poetico, e cosi grande permise che i  razionalisti antichi non s'accorsero punto dello  scopo politico e materiale onde le belle fiabe  che gì' irritavano erano mosse; né se ne accor-  sero, prima che sorgesse il metodo critico mo-  derno, gli studiosi nuovi, i quali non esitarono  in vece ad avvertirsene in più disadorni e meno  ricchi racconti. Tuttavia, in quel senso di rifles-  sione pratica è il non dubbio indizio che il periodo in cui si moltiplicano i miti è per finire.  Esso si estenua, per vero, in bolse invenzioncelle,  in genealogie stremate, in giuochi etimologici  trasj)arentissimi ; singhiozza gli ultimi guizzi  in favolette che pochi eruditi ripetono; rivendica il passaggio di Perseo per Micene ove  egli avrebbe perduto il puntale della spada  (ó /ivxt]g); attribuisce a Trittolemo discendenza  argiva; spiega il nome dei Pinarii pel dover  essi astenersi dal banchetto sacrificale {neivciù),  ho fame). Poi muore.   Entro i limiti di tempo cosi largamente se-  gnati, profondo e vasto è il rivolgimento. Pausania. Servio Comm. a VIRGILIO (si veda) Eneide In apparenza, tutti coloro che trattarono let-  terariamente le fiabe della nostra ricerca, le  considerarono, non il fine, ma un mezzo o, tal  volta, un artificio pel loro tema. Fine era, di  caso in caso, la celebrazione di una vittoria gin-  nastica, l'ammaestramento georgico, la meta-  morfosi d'una ninfa o d'un uccello, la ricorrenza  d'una festa, il vanto della preistoria romana :  mezzo, sempre, il mito. Persino nel dramma di  Euripide lo scopo vero è altro da quel che la  leggenda, in se, richiederebbe: è scopo comx)a-  tibile con essa, ma ad essa imposto mutandole  il suo contenuto. L'interesse per la saga non è  quello primigenio della intuizion naturalistica  onde nacque: è, nei varii letterati, vario. Quest'apparenza è troppo costante, e troppo si  conferma con tutti i testi del nostro studio, per  non dover essere tenuta in somma considerazione. Ma ecco che la realtà la contrasta duramente. In tutti i carmi letti, in tutte le prose,  il mito entra non di straforo, si per le spalancate porte: signore, certo del dominio che nell'interno lo attende. Delle Pitie è il perno ; la colonna vertebrale della tragedia;  la sostanza dell'elegia properziana. Nel libro  d'un poema vasto come l'Eneide è rispettato  anche in certi j)articolari minuti: ospite sacro  che Giove protegge. Dove penetra, penetra tutto. Non importa che Callimaco sia molto breve nel cenno alla saga di Cirene: i pochi tòcchi bastano  perché gli elementi essenziali delle due leggende  contaminate appajano totalmente. Fin in Livio. Fin in Dionisio. Si contraddicono, dunque, le  cause e i modi onde la letteratura accoglie il l'evoluzione della mitopeja letteraria mito: controversia intima a Kalypso. Controversia, da cui derivano e gli acquisti letterarii  della saga e le sue letterarie deformazioni; clié,  violata da interessi nuovi, cui già era estranea,  per quanto con tutta la preponderanza della sua  congenita foga imponga le sue forme, è costretta ad accettare, dalla sede che l'ospita,  le luci.  Su la soglia, le si fanno incontro, e prime la  intaccano, la novella e l'etiologia. Ne la novella  il popolo par condensare, con la propria esperienza, la x^ropria filosofìa della vita, perché vi  fìssa gli esempii tipici delle consuete vicende  (per lo più, familiari) e i modelli caratteristici  delle fìgure che muove la sorte comune. Per  essa, traverso la fantasia delle masse, come at-  traverso un vaglio singolare, il complesso (ad  esempio) dei pastori o de' pescatori, e l'insieme  delle vii'tù e dei vizii che in genere presso  quelli si riscontrano, affìnansi in una selezione  di cui è vano cercar le leggi, per comporsi nella  sintesi di un personaggio tradizionale con tradizionali pregi e difetti: il pastore, dico, o il pescatore soccorrevole e onesto che come  suo alleva, dopo averlo accolto ed ospitato, il  figlio non suo. La novella è dunque, per propria  natura, pregna della medesima umanità che, nel  mito, conforma a sé il fenomeno esteriore ; le  creature difatti dell'una e dell'altro si somigliano  a volte come nate da unico ceppo. E si accordano quindi, sovente e bene, in un medesimo  testo: tale il ferecideo su Perseo. Un'acqua  affluisce cosi nella saga che del pari riflette, da  le rive imminenti, i cotidiani spettacoli; non, però, riverbera simileraente la vampa solare, né  vi si specchia azzurro di cieli e svettar di fronde  durante la divina estate: si che il volume fluviale acquista potenza di voce che s'ode da  lungi, vigore di empito che infrange le sponde ;  ma divino di stelle e di selve men vi trova echi  e consensi. E pertanto nella mischianza fra mito  e novella il principio dell'abbassarsi quello verso  pianure terrene e dell'adattarsi a stature umane :  in cui si attenua, senza per altro smarrirsi del  tutto, l'esorbitare originario fuor dai limiti che  più sono nostri. E poiché, d'altra parte, un vago  velame d' irrealtà favolosa soffonde pur la novella, di spiriti non consueti anzi straordinarii ;  accade che essa ajuti a tenere la saga in un'aura  mediana fra il dio e l'uomo; la quale è dell'eroe.  E a questo si deve a punto se di eroi sono  i miti. Quando i lor personaggi non sono  stati dal culto salvi e resi intangibili su l'ara  dell'alta e intiera divinità, allora il nume pro-  tagonista della saga, e il vecchio vecchio vecchio che i novellatori esagerando desumono  dalla vita loro visibile, si allivellano sopra il  piano istesso ; fin che anche il piccolo rito locale,  se mai fosse già iniziato da qualcuno, finisce,  non trovando altrove favori, con l'estinguersi o  diventare eroico. Vicino a Larisa di Tessaglia,  era il Sacrario di Acrisio, prisco iddio ; ma, per  ciò che oramai a lui stavano accanto Ditti pe-  scatore e le vecchiarde Graje, il tempio chiamavasi, né si ricordava nome diverso, tempio  di eroe [fjQc^ov). La novella trae cosi a sua società il mito; ed entrambi corteggiano il popolo  illudendolo nella speciosa finzione di maraviglie  l'evoluzione della mitopeja lbttbbaria elle sono sol tanto le trite consuetudini di lui,  ma mosse dal soffio d'un più, dall'anelito d'un  meglio: gocciole di piova che rifrangono il Sole. Nella cortegiania è terza l'invenzione etiolo-  gica, intenta a cercare la causa del fatto umano. Affine sùbito, con ciò, essa pure alla saga, in  cui è, prima o dopo, inerente il conato verso la  causa del fatto naturale. Caco spiega il fuoco  distruttore; la presenza dei Potizii pronta e il  ritardo dei Pinarii spiega un costume del rito  erculeo nel Foro Boario. Che se i tentativi scien-  tifici appajono per tal guisa paralleli nei due  fenomeni, anche la semplicità dei procedimenti  gli adegua l'un l'altro. Entrambi ripetono per  causa del fatto il fatto medesimo, correggendo  solo uno, o pochi, tra i particolari che lo accom-  pagnano. La fiamma muta contorni divenendo  Caco e serba immutata la sua potenza deleteria.  E l'attinenza fra Potizii e Pinarii si trasporta,  identica, in tempi anteriori di assai, erculei. La  giunta sta nell'episodio umano e abituale : il  costume ladresco di Caco; l'indugio pigro dei  Pinarii. Quindi l'etiologia insinuandosi nella leggenda integra per un lato quel suo volto che  par compaginarsi di nostri nervi muscoli sangue;  secónda per l'altro quella sua tendenza che si  origina dalla gloriosa nostra curiosità di tutto. Questo tributo però non è solo copia. Rappresenta anche una riserva di potenze e di sviluppi,  che si determineranno in varia misura a seconda  dei contatti posteriori, dei luoghi, dei tempi. Un  poeta, un romanzatore, uno storico, e i diversi  individui entro queste diverse categorie, ne trarranno spunto alla lor compiacenza differente. E  questi svolgerà l'etiologia in scena compiuta che  si disponga a fronte del più vero e antico nucleo  mitico. Quegli ne prenderà solo occasione per  ripeter la fiaba, comprimendo pel resto l'etio-  logia in ombra a mala pena schiarita. Properzio,  il primo; l'altro, Ovidio: li scorgemmo in atto  di elaborare diversamente cosi il mito di Caco. L'effetto quindi dell'innesto etiologico si misura  insieme con il deformarsi della saga sotto l'influsso dei molteplici interessi cui la fa sottostare  il cuore infaticabile e travaglioso ch'è nostro Cosi il patriottismo adultera il mito; e per  vero duplicemente. Prima, in forma subdola lo  ritocca o accresce. Poi, gli dà un contenuto sto-  rico che gli era estraneo affatto. Caco è un ladro  mostruoso di tempi antichi; Euripilo un re di età  lontane : il lor valore d'iddio del fuoco o della  porta infernale è perduto, perché una storia fallace lo usurpa. Ciò mette un mito di sostrato  naturalistico al medesimo livello di uno a sostrato  storico; o fa prevalere questo su quello, ove si  trovino misti. Immutato resta soltanto, insieme  con il complesso dei particolari cristallizzati, il  rapporto tra i protagonisti, però che il favore  patrio si trasporti tutto per l'appunto su l'eroe  che qual Dio aveva, nel primo significato, combattuto le tenebre; e l'odio nazionale si accumuli  su la figura che era stata, nel primo significato,  ostile alla luce. Cosi nell'Eneide. Non muta la leg-  genda, ma solo il suo presupposto. Anzi, sotto  questo aspetto, poche luci di poesia sono tanto  favorevoli al serbarsi integro della saga. La psicologica o la sensuale posson compiacersi del l'evoluzione della MITOPEJA LETTERARIA mostro come dell'eroe, a causa della plasticità e  della intelligenza clie li accomunano. La patriot-  tica no: deve preferire, deve parteggiare: rida  al mito un sentimento, lo riscalda con un calore  affettivo che, dopo la sua origine, gli eran dive-  nuti ignoti. Né anche il senso religioso è cosi  efficace : Pindaro coglie, nell'amore di Apollo e  Cirene, assai meno di Callimaco quello che n'è  il nucleo effettivo: la simpatia dei coloni per  il Dio e la Cacciatrice ne' quali si rispecchiano,  e la protezione perenne assicurata dalla coppia  divina ai Cirenei. Ond'è che nessun colpo dello  scalpello pindarico è giunto a scolpire la statua  che il patriottismo di Callimaco crea indelebilmente: la statua del giovine Iddio che accenna,  sul Colle dei mirti, alla bella sposa le danze,  onde si compiace, dei Doriensi fra le fanciulle  libiche. Il mito palpita invero nel gruppo con  la vita della sua stessa radice. E quando un  brivido di fervorosa simpatia scosse gli spetta-  tori ateniesi nell'atto di scorgere sul capo di  Perseo una sorte agitarsi non dissimile dalla  sorte che in allora il Fato volgeva su la città  marmorea, l'uomo si accrebbe ad eroe, l'eroe a Dio, Dio, qual era da prima, splendido al pari del  Sole. Se m.ai per lui si creò di nuovo un anelito  di innamorata estasi simigliante a quello che fu  verso l'Astro la Luce il Calore, e onde il suo  mito s'era originato in una mente ingenua e  profonda; se mai si creò, fu l'anno 412 sopra  una scena greca, auspice l'amor della Polis.  Diverso anche allora, eppur analogo d'empito e  di vivezza. Il senso religioso è, già si vide più volte,  intrinseco al mito, che anzi se ne informa.  Esiste fra i due concordia come di gemelli. La  quale si svela però non molto jjrofonda. Le si  oppone anzi tutto l'essere il sacro uno bensì, ma  uno solo, fra i caratteri della saga; ch'è ben piti  ricca di contenuto e complessa di aspetti: ond'è  elle il carme inspirato alla fede tende inevitabilmente a sviluppare un membro della leggenda  a scapito degli altri, tende a farne vibrare una  corda sola. E la contemplazione del mito da un  punto vicinissimo, ma cosi accosto da non per-  mettere più che una visione unilaterale. Tal  incompiutezza è grave; ma v'ha di peggio. Il  mito, dopo che è creato, resta e si cristallizza;  non è privo di vita, tutt'altro, sotto quella sua  crosta, ma serba un'apparenza di rigidezza e di  immutabilità. Somiglia la formula d'un culto,  che i sacerdoti dicano, negli anni, un dopo  l'altro. Il pensiero e il sentimento religioso in  vece sono di lor natura non statici, ma energici  d'un moto assiduo e incalzante; sono la vita  stessa in una delle sue sublimazioni migliori.  Presto, raggiungono, se non presso tutti,  presso talune menti alte al meno, presso l'inspirato poeta della fede quasi sempre, uno stadio  superiore, e forse di gran lunga, a quello onde  il mito si generò. E allora v'è contrasto. V'è  bisogno di eliminar una figura, di scemar la  crudeltà feroce d'un dio, di togliere il carattere  umano al cordoglio d'una dea : si deve informar  il vecchio mito al nuovo pensiero. Per ciò ap-  presso Pindaro Chirone esita e sorride e si atteggia a loico furbo, prima di dir la sua pro-  fezia ad Apollo. Altre volte in vece il particolare l'evoluzione della mitopeja letteraria leggendario rimane, non alterato; ma il pensiero  critico lo discute e ne dubita: che è in apparenza guasto minore, maggiore in realtà. Per  quel modo, difatti, lo spirito cessa di riviver la  leggenda immergendovisi: la projetta lungi e  fuori di sé, se la contrappone: per qualche  istante, e sotto certe forme, le diviene estraneo.  Simile, Euripide dinanzi l'oracolo Ammoneo che  ha indotto Andromeda preda succulenta al ketos.  Tuttavia né prevale il dubbio filosofico né la fede  alla saga: il tradizionalismo mitico e il modernismo religioso scendono a un compromesso: e  possono, fin che sono entrambi avvolti da una  atmosfera unica di j)aganità. Quando vènti nuovi  avran dissipato quell'atmosfera, i Padri della  Chiesa si rideranno dei miti: e vi rinverranno  l'indizio d'una religione povera e bambina. Come la religione, cosi erano inclusi, fin dalle  origini, nel mito l'elemento sensuale e il psicologico. Poi che i fenomeni della natui-a si ve-  stivano di fogge umane, e il tuono e il Sole e il  mare acquistavano volti membra ed atti nostri,  essi divenivan senz'altro passibili di figurazione  sotto l'aspetto dei sensi e d'interpretazione nel  campo della psiche. Analizzare e graduare i sen-  timenti di un Perseo non è se non completar  l'opera di chi lui, uomo, ha veduto nell'Astro.  Perseguir con compiacenza, nelle particolari  movenze di grazia femminea, Cora mentre raccoglie i fiori, o descrivere con tocchi accorti le  brune e bionde bellezze delle Ninfe adunate in-  torno a Cirene nelle case cristalline di Penco,  non è che un rinvigorir di sangue, spremuto  dalla profonda voluttà umana, le creature cui  KALYPSO da un sesso il mito. Se non che, anche per  questa via la fiaba si trasforma: essa diviene  un modo di dire, una frase efficace per signi-  ficar un pensiero o una intuizione, una forma  vuota, per sé, di contenuto che si riempie, ade-  guatamente, a volta a volta. Perseo, è l'esempio  già scelto, può vestire di sé e delle proprie  avventure esteriori un ideal personaggio di Euripide, e potrebbe vestirne più altri, abito di  molti individui. Cora, è l'esempio già usato, si muove con la leggiadria un po' stereotipa  della giovinetta innocente e pudica, che solo fiori ama e fresche cascatelle e aromi salienti dalla  eulta terra: è scema di sé medesima, un'altra è  penetrata in lei, e l'anima d'una vita che è fittizia, perché non è la prima, antica e vera. Per  ciò Vergilio sceglie, a caso o con arte, le com-  pagne di Cirene da un repertorio di nomi; e  non più che nomi, ciascuno dei quali si riduce a  un colore, non svela una persona. Demetra che  piange, e di cui si regola il pianto con magistero  di psicologia poetica, è una madre. Ma ell'era  anche una Dea. E da siffatte menomazioni nasce  il bisogno di sminuire, se non proprio sopprimere, Fineo nell'episodio di Andromeda, di creare  fra Andromeda e Perseo una scena novissima, di plasmar un altro gesto a Cirene: nasce per-  sino la spiacevole inopportunità dell'intervento  di un Nume, in sul finire del dramma, per scio-  gliere, con atto oltreumano, una situazione divenuta umana. Accanto a questa, che la psicologia e il sensualismo gittano sul mito, è singolare la luce  che vi gitta la natura. Su nessuno sfondo, in l'evoluzione della MITOPEJA LETTERARIA alcun ambiente, gl'iddii e gli eroi, che la natura  personificano e di cui con la loro vicenda ren-  dono il fenomeno, dovrebber trovarsi più agevolmente. In pochi in vece si altera e deforma forse  tanto la saga. La Dea delle biade non domina  su la vegetazione lussureggiante, non vi regna,  qual'è, regina: vi s'incornicia, iDersonaggio del  quadro. Vive la sua vita di donna, non sopra,  ma in mezzo alle messi che significa e possiede:  parte d"un tutto che pur dovrebb'essere rajDpre-  sentato in lei. Aristeo, cui perirono l'api e che  si duole nella valle di Tempe, maravigliosa  di rigoglio verzicante, tiene su i pastorelli un  privilegio di nobiltà, che gli vien solo dagli anni  antichissimi in cui gli accadde di vivere; ma è  per altro uno di loro. L'erba gli cede sotto il  passo similemente. La cintura dei monti lo comprime. Di qui lo stupore ond'è còlto nell'attra-  versare i regni del nonno, le sedi di cristallo,  gli antri muscosi, cune di fiumi, roridi recessi  ignorati agli uomini. In lui, e nella sua madre  ninfa, non è difatti adunato lo splendore sacro  della natura acquatile e pastorale che af figu-  rano, ma una cosi fatta magnificenza è concretata al di fuori di essi; li allieta in perpetuo  con perpetui doni ; li circonda non li costituisce. La bellezza e il primato sono altrove che nelle  persone di entrambi: nella Natura, effettiva  protagonista, cui convergono lo slancio del poeta  innamorato e la sua lode contesta di ritmi. Si  direbbe che il mito ritoma alla sua sorgente; ed  è vero: ma colà la Natura riprende il posto che i suoi impersonati rappresentanti le avevano occupato.E una restaurazione. Dalla sorgente, in vece, è lontanissima l'eru-  dita sapienza di Properzio. La leggenda diviene,  nelle mani di lui, uno strumento polito da usarsi  con un'arte accorta e a pochi nota: unico esempio,  nel nostro studio, di quanto essa possa, senza  scemo di pregio letterario, stremarsi della sua  vita prima. Nata sopra un pascuo giogo di monte  si ritrova in una sala dal lacunare eburneo. La  qual cosa non toglie che ivi appunto il rispetto  al mito sia cànone più severo : per crescere al  magistero verbale pregio di finezza e di virtuosa  agilità. In vano; che altra vi è l'aria; e son  tramutati i tempi.   Più in là, si ritrova, fra più ampio volume  di carte, in una più chiusa austerità di ambienti,  la Storia. Qui l'atteggiamento è senza dubbio uniforme.  Erodoto, sotto questo aspetto, non differisce  troppo da LIVIO (si veda), Livio da Diodoro. La lor critica  e il loro metodo sono diversamente insufficienti.  Ma un intuito comune li induce a sopprimere,  nel mito, talune scene e a servirsi a tempo di  certi silenzii, pel fine di non arrecare una sto-  natura sensibilissima nell'insieme dell'edifizio  che erigono. Serse Temistocle Milziade riducono  alle loro dimensioni un Tera; gli Ateniesi, i  Minii ; i Gracchi, Caco. Quando le leggende non  hanno ancora una storia per sé, si adattano in  quel letto di Procuste ch'è la storia civile, la qual  le raccorcia, esuberanti come son sempre. Sopravvivono esse: attestando la loro incoer-  cibile vitalità. Uomini culti, che posseggono  la lingua, conoscono il passato, partecipan col'evoluzione della mitopeja letteraria scienti al presente del loro paese, pur avveden-  dosi del carattere favoloso di taluni racconti,  pur sentendosene costretti a scemarlo, ritengono  impossibile dar a quelli l'ostracismo totale con  l'espungerli da gli scritti che compongono. Livio  giunge persino a dichiarare in anticipo che non  vuol esser chiamato responsabile di quanto narra  per gli antichissimi tempi; ma narra tuttavia.  Dionisio sa, o crede sapere (il che è lo stesso),  il vero che si cela sotto il velame; ma riproduce tuttavia il velame. Del fenomeno una spiegazione sola è possibile: il pubblico esige la  parola degli storici su i miti. Ne va dell'orgoglio  patrio, ne va della consuetudine. L'orgoglio : che  non ammette si ignorino le origini prime della  propria stirpe, le vicende antiche della propria  città, i nomi dei prischi abitatori, le gesta, i culti;  che si sente sodisfatto, assai piti che dal  contenuto stesso della fiaba, dalla sua forma  di bellezza e di fantasia, dai suoi colori vaghi  meglio della realtà; che ritiene di non poter  conoscere la vita dei padri se non traverso la  tradizione eredata da essi. E la consuetudine:  ch'è la forza grande delle masse; e resiste, sotto  la specie del misoneismo, alla ricerca innovatrice  del dotto; e ricalcitra, sotto la specie dell'ortodossia, ai risultati dell'indagine, illuminata da un  nuovo pensiero religioso o FILOSOFICO. Tucidide doveva saper di spiacere quando negava un nesso  fra Tereo, del mito di Filomela, e Tere degli  Odrisi signore di Tracia; ma era da lui l'af-  Tucidide frontar i supercilii dei ben pensanti. Solo di  fatti la vigoria d'una tale niente può bilanciare  la resistenza che, per tradizione patriottica, è  insita nella leggenda. Che se parallelo a tal risultato appare l'effetto  dell'amor nazionale sul mito, i due fenomeni  però sono distinti. Il poeta, che canta la saga  patria, o nella saga introduce opportuni accenni  alle patrie vicende, serra un legame, tratto dal  cuore anelante, fra la sua visione di bellezza e  il cerchio della realtà che l'urge d'ogni lato:  sospira il presente nell'antico, e sotto le luci  dell'antico vede il presente: scorge l'Urbe maestosa degl'Imperatori dietro il velo tenue del  re savio regnante Evandro: imagina la spada  del guerriero cadere, simile alla clava d'Ercole,  contro il male e l'onta e il mostruoso. Allo storico in vece accade appunto l'opposto: per lui,  il mito emana su su dalla storia, come una causa  su dagli effetti, una premessa su dalle conseguenze: j)er lui il mito è una preistoria, una  motivazione. Il nesso genetico di causa ed effetto, ch'è insito nella storia ancor quando si  manifesta sol grossolanamente in un nesso di  precedenza e susseguenza cronologica, orienta  nel suo indirizzo anche la concezione della saga,  e l'informa di sé. Onde l'analogia, che il poeta vede tra il contemporaneo e l'antichissimo, è  per lo storico in vece un dipendere causalmente  del contemporaneo dall'antichissimo: sicché la  lotta fra Ercole e Caco serve solca spiegare un  rito di carattere greco, e la leggenda dei Minii  e di Tera e di Batto è una necessaria e suffi-  ciente premessa alla storia cirenaica. Per questo valgono : perché giustificano. E il loro valore di  motivi è cosi grande, che si accettano come  ipotesi sostenibili, anche quando è infirmata la  fede su la veridicità del lor contenuto.   Si fatta deformazione del mito, per cui il carattere etiologico di taluni suoi particolari e,  qualche volta, d'intieri suoi paragrafi intacca il  nucleo stesso, e lo tramuta in causa storica,  segna l'estremo della lontananza evolutiva dalle  origini. La saga aveva avuto negli inizii importanza per sé : stava oltre gli scopi pratici, riflessi  in parte nel culto, e i bisogni scientifici; superavali entrambi. Divenuta, nella poesia, quasi  un mezzo d'arte si alterò, serbando tutta volta  officio consono alla sua natura; tanto che, pur  connettendosi con etiologie cultuali, mantenne  su di esse il suo primato di bellezza e di forza,  presso poeti quali Vergilio ed Ovidio. Quando  alla fine si trasforma nella pura e semplice  causa di fatti, allora si astrae dai suoi termini,  cessa dalla sua indipendenza, acquista un che  di cerebrale fra le idee, perde molto d'imaginoso  tra le fantasie. In seno al possente spirito mitopeico letterario, della cui evoluzione segnammo, con l'ajuto  della nostra recente esperienza, talune tappe ed  erigemmo le precipue pietre miliari, s'opera un  continuo nascere maturarsi ed estinguersi di  saghe : paragonabile all'immane vicenda di morte  e di vita cui sottostanno gl'individui umani nel grembo dell’umanità , che s'è originata e deve  a sua volta perire. Tale assiduo flusso e riflusso  è libero ; non perché non lo determinino sempre  forze pullulanti e incroci anti si, del cui intreccio è  schiavo e le cui maglie seconda, composte in arduo  disegno; ma perché nessun nodo della contessi-  tm'a è prevedibile, prima del suo stringersi, o  analizzabile compiutamente, dopo. Non tutto vi  è del pari degno d'istoria; v'accade regresso  in rapporto al livello mediano della mitopeja, e  anche progresso: entrambi in diverso modo notevoli. Esiste tuttavia una fondamentale sorte,  ch'è comune a quella ricchezza divèrsa. Il mito, ciò è, ha due vite; o forse vita  duplice. Una è la sua più propria: e consiste  nella capacità di evolversi, di assumer forme  nuove luci nuove sensi nuo^à, di concretarsi in  individui diversi: spirito di molte sostanze. L'altra  è la vita di ciascuna sua forma di ciascun in-  dividuo: della Pitia, dell’Eneide, della lirica properziana, del racconto di LIVIO (si veda). Uno stadio dell'evoluzione non elimina  i precedenti, né li comprende solo in potenza,  ma li lascia sussistere in tutta la loro realtà  concreta ; si allinea con essi. Ciascuna di queste  due vite pare uniformarsi a leggi diverse.   La vita seconda, delle singole individuazioni  mitiche, è retta da una forza d'arte. Dalla quale  s'informa la "lotta per l'esistenza,, dei varii com-  ponimenti e il sopravviver loro. Onde il carme  d'un poeta non affiora alla superficie che per la  strage di numerosi fratelli suoi minori, cui fu  più povero lo spirito vitale. Non pure ; ma anche  tra i superstiti l'arte conferisce più a l'uno che all'altro il primato, con decreto che non si di-  scute e che finisce col condur, tal volta, a pre-  valere una redazione e col tramutarla in volgata.  Fa cosi Pindaro per Cirene, VIRGILIO (si veda) per Caco,  Ylnno a Deinetra pel ratto di Cora. All'in fuori  d'ogni vero rapporto cronologico, oltre ogni  effettiva consistenza di strati e importanza di  varianti, le narrazioni di pregio artistico infe-  riore si aggruppano intorno a quella cui più  riser le Muse, come forme incompiute d'uno  stesso pensiero. Vive tuttavia ciascuna ancóra:  di bellezza. E da tutte in selva risplende il  mito. Tra questa folla non è morte, fin che sieno  occhi a risguardare ; da questa sgorga anzi pe-  renne la vita, perché ogni forma è capace d'impulsi, e nella diversità degli spiriti sono impon-  derabili gli effetti suoi. I\n. è serbato il seme  dei sopravviventi miti; e la virtù della razza,  che diede la passione onde nacquero ; e la virtù  del suolo del cielo dell'aria dell'acqua del fuoco,  che diede la materia onde si fusero. Di li ritor-  nano al nostro pensiero, affacciandosi in vetta  all'anime come iddìi giovinetti e belli: fantasmi  radiosi ai nexDoti nella veglia nottui-na.   La prima vita in vece non è né cosi varia  né altr'e tanto sgombra da morte. Si sviluppa  secondo una linea chiara. Durante lo svolgersi  della quale però, ed è sua prima peculiarità, permangono al mito, quasi irrimediabili stimmate, i segni che furono del suo nascimento: resistenti oltre ogni deformarsi. La saga di Cirene, che sorse imperniandosi su la Libia e la  Tessagha, ha da queste due regioni diverse e lontane la sua sorte ; e par che fino la più profonda violenza recata al suo schema confermi quel  carattere regionale. Similmente, per essersi formato sopra un compromesso e in una contaminazione, il racconto siracusano di Cora rapita  si mischia, negli anni, in una sempre più larga  massa di favole. E allo sviluppo di Caco deriva  modo storico e religioso, quando prima s'insedia,  col suo nome, la sua memoria nei pressi del  Palatino. Anzi, il vero inizio di un mito, qual  forma spirituale a sé profilata, si rivela appunto  dall'apparire di quell'impronta che dovrà farlo  per sempre caratteristico. Onde la trama di Andromeda non è da vero compiuta, non pure nei  particolari esteriori, ma e nell'essenza più pro-  pria, se non allorché gli spunti novellistici si  immettono nel contesto naturalistico, a preparare per l'avvenire la triplice serie di innovazioni, psicologiche romanzesche e religiose.   Quasi entro gli argini cosi definiti si muove  la corrente del tempo. E di mano in mano che  la storia della paganità procede, che il pensiero  pagano si trasforma, anche la saga è amata  sotto aspetti differenti. Demetra e Cora son narrate con intenti di gran  lunga dissimili da quelli che, dopo Cristo, inspirano Claudiano e l'età sua. Ogni generazione  distende sul mito una propria vernice: che è un  particolar modo di vederlo. A noi poco è j) er-  venuto di questo stratificarsi perché non ogni  strato ha lasciato la sua traccia letteraria (e  artistica). Ma possiamo imaginarlo riandando,  in sintesi rapida, il processo spirituale del mondo  antico : a ogni tappa corrisponderebbe, se la ri-  costruzione fosse riuscibile nei particolari, una foggia mitica, e sia pure a pena diversamente sfumata dell'anteriore, o a pena diversamente  disposta della posteriore. Tra l'una e l'altra di  esse, nesso causativo, porremmo la sintesi creativa per cui l'intelletto comune, innovandosi, si  è superato. Il caso opera poi su talune vicende della saga. Che ad Euripide sia caduto in mente di trattar  l'Andromeda nel 412 o che nel 412 sol tanto  il suo proposito si potesse tradurre in atto ; che  non esistesse un grande poeta quando il mito  di Demetra in Enna fu compiuto: è effetto di  caso, perché a volta a volta risulta dall'interf erire  di due linee causali la cui interferenza non con-  segue da nessuna delle due premesse. Dal caso  pertanto deriva, che non tutti gli strati della  evoluzione mitica hanno " lasciata traccia letteraria (e artistica) „; e che qualche strato ci ha  tramandate tracce più profonde e più varie. Del  mito di Cirene un secolo, il quinto, ci mostra  due trame sostanzialmente diverse, la pindarica  e la erodotea; il quarto non ce ne concede al-  cuna. Del mito di Caco l'età di Augusto ci tra-  manda ben cinque quadri con varianti colori e  linee; l'età di Giovenale nessuno. VIRGILIO (si veda) irradia del suo patriottismo il racconto, Properzio  della sua raffinatezza, OVIDIO (si veda) della sua sonora  compiacenza verbale, LIVIO (si veda) della sua ingenua  critica, Dionisio del suo impotente razionalismo;  ma queste luci tutte scaturiscono dall'opere  complessive nelle quali esso viene inserito e  dagl'ingegni degli autori: onde nulla vietava  che altre ne potesse assumere e che ancor taluna  di queste potesse non aver assunta.F., Kalypso. Attinenze fra l'evoluzione spirituale complessiva stratificantesi sul mito, e le forme casuali  della leggenda, esistono visibilmente. Il modo  con cui i posteri di Ferecide di VIRGILIO (si veda) di  OVIDIO (si veda) di Callimaco amarono e ripeterono le  saghe di Perseo di Caco di Cora di Cirene  deriva, come dalla trasformazione compiutasi  nel xDensiero collettivo, cosi anche dalle peculiarità dell'arte con cui quei letterati, dopo che  il caso gl'indusse a eleggere la fiaba all'opera  loro, la impressero di sé medesimi. Ora, tra  quella che dicemmo trasformazione del pensiero  collettivo, e questa che potrem definire energia  plasmatrice di artisti, esistono riferimenti quali  d'una parte al tutto: gli effetti, in vero, chela  letteratura d'una generazione compie su la ge-  nerazione successiva, non sono se non alcuni  degli effetti che tutta la mentalità della prima  compie su lo spirito della seconda. Vale a dire :  il fenomeno mitico-letterario avvenuto per l'in-  terferenza casuale di due linee causali riprende,  fondendo quelle in sé, l'efficacia determinativa. Indi si spiegan anche, facilmente, le morti  dei singoli miti: quelle pause del loro evolversi  per cui si sospende il ritmo vitale onde parevano spinti alla trasformazione né si riprende che  tardi, quando oramai è chiusa a sua volta la  mitopeja pagana. Non è dubbio difatti che una  saga qua! siasi continua, più fioco più intenso,  il suo respiro fin che il genio mitopeico è una  operosa realtà. Ma per l'appunto quel che di-  ciam caso fa si che le manifestazioni letterarie  di ciascun mito si arrestino a un certo punto,  oltre il quale bruiva forse ancora il susurro, non più sonò il canto. Prova tipica, che non ve  n'ha forse più palmare, è la storia del mito di  Caco: languido già in quel torno di tempo che  segna il suo fine, si circonda poi di silenzio se  bene seguano ad  OTTAVIANO (si veda) epoche di culto intellettuale di esumazione erudita di compiacenza  artistica in cui l'abigeato violento e fumoso  avi'ebbe potuto, possibilità vana, trovar  non manchevoli espressioni. Persino i germi  dissolutori insiti nel testo di VIRGILIO (si veda) e, più, d’OVIDIO (si veda) e, peggio, di Dionisio, tolleravano sviluppo maggiore, cui certo l'agio non sarebbe  mancato, di cui in vece manca fin l'eco. Opposto ammaestramento porge la fiaba di Cora e  la sua sorte. Un poeta di età protratte, mentre  sotto il cielo d'Omero si levavano vie più fre-  quenti i crociati segni di Cristo, tenta di possedere, anche una volta, la saga. Fallisce ; ma  il crollo dell'edificio male eretto non travolge  pure la perizia artistica di un uomo, pare in  vece che si ripercuota funereo fra peristilii e  celle dei templi cui men frequente stuolo di  fedeli e men pio animo di sacerdoti rende l'omaggio: già che, allora, la mitopeja pagana  sentiva da l'èdèma tronco a' suoi inni il respiro. Non il caso terminando, quindi, in questo secondo esempio, la vita favolosa; ma, rigida causa,  l'orientamento diverso, vòlto a meta ch'è lunge,  del pensiero collettivo e delle passioni. In  un rosajo si sfanno di molte corolle senza che  scemi il vigore delle radici e l'ascesa della linfa  pei rami: culmina l'estate. Ma come giunga il  settembre, con cieli più chiari e men caldi, gli  ultimi calici si reclinano su foglie vizze su cortecce aride su stecchi rigidi, e odore di dissolvimento è nell'aria: il cespo si addorme nell'imminenti brume.  Kalypso lia pure, difatti, la sua morte ; che  non è scomparsa, ma fine di produzione. Cessando d'immortalare afferma la sua mortalità. L'agonia comincia con un periodo di riordinamento, in cui i miti non si moltiplicano  ma si assommano, e che è già iniziato quando  l'altro, creativo, ancor dura. Lo motivano, del  resto, le stesse qualità psichiche proprie dei  Greci: di ordine di armonia di chiarezza. Qualità che furono per fortuna, nel principio, assi-  stite da una levità di tocco e da un rispetto per  quanto è bello, i quali impedirono che le si tramutassero tosto in ruvida villania distruggitrice  di fiabe. L'esempio più notevole ci fu offerto,  in queste pagine, da chi raccolse in unico con-  testo tutto che si riferiva a Perseo: la novella  della sua nascita, cui è congiunto il fatale as-  sassinio del nonno, la lotta contro la tenebrosa  G-orgone, il duello con la belva del mar etiopico. E un'attività solerte e diligente, cui poco  sfugge, e che ogni occasione cerca per compiere,  compaginando rinsaldando, la sua galleria di   dittici trittici Unisce con Cora, pel vincolo   della verginità comune, Artemide e Atena. Trova posto per Ermes dov'è Apollo. E sovra  tutto venera e tutela sempre i miti che riordina.  Li ama. Per ciò non distrugge, e non guasta  né meno. Al contrario, tal volta crea: inventando, per unire due leggende, un passaggio  accorto ; dissimilando due fiabe troppo visibilmente sorelle, a fin di poterle narrare Funa appresso l'altra senza ripetizione uggiosa; imagi-  nando una circostanza, per colmare un vuoto;  innestando un particolare nuovo su altri più  antichi. Caca somiglia troppo a Caco nella forma  verbale perché a cotesti ordinatori di miti non  cada nel pensiero di trovarle un posto nel racconto del furto: ed ecco ch'ella diviene sorella  del ladrone, e spia dell'abigeato. Andromeda è  il troppo trasparente riscontro di Atena a canto  di Perseo nella lotta contro i mostri del bujo,  perché non abbia a essere (e con questa altre  cause v'influiscono per diversa via) trasformata, e mutata in amante. Affinché però un cosi fatto procedere si man-  tenga utile, è necessario, da un lato, che le va-  rianti da comporre in ordine intorno a un mito  non sieno strabocchevoli di numero o irriducibili  di forma; è necessario, dall'altro, che l'amoroso  rispetto per le fiabe si mantenga incorrotto. Col  cessar di queste due circostanze l'attività assom-  matrice prende a divenire impotente, perché il  suo compito s'è di troppo accresciuto, e deleteria,  perché i suoi modi si sono inviliti. Per questo  motivo essa si riduce a una compilazione che,  come presso Apollodoro, deve limitarsi a citar  le varianti inconciliabili con la volgata, a ricordar Demofonte per preferirgli Trittolemo,  senza riuscire né ad eliminar quel d'essi che sia  soverchio né a superare il dissidio contaminando e creando. Non anche creando : però che la forza  creativa scompaja in una colla simpatia concorde per le leggende. Quasi sensibilmente il mito  diviene oggetto di erudizione, opera di dotto lo  scriverne, ufficio di memoria e vanto di facoltà  tenace il serbarne i modi e i nomi di persone  e luoghi. Ora, quando il mitologo ha esausta la forza  inventrice, e s'è ridotto a catalogar la ricchezza  delle fiabe, la sua attenzione è tutta rivolta alla  forma di esse, ai j)articolari, cioè, il cui va-  riare costituisce fogge nuove della saga, e persino alle sfumature. Ma per ciò appunto la sua  credenza si sposta: non può più, come nel prin-cipio, poggiare suiresteriore, perché egli non ha  una redazione di ciascun mito cui sola presti  fede, ma di ciascuno ne scorge parecchie : deve  in vece fondarsi sull'interiore nucleo, su la sostanza, su quel che, in breve, è comune, oltre  ogni variante. Le vesti si mutano sotto i suoi  occhi: gl'importa il corpo. Ma questo effetto  somiglia quello che segue alla deformazione  storica del mito. Quando difatti l'artista non è  più intento a perseguir, nei carmi, di eleganze  ritmiche ciascuna peculiarità della fiaba, ad  eleggere un suono per ciascun colore; quando  della fiaba interessa il fatto ch'ella contiene,  per la storia, e il fatto poi vale come causa:  allora le vesti adorne e diverse cadono; importa il corpo. Ed ecco il razionalismo dare,  in entrambi i casi, una veste nuova a quel  corpo, ch'egli crede più consona, sovra tutto più  seria e dignitosa. Il mostruoso aspetto di Caco,  la spelonca, la clava d'Ercole, i bovi al pascolo, il furto e la sua astuzia, la lotta risonante sotto  il cavo etra, il sussultar delle rive all'urto im-  mane : tutto ciò non conta. Conta il duello tra due,  e i due nomi: Ercole e Caco. Su questi la com-  piaciuta furberia del loico intesse un'altra sua  trama, imagina gli eserciti, ne fìssa gl'itinerarii con le norme d'età posteriori, concepisce  le tempeste invernali proibenti il tragitto alla  flotta erculea: crea una fiaba nuova su l'antico  scheletro, die resta ed è creduto. Originatosi, cosi, dalle stanchezze della mitopeja, come un sentiero costrutto su scorie, il  mito razionale potrebbe vivere, se la sua nascita  non fosse troppo tarda. La saga di un Ercole  errante per monti e piagge, in imprese di cavalleresca generosità, serba in sé, chi ben guardi,  non minore forza di vita che la leggenda dell'eroe solare. Quel che le manca è l'aura d'intorno:  per ciò, il suo fiato è breve. La leggenda non  è ancor morta, quando essa saga si forma; e,  rimanendole al fianco, le è assidua pietra di  paragone. Per superarla e sostituirla, la saga  deve difendersi discutendo, far valere palesi le  sue origini logiche non artistiche. Onde il suo  vero e mortale scapito: però che la logica  chiegga, anche fra gli antichi, d'esser discussa;  l'arte, fra gli antichi in ispecie, d'essere imitata.  Quindi è che il razionalismo non genera figli  morti, ma, Saturno diverso, ingracilisce, col  soffocarle di greve afa, le sue creature fin dalla  cuna. A questa capacità distruttiva, che il raziona-  lismo rivela a suo proprio danno, non corrisponde  una eguale potenza deleteria per le belle favole:  che diviene esso della fiaba la foggia estrema. Né pure allora si serba indipendente; vive anzi  come un parassita accanto ai testi dei poeti e  degli storici. In tarde età riflessive il lettor di  Vergilio o quel di Pindaro accetta la loro fan-  tasia mitica, ma dopo esser divenuto conscio del  suo sostrato. Dice: due eserciti si son combattuti nel Lazio, condotti da Ercole che vinse e  da Caco che fu battuto ; ma al poeta piace esprimere altrimenti il fatto, approfittando della sua  libertà „. pure dice: Caco era servo di Evandro e devastava i campi col fuoco; questo  significa il vate con frase adorna „. E, se ha  sensi di gentilezza, s'india nell'espressione libera  e nella frase adorna. Il razionalismo gli ha fatto  da passaporto ; ma l'arte ha conservato il mito.  Ciascuna leggenda avrà molte di queste giu-  stificazioni; qualcuna ne cercherà in vano; tutte  ne sentiranno il bisogno. Cosi l'ultima forma in  cui la saga vive, soccorre, pur nella sua esigua  e stentata energia, le forme più antiche, più  belle e da più possente alito nate. Malefica è  appena quando in una mente rozza, distruggendo  intorno a sé, predomina sola. Notevole è sempre perché, ultima, contiene i  motivi del morir la mitopeja pagana. La favoletta pretensiosa del razionalista è tutta contenuta nell'ambito di una esperienza soda della  pratica umana: prova, l'esercito eracleo presso Dionisio. Supera quindi essa il mito, che non  possiede altr'e tanta sicurezza di conoscimento  umano; non delle esteriori fogge sociali, ridotte  per quello a poche linee sommarie e a rapporti semplicissimi ; non delle tortuosità e dei meandri  intimi all'anima: giacché nelle prime porta il  razionalismo una imaginativa più nutrita e più  competente, consona ai tempi progrediti e agli  instituti nuovi evoluti; nelle seconde reca una  certa gi'ossezza logica che se è lungi al sottile  acume del psicologo, è sopra, d'assai, all'ingenua intuizione primitiva. Ma vanitoso di questa sua prestanza su la leggenda, il razionalista non  s'avvede d' una inferiorità che la compensa: smarrendosi in lui pur ogni traccia del fenomeno naturale come potenza che trascende, come magnificenza ricca di colori di suoni e di  moti, come mistero pregno d' interrogazioni. Ciascuno di cotesti aspetti ha, quando il razionalismo regna nella mitopeja, trovato ad esprimersi nel culto, nell'arte, nella scienza ; può  quindi, e deve, venir separato dalla saga, in cui  né anche l'uno dei tre vien più avvertito, se  non forse, tal volta, per ipotesi filosofica. Evidentemente, dunque, è venuta meno la condizion  prima ch'era stata già bastevole e necessaria al  nascer dell'attività mitopeica; la condizione per  cui lo spettacolo della Natura, nel punto che lo  spirito umano lo assaliva per esprimerlo in sé,  non disponeva per cotale manifestazione se  non d'una imprecisa conoscenza degli avvenimenti umani onde era, nel suo grosso, assomigliato; la condizione senza cui la spontaneità  mitologica si allontana nelle tenebre d'un pretèrito memorando. Se non che la fine della spontaneità mitologica, che cosi si spiega, non è la fine dell'interesse spirituale verso il mito, interesse dal quale trae inesausta vita, per secoli, la mitopeja. Vedemmo fioriture minori di saghe in forza di questo interesse; tanto  forte ancora nelle masse da indurre regnanti e  poeti a foggiare e contaminare fiabe per accre-  scimento di lor potenza e di favore. Più tardi,  se non induce a creazioni novelle con l'imitare  le prische e il ricomporle, spreme però nelle  guise più varie, secondo i gusti più diversi (se-  guimmo nei particolari tal opera), molteplici  aromi dal mito, a inebriarne spiriti lontani; e  ogni aroma si esala in seguito a una alterazione,  e una alterazione ognuno prepara; e dalla vi-  cenda vasta si conferma la forza vitale del  genio mitologico e del mitopoetico. Ma lo  storico, che sa l'uomo e le sue potenze nei limiti  oltre che nei modi, da questo adoperarsi dello spirito pagano intorno alle favole dorate, spiega,  deducendo, dopo la fine della creazione spon-  tanea, il termine della ripetizione devota. Difatti, ogni volta che un nuovo compiacimento  attrae l'antico verso la saga, quando il patriottismo lo lega ad essa, e la sensualità lo diverte  di essa, e la fede se ne turba, e il senso psico-  logico la scava; ogni volta, una virtù di quella  appare splendendo, e si esaurisce vanendo:  perché, al pari d'ogni passione, patriottismo  fede sensualità, energie indipendenti e non fa-  ticabili, non si arrestano mai su la lor via : ma  da ogni letizia si sdanno per un'altra che sia  nuova, e dopo aver succhiato il sangue migliore  degl'idoli loro li lasciano cader dietro sé, cenci  vuoti di sostanza o lerci di dissolvimento. Grli  approcci si rinnovano su una su vénti saghe; le energie si succedono, ad una due, a due  dieci; il culmine si attinge in cui il groppo profondo dell'anima è uncinato dal mito: ma poi  la patria l'amore l'altare cercano ostie diverse,  e canti di altro suono si intonano in loro servaggio. Nel suo complesso lo spirito dei Gentili  si distrae lentamente dalla mitopeja, le diviene  a poco a poco estraneo e si immerge in altre  creazioni ; s'aprono nuovi stadii spirituali in cui  l'uomo, colmato a pena uno stampo, prende a  foggiarsene e a riempirne un altro : maggiore.   E il disinteresse mitopeico: la seconda morte  che la storia deve registrare nelle sue pagine.  Non è, né pur essa, senza compenso; però che  una resurrezion i)arziale pare la segua. Quando,  e come, e perché, non è qui luogo opportuno  a dirsi: chi narra dell'Umanesimo lo dice; e chi  fa opera d'indagine letteraria nei secoli più re-  centi e nel nostro raccoglie le tracce e cumula  le testimonianze della terza vita. Qui si elegge  la figura, tocca da melancolia, di Maurice de Guérin, che rivide con questi nostri occhi mortali il Centauro, avendolo i fragori marini e  l'albe di perla e le sere di ciano educato allo  spettacolo insueto. Egli potè dalla imagine favolosa esprimere nuove bellezze poi che, con-  cordando col mito nella sensibilità viva della  natura, vi seppe scernere làtèbre occulte, ove  languiva la mestizia nata dalla coscienza della  propria debolezza in confronto con le cime sfiorate a volo dall'anima. E rinnovò, cosi, il gesto mirabile di Kalypso, ritrovata la spola d'oro.  Ma è miracolo breve, e rado. Un poeta nostro,  che sé con vigore asseriva pagano, vide Ninfe  e Driadi egli pure; eran però fuggiasche, e l'anelito del suo cuore si compose prima in sdegno  violento contro la presunta causa della fuga, Cristo, che in ammirazione amorosa verso le  bellezze virginali. A un altro, vivo e fecondo,  Versilia ninfa boschereccia deve dire, sbucando  da l'albero, Non temere o uomo; e il rimpianto strappa biasimo fiero avverso chi più  non vede gli antichi numi italici: vivon eglino  pieni di possanza; hanno il fiato dei boschi  entro le nari. Ma non è giusto il suo rimproccio; il cuore non si sfa nel petto come  frutto putre. A lui medesimo, che pure vi  portava, nuova, la sua sensualità ferina e torbida e tormentosa, il mito, creatura fraterna  alle stelle ed ai sogni, sembra vanire implacabile, senza che il vanto e le promesse d'un'arte magnifica e fin troppo cosciente della sua  maraviglia valgano a fermarlo un istante, né meno presso le ruine del tempio antico, e  l'alte statue cadute dai fastigi, e le colonne   tronche. Si allontana melodiosamente Perché? Eumene di Cardia, nell'età dei  Diadochi, sogna, innanzi  a la battaglia contro Cratere, l'assistenza di  Demetra, avversa ad Atena, e l' imposizione di  una corona spicea. Il di seguente i soldati si  ricingono tutti del segno augurale; e la promessa divina incita i cuori, come il calcagno  i cavalli. Sei secoli dopo, Costantino annunzia  (si narra) la croce apparsagli e l'esortazione fatidica in hoc signo vinces; e lo sprone è uguale. Eloquenza del fatto minore! Nei petti si muta la fede; le masse scerpano dagli spiriti creduli le  credenze adusate e (è la forma di scetticismo  lor propria il mutare credenza) altre ne accolgono al posto; scompare l'aura benigna in cui  si moltiplicano gli echi della saga; si isterilisce il  terreno fecondante ove ne penetravano le radici.  E accade che il valore religioso della fiaba, il  valore che sembrava, ed era presso molti, scom-  parso e ottenebrato, si riafferma non per rav-  vivarla ma iDer offrire appiglio alla sua distru-  zione. G-li eroi non avevano cessato di essere, nel profondo delle coscienze, al meno, iddii scaduti; e con gli iddii vengon ripudiati,  di mano in mano che la Divinità si schiarisce  e si eleva agl'intelletti collettivi: Perseo con  Demetra. Il resto opera la scienza. Non la  nostra, che rispettiamo oggi come vera. Ma  tutte, le rispettate durante i secoli come vere e  come sole, sostituiscono nelle menti la loro verità e il loro equivoco alle interpretazioni fan-  tastiche; e sopprimono quei vincoli fra popolo  e mito pagano, che un appagamento della cu-  riosità pel fenomeno poteva ancor stringere.  L'urlo delle dimonia nel temporale e l'arcobaleno di Noè condannano Caco ed Iride, come  Sansone soppianta Perseo. Si che l'elemento  scientifico, insito nella saga (se non intrinseco  a lei) fin dal suo nascer, contribuisce con il  religioso al suo perire, quando l'una e l'altra  sete umana, di sapere e di credere, abbian trovato altr'acqua al loro bisogno. Morta la capacità creativa della mitopeja,  stornatosi l'interesse spirituale ad altre mete, indottesi le masse per diversi cammini; non restan più, dell'opulenza antica, che i riti agresti simiglianti per sostanza o per forme ai pagani, e  l'ammirazione nostra nata da l'erudito ricordo.  Ma i riti agresti accolgono festoso scampanìo  di chiese, e ignorano il nume degli antichi dèi.  E noi siam piccola schiera ; bramosa in vano di  quella fresca e ingenua maraviglia, onde s'originò la saga; volonterosa in vano del passionato  amore, fra cui si svolse; pallida, dinanzi l'ombre crepuscolari ove si rifugian labili le figure favolose evocate un istante, pallida di accorata  nostalgia.   Restano anche le storie dei miti e la storia  della mitopeja classica: nudrite, dunque, tutte  di nostalgia. Ho procurato che la bibliografia speciale dei suc-  cessivi argomenti da me dibattuti nei capitoli di questo  Libro II fosse né ingombra dell'inutile né monca del  pregevole o dell'indispensabile. Diverso criterio mi parve  in vece di tenere per la bibliografia generale su gl'in-  dirizzi varii che intorno al mito si combattono per opera  degli studiosi, su i problemi di metodo e di ermeneu-  tica, su le dottrine che filosofi sociologi psicologi etnologi ecc. ecc. sostengono od oppugnano. A raccoglier  difatti quest'altra bibliografia un grosso volume mal basterebbe; e persino una scelta, oltre ad essere in parte  arbitraria, usurperebbe grandissimo spazio. La omisi  dunque presso che intera, salvo pochi accenni sporadici;  né l'includerla sarebbe stato dicevole, per esser questo Saggio opera, non metodologica né sociologica, ma sto-  rica; tale, ciò è, che la posizione da me assunta di fronte  alle varie correnti e agli opposti principii degli studii  mitologici deve risultare, non da discussioni teoriche e  generali, bensì dal giudizio particolare recato nella in-  dagine e nella storia dei singoli miti. Un ottimo esempio di ciò che potrebbe farsi è il  recentissimo lavoro di Luigi Salvatorelli Introduzione  bibliografica alla scienza delie religioni (Roma): lavoro che, per il nesso intercedente fra religione e mito, riesce  utile anche per chi studia in particolare quest'ultimo. A. F., Kalypso. Andromeda. Il racconto di Ferecide. Il problema che si presenta primo intorno al mito di Perseo e Andromeda consiste nella ricostruzione del racconto presso Ferecide, del  quale ci è bensì pervenuta nell'estratto di uno scoliaste  la narrazione della nascita dell'eroe e del suo soggiorno in Serifo e dell'impresa contro Medusa; ci è pervenuta  anche, nella medesima fonte, la parte estrema delle vicende cui Polidette ed Acrisio andarono incontro dopo il ritomo di Perseo vittorioso; ma difetta del tutto l'avventura di Andromeda (cfr. Scoi. Apoll. R. =  Fee. fr. 26 Mùller ì^/fG'.). Ma la parte mancante  del mito in Ferecide può venir ricostrutta con sicurezza  bastevole, con l'uso del testo di Apollodoro (Wagner). Se si riesce difatti a dimostrare che per tutto  il resto della fiaba quel che ci avanza di Ferecide e quel  che racconta Apollodoro son congiunti da strettissima  simiglianza, divien lecito ritenere che il testo della Biblioteca possa supplire senza errore né equivoco la lacuna ferecidea. ANDROMEDA Ora, bisogna anzi tutto tener presente che il mito di  Perseo, mentre non ci è giunto nel testo proprio di Ferecide, ma solo attraverso al riassunto d'uno scoliaste,  ci resta invece integralmente nella Biblioteca. È quindi a priori chiaro che in quest'ultima debba essere qualche  particolare pili che in quell'altro. Ma ciò può anche provarsi ne' singoli casi.In due punti ApoUodoro dà a  lato del suo racconto una variante : 1. oltre ad attribuire  la paternità di Perseo a Giove, riferisce senza esplicita preferenza che altri l'attribuivano a Prete fll 34); dopo aver raccontato l'uccisione di Medusa per opera  di Perseo, testimonia d'un'altra versione, per cui la Gor-  gone è uccisa da Atena. Ciò mostra ch'egli aveva  presenti racconti un poco diversi ; ma mostra a un tempo  che sapeva serbarli distinti: onde è legittima l'opinione  che forse non si sarebbe notevolmente scostato da una  fonte importante qual'era Ferecide senza avvertircene  in modo aperto. Di ben lieve natura difatti son le  varianti che, senza l'avvertenza dello stesso Apollod.,  separano il suo racconto da quello degli scolii citati. Nella  Bihl. è detto che Polidette ottiene da Perseo la promessa  del capo di Medusa come sQavov ... èitl tovg 'Injtoòa-  f^eìag T^g Oivofidov ydfiovg; nello scoliosi parla bensì àQWMQavog non delle nozze : ma par chiaro che l'omissione è qui dovuta solo al riassumere, tanto  più che in entrambe le fonti Perseo fa spontaneamente  la promessa mentre gli altri promettono cavalli. Poi  in ApoUodoro (II 39) Ermete dà a Perseo una falce  che non gli dà nello scolio: evidentemente  chi riassunse omise questo particolare ; e difatti la falce  è menzionata nello scolio medesimo quando l'eroe è per  recidere il capo di Medusa. E lo stesso è da dirsi quando  la Bihl. (II 40) reca i nomi di tutt'e tre le Gorgoni, Steno, Euriale e Medusa, là dove lo scolio dà sol quello di quest'ultima; quando Apollod. narra di Atena che guida la mano di Perseo e gl'insegna  a guardar Medusa nello scudo per non esserne impie-  trato, mentre lo scoliaste riferisce solo che gli dèi Er-  mete e Atena insegnano all'eroe Ticàg xqÌ] zìjv KecpaÀìjv  àjioTeftEÌv à^teaTQUftfiévov; quando in Apollod. dal capo reciso di Medusa nascono Crisaore e Pegaso,  di cui tace il riassunto da Ferecide ; quando la fonte più  estesa fa rifugiare Danae e Ditti in Serifo su l'altare, mentre la pili concisa omette a dirittura ogni  accenno al riguardo; quando infine nella Bibl. la gara  in cui Perseo uccide il nonno Acrisio è indetta da Teutamida re di Larisa in onore del padre defunto,  e nello scolio in vece si fa cenno solo a un àyoyv vétov  iv Tfl Aagioar]. Unica più profonda discre-  panza è questa : ApoUodoro dice che Perseo gareggiò nel  pentatlo; lo scolio per contro afferma névvad'Àov o^jio)  ^v. Ma qui evidentemente sussistevano tradizioni un poco  diverse: contro la tradizione che ricordava un pentatlo  polemizza lo scoliaste e la sua recisa negazione fa a sufficienza intravvedere una tesi opposta e taciuta: la quale  dev'essere a punto o la ferecidea accolta da Apollodoro altra analoga. Non è questo l'unico caso in cui uno scoliaste introduca tacitamente una correzione nel testo  che riassume e di cui cita l'autore.   Stabilita pertanto la strettissima attinenza fra Ferecide e ApoUodoro è da dedurne che in Ferecide fosse  identico (salvo le insignificanti sfumature de' più piccoli  particolari) alla versione apollodorea anche l'episodio di  Andromeda, del quale gli scolii di Apollonio Rodio tacciono. Ed è adunque legittimo valersi di ApoUodoro per  colmare la lacuna nel racconto ferecideo.   Col possesso in tal modo conseguito di una redazione  comparativamente antica del mito di Perseo e, in particolare, dell'episodio di Andromeda, sono segnate le vie  per cui la critica deve procedere nel suo esame : però  che la natura stessa del racconto orienta l'analisi intorno  a Perseo, prima ; ad Acrisio Preto Polidette e Ditti, poi ;  ad Atena e alla Gorgone Medusa, in séguito ; a Cefeo  Fineo Cassiepea, da ultimo.   IL Perseo. Le imprese di questo eroe sono nu-  merose e varie nell'apparenza, ma un occhio esperto non  esita a ridurle tutte a un medesimo tipo. Uccide l'avo;  decapita Medusa; abbatte il >t^roj; libera Ditti e la  madre Danae; impietra Polidette e quei di Serifo : compie  in somma parecchi fra i consueti atti degli eroi solari.  Che il sole nascente sia considerato l'assassino del sole,  suo padre, scomparso la sera innanzi : che al sole competa la perenne lotta contro le tenebre, nei paesi del  Nord dell'estremo occidente, e contro i mostri tenebrosi che ivi abitano : e ormai cosf risaputo che può  esser per criteri soggettivi negato, ma non deve più esser  ribadito con argomenti. Cfr. Beloch Griech. Gesch. Absch. VI Mythos und Religion e SANCTIS (si veda), Storia  dei Romani Religione primitiva dei Romani  e GL’INDO-EUROPEI IN ITALIA. GL’ARII IN ITALIA. Un eroe solare ri-  tiene difatti Perseo, a. e., 0. Gruppe nella sua Griech.  Mythologie.   Né sono sufficienti, anzi non sono valevoli , le argomentazioni in contrario di E. Kuhneet, in Roscher Lex.: giacché egli dimentica la differenza profonda A parte (e, secondo noi, insostenibile) sta la teoria  di A. J. Reinach " Rev. de l'hist. d. relig.: Perseus 'le destructeur' n'est sans doute qu'un vocable qu'on donnait à son arme, la harpé, adorée  comme Vakinekés l'était chez les Scythes e sensibile che intercede fra i motivi naturalistici e gli  spunti novellistici, cui tutto il mito di Perseo vuol ridotto.  A questo proposito sarà anzi bene osservare che, per  reagire agli eccessi di quegli studiosi che in ogni eroe  videro un dio solare e un fenomeno meteorologico in  ogni episodio dei miti, i recenti indagatori caddero nell'eccesso opposto di negare ogni sostrato o nucleo na-  turalistico e di ridurre ogni episodio a novella. Sintomo  significativo di questo secondo eccesso è l'articolo di  R. Sciava in " Atene e Roma. Assai  equilibrato era in vece il saggio del Comparetti Edipo  e la mitologia comparata Pisa. Ma è notevole che  quest'ultimo autore deve lasciar nel bujo il significato  e l'origine della Sfinge; e quel primo, trattando  di BELLEROFONTE (si veda – H. P. Grice, “Vacuous Names”), non spiega la CHIMERA (Grice, Vacuous Names). Entrambi quindi  appajono per ciò stesso attenti a un aspetto del fenomeno mitologico non a tutti. È quindi metodo migliore, credo, far giusta parte nel mito cosi al naturalismo come alla novellistica. Il problema poi intorno alla priorità dell'uno o dell'altra entro  le singole saghe va, in parte, resoluto caso per caso; in  parte è d'indole generale e vien trattato in questo saggio. Qui diremo solo, in breve, che  l'intuizione naturalistica suppone una grossolana conoscenza della natura e dell'uomo, mentre la novella è già  densa di più larga e più ricca esperienza umana. Comunque, procureremo, dopo queste premesse, di sceverare quei due elementi, naturalistico e novellistico, nei  varii nuclei in cui abbiam veduto per sé stesso spez-  zarsi il racconto di Perseo.  È tesi vecchia: cfr. per es. il sennato art. diJ. Ré-  viLLK in " Rev. de l'hist. d. relig. Acrisie, Prete, Polidette e Ditti. Nel racconto Ferecideo, riassunto dallo scoliaste e ricostrutto  dalla critica, attira fortemente l'attenzione il particolare  della fuga di Acrisie re da Argo in Larisa, dal Peloponneso alla Pelasgiodide tessalica: fuga con cui è connessa  la menzione del re pelasgico Teutamida e di un ijQipov  in onore di Acrisie medesimo (Scoi. Apoll. R.).  Si son sempre in ciò vedute tracce d'un'influenza tessa-  lica sul mito di Perseo (cfr. Kuhnert). Ma ben  più sembra che se ne possa dedurre ricordando quanto,  dopo il Busolt e il Beloch, ha dimostrato P. Cauer Grandfragen der Homerkritik, intorno allo scambio fra  Argo peloponnesiaca e Argo tessalica ["Aqyos JleÀaa-  yiKÓv deìVHiad. B 681). Se difatti si danno casi in cui l'Argo pelasgica dei Tessali s'è potuta identificare con  l'Argo del Peloponneso cosi che gli eroi di quella furono  a questa attribuiti, è molto probabile che l'Argo di  cui è re quell'Acrisio che la stessa leggenda peloponnesiaca fa pertinacemente morire in Larisa sia, in origine  al meno, non quella pretesa dai mitografi antichi e critici moderni, si l'altra di Tessaglia. E si può con probabilità scientifica ritenere che abbiamo in Perseo un  nuovo caso d'un equivoco di cui altri casi furono già  constatati e che si ripresenta con i caratteri consueti.   Da questa constatazione fondamentale traggono rilievo  alcuni particolari, a cosi dire, laterali del mito, il cui  valore era fin qui stato in gran parte misconosciuto;  particolari i quali son pure, a un tempo, riprova della  verità di essa ipotesi. Cosi fatti sono: 1. la discendenza  di Ditti e Polidette da Magnete; di cui dà notizia Apoll.  I 88, in un luogo che non è, come il v., sotto  l'influsso di Ferecide ma rispecchia fonte diversa; 2. la  nascita di Perseo non per opera di Zeus si di Preto fra-  tello di Acrisie : sulla quale informano Apoll. II 34, che riferisce questa come una tradizione parallela alla  ferecidea, e lo Scoi. A II. S, che fa risalir la notizia  a Pindaro. 11 primo di questi particolari lascia chiaramente iutravvedere una forma della fiaba in cui i due  salvatori di Perseo e Danae sono personaggi tessalici  della Magnesia: se adunque Acrisie è, in origine, re pelasgico, quella ha da essere la forma primitiva della  fiaba. Onde e assicurato al nucleo originario del mito  l'intervento di quelle due figure. 11 secondo particolare  poi è d'importanza anche maggiore. Per esso noi dob-  biamo di fatti scegliere fra la tradizione che dice Zeus  padre di Perseo e quella che padre afferma Preto : e non  possiamo non propendere a riconoscere carattere argolieo nella prima, ricordando quanto nei miti e nella  vita dell'Argo peloponnesiaca Zeus abbia parte, cosi che  fin Argo l'eponimo del luogo, è figlio di lui (Esiodo  fr. RzACH^ = Paus. Il 26, 2; cfr. Feeec. fr.,  MùLLER FHG). La tradizione pertanto che dice di  Preto sarebbe da ritenersi, in contrapposto, tessalica, e  quindi anteriore a quella su cui gl'influssi peloponnesiaci son già palesissimi. E poiché col delitto di Preto  si riconnette bene la cacciata di lui per opera di Acrisie  irato, allo strato tessalico appartiene, forse, anche quest'altro spunto: su cui vedi Apoll. Il 24 (diverso da Paus.  Il 25, 7 e pili ancora da Ovidio Metani. versi; i quali  riproducono una tradizione già alterata da elementi  estranei introdotti dalle genealogie peloponnesiache, per  cui poteva interessare che Preto riuscisse pari ad Acrisie  addirittura lo superasse). Né contro l'ipotesi che Preto  appartenga allo strato tessalico del mito crea ostacoli  il rilievo ch'egli acquistò poi nelle saghe tirinzie : che  potrebbe essere, come riteniamo, posteriore al suo trasporto nell'Argolide insieme con Perseo e Acrisie. Anzi  la nostra congettura, ove paja ragionevole, spiega forse anche il valore naturalistico di Prete, ritenendolo analogo a Zeus, e da Zeus sostituito in regioni ov'egli era  poco noto in sul principio e ove potè localizzarsi solo  obliterando il proprio valore. Che però, velatamente, appare anche nella connessione con i Liei C Luminosi)  in cui egli è posto dtiìVIliade Z. Tuttavia gli elementi cosi sceverati, che appartengono  potrebbero appartenere a uno strato tessalico della  leggenda, non sarebbero di per sé sufficienti a provare  di quello strato l'esistenza, ove accostati l'un l'altro non  dessero modo di trarne un racconto organico e coerente,  che potesse reggere al paragone di altri svolgimenti mi-  tici e novellistici analoghi. Ora è notevole in vece che,  tenendo conto dei materiali tessalici, espungendo le inserzioni argoliche, si giunge a ricostruire la trama compiuta d'un mito: serbate le due figure di Acrisio e di  Preto di cui l'una ha avuto culto in Larisa, l'altra è anteriore a Zeus peloponnesiaco e ne sarà sostituita; serbato l'oracolo delfico (Feeec. in Scol.ApoU. R.)  che diviene anche più dicevole per la vicinanza e le attinenze fra Delfi e la Tessaglia; serbati Ditti e Po-  lidette figli di Magnete, onde si acquista anche sufficiente  notizia del luogo ove trovarono asilo Perseo e Danae;  serbata in fine l'uccisione di Acrisio a' giuochi larisei: ne nasce un racconto che è omogeneo e definito, e  si raccomanda quindi tanto per la sua localizzazione geografica uniforme quanto per la sua coerenza interiore. Incerto potrebbe rimanere sol tanto se allo strato tessalico a quello peloponnesiaco abbia a farsi risalire  il nome e la figura di Danae: giacché se il secondo caso  fosse il vero bisognerebbe supporre che essa sostituisse  un nome e una figura più antichi. Ora se è certo che  nell'Argo del Peloponneso Danao e le Danaidi, cui Danae  si riconnette senza dubbio, costituiscono un vigoroso e caratteristico ceppo mitico; non è però man certa la  presenza di Danaidi in Tessaglia, se si cfr. Scoi. Apoll. R.  e Antonino Liberale. Va pertanto conchiuso  che Danae può appartenere assai bene allo strato tessalico del nostro mito; e che, se non è dicevole ai fini  della ricerca presente il vagliare il problema mitico di  Danao, in questo problema tuttavia la nostra ipotesi intorno alla primitiva sede della saga di Perseo s'inquadra  ottimamente. Restano cosi delimitate a sufficienza le due stratificazioni distinte in cui si spezza quell'episodio del nostro  mito ch'è intorno ad Acrisio e alla sua morte. Né è dif-  ficile stabilire l'epoca approssimativa in cui la seconda  si sovrappone alla prima di esse. Se difatti Zeus è, come  congetturammo, la sostituzione peloponnesiaca del Prete  tessalico, quando Vlliad. S 319 dice Perseo figlio appunto  di Zeus, se ne deve dedurre che come l'età tarda del  passo lascia buon margine alla leggenda tessalica di Prete,  cosi la sua comparativa antichità, giacché anche le  meno antiche interpolazioni dell'Iliade son certo abbastanza vetuste, fa risalire non poco nei tempi l'inter-  vento del Peloponneso. Non rimane adunque che studiare  partitamente l'uno e l'altro strato. Affermata una volta l'esistenza dello strato peloponnesiaco come posteriore al tessalico, il problema critico  consiste non tanto nel cercar le cause singole dei singoli nessi instituiti fra il mito di Perseo e il Peloponneso, quanto nel graduarli cronologicamente per seguire  passo passo, fin che è possibile, il processo di penetrazione di quel mito in quel territorio. (Le testimonianze  si veggano raccolte dal Kuhnert in Roschee Lex.; cui mi richiamerò volta a volta). Ora non v'ha  dubbio che al complesso di piccole saghe esistenti in  Micene in Tirinto in Lerna in Midea e nella stessa Argo non che in Elo e in Cinuria dev'esser andata innanzi la  diffusione del culto a Perseo e alle figure che a lui si  attengono miticamente. Ed è del pari certo che cotesta  germinazione di miti secondari sul ceppo del principale  dev'essere stata a bastanza tarda se nella trama vera e  propria della leggenda le peculiarità locali non han potuto trovar posto adatto. Ma ben altro è da dirsi riguardo  a Serifo: per cui è a priori possibile cosi che il culto  abbia preceduto la leggenda onde ivi son localizzati Ditti  e Polidette, come che sia avvenuto l'opposto. Nel primo  caso sarebbe però da spiegare perché il culto di Perseo  abbia toccato Serifo, a preferenza di ogni altra dell'isole vicine. Nel secondo caso in vece rimarrebbe senza risposta  la domanda che chiedesse il motivo onde Serifo fu dai  mitologi preferita ad altre isole, anche pili .vicine all'Argolide, come sede del salvator di Perseo. Né l'esame  della genealogia di Ditti e Polidette conduce ad alcun  che (Febeo, fr. -= Scoi. Apoll. R.), come di quella  la quale contiene bensì riferimenti a Danao e all'Argolide, non a Serifo. Nel mito primitivo il luogo donde  Perseo avea da venire per uccidere Acrisie era senza  dubbio indicato, in modo vago s'intende, a oriente. Più  tardi la localizzazione dev'esser divenuta più esplicita,  e sappiamo che nella Magnesia s'era trovato il punto  dicevole, di cui per altro ignoriamo il nome. E non e  improbabile che questo fosse tale da determinar per ana-  logia a dirittura omonimia la scelta di Serifo fra l'isole  che sono ad oriente e non lontano da Argo peloponne-  siaca. Pure accettabile sembra l'ipotesi che la scelta  avesse un motivo unicamente geografico — l'est; ma è  ipotesi non sufficiente a spiegar tutti i fatti se si guarda  all'isole che sono nella stessa giacitura di Serifo; ed ipo-  tesi che dovrebbe, quindi, integrarsi con altra la quale  supponesse un intervento di casualità. Il problema rimane  ACBISIO, PBETO, POLIDETTE E DITTI 333   dunque senza soluzione recisa. A ogni modo Serifo deve  essere entrata assai presto nel mito peloponnesiaco perchè  vi rimase nettamente e saldamente incastrata. E poiché  lo stesso è da dire di Zeus che prende il posto di Preto,  bisogna ritenere che questi due punti fossero ben fissati  già quando il culto di Perseo prese a difiondersi per  tutto il Peloponneso. Un momento successivo è occupato dalla saga di Tirinto (Apoll.). Questa saga non si sarebbe dovuta  creare se il culto di Perseo non avesse in Tirinto assunto  importanza ben maggiore che nell'Argo medesima, costringendo i mitologi a darne una giustificazione. D'altra  parte se era plausibile che, come si disse da quelli, dopo aver ucciso il nonno i e d'Argo, Perseo si vergognasse sls "Aqyos ènaveÀ&Elv, era facile legittimare  la scelta di Tirinto ch'egli avrebbe fatta in cambio, se  a Tirinto s'era radicato e svolto quel Preto che impor-  tato forse dall'Argo tessalica non aveva trovato favore  nell'Argo peloponnesiaca. Onde i miti tirinzii di Preto e Bellerofonte e di Perseo e Megapente mostrano entrambi che i personaggi della saga tessala attecchirono  assai meglio in Tirinto che in Argo. Seguono poi tutte  l'altre saghe minori e meno importanti (quella di Micene p. e.: Pads.), che sfuggono al racconto d’Apollodoro, testimoniando per tal modo la loro recenziorità. La sanzione definitiva però dell'insediarsi nel Pelopon-  neso, specialmente nell'Argolide, il mito di Perseo, i; data  dai genealogisti. Combinando Apollodoro (con Ferec. fr. = Scoi. Ap. R.) risulta il  seguente schema che può valere come volgata su questo punto: Linceo Ipermestra Lacedemone Abante Euridice ACRISIO Prkto Zeus Danae Megapente PERSEO Andromeda Posidone Amimone Nauplio Damaatore Pericastore Peristene Androtoe  Alceo Elettrione Stenelo Mestore Ditti Polidette Anfitrione Alcmene Euristeo Ippotoe ERACLE Tafio Poiché è troppo chiaro che di questa genealogia i punti  fermi sono Danao ed Eracle, il Kuhnert vi vedeva la riprova che Acrisio e Preto sono originarie divinità argive (predoriche) cui si vuol imparentare l'eroe dorico più recente Eracle, non senza che nel contrasto  fra questo ed Euristeo sussista traccia della diversità dei  ceppi. Ma se a Kuhnert si può concedere che tardo sia  l'intervento di Eracle nei miti argolici, non gli si può  consentire in vece intorno ad Acrisio e Preto. Per vero  il posto che essi occupano nello schema genealogico è  ben motivato, ma da tutt'altre ragioni che la lor origine  peloponnesiaca. Il nome di Danae doveva riportar sìibito a Danao, cui sarebbe stato da avvicinare per quanto  era possibile; ma due generazioni dovevano necessariamente intercedere: una, quella di Acrisio e Preto; l'altra,  quella delle Danaidi. Più oscura resta la presenza della  terza generazione: di Abante. Ma non mancano elementi  per la congettura. Abante è ritenuto l'eponimo di Abe  in Focide (Stef. Biz. g. v. "Affai; Paus. X 35, 1); capo  degli Abanti di Eubea (Stef. Biz. s. v. 'Affaviig, Scoi. B II.   B 536, Scoi. Pind. FU. Vili 77). Su di lui Strabone 431  ha un luogo che merita comento : oc oh [rò "AQyog tò  IleÀaaytìiòv] oò itóÀiv [óéxovrai] à^Àà tò zojv QerzaÀ&v  7t€Óiov oSrcog òvoiiuTtyiaig Àeyófievov , &ef.tévov zovvofia  ''Aj^avTog, è^ "Agyovg Ssvq àTioixi^aavTog. Qui è, sùbito  evidente, un giuoco di omonimia fra le due Argo; ma  è del pari evidente che un motivo deve aver indotto a  sceglier per l'appunto Abante per attribuirgli l'introduzione del nome Argo in Tessaglia. E il motivo non può  esser altro che il trovarsi come nel Peloponneso cosi  nella Pelasgiotide tessalica tracce o di lui o del suo  culto. La quale ipotesi concorda bene con la presenza  di nomi affini a quello di lui in Eubea e nella Focide:  territori miticamente affini alla Tessaglia. Ma se ciò  è probabile, ne deriva che Abante potè essere importato in Argolide in una con Acrisio e Preto da l'Argo  pelasgica e si spiega in fine la presenza di lui, terzo,  fra Danao e Danae. Per Ditti e Polidette non si trat-  tava in vece che di porli nella medesima generazione  di Perseo e Andromeda, di imparentarli con essi per  meglio giustificarne l'accoglienza: e a ciò valsero nomi  come quello di Nauplio, eponimo di Nauplia, di  Damastore, padre dell'argivo Tlepolemo in U.,   di Peristene, sposo d'una danaide Elettra in Apoll. Or come lo schema genealogico studiato fin qui mostra  Acrisio e Danae innestati fra Danao (già anticamente  peloponnesiaco) ed Eracle (meno anticamente pelopon-  nesiaco.', cosi i matrimonii fra i figli di Perseo e le Sglie  di Pelope (le testimonianze presso Kuhnert)  rivelano la analoga tendenza a collegar il nuovo venuto  eroe con il pili vetusto. E l'opposto vale per Dioniso che  la leggenda fa superar da Perseo [cfr. Edseb. Chron. II  44 Schone; Cirillo c. lui.; Agost. de Civ.; Scoi. Totr. IL. Questa dev'essere la leggenda più antica; l'altra in cui il vinto è Perseo (cfr. Kthnert) dovè nascere allor che Dioniso fu più a fondo  penetrato in Argolide]. Che se però lo strato argohco può esser suddiviso in  parti cronologicamente succedentisi, il tessalico offre  occasione a diverso studio. Il personaggio di Danae serve  a gittar, di fatti, molta luce su elementi che a tutta  prima sfuggirebbero nel mito e che sono tutt'afFatto no-  vellistici. Certo esso è, originariamente, vivo di sostanza  naturalistica ; si riconnette con Danao e, come esso, deve  valere quale divinità del mare (Beloch Gr. G.)  della nuvola nera o di alcun che di simile: e, se bene  forse sia eccessivo precisare di più, in ciascuno di questi  casi è chiarissima la ragione per che Perseo, l'eroe solare, fu detto nato da lei. Tuttavia, sopra questo inne-  gabile strato, nel mito tessalico Danae ci appare già ricca  di un nuovo contenuto. Il motivo invero della figlia o,  più latamente, della vergine che contro un esplicito divieto divien madre e paga il fio di questa sua colpa  insieme con la sua piccola creatura è svolto in larga diffusione nel folk-lore. E non ha nulla in comune con lo  spunto, che si fonda sopra una primitiva bambinesca intuizione del succedersi dei soli, intorno al delitto di  Perseo contro il nonno. Ugual carattere novellistico  si riscontra poi in Ditti: il cui nome non è se non il  generico appellativo " pescatore , (cosi che è quasi vana  postilla quella di Ferec. fr.  òiy.Tvi>) àÀievmv) e la cui  natura è per tanto assimilabile a quella del consueto pa-  store agricoltore che rinviene la derelitta ed il figliolo  abbandonati alla violenza delle forze naturali. Potrebbe  bensì pensarsi anche a una divinità pescatrice (cfr. la  cretese Diktynna, su cui bene giudica Maass presso Wide  Lahonische Kulte  e il Gruppe Gr. Myth.). Ma il contesto della fiaba lo esclude, e al pili concede di supporre  che il caso sia per Ditti analogo a quello di Danae: che cioè l'indubitabile carattere novellistico offuschi un antico sostrato naturalistico. Certo in ogni modo che per  quel primo carattere non per questo sostrato Ditti entrò  e rimase nel mito di Perseo. Altro è di Polidette:  questa stessa forma verbale si rintraccia difatti in un  attributo di Plutone-Ade, onde, tra altri, 0. Crusios  Jbb. Phil. ha creduto di identitìcar  con Ade appunto anche l'ospite di Danae e Perseo. L'ipo-  tesi ci par ragionevole, a patto che si facciano due restrizioni : anzi tutto non è da credere col Crusius che  Ditti fosse epiteto primitivo di questa figura dell'Ade- Polidette, e da epiteto si trasformasse in fratello; ma  tenendo conto del folk-lore e delle sue forme consuete,  è da pensare invece che originario fosse Polidette, il cui  significato trasparente fa intra vvedere un fondo natura-  listico al suo episodio come a tutto il primo nucleo della  saga, e posteriore Ditti. Inoltre altra è la interpretazione  da darsi, io credo, ai rapporti fra Polidette-Ade e Perseo  con Danae. Il Crusius difatti, col far gravitar tutta l'im-  portanza del mito su questa, la riteneva simbolo del-  l'anima che il re sotterraneo rapisce e Perseo (= Ermes)  libera. Se al contrario è vero che Danae è divinità del  mare o del bujo e Polidette è nume sotterraneo, la spie-  gazione di entrambi esiste rispetto a Perseo in un concetto unico. Nel fatto l'eroe solore Perseo si pretendeva  nato da Danae come il sole dall'ombra; ma poi, sopravvenuta per Danae la forma novellistica, fu concepito un  doppione di lei m Polidette. per cui Perseo viene ad  uccidere Acrisio non pur dall'onental Magnesia (v. sopra)  si anche dall'ombra, dalla regione sotterranea, onde ogni  mattina il sole emerge. La cattività di Danae presso  Ade-Polidette è dunque giustificata anche dalla affinità  F., Kalypso. ANDROMEDA sostanziale dei due personaggi. In tal caso, ammettendo  la diversità di Ditti e di Polidette, la tradizione fere-  cidea che li fa fratelli e figli di Magnete par che si debba  spiegare come un atto unico di elaborazione mitologica  per cui dalla Magnesia (per la sua positura astronomica  rispetto ad Argo pelasgica) fu desunto il nome del padre,  e dalla paternità dedotto il rapporto fraterno. Considerati nel loro insieme lo strato argolico, di cui  vedemmo i successivi momenti, e il tessalico, di cui tentammo scernere gli elementi naturalistici e novellistici,  costituiscono per un lato una fiaba di schema consueto  e di per sé bastevole, ma offrono per altro lato appiglio  a giunte e svolgimenti mitici. L'indagine , continuando,  ce ne darà conferma. Atena e la Gorgone Medusa. Gl’elementi  che caratterizzano la prima avventura di Perseo in quell'intervallo di azione ch'è compreso fra la sua cacciata  da Argo e il suo ritorno, sono tutti a un tempo elementi  jonici. La Dea che lo protegge è Atena, la quale ci ri-  porta senz'altro ad Atene; il Dio che l'ajuta è Ermes, di  cui in Atene è culto notevolissimo (cfr. p. e. Roscher nel  suo Lex.); il mostro che combatte e vince  è quel medesimo di cui il capo è sullo scudo di Pallade (Iliade); il luogo onde si muove è Serifo, colonia  di Joni. A questi dati fanno buon riscontro le notizie  che per altra via si posseggono intorno al culto di Perseo  in Serifo (Paus., per le monete cfr. Head H. N), in Atene (Kchnert), in Mileto (Strab.  cfr. Erod., Edrip. Elena, Kuhnert): in Mileto, specialmente, tali da risalire  al VII sec. a. C. Da tutto ciò, poiché anche il mito di  Perseo e Medusa non contiene altri elementi all'infuori  di questi né favorevoli né contrarli, è lecito dedurre che quell'episodio dev'essersi formato in territorio jonico; e  che per conseguenza la sua formazione è posteriore ai  principii dello strato peloponnesiaco, del quale appare un  effetto.   Quanto è probabile questo risultato tanto par certo il  contenuto naturalistico dell'impresa. Le Gorgoni abitano  (presso [Esiodo] Teog.) néQrjv kÀvtov 'Qxeavoìo  èoxa^tfl TCQÒg vvìCTÓg, tv' 'EajtEQiòsg Àiy^cpcovoi ; sono per-  tanto evidenti mostri delle tenebre e della notte che  dicevolmente si contrappongono all'eroe solare in aperto  contrasto. Là presso si devono ritrovare gli Etiopi che  abitano dove sorge e dove tramonta il Sole {Odissea. A Nord, ma con egual significato tenebroso,  stanno gli Iperborei (cfr. Pind. Pit. X 50 sgg. e SniiA di  Rodi appr. Tzetze Chil.). Non è dunque dubbio,  anzi tutto che l'avventura contro le Gorgoni si riconnette  pel sostrato naturalistico e con l'uccisione di Acrisie e  con quella del kìjtos (v. sotto) ; in secondo luogo che  quando in territorio jonico il mito di Perseo venne im-  portato e diffuso, il suo valore era ancor a sufficienza  noto e chiaro.   E da origine rintracciabile con probabilità derivano  anche i singoli elementi constitutivi della saga. Che  Atena avesse sul suo scudo il capo di Medusa non è  spunto vano: il suo valore di Dea nata dal cielo e in     (Ij Su le Gorgoni v. Roschee Gorgonen u. Verwandtes  (Leipzig 1879). Un recente lavoro (Berlin 1912) su lo  stesso tema non merita d'esser citato.   (2) Cfr. WiLAMOwiTZ Hom. TJnters. {= " Phil. Unt. Cfr. Knaack Hermes. Su  gl'Iperborei v. 0. Schròder " Archiv f. Religionswiss., A. KoETE ibid. X (1907) 152 sgg.;  Gruppe in Bubsian-Kroll ' Jahresb. particolar modo di Dea del temporale (Beloch Griech.  Gesch} I 1, 154) dà risalto a quello spunto, cosi che vi fa  trasparire un'antica antitesi fra Pallade e le tenebrose  Gorgoni. Antitesi invero che si serbò sempre, accanto  al mito di Perseo, se Eurip. Jone la ricorda e Apoll.  II 46 è costretto a farne menzione. E, ultima riprova  di un fatto già a bastanza palese, — anche quando alla  Dea si sottrae il merito della vittoria contro Medusa, a  lei sempre si attribuisce l'ausilio in favor di Perseo  (Ferec. fr. 26 e Apoll. ). Se non che il capo di  Medusa è pure su lo scudo di Agamennone in //. A Pensando alla natura prima di lui (Beloch Griech. Gesch.) si potrebbe supporre per lui un'antitesi con Medusa analoga a quella che è fra Atena e la stessa Me-  dusa. Ma bisogna rammentare che su lo scudo il capo  della Gorgone diventò ben presto un costante e diffuso  ornamento senz'altro motivo che di estetica e di tradizione. Dalla medesima Atena è desunta la y.vvi\ ond'è  coperto, e reso invisibile, Perseo: si trova di fatti men-  zionata per lei in //. E 845 ("^'^os KvvérJ. Di natura  diversa, e novellistica, sembrano in vece e i calzari alati  e la Kifiiacg e l'episodio delle Graje. Queste non sono  mostri analoghi alle Gorgoni bensì tipi esagerati della  vecchiaia, di cui la novella suol compiacersi; ma perché  un aspetto mostruoso è in loro innegabile, per ciò bene  [Esiodo] Teog. 270 sgg.; Esch. Promet.; Apoll.;  TzETZE a Licofr. 838. 846 fanno le une sorelle delle altre.  Accadde però che la parentela con le Gorgoni e la paternità di Forco traviasse i critici; che vollero in gran  numero ritener le Graje personaggi naturalistici (Rapp  in RoscHER Lex.). Ma bisognava prima pro-  vare (e la prova manca) che la parentela e la paternità  sono originarie nel mito, e non indotte dall'essersi nella  fiaba le tre Graje e le tre Gorgoni (di diversa origine) trovate vicine. Di fatti delle Graje la novella approfittò  per farne i personaggi di una pre-avventura, la quale  trova moltissime analogie, e le depositarie di alcuni ta-  lismani, che ritornano sotto mutati aspetti con frequenza  nelle fiabe.  Ufficio analogo (e analoga origine per conseguenza compete al suo intervento) esercita Ermes e la  falce di lui. Mentre però le Graje dovevano contrapporsi  a Perseo, come quelle che la notte ricinge, Ermes dove essergli propizio, come quello che quando si scontrò  con Perseo aveva caratteri di dio della luce esso pure  (Beloch Griech. Gesch. Mentre inoltre le Graje  nel cammino dell'eroe si trovano solo per motivi novel-  listici; Ermes si trovava in vece anche nella real sfera  della diffusione cui andò soggetto il culto di Perseo.   Riassumendo, dunque : l'episodio di Medusa nel mito  di Perseo pare concepito in territorio jonico; è, nel suo  fondamento, senza dubbio naturalistico; ma coi personaggi naturalistici (le Gorgoni, Atena, Ermes) si mischiano  gli elementi novellistici (le Graie, la Kt^iffig, i talari);  e tutto il contesto è per tal modo novellistico che anche  quei personaggi vi intervengono con offici proprii della  novella. V. Cefeo Fineo e Cassiepea. Gli elementi onde  è costituita la impresa di Perseo contro il x^roy sono  di natura e origine assai più incerta che quelli raccolti  intorno a Medusa. Tuttavia, anche a prescindere dalla  prima forma del racconto e a limitar l'indagine pur ai In quanto al valore originario di Ermes lascio qui  intatto il problema e solo rimando a E. Metek G. d. A.  IRicordo anche Roscher Heìines der Windgott (Leipzig) (cfr. l'art, nel Lex.); e Siecke Hermes  der Mondgott (Leipzig 1908) che determinò una polemica  appunto col Roscher. dati tardi delle genealogie e delle saghe secondarie, la  diffusione di Cefeo nell'Arcadia e nell'Acaja (v. sotto), la  constatata presenza di Fineo in quei luoghi (v. sotto), in-  ducono a cercar di preferenza nel Peloponneso il terri-  torio forse di formazione e probabilmente di diffusione  di quell'episodio mitico. Molto più deve dire un esame  delle figure singole. La lotta di Perseo contro il v,f}zog è, bisogna a pena  osservarlo, parallela per significato all'impresa avverso Medusa. Sarebbe quindi già a priori da attender  notizia intomo a un Nume che in quell'avventura compiesse gli uffici i quali nell'altra esercita Atena; e un cosi  fatto nume sarebbe anche, per pura indagine etimologica, da ravvisar in Andromeda , nel cui nome è non  dubbia la radicale di àvfjQ; se a conferma validissima  non ci fosse serbato un cratere (" Mon. d. Inst.;  KuNHERT) in cui Andromeda appare non legata,  vittima prossima del n^Tog e premio futuro all'eroico  liberatore, ma ritta presso l'eroe nell'atto di ajutarlo a  respinger la belva col lanciar sassi, che sono raccolti in  mucchio li presso. Ivi ella è senza dubbio queir " ajutatrice „ che la congettura avrebbe per sé supposta. Né  la comparativamente tarda età del vaso (VI sec.) deve  stupire: è ovvio che la stilizzata tradizione artistica dei  vasai deve aver serbato in anni posteriori, quando il  mito s'era al tutto tramutato, memoria della forma che  esso aveva pia anticamente assunta. Questa ipotesi  però intorno al primitivo racconto sul x^rof, se è tanto  evidente da indur meraviglia che il cratere possa esser  stato prima non cosi interpretato (Kuhnert o, c. 2020),  pone anche il problema su le cause del passaggio da  quello stadio mitico a quello ch'è in Ferecide. Ora è  chiaro che l'episodio di Medusa e quel del ìtijTog non  potevano, nella veste più arcaica, venir raccontati l'uno appresso all'altro senza che se ne dovesse notare, sùbito,  la simiglianza strettissima: quindi il bisogno di dissi-  milarli. Inoltre, a sodisfar quel bisogno giovava il facile  innesto su quella saga naturalistica di uno spunto no-  vellistico : la fanciulla cattiva e liberata, premio al prode  che la salva (si ricordino le epopee cavalleresche). — Se  non che alla medesima forma vetusta e primordiale dell'episodio non dovevano mancare gli Etiopi. Fu veduto  dianzi come le sedi loro nella concezione mitica li raccostassero ai mostri tenebrosi. E  tanto più qui il loro ricordo era importante in quanto,  mentre le Gorgoni richiamavano, sole, a sufficienza i  luoghi di lor sede, il nrjTog per sé non sarebbe stato indizio locale bastevole.   È cosi preparato il terreno a giudicar di Cefeo. Le  testimonianze intorno a lui (doricamente Cafeo) sono tali  da non permettere dubbi sul luogo ove il mito lo ha più  a fondo radicato. I testi fondamentali di Apoll.,  di Paus., di Apoll. R. Argoti., che tutti lo fanno figlio di Aleo, eponimo di Alea  in Arcadia, e re di Tegea; le monete di Tegea appunto,  in cui abbondanti volte ritorna (cfr. Deexlek in Roschee  Lex.: fissano in modo esplicito per l'età storica  la sede prevalente del suo essere mitico presso gli Arcadi. In particolare poi Paus. asserisce che  da Cafeo avrebbe preso nome la città arcadica di Cafìe. Il  problema, che non in questo caso solo si presenta  alla critica, — fra le attinenze reciproche de' due nomi  non può esser risolto fin che manchino notizie sul culto  di Cefeo, che solo risolverebbe la quistione col far deri- Cfr. Immerwahr Die Kulte u. Myihen Arkadiens; che mi sembra però superficiale.  vare alla città il nome dal Dio. Ma ad ogni modo quelle  attinenze non sono da negare. E queste notizie sono  non infirmate, ma consolidate da Licofkone Aless. ove Cefeo è àn:' ^QÀevov \ Avfii^£ re BovQaiotoiv ijyef*ù)v  OTQazov : perché nell'Acuja dobbiamo ravvisare uno dei  punti tòcchi dall' irradiarsi di lui fuor dell'Arcadia nel  restante Peloponneso. Analogamente Cefeo fu, fuor del-  l'Arcadia, introdotto nel mito spartano degli Ippocoontidi,  cacciati da Eracle, cui egli avrebbe recalo ajuto otte-  nendone in premio la perenne salvezza del suo dominio  in Tegea: saga, pare, a bastanza antica, se già Alcmane  fr. Bgk. {^axé ztg audcpevg [Kaq>evs Nelmann] àvda-  où)v) ne aveva sentore: cfr. inoltre Apoll. II 144, Stef.  Biz. s. v. Kacpvai. Ma se eifetto d'una più tosto tarda  irradiazione sono coteste attinenze fra Cefeo e l'Acaja,  fra Cefeo e Sparta, di gran lunga posteriore va ritenuto,  sembra, il trasporto di lui in Beozia: scoi. B a lliad.  B 498 QeaTCEiov zov Ki^q>ews ^ d-vyatéQe^ ^aav v' . 11  TiÌMPEL Kephcus presso Roscher Lex. II 1, 1113 esclude, senza peraltro addur motivi, che queste parole de-  rivino dal facile equivoco tra Cefeo e Cefiso, o da una  combinazione tra le 50 figlie di Tespio e 60 figli di  Cefeo ; e ne deduce, richiamandosi alle sue ipotesi su  Cassiepea, che in Beozia va cercata la sede prima di  Cefeo! Lasciando ora di discutere le asserzioni del Tumpel  su Cassiepea (v. sotto), va qui solo rilevato che non è  difficile chiarire la genesi, posto che equivoco di nome  non siavi, della notizia serbata in quello scolio. Le  genealogie (1) che esamineremo più tardi (v. sotto) uni-  scono Cefeo con Fenice e Cadmo, tebani e beoti per Queste genealogie sono studiate ampiamente, se  non acutamente, da A. W. Gomme " Jour. of Hell. Stud. „  XXXIII (1913) 53 sgg.  eccellenza: con Fenice e Cadmo, tardi quindi, Cefeo  dev'essere pertanto giunto in Beozia. — Tra queste no-  tizie, più meno tarde, che ci riportano all'Acaja a Sparta  alla Beozia, e quelle che ci richiamano all'Arcadia il cri-  terio per scegliere in modo decisivo non manca. 11 Cefeo  arcade è secondo Ellanico (fr. = scoi. Apoll. R. I 162  combinato col fr. senza numero = scoi. MTA a Eurip.  Fenice; contro l'opinione del Tumpel a. e.) figlio  di Posidone; e secondo Apoll.  fratello di Licurgo  (per contro di Licurgo è figlio presso Apoll.). Questi  dati genealogici, come ci vengono riferiti solo per il Cefeo  dell'Arcadia, cosi concordano del tutto e con il suo ca-  rattere di re degli Etiopi (v. sopra) e con la probabile  etimologia del suo nome. Di fatti sia che vi si voglia  riscontrare la radice kuF- sia che con gli antichi  gramatici lo si riconnetta con ncjcpóg (confr. x^go^f),  sempre vi traspare la natura d'una divinità ctonica e  tenebrosa: la quale in vero viene pensata o abitante  nelle oscure cavità che sono oltre la linea donde sorge  il sole, pure priva della voce. Se ne conclude che la  localizzazione di Cefeo in Arcadia dev'essere la più an-  tica, come quella con cui va tuttavia connesso il ricordo  di quell'essenza naturalistica di lui che mito e nome ri-  velano del pari. Mentre però il nesso fra Cefeo e gli  Etiopi risulta in tal modo se non primordiale certo an-  tichissimo, non si può dire altrettanto del nesso con Andromeda. In vero se questa è sul principio 1' " ajutatrice ,  di Perseo, solo quando, ed è, come si vide, assai per  tempo, l'avventura dell'eroe contro il xijvos  fu localizzata fra gli Etiopi, e solo a traverso questa localizzazione, pervenne a commettersi con Cefeo.  Perseo, Andromeda, Cefeo, gli Etiopi, il x^roj, erano  per tal modo sufficienti a costituire, per sé soli, la trama  di un episodio mitico; onde la presenza di Fineo e Gassiepea , per non sembrare un' intrusione superflua deve venir giustificata con l'indagare partitamente il valore di  quelle due figure. Quanto a Cassiepea, lo stesso nome rende non dubbio  che si tratta del tipo novellistico della " millantatrìce „  (cfr. TùMPEL in Roschek Lex.) che compete in  bellezza con le dee e ne è punita in sé o nella prole. I  luoghi per tanto dove vien fatto di rintracciarla non  hanno attinenza alcuna con la sua natura e solo ella vi  è indotta a traverso i miti in cui penetra. Cosi per esser  stata congiunta (miticamente e genealogicamente) con  Cefeo Fenice e Cadmo, viene sostituita a Memphis come  moglie di Epafo presso Igino Fav. 149 e, altrove (Esiodo  fr. Rz.), fatta discendere da Thronie, l'eponima d'un  luogo Thronion della Locride : cfr. scoi. D a, II. B.  Si sa difatti che con Epafo ed Egitto han nessi mitici  e genealogici Fenice e Cadmo ; e che con la Beozia (e  quindi con le regioni vicine) han nessi cultuali e geogra-  fici. Fu dunque abbagliato da localizzazioni, che son con-  seguenza d'una erudita elaborazione mitologica, il Tumpel  quando su la fede dei luoghi citati asserì Cassiepea esser  beota. Ma se la Millantatrice è  originariamente estranea a ogni luogo, essa anche con  Andromeda e Cefeo si deve esser connessa non per contiguità di luoghi ma a compimento della trama novelli-  stica che quelli comprendeva. Non è quindi dubbio che  la sua presenza accanto Andromeda risalga a quel mo-  mento in cui la figura di questa viene appunto novelli-  sticamente atteggiata nel tipo della vergine che un prode  libera da prossima morte (v. sopra). Allora di fatti diven-  tava necessario giustificare in qualche modo la cattività  della fanciulla; alla quale il vanto della Millantatrice,  potè divenire argomento sufficiente (contro Tumpel). E solo a traverso Andromeda si strinse il legame di lei con Cefeo e gli Etiopi. La riprova di questa ipotesi sta nel non potersi rintracciare nella sua figura e  in quella parte del mito ohe più le attiene alcun indizio  d'un'antica e diversa vita mitica. Quanto a Fineo, il Sittig in Fault- Wissowa R.-Encr . mette a sufficenza in luce il sostrato  naturalistico del mito, che è più propriamente suo, delle  Arpie di Elios e de' Boreadi; ciò è la lotta dei caldi  venti del Sud, che il Sole suscita apportatori di nuvole  e di danno, contro i venti del Nord, che insorgono a  respinger quelli e a difendere il nume cieco del bujo  settentrione. In questo sostrato però non si vede elemento  alcuno onde possa giustificarsi l'intervento di Fineo nel  mito di Andromeda, all'infuori del contrasto che è fra  la sua figura e l'eroe solare Perseo : contrasto che rendeva  anche dicevole la presenza sua fra gli Etiopi. Ma se  le sedi mitiche di Fineo si potevano cercare senza con-  traddizione cosi al nord come a l'estremo oriente o a  l'estremo occidente, la sede geografica di lui fu rintrac-  ciata sul Ponto quando divenne pei coloni Greci quello  l'estremo punto settentrionale conosciuto (cfr. le testimo-  nianze raccolte dalJESSEN sul Roscher Lex.).  Colà egli divenne l'eponimo della regione vicina e de' po-  poli : onde si commise con Fenice ritenuto l'eponimo dei  Fenici (Bkloch Griech. Gesch.) e con Egitto e Libia.  Di qui appare possibile anche l'ipotesi, contraddicente  quella cui si pervenne pur ora, che il nesso fra Fineo e  Perseo si sia stretto non per motivi di sostrato naturalistico  ma traverso Cefeo, considerato re e rappresentante degli  Etiopi in senso geografico.Senza dubbio però le tracce  che si riscontrano intorno a un Fineo Arcade (presso  Apoll. ove Fineo è figlio dell'arcade Licaone  e presso Servio a Verg, Eneid. Ili 209 ove è rex Ar-  cadiae) debbono ritenersi posteriori al nesso con Cefeo ANDROMEDA e determinate da questo. Né giova a sostegno del contrario addurre l'analogia fra le Stinfalidi e le Arpie ;  perché non è giusto che ci uniformiamo al sincretismo  de' mitografi Greci, onde più figure analoghe di numi  erano unificati in un solo aspetto leggendario ; ma dobbiamo, giusta i pili savi e moderni concetti critici, ritenere che in luoghi diversi esistessero divinità analoghe  parte simili parte dissimili, senza che la località dell'una possa illuminarci su quella, probabile, delle altre.  Restano ancóra da indagare le attinenze tra Fineo e  Cassiepea, prima che il problema critico si presenti in  tutta la sua complessità. A tale scopo è necessario ricostruire lo schema genealogico la cui esistenza sia presumibile presso Tepica esiodea. Il Tììmpel (negli articoli  citi del RoscHER Lex.) ha considerati divisi e distinti i due frr. di 'EìSiq-do {Rzach) 31  e 23. E ha pertanto ritenuto provata l'esistenza mitica  di due Cassiepee, secondo questi due schemi: I (fr.):   Tronie Ermes Arabo I  Cassiepea  (fr.): Agenore  Cassiepea ~ Fenice  I  Fineo Il testo SU cui si fonda è Strab: che per vero  egli interpreta male. Strabene sostiene che Erembi ed  Arabi sono nomi diversi d'uno stesso popolo: TteQÌ òì  Che han per fondamento, insieme con l'altro art.  del Lex., il voluminoso saggio dello stesso  TùMPEL in " Jahbb. Phil. , Supplbnd.  II concetto essenziale di questo saggio (che nella più  antica forma del mito la sede dell'episodio di Andromeda è Rodi) è stato, mi sembra a ragione, confu-  tato dal KuHNERT 0- e.CEFEO FINEO E CASSIEPEA TÒùv 'EQ£f*pò}v TtoÀÀà fièv s'iQrizai, 7if&avù)raT0t Sé elaiv  ol voui^ovreg zovg "A^afiag Àéyea&ai. Tuttavia nel verso  omerico Aid-iOTidg '&' ly,ófA,t]v koI Siòovlovg nal 'EQefi^ovg {S 84)   non ritiene dicevole il sostituire con Zenone "AQa^dg te :  perché, dice, non v'è corruttela di testo; v'è bensì  mutazione di nome dalla più antica all'età posteriore.  Omero difatti ricorda gli E r e m b i ; Esiodo in vece év  KaiaXóyqj conosce Arabo:   Kal xoijQ'ì]v 'Aqcì^oio ...KTé [fr.]. Bisogna dunque dedurre (slad^eiv) che già ai tempi di  Esiodo il nome di Arabia esistesse, e non esistesse an-  cora ai tempi di Omero (aarà tovg rJQcoag). Di questo  passo l'interpretazione non può essere, pare, che una :  Esiodo faceva fCassiepea] (1) figlia di Arabo, figlio a sua  volta di Tronie ed Ermes. Il Tììmpel in vece si lascia  fuorviare dalla menzione, che quivi è fatta brevemente,  degli Etiopi, e ritiene che per Strabene Arabia sia il  nome esiodeo d'Etiopia e che quindi la KovQri ^Aqu-  fioio sia la regina degli Etiopi moglie di Cefeo ; onde  integra il fr. cosi: Tronie Ermes Arabo   I  Cassiepea Cefeo  Andromeda.   Se non che nel luogo di Strabene gli Etiopi non costi- Il nome si supplisce da Scoi. Apoll. R. e  Anton. Lib. 40. tuiscono che un argomento a mo' di parentesi. \Ì7tò  yàQ xov elg zìjv ^Qav é/*fiaìvetv toòg 'EQe/*fiovg èzv(ji,oÀo-  yovat, oUvcùg ol tioààoI, ofig fieraÀafióvzeg ol dareQov ènl  TÒ aacpéateQOv TQtùyÀoóviag éndÀeaav ' oìtoi Sé (ol  'E Q e fi fio i) e la IV ^A Qd fi wv olèTcl&dzegov fié-  Qog Tov 'Agafilov kóÀtiov kskÀ i fiévo i , tò TiQÒg  AlyÙ7tx(fi v.a\ AI& ton la. E, continua, per tal  motivo appunto questi Erembi son ricordati da Omero:  in causa, ciò è, della lor vicinanza con gli Etiopi, citati  nel verso medesimo : to-ùtoìv (twv 'E^efifi&v) eluòg fie-  fivìja&ai TÒv TioifjTÌjv xal TiQÒg vovTOvg à(pl%d-aL Xéyeiv  TÒv MevéXaov, xad' hv tqótiov sÌQrjxai, xal TtQÒg zovg  Ald'loTiag' zfj yÙQ Orjfiatdt nal odzoi TtÀTjaid^ovoi. E pa-  rimenti {ó/A.ol(og) son rammentati tov fn^aovg zi^g àTioòrj-  filag (xdQLv) y,al zov èvòó^ov. Come si vede, gli Etiopi  servono a dare un'idea della positura geografica degli  Erembi {^QÒg) e a fornire un motivo dell'averli Omero  ricordati insieme. Ma si è ben lungi da una qual si voglia  identificazione " Erembi = Etiopi „ ! L'unico dato posi-  tivo adunque che dal luogo cit. di Strab. si ricava è la  discendenza di Cassiepea da Arabo. — La qual notizia  spiega un'altra, poco appresso (I 43), da cui è a sua volta  integrata. " Vi sono alcuni ot xal ttjv Al&ioniav elg  TÌjv Kad"' ^f*àg ^otvlTirjv fA.Ezdyovai, nal za nsQÌ ztjv 'Av~  ÒQOftéSav èv 'lÓTZì] avfifiy\val (paai ' oi> ór'jnov xar' ay-  voiav Tonimjv aal zovzcùv Àeyofiévcov, àÀÀ^ èv ^v&ov  fiàÀÀov a^'^fiazi " xad-dyie^ tial zwv Jiaq 'HaióSq) aul  zoìg aÀÀoig à 7tQ0(péQei ó ' AnoXXóòoìQog ... „ Vi erano  adunque alcuni (1) che fondandosi su Esiodo portavano gli Cfr. Ps.-SciL. GGM. I 79, Stef. Biz. s. v. 'Unti, Eust.  Cotnm. in GGM. II 375- Di questa localizzazione fenicia  del mito non mi sono occupato, che ritengo essa possa  e debba studiarsi e spiegarsi del tutto a parte. Etiopi fra i F enici. L'ipotesi pili semplice chespieghi  questo fatto è che in Esiodo era moglie di Fenice  (fr. 31 Rz.) quella Cassiopea che nel mito di Andromeda  è regina degli Etiopi. Non è quindi in nessun modo  lecito dedurre che in Esiodo la figlia di Arabo avesse  ad essere moglie di Cefeo : né si vede a che condurrebbe,  COSI fatta interpretazione, se non a confonder il testo  altrimenti chiaro. Concludendo, da Strabene, ben letto;  può risultar soltanto: che Cassiopea era figlia di Arabo  in Esiodo ; 2) che era moglie di Fenice. E quindi per-  messo unificare i fr. 23 e 31 Rz.' e costruire il seguente  schema esiodeo:   I-f II (fr. 23 + 31): Tronie - Ermes   I Agenore   Arabo j   I I   Cassiepea - Fenice   I  Fineo.   Nel quale schema, analizzando si ravvisano svibito ele-  menti secondari quali Arabo ed Agenore, ed elementi  principali raccolti nei due nessi Cassiepea-Fineo e Fenice-Fineo. Quest'ultimo è senza alcun dubbio da  spiegarsi al modo medesimo del nesso Arabo-Fenice, Fenice-Egitto; come, ciò è, un avvicinamento di numi  eroi creduti eponimi o rappresentanti di popoli stranieri. Ma il primo di quei nessi non può legittimarsi  se non pensando a possibili analogie mitiche tra Fineo  e Cassiepea (poiché l'ipotesi d'un legame casuale non  servirebbe che ove tutte le altre non fosser riuscibili). E  difatti un'affinità si vede sùbito tra le due figure invise  agli dèi e dagli dèi punite : l'una come millantatrice;  l'altra come dio tenebroso vinto dal Sole. Di più poi per-  mette di discernere l'esame dei motivi dalla tradizione addotti a spiegar la pena di Fineo. Tre sono : Fineo  avrebbe preferito una lunga vita alla vista , offendendo  Elios (Esiodo fr. 52 Rz^.); Fineo avrebbe additato la via  a Frisso; Fineo avrebbe ajutato nel viaggio fra le  Simplégadi gli Argonauti (Apollod. 1 124; Apoll. R. Il). Ora è ovvio che il terzo motivo è ricalcato sul secondo, e molto tardo ; che il secondo è posteriore alla  localizzazione di Fineo sul Ponto, e quindi recente ; che  il primo è il piìi antico. Ma del pari è ovvio che di  questo motivo si dove cominciar a sentir bisogno quando  il sostrato naturalistico delle Arpie e di Fineo andò  inavvertito ; giacché prima era sufBciente a tutto  legittimare la natura di lui e quella di Elios. Non è  pertanto improbabile che in quell'età comparativamente  non antica in cui si ebbero a cercar gli spunii novelli-  stici a fin di motivare l'antitesi tra Fineo e la luce, come  piacque l'aneddoto dell'offesa al prezioso dono del ve-  dere, COSI piacesse (e forse per una pena analoga ma di-  versa) l'aneddoto del vanto di Cassiepea punito nel figlio,  Dell'invenzione unica traccia ci rimarrebbe la genealogia  esiodea. In somma, può darsi sia che Cassiepea e Fineo si  connettessero primamente per i motivi or ora supposti,  sia che si connettessero poi, traverso Fenice, al par del  quale Fineo era considerato eponimo di popoli stranieri.  Riassumendo ora in breve i risultati delle singole in-  dagini, veniamo a importanti ipotesi:  Cassiepea offre al mito di Perseo -Cefeo -  Andromeda (Etiopi) , uno spunto, ed entra in quella trama;   Fineo si unisce a Cassiepea per lo spunto no- L'ipotesi è del mio maestro SANCTIS (si veda); la responsabilità dell'argomentazione è mia. vellistico che trova in questa la causa della pena di quello;  o, in linea secondaria, col marito di Cassiepea (Fenice), come rappresentante di genti straniere;   Fineo si unisce a Perseo come nume del bujo  ad eroe solare; o, in linea secondaria, a Cefeo come  rappresentante di genti straniere. Di questo triplice rapporto rimangono le tracce sensibili : a) nel racconto ferecideo del mito di Perseo;  V nella genealogia esiodea di Fineo; e) in Ferecide e  specie nel duello tra Perseo e Fineo. Se non che questa è una matassa confusa di cui bisogna sceverare le fila conduttrici. Un gruppo a sé, e  d'importanza minore, è costituito dalle attinenze a sostrato  etnico-geografico (tra Fineo e Fenice; Fineo e Cefeo)  la loro natura evidentemente tarda è tale, che ove accanto a una di esse se ne possa ravvisare un'altra a sostrato naturalistico o novellistico, a questa è da dar la  preferenza su quella, in via d'ipotesi. Un secondo gruppo  è costituito da questo racconto, coerente e conchiuso:  Cassiepea si vanta e la divinità offesa la punisce nel figlio  Fineo (h); questi è condannato a venir superato in duello  da Perseo. Un terzo gruppo infine è costituito da  quest'altro racconto, esso pure coerente e conchiuso;  Cassiepea si vanta; la figlia Andromeda ne è punita 5  Perseo libera la fanciulla (a). Di questi gruppi il terzo  è testimoniato in Ferecide (= Apollodoro) ; il pili ipotetico è il secondo : esso suppone in vero e una variante  su la causa della pena di Fineo, e una variante su questa pena medesima : vale a dire tutto un  mito parallelo a quel dell'Arpie. Ma come l'esistenza di  coteste varianti non è affatto improbabile nella ricchezza  di produzione mitica originaria, cosi esso gruppo spiega  molto bene, e insieme, tanto la discendenza esiodea di  Fineo da Cassiepea quanto il duello tra Perseo e Fineo;  F., Kalypso. discendenza e duello che si potrebber bensì giustificare  pensando per l'una a un errore di genealogia, per l'altro  a una tarda aggiunta novellistica; con due ipotesi però  che non ci saprebbero render ragione né della singolarità  per cui l'errore sopravviene appunto tra due nomi che  uno spunto mitico può ottimamente congiungere, né  della preferenza data a Fineo su ogni altro per farne il  protagonista dello spunto novellistico. Poiché invece  l'equivoco si può ammettere solo ove sieno confusi elementi tra sé inconciliabili e discrepanti; e la preferenza  casuale si può concedere solo quando la preferenza logica sia impossibile; dobbiam conchiudere che l'ipotesi  nostra, pur non pretendendo di rispondere con esat-  tezza alla verità né di essere perentoria, spiega almeno nel modo che pare pili semplice tutte le testimonianze che sono a noi conosciute. E, ultimo vantaggio,  non piccolo, ci fa intendere come il secondo gruppo e il  terzo, in entrambi i quali eran Cassiepea e Perseo, si  fondessero, trasformandosi accanto ad Andromeda la  figura di Fineo, in un racconto unico, in cui Cassiepea  si vanta, la figlia di Andromeda ne è punita e Perseo  la libera col tradimento di Fineo che è ucciso da  Perseo. Dopo le quali conclusioni, non resta che da determinar  conpid esattezza il valore di alcuni trai personaggi secondari cui la genealogia collega con Cefeo Cassiepea Fineo  e Perseo. L'Egitto e la Libia son già noti all'epopea omerica: Il; Od.; e sono trasparentissimi  simboli di quelle regioni i personaggi delle genealogie.  Ma più oscura è la essenza di Agenore (cfr. Stoll in  RoscHEK Lex). Se si prescinde da II. A 467  A 59 M 93 S'425 545-90 ove appare un Agenore figlio  del trojano Antenore, con una non dubbia consistenza  eroica, tutte l'altre testimonianze come son tarde cosi ci dan una scialba imagine di cotesta persona, senza  attinenze chiare con miti, con alcuni dei quali a mala  pena si collega per nessi insignificanti e punto caratteristici. Tranne la notizia ([Plut.] de fltiv.) singolare  di un Agenore padre di Sipilo, la quale potrebbe ricon-  nettersi con l'epopea in qualche modo, i testi su un  Agenore argivo (Pads.; Apoll.; Igino  Fav.; Ellan. app. scoi. A II. F) o un Agenore avo  di Patreo eponimo di Patre in Acaia (Pads.) un Agenore figlio di Fegeo re di Psofide in Arcadia (Apollod.) un Agenore etolico figlio di  Pleurone, genero di Calidone, zio di Meleagro (Apoll.   1 58 cfr. Igino fav.), se rendono non dubbia una  larga diffusione di quel nome, non son tuttavia sufficienti  a orientar con certezza sul centro onde quella ebbe a  prender inizio. Poiché non può esser qui da discutere  l'Agenore etolico, il problema consiste nel decidere se il   peloponnesiaco siasi introdotto nella genealogia di Cefeo  e Fenice per motivi di contiguità geografica con il primo  d'essi e con Danao ; oppure se la presenza sporadica del  nome di lui negli schemi del Peloponneso sia posteriore  al nesso con Cefeo e con Danao. Ora, tenuto conto del-  l'esser la genealogia di Cefeo e Fineo contesta o sopra  fondamento naturalistico-novellistico o sopra base etnico-  geografica, sembra da preferirsi la congettura che in  quest'ultimo caso rientri anche Agenore, in qualità di  rappresentante dei popoli che abitavano la Troade,  grossolanamente limitrofi di quei del Ponto, cui Fineo  simboleggia : congettura che è confortata dal nesso di  Agenore con le genealogie ove appajono Cadmo e Fenice  (cfr. DuMMLER in Pauly-Wissowa R.-Encl.). L'indagine laboriosa che ora finisce conferma, secondo  a noi pare, quel che affermammo nell'inizio. ANDROMEDA Il personaggio fondamentale di questo episodio mitico,  Cefeo, è peloponnesiaco; l'altro personaggio che come  Cefeo ha valore naturalistico, Fineo, nel Peloponneso si  diiFon,de: dunque il Peloponneso è l'area dove s'informa  il mito, se pure non è quella ove si crea. Fuori da quel-  l'area, come fuori da ogni altra stanno, o possono stare.  Cassiopea "millantatrice,, e Andromeda, "maschia „ prima,  in seguito vittima del n^rog: personaggi novellistici  della fiaba. Per quale intreccio di casi e d'influssi poi  la trama cosi si serrasse e cosi si connettessero quelle  quattro figure tentammo di concepire, per ipotesi ; ma il  risultato rimane , è d'uopo convenirne, opinabile. Tale,  credemmo tuttavia di manifestarlo e sostenerlo : sia perché  ci parve tesi rispondente, meglio dell'altre fin qui difese,  a quei criteri! su la mitopeja che riteniamo validi; sia  perché ci parve tesi, se non di per sé probabile, molto  possibile al meno, e dalla probabilità certo non lontana. I miti etimologici presso Erodoto ed Ellanico (frr.). Che il nome di Perseo  sia stato a bastanza presto collegato con i Persiani, non  può far meraviglia ad alcuno. Importa solo precisare i  particolari di quel collegamento. A tale scopo si confronti  anzi tutto Erodoto:  'EKaÀéovTO óè ndÀai (1)  ÒJiò [*hv 'EÀÀ^viàv Krjip^veg, vtiò fiévroi. aq>é(Ov atx&v  nal Tù)v 7t£(iioìxù)v ^ AQtaloi. 'Enel oh HeQaevg ó Aavdt^g  Te Kai A log ànineio na^à K'^ifpéa xòv Bì^àov, nal è'aj^e  aitov Tì]v d-vyatéQa ^AvS^OfieS'Tjv, ylverai aUt^ nalg r^  oi!vo/A^a ed'ETO TléQarjVj tovtov óè airov y^avaÀsCnei ' èvóy-  ^ave yÙQ ànaig èòv ò Kt]<pEvg egaevog yóvov. "Eni zovvov  oh TÌ^v éTitovvfiirjv ea^ov : con Ellanico fr. 159: 'Aliala,  Sogg.: i Persiani I MITI ETIMOLOGICI PBESSO ERODOTO ED ELLANICO  Ile^aixìj %(JiQO; tiv ènóÀiae Heoaei's, ó Ilegaécag koI ^Av-  ÓQOf*édag [= Stef. Biz. 'AQTala). Le due notizie concor-  dano nel rieonnettere il nome Persiani a un Perse {Usq-'  aevg presso Ellanico è svista) e nel ricordar di quel  popolo un nome anteriore " Artei ,. Questa è forma che  ritorna in nomi persiani frequentemente : tali, Artabazo,  Artaferne, ecc. (cfr. E. Meyee G. d. A.^ l 2, 900. 924.  929) : quindi non v'ha alcuna difficoltà critica a spiegar  la presenza di questo nome nel mito. Ma Erodoto ci dà  di pili un nome di " Cefeni: con cui gli Artei (= Persiani) sarebbero stati noti presso i Greci: in cui però  non è né pur difficile riconoscer l'invenzione erudita év  ax^fiavi fiv&ov. Popolo di Cefeo sono da principio gli Etiopi ; quando però Perseo e Per-  siani furono avvicinati dalla leggenda, si era già troppo  localizzata geograficamente 1' " Etiopia „ a sud dell'Egitto  perché fosse possibile un'equazione fra Etiopi e Persiani.  Bisognava pertanto, a designar i sudditi di Cefeo, usare  un termine diverso : e da Cefeo si derivò * Cefeni „.  Questi, secondo logica, avrebber dovuto equivalere agli  Etiopi: e tale concetto ritroviam difatti presso Stef.  Biz. Aifivrj (Aid'iOTiCa = Kri^pTivli]) e '/otti; (cfr. inoltre  FHG. m 25, 4 e GGM); in realtà però furon  concepiti come diversi, cosi che la saga la quale loca-  lizzava in Etiopia o in Fenicia l'episodio di Andromeda  non parla di Cefeni, mentre l'altra che l'episodio loca-  lizza fra i Persiani non parla di Etiopi. Solo più tardi  (a e. presso Ovidio), perdutasi coscienza del vario con-  tenuto de' due termini, entrambi si usano indifferentemente. (Sui Cefeni v. Tùupel in Roschkr Lex.,  ov'é il materiale, ma non si trova alcun'ipotesi accettabile). Va pertanto ritenuto che Cefeni eran detti i Per-  siani dai mitografi, dopo che Perseo s'era fra essi per  mito etimologico insediato; e che quel nome non ha quindi alcuna analogia con l'altro , di ben diverso valore, Artei.   Parallelo al fr. 159 è il 160 di Ellanico : (= Stef. Biz.  XaÀóaìoi) XaÀóaìoi ol n^órsQov Krjcp^veg ... Krjcpéoìg oi-  nért ^òìVTog, (Xigaievadifievoi ex Ba^vÀòjvog, àvéatt^aav én  zrfg xwQag. y,al tìjv *XoyT]v sa^ov. Oiy.éti ^ X^QV Ki^cpìjvit]  TiaÀserai, oòS" àvd-qoìnoi ol èvoiy.ovvTsg Kijq>rjv£g, àÀÀà  XaÀSaloi. Il soggetto di àvéoTrjaav qual è? Dev'essere  XaÀòaìoi. Noi sappiamo che esistevan dei Caldei sul Ponto  (cfr. Baumstark in Pauly-Wissowa R-E.). L'omonimia con i Semiti di Babilonia non poteva non  indurre gli eruditi antichi a connetter, senza alcun altro  fondamento che verbale, i due popoli lontanissimi. E,  come quei di Babilonia eran di gran lunga più noti, da  questi si fecero derivare gli abitanti sul Ponto. Se non  che tutti i popoli (Tini Mariandini Paflagoni ecc.) che fino  alla Colchide occupavano le rive di quel mare erano  da alcuni supposti sotto il dominio di Fineo (cfr. Jessen  in RoscHER Lex.); e da Fineo rappresentati.  Se dunque i Caldei del Ponto venivan dal sud (Babilonia)  e se quindi alla regione ch'essi migrando occuparono  conveniva dare un anteriore nome ; questo si poteva sce-  gliere dal mito di Fineo. Nel mito, Fineo è fratello di  Cefeo: tra i Cefeni, adunque. Ed ecco che Cefenia e Cefeni vennero assunti a nomi pristini della regione e del  popolo su cui si sarebbero insediati poi, fuor da Babilonia, i Caldei. I frammenti dell'Andromeda di Euripide. Su i framm. che di questa tragedia euripidea  ci son pervenuti e che si trovan raccolti presso Nauck  Su questo punto sono insufficienti cosi il cemento  dello Stein come quello del Macan a Erodoto.  FTG}. furon tentate piti di una volta ricostru-  zioni della tragedia : cfr. Matthiae Eurip. fragm.,  Wklckek Die Griechische Tragedie,  Hartcng Eurip. restitutus, Wagner  fragni. Eurip., Fr. Fedde De Perseo et  Andromeda (diss.), P. Johne Die Andromeda  des Euripidea in Elfter Jahresbericht des K. K. Staats-  Obergymnasiums zu Landskron in Bòhmen,  Wernicke Andromeda in Fault- Wissowa R-E.^ I 2156 sgg.,  E. Kuhxert Perseus in Roscher Lex.,  Wecklein in Sitz.-Ber. d. K. Bayr. Akad. d. Wiss.  H.-Phil. Kl., Mùller Die  Andromeda des Euripides in '' Philologus (N. F.).   Di tutte le trattazioni citate scopo è ricostruire la tra-  gedia frammentaria per modo che ne riescan fissati i  singoli episodi nel loro succedersi, la struttura complessiva nel suo organamento tecnico e scenico, le parti dei  varii personaggi. Ma appunto perché tale è il loro fine,  né pur una fra esse riesce a liberarsi da una duplice  inevitabile contraddizione. Anzi tutto mentre è pacifico  oramai che Euripide si deve essere pili o men libera-  mente allontanato dallo schema mitico tradizionale qual  è riprodotto in Ferecide e che deve aver più o men pro-  fondamente rielaborato non pur la trama tutta si anche  le diverse figure, per contro si tende da tutti a far coin-  cidere quanto più e meglio è possibile i frammenti con  il racconto ferecideo, ripugnandosi ad ammettere nei par-  ticolari quella libertà che in generale si concede al poeta Pel rapporto coi vasi dipinti, cfr.  Hcddilston  Greek Trag. in the tight of vases painting (London); con le antichità sceniche, Engelmann Arch. Stud.  zu den Trag. (Berlin tragico. Inoltre laddove riesce a chi che sia impossibile  dar ai ditferenti attori del dramma un contenuto il qual  non derivi dallo studio dei frammenti, i frammenti ap-  punto si distribuiscono poi tra gli attori in armonia a  quel contenuto che in questi avevan fatto pensare essi  medesimi.   Uscire da questi circoli viziosi, che sono i fondamentali e in cui altri minori si assommano, non si può,  io credo, se non ponendo alla ricerca un altro scopo: il  raggruppare i frammenti intorno a ciascuno dei motivi  e degli spunti di sentimento e di pensiero onde la tragedia doveva vibrare e onde sembra vibrasse dai pochi  suoi avanzi. Non resta dunque che interpretare e scernere.   I framm. debbono venir lasciati in disparte  per l'ambiguità della loro interpretazione: giacché se b  innegabile che in essi è asserita la instabilità delle umane  vicende e l'incostanza della fortuna, non è men vero che  tale asserzione può colorire assai bene , cosi l'angoscia  di Andromeda offerta preda al x^zog , come l'ansia di  Perseo, cui Cefeo neghi la figlia in isposa, o Fineo tenda  insidia sùbito dopo l'esultanza pel trionfo. Del pari il 151  si conviene tanto a un discorso di ammonimento rivolto  a Cefeo o a Fineo per distoglierli dall'ó^a^rm; quanto  a uno indirizzato a Cassiepea, il cui vanto deve scontar  la figlia. I framm. in vece lasciano trasparire  una situazione di fatto piena di forza tragica, ma non  tale da permetterci di dedurne conseguenze sul resto del  dramma: debbono pertanto essi pure venire, al nostro  scopo, omessi. E quasi lo stesso è da ripetersi per i frammenti, che tanto svelano in parte l'azione quanto  8on vuoti di contrasto passionale.   n primo gruppo che attira la nostra attenzione è quello. Perseo giunge volando traverso l'aria a una terra di barbari; scorge sùbito, su la riva del mare,  TteQÙQQVTOv à(pQ(p &aÀd(jat]g, una vergine, nag^évov eixo)  riva, Andromeda. I versi che seguono non  possono non appartenere, com'è concorde giudizio, a un  colloquio fra Perseo e Andromeda. Ora sembra chiaro  che tra la situazione 124-125 e il colloquio 126-32 dev'es-  sere troppo stretta attinenza perché sia possibile pen-  sare tra l'una e l'altro un abboccamento tra Perseo e  Cefeo. Il quale è pertanto da escludere prima del col-  loquio tra il giovine e la fanciulla. Del colloquio, ora,  attirano lo sguardo due frammenti specialmente. Nel primo Perseo chiede ad Andromeda qual compenso egli potrà avere dopo la sua vittoria contro la  belva {eiofj ftoi ;ifa()tv/): e avere da lei. Nel secondo An-  dromeda si offre, ed è questo da ritener il compenso,  — ette riQÓaitoÀov &éÀeig \ elY aÀoy^ov ehe óf^coió'... Da  entrambi risulta chiarissima, sgombra d'ogni possibile  dubbio, l'intuizione artistica di Euripide: per cui da un  lato Perseo chiedendo, in garbato modo, l'amore di An-  dromeda mostra di ritenere ch'ella gli si possa concedere;  dall'altro lato la fanciulla promettendosi mostra di rite-  nersi libera nel disporre della propria persona. Onde,  confrontando questi incontrovertibili risultati con Apoll.  (= Febecide, V. § 1) II 44 (TavTTiV ["AvÓQOftéSav] d'ea-  aduevog ó HeQaevg Kal égaad'elg, àvai^i^asiv vnéa'x^szo  Krjq>st TÒ y.fjTog, el ^ékXei aùì&etaav adtrjv aiz(p ó(óasiv  yvvatxa) appare, in tutta la sua profondità, la discre-  panza tra le due forme del mito: la Euripidea, in cui  il patto si stringe tra i due giovini; la Ferecidea, per  la quale le nozze si promettono da Cefeo e su Cefeo  grava l'importanza della deliberazione. Per conseguenza  bisogna conchiudere che : o come non prima cosi non  dopo il colloquio tra i due giovini, avesse luogo l'abboccamento tra Perseo e Cefeo; o pure, avvenendo, avesse esso tutt'altra importanza che presso Ferecide ed Apollodoro, tutt'altro contenuto, forma diversa. Né si obietti  che la tradizione posteriore è concorde nel serbar quell'abboccamento e nel serbarlo com'è presso Ferecide ;  poiché tal fatto deve, di fronte alla logica argomentazione svolta or ora, indurre pili tosto ad affermare la  genialità innovatrice di Euripide non esser stata imitata  che a negar fede a conseguenze logiche di premesse certe.  Un secondo grappo che dev'essere studiato nel suo insieme è costituito dai framm. Essi si dividono sùbito in due serie, contrappo-  nendosi l'una all'altra. La prima è un vanto del valore, degl'ideali, della nobiltà spirituale,  di tutto che s'origina per un ardimentoso slancio del-  l'animo {d'Qccaog Tov vov) : il fr. 134 e il 149 in partico-  lare esaltano la fama conseguita con fatiche (svKÀeiav  eXa^ov oèn avev noXXòiv nóvcav) e con rigoglio di gio-  vinezza {veózrjg fi' èjiTlQe..); il 137 e 138 contrappongono  alle ricchezze un nobile amore {yevvalov Xé^og ... éa&ÀòJv  èQù}fiév(ùv) ; il 143 afferma il denaro insufficiente alla  felicità. La seconda serie in vece è tutta una dichiara-  zione di preferenza del denaro a ogni altro bene : il po-  vero non solo soffre ma teme di continuo il futuro, che  non gli rechi dolore pili grave del presente (135"); il ricco  anche se schiavo è stimato (taì dovÀog S)v yÙQ tC/Mog  tiXovtGìv àvfiQ 142^ 2) laddove il libero bisognoso otòhv  ad'évei: onde di tutta la serie può esser conchiusione il  verso ultimo del fr. 142 : XQvaov vófii^s aavzòv e^vex'  eìtvxeIv. Fra queste due serie può trovar posto anche  il fr. 154 : ove però venga letto non nella forma in cui  lo dà il Nadck 404, che è inintellegibile, ma nell'emen-  dazione del Hkrwekden Exerc. crii. 35 tò ^ijv àcpévza ae  Kazà yijs r£/*d)ff' l'awg ; e del MnsGBAVE nsvóv y' ' 5vav  yàQ ^fl tig sÌTvx£tv XQ^^^- Cosi letto di fatti esso as-  I FBAMME^TI DELL’ANDROMEDA , DI EURIPIDE 3omma bene in sé il contrasto delle due serie opposte  che furono esaminate : tra l'idealismo che non trascura  la fama la quale dopo morte conforta l'egregie opere ;  e il materialismo gretto che nella vita vuole il godi-  mento e aborre dal morire e non scorge più oltre. —  Ora, se si può questionare, ove si voglia, su l'attribu-  zione di tutti cotesti framm. ai singoli personaggi, non  può in vece dubitarsi su la realtà del contrasto passio-  nale che abbiamo delineato. Su questa certezza si deve  dunque, a mio avviso, costruire una parte della trama  del dramma ; tralasciando del tutto il litigio su quei punti  troppo mal sicuri e fors'anche inutili.  Terzo spunto ci è offerto il fr. 141 :   èyò) Ss TiaìSag oiy. écj vó&ovg ÀaiSetv'  Tù)V yvrjaiitìv yÙQ oiòèv òvieg èvòeelg  vófKp voaovai ' S ae (pvXd^aad-at, yQE<hv.   Del quale due interpretazioni sono filologicamente pos-  sibili: 1. non voglio che tu Andromeda prenda (= sposi)  de' figli illegittimi „ ; 2. non voglio che tu Andromeda  prenda (= generi) de' figli illegittimi ,. Wecklein sembra preferire questa seconda; il Kdhnert 1999 dom-  maticamente e non senza ironia la respinge, e si attiene  alla prima. Anzi tutto però si osservi ch'è fuor di luogo  avvicinare al fr. il verso 11 del V delle Metam. di  Ovidio:  Nec mihi te pennae, nec falsum versus in aurum  Juppiter eripiet. Giacché in questo v'è un'allusione bensì alla paternità  divina di Perseo ; ma non cosi fatta da equivalere a un  biasimo [vód'og), biasimo che nel fr. è, comunque inteso  e a chi che sia riferito, indubbio ed esplicito: v' è più  I. - ANDROMEDA  tosto un'offesa al Dio che generò Perseo e che Fineo  sfida ; v'è, in somma, un riconoscimento a bastanza lusin-  ghiero dell'origine nobilissima onde si vanta l'eroe. Se  il ravvicinamento fatto non vale, per decidere tra le due  possibili interpretazioni non restano che due vie: il porre  il fr. nell'insieme del dramma e del mito ; l'inquadrarlo  nelle condizioni sociali di Atene. Ora il fr. insiste esplicitamente sul vó[A,og in forza del  quale i vó&oi hanno a soffrire : non una consuetudine  simile, bensì una legge. Non solo. Tal legge san-  cisce l'inferiorità dei vód'OL in confronto con i Tialòeg  yvi'jffioi. È applicabile a Perseo questa sanzione ? al figlio  di Zeus che torna a Serifo e poi ad Argo trionfante, per  regnarvi, senza fratelli, rampollo unico di sua stirpe dopo  la cacciata di Preto ? Certo che no. È applicabile in vece  ai figli di Perseo e di Andromeda? Se si ricorda che  una legge di Pericle nel 451 (De Sanctis 'At&lg'^) pone i figli di una straniera (Andro-  meda è etiopica) nella condizione di vó&oi; se si ram-  menta che tal legge periclea ne amplia una soloniana,  ch'era il riconoscimento giuridico d'una consuetudine di  cui già in I 202 è traccia e che valse anche e sovra  tutto pei re; si deve rispondere che si: che cioè i nati  a Perseo da Andromeda, avrebbero nel diritto ateniese  potuto trovarsi e come uomini e come principi in condizioni inferiori a petto di altri eventuali nalòeg yvfjatoi,.  Né si dubiti che la legge di Pericle non avesse più tutto  il suo vigore. Tutt'altro : nel 414 Aristofane fa-  ceva rappresentare gli Uccelli ove al v. 1660 si richiama  il decreto di Solone a proposito a punto di Eracle ìóv ye  ^évrjg yvvaiKÓs:   HPA. èyòì vód-og ; tu Àéyeig; IIEI. ah fiévroi vrj Ala,  &v ye iévrjg ywamóg    I FKAMMENTI DELL' " ANDROMEDA „ DI EURIPIDE HPA. Ti S\ ìjv ó TtaiìiQ èfwl óió(p xh yqii^axa,   vód-cp ^ ^ano&vfjayiùìv ; IIEI. ó vóf.iog adròv oìk éà,  odvog ó Iloasióctìv TtQtÒTog, bg èTiaÌQet, ae vvv,  àvd-é^eiaC aov tùìv Tcar^ipcov ')(^Qì]j.vàxùìv  q)d(jno)v àóeÀcpòg atvòg elvai yviqaiog.  èQòJ Se Sì] Kul TÒv 2óÀù)vóg aoi vófA,ov ' ktÀ.   Non è quindi da dubitarsi che Euripide poteva senza  esser frainteso dagli uditori alludere alla legge ateniese  sui figli di straniera. D'altra parte non mancano ragioni per ritenere che a quella legge egli doveva alludere più  tosto che all'altra su i vó&oi nel senso più largo. Questa  di fatti era troppo normale e ovvia e antica perché potesse più meritar l'accenno del poeta turbato da' problemi sociali; quella per contro era e singolare e nociva agli  interessi di molti e alquanto recente. Qui era il ndd'og;  là no.   Riassumendo, gli unici contrasti di passione che dai  framm. risaltano con certezza sono: l'amore di Andromeda e Perseo nella sua prepotente e individualistica  libertà; l'urto fra l'idealismo e la grettezza materialistica ; il rincalzo che la quistione giuridica e sociale  dà a quell'urto in favore della grettezza pratica e contro  lo slancio spirituale. I problemi minori: se Fineo sia  parte, e qual parte, del dramma; come differiscano fra  loro Cefeo e Cassiepea: posson risolversi, ma con congetture esti-emamente mal certe.  Una quarta, e ultima^ linea del quadro ci dà [Eratostene] nei suoi Catasterismi: il contrasto fra l'affetto figliale  e l'amore in Andromeda (cfr. [Eratost.] Catast. 'Av-  dQOfiéSa).   Ora, se si tengon presenti i conflitti cosi delineati,  non potrà cader dubbio sul momento cui compete il  fr., che solo, io credo, merita di venir assegnato al-  l'uno più tosto che all'altro punto della tragedia: ai) 6' (ó d'eiàv TVQavvE yiàv&QÓiTiaiv "K^cog,   fA.ri dldaarKe za xaÀà (paCvead'ai HaÀd, ^ TOÌg ègùaiv Eizvji^ùg avvenTtóvei  f^ox'd'ovai fióx&ovg &v ah óijfiiovQyòg et.  Kal vavza f*èv ÒQcJv ri/iiog d'vr^TOÌg (1) ?atj,  [lì] Sqwv ò' vk aizov tov óiSdaxea&ai (piÀelv  àq)aiQs&tjafi ydQttag alg rifiùai ae.   In genere il fr. si attribuisce a Perseo, prima del com-  battimento col K^Tog: cfr. Fedde 31, Johne 12, Wecklein  97, Moller 61 e n. 61. I quali intendono i iA,ó%d-oi di cui  Eros è causa in senso del tutto materiale. In vece, a chi  tenga conto della concezione che Euripide ha dell'amore  (cfr. p. e. W. Nestle Euripides pag. 222) appare molto  più dicevole l'interpretarli in senso psicologico e riferirli  ai contrasti che Perseo e Andromeda incontrano dopo  l'uccisione del nfjiog. — Se non che i critici citati sogliono  addurre per loro argomento Luciano de conscr. kist. 1 e  FiLosTRATo im. I . Il primo : tììv tov Uegaétùg ^ijatv èv  fiéQsi (2) SiE^f^eaav nal fisavì] i^v -fj TióÀig ò^qìòv àTidvTWv  aal ÀejiTÒJv xùv é^óoftaiiov èKeivoiv zQayqìóòiv " 2v d' (L  d-eòjv liQavve ■x.àvd'Qbìmùv "EQog , Kal rà àÀXa (AeydÀrj  Tfj qxììvf] àva^owvTtav Kzé. Ora, che si recitasse con tanta  frequenza la ^iiaig invocante Eros in una età ch'era  sotto l'influsso alessandrino non dice nulla quanto al  posto che nella tragedia la ^'^aig occupava; ma, se mai  dice qualcosa , è a favore della nostra tesi : perché le  parole di Luciano, lasciano intravvedere una interpretazione, da parte degli Abderiti, tutta intimamente passionale della preghiera all'Amore. Quanto poi a Filostrato Il testo ha d'eolg; la corr. è proposta dal Dobbeb.  Sogg. " gli Abderiti ,. l. c, la sua testimonianza è ben più esplicita: xal yàQ  sdx'iv àvE^dÀeio rtp "Egcaii ó HsQasvg tiqò tov è'Qyov. Ma deve essere rettamente intesa. Sul cratere di Andro-  meda del Beri. Mus. (Bethe in " Jahrb. d.  Arch. Inst.), ch'è della fine del V sec. e di poco  posteriore nW Andromeda, è rappresentata Afrodite nell'atto d'incoronare Perseo. Che significa? Par chiaro che  il pittore ha voluto a quel modo esprimere con la figura  il sentimento ch'era il sostrato della tragedia e la commozione più forte per gli spettatori. Di poi, il rappresentare la Dea dell'amore accanto a Perseo e Andromeda  divenne parte de' motivi tradizionali di decorazione. E  Filostrato, ch'e sotto l'influsso di quelli, fa difatti scioglier la fanciulla dai legami ond'è avvinta, appunto da  Eros. A questa medesima corrente tradizionale è dovuta  anche la frase riportata dianzi, e ha lo stesso valore:  ciò e non ne ha nessuno per la ricostruzione della tragedia. Probabilmente qualche scena dipinta raffigurava  Amore o, che fa lo stesso, Afrodite benignamente guardata da Perseo : Filostrato ne ripete il motivo e ne dà  la sua libera interpretazione imaginando l'eroe che prega  la Dea prima del duello. Mentre dunque il testo di  Filostrato non ha nessun valore, molto significativo è il silenzio di Ovidio. Questi segue {Metani.) assai  da vicino Euripide; si trova in oltre sotto l'influsso dell'alessandrinismo che delle scene e situazioni erotiche molto  si compiace; aveva quindi forti impulsi a ripeter l'invocazione ad Eros. Non la ripete. E ciò si spiega, s'essa  apparteneva al conflitto nato dall'opporsi i genitori al  patto dei giovani, perché questo conflitto Ovidio ha  soppresso, cosi che gli venne anche soppressa la ^'^ais-  Non si spiega, se si fa precedere il fr. al duello,  perché in OVIDIO (si veda) il duello è rimasto ed è ampiamente  svolto. Conchiudendo per tanto, è da tener fermo a quella  Bvolt  i   attribuzione di esso framm. che fin dal principio par la  più ovvia, a chi conosca la trama sentimentale della  tragedia.   La quale ci sembra cosi ricostruita in quei limiti che  dagli stessi frammenti vengono imposti.  Euripide. Abbiamo tentato di ricostruire le tendenze più spiccate dello  spirito euripideo valendoci deìVEIettra e àeWElena. Naturalmente talune delle affermazioni  intorno a quel problema valgono, o dovrebbero valere,  per la complessiva persona di Euripide. Ma non credo  opportuno né di riferire una bibliografia compiuta né di  impegnar minuta discussione su i singoli punti. Rinvio  soltanto a: Decharme Euripide et V esprit de son théàtre  (Paris); Verrall Euripides the rationalist (Cambridge  1895); Nestle Euripides der Dìchter der griechischen Aiif-  klàrung (Stuttgart) ; Masqueray Euripide et ses idées  (Paris 1905). Questi libri però, notevoli per ampiezza  di trattazione e larga conoscenza del materiale, hanno  il torto, con gli altri numerosi che vi si trovano citati,  di voler ricostruire un presupposto sistema filosofico di  Euripide ; indi la tendenza a catalogarlo, dividendone lo  spirito sotto varie rubriche. Cosi va perduta la vita di  esso spirito, ch'è la sola realtà. Fini osservazioni sono  in Croiset " Journal des Savants; acuti rilievi, come sempre, nel Wilamovp'itz Einlei-  tung usw. ed Hera1cles. Per le allusioni storiche di Eu-  ripide v. E. Bruhn Jahrbb. f. class. Phil. Supplb. e L. Radermacheb " Rh. Mus. , LUI Per ragione di tempo, non ho potuto vedere i!  recentissimo voi. di Murray Eur. and his age. BUBIPIDB NEL Il recente saggio di Steiger Euripides, seine Dich-  tung und seine Personlichkeit (= " das Erbe der Alten ,  Heft. V, Leipzig) rappresenta senza dubbio un buon  tentativo per delineare l'ardua figura euripidea; ma è,  a mio credere, viziato per un lato da poca profondità,  per l'altro dal parallelo costituito fra Euripide ed Ibsen;  parallelo che è di poco rilievo dove può farsi con certezza (cbé molti altri se ne potrebbero istituire analo-  gamente); e di nessuna utilità è dove l'autore vuol at-  tribuire a Euripide caratteristiche testimoniate solo per  Ibsen (che in ciò è arbitrio). Pregevolissime sono le poche  pagine di Schwartz Charakterkopfe a. d. antiken Lite-  ratuì'^ ; le sue intuizioni colpiscono, secondo a noi sembra, quasi sempre nel segno ; avrebbero  solo bisogno di uno sviluppo, che sarebbe anche approfondimento, maggiore. F., Kalypso. Sul notevolissimo culto siciliano di Demetra e Per-  sefone in Enua si combattono due teorie. L'una è sostenuta dal HoLM Storia della Sicilia nell'antichità (traduz. ital.)  che ritiene preesistente all'influsso greco il  culto della sola Demetra; e dal Fkebmax History of Si-  cily I 169 sgg. 530, il quale preesistente ritiene anche  Persefone. L'altra teoria è sostenuta sovra tutto da  E. CiACERi Culti e miti nella Storia dell'antica Sicilia  (Catania): questi difatti, pur non  negando la verisimiglianza di un culto siculo alla Dea  alle Dee, afferma di non saperne trovare indizio vera-  mente probante, di esser invece costretto a riconoscere  il carattere del tutto ellenico di esso culto nell'età sto-  rica e nelle nostre testimonianze. L'argomento fondamen-  tale addotto dall'una parte, e combattuto dall'altra, è la  non possibile derivazione del culto ennense da Siracusa  da Megara Iblea; là dove il Ciaceri addita nel fiorire  della potenza Agrigentina 'sotto Falaride e Terone la via  per esso a penetrare e radicarsi nell'interno dell'isola.  Per lui di fatti da Gela ed Agrigento GIRGENTI il mito e il culto  delle Due Dee si sarebbe irradiato, in Enna e in Siracusa. Se non che pare che in tal modo il problema sia  posto con poca precisione. Chi difatti nega il culto esser  entrato in Enna per opera di Greci, pretende assai più che non sia necessario alla  tesi di un sottostrato cultuale siculo. Chi per contro  traccia possibili vie di penetrazione in epoca comparativamente tarda, dimostra assai meno che non sia necessario per rifiutare quel sottostrato. Qui pertanto l'esame merita di esser ripreso. E poiché le nostre testimonianze vertono sopra il culto ennense quand'esso ha  già assunto foggia greca, non resta da prima che esaminarne gli elementi e i caratteri interni, per scoprire  s'essi rivelino o neghino la preesistenza d'un culto, del  pari ennense, ma pre-greco. Solo dopo, se la prima ipotesi si avveri, sarà da determinare, dentro limiti approssimativi, quel vetustissimo sostrato mitico e cultuale. I caratteri del culto ennense nell'età storica.  Sottoponiamo dunque in primo luogo ad analisi i caratteri con cui il culto e il mito ennense si presentano a  noi, traverso le fonti, nell'età storica. Il materiale si  trova raccolto da Bloch in Roscher Lex. e a lui facciamo rinvio. Scartiamo il giudizio di Zeus che divide l'anno pel  mezzo anziché per terzi come nell'/nno omerico a Demetra. Questo particolare, che Bloch (col.)  dice siciliano-alessandrino, non può riferirsi alle condizioni agricole di Sicilia, in cui anzi il seme (Cora)  men dura sotterra; ma è d'impronta letteraria alessan-  drina, tendendo a rilevare la giustizia del Dio. Ma quando la tradizione fa rapire Persefone presso Enna e solo presso Siracusa, vicino alla fonte Ciane, la  fa scender sotterra (Timeo in Diodobo = Geffcken  Timaios' Geogr. des Westens Philolog. Unters.; cfr. Ovidio Metamorf.). è necessario  intender tutto il valore di questo particolare essenziale.  Si sa che Siracusa fu potente centro di diffusione del  culto di Proserpina nell'isola e fuori. Ora l'esempio della  città di Ipponio è utile a dimostrare come si compor-  tasse il mito secondo le esigenze politiche di essa diffusione. A Ipponio era venerata la Dea; in CIL. 8on ricordate statue e arac di lei. D'altra parte Siracusa  vantava antichissimo culto di Demetra. Per conciliare  l'uno con l'altro culto, il mito narrò che ad Ipponio Proserpina si era recata dalla Sicilia per coglier fiori  (Steab.): conservò tuttavia quel che importa il primato a Siracusa. Per Enna avviene il contrario:  è (cioè) evidente che il mito siracusano, perché deve ri-  spettare una tradizione autorevole che il ratto pone in  Enna, non osa far rapire presso Siracusa Persefone, ma  deve accontentarsi di farla presso Siracusa discendere  all'inferno.   Al risultato medesimo conduce anche il testo di Timeo  (DioD. = Geffcken) su Atena ed Artemide che  avrebber accompagnata Cora nel raccoglier fiori e conseguita rispettivamente la signoria di Imera e dell'isola  Ortigia mentre Demetra conseguiva quella di Enna. La  presenza di Artemide e Atena nell'antologia è motivo  orfico. La testimonianza di Diodoro fa  dunque legittimamente supporre che in Siracusa si adat-  tasse alle condizioni politiche e cultuali indigene un parti-  colare non indigeno. Per questo adattamento sembra epoca  assai propizia la seconda metà del V sec, in cui più ef-  fettivamente ebbe valore l'alleanza tra Siracusa ed Imera contro gli Ateniesi (Beloch Gr. Gesch.). Checché    ne sia, resta certo che, rielaborando l'episodio dell'antologia, Siracusa riconosce, non solo il culto di Atena predo-  minante in Imera, non solo dà rilievo al proprio culto di  Artemide (sui quali v. Ciaceri); ma si acconcia a sanzionare la supremazia del culto di Demetra  in Enna. E ciò proprio a un dipresso nell'epoca in cui,  secondo p. e. Ciaceri, il culto siracusano doveva su-  perar per fasto quello ennense ; prima cioè che per effetto della politica di Roma " il culto di Enna assumesse  grande importanza (Ciacebi).   Il valore di questi forzati riconoscimenti del culto en-  nense da parte di Siracusa appare a pieno dopo aver esaminato Ovidio Met.  Quivi difatti è narrato come Demetra apprendesse  del ratto : prima la rende accorta la Persephones zona  abbandonata su l'acque della palude siracusana Ciane;  poi Aretusa, fonte dell'Ortigia, le racconta d'aver veduto  Cora nell'Ade. In somma. Ciane e Aretusa tengono presso  Ovidio il luogo che neWInno om. a Demetra hanno Ecate  ed Elios. Bloch ritiene "priva di  significato „ questa forma del mito ; Malten "Hermes la spiega come un arbitrio del  poeta pel desiderio di narrare le due metamorfosi di Ciane  e di Aretusa. In realtà essa è molto significativa, se si  ricorda che , ai due personaggi dell' Inno omerico, i quali non sono evidentemente che il Sole, l'occhio  che tutto vede nel giorno, e la Luna, che vede nella  notte (cfr. Roschee in Roscheb Lex.), la maggior parte delle saghe, eccettuati in parte i  Fasti ovidiani, sostituiscono nell'uf-  ficio d'informatori presso Demetra figure più concrete  e sopra tutto più attinenti ai singoli luoghi. Cosi Ke-  leos in scoi. Aristid. Panai. (Frommel), scoi.  Aristof. Cavai., Mit. Vat.; Trittolemo in  Paus., Claud. 0. e. Ili 52, Nonno appr. Mignk  Patr. gr. , Tzetze ad Es. Opp. 33; cittadini di Ermione, secondo Apoll., scoi.  Arisi. Cavai. 785, Zenob. Prov.; Kabarnos,  della famiglia sacerdotale dei Kabarnoi (Hestch.)  presso Stef. Brz. s.v. IldQog, nell'isola di Paro;  Chrysanthis figlia di Pelasgo in Argo, giusta Paus.;  cittadini di Fé ne o (Arcadia), Coy. Narr. app.  Fozio Bibl. cod. Di fronte a cosi numerose analogie  è difficile sostenere che Aretusa nelle parvenze d'informatrice sia un'invenzione arbitraria di Ovidio e non più  tosto appartenga alla saga siracusana : a quella medesima  che presso la non lontana Ciane fa avvenire la di-  scesa nell'Ade, e che narra il mito di Aretusa ed Alfeo  (su cui V. anche Ciackei). Né fa ostacolo il fatto  che solo le Metamorfosi narrano quel particolare : ciò  significa solamente ch'esso è di pretta natura locale e  che, in parte per tal motivo, in parte pel predominio dell'Inno omerico, non fu accolto con favore in altre tradizioni mitiche e nelle elaborazioni letterarie. Se dunque  si ammette che Ovidio ci riproduce, a proposito di Ciane  e Aretusa informatrici, la saga siracusana, appar chiara  l'insistenza con la quale, accettato per forza il ratto  in Enna, si colorisce poi tutto il resto del racconto in  senso siracusano. Anzi per capire ancor meglio il valore di questa con-  siderazione va rilevato che un tentativo mitico in antitesi ad Enna dovette esserci: giacché pili fonti narrano  il rapimento di Persefone non presso il lago Pergo di  Enna ma presso l'Etna: cfr. l’Epitafio di Pione Nella stessa Sicilia vigeva un'altra forma del racconto, per cui Vayys^og era Ecate, se è valida l'ipotesi  del CiACEEi e G. Knaack "Hermes, il quale sennatamente dimostra che non può né ivi né in altri testi  simili (Igino fav., scoi. Pind. Nem., Giovanni Lido de mens., Oppiano Hai., VALERIO (si veda), Flacco  Argon., Ausonio Epist.) trattarsi di  uno scambio tra AXtvri ed "Evva. Questo mito secondario  che menziona Etna e sopprime Enna è certo posteriore  a quello che ad Enna dà la precipua importanza perché  su quello è foggiato e perché si vale di una imperfetta  omofonia per ribellarsi ad esso più noto e accettato. E n'è confermata l'ipotesi che Siracusa dovesse in Enna-  riconoscere una incontestabile priorità initica. Dopo questo esame dei particolari vien fatto di giungere  a un'ovvia conclusione: il mito di Demetra in Enna, nell'età storica, ci riporta con ciascuno dei suoi elementi essenziali a Siracusa, la quale sembra essere il  centro dell'elaborazione di esso; elaborazione che in  Enna presuppone però un culto di Dee agresti cosi radicato, qual che ne sia la forma, da non poter essere né  taciuto né artificiato favorevolmente.   A cotesta conclusione è propizia la testimonianza più  antica che ci sia pervenuta del culto ennense: una  litra d'argento che reca Demetra sul cocchio (Head H.  N.). Di fatti : se in Siracusa fu elaborata la saga  del ratto di Cora per cui ebbe valore ufficiale l'antico  mito ennense, ciò dovette avvenire dopo la vittoria di  Imera. Dopo quella vittoria invero Gelone (Diod.) innalza in Siracusa i templi di Demetra e di Cora,  iniziando il formarsi di quella piattaforma leggendaria  donde il culto delle Dee potè diffondersi in ampia area.  Per conseguenza le testimonianze del culto eimense-sira-  Cusano a Cora non debbono essere anteriori al V sec. ;  e in verità la litra, che è la testimonianza più antica,  è dal HoLif Si. d. tnon. 84 n. 116 riferita, per criterii numismatici e dal Hill  Coins. Al sec. V pertanto può farsi di-  cevolmente risalire l'origine di tutta la tradizione e mitica e cultuale che allaccia Enna e Siracusa; e che  ha per indispensabile antecedente una credenza a divinità agresti in Enna, ignota nella forma, ma salda nella  sostanza. Le nostre testimonianze tutte rendono quindi inutile  l'ipotesi del Ciaceri 189 sgg. che il culto greco della  greca Demetra penetra in Enna per opera di Agrigento (GIRGENTI) e Gela durante la tirannide di Falaride e Terone.  Se ogni ipotesi vale in quanto tenta spiegare dei fatti,  questa del Ciaceri non par che spieghi nessun fatto. Né  anticipando rispetto a noi, come fa, di un cinquant'anni  l'influsso dei Greci in Enna, riesce a legittimare l'autententicità del culto ennense dì cui e menzione presso CICERONE (si veda) in Veri. Noi difatti di  quella vantata antichità rendiam piena ragione avendo  dimostrato l'esistenza d'un vetustissimo culto e mito  siculo in Enna e dichiarando che, anche dopo l'in-  tervento di Siracusa nel V sec, se ne dove serbar ri-  spettosa memoria. Il Ciaceri, in vece, non giustifica essa  antichità né meno facendola risalire alla fine del VI sec.  con l'influsso di Agrigento; giacché, come si sarebbe di-  menticato che Enna aveva accolto le due Dee dopo  Agrigento? E si badi che di esse in Agrigento parla  Pindaro Pit. (Schhodek)  e che quindi nella tradizione letteraria non poteva  essersene perduta la traccia. E si badi, anche, che lo  lo stesso CICERONE (si veda) {in Verr.: cfr. Lattanz.  div. inst.) sa di un signum vetusto di Cerere esi-  stente in Catania. Quindi il vanto di antichità con-  forta la nostra tesi e rivela impotente quella del Ciaceri.  Ancor meno poi questa è sufficiente a spiegar il rispetto  che Siracusa serbò al culto ennense nel mito. Se di fatti,  come si afferma, da Gela si fosse partito, a non  molta distanza di tempo, e il culto siracusano e l'ennense,  è chiaro che molto probabilmente quello non avrebbe  esitato, se bene di poco più tardo, a soppiantar questo,  assai meno favorito da ogni sorta di circostanze geografiche e politiche.  E tutto ciò scriviamo prescindendo affatto, come si vede,  dal problema su la colonizzazione di Enna; di cui si ap-  prende che è colonia di Siracusa da un luogo di Stefano  Bizantino ( s. v, "Evva) ove è senza dubbio un equivoco  di data e forse uno di fatto ; e si apprende l'alleanza  con Siracusa nella guerra di questa contro Camarina da  un frammento di Filisto (fr. = FHG.) che  è impugnato a ragione dal Pais {St. della Sicilia e Magna  Grecia). Sembra in somma che nulla si sappia  di positivo su la città onde Enna fu grecizzata e sul  tempo : certo è arrischiato CIACERI (si veda) nel dire  Enna colonia di Siracusa ; ed è nel vero Freeman  {H. of S.) nell'ammettere la nostra ignoranza. Per  ciò preferimmo studiare il problema della Demetra en-  nense movendo da altre basi e usando dati diversi. Con  i quali, concludendo, possiamo supporre un forte influsso siracusano in Enna, che mantiene  però inalterato il proprio privilegio mitologico. E non  possiamo né provare altri influssi greci anteriori su Enna  né concedere che il supporli giovi a risolvere la questione. Il primitivo probabile nucleo siculo. Dall'indagine del precedente § è risultato, ci sembra, in modo  esplicito che quando nel V sec. il mito siracusano si  formò dovette tener conto di un precedente e forse molto  più antico nucleo mitico e cultuale di Enna, la cui forma ci è ignota. È risultato inoltre che molto difficilmente  quel nucleo potrebbe esser greco, perché in tal caso la  sua scarsa priorità (di men che cinquant'anni) mal spiegherebbe il forzato rispetto di Siracusa.   Ora per altro riguardo i dati delle pili recenti indagini  archeologiche e storiche (cfr. SANCTIS, STORIA DEI ROMANI) ci danno un quadro delle  condizioni più vetuste dell'isola assai bene consono a  quei nostri risultati. Ai quali non ripugna davvero la  tesi della italicità dei siculi : giacché presso una stirpe  italica, e perciò molto affine ai greci, è facilissimo esi-  stesse una saga simigliante alla greca di Kora e che  questa saga costituisse il sostrato di quella che Siracusa  foggiò nel sec. V.   Resta solo da determinarne, s'è possibile, la forma verisimile. Il primo criterio ci è dato dall'analizzata saga siracusana. Poiché essa si permette ogni sorta d'invenzioni a  suo favore in tutta la seconda parte del mito, ma rispetta scrupolosamente la localizzazione del ratto in Enna;  conviene ritenere che questo sia il probabile nucleo essenziale del culto preesistente. D'altra parte (è il secondo criterio) l'affinità tra Siculi  (ITALI I) e Greci deve permettere all'indagatore di cercar  fra questi il piti antico embrione della leggenda e di attribuirlo ipoteticamente e per analogia a quelli. Analogia  che è confortata da piii esempii : sovra tutto da quel  di Caco e da quello di Numa Pico e Fauno (cfr. inoltre G. De Sanctis). Il più antico testo  che racconti in Grecia il ratto di Kora è l'Inno omerico a  Demetra : dal quale parta dunque l'analisi. Ma bisogna  naturalmente prescindere, in esso Inno, da tutti i parti-  colari attinenti ad Eleusi ed al suo culto. E prescindere, inoltre, da tutte le altre divinità messe in relazione con  le due dee : Hermes ed Iris, nelle loro funzioni di mes-  saggeri; Helios ed Hecate come luci del mondo; le  Oceanidi quali compagne di Kora; Rea, perché una tra  le pili notevoli figure divine delle campagne feconde,  al par di Gea. Rimangono dunque 1° ^Aiòitìvevs (= IIo- ÀvSéKTTjS, IIoÀvóéyfiojv); Ar]/iii^Ti]Q;  IIeQaeq>óv£ia;  KÓQu. Siibito, questa necessaria eliminazione di taluni ele-  menti deìVInno induce una conseguenza: se nell’età probabile della composizione di esso, il mito era  già cosi maturo da poter e accogliere elementi nuovi e  localizzarsi in un determinato centro di culto ; se inoltre  non è probabile che a favor di questo centro appunto  sia stato inventato, come quello il quale nel suo riposto  senso è troppo intimamente connesso con i primordiali  riti delia madre terra; si può senz'altro affermare che  doveva, prima di quell'epoca, aver vissuta oramai una,  certo non molto breve, vita mitologica. E poco quindi  importa che neìV Iliade non appaja (v. le opinioni contrastanti del Forster Raiib und Rilckkehr d. Persephone; Welcker Griech. Gotterl.; Preller  Griech. Mith}; Bloch; Malten Archiv. ftìr Religionswiss.): soltanto  significa che mancò l'occasione o non fu colta per intro-  durvelo. Ora, nell'epopea omerica Persefone non ha  alcun carattere (come fu notato) che l'avvicini, anche di  poco, all'aspetto ch'ella assume, sotto la foggia "Persefone-Kora „, noìVInno om. citato, all'in fuori di questo:  ella è la signora dell'Ade, regina dei morti accanto al  re delle tenebre. Demetra per contro vi appare già col  suo aspetto di Dea campestre {E 500 JV 322 = <P) delle biade. Aidoneo in fine si richiama alla  terra per l'unico attributo HÀvrónoiÀos {E 654 A cfr. Stengel " Archiv. fùr Religionswiss.; Maass Orpheus e Wilamowitz Reden  und Vortrage). Dal quale s'è voluto dedurre che  l'epopea conobbe il ratto di Kora : ma si ebbe ragione ad  asserire che la conseguenza troppo supera la premessa  (Prkller Dem. u. Pers.). Tuttavia non si può né  si deve negare che quell'epiteto si addice assai bene alla  saga di Demetra e Kora. — Riassumendo dunque è le-  cito affermare che nell'epopea (a prescinder d'ogni pos-  sibile ma non pervenuto ampio racconto o aperto rife-  rimento) del ratto appaiono : 1* Ade guidator di cavalli;  2° Demetra dea delle biade ; 3° Persefone regina del-  l'inferno.   Manca sol Kora. Ma Kora non è né può essere se non  la " Figlia , e il suo valore e significato è tutto conte-  nuto nella * Madre „ vale a dire in Demetra. Quindi  anche nel silenzio delle fonti antichissime non è luogo a  dubbio sul suo carattere agreste. Carattere agreste che è  confermato da quello che il mito narra di lei nella sua  forma più compiuta, ossia la vicenda annuale di par-  tenza e di ritomo dalla terra a sotterra. È quindi da  escludere l'ipotesi del Beloch Griech. (?escA. che  vede in Kora una divinità lunare; la cui vicenda do-  vrebbe essere, non annuale, ma mensile. Egli non ha  badato (seguendo gli antichi stoici: cfr. Sekv. a Verg.  Georg. I 5, Varr. de l. l. V 68, Plut. de facie in orbe  lunae e. 27 ecc.) che Kora e Persefone si uniscono tardi  e che pertanto il carattere della seconda non  può essere quel della prima. Mi pare in vece che ben  distingua la natura di Kora in confronto con Demetra il La stessa opinione difese il Costanzi " Riv. di St.  ant. Fkazek The golden Bough^ parte V, Spirits of the corn and  of the wild; se bene egli sia stato un po'  schematico nella separazione delle due figure e lo temperino opportunamente le osservazioni di Harrison  Prolegotnena to the study of greek Religione. In  breve Kora è il seme nuovo o la biada nascente in  confronto con la biada matura da cui si stacca e a cui  ritorna. Un riferimento diverso che ci riconduce pure alle fonti  del mito è quel di Esiodo Op. e Gior., ove Zebs  Xd'óvios e Demetra son pregati insieme dall'agricoltore  al tempo della seminagione. Contro Lehrs Pop. Aufs}  298 lo ScHERER (in Roscher Lex.) sostiene a  ragione che quel nome designa non Zeus ma Ade, lo  Zevg naxa%&óviog àoìVlliade. Ed è certo  evidente che nell'avvicinamento di Zeus ctonio con  Demetra, si tratta d'uno dei soliti casi di "divinità agri-  cole messe in relazione coi defunti e con la loro sede  solo perché divinità della terra feconda, (De Sanctis  St. d. R. I 305): analogamente ai latini Tellure Conso  Saturno (ibi). Ed è quindi del pari evidente che quel nesso  ' Ade-Demetra ' non dipende da quello ' Ade-Kora ' ma  gli è parallelo e simigliante. Non bisogna però con-  fondere quest'attinenza tra Ade e Demetra con le scarse  tracce di una At]fti]Ti]Q aaxaxd'óvLa che L. Bloch o. c. 1334-5  raccoglie: queste son posteriori, a quel che pare, alla tra-  dizione del ratto e da essa determinate : dopo cioè che  Persefone regina dei morti è divenuta figlia della  dea delle biade , allora questa assume un carattere  nuovo consono all'officio di quella. Al racconto pure del  ratto si deve e agli attinenti misteri Eleusini se in  in processo di tempo si verrà sempre pili accentuando  il carattere agricolo di Dio fecondo in Ade, fino a trasformarlo in Plutone (v. i testi in Scherer). L'esame adunque delle testimonianze che si avvicinano  di pili ai primordii del mito conduce a costituire due  gruppi: composto l'uno da Demetra e Kora; composto  l'altro daPersefone e Ade: trai quali sussiste visibile nell'arte più arcaica (Esiodo) un nesso soltanto, quello tra  Ade e Demetra. La relazione tra Kora e Persefone non  appare pertanto negl'incunaboli della leggenda. Ciò sta  contro l'ipotesi di Farnell The cults of the greek States (Oxford) che suppone un'antica divinità  Persefone-Kora analoga all'Hera-Tratj e fusa poi con De-  metra. Né più felice mi sembra l'altra ipotesi di lui  che Demetra-Kora costituisse una divinità  unica, madre di Persefone, con cui, staccandosi da De-  metra, si sarebbe unito l'epiteto di Kora. Assai più sem-  plice è la teoria comune che la rapita di Ade, Kora, si  fondesse con la moglie di Ade, Persefone (cfr. anche  Carter in Roscher Lex.). A ogni modo, si  tratta di nesso non originario ma tardo. Che non è  quindi metodico supporre per la saga sicula : giacché  questa non deve mai aver superato i primissimi stadii,  tenuto conto dell'indole dei Siculi e dell'assenza d'una  elaborazione letteraria : e difSciimente pertanto può aver  fatto della " rapita „ la regina dei morti. A completar le caratteristiche di essa saga sicula, al-  cune altre indagini. Demetra QeafAO(pÓQog ed ''EÀev&ta  CEÀevd-ìa, ^EÀev&oj, 'EÀevffivìa) son certamente figura-  zioni molto antiche in Grecia : anzitutto perché il concetto  della terra ferace richiama sùbito presso gli Arii quel  della maternità (cfr. il denso volumetto del Dif.terich  Milite)- Erde^) ; poi perché la enorme diftùsione del culto  tesmoforio ed eleusinio, che non si può spiegar tutta da  un unico centro (Bloch), trova la sua ragione nell'estrema antichità del rito. La quale del resto  era nota già ai Greci stessi : cfr. Erodoto. Sotto  pertanto l'aspetto cosi di terra che di donna Demetra fe  la Madre , per eccellenza : checché sia da ritenersi  su la etimologia del. nome (cfr. Maìì^uardt Myth. Forsch.   e Frazer The golden bough). Cosi lumeggiandosi Demetra, assume un valore più  significativo anche Kora, la " Figlia,, giacché entrambe  si presentano sotto l'aspetto di divinità famigliari, ana-  loghe alle " Madri , dei Celti e Siculi (De Sanctis "Boll.  Fil. class.. e a Libero e Libera dei  Latini; e rappresentano probabilmente tutt'insieme quella  deificazione dei membri delle famiglie che par consueta  fra l’arii (SANCTIS (si veda), STORIA DI ROMA). Cosi si  spiega anche meglio il valor personale di Kora, che come  dea delle biade è assai languida accanto alla madre, ma  come dea filiale riacquista una maggiore consistenza.  E vale in tutto il parallelo con i culti latini, tra i quali  non pur si verifica l'indipendenza di Proserpina e Libera,  unificate sol tardi (cfr. Wissowa Rei. Rom.); ma anche  oltre a Libera si venera la Madre Matuta. In tal caso  si lega strettamente al nucleo primordiale del mito il  particolare del ratto. Si sa difatti che questa è, accanto  alla compera, una delle forme di matrimonio presso gli  Arii, e quindi l'avventura di Kora significherebbe a un  tempo il mistero della vegetazione nel grembo della  terra e la cerimonia nuziale: anzi, questa olirebbe la  forma espressiva a quello. Risultato, questo, che assicu-  rando alla leggenda sicula il rapimento, concorda con  quel che nel principio di questo § notavamo a proposito  del rispetto che al ratto di Enna osserva la saga sira-  cusana. E le due considerazioni si confermano a vicenda. Cfr. anche G. Gassies ' Rev. d. Étud. anc. Più in là ci mancano i dati. Basti un'ultima osserva-  zione. Nel mito greco tutta la seconda parte (la mela-  grana e il patto tra Ade e Demetra e Zeus) è intesa a  giustificar la periodicità con cui in ogni inverno il seme  si cela nella terra per lasciar solo nella primavera riap-  parire gli steli del grano. Ora non è punto certo e forse  né meno probabile che anche nella leggenda sicula esi-  stesse una parte a questa simile. Giacché la sua formazione dovrebbe esser non solo molto antica ma assai pili  rudimentale che presso i Greci (a cagione, come dicemmo  dianzi, delle doti intellettuali delle singole stirpi e dell'as-  senza d'una elaborazione letteraria) ; non è permesso per  tanto di pensare, metodicamente, che fosse superato quello  stadio religioso in cui ogni sole nascente è ritenuto di-  verso dal tramontato e non si afferra ancora né continuità  né periodicità di fenomeni (DESA^'CTIs St. d. Rom.).  Il superamento è possibile; ma la possibilità non fa  storia.   Concludendo. Per ricostruire la probabile forma dei  primitivo nucleo leggendario dei Siculi in Enna ci siamo  valsi dei soli due mezzi di cui possiamo disporre : la con-  statazione degli elementi che quel nucleo portò con in-  sistenza nella saga siracusana del V sec, e la ricerca  del primitivo nucleo nella leggenda analoga di un popolo  affine, il greco. I risultati sono scarsi, ma non insuffi-  cienti. I Siculi dovettero, sembra, raccontare che una  Dea agreste (delle biade in ispecie) aveva una Figlia  rapita da un Dio sotterraneo dai campi nelle sedi dei  morti. E nel loro racconto si fondeva il fenomeno del  seme che sparisce fra le zolle con il rito consueto del  matrimonio a mezzo del ratto. Di questo, che è poco,  ma è anche molto a confronto con quanto si è osato as-  serire su l'argomento fin qui, ci è forza restare paghi, IL CULTO DI DEMETBA IN ENNA  Le versioni greche del ratto di Kora. Ofifri-  rebbe materia a larghissimo studio l'indagare tutte le  forme che il ratto di Kora assunse ovunque si sparsero  abitarono Greci; e di ogni forma precisare i motivi.  Qui a noi importa soltanto di fissare quelle versioni del  mito che sulla saga siracusana influirono, cosi contribuendo al suo formarsi, come confluendo ad allargarla per  contaminazione ; e fissatele, ci limiteremo, per non uscire  dal nostro tema ristretto in un campo sconfinato, alla  constatazione senza cercare la spiegazione. L'Inno omerico a Demetra è, come si disse, il testo  più antico in cui il mito di Kora rapita appaja; e come  tale ne costituisce, non già il primo stadio,^ ma la prima  forma capace di influssi e passibile di riferimenti: noi  la chiameremo protoattica per brevità. In essa sono  state distinte due parti, l'una mitologica, l'altra etio-  logica; entrambe furono oggetto di esami attenti: ci  basti il rinvio al cemento di T. W. Allen and E. E. Sikes  The homeric hymns e a Jevons An introduction to  the history of religion. Solo un punto richiama qui il nostro esame ed  è di facilissimo rilievo : secondo Vlnno gli uomini conoscevano già le biade prima del ratto di Cora, tanto che  Demetra del ratto si vendica col privare gli uomini del  seme fecondo. Il rapimento dunque è solo l'occasione in  cui la Dea compie su Demofonte, figlio di Celeo e Metanira re in Eleusi, la magia del foco e insegna i suoi  riti ai principi eleusini fra cui è Trittolemo.   La concezione che predomina nel V secolo è in vece,  com'è noto, ben diversa. Trittolemo, non più principe fra  altri, diviene il giovinetto cui primo la Dea insegna  l'arte del seminare e raccogliere grano (cfr. L. Bloch  in RoscHER Lex.; Malten "Archiv ftìr Religionswiss.; Pringsheim Archdol. Bei- i  trdge zur Geschichte cles eleus. Kults). Ora è anzi  tutto da vedere come questa concezione nuova, che  contraddice esplicitamente la protoattica in quanto sup-  pone che solo dopo il ratto gli uomini conoscano le biade,  e si può quindi chiamare neoattica, si comporti con  Demofonte Celeo e Metanira. Una prima risposta ci  dà Apollodoro che conserva Demofonte per la  magia del fuoco, Trittolemo per il dono del seme, e  tutt'e due pone nella famiglia di Celeo e Metanira, so-  vrani in Eleusi, come figlio minore l'uno, primogenito  l'altro. Una seconda risposta ci dà nei Fasti Ovidio : Demofonte non esiste più ; Trittolemo subisce la  magia del fuoco ed è predetto primo aratore ; Celeo e  Metanira gli son genitori, ma non re, si poveri in me-  schina capanna. Di qui due problemi. È anteriore  la versione di Apollodoro o quella di Ovidio ? Notiamo  che Apollodoro è l'unico autore dopo Vlnno da cui Demo-  fonte figlio di Celeo sia ricordato ; notiamo che egli compone  con varii materiali un testo unico, della leggenda; so-  spetteremo che la sua sia una combinazione di mitologia  erudita fra Vlnno e la saga neoattica di Trittolemo, col  proposito di guastare il meno possibile l'uno e l'altra. In  OVIDIO (si veda) in vece la combinazione appare di mitologia poetica; c'è una sicura mossa fantastica: Trittolemo sopravviene, noto nei tempi nuovi, al posto di Demofonte, noto  negli antichi: l'ignoranza del grano e la povertà sopravviene, conforme al nuovo concetto, in luogo della cono-  scenza ed opulenza narrate nell' Jm«o. Ora poiché nel santuario eleusinio una innovazione erudita  è meno congetturabile di una fantastica, dobbiam dare  la precedenza cronologica, pur con riserva, alla forma  ovidiana. Ci pare allora che il nome e il concetto di  Trittolemo abbiano acquistato predominio attirando nell'orbita loro Demofonte, che scomparve, Celeo e Metanira, che digradarono a poveri vecchi. Questa innovazione fantastica è d'influsso orfico ? Afferma che si  Malten e "Hermes:  perché orfico è il personaggio di Dysauìes ch'egli interpreta óvaavÀog " der eine arme Hiirte hat Noi lo neghiamo per due gravi motivi. Anzi tutto, se  dairOrficismo fosse derivato Trittolemo = primo semi-  natore, Dysauìes e Baubo, legati con lui presso gli Orfici  quali genitori, avrebbero scalzato Celeo e Metanira al  pari di Demofonte ; in vece non si capisce come gli  Orfici scegliessero proprio il nome di quel principe, fra  gli altri deir//mo, per innovarlo e per congiungerlo con  nome e personaggi di loro creazione; né come esso solo  acquistasse tanto predominio, mentre Dysauìes, Baubo, e  parecchi motivi orfici, restarono senza eco fuor della  setta. In secondo luogo tutto il brano dei Fasti e estraneo  all'influenza orfica : che il particolare dei majali,  non è orfico esclusivamente, come pare a Malten e già a Forster {R. u. R.), ma  si riconnette col culto e coi sacrifizii suini, accennati a un verso. Dunque in un carme ove dagli Orfici nemmeno  si accetta quella presenza di Atena e Artemide che fin  la saga siracusana aveva fatta sua, la scena centrale  deve essere dimostrata orfica per venir ritenuta tale ;  altrimenti altra spiegazione sarà migliore. Di fatti a noi  par chiaro che lo stesso moto onde Trittolemo = primo se-  minatore fu portato a soppiantare Demofonte e impoverire Celeo, recò lui medesimo nel patrimonio orfico e  determinò la nuova paternità di Dysauìes. Onde ci  sembra evidente che la scena eleusinia dei Fasti sia di Contro l'opinione comune che è in Gruppe Gr. Mi/th.  origine neoattica e di quel gusto alessandrino che ai ri-  vela neWEcale callimachea. Negata agli Orfici la creazione di Trittolemo = semi-  natore, dobbiamo, nei limiti del nostro tema, rettificare un'opinione imperfetta degli studiosi. Negli Orfici Argonauti si legge che Cora è^duacpov avvófiatfiot ingannarono le sorelle,. Per sorelle s'intendono dal  Forster, Atena Artemide e Afrodite. Il confronto  con EuKiPiDE Elena (cfr. il testo del Wilamowitz  in Comm. gramm. e " Sitzb. Beri. Akad.) dimostra però che si deve trattare soltanto di Ar-  temide e Atena. Di queste due parla difatti il Malten  " Archi V; ma le presenta nell'aspetto eu-  ripideo (ripetuto in Claudiano) di difenditrici, non in  quello orfico di ingannatrici. Correggendo da un lato il  Forster dall'altro Malten, mi sembra che l'ipotesi  migliore per superare il contrasto fra gli Argonauti e  VElena e spiegare l'aggiunta di Afrodite che si ritrova  in Igino fav.  (non che in Claudiano), sia l'ammettere che Afrodite abbia in un secondo strato orfico so-  stituito nell'inganno, per esser a ciò più adatta, Atena e  Artemide, e queste, in qualità di vergini compagne e di  dee armate, sieno passate alla difesa della rapita.   L'aver precisato cosi le varie forme leggendarie, pro-  toattica neoattica (e orfica), ci ajuta a intendere in primo  luogo il testo di Timeo (cfr. Diodoro e Geffcken). Notammol'uso che ivi è  fatto del motivo orfico su Atena e Artemide. Notiamo ora, a  guisa di premessa, che tutto il racconto del mito vi è estre-  mamente sommario. Ma il puoto essenziale vi appare in Impreciso è anche A. Olivieri ' Arch. st. per la  Sicilia or. ,  li. modo non dubbio: vale a dire, secondo Timeo la Sicilia  conobbe tòv tov alrov KaQnóv prima d'ogni altra regione; in Sicilia le due Dee facevano spesso  soggiorno; avvenuto poi il ratto,  Demetra fece dono del grano a tutti coloro che durante  la ricerca la accolsero q>iÀavd-Q<j}7t(ag e, fra costoro primi,  agli Ateniesi; gli Ateniesi quindi eb-  bero e diffusero la conoscenza del grano primi dopo i  Siciliani, i quali se l'erano avuto dalle  Dee (5tà zì]v Tijg AijfirjtQog koI Kóqtjs TiQÒg aèzovg ol-  KeiÓTi]Ta. Dunque non può rimanere incertezza che Timeo  e la saga siracusana da lui ripetutaci accettavano per  intero la versione neoattica secondo cui l'ateniese (eleu-  sinio) Trittolemo avrebbe appreso primo l'arte del se-  minare e l'avrebbe insegnata agli uomini in luogo del-  l'uso di ghiande ; l'accettavano però con la orgogliosa  premessa che la Sicilia, per la special benevolenza e la  famigliarità delle due Dee, aveva preceduto gli Ateniesi  e l'intero mondo. Ne balza la concezione duplice di una  Sicilia che ha il privilegio del grano, mentre tutti gli  altri lo ignorano , prima del ratto ; e della restante  umanità, che il privilegio si conquista poi col trattar  bene la Madre dolorosa, in occasione del ratto. Cosi i  Siracusani non ebbero bisogno di sostituire Trittolemo  con una figura indigena, come quei di Sidone con  un Orthopolis figlio del re Plemnaios (cfr. Paus.);  né di farlo entrare in genealogie locali, come gli  Argivi che gli diedero padre un argivo Trochilos (Paus.); né di identificarlo con un antico loro iddio,  come suppone, ma senza convinzione, 0. Rossbach  Castrogiovanni (Leipzig) Essi poterono venerare  Trittolemo (CICERONE (i veda) in Verr.) come colui  che per benevolenza della lor Demetra diffuse al mondo  il già loro secreto del seme.   LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA La conoìcenza del racconto di Timeo deve ajutarci a  comprendere il doppio testo di Ovidio in Fasti e in Metamorfosi. Si è discusso se si tratti  di un'unica fiaba desunta da un'unica fonte e variamente  ripetuta nelle due opere; o se anche la fonte sia distinta per ciascun racconto. Tennero la prima opinione  alquanti critici citati dall'ultimo di questa teoria L. Malten  'Hermes, Tennero la  seconda opinione sovra tutti prima il Forster R. m. R. d,  Pers. poi Ehwald-Korn Metani. Noi crediamo che il Malten, il quale pure ebbe autorevole  assenso dal Wilamowitz (Sitzungsber. d. Beri. Akad.), sia in errore.  Nelle Metamorfosi le fasi del ratto sono le seguenti :  Persefone vien rapita da Plutone presso Enna ov'è il  lago Pergo durante l'antologia; Cerere  ne fa ricerca per tutte le terre con due pini accesi su  l'Etna; veduta presso la fonte Ciane la  zona di Proserpina, se ne sdegna: terras tamen increpat omnes  Ingratasqiie vocat nec friigum munere dignas,  Trinacriam ante alias e distrugge gli aratri e impedisce la vegetazione del grano; Demetra, dopo le indicazioni di  Aretusa, il colloquio con Giove, il giudizio di questo,  ristorata del suo dolore corre medium caeli terraeque per  aera e va in Atene, consegna a Trittolemo i semi e partim  iussit spargere rudi humo partimqiie post tempora longa  recultae. Ora, noi vedemmo sopra  che la sostituzione di Ciane e Aretusa ad Ecate  ed Elios deir7«no omerico sono pretti elementi della saga  siracusana. E con questo risultato concorda, il ratto in IL CULTO DI DEMETEA IN BNNA  Euna. Ma la concezione espressa nei versi citati non si copre con la siciliana: è più larga.  Terrae omnes conoscono il frugum muniis, e fra esse è si  la Sicilia, ma non sola, se bene più fertile.  E Trittolemo insegna a seminare su la terra post tempora  longa recalta, quindi anche su la Sicilia dopo il danno  subito per vendetta della Dea. Ora, donde viene questa  concezione che accoglie e umilia in sé la saga di Timeo? Ognun vede che essa contiene : del mito protoattico, la conoscenza del grano anteriore al ratto e la  vendetta divina ; del neoattico, Trittolemo = seminatore. Ne rappresenta quindi un tentativo di conciliazione in cui s'innesta la leggenda siracusana con  qualche mortificazione. Quanto all'intervallo fra la veduta,  della zona e la supplica di Aretusa che il Malten calcola a un anno, è chiaro che non è pre-  ciso nella mente del poeta, come appare dalla frase post  tempora longa. Che sia assurdo lascerem dire al Malten,  che trascura la libertà fantastica dei poeti. Né col Malten diremo adesso che la metamorfosi di Lineo trascinò con sé in fine del racconto anche Trittolemo ;  dacché vedemmo come questo personaggio stia bene in  quel posto in cui i Fasti lo pongono, data la contaminazione proto-neoattica. In fine contatti con la poesia  orfica non vi sono : perché è taciuta la presenza di Atena  e Artemide ; perché Trittolemo spargitore del seme non  è orfico; e perché ha ragione il Malten di riconnettere con la volgata poetica degli  Alessandrini la parte introduttiva su Plutone colpito da Cosi mi fece notare il mio maestro G. De Sanctis.  Resto incerto se questa conciliazione si trovasse già in  Carcino junior (cfr. Timeo presso Geffcken  =  DiOD.). amore per volere di Afrodite. E di modello alessan-  drino essendo tutte le metamorfosi, la nostra conclusione è che la fonte di Ovidio fu un testo alessandrino  ove nella trama proto-neoattica con innesto siciliano sono interpolate favolose trasformazioni di Ciane Ascalafo  Ascalabo Aretusa e l'altre.   Pei Fasti l'esame è anche più pronto : 1" 11 ratto avviene in Enna ; ma ivi non è la sede delle due Dee. Di  fatti Aretusa ve le aveva invitate e Cerere  vi era giunta da poco (modo venerai Hennam)  allorché Proserpina fu presa. Sicché quando il poeta dice  della Sicilia Grata doìnus Cereri; multas ea possidet  tirbes ecc., la frase, come vuole il verbo al presente, si deve riferire ai tempi di Ovidio (contro il Malten). E quando Prosei'pina è introdotta vagante per  sua prata (v., si deve intendere " i prati di cui è  dea che tutta la vegetazione è in lei compresa nel  tardo concetto poetico (contro il Malten). Dopo il ratto, Cerere, cominciando dalla Sicilia, vaga  per tutte le terre e pel cielo in affannosa ricerca; della  quale una prima tappa è il soggiorno in Eleusi presso  Celeo e Metanira, al cui figlio Trittolemo essa predice  pi'imus arabit et seret et eulta praernia tollet humo, togliendo cosi la famigliola e gli uomini tutti  dalle condizioni di vita primordiale in che nutrendosi  di bacche duravano (cfr. il proemio Ceres,  homine ad meliora alimenta vocato, mutavit glandes uti-  Nel verso Dixerat, at Cereri certum est educere  natam il Malten) vuol vedere un riferimento all'orfica discesa di Demetra sotterra. Non mi par che  basti.  Non ho potuto prender conoscenza di G. Bubbe De  metamorphosibus Graecorum capita selecta " Diss. Phil.  Hai.. Uore cibo). Seconda tappa della ricerca è costituita  dalle informazioni che nel cielo danno sul ratto alla Dea,  Helice ed il Sole. Da ultimo accade  il colloquio con Giove e il verdetto finale.  Ermes è il messaggero fra Giove e Proserpina.  Cerere si cinge d'una corona di spighe, segno di pace che  ricorda la promessa fatta a Trittolemo ; e larga messe  proventi (non rediit) cessatis in arvis, ossia nei  campi incoltivati {cesso = non exerceo). L'interpretazione comune (nei campi trascurati) non può reggersi  confrontando i vv. già citati. Ora, dallo schema  cosi tracciato ne' suoi punti cardinali non è difficile trarre  le conclusioni : il concetto fondamentale di una umanità  che prima del ratto si nutre di bacche ed è povera, e dopo  il ratto apprende da Trittolemo la cultura del grano e  si fa prospera, è neoattico ; il luogo del ratto (con cui si  connette l'elenco dei luoghi ove prima avvenne la ricerca)  è desunto dal mito siracusano; la coppia Helice-Sole è  una variante alessandrina della coppia Ecate-Elios del-  Vlnno omerico (cfr. Malten); l'ordine cronologico  degli episodii non è quello dell'Inno, che la tappa in  Eleusi e le informazioni degli astri sono invertite rispetto  ad esso. Di più: quest'ultima inversione obbedisce all'in-  tento artistico di non rappresentar Cerere nell'indugio  di Eleusi quando, già conoscendo il nome del rapitore,  può sperare di riaverne la figlia ; e la sostituzione di  Helice ad Ecate ha per fine una maggiore perspicuità  in rapporto con la più volgata nozion mitologica; e di  gusto alessandrino è la divisione dell'anno per metà può reggersi ammettendo un' incongruenza irrazionale fra i due luoghi; la quale non sarebbe strana  nel poeta.; e col gusto medesimo concorda l'accettazione del concetto neoattico. Adunque possiamo dire  che il racconto dei Fasti è un'alessandrina combinazione  sagace del fondamentale mito neoattico con pochissimi  tratti siciliani e con spunti di recente mitologia.  Siamo pertanto molto lontani dalla trama riprodotta  nelle Metamorfosi e definita sopra: là si ricerca di salvare il concetto dell'/nno contaminandolo  con la saga neoattica; qui deWInno e corretto fin l'unico  particolare non respinto, e predomina una idea aWTnno contradittoria. Sicché ha torto il Malten di supporre ai  due componimenti unica fonte.   Diversi essi appajono anche negl'intenti. L'uno ha scopi  di compiacimento fra letterario e favoloso con le sue  metamorfosi numerose; l'altro ha scopo etiologico. Tale  constatazione può giovare alla ricerca dei due modelli  alessandrini seguiti da Ovidio; ma noi non ci permetteremo di esaminare a fondo questo punto, ritenendolo di  spettanza degli storici della letteratura, e del tutto  secondario per gli storici del mito. A noi basta l'aver  determinato quelle forme fondamentali del mito di Cora  che, costituitesi in Grecia, intervennero poi sul mito si-  racusano, variamente intrecciandosi in complessi disegni. Cfr. Cessi ' Arch. stor. per la Sicilia or. , L'abigeato di Caco. Il problema. Intorno al mito che narra il furto  di Caco ad Ercole e la vendetta di questo, assai pili che  singole ipotesi si combattono opposte teorie. Per l'ima  fra esse, della quale basti citare rappresentanti il  Peter in Roscher Lexicon e il Binder  Die Plebs fra i Tedeschi, e fra gl'Italiani il SANCTIS, STORIA DI ROMA, il nucleo primordiale  del mito è italico, intrecciato su i due nomi di Caco e  di Garano (-Recarano), e travestito sol più tardi con le  sembianze di Eracle-Ercole; il contenuto di esso è na-  turalistico e consiste nella lotta fra il dio solare e il dio  sotterraneo del fuoco; vive nelle tradizioni mitico-poe-  tiche del popolo che lo perpetua, fino a che gli artisti  lo foggiano secondo la tradizione letteraria e gli sto-  rici lo umanizzano e variamente razionalizzano. — Per  l'altra teoria in vece, che sostengono fra noi il Pais  Storia critica di Roma e all'estero il v. WiLAMowiTZ Euripidea Herakles, il Wissowa in  PAtTLy-WissowA Real-Encykl. snon che, ora,  Rei. u. Kult. d. Romer) e J. G. Winter The myth lu - l'abigeato di caco   of Hercules at Rome in " University of Michigan Studies,  Humanistic Series „ Roman History and Mythology edit. by H. A. Sanders (New York), il  mito è opera dell'influsso letterario greco, pur conceden-  dosi in esso una parte all'elemento indigeno (latino o  italico): sia col riconoscere in Caco un " figlio di Vul-  cano , (Pais) " forse , un'antica divinità del fuoco  (Winter); sia col limitarsi ad ammettere che il nome di  lui è ben radicato nel suolo di Roma e d'Italia. Il  problema era in questi termini quando fu ripreso recen-  temente da Friedrich Mììnzee Cacus der Rinderdieb (Basel). Questi facendo suoi i risultati del Wilamo-  witz e del Wissowa dichiarava dover "...nicht die Gewinnung neuer Resultate das Hauptziel sein ; sondern es  sollen nur die alterprobten Mittel philologischer Methode Interpretation, Analyse, Vergleichung mit moglichster Griindlichkeit, Sorgfalt und Umsicht angewendet  werden. Difatti, dopo una indagine la quale  " vielleicht bisweilen allzu peinlich und kleinlich er-  schienen sein solite giunge a sostener questa  tesi : Il racconto è forse da far risalire fino ai principii  della letteratura latina. I più antichi annalisti  lo concretarono nella forma che ci appare in Livio; due generazioni appresso, gli annalisti dell'età  graccana (Cassio Emina, Cn. Gelilo) avevan già razionalizzato la fiaba e vi avevan imaginato un riposto nucleo  di reale istoria; solo la Romantik „ dell'età augustea Nello stesso anno 0. Gruppe svolse in breve nella Beri. Phil. Woch. una sua  ingegnosissima ma, a nostro avviso, non convincente  teoria sul mito di Caco. Egli si fonda su i testi di Festo,  Diodoro e Cn. Gellio che noi sotto interpretiamo con tutt'altro valore. IL VALOKE DEL MITO INDIANO riprese la forma originaria : " Livius, indem er die Sage  einfach als Sage erzàhlte und sich im Hinblick auf seinen  allgemeinen Vorbehalt der Kritik des einzelnen enthielt,  Vergi], indem er die schlichte Sage in das glanzende  Kleid der Poesie hullte. Il nome Caco era  diffuso in antiche tradizioni italiche; egli era  da prima concepito come semplice uomo, pastore o ladrone, e da VIRGILIO (si veda) solo è mutato in un mostro tra divino e bestiale. 'Eracle-Ercole' è già  nella primitiva forma della narrazione e il nome di Garano (Recarano) è il prodotto di una rielaborazione eve-  meristica della versione volgata del racconto.   A chi pertanto voglia novamente studiare il mito di  Caco corre obbligo di tener conto in particolar modo di  questa che, per esser l'ultima ricerca e per presentarsi  con speciali pretese di saldezza logica e precisione me-  todica, sembra aver eliminato ogni obiezione e distrutto  la teoria del Peter e del De Sanctis. Quanto tal sem-  bianza sia falsa è per apparire. II valore del mito indiano.Nella mitologia  indiana del Rigveda il Rosen (a Rigveda)  ravvisò primo un racconto che si potrebbe dire senza  esagerazione identico a quello latino di Caco : la lotta  di Indra con Vritra. I particolari più minuti coincidono  dall'una all'altra fiaba: cosi la clava di Ercole e di Indra,  il muggir dei buoi di entrambi, la caverna rocciosa, ecc.  (cfr. Peter). E ne furono tratte da  più studiosi le conseguenze ovvie: p. e. da Bréal Hercule et Cactts, Elude de Myihologie comparée (Paris),  da Fé. Spiegel in " Zeitschr. f. vgl. Spr.-F. MuNZER in vece ha creduto di poter tra-  scurare al tutto questa significativa coincidenza tra il  racconto indiano e il latino, appellandosi ai nvich-  l'abigeato di caco   ternen „ giudizii del Wilamowitz e del Wissowa (p. 6 e  n. 8). Commise cosi, secondo a noi pare, (simile in questo  al WiNTER) l'errore fondamentale di tutta la sua  ricerca, perché gli sfuggi l'importanza che la suddetta  coincidenza può e deve avere non solo come argomento,  ma come prova " cruciale „ fra due possibilità logiche.  Di fatti, accertato che, in forma quanto più è possi-  bile simigliante, presso i Latini ritorna un mito indiano,  ne consegue da prima che il valore allegorico di questo,  il quale non è dubbio (Bréal), dev'essere a  un di presso identico al significato di quello romano :  la lotta cioè fra luce e tenebra, fra la potenza benefica  del sole e quella malefica dell'ombra e del fuoco. Inoltre, se la forma latina è, fra le molte che il mito  assunse presso i popoli indo-germani, la piii simigliante  al racconto del Rigveda (Kuhn " Zeitschr. f. deutsch. Al-  terth.), par metodico con-  chiudere che la fiaba di Caco germoglia in suolo italico  dalle radici arie, e non è in vece l'imitazione delle  fiabe vigenti presso i popoli affini, quali p. e. i Greci.  Giacche è ozioso e assurdo supporre che imitando un  modello già lontanatosi dal tipo indiano si giungesse a  riprodur questo appunto più fedelmente. In particolare,  prescindendo dalle saghe degli Brani (Ormuzd e Ahriman;  Tistrya e Apaosha) e dei Germani (Siegfried e Fàfnir, ecc.),  su cui si veggano Bréal, Spiegel, i miti greci di Apollo in lotta col Pitone, di Zeus con Tifeo, di Ercole con Gerione, e anche  il racconto dell'abigeato di Ermes in danno di Apollo,  pur ripetendo tutti e tutti travestendo un unico concetto  naturalistico e le sue sfumature e analogie, sono ben  lungi dal riprodurre tanto quanto il mito latino la forma  del Rigveda. Basti a convincersene l'aver letto per Gerione Apollod., per Ermes l'omerico Inno a Ermes, per Tifeo [Esiodo] Teog. 820 e romenco Inno ad  Apollo.   Da ultimo la constatata simiglianza iatima tra l'episodio di Caco e quel di Vritra serve, nell'indagine, a decidere quale fra le discrepanti redazioni del racconto  latino più si accosti al nucleo italico primordiale, quali  elementi sieno gli originarli rispetto ai posteriori o evolutisi corrottisi: però che sia evidentissimo, tanto mag-  giormente esser antico un particolare e vetusta una fi-  gura quanto meglio collimi con le forme e le linee del  racconto indiano. Questo non avverti il Mùnzer (e né il Winter), e si  precluse la via a giudicar con metodica  Nùchternheit i testi cosi dei poeti come degli storici e degli eruditi  latini. VIRGILIO (si veda) ed OVIDIO (si veda); Properzio Il risultato  della ricerca che Munzer conduce nel suo I cap. (se  si omettono, com'è bene, le singole osservazioni le quali  non sempre tengono il dovuto conto delle esigenze poe-  tiche e delle poetiche irrazionalità) è che fra il racconto  del furto e la vendetta di Ercole corre nel material nu-  mero dei versi la proporzione di 1:3 presso Vergilio,  1:2 presso Ovidio, 2:1presso Properzio. Die Folgerung scheint unabweisbar, che appunto nella vendetta  di Ercole Vergilio dev' essersi allontanato dalla tradizione precedente per concedere alla propria fantasia  volo pili libero e più ampia indipendenza.   Dopo aver fatte alquante riserve su cotesto metodo di  contar i versi d'un carme per determinarne gli strati  mitici, i dati sembran da disporre in ben altro modo,  ch'è, solo, logico. Poiché in Vergilio e in Ovidio (il quale  Cfr. Eneide; Fasti; Elegie. F., Kalypso  l'abigeato di caco   da quello dipende, come risulta evidente dalla semplice  lettura e fin troppo è dimostrato dall'analisi del Munzer)  è dato più grande sviluppo alla lotta fra Ercole e Caco  olle al furto dei buoi, due possibilità logiche son da tener  in pari conto. che lo spirito inventivo di Vergilio ivi  si esercitasse piti liberamente e più profondamente in-  novasse. che invece quello fosse anche nella sua fonte  leggendaria l'episodio meglio notevole e significativo del  racconto, e che nel dargli i colori della sua tavolozza il  poeta assecondasse il modello. Tra queste due possibili  ipotesi è d'uopo scegliere; ma scegliere con argomenti.  E non si vede per contro qual motivo induca il Munzer  a preferir senz'altro la prima e a proclamarla unabvreisbar. Ecco in vece che il mito del Rigveda in-  terviene qual pietra di paragone. In esso la vendetta di  Indra contro Vritra è ampiamente narrata con presso  che tutti i particolari noti da VIRGILIO (si veda) ed OVIDIO (si veda) e costituisce, non meno che in questi poeti, un'essenzial  parte della fiaba. Per esso dunque la seconda ipotesi è  da sceglier non la prima, ed è da ritenere che il rac-  conto della lotta fra il dio solare e quel del fuoco te-  nebroso costituisse non pur una rilevante porzione della  leggenda preesistente a Vergilio, ma a dirittura il nucleo  della vetustissima saga italica.   Nella descrizione della grotta di Caco Vergilio è pedissequamente imitato da Ovidio : cfr. En.,  Fasti. Ma perchè V. usa per la spelonca la  frase " solis inaccessum radiis „ là dove 0. preferisce  vix ipsis invenienda feris a esprimere un concetto  affine, il Munzer insiste a lungo su la differenza. Non ci fermeremo, rispettando i poeti. Con eguale sottigliezza d'analisi il M. studia le due  parole semihomo, e semifer che V. usa a designar  Caco accanto a l'altra di monstrum Perché il sembiante degli dei è identico a quello degli ucraini, per  questo semihomo equivale ad halb Gott.  Ma se cotesta è solo una minuzia, grave diviene l'errore  metodico allorquando da essa si traggono le più rigorose  deduzioni logiche : fino a trovare che l'epiteto di vir ,  da 0. tribuito a Caco non si conviene  alla concezione vergiliana del semihomo sebbene 0.  imiti pel resto l'Eneide e ripeta la parola  monstrum e la paternità del ladrone. Per vero il  vir , ovidiano disdice bensì, ma non al concetto di Vergilio, SI a quello del Mùnzer. Ugual giudizio  deve farsi di una serie d'altre inezie, e in particolare  delle osservazioni su l'uso delle saette e della clava,  presso V. ed 0. . Nel mito indiano Indra usa il  fulmine o la clava. Ed è da ricordar pure che cosi le  saette come la clava sono i simboli primordiali dei raggi  solari, e si addicono quindi entrambi all'essenza del rac-  conto. Se quindi la clava o le saette o l'una e l'altre  fossero già nella forma originaria o vi mancassero è im-  possibile dire.   Il M. rileva in fine un'analogia fra l'episodio di Caco  e quel di Polifemo (Odissea t) : dalla quale trae una deduzione che gli è fondamentale. A quel modo che nell'Odissea Polifemo invoca contro Odisseo il proprio padre,  cosi, Caco dovendo essere assistito da un Dio, Vergili©  lo avrebbe fatto figlio di Vulcano (p. 49). E questo  è accanto a una serie di altri monstra , vergiliani  riportati ad analogia, l'unico argomento per  asserire che Caco è nell'Eneide " eine freie Schopfung  der dichterischen Phantasie. Per qual motivo  Vulcano fosse prescelto; perché Caco emettesse fuoco  e fumo ; non è detto ; ma tutto si fa dipendere dalla  " ihn (Vergil) beherrschende Auffassung des Cacus als  eines halb gottlichen, halb tierischen Wesens. l'abigeato di caco Una confutazione ormai non è più necessaria. Più  ragionevole è la tesi del Winteb: che VIRGILIO (si veda) risusciti i caratteri dell'antica divinità del fuoco  Caco sul modello di Tifeo ([Esiodo] Teog.; Inno ad  Apollo). Ma in tal caso è ipotesi molto più logica  e semplice che Vergilio si valga dei caratteri i quali la  tradizione letteraria ha fissati per Tifeo (non che, si  può aggiungere, per altri consimili mostri), a fine di  colorire artisticamente un personaggio del suo tema, non  già di ricrearlo.   Resta che si dica di Properzio. Intorno al quale pru-  dentissimo diviene Münzer; e non a torto,  in massima. Le rassomiglianze del suo racconto con quel  dell'Eneide che il PtOTHSTEm dichiara come riferimenti culti a VIRGILIO potrebbero in  vece esser soltanto riferimenti al modello di questo, per  certo assai noto, a cui è dovuta la conservazione poetica  della saga: riferimenti p. e. ad ENNIO (si veda). E parimenti  antichissima potrebb'essere la concezione di Caco a tre  teste, la quale è nel Rigveda. Si è anche pensato, in  vero, che essa sia dovuta all'influsso greco traverso Ge-  rione : e può essere. Ma forse si preferirebbe pensare che  il particolare venisse soppresso da Vergilio appunto  per dissimilar Caco da Gerione, entrambi avversarii di  Ercole. Se poi l'assenza di Evandro, che nel mito ori-  ginario mancava e che fu indotta dall'equazione erudita  Cacus = Jtajtdff (De Sanctis St. rf. i2. I 194 e n. 2; cfr.  sotto § V), sia pur dovuta alla fonte di Properzio o a  una sua brachilogica omissione, non è possibile dire. A  ogni modo nel tutt'insieme il racconto di lui sembra  avere un'impronta arcaica ed è certo un indizio egregio  di quel che il mito potesse essere prima dell'intrusione  di Evandro. LIVIO E DIONISIO Livio e Dionisio. Cfr. LIVIO (si veda); Dion. Il Caco di LIVIO (si veda) è pastor ferox viribus, e  prima di venir abbattuto da Ercole " fidem pastorum  nequiquam , invoca. E in somma un uomo: ben diverso dal monstrum di VIRGILIO (si veda). Di qui due possibilità si presentano al critico: o la concezione liviana è  prodotto d'un erudito razionalista che ha abbassato la  statura del personaggio; o la concezione vergiliana è  l'effetto d'un volo fantastico del libero poeta. Münzer  che s'è chiusa la via a sceglier con  metodo, si attiene a questa seconda ipotesi senza visibili  ragioni. E nello stesso errore cade, per motivi  analoghi, il Winter o. c. Il mito indiano per contrario  decide incontrovertibilmente a favor della prima e induce  ad affermare, con la maggior sicurezza possibile in cosi  fatte ricerche, che Livio riflette una forma razionalizzata  e umanata della saga. La quale serba tuttavia anche  cosi un indubbio color favoloso ma è più lontana assai  dall'origine naturalistica. E poiché a ragione il Miinzer  afferma LIVIO (si veda) indipendente da VIRGILIO (si veda) e attinente a una fonte pre-vergiliana, se ne deve conchiudere  che l'età augustea riceva dalle anteriori intorno a Caxìo  ed Ercole almen due versioni, l'una più dell'altra co-  lorita.   A punto perché anche il racconto della fonte di Livio  è coperto di una patina da fiaba, Dionisio scrive :  UoTi óè xGiv i}7iÈQ Tov Sttifiovog Tovóe Àeyoftévojv tà fièv  fiv&iKÓtteQa, za d' àÀij&éais^a; e a lui difatti, se il rac-  conto della fonte vergiliana poteva sembrare degno di  poeti, ma non di uno storico erudito, quello della fonte  liviana doveva apparire a bastanza verisimile per esser  riportato, troppo poco prammatico per non preferirgliene  uno in cui dietro a Ercole e a Caco stessero degli eser-  citi interi. Col che si confuta il Mùnzer quando,  l'abigeato di caco   prendendo rigorosamente alla lettera il [iv&iKdjxsQa, af-  ferma che Dionisio intese narrare "die Fassung, der  Sage..., die mit den buntesten Farben geschmùckt war „;  e non si accorge che il comparativo è da riferirsi solo  alla seconda versione, più vera „ della prima e men  favolosa.   Assai brevi sono Livio e Dionisio nel narrare la lotta  fra Ercole e Caco, quella su cui si dilunga VIRGILIO (si ved)  e il mito del Rigveda. Il motivo è chiaro: quivi appunto  era il perno del mito e il fondo della sua allegoria;  quivi il razionalista più deve sopprimere (contro M.). Mentre però Livio concepisce Caco qual pastore, Dionisio lo dichiara Àrjatrig rtg èjtix(ì>Qios. Tal diffe-  renza acquista valore se la si contrappone alla concordia  con cui due poeti indipendenti, VIRGILIO (si veda) e Properzio, raffigurano Caco sotto la specie del mostro. Gli è che in  questi ritorna l'immutato concetto primordiale; negli  storici in vece si rispecchiano razionalizzazioni, simili non  identiche, dell'unico mito: non identiche, perché è dif-  . fìcile raggiunger l'accordo nel travestir le fiabe : del-  l'unico mito, perchè nel " ferox viribus , come nel  yi^/oTTjj ri j traspare ugualmente il ' monstrum „. (Contro  MùNZER). In Dionisio Caco ad Ercole che lo interroga risponde  di non aver visto i buoi. Ciò, fu notato, corrisponde a Vergilio (abiuratæ rapinæ). In  Livio (e in Ovidio in Properzio) manca il particolare. Se  non che cosi della presenza come dell'omissione è difficile far giudizio. Cotesta astuzia di Caco è da avvicinare  all'altra di condurre " aversos „ i buoi : ed entrambe ritornano nell'omer. Inno a Ermes. Nel quale, ove si narrano le astute imprese  del Dio, son per vero dicevolissime e consuonano al tono  burlesco di tutto il racconto; là dove sembra che la fiaba di Caco, che è contesta su la lotta violenta della luce  contro il tenebroso fuoco, male armonizzi con scaltrezze  COSI fatte. Si propenderebbe quindi a ritenere tutt'e due  i particolari più tosto ornamenti introdotti sotto l'influsso  letterario greco che analogie originarie. La quale ipotesi  spiegherebbe anche la brevità degli accenni in Vergilio  e Dionisio. Mentre ben altra è la natura del muggire i  buoi nell'antro di Caco: che è primitivo simbolo del  tuono (Bkéal 0. e. 93 sgg.). (Contro Mììnzer). E  anche sotto l'influsso greco di Polifemo {Odiss. i) può  essersi introdotta l'invocazione di Caco ai pastori vi-  cini a quelli che solevano adz^ avvayQavÀslv : la  quale difatti manca nel Rigveda, e non è intrinseca-  mente connessa con la forma prima del mito. — Né si  erra forse di molto attribuendo a Ennio stesso queste  imitazioni di fonti greche che si ritrovano poi, cosi nei  poeti come negli storici; cosi, cioè, nel mito come nei  suoi travestimenti razionali.   Risulta adunque che la fonte di Livio e, in parte, di  Dionisio conteneva un racconto umanato rispetto a quello  poetico che è fonte di Vergilio, di Ovidio e di Properzio;  ma tale che lascia trasparire a sufficienza la forma pri-  mitiva, in ispecie negli episodii di astuzia. Ma comune  agli storici e ai poeti è anche un'altra parte del mito:  la etiologica, che attende ora il nostro esame. I particolari etiologici del culto. Quella parte  del racconto, in VIRGILIO (si veda), OVIDIO (si veda), Properzio, LIVIO (si veda), Dionisio,  che narra gli avvenimenti seguiti all'uccisione di Caco  fu presto riconosciuta posteriore alla prima e intessuta  di particolari etiologicamente desunti dal culto di Er-  cole. Ma se non è più possibile questionare su ciò, bisogna ancor discutere su i singoli particolari. A tal pro-  posito il MùNZEE (p. 88) asserisce: dassin der Tat Cacus l'abigeato di caco   und Euander nichts miteinander zu tun haben; dass zwei  ganz rerschiedene Erzàhlungen, die nur die Persoti des  Hercules als einen Trdger der Handlung gemeinsam haben,  rein àusserlich zusammengeschweisst worden sind. E  anche: Der Einfluss der Verbindung mit Euander àusserte sich am frubesten und am bedeutssamsten dadurch, dass der Scbauplatz des Cacusabenteuers naher  bestimmt wurde. A questa concezione si contrappongono le parole del De Sanctis (ìS^^. d. jB. I 154): "hanno  contribuito a suggerirne del mito i particolari l'Ara Massima d’Ercole vincitore nel foro boario e le vicine  scale di Caco sul pendio del Palatino (Solino; Diod.). Tardo poi e dovuto soprattutto a un giuoco etimologico è il contrapposto fra l'uomo buono e benefico  del Palatino, Evandro (1), e il cattivo ladrone (xaxó^) del-  l'Aventino (su questo punto ha giudicato rettamente  A. Bormann ... Kritik der Sage vom Konige Evandros). La  tesi del De Sanctis si può dimostrare più verisimile.  Due son le figure principali del mito: Caco ed Ercole;  e l'una d'esse certo latina o italica, l'altra certo, in quella  forma, greca. Se v'è dunque in Roma un luogo cui si at-  tiene il nome di Caco (scalæ Caci) e uno ove si  rende culto ad Ercole, il metodo e la logica vogliono che  questi due servissero a localizzar il mito e il primo in-  nanzi al secondo. Si potrebbe, è vero, pensare anche che  l'Ara Massima sia stata la causa della localizzazione di  Caco (quando a Recarano-Garano fu sostituito Ercole). Ma  l'ipotesi sarebbe difficile da sostenere perché suppone,  prima della comparativamente tarda intrusione di Ercole,  Euander, che nella sua forma greca sonava -E'^av^^ìo^,  e che era la mitica personificazione della eéavÒQÌa, fu interpretato buon uomo per un lunghissimo lasso di tempo non localizzata la  saga. Là dove l' essersi anche topograficamente Garano-Recarano ed Ercole trovati vicini giova a spiegarne  la fusione : se difatti l'uno era con Caco fissato presso il  Palatino, l'altro si stabili all'Ara massima, la contiguità  dei luoghi giovò senza dubbio a fondere le due simiglianti figure. Se non che nel Thes. L. L. Suppl. {Nom. propr.) a proposito del Kdxiog diodoreo è osservato: hic perperam idem esse putatus est atque Cacus deus ; fuit re  vera auctor gentis Caciæ. E il Mùnzer accetta, pur  ammettendo che il nome alle scale possa derivar  anche da Cacus (non Cacius): " aber dann bleibt eben  Cacus ein Name, der schon for die Romer ohne Tnhalt  und Bedeutung war. Ora il testo di Diod. (che è : èv xavtrj oh twv éTiicpavcóv ò'vreg àv6Qù>v Kamog  xal HivaQiog èòé^avvo tòv 'H^UKÀsa §evcoig àicoÀóyoig  Hai ócàQealg xsxccQiafiévaig étifirjaav ' noi tovtcov tòìv  àvÒQcàv èTCOfiv^fiata ftéxQi t&vòe tù>v KaiQÒiv óiafiévet  Korà xìiv 'PiLfiTjv.TÒJv yàQ vvv eiiysvùv àvÓQwv zò ziàv  UtvaQÙoìv òvofia^o^évcùv yévog òia^évei, nagà zoìg 'Pco-  ftaloig, à)^ vTiccQXov àQ^aLÓzazov, zov óè Kaxiov èv z(p  HaÀazCcj) •/.azd^aalg èaziv ey^ovaa Ài&lvrjv KÀifiaaa zrjv  òvof*a^ofi£vt]v àn èy.eùvov KaKÌav, oiaav nÀrjaiov zfjg  zóve yevofAévrig oiniag zov Kaxiov.) mostra troppo chiara  l'origine del suo contenuto. I dati certi che possiede sono: l'esistenza di scalae Caciæ, l'antichità dei Pinarii;  le attinenze amichevoli, tradotte nel culto, tra Pinarii  ed Ercole. Da questi dati sono desunti: per falsa etimologia il nome KaKtog; il nome Ilivd^tog) (per  analogia) le attinenze amichevoli tra Ercole e Cacio, le  cui scale son prossime a quell'Ara Massima (Joedan-  HuLSEN Topogr.) ove al culto erculeo i Pinarii  partecipavano. Tale costruzione da erudito costringe ad  l'abigeato di caco   ammettere l'ignoranza, vera o pretesa, e della lotta fra  Ercole e Caco, e dei Potizii (ignoranza, si badi, che anche  il Miinzer deve presupporre, nella sua ipotesi). E poiché  i Potizii, estinti (Haug in Pauly-Wissowa R. E., VITI), avevan avuto di fronte ai Pinarii privilegio nel  culto, non è arrischiato pensare che il racconto in cui di  quelli si tace al tutto e si tace del mito ove quelli eran  inevitabilmente da menzionarsi, sia dovuto a questi appunto (cfr. Pais STORIA CRITICA DI ROMA:  contro WiNTER). A ogni modo le scalae Caci del Palatino derivano, se  la nostra ipotesi è vera, da Cacus, come da esse fu tolto  Kdxiog: e additano per tanto la prima naturai sede della  lotta. E perchè accanto alla menzione di esse va posto  il dato tradizionale su la caverna dell'Aventino (VIRGILIO (si veda)En., OVIDIO (si veda) Fasti), se ne deve concludere:  che la localizzazione di Caco è mossa dall'area piana ch'è  fra Palatino Aventino e Tevere, diffondendosi in un senso  verso il Palatino {scalae: cfr. poi Evandro, sotto), nel-  l'altro verso l'Aventino (caverna).   La seconda sede, non lontana, fu l'Ara maxima la  quale servi a fornire assai più tratti al disegno: ciò sono,  tutti i particolari connessi con il culto romano d'Ercole.  (Cfr. Peter). Che se il mito di Caco è,  come si vide, italico e vetustissimo, là dove Ercole è  un, comparativamente, tardo travestimento dell'Eracle  greco, si deve ritenere che tutto quanto si attiene solo alla figura di questo costituisca un secondo strato leggendario. Del quale le diverse derivazioni appajono in  genere concordi nella sostanza : cfr. gli aneddoti sul sacrifizio di buoi, su i Potizii e i Pinarii, su la decima, ecc.  In vece maggior discrepanza si presenta intorno all'esclusione delle donne dal culto di Eracle, su cui si danno  tre versioni : da Properzio; dallo scritto OìHgo geni. rom. 6; e daPtUTAECo Q. r. 60: tutte dififerenti,  in ispecie la prima rispetto alle due altre. TI che signi-  fica come un unico fatto venisse travestito in almeno  due forme diverse. Lo stesso si può dire dell'ara lovi in-  ventori che è ricordata in Dion., Solino, Origo  geni. rom., OVIDIO (si veda), e taciuta dagli altri. Il qual  silenzio dimostra, se non più, che il nesso tra quell'al-  tare e YAra maxima non era nel mito etiologico essen-  ziale, e forse anche che v'era entrato tardi. Onde non è  improbabile che il motivo ne vada cercato nella topo-  grafia: giacché secondo Dion. l. e. l'altare lovi inventori  è naqà tfj TQiòifiq) IIvÀrj ov'è un altro tempio d'Ercole  (Cfr. Gilbert Gesch. u. Topogr. d. St. Rom. II 158). Ma ha certo ragione il Peter quando ritiene tarda invenzione il voto di Ercole per cui presso Solino I 7 l'eroe  erige l'ara a Giove. Or se la discordia delle fonti giustifica l'ipotesi che  il secondo strato leggendario si sia arricchito parzialmente  per più tarde aggiunte, la medesima discordia conferma  l'asserzione del De Sanctis (nonché del Bormaim) in-  torno ad Evandro. Di fatti la presenza di lui, che è  essenziale nei racconti di Strab. V 2 30, Veeg. l. e, Lrvio  1. e, Dion. l. e, OVIDIO (si veda) e, Solino, Serv. En.  (= Myth. Vat.) e nello scritto  Origo geni. rom. 7, e manca solo in Propeez. l. e. non si  sa bene perché, è però narrata in fogge  diverse. Mentre p. e. Livio e Dionisio attribuiscono a lui  la instituzione dell'Ara Massima, in Vergilio in Ovidio  in Solino Evandro non è che uno, e sia pur il principale,  fra gli spettatori del primo sacrifizio: e secondo Servio  egli è da prima ostile ad Ercole. D'altra parte la istitu-  zione medesima dell'Ara è attribuita a un vaticinio ora  di Nicostrato (Strab. e Solin.) ora di Carmenta (Liv. e  Ovid.) ora di Temide (Dion.) ora dell'oracolo Delfico l'abigeato di caco   (Myth. Vat.). Ma Carmenta partecipa al mito sol perché  la Porta Carmentalis (a sud-ovest del Campidoglio) è a  nord del Foro Boario ov'è l'Ara Massima. E Nicostrato  e Temide son sue variazioni di sapore greco. E parimenti è chiaro che il vaticinio di lei è un accessorio  della leggenda, parallelo bensì a quel di Evandro, però  con una base topografica non pseudo-etimologica. Entrambi poi vennero fusi col far Carmenta madre di  Evandro.Se non che tutto cotesto processo semierudito e semifantastico traspare ancora nelle fonti dell'età  Augustea, in quelle medesime ove non è più incerta  la localizzazione della saga nel Foro boario ed è solidamente fissata la figura greca di Eracle-Ereole: e se ne  deve pertanto dedurre che Evandro è rispetto a questo  di gran lunga più tardo. Rappresenta dunque il terzo  strato leggendario, fuso con quel di Carmenta; e a cui  un'aggiunta è introdotta col far da lui annimziare la venuta di Ercole a Fauno (Cfr. De Sanctis o. c. 192 su  Fauno ed Evandro, e Origo geni. rom.). Di qui s'iniziò poi una mitografia del tutto secondaria  la quale combattente contro Ercole o introduce Fauno  in luogo di Caco (se non parallelamente a questo) (Der-  CYLUS Italica fr. 6 appr. Mullee); o di Fauno il  figlio, Latino (Conone Narr. appr. Fozio Bibl. cod.;  cfr. anche Schweglee Rom. Gesch.). In breve, il complesso etiologico inseritosi nel mito è,  a prescinder da tarde superfetazioni, sceverabile in tre  strati: Caco, con le scalae e la caverna (Palatino-Aventino) ; Ercole, con l'Ara Massima; Evandro, con taluni  episodii mal fissati e fluttuanti. Anche su queste etiologie,  come sul mito vero e proprio, si esercita il razionalismo  degli eruditi.  Gli eruditi. Il riscontro degli errori in cui GLI ERUDITI cade la dimostrazione del Munzer su Caco è offerto dal  suo cap. VI die antike Forschung. Egli si trova di  fatti costretto, dinanzi a due testimonianze che la nostra  tesi spiega traendone a sua volta conforto, a dichiararsi  incapace di chiarirle. Nell'Interpol, di Seev. En. Sane de Caco interempto ab Hercule tam Graeci quam  Romani consentiunt: solus Verrius Flaccus dicit Garanum  fuisse, pastorem magnarum virium, qui Cacum adflixit,  omnes autem magnarum virium apud veteres Hercules  dictos ,) e nello scritto Or. gen. rom. Recaranus quidam, Graecæ originis, ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui  erat fortuna et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus) ritoma sotto due forme diverse un nome diffe-  rente da quel di Ercole, nella lotta contro Caco: Garanus  e Recaranus. Qual delle due forme sia da preferirsi è  incerto (con Mukzee contro Peter o. c.,  Pais., Winter, Bohm in Pault-Wissowa R. E.). Ma non è incerta, a noi pare, la in-  terpretazione di esse. Sappiamo che il mito di Caco è  antichissimo, che Eracle non divenne Ercole se non più  tardi, che per tanto una figura indigena, latina o italica,  lo deve aver preceduto. Troviamo ora un nome sotto  due forme, che sembra prettamente italico ; troviamo che  gli eruditi si son sforzati di conciliar esso nome (e non  potevan quindi senz'altro eliminarlo) con quel di Ercole  per mezzo dell'asserzione " omnes magnarum virium Hercules dictos ,. Riteniamo per conseguenza legittimo at-  tribuire tale nome appunto al personaggio italico il cui Cfr. H. Peter Die Schrift * Origo gentis romanae in Berichte der K. Sàchsischen Gesell. d. Wiss. zu  Leipzig , Phil.-hist. Kl. l'abigeato di caco   preesistere ad Eracle era a priori pensato. Quando in  vece Mùnzer deve asserire, giusta la sua tesi,  che un cotal Garano (Recarano) è invenzione di eruditi  (i quali dunque avrebber voluto, essendo Caco un pastore,  dargli avversario un semplice pastore non un eroe famoso) contraddice in parte sé stesso perché, se Caco è  originariamente un pastore, un uomo anzi che un dio,  sin dall'origine non doveva essere un dicevole avversario  di Ercole; e non riesce poi a interpretare il nome Garano (Recarano) né a dire donde Verrio l'abbia ricavato.  Là dove per noi l'oscuro nome è conferma della natura  del vetusto iddio. Né giova, per questo secondo rispetto,  l'ipotesi dello Schott (che il Pais St. crii. d. R. I 1, 200 n.  e WiNTER accettano), Garano e Recarano esser  " due forme errate di Karanos l'eroe argivo eraclide,  fondatore della stirpe dei re Macedoni „. Nulla di fatti  può esser addotto a conferma di tale ipotesi, che non  ha per sé se non un'approssimativa simiglianza formale  dei nomi, e ha bisogno a sua volta d'esser spiegata,  giacché sembra assai strana cotesta scelta degli eruditi  latini. Il supporre, in fine, col Mììnzee 95 che Garanus sia  un obliterato epiteto di Ercole è pericoloso per la tesi  di lui : giacché in quel caso diventa di nuovo probabile  che l'epiteto obliteratosi non sia se non il nome stesso  della divinità soppiantata da esso Ercole. In breve l'osta-  colo non si supera bene se non da chi, come noi, abbia  preso le mosse dal mito indiano e creda all'antichissimo  mito latino. Altra testimonianza che il M. non spiega è quella su  Caca. Servio En. (= Myth. Vai.) parla d'una sorella di Caco, Caca, la  quale lo avrebbe denunziato: ed ivi pure è data notizia  di un " sacellum Cacao ,, e si aggiunge " in quo ei per virgines sacrificabatur (cod. Reginensis); per vir- GLI ERUDITI gines Vestae sacrificabatur {codd. rei.); pervigili igne  sicut Vestae sacriflcabatur {cod. Floriacensis) „. L'ultima  lettura è la preferita; la prima sceglie il M. Ch'egli abbia torto dimostra la seconda: la quale nella  sua concisa oscurità e nella confusione che contiene, è  pili tosto il risultato d'un'amputazione dell'ultima che un  ampliamento della prima. Comunque, lo stesso M. deve  ridursi ad ammettere l'esistenza del sacellum  a una dea Caca. Col che ha già ammesso troppo contro  la sua tesi : perché una dea di quel nome è il riscontro  pili magnifico che si potesse sperare a un supposto dio  Caco. Se poi si aggiunge che all'una si sacrifica sicut  Vestae, e l'altro emette fiamme dalla bocca, la deduzione non può esser che una. Verissimo tuttavia che  lo spionaggio attribuito a Caca in Servio non le è da  imputare, come quello ch'è una erudita invenzione poco  felice in contrasto con tutto il mito. Che Caca sia poi il  travestimento di queir " una boum , che appresso VIRGILIO (si veda) rivela il furto né meno il M. osa sostenere.  E se il sacellum Cacæ sia per il M. oscuro al pari dell'atrium Caci, e se entrambi oscuri  non sono per la nostra tesi, par che non vi sia più molto  a discuter su gli argomenti dell'una e dell'altra parte.  Due composizioni erudite meritano di esser qui ravvicinate, l'una più compiuta che l'altra. Servio En. si esprime: Cacus secundum fabulam Vulcani filius  fuit, ore ignem ac fumum vomens, qui vicina omnia  populabatur. veritas tamen secundum philologos et historicos hoc habet, hunc fuisse Euandri nequissimum  servum ac furem; ignem autem dictus est vomere,  Cfr. su Caca, Giannelli II sacerdozio delle vestali  romane (Firenze l'abigeato di caco   quod agros igne populabatur; novimus autem malum  a Graecis kuhóv dici: quem ita ilio tempore Arcades ap-  pellabant. postea translato accentu Cacus dictua est ut  'EÀévi] Helena (Cfr. Myth. Vat.).  Poi a En. si danno le notizie sull'Ara Massima i  Potizii e i Pinarii ecc. in una forma non inconsueta, che  qui non c'interessa più. Il razionalismo si  è qui dunque limitato: a ridurre a uomo il dio, a spiegar  il fuoco che il poeta gli fa emettere, a interpretar il  nome.   Molto più si permette il racconto che si trova in Origo  gen. rom.: " Recaranus quidam, Graecae originis,  ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui erat  forma et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus;  Cacus Euandri servus, nequitiae versutus et  praeter caetera furacissimus: tali i due avversarii.  Caco ruba a Recarano i buoi e questi dopo vana ricerca  è per partirsi quando Enander, excellentissimae  iustitiae vir, postquam rem uti acta erat comperit, servum  noxae dedit bovesque restitui fecit ,. Allora Recarano  dedica " inventori patri ^ un altare e lo chiama Ara  Massima e vi sacrifica la decima parte dei proprii buoi.  Carmenta, invitata, si rifiuta di parteciparvi e le donne  son perciò per sempre escluse dai sacrifizii in quel luogo. Cotesto racconto è di gran lunga più finito e parti-  colareggiato di quel ch'è in Servio. L'interpretazione razionale qui si estende fin là, dove il primo non si dilungava  da Vergilio. L'antico nome Recarano (Garano) l'autore concilia col più noto d’Ercole, Ercole mutando in soprannome.  Inoltre, poiché non può giustificar l'intervento d'Evandro  come p. e. Livio, né valersi di vaticinio alcuno ; poiché  d'altra parte il giuoco etimologico ha fatto %aKÓs servo  di EijavÒQos: omette il duello tra Recarano e Caco, ch'era  ricchissimo di particolari mitici (fuoco fumo clava ecc.),  GLI ERUDITI e attribuisce ad Evandro la scoperta del furto, senza  dircene il modo, nel testo pervenuto almeno, che non  si esclude in un testo piii ampio il muggito indiziale po-  tesse ritornare. E di Carmenta in fine tralascia la pro-  fezia; ma si vale di essa per un mito etiologico. Allo  stesso modo, non potendo l'Ara massima venir instituita  da Ercole ch'è qui soppresso, viene a ragion veduta con-  fusa con l'ara lovi inventori, e la gratitudine basta a  spiegarla.   Tra Servio e il racconto della Origo v'è simiglianza profonda in taluni punti: cfr. la figura di Caco; dissimiglianza in altri. Di questa si comprende il valore comparando la sicurezza con cui ixqW Origo si assevera che  Ercole non è se non il soprannome di Recarano, alla  prudenza con cui l'Interp. di Servio {En. Vili 203) oltre i  concordi racconti su Caco nota la tesi di Verrio Fiacco su  l'identità Garano = Ercole. Ciò mostra che Servio ha presente con altre la fonte medesima àoìVOrigo; ma se ne  vale solo saltuariamente rispettando molto pili il racconto di Vergilio che commenta. Qual fosse poi la fonte  di cui, in vario modo, approfittano e Servio e l'autore  àeWOrigo, è detto quivi haec Cassius  libro primo Ossia quasi certamente L. Cassio Emina. Mùnzer a tal proposito suppone che a Cassio  venisse attribuito tutto il racconto per esagerazione, in luogo di un solo passo. Di Cassio però abbiamo (Peter  fr. 4) un frammento su Evandro e Fauno. Egli trattò ve-  risimilmente tutta la saga di Evandro e quella di Caco.  Non v'è dunque ragione per negare che nella tradizione  erudita si serbassero (anche e specie mediatamente) di  lui estratti a bastanza ampii intorno a quel mito. Del  resto, se anche un solo suo passo poteva addirsi al racconto dell'Orlerò, si può sostenere che in lui era al mena  assai simile la razionalizzazione del duello fra Ercole e F. Kalypso. l'abigeato di caco Caco. Ma poiché questa appare neWOrigo organica e armonica in tutti i particolari, è difficile negare che, cosi  definita, non si trovasse già anche in Cassio. (Contro M.).  Di natura opposta alle due testimonianze erudite che  furon or ora discusse sono i racconti di Dion. e  di Cn. Gellio appr. Solino = Peter fr. Difatti là  dove in quelle la lotta pur umanandosi resta limitata a  due soli personaggi; in queste in vece si allarga ad eserciti. Ma se Dion. non ofi"re grandi difficoltà, quando si  conoscano le fiabe degli eruditi latini su gli Arcadi di  Evandro e gli Aborigeni di Fauno (De Sanctis St. d.  Bom.); per contro Gellio è oscurissimo, Cacus, ut Gellius tradidit, cum a Tarchone Tyrrheno,  ad quem legatus venerat missu Marsj'ae regis, socio Megale Phryge, custodiae foret datus, frustratus vincula et  unde venerat redux, praesidiis amplioribus occupato circa  Vulturnum et Campaniam regno oppressus est. Megalen  Sabini receperunt, disciplinam augurandi ab eo docti. Il carattere che sùbito appare più evidente in tal rac-  conto è il travestimento erudito razionalista; cosi che, se  esso anche avesse a contenere forme ignorate del mito,  le conterrebbe certo sotto un velame. Inoltre vi son  tracce palesi di contaminazione : gli Etruschi difatti, i  Marsi, i Sabini, i Campani sono compresi in queste poche  righe, ed è difficile che una schietta e unica leggenda  originaria accosti per tal modo tanti popoli. Ora fin  che Gellio fa combattere Ercole contro un Caco insediato  sul Volturno più tosto che contro uno sul Palatino, possiamo intendere ch'egli preferisse foggiarsi il mito a imagine della reale storia e si valesse a ciò p. e. della prima  Sannitica inventandone un precedente; che non si scoste-  rebbe in questo metodo gran che dalla fonte di Dionisio  la quale di Caco crea un antecessore di Fauno ed Evandro. LI ERUDITI E non è rigorosa l'ipotesi che costretto egli vi fosse da  un mito cumano o campano (il passo di Festo s. V. Romam è di lettura troppo mal sicura e  nulla se ne trae). Cosi quando ricorda Megale Frigio e  i Sabini, si ricava dalla " disciplina augurandi , trattarsi  d'una secondaria e piccola leggenda etiologica o etimologica che qui viene inserita per ignoti motivi. Quando  in vece è introdotto l'eponimo di Tarquinii (Tarchone)  che avrebbe usato violenza contro Caco non si sa per  qual modo, sembra tutt'altro che improbabile, vi sia qui  un'elaborazione di quella leggenda istessa la quale è ritratta, sotto forma mutata, in alcuni specchi etruschi  [KòETE Etruskische Spiegel V tav., Rilievi delle tirne  etnische; Petersen Jahr. D. Instituts; De Sanctis Elio;  MuNZER 0. e. e Rhein. Mus.]  e il cui nucleo dovrebbe consistere nell'assalto proditorio  contro un Caco dal benigno aspetto. Ond'è che difficilissimo resta, nell'attuali condizioni della scienza, decidere  se anche per i Marsi si debba attribuire la loro pre-  senza al desiderio di foggiar il mito su lo schema della  storia, come ci parve probabile per i Campani; o alla  contaminazione d'una terza leggenda con la latina e  l'etrusca. Riassumendo adunque, Cassio Emina e Cn. Gelilo rappresentano bensì un unico atteggiamento di fronte alla  leggenda di Caco, come vuole il Mùnzer, ma ciascuno ne  esprime una forma diversa. Il primo si serba vicino alla  poesia molto piii che il secondo. Quello par travestire  la fiaba che sarà poi seguita da VIRGILIO (si veda). Questo, il racconto che narra Livio. Per ciò Dionisio dopo aver  esposto il mito assai similmente a LIVIO (si veda), dà il suo àAri- éazeQos Myog come un'interpretazione del fiv&ty.óg =  liviano: dà, in somma, il racconto razionale dell'anna- m. - l'abigeato di caco   lista pili tardo come ermeneutica del racconto favoloso dell'annalista più antico. Allo stesso modo che  Servio appone la forma cassiana del mito per esegesi al  testo vergiliano, desunto da Ennio. Tra le due teorie che (cóme  vedemmo in principio) si combattono intorno a Caco, è  da preferire quella che crede ad un antico mito latino»  in quanto tien maggior conto di tutte le testimonianze  ed è meglio in grado di spiegarle tutte insieme e coerentemente. La evoluzione letteraria poi del mito, contradicendo il Mùnzer e compiendo il breve disegno del  De Sanctis, va tratteggiata cosi: dopo che in tre strati  (intorno a Caco prima, poi ad Ercole, poi ad Evandro)  si è contesta la leggenda, la parte sostanziale di essa è  elaborata con diversità di tono da un poeta (Ennio) e da un  annalista; l'una e l'altra forma vengono, nell'età succescessiva, razionalizzate in Cassio Emina e Cn, Gellio. L'età  augustea riproduce (con i poeti e Livio da un lato, Dio-  nisio e Verrio Fiacco dall'altro) tutt'e quattro queste ma-  nifestazioni.  Cirene mitica. Bibliografìa e metodo. Il complesso dei miti  raccolti attorno alla figura di Cirene è studiato già da Theige Res Cyrenensium etc. (Bafniae) che raccolge i materiali e, in comparazion dei tempi, seppe vagliarli. Trova poi trattazione minuta ed accurata  per opera di Studniczka Kyrene, eine altgriechische  Gottin (Leipzig), che la stessa materia rielaborò  in RoscHER Lexicon; e di Malten  Kyrene, sagengeschichtliche und historisehe Untersuchungen  in Philologische Untersuchungen, del Kiessling e Wilamowitz ove è tenuto conto anche delle ipotesi brevemente enunciate da Geecke in Hermes. Nella sostanza identico e sol nella forma diverso  si vegga questo capitolo negl’Atti della R. Accademia  delle Scienze di Torino. Qui appare con un'ampiezza più dicevole, che lo spazio ora  consente. Dopo i quali non si vuol citare che  lo scritto di Vincenzo Costanzi Tradizioni Cirenaiche in Ausonia. Indipendentemente il  Costanzi ed io abbiamo nel medesimo tempo assunto una  stessa attitudine di fronte ai miti cirenaici, la quale si  contrappone in modo reciso a quella dei nostri prede-  cessori. A prescindere di fatti dalle particolari discre-  panze che ci dividono, noi siamo concordi nel non " voler  cercare un significato recondito nei miti (Costanzi) p, oom'io mi espressi (Atti), nel non volervi  cercare la chiave delle più antiche vicende greche in  Tara e in Libia. Là dove in vero lo Studniczka {Eyrene) nega di poter spiegare la leggenda di Cirene  senz'ammettere una vetustissima colonizzazione tessalobeota in Tera; e Malten pure  stimava necessaria l'ipotesi che, prima dei Dori, la Libia  fosse stata abitata da un popolo misto tessalico e pelopico direttamente venuto dal Tenaro recando e figure  divine e fogge linguistiche; mi assumo in vece di provare come le vicende storiche, ben note nell'insieme, tra  cui sorse e visse la Pentapoli cirenaica, sieno sufficienti  a spiegar del mito non pure Toriginarsi si anche, di stadio  in stadio, l'evolversi. Determinato cosi il mio antitetico  punto di veduta, passo ai particolari. La ninfa Cirene. Dopo che il Malten ebbe dimostrato contro lo Studniczka la natura  libica di Cirene e la vera origine del nome e del suo  essere mitico non avrei che da richiamarmi a lui su  questo punto, se non dovessi rispondere alle obiezioni a  me mosse, avverso tale tesi, privatamente da 0. Geuppe. Egli, nel permettermi di pubblicare questa sua let- Ich glaube nicht, dass Kyrene nach der libyschen  Lokalbezeichnung einer Quelle (Kyra) genannt und erst  nachtràglich mit Aristaios in Verbindung gesetzt ist. Die Kyrene von Abdera und Maroneia ist zwar, wie dies bei der Aehnlichkeit der Namen natùrlich ist,  friih mit der Pyrene von Kreston verwechselt worden,  war aber gewiss ursprùnglich von ihr verschieden, und  es ist zum mindesten unstatthaft, ftìr Kyrene, die Mutter  des Diomedes bei Apollodor, Pyrene einzusetzen. Es kommt hinzu, dass eben hier, auf dem benachbarten  Ismaros, auch von Orpheus, Eurydike und Aristaios die  Rede ist, und von dieser Kùste stammt der im Schiffs-  katalog erwàhnte Kikonenkonig Euphemos, der Sohn des Troizenos. Nicht weniger als vier Namen der kyrenaischen Sage, Kyrene Aristaios Euphemos und Diomedes, kehren auf ganz engem Raum an der thrakischen Kùste wieder. Dass die Verbindung dort eine ganz andere ist, beweist gerade dass wir es hier mit  einer sehr alten, den bekannten Epen vorausliegenden  Ueberlieferung zu tun haben „ (Cfr. Malten; Studniczka). " Aber nicht genug damit. Auch in Kroton ist ein Kyrene (als Mutter des Lakinios) bezeugt, und dass auch hier Aristaios nicht fehlte  ist aus demPersonennamen des krotoniaten Aristaios mit Wahrscheinlichkeit zu schliessen. Diomedes ist fùr Kroton bisher, so viel mir bekannt, nicht bezeugt, tera, esprime il dubbio che le sue argomentazioni non  potessero riuscire efficaci a bastanza, per la brevità con  cui ebbe ad esprimermele. Del che ogni lettore intelli-  gente gli terrà, credo, il dovuto conto. Quanto a noi,  manifestiamo l'augurio che l'illustre e dotto studioso  sostenga presto in pubblico con tutta i'ampiezza la propria Jambl. vii. Pijth. (N. d. Gr.). CIRENE MITICA aber doch fùr das benachbarte Thurioi. Aus alledem glaube ich entnehmen zu durfen: dass Kyrana und  seine Kurzform Kyra griechischen, nicht libyschen, UrspruDgs sind, also die Quelle nach der Gòttin heisst oder  der Quellnamen selbst aus dem dann, aber wohl schon im griechischen Mutterland, eine Gottin oder Heroine geschopft sein mùsete von Griechen tìbertragen wurde; dass die vier Namen Euphemos, Aristaios, Kyrene und Diomedes in einer ausserordentlich alten Sagenùberlieferung zusammenstanden. Aus Grùnden, die ich nicht in der Kurze entwickeln kann, bin ich ùberzeugt, dass die Verknùpfung dieser vier Namen in Troizen erfolgte, das ein bedeutendes Kolonialreich besessen haben muss. Troizenische Kolonisten werden Diomedes Kyrene und Aristaios nach Sybaris mitgenommen haben, von  wo jener nach Thurioi, diese nach Kroton ubernommen wurden. Dass Troizenier einst auch in Kyrene sassen, will ich nicht behaupten obwohl ich es glaube; aber dass diese Bruchstiicke troizenischer Sagen den àltesten Bestand der Ueberlieferung von  Kyrene bilden, balte ich fiif gesichert. Ora, per dimostrare in modo esauriente che da Trezene il complesso mitico di Cirene Aristeo Diomede ed  Eufemo s'irradiò da vero in Tracia, a Crotone, in Libia;  bisogna provare: l'esistenza di questo quadrinomio  a Trezene; il ritorno costante di esso nei luoghi rassegnati or ora, e il ritorno non dubbio, scevro da pos-  sibili equivoci; l'insistente ripetersi, nelle forme e nei  luoghi diversi, del perno o nucleo originario, ove il suo  alterarsi non sia ben motivato. Il carattere spaziato è introdotto solo nella trascri-  zione.  Sul primo punto il Gruppe si scusa di non insistere in der Kiirze: sorvoleremo noi pure. A CROTONE si sarebbero potute raccogliere tracce  di due al meno fra le quattro figure la cui presenza è  riscontrata in Cirenaica; Aristeo e Cirene. Tuttavia farò  sùbito notare quanto sia debole il fondamento su cui si basa la supposta esistenza mitica di Aristeo in Crotone:  il nome di un nume notissimo e diffusissimo dato a una  persona non prova assolutamente nulla intorno al culto  locale del nume. Inoltre è ben dubbio se sia veramente  da mantenere la forma Cirene per la madre di Lacinio, non sia da correggersi in Pirene (Maltes;  cfr. Serv. a VIRGILIO (si veda) Eneid. Localizzata di fatti  Eritia in Spagna e prese a narrare le lotte di Ercole,  reduce in Grecia, traverso la Campania (De Sanctis Storia  dei Romani), non è improbabile che a Crotone  si riprendesse il mito di Eracle contrastante con i figli  di Pirene, solo al nome d'uno fra questi sostituendo l'eponimo del Lacinium promontorium li presso. Ma se mal  sicure son le tracce di Aristeo e di Cirene in CROTONE,  altr' e tanto incerte son quelle che Gruppe ne riscontra  in Tracia. Si sa che nel testo di Apollodoro il Malten corregge il nome della madre di Diomede da Kvqi^vij in  IIvQr^vrj. Per Gr. l'equivoco consisterebbe in vece nell'essersi permutato Cirene in Pirene. E poiché pare molto  improbabile che in paesi limitrofi sussistessero due tradizioni diverse, di cui l'una a Crestone facesse moglie di  Ares Pirene con i figli Cieno e Licaone, l'altra in Abdera  e Maronia facesse moglie di Ares Cirene col figlio Diomede;  credo d'interpretar bene il Gruppe attribuendogli la supposizione che, corrottosi Cirene in Pirene, ne derivasse  il nesso con Ares con Cicno e con Licaone. Ma né questa  ipotesi è semplice, perché presuppone un originario nesso Cirene-Diomede una corruzione Pirene-Diomede un  ampliamento Ares-Pirene-Diomede-Cicno-Licaone né  è in alcun modo giustificata, perché, all'infuori di Apollodoro nessuna fonte accennando a Cirene in Tracia,  nulla ci costringe a supporvela necessariamente ricorrendo persino a contorte vicende. Più semplice e giusti-  ficata la supposizione del Malten : in territorio predominato da Pirene un'unica traccia di Cirene deve attribuirsi  a testo corrotto, non ad altro. Del pari Aristeo in Maronia è troppo evidentemente introdotto da Chio per  opera de' Chii che la colonizzarono (Malten 80); troppo  vi è congiunto con Dioniso; perché non si debba rite-  nere ch'egli non fu importato insieme con Diomede e la  supposta Cirene, da cui invece rimane colà al tutto indi-  pendente. In fine si resta molto perplessi su le profonde  difi'erenze fra il tracio Eufemo re dei Cleoni,  e il beota Eufemo figlio di Posidone, o il tenario figlio  del Fai^oxog. Or come né in Crotone né in Tracia Cirene e Aristeo son di sicura esistenza, cosi si può fon-  datamente asserire che in Libia Diomede non ha radici  profonde: su quelle coste di fatti naufraga bensì, a simiglianza di Euripilo di Protoo di Guneo tessalici e a  simiglianza degli Argonauti; ma sol tanto  perché quelle coste sono, nella tradizione poetica dei  vóaioi, il luogo tipico delle fortune di mare: in Argo  quindi, sua patria e sede della sua pili elaborata leggenda, è probabile fosse foggiato anche quel particolare. In breve, Aristeo e Cirene son dubbii in CROTONE, dubbii  in Tracia; in Tracia l'Eufemo non è con certezza iden-  tico all'avo dei Battiadi; in Libia Diomede non esiste. Per di più, oltre ad essere incerta la presenza  di tutt'e quattro i numi in CROTONE in Tracia in Libia,  non si capisce, se, come vuole Grappe, tra quelli  lin nesso s'era stabilito prima in Trezene e diffuso poi  altrove, perché a CROTONE il perno del mito sia il  APOLLO CARNEO nesso dell'ipotetica Cirene con Lacinio, in Tracia la linea  fondamentale della leggenda sia la discendenza di Dio-  mede da Cirene, mentre in Libia il nucleo è costituito  dalla commessione Cirene-Aristeo. E né pure si capisce perché in Tracia resti indipendente, come forse a  Crotone, Aristeo che in Cirenaica è figura essenziale; e  per converso qui si scemi quasi al tutto la persona di  Diomede, la quale là campeggia. Tutta la fisonomia della  leggenda si distrugge e si trasforma: senza causa  evidente.  Non posso dunque finora accettare la teoria di Gruppe;  e resto fermo, per Cirene, alla dimostrazione del Malten. Passiamo adesso a studiare la seconda figura fondamentale del mito. Apollo Carneo. Non cade dubbio che Apollo  e Carneo fossero in origine distinti numi (cfr. gli artt. di  Wide e Hofeb in Roscheb Lex. Ma per  il mito di Cirene è di somma importanza il determinare  se la fusione tra di essi fosse avvenuta già in Tara prima  che il VII sec. a. C. finisse, o vero si compiesse soltanto  in Cirenaica (cfr. Malten). Ora tenendo conto dell'esser il culto di 'AnóÀXoìv  Kdgvecog diffusissimo non pure fra i Dori ma anche fuor  del Peloponneso {scoi. Teocr. V 83: Tavzriv t{]v éoQvriv... ol fievocy.i^aavTeg ex nsÀonovvfjaov elg ézé^ag nóXsig  ...èneTÉÀovv : e cfr. gli articc. citt., quello spec. del Hofer),  due ipotesi sono possibili : o che in tutti quei luoghi ove  il culto appare di sufficiente antichità la figura di Apollo,  separatamente, sorvenisse ad assimilare a sé Carneo; o  pure che l'assimilazione fosse vetustissima e si propaga dal centro originario nelle altre sedi del culto. E  questa ipotesi com'è più verisimile e più semplice cosi  ritengo preferibile all'altra. CIRENE MITICA   Né offre difficoltà nello special caso di Tera e Cirene,  giacché l'iscrizione di Aglotele (Hilleb v. Gaektringen  Thera) accertando pel VI sec. a. C. il culto teraico  di Apollo-Carneo non è imprudente o arbitrario il  supporlo già sussistente nella seconda metà del sec. an-  teriore. Né a tale ipotesi è contrario Malten; il quale scrive: Gewiss ist die Verbindung ' Apollon-  Kameios ' nicht zum erstenmal um Kyrenes willen oder  erst in der Eoe vorgenommen worden; sie ist alter und  hat sich auf griechischem Boden weit verbreitet. Se  non che egli non trae da ciò l'unica deduzione che è logicamente possibile. Poiché difatti tutta l’lliade (prescindendo dai  più meno antichi strati) dimostra il carattere premi-  nentemente delfico di Apollo; e poiché l'antichità del  santuario delfico e della sua preponderanza famosa è ben  riconosciuta dal Beloch Griech. Gesch.; se si ammette che già in Tera Apollo prepondera su Carneo, si da mutar questo in suo epiteto; si  ammette a un tempo che i coloni dori pervenuti in Cirenaica avevano ormai alla loro principale divinità ricono-  sciuto un rilevante carattere delfico. E diviene pertanto  del tutto superflua la opinione che un tal carattere a  quella non venisse attribuito se non neWEea di Ch'ene.  La quale appar quindi non la causa del fondersi in-  sieme i caratteri di Apollo e quei di Carneo, ma un ef-  fetto di esso, cui tengon dietro in proceder di tempo e  per medesimo impulso Pindaro con le sue Pit. IV e IX,  Erodoto IV 158 e Callimaco ad Apollo.   Dove appaja la originalità della Eea ci verrà mostrato,  crediamo, dalla terza figura su cui è costituita la saga:  Aristeo. Aristeo. Non è qui opportuno studiarne la diffusione: basteranno poche note. (Cfr. il materiale raccolto  dal Malten e negl’Atti dell'Accad. di Torino.   Il culto di Aristeo in Cirenaica è attestato da scoi.  Aristof. Cavalieri 894, Ititi. Anton., scoi. Pit. IV (ràv  'A^iaraìov, 8v Tia^à KvQrjvaioig ó)g oIklotì^v óià Ttfi^g  dyead-at). Dinanzi a queste testimonianze tra due possi-  bilità si può scegliere : o Aristeo ha culto in Libia dopo  il suo congiungimento con Cirene (avvenuto in Grecia)  e a causa di esso; o pure perviene in Libia prima di  quella connessione e la determina. Tra le due possibili  ipotesi va scelta la seconda. Di fatti Aristeo ha una  vasta area di diffusione, nella quale sono comprese isole  dell'Egeo, quali Ceo (1) Chic l'Eubea, e l'Arcadia:  onde non è per nulla strano che o già in Tera qualche  strato della popolazione e qualche famiglia gli rendesse  culto, vero in Libia pervenisse con quei coloni che  nel principio del sec. VI, regnando Batto II, da l'isole e  dal Peloponneso si recarono ad accrescere il primitivo  manipolo di Dori. Contro la prima supposizione non si  può obiettare l'assenza di testimonianze da cui un culto  teraico di Aristeo sia provato: che troppo poco conosciamo in proposito e molto in ogni caso, restando nei  più bassi strati, non emerse alla superficie storica. Contro  la seconda non fa ostacolo la cronologia; già che cui risale la  Pitia IX di Pindaro resta spazio sufficiente per l’Eea di  Cirene. Nessuno stupore poi che in Libia Aristeo si commettesse con Apollo (protettore della fonte) e con Cirene (vincitrice del leone); a quel modo che nessuno  Cfr. Stobck Die dltesten Sagen der Insel Keos  Diss. Giessen stupore v'è, se in Tracia si connette con Dioniso e con  Zeus in Arcadia: cfr. Malten. L'analogia è  sufficiente motivo. Stimo in fine inutile discutere se Aristeo sia da vero  originario di Tessaglia. Basti che nel mito nostro egli  è tessalo per eccellenza: segno sicuro che doveva avere  un vivacissimo carattere tessalico allor quando del mito venne a far parte. Né mi riesce di precisare il luogo  ove potesse connettersi con Gea e le Ore. Ma questi punti  riescono di minore rilievo a confronto con quelli che  riteniamo di aver assodati su la libica Cirene, il delfico  Apollo, e Aristeo : e l'averli assodati giova a ricostruire  nelle sue linee principali il componimento da cui quelle  tre figure vennero collegate in racconto: l'Eea.  La ricostruzione dell'Eea di Cirene. Convengo col Malten che le fonti cui dobbiamo at-  tingere più direttamente per la ricostruzione dell'^'ea  di Cirene sono : Pindaro Pit., Esiodo t'r. 128 Rzach^,  Ferecide in scoi. Pit., Seiivio a VIRGILIO (si veda) Georg. = Esiodo fr. Rz., Apoll. Rodio cui  vengono aggiunti se bene per la loro sommarietà non sieno  di grande valore, Timeo appr. Diod., Nonno Pan.  Dionis.  (Malten). Quanto poi al modo di usar cotesti sussidii, mi sono  attenuto a due criterii fondamentali. Il primo è il piti Malten lascia in dubbio ob der Gott schon in der kyrenàischen Lokalsage zum Sohne der  Kjrene wurde; ma, per amor della sua tesi,  asserisce quasi il contrario. In Thessalien erregte  Kyrene das Gefallen des Gottes. hr Sohn ward  Aristaios,  elementare : ritenni originario tutto che ritornasse co-  stantemente nelle diverse forme assunte dal mito e riflettenti, in vario modo, l'Eea. Il secondo criterio è più complesso. Fu dimostrato poc'anzi che non può venir  attribuita all'Eea la mischianza de' caratteri proprii di  Apollo Delfico con quelli del Carneo. Altra è, chi ben  guardi, l'essenza di quel carme. Per esso, com'è noto,  Cirene, ninfa e cacciatrice libica, vien trasportata in Tessaglia av'era ben radicato il culto di Aristeo. Aristeo  dunque, non Apollo, dev'essere stato il motivo del trasferimento da l'una all'altra regione, l'impulso a trasformare in tessala la dea libica. Ma se l'Eea, con lo spunto  del giovinetto iddio pastorale, atteggia per il mito cirenaico uno sfondo tessalico, è legittimo ritenere, ed è  pure ovvio, che essa contenga più propriamente tutti  quei particolari i quali più propriamente sono con Aristeo  connessi. Di questo, nel fatto, meglio che della madre, è  il carme : e lo dimostra anche il rilievo che, com'è probabile, vi aveva la sua ulteriore vicenda Cea e il racconto sul figlio di lui Atteone. D'altra parte la figura  di Apollo troppo era di per sé notevole e preponderante  perché traverso essa e per sua causa non dovessero penetrare nella favola personaggi ed episodii a lei aderenti: i quali per ciò è dicevole attribuire meglio che al canne  esiodeo alle sue più tarde propaggini. Nei particolari i criterii esposti conducono a questi risultati; Cirene è figlia di Ipseo re dei Lapiti;  Ipseo è nato da Creusa (una Najade) e dal fiume Peneo:  cfr. Malten. Lo storico cirenaico Acesandeo {scoi. Pit. Cfr. sul mito di Atteone, che per l'economia del nostro lavoro qui si omette, Malten. Si vegga  inoltre, Castiglioni Atteone e Artemis nella miscellanea  di Studi critici offerti a C. Pascal , (Catania).  CIRENE MITICA fa discendere Ipseo da Filira, madre di Chirone.  Se non che questa variante è sospetta, come quella che  tende a giustificare con la parentela l'intervento di Chirone nelle nozze tra Apollo e Cirene: intervento che  spiace a Pindaro pure e Apollonio tace: là dove il centauro nell'Eea ha parte solo perché già connesso con  Aristeo prima che questo con Cirene. Apollo scorge  la ninfa nell'atto di lottare con un leone, sul Pelio. La  lotta col leone è ricordata da Pino. Pit., da Nonno; non da Apoll. R.: questi l'introduce  nell'officio di pastorella. Il Malten resta per ciò incerto su l'esistenza di essa lotta nell'Eea: mi risolvo pel  si. L'esame del racconto di Apollonio, che si fa più sopra, mostra come esso si allontani assai dall'originaria forma del mito a causa dell'influsso del razionalismo: al quale adunque si deve anche attribuire la soppressione della belva e della lotta che troppo male  consentivano al paese tessalo. Chirone profèta le  nozze del dio e della fanciulla: cfr. Stddniczka. Col  quale ove si ammetta che Pindaro tenti invano di ribel-  larsi all'Eea su questo punto, ne consegue che Apollonio,  allor quando sopprime tutta la scena e induce il Centauro allevatore sol tanto di Aristeo, non compie se non  la prosecuzione di quel tentativo. Ciò è confermato dal  doppione che ne risulta : Aristeo di fatti sarebbe in Apol-  lonio allevato e da Chirone e dalle Muse: originarii essendo, se non nel nome nell'essenza, questi dèmoni; in-  serto quello. Apollo trasporta la fanciulla in Libia  sul suo carro (Malten). Cirene è accolta da Libia.  Non v'è di fatti differenza sostanziale tra le xd'óviai  vifA,q>ai e la eiQVÀeifioìv nÓTvia Ai^vrj: cfr. Malten. Mi parrebbe quindi sofisticheria l'insistere su la lieve  dissimiglianza. A ogni modo, se una forma fosse da preferire per antichità sceglierei Libia: giacché le xd-óviai. vófifat sembrano ben proprie di un'epoca più tarda in  cui dal nome di Libia il concetto di persona, sostituito  pili fermamente da quel di regione, si è al tutto ritirato;  mentre se Libia era nella Eea si spiega meglio come  mai Pindaro fosse indotto a raddoppiarla con Afrodite. La quale all'Eea non apparteneva certo; e fu introdotta a causa di quel KvQdvag yÀvy.vg nÙTiog 'AtpQo-  óczag, che era al nostro poeta ben conosciuto {Pit.)  e a cui si può riportare un passo di Erodoto II 181 (cfr.  Malten); giacché non trascurabile culto a essa dea  si doveva rendere, se quando fu fondata Evesperide venne  presso il lago Tritonio a lei eretto un tempio (Steabone). Aristeo è riportato in Tessaglia da Apollo.  Cosi Apoll. R. Pindaro Pit. attribuisce quell'ufficio a Ermes: ma senza dubbio l'innovazione, a scopo  esornativo, è favorita dalle attinenze fra i due dèi : cfr.  l'omerico Inno a Ermes ed Esiodo fr. Rz. = Anton.  LiBEB. XXIII. E se un'analogia giova, si ricordi che in  Euripide Ione Ermes per ordine di Apollo reca  Ione, colatamente, in Delfi. Aristeo è allevato dalle  Ore e da Gea. Pare qui che il profilo primitivo meglio  si serbi in Pixd. Pit. IX 60 che in Apollon.:  però che tre sieno, principalmente, le varianti poetiche  dell'unico fondamentale concetto; l'una Cea che narra di  Bglaai (Aristot. fr. Rose); l'altra pindarica che introduce le Ore; la terza di Apollonio che ricorda le  Muse; varianti delle quali la prima troppo strettamente  Cea disdirebbe alla general intonazione tessalica del  carme esiodeo, l'ultima traspare sùbito come un'alterazione dovuta alla figura di Apollo Musagete (basti ricordare B. A); la mediana è pertanto preferibile. (Ciò  contro Malten 14). Da ultimo è forse da notare che  le Ninfe di Timeo presso Diod. IV 81 sono pili un tra-  scorso impreciso dell'autore che una vera e propria va-  A. Fersabi>-o, Kalypso. CIBENE MITICA   riante. Aristeo ha i nomi di Nomio Agreo Opaone  ed è avvicinato a Zeus {Zevg 'Agiaiatos) e ad Apollo  (cfr. Malten). Nel complesso adunque Pindaro pare, a mal grado  delle due intrusioni di Ermes e di Afrodite, pili vicino  all'Eea che Apollonio; questi più razionalista di quello.  Un confronto opportuno con l'Eea di Cirene (o di Aristeo) ci offre l'Eea di Coronide (oltre che quella di  Eufemo su cui v. ): cfr. Malten che qui  si combatte. Sappiamo che Asclepio (figlio di Coronide)  è nume salutare di Tessaglia [cfr. M. G. Columba Le origini  tessaliche del culto di Asklepios in Rassegna di Antichità  classica contro Kjellberg Asklepios, mythologisch-archdologische Studien in Sàrtr. u. Sprakv.  Sàllsk. forhandl. Upsala Universitets Arsskrift,]. Apollo gli somiglia nell'aspetto di divinità salutare e sanatrice: cfr. Beloch Griech. Gesch} e Wilamowitz  Isylìoi. E bene: prima si congiunge Apollo ad Asclepio;  poi A^jollo si trasporta in Tessaglia. A quel modo che, secondo crediamo, prima si congiunge Cirene con Aristeo  e poi la si trasporta in Tessaglia. Riassumendo dunque in breve i risultati di queste  ricerche, abbiamo: che Cirene è nome libio-greco  della ninfa che protegge e abita la fonte dedicata ad  Apollo Carneo; che Aristeo tessalo, pervenuto, durante  il diffondersi del suo culto, in Libia, si accosta a Cirene;  che questa è la causa per cui Cirene passa in Tessaglia;  che su questi elementi si può ricostruire l'Eea di Cirene  ottenendo un'opera analoga per indirizzo all'Eea di Coronide, tale quindi da potersi ricondurre al medesimo centro d’elaborazione mitopoetica. Euripilo ed Eufemo. Le due principali figure  del racconto di Pindaro Pit. han dato occasione alle più diverse ipotesi: cfr. Studniczka e Malten. Il farne oggetto di minuto esame gioverà a pre-  parare risultati atti a spiegare e ricostruire quel mito  cirenaico dei Battiadi che fa riscontro al mito della  ninfa Cirene. Euripilo si rinviene: in Tessaglia, figlio di Evemone; in Cos, figlio di Posidone; in Misia,  figlio di Telefo e condottiero dei Cetei; in Acaja,  Pads. Ora è probabile che l'Euripilo di Cos si possa far risalire a quello di Tessaglia: cfr. WilamowiTz Isyllos 52 e " Hermes „ XLIV (1909) 474 sgg. Ma tutti  gli altri sono indipendenti. L'Acaico viene bensì da  Pausania identificato con il Tessalico; ma è notevole che  altri già allora combattevano questa teoria: iy^aipav de  i]Srj Tivég od tip OeaaaÀtp av^i^dvza E-ÒQV7tvÀ(p xà siqri-  jtteVa, àXXà EdQVTcvÀov Ae§afievov Ttatda xov èv ^i2Àév(p  PaoiÀevaavTog éd'sÀovai afia 'HQay.Àeì aiQatevaavxa ég  "lÀiov TiaQÙ Tov 'HQw^Aéovs tìjv ÀÙQvay,a ntÀ. Eviden-  temente gli eruditi greci cercavan di precisare l'origine  dell'eroe Euripilo cui si rendeva culto in Acaja; ed era  ipotesi di taluno fra essi che egli fosse il medesimo Eu-  ripilo di Tessaglia. Il re dei Cetei è da Malten ricondotto in Arcadia. Ammesso che Keteig possa ricon-  dursi in Arcadia e con lui Telefo; è arbitrario dedurne  senz'altro un Euripilo arcadico : perché questi potrebbe  esser stato connesso con quelli dopo il loro trasporto in  Misia; il che par dimostrare la nessuna traccia da lui  lasciata in Arcadia al contrario di Telefo (1) e Ceteo.  Sarebbe quindi da ritenere probabile l'esistenza indipendente di un Euripilo in Misia. Alla schiera adunque Cfr. IiiMEBWAHR Die Kulte und Mythen Arkadiens. di questi tre Euripili (in Tessaglia in Acaja in Misia)  viene ad aggiungersi l'Euripilo della Cirenaica. Contro  i tentativi di ridurre l'uno all'altro i quattro omo-  nimi G. De Sanctis m'insegna a ritener questi manifestazione, varia nel tempo e nei luoghi, d'una medesima  unica tendenza mitica; la quale ci è dall'etimologia facilmente chiarita, Euripilo essendo il dio dell' " ampia  porta „ infernale. Era ovvio che questo comune concetto,  questo, meglio, fantasma venisse volta a volta applicato  presso popoli di stirpe greca. In tal caso poiché egli  appare presso la Ài^vij Tgizoìvlg è legittimo credere che  impulso alla sua localizzazione libica desse la grotta del  Gioh [su cui MiNUTiLLi La Tripolitania (Torino)] che era ritenuta appunto apertura di Dite  (cfr. Strab; Tolemeo Geog., 4, 8;  PLINIO (si veda). In Cirenaica Euripilo è congiunto con altri numi da  uno schema genealogico che si ritrova presso Acesandbo [scoi. Pind. Pit.) cfr. Malten:   Atlante  I  PosiDONE ->- Celeno £lios   I I Tritone Euripilo Sterope Pasifae  LicAONE Lbdcippo   Se non che questo schema ci appare sùbito una com-  binazione accorta di eruditi locali. Pasifae (Wide Lak.  Kul.), Tritone {Àìfiv^ TqitcovIs Strab. e  Pind. Pit.), Lieeo = Zeus Liceo (Eeod. eSTUDNiczKA) souo accertati in Libia da altre fonti:  elementi arcadici e cretesi la cui presenza non stupisce  (cfr. Maass Hermes e Studniczka). A Liceo corrispondono, miticamente, Licaone « Lieo. Di  Lieo in altre fonti (Ellan. in Scoi., Apoll.   Bibl.) è padre Posidone e madre Celano, Atlan-  tide. E il nostro erudito ha serbato la genealogia, inserendo però fra Licaone e Celeno-Posidone una generazione : Tritone e Euripilo, il dio della palude e il dio della grotta, l'una e l'altra vicina. Sorella di Celeno è  Sterope (Apoll. Bibl. Ili 110): e questa offre all'erudito  lo spunto per introdurre Pasifae e con lei Elios. Sia però questo o altro il procedimento seguito dall'autore dello schema, a ogni modo esso dimostra niilla  più che già non sapessimo : l'influenza grande di Creta e dell'Arcadia su i miti libici, influenza che le attinenze  commerciali e politiche spiegano senz'altra ipotesi : a  quel modo istesso che Euripilo al Gioh non prova se  non la costanza con cui un unico tipo di nume ctonio  fissa la sua sede in luoghi diversi col favor delle condizioni geografiche.   2. Eufemo è nel mito cirenaico (Pind. Pit.) connesso con la Beozia con Lemno con il Tenaro con Tera  con la Libia. La connessione con Lemno è una conseguenza della sua qualità di Argonauta: sta e cade con  questa. A Tera non v'è traccia di lui, e anche il mito  vi fa giungere solo i suoi discendenti con Samo o Sesamo  {scoi Pit., scoi. Apoll. R.). Resta adunque  ch'egli sarebbe nato in Beozia, il Tenaro avrebbe per  patria (Pind.: ol'aoi), i Battiadi di Cirene per  vantati discendenti. Ora in Beozia v'è traccia della sua  supposta madre Mecionice (Tzetzk Chiliad.) : e non  v'è, ch'io vegga, motivo alcuno per dubitare che, se non  originario di quella regione, egli sia tuttavia caratteri-  sticamente beota. Col che si connette la sua presenza in  Lesbo (EsicH. s. v) che lo fa supporre anche in Tessaglia :  a ognuno invero è nota l'attinenza stretta fra i miti  beotici e tessalici. Ma perché i Battiadi ne avrebbero  fatto il loro capostipite? Lo Studniczka pensa che i co-  [CIRENE MITICA] Ioni recassero quel nome con sé daTera: il Malten che in Libia lo trovassero e che per legittimarsi ne fa-  cessero il proprio avo. Costanzi mi par ben più  vicino a una probabile ipotesi: I Battiadi stanno ad  Eufemo come gli Agiadi di Sparta ad Euristene e gli  Euripontidi a Prode; come, soggiungo, i dinasti Molossi ad Achille, i Pisistratidi a Nestore. E queste analogie ultime, a punto, possono lumeggiare il fenomeno  cirenaico: Pisistrato è nome d'uno dei figli di Nestore;  Neottolemo, che ricorre fra i Molossi, è figlio di Achille  nell'epopea: e similmente ArcesLlao, appellativo di  quattro re di Cirene, è un eroe beota nelVIliade (cfr. Pads.). E se è errato sostenere col  Mììller Orchomenos che di Beozia fu tratto il nome,  non è però arrischiato l'asserire la possibilità che il nome  beotico abbia attratto l'avo beotico. A ogni modo, quand'anche restasse oscuro il preciso motivo di tale genealogia, non sarebbero meno da respingere, com'è ovvio,  le due ipotesi dello Studniczka e del Malten: sproporzionate al fatto che vogliono spiegare. Non resta da vagliare che la sede al Tenaro. Colà non è traccia di Eufemo  che sia indipendente da questa leggenda : c'è in vece,  importantissimo, il culto di Posidone Geaoco (S. Wide  Lak. Kulte). Non solo, ma i caratteri di Eufemo  (si ricordi eicprjfielv, e il suo significato religioso) son più  vicini a quelli di Apollo (Stodniczka) e, in genere, del dio solare (cfr. Zsòg Eécpiifiog, Esich. s. v.) che  a quelli d'un nume sotterraneo. Nume sotterraneo ritennero Eufemo p. es. Studniczka e Maass  (Gòtt. Gel. Anz.; Orpheus) solo sul fonda-  Ben altrimenti Gruppe Gr. Myth. I rapporti  di un nume o eroe con Posidone non implicano senz'altro  un carattere ctonio di quello: con Posidone difatti ha mento della sua localizzazione al Tenaro, bocca dell'Ade :  fondamento per cui s'indussero anche a forzare il significato di eiiq>r,iA,og, spiegandolo come un epiteto, appunto,  eufemistico in luogo del nome pauroso della divinità ctonia.  Tutto ciò cade, se la localizzazione al Tenaro risulta artificiosa, e dovuta a tutt'altri motivi che l'affinità fra  Eufemo e l'Ade. Difatti, se tenendo presenti queste osservazioni, si legge la Pitia, vien fatto d'interpretarla  nel seguente modo. Ai discendenti di Eufemo quattro  punti si dovevano necessariamente far toccare, tre forniti dalla storia, uno dal mito: Lemno, il Peloponneso,  Tera, la Libia. Or bene: a Lemno abbiam già veduto  Eufemo. Ma dopo ciò occorrevano due motivi per spiegare il soggiorno nel Peloponneso e quello a Tera. Per  Tera s'inventò lo smarrimento della zolla; per il Peloponneso, lo si disse patria di Eufemo. E siccome Eufemo èfiglio, in Beozia, di Posidone, e al Tenaro v'era culto  di Posidone Geaoco, Eufemo fu localizzato al Tenaro.  Interpretando in tal modo tutto si spiega: ed è questa  ipotesi molto più semplice che non quella del Malten. Localizzato per tal guisa al Tenaro Eufemo,  e ovvio che i tardi genealogisti si preoccupassero di introdurlo nelle genealogie laconiche; difatti lo troviamo  nipote dell'Eurota (Tzetze Chil.); o figlio di una  Doride [scoi. Pind. Pit.); o sposo di una Laonome  sorella di Eracle (scoi. Pind. Pit.). Ma ha torto Malten di dar peso a tali genealogie, e in ispecie  all'ultima: bisognerebbe ch'egli potesse dimostrarle indipendenti dalla localizzazione di Eufemo al Tenaro ; mentre  è arbitraria anche la soppressione di Eracle fra Guneo attinenze cultuali anche Apollo (Gerhabd Abh. Beri.  Akad. Wiss.).  CIRENE MITICA   e Eufemo nello schema che ci dà il cit. scoi. Pind. Pif.  Ora, al Tenaro Eufemo è localizzato, a quel che pare,  già nell'Eea di lui (fr. 143 Rzach ^): se lo si deve dedurre  dall'epiteto di Fairioyos che vi si trova e che è quello  con cui al Tenaro si venerava Posidone:   fi oirj 'TQitj TtVKLVócpQùìv MrjKiovìiiri ^ zéxev JEvq)f]fiov yairjóxffi Evvoacyaiq)   fieix&ela' èv (ptÀÓTrjzc noÀv^Qvaov 'Aq)QodÌTi]g.   Di li dipenderebbero: Pind. Pit. IV, Apoll. R.; Igino fav.; Acesandro e Teoceesto in  scoi. Apoll. B.. Se dunque è vero che la localizzazione .al Tenaro è tutta a favor degli Eufemidi (= Bat-  tiadi), cotesta Eea non può esser che sotto l'influsso cire-  naico. La qual cosa spiega o può spiegare per analogia  anche il formarsi dell'Eea di Cirene o (più propriamente)  di Aristeo, che già abbiamo accennato dianzi. E poiché  l'importanza che in entrambe le Eee ha Apollo è singolare (in quella di Aristeo come padre del fanciullo, in  quella di Eufemo come ecistère), avremmo in esse un  modello del come in Delfi si servissero gl'interessi d'altre  regioni : togliendo p. e. lo spunto da Aristeo per trasportar  Cirene in Tessaglia (v. sopra pag. 429); dagli Argonauti,  per Eufemo in Lemno ; da Posidone per Eufemo al Tenaro, ecc. ecc. Cfr. in vece Malten Crediamo adunque di aver mostrato e che Euripilo in Libia non ci riporta ad alcuna regione ma solo  a un comune concetto mitico dei Greci, e che Eufemo  beota si connette forse per fiabe etimologiche ai Battiadi,  certo è estraneo al Tenaro. Al Malten pertanto che  afferma Euripilo ed Eufemo costituire eine Reihe, die  ihre Endpunkte in der Kyrenaika und im sudlichen Thessalien hat, e con l'uno d'essi collegarsi intimamente [EUBIPILO ED EUFEMO] Atlante e Posidone, urpeloponnesisch, possiamo  rispondere di aver troncato a quella " Reihe per Euripilo r Endpunkt , che sta in Tessaglia, per Eufemo  l'estremità che si fissa in Libia e il centro che si posa  sul Tenaro. Abbiamo in somma, se non c'inganniamo,  reciso i nervi a quella teoria.   Del pari cadono le analogie con cui la rincalza. In  LicoFEONE naufragano su la costa libica Euri pilo  (ma figlio di Evemone tessalico), Guneo perrebico e Proteo  magnete. Onde Malten sostiene che il naufragio in Libia di Guneo e di Proteo è leggenda cirenaica (LicoFB., Apollod. a Wagner): e  rintraccia poi quegli eroi a Creta e in Tessaglia. Noi  però abbiamo già osservato a proposito di Diomede che nei vóaroi la spiaggia libica  appare il luogo tipico dei naufragi e che quindi tali leggende son da ritenere indipendenti affatto da Cirene. Il trovare ora che un mito secondario, attinente per contenuto all'epopea dei vóazoi, fa naufragare in Libia un  Euripilo senza avvertire l'esistenza in quei luoghi di un  omonimo, rilevante figura locale, ci conferma nella nostra  opinione, e prova contro il Malten che Guneo e Proteo  non appartennero mai a saghe cirenaiche, se non, al pili,  per molto tardo riflesso. Col che si spezza sin dall'inizio la feste Kette von Beziehungen zwischen Libyen und Kreta einerseits und Nordthessalien andererseits, die in Arkadien ihren Knotenpunkt hat, (Malten). Se non che, secondo il mito cirenaico dei Battiadi,  Eufemo ed Euripilo ebbero attinenze in quanto quegli  era Argonauta, e questi agli Argonauti fece dono di una  zolla libica. A noi quindi, che analizzammo partitamente  le due figure, non resta che studiare la trama narrativa  in cui si accostano e agiscono: ossia il mito degli Argonauti in Libia.   CIRENE MITICA  Gli Argonauti in Libia. Poiché su questo  punto io profondamente mi allontano dal Malten terrò più minuto discorso. A quattro redazioni leggendarie dobbiamo por mente: Pindaro Pit.; Erodoto; Licofronk; Apoll. Rodio; e tutte bisogna esaminare. Pindaro racconta che gli Argonauti, ritornando con  Medea dall' Oceano sopra l’Argo, debbono per dodici  giorni trasportare la loro nave su la terra deserta fino  al lago Tritonio, ove nel punto della partenza appar loro  Euripilo a donare all'eroe Eufemo, compagno di Giasone,  una zolla: fatidico dono. In questo racconto non v'è nulla che non si convenga ai desiderii dei Battiadi; nulla  quindi che non paja inventato per il loro compiacimento; fuor che il particolare del Iago Tritonio, il quale è  l'unico non indispensabile. Dev'essere difatti questo il  lago, di cui Strab., presso Berenice (Bengasi)  che esiste tuttora (i laghi salati). E non si vede bene,  svibito, perché per l'appunto quel lago venisse scelto  per il dono. Né Euripilo poteva esser causa della preferenza; però che paja invece piti probabile il contrario:  Euripilo esser intervenuto a cagione del lago. D'altra  parte difficilmente, sembra, Eufemo, avo mitico dei Bat-  tiadi, sarebbe stato fatto Argonauta, ove con tal mezzo  a punto non lo si fosse potuto far giungere in Libia: il  che lascia supporre che in Libia una leggenda più antica recasse già gli Argonauti. Per queste due possibilità adunque, nel racconto di Pindaro parrebbe che l'episodio della palude Tritonide debba risalire a un nucleo  mitico più antico : parvenza bisognosa d'altri suffragi. Sul valore che tal dono ha nelle leggende cfr. una  interessante nota in Gebckk o. c. 455. Ma gli esempi si  potrebbero moltiplicare. Ora in Erodoto si narra che presso la minor Sirte esiste una MjAvri f^eydÀrj T^ubìvig: ben lontano dunque da (Bengasi) Berenice; e ivi Giasone il quale tentava circumnavigare il Peloponneso avrebbe subito naufragio, per ciò che una fortuna di mare ve lo avrebbe improvvisamente trasportato senza possibile uscita fuor dalle  strette del lago. Ma Trìtone apparso trasse di rischio la  nave, dimostrò la via, e ricevette in dono un tripode.  Dopo le quali cose, profetò agli Argonauti che un giomo  presso quel lago i Greci avrebbero fondato cento città: Taira àytovaavzag rovg è7tix<^QÙovg twv Ai^voìv KQV'kpat,  TÒv zQLJioòa. Qui sono due particolari ben distinti : il  dono del tripode per ottener lo scampo, e la profezia.  Quest'ultima non si avverò perché la piccola Sirte non  ebbe colonie greche ; ed è da vedere in essa (cfr. tra gli  altri CosTANzi 0) un riflesso del tentativo com-  piuto nel Cinipe fra le due Sirti dallo spartano Dorieo. Ma il dono del tripode non è che fittisiiamente collegato con la profezia e il tentativo di Dorieo: suo vero e unico e primo scopo è ottenere da Tritone  la via. Il resto è superfetazione più tarda. Da ultimo è  notevole che ritorna ancor qui il lago Tritonio, localizzato però non pili presso Berenice ma nella piccola Sirte. Esistono dunque nel breve racconto erodoteo due strati. L'uno è recente, e non risale più in là della spedizione  infelice di Dorieo: appartengono a questo la profezia di Tritone e il valore fatidico dato al tripode. L'altro è  assai più antico, e preesiste a Dorieo: gli appartengono  i nomi degli Argonauti e del lago Tritonio e il dono di  Giasone al dio. Ora, quest'ultimo strato assomiglia, grossolanamente, al nucleo che ci parve originario in Pindaro. Esaminiamo pertanto pivi da vicino questi elementi  simili. Identico è il nome della palude; ma diversi sono  i luoghi: tuttavia più vetusta appare la identificazione  C'IBENE MITICA con il lago dell'estremo occidente nella minor Sirte  (cfr. RoscHER nel Lex. e Costanzio.). Identico l'apparire di un nume; ma i nomi differiscono: e  non è dubbio che Tritone, aderente com'è al lago stesso,  risalga a pivi vetusta forma che Euripilo, figura recente  dei nuovi coloni. Identica la circostanza d'un dono, ma  la vicenda è mutata: ed è chiaro come al mito primo  degl’argonauti si convenga il dono che serve a favorire  il viaggio, più tosto che quello il quale prepara, a tutto  vantaggio d'una regnante dinastia, una colonia. Lo strato  adunque più antico d’Erodoto appare alla nostra analisi come la forma su cui vennero foggiate: da un lato  la leggenda cirenaica a prò dei Battiadi, con alcune  alterazioni dicevoli; dall'altro la leggenda spartana in  favor di Dorico, con altri mutamenti opportuni. Se questo è vero si spiegano facilmente Licofrone e  Apollonio. Licofrone dice dei naufragi di Guneo Proteo  ed Euripilo presso Tauchira (città della Cirenaica non  lungi a l'odierna Bengasi). Quivi (soggiunge) furon già  gli Argonauti, che ad Ausigda seppellirono Mopso (Ausigda  giace fra Tauchira e Cirene). Quivi (insiste) scorre ò Ki-  vv(pEiog ^óog (il Cinipe, cfr. Malten, che fluisce, in  vece, fra le due Sirti, molto lontano di li). Agli Argonauti appare Tritone, e a lui dona Medea un cratere,  per compenso del quale egli insegna loro la via, e profèta che i Greci colonizzeranno quella regione, allorché  riavranno il cratere. Onde gli Asbisti {= i Libii) impauriti lo celano. Ora è evidentissimo che, ove si muti il  cratere in tripode, il colorito e l'andamento della scena  son quelli medesimi erodotei. Mutati sono unicamente i luoghi: i quali, tranne il Cinipe, sono della Cirenaica. Né il Cinipe turba gran che l'armonia: questa irrazionalità geografica è qui indotta dal ricordo, che tutto il  mito del resto nella sua forma erodotea presuppone, di [GLI ARGONAUTI IN LIBIA] Dorieo sbarcato presso quel fiume : ricordo cosi vivo che  in una fonte anche Guneo tessalo al Cinipe fa naufragio  (Apollod. vi 15 a Wagner = scoi, a Licofr.) (contro  Malten). In breve, Licofrone contamina; mischia in-  sieme, di qui due località cirenaiche, di là il contesto  sirtico-spartano del mito. Ben più contamina Apollonio. Dal Peloponneso gli Argonauti naufragano alla Sirte, dove le Eroine gli esortano a recare per dodici giorni le navi verso oriente. Giungono cosi al lago Tritonio, presso cui a loro impediti  nel viaggio insegna la via Ti-itone: dona a Eufemo una  zolla, riceve da Orfeo il tripode. Sono, ciò è, ravvicinati: il tripode erodoteo alla zolla pindarica; Eufemo ad Orfeo  (= Giasone, in lieve vai-iante); la Sirte a Bengasi. E il poeta (o la sua fonte) è cosi conscio della contaminazione, che i due distanti luoghi (Sirte-Bengasi) congiunge  con una fittizia marcia di dodici giorni da occidente a  oriente : marcia il cui modello può bene esser in quella,  di cui Pindaro, fra l'Oceano e la palude Tritonia. Né coteste contaminazioni erano puro effetto dell'ar-  bitrio di poeti. DioD. IV 56, 6, narrando (qual che ne sia  la fonte) c'ne gli abitanti di Evesperide pretendevano  d'aver rinvenuto essi il tripode donato a Tritone, dimostra  come la leggenda sirtico-erodotea, la quale nella piccola  Sirte, dopo l'insuccesso di Dorieo, era spostata, avesse  trovato terreno propizio, anche nella realtà, presso l'altro  lago Tritonio, a Bengasi. Conchiudiamo. La facilità con cui dalle nostre premesse  furono spiegate le complesse narrazioni di Licofrone e  Apollonio, insieme col loro sostrato reale, par buona con-  ferma delle premesse medesime. Poche parole bastino dunque, ancóra, sul posto che,  nella complessiva spedizione, occupa l'episodio degl’argonauti . Pindaro e Licofrone lo collocano dopo la CIRENE MITICA conquista del vello : Medea è presente. Apollonio ed Erodoto, prima. Anzi tutto va osservato che non bisogna  dar troppo peso a Licofrone, in cui un equivoco è ben  possibile e facile, da poi che non tratta egli esplicita-  mente, ma solo parenteticamente, degl’argonauti. Inoltre  la discrepanza dimostra a pena che il nucleo primitivo  del mito non aveva carattere cronologico preciso: cosi  che ogni poeta poteva tribuirgliene uno, secondo l'esigenze poetiche o l'estro dell'ispirazione. E possiamo finalmente raccogliere in breve i risultati  delle ricerche sul mito dei Battiadi. A favore  di questi ultimi l'Eea di Eufemo rielaborò un antico motivo favoloso su gli Argonauti in Libia: conducendo quivi  e a Lemno, e localizzando al Tenaro, il capostipite dei  Battiadi Eufemo, in qualità di Argonauta; trasportando  i suoi discendenti a Tera; e approfittando del nume di  Euripilo, che fra i Greci di Libia vigoreggiava come altrove. In tutta l'Eea quindi è, si, un complesso rifacimento  di miti con scopo dinastico e religioso; ma tal rifacimento riflette sol tanto le condizioni storiche a noi note,  non già altre, anteriori e ignote.   Questa Eea di Eufemo poi e quella di Cirene cre-  diamo si possano mostrare contaminate parzialmente in Callimaco. Vili. Callimaco e il mito di Cirene. Malten vede nel nesso Cirene-Euripilo la forma  più antica della leggenda, quella che l'Eea adultera. Ora è bensì verissimo che Callimaco, come Ace-  SANDRO {scoi. Apoll. R.) e Filakco, storici,  cirenaico l'uno, egizio forse l'altro, sente  una più viva eco e più genuina della primitiva forma  mitica allorquando fa combattere in Libia, non in Tessaglia, Cirene col leone. Ma è altr'e tanto' vero, e intui- [CALLIMACO E IL MITO DI CIRENE] tivo, che il nesso con Euripilo è tardo. Se difatti l'Eea  avesse trovato questo nome congiunto, comunque, con  quel di Cirene, non avrebbe omesso di trasportarlo, con Apollo e Aristeo, in Tessaglia: in Tessaglia è invero  signore di Ormenio un Euripilo figlio di Evemone. Che se dunque il nesso è posteriore all'Eea e a Pindaro, è pur posteriore alla leggenda dinastica degl’Eufemidi, già riflessa in quest'ultimo poeta, e in cui Euripilo ha preponderante azione. Par quindi legittimo pensare che Euripilo si commetta con Cirene, dopo che la sua figura  ha assunto valore e rilievo indigeni nel mito degl’argonauti su la Tquoìvìc Àifivrj. Callimaco pertanto rispecchia  una posteriore forma indigena della leggenda che è oggetto del nostro studio; a quel modo che VIRGILIO (si veda) rispecchia una posteriore forma straniera. A parte bisogna considerare Filarco l. e. per la frase  di lui fievà jiÀeióvùìv: Cirene di fatti sarebbe pervenuta  in Libia non sola ma con molti. Analogo, se bene un po'  diverso, è Giustino: mandati dal padre di Cirene, Ipseo re di Tessaglia, i Tessali si sarebbero fermati in Libia con la fanciulla, loci amoenitate capti. Ora,  come Callimaco fa trasparire un mito ove la favola di  Cirene ninfa e la leggenda dei Battiadi si compenetrano  in parte; cosi i due passi or ora citati continuano lo stesso  indirizzo, non più solo col connettere Cirene ed Euripilo,  bensì anche col porre intorno a Cirene coloni tessali, che  vengono imaginati ad analogia dei coloni dori. I gradi  di questo processo mitopeico sono: Euripilo è in Libia quando Eufemo, capostipite dei Battiadi, vi giunge ;  dunque molto prima di Batto; Cirene è in Libia rapita da Apollo, essa pure prima che vi pervenga Batto; Cirene ed Euripilo ebbero rapporti in Libia in quegli  antichi tempi) con Cirene, che ha il trono da Euri- [OIBENE MITICA] pilo, eran Tessali suoi compatrioti. Lento (ma chiaro) processo, adunque, le cui forme non si debbon confondere con le primitive quali ci appajono nelle due Eee. Esegesi novissima. Storia e indagine su Civette mitica soo in questo volume già per intero composte quando apparvero di Pasquali le Quaestiones  Callimacheae (Gottingae) ove il  mito di Cirene è di nuovo trattato. Ne pubblicheremo  altrove una confutazione (" Atti della R. Accademia delle  Scienze di Torino). Torino, BOCCA, TORINO Piccola Biblioteca di Scienze Moderne Grice: “Mussolini lacked a classical education – he was obsessed, if we are talking alla hymns, of the modern, not the ancient!” Grice: “Mussolini, who wasn’t from Rome, called Rome the city of prostitutes. Hausmann suggested that he should build the third Rome somewhere in the Lazio”. Keywords: la terza Roma, Mazzini. Una e unica Roma, one and only. Mussolini’s dislike for ruins, Mussolini’s use of ‘modern’ versus ‘ancient’. Calypso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrabino” – The Swimming-Pool Library. Aldo Ferrabino. Ferrabino.

 

Grice e Ferrando: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di CORIOLANO, ovvero, la filosofia – scuola di Roma -- filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Ferarndo; for one, he is what I would call an Anglo-Italian – cf. Anglo-Argentine; so he philosophised on Otello, Coroliano, la creazione di Carpenter and the forces of Prentice Mulford; on Byron’s Manfredi, and more beyond!” Si laurea a Pisa. Insegna a Firenze. Direttore della Biblioteca Filosofica. In qualità di filosofo s’interessa a Bergson, il misticismo, il transcendentalism (saggi per L’Annuario Filosofico), come filosofo anglista s'interessa a Shakespeare (“Otello”, “Corolliano”), e Coleridge, Carpenter (“La creazione”), Coleridge, Byron (“Manfredi”), “Le forze che dormono in noi” (Prichard). dando di alcuni di questi anche delle versioni. È inoltre studioso di psicologia e redattore della rivista Psiche. Collabora con SALVEMINI (si veda) alla propaganda anti-fascista e firma il manifesto di Croce. Espatria a New York, dove continua la sua attività anti-fascista, insegna filosofia e sposa Wilhelmina Anieka Leggett, con cui adotta la figlia Vasanti. Contribue più a fondare la Besant Hill School di Ojai, California, praticandovi l'insegnamento more socratico. L’istruzione è un processo d'indagine dove l’studente impara dal tutore *come* pensare, non *cosa* pensare".  RootsWeb's World Connect Project: LEGGETT of ELY, CAMBRIDGESHIRE, ENGLAND. Fe.  appointed Chairman of italian dept. Vassar Miscellany News, Besanthill. Opere: Saggi, “La Voce” -- Coriolano politico e Generale dell'Antica Roma Lingua Segui Gneo Marcio Coriolano, in latino Gnaeus Marcius Coriolanus, generalmente conosciuto come Coriolano, membro dell'antica Gens Marcia, fu uomo politico e valoroso generale al tempo delle guerre contro i Volsci.   Veturia ai piedi di Coriolano di Nicolas Poussin. BiografiaModifica Il giovane Gneo Marcio, non ancora Coriolano, partecipò come semplice soldato alla decisiva battaglia del lago Regillo, distinguendosi per il proprio valore, tanto da meritare la Corona civica per aver salvato da solo in battaglia un altro cittadino romano. Secondo Livio e Plutarco a Gneo Marcio fu attribuito il cognome a seguito della vittoria di Roma contro i Volsci di Corioli, ottenuta anche grazie al valore del giovane patrizio; secondo altri storici il cognome indica che la sua famiglia fosse originaria della città stessa. Q. Marcius, dux Romanus, qui Coriolos ceperat, Volscorum civitatem, ad ipsos Volscos contendit iratus et auxilia contra Romanos accepit. Romanos saepe vicit, usque ad quintum miliarium urbis accessit, oppugnaturus etiam patriam suam, legatis qui pacem petebant, repudiatis, nisi ad eum mater Veturia et uxor Volumnia ex urbe venissent, quarum fletu et deprecatione superatus removit exercitum. Atque hic secundus post Tarquinium fuit, qui dux contra patriam suam esset. Q. Marcio, comandante romano, che aveva conquistato Corioli, città dei Volsci, accecato dall'ira si recò presso i Volsci e ottenne aiuti contro i Romani. Sconfisse spesso i Romani, arrivando fino a cinque miglia da Roma, pronto a combattere anche contro la sua patria, respinti i legati inviati per chiedere la pace, vinto solamente dal pianto e dalle suppliche della madre Veturia e della moglie Volumnia, andate a lui da Roma, ritirò l'esercito. E questo fu il secondo capo, dopo Tarquinio, ad essersi opposto alla propria patria.»  (Eutropio, Breviarium ab Urbe condita) L'Eroe della presa di Corioli Consoli Postumio Cominio Aurunco e Spurio Cassio Vecellino, a Roma, per quella che sarebbe stata ricordata come la prima secessione, la plebe si era ritirata sul Monte Sacro.  La situazione era poi resa oltremodo complicata dalla necessità di definire un nuovo trattato (Fœdus) con i Latini, compito che fu affidato al console Spurio Cassio, trattato che da lui prese di nome (Fœdus Cassianum), e dai preparativi bellici intrapresi dai Volsci, contro cui si decise di intraprendere l'ennesima azione militare, affidandola al console Postumio Cominio.  Postumio Cominio iniziò la campagna militare guidando l'esercito romano contro i Volsci di Antium, città che venne espugnata. Successivamente l'esercito romano marciò contro le città volsche di Longula, Polusca e Corioli, tutte e tre conquistate dai Romani, quest'ultima con l'apporto decisivo di Gneo Marcio, tanto che Livio annota:  L'impresa di Marcio eclissò la gloria del console al punto che, se il trattato coi Latini, concluso dal solo Spurio Cassio in assenza del collega, non fosse rimasto inciso a perenne memoria su una colonna di bronzo, nessuno si ricorderebbe che Postumio Cominio combatté contro i Volsci  LIVIO Ab Urbe condita. Dai contrasti tra patrizi e plebei all'esilio. Intanto a Roma la prima secessio plebis e la conseguente mancata coltura dei campi aveva provocato un rincaro del grano e la necessità della sua importazione. Sotto il consolato di Marco Minucio Augurino e Aulo Sempronio Atratino, Coriolano si oppose fortemente alla riduzione del prezzo del grano alla plebe, che lo prese in forte odio.  In effetti la contesa non riguardava tanto il prezzo del grano, ma il conflitto tra plebei e patrizi, con questi ultimi che ancora non si erano rassegnati all'istituzione dei tribuni della plebe, e cercavano in tutti i modi di contrastarne l'azione. In un contesto di feroci attacchi politici, Coriolano rappresentava l'ala più oltranzista dei patrizi, che propugnava il ritorno alla situazione antecedente alla concessione del tribunato ai plebei, e per questo motivo era attaccato violentemente da questi. Durante una di queste infuocate assemblee mancò poco che Coriolano fosse mandato a morte, gettato dalla rupe Tarpea.  «...A questo punto Sicinnio, il più impudente dei tribuni, dopo una breve consultazione con i colleghi, proclamò davanti a tutti che Marcio era stato condannato a morte dai tribuni della plebe, e ordinò agli edili di portarlo immediatamente sulla rocca Tarpea e di gettarlo giù nella voragine.»  (Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade) Alla fine fu citato in giudizio dai tribuni della plebe, e a questo punto le versioni di Livio e Plutarco divergono. Secondo Livio, Gneo Marcio rifiutò di andare in giudizio, scegliendo l'esilio volontario presso i Volsci, e per questo motivo fu condannato in contumacia all'esilio a vita. Invece per Plutarco[5] Gneo Marcio fu sottoposto al giudizio del popolo con l'accusa di essersi opposto al ribasso dei prezzi del grano, e per aver distribuito il tesoro di Anzio tra i commilitoni, invece di consegnarlo all'Erario. Anche per Plutarco, la condanna fu quella dell'esilio a vita.  La guerra contro RomaModifica Gneo Marcio scelse di recarsi in esilio nella città di Anzio, ospite di Attio Tullio, eminente personalità tra i Volsci. I due, animati da forti sentimenti di rivincita nei confronti di Roma, iniziarono a tramare affinché tra i Volsci, più volte battuti in scontri campali dall'esercito romano, si sviluppassero nuovamente motivi di risentimento contro i Romani, tali da far nascere in questi il desiderio di entrare in guerra contro il potente vicino. Marcio e Tullo discutevano di nascosto in Anzio con i più potenti e li spingevano a scatenare la guerra mentre i Romani si combattevano tra loro. Ma mentre i Volsci erano trattenuti dal pudore perché le due parti avevano concordato una tregua e un armistizio di due anni, e furono i Romani a fornire loro stessi il pretesto, annunziando durante certi spettacoli e giochi, sulla base di qualche sospetto o falsa accusa, che i Volsci dovevano lasciare la città prima del tramonto. Plutarco, Vite parallele, Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade) Alla fine i Volsci decisero per una nuova guerra contro Roma, ed affidarono a Coriolano e ad Attio Tullio il comando dell'esercito. Quindi i due comandanti si risolsero a dividersi le forze, rivolgendosi Attio ai territori dei Latini, per impedire che portassero soccorso a Roma, e Coriolano a saccheggiare la campagna romana, evitando però di attaccare le proprietà dei Patrizi, così da fomentare la discordia tra Plebei e Patrizi. L'espediente ebbe successo, tanto da permettere ai due eserciti Volsci, di tornare nel proprio territorio, carichi di bottino e senza aver subito alcun attacco dai Romani.  Successivamente, mentre Attio proteggeva con il proprio esercito la città, Coriolano volse il proprio esercito contro la colonia romana di Circei che fu presa, mentre Roma non reagiva per il montare della discordia tra i due ordini.  Alla fine a Roma si decise di arruolare un esercito, e si permise agli alleati Latini di prepararne uno per proprio conto, in quanto Roma non era in grado di difenderli dalle incursioni dei Volsci. Ai Volsci, che si preparavano alla guerra, si aggiunse poi la rivolta degli Equi. Coriolano, al comando del proprio esercito quindi prese Tolerium, Bola, Labicum, Corbione, Bovillae e pose l'assedio a Lavinium, senza che i Romani portassero aiuto a queste città.  Quindi Coriolano si accampò a sole cinque miglia dalle mura della città in località Cluvilie, dove fu raggiunto da un'ambasceria composta da cinque ambasciatori. Per tutti parlò Marco Minucio Augurino, senza però riuscire a far desistere Coriolano dal proprio intento; anzi i Volsci, sempre guidati dal condottiero romano, presero Longula, Satricum, Polusca, le città degli Albieti, Mugillae e vennero a patti con i Coriolani.  Leggermente diversa la versione di Livio:  Quindi conquistò Satrico, Longula, Polusca, Corioli, Mugilla, tutte città recentemente sottomesse dai Romani. Poi riprese Lavinio e di lì, raggiungendo la via Latina tramite delle scorciatoie, catturò una dopo l'altra Corbione, Vetelia, Trebio, Labico, Pedo. Infine da Pedo marciò su Roma e si accampò presso le fosse Cluilie, a cinque miglia dalla città»  (LIVIO (si veda), Ab Urbe condita libri) Qui, alle porte dell'Urbe al IV miglio della Via Latina, dove si trovava il confine dell'Ager Romanus Antiquus (nei pressi dell'attuale Via del Quadraro), mentre i consoli, Spurio Nauzio e Sesto Furio, organizzano le difese della città, venne fermato dalle implorazioni della madre Veturia e della moglie Volumnia, accorsa con i due figlioletti in braccio, che lo convinsero a desistere dal proprio proposito di distruggere Roma.  «....Coriolano saltò giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per abbracciarla. Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse: «Fermo lì, prima di abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da un figlio e se nel tuo accampamento devo considerarmi una prigioniera o una madre.»  (LIVIO (si veda), Ab Urbe condita libri) Morte LIVIO (si veda) riporta come non ci è concordanza sulla morte di Coriolano. Secondo parte della tradizione, è ucciso dai Volsci, che lo considerarono un traditore per aver sciolto l'esercito sotto le mura di Roma. Secondo Fabio, muore di vecchiaia in esilio.  Plutarco e Dionigi di Alicarnasso raccontano come Coriolano è ucciso da una congiura, capitanata da Attio Tullio, mentre si sta difendendo in un pubblico processo ad Anzio, dove è stato messo sotto accusa dai Volsci per essersi ritirato, senza aver combattuto, da Roma.Poi, però, è dimostrato che l’azione non è affatto condivisa da tutti, sicché fu seppellito con grandi onori e il sepolcro di Coriolano, ornato con armi e spoglie, fu considerato dalla popolazione il sepolcro di un eroe e di un grande generale. I Romani, invece, non gli tributarono onori quando seppero della sua morte, né tuttavia gli serbarono rancore, tant'è vero che alle donne fu consentito portare il lutto fino a un massimo di 10 mesi. CICERONE (si veda), nel Brutus, nel paragonare Coriolano a Temistocle ne accomuna la sorte: si sarebbero entrambi tolti la vita una volta allontanati dalla patria.Critica storica Secondo parte della moderna storiografia Coriolano rappresenta un personaggio leggendario, creato per giustificare le sconfitte dei Romani nelle guerre contro i Volsci nella prima epoca repubblicana, guerre che arrivarono a minacciare l'esistenza stessa di Roma. I Romani trovarono giustificazione delle loro ripetute sconfitte, nella credenza che solo un condottiero romano avrebbe potuto sconfiggere un esercito romano. La circostanza che Coriolano non appaia tra i fasti consulares aumenta il dubbio che si sia trattato di un personaggio storico (cf. Grice, “Vacuous Names”). Plutarco, Vite parallele, Vita di Coriolano, Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite parallele Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite parallele Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Livio, Ab Urbe condita libri Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Appiano, Storia romana, Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 40 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, V Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane CICERONE (si veda), Laelius de amicitia CICERONE (si veda), Brutus. Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite parallele, Coriolano Eutropio, Breviarium ab Urbe condita (che lo chiama Quinto) Ispirata pure alla vicenda di Coriolano è un'ouverture di Beethoven (in do min.), composta per la tragedia teatrale omonima di Collin.  Gens Marcia Volumnia Veturia Coriolano, tragedia di Shakespeare Coriolano, Gneo Marcio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Coriolano, Gnèo Màrcio, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata Gneo Marcio Coriolano Gneo Marcio Coriolano (altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Guerra   Portale Politica Sesto Furio Medullino Fuso politico romano  Roma e le guerre con Equi e Volsci Attio Tullio Nobile volsco di Antium (le odierne Nettuno ed Anzio)  CORIOLANO Tragedia Note di Raponi. Il testo inglese adottato per la traduzione è quello d’Alexander (Shakespeare - “The complete Works”, Collins., London), con qualche variante suggerita da altri testi, specialmente quello prodotto dal Furnivall per la “Early English Text Society”, l’“Arden Shakespeare” e l’ultima edizione dell’“Oxford Shakespeare” curata da G. Taylor e G. Wells per la Clarendon. Alcune didascalie sono state aggiunte dal traduttore di sua iniziativa, per la migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è essenzialmente intesa. 3) All’inizio di ciascuna scena i personaggi sono introdotti con il rituale “Entra” o “Entrano”, che ripete l’“Enter” del testo; giova avvertire però che tale dizione non implica che i personaggi debbano “entrare” in scena al levarsi del sipario; è spesso possibile che essi vi si trovino già, in un qualunque atteggiamento. La reciproca vale per le dizioni “Exit” - “Exeunt”, “Esce”, “Escono”. 4) Il metro è l’endecasillabo sciolto, intercalato da settenari, come l’abbia richiesto al traduttore lo scorrere della verseggiatura. 5) Trattandosi della Roma di Coriolano, la forma del “tu” (i Romani non ne conoscevano altra) è sembrata imperativa, ad onta del dialogante alternarsi dello “you” e del “thou” dell’inglese. 6) La divisione in atti e scene, com’è noto, non si trova nell’in-folio; essa è stata elaborata, spesso anche con l’elenco dei personaggi, da vari curatori nel tempo, a cominciare da Rowe. Li si riproduce come figurano nella citata edizione dell’Alexander.  CORIOLANO Nota introduttiva Plutarco, dalle cui “Vite parallele” Shakespeare trae essenzialmente la trama della sua tragedia, associa Coriolano con Alcibiade, come esempio di due grandi condottieri e uomini politici venuti in contrasto con la loro patria e scesi contro di essa in guerra alla testa di eserciti nemici. I due sono contemporanei: Alcibiade vive nell’Atene di Pericle (V sec. a.C.), già matura repubblica demo- aristocratica; Coriolano nella giovane immatura repubblica di una Roma che si è appena liberata della tirannia dei re etruschi. Ma il parallelismo tra i due è per contrasto; perché Alcibiade cerca, contro l’aristocrazia di cui è parte (è il nipote di Pericle), e che gli dà l’ostracismo, il favore del popolo(1); Coriolano, all’opposto, nel suo orgoglio di aristocratico rozzo e impolitico, disprezza la massa plebea ed è da questa prima eletto poi privato del consolato e bandito da Roma. L’orgoglio di Coriolano e il suo conflitto con l’intima nobiltà dell’uomo è il “leitmotiv” del dramma shakespeariano; ad esso fa da sfondo una Roma la cui politica interna è caratterizzata dalle lotte di classe fra patrizi e plebei, quella esterna dalle prime guerre di espansione. I nemici più vicini sono i Volsci, che abitano le terre del sud del Lazio, comprese le città di Anzio e Corioli. La superbia è il peggiore dei vizi, il massimo dei peccati capitali della dottrina cristiana; tradotta nella persona di un eroe della Roma pagana essa acquista la dimensione di un vizio legato ad una virtù: nobiltà e onore. Le parole “nobility” e “honour”, come osserva il Melchiori, con i loro derivati nominali e verbali ricorrono ben 137 volte nel testo della tragedia. Questo conflitto, come una fatale condanna, nega a Coriolano la capacità di convivere con gli oppositori, l’inclinazione al possibilismo che è la massima dote del politico, e sarà, nel mondo politico nel quale egli si muove, la sua tragica fine. Il linguaggio di Coriolano, a differenza di quello raffinato e colto di Alcibiade, è sempre rude, quasi urlato, di rissa; e ad accentuarne la rudezza Shakespeare crea, in contrapposto, di sua fantasia, il personaggio di Menenio Agrippa, un modello di scaltrezza politica - questo sì - simile ad Alcibiade, che parla studiando l’avversario, per saggiarne i punti deboli e, prima assecondandolo poi demolendolo, averne ragione. Ma Coriolano non è solo questo. All’intolleranza faziosa egli aggiunge l’incostanza del carattere, l’ignoranza di sé. Questo lo porta ad ingannarsi non solo sulla realtà politica che lo circonda, ma sulla sua stessa immagine; si trova così, quasi senza volerlo, sottomesso alla volontà della madre, Volumnia. Questa è la figura di matrona romana nelle cui parole par quasi di sentire un’eco ante litteram del Machiavelli: “Chi diventa principe col favore dei grandi deve anzitutto guadagnarsi il favore del popolo, farsi “gran simulatore e dissimulatore”. Coriolano, a differenza di Alcibiade, è il contrario di tutto questo.  CAIO MARCIO, detto poi “Coriolano” TITO LARZIO COMINIO, generali romani nella guerra contro i Volsci MENENIO AGRIPPA, amico di Coriolano SICINIO VELUTO GIUNIO BRUTO, tribuni della plebe IL PICCOLO MARCIO, figliolo di Coriolano Un araldo romano NICANOR, romano al servizio dei Volsci TULLO AUFIDIO, generale dei Volsci Un luogotenente di Aufidio ADRIANO, volsco Un cittadino di Anzio Due sentinelle volsche VOLUMNIA, madre di Coriolano VIRGINIA, sposa di Coriolano VALERIA, amica di Virginia Una dama di compagnia di Virginia Senatori romani e volsci Patrizi, edili, littori, soldati, cittadini, messaggeri Servi di Aufidio ed altri dei vari seguiti Cospiratori del partito di Aufidio SCENA: parte a Roma e nei dintorni di Roma; parte a Corioli e dintorni; parte ad Anzio. PERSONAGGI  Roma, una strada Entra un gruppo di POPOLANI in rivolta, con mazze, randelli e altri ordigni PRIMO CITTADINO - (Agli altri) Prima d’andare avanti, m’ascoltate! TUTTI - Parla, parla. PRIMO CITT. - Decisi allora: morti, piuttosto che affamati! TUTTI - Decisi sì! - Decisi! PRIMO CITT. - Primo: ciascuno sa che Caio Marcio è il principale nemico del popolo. TUTTI – È Caio Marcio! Lo sappiamo tutti. PRIMO CITT. - Uccidiamolo, allora, e avremo il grano al prezzo nostro! Chiaro? TUTTI - Chiaro. Basta parole. Andiamo ai fatti! SECONDO CITT. - Una parola, buoni cittadini. PRIMO CITT. - “Buoni” dillo ai patrizi! Noi per loro non siamo che gentaccia! Il sovrappiù che avanza a lorsignori già ci procurerebbe alcun sollievo; quello che avanza dalla loro tavola, dico, che fosse appena digeribile; potremmo almeno farci l’illusione che ci aiutino per umanità; ma pensano che già costiamo troppo. La macilenza che ci affligge tutti, a specchio della nostra povertà, è per loro un inventario ad uomo per esibire la loro abbondanza. La nostra sofferenza è il lor guadagno. Vendichiamoci con le nostre picche prima che diventiamo dei rastrelli, ché se parlo così, sanno gli dèi ch’è per fame di pane, e non punto per sete di vendetta!  SECONDO CITT. - E vorresti che noi si procedesse prima di tutti contro Caio Marcio? PRIMO CITT. - Contro di lui per primo; è un vero cane, quello, per il popolo. SECONDO CITT. - Hai ben considerato, tuttavia, quali servigi egli ha reso alla patria? PRIMO CITT. - Certamente, e sarei anche contento di dargliene pubblicamente merito; ma di ciò lui si paga da se stesso con la sua boria. SECONDO CITT. - Via, non dirne male. PRIMO CITT. - Io ti dico che tutto che di buono ha fatto è stato per un solo fine; anche se a certe tenere animucce può piacere di dire che l’ha fatto pel suo paese, in verità l’ha fatto per piacere a sua madre, ed anche, in parte, per soddisfare la propria ambizione, ché ce n’ha tanta per quanto ha coraggio. SECONDO CITT. - Tu gli addebiti a colpa qualcosa contro cui lui non può niente, perché fa parte della sua natura. Non puoi dire però che sia corrotto. PRIMO CITT. - Questo no, ma di accuse su di lui ne posso partorire a volontà. Di difetti ce n’ha di sopravanzo, da stancare ad enumerarli tutti! (Clamori all’interno) Ma che son queste grida?... L’altra parte della città è in rivolta, e noi ce ne restiamo qui a cianciare? Al Campidoglio, tutti! TUTTI - Andiamo! Andiamo! PRIMO CITT. - Un momento! Chi è che viene qui? Entra MENENIO AGRIPPA SECONDO CITT. - Il buon Menenio Agrippa, un galantuomo, uno che sempre volle bene al popolo.  PRIMO CITT. - Una persona onesta. Fossero tutti gli altri come lui! MENENIO - Ehi, cittadini, che intendete fare, dove volete andare, così armati di mazze e di randelli? PRIMO CITT. - Il motivo lo sa bene il Senato. È da due settimane che sanno quello che vogliamo fare. Ora glielo mostriamo con i fatti. Loro dicono che noi postulanti abbiamo il fiato forte: ora sapranno che abbiamo forti pure mani e braccia. MENENIO - Evvia, signori, buoni amici miei, onesti miei concittadini, diamine!, volete rovinarvi? PRIMO CITT. - Rovinati già siamo, amico; più non è possibile. MENENIO - Ed io vi dico invece, brava gente, che i patrizi si curano di voi col più caritatevole riguardo. Quanto a quel che vi manca, ciò che soffrite in questa carestia, alzare contro lo Stato romano le vostre mazze, è come alzarle in aria con l’intenzione di colpire il cielo: esso seguiterà per la sua strada, spezzando mille, diecimila ostacoli più forti che non possa mai sembrare quello di questa vostra opposizione. Quanto alla carestia, sono gli dèi che l’han voluta, non punto i patrizi, e davanti agli dèi sono i ginocchi, non le braccia, che possono soccorrervi. Ahimè, che voi vi fate trascinare dalla disgrazia dove altri malanni v’aspettano, a calunniar così e maledir come nemici gli uomini che reggono il timone dello Stato e di voi son pensosi, come padri. PRIMO CITT. - Di noi pensosi, quelli? Figuriamoci! Mai se ne son curati fino ad oggi. Ecco, ci lasciano morir di fame, e i magazzini son pieni di grano; sfornano editti per punir l’usura e favoriscon solo gli strozzini;  abrogano ogni giorno sane leggi promulgate a suo tempo contro i ricchi ed ogni giorno sfornano decreti sempre più duri per impastoiare ed affamare la povera gente. Se non saran le guerre, saranno loro a sterminarci tutti. Ecco qual è l’amore che ci portano. MENENIO - Dovete ammettere che a dir così siete mostruosamente in malafede, o si dovrà accusarvi di follia. Vi voglio raccontare una storiella su misura. L’avrete già sentita, ma poiché ben s’adatta al mio proposito, m’avventuro a ridurla un po’ più trita. PRIMO CITT. - Beh, sentiamola un po’. Ma non pensare di far sparire con un raccontino il nostro obbrobrio. Dilla, se ti piace. MENENIO - Successe un tempo che tutte le membra del corpo si levarono in rivolta contro lo stomaco, così accusandolo: restarsene esso solo, in mezzo al corpo, a ingozzarsi di cibo tutto il tempo come un gorgo, infingardo ed inattivo, senza divider mai con l’altre parti il lavoro comune, mentre quelle eran continuamente ad esso intente, ad udire, a pensare, a impartir ordini, a camminare, a percepir coi sensi, sì che aiutandosi l’una con l’altra, provvedevano insieme agli appetiti e ai bisogni comuni a tutto il corpo. Lo stomaco rispose... PRIMO CITT. - Beh, sentiamo, quale fu la risposta dello stomaco? MENENIO - Stavo appunto per dirtelo. Lo stomaco, mostrando loro un certo sorrisetto che non gli venne affatto dai polmoni(9) ma proprio qui, così...(10) perché, vedete, se posso farlo parlare, lo stomaco, posso ben farlo egualmente sorridere, provocatoriamente replicò alle parti che s’eran ribellate invidiose ch’ei solo ricevesse, esattamente come adesso voi che criticate i nostri senatori  perché non sono quali siete voi. PRIMO CITT. - La risposta del tuo stomaco... Beh? La testa, sede di regal diadema, l’occhio, vigil guardiano, il cuore, consigliere, il braccio, nostro difensore armato, la gamba, nostro caval di battaglia, la lingua, nostro araldo trombettiere, con tutte l’altre nostre munizioni e piccoli ausiliari di difesa di questa nostra fabbrica, se questi, tutti insieme... MENENIO - Ebbene, che?... (Tra sé) Parola mia, costui si parla addosso! (Forte) Ebbene, allora? Avanti, su, che cosa? PRIMO CITT. - ... dovessero venir prevaricati dal cormorano stomaco, ch’è la fogna del corpo... MENENIO - Ebbene allora? PRIMO CITT. - Allora, insomma, se questi che ho detto si lamentavano, che mai rispondere poteva il ventre? MENENIO - Te lo dico io, se mi concedi un poco di pazienza, anche se, come vedo, ce n’hai poca. PRIMO CITT. - Eh, quanto la fai lunga! MENENIO - Stammi bene a sentire, buon amico... Dunque lo stomaco, con gran sussiego, pesando le parole, in tutta calma, al contrario dei suoi accusatori, dice: “Miei cari consociati, è vero ch’io ricevo per primo tutto il cibo da cui traete voi sostentamento; ma è giusto e logico che sia così dal momento ch’io sono il magazzino e l’officina di lavorazione di tutto il corpo. E se ci riflettete, io lo rimando poi regolarmente, pei canali del sangue, fino al palazzo della corte, al cuore, al suo trono, il cervello,  e, attraverso i tortuosi labirinti e le diverse stanze di servizio della persona, i più robusti muscoli, e le più capillari delle vene ricevono da me regolarmente la naturale dose d’alimento onde ciascuno trae la propria vita. Ed anche se voi tutti presi insieme...” - attenti, amici, adesso, attenti bene, a ciò che dice il ventre... PRIMO CITT. - Sì, ma sbrigati. MENENIO - “... anche se non potete, lì per lì, vedere ciò che fornisco a ciascuno, cionondimeno alla resa dei conti il mio bilancio è a posto, perché tutti ricevono da me il fior fiore di tutto, laddove a me non resta che la crusca”. Beh, che ne dite? PRIMO CITT. - Una risposta l’era, questa; ma come può adattarsi a noi? MENENIO - Fate conto che siano i senatori di Roma questo stomaco, e voialtri le membra ammutinate. Perché considerate in generale le lor delibere e le lor premure, digerite a dovere entro di voi quanto concerne il pubblico benessere, e troverete che dei benefici che tutti riceviamo dallo Stato non ce n’è che non vengano da loro, e nessuno da voi. (Al Primo Cittadino) Beh, che ne pensi, tu che sei, come mi sembri, l’alluce del piede di codesto assembramento? PRIMO CITT. - Io, alluce? Perché? MENENIO - Perché sei tra i più bassi, i più schifosi, i più morti di fame di codesta saggissima rivolta, e vai avanti a tutti, tu, cagnaccio che sei del peggior sangue quanto a correre, e ti dài arie da caporione sol per trarne vantaggio personale!  Impugnateli pure i vostri arnesi, i nodosi randelli ed i batacchi: Roma ed i sorci della sua cloaca stan per darsi battaglia, chi sa quale dei due avrà la peggio(15)! Entra CAIO MARCIO MENENIO - Salute a te, nobile Marcio. MARCIO - Grazie! (Al popolo) Che vi succede, torpida canaglia, che a furia di grattarvi notte e giorno la scabbia della vostra ostinazione siete ridotti a una putrida rogna? PRIMO CITT. - Sempre buone parole da te, Marcio! MARCIO - Buone parole, ad uno come te, chiunque le dice sse, sarebbe un basso e immondo adulatore. Che volete, cagnacci, cui non va bene né pace, né guerra, perché l’una vi fa tanti conigli, l’altra vi fa sfrontati e tracotanti? E a fidarsi di voi, non che scoprir che siete dei leoni, ci si accorge che siete solo lepri, oche, invece di volpi. No, si può far meno fiducia in voi che in un tizzone acceso in mezzo al ghiaccio, che in un granello di grandine al sole. Siete capaci d’innalzare al cielo chi è punito per qualche sua magagna, e insieme maledire la giustizia che l’ha punito. Chi merita onore, non può che meritare l’odio vostro; le vostre simpatie per questo o quello son come l’appetito di un malato che va desiderando soprattutto ciò che può solo peggiorargli il male. Chi dipendesse dal vostro favore è come se nuotasse avendo ai piedi pinne di piombo, o avesse l’illusione di segare una quercia con dei giunchi. Fidare in voi?... Impiccatevi! Voi mutate gabbana ogni minuto. Siete pronti a dir nobile chi poco prima coprivate d’odio, e vile chi era prima il vostro eroe.  E adesso che v’ha preso, d’andare urlando per le vie di Roma contro il Senato che, grazie agli dèi, riesce ancora a mantenervi a freno(17), se no vi sbranereste l’un con l’altro? (A Menenio) Che van cercando? MENENIO - Grano, al loro prezzo, perché sostengono che la città n’è ben fornita. MARCIO - Alla forca! “Sostengono”!... Siedono tutto il tempo accanto al fuoco, e pretendono di sapere loro tutto quel che succede in Campidoglio: chi può andare più in alto, chi ci sta con buone prospettive, chi declina; parteggiano or per uno or per un altro, s’inventano alleanze immaginarie, innalzano alle stelle una fazione e sotto le lor scarpe rattoppate calpestano chi non va loro a genio. Dicono che c’è grano in abbondanza! Se i nobili mettessero da parte per una volta la loro pietà e lasciassero a me d’usar la spada, ne farei un tal mucchio, fatti a pezzi, di migliaia di questi miserabili alto quanto gittar può la mia lancia(19). MENENIO - Non c’è bisogno. Quelli che son qui son già quasi convinti tutti quanti; perché se pur son largamente privi d’ogni criterio di moderatezza, sono pure abbondantemente vili. Dimmi piuttosto tu, che cosa dice il resto della mandria. MARCIO - Si son dissolti. Che crepino tutti! Dicevan d’aver fame, e davan fiato sospirando a sentenze come queste: “La fame fa crepare anche le mura”; “Pure i cani han diritto di mangiare”; “Gli dèi non hanno dato il grano agli uomini soltanto per i ricchi”... ed altre simili. E con questi cascami di saggezza esalavano il loro malcontento; finché han trovato chi gli ha dato retta ed ha esaudito una lor petizione...  una richiesta assurda, da spezzare il più generoso cuore, e spegnere sul volto del potere ogni baldanza. E quelli tutti a urlare, gettando i loro cappellacci in aria, come se li volessero appiccare ai corni della luna. MENENIO - E che cos’è ch’è stato lor concesso? MARCIO - Cinque tribuni, di lor propria scelta, a difesa della plebea saggezza. Uno dei cinque è Giunio Bruto, un altro è Sicinio Voluto... e non so più. Ma, sangue degli dèi, se stesse a me, questa canaglia, prima di spuntarla doveva scoperchiare tutta Roma! Questi col tempo prenderan la mano sul potere legittimo, e pian pian accamperanno sempre altre pretese come pretesto ad una insurrezione. MENENIO - Certo, la cosa è sconcertante assai. MARCIO - (Alla folla) A casa, a casa, avanti, spazzatura! Entra di corsa un MESSAGGERO MESSAGGERO - Caio Marcio dov’è? MARCIO - Qui. Che succede? MESSAGGERO - Marcio, è giunta notizia che i Volsci sono in armi. MARCIO - Ne ho piacere. Potremo sbarazzarci finalmente di tanto nostro ammuffito superfluo. Ma ecco i nostri più nobili anziani. Entrano COMINIO, TITO LARZIO, con altri SENATORI, poi GIUNIO BRUTO e SICINIO VOLUTO PRIMO SENATORE - Marcio, quel che ci hai detto ultimamente è confermato: i Volsci sono in armi. MARCIO - Ed hanno a capitano Tullo Aufidio, uno che vi darà filo da torcere. Peccherò, ma m’invidio il suo valore, e se fossi altro da quello che sono,  vorrei essere lui, e nessun altro. COMINIO - Vi siete già scontrati faccia a faccia. MARCIO - Se la metà del mondo si scontrasse con l’altra, e Tullo Aufidio si venisse a trovar dalla mia parte, io cambierei di fronte per guerreggiar con lui solo. È un leone a cui m’inorgoglisce dar la caccia(25). PRIMO SENAT. - E allora, degno Marcio, unisciti a Cominio in questa guerra. COMINIO - Me l’hai promesso, Marcio. MARCIO - E lo mantengo. E mi vedrai ancora, Tito Larzio, volteggiare la lama in faccia a Aufidio. Che hai? Ti vedo alquanto titubante. Ti tiri fuori? LARZIO - No, Marcio, che dici? Appoggiato magari a una stampella e brandendo quell’altra come un’arma, piuttosto che mancare a quest’impresa. MENENIO - Eh, buon sangue romano... PRIMO SENAT. - Allora tutti insieme in Campidoglio, dove so che si trovano ad attenderci i più degni ed illustri nostri amici. LARZIO - (A Cominio) Tu avanti a tutti. (A Marcio) E tu dopo di lui. Noi seguiremo. A voi la precedenza. COMINIO - (Prendendo sottobraccio Marcio e avviandosi) Nobile Marcio! (Alla folla) A casa, via, sparite! MARCIO - Ma no, lascia che vengano anche loro. I Volsci han molto grano. Portiamoli da loro, questi sorci, a rosicchiare i lor granai, perbacco! Ribelli rispettabili, il valor vostro ha buone prospettive. Seguiteci, vi prego.  (I popolani si disperdono) (Gli altri escono tutti, meno SICINIO e BRUTO) SICINIO - S’è visto mai un uomo più arrogante di questo Marcio? BRUTO - Non ce n’è l’uguale. SICINIO - Quando ci elessero tribuni... BRUTO - Già, notasti pure tu le labbra, gli occhi? SICINIO - No, notai solo le sue insolenze. BRUTO - Oh, quanto a quelle, se perde le staffe non esita ad insolentir gli dèi. SICINIO - O a schernire la vereconda luna. BRUTO - Se questa guerra se lo divorasse! È diventato troppo strafottente, per essere altrettanto valoroso. SICINIO - Uno con un carattere così, se il successo gli fa montar la testa, arriverà a sdegnare la sua ombra e pestarla coi piedi a mezzogiorno. Mi sorprende perciò che tanta boria giunga a piegarsi tanto docilmente da farsi comandare da Cominio. BRUTO - La fama, cui palesemente aspira, e che già gli ha concesso i suoi favori, non c’è mezzo migliore per serbarla intatta ed anche accrescerla che operare in un posto dopo il primo; così quando le cose vanno male, sarà colpa del comandante in capo, abbia pur egli fatto tutto il meglio ch’è possibile a un uomo; ed a quel punto gl’immancabili stupidi censori si daranno a gridar di Caio Marcio: “Ah, se l’avesse comandata lui quest’impresa!”. SICINIO - Se invece vanno bene, la voce della pubblica opinione, ch’è già così favorevole a Marcio, defrauderà Cominio d’ogni merito.  BRUTO - E così la metà di tutti i meriti che spettano a Cominio andranno a Marcio, senza che questo li abbia meritati. SICINIO - Ma muoviamoci. Andiamo un po’ a sentire che cosa si decide per la guerra e come intende lui, col suo carattere, avventurarsi in questa impresa. BRUTO - Andiamo. (Escono) SCENA Corioli, il Senato Entra TULLO AUFIDIO con alcuni SENATORI PRIMO SENATORE - Così, tu pensi, Aufidio, che quei di Roma siano a conoscenza dei nostri piani e delle nostre mosse? AUFIDIO - E voi non lo pensate? Ci fu mai decisione in questo Stato ch’abbia potuto mandarsi ad effetto prima che Roma se ne impadronisse? Ho notizie di là abbastanza fresche, meno di quattro giorni, che mi dicono... Credo d’aver con me il dispaccio... Eccolo (Legge) “Hanno ammassato un poderoso esercito, “ma non si sa per qual destinazione, “se ad est oppure ad ovest... “Nella città la carestia è grande, “e nel popolo c’è molto fermento. “Si dice che Cominio insieme a Marcio, “il vecchio tuo nemico, odiato a Roma “più che da te, e insieme a Tito Larzio, “un romano di altissimo valore, “saranno i comandanti designati “di quest’azione, dovunque diretta. “Molto probabilmente “essa è contro di voi. State in allarme”. PRIMO SENAT. - La nostra armata è in campo. Eravamo sicuri che da Roma ci sarebbe venuta la risposta)... AUFIDIO - ... a giudicar non certo una follia creder che i vostri piani di battaglia  avessero a tenersi sotto chiave finché non fosse proprio necessario ch’essi si rivelassero da soli(29); invece, a quanto pare, erano noti a Roma sin da quando si covavano. Questa brutta scoperta c’impone adesso d’abbassar la mira, ch’era di prendere molte città prima almeno che Roma sapesse ch’eravamo scesi in guerra. SECONDO SENAT. - Nobile Aufidio, assumi tu il comando, raggiungi le tue truppe, e lascia a noi di difender Corioli. Se s’accampasser qui davanti a noi, porta su le tue forze per cacciarli. Ma penso ch’essi, lo vedrai tu stesso, non si preparano contro di noi. AUFIDIO - Ah, su ciò non illuderti. Le mie notizie son di fonte certa. Dirò di più, già alcuni scaglioni del loro esercito stanno marciando, e soltanto per questa direzione. Mi congedo, signori. Se Marcio ed io dovessimo incontrarci, ci siamo già giurati di combattere fin che un non soccomba. TUTTI - Il ciel t’assista! AUFIDIO - E protegga le vostre signorie. PRIMO SENAT. - Addio! SECONDO SENAT. - Addio! TUTTI - Addio! (Escono tutti, i Senatori da una parte, Aufidio dall’altra) SCENA III - Roma, la casa di Caio Marcio VOLUMNIA e VIRGINIA siedono intente a cucire VOLUMNIA - Canta, figlia, ti prego, o almeno mostrati un po’ meno triste! Se Marcio invece d’essere mio figlio fosse mio sposo, sarei più felice di saperlo lontano a farsi onore,  che averlo a letto a gustarne gli amplessi, per quanto amore egli potesse effondere. Quand’era ancora un tenero fanciullo, e l’unico rampollo del mio ventre, e la sua fascinosa giovinezza gli attirava gli sguardi della gente; quando una madre, neppure se un re l’avesse scongiurata un giorno intero, se lo sarebbe fatto allontanare dalla vista nemmeno per un’ora, io, presaga da allora della gloria cui uno come lui era votato (ché se brama d’onor non lo animasse, sarebbe stato nulla più che un quadro da restare appiccato alla parete), ero felice di lasciarlo andare in cerca di pericolo, dovunque egli potesse incontrar fama. E lo mandai ad una cruda guerra, dalla quale però fece ritorno col capo cinto di foglie di quercia. Ti dico, figlia, che di tanta gioia non sussultai sentendo il primo annuncio che avevo partorito un figlio maschio, quanta fu a veder la prima volta qual uomo vero egli s’era mostrato. VIRGINIA - E se fosse caduto in quell’impresa, madre, che avreste fatto? VOLUMNIA - Avrei serbato al posto di mio figlio la gloria del suo nome, e in essa avrei ritrovato mio figlio. Senti quel che ti dico, cuore in mano: avessi pur dodici figli maschi, tutti egualmente amati, e nessuno di loro meno caro del tuo e mio buon Marcio, preferirei vederne morir undici nobilmente, in difesa della patria, che saperne uno solo dissipare la vita nei piaceri, lontano dalle fatiche di guerra. Entra un’ANCELLA ANCELLA - Padrona, è qui la nobile Valeria, per farti visita. VIRGINIA - Madre, ti supplico, dammi licenza, vorrei ritirarmi.  VOLUMNIA - Niente affatto, non devi. Mi par già di sentire qui, vicino, il rullo dei tamburi del tuo sposo, e di vederlo che trascina in terra, presolo pei capelli, quell’Aufidio, ed i Volsci fuggire innanzi a lui come bambini alla vista dell’orso... E vederlo che pesta i piedi a terra, così, e gridare: “Avanti, voi, vigliacchi! Figli della paura, e non di Roma!” e asciugarsi la fronte insanguinata con una mano inguantata di ferro, ed avanzar pel campo di battaglia simile a un mietitore che s’imponga di mieter tutto il campo per non perder la paga giornaliera. VIRGINIA - La fronte insanguinata?... Oh, Giove, no! VOLUMNIA - Via, sciocca! Il sangue s’addice ad un uomo meglio dell’oro sopra il suo trofeo(33). I seni d’Ecuba giovane sposa che allattavano Ettore bambino non erano più belli della fronte di lui quando, sprezzante, schizzava sangue per le greche spade. (All’ancella) Va’, di’ a Valeria che siamo qui pronte a darle il benvenuto in casa nostra. (Esce l’ancella) VIRGINIA - Proteggano gli dèi il mio signore dal terribile Aufidio. VOLUMNIA - Sarà lui, che schiaccerà del fero Aufidio il capo col suo ginocchio e il collo col suo piede. Rientra l’Ancella con VALERIA e un servo di questa VALERIA - Buongiorno a voi, mie donne! VOLUMNIA - Cara amica! VIRGINIA - Son lieta di vederti. VALERIA - Come state? Brave massaie, vedo. Un bel lavoro:  che ricamate?... E il bimbo come sta? VIRGINIA - Sta bene, buona amica, ti ringrazio. VOLUMNIA - Preferirebbe stare tutto il giorno a veder spade ed udire tamburi, piuttosto che star dietro al suo maestro. VALERIA - Parola mia, il figlio di suo padre! Un frugoletto stupendo, davvero. Vi dirò, sono stata ad osservarlo mercoledì scorso per una mezz’ora: che piglio risoluto! A un certo punto l’ho visto correr dietro a una farfalla dalle alucce dorate; l’acchiappò, poi la lasciò andar libera di nuovo, e lui di nuovo dietro, ruzzolando su e giù, e rialzandosi, finché riesce ad acchiapparla ancora; e là, o l’avesse urtato il ruzzolone, o che cos’altro, la serra tra i denti, così, e la sbrana. E come l’ha ridotta, non vi dico. VOLUMNIA - Gli scatti di suo padre! VALERIA – È così, vero, un bimbetto di razza. VIRGINIA - Un monello, mia cara. VALERIA - Via, mettete da parte quel ricamo. Vo’ farvi fare, questo pomeriggio con me la parte di massaie oziose. VIRGINIA - No, mi dispiace, non mi va uscire. VALERIA - Non vuoi uscire? VOLUMNIA - Uscirà, uscirà! VIRGINIA - Davvero, no, perdonami, Valeria, ma ho deciso di non varcar quell’uscio finché non sia tornato il mio signore dalla guerra. VALERIA - Ma via, è irragionevole. che tu t’imponga un simile confino. Su, devi pur deciderti a far visita a quell’amica che sta per sgravarsi. VIRGINIA - Le faccio voti d’un felice parto  e le sto accanto con le mie preghiere; ma visitarla, adesso, no, non posso. VOLUMNIA - Perché? VIRGINIA - Non per sottrarmi ad un fastidio, e tanto meno per poca affezione. VALERIA - Vuoi farti proprio una nuova Penelope. Dicon però che tutta quella lana ch’ella filò nell’assenza di Ulisse non servì che a riempir di tarme Itaca. Eh, vorrei tanto che questa tua tela fosse sensibile come il tuo dito, così potresti, almeno per pietà, smettere di bucarla con quell’ago! Su, devi uscir con noi. VIRGINIA - No, cara amica, perdonami, ma io non uscirò. VALERIA - Senti, se vieni, sulla mia parola, ti fornirò eccellenti notizie di tuo marito. VIRGINIA - Ah, mia buona amica, è troppo presto ancora per averne. VALERIA - T’assicuro, non scherzo. Ne abbiamo ricevute ieri sera. VIRGINIA - Parli sul serio? VALERIA - In sacra verità. Ne ho sentito parlare un senatore. Son queste: i Volsci sono scesi in campo, contro di loro è partito Cominio con una parte delle nostre forze. Con l’altra tuo marito e Tito Larzio sono accampati davanti a Corioli, la loro capitale. Son sicuri di prenderla, e concludere presto la campagna. La notizia è sicura, sul mio onore. E dunque avanti, non farti pregare, vieni con noi. VIRGINIA - Ti chiedo ancora scusa, mia cara. Un’altra volta, tutto quello che vuoi, te lo prometto.  VOLUMNIA - Evvia, lasciala stare! Con l’umore che adesso si ritrova non farebbe che rattristar noi pure. VALERIA - Lo penso anch’io. (A Virginia) Allora, arrivederci. (A Volumnia) Andiamo, cara amica. (Volgendosi di nuovo a Virginia) Evvia, ti prego, caccia la mutria, vieni via con noi. VIRGINIA - No, non insistere. Non esco e basta. V’auguro buon divertimento. VALERIA - Addio. (Escono Volumnia e Valeria. Virginia si richina sul ricamo) SCENA L’accampamento romano davanti a Corioli Entrano CAIO MARCIO e TITO LARZIO con un seguito di ufficiali e soldati con tamburi e vessilli. Un MESSAGGERO si fa loro incontro. MARCIO - Arrivano notizie. Scommetto che si sono già scontrati. LARZIO - Il mio cavallo contro il tuo che no. MARCIO - Accettato. LARZIO - D’accordo, affare fatto. MARCIO - (Al Messaggero) Di’, s’è scontrato il nostro generale col nemico? MESSAGGERO - Si trovano già in vista l’un dell’altro, ma scontro ancora niente. LARZIO - Il tuo cavallo è mio! MARCIO - Te lo ricompro. LARZIO - Nient’affatto, né te lo do in regalo. Te lo do in prestito per cinquant’anni. (Al Trombettiere) Appella a parlamento la città.  MARCIO - (Al Messaggero) Quanto distan da qui i due eserciti? MESSAGGERO - Un miglio e mezzo circa, non di più. MARCIO - Allora sentiremo il loro allarme d’inizio della mischia, ed essi il nostro. Ora, Marte, ti prego, facci concludere alla svelta qui, sì che da qui possiamo poi marciare, con le daghe di sangue ancor fumanti, in aiuto dei nostri amici in campo. (Al Trombettiere) Avanti, la tua squilla. (Tromba a parlamento. Sugli spalti delle mura di Corioli appaiono due SENATORI con altra gente) (Ai due Senatori volsci) Tullo Aufidio è in città? PRIMO SENATORE - No, né c’è uomo qui che men di lui vi tema: vale a dir meno che niente. (Rullo di tamburi in lontananza) Ecco i nostri tamburi che chiamano a battaglia i nostri giovani. E noi, piuttosto che lasciarci chiudere come in trappola dentro queste mura, le abbatteremo. Queste nostre porte che sembrano sbarrate fortemente, le abbiam fermate appena con dei giunchi. Si apriranno da sé. (Frastuono di carica guerresca in lontananza) Laggiù, sentite? Aufidio è là; potete immaginarlo il bel lavoro ch’egli sta facendo in mezzo al vostro dimezzato esercito(35). MARCIO - Oh, s’azzuffano! LARZIO - Questo lor clamore sia il nostro segnale. Qua le scale! (Soldati volsci escono improvvisamente dalle mura) MARCIO - Non ci temono, questi, anzi, vedete, ci fanno addirittura una sortita! Avanti allora, scudi avanti al cuore, e col cuore più saldo degli scudi,  all’assalto, mio valoroso Tito! Costoro mostrano d’averci a spregio più di quanto potessimo pensare; e ciò mi fa sudare dalla rabbia! All’assalto, all’assalto, miei soldati! Il primo che indietreggia, lo prenderò per un soldato volsco, e gli farò assaggiare la mia spada! (Allarme di battaglia. I Romani sono respinti sulle loro posizioni) (Marcio esce combattendo, poi rientra, infuriato, gridando) Ah, vergogna di Roma! Branco di... Vi s’attacchino addosso tutti i mali più pestilenti d’Africa! Carogne! Vi ricoprano pustole e bubboni, sì che ancor prima di guardarvi in faccia vi possiate infettar l’un con l’altro a un miglio di distanza controvento! Anime d’oca dentro umane forme! Come avete potuto indietreggiare davanti a un’accozzaglia di straccioni che perfino le scimmie sarebbero capaci di sconfiggere? Per Plutone e l’inferno siete feriti tutti nella schiena, con le facce slavate per la fuga e la paura che vi fa tremare! Pensate a riscattarvi, scellerati! Ricacciateli indietro, o, per il cielo, mollo il nemico e vi combatto contro! V’ho avvertiti. Tenete duro! Avanti! E li ricacceremo alle lor tane, in braccio alle lor mogli, così com’essi ci hanno ricacciati alle nostre trincee. Su, dietro a noi! (Altra carica. Questa volta i Romani hanno la meglio, i Volsci sono volti in fuga, e Marcio li insegue da solo fino alle porte della città) Ecco, le porte adesso sono aperte. Dimostratevi buoni inseguitori. A chi insegue le apre la Fortuna, le porte, non a chi se la dà a gambe! Guardate me, e fate come me. (Entra da solo in Corioli) PRIMO SOLDATO - (Arrestandosi cogli altri davanti alla porta ancora aperta) È prodezza da folle, io non lo seguo.  SECONDO SOLD. - E io nemmeno. (Improvvisamente la porta si chiude) Toh, guardalo là! L’han chiuso dentro. TUTTI – È in trappola, sicuro! Entra TITO LARZIO LARZIO - Che succede di Marcio? TUTTI - Ucciso, generale, non c’è dubbio. PRIMO SOLDATO - Stava inseguendo quelli che fuggivano, è entrato insieme a loro, e quelli, subito, gli hanno richiuso la porta alle spalle. È solo, contro tutta la città. LARZIO - Oh, nobile collega! Tu che sensibilmente(36) in audacia superi l’insensibile tua spada, e resisti, se pur essa si piega! Tu sei perduto, Marcio! Un diamante della più pura luce(37) e dello stesso peso del tuo corpo non sarebbe gioiello più prezioso! Tu eri, come nessun altro a Roma, il soldato voluto da Catone(38), fiero e tremendo non solo a colpire, ma cui bastava solo un truce sguardo e un grido della tua voce di tuono, per incuter tal tremito al nemico, come se tutto il mondo fosse preso subitamente da tremor febbrile. Entra MARCIO, sanguinante, inseguito da soldati volsci PRIMO SOLDATO - Oh, generale, guarda, guarda là! Ma quello è Marcio! Corriamo a salvarlo, o qui si muore tutti insieme a lui! (Zuffa. I Romani sopraffanno i Volsci ed entrano tutti in Corioli) SCENA V - Corioli, una strada Entrano alcuni legionari romani recando in mano delle spoglie di guerra PRIMO SOLDATO - (Mostrando un oggetto d’argento) Io questa roba me la porto a Roma.  SECONDO SOLD. - E io con quest’altra. TERZO SOLDATO - (Gettando via il proprio bottino) Accidentaccio!... Questo l’avevo preso per argento! (In lontananza, il fragore di cariche che continuano) Entra CAIO MARCIO, sanguinante, con TITO LARZIO e un trombettiere. Al vederli, i soldati con le spoglie di guerra escono. Marcio si ferma a seguirli con lo sguardo. MARCIO - Eccoli là, questi eroi da strapazzo! L’onore di soldato(40) per costoro non vale più d’una dracma crepata(41). Ferri vecchi, cuscini, cucchiaiacci, giaccacce lise che perfino il boia seppellirebbe con chi le portava(42), saccheggian tutto, questi manigoldi, tutto imballano, per portarlo a casa, prima ancora che cessi la battaglia! Che crepassero tutti!... Senti, senti che chiasso leva di là il generale(43)! A lui adesso! Là c’è un uomo, Aufidio, ch’io odio sovra ogni altra cosa al mondo, e sta facendo strage di Romani! Perciò, trattieniti, mio prode Tito, quanti soldati credi che ti servano per tener la città; io, nel frattempo, con quelli che hanno l’animo di farlo, accorro a dare man forte a Cominio. LARZIO - Ma tu sanguini, mio nobile Marcio. Già troppo dura prova hai sostenuto, per combattere ancora. MARCIO - Niente lodi. Quel che ho fatto non m’ha manco scaldato. Perdere un po’ di sangue, col mio fisico, fa più bene che male. Voglio apparir così davanti a Aufidio, e battermi con lui. LARZIO - Possa allora la bella dea Fortuna innamorarsi di te follemente, e con la forza dei suoi incantesimi sviar da te le spade dei nemici, ed il Successo diventar tuo paggio. MARCIO - E a te non meno sia il Successo amico di quanto l’è a coloro cui Fortuna  decide di portare in alto. Addio. (Esce) LARZIO - Nobile Marcio! (Al trombettiere) Va’, recati al Foro e chiama con la tromba a parlamento tutti i notabili della città: che s’adunino in piazza, per conoscere i nostri intendimenti. (Escono) SCENA VI -Il campo di Cominio Entra COMINIO alla testa di soldati romani in ritirata COMINIO - Alt, riprendete fiato, miei soldati! Vi siete ben battuti! Ne siamo usciti fuori da Romani, senza resistere spavaldamente, senza vigliaccamente ritirarci. Ci attaccheranno ancora, son sicuro. Mentre ci scontravamo, di quando in quando, portate dal vento, si sentivan le cariche dei nostri dall’altra parte. Che gli dèi di Roma li vogliano guidare alla vittoria, come speriamo vogliano con noi, così che al fine entrambi i nostri eserciti, incontrandosi col sorriso in fronte, possano offrirvi, o dèi, i sacrifici di ringraziamento! Entra un MESSAGGERO Che nuove porti? MESSAGGERO - Quelli di Corioli, han fatto all’imprevisto una sortita e hanno dato battaglia a Larzio e Marcio. Ho visto io stesso i nostri che venivano ricacciati indietro nelle loro trincee; e son partito. COMINIO - Sarà come tu dici, ma non mi pare sia proprio così. Da quanto tempo sei venuto via?  MESSAGGERO - Da più di un’ora. COMINIO - Ma da qui a Corioli non c’è nemmeno un miglio di distanza, e da poco si sono uditi qui i lor tamburi. Come hai tu potuto metterci un’ora a percorrere un miglio, e recar così tardi il tuo messaggio? MESSAGGERO - Sulle mie tracce alcune spie dei Volsci m’hanno dato la caccia, e m’ha costretto a fare un giro di tre o quattro miglia, per evitarle; se no, generale, t’avrei recato già mezz’ora fa il mio messaggio. Entra MARCIO dal fondo Ma chi è laggiù, che par come se l’abbian scorticato? O dèi! Dalla figura sembra Marcio! L’ho visto già altre volte in quello stato. MARCIO - (Da lontano) Arrivo troppo tardi? COMINIO – È la sua voce. Saprei distinguerla da altre mille, meglio di quanto non sappia il pastore il fragore di un tuono da un tamburo. MARCIO - (Avvicinandosi) Arrivo troppo tardi? COMINIO - Sì, se quel sangue che t’ammanta tutto, è sangue tuo, e non sangue nemico(45). MARCIO - Ah, lascia ch’io ti abbracci forte, Cominio, e con la stessa gioia con la quale abbracciai la mia ragazza al declinar del giorno delle nozze, quando ardenti bruciavano le fiaccole a farmi luce sulla via del talamo! COMINIO - Fior di tutti i guerrieri! E Tito Larzio, che mi dici di lui? MARCIO - Ch’è tutto preso ad emanar decreti di giustizia, chi condannando a morte, chi all’esilio, di chi accettando il prezzo del riscatto,  con chi indulgente, con chi rigoroso; tiene Corioli, nel nome di Roma, al guinzaglio, come un levriero docile da lasciar libero come si voglia. COMINIO - (Volgendosi intorno) Dov’è quel miserabile che poc’anzi è venuto ad annunciarmi che il nemico v’aveva ricacciati nelle vostre trincee?... Dov’è? Chiamatelo! MARCIO - Lascialo stare. T’ha informato bene. A parte i nobili, la bassa forza - peste li colga! E gli han dato i tribuni! - son fuggiti, come da gatto sorcio, davanti a scalcagnati più di loro. COMINIO - E come avete fatto a prevalere? MARCIO - C’è tempo per spiegartelo? Non credo. Ma il nemico dov’è? Siete rimasti, a quanto pare, padroni del campo. Se no, perché cessaste di combattere? COMINIO - Finora, Marcio, abbiamo combattuto in una posizione di svantaggio, e ci siam ritirati di proposito, per poi rifarci e vincerli. MARCIO - Sai com’hanno schierato il loro esercito? E dove han messo gli uomini migliori? COMINIO - Da quel che m’è dato indovinare, in prima linea son quelli di Anzio, che sono i combattenti più affidabili, e li comanda Aufidio, il vero cuore delle lor speranze. MARCIO - Ti supplico, Cominio, per le battaglie combattute insieme, per il sangue che insieme abbiam versato, pei giuramenti che ci siam fatti, fa’ in modo ch’io mi trovi faccia a faccia con Aufidio e con tutti i suoi Anziati, e non tardare ad attaccar battaglia; affrontiamoli subito, riempiamo di frecce l’aria, e di spade brandite. COMINIO - Sarebbe meglio, penso, nel tuo stato, ch’io ti faccia condurre ad un bel bagno e spalmarti d’unguenti le ferite;  ma non saprò giammai negarti nulla. Scegli tu stesso gli uomini più adatti a secondarti nell’azione. MARCIO - Saranno solo quelli che mi diranno d’esservi disposti. (Forte, ai soldati) Se c’è qualcuno qui - e sarebbe peccato dubitarlo - cui piaccia questa tinta ond’io, vedete, sono imbrattato dalla testa ai piedi; se c’è qualcuno che ha meno paura di rischiare la vita che il suo nome, che pensa che una morte valorosa vale più d’una vita senza onore; e che la patria val più che se stesso, egli solo, o quant’altri in mezzo a voi si trovino a pensarla come lui, levino in alto il lor gladio, così, per dir che sono pronti a seguir Marcio. (Tutti, con un grido, agitano in alto i gladii; alcuni sollevano Marcio sulle loro braccia, altri lanciano in aria i berretti) Di me solo, di me fate una spada(46)! Se queste vostre manifestazioni non son soltanto mostra, quale di voi non vale quattro Volsci? Non c’è nessuno che non sia capace d’opporre al grande Aufidio uno scudo robusto come il suo. Io vi ringrazio tutti, ma tra voi debbo scegliere solo un certo numero. Gli altri daranno prova in altra impresa, quando se ne presenti l’occasione. Ora vi piaccia di sfilarmi innanzi in bell’ordine, sì ch’io possa scegliere subito quelli più adatti a seguirmi. COMINIO - In marcia, miei soldati! Date prova d’avere quel coraggio che avete sì altamente proclamato, e ciascuno dividerà con noi la sua parte di rischi e di bottino. (Escono marciando) SCENA Davanti alle porte di Corioli  TITO LARZIO con un tamburino, un trombettiere e una guida è sul punto di partire per recare aiuto a Cominio e Caio Marcio; con lui è anche un LUOGOTENENTE con altri soldati LARZIO - (Al Luogotenente) Dunque, le porte siano ben guardate. Attenetevi agli ordini impartiti. Se lo richiederò, mandate subito quelle centurie in nostro aiuto. Il resto basterà a tenere per poco la città; per poco, sì, ché se perdiamo in campo, la città non potremo più tenerla. LUOGOTENENTE - Va bene, generale, sarà fatto(48). LARZIO - Muoviamo, dunque, e chiudete le porte dietro di noi. (Alla Guida) Andiamo, battistrada, scortaci fino al campo dei Romani. (Escono) SCENA - Il campo di battaglia. Allarme d’assalto Entrano da parti opposte, AUFIDIO e MARCIO MARCIO - Con te e con nessun altro voglio battermi, ché ti porto un odio quale nemmeno al peggiore spergiuro. AUFIDIO - Siamo pari. Non c’è serpente in Africa ch’io aborrisca più della tua fama e della tua rivalità. Difenditi(49)! MARCIO - Il primo che fa un solo passo indietro muoia schiavo dell’altro, e poi gli dèi lo dannino in eterno. AUFIDIO - Se mi vedi fuggire, urlami dietro, Marcio, come un cane corre abbaiando dietro ad una lepre. MARCIO - Tullo, da meno di tre ore, io, da solo ho combattuto contro tutti dentro le mura della tua Corioli, facendo tutto quello che ho voluto. Lo vedi questo sangue di cui sono imbrattato? Non è mio.  Chiama a raccolta tutte le tue forze, adesso, se vuoi farne tu vendetta. AUFIDIO - Fossi tu pure l’Ettore di Troia che della tua altezzosa progenie fu la frusta(50), stavolta non mi scappi. (Si battono. Soldati volsci accorrono in aiuto ad Aufidio, ma Marcio li ricaccia tutti indietro) (Ai suoi soldati) Gente zelante, ma non valorosa, con questo vostro maledetto aiuto m’avete sol coperto di vergogna! (Escono) SCENA Il campo romano Squilli di tromba come segnali di carica. Trambusto e cozzo d’armi all’interno. Poi, segnale di ritirata Entra da una parte COMINIO con l’esercito romano; dall’altra MARCIO con un braccio al collo COMINIO - Marcio, foss’io a raccontare a te quel che t’ho visto fare oggi in battaglia, tu stesso non mi presteresti fede. Ma lo riferirò dove saranno a udirlo senatori che mesceranno lacrime a sospiri ad ascoltarlo: dove grandi nobili ascolteranno, prima spallucciando tra loro increduli, infine ammirati; dove matrone, dapprima atterrite, poi trepidanti d’intimo piacere, vorranno udirmi raccontare ancora; dove gli ottusi, stupidi tribuni, che insieme alla lor plebe puzzolente t’hanno in odio, dovranno a malincuore pur esclamare: “Sien grazie agli dèi che Roma ha un tal soldato!”. Senza dire che tu, ad un tal banchetto sei venuto per dare solo un morso, avendo già mangiato a sazietà. Entra TITO LARZIO con l’esercito, di ritorno dall’aver inseguito i Volsci in rotta LARZIO - (A Cominio, indicando Marcio) Generale, il cavallo di battaglia è lui, noi siamo la sua bardatura. Lo avessi visto!...  MARCIO - Evvia, basta, ti prego! Anche mia madre, che pure ha il diritto di vantar con orgoglio il proprio sangue, se si mette ad elogiarmi, mi fa male. Ho fatto ciò che avete fatto tutti, cioè quanto ho potuto, come voi animato da un solo sentimento, l’amor della mia patria. Chiunque abbia operato con nient’altro che con la propria buona volontà, ha fatto esattamente come me. COMINIO - Non sarai tu la tomba dei tuoi meriti(53). Roma deve sapere quanto vali. Tener nascoste al mondo le tue gesta, sarebbe compiere un trafugamento peggior d’un furto; ammantar di silenzio qualcosa che quand’anche proclamata sui vertici più alti dell’elogio apparirebbe ancor ben più modesta della realtà, non è minor delitto d’una calunnia. Perciò ti scongiuro: per quello che tu sei, e non in premio di quello ch’hai fatto, ascoltami davanti al nostro esercito. MARCIO - Le ferite ch’ho addosso mi dolgono a sentirsi ricordare. COMINIO - Potrebbero, se non le ricordassimo, esulcerate dall’ingratitudine, curarsi da se stesse con la morte. Di tutti quei cavalli - e ne abbiam catturati d’assai buoni ed in gran numero - e del bottino conquistato sul campo ed in città, noi ti assegniamo la decima parte, che potrai scegliere liberamente prima che sia spartito tutto il resto. MARCIO - No, generale, grazie, ma non potrei convincere il mio cuore ad accettare un dono sottobanco per pagar la mia spada. Lo rifiuto, e reclamo per me semplicemente la parte che hanno avuto tutti gli altri ch’hanno partecipato alla battaglia. (Lunga fanfara(55). Tutti gridano: “Marcio!”, lanciando in aria i berretti e le lance. Cominio e Larzio restano a capo scoperto)  Questi strumenti che voi profanate non risuonino più così a sproposito! Quando tamburi e trombe son ridotti, sul campo di battaglia, a strumenti per adulare, allora si riempian le corti e le città di genti dalle facce false e ipocrite. Quando l’acciaio si fa così morbido come la seta addosso al parassita, s’elevi questo a simbolo di guerra(57)! Basta, basta, vi dico! Sol perch’io non mi son lavato il naso che sanguinava, sol ch’abbia abbattuto qualche misero scarto di natura - ciò che molti altri han fatto come me senza la minima nota di elogio - ecco che voi mi portate alle stelle con iperboliche acclamazioni, come s’io fossi un uomo che tenesse a vedere la pochezza ch’ei sa di essere alimentata dalle lodi con salsa di menzogne. COMINIO - Tu sei troppo modesto, e più spietato contro la tua fama che grato a noi che te la tributiamo con tutto il cuore. Con tua buona pace, però, se sei irritato con te stesso, ti metteremo le manette ai polsi come ad uno deciso a farsi male, così potremo ragionare insieme senza incorrere in chi sa quali rischi(58). Perciò sia proclamato a tutto il mondo, come a noi tutti qui, che Caio Marcio di questa guerra è il vero vincitore(59), ed io per questa sua benemerenza gli faccio dono del mio bel corsiero, animale famoso in tutto il campo, e della relativa bardatura. E d’ora in poi per quanto egli ha compiuto di valoroso davanti a Corioli, con unanime applauso ed un sol grido, si chiami Caio Marcio “Coriolano”. (A Coriolano) Di questo titolo sii sempre degno! TUTTI - (Con applausi e suon di trombe e tamburi) Sia gloria a Caio Marcio Coriolano! CORIOLANO - Ora vado a lavarmi, e sul mio viso  poi che l’avrò pulito, osserverete se me l’avrete fatto o no arrossire. Comunque vi ringrazio. (A Cominio) Intendo cavalcare il tuo destriero, ed il bel soprannome che m’hai dato porterò sempre, e nel modo più degno, in cima al mio cimiero. COMINIO - Ora torni ciascuno alla sua tenda: io, nella mia, prima di riposare, scriverò a Roma del nostro successo. Tu, però, Tito Larzio, è necessario che torni a Corioli, e mandi a Roma i loro più autorevoli, coi quali, per il bene loro e nostro, si possa negoziare. LARZIO - Lo farò. CORIOLANO - Gli dèi cominciano a prendermi a gioco: ho appena rifiutato d’accettare doni degni d’un principe, ed eccomi costretto a mendicare qualcosa dal mio comandante in capo. COMINIO - Già concessa, è tua. Di che si tratta? CORIOLANO - Io, a Corioli, più d’una volta fui ospite di un certo pover’uomo che mi si dimostrò molto cortese. L’ho visto adesso qui, tra i prigionieri, che mi gridava aiuto; in quell’istante però m’è apparso innanzi agli occhi Aufidio, e l’ira ha sopraffatto la pietà. Ecco, ti chiedo di lasciare libero quel mio buon ospite. COMINIO - E bene hai chiesto! Fosse pur l’assassino di mio figlio, libero se n’andrebbe, come l’aria. (A Larzio) Rilàsciaglielo, Tito. LARZIO - Il nome, Marcio? CORIOLANO - Per gli dèi, me lo son dimenticato! Sono stanco, ho la mente affaticata... Non avreste del vino? COMINIO - Alla mia tenda, Marcio, andiamo, vieni.  Il sangue sulla faccia ti si secca. Pensiamo intanto a questo, adesso. Vieni. (Escono) Il campo dei Volsci Fanfara di cornette. Entra AUFIDIO tutto coperto di sangue, con dei soldati AUFIDIO - La città è presa. PRIMO SOLDATO - Ce la renderanno a buone condizioni. AUFIDIO - Condizioni!... Romano vorrei essere, ché da volsco non sono più me stesso! Condizioni!... Che buone condizioni può portare una resa a discrezione alla parte ch’è alla mercé dell’altra? O Marcio, ho combattuto cinque volte con te, e cinque volte tu m’hai vinto; e faresti altrettanto, son sicuro, c’incontrassimo pure tante volte quante ogni giorno ci sediamo a mensa. Ma, pel cielo e la terra!, se accadrà ch’io mi trovi un’altra volta faccia a faccia con lui, o io o lui! Il mio spirito di rivalità ha perduto ogni scrupolo d’onore; ché, se prima pensavo di schiacciarlo ad armi pari, spada contro spada, ora, sia l’ira a darmelo o l’astuzia, non più, qualsiasi mezzo sarà buono a spacciarlo. PRIMO SOLDATO – È il diavolo in persona. AUFIDIO - Più ardito, anche, se pur meno furbo. Il mio valore è come avvelenato solo a soffrire d’essere oscurato per colpa sua; e per causa di lui sarà costretto a fuggir da se stesso(62). Non ci sarà né sonno né santuario(63), sia nudo o infermo, non ci sarà tempio né Campidoglio, non sacre preghiere né cerimonia d’offerta agli dèi, - tutti freni al furore scatenato - ad arginare l’odio mio per Marcio in forza del lor marcio privilegio e dell’usanza che ancor li sostiene.  Dovunque me lo trovi innanzi agli occhi, foss’anche a casa mia, pure là, l’avesse pur mio fratello in custodia, contro ogni legge d’ospitalità, laverò la mia mano inferocita nel suo cuore... Tu ora va’ in città, informati in che modo è presidiata e chi son quelli ch’essi hanno prescelto per inviarli a Roma come ostaggi. PRIMO SOLDATO - Tu non ti muovi? AUFIDIO - Sì, sono aspettato al bosco dei cipressi. Là, ti prego (è a sud della città, dopo i mulini) fammi sapere come stan le cose, ch’io possa regolarmi su quale corso muovere i miei passi. PRIMO SOLDATO - E così sarà fatto, comandante. (Escono) ATTO SCENA Roma, una piazza Entrano MENENIO e i tribuni SICINIO e BRUTO, incontrandosi MENENIO - L’augure dice che per questa sera avremo novità. BRUTO - Buone o cattive? MENENIO - Non certo tali da piacere al popolo, che non vuol bene a Marcio. SICINIO - Natura insegna pure agli animali a conoscere chi è loro amico. MENENIO - Già, guarda, infatti: a chi vuol bene il lupo? SICINIO - All’agnello. MENENIO - Sì, appunto: per sbranarselo; come vorrebbero fare con Marcio gli affamati plebei.  BRUTO - Quello è un agnello però che bela come un orso. MENENIO - Un orso, che vive tuttavia come un agnello. Beh, voi siete due uomini maturi, ditemi solo questo. I DUE TRIBUNI - Ossia, che cosa? MENENIO - Che vizi possono imputarsi a Marcio, che voi due non abbiate in abbondanza? BRUTO - Nessuno gliene manca; anzi, di tutti, si può dir che possieda ampia provvista. SICINIO - Specialmente di boria. BRUTO - E di alterigia come nessun altro. MENENIO - Ah, questo sì che è buffo! Lo sapete voi due come vi giudicano in città... Sì, qui, dico, in mezzo a noi della fila di destra(67)? Lo sapete? I DUE TRIBUNI - Ebbene, come siamo giudicati? MENENIO - Voi che parlate tanto d’alterigia... se ve lo dico non andrete in collera? I DUE TRIBUNI - Bene, allora?... MENENIO - Del resto, poco male, tanto si sa che a voi basta un’inezia per farvi uscire dai gangheri(68)... Ma sì, lasciate pur andar la briglia sciolta sul collo ai vostri permalosi umori, e andate in collera quanto vi pare, se ci provate gusto!... Proprio voi, accusar d’alterigia Caio Marcio? BRUTO - Non siamo i soli. MENENIO - Ah, questo lo so bene! Da soli voi sapete far ben poco; ed è perché son tanti ad aiutarvi che riuscite a fare anche quel poco: troppo infantili sono i vostri mezzi perché riusciate a far molto da soli. E venite a parlare d’alterigia!  Ah, poteste rivolger gli occhi in dentro, nei meandri dei vostri cervicali e fare un bell’esame di coscienza! Magari lo poteste! BRUTO - Ebbene, allora? MENENIO - Allora scoprireste un’accoppiata di magistrati scialbi, senza meriti, e tuttavia boriosi, prepotenti, lunatici, bizzosi, e insomma stolidi, come non ce n’è a Roma nessun altro. SICINIO - Va’ là, Menenio, che anche tu sei noto... MENENIO - Sì, lo so, sono noto per essere un patrizio un poco estroso, al quale piace un buon bicchier di vino(69) non annacquato nell’acqua del Tevere; uno di cui si dice che ha il difetto di dar ragione al primo che reclama; uno che prende fuoco facilmente; uno che bazzica più volentieri il nero deretano della notte che non la chiara fronte del mattino. Io quel che ho dentro ce l’ho sulla bocca e la malizia m’esce via col fiato. Se mi trovo con due politici (che non posso dir certo due Licurghi(70) ) come voi, e volete darmi a bere qualcosa ch’è sgradito al mio palato, fo boccacce. Non posso certo dire che le signorie vostre han detto bene una cosa, se in ogni vostra sillaba io trovo tutto un concentrato d’asino(71). E se sopporto con rassegnazione chi mi dice che siete uomini seri e rispettabili, dico ch’è un bugiardo chiunque dica che le vostre facce. son facce oneste. E ammesso che voi due riusciate a legger questo sulla mappa del microcosmo della mia persona, ne segue forse che possiate dire di conoscermi bene? E se pur fosse, qual difetto riescono a discernere le vostre miopi facoltà visive in questa mia natura? BRUTO - Via, Menenio, pensiamo di conoscerti abbastanza!  MENENIO - No, voi non conoscete né Menenio, né voi stessi, né niente! Siete solo ambiziosi di scappellate e inchini dalla parte di misere canaglie. Siete capaci di buttare ai cani il tempo d’una intera mattinata ad ascoltare la banale bega tra un’ortolana e un venditor di zaffi, per rinviare poi ad altra udienza quella controversiuccia da tre soldi. E se, mentre sedete ad ascoltare in una lite l’una e l’altra parte, v’accade d’esser colti dalla strizza d’andar di corpo, fate mille smorfie, da somigliare a delle marionette, innalzate bandiera rosso-sangue(74) contro chiunque non voglia aspettare, e, bofonchiando in cerca d’un pitale, lasciate lì la causa nel bel mezzo, a sanguinar più imbrogliata di prima; col risultato che la conclusione che sarete riusciti ad apportare alla vertenza sarà stata in tutto l’aver chiamato entrambi i litiganti “farabutti”. Che bella coppia, siete! BRUTO - E tu? Va’ là che tu sei meglio noto come un brillante pigliaingiro a tavola che come un altrettanto indispensabile occupante d’un seggio in Campidoglio! MENENIO - Perfino i nostri bravi sacerdoti devono diventar delle linguacce se son costretti ad aver a che fare con tipi della vostra bassa tacca. Quel che sapete dire di più acconcio non vale l’agitarsi che nel dirlo fanno le vostre barbe; quelle barbe che non meritan fine più onorata che d’andare a servir da imbottitura al cuscino di qualche tappezziere o d’esser chiuse dentro a un basto d’asino(79). E tuttavia dovete andar dicendo a destra e a manca che Marcio è superbo; lui, che a stimarlo poco, val più di tutti i vostri antecessori presi insieme, da Deucalione in giù(80); anche se casualmente, tra coloro, ci sia stato qualcuno, tra i migliori, col mestiere di boia ereditario. Ma buona sera alle eccellenze vostre;  ché a star ancora a discuter con voi, mandriani del plebeo bestiale armento, c’è rischio d’infettarsi le cervella. Fa per allontanarsi, quando vede arrivare VOLUMNIA, VIRGINIA e VALERIA. Bruto e Sicinio si fanno da parte mentre Menenio va loro incontro Oh, le mie belle e nobili matrone! Non sarebbe più nobile la Luna, se mai fosse terrena creatura. Dov’è che indirizzate in tanta fretta i vostri passi? VOLUMNIA - Nobile Menenio, sta per giungere qui mio figlio Marcio. Lasciaci andare, per Giove e Giunone! MENENIO - Ah, Marcio torna a casa? VOLUMNIA - Sì, Menenio, e accompagnato dal più vivo applauso, e dai migliori auspici. MENENIO - (Gettando in aria il berretto in segno di gioia) Oh allora, Giove, prenditi il mio berretto, e ti ringrazio! Dunque, Marcio ritorna? VIRGINIA E VALERIA - Sì, Menenio. VOLUMNIA - Guarda, ho qui una sua lettera; un’altra l’ha il Senato, una sua moglie; e ce n’è un’altra, credo, anche per te, a casa tua. MENENIO - Per me? Una sua lettera?... Uh, uh, stanotte, per tutti gli dèi, mi metto a far ballar tutta la casa! VIRGINIA - Proprio così, una lettera per te. L’ho vista con i miei occhi. MENENIO - Una sua lettera! Mi regala sette anni di salute! Per sette anni farò boccacce al medico! A fronte d’una tale medicina, la ricetta più eccelsa di Galeno è uno specifico da ciarlatano! Peggio d’un beverone da cavallo! Non è mica ferito?... Perché sempre tornò a casa ferito le altre volte.  VIRGINIA - Oh, no, no, no, no, no! VOLUMNIA - Ferito, sì, ed io di ciò rendo grazie agli dèi. MENENIO - Anch’io, se non lo sia di troppo grave... Le ferite stan bene a chi si porta la vittoria in tasca. VOLUMNIA - Lui se la porta in fronte, la vittoria, ed è la terza volta che mi torna col capo cinto di foglie di quercia! MENENIO - E Aufidio? L’ha sistemato a dovere? VOLUMNIA - Secondo quanto scrive Tito Larzio, si son scontrati, ma quello è scappato. MENENIO - E per fortuna sua, gliel’assicuro! Ché se fosse rimasto, io, al suo posto, non mi sarei voluto “aufidizzare” per tutto l’oro che sta custodito dentro le casseforti di Corioli. Il Senato è informato? VOLUMNIA - (A Virginia e Valeria) Andiamo, donne. VALERIA - Oh, sì, di lui si dicon meraviglie. MENENIO - Meraviglie! Ma certo! E tutte vere(83), garantito! VIRGINIA - Così voglion gli dèi! VOLUMNIA - Che siano vere? Toh, sentite questa! MENENIO - Che siano vere, son pronto a giurarlo. Dov’è ferito?... (S’interrompe vedendo avvicinarsi i due Tribuni) Vostre signorie, che Dio le salvi, Marcio sta tornando, ed ha ancor più ragioni, questa volta, d’esser superbo. (Alle due donne) Dov’è ch’è ferito? VOLUMNIA - Alla spalla ed al braccio, qui, a sinistra. Ce ne saran di belle cicatrici  da scodellare al popolo quando concorrerà per la sua carica! Sette ne ha ricevute per il corpo nel cacciare Tarquinio. MENENIO - Un’altra al collo, altre due alla coscia, e fanno nove, ch’io conosca. VOLUMNIA - Ne aveva venticinque quando è iniziata questa spedizione. MENENIO - Sicché con queste fanno ventisette: e ogni tacca la tomba d’un nemico. (Uno squillo di tromba, poi fanfara da dentro, con clamori di popolo) Ecco le trombe. VOLUMNIA - Sono i suoi araldi. Egli si porta innanzi a sé i clamori, dietro si lascia lacrime. Nel suo possente braccio sta di stanza il tenebroso spirito, la Morte. Esso avanza con lui, con lui colpisce, e gli uomini periscono(86). Fanfara. Entrano, in pompa, COMINIO e TITO LARZIO, in mezzo a loro CORIOLANO cinto il capo di foglie di quercia, indi ufficiali, soldati e un ARALDO ARALDO - Sappia Roma che Marcio ha combattuto, lui solo, tra le mura di Corioli, dove s’è guadagnato, con la gloria, un nome: Coriolano, che va aggiunto, quale segno d’onore, d’ora in poi, a quello suo. Sii benvenuto a Roma, illustre Caio Marcio Coriolano! TUTTI - Benvenuto, illustre Coriolano! CORIOLANO - Basta! M’offende l’anima. Vi prego! COMINIO - Guarda, Marcio, tua madre. CORIOLANO - Oh, tu, lo so, hai pregato gli dèi pel mio successo. (S’inginocchia) VOLUMNIA - No, mio bravo soldato, alzati, su! Marcio mio nobile, mio degno Caio...  ora che t’hanno dato un soprannome in onore delle tue grandi gesta, come debbo chiamarti... Coriolano? Mah, oh!, ecco tua moglie! CORIOLANO - (A Virginia) Mio grazioso silenzio(87), ti saluto! Piangi a vedermi tornar vittorioso, perché? Avresti atteso, per sorridere, ch’io ti fossi tornato in una bara? Occhi, mia cara, come questi tuoi hanno a Corioli le madri e le vedove rimaste senza i lor figli e mariti. MENENIO - E ora t’incoronino gli dèi! CORIOLANO - Anche tu qui, Menenio(88)? (A Valeria) Oh, mia gentile signora, perdonami. VOLUMNIA - Non so dove voltarmi... (A Cominio) Generale, ben tornato anche a te... ed a voi tutti! MENENIO - Bentornati, sì, centomila volte! Mi vien da piangere, mi vien da ridere, son triste e allegro insieme. (A Coriolano) Bentornato! Un cancro(90) morda il cuore alla radice a chi non è contento di vederti! Siete tre uomini che tutta Roma dovrebbe amare; e invece, guarda un po’(91), abbiamo in casa dei meli selvatici che non si vogliono far innestare al vostro gusto. Ma, a loro dispetto, bentornati guerrieri! Noi l’ortica chiamiamo ortica, e chiamiamo sciocchezza l’errore degli sciocchi. COMINIO - Sempre giusto, Menenio. CORIOLANO - Sempre, sempre. ARALDO - (Alla folla) Largo, largo! CORIOLANO - (A Volumnia e Virginia, prendendole per mano) La tua mano, e la tua. Prima di ritirarmi in casa nostra(92),  debbo rendere omaggio ai senatori dai quali insieme col loro saluto ho ricevuto anche nuovi onori. VOLUMNIA - Sarò vissuta fino a veder oggi realizzati i desideri miei ed avverate le mie fantasie. Manca solo una cosa, ma non dubito che la nostra Roma te la concederà. CORIOLANO - Ricordati, però, mia buona madre, che tuo figlio preferirà comunque d’essere loro servo a modo suo, piuttosto che padrone a modo loro. COMINIO - Avanti, al Campidoglio! (Trombe. Escono tutti in corteo, meno BRUTO e SICINIO) BRUTO - Tutte le lingue parlano di lui, ed anche quelli che han la vista debole si procurano occhiali per vederlo. La balia, per pettegolar di lui, lascia il proprio marmocchio a urlare e piangere fino a venirgli il convulso; la sguattera s’appunta attorno al suo bisunto collo la stola più vistosa e per vederlo s’arrampica sul muro per guardarlo; gremiti stalli, banchine, finestre; su i tetti, a cavalcioni sui comignoli gente d’ogni colore e d’ogni risma, tutti presi dall’ansia di vederlo. Persino i flàmini(96) (che raramente è dato di vedere per la via) si pigiano affannati tra la calca per conquistarsi un posto in mezzo a loro. Le matrone le delicate guance solitamente protette da un velo, sulle quali con sfida civettuola lottano il bianco e il rosa damaschino, espongon oggi al lascivo saccheggio degli infuocati baci del Dio Sole(98): un’atmosfera così surreale, da far pensar che un dio, per guidarlo, si sia insinuato furtivo nelle sue facoltà umane, e gli abbia dato una forma divina. SICINIO - Io, per me, già lo vedo fatto console.  BRUTO - Allora sì che il nostro tribunato potrà dormire i suoi sonni beati per tutto il suo mandato! SICINIO - Non è uomo capace di tenersi in quella carica fino al termine. Finirà col perderla. BRUTO - Ciò mi conforta. SICINIO - Puoi restarne certo. Il popolo, che noi rappresentiamo, non fosse che per antico rancore, si scorderà, alla minima occasione, di queste nuove sue benemerenze; e l’occasione l’offrirà lui stesso, cosa ch’io tengo altrettanto per certa come la sua superbia nell’offrirglielo. BRUTO - L’ho sentito giurare che se dovesse candidarsi a console, mai lo farebbe scendendo nel Foro, e nemmeno umiliandosi a indossare la lisa tunica dell’umiltà, né mostrando le sue ferite al popolo per mendicarne i puzzolenti voti(99). SICINIO - Bene. BRUTO - Son sue parole. Oh, lui piuttosto vi rinuncerebbe se lo dovesse chiedere altrimenti che per espressa richiesta dei nobili e per unanime loro volere. SICINIO - Per me, io non desidero di meglio: si tenga fermo in un tale proposito, e agisca in conseguenza. BRUTO – È assai probabile che lo farà. SICINIO - E sarà allora, come ci auguriamo, per lui andare a sicura rovina. BRUTO - Così dev’essere; se no, per noi sarà la fine del nostro potere. Perciò sta a noi di ricordare al popolo l’odio ch’egli nutrì sempre per loro; spiegar a tutti che, fosse per lui, avrebbe fatto di ciascun di loro bestia da soma, ridotto al silenzio  i loro difensori; conculcate le loro libertà: perché li stima, quanto alla lor capacità di fare, inferiori per facoltà d’intendere ed attitudine di stare al mondo, ai dromedari usati per la guerra, a cui si somministrano foraggi sol perché possano portare il carico, salvo ad ucciderli a bastonate quando sotto quel carico stramazzano. SICINIO - Sì, appunto, questo, come tu lo dici va ricordato al momento opportuno, quando la tracotante sua burbanza toccherà il colmo sì da urtare il popolo (e l’occasione non potrà mancare se saremo noi stessi a trascinarvelo, cosa altrettanto facile quanto aizzar dei cani contro un gregge); e sarà questa l’esca che d’un colpo accenderà le loro vecchie stoppie; e la loro fiammata l’oscurerà per sempre. Entra un MESSAGGERO BRUTO - (Al Messaggero) Che c’è adesso? MESSAGGERO - Vengo a dirvi di andare in Campidoglio. Sembra che Marcio sarà fatto console. Ho visto fare ressa, per vederlo, pure i muti, ed i ciechi per udirlo; le matrone gettargli i loro guanti mentre passava, e donne e giovinette le loro sciarpe, i loro fazzoletti; i nobili inchinarsi avanti a lui come davanti alla statua di Giove, e il popol tutto fare pioggia e tuono coi lor berretti in aria e i loro strilli... Cose mai viste! BRUTO - Andiamo in Campidoglio. Occhi e orecchi attenti, e cuore pronto a tutto. SICINIO - Eccomi, andiamo. (Escono)  SCENA II -Roma, il Campidoglio Due USCIERI stanno disponendo i cuscini sui seggi dei senatori PRIMO USCIERE - Su, su, sbrighiamoci. Son qui che arrivano. Quanti sono a concorrere per console? SECONDO USC. - Dicono tre, ma tutti son convinti che ad ottenerlo sarà Coriolano. PRIMO USCIERE - Un tipo valoroso, ma superbo come nessuno; e poi non ama il popolo. SECONDO USC. - Oh, quanto a questo se ne son ben visti uomini illustri che te l’han lisciato, e mai gli sono entrati in simpatia; così come altri ch’esso ha benvoluto senza saper perché. II popolo è così: vuol bene o male a questo o a quello senza una ragione. Perciò, dunque, riguardo a Coriolano, il fatto ch’egli non tenga alcun conto s’essi l’abbiano in odio o in simpatia prova solo che li conosce bene, e glielo lascia intendere ben chiaro con la sua signorile indifferenza. PRIMO USCIERE - Mah! Se davvero non gliene importasse ch’essi l’abbiano o no in lor favore, dovrebbe mantenersi in equilibrio, senza far loro né bene né male; invece va cercando il loro odio più che non faccian essi a ricambiarglielo, e non trascura nessuna occasione perch’essi possano scoprire in lui apertamente il loro gran nemico. SECONDO USC. - Ha bene meritato della patria, e va detto altresì che la sua ascesa non è stata per facili gradini come quella di chi, facendo mostra di sorrisi e premure per il popolo, è riverito a inchini e scappellate dallo stesso, senza aver fatto nulla per meritarsene stima e rispetto. Ma lui è riuscito così bene a imprimere nei lor occhi i suoi meriti e in tutti i loro cuori le sue gesta, che s’essi non volessero parlarne e rifiutassero di riconoscerli, si renderebbero certo colpevoli  di una forma di nera ingratitudine. Così come il parlar male di lui sarebbe veramente una malizia destinata a smentirsi da se stessa, perché chiunque si trovasse a udirla, la smentirebbe subito, con sdegno. PRIMO USCIERE - Insomma, è un uomo di tutto rispetto. Basta, facciamo luogo. Ecco che arrivano. Preceduti da squilli di tromba e da littori entrano i SENATORI, i TRIBUNI DELLA PLEBE, poi CORIOLANO, MENENIO, COMINIO. Siedono tutti sui loro scanni, i senatori da una parte, i tribuni dall’altra. Coriolano resta in piedi MENENIO - Dunque, poiché dei Volsci s’è deciso, ed altresì di richiamare in patria Tito Larzio, non resta che decidere in questa nostra coda di seduta come ed in che misura compensare i servigi di chi sì nobilmente ha combattuto per la propria patria. Perciò vi piaccia chiedere, reverendissimi e saggi maggiori, a colui che ha la carica di console ed è stato alla testa dell’esercito in questa nostra fortunata impresa, di farci una succinta esposizione dell’encomiabile comportamento di Caio Marcio Coriolano; al quale siamo qui riuniti per dar merito e decretare, in riconoscimento, onori che a tal merito sian pari. (Coriolano si siede) PRIMO SENATORE - Bene, a te la parola, buon Cominio. Non omettere alcun particolare per il timore d’apparir prolisso; dicci anzi cose da farci pensare che sia piuttosto la nostra repubblica a mancare dei mezzi convenienti a sdebitarsi, che l’animo nostro a voler ch’essi sian quanto più alti. (Ai tribuni) A voi, capi del popolo, chiediamo di prestar cortese orecchio, e di voler, dopo aver ascoltato, usar la vostra influenza col popolo, per ottenere ch’esso sia concorde con quanto sarà qui deliberato.  SICINIO - Siamo qui convocati per discutere sopra una materia che trova tutto il nostro gradimento; e siam di tutto cuore favorevoli ad onorare e innalzare l’uomo ch’è l’argomento di questa assemblea. BRUTO - E tanto più favorevoli a farlo saremo, s’egli si ricorderà di nutrir per il popolo una stima un poco più benevola di quella che ha finora dimostrato. MENENIO - Questo non c’entra! Non ci azzecca niente! Avresti fatto meglio a stare zitto! Volete compiacervi, sì o no, di ascoltare Cominio? BRUTO - Volentieri. Ma il mio avvertimento di poc’anzi era più pertinente all’argomento di quanto non sia ora il tuo rabbuffo! MENENIO - Coriolano vuol bene al vostro popolo; Ma non puoi obbligarlo fino al punto di diventar suo compagno di letto. Parla, degno Cominio, ti ascoltiamo(102). (Coriolano, a questo punto, s’alza e fa per lasciar la sala) Ehi, che fai?... Fermo là. Resta al tuo posto! PRIMO SENATORE - Sì, siedi, Coriolano. Non dev’esser motivo di vergogna per te ascoltare tutto ciò ch’hai fatto di nobile. CORIOLANO - Le vostre signorie mi scuseranno, ma preferirei vedermi riaperte e doloranti le ferite, che stare ad ascoltare come le ho ricevute... BRUTO - Non siano state le parole mie, voglio sperare, a farti alzar dal seggio. CORIOLANO - No, se pur siano state le parole spesso a farmi scappare anche da luoghi da cui nemmeno dure sciabolate sarebbero riuscite a trattenermi.  Tu non m’hai adulato, tuttavia, e le parole tue non m’han ferito. Quanto però al tuo popolo, gli voglio bene per quel ch’esso vale... MENENIO - Ti prego, avanti, siedi. CORIOLANO - Preferirei restare sotto il sole, in ozio, a farmi grattare la testa quando suonasse l’allarme di guerra, che starmene seduto qui, per niente, ad udir magnificare i miei nonnulla. (Esce) MENENIO - (Ai tribuni) Ecco, capi del popolo, ditemi adesso voi come un tal uomo potrebbe mai ridursi ad adulare il prolifico vostro canagliume - ché di buoni ce n’è uno su mille - quando voi stessi l’avete ora visto pronto a tutto rischiare per l’onore, piuttosto che prestare un solo orecchio a sentire esaltare le sue gesta... Parla, avanti, Cominio. COMINIO - Mi mancherà la voce. Troppo flebile è la mia per ridir di Coriolano le gesta(104). Se il valore militare è nell’uomo la massima virtù, che nobilita assai chi la possiede, l’uomo del quale mi accingo a parlare non ha chi possa stargli a pari al mondo. Aveva sedici anni quando Tarquinio mosse contro Roma, e combatteva già meglio di tutti; e il nostro dittatore di quel tempo che voglio ricordar con ogni lode, l’osservava, col suo mento d’Amazzone(106), battersi in armi e ricacciare in fuga avversari con baffi sulle labbra; e lo vide piantarsi a gambe larghe su un Romano caduto, e in quella posa affrontare ed uccider tre nemici. Poi si scontrò con lo stesso Tarquinio e, d’un sol colpo, lo forzò in ginocchio. Tra i fasti di quel dì, quel giovinetto che avrebbe ben potuto recitare una parte di donna sulle scene, si dimostrò il miglior soldato in campo  meritandosi, in degna ricompensa, una corona di foglie di quercia. Entrato poi dall’età minorile nella virilità, simile al mare quando ingrossa, è venuto su crescendo e in diciassette battaglie, da allora, ha rubato la palma a ogni altra spada. Quanto poi a quest’ultima sua gesta, fuori e dentro le mura di Corioli, devo dire che non ho parole adatte a riferirne come si conviene. Ha fermato i suoi legionari in fuga, e col suo raro esempio ha volto in gioco quella ch’era paura nei codardi. Davanti alla sua prua, come alghe sotto l’urto d’un vascello lanciato a tutto vento, obbedienti, si piegavano gli uomini e cadevano; la sua spada, come mortal sigillo lasciava il segno ovunque s’abbattesse, Era, da capo a piedi, tutto sangue ogni suo gesto essendo punteggiato dal grido dei morenti. Varcò da solo la fatale porta della città, segnandola così col crisma d’un destino inesorabile; poi senza alcun aiuto ne sortì, e, ricevuto un rapido rinforzo, piombò sopra Corioli con la forza d’un fatal pianeta. Da quel punto, tutto era in mano sua, quando, di nuovo, il lontano clamor della battaglia ferisce i suoi sempre vigili sensi: allora il suo coraggio, raddoppiato, ravviva subito nella sua carne quel che v’era di stanco e affaticato, e lì torna sul campo di battaglia, dove imperversa, fumante di sangue, sopra i nemici come in una strage che non dovesse avere mai più fine; e fino a che non potemmo dir nostro tutto il terreno e nostra la città, non si concesse un attimo di tregua, anche solo per dare alcun sollievo al respiro affannato. MENENIO - Degno uomo! PRIMO SENATORE - Sicuramente degno degli onori che abbiamo in animo di conferirgli.  COMINIO - Ha respinto con sdegno la parte di bottino a lui spettante guardando a quegli oggetti di valore come a vil spazzatura. Per se stesso desidera di meno di quello che la stessa povertà potrebbe dargli, unico compenso alle sue gesta essendo a lui il compierle; ed è contento di spendere il tempo della vita così, a lasciarlo scorrere(111). MENENIO - Animo nobile! Lo si richiami. PRIMO SENATORE - (Ad un ufficiale) Chiamate Coriolano. UFFICIALE - Sta venendo. Rientra CORIOLANO MENENIO - Il Senato altamente si compiace, Coriolano, di nominarti console. CORIOLANO - Son suoi la mia vita e i miei servigi. MENENIO - Rimane solo che tu parli al popolo. CORIOLANO - Vi supplico, vogliate dispensarmi da quell’usanza. Io, quella tunica, non me la sento di portarla addosso, d’espormi in piazza, nudo della mia, e pregarli di darmi il lor suffragio solo a cagione delle mie ferite... Esoneratemi da tutto questo. SICINIO - Il popolo dovrà pur dir la sua, né vorrà consentir che si tralasci un solo punto del cerimoniale. MENENIO - (A Coriolano) Non starli a contrastare, ora, ti prego. Confòrmati all’usanza nelle forme da questa stabilite, così come hanno fatto puntualmente tutti quelli che t’hanno preceduto. CORIOLANO – È una parte che mi farà arrossire a recitarla: un “diritto del popolo” che si farebbe bene ad abolire. BRUTO - (A parte, a Sicinio)  Hai sentito? CORIOLANO - ... Sbracarmi avanti a loro a vantarmi che ho fatto questo e quello, mettere in mostra le mie cicatrici ormai indolori, che dovrei nascondere, come chi se le fosse procurate solo per guadagnarsi i loro voti... MENENIO - E via, non farne un caso proprio adesso! (Ai due tribuni) Ed ora a voi, tribuni della plebe, raccomandiamo la nostra delibera perché la sosteniate presso il popolo; e al nostro nobile novello console auguriamo felicità ed onore. TUTTI - Felicità ed onore a Coriolano! (Squilli di tromba. Escono tutti nell’ordine in cui sono entrati, tranne i due tribuni) BRUTO - Ecco, hai sentito con quali intenzioni vuol trattar con il popolo. SICINIO - Ho sentito, e speriamo che il popolo capisca. Andrà a sollecitare il lor suffragio con l’aria d’uno che tenga a disdegno che siano loro a doverglielo dare. BRUTO - Andiamo, adesso. Bisogna informarli di quanto è stato qui deliberato. So che sono nel Foro ad aspettarci. (Escono) Entra un gruppo di CITTADINI SCENA Roma, il Foro PRIMO CITTADINO - Insomma, se ci chiede il nostro voto, rifiutarglielo certo non possiamo. SECONDO CITT. - E invece sì; basterà che vogliamo! TERZO CITTADINO - Il potere di farlo ce l’abbiamo: ci manca quello di tradurlo in atto. Perché se mette in mostra le ferite e ci spiattella tutto quel che ha fatto ci tocca cedere la nostra lingua  a quelle, e far che parlino per noi. Così se si presenta avanti a noi a raccontar le sue nobili gesta, come facciamo a non significargli la nostra generosa gratitudine? L’ingratitudine è cosa mostruosa, e per il popolo mostrarsi ingrato vuol dire farsi mostro da se stesso; e noi tutti, che ne facciamo parte, passeremo così per tanti mostri. PRIMO CITTADINO - E ci vuol poco a far ch’essi ci vedano non meglio di così. Quando insorgemmo per il grano, non esitò un istante proprio lui, Coriolano, a definirci “una plebaglia dalle molte teste”. TERZO CITTADINO - Oh, quanti ci chiamavano così! E non perché la testa fra tutti noi c’è chi la tiene grigia, chi castana, corvina e chi pelata, ma son le nostre idee che sono tutte di color diverso. Del resto penso anch’io, per parte mia, che se le idee di ciascuno di noi dovessero uscir tutte da un sol cranio, sciamerebbero in ogni direzione, a est, a ovest, a nord e a sud; e il solo punto su cui accordarsi circa la direzione dove andare, sarebbe di volarsene ciascuna per tutti i quattro punti cardinali. SECONDO CITT. - Così pensi? Ed in quale direzione volerebbe la mia, secondo te? TERZO CITTADINO - Beh, intanto non è facile, alla tua, di venirsene fuori come l’altre, chiusa com’è in una zucca di legno; ma direi che, se uscisse in libertà, tirerebbe filato verso sud. SECONDO CITT. - E perché proprio là? TERZO CITTADINO - Per andare a disfarsi nella nebbia; dove si scioglierebbe per tre quarti mischiata con vapori puzzolenti, mentre la quarta, presa dallo scrupolo, ritornerebbe a te, per aiutarti a sceglierti una moglie.  SECONDO CITT. - A te la voglia di sfottere il prossimo non manca mai. Ma fa’ pure, fa’ pure! TERZO CITTADINO - Allora, siete tutti risoluti a dargli il vostro voto? Anche se, poi, sì o no, non cambia niente. La maggioranza è quella che decide. Però se si mostrasse un po’ più incline al popolo, più degno uomo di lui non c’è mai stato. Eccolo che viene, e con la tunica dell’umiltà. Entra CORIOLANO. Ha indosso la “tunica dell’umiltà”. Con lui è MENENIO Stiamo a vedere come si comporta... Ma non restiamo qui tutti ammassati; avviciniamolo, pochi per volta, a uno, a due, a tre, dove si ferma... Deve rivolgere la sua richiesta a ciascuno di noi, singolarmente: perché ciascuno di noi ha diritto di dargli il voto con la propria voce. Perciò statemi dietro, vi mostrerò come dovete fare quando l’avvicinate. TUTTI - Ti seguiamo. (Escono tutti) MENENIO - No, hai torto, mio caro, a far così! Ma non hai mai saputo che persone degnissime l’han fatto, prima di te? CORIOLANO - Che cosa devo fare? “Ti prego, cittadino...”. Dannazione! Non me la sento proprio di forzare la lingua ad un tal passo! “Guarda le mie ferite, cittadino, le ho buscate al servizio della patria, quando non pochi dei compagni vostri se la davano a gambe schiamazzando al primo rullo dei nostri tamburi...”. MENENIO - O dèi, per carità, poveri noi! Non devi tirar fuori tutto questo! Tu non devi far altro che pregarli che si ricordino di te. CORIOLANO - Di me...  Loro!... Che s’impiccassero piuttosto! Di me magari si dimenticassero, invece, come fanno coi precetti di virtù che gli predicano i preti! MENENIO - Tu rischi di mandare tutto all’aria. Ti lascio adesso. Vedi di parlare a quella gente in maniera garbata. CORIOLANO - Sì, chieder loro di lavarsi il viso e di pulirsi i denti. (Esce Menenio) (Entrano il SECONDO e il TERZO CITTADINO) Eccone appunto un paio. (Al Terzo Cittadino) Cittadino, tu sai il motivo per cui io sto qui. TERZO CITTADINO - Già. Ma dicci che cosa ti ci porta. CORIOLANO - I miei meriti. SECONDO CITT. - I tuoi meriti? CORIOLANO - Già, non certo il mio volere personale. TERZO CITTADINO - Ah, non il tuo volere... CORIOLANO - Nossignore; non fu mai voler mio importunare la povera gente chiedendo io l’elemosina a loro. TERZO CITTADINO - Beh, devi pur pensare che se noi plebe ti diamo qualcosa speriamo d’ottener qualcosa in cambio. CORIOLANO - Bene, ditemi allora, per favore, qual è il prezzo che date al consolato. SECONDO CITT. - Che tu ce lo richieda gentilmente. CORIOLANO - E gentilmente, amico, io ti chiedo di farmelo ottenere. Ho qui delle ferite da mostrarti, che puoi vedere, se lo vuoi, in privato. (All’altro) Il tuo buon voto, amico. Che mi dici?  TERZO CITTADINO - Che l’avrai, degno Marcio. CORIOLANO - Affare fatto. Ecco già due magnifici suffragi mendicati. Ho intascato l’elemosina. Statevi bene! (Volta loro le spalle, come per andarsene) TERZO CITTADINO - Ma che strano modo! SECONDO CITT. - Mah, se dovessi darglielo di nuovo, chissà... Comunque, beh, lasciamo stare. (Escono i due cittadini) Entrano il QUARTO e il QUINTO CITTADINO CORIOLANO - (Andando loro incontro) Di grazia, amici, se mai s’accordasse col tono stesso dei vostri suffragi il fatto ch’io sia nominato console, eccomi qua vestito come richiesto dalla consuetudine. QUARTO CITT. - Hai meritato bene della patria, ma hai anche non bene meritato. CORIOLANO - Cos’è, un indovinello? QUARTO CITT. - Pei suoi nemici sei stato un flagello, ma per i suoi amici una tortura(115). Tu, la povera gente, in verità, non l’hai tenuta mai in simpatia. CORIOLANO - Tanto più meritevole per questo dovresti ritenermi, perché “povero” non sono stato nel volerle bene(116). Comunque, cittadino, d’ora in poi l’adulerò il mio grande fratello, il popolo, per conquistar da lui maggiore stima: ché questo per loro vuol dire “esser gentili con il popolo”. E dal momento che la lor saggezza preferisce guardare al mio cappello piuttosto che al mio cuore, d’ora innanzi li tratterò col più ipocrita inchino e con la più leccosa scappellata. Vale a dire che imiterò, brav’uomo, le smancerie di certi capipopolo,  che elargirò con generosità a quanti gradiranno di riceverne. Perciò, vi supplico, fatemi console. QUINTO CITTADINO - Noi speriamo poterti avere amico; perciò ti diamo di buon cuore il voto. QUARTO CITT. - Ti sei buscato un sacco di ferite per la tua patria... CORIOLANO - Non suggellerò col mostrarvele la lor conoscenza, che del resto già avete. Farò gran conto dei vostri suffragi, e così non vi disturberò più(117). I DUE CITTADINI - Gli dèi ti diano felicità, te l’auguriamo molto cordialmente. (Escono i due cittadini) CORIOLANO - Che dolcezza di voti!... Meglio morire, crepare di fame che andare accattonando una mercede che pur ci spetta, perché meritata. Ed io dovrei restarmene qui, fermo, in questa veste da sembrare un lupo, a questuar dal primo Tizio e Caio voti dei quali non c’è alcun bisogno? Dicono che così vuole l’usanza. Ma se dovessimo in tutte le cose far quel che vuol l’usanza, la polvere che copre il tempo andato mai non sarebbe più spazzata via, ed ammucchiando errore sopra errore si formerebbe tale una montagna di tutti errori, che la verità sarebbe poi impedita a sovrastarla. Ah, no! Piuttosto che starmene qui a recitar la parte del buffone, che l’alto ufficio e i relativi onori vadano ad altri, più di me disposto ad eseguire quel che vuol l’usanza. Ma son già a mezza strada... Ho sopportato la prima metà, farò anche l’altra...(118) Entrano il SESTO e SETTIMO CITTADINO Ma ecco altri voti. (Ai due)  I vostri voti, amici. Pei vostri voti io ho combattuto. Pei vostri voti ho vegliato la notte. Pei vostri voti porto su di me almeno due dozzine di ferite. Pei vostri voti ho visto e raccontato diciotto fatti d’arme. Pei vostri voti ho fatto tante cose qual più qual meno, ma tutte importanti. I vostri voti, sì, per esser console. SESTO CITTADINO - S’è ben portato, e non gli può mancare il voto d’ogni cittadino onesto. SETTIMO CITT. - Sia console, perciò. Gli diano gli dèi felicità e faccian ch’egli voglia bene al popolo. SESTO CITTADINO - E così sia! Che gli dèi ti proteggano, nobile console! (Escono) CORIOLANO - Che fior di voti! Entrano MENENIO, SICINIO e BRUTO MENENIO - Sei stato qui per il tempo prescritto, ed i Tribuni, col voto del popolo, ora ti conferiscono il potere. Resta che con le insegne della carica tu ti presenti subito al Senato. CORIOLANO - Allora è fatto? SICINIO - Hai fatto la richiesta secondo il rito: il popolo ti accetta ed è già convocato in assemblea per la ratifica. CORIOLANO - Dove, al Senato? SICINIO - Sì, Coriolano, là. CORIOLANO - Posso togliermi allora questa veste? SICINIO - Certo. CORIOLANO - Allora non esito un istante, così potrò riconoscer me stesso. Poi andrò al Senato.  MENENIO - T’accompagno. (Ai due tribuni) Voi che fate, venite via con noi? BRUTO - Restiamo qui ad attendere il popolo. SICINIO - Ci rivediamo dopo. (Escono Coriolano e Menenio) Ce l’ha fatta. È suo, e a giudicar dagli sguardi ha il cuore in festa. BRUTO - Ma con quale sdegno portava indosso quell’umile veste!... Che facciamo? Lo congediamo il popolo? (Entrano parecchi CITTADINI) SICINIO - Ebbene, miei compagni? Avete dunque preferito lui? PRIMO CITTADINO - Abbiamo dato a lui il nostro voto. BRUTO - Voglia il cielo che sappia meritarla la vostra preferenza. SECONDO CITT. – È quel che dico. Perché a mio povero, modesto avviso, quello mentre ci domandava il voto, si beffava di noi. TERZO CITTADINO - E come no! Ci ha preso pei fondelli a tutto spiano! PRIMO CITTADINO – È il suo modo di fare; quello. No, lui non s’è fatto gioco di nessuno. SECONDO CITT. - Qui non ci sei che tu a dir così, fra tutti noi. Ci doveva mostrare i segni delle sue benemerenze: le ferite buscate per la patria... SICINIO - Ma l’avrà fatto, spero, son sicuro. TUTTI - Niente affatto! Nessuno qui le ha viste. TERZO CITTADINO - Ha detto, sì, che aveva le ferite, ma che poteva mostrarle in privato;  e col berretto in mano, ecco, così, agitandolo in aria come a beffa, “Vorrei - dice - esser console; “e antica usanza senza i vostri voti “me l’impedisce. I vostri voti, dunque”. E quando glieli abbiamo assicurati, lui: “Vi ringrazio del vostro favore, “grazie dei vostri carissimi voti. “Ora che avete espresso i vostri voti, “con voi non ho più nulla da spartire”. Non è questa una beffa? SICINIO - Ma eravate incoscienti a non capirlo? O, avendolo capito, tanto ingenui da dargli il voto come dei bambocci? BRUTO - Eppure v’avevamo ammaestrati - e avreste ben potuto ricordarglielo - che quando non aveva alcun potere, piccolo servitore dello Stato, vi si mostrò nemico e parlò sempre contro i vostri diritti e privilegi di cui godete in seno alla repubblica; e adesso, giunto che fosse al potere e a governar lo Stato, se seguitasse ad essere lo stesso il nemico giurato dei plebei i vostri voti potrebbero essere per tutti voi tante maledizioni. E ancora questo dovevate dirgli: che come le sue gesta valorose gli meritavano una ricompensa non inferiore a quella cui aspira, così la sua generosa natura dovrebbe spingerlo a pensare a voi, che l’avete votato, e volgere in affetto il malvolere, facendolo patrono e amico vostro. SICINIO - A parlargli così, come, del resto, vi fu consigliato, avreste scosso le sue fibre all’intimo e saggiato il suo animo; e strappato gli avreste forse una bella promessa, da vincolarlo alla prima occasione; oppure, al peggio, avreste esasperato quel suo caratteraccio insofferente incapace di assumersi un impegno che lo leghi a qualsiasi adempimento; e, fattegli così perder le staffe, avreste poi potuto trar partito  dalla sua collera, per non eleggerlo. BRUTO - Ma come avete fatto a non vedere con che aria palese di disprezzo vi domandava il voto, mentre gli abbisognava il vostro appoggio? E come avete fatto a non pensare che quel disprezzo vi potrà recare chi sa quale malanno, ora ch’egli ha il potere di schiacciarci? Diamine! Solo corpi e nessun cuore tutti quanti? E avevate sol la lingua per sbraitare, come avete fatto, contro il buonsenso per cacciarlo via? SICINIO - E dire che altre volte, nel passato, avete pur rifiutato il consenso a postulanti in cerca di suffragi; ed ora regalate come niente i vostri voti tanto ricercati ad uno che nemmeno ve li ha chiesti in buona forma, e per di più schernendovi? TERZO CITTADINO - Comunque ancora non è confermato(121). Possiamo sempre revocargli il voto. SECONDO CITT. - E lo revocheremo! Io, per me, posso accordare cinquecento voci su questa nota. PRIMO CITTADINO - Ed io due volte tante. E tutti i loro amici in sovrappiù. BRUTO - Presto, allora muovetevi di qui e andate a dire a questi vostri amici che hanno scelto per diventare console uno che torrà loro ogni diritto, e non darà lor voce più che a quei cani bastonati apposta per abbaiare, e a questo mantenuti. SICINIO - Fateli riunire in assemblea, e unanimi, su più serio giudizio, revocate questo inconsulto voto. Battete sul suo orgoglio e sull’antico odio che ha per voi; e non dimenticatevi, per giunta, con quale aria sprezzante egli indossò l’umile veste, e si schernì di voi nell’atto stesso di chiedervi il voto. Dite loro che è stato il vostro affetto,  memore dei servigi da lui resi, a non farvi capire, in quel momento, il suo comportamento provocante, offensivo per voi, indecoroso, volutamente da lui conformato all’odio radicale che vi porta. BRUTO - Gettate su di noi, vostri Tribuni, tutta la colpa: che nulla abbiam fatto - dite - perché non sorgessero ostacoli alla sua elezione presso il popolo. SICINIO - E che l’avete eletto per conformarvi ad un nostro comando più che per vostra vera convinzione; che le vostre coscienze, in conseguenza, preoccupate più di conformarsi a ciò che ad esse era stato ordinato, che a ciò che esse avrebbero dovuto, v’hanno indotto ad esprimere quel voto contro la vostra propria inclinazione. Insomma, date a noi tutta la colpa. BRUTO - Sì, non vi fate scrupolo per noi. Dite che vi abbiam fatto su di lui, per istruirvi sulla sua persona, lunghi discorsi: come, ancora imberbe, abbia iniziato a servire la patria, e seguitato a farlo poi negli anni; da qual nobile stirpe egli discenda, la nobilissima gente “marciana”, da cui discese pur quell’Anco Marcio nipote di re Numa, che regnò a Roma dopo il grande Ostilio; donde provennero e Publio e Quinto che con la costruzione di acquedotti ci addussero la nostra acqua migliore; e suo grande avo fu quel Censorino, così meritamente nominato per esser stato due volte censore, per voto popolare. SICINIO - Ed un tal uomo discendente da sì nobile stirpe e onusto per di più di tanti meriti per ricoprire una sì alta carica, siamo stati noi stessi, noi tribuni, a segnalarlo alla vostra attenzione; ma voi, dopo aver bene soppesato il suo comportamento nel presente a confronto con quello del passato,  avete tutti in lui riconosciuto un vostro irriducibile nemico, e gli avete pertanto revocato un gradimento dato troppo in fretta. BRUTO - E non sareste giunti mai a tanto - battete sempre sopra questo tasto - se non vi avessimo incitato noi. TUTTI - Sì, sì, faremo come dite voi. Ormai qui quasi tutti si son pentiti della scelta fatta. (Escono i cittadini) BRUTO - Ora non c’è che da lasciarli fare. Meglio rischiare adesso una sommossa, piuttosto che tirarsi addosso il peggio, che certamente verrà, se aspettiamo. Se lui, per questo loro voltafaccia, si facesse, con quella sua natura, prendere dalla rabbia, attenti noi a saper profittar dell’occasione e trar vantaggio da questa sua collera. SICINIO - Al Campidoglio. Troviamoci là prima che vi affluisca tutto il popolo. Dovrà apparire - come in parte è - tutta e soltanto loro iniziativa, cui noi ci siamo solo limitati a fornire uno sprone dall’esterno. (Escono)  ATTO TERZO SCENA I -Roma, una strada Fanfara. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO, TITO LARZIO e SENATORI CORIOLANO - (A Larzio) Tullo Aufidio sicché è riuscito a rimettere in piedi un nuovo esercito? LARZIO - Sì, Coriolano, ed è questo il motivo che ci ha deciso a negoziar l’accordo. CORIOLANO - I Volsci son lì, dunque, come prima, pronti a saltarci addosso appena s’offra loro l’occasione. COMINIO - Sono sfiancati, Console: è difficile che rivedremo, noi di nostre età, garrire ancora i lor vessilli al vento. CORIOLANO - (A Larzio) Tu Aufidio l’hai visto? LARZIO - Venne da me sotto salvacondotto, solo per dirmi peste e vituperio contro i Volsci, che avevano ceduto così vilmente la loro città. S’è ritirato ad Anzio. CORIOLANO - T’ha parlato di me? LARZIO - Sì, Coriolano. CORIOLANO - In che modo? Che ha detto? LARZIO - Ha ricordato come si sia spesso con te scontrato solo, spada a spada; che per la tua persona nutre un odio come per nessun altro al mondo; e inoltre che sarebbe disposto - ha dichiarato -, ad impegnarsi tutto che possiede, così, senza speranza di riscatto, pur di potersi dir tuo vincitore. CORIOLANO - E vive ad Anzio, adesso? LARZIO - Ad Anzio, sì.  CORIOLANO - Come vorrei che mi s’offrisse il destro d’andare là a scovarlo dove sta, e affrontare il suo odio faccia a faccia! Ma ben tornato, Larzio. Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO Ecco, guardate: questi sono i Tribuni della plebe, le lingue della sua volgare bocca. Sento per loro un disprezzo istintivo perché si bardano d’autorità contro ogni nobile sopportazione. SICINIO - (A Coriolano) Fermo! Non andar oltre! CORIOLANO - Che vuol dire? BRUTO - Che è rischioso per te andar oltre. Fèrmati. CORIOLANO - Che diavolo di voltafaccia è questo! MENENIO - Che succede? COMINIO - Non ha forse il consenso dei nobili e del popolo? BRUTO - Del popolo, Cominio, proprio no. CORIOLANO - Son voti di fanciulli allora quelli ch’essi m’hanno dato? UN SENATORE - Tribuni, andiamo, fateci passare. Coriolano deve recarsi al Foro. BRUTO - Il popolo è in fermento. Non lo vuole. SICINIO - Fermi, o qui si finisce in un tumulto. CORIOLANO - Il vostro gregge, eh? E deve dunque questa gentaglia aver diritto al voto, se prima te lo danno, e poi, subito dopo, lo rinnegano? E voi, che state a fare? Voi che siete la loro stessa bocca, perché non governate i loro denti? O siete stati voi ad aizzarli? MENENIO - (A Coriolano) Calma, sta’ calmo!  CORIOLANO - (Ai Senatori) È tutta una manovra, una combutta preparata ad arte, per piegare la volontà dei nobili. Se li lasciate fare, rassegnatevi a vivere con gente incapace così di governare, come d’esser comunque governata. BRUTO - Non parlar di combutta. Il popolo vocifera di rabbia perché ha capito che l’hai preso in giro; e perché quando fu distribuito, ultimamente, a loro il grano gratis, fosti tu solo ad alzare la voce, e a coprire d’insulti e vituperi chiunque fosse dalla loro parte, tacciandolo di basso opportunista, adulatore, nemico dei nobili. CORIOLANO - Ebbene? Questa è cosa risaputa. BRUTO - Non tutti la sapevano, di loro. CORIOLANO - E così hai pensato ad informarli. BRUTO - Informarli, chi, io? CORIOLANO - Non sei tu il tipo ben tagliato per simili faccende? BRUTO - Non meno bene che per far le tue meglio che possa farle tu. CORIOLANO - Ma certo! Perché dovrei io diventare console? Per tutti i fulmini, datemi il tempo di diventare un nulla come te, e fatemi tribuno, tuo collega! SICINIO - Tu porti ancora addosso troppo di quello che dispiace al popolo; se ti preme raggiungere il tuo scopo, devi chieder la strada, che hai smarrita, con uno spirito più malleabile, o non sarai giammai tanto virtuoso da poter esser console, e nemmeno da stare accanto a lui (Indica Bruto) come tribuno.  MENENIO - Calmi, state calmi! COMINIO - Il popolo è ingannato, è subornato. Questo ondeggiare tra il sì e il no non è degno di Roma, e Coriolano non merita davvero un’ostruzione così disonorante posta ad arte lungo il piano cammino del suo merito. CORIOLANO - Venirmi adesso a parlare del grano! Quello che ho detto allora lo ripeto! MENENIO - Non adesso, però, per carità. UN SENATORE - No, Marcio, non in tanta eccitazione. CORIOLANO - Sì, invece, adesso! Sì, per la mia vita! I miei nobili amici mi perdonino; ma la fetida, bassa minuzzaglia voltagabbana s’ha da render conto ch’io non son uomo che sappia adulare, si specchi in me, piuttosto, e in ciò che dico. Lo ripeto: a cercar di assecondarla, noi non facciamo che dare alimento alla malerba della ribellione, dell’insolenza, della sedizione contro il Senato; per la qual zizzania noi stessi abbiamo arato, seminato e consentito che si propagasse mescolandosi a noi, gente d’onore, cui non manca virtù né autorità, salvo quella ceduta a dei pezzenti. MENENIO - Bene, ora basta. UN SENATORE - Basta, ti preghiamo. CORIOLANO - Basta? E perché? Com’io ho sparso sangue per la mia patria senza aver paura, così nessuna forza impedirà ai miei polmoni di coniar parole, fino a diventar marci, contro questi pestiferi miasmi di cui tutti temiamo d’infettarci avendo tuttavia fatto del tutto per buscarceli. BRUTO - Tu parli del popolo né più e né meno che se fossi un dio, che sia pronto a punirlo, e non un uomo  affetto dalle stesse debolezze. SICINIO - Ed è bene che il popolo lo sappia. MENENIO - Sappia che cosa? Questa sua sfuriata? CORIOLANO - Sfuriata!... Foss’io calmo, per Giove!, come il sonno a mezzanotte, sarei sempre di questa stessa idea! SICINIO – È un’idea velenosa che tale deve rimaner dov’è, senza infettare gli altri intorno a sé. CORIOLANO - “Deve”!... Sentitelo questo Tritone dei lattarini(124)! Avete preso nota di codesto suo “deve” perentorio? COMINIO – È contro regola, senz’altro. CORIOLANO - “Deve”! O buoni ma incautissimi patrizi, voi, gravi ed imprudenti Senatori, voi che avete permesso qui a quest’Idra di scegliersi un suo proprio magistrato che con questo suo “deve” perentorio, qual rumoroso corno di quel mostro non si fa scrupolo di minacciare d’esser capace di deviare altrove, entro altra fossa, la vostra corrente, e di far suo l’attuale suo letto! Se è vero ch’ei possiede un tal potere, s’inchini allora a lui la vostra ignavia; ma se non l’ha, svegliate dal suo sonno la vostra mite e rischiosa indulgenza. Se saggezza è in voi, non comportatevi come volgari sprovveduti sciocchi; se saggezza non v’è, fateli pur sedere accanto a voi. Sarete voi la plebe, ed essi i senatori; e tali sono, già ora se, quando le loro voci son mischiate alle vostre, il loro accento è il tono che prevale nell’insieme. Si scelgono il lor proprio magistrato, e questo è uno che sbatte in faccia il suo “deve”, quel suo “deve” plebeo, contro un’assise che nemmen la Grecia ebbe mai di più seria e veneranda. Ma, tutto questo, per il sommo Giove!, riduce i consoli a ben poca cosa!  E mi sanguina il cuore a pensare che quando due poteri sono in sella contemporaneamente, sì che nessun dei due può prevalere, nel loro vuoto può infilarsi il caos, e far che si distruggano a vicenda! COMINIO - Al Foro, dunque, andiamo. CORIOLANO - Chiunque siano ch’abbian consigliato di far distribuir gratuitamente il grano dei depositi statali, come s’è fatto qualche volta in Grecia... MENENIO - Via, via, non ne parliamo più. CORIOLANO - (Seguendo il suo discorso) (... ma in Grecia ben più ampi poteri aveva il popolo...), io dico che costoro, chi essi siano, hanno nutrito la disobbedienza, cibato la rovina dello Stato. BRUTO - E il popolo dovrebbe dare il voto ad uno che si esprime in questi termini? CORIOLANO - Al popolo dirò le mie ragioni, che valgono ben più dei loro voti. Essi sanno benissimo che il grano non doveva servir da ricompensa, essendo noto che per meritarlo nessun servizio avevano essi reso. Chiamati per la guerra, in un momento in cui il cuore stesso dello Stato correva gran pericolo, ricusaron perfino di varcare le porte di città; non si può dire che sia stato codesto un tal servizio da meritare loro il grano a ufo. Né, partiti che furon per la guerra, hanno parlato poi a lor favore le sedizioni e gli ammutinamenti in cui han fatto prova - oh, allora sì! - di tutto il lor valore di guerrieri. Così come plausibile motivo non potevano certamente offrire per così generosa elargizione le assurde accuse da loro lanciate contro il Senato, l’una dopo l’altra. E adesso? Come questo milleteste digerirà nel suo multiplo ventre  la cortesia che gli ha fatto il Senato? Dai fatti si può già pronosticare quali saranno le loro parole: “L’abbiamo chiesto, siamo maggioranza, e ci hanno accontentati, per paura”. Così noi degradiamo i nostri seggi, ed offriamo motivo alla marmaglia di dir che quanto facciamo per loro lo facciamo soltanto per paura; il qual ragionamento, con il tempo, scardinerà le porte del Senato, e allor v’irromperanno le cornacchie a dar di becco all’aquile. MENENIO - Via, basta! BRUTO - Basta ed avanza. CORIOLANO - No, ce n’è di più! E sia suggello a quanto sto per dire tutto quello che al mondo c’è d’umano e di divino sopra cui giurare. Questo nostro bicipite potere dove una delle teste, con ragione, disdegna l’altra che, senza ragione insulta, dove nobiltà di nascita e titoli e saggezza di governo non possono decidere un bel niente senza aver ottenuto il “sì” o il “no” dell’ignoranza di un’intera classe, è costretto per forza a trascurare i reali interessi dello Stato per dare spazio a fanfaluche inutili; talché, sbarrato qualsiasi proposito, ne vien che nulla è fatto più a proposito. Perciò vi supplico - se la paura non ha offuscato in voi ogni saggezza - voi, cui le fondamenta dello Stato stan troppo a cuore perché dubitiate della necessità di migliorarle; voi che a una vita lunga preferite una vita dignitosa, e siete pronti a medicine estreme per un corpo malato, destinato altrimenti a morte certa, strappate via di colpo, di violenza, questa lingua dal corpo dello Stato, ch’essa non abbia più a leccar quel dolce ch’è anche il suo veleno! La vostra indecorosa umiliazione rende monco ogni sano giudicare,  priva lo Stato di quell’unità che dovrebb’essere sempre la sua, rendendolo impotente ad operare, come vorrebbe, pel bene comune, per colpa di un tal male, che lo domina. BRUTO - Ha detto quanto basta(132). SICINIO - Ha parlato da vero traditore, e come tale ne dovrà rispondere. CORIOLANO - Miserabile! La tua stessa bile ti seppellisca!... Che può fare il popolo con queste zucche vuote di tribuni? Finché avranno costoro come guida, si sentiranno tutti esonerati dall’obbedire a maggior dignità. A quella carica li hanno eletti in un momento di piena rivolta, quando non la giustizia ma soltanto la forza era la legge. I tempi son cambiati, per fortuna: oggi si dica che dev’esser giusto quello che è giusto, e si getti alle ortiche il lor potere. BRUTO - Questo è tradimento! Flagrante! SICINIO - Console costui? Giammai! BRUTO - Gli Edili(134), oh! Venite! Entra un EDILE (Indicandogli Coriolano) Sia arrestato! SICINIO - (All’Edile) Va’ e riunisci il popolo in comizio. (Esce l’edile) (A Coriolano) Ed in nome del popolo, io qui t’arresto come traditore, sovvertitor di modi e di costumi, e nemico del popolo romano! T’ordino di obbedirmi e di venire subito con me, a risponder di quanto sei accusato. CORIOLANO - (Respingendo con forza Sicinio) Sta’ lontano da me, vecchio caprone!  SENATORI e PATRIZI - Ci facciamo garanti noi per lui. COMINIO - (A Sicinio, che cerca d’impadronirsi di Coriolano) Ehi, vecchio, giù le mani. CORIOLANO - Via, carogna, o ti sparpaglio l’ossa dai tuoi stracci! Entrano i due EDILI con una folla di PLEBEI SICINIO - Aiuto, cittadini! MENENIO - Cittadini, più rispetto, dall’una e l’altra parte! SICINIO - (Indicando alla folla Coriolano) Ecco colui che intende spodestarvi d’ogni potere! BRUTO - Arrestatelo, edili! PLEBEI - Abbasso! A morte! UN SENATORE - L’armi! L’armi! L’armi! (Zuffa generale attorno a Coriolano) TUTTI A VICENDA - Senatori! Patrizi! Cittadini! Sicinio! Bruto! Coriolano!... MENENIO - Pace!!!! Calmatevi un momento!... Che succede? Non ho più fiato... Ma qui si va diritti alla rovina!... Non posso più parlare... Voi, tribuni, parlate voi al popolo. (A Coriolano) Sta’ calmo. Sicinio, parla tu. SICINIO - Ascoltatemi, gente mia... Silenzio! PLEBEI - Udiamo il nostro tribuno. Silenzio! Fate silenzio! Parla, parla, parla!  SICINIO - Le vostre libertà sono in pericolo. Marcio, che avete appena eletto console, vuol togliervele tutte. MENENIO - No così! Ma tu invece di spegnere la fiamma, l’attizzi! UN SENATORE - Demolisci la città, in questo modo, tu la radi al suolo! SICINIO - Che cos’è la città, se non il popolo? PLEBEI - Giusto, Sicinio, la città è il popolo! SICINIO - E noi, per loro unanime consenso, siamo i loro legali difensori. PLEBEI - E tali resterete! MENENIO - Resteranno, sì, certo, resteranno. COMINIO - Questa è la via per demolirla al suolo, la città, e tirarne il tetto giù fino alle fondamenta, seppellendo tra ammassi di rovine tutto quello che ancora ci rimane d’ordinato. SICINIO - Costui merita morte. BRUTO - Qui è in gioco la nostra autorità, o la perdiamo. Ed in nome del popolo, nella cui potestà noi fummo eletti a suoi legittimi rappresentanti, noi dichiariamo qui che Caio Marcio è meritevole di morte, subito. SICINIO - (Agli Edili) Arrestatelo dunque; che aspettate! Lo si conduca alla Rupe Tarpea, e che sia di lassù precipitato, alla sua fine! BRUTO - Prendetelo, Edili! PLEBEI - Marcio, arrenditi! MENENIO - Ancora una parola, Tribuni, ve ne supplico.  EDILI - (Alla folla) Silenzio! MENENIO - (Ai Tribuni) Siate per una volta quelli che sempre volete apparire: sinceri amici della vostra patria; e procedete con ponderazione a ciò che invece con tanta violenza, a quanto vedo, intendete distruggere. BRUTO - Menenio, questi tuoi gelidi modi, che sembrano consigli di prudenza son un veleno pericolosissimo per un male violento come questo. (Agli Edili) Avanti, impadronitevi di lui, ho detto, e conducetelo alla Rupe! CORIOLANO - (Sguainando la daga) No, morirò qui stesso. Ci sarà pur qualcuno in mezzo a voi che m’ha visto combattere. Beh, avanti, venga a provare adesso su di sé quel che m’ha visto fare. MENENIO - Via quell’arma! Tribuni, allontanatevi un momento. BRUTO - (Agli Edili) Afferratelo! MENENIO - Aiuto a Marcio, aiuto! Nobili, giovani, vecchi, aiutatelo! PLEBEI - A morte! A morte! A morte! (Mischia. I tribuni, gli edili e i plebei sono respinti ed escono) MENENIO - (A Coriolano) Va’, torna a casa, presto! Via da qui. Altrimenti sarà rovina piena. UN SENATORE - (A Coriolano) Parti da qui. CORIOLANO - Dobbiamo tener duro! Siamo, amici e nemici, in pari numero.  MENENIO - S’ha da arrivare a questo? UN SENATORE - Gli dèi non vogliano! (A Coriolano) Nobile amico, ti prego, adesso tornatene a casa; lascia a noi di curar questa faccenda. MENENIO - Perché è una piaga che portiamo addosso tutti quanti, e che tu non puoi curare. Va’, ti scongiuro. COMINIO - Vieni via con noi. CORIOLANO - Come vorrei che fossero costoro barbari - come sono in realtà, se pure furono partoriti a Roma - e non Romani, come non lo sono, fossero pure stati partoriti di sotto al portico del Campidoglio!... MENENIO - Va’, va’, non affidare alla tua lingua la tua rabbia, per quanto giusta sia. Lasciamo tempo al tempo. CORIOLANO - (Senza ascoltarlo) Ne abbatterei quaranta, in campo aperto! MENENIO - Io pure saprei farne fuori un paio, tra i lor migliori: i tribuni, ad esempio. COMINIO - Ma qui la sproporzione è troppo grande, tra noi e loro, e il coraggio è follia quando pretende di tenere in piedi un edificio che sta per crollare. È meglio che tu vada via di qua, prima che ci ritorni la plebaglia. La sua furia oramai è come un fiume cui si sia posto un blocco, che, straripando fuor da tutti gli argini entro i quali scorreva normalmente, travolge e abbatte tutto quel che incontra. MENENIO - Sì, va’ via, te ne supplico... Vedrò io se il mio antico spirito potrà servire a qualcosa di buono con gente che sì poco ne possiede. Questo strappo dev’esser rattoppato con una pezza di qualsiasi tinta.  COMINIO - Sì, Marcio, andiamo via. (Escono Coriolano e Cominio) UN PATRIZIO - Quest’uomo ha danneggiato seriamente le sue fortune di uomo politico. MENENIO – È che la sua natura è troppo nobile per conformarsi alle cose del mondo. Mai s’indurrebbe ad adular Nettuno pel suo tridente, o Giove pel suo tuono. Ha in bocca quel che ha in cuore: la sua lingua deve dar fiato a ciò che detta il cuore; e se s’infuria, non ricorda più d’avere udito la parola “morte”. (Rumori da dentro) Eccoli. Qui l’affare s’ingarbuglia! UN PATRIZIO - Come vorrei saperli tutti a letto! MENENIO - Sì, nel letto del Tevere!... Che diamine, però! Che gli costava di parlar loro in modo più civile? Entrano BRUTO e SICINIO con la folla dei plebei SICINIO - Dove sta quella vipera cui piacerebbe di vedere Roma spopolata, per esser tutta lui? MENENIO - Tribuni... SICINIO - Giù dalla Rupe Tarpea merita d’essere precipitato con la forza di mani inesorabili! S’è messo contro la legge, e la legge altro giudizio non dovrà concedergli che la severa giustizia del popolo, da lui costantemente disprezzato. PRIMO CITTADINO - Imparerà così che i nobili Tribuni son la bocca del popolo, e noi siamo le sue mani. PLEBEI - Dovrà impararlo, certo! MENENIO - (A Sicinio) Amico, ascolta... SICINIO - (Alla folla)  Silenzio, olà! MENENIO - Non gridate “Sterminio!”, quando invece dovreste limitare la vostra caccia in modesti confini. SICINIO - Di’ piuttosto, Menenio, la ragione perché hai favorito la sua fuga. MENENIO - Sentimi bene: come so a memoria i meriti del Console, so dirti ad uno ad uno i suoi difetti. SICINIO - “Il Console”! Di che console parli? MENENIO - Di Coriolano, diamine! SICINIO - Lui, Console! PLEBEI - No, no, no, no, no, no! MENENIO - (Alla folla) Se, con licenza dei Tribuni e vostra, brava gente, mi si vorrà ascoltare, mi basta dirvi una parola o due: ad ascoltarla non vi costerà più d’una lieve perdita di tempo. SICINIO - Ebbene parla, ma senza lungaggini, perché qui siamo tutti ben decisi a sbarazzarci subito e per sempre di questo velenoso traditore. Esiliarlo sarebbe già rischioso per noi; ma trattenerlo vivo qui, sarebbe morte certa per noi tutti. Perciò s’è decretato in assemblea ch’egli sia messo a morte questa notte. MENENIO - Ahimè, non vogliano gli dèi benigni che la nostra famosa, illustre Roma, la cui riconoscenza verso i figli che d’essa han meritato è registrata nel grande libro dello stesso Giove, divori, come madre snaturata, le proprie creature! SICINIO - È un cancro che dev’essere estirpato! MENENIO - No, Sicinio, se mai è solo un arto, malato, ma è la morte ad amputarlo; curarlo, è facile. Che male ha fatto  egli, a Roma, per esser messo a morte? Il sangue che ha perduto a imperversare sui nostri nemici - e posso dire ch’è assai più di un’oncia di quello che gli scorre nelle vene - l’ha ben versato per il suo paese; che ora, ad opera della sua patria debba perdere quello che gli resta, sarebbe una vergogna per noi tutti, chi lo facesse e chi lo permettesse, una macchia che porteremmo addosso per sempre, fino alla fine del mondo. SICINIO - Questo vuol dir mistificare i fatti! BRUTO - Semplicemente il contrario del vero. Tutte le volte ch’egli ha dato prova di amare il suo paese, il suo paese l’ha ben onorato. SICINIO - Se un piede va in cancrena, non s’esita davvero ad amputarlo per i servizi resi in precedenza. BRUTO - Basta con le parole. (Agli Edili) Ricercatelo a casa, ed arrestatelo, ché la sua infezione è contagiosa, e può diffondersi tra l’altra gente. MENENIO - Ancora una parola! Una parola!... Questo vostro furore piè-di-tigre(140) quando vedrà qual danno avrà prodotto tanta precipitosa avventatezza, vorrà legarsi dei pesi di piombo ai calcagni, ma sarà troppo tardi! Processatelo per le vie legali, se volete evitar che le fazioni si scatenino, perché è molto amato, e che alla grande Roma tocchi in sorte d’essere messa a sacco dai Romani. BRUTO - Se così fosse... SICINIO - Ma che vieni a dirci! Non abbiam forse avuto un primo assaggio del suo rispetto per l’autorità? Non ha forse percosso i nostri Edili? Aggredito noi stessi?... Andiamo, via!  MENENIO - Considerate questo che vi dico: egli è uno cresciuto tra le guerre da quando seppe impugnare una spada, e non ha avuto mai chi gli insegnasse ad usare un linguaggio raffinato. Mischia farina e crusca, tutto insieme, senza badarci. Datemi licenza d’andar da lui, ed io ve lo conduco, parola mia, dove potrà rispondere in piena calma ed in forma legale, ad assoluto suo rischio e pericolo. PRIMO SENATORE – È questo il modo, nobili Tribuni, di trattare la cosa umanamente; l’altro sarebbe via troppo cruenta, e di sbocco imprevisto e imprevedibile. SICINIO - Ebbene, allora, nobile Menenio, sii tu il rappresentante della plebe. (Alla folla) Mastri, giù l’armi. BRUTO - Ma senza disperdervi. SICINIO - E radunatevi di nuovo al Foro. (A Menenio) Ti aspetteremo là; e se torni senza condurre Marcio, procederemo come stabilito. MENENIO - Ve lo conduco. (Ai Senatori) Mi sia consentito di chiedere la vostra compagnia. Dovrà venire, o ne seguirà il peggio. PRIMO SENATORE - Sì, vi prego, rechiamoci da lui. (Escono tutti) SCENA II -Roma, in casa di Coriolano Entra CORIOLANO con alcuni PATRIZI CORIOLANO - Mi facciano crollare il mondo addosso, mi minaccino morte sulla ruota, o trascinato da cavalli bradi, o accatastino l’una sopra l’altra  sulla Rupe Tarpea dieci colline, sì che non sia più manifesto agli occhi il fondo stesso di quel precipizio, io con loro, sarò sempre così! PRIMO PATRIZIO - E ciò ti rende di tanto più nobile. CORIOLANO - Quello che mi stupisce è che mia madre non approvi più questa mia condotta, lei che ha sempre chiamato quella gente servitoracci imbottiti di lana(143), cose fatte per essere comprate e rivendute poi per quattro soldi(144) o per mostrar nelle loro assemblee zucche pelate, bocche spalancate, ferme inchiodate lì, in ammirazione, se solamente alcuno del mio rango si levasse a parlar di pace o guerra. Entra VOLUMNIA Di te parlavo appunto: perché vuoi ch’io mi mostri più tenero? Dovrei tradir la mia vera natura? Dimmi piuttosto che ad agir così non faccio che mostrarmi quel che sono. VOLUMNIA - Ah, figliolo, figliolo, tu, il potere avrei voluto l’avessi indossato(145) prima di consumarlo, come hai fatto... CORIOLANO - Lascia andare. VOLUMNIA - ... e restare pur te stesso senza sforzarti tanto di ostentarlo. E ti saresti posto meno ostacoli ai tuoi fini, se non li avessi esposti così scopertamente agli occhi loro prima ch’essi perdessero il potere di frapporti essi stessi degli ostacoli. CORIOLANO - Vadano tutti quanti ad impiccarsi! VOLUMNIA - Ah, per me, vadano a bruciarsi vivi! Entra MENENIO, coi SENATORI MENENIO - Troppo rude sei stato, su, un po’ troppo! Ora devi ripresentarti a loro, e rimediare.  PRIMO SENATORE – È l’unico rimedio, o la città si spacca e va in rovina. VOLUMNIA - Segui il loro consiglio, te ne prego. Ho un cuore anch’io poco incline alla resa simile al tuo, ma ho pure un cervello che sa sfruttare a suo pro l’ira altrui. MENENIO - Ben detto, nobilissima matrona! Anch’io piuttosto che vederlo prono ad umiliarsi innanzi a questo gregge, se non fosse che il corso degli eventi lo rende necessario come un farmaco per la salute dell’intero Stato, indosserei la mia vecchia armatura, con tutto che ne regga appena il peso. CORIOLANO - Che devo fare? MENENIO - Tornar dai Tribuni. CORIOLANO - Va bene, e poi? MENENIO - Far finta di pentirti di tutto ciò che hai detto. CORIOLANO - Innanzi a loro? Non lo faccio nemmeno con gli dèi, devo farlo con loro? VOLUMNIA - Figlio mio(146), sei troppo altero, troppo distaccato, pur se questo non può mai dirsi troppo per un nobile; salvo che a parlare non siano le esigenze del momento. T’ho udito dire sovente che in guerra onore e astuzia crescon di conserta, da amici inseparabili. È così? Spiegami allora che cosa han da perdere i due dal seguitare quest’accordo anche in tempo di pace. CORIOLANO - Che discorsi! MENENIO - Una domanda pertinente, invece! VOLUMNIA - Se in guerra tu consideri onorevole sembrar quello che non sei, e fai di questo il mezzo per raggiungere i tuoi fini, perché dovrebbe questa tua politica perdere d’efficacia e di valore,  accoppiandosi in pace, come in guerra, all’onore, se d’ambedue le cose si presenti l’egual necessità? CORIOLANO - Perché insisti su questo? VOLUMNIA - Perché è questo per te il momento di parlare al popolo, non seguendo la tua ispirazione, o quello che ti suggerisca il cuore, ma con parole mandate a memoria sulla lingua, se pur solo bastarde e sillabate senza alcun rapporto con quella verità che hai nel petto. Ebbene, non c’è nulla in tutto questo che ti possa recare disonore; non più che conquistare una città col mezzo di gentili paroline, in un momento in cui ogni altro mezzo t’avrebbe esposto ai colpi di fortuna o al rischio di far correr molto sangue. Io non avrei alcuna esitazione a nasconder la mia vera natura, se mi fosse richiesto dall’onore essendo in gioco la mia stessa sorte, o quella degli amici. Ebbene, figlio, in tal frangente adesso ci troviamo io, tua moglie, tuo figlio, i senatori, i nobili; e tu stimi che sia meglio mostrare a questa turba di pagliacci come sei bravo a far la faccia dura, invece di sprecare una moina per guadagnarti le lor simpatie e per salvare ciò che, senza questo, può andar perduto. MENENIO - Nobile matrona! (A Coriolano) Vieni dunque con noi, e parla loro con parole acconce. Potrai così non soltanto salvare quel che oggi è in pericolo, ma rimediare alle passate perdite. VOLUMNIA - Sì, figlio mio, ti prego, ti scongiuro, va’ da loro con il cappello in mano(149), e, tesolo così, con largo gesto - perché così devi fare con loro - le tue ginocchia sfiorando le pietre - in certe cose il gesto è più eloquente delle parole, ché degli ignoranti  son più istruiti gli occhi che le orecchie - ed abbassando e rialzando il capo come a correggere, con questo gesto, l’altero cuore, divenuto docile per l’occasione come mora sfatta che si stacca dal rovo al primo tocco, di’ loro che tu sei il lor soldato, e che, cresciuto in mezzo alle battaglie, non hai quel tanto di buone maniere che - lo confesserai - sarebbe giusto per te di usare e per loro di esigere nel momento in cui chiedi il loro voto; ma che, d’ora in avanti, a giuramento, modellerai te stesso a lor talento, per quanto sarà in te e in tuo potere. MENENIO - Una volta che avrai fatto così, esattamente come lei ti dice, ebbene, i loro cuori saran tuoi: perché quelli, se uno glielo chiede, sono altrettanto facili al perdono che a sbraitare per cose da nulla. VOLUMNIA - Ti prego, va’ e riesci a dominarti; anche se so che con un tuo nemico preferiresti magari inseguirlo fin dentro una voragine di fuoco piuttosto che adularlo in un salotto. Entra COMINIO Ecco Cominio. COMINIO - Sono stato al Foro; bisognerà davvero, Coriolano, che tu ci vada bene accompagnato, e che sappi difenderti con calma, o non andarci affatto. È tutto furia. MENENIO - Basta parlare con un po’ di garbo. COMINIO - Sì, basterà, se saprà contenersi. VOLUMNIA - Si deve contenere, e lo farà. Ti prego, dimmi che sei pronto a farlo, e vacci. CORIOLANO - Debbo andare a mostrar loro la mia zucca scoperta(150)? Dare con vile lingua una smentita al mio nobile cuore, e comandargli  di sopportarla?... Bene, lo farò. Sebbene, si trattasse sol di perdere questo pugno di fango, per mio conto questa forma che porta nome Marcio la potrebbero macinare in polvere e disperderla al vento... Andiamo al Foro! Però la parte che m’avete imposta non saprò mai rappresentarla al vivo. COMINIO - Via, via, te la suggeriremo noi. VOLUMNIA - Figlio caro, ti prego, hai sempre detto che le mie lodi furono le prime a far di te un soldato, e questa volta per meritarle recita una parte mai fatta prima. CORIOLANO - Bene, devo farlo. Natura mia, abbandonami, e di me s’impossessi ora lo spirito d’una puttana! La voce di guerra che si fondeva con il mio tamburo si tramuti nell’esile falsetto da sottile cannuccia dell’eunuco e da vocina della verginella che culla i bimbi con la ninna-nanna! Sulle mie guance restino accampati i ghignosi sorrisi dei furfanti, le lacrimucce dello scolaretto m’inondino gli specchi della vista; tra le mie labbra venga ad agitarsi una lingua d’abbietto mendicante, ed i ginocchi che nell’armatura si piegavano solo sulla staffa, si flettan come quelli del pitocco ch’abbia pur mo’ buscato l’elemosina! Non lo farò, non voglio tralignare dal rimanere fedele a me stesso, e col comportamento del mio corpo indurmi ad insegnare alla mia anima una bassezza non più cancellabile. VOLUMNIA - Fa’ come credi. Sento più vergogna io a pregare te, che tu non senta a pregar loro. Vada tutto a male! E lascia che tua madre abbia a soffrire del tuo orgoglio, più di quanto tema per questa tua rischiosa ostinazione; perch’io so farmi beffa quanto te della morte. Ma fa’ a tuo talento. Il tuo coraggio è mio: tu l’hai succhiato  da me. Ma la superbia è solo tua. CORIOLANO - Non inquietarti, madre, te ne prego. Vado al Foro. Non farmi più rimbrotti. Farò sfoggio di ciarlataneria per conquistar le loro simpatie, riuscirò a scroccare i loro cuori, e mi vedrai tornare a casa amato da tutte le romane mestieranze. Guarda, sto andando. Saluta mia moglie. Tornerò console, o d’ora in poi non fidarti di quanto saprà fare la mia lingua nell’arte di adulare. VOLUMNIA - Fa’ come vuoi. Addio. (Esce) COMINIO - I Tribuni t’aspettano. Muoviamoci. Preparati a rispondere con calma, ché quelli, a quanto sento, hanno approntato contro di te accuse assai più gravi di quelle che già porti sulle spalle. CORIOLANO - “Con calma”, sì, è la parola d’ordine. Andiamo pure. Risponderò loro come mi detta il cuore,: per quante accuse vorranno inventarsi. MENENIO - Sì, ma garbatamente. CORIOLANO - E come no! Garbatamente, sì, garbatamente! (Escono) Entrano BRUTO e SICINIO SCENA III -Roma, il Foro BRUTO - Su questo punto attacchiamolo a fondo: che la sua mira è il potere assoluto. Se qui ci sfugge, dobbiamo incalzarlo sul suo comportamento ostile al popolo, e sul bottino tolto a quelli di Anzio, che non è stato mai distribuito. Entra un EDILE Allora, viene?  EDILE – È qui che sta arrivando. BRUTO - Chi l’accompagna? EDILE - Il solito Menenio e i patrizi che l’han sempre appoggiato. SICINIO - Hai la lista completa dei voti che gli abbiamo procurato, suddivisi per singoli comizi? EDILE - L’ho qui con me, completa. SICINIO - Per tribù(152)? EDILE - Sì. SICINIO - Convochiamo allora in assemblea la plebe, subito. E quando udranno da me queste parole: “Così sia, per il diritto e il potere del popolo”, o si tratti di condannarlo a morte, o a pagare un’ammenda, o all’esilio, s’io grido: “Ammenda!”, ripetano: “Ammenda!”, se grido: “Morte!”, ripetano: “Morte!”, riaffermando con questa procedura l’antico privilegio ed il potere di giudicare nella giusta causa. EDILE - Li informerò di queste tue istruzioni. BRUTO - E che non cessino più di gridare, ma reclamino, con maggior clamore la pronta ed immediata esecuzione di quanto sarà stato sentenziato. EDILE - Perfettamente. SICINIO - E vengano in gran numero, e siano tutti pronti all’imbeccata che noi daremo loro al punto giusto. BRUTO - Va’, provvedi che tutto ciò sia fatto. (Esce l’Edile) (A Sicinio) Portalo subito a perder la calma. È uso a vincere e s’avvampa subito se contraddetto: una volta scaldato,  non ha più freni alla moderazione, spiattella tutto ciò che tiene in petto; ed è a quel punto che ci porge il destro di farsi rompere l’osso del collo. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO, con senatori e patrizi SICINIO - Bene, arriva. MENENIO - (Piano, a Coriolano) Mi raccomando, calma. CORIOLANO - Sì, calma, calma, come uno stalliere che per i quattro soldi della paga sopporta d’essere chiamato “bestia”! (Forte) Vogliano sempre i venerandi dèi serbar sicura Roma e provvedere che agli alti seggi della sua giustizia seggan uomini degni! Vogliano seminar tra noi l’amore, affollar di pacifici cortei i nostri templi, e non d’interne lotte le nostre strade. PRIMO SENATORE - Amèn. MENENIO - Nobile augurio. Rientra l’EDILE con la folla dei plebei SICINIO - Venite pure avanti, cittadini. EDILE - Ascoltate i Tribuni. Olà, silenzio! CORIOLANO - Prima ascoltate me. I DUE TRIBUNI - Va bene, parla. (Alla folla) Silenzio, voi, laggiù! CORIOLANO - Ci saranno altre accuse aggiunte a queste, oppure tutto si decide qui? SICINIO - Io ti chiedo se intendi sottostare a quel che il popolo andrà a votare, riconoscere i suoi rappresentanti, se accetterai di scontare la pena prevista dalla legge per le colpe che saranno a tuo carico provate.  CORIOLANO - Accetto. MENENIO - Lo sentite, cittadini? Ecco, dice che è pronto ad accettare! A voi di valutare giustamente tutti i servizi da lui resi in guerra; considerate pure le ferite che porta numerose sul suo corpo, come tombe in un santo cimitero. CORIOLANO - Solo graffi di spine, cicatrici da ridere, nient’altro. MENENIO - Considerate poi che nell’esprimersi, se non parla come uno di città, dovete in lui vedere il soldato. Non prendete l’asprezza del suo dire per malagrazia nei riguardi vostri, ma, come dico, lo dovete prendere come il parlare proprio d’un soldato e non già d’uno che vi vuole male. COMINIO - Bene, basta così. CORIOLANO - Per qual motivo, dopo che sono stato eletto console con voto unanime, devo sentirmi leso nell’onore a tal punto, che, dopo appena un’ora, volete ritrattare il vostro voto? SICINIO - Rispondi a noi, piuttosto. CORIOLANO - Già, tocca a me rispondere. Di’ pure. SICINIO - Noi t’accusiamo d’aver macchinato con l’intento di spazzar via da Roma tutte le cariche costituite, e di puntare, per traverse vie, al potere assoluto: onde tu sei traditore del popolo romano. CORIOLANO - Che! Traditore, io? MENENIO - No, no, sta’ calmo. Ricorda la promessa... CORIOLANO - Questo popolo, che se lo inghiotta il più profondo inferno! Io, traditore! Insolente tribuno! Avessi tu stampata nei tuoi occhi  la morte ventimila volte, e in mano ne avessi tu milioni, e ancora il doppio su quella tua linguaccia di bugiardo, ti griderò: “Tu menti!” con quella stessa mia voce dell’animo altrettanto spontanea come quella con cui prego gli dèi: SICINIO - (Alla folla) Lo senti, popolo? PLEBEI - Alla Rupe! Alla Rupe quello là! SICINIO - Basta così, non servono altre accuse! Avete visto tutti quel che ha fatto, udito che ha detto: ha malmenato i vostri delegati, v’ha insultati, ha resistito violento alla legge, ed ha sfidato qui l’alto potere di coloro che devon giudicarlo: tutto questo è delitto capitale, da meritar nient’altro che la morte. BRUTO - Tuttavia, poiché ha ben servito per il bene di Roma... CORIOLANO - Che vuoi cianciare tu di ben servire? BRUTO - Dico ciò che conosco. CORIOLANO - Proprio tu! MENENIO - (A Coriolano) È così che mantieni la promessa fatta a tua madre? COMINIO - Sappi, amico, che... CORIOLANO - Non voglio saper altro! Mi condannino pure come vogliono: ad essere buttato dalla Rupe, ad andare in esilio vagabondo, magari ad essere scuoiato vivo, o a languire di fame in una cella con un granello di frumento al giorno: mai m’indurrò a comprare la pietà al prezzo d’una sola parolina d’adulazione, mai mi s’indurrà a trattenere la mia repulsione dall’ottener da loro qualche cosa,  bastasse pure dir solo “buongiorno”! SICINIO - Attesoché in diverse occasioni ha fatto tutto ch’era in suo potere per mostrare il suo odio contro il popolo, cercando ogni possibile espediente per strappargli il potere; ed anche in questa s’è mostrato ostile non solo contro l’austera giustizia ma contro chi la deve amministrare, noi, in nome del popolo e nella nostra veste di tribuni, lo bandiamo da questo stesso istante dalla nostra città, sotto minaccia d’esser precipitato dalla Rupe, se ancor varcasse le porte di Roma. Così sentenzio, nel nome del popolo. PLEBEI - E così sia! E così sia! Cacciamolo! È bandito da Roma, e così sia! COMINIO - Ch’io vi parli, miei mastri, amici miei... Ascoltatemi. Sono stato console, e sul mio corpo porto le ferite che m’hanno fatto i nemici di Roma. Io di questa mia patria ho caro il bene con più tenero, più sacro rispetto, più profondo della mia stessa vita, dell’onore della mia cara sposa, dei frutti del suo grembo, e prezioso tesoro dei miei lombi. Perciò s’io vi dicessi... SICINIO - Che vuoi dire? Sappiamo già dove vuoi arrivare. BRUTO - Non c’è altro da dire, se non che questi è bandito da Roma, come nemico di Roma e del popolo. E così sia. PLEBEI - E così ha da essere! CORIOLANO - Branco di miserabili cagnacci, il cui fiato fetente io detesto come l’aria d’una palude infetta, i cui favori apprezzo quanto il lezzo ammorbante l’atmosfera delle carcasse d’uomini insepolti, son io che vi bandisco ora da me! E qui restate coi vostri orgasmi!  Che ogni minima voce metta a tutti in cuor la tremarella! Ed i nemici col solo scuotere delle lor piume, vi piombino nella disperazione. Tenetevelo stretto un tal potere di dare il bando a chi vi può difendere, finché alla lunga la vostra insipienza, che nulla impara finché non lo prova, non risparmiando nemmeno voi stessi, di voi stessi facendovi nemici, non vi consegni, come prigionieri i più disonorati, a una nazione, che vi avrà vinti senza un solo colpo! Così, sprezzando io la mia città per causa vostra, le volto le spalle. C’è un mondo pure altrove! (Esce con Cominio, Menenio e gli altri patrizi) EDILE - Il nemico del popolo è partito! PLEBEI - Via il nostro nemico! Al bando! Evviva! (Gridano tutti, gettando in aria i berretti) SICINIO - Ora andate a vederlo quand’esce dalla porta di città, e con lo sguardo lo segua ciascuno con lo stesso disprezzo col quale egli ha guardato sempre voi. Dategli la tortura che si merita. Che una guardia ci scorti, nel mentre attraversiamo la città. PLEBEI - Alla porta! Alla porta! Andiamo, andiamo! A vederlo mentre esce di città! Gli dèi proteggano i nostri Tribuni! Andiamo, andiamo tutti! (Escono)  ATTO QUARTO SCENA I -Roma, davanti a una porta della città(155) Entrano CORIOLANO, VOLUMNIA, VIRGINIA, MENENIO, COMINIO e giovani patrizi CORIOLANO - (Alla madre e alla moglie) Basta, via, con le lacrime. Un addio breve. Mi caccia a cornate la mala bestia dalle molte teste(156)... Madre, suvvia, fa’ cuore! Dov’è dunque l’antico tuo coraggio? M’hai sempre detto che gli estremi mali sono le grandi prove dello spirito; che le comuni avversità son cose che anche la gente bassa sa patire; che con calma di mare, ogni naviglio, qual che sia la stazza, si mostra in grado di tenere il mare; che quanto più in profondo si dirigono i colpi della sorte, tanto più nobilmente i nostri sensi devon sopportarne le ferite. M’hai sempre caricato di precetti che dovevano rendere invincibile il cuore che li avesse assimilati(157)... VIRGINIA - O cieli! O cieli! CORIOLANO - No, ti prego, donna... VOLUMNIA - La peste colga tutti i mestieranti di Roma, e muoiano tutti i mestieri! CORIOLANO - Via, via, che assente mi rimpiangeranno. Su, su, madre, ritrova il vecchio spirito di quando non facevi che ripetermi - ricordi? - che se fossi stata tu la moglie d’Ercole, avresti fatto sei delle sue fatiche, risparmiando metà dei suoi sudori a tuo marito... Cominio, non ti contristare. Adieu! Addio, mia sposa, addio, madre mia! Saprò cavarmela, malgrado tutto. E tu, mio vecchio e fedele Menenio, le tue lacrime sono più salate delle lacrime d’occhi giovanili, e son come veleno per i tuoi.  (A Cominio) Mio caro generale, t’ho visto spesso fermo ed impassibile davanti a viste da impietrire il cuore: fa’ tu capire a queste afflitte donne che piangere per colpi inevitabili è tanto stolto quanto è stolto il riderne. Madre, sai bene che per te i miei rischi sono stati la tua consolazione, e sta’ certa che s’anche me ne vado solo, solingo come un drago solitario che fa temibile la sua palude e del quale la gente parla tanto quanto meno lo vede, questo figlio farà qualcosa di straordinario; se non riusciranno a catturarlo col mezzo dell’inganno e dell’astuzia. VOLUMNIA - Ma dove te ne andrai, figliolo mio? Prendi almeno con te, per qualche tempo, il buon Cominio. Decidi che fare, non esporti alla cieca ad ogni evento che ti si possa offrire sul cammino. VIRGINIA - O dèi!... COMINIO - Vengo con te per tutto un mese; così potremo decidere insieme dove fermarti sì che poi di te possiamo aver notizia e tu di noi; così se con il tempo fiorirà l’occasione del tuo richiamo in patria, non dovremo mandare per un uomo alla ricerca in tutto il vasto mondo e perdere il vantaggio del momento, che sempre fatalmente si raffredda nell’assenza di chi deve giovarsene. CORIOLANO - Addio, Cominio. Sei carico d’anni, e pesano ancor troppo su di te le fatiche di guerra, per pensare d’andare alla ventura per il mondo con uno che ce la può far da sé. Accompagnami solo per un pezzo fuori le mura. Vieni, dolce sposa, madre amatissima, amici miei di nobil tempra; e appena sarò fuori ditemi tutti addio con un sorriso. Vi prego, andiamo. Avrete mie notizie fintanto che avrò i piedi sulla terra; e non saprete mai nulla di me  se non di quel che sono sempre stato. MENENIO - Questo parlare è quanto di più nobile può udire orecchio. Ebbene, niente lacrime! Potessi scuotermi solo sett’anni da queste stagionate braccia e gambe, ti seguirei, per gli dèi, passo passo! CORIOLANO - Qua la tua mano nella mia. Andiamo. (Escono) SCENA Roma, davanti a una porta della città Entrano i due TRIBUNI con un EDILE SICINIO - Rimandiamoli a casa. È andato via. È inutile che procediamo oltre. I nobili non l’han mandata giù. Tutti dalla sua parte, abbiamo visto. BRUTO - Ora, però, che abbiam mostrato i denti ci conviene mostrarci più dimessi di quando tutto questo era da fare. SICINIO - (All’Edile) Mandali a casa. Di’ che il gran nemico se n’è andato, e la loro antica forza è sempre intatta. BRUTO - (All’Edile) Sì, mandali a casa. Esce l’Edile Ecco sua madre. Entrano VOLUMNIA, VIRGINIA e MENENIO SICINIO - Evitiamola. È meglio. BRUTO - Perché? SICINIO - La dicon furibonda pazza. BRUTO - Ci hanno visti. Cammina, tira dritto. VOLUMNIA - Oh, v’incontro a buon punto! Tutte le più schifose pestilenze tenute in serbo dagli dèi per gli uomini  possano ripagare il vostro zelo! MENENIO - Non gridare così! VOLUMNIA - Ancor più forte mi sentiresti, se non fosse il pianto... Anzi, mi sentirai lo stesso, adesso... (A Bruto) Che! Te ne vai? VIRGINIA - (A Sicinio) Resta qui anche tu... Potessi dir lo stesso a mio marito! SICINIO - (A Volumnia) Diamine, siete diventate uomini? VOLUMNIA - Certo, imbecille, è forse una vergogna? Stammi a sentire, pezzo di babbeo: uomo non era forse il padre mio? Tu invece no, tu sei solo la volpe ch’è riuscita a cacciar via da Roma un uomo che per Roma ha dispensato più colpi che parole tu abbia detto. SICINIO - O dèi beati! VOLUMNIA - Sì, colpi più nobili che tu sagge parole, e dispensati per il bene di Roma. Sai che ti dico?... Ma va’, va’... No, invece, no, anzi resta... Vorrei che mio figlio si trovasse in Arabia, spada in pugno, a faccia a faccia con la tua tribù. SICINIO - Ebbene, allora? VIRGINIA - Allora sentiresti! Porrebbe fine a tutta la tua schiatta. VOLUMNIA - A tutta la tua razza di bastardi. Quel gagliardo, con tutte le ferite che si porta per Roma! MENENIO - Via, sta’ calma. SICINIO - Se avesse seguitato a comportarsi verso la patria come da principio, e non avesse spezzato lui stesso il generoso nodo da lui stretto...  BRUTO - Ah, sì, magari avesse... VOLUMNIA - “Ah, sì, magari”! Ma se vi siete dati proprio voi ad infiammar la folla! Voi, gattacci, che siete in grado di stimare i meriti non più di quanto io sappia scrutare i misteri insondabili del cielo! BRUTO - Andiamo, prego. VOLUMNIA - Prego, andate, andate. Avete fatto una bella prodezza. Prima, però, sentite che vi dico: di quanto s’erge in alto il Campidoglio sopra il più misero tetto di Roma, di tanto il figlio mio e di costei sposo - di questa donna qui, vedete? -, da voi bandito, vi sovrasta tutti. BRUTO - Bene, bene, ma adesso vi lasciamo. SICINIO - Perché star qui a sorbirci gli improperi d’una che ha perso chiaramente il senno? (Escono i due Tribuni) VOLUMNIA - E v’accompagnino le mie preghiere. Non avesser gli dèi altro da fare che confermar le mie maledizioni! Ah, potessi incontrarli, questi due, anche una volta al giorno: già basterebbe per sentirmi il cuore sollevato dal peso che l’opprime. MENENIO - Gli hai detto il fatto loro, e, francamente, ne avevi ragione. Non vorreste cenare insieme a me? VOLUMNIA - È la rabbia il mio cibo. La mia cena la farò su me stessa, divorandomi, così mangiando morirò di fame. (A Virginia) Andiamo, cessa di piagnucolare, e lamentati, come faccio io, di rabbia, alla maniera di Giunone. Andiamo. (Escono Volumnia e Virginia) MENENIO - Vituperio, vituperio!  (Esce) SCENA La strada fra Roma e Anzio Entrano NICANOR, soldato romano, e ADRIANO, soldato volsco, incontrandosi NICANOR - Io ti conosco, amico; ed anche tu devi conoscer me. Se non mi sbaglio, ti chiami Adriano. ADRIANO - Esattamente, amico; ma, in coscienza, di te non mi ricordo. NICANOR - Son romano, ma uno che lavora, come te, contro i Romani. Mi ravvisi adesso? ADRIANO - Nicanor?... NICANOR - Sì, amico, proprio lui. ADRIANO - Più barba avevi, quando t’ho incontrato l’ultima volta, ma la voce è quella. Bene, che novità ci sono a Roma? Ho qui un mandato del governo volsco di ricercarti là; ma adesso tu m’hai risparmiato un giorno di cammino. NICANOR - Ci sono state a Roma insurrezioni mai viste prima(163): il popolo in rivolta contro il Senato, i nobili, i patrizi. ADRIANO - “Ci sono state...”. Perché, son finite? I nostri governanti non lo credono; stanno facendo grandi apprestamenti per la guerra, sperando di sorprenderli nel pieno ardore delle lor discordie. NICANOR - Beh, la grande fiammata ormai è spenta; ma basta una scintilla a ravvivarla, perché i nobili han preso così male la cacciata del prode Coriolano, da ritener matura l’occasione per togliere alla plebe ogni potere e strapparle per sempre i suoi tribuni. C’è fuoco sotto cenere, ti dico, e sta lì lì per divampar di nuovo. ADRIANO - Coriolano bandito!  NICANOR - Sì, bandito. ADRIANO - A Corioli farà molto piacere, Nicanor, questa tua informazione. NICANOR - Lo credo; è un buon momento, ora, per loro. Ho sempre udito che il miglior momento per sedurre la moglie di qualcuno è quando ha litigato col marito. Il vostro valoroso Tullo Aufidio avrà modo di mettersi in gran luce in questa guerra, il suo grande avversario, Coriolano, trovandosi in disgrazia col suo paese. ADRIANO - Per forza di cose. È stata veramente una fortuna per me incontrarti, così, casualmente; hai concluso così la mia missione, e con piacere t’accompagno a casa. NICANOR - Fino all’ora di cena avrò da dirti molte cose stranissime da Roma, e tutte vantaggiose ai suoi nemici. Hai detto che hanno pronto già un esercito? ADRIANO - E che fiore d’esercito! Magnifico! I centurioni, con i loro uomini, già arruolati, al soldo dello Stato, equipaggiati e pronti a entrare in campo in termine di un’ora. NICANOR - Son contento di udire che son pronti, perché ritengo d’esser proprio io quello che li farà mettere in marcia con la massima urgenza. Bene incontrato, dunque, amico mio, e molto lieto della compagnia. ADRIANO - Tu mi rubi di bocca le parole, amico; sono io che ho più ragione di rallegrarmi. NICANOR - Bene, incamminiamoci. (Escono) SCENA IV - Anzio, davanti alla casa di Aufidio  Entra CORIOLANO in abito dimesso, travestito e imbacuccato CORIOLANO - Bella città quest’Anzio! E son io qui, Anzio, che le tue donne ha reso vedove. Ho udito gemere sotto i miei colpi molti eredi di queste tue magioni e cadere. Perciò non riconoscermi, che le tue donne con i loro spiedi ed i ragazzi con le lor sassate non m’uccidano in un puerile scontro. Entra un CITTADINO Salve, amico. CITTADINO - Salute a te. CORIOLANO - Di grazia, sapresti dirmi dove sta di casa il grande Aufidio? Si trova qui ad Anzio? CITTADINO - Sì, e banchetta a casa sua stasera con i notabili della città. CORIOLANO - Qual è la casa sua? CITTADINO - Ce l’hai davanti. CORIOLANO - Grazie, amico, salute. (Esce il Cittadino) O mondo, le tue scivolose curve! Amici uniti da antica affezione, da sembrare un sol cuore entro due petti, da trascorrere insieme tutti i giorni le ore, il letto, la mensa, il lavoro, inseparabili nel loro affetto come fossero stati due gemelli, basta uno screzio, un dissenso da niente per rompere in tremenda inimicizia. Così ugualmente nemici giurati cui l’ira e il furore dell’intrigo tolsero il sonno a forza di pensare come distruggersi l’uno con l’altro, ecco che per un caso, una sciocchezza che vale meno d’una coccia d’uovo, possono diventare grandi amici e unir le loro sorti. Così io: detesto il luogo dove sono nato e guardo con amore a una città  che mi è stata nemica... Beh, io entro. Se m’uccide, si sarà solo preso una giusta rivalsa. Se m’accetta, mi metterò a servire il suo paese. (Esce) Musica da dentro SCENA V - Anzio, l’interno della casa di Aufidio Entra un SERVO, gridando, affaccendato e traversando la scena PRIMO SERVO - Vino, vino!... Che razza di servizio! Qui mi paiono tutti addormentati! (Esce) Entra un altro SERVO SECONDO SERVO - (Chiamando) Coto!... Ma dove s’è cacciato?... Coto! Il padrone lo vuole. Entra CORIOLANO CORIOLANO - Bella casa... Dal banchetto promana un buon odore; ma io non sembro certo un convitato. Rientra il PRIMO SERVO PRIMO SERVO - Che vuoi, amico? Da che parte vieni? Qui per te non c’è posto. Fila, prego. (Esce) CORIOLANO - Essendo Coriolano, non mi merito da questa gente miglior trattamento(164). Rientra il SECONDO SERVO SECONDO SERVO - Da dove spunti, amico?... Ma il portiere ce l’ha gli occhi, che lascia entrare qui figuri come te? Va’ fuori, via! CORIOLANO - Via tu, piuttosto. SECONDO SERVO - Io? Aria, sparisci!  CORIOLANO - Ora cominci a infastidirmi. SECONDO SERVO - Ah! Ci fai pure il gradasso? Ora vedrai: ti faccio dire io due paroline. Entra un TERZO SERVO, insieme con il PRIMO TERZO SERVO - Chi è costui? PRIMO SERVO - Uno strano figuro quale mai m’è caduto sotto gli occhi. Non mi riesce di mandarlo via. Fammi il favore, chiama tu il padrone. TERZO SERVO - (A Coriolano) Che ci fai qui, compare? Su, va’ fuori. CORIOLANO - Lasciami solo starmene qui, in piedi. Non ti farò alcun danno al focolare. TERZO SERVO - Chi sei? CORIOLANO - Un nobile. TERZO SERVO - Sarai un nobile, ma sei meravigliosamente povero. CORIOLANO - È vero. TERZO SERVO - E dunque, nobile spiantato, ti prego, scegliti qualche altro posto. Questo non è per te. Sgombrare, via! CORIOLANO - Seguita pure a far le tue faccende, va’ ad ingozzarti con i loro avanzi. (Gli dà una spinta, mentre il Terzo Servo gli si avvicina) TERZO SERVO - Che! Non vuoi? (Al Secondo Servo) Per favore, di’ al padrone che strano convitato ha dentro casa. SECONDO SERVO - Vado subito. (Esce) TERZO SERVO - (A Coriolano) Dove stai di casa?  CORIOLANO - Sotto il gran baldacchino(165). TERZO SERVO - Il baldacchino? CORIOLANO - Sì. TERZO SERVO - E dov’è codesto baldacchino? CORIOLANO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi. TERZO SERVO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi? Che razza di somaro è mai costui! Allora alloggi pure con le taccole(167)? CORIOLANO - No, questo no: non mi trovo al servizio del tuo padrone. TERZO SERVO - Che vuoi dir, compare? Vuoi avere a che far col mio padrone? CORIOLANO - Certo, e sarebbe più onesto servizio dell’aver a che far con la tua ganza. Tu cianci troppo. Va’ a servir la tavola col tuo tagliere. Lèvati di mezzo! (Lo caccia via percuotendolo) Entra TULLO AUFIDIO col SECONDO SERVO AUFIDIO - Dov’è dunque quest’uomo? SECONDO SERVO - (Indicando Coriolano) È qui, padrone. L’avrei cacciato a calci come un cane; non l’ho fatto per non recar disturbo alle lor signorie che son di là. (Il Primo e Secondo Servo si fanno da parte) AUFIDIO - (A Coriolano) Da dove vieni? Che vuoi? Il tuo nome?... Perché non parli?... Avanti, di’ chi sei. CORIOLANO - (Scoprendosi il volto) Tullo, se ancor non m’hai riconosciuto, e se, a guardarmi, non sai ravvisarmi per quel che sono, ti dirò il mio nome. AUFIDIO - Cioè? CORIOLANO - Un nome che non suona musica  agli orecchi dei Volsci, e soprattutto deve suonar ben aspro a quelli tuoi. AUFIDIO - E dillo, questo nome! Hai l’aria fiera e impresso in faccia il segno del comando. Anche se il tuo sartiame va a brandelli, la struttura completa dello scafo rivela nobiltà. Qual è il tuo nome? CORIOLANO - Prepara la tua fronte ad aggrottarsi. Ancora dunque non mi riconosci? AUFIDIO - No, non ti riconosco. Dimmi il nome. CORIOLANO - Son Caio Marcio: l’uomo che ha procurato a te in particolare e a tutti i Volsci assai malanni e lutti. N’è testimone questo soprannome: Coriolano, che m’hanno dato a Roma. Il gravoso servizio militare, i pericoli estremi da me corsi e le gocce di sangue che ho versato per l’irriconoscente patria mia m’hanno fruttato, quale ricompensa, nulla di più che questo soprannome: un bel ricordo, una testimonianza per te di tutto l’odio ed il rancore che dovresti portarmi. Questo nome è però tutto ciò che mi rimane: le crudeltà, l’invidia della plebe secondata da nobili vigliacchi che m’han lasciato a lottare da solo, si sono divorate tutto il resto ed han permesso ch’io fossi cacciato da Roma per i voti degli schiavi. È stato questo estremo di sventura che m’ha portato qui, al tuo focolare; non già con la speranza - non fraintendermi - d’aver salva la vita, ché, se avessi paura della morte, e c’è un uomo da cui dovrei guardarmi, quello sei tu, ma per puro dispetto, e per rifarmi in pieno con coloro che m’han bandito. E son davanti a te. Se tu covi nel cuore una rivincita che ti ripaghi dei torti subiti, se brami cancellare la vergogna delle mutilazioni che si vedono in ogni angolo del tuo paese, non esitare a trarre beneficio dalla mia situazione di disgrazia:  usala in modo da trarre un vantaggio da quanto io possa far per vendicarmi. Perch’io ti dico che combatterò contro l’incancrenito mio paese con la rabbia dei diavoli d’inferno. Ma se di tanto osare non ti senti, e stanco sei di tentar nuove sorti, anch’io sono stanchissimo di vivere, e pronto a presentare la mia gola a te ed all’antico tuo rancore. E se ti rifiutassi di tagliarla, ti mostreresti soltanto uno stolto, perché il mio odio t’ha sempre inseguito, ha fatto correre botti di sangue dalla tua terra, ed io non potrei vivere se non che a tuo completo disonore, salvo che non vivessi per servirti. AUFIDIO - (Dopo un cenno al servo, che si ritira) Oh, Marcio, Marcio! Come ogni parola di queste tue m’ha strappato dal cuore una radice dell’antico odio! Se Giove stesso su da quella nuvola mi rivelasse divini misteri, e mi dicesse: “Questa è verità!” a lui non crederei più che ora a te, nobilissimo Marcio! Ch’io recinga in un abbraccio codesto tuo corpo contro il quale la mia forcuta lancia si spezzò cento volte, e le sue schegge sfregiarono la faccia della luna! E adesso invece stringo fra le braccia la stessa incudine della mia spada, e caldamente quanto nobilmente gareggio col tuo ardore, come prima, con ambiziosa forza, col tuo valore. Sappi solo questo: ho amato molto colei che ho sposato; mai uomo sospirò più lealmente. Ma ora, nel vederti avanti a me, nobilissimo uomo, con più gioia mi sobbalza rapito il cuore in petto di quando vidi per la prima volta la mia sposa varcare la mia soglia. Ebbene, dico a te, come al dio Marte, che abbiamo già un esercito allestito, pronto all’azione, ed ancora una volta m’ero proposto di falciarti via con la mia spada lo scudo dal braccio, o di perdere il mio; dodici volte, l’una dopo l’altra,  tu m’hai piegato, e da allora ogni notte non sogno che di scontri tra noi due: ci vedo tutti e due avvinti a terra, e lì, dopo esserci slacciati gli elmi, afferrarci l’un l’altro per la gola... per poi svegliarmi tutto tramortito, e perché?, per un nulla, solo un sogno. Degno Marcio, se pur altra querela non avessimo che la tua cacciata con Roma, chiameremmo tutti gli uomini alle armi, dai dodici ai settanta, e, rovesciando rivoli di guerra nelle viscere dell’ingrata Roma, strariperemmo su tutto il suo corpo con la violenza d’un torrente in piena. Ma entra, vieni a stringere la mano ai senatori amici qui venuti a salutarmi, poi che mi preparo ad attaccare i vostri territori, se non proprio la stessa Roma. CORIOLANO - O dèi, questa è una vostra benedizione! AUFIDIO - Perciò se vuoi, nobilissimo amico, prender la guida della tua vendetta, prenditi la metà delle mie forze e decidi il da fare, a tuo talento come ti detta meglio l’esperienza; ché tu conosci più di chiunque altro del tuo paese forza e debolezza, se sia meglio, cioè, picchiare d’impeto alle porte di Roma, o se investirli con violenza nella periferia, per spaventarli prima di distruggerli. Ma vieni dentro, ch’io per prima cosa ti presenti a coloro cui compete di secondare i tuoi desiderata. Sii dunque mille volte benvenuto, più amico oggi che nemico ieri (e lo sei stato, Marcio, e che nemico!). Qua la mano. Sii molto benvenuto. (Escono) Il PRIMO e il SECONDO SERVO si fanno avanti(169) PRIMO SERVO - Quale sbalorditiva metamorfosi! SECONDO SERVO - Per questa mano, avevo già pensato, ti giuro, di cacciarlo a bastonate...  Però dentro di me lo sentivo che il suo abito non diceva il vero... PRIMO SERVO - E che braccia!... M’ha fatto fare un giro con la presa del pollice e del medio, come se avesse avviato una trottola. SECONDO SERVO - Eh, l’ho capito subito dal viso che c’era in lui qualcosa; una tal faccia che mi pareva... non so come dire. PRIMO SERVO - Sì, sì, aveva un’aria, quasi fosse... Eh, m’impicchino se non ho capito che quello lì ci aveva qualche cosa in più di quanto potessi pensare. SECONDO SERVO - E io lo stesso, lo potrei giurare. Senz’altro è l’uomo più straordinario che ho visto al mondo. PRIMO SERVO - Penso anch’io così. Però, come soldato, c’è qualcuno di lui più grande, e tu lo sai chi è. SECONDO SERVO - Chi, il padrone? PRIMO SERVO - Non c’è discussione. SECONDO SERVO - Ne vale sei. PRIMO SERVO - No, non esageriamo. Però lo reputo miglior soldato. SECONDO SERVO - Guarda, in coscienza, non so come metterla: nella difesa d’una roccaforte il nostro generale è ineguagliabile. PRIMO SERVO - Certamente, ma pure nell’attacco. Entra il TERZO SERVO TERZO SERVO - Ehi, furfantacci! Ho notizie da darvi, e che notizie, figli di puttana! I DUE - Quali, quali, su, spùtale! TERZO SERVO - Fra tutte le nazioni della terra, non vorrei essere proprio un romano: sarebbe come una condanna a morte. I DUE - Perché, perché?  TERZO SERVO - Perché quel Caio Marcio che le ha suonate non so quante volte al nostro generale, è qui con noi. PRIMO SERVO - “Suonate al nostro generale” hai detto? TERZO SERVO - “Suonate” proprio no, non dico, via, però gli ha dato del filo da torcere. SECONDO SERVO - Ah, per questo, sia detto fra di noi, per lui è stato sempre un osso duro. L’ho udito spesso dirlo da lui stesso. PRIMO SERVO - Un osso troppo duro, sì, per lui, a dire il vero: davanti a Corioli l’ha tagliuzzato come una braciola. SECONDO SERVO - Se avesse avuto gusti da cannibale se lo sarebbe pur cotto e mangiato. PRIMO SERVO - Beh, tutte qui le tue grandi notizie? TERZO SERVO - No, lì dentro lo trattan tutti quanti che pare il figlio e l’erede di Marte: l’hanno fatto sedere a capotavola; e i senatori, per fargli domande, s’alzano in piedi e si scoprono il capo. Il nostro generale, poi, lo tratta come fosse la sua cara morosa: lo sfiora con la mano come un santo, e a sentirlo parlar strabuzza gli occhi. Ma il vero succo sapete qual è? Che il nostro generale è dimezzato rispetto a ieri, perché l’altro mezzo se l’è preso quell’altro, col consenso e le preghiere di tutta la tavola. Andrà, egli dice, a tirare le orecchie a chi sta a guardia delle porte di Roma, che falcerà ogni cosa avanti a sé, per far pulito e sgombro il suo passaggio. SECONDO SERVO - Ed è uomo capace di far questo, quant’altri al mondo. TERZO SERVO - Farlo, lo farà; perché, vedi, avrà, sì, tanti nemici, ma anche tanti amici; i quali amici non hanno avuto, diciamo, il coraggio, di mostrarsi, diciamo, amici suoi mentre lui è in discapito...  PRIMO SERVO - “Discapito”? E che cos’è? TERZO SERVO - ... ma quando lo vedranno con la cresta rialzata e bene in sangue salteran fuori dalle loro tane come conigli dopo l’acquazzone e tutti insieme a fargli grande festa. PRIMO SERVO - Ma quando ciò? TERZO SERVO - Domani, oggi, subito. Potresti sentir battere il tamburo addirittura questo pomeriggio, come se fosse l’ultima portata del lor banchetto, da tradurre in atto prima ch’essi s’asciughino la bocca. SECONDO SERVO - Così riavremo almeno intorno a noi un po’ di movimento. Questa pace serve solo ad arrugginire il ferro, ad accrescere il numero dei sarti e partorire autori di ballate. PRIMO SERVO - Ah, per me, dico, datemi la guerra! È meglio cento volte della pace, come il giorno è migliore della notte; la guerra è cosa viva, movimento, è vispa, ha voce, è piena di sorprese. La pace è apoplessia, è letargia: spenta, sorda, insensibile, assonnata, e fa mettere al mondo più bastardi che non uccida uomini la guerra. SECONDO SERVO - Proprio così. La guerra la puoi dire, per un verso, una grande scopatrice, così come la pace una grande fattrice di cornuti. PRIMO SERVO - Già, e fa odiare gli uomini tra loro. TERZO SERVO - Logico: perché quando sono in pace, hanno meno bisogno l’un dell’altro. Eh, sì, la guerra a me va proprio a genio! E spero che vedremo qui Romani a pochi soldi l’uno, come i Volsci. Si alzano da tavola! Si alzano! PRIMO e SEC. SERVO - Dentro, dentro, sbrighiamoci!  (Escono entrando nella sala da pranzo) SCENA VI -Roma, una piazza Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO SICINIO - Di lui non s’è sentito più parlare, né c’è luogo a temerne: le sue armi sono spuntate... Il popolo sta quieto e in pace, la selvaggia agitazione è finita. Che tutto ora vada bene a Roma, grazie a noi, fa arrossire di rabbia i suoi amici, che avrebbero di certo preferito, a costo di soffrirne loro stessi, vedere moltitudini in rivolta per le strade di Roma anziché udire cantare i nostri nelle lor botteghe, serenamente intenti ai lor mestieri. BRUTO - Abbiam puntato i piedi al punto giusto. Entra MENENIO Non è Menenio, questo? SICINIO - È lui, è lui, s’è fatto gentilissimo con noi, da qualche tempo in qua. Salute, amico. MENENIO - Salute a voi. SICINIO - Il vostro Coriolano non sembra essere molto rimpianto, tranne che nella cerchia degli amici. La repubblica regge bene in piedi senza di lui, e reggerebbe sempre, foss’egli ancor più in collera con lei. MENENIO - Sì, tutto bene, infatti. Andrebbe meglio però, se avesse saputo aspettare. SICINIO - Hai notizie di lui? Dove si trova? MENENIO - Non ne so nulla. La madre e la moglie sono anch’esse sprovviste di notizie. Entrano alcuni POPOLANI I POPOLANI - (In coro)  Gli dèi v’assistano sempre, tribuni! SICINIO - Buona sera a voi tutti. BRUTO - Buona sera! PRIMO POPOLANO - Dovremmo stare sempre inginocchiati, noi, con le nostre mogli e i nostri figli, a pregare gli dèi per voi due! SICINIO - Vivete e prosperate, brava gente! BRUTO - Addio, buona salute, cari amici! Avesse avuto per voi Coriolano la premura che vi portiamo noi! I POPOLANI - (In coro) Il cielo vi protegga! I DUE TRIBUNI - State bene. (Escono i popolani) SICINIO - Grazie al cielo, son tempi più felici questi, rispetto a quando questa gente si riversava in massa per le strade urlando e seminando la rivolta. BRUTO - Marcio alla guerra è stato certamente un bravo condottiero, ma altezzoso, ambiziosissimo, pieno di sé... SICINIO - ... e quanto mai smanioso di diventare il padrone assoluto della repubblica, senza collega. MENENIO - No, questo non lo credo. SICINIO - Eh, a quest’ora ce lo saremmo ritrovato tale, a nostro gran rimpianto, s’egli fosse salito al consolato. BRUTO - Gli dèi l’hanno impedito, per fortuna; e Roma, lui assente, può viver tranquilla e in sicurezza. Entra un EDILE EDILE - Onorandi tribuni, c’è uno schiavo che abbiam messo in prigione, ch’era in giro spargendo dappertutto la notizia  che i Volsci, da due parti, con due eserciti, son penetrati nei nostri confini in armi, e van con furia micidiale, distruggendo ogni cosa che si para sulla loro avanzata. MENENIO - Questo è Aufidio, che, avendo appreso del bando di Marcio, tira fuori di nuovo ora le corna che ha mantenuto sempre dentro il guscio senza osar di mostrarle, finché per Roma combatteva Marcio. SICINIO - Evvia! Che c’entra tirar fuori Marcio! (All’Edile) Va’, fallo fustigare l’allarmista! Non può esser che i Volsci osino tanto da romperla con noi! MENENIO - Ah, può ben essere! Abbiamo precedenti che può essere. Però interrogatelo quest’uomo prima di castigarlo: che dica da che fonte ha la notizia, se non volete andar incontro al rischio di frustare la vostra informazione e bastonare chi vi mette in guardia contro qualcosa ch’è da far paura. SICINIO - Ma son fandonie. So che non può essere. BRUTO - No, no, non è possibile. Entra un MESSO MESSO - Tutti i patrizi, in grande agitazione, stanno andando al Senato. Ci son notizie che li hanno sconvolti. SICINIO - È tutto questo schiavo... (All’Edile) Va’, fallo fustigare avanti a tutti. L’allarme è suo; nient’altro che fandonie. MESSO - No, onorevole tribuno, no! Il suo racconto è tutto confermato. E c’è dell’altro, ancora più terribile! SICINIO - Ancora più terribile? Che cosa? MESSO - È tutto un dire, da bocche diverse  - quanto ci sia di vero non lo so - che Caio Marcio, unito a Tullo Aufidio, vien marciando alla testa d’un esercito contro Roma, e giurando una vendetta generale, così indiscriminata da includere i più giovani e i più vecchi. SICINIO - Per chi ci crede! BRUTO - Voci sparse ad arte, per ravvivar negli animi più fiacchi l’augurio che il “buon Marcio” torni a casa. SICINIO - Già, questo è il loro gioco. MENENIO - Anch’io ci credo poco. Aufidio e lui son due che possono andare d’accordo non più di quanto può l’acqua col fuoco. Entra un altro MESSO SECONDO MESSO - Siete attesi in Senato. Un grande esercito al comando di Marcio e Aufidio uniti, imperversa sui nostri territori, travolgendo, incendiando, distruggendo tutto quello che incontra avanti a sé. Entra COMINIO COMINIO - (Ai due tribuni) Che bel capolavoro avete fatto! MENENIO - Perché, che sai, che sai? COMINIO - (Come sopra) Non potevate meglio dare mano a farvi violentar le vostre figlie, a far piovere sulle vostre zucche il piombo fuso dai tetti di Roma, a vedervi stuprare sotto gli occhi le vostre mogli... MENENIO - Perché? Che succede? COMINIO - ... a vedervi bruciare, incenerire i vostri templi, e vedervi ridotte sì sottili le vostre guarentigie e poteri, cui tenevate tanto, da entrar nel forellino d’un succhiello! MENENIO - Insomma, che notizie sai? Ti prego!  (Ai due Tribuni) Avete fatto, ho paura, voi due un bel capolavoro... (A Cominio) Di’, ti prego. Che nuove porti? Se davvero Marcio s’è unito ai Volsci... COMINIO - Se? È il loro dio! Li guida come fosse un’entità non generata da madre Natura, da deità diversa, e più capace della Natura stessa a fare un uomo; e quelli là lo seguono contro di noi, mocciosi bamboccioni, con la stessa svagata sicurezza di ragazzi che inseguono farfalle sotto il sole d’estate, o di beccai che si trovino a macellare mosche. MENENIO - (Ai tribuni) Che bel lavoro avete combinato, voi ed i vostri grembiulati amici(174)! Voi, che tanto eravate infatuati del voto della vostra mestieranza e del fiato dei mangiatori d’aglio! COMINIO - Ve la farà crollare sulla testa, la vostra Roma! MENENIO - Come quando Ercole, scrollò le mele mature dall’albero!(175). Avete fatto proprio un bel lavoro! BRUTO - Insomma, è proprio vero? COMINIO - Tanto vero, che prima di scoprire che non l’è, dovrete divenir pallidi morti. Tutte le genti gli aprono le porte sorridendo, ed i pochi che resistono, derisi per il lor vano eroismo, periscono da stolidi lealisti. Chi può muovergli biasimo, del resto? Anche i nemici, i vostri come i suoi, riconoscono che c’è in lui qualcosa. MENENIO - Siete tutti spacciati, se quel nobile non avrà pietà. COMINIO - Pietà! Chi dovrà chiederla? I Tribuni?  Almeno per pudore, quelli no! Il popolo? Ma il popolo da lui merita tanta pietà quanto il lupo dai pastori. Chi altro? I suoi seguaci? Ma se costoro gli andassero a dire: “Sii pietoso con Roma”, la lor preghiera avrebbe l’accoglienza di quella di chi merita il suo odio, e cioè di chi fosse suo nemico. MENENIO - È vero. S’anche m’appiccasse fuoco alla casa e me l’incendiasse tutta, io non avrei la faccia di gridargli: “Fermati, ti scongiuro!”. Avete fatto proprio un bel lavoro, voi due, con tutto il vostro artigianume! COMINIO - Per colpa vostra Roma sta tremando, come non ha mai fatto nel passato. I DUE TRIBUNI - Non direte che questo è colpa nostra. MENENIO - Ah, no? Sarebbe dunque colpa nostra? Marcio noi l’amavamo, ma da nobili bestie, quanto vili, abbiam ceduto alla vostra ciurmaglia che urlando l’ha cacciato via da Roma. COMINIO - Ho paura però che questa volta dovranno urlando chiedergli pietà. Tullo Aufidio, il cui nome di soldato è secondo nel mondo, gli obbedisce come un qualunque suo subordinato. Ormai tutta la tattica di guerra tutta la forza, tutte le difese che Roma potrà opporre a questi due sarà solo la sua disperazione. Entra un gruppo di POPOLANI MENENIO - Arriva il branco... E Aufidio è insieme a lui? (Ai popolani) Voi siete quelli che gli avete reso irrespirabile l’aria di Roma, quando gettaste in aria quelle coppole vostre unte e fetenti per acclamare la sua messa al bando! Adesso egli ritorna, e non c’è pelo in testa a un suo soldato che non si farà sferza per voi tutti:  farà cadere a terra tante zucche quanti berretti voi gettaste in aria, e vi salderà il conto dei voti che gli avete ritrattato. E se poi ci mandasse tutti a fuoco, fino a ridurci un unico tizzone, tanto peggio! L’avremo meritato! I POPOLANI - Certo, udiamo terribili notizie. PRIMO POPOLANO - Per parte mia, quando gridai: “Al bando!” aggiunsi pure che mi dispiaceva... SECONDO POPOL. - E così io. TERZO POPOLANO - E io no?... In coscienza, fece così la gran parte di noi. Quel che abbiam fatto è stato a fin di bene; e se pur assentimmo volentieri a bandirlo, fu certo controvoglia. COMINIO - Bravissimi, voi tutti e i vostri voti! MENENIO - Avete combinato un bel lavoro, voi e i vostri schiamazzi! (A Cominio) Che facciamo, saliamo al Campidoglio? COMINIO - Mi pare non ci sia altro da fare. (Escono Cominio e Menenio) SICINIO - (Alla folla) A casa, amici; ma non vi allarmate. Quelli là appartengono a una parte cui farebbe davvero gran piacere se dovesse avverarsi quello che fanno finta di temere. A casa, e che nessuno dia a vedere d’aver paura. PRIMO POPOLANO - Gli dèi ci proteggano! Compagni, a casa!... Io l’ho sempre detto che facevamo male ad esiliarlo. SECONDO POPOL. - Tutti l’abbiamo detto, s’è per questo! Andiamo, andiamo a casa! (Escono i popolani)  BRUTO - Brutte notizie. Proprio non mi piacciono. SICINIO - Nemmeno a me. Darei metà del mio, se servisse a saper che sono false. BRUTO - Saliamo al Campidoglio. SICINIO - Prego, andiamo. (Escono) SCENA - Il campo dei Volsci presso Roma Entrano AUFIDIO e il suo LUOGOTENENTE AUFIDIO - Passano ancora molti col Romano(178)? LUOGOTENENTE - Non so quale magia egli abbia addosso ma i tuoi soldati l’hanno sempre in bocca manco fosse il “Signore benedicite” prima dei pasti, il lor discorso a tavola e il lor ringraziamento a fine pasto(179); e tu sei messo in ombra, generale, anche dai tuoi, in questa spedizione. AUFIDIO - Per il momento non ci posso nulla, a men di far ricorso a tali mezzi che finirebbero con l’azzoppare i nostri stessi piani. Anche con me si mostra assai più altero di quanto avessi mai immaginato, il giorno che lo accolsi a braccia aperte. Ma è sua natura, in ciò non si smentisce e io debbo per forza perdonare ciò che non è possibile correggere. LUOGOTENENTE - Avrei desiderato tuttavia - nel tuo stesso interesse, intendo dire - che non lo avessi associato al comando, ma che avessi da solo preso in mano la suprema condotta dell’impresa; o l’avessi lasciata solo a lui. AUFIDIO - Intendo quel che dici, ma sta’ certo, quando verrà che dovrà render conto, non sa quel che saprò tirare in ballo contro di lui. Sebbene in apparenza, come egli stesso crede - e come appare non meno bene agli occhi della gente - ei compia tutto in piena lealtà  e dimostri d’avere buona cura degli interessi dello Stato volsco, che si batta per esso come un drago e che tutto riesca ad ottenere col solo sguainar della sua spada, c’è una cosa però che ha trascurato, e sarà tale da spezzargli il collo, o a mettere il mio a pari rischio, quando verremo alla resa dei conti. LUOGOTENENTE - Che pensi, generale, sarà capace di prendere Roma? AUFIDIO - Ogni località s’arrende a lui, prima ch’egli s’appresti ad assediarla; la nobiltà di Roma è tutta sua: senatori, patrizi fanno a gara a chi più l’ama. I tribuni del popolo non son uomini d’arme, e il loro popolo sarà altrettanto pronto a richiamarlo quanto lo è stato a decretarne il bando. Penso ch’ei sia per Roma e pei Romani quel ch’è la procellaria per il pesce, che lo divora per suprema legge della natura. D’essi è stato prima nobile servitore, ma incapace in seguito di mantener le cariche con tutto l’equilibrio necessario. Sia stato orgoglio - che, con il successo, sempre contagia l’uomo che lo coglie - sia stata assenza di discernimento nel lasciarsi sfuggire le occasioni che pure aveva saldamente in pugno; sia stata pure la sua stessa indole che lo rende istintivamente inabile a mostrarsi diverso da se stesso quando passa dall’elmo del guerriero al cuscino del seggio consolare, e a concepire che non è possibile governare la pace col piglio e la durezza usati in guerra, sta che uno solo di questi difetti - ché in lui di tutti quanti c’è sentore, seppur nessuno ne possieda al massimo, ciò che finora me l’ha fatto assolvere - l’ha reso un uomo da tutti temuto, e così odiato, e così messo al bando. Ha certamente un merito che annulla ogni difetto al solo dirlo. Ma le virtù degli uomini, si sa, soggiacciono alla stima del momento;  e il potere, in se stesso pregiatissimo, non ha tomba più certa che lo scanno su cui siede a esaltare ciò che ha fatto. Così il fuoco divora un altro fuoco, e un chiodo scaccia l’altro; così cade un diritto per forza d’un diritto, la forza per la forza d’altra forza. Ma muoviamoci adesso... Caio Marcio, quando tua sarà Roma, tu sarai il più povero di tutti, ed allora sarai subito mio! (Escono)  SCENA Roma, una piazza Entrano MENENIO, COMINIO, SICINIO, BRUTO e altri MENENIO - No, non ci vado. Avete tutti udito come ha parlato a colui che fu un tempo suo comandante e ch’era a lui legato dal più tenero affetto. Mi chiamava suo padre. E che con ciò? Andate voi, che l’avete bandito, e prima d’arrivare alla sua tenda, un miglio prima cadete in ginocchio e implorate la sua misericordia. No, se s’è dimostrato indifferente a sentire Cominio, io resto a casa. COMINIO - Era come se non mi conoscesse... MENENIO - Ecco, sentite?... COMINIO - Eppure nel passato mi chiamò sempre per nome: Cominio. Gli ho richiamato la vecchia amicizia ed il sangue che abbiam versato insieme; ma a chiamarlo col nome “Coriolano” non rispondeva, e lo stesso con gli altri; come se fosse un nulla, un senza nome, fin quando non si fosse da se stesso forgiato un altro nome, un nome nuovo, nel braciere di Roma messa a fuoco. MENENIO - Addirittura! (Ai Tribuni) Ecco, ora vedete, che bel lavoro avete combinato? Una bella pariglia di tribuni che han fatto il necessario perché a Roma ci fosse del carbone a buon mercato. Che nobile epitaffio(182)! COMINIO - Non ho mancato poi di ricordargli come regale sia il perdonare specie se meno atteso. M’ha risposto. ch’era quella richiesta senza senso da parte di uno Stato a una persona ch’esso stesso aveva castigato. ATTO QUINTO  MENENIO - Benissimo! Poteva dir di meno? COMINIO - Ho cercato di risvegliare in lui l’attaccamento agli amici più cari: m’ha risposto che non poteva certo star lì a sceverarli uno per uno in un mucchio di pula infetta e putrida; e che sarebbe stato da imbecilli, per salvar qualche chicco di frumento in quel putrido ammasso, astenersi dall’appiccarvi il fuoco e seguitare ad annusarne il lezzo. MENENIO - “Per qualche chicco di frumento”, ha detto? Uno son io di quelli, e sua madre, e sua moglie, e il suo figliolo, ed anche questo valoroso amico, (Indica Cominio) siam tutti i granellini ch’egli dice... (Ai Tribuni) ... ma voi siete la lolla imputridita, che spande il suo fetore oltre la luna. E noi, per causa vostra, sarem forzati a farci abbrustolire! SICINIO - Evvia, ti prego, non t’imbestialire! Se ti rifiuti di prestarci aiuto, ora ch’esso ci occorre come mai, non rinfacciarci almeno la disgrazia! Certo, però, se tu fossi disposto ad intercedere presso di lui pel tuo paese, l’abile tua lingua sarebbe ben capace di fermarlo il nostro, come non potrebbe fare qualunque esercito che gli opponessimo. MENENIO - No, non voglio immischiarmi. SICINIO - Ti prego, va’ da lui. MENENIO - A far che cosa? SICINIO - Soltanto un tentativo, quale può fare a favore di Roma il tuo legame d’affetto con Marcio. MENENIO - Beh, mettiamo che mi rimandi indietro, senza ascoltarmi, come pure ha fatto con Cominio... Che cosa ne verrebbe?  Nient’altro che un amico disilluso, ferito dalla sua indifferenza. Non ti pare? SICINIO - Quand’anche così fosse, la tua prova di buona volontà non potrà non ricevere da Roma la gratitudine commisurata alla buona intenzione dimostrata. MENENIO - Bah, mi ci proverò. Chissà che non si degni d’ascoltarmi; sebbene quel suo mordersi le labbra, quell’inarticolato bofonchiare che ci ha detto Cominio, non son cose che m’incoraggino un gran che a tentare... Ma forse non fu colto il buon momento: non aveva pranzato, e il sangue è ancora freddo nelle vene quando queste non son ben riempite, al mattino, imbronciati come siamo, siamo sempre, si sa, poco disposti a dare o a perdonare; quando, invece, abbiamo riempito in abbondanza con vino e cibo queste condutture in cui si canalizza il nostro sangue abbiamo l’animo più disponibile che non nei nostri digiuni da preti. Perciò starò lì attento ad aspettare che sia sazio e disposto ad ascoltarmi, e allora cercherò di avvicinarlo. BRUTO - Tu conosci qual è la strada giusta per giungere alla sua arrendevolezza, e non ti puoi smarrire. MENENIO - Per mia buona coscienza, io ci provo; poi vada come vuole. Non ci sarà poi tanto da aspettare per constatare se sarò riuscito. (Esce) COMINIO - Non sarà mai che voglia dargli ascolto. SICINIO - No? COMINIO - Ve l’ho detto: se ne sta seduto in un seggio dorato(183), l’occhio rosso quasi a volere, col solo suo sguardo, incenerire Roma; e la sua offesa(184)  è il carceriere della sua pietà. Gli son caduto davanti in ginocchio, e lui m’ha detto appena, in un sussurro: “Rialzati”, e d’un gesto della mano in silenzio, così, m’ha congedato. M’ha fatto poi sapere per iscritto quel ch’è disposto a fare e quel che no: impegnato com’è da un giuramento ad osservare certe condizioni. È così; non c’è nulla da sperare, salvoché, come ho udito, la sua nobile madre e la sua sposa non vadano esse stesse a implorargli mercé per la sua patria. Perciò muoviamoci, andiamo a pregarle di recarsi da lui quanto più presto. (Escono) SCENA - Il campo volsco, davanti a Roma Entra MENENIO, e avanza verso due SENTINELLE 1a SENTINELLA - Alto là! Dove vai? 2a SENTINELLA - Fermati! Indietro! MENENIO - Voi fate buona guardia, e fate bene. Ma, con vostra licenza, io sono qui in veste di ufficiale dello Stato, e vengo per parlare a Coriolano. 1a SENTINELLA - E da dove? MENENIO - Da Roma. 1a SENTINELLA - Non si passa! Devi tornare indietro: il generale da lì non vuol ricevere nessuno. 2a SENTINELLA - Potrai vedere la tua Roma in fiamme prima di colloquiar con Coriolano. MENENIO - Miei buoni amici, se vi sia occorso d’udir parlare il vostro generale di Roma e degli amici ch’egli ha là, c’è da scommetter mille contro uno che il nome mio vi sia giunto all’orecchio: è Menenio.  1a SENTINELLA - Può darsi, ma va’ indietro, perché il tuo nome qua non conta niente. MENENIO - Ti dico, amico, ascolta, ch’io son uno al quale il generale tuo vuol bene, uno che è stato, vedi, in qualche modo il libro delle sue famose imprese, e dove gli uomini han potuto leggere le sue gesta. magari un po’ gonfiate, per via che degli amici (e lui è il primo) ho cercato di dire sempre bene ed in tutta l’ampiezza consentita da verità, senza toglierci un ette. Talvolta posso aver passato il segno, come accade a una boccia, tirata sopra un fondo diseguale; e nel far le sue lodi m’è accaduto quasi di fabbricar moneta falsa... Pertanto, amico, credo d’aver titolo e che tu debba lasciarmi passare. 1a SENTINELLA - Senti, amico, se pure avessi detto in favore di lui tante bugie per quante chiacchiere hai speso per te, di qui non passi; manco se fregare(185) fosse virtù come vivere casti. Perciò indietro. MENENIO - Ma per favore, amico, ricordati che il mio nome è Menenio, e sono sempre stato partigiano del partito del vostro generale. 2a SENTINELLA - Tu potrai essere, come tu dici, il suo bugiardo, quanto ti fa comodo, io son uno che sta sotto di lui e non dico bugie, perciò ti debbo dire che non passi. Avanti, sgombra! MENENIO - Puoi dirmi soltanto se ha già pranzato? Non vorrei parlargli prima ch’abbia mangiato. 1a SENTINELLA - Sei romano? MENENIO - Romano, come il vostro generale. 1a SENTINELLA - Allora tu dovresti odiare Roma né più né meno quanto l’odia lui. Come fate a pensare  che dopo aver cacciato dalle porte colui che era il loro difensore e dopo aver regalato al nemico il vostro scudo, possiate sperare ora di fronteggiar la sua vendetta con i facili piagnistei di vecchie o in virtù delle virginali palme giunte in preghiera delle vostre figlie, o per l’intercessione paralitica d’un vecchio rimbambito come te? Come puoi credere di poter spegnere con un debole fiato come il tuo le fiamme in cui fra poco dovrà ardere la tua città? Ti fai illusioni, vecchio, e perciò fila, tornatene a Roma, e prepàrati per l’esecuzione. Perché là siete tutti condannati; il generale non v’accorderà, l’ha giurato, né tregua né perdono. MENENIO - Stammi a sentire, amico: se il tuo capo fosse informato ch’io mi trovo qui, mi tratterebbe con ogni riguardo. 1a SENTINELLA - Il mio capo? Nemmeno sa chi sei. MENENIO - Volevo intendere il tuo generale. 1a SENTINELLA - Che vuoi che gliene importi, al generale, di uno come te! Va’ indietro, via, se non vuoi che ti faccia spillar fuori quel bicchiere di sangue che ti resta. Sloggiare, via, sloggiare! Via di qua! MENENIO - Eh, ma... amico, un momento! Entra CORIOLANO con AUFIDIO CORIOLANO - Che succede? MENENIO - (Alla sentinella) Oh, adesso, amico, te lo faccio io un bel rapporto col tuo superiore! Così saprai se m’ha riguardo o no. Vedrai se un bischero di sentinella si può permettere di trattenermi dall’incontrarmi col mio Coriolano. Già dal modo con cui mi tratterà potrai immaginare se per te c’è già pronta la forca o altra sorta di più lungo supplizio. Sta’ a guardare  e poi svieni, per quello che t’aspetta! (A Coriolano) Gli dèi gloriosi seggano in consesso ora per ora a conservarti prospero e non t’abbiano essi meno caro del tuo vecchio Menenio. Figlio mio tu ci stai preparando fuoco e fiamme. Guarda: ecco qui l’acqua per estinguerle. A stento hanno cercato di convincermi a venir qui da te; ma quando io stesso alla fine mi sono persuaso che nessun altro all’infuori di me potesse fare tanto da commuoverti, coi lor sospiri sono stato spinto fuor dalle porte della tua città ad implorarti il perdono per Roma e pei supplici tuoi compatrioti. Gli dèi benigni plachino il tuo sdegno e ne faccian cader l’ultima feccia sulla testa di questo manigoldo (Indica la 2a Sentinella) che s’è impuntato, duro come un ciocco, a sbarrarmi l’accesso a te... CORIOLANO - Va’ via! MENENIO - Come! Che dici? CORIOLANO - Moglie, madre, figlio, non li conosco. Tutte le mie cose son sottomesse ad altri. La vendetta è tutto quanto mi resta di mio; il mio perdono è nel cuore dei Volsci. Che un’amicizia sia stata fra noi, sia l’ingrata oblivione suo veleno piuttosto che venirci la pietà a ricordar quant’essa fosse grande. Perciò vattene. A queste vostre suppliche i miei orecchi son più resistenti che le porte di Roma alle mie armi. Tuttavia, per l’affetto che t’ho avuto, prendi questo con te: (Gli consegna una lettera) per te l’ho scritto, e te l’avrei mandato. Altro da te, Menenio, non starò ad ascoltare. (Ad Aufidio) Quest’uomo a Roma m’era molto caro fra tutti: eppure tu lo vedi, Aufidio.  AUFIDIO - Vedo: sei uomo di tempra costante. (Escono Coriolano e Aufidio) 1a SENTINELLA - Sicché, compare, il tuo nome è Menenio? 2a SENTINELLA - Caspita, un nome di molto potere. La via di casa la conosci. Va’. 1a SENTINELLA - Hai sentito che striglia abbiamo preso per aver bloccato Tua Eccellenza? 2° SENTINELLA - Che motivo ci avrei io di svenire, secondo te? MENENIO - Non me ne importa più né del tuo generale, né del mondo! Quanto ad arnesi della vostra specie faccio fatica soltanto a pensare che siete al mondo, tanto vi considero! Chi è deciso a morir di propria mano non teme di morir per mano altrui. Faccia pure quanto di peggio ha in mente, il vostro generale; quanto a voi, restate pure a lungo quel che siete, e vi cresca, cogli anni, la miseria! Dico a voi quel ch’è stato detto a me. (Esce) 1a SENTINELLA - Un brav’uomo, però, non c’è che dire. 2a SENTINELLA - Che tipo in gamba il nostro generale! Una roccia, una quercia che non crolla per quanti venti gli soffino contro. (Escono) SCENA -La tenda di Coriolano Entrano CORIOLANO, AUFIDIO e Ufficiali. Si siedono CORIOLANO - Accamperemo domani l’esercito proprio davanti alle mura di Roma. Tu, mio collega in questa spedizione, farai sapere ai senatori volsci con quanta lealtà verso di loro io l’ho portata avanti. AUFIDIO - Hai guardato soltanto ai loro fini  e sei rimasto pienamente sordo alle suppliche dell’intera Roma; non hai ammesso a privato colloquio nessuno, no, nemmeno quegli amici ch’eran sicuri di poterlo fare. CORIOLANO - Quest’ultimo venuto, quel vegliardo che ho rinviato con il cuore a pezzi a Roma, mi teneva ancor più caro che se fosse mio padre, ed io per lui ero un dio. Mandarlo ora da me è stata l’ultima loro risorsa; ed io, in nome dell’antico affetto, pur mostrandomi duro anche con lui, ho loro offerto una seconda volta per suo mezzo le prime condizioni, le stesse ch’essi avevan rifiutato e che ora non posson più accettare; e ciò solo per un riguardo a lui che pensava poter fare di più. Ho ceduto ben poco. Non presterò più orecchio, d’ora in poi, a suppliche o altre ambascerie, che vengan dallo Stato o dagli amici... (Grida dall’esterno) Che grida sono queste? Non dovrò mica vedermi tentato a ritrattare una promessa fatta appena adesso?... No, non lo farò. Entrano VIRGINIA, VOLUMNIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO e altri del seguito (Tra sé) Prima, davanti a tutti, la mia sposa; poi l’onorato grembo da cui forma prese questo mio tronco, ed in mano a lei il nipotino del suo stesso sangue... Ma via da me la piena degli affetti! Spezzatevi legami di natura e diritti del sangue! La caparbia sia virtù. Che valore ha quell’inchino? Che valgono per me gli sguardi di quegli occhi di colomba che spergiurar farebbero gli dèi?... Ma oh!, m’intenerisco, non son di terra più forte degli altri! Mia madre mi s’inchina... È come se l’Olimpo si curvasse ad implorare una tana di talpa; e il mio ragazzo ha un’aria così supplice  ha un’espressione così supplichevole che par sia la Natura che mi gridi a tutta voce: “Non dire di no!”. Ma passino coi loro aratri i Volsci sopra il suolo che vide eretta Roma, e rompano col vomere l’Italia! Non sarò così insulso da cedere alla forza dell’istinto, ma resterò deciso ed incrollabile come uomo padrone di se stesso ignorando qualsiasi parentela. VIRGINIA - Mio signore e marito!... CORIOLANO - Questi occhi non son più i miei di Roma. VIRGINIA - È la grande afflizione che ci fa sì mutate agli occhi tuoi. CORIOLANO - (A parte) Ecco che adesso, da cattivo attore, dimentico la parte, m’impappino fino a un fiasco completo!... (Alzandosi e andando verso la moglie) Tu, della carne mia la miglior parte, perdona la spietata mia durezza, ma non chiedermi in cambio di perdonar “questi nostri Romani”. (Virginia lo abbraccia e lo bacia) Oh, mia diletta, questo lungo bacio, lungo come l’esilio, un bacio dolce come la mia vendetta! Per la gelosa regina del cielo, quel tuo bacio d’addio io l’ho portato sempre con me e vergine il mio labbro da quell’istante l’ha serbato... O dèi, io sto lasciando senza il mio saluto la più nobile madre della terra! (S’inginocchia ai piedi di Volumnia) Già, mio ginocchio, affòndati per terra, lasciaci il calco d’una devozione, la più grande che figlio abbia sentito. VOLUMNIA - Oh, rialzati, figlio benedetto! (Coriolano si rialza) Son io che m’inginocchio avanti a te  su questo duro cuscino di pietra, mostrando in un tal gesto per se stesso irriguardoso di civil decoro, come finora mal sia stato inteso il rispetto fra figlio e genitore. (S’inginocchia) CORIOLANO - Che significa questo? Tu inginocchiata qui davanti a me? Davanti a questo figlio tante volte da te rimproverato? Oh, allora volino a punger le stelle anche le ghiaie dell’arida spiaggia! Allora scaglino i venti in rivolta gli alteri cedri contro il sole ardente, spazzando via dal mondo l’impossibile, sì che diventi all’uomo facil opra fare che ciò che non può esser sia. VOLUMNIA - Tu sei il mio guerriero e a farti tale io t’aiutai. Conosci questa donna? (Indica Valeria) CORIOLANO - La nobile sorella di Publicola, luna di Roma, casta come il ghiaccio che da neve purissima s’aggruma col gelo, e pende sul tempio di Diana... Cara Valeria!... VOLUMNIA - (Indicando il piccolo Marcio) Questo è la tua copia, un acerbo compendio di te stesso, che quando il tempo l’avrà maturato potrà essere tutto il tuo ritratto. CORIOLANO - (Carezzando il viso del piccolo Marcio) Possa il dio dei soldati, col consenso di Giove ottimo-massimo, informarti di nobiltà la mente sì da renderti immune al disonore e farti emergere nelle battaglie come un gran promontorio in mezzo al mare, che regge l’impeto delle burrasche e salva tutti quelli che lo vedono! VOLUMNIA - (Al piccolo Marcio) Giù, in ginocchio! CORIOLANO - Il mio bravo figlietto!  (Il piccolo Marcio s’inginocchia, ma il padre lo tira su) VOLUMNIA - Ecco, anche lui, tua moglie, questa donna(195) ed io, tua madre, siamo qui tuoi supplici. CORIOLANO - Ti scongiuro, non domandarmi nulla! O, se qualcosa devi domandarmi, prima di tutto tieni in mente questo: le cose che giurai di non concedere non siano mai da te considerate come rifiuti, se non le concedo. Non chiedermi di rimandare a casa i miei soldati, o di capitolare alla plebe di Roma un’altra volta. Non dirmi snaturato se ricuso non smorzare con più freddi argomenti la mia rabbiosa sete di vendetta. VOLUMNIA - Oh, basta, basta, hai detto: non sei disposto a concedere nulla... e noi qui non abbiamo che da chiedere quello che tu hai detto di negarci. E tuttavia te lo vogliamo chiedere, sì che, se ci fai vana la richiesta se ne possa dar colpa solo alla tua protervia. Perciò ascolta. CORIOLANO - Aufidio, ed anche voi, Volsci, sentite; perché in privato qui nulla da Roma s’ha da sentire. (Si siede) Che cos’hai da chiedere? VOLUMNIA - Quand’anche rimanessimo in silenzio, senza profferir verbo, il nostro aspetto e queste nostre vesti ti direbbero che genere di vita abbiam vissuto da quando sei partito per l’esilio. Considera che donne sventurate noi siamo, come nessun’altra al mondo, nel venir qui da te, se il sol vederti, che ci dovrebbe empir di gioia gli occhi e far danzare di conforto i cuori, li costringe al contrario a lacrimare e tremar di paura e di dolore, e far che madre, sposa e figlioletto vedano il loro figlio, sposo e padre che strappa i visceri alla propria terra. E l’esser tu di questa nostra terra divenuto nemico è più funesto per noi, povere donne, che per gli altri.  Ché almeno agli altri è concesso il conforto di pregare gli dèi, a noi per causa tua proibito. Come possiamo, ahimè, noi le tue donne, pregare il cielo per la nostra patria (come sarebbe pur nostro dovere) e nel contempo per la tua vittoria (come sarebbe pur nostro dovere)? Ahimè, tra dover perdere la patria, nostra cara nutrice, o perder te, che nella patria sei nostro conforto, andiamo incontro a una sciagura certa, qualunque sia la parte, delle due, che possiamo augurarci vittoriosa: ché o dovrem vederti tratto in ceppi come un nemico vinto attraversare le strade di Roma, oppur calcare da trionfatore le rovine di questa tua città con la palma d’aver sparso da eroe il sangue di tua moglie e dei tuoi figli(196). Quanto a me, figlio mio, non ho certo intenzione d’aspettare qual esito la sorte avrà voluto serbare a questa guerra. Se non potrò convincerti a far grazia con nobiltà di cuore alle due parti piuttosto che cercare la rovina d’una sola di esse, non potrai - credimi, tu non potrai! - muovere ad assaltare il tuo paese, figlio, senza aver prima calpestato il ventre di tua madre che t’ha portato al mondo. VIRGINIA - E quello mio che ha partorito a te questo ragazzo per far vivere il nome tuo nel tempo! IL PICCOLO MARCIO - A me, però, non mi calpesterai! Io scapperò finché non sarò grande, ma poi voglio combattere! CORIOLANO - Per non intenerirsi come femmine bisogna non vedere innanzi a sé facce di donne o di fanciulli... Basta, ho già troppo ascoltato. (Si alza dal seggio e fa per andarsene) VOLUMNIA - No, no, Marcio, non lasciarci così! Se il nostro chiedere  mirasse solo a salvare i Romani e a distruggere i Volsci che tu servi, ci potresti accusar d’esser venute come avvelenatrici del tuo onore. No, ti chiediamo di riconciliarli, sì che, da un lato i Volsci possan dire: “Ecco mostrata la nostra clemenza”, e i Romani: “L’abbiamo ricevuta”; e ciascuno ti acclami, da ogni parte, ed esclami: “Che tu sia benedetto, per aver combinato questa pace!”. Tu sai, nobile figlio, come incerte siano sempre le sorti della guerra; ma questo è certo: se conquisti Roma il beneficio che potrai raccoglierne sarà un nome che, appena menzionato, sarà inseguito da maledizioni come cervo da una canea latrante(197), e così d’esso scriverà la storia: “L’uomo fu certo di gran nobiltà, della quale però l’ultima impresa ha spazzato fin l’ultimo vestigio, ha distrutto la patria, ed il suo nome resta esecrato per le età future”. Parlami, figlio. Tu ch’hai sempre amato i generosi slanci dell’onore, tu ch’hai sempre aspirato ad imitar gli dèi nella clemenza, a lacerar col tuono l’ampio spazio, come puoi caricare la tua collera con un fulmine buono appena appena a buttar giù un querciolo... Perché taci? Credi sia degno d’un animo nobile non saper cancellar dalla memoria le offese ricevute? (A Virginia) Parla, figlia, parla anche tu, perché delle tue lacrime lui non si cura. (Al piccolo Marcio) Parla anche tu, piccolo. Forse la tenera tua fanciullezza più che i nostri argomenti può riuscire a dargli un briciolo di commozione. Non c’è uomo che debba più di lui a sua madre, e mi lascia qui a cianciare come una alla gogna... (A Coriolano) Per tua madre non hai avuto mai in vita tua  un tratto di filiale gentilezza; per lei che, invece, da povera chioccia, incurante d’aver altra covata, t’ha sempre accompagnato chiocciolando alla guerra, e t’ha ricondotto a casa felicemente e carico d’onori. Di’ che la mia richiesta non è giusta e respingimi pure con disprezzo; ma se tale non è, non sei onesto, e gli dèi ti faranno ripagare questo tuo rifiutare l’obbedienza che spetta di diritto ad una madre... (Coriolano guarda da un’altra parte) Ah, volge il viso altrove!... Donne, giù! (S’inginocchia, e gli altri la imitano) Ci veda inginocchiati, e si vergogni! Al soprannome suo di Coriolano meglio s’addice la boria proterva che la pietà per le nostre preghiere. Giù, sia finita, per l’ultima volta! Poi torneremo a Roma, e moriremo coi nostri vicini. No, no, devi guardarci! Questo bimbo, che non sa profferir ciò che vorrebbe ma s’inginocchia e ti tende le mani con noi, sostiene la nostra preghiera con più forza di quanto tu ne adoperi nel respingerla. Via, andiamo via! (Si alzano) Quest’uomo ha avuto per madre una Volsca, sua moglie sta a Corioli, e suo figlio somiglia a lui per caso. (A Coriolano) Parla, per dirci almeno “Andate via”! Io, da qui innanzi resterò in silenzio finché la nostra Roma non sia in fiamme; solo allora dirò qualche parola. CORIOLANO - (Prendendole la mano, dopo lungo silenzio) Ah, madre, madre mia che cosa hai fatto!... Guarda, s’aprono i cieli e di lassù irridono gli dèi a questa scena innaturale! Oh, madre, madre, hai vinto! Una felice vittoria per Roma; ma per tuo figlio - credilo, ah, credilo! - hai prevalso su lui, ma esponendolo  a un pericolo estremo, se non proprio alla morte. E così sia! (Ad Aufidio) Aufidio, io non potrò più condurre questa guerra in piena lealtà. Negozierò perciò una congrua pace. Ma dimmi, buon Aufidio, al posto mio, avresti dato tu ad una madre minore ascolto? O concesso di meno? AUFIDIO - Sono commosso anch’io. CORIOLANO - L’avrei giurato! Ché non è poco, Aufidio, che i miei occhi trasudino pietà. Ma dimmi tu, buon collega, che pace vuoi concludere. Per parte mia, non resterò a Roma; torno con te a Corioli e ti prego di darmi il tuo sostegno in questa contingenza. O madre! O moglie! AUFIDIO - (A parte) Godo a veder che ti sei messo dentro questo conflitto tra pietà ed onore; ed è proprio su questo che farò rifiorir la mia fortuna. CORIOLANO - (Alle donne) Subito, sì. Beviamo prima insieme. Ma voi dovete riportare a Roma miglior testimonianza della cosa che non sian le parole: un documento dalle due parti rato e sigillato. Venite, dunque, entrate insieme a noi. Donne, voi meritate a Roma un tempio: tutte le spade che sono in Italia e i suoi eserciti confederati non avrebbero fatto questa pace. (Escono) SCENA. Roma, una piazza Entrano MENENIO e SICINIO MENENIO - Lo vedi quello spigolo di pietra lassù sul Campidoglio? SICINIO - Ebbene, allora?  MENENIO - Ebbene allora se tu col tuo mignolo riesci a smuoverlo, qualche speranza vuol dir che c’è che le donne di Roma, soprattutto sua madre, lo convincano. Ma io ti dico che non c’è speranza. Le nostre gole sono condannate, si tratta solo d’aspettare il boia. SICINIO - Possibile che in così poco tempo possa cambiare l’animo di un uomo? MENENIO - Tra un bruco e una farfalla ce ne corre; eppure la farfalla è stata un bruco. Questo Marcio, da uomo ch’era prima s’è tramutato in drago. Ha messo l’ali. Non è più cosa che striscia per terra. SICINIO - A sua madre era molto affezionato. MENENIO - Ah, per questo anche a me; ma di sua madre adesso si ricorda non più che della sua uno stallone partorito da lei ott’anni fa. Porta sul viso i segni di un’asprezza da far inacidir l’uva matura. Quando cammina par né più e né meno che stia muovendosi una catapulta: la terra si raggrinza al suo passare. Ha uno sguardo che fora le corazze, parla rintocchi di campana a morto, e borbotta come una sparatoria. A vederlo seduto sul suo scanno pare la statua d’Alessandro Magno. Se dà un ordine, questo è già eseguito prima ch’abbia finito d’impartirlo. Gli manca solo, per essere un dio, l’eternità e un cielo in cui regnare. SICINIO - E la pietà, se è vero il tuo ritratto. MENENIO - Io lo dipingo per quello che è. Vedrai quanta pietà saprà ottenere da lui sua madre. Ce n’è meno in lui pietà, che latte in una tigre maschio. Se ne avvedrà questa povera Roma. SICINIO - N’abbian gli dèi misericordia! MENENIO - No, in questo caso gli dèi non ne avranno! Non avemmo per loro alcun rispetto  quando l’abbiam cacciato e messo al bando; ora che torna a fracassarci il collo, non possiamo dagli dèi rispetto. Entra un MESSO MESSO - (A Sicinio) Se vuoi salva la vita, corri a casa, i plebei hanno preso il tuo collega e lo trascinano di su e di giù, giurando in coro che se le matrone non dovessero riportare a casa qualcosa che dia loro alcun conforto, lo linceranno, lo faranno a pezzi. Entra un SECONDO MESSO SICINIO - Notizie? SECONDO MESSO - Buone! Buone! Le matrone ce l’hanno fatta: i Volsci hanno sloggiato e Marcio è andato via. Roma non salutò più fausto giorno, nemmeno alla cacciata dei Tarquinii. SICINIO - Amico, sei sicuro che sia vero? Proprio sicuro? SECONDO MESSO - Come il sole è fuoco. Ma tu dove sei stato fino ad ora che non ci credi? Mai un fiume in piena irruppe sotto l’arcata d’un ponte, con l’impeto con cui s’è riversata tutta la gente, ormai rassicurata, attraverso le porte. Ecco, li senti? (Frastuono all’interno di trombe, oboi, tamburi, voci, alla rinfusa) Trombe, sambuche, pifferi, salterii, cimbali, tamburelli(200), e tutta Roma urla da far ballare il sole. Senti? (Grida di gioia all’interno) MENENIO - Splendido! Vado incontro alle matrone. Questa Volumnia vale, solo lei, tanti consoli, senatori, nobili da popolare un’intera città; tribuni come te, poi, ce ne vogliono, appetto a lei, un mare, un continente. Oggi dovete aver pregato bene:  stamattina non avrei dato un soldo per diecimila delle vostre teste. Senti come si sgolano di gioia! (Altre voci e grida all’interno) SICINIO - (Al Messo) Prima, ti benedicano gli dèi per la bella notizia che hai portato; e poi accetta i miei ringraziamenti. SECONDO MESSO - Tribuno, qui di far ringraziamenti abbiamo tutti abbondanti ragioni. SICINIO - Son presso la città? SECONDO MESSO - Quasi alle porte. SICINIO - Allora andiamo tutti loro incontro, ad accrescer la gioia della festa. (Escono) SCENA V - Strada presso la porta della città Entrano, attraversando la scena, due SENATORI con VOLUMNIA, VIRGINIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO, seguiti da altri PRIMO SENATORE - Ecco, guardate, la nostra patrona, la salvezza di Roma! Chiamate ad adunata le tribù, innalzate agli dèi ringraziamenti, ed accendete fuochi trionfali! Spargete fiori sul loro cammino, e cancellate con gioiose grida il clamore che mise al bando Marcio; richiamatelo dando il benvenuto a sua madre, gridando tutti in coro: “Benvenute, matrone, benvenute!”. TUTTI - Benvenute, matrone, benvenute! (Fanfara con trombe e tamburi. Escono tutti) SCENA Corioli, una piazza Entra TULLO AUFIDIO con seguito AUFIDIO - Andate ad annunciare ai senatori  ch’io sono qui a Corioli, e consegnate loro questa carta. La leggano e poi vadano nel Foro dove dinanzi a loro e a tutto il popolo io fornirò le prove di tutto quanto v’han trovato scritto. L’uomo che in essa accuso a quest’ora si trova già in città e intende presentarsi avanti al popolo nella speranza che con un discorso riesca a scagionarsi. Fate presto. (Escono alcuni del seguito) Entrano alcuni CONGIURATI del partito di Aufidio Benvenuti! 1° CONGIURATO - Stai bene, generale? AUFIDIO - Come uno ch’è rimasto avvelenato dalle proprie elemosine ed ucciso dalla sua stessa generosità. 2° CONGIURATO - Aufidio nobilissimo, se ancora sei dello stesso proposito del quale ci hai voluto tuoi partecipi, noi siamo pronti a sbarazzarti subito di questo gran pericolo. AUFIDIO - Non so che dirti. Bisognerà agire come troviamo gli umori del popolo. 3° CONGIURATO - Il popolo non si saprà decidere, finché duri il contrasto fra voi due; ma una volta caduto l’uno o l’altro, sarà tutto per quello che rimane. AUFIDIO - Lo so, e il mio pretesto per colpirlo è basato su solidi argomenti. Io l’ho fatto salire, ed ho impegnato sulla sua lealtà l’onore mio; ma, giunto così in alto, egli ha innaffiato i suoi nuovi germogli con la rugiada dell’adulazione, seducendomi tutte le amicizie. Ed a questo ha piegato la sua indole, mai conosciuta prima altro che rude, indomabile, chiusa, indipendente. 3° CONGIURATO - Già, quella sua proterva ostinazione,  quando concorse per il consolato che perdette per non voler piegarsi... AUFIDIO - Stavo per dirlo. Bandito per questo, venne a cercar rifugio a casa mia, presentando la gola al mio coltello. Io l’accolsi, lo feci mio collega nel comando, gli detti aperta via a soddisfare ogni suo desiderio; anzi, gli feci sceglier da lui stesso tra le mie file gli uomini migliori per meglio perseguire i suoi disegni; mi misi io stesso a sua disposizione e l’ho aiutato a mieter quella fama che ha finito per fare tutta sua, al punto da sentirmi io stesso fiero di recare a me stesso questo torto. Ho fatto fino all’ultimo la parte d’un umile e modesto suo seguace, e non già quella d’un suo pari grado, ed egli me l’ha sempre ripagato con ostentata altera sufficienza, manco se fossi stato un mercenario... 1° CONGIURATO - È vero, generale; la truppa n’è rimasta sbalordita. E infine, quando aveva in mano Roma e ci arrideva a tutti un gran bottino, oltre alla gloria... AUFIDIO - Questo è proprio il punto su cui concentrerò contro di lui tutte le fibre; il sangue ed il sudore che ci è costata questa grande impresa egli li ha bassamente barattati per quattro lagrimucce di donnette, che non valgono più delle bugie. Perciò deve morire, ed io risorgerò dal suo tramonto. Ma eccolo, sentite queste grida? (Tamburi e trombe da dentro, fra grida di popolo) 1° CONGIURATO - Tu sei entrato nella tua città come un qualsiasi comune corriere: nessuno t’aspettava a salutarti; ed ecco che lui torna, e il lor clamore spacca l’arco del cielo! 2° CONGIURATO - E questi idioti avvezzi a ogni sopruso ai quali lui ha massacrato i figli  si spellano i lor vili gargarozzi ad osannarlo. 3° CONGIURATO - Tu, al momento giusto, prima che parli e che commuova il popolo, fagli sentir la lama della spada, noi ti daremo mano. Lui caduto, racconta lor la storia a modo tuo: avrai così seppellito per sempre le sue ragioni insieme al suo cadavere. AUFIDIO - Silenzio, i senatori. Entrano i SENATORI della città TUTTI I SENATORI - (Ad Aufidio) Un caldissimo bentornato a casa! AUFIDIO - Non lo merito... Nobili signori avete letto bene quanto ho scritto? TUTTI I SENATORI - Sì, certo. PRIMO SENATORE - E con non poco dispiacere. Perché quali che fossero le colpe da lui commesse prima di quest’ultima avrebbero trovato, a mio giudizio, facile ammenda; ma finire là dove avrebbe dovuto cominciare, gettando via l’indubbio beneficio d’avere nelle mani il nostro esercito con le spese di guerra a nostro carico, e stipulando un trattato di pace con un nemico che s’era già arreso... tutto questo non può presso di noi trovare alcuna giustificazione. AUFIDIO - È qui che viene. Potete ascoltarlo. Entra CORIOLANO, alla testa di soldati in marcia, con tamburi e vessilli; dietro una folla di popolo CORIOLANO - Salute a voi, signori! Ritorno a voi come vostro soldato, non più preso d’amor per la mia patria di quando son partito; e sempre sottomesso ed ossequiente alla vostra suprema autorità. Sappiate che ho condotto questa impresa con successo, e guidato i vostri eserciti attraverso passaggi sanguinosi  fino davanti alle porte di Roma. Il bottino che abbiamo riportato può compensare per almeno un terzo la spesa sostenuta per la guerra. Abbiam fatto una pace altrettanto onorevole pei Volsci quanto disonorevole per Roma; e qui vi consegniamo il documento col testo del trattato stipulato, sottoscritto da consoli e patrizi, munito del sigillo del Senato. AUFIDIO - Non leggetelo, nobili signori! Dite piuttosto a questo traditore ch’egli ha abusato fuor d’ogni misura dei poteri che voi gli avete dato. CORIOLANO - Io, traditore? AUFIDIO - Sì, tu, Marcio! CORIOLANO - Marcio... AUFIDIO - Sì Marcio, Marcio, dico: Caio Marcio! O credi forse ch’io ti faccia bello chiamandoti col tuo nome rubato, Coriolano, a Corioli?... Senatori, voi che sedete a capo dello Stato, costui s’è comportato con perfidia da traditore della vostra causa ed ha ceduto la vostra città, sì, dico, Roma, ch’era già vostra, per poche goccioline d’acqua salsa, alla madre e alla moglie, stracciando via giuramenti e propositi come una stringa di seta tarlata, senza curarsi mai di convocare un consiglio di guerra. Così alle lacrime della sua balia, egli, tra molti gemiti e guaiti ha dato ai cani la nostra vittoria, sì da far arrossire di vergogna perfino le ramazze dell’esercito(203) e costringere gli uomini di tempra a guardarsi in silenzio, sbalorditi. CORIOLANO - O Marte, ascolti? AUFIDIO - Non lo nominare quel dio, piagnucoloso ragazzotto!  CORIOLANO - Eh?... AUFIDIO - Non sei altro! CORIOLANO - Sfacciato bugiardo! Vil carogna, mi fai scoppiare il cuore! “Piagnucoloso ragazzotto”, a me! Signori, perdonatemi, questa è la prima volta in vita mia che mi vedo costretto ad insultare. Questo cane, signori venerandi, sarà smentito dal vostro giudizio; e tutto quanto potrà dir di me - lui, che porta stampati nella carne i segni dei miei colpi, lui, che deve portarsi nella tomba le cicatrici delle mie batoste - dovrà unirsi alla vostra verità per ricacciargli in gola la menzogna. 1° SENATORE - Calmatevi, voi due, ed ascoltatemi. CORIOLANO - Volsci, fatemi a pezzi! Grandi e piccini, uomini e ragazzi, intingete le lame nel mio sangue! “Ragazzotto”!... A me! Cane bastardo! Se nelle cronache in vostro possesso c’è scritto il vero, ci dev’esser scritto ch’io, come un’aquila in un colombaio, ho seminato tra i vostri, a Corioli, il putiferio. E l’ho fatto da solo! “Piagnucoloso ragazzotto”... Eh?! AUFIDIO - E voi, nobili padri, permettete a questo maledetto fanfarone di richiamare alla vostra memoria, innanzi agli occhi vostri, ai vostri orecchi, quello che fu un suo colpo di fortuna, e la vostra vergogna? TUTTI I COSPIRATORI - E per ciò, muoia! TUTTI I POPOLANI - Sì, facciamolo subito! Linciamolo! A me ha ucciso un figlio! A me una figlia! A me il cugino Marco! A me mio padre! 2° SENATORE - Calma, oh! Niente violenze! Calma! È un uomo di valore, ed il suo nome  abbraccia tutto l’orbe della terra. Il suo colpevole comportamento in questa guerra sarà giudicato secondo legge. Aufidio, tu non muoverti, e non turbare la pubblica quiete. CORIOLANO - Ah, se potessi usar contro di lui, contro sei altri Aufidi ed anche più, e tutta la sua razza, questa spada! La farei io la legge! AUFIDIO - Insolente canaglia! (A questo punto, d’improvviso i cospiratori traggono le spade e uccidono Coriolano, che crolla a terra. Aufidio gli mette un piede sopra) I COSPIRATORI - Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! I SENATORI - Fermi! Fermi! Fermatevi! Fermatevi! AUFIDIO - Ascoltatemi, nobili signori! 1° SENATORE - Ah, Tullo, cos’hai fatto! 2° SENATORE - Tullo, ti sei macchiato di un’azione sulla quale il valore piangerà. 3° SENATORE - Togli quel piede da sopra il suo corpo! E voi tutti, silenzio! Via le spade! AUFIDIO - Signori, quando avrete conosciuto (ora non lo potete certamente, nello scompiglio da lui provocato) qual pericolo fosse per voi tutti quest’uomo, vi dovrete rallegrare che sia stato così eliminato. Piaccia alle vostre signorie onorevoli di convocarmi davanti al Senato: mi metterò, da fedel servitore, alla mercé della vostra giustizia, accetterò la più grave condanna. 1° SENATORE - Portate via il cadavere. Si prepari per lui un funerale  con la solennità che si conviene ad onorare la salma più nobile che mai araldo accompagnò alla tomba. 2° SENATORE - L’irruenza di lui libera Aufidio da gran parte di colpa. Ora ciascuno faccia tesoro di quel che è successo. AUFIDIO - La mia collera è, ora, tutta spenta, mi sento sol pervaso da tristezza. Solleviamolo. Diano qua una mano tre dei soldati di più alto grado. Io sarò il quarto. (Al tamburino) Tu, batti il tamburo, voi, voltate le picche, punta a terra. Pur se in questa città molte mogli egli abbia reso vedove e molte madri privato dei figli, s’abbia da noi la degna sepoltura che spetta a un grande cuore. Su, aiutatemi! (Escono portando a spalla il corpo di Coriolano, al rullo prolungato del tamburo). Sapeva, come nessun altro, l’arte di “flatter le peuple” e farsi da esso benvolere, ricorrendo senza scrupoli ad ogni sorta d’intrighi personali (Senofonte, “Memorabili”, citato da Romilly in “Alcibiade”, ed. De Fallois, Parigi, Melchiori, “Shakespeare”, Laterza, Bari “Il préférait l’opportunitè aux principes” (Romilly, “But they think we are too dear”: frase d’incerta interpretazione. Qualcuno (D’Agostino) intende: “Ma per loro stiamo bene così come siamo”, cioè magri.  “Ere we become rakes”: “rake”, era simbolo di magrezza; si diceva “magro come un rastrello” (“as lean as a rake”).  “I need not be barren of...” letteralm.: “Non c’è bisogno ch’io ne sia sterile...”. Il testo gioca sull’aggettivo “strong” che con “breath” ha il significato di “bad smelling”, “fiato che puzza”. “I shall tell you a pretty tale”: qui “pretty” ha il senso di “properly”, “shaperly formed”, “tagliato al caso”, “ben tagliato”. (9) Cioè non con la parola ma col gesto delle labbra. (10) Cioè sulle labbra. “Fore me, this fellow speaks!”: “Parola mia, questo compare ha la lingua sciolta!” Il primo cittadino fa anche il saputo, e Menenio esprime a se stesso la propria stizza. “... the cormorant belly”: il cormorano, vorace uccello dei mari australi, è simbolo dell’insaziabilità (cfr. “Riccardo II” “Light vanity, insatiate cormorant”). Simile immagine dello stomaco è in Dante, “Inferno”: “... il tristo sacco/ che merda fa di quel che si trangugia”. “... and fit it is”: “is fit” ha qui valore imperativo di “is duty of...”, “is due to...”; e “and” ha valore avversativo. “The one side must have the bale”: la frase è ironica, per intendere che si sa bene chi avrà la peggio. È il gesto di scherno con cui Menenio chiude il suo apologo. Cominciato in tono amichevole, quasi sottomesso, questo è venuto man mano crescendo d’enfasi e di efficacia persuasiva, fino all’invettiva finale di Menenio contro il suo interlocutore principale, il Primo cittadino, e al sarcasmo per l’esito della sommossa. L’entrata in scena di Caio Marcio e il tono trionfale con cui Menenio lo saluta sono il suo magistrale coronamento. “The one affrights you”, letteralm.: “L’una vi terrorizza”; ma Coriolano è uno d’arme, e nel suo “affrights you” c’è il disprezzo di chi ha paura di andare a battersi in armi. (17) “Keep you in awe”: “to keep in awe” è espressione colloquiale per “trattenere qualcuno, se necessario, con la forza”. In realtà il Senato romano non si riuniva in Campidoglio, ma nella Curia Hostilia, al Foro, o nella Curia Pompeiana, presso il teatro di Pompeo, dove fu ucciso Cesare. Ma per Shakespeare il Campidoglio è il centro politico della Roma antica.  “... as high as I could pick my lance”: “pick”, nell’inglese del ’500 era sinonimo di “throw”, “lanciare (in ogni direzione)”. “Convinti”, cioè, a desistere dalla sommossa.  “What says the other troop?”: Marcio proviene da un’altra parte della città, dove - come ha detto prima il Primo cittadino - la plebe è già insorta. Il testo, come spesso in Shakespeare, ha la frase in astratto: “... da spezzare il cuore alla generosità”. Così dice Plutarco; in verità, quanti fossero i “tribuni plebis” nella prima repubblica, non si sa, le fonti si contraddicono. Con certezza si sa che furono dieci dopo il 448 a.C. Qui, per tutto il dramma, ne compaiono soltanto due, Bruto e Sicinio. Per Coriolano, rappresentante della classe guerriera, una guerra è rimedio sicuro per interrompere le lotte interne e, insieme, togliere di mezzo quello che egli chiama “ammuffito superfluo” (“musty superfluity”) negli uomini e nelle istituzioni. È il primo tratto, dopo le sprezzanti invettive alla plebe, che Coriolano fa da se stesso del suo carattere: orgoglioso, fazioso, intollerante; e il primo accenno alla sua rivalità con l’altro grande guerriero del dramma, il volsco Aufidio. “.. his lips and eyes”: boccacce e occhiatacce. La luna come divinità era impersonata da Diana, la dea della castità muliebre. Marcio, quando s’arrabbia, è sboccato anche in senso lubrico. “We never yet made doubt but Roma was ready to aswer us”: letteralm.: “Mai noi finora ponemmo in dubbio che Roma fosse pronta a risponderci”. Cioè al momento della loro messa in atto. Plutarco - ch’è la fonte di Shakespeare per questo dramma - così spiega la ragione per cui i Romani usavano incoronare di fronde di quercia la fronte dell’eroe: “... o perché riverissero sovra l’altre piante la quercia in onore degli Arcadi... o perché tosto e in ogni parte i soldati trovavano fronde di quercia... l’albero sacro a Giove, protettore della città” (“Vita di Coriolano”). La guerra cui accennava Volumnia è quella contro Tarquinio il Superbo, che tentava di rientrare a Roma dopo la vittoria del Lago Regillo sui Latini. Questa immagine nella mente esaltata della madre, che vede il figlio/eroe trascinar nella polvere, presolo pei capelli, il nemico ucciso, e, più sotto, quella di lui che schiaccia al nemico abbattuto la testa col ginocchio, si rivelerà un tragico presagio all’inverso del destino di Marcio. “You were got in fear, though you were born in Rome”: letteralm.: “Voi siete stati concepiti nella paura, sebbene siate nati a Roma”.“It more becomes a man than gilt his trophy”: il “trofeo” era il cumulo delle armi e delle spoglie del nemico vinto, che il vincitore appendeva ad un albero o ammucchiava sul luogo della battaglia, per offrirlo in voto di ringraziamento agli dèi: tanto più bello e prezioso se le armi luccicassero d’oro. Cioè conquistare la città di Corioli assediata. “Amongst your cloven army”: i Volsci sanno che quello che li assedia è metà dell’esercito romano, l’altra metà essendo impegnata a respingere il loro, capitanato da Tullo Aufidio. “Sensibilmente” (“sensibly”) ha qui valore di “con sensi vivi del tuo essere”, in opposto all’inerte materia della tua spada (cfr. in Dante, “Inferno”: “Tu dici che di Silvio lo parente / Corruttibile ancora, ad immortale / Secolo andò e fu sensibilmente”). “A carbuncle entire”: “entire” è qui nel suo significato di “perfect”, e la perfezione di un diamante si giudica dalla sua luce. In verità, Catone è vissuto 250 anni dopo Coriolano; ma Shakespeare segue pedissequamente Plutarco, e non si cura degli anacronismi. Questa didascalia, che figura in molte fonti, lascia intendere, se ce ne fosse bisogno, che il corso dell’azione scenica ha saltato quel che è successo a Marcio dopo che è rimasto chiuso da solo in Corioli. Lo si saprà dall’elogio che gli farà più sotto Cominio. “... their honours”: si accetta la lezione “honours” dell’“Oxford Shakespeare”, in luogo di quella “... their hours” dell’Alexander (la cui traduzione sarebbe: “Un’ora di battaglia per costoro...”).  “A craked drachma”: le monete crepate hanno un suono fasullo e non valgono più. Ma la dracma era moneta greca. È un’altra prova che Shakespeare copia acriticamente il greco Plutarco. Il boia aveva il diritto di appropriarsi dei vestiti del condannato da lui giustiziato. “The general” è, s’intende, Aufidio, che si sta battendo con Cominio, a meno di un miglio e mezzo di distanza, come ha annunciato prima il Messaggero. La traduzione letterale di queste parole di Cominio sarebbe: “Non distingue il pastore il tuono da un tamburo/ più di quanto io distingua il suono della voce di Marcio da quello di qualsiasi altra”.  Cioè: “Arrivi tardi, se sei ferito (se fossi venuto prima non lo saresti stato). Ma se quello che hai addosso è sangue nemico, non sei affatto in ritardo”.  “O me alone, make you a sword of me”: è uno dei versi più discussi del dramma. La lezione è incerta. C’è chi lo fa seguire da un punto interrogativo (“Oxford Shakespeare”, cit.), come se Marcio dica ai soldati che lo sollevano in aria: “Povero me, volete fare di me una spada?”; chi ci mette un esclamativo (è la lezione qui adottata); chi addirittura (Brockbanck) l’attribuisce ai soldati. Secondo noi, Shakespeare fa esclamare Marcio con l’espressione massima del condottiero che incita i suoi alla battaglia: “Di me solo, fate la vostra spada!”; che è, tra le altre lezioni, anche la più poetica.  “... dispatch those centuries to our aid”: quali centurie intenda Larzio, non si capisce; forse egli accompagna la frase con un gesto ad indicare le truppe rimaste accampate fuori le mura di Corioli; o forse “quelle” vuol indicare “quelle sulle quali ci siamo già intesi che ci avreste mandato”. “Fear not out care, Sir”: letteralm.: “Non aver timori sulla nostra premura, signore”.  “Fix thy foot”: letteralm.: “Tienti saldo sui piedi”, espressione che nel gergo cavalleresco significava: “Sta’ in guardia!”. “Wert thou Hector/ That was the hip of your bragged progeny”: Aufidio chiama Ettore “frusta” dei suoi Troiani, dai quali i Romani, da Enea, discendevano, ad intendere che anche Marcio, come Ettore, è per i suoi esempio di virtù guerriera. Per i segnali musicali in tutto il teatro shakespeariano, v. la “Nota preliminare” alla mia traduzione del “Re Lear”. Senso: “Eppure a questo banchetto (l’orgia di sangue della battaglia) al quale tu sei venuto tardi, tu non hai mangiato che un boccone, rispetto al grande banchetto che avevi già fatto (a Corioli)”. Queste battute tra Marcio e Cominio danno un’altra forte pennellata al ritratto dell’eroe. Cominio - per la cui bocca è Shakespeare che parla - non crede alla modestia di Marcio: il suo rifiuto d’ogni lode per l’impresa di Corioli, che gli darà il trionfale soprannome di Coriolano, e di partecipare in forma privilegiata alla divisione del bottino di guerra è solo una manifestazione dell’egocentrismo dell’uomo e della sua smisurata superbia. E Cominio, elegantemente, con moderazione e senza offenderlo, ce lo fa intendere. “But cannot make my heart consent to take e bribe to pay my sword”: in quel “bribe” che vale, più che “mancia”, “compenso dato a qualcuno per corromperlo”, c’è tutto il carattere sdegnoso di Marcio. La didascalia ha “Flourish”, che è uno dei segnali musicali del teatro shakespeariano. Perché la loro funzione è quella di strumenti di guerra e non di adulazione. “Let him be made an ovator for th’ wars”: si accetta la lezione “ovator” in luogo di “ouverture” di altri testi, perché, pur nella relativa oscurità della frase, sembra la più pertinente, oltre che la più poetica. “Ovator” è termine creato da Shakespeare forse in derivazione da “ovate”, derivato a sua volta dal latino “vates”, “vate”, “bardo”, “profeta”; sì che il senso ci sembra essere: “Sia ormai il parassita, vestito di morbida seta, e non più il guerriero vestito di duro ferro, il simbolo della guerra”. Pertanto “him” sarebbe riferito a “parasite” del verso precedente. Il testo ha semplicemente: “safety”, che non è tanto “con calma” o “serenamente”, ma “in safety”, “in security” (che giustifica le manette). “... that Caius Marcius wears this war’s garland”: letteralm.: “... che Caio Marcio veste la ghirlanda (di trionfatore) di questa guerra”.  D’ora in poi, il personaggio sarà indicato col nome di Coriolano, non più con quello di Caio Marcio. Questo episodio del prigioniero di Corioli che l’aveva ospitato e del quale egli chiede la liberazione, ma non ne ricorda il nome, introduce un magistrale tocco psicologico sulla personalità dell’eroe. L’episodio è in Plutarco, dove però l’ospitante è “un ricco e onesto cittadino”: in Shakespeare diventa “a poor man”, senza nome, del quale nel dramma non si saprà più nulla; nemmeno se è stato liberato. “La magnanimità del condottiero non sa estendersi alla comune umanità, i poveri non hanno nome e perciò sono dimenticati” (Melchiori, “Shakespeare” Ripete, con altre parole, il concetto di prima: è sparito in lui ogni scrupolo d’onore; il suo valore - di cui l’onore è cospicuo componente - è avvelenato. Aufidio enumera qui tutte le situazioni che, secondo le leggi della cavalleria medioevale (ma agli anacronismi di Shakespeare siamo abituati) impedivano di perseguire un avversario: quando dormisse; quando trovasse asilo in un luogo sacro (“sanctuary”); quando assistesse in un tempio a funzioni religiose o sacrificali. A Corioli, occupata dai Romani. Questa scena, che chiude l’atto, chiude anche la serie di avvenimenti incentrati intorno all’impresa di Corioli, dalla quale Marcio ha tratto il suo soprannome. Il quadro è ormai completo: alla figura di guerriero violento e perfidamente machiavellico di Aufidio fa riscontro lo sfrenato orgoglio di Marcio, che disprezza e   insulta la soldataglia romana che pensa più a far bottino che a combattere, la saggezza politica di Cominio, il comportamento smargiasso dei notabili volsci che fanno tentare ai loro una sortita sotto gli occhi degli assedianti. “Will not you go”: è improbabile che il soldato dica ad Aufidio: “Tu non vieni?”, come intendono molti. Aufidio non può andare in una città occupata dai Romani, che sarebbe riconosciuto; e il soldato non può non saperlo. “In what enormity is Martius poor...”: “poor” non ha qui il senso di “povero”, “privo”, “difettoso”, ma di “contemptible”: altrimenti la frase non avrebbe senso. “... I mean of us of the right-hand file...”: solo al tempo di Shakespeare, nelle parate militari, la fila a destra del sovrano era riservata ai nobili. È uno dei soliti anacronismi shakespeariani. “... for a very little tief of occasion will rob you of great deal of patience”: letteralm: “... perché anche un piccolo furtarello d’occasione vi deruba di molta pazienza”. Senso: “A gente come voi basta il minimo pretesto per farla diventare sproporzionatamente irascibile e intollerante”. “One that loves a cup of hot wine”: “hot” sta qui per “generoso”, ma anche, secondo alcuni, proprio per “caldo”, il vino caldo (che però si diceva “mulled wine”) essendo molto in uso in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Si legga come si vuole.  Licurgo, il grande uomo politico greco, divenuto esempio di saggezza politica. “... I find the ass in compound”: letteralm: “... trovo l’asino in amalgama”, “un concentrato d’asineria”. Il testo ha “an orange-wife”, “una venditrice di arance”. Menenio parla qui come se i tribuni della plebe avessero anche funzioni giurisdizionali; il che non è storicamente esatto. Plutarco parla di loro come “magistrati”, ma nel senso classico di persone investite di pubblica carica.  “...(you)... set up the bloody flag...”: la bandiera rossa era la bandiera di guerra, o di resistenza nelle città assediate, in contrapposto alla bandiera bianca della resa.  “... against all patience”: cioè non curandovi, o a dispetto di quelli che aspettano giustizia. Ma si può anche intendere: “Contro ogni limite di tolleranza”. Il testo ha: “... the more entangled by your hearing”, letteralm.: “... tanto più imbrogliata dalla vostra udienza”. “... such ridiculous subjects as you”: “ridiculous” ha qui il senso di “risibile”, “da poco”, “insignificante”, non quello di “che fa ridere”. Con capelli e crini s’usava imbottire cuscini, sellame per cavalcature e anche palle da tennis. Deucalione è il corrispondente pagano del biblico Noè, progenitore dell’umanità, dopo Adamo. Il suo mito è che quando Zeus, nell’età del bronzo, scatenò sulla terra il diluvio per punire gli uomini, Deucalione costruì un’arca e vi entrò insieme con la moglie Pirra. I due, rimasti gli unici scampati al diluvio, su consiglio di Temi ripopolarono il mondo, gettando sassi alle loro spalle all’uscita del tempio della dea: i sassi scagliati da Deucalione diventarono uomini, donne quelli scagliati da Pirra. Galeno, il padre della medicina greco-romana, soprannominato “principe dei medici”, autore di circa 500 trattati. Solo che Galeno è vissuto nel II secolo dopo Cristo, dunque almeno 600 anni dopo Coriolano! “... is but empiricutic”: “empiricutique” nell’in-folio è, verosimilmente una deformazione, in chiave comico- dispregiativa, di “empirical”.  “... and not without his true purchesing”: letteralm.: “... e non senza che egli l’abbia pagate di tasca sua”. Coriolano ha bisogno di “vere” ferite da mostrare al popolo, quando ne chiederà il favore per ottenere il consolato. Perciò s’insiste qui sulla “verità” delle sue ferite. “God save your worships!”: “God” al singolare è nel testo, e così lo si è tradotto. Ma è invocazione cristiana. I pagani di Coriolano invocavano gli dèi (“Gods”). Coriolano aveva partecipato alla cacciata dei Tarquini da Roma (provocata dallo stupro che Tarquinio Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo, aveva fatto a Lucrezia) e alla instaurazione della Repubblica. Questa battuta di Volumnia, ritenuta di palese fattura non-shakespeariana, è omessa da molti testi; ma serve teatralmente a preparare l’ingresso in scena del corteo dei vincitori.  “My gracious silence, hail!”: questo saluto di Coriolano alla sua sposa contiene una tale carica di poetica tenerezza, che comunque tradotta diversamente dalla sua lettera, si perderebbe. Baldini traduce: “Mia tacita sposa”, altri “mia graziosa taciturna”, “mia bella silenziosa”... ma non è lo stesso!  “And live you yet?”: letteralm.: “E sei ancor vivo?”. Ma in italiano un saluto del genere è tutt’altro che un saluto. Si scusa con Valeria per non averla vista prima. “A curse... at very root on’s heart...”: “curse” qui non è “maledizione”, come intendono molti; il vocabolo, nell’inglese aveva lo stesso significato di “bane”, termine che esprime tutto ciò che distrugge fisicamente, fino a far morire; perciò “cancro”. “By faith of men...”: espressione da intendere non altro che come semplice esclamazione derivata dalla più usata “By my faith”, che riecheggia il francese “ma foi”. Non credo si possa intendere “Per la mia fiducia negli uomini” (Baldini e altri), che non sembra avere molto senso, specie in bocca a Menenio. “Ere in our own house I do shade my head”: “To shade his own’s head” significa “togliersi alla vista degli altri”, “to shade” avendo il senso di “screan”, “mask”, “recess”. “The good patricians must be visited”: qui, come altrove, Shakespeare chiama “patricians” i membri del Senato. Altro smaccato anacronismo: nella Roma di Coriolano gli occhiali non esistevano (furono inventati intorno al 1300 dopo Cristo!).  “... her richest lockram”: il “lockram” era un tipo di stoffa che prendeva il nome dall’omonimo villaggio della Britannia, dove si fabbricava. Qui deve trattarsi di una sciarpa o di una stola, se è indumento da “appuntarsi al collo” (“pins... about her neck”).  I Flàmini (“Flamines”) sono sacerdoti incaricati del culto di una singola divinità (per opposto a “pontefici”, sacerdoti del culto di tutti gli dèi). Erano così chiamati perché portavano attorno al capo scoperto, o intorno al berretto sacerdotale, un filo di lana (filamen). “... their nicely gawded cheeks”: si segue la lezione “gawded” in luogo della più corrente “guarded”, perché il termine esprime meglio - come verosimilmente Shakespeare abbia voluto - la civetteria femminile nella circostanza. “Gawded” è sinonimo di “gaudy”, “vistoso”, “sgargiante”. Nell’“Amleto” Polonio raccomanda al figlio Laerte, che va a vivere a Parigi, di vestire “rich, non gaudy”. Le matrone romane, in verità, non avevano la fobia del sole che avevano le dame inglesi, e non andavano velate per proteggere il viso dai raggi solari. Secondo Plutarco (“Vita di Coriolano”) era consuetudine che un generale romano che aspirasse al consolato dovesse presentarsi al popolo nel Foro, per chiederne il suffragio, indossando solo la “tunica dell’umiltà” (“the vesture of humility”), che era normalmente portata dalla povera gente e dagli schiavi; doveva inoltre mettere in mostra le cicatrici delle ferite riportate nelle guerre. La tunica era il capo di abbigliamento di uso generale; ma da sola la portava solo il popolo minuto e gli schiavi: i patrizi la coprivano con la toga; le matrone con la stola o la “palla”; i cavalieri con l’“angustus clavus”; i senatori col “laticlavio”. “Most reverend and grave elders”: “elders” è il corrispondente del latino “patres” con cui si chiamavano i membri del Senato, ritenuto esser composto tutto di uomini in età venerabile. “We are convented upon a pleasing treaty”: letteralm.: “Siamo qui convocati per una piacevole trattativa”. I due tribuni, si noti, si astengono dal nominare Coriolano: per loro è solo un “aderire a portare a buon esito la discussione su un ordine del giorno (“the theme of our assembly”)”.  “Ti ascoltiamo” non è nel testo. “I had rather one scratch my head in th’ sun / When alarum were struck...”: senso: “provo tanta smania di andarmene, per non star qui a sentir esaltare le mie gesta, quanto non ne proverei nemmeno se dovessi restare neghittoso a farmi massaggiare il capo da qualcuno, quando fosse squillato sul campo l’allarme di guerra”. Il che è tutto dire. “I shall lack voice. The deeds of Coriolanus / Should not be uttered feeby”: letteralm.: “Mi mancherà la voce. Le gesta di Coriolano non dovrebbero essere scandite da una voce flebile (come la mia)”. Nella Roma repubblicana il dittatore (“dictator”) era il magistrato investito dal Senato della suprema autorità civile e militare nei momenti difficili della nazione; l’incarico cessava col cessare delle condizioni che l’avevano reso necessario. “... with his Amazonian chin...”, cioè col suo mento ancora imberbe, da donna. Le Amazzoni erano le donne guerriere della mitologia greca, e il viso femmineo di Marcio giovinetto è messo in contrasto con le “baffute labbra” (“bristled lips”) dei nemici che egli batte. Al tempo di Shakespeare le parti femminili nel teatro erano sostenute da giovinetti imberbi, alle donne essendo vietato di far parte di compagnie drammatiche. Non così nella Roma di Coriolano. “... like a planet”: “planet” in senso figurativo indica vagamente un potere occulto che, come l’influsso d’una maligna stella, s’abbatte fatalmente su uomini e cose. “He cannot but with measure fit the honours which we devise him”: “Egli non può che essere adeguato agli onori che intendiamo decretagli”. “Fit with measure” è appunto “corrispondente”, “adeguato” (a qualcuno o a qualcosa) secondo il senso biblico di “measure” che include il concetto di paragone/contraccambio, come nel titolo della commedia “Measure for Measure”. “... and is content to spend the time to end it”: frase ambigua. L’interpretazione più comune è: “Usa il tempo senza ambizioni, senza pensar di trarne alcun vantaggio”. Qualcuno intende “it” come riferito idealmente al precedente “deeds” e traduce “è contento di spendere il tempo per compierle (le sue gesta)” (Lodovici). Questo racconto di Cominio ha una funzione fondamentale nella impalcatura della tragedia; quasi la prosecuzione della parola di Volumnia nella 3a scena del I atto, a completamento dell’immagine di Coriolano come forza cieca, per quanto nobile, della natura, alla quale immagine il poeta opporrà quella dell’uomo debole e indeciso, privo del tutto di senso politico: contrapposizione che è la ragione e il contrappunto teatrale di tutta la tragedia. Il candidato che chiedeva la carica di console doveva presentarsi al Foro, davanti al popolo e chiederne il suffragio. Roma, al tempo di Coriolano, è una repubblica aristocratica, cioè con il potere nelle mani dei nobili, ma il voto della plebe, per consuetudine non codificata, è necessario. “... to all the point of the compass”: “... per tutti i quattro punti della bussola (“compass”)”;... ma la bussola è stata inventata nel Medioevo!  “If it may stand with the tune of your voices...”: Coriolano gioca sul doppio significato di “voices”, che vale “voti” ma anche “voci”. S’è cercato di rendere il bisticcio alla meglio.  “... you have been a rod to her friends”: “rod”, “corda”, “nerbo”, “sferza”, era uno strumento di tortura. Altro bisticcio del testo inglese sul termine “common”. Il cittadino ha detto: “You have not indeed loved the common people”, dove “common” riferito a persone (“people”) ha il senso di “of inferior quality”, “of inferior value”; ma significa anche “comune”, “popolare”. Coriolano dice il suo amore per il popolo essere stato nei due sensi. “... and so trouble you no farther”: c’è chi intende qui: “E così vi tolgo il disturbo”, come se Coriolano stesse per andarsene; ma sono i due che se ne vanno, mentre Coriolano resta; sarebbe inoltre difficile, grammaticalmente, non vedere che quel “trouble” è retto dal precedente “will”. Questo monologo di Coriolano completa il ritratto che Shakespeare vuol fare dell’eroe; all’orgoglio si aggiunge e contrappone l’indecisione. Coriolano aborre il popolo, e la consuetudine che costringe a mendicare da esso il voto, ma alla fine l’accetta, ci si adegua, trovando un alibi al suo impulso a reagire a tale imposizione nel: “Sono ormai a mezza strada, meglio proseguire”. Sarà lo stesso conflitto interno a farlo cedere alle preghiere della madre e della sposa davanti alle mura di Roma. “... battles thrice six I have seen and heard of”: “Heard of” ha qui valore di “called to account for”: “Ho visto diciotto (tre volte sei) battaglie e altrettante volte ne ho riferito”. Il condottiero doveva riferire al Senato sullo svolgimento del fatto d’arme, come ha fatto Cominio qui per la battaglia di Corioli.  “... have you chose this man?”: si ricorderà che, come si son detti tra loro gli uscieri del Senato all’inizio della 2a scena del II atto, i candidati al consolato sono tre. Secondo una prescrizione d’allora, introdotta con l’istituzione del tribunato della plebe, il candidato alla carica di console, dopo che avesse ricevuto l’accettazione da parte del popolo, richiesta nella forma della vestizione della “tunica dell’umiltà”, doveva ricevere la conferma, con voto formale, dai “comitia tributa”, l’assemblea, appunto, di cui parla qui Sicinio. Il testo inglese gioca ancora sul doppio senso di “voices”. Questa genealogia della “gens” marcia, o marzia, è tratta di peso da Plutarco. Ma poiché Plutarco nomina questi personaggi senza datarli, Shakespeare mette qui in bocca a Bruto alcuni anacronismi: Bruto non poteva conoscere tutti i personaggi della “gens” che nomina, perché a lui posteriori, eccetto il primo, Anco Marzio, re di Roma. Caio Marcio Rutilio, detto il “Censorino”; Quinto è il Quinto Marcio costruttore dell’acquedotto dell’acqua detta appunto “marcia”, che è stato pretore. “... this Triton of the minnows”: si dice “a Triton of or among the minnows” di uno che appare grande solo grazie all’estrema piccolezza di quelli che gli stanno intorno. Tritone è il dio marino del mito classico; “minnows” è la minuzzaglia ittica. Il mitico serpente dalle molte teste che infestava le paludi di Lerna e le cui teste rinascevano appena tagliate. L’immagine della folla come “mostro dalle molte teste” è frequente in Shakespeare. “... being but the horn and the noise o’ th’ monster”: che l’Idra avesse un corno attraverso il quale diffondere il suo strepito, non sta scritto in nessun luogo, ma l’immagine serve a Shakespeare per designare il tribuno come “portavoce” del mostro. Questo discorso di Coriolano sulla distribuzione del grano alla plebe, come la seguente apostrofe ai senatori, sono tratti quasi di peso dal testo della “Vita di Coriolano” di Plutarco, nella traduzione inglese del North. È quasi un secondo monologo dell’eroe, che sbozza ancor meglio la sua immagine di rappresentante dell’aristocrazia al potere, e getta altra luce sulla lotta delle due classi, la patrizia e la plebea, nella Roma agli albori della repubblica.  “... by yea and no of general ignorance...”: “general” è qui da intendere come sinonimo di “common”, che equivale a “belonging to a given community” (“Oxford International Dictionary”).  “Therefore beseech you / You that will be less fearful than discreet...”: letteralm.: “Perciò vi supplico / Voi che volete avere in voi meno timore che discernimento...”; frase, in italiano, insopportabilmente artificiosa. “... dal corpo dello Stato...” non è nel testo. “Your dishonour”: “Il vostro disonore”, ma si capisce che è un disonore imposto dall’esterno a gente onorata. In italiano, “il vostro disonore” suonerebbe ambiguo. “Has said enough”: intendi: quanto basta a confermarlo nemico del popolo. “... when what’s not meet, but what must be, was law...”: letteralm.: “... quando era legge non ciò che era lecito fare, ma ciò che si doveva fare per imposizione”. Gli Edili erano magistrati con funzioni amministrative di custodia dei pubblici edifici (“aedes”, donde il nome), oltre che dei templi, e di organizzazione di pubblici spettacoli. Al tempo di Coriolano si chiamavano “aediles plebis”, e affiancavano i tribuni nella difesa degli interessi civili della plebe. Donde il loro intervento qui. Come i tribuni, erano due e duravano in carica un anno. Successivamente ad essi se ne aggiunsero due, detti “curuli”, dalla “sedia curule” (“sella curulis”) simbolo di tutte le magistrature dello Stato; questi potevano essere eletti anche tra i patrizi. “One time will owe another”: letteralm.: “Un momento sarà debitore all’altro”. S’è dovuto tradurre a senso. “When it stands against a falling fabric”: s’è reso “stands” con “pretende di tenere in piedi” e non come intendono molti, con “s’oppone”, per evitare l’immagine peregrina data dal “volersi opporre” ad un edificio che sta per crollare.   “His nature is too noble for the world”: “world” ha qui il senso di “interests of the present life” o anche “state of human affairs” (v. “Oxford International Dictionary”, alla voce). “Where you should but hunt with modeste warrant”. Senso: “Laddove dovreste esercitare i vostri poteri con maggior discrezione”. L’immagine è tolta dal linguaggio venatorio, dove “warrant” era il permesso di esercitare la caccia entro un certo raggio e in certi periodi dell’anno. Questa battuta è attribuita da molti, compreso l’autorevole “New Arden”, a Menenio, con il senso d’una interrogazione che questi rivolge a Sicinio a continuazione del suo traslato dell’arto infetto: “E se un piede va in cancrena, vuol dire forse che i servizi resi da esso quand’era sano non si debbano tenere in conto?”; ma m’è sembrato che la battuta, in bocca a Sicinio, s’attagli meglio al contesto. Il testo ha “This tiger-footed rage”, “Questo furore dalle zampe di tigre”, ossia violento, precipitoso e famelico. “Let them pull all about mine ears”: “to pull (something) about one’s ears” è frase idiomatica usata nel senso di provocare una pioggia di oggetti sul capo o il crollo di una casa su qualcuno, e simili. La ruota era uno strumento di tortura: il condannato veniva legato intorno al suo cerchio e dilaniato dai chiodi che essa incontrava girando.  “Wollen vassals”: le robe di lana erano la veste dei poveri. I ricchi invece vestivano di seta. “Vassal” è “umile servitore”, col senso di moralmente abbietto. “To buy and sell with groats”: “da comprare e rivendere a pochi soldi”. Il “groat” (dal latino medioev. “grossum”, italiano “grosso”) era una moneta di poco valore (circa 1/8 di oncia d’argento) in circolazione in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Era il “soldino” senza valore per eccellenza (cfr. il titolo del pamphlet di Greene “A groatsworth of wit bought with a million of repentance”, uno dei rari scritti dell’epoca in cui si può scorgere un accenno alla persona di Shakespeare). “I would had you put your power well on / before you had worn it out”: Volumnia qui paragona la carica di console di suo figlio ad un vestito da indossare (“put on”) e che egli, prima ancora di indossare, ha ridotto liso (“worn out”). “Figlio mio” non è nel testo. “Not by your own instruction”: “instruction” è termine che contiene la nozione di intelletto affinato dall’istruzione - ispirazione raziocinante - per contrapposto al sentimento (“passion”), ispirato dal cuore. “Ispirazione” è piuttosto riduttivo, ma non si è trovato termine più proprio. Queste esclamazioni di Menenio - la prima e la seconda - punteggiano drammaticamente, come un applauso, la grande “tirata” di Volumnia, che dà lezione di politica al figlio riecheggiando sorprendentemente MACHIAVELLI (si veda) (che Shakespeare non risulta conoscesse). Il principe che, per regnare, deve guadagnarsi il favore del popolo, a costo di essere “gran simulatore e dissimulatore” (“Il Principe”); l’arte politica che richiede, in chi la esercita, d’essere ad un tempo leone e volpe, colomba e serpe, sono tra i massimi insegnamenti del grande Segretario fiorentino. Coriolano, uomo d’arme e di cuore, quest’arte non possiede; ne è tragico segno la sua domanda: “Che debbo fare?”, che corona, con l’immagine dell’uomo indeciso e votato ormai al suo destino, lo scontro verbale dell’eroe “too absolute” con la machiavellica e volitiva genitrice.  Il “cappello in mano” in segno di ossequio è immagine ed espressione del parlare del tempo di Shakespeare. I Romani non avevano altro copricapo all’infuori dell’elmo. “Must I go show them my unbarbed sconce?”. La frase è volutamente ambigua, perché può anche significare: “Devo andare a mostrar loro la mia fortezza indifesa?”. Perché “sconce” ha il doppio significato di “testa”, “zucca” e di “fortezza”, “roccaforte”; e “unbarbed” significa “senza peli”, “senza capelli”, ma anche “indifesa”. Il significato figurato si attaglia perfettamente al discorso. “I will not do’t lest I surcease to honour mine own truth”: letteralm.: “Non lo farò, almeno ch’io non voglia rinunciare ad onorare la mia intima verità”. Il senso di questa richiesta di Sicinio all’Edile è così spiegato da Plutarco (“Vita di Coriolano”): “Congregandosi dunque il popolo, tentarono i tribuni con ogni sforzo in prima che si rendessero i voti non a centurie, ma a tribù, perché in questo modo la turba vile dei poveri e saccenti, che non tien conto d’onore, veniva ad aver più forza nei voti, ciascuno porgendo il suo, di quanta non avessero gli abbienti e conosciuti, che andavano alla guerra”. Le “centurie” erano le 193 divisioni in cui Servio Tullio aveva ripartito i cittadini di Roma secondo il censo. “Every feeble rumour”: ogni voce di pericolo (per la presenza di nemici dall’esterno); si capisce da quel che dice dopo.  Le piume dei loro cimieri, s’intende. Di quale porta si tratti, non si sa. I testi non hanno alcuna didascalia per questa scena; si capisce, tuttavia, che essa si svolge presso una porta di Roma. La plebe: Coriolano l’ha chiamata così prima.  “... with precepts that would make invincible...”: il “would” è palesemente riferito alle intenzioni della madre nel dare al figlio i precetti; il che giustifica, nella traduzione, il “dovevano”. “Ti ricordi?” non è nel testo. Il testo ha “... with one / that is umbruised”,“... con uno che non è contuso”, e prosegue la metafora del corpo (di Cominio) sopraffatto (“too full”) dalle fatiche della guerra. Il testo ha “Ora che abbiam mostrato il nostro potere” (“Now we have shown our power”). “Are you mankind?”. C’è chi ha creduto di vedere in questa battuta di Sicinio una sottile intenzione di equivoco, perché la frase significherebbe anche “Siete matte?”. Ma il senso di “matto” in “mankind” non si trova in alcun testo; e del resto la risposta di Volumnia sarebbe diversa, perché la donna avrebbe capito l’allusione. Giunone è il simbolo dell’ira femminile vendicativa. Prese parte alla sommossa degli dèi contro lo stesso suo marito, Zeus (cfr. VIRGILIO (si veda), “Eneide”: “saeve memorem Junonis ob iram”). “Strange insurrections”: “strange” qui ha il valore di “abnormal”, “unknown”, “unfamiliar”. “I have deserved no better entertainement / in being Coriolanus”: “Non m’aspettavo miglior trattamento, essendo Coriolano”; ma mi pare grammaticalmente errata (“I would have...” sarebbe stato d’obbligo) e incongrua di senso (il servo non sa di trovarsi di fronte a Coriolano). “Under the canopy”: “canopy” è il baldacchino sospeso su un trono, un letto, un altare, tradizionale segno di regalità; ma in senso figurato vale “cielo”, “firmamento” (il baldacchino del cielo). Coriolano, giocando sul doppio senso, si attribuisce la regalità. Che cosa sia questa città, nella mente di Coriolano, è incerto; forse egli allude all’esilio o al campo di battaglia. È comunque, una figurazione sinistra: l’unico esempio - secondo iBradley - in tutto il dramma di accostamento della Natura a uno stato d’animo.  “Then thou dwells with daws too”. Doppio senso: “Daw”, “taccola” (uccello della famiglia dei corvacei) è usato familiarmente anche per “simpleton”, “sciocco”, “scemo”. “Che m’hanno dato a Roma” non è nel testo inglese. I servi sono introdotti qui quasi in funzione di coro; le loro battute preparano e, alla fine, commentano, quasi fosse uno spettacolo, lo “strano” incontro tra Coriolano e Aufidio. Nel loro dialogo rozzo e ironicamente dissacrante s’avverte la tragica impossibilità di un accordo tra i due grandi guerrieri, la cui cordialità presente nasconde, in Aufidio, l’invidia e il sordo quasi inconscio desiderio di rivalsa, e in Coriolano e nella sua forzata “voglia di servire” il nemico, l’intima debolezza che lo porterà a cedere alle preghiere della madre e della sposa.  “Whilst he’s in directitude”: sta verosimilmente per “in discredit”. È uno degli “humourous blunders”, strafalcioni lessicali che Shakespeare si compiace di mettere in bocca ai suoi personaggi minori, per l’ilarità del pubblico. “The wars for my money”: l’espressione colloquiale “for my money” in frasi come “this is for my money” equivale a “this is what I desire”, “this is my choice”, eccetera. “His remedies are tame”: frase di senso ambiguo, che si può intendere diversamente, a seconda del senso che si dia a “his”, “i suoi rimedi”, e cioè: “i rimedi che egli può adottare contro di noi”, oppure “i rimedi che noi abbiamo contro di lui”: s’è preferita la prima, intendendo “remedies” nella sua accezione di “means of counteracting an outward evil” (“Oxford Dictionary”), traducendo a senso.  “And affecting one sole throne without assistance”; letteralm.: “E aspirando ad esser solo in trono senza collega”. I consoli, nella Roma repubblicana, erano due. “You and your apron-men”: il grembiule, normalmente di pelle, era, in certo modo, il distintivo di chi esercitava a Roma un mestiere e che, non essendo né nobile né cavaliere, apparteneva alla plebe (cfr. “Giulio Cesare”: “Where is thy leather apron?”). Allusione alla leggenda dei pomi d’oro delle Esperidi che Ercole, per ordine di Euristeo, andò a rubare nel giardino di quelle, custodito dal drago Ladone.  “... and you’ll look pale before you find it other”. Senso: “Morirete di vecchiaia, prima di poter dimostrare che non è vero”. Si capisce che “quelli” (“these”) si riferisce a Cominio e Menenio testé usciti.  “Do they fly to th’ Roman?”. Qui “fly to” ha piuttosto il significato di “to flee from” che contiene l’idea di chi fugge da un luogo ad un altro, oppure “sfugge” ad una certa situazione; ed è l’idea insita nella domanda di Aufidio che vede i suoi soldati abbandonare sempre in maggior numero le sue file attratti dal fascino di Coriolano. È l’inizio del voltafaccia di Aufidio e la svolta del dramma. Tutta la scena sarà lo spiegamento di questo stato d’animo dell’eroe volsco, che verso Coriolano, poco prima amato ed ammirato, cova un odio mortale. Il suo colloquio col luogotenente ne farà risaltare il carattere torbido, ambiguo, tortuoso, teso quasi inconsciamente alla fine dell’avversario, che lo sovrasta. “... as the grace fore meat...”: è ancora Shakespeare che anacronisticamente attribuisce ai tempi di Coriolano un uso, come quello della preghiera di ringraziamento prima e dopo i pasti, tipico della civiltà del suo tempo. La frase è ambigua, come è oscuro il concetto del passo seguente, quasi sicuramente guasto. A quale “merito” di Coriolano si riferisca Aufidio non è chiaro, forse all’unico ch’egli possa apprezzare: quello di aver tradito Roma per venire da lui. Il testo ha: “A mile before his tent, fall down”: “un miglio prima della sua tenda, cadete in ginocchio”; a parte l’anacronismo del miglio, si tratta di un’esagerazione dialettica di Cominio per sottolineare la colpevolezza dei tribuni.“A noble memory!”: è come se Menenio dicesse: “Scriveremo sulle vostre tombe, come epitaffio, quando sarete morti: - Fecero il necessario perché Roma avesse il carbone a buon mercato -”; cioè fosse tutta ridotta a carbone. “He does sits in gold”. Coriolano che siede su un seggio d’oro come un trionfatore circonfuso di gloria poco prima della sua tragica fine: un magistrale espediente del drammaturgo ad accentuare il contrasto delle tinte del dramma. “And his injury / the gaoler to his pity”: “... e l’ingiuria (da lui sofferta ad opera dei Romani) a far da carceriere perché non esca da lui il minimo moto di pietà”.   “Thoug it were as virtuous to lie as to live chastely”: è il solito gioco di doppi sensi sulla parola “lie” che significa “mentire” e “giacersi” (nel senso sessuale).  “Nay, but fellow, fellow...”: la battuta lascia intendere che Menenio ha visto arrivare Coriolano.“Col tuo superiore” non è nel testo. È la scena culminante del dramma. Con l’ingresso, in silenzio, della madre e del figlioletto dell’eroe nella tenda di questi, Shakespeare ha bisogno di guardare, in un soliloquio che sarà l’ultimo, nell’animo di Coriolano e scavarne i più intimi sentimenti, suscitati dallo svolgersi fatale dell’azione. È la lotta dell’eroe contro il suo destino, che lo vedrà ineluttabilmente perdente. Si confronti questa esclamazione con quella di Antonio nell’“Antonio e Cleopatra”: “Let home in Tiber melt, and the wide arch/ of the ranged empire fall...”, che accomunano, nelle due tragedie, la catarsi dell’eroe.  Cioè “io ti vedo in una luce diversa da quando ero a Roma”. È l’ultima espressione di irrigidimento dell’eroe. La battuta seguente dirà che la piena degli affetti lo ha già vinto. È uno dei frequenti riferimenti di Shakespeare, uomo di teatro, a immagini del mondo del teatro. La gelosia di Giunone è proverbiale. Shakespeare la ricorda spesso nei suoi drammi.  “To your corrected son?”: frase ambigua, che si può intendere “(davanti) al tuo figlio punito (da Roma, col bando)”, oppure “(davanti) al tuo figlio da te rimproverato”. S’è scelta la seconda. Diana è la dea protettrice della castità virginale. Il suo tempio a Roma era stato eretto da Servio Tullio sull’Aventino. Secondo Plutarco, è Valeria che spinge Volumnia e Virginia a recarsi da Coriolano.  Indica Valeria. Così nel testo: “thy wife and children’s blood”; una evidente distrazione dell’Autore indotta dal fatto che in Plutarco (“Vita di Coriolano”) i figli di Coriolano sono due, laddove Shakespeare ha assegnato all’eroe solo il piccolo Marcio.  Testo: “... will be dogged with curses”: “... sarà inseguito da una canea di maledizioni”. Si è creduto di ampliare, nella traduzione, la bella immagine venatoria. Plutarco, unica fonte di Shakespeare per questo suo dramma, narra che, tornate a Roma, la madre e la moglie di Coriolano, insieme a Valeria furono salutate in Senato come salvatrici della patria e vennero loro offerti dallo stesso Senato onori e ricompense, che esse rifiutarono, solo chiedendo che fosse eretto un tempio alla “Fortuna muliebris”, sulla Via Latina. Sparatorie, al tempo di Coriolano, evidentemente, non ce n’erano, e Menenio non poteva pensare a un siffatto termine di paragone. È un altro dei frequenti anacronismi del poeta. Alcuni di questi strumenti - come la sambuca e il salterio - non esistevano al tempo di Coriolano: è un altro degli scusabili e, per certi versi, suggestivi, anacronismi di Shakespeare. Plutarco (“Vita di Coriolano”) pone questa scena e tutti gli eventi che seguono, fino alla morte di Coriolano, ad Anzio, dove l’eroe è tornato con l’esercito volsco. L’ubicazione della scena a Corioli sembra tuttavia giustificata dalle parole del 1° Congiurato: “Your native town you entered”, e da quelle dello stesso Aufidio: “Though this city he hath widowed...”. Il testo ha “una pace onorevole per Anzio”. “Pages”: il termine sta ad indicare, spesso in senso spregiativo, qualsiasi persona, di sesso maschile, addetta a mansioni umili e subordinate; nel gergo militare le “ramazze” sono gli uomini addetti alle pulizie delle caserme. thou has made my heart / too great for what contains it...”; letteralm.: “... m’hai fatto diventare il cuore troppo grosso per quello che lo contiene. Keywords: CORIOLIANO, ovvero, la filosofia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrando” – The Swimming-Pool Library. Guido Ferrando. Ferrando

 

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