Grice e Ferrabino: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale della terza Roma – la base mitologica del latino –
scuola di Cuneo – filosofia cuneana – filosofia piemontese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Cuneo).
Filosofo cuneano.
Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Cuneo, Piemonte. Grice: “I like
Ferrabino; if I were not into the unity of philosophy, I would say he is a
philosophical historian – and a Roman historian, too! Strictly, a philosopher of Roman history, alla
Gibbon!” “Si compie il mio ottantesimo
anno. Declinano le stelle della sera sulla diuturna milizia di storia e di
magistero che fu la mia vocazione, non tradita ma superata. Misticamente
m'accoglie la dimora del Verbo dove l'Io s'incontra col suo Dio nascosto.” Figlio
di Angelica Toesca, donna sensibile e generosa e di Vincenzo Agostino,
funzionario dello Stato, uomo dalla natura affettuosa e sobria e di idee
agnostiche, che per questo motivo non volle far battezzare i figli. Compe il
primo ciclo di studi dimostrandosi subito allievo modello e con rare doti di
intelligenza. Prosegue gli studi classici a Cremona, e quando la famiglia
dovette nuovamente trasferirsi in Alessandria, terminato il Liceo, si iscrive a
Torino. Inizia a frequentare assiduamente l'ambiente universitario dedicandosi
con il massimo impegno allo studio e dando lezioni private per non dover pesare
troppo sulle finanze paterne. Il suo tutore è Graf. Verso il terzo anno iniziò
a seguire con crescente interesse la filosofia antica frequentando le lezioni
di SANCTIS (si veda), sotto il quale si laurea con “Kalypso”. Insegna a a
Torino, Palermo, Napoli, e Padova. È rettore dell'ateneo fino al anno in cui
ottenne la cattedra di filosofia romana presso a Roma. Morta la moglie, F.
conclude il suo periodo di avvicinamento alla religione cattolica facendosi battezzare.
Sposa Paola Zancan, proveniente da agiata e cattolica famiglia, con la quale si
stabil a Roma. Inizia in quel periodo a frequentare "La Cittadella d’Assisi"
diventando grande amico di ROSSI (si veda), fondatore di “Pro Civitate Christiana”
e “La Rocca”. Ad Assisi, F. prende l'abitudine di trascorrere con la moglie e
le nipoti lunghi periodi durante le vacanze estive alternate a quelle trascorse
a Fregene. Venne eletto senatore per la democrazia cristiana e rimane al Senato.
Divenne presidente dell’ENCICLOPEDIA ITALIANA, incarico che detenne, insieme a
quello di direttore scientifico. Èstato intanto incaricato di presiedere al
Consiglio Superiore dell’Accademie e promosse il Centro nazionale per il
catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche
diventandone il presidente. Divenne corrispondente dell'Accademia del LINCEI e
corrispondente nazionale della stessa e presidente dell'Istituto italiano per
la storia antica. Presidente della
Società Nazionale "Dante Alighieri" e insieme a Cappelletti (si veda),
fonda "Il Veltro". Pubblica sull'Italia
romana, l'età dei Cesari, la filosofia fatalistica della storia. Alter opere:
“Calisso: la storia di un mito” (Bocca, Torino) – with a section on the myth among the Latins, and a
later section on the treatment by Roman authors, “Arato di Sicione e l'idea
federale” (Monnier, Firenze); “L'impero ateniese” – note that it’s Roman empire
and impero ateniense, but BRITISH empire not London empire, and American
empire, rather than Washington empire – “La dissoluzione della libertà nella
Grecia antica” (Milani, Padova); “L'Italia romana” (Mondadori, Milano); “GIULIO
(si veda) Cesare” (Unione Tipografica, Torinese); “La vocazione umana” (Edizione Ivrea, Ivrea); “L'esperienza Cristiana”
(Libreria Draghi, Padova); “Le speranze immortali” (Società per Azioni,
Padova); “Trilogia del Cristo” (Le tre venezie); “Adamo” (Morcelliana, Brescia);
“Le vie della storia romana” (Sansoni, Firenze, “Rivelazione e cultura” (La
Scuola, Brescia); “Storia dell'uomo avanti e dopo Cristo” (Pro Civitate
Christiana, Assisi); “L'essenza del Romanesimo” (Tumminelli, Roma); “L'inno del
Simposio di S. Metodio Martire” (Giappichelli, Torino); “Storia di Roma” (Tumminelli,
Roma); “La filosofia della storia” (Sansoni); “Trasfigurazioni” (Martello,
Milano); “Pagine italiane, Il Veltro,
Roma); “Misticamente” (Stamperia Valdonega, Verona); “La bonifica benedettina”
(Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia dell'Arte Antica: Classica e
Orientale, (presidente), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, Dizionario
Enciclopedico Illustrato, Jannaccone,
Sturzo, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Treccani, Roma, Nel
Centenario Della Battaglia Del Volturno, Ente Autonomo Volturno, Napoli. Prefazione
in Misticamente, Verona, L'Erma di Bretschneider,
Il figlio dell'uomo (nella testimonianza di Matteo) II: Il figlio di Dio (nella
testimonianza di Giovanni) III: Il
risorto (nella testimonianza di Paolo), Lincei, Roma. Treccani, Dizionario biografico
degli italiani. Roma è il sogno de' miei giovani anni, l'idea-madre nel
concetto della mente, la religione dell'anima; Cv'entrai, la sera, a piedi, sui
primi del marzo, trepido e quasi adorando. Per me, Roma è - ed è tuttavia
malgrado le vergogne dell'oggi - il Tempio dell'umanità; da Roma escirà quando
che sia la trasformazione religiosa che darà, per la terza volta, uni- tà
morale all'Europa!. Così, MAZZINI (si veda) ricorda il proprio ingresso nella
città poco dopo che vi era stata proclamata la repubblica; e, insieme a ciò, ribadiva
l'importanza che Roma aveva nella sua visione politica, secondo la quale
l'unità e l'indipendenza d'Italia si collegavano a una missione universale di
liberazione dei popoli e a una vera e pro- pria riforma religiosa. Dopo la Roma
dei Cesari – GIULIO (si veda) Cesare -- e la Roma dei Papi, affermava in tono
profetico Mazzini, sarebbe nata la Roma del Popolo, centro della nuova
religione dell'umanità. Si trattava di una. concezione peculiare, in cui
confluivano tuttavia vari elementi .dell!! cultura dell'epoca: dall'enfasi con
cui il romanticismo aveva predi- cato l'idea della particolare missione di
ciascun popolo, al posto che l'istruzione scolastica riservavaalla storia
greco-romana, alimentan- do indirettamente la passione per le idee di libertà e
di repubblica. È indicativo che anche in un uomo dalla cultura piuttosto
approssi- mativa come Garibaldi avesserolargo spazio concetti fon- dati su
reminiscenze classiche, in primo luogo romane, da cui deri- torità moderatrice
del pontefice; inoltre il «primato» italiano veni- va fatto dipendere proprio
dalla presenza di quella Roma «cattolica e poqtificale» che Mazzini voleva
invece distruggere. Tuttavia era anch'esso un modo di'legare inscindibilmente
Roma all'Italia. Non era sempre stato così. Nei primi decenni del secolo - ha
scritto Chabod. Roma era stata relegata sullo sfondo e, in sua vece, entusiasmi
e affetti s'eran riversati verso l'Italia medievale, l'Italia dei Comuni, di
Pontida, della' Lega Lombarda e di Legnano, l'Italia di Gregorio VII e di
Alessandro II!, o, ancor più su, l'Italia di Arduino, nella quale s'eran visti
gli albori della nazione italiana»2.Dopo la Repubblica romana del 1849,invece,
il richiamo a Roma divenne centrale nel processo di indipendenza nazionale, per
l'aura di gloria che aveva accompagnato la sconfitta e anche per il particolare
ruolo di traino che su questo argomento svolsero Mazzini e i democratici. Ma
l'importanza di quel richiamo dipende, in fondo, dalle peculiarità stesse
dell'idea nazionale italiana, che s'era fondata e costruita su richiami al
passato e alla tradizione culturale che ben difficilmente avrebbero potuto
prescindere da Roma. L <<Rompaer me è l'Italia», scrive Garibaldi nelle
sue memorie3. E non diversamente pensava un democratico pur così lontano dal
profetismo mazziniano come Cattaneo. Anche Cavour ebbe a riconoscere quel nesso
strettissimo, affermando nel famoso discor-. ì'- sodel25marzo1861che<< Roma
sola deveessere la capitale d'ItaLlia. .Dopo la spedizione tentata da
Garibaldi, Romao o morte divenne la parola d'ordine de~~e~~~~ E~.!:!c~i), I~trog~)
Verni che parevano loro dimentichi àel comploo-supremodi riCongIunge- re la
città all'Italia. Gli uomini della Destra, in realtà, eranoimpe- gnati ad
affrontare le grandi e gravi questioni legate alla costruzione del nuovo Stato
e, per la soluzione del problema di Roma, confida- vano soprattutto nel
formarsi di condizioni internazionali favorevo- li (ciò che avvenne appunto nel
1870). Anche i moderati tuttavia, benché estranei alla concezione eroicizzante
della politica comune a tanta parte della Sinistra, erano partecipi a modo loro
del mito di Roma. La presenza nell'Urbe, in quanto centro della cattolicità, di
un'idea universale induceva infatti, nei democratici come nei mode- rati, la
convinzione che da Roma italiana avrebbe dovuto irradiarsi ~- 2F. Chabod,
Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari, Laterza, Treves,
Videa di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano- Napoli, Ricciardi,
Cavour, Discorsi parlamentari, a cura di D. Cantimori, Torino, Einaudi,
TIfascino dell'idea di Roma andava ben oltre l'area di influenza del
mazzinianesimo. Si irradiava infatti anche negli ambienti neoguelfi, sullascia del
giobertiano Primatomoralee civile degliItaliani. Certo, quest'opera si
collocavaper molti aspetti agli antipodi del disegno mazziniano: contro l'idea
di ridurre l'Italif-lad un unico Stato Gioberti proponeva una confederazione
«sotloTiìu- 'Mazzini, Note autobiografiche, Milano, Rizzoli,
messa~&!o anch'esso universale: la nuova religione dell'umanità f p r
MazzInl, la libertà religiosa (cioè la separazione tra Stato e Chie- sa) per
molti esponenti della Destra, oppure il trionfo dd libero pensiero e della
scienza sulle rovine dell'«oscurantismo clericale», secondo quanto auspicavano
soprattutto gli esponenti della Sinistra5. I sogni d'una missione che la nuova
Roma ayrebb~ ~ovuto an- vunciare àl-morido-stndèvano' piùes' eÌnéntecon1a
reaIiJiai uno"Sfa- to'debole e arretrato, e di modesta caratura
internazionale. Così il mito mazziniano della terza Roma si dissolse presto, e
analoga sorte toccò alle speranze di un rinnovamento religioso che si
irradiasse dalla nuova capitale o alla visione di una missione di Roma quale
centro universale di scienza.Tuttavia, Roma avevarappresentato un «mito
animatore» dd Ri~rgimento (secondo una definizitJhe di Volpe) 6,era ormai
troppo connessa con l'idea italiana, perché i fantasmi romani, tanto lungamente
evocati, potessero dav- vero dileguarsi. L'invito, che pure qualcuno formulò, a
«dimentica- re il passato» dovevadunque rimanere disatteso, e il richiamo a
Roma avrebbe influenzato a lungo il modo in cui gli italiani consideravano se
stessi e il proprio paese. i I Ii I I ~ j guerriera e con,qui~tatrice,cara
soprattutto ai nazionalisti, sensibili .per parte loro anChe al fascino che
emanava dalla Roma cristiana, alla.Roma laica e anticlericale cdebrata da
democratici e massoni nei' cotilizi dd 20 settembre. Ma proprio questo è una
conferma della pervasività dd tema, dellasuaineliminabilitàdaldiscorsopub-
blico dell'epoca. Ciò non toglie che nelle evocazionidd mito di Roma (e di
molteplici e diversi miti, anzi) ci fosse molto artificio e un sen- tore,
spesso, di imparaticcio ginnasiale;questo non dipendeva però - come a molti è
sembrato - da una co!maturata propensione degli italiani agli eroismi verbali e
alla retorica magniloquente, ben- sì dall~particolare storia dd nostro paese rlSenzagli
ideali «romanh> non V]sarebbero state molte delle tragedie che hanno segnato
la storia dell'Italia unita; <<ma, probabilmente - osservava Rosario
Romeo-, non ci sarebbe stata neppure l'Italia»8. La permanenza e diffusione dei
miti romani dipese anche dal- l'insegnamento di una scuola che fu in larga
misura di impronta carducciana. Carducci, infatti, ebbe un ruolo essenziale nd
diffon- dere gli ideali risorgimentali tra le nuove generazioni, ma anche, per
ciò stesso, nd tener deste aspirazioni e mitologie romane che a que- gli ideali
erano inscindibilmente connesse. Cdebrò la <,deaRoma» in tanti versi famosi,
mandati a memoria da generazioni di italiani; !masoprattutto
alimentòilriferimentQa Roma come base di un confronto tra la viltà dd presente,
da un lato, e, dall' altro, l'antica gran- , dezza e l'eroismo romano degli
uomini dd Risorgimento. In sostanza, Carducci tradusse e diffuse in poesia un
giudizio formulato da Mazzini. Questi aveva stigmatizzato che l'Italia fosse
andata in Roma «codardamente»; e il poeta, da parte sua, cantò l'epopea risibile
dell'Italia che sale in Campidoglio tra lo starnazzare delle oche. Mazzini
riservò parole di fuoco a un'Italia unita «corrotta in sul nascere e diseredata
d'ogni missione», a uno Stato cui mancava «l'ali- to fecondatore di Dio,
l'anima della Nazione»9.E Carducci fissò in versi assai noti 1'opposizione tra
1'aspirazioneitaliana a rinnovare la gloriadi Roma e la realtà meschirtadiunan UOVB!lisanzio.
Così,nd MITO DI ROMA rivisitato da Carducci, si materializzavaun demento di
fondo della cultura politica dell'Italia unita, una specie - potremmo dire - di
bovarismo nazionale, c.onsistente nella difficoltà acommisurareimezziaifini,nd
rimproverocostantedd sognoalla realtà, nella oscillazione perenne tra
sentimenti di superiorità e un senso amaro di inadeguatezza. 8R Romeo, Vitadi
Cavour, Bari, Laterza.Note autobiografiche, (da una lettera). Nell'ultimo
tratto dell'Ottocento, cioè nell'epoca dell'imperialismo e deIcolonialismo,
~Q~~ venne invocata a giustificazione ! di un particolare diritto italiano
all'espansione e della necessità che il..n.1JQv~'. Regengouagliassela grandezza
dei suoi progenitori roma- ni. Questo, ad esempio, proclamò Crispi, che in
gioventù era stato mazziniano. E in effetti di questo spostamento dd mito della
terza Roma dalla emancipazione dei popoli alla espansione della propria nazione
si trova qualche traccia già nell'ultimo Mazzini, che rilevava nd 1871 come, nd
<<motoinevitabilechechiama l'Europa aincivili- re le regioni Mricane»,
Tunisi dovesse spettare per contiguità geo- graficaall'Italia. Esullecimedell'Adante-
proseguiva- svento- lò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il
Mediterra- neo si chiamò Mare nostro. Fummo padroni, fino al V secolo, di tutta
quella regione. Oggi i Francesi l'adocchiano e l'avranno tra non molto se noi
non l'abbiamo»7. Certamente, nell'Italia liberale i riferimenti a Roma ebbero
vari, e spesso opposti significati:si andava dalla cdebrazione dell'Urbe .( I ,
Su tutto ciò resta fondamentale Chabod, Stona della poli#ca estera italiana, Mazzini,
Politica internazionale, in Scritti editi ed inea#hImollt, Volpe,Italiamoderna F,irenze,
Sansoni, Galeati. Ricerca Terza Roma
concetto storico Lingua Segui Modifica Terza Roma o Nuova Roma è un'espressione
che ha due accezioni. Aquila bicipite, stemma imperiale dell'Impero Romano
d'Oriente. Si può riferire alla città russa di Mosca, intendendo in questo caso
per «prima Roma» l'antica capitaledell'Impero Romano e per «seconda Roma» la
città di Costantinopoli, oggi Istanbul, ex-capitale dell'Impero Bizantino o
Impero Romano d'Oriente. Per «Terza Roma» ci si può riferire anche alla
terza epoca della città di Roma: quella in cui assolve il ruolo di capitale
d'Italia, seguita alle prime due epoche, quella della Roma dei Cesari e quella
della Roma dei papi. Uso del termine per Mosca. Uso del termine in Italia.
L'espressione «Terza Roma» venne usata anche da Giuseppe Mazzini durante il
Risorgimento italianoriferendosi al superamento sia della Roma antica sia della
«Roma dei papi»: la terza epoca della storia di Roma avrebbe dovuto essere
contraddistinta dai nuovi ideali patriottici di libertà e uguaglianza con cui
fare da modello all'Italia e all'Europa intera. L'ideale mazziniano sarà
ripreso in epoca fascista e riadattato da diversi esponenti del regime come
Enrico Corradini, che interpretarono la Terza Roma come l'avvento di una nuova
civiltà. Lo stesso Mussolini, in un discorso pronunciato in Campidoglio,
profetizzava una nuova era per Roma che avrebbe visto il territorio dell'Urbe
espandersi fino ad approdare a uno sbocco sul mare.[3] Una lunga
citazione del suo discorso venne scolpita su una facciata del Palazzo degli
Uffici all'Eur realizzato su progetto dell'architetto Gaetano Minucci:
«La Terza Roma si dilaterà sopra altri colli lungo le rive del fiume
sacro sino alle spiagge del Tirreno» La costruzione del quartiere
dell'Eur nel 1942 avrebbe appunto rappresentato il primo passo in questa
direzione. Iscrizione sul Palazzo alle Fontane nel quartiere EUR di Roma
Fusatoshi Fujisawa, La terza Roma. Dal Risorgimento al Fascismo, Tokyo. Parallelamente
in Germania si stava affermando il cosiddetto Terzo Reich. ^ Discorso
pronunciato in Campidoglio per l'insediamento del primo Governatore di Roma.
Utopia e scenario del regime, Venezia, Cataloghi Marsilio, Antica Roma
Costantinopoli Mosca (Russia) Storia di Roma Terza Roma, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Portale Italia Portale
Russia Portale Storia PAGINE CORRELATE Costantinopoli capitale
dell'Impero romano d'Oriente Milion Successione dell'Impero romano. Pl€°Ifl
ffRMBIKOjI. % H. ^>M- Z%!^-'^^J1'V, j^i;»-' AL bO
FLRRABI MO Kf\\ypso PIC BIBLIOTtCB S?254 bi SCIENZE nODLRME r"i'BOCCB
EDIT. KALYPSO F. KALYPSO Saggio d'una Storia del
Mito TORINO BOCCA. KALYPSO. STORIA. La storia del mito . È
necessaria e legittima Il suo triplice valore. Caratteri. Il genio mitopeico. Kalypso.
Andromeda. Prima di Euripide, Euripide, Dopo Euripide, La Demetra d'Enna Il
mito siculo, Il mito greco. Il mito siracusano. Il mito contaminato. L'abigeato
di Caco. Presso gli Indiani e i Greci. Presso i Latini. I poeti. Gli storici. I
razionalisti. Cirene mitica 11 sostrato storico. L' " Eea ,
di Cirene e d'Aristeo. Cirene in Tessaglia. Cirene in Libia. Euripilo ed
Eufemo. Gl’Eufemidi e Batto. Kalypso. L'intuizione mitica. Le manifestazioni
mitiche,. L'evoluzione della mitopeja letteraria, Il flusso e riflusso delle
saghe, La fine, -
INDAGINE. Andromeda „ Il racconto di Ferecide Perseo. Acrisie,
Preto, Polidette, Ditti. Atena e la Gorgone Medusa. Cefeo, Fineo e
Cassiopea, 341 — I miti etimologici presso Erodoto (VII 61) ed EU ani
co (frr. 159. 160), I frammenti dell'* Andromeda „ di Euripide,
Euripide nel 412 Il culto di Demetra inEnnajart. La questione. I caratteri del
culto ennense nell'età storica. Il primitivo probabile nucleo
siculo, Le versioni greche del nitto di Kora,L'abigeato di Caco . .
2>('£l- 397-420 11 problema, Il valore del mito indiano. Vergilio e
Ovidio ; Properzio. Livio e Dionisio. I particolari etiologici del culto. Gli eruditi, Cirene mitica Bibliografia e
metodo, La ninfa Cirene, Apollo Carneo. Aristeo, La ricostruzione dell'Eea di
Cirene. Euripilo ed Eu- femo, Gli Argonauti in Libia. Callimaco e il mito
di Cirene. Esegesi novissima STORIA La Storia del Mito.
I, — nitto di Kora. L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420
Il problema. Il valore del mito indiano. Vergilio e Ovidio. Properzio. Livio e
Dionisio. I particolari etiologici del culto. Gli eruditi. Cirene mitica. Bibliografia
e metodo. La ninfa Cirene. Apollo Carneo. Aristeo. La ricostruzione dell'Eea di
Cirene. Euripilo ed Eufemo. Gli Argonauti in Libia. Callimaco e il mito di
Cirene. Esegesi novissima, STORIA. F. Kalypso. La Storia del
Mito. È necessaria e legittima. Non esatta, anzi può dirsi fallace la
nozione del mito che è più diffusa. Andromeda, esposta sullo scoglio
al mostro marino; la ninfa Cirene, domatrice di leoni ; Cora di Demetra,
rapita da Aidoneo; Caco che, ladro di bovi, la forza d’Ercole piegò
annientandolo. Tali persone e vicende, come l'altre il cui insieme
assunse presso noi nome di MITOLOGIA greca e LATINA, inducono,
ciascuna, al pensiero un racconto, non pur definito ne’termini e preciso ne’particolari,
ma costante nel contenuto, si da valere (usando espressioni proprie
a fenomeni differenti) per E cosi rispettivamente ogni volta chC; Nel saggio si
allude a uno fra questi quattro miti. classico o canonico, da
apparire quel mito. Né il prevalente costume, a pari di molti, è
senza motivi: già che si ricollega per un lato ai modi che, nel
concepire ed esporre miti, tennero i compilatori alessandrini, quando
miti non più s’inventavano, ma si raccoglievano in contesti dotti, e
a scopo di conservazione erudita ciascuno si ordina secondo uno schema
principale, ne’margini sol tanto apposte discrepanze minori e facili a
obliterarsi. Si ricollega esso costume per altro lato al vezzo, malo
quanto diffuso, suffragato dall'ignoranza, pel quale la saga chiude
in sé una sostanza di verità, in ispecie storica; si che, la verità non
potendo esser che singola, unico similmente sarebbe l’'intreccio della FIABA
onde è compresa. Ora, poiché i criterii de’gramatici in nessun
modo possono essere più i nostri; e né meno è più nostra, per ciò che
non sodisfa la riflessione né il senso storico, una tanto facile fede
nella veridicità del RACCONTO MITOLOGICO. Bisogna risolutamente farsi a
considerare qual via puo divenire la buona non che la nuova. Sùbito
sgombra la mente di assai equivoci e di troppe astrazioni il porre, con
precisione storica, i materiali grezzi della mitologia. Ilmito di Cirene,
dimostrano questi, non esiste. Meglio, esiste bensì, ma soltanto dopo le
odi pitioniche di Pindaro, i capitoli erodotei, l'inno di
Callimaco, questa o quell'altra anfora, un'iscrizione di Rodi. Dopo ciò, e dopo
tutto che è andato perduto nell'esserci trasmesso dai secoli e che di
conseguenza ignoriamo. In altre parole, l'indagine concreta non conosce se
non un complesso di componimenti letterarii, manufatti artistici, riti
cultuali; e sente entro ciascun componimento, ciascun manufatto, ciascun culto,
in sé e per sé, IL MITO. All'infuori, questo può tuttavia
sussistere. E per vero in due modi risulta da quelli, sia per ordinata
compilazione, sia per alterazion fantastica. Ma è allora diverso e
nuovo, UN ALTRO MITO [cf. Grice on ‘myth’ – “Meaning Revisited”] a pena affine
a qualunque l'uno di quelli. pm-e rende conto dei varii
componimenti manufatti culti e spiega i singoli stadii e i singoli
trapassi. Ma in tal caso è divenuto, non la forma canonica o classica,
bensì LA STORIA DEL MITO. L’artista clie ci ripete una fra le
molteplici fiabe pagane, prosegue, e non termina, una serie di
vicende, cui sottostò quella FIABA già nel passato. Egli, insomma, elabora UNA
FIABA NUOVA, la quale può essere per certe analogie di casi e identità di
nomi avvicinata a talune antiche meglio che ad altre, ma non diviene per
questo la fiaba di quei nomi e di quei casi. Questa in
qualclie modo ci dà, solo, lo storico, comprendendo nel suo dire tutte le
trascorse apparenze della FAVOLA e organandole geneticamente ed
evolutivamente. Chi vuole IL MITO di Andromeda, ne legga LA STORIA. Se
non che, ond'è nato il concetto di racconti principi nella mitologia
pagana? Da due radici: UN FATTO, e una tendenza. Riandando storie di
miti accade di avvertire, chi anche sia grossolano osservatore, quale e quanta
rete d’interessi politici, di orgogli civici, di odii regionali,
di vanti principeschi, di rivalità religiose, ricopra, musco
boschivo, il crescente tronco della LEGGENDA. Indi, la preferenza decisa vien
concessa, in certo luogo e in certo momento, a quella tra le forme
esprimenti LA SAGA, la qual contenga il particolare simpatico, L’ANEDDOTOfavorevole,
o (che basta) si atteggi nella luce che più appaga. Un fine pratico,
per conseguenza, può CANONIZZARE i miti altre volte, l’ala d' un poeta,
la vigoria d'uno storico. O, infine, il più fortuito caso. Sempre,
tuttavia, a canto di questa preminenza d'una fra le forme mitiche, valse
a traviare il pensiero, l'abito, ch'è talora il
vezzo, dell'astrazione, sovente inopportuna. E perché, comparati tra
loro DIVERSI RACCONTI D’UNA SAGA, parte coincideno, e pareva il più,
parte differano, e sembra il meno. Si ritenne lecito prescinder dalle
differenze per insistere su le coincidenze, e di queste costituire la
saga, e quelle giustaporre in guisa di varianti secondarie. Cosi le
simiglianze riscontrate in cinque testi di cinque autori intorno alle
vicende, poniamo, di Cora, legittimavano la creazione arbitraria d'un FITTIZIO
MITO di Cora. Grossolano errore contrassegnato di superficialità.
Difatti, oltre le minori discrepanze notate, pure sotto l’uguali
apparenze slontanava l'un l'altro i varii testi alcunché, men ponderabile
forse, ma altrettanto reale: LA COMPLESSIVA INTONAZIONE DEL RACCONTO. Il
paesaggio medesimo, certo; ma incombente la luce di tramutati soli.
L'artificio è cosi palese che stupisce potesse ingannare e
diffondersi. E pure condusse più oltre: a fìngere, dopo IL MITO di ciascun
personaggio – e. g. GANIMEDE, ENEA, EURIALO, NISO, ROMOLO, REMO, CORIOLANO -- ,
IL MITO IN SÉ, quasi ENTE SEPARATO, capace di influssi attivi e passivi;
senza che diviene tosto palese, come cotesto ente non sussiste se non col
suo predecessore logico; come quest'ultimo sorga d’una contaminazione di
varie forme letterarie artistiche cultuali; come quindi uniche esse forme
costituiscano la realtà da pensarsi e studiarsi. Alle quali noi ritorniamo
con franchezza; per asserire, e lo asserimmo dianzi, che conoscerle
significa giustificarne le vicende. Ossia: per affermare che SOLO
STORICAMENTE SI PUÒ CONOSCERE IL MITO. Ma dopo tale asserto, e dopo
scoperti i motivi reconditi dell’equivoco consueto, rimane ancor dubbio,
se o no è legittima LA STORIA DEL MITO. Difatti chi sa d’aver innanzi
espressioni multiformi, cui sono mezzo le più disparate materie, DALLA
PAROLA AL COLORE, DAL BRONZO AL GESTO SACERDOTALE, può sospettare a
ragione che trasceglier quelle espressioni, connetterle in serie, narrarle in
istoria dove accadere per nessi, non intimi, ma estrinseci: per identità
di nomi di figure d’imprese; mentre tempi lontani, fibre tanto varie
d'uomini, caratteri cosi mutati d’ambiente, sembrerebbero permettere, o
comandare, la distinzion più recisa. Sospetto lecito, questo -- ma
specioso. Non importa che certa temperie (dico, ad esempio, l'epoca d’OTTAVIANO,
o il magistero di OVIDIO) accosti molto fra loro due saghe di soggetto
diverso; là dove lontananza d'anni e di spazii separan spesso saghe
dell'identico soggetto. Ciò vale, o ci ajuta, a informarci dell'epoca
augustea o di Ovidio, e del posto che LA MITOLOGIA prende in quella
o presso questo. Ma è d'altra parte irrecusabile che ciascuna espressione di un
mito, in qualsivoglia materia avvenga, è stretta alle precedenti da
un vincolo più profondo e più intimo che l’argomento: le conosce, ciò è, e
le ri-elabora. Disposte quindi in serie cronologica coteste
espressioni, ciascuna è materia greggia rispetto alle successive, ed è
sintesi originale (anche negativamente originale, si capisce) a
confronto con le anteriori. Ne segue che la storia ha buon diritto di
farle scaturire l'una dall'altra: essa, co’suoi criterii di tempi e di
luoghi, con tutti i sussidii di cui può valersi, riesce a costruirne
quasi una genealogia; della quale i rami e i gradi son segnati da
reciproci influssi più o meno profondi, da modelli più o meno
diversi, sempre da caratteri intrinseci ed essenziali. Del resto,
il resultato medesimo o, se piace di più, il medesimo soggetto di questa,
che diciamo, STORIA DEL MITO ne legittima, dopo gl’argomenti or ora
esposti, la esistenza. Giunge essa a costruire sopra VARIANTI FORME FAVOLOSE un
individuo organico e definito: individuo ch'è, come mostrammo, LA
LEGGENDA. Ma quali sono per essere i modi di tale istoria? Il suo
procedimento è chiaro. Raccolte, supponiamo, le espressioni del racconto su
Cirene o su Cora, sia per notizie tramandate sia per industria di
congetture ne è, quasi sempre, presto determinato l’ordine cronologico, se
non nelle sue minuzie, almeno in linee sufficienti. Solo di poi
s'inizia un più arduo lavoro. Il pensiero, insomma, prende a conoscere quelle
espressioni. Di ciascuna distingue prima gli elementi costitutivi. Ciò
sono I PARTICOLARI DELLA SAGA, e quanti ne sieno espressi, e quali, che
scene e che episodi!: in sèguito, ne ravvisa la tempera, il punto
di veduta onde i particolari le scene gli episodii furon guardati: per
ultimo, discerne ove consiste o se esista la forza sintetica che i
par- ticolari le scene gli episodii trascelse, aggruppò, fuse.
Triplice processo: valevole come per un carme, cosi per una pittura e,
checché sembri, per un culto. Giusta poi le risultanze di questa
nostra fatica, le diverse espressioni mitiche in- torno a Cirene o a
Cora, si raccolgono, quasi per sé, secondo nessi ed influssi, sino a
costruire lo schema delle lor geniture. Allora lo scopo è
conseguito e l'indagine ha fine; mentre un'altra specie di conoscenza si
avvia: non più dubitosa, qual si conviene alla ricerca, e faticosa di
controversie; ma conscia e sicura. Quel che rimane incerto è delimitato;
quel che può essere certo, è posseduto; si che le lacune e il ricolmo si
distinguono nette. Altrui giudizii su la materia son superati con
l'approvarli o respingerli o modificarli. E insomma stabilito l'ordine; pel
quale lo schema ch'era conquista ultima dell'indagine, diviene poi
quasi base; e sovr' esso si erige, pei suoi muri maestri nei suoi archi
di commessione co' suoi travi intelajati, 1’edificio definitivo. Il
mito ha la propria storia. Il mito è, da questo momento, vera
ricchezza nello spirito nostro. Si obietta che è acquisto mal
certo, però che sieno per pensarsi o seriversi ancora, nell'avvenire come nel
passato, di quella stessa leggenda storie molto o poco di- verse
con asserzioni contradittorie alle prece- denti e con intelletto nuovo.
Il clie ridonda in parte al difetto delle nostre fonti, mal perve-
nuteci frammentarie o lacunose, e in parte alla discordia dei pensieri
individuali. Ma né l'una né l'altra verità scema l'importanza
dell'acquisto. E in primo luogo : l'insufficienza delle fonti tra-
mandate o è cosi fatta che impedisca la storia o pure solo qua e colà la
fiacca. Se l'impedisce (e son taluni casi), il danno è davvero
grave. Ma, ove solo la fiacchi (e sonvi gradazioni mol- teplici che
non perseguiamo qui), la jattura può variare di entità ma si riduce
tutta, in ultimo, al fenomeno comune della individuale memoria e,
traverso questa, della memoria collettiva; si riduce, quindi, alla
condizione imprescindibile della nostra conoscenza intorno al passato. In
se- condo luogo, il differire degli storici intorno a una saga, se
dimostra che nessuna storia deve a nes- suno parere domma, prova insieme
che ciascuna è acquisizione viva a cui lo spirito muove libero per
indursi ad accettarla, e poi difenderla, con agile freschezza e cura non
intermessa ; attesta quindi di ciascuna l'importanza, assidua
perchè dinamica. Nell'uno e nell'altro luogo, poi: quello spirito
che ha conosciuto la storia d'una leggenda, o di per se o con assimilare
1' opera altrui, ferma con ciò duplice possesso; sia tra- mutando
in organismo il tutto insieme inorga- nico delle fonti; sia impregnando
della propria essenza quell'organismo. Ha, in somma, composto
armonia del discorde, e reso personale l'alieno. Quindi, l'acquisto, come
non dubbio, cosi è anche materiato della più alta virtù di pensiero.
Dura come una fatica ; splende come una vittoria. Che se di poi
mutazioni intervengano e pentimenti, non se ne scema, ma più tosto se ne
innalza, superando, il pregio insigne. H quale consiste, fi-
nalmente, nell'aver provocato la sintesi, se non immutabile, certo
personale, in tutta la serie co- nosciuta di determinate espressioni
mitiche, lon- tane e disperse. Il mito è, dunque, da quel
punto viva ric- chezza nello spirito nostro. Se facile mostrare tal
verità, sottile è però discernere i valori di- versi della conoscenza in
quella guisa procurata. Ma è necessario, per farla più conscia.
Lo storico si è, durante i successivi momenti della saga,
uguagliato a' successivi artefici di essa. Un ignoto cantor popolare vi
trasfuse il suo sogno? Io, per comprenderlo, debbo mirare con gli
occhi di lui ; e dinanzi a me la visione ha da concre- tarsi in
quelle fogge che f m-on di lui. Erodoto ? Pindaro? Claudio Claudiano? Uno
appresso al- l'altro, s'immedesimano per l'istante con lo sto- rico
e questi con loro, fin quando similmente a ciascuno la materia si sublimi
in arte. Tuttavia, in si fatte individuazioni, o mischianze con
gl'in- dividui creatori, la Storia avverte tosto il suo vantaggio.
Nell'atto d'intuire la saga il poeta o il pittore muovono dalle sue forme
anteriori, che conoscono, verso la nuova espressione, che igno-
rano e producono; a quell'atto rifacendosi l'in- telligenza dello
storico, deve muovere tanto dalla loro espressione quanto dall'altre
precedenti, e quella conosce, e queste conosce del pari. Si che là dove
l'artista si trova di fronte a un che di imprevisto, in cui l'
impreveggibile è determi- nato dalla potenza della sua energia creativa
; per contro lo storico si trova sùbito a conoscere, traverso
l'opera compiuta, appunto quella po- tenza dell'artista e può ponderarla
e giudicarla. L'effetto è che non solo egli si è identificato con
una delle espressioni nelle quali la saga visse, ma anche l'ha valutata.
L'attimo di pos- sesso si conclude in giudizio. — Di più lo storico
non si considera pago né pur di questo giudizio che già di per sé lo
eleva sopra l'artista in- tuente : vi avverte un valor m omentaneo e,
te- nendo l'occhio a ben più alto segno, vuole e può assurgere a
quell'intuizione sintetica della saga, da cui appajono giustificate le
intuizioni singole degli stadii e delle forme come dallo scopo il
mezzo. Tale pregio, che è della storia del mito, può quindi esser detto
pregio intuitivo. Ce n'è un secondo: scientifico. Non poche
di- scipline difatti van di continuo preparando al pensiero
cognizioni che gli giovino nell' opera sua: attinenti ai linguaggi dell'
antichità, agli scrittori co' lor caratteri e con la misura in cui
sono attendibili, ai culti con le fogge che di- vennero consuetudinarie,
ai popoli con le cre- denze e i pregiudizii, con le superbie le ire e
le menzogne. Certo, non son leggi rigide e fisse, quelle che
cotesto discipline ci offrono, né tanto meno impongono ceppi
all'intelligenza. Sono, più tosto, formule in cui l'esperienze
vannosi condensando; consigli, che risparmino fatica in- dividuale
o suppliscano a irrimediabili ignoranze. Costituiscono il tesoro comune,
cui possono tutti riferirsi, che è stolto trascurare, né si può
senza fallacia. Orbene ; anche le cognizioni cosi cumu- late lungo
gli anni da tanti sforzi concordi, convergono nella storia della
leggenda; e quanto più numerose, meglio l'afforzano, rassodandole
l'ossatura, e permettendole o promettendole con- senso più vasto e
interesse più vario. — Fra tutte, precipue quelle in cui s'è tradotta la
coscienza dell'antico e recente, vicino e lontano, favoleg- giare :
maraviglioso sempre, di rado inconsueto. Cento numi agresti si rinvengono
fra cento po- poli, dagli Urali alle Ande, dall'Islanda all'E-
quatore. E i riti, le danze, i canti, i vestimenti, le fiabe, si
mischiano somigliandosi e differendo insieme, vario concento sopra un
ritmo unico: che ogni gente reca il suo contributo. E cielo, monti,
acque silvestri marine lacustri, paschi pingui di bovi opimi, biade che
la golpe uccide, biade che la zolla e il Sole indorano, notti il-
luni, meriggi piovosi, silenzii delle cime, fragori delle spiagge e dei
tuoni, fauci di caverne e fen- diture del suolo : l'immenso respiro
pànico, che penetra pei sensi ed abbacina l'anime, ritoma costante
nelle voci e nei gesti di viventi in terre lontane. E ritornando erudisce
l'uomo dell'uomo. Ond'è che son opere in cui questa varietà spe-
ciosa è ricercata con amore intento, disposta con cura e scrupolo in
chiaro ordine (1). Ivi (1) Cito ad esempio W. Makshardt
Mythologische For- schungen (Strasburg); H. Usexer Sintfluthsagen (Bonn);
J. G. Frazer The golden Bough ^ spec. parte V Spirits ofthe corn and of
the wild (London 1912); W. v. Bau- molte leggende sono
narrate, molte cerimonie descritte, quelle che gli uomini dicono e
com- piono da quando sorge il lor Sole a quando tra- monta, e
quelle anche che la notte conosce. Ma ivi nessuna leggenda vale per sé,
nessun rito pel suo modo; anzi, non a pena ripetuta l'una,
tracciato l'altro, si distrugge tosto l'individua- zione, perché si
vuole, badando al generale ed al comune, conseguire identità spirituali
contro distanze di tempi di luoghi e differenze di forme. Vi si fa
propedeutica; non storia. — Cosi in altre opere, le quali scaltriscono su
gì' infingimenti obliqui di interessate invenzioni che non è lieve
scoprire ; o vero su i traviamenti della intelli- genza che tenta le
cause del fenomeno ignoto, ma s'abbaglia di fantasmi. Avvertono,
queste, come un nome frainteso generasse talvolta un popolare etimo
errato, e l'etimo la fiaba: come Scaevola connesso con l'aggettivo che
significa " mancino „ determinò il racconto dell'intrepido
Muzio e della destra bruciata. Insegnano che per dar ragione al nome di
una città (Roma?) s'inventò pari pari un eroe o un nume (Romolo?).
Spiegano che un culto greco fra culti romani parve agli antichi
giustificato col narrare qual- mente al dio stesso fosse piaciuto recarsi
da l'Eliade nel Lazio. Procurano, infine, di segnare in classi i
fatti; e creano alle classi fin la de- nominazione discorrendo di "
miti etimologici „ per i primi casi ; di " miti etiologici „ per
l'ul- DissiN Adonis und Esmun (Leipzig); E. S.
Haktland The legend of Perseus (voli. 3, London 1894-6). timo (1).
Tutti bisogna che lo storico sappia, per sviscerare gli stadii della sua
saga, senza equi- voco grande né troppe dubbiezze. — Di tutti,
quindi, è conscia la storia di una leggenda. La quale leggenda nel tempo
stesso cbe ne riesce de- finita, si da impedir confusioni con altre pur
si- miglianti, si allaccia poi tutta, o quasi tutta, con le formule
della propedeutica confermandole in presso che ogni sua vicenda. Non che
in tal modo scemi la singolarità sua propria; e allora perché farne
storia? Né manco che non aggiunga tal volta materia alla propedeutica
medesima; già che questa non è mai conchiusa, e di con- tinuo si
accresce, per l'appunto come la espe- rienza dell'uomo in cui la
contenemmo. Ma anzi la storia di un mito ha questo pregio
scientifico: mentre è impregnata, come più latamente può, del
sapere collettivo intorno alla propria ma- teria; mentre è dissimile da
quel sapere, ed esiste per la sua dissimiglianza ; è pronta a
contri- buirvi con tutta sé medesima, per quanto con- tiene di
insolito, e per quanto riafferma del con- sueto. Terzo pregio è un
altro, fors' anche maggiore. Cfr. G. De Sanctis Per la scienza
dell'antichità (Torino), ove in polemica è chiarito assai bene anche con
esempii il contenuto di quelle due deno- minazioni. — Chi poi voglia
avere rapidamente un'idea su la vastità e gl'indirizzi dell'indagine
mitologica può per gli anni 1898-1905 consultare la intelligente ras-
segna di 0. Gruppeìu " Jahresbericht tìber die Fortschritte der
klassischen Altertumswissenschaft „ Supplementband. Filosofico, si riferisce a
un' alta visione del jiassato e del presente. La saga è dell' uomo, nasce
di lui, or come nebbia da piani pigri, or come da lago ninfea. Le vicende
della luce la iridano durante un giorno, e le compongono varia bel-
lezza, fin che la tenebra giunga. Ma il motivo delle trasfigurazioni
luminose come del soprav- venir tenebroso, è secreto dello spirito
umano. Secreto dell'uomo, che ha fermati i suoi saldi piedi sul
suolo tenace, e vede intorno a sé la meraviglia del cielo nel sole nelle
nubi negli astri, purezze nivee e dentate di vette inviola- bili,
scompigli di chiome arboree nello squassar dei vènti, rigidità delle rupi
cui arcana opera finge sembianze umane, mefiti di putizze dagli
acri fumi ; vede, e conosce, mentre un empito indicibile gli urta su la
fronte le tempie, illu- dendolo centro a quel mondo ; o mentre una
forza ineffabile lo gitta prono nello stupore che pa- venta ed
adora. Secreto, in fine, dell'uomo che con occhi incerti guata, fra il
mento e i capelli, la maschera fosca del suo rivale, ad apprenderlo
ed eluderlo ; e con occhi scaltri studia nel moto i muscoli e gli artigli
della belva silvana, per farla sua preda o imitarne il destro miracolo
; e poi, con occhi ebbri di sogno, nelle improv- vise forme che la
natura plasma tra cielo e terra, nelle prepotenti energie che essa
suscita ovunque, ammira il volto del suo nimico o la violenza della
fiera. Appresso, su la prima trama esigua, quasi ragna d' oro fra due
rami d' un mirto, si consuma la dolorosa fatica dei posteri ; che
l'in- venzione originaria non si perde, ma, serbata tal volta in
reliquarii preziosi, salva altre volte per caso, regge su le sue fila
tenui il trascorrer lento e difficile dei travagli clie martellano
Fu- manità nei secoli e le rodono il cuore invincibile. Ogni fiaba
s'impregna cosi di sapori dolci e agri, forti ed amari : abbrividisce
delle cose tremende, s'esalta delle cose salienti, supplica, spera,
esorta, rampogna. Il suo intreccio si foggia su i meandri dello
spirito. E nello spirito la sua virtii cerca le potenze dell' espressione
; stimola 1' energia onde si crea il diafano contesto verbale o si
plasma nella dura materia il moto o si finge l'an- sito nel colore; e con
lei genera creature d'ale e di fiamma, o per lei si corrompe in
miserevoli mostri e deformi. Far quindi la storia del mito
significa spremerne cotesto succo occulto, il quale si mischia col nostro
più profondo pensiero su la vita e saggia le nostre idee sul bello
sul buono sul vero, su l'uomo e la forza della sua visione, e la
forza della sua espressione, e il suo lungo cammino. — Idee che
costituiscono d'altro lato lo scheletro stesso della storia d' un
mito. Del quale il trapasso di forme può venir conce- pito
geneticamente, l'una determinando l'altra ; o staticamente, i nessi
essendo privi di forza generatrice; o in rapporto all'evolversi comples-
sivo dello spirito ; o in altre maniere, di cui cia- scuna dipende da una
teoria filosofica. Persino chi per orror metafisico mai abbia voluto
im- pacciarsi di problemi si fatti, porterà la sua av- versione
nella storia e ve ne lascerà i segni, non giova dire di quale specie.
Onde la cono- scenza del mito di Caco o di Andromeda, pur
contenendosi nei termini di un limitatissimo fe- nomeno, pur fermando nel
pensiero una porzioncella minima del grande moto di cui tutto il passato
è pieno nella memoria degli anni, tuttavia impegna con sé un'idea di quel
moto e del nostro pensiero: la stimola e la cimenta. FILOSOFIA:
senza cui, il breve mito sarebbe assai poco ; con cui, diviene
moltissimo. in. — Caratteri. Che se a
quest'ultimo i3regio filosofico pen- siamo ora aggiunti in perfetta
fusione di Storia gli altri due, intuitivo e scientifico, non
appare sùbito qual sia la lega comune onde tanto com- patto è il
resultato. Ma lega si rivela l'intel- letto dello storico ; ove i
concetti assimilati dalle discipline propedeutiche, e le idee elaborate
dal pensiero meditante, s'illuminano di luce nuova nella vita
dellintuizione, quando vengono esposti all'attrito della realtà
testimoniata. — Di più non può dirsi: che ha da restare intatto il
mi- stero creativo. Tuttavia, pur da questo si vede come
larghissima parte della intelligenza vada a imprimere la storia d'una
semplice saga; come quindi questa storia sia, anzi tutto,
soggettiva. Né forse è detto ciò senza stupore di molti ; perché prevale
oggi il principio della oggetti- vità storica, tanto che il
riconoscimento del con- trario nell'opera di chi che sia suona quasi
a rampogna. Si avvezzano cosi i lettori d'istorie a cercarvi le
parole della certezza assoluta, allet- tandoli con un equivoco ch'è quasi
una mistifi- cazione. Si proclami dunque chiaro e alto. Nel racconto
delle vicende storielle per cui un mito si svolse sono le stimmate d'una
personalità; né solo, ma il valore di quel racconto è in queste
stimmate ; in quanto la personalità, non pure as- somma, si anche fonde e
ritempra, com'è neces- sario, quelle cognizioni dottrinali, quella
teoria filosofica, quella geniale potenza intuitiva, che si
riconoscono indispensabili alla costruzione d'una qual siasi storia; e in
quanto, inoltre, dalla misura di esse cognizioni teoria potenza e
del loro commettersi, dalla misura, in breve, della personalità medesima,
è segnato il pregio del contesto narrativo. Dal qual
evidentissimo principio si definisce anche l'atteggiamento di chi legge a
fronte di chi ha scritto. Non accettazione sùbita ; né re- verenza
ad autorità indiscussa : invece, ragione- vole assenso, ora parziale ora
totale, ora nei par- ticolari ora nella sintesi. E sempre, al di là
degli uni e dell'altra, valutazione del pensiero che è solo
responsabile e che, scoprendosi con ardi- tezza, accetta onestamente
d'essere imputato. Compito arduo, adunque, è il leggere non meno
che lo scrivere storie; si che può ben dirsi, che quasi mai viene assolto
integro. Ma, per lo più, solo per il lato si adempie che costituisce
l'in- teresse onde mosse la lettura ; e da quel lato soltanto
sogliono originarsi le censure, le più modeste e le più burbanzose. E a
volta a volta la storia della saga di Cirene deve soddisfare le
pretese del filosofo, la dottrina dello scienziato, il gusto del
contemplatore. Ora, affinché sia più lieve a tutti costoro l'opera di
critica rielabo- ratrice, lo storico mostra sempre (fra noi, almeno; non
costumava cosi Tucidide, né Ma- chiavelli ; con pena della moderna
indagine) mostra, in una qualunque parte del suo lavoro, i mezzi di
cui si è valso e le vie che ha seguite; onde ne è pronto il riscontro
(1). Per che si giunge a scoprire l'opposto aspetto della
soggettività fin qui rilevata. Quando l'ar- tefice medesimo scinde, pei
lettori critici, l'opera propria ; allora, sopra le testimonianze e le
for- mule e i giudizii, ch'egli cita e discute, si fan concrete ed
esteriori le sue idee e intuizioni, si cristallizzano in materia nuova su
la materia che vedemmo preesistere allo storico. Accade perciò, da
tal momento, che si possa misurare quanto ciascuna individuazione sia
piena di realtà, cimentandola con tutti gli elementi, di- venuti
esteriori e concreti, di cui nella intimità e fluidezza dello spirito
creativo essa si era nu- trita. Il critico, se è (fenomeno raro)
compiuto, vaglia, in qualità di scienziato di filosofo di
individuatore, tutti questi elementi, scissi prima, organati poi; e
valuta il pregio dei singoli e della mischianza loro. Cosi, quel che fu
già ema- nazione viva d'una vivente persona; imponde- rabile,
quindi, oltre la sfera di essa persona; e definito, per tanto, ''
soggettivo „ : diventa pas- sibile di metro, di scandaglio e di analisi;
defi- nito, per tanto, " oggettivo „. Sempre, per opera
dello storico la leggenda assume la finitezza della persona e i
caratteri dell'organismo. Si scevera da l'altre: è quella.
(1) In questo volume ciò è fatto nel libro II: Indagine.
una. Le sue vicende hanno, inoltre, un principio e un termine, per
conseguenza un culmine ; v'è quindi un nascimento e un corrompimento,
fra cui si tocca la maturità. La storia d'una saga sarebbe dunque
una ^ storia catastrofica ,, e sul suo finire sonerebbe l'elegia, inetta
a risuscitar la creatura morta, ma pretensiosa di balsa- marla?
(1). Si risponde: è catastrofica; già che si chiude col dissolversi di
quel che al suo inizio si compone : non è elegiaca ; però che, pur
la- mentando , se crede , la morte avvenuta, ne indaga i motivi e
prociu-a comprenderli col pen- siero senza stingerli col sentimento. Ma
en- trambe queste risposte esigono d'esser più am- piamente
delucidate. Qualche pagina innanzi fu provato (per quanto io
credo) che non solo è necessaria la storia del mito per conoscer il mito,
ma è in tutto legittima, perché opera sopra un individuo pre- ciso
il quale ha una reale e non disconoscibile esistenza. E. già sappiamo del
pari che quell'in- dividuo risulta da una serie di stadii, e
ciascun d'essi non può star solo, ma è in intima atti- nenza coi
precedenti e coi successivi. — Ora pos- siamo specificare meglio : che
ciascuno stadio rappresenta una creazione spirituale. Sia di poco o
di molto momento, vi è immancabile l'attività (1) Contro le
storie catastrofiche ed elegiache si pro- nuncia Benedetto Croce in
Questioni storiografiche [" Atti dell'Acc. Pontaniana]. Egli muove,
s' intende, dalla sua identifica- zione della storia con la
filosofia. d'un artefice che ha segnato di sé medesimo, con grande o
con piccola impronta, la materia leggendaria. Ognuno di questi artefici
apporta speciali energie e del mito sviluppa potenze che o vi
giacevano celate o n'erano state mal svolte. Per conseguenza, astraendo
si possono conside- rare, in un qual siasi stadio leggendario, tre
ele- menti : la manifestazione, senza cui non sa- rebbe
; la sostanza del mito desunta dagli stadii anteriori ; l'energia
innovatrice dell'artefice. Di qui, son possibili varie evenienze: o che a
un certo momento ogni manifestazione cessi, per qual siasi motivo,
sebbene ce ne fosse la potenza ancora negli spiriti e nel mito; o che la
mani- festazione appaja inadeguata alle precedenti e per ciò monca
e non bastevole ; o che, in fine, l'energie dell'artefice apportino alla
sostanza della saga violenze che la rinneghino. Nel primo caso, la
catastrofe è sùbita e tronca un rigoglio; nel secondo è preceduta da uno
scadimento, che la prepara; nel terzo, da una corrosione, che la
vuole ; i quali due ultimi è evidente che debban spesso coincidere. Ma la
catastrofe, la morte, è sempre. E la storia, in quanto storia, deve
nar- rarla, come narrò il nascimento ; ed essere, ine-
vitabilmente, catastrofica. Non è, dicemmo, elegiaca. Sarebbe,
senza dubbio, se lo spegnersi d'una luce non signifi- casse, fra
gli uomini che hanno assiduo il fer- mentar delle forze nello spirito,
l'accensione di un'altra, di più altre, quasi pel ripetersi ardito
di magie misteriose. Ma qui dove dai vecchi ceppi si spiccano a dieci i
virgulti giovani, v'è motivo a sconforto sol tanto per chi brami,
come meglio, la distruzion del tutto. Rimane, per altro, legittimo,
se non lo sconforto, il senso del danno. Lo stampo di Caco s'infranse, e
qual egli era stato concepito, quale gli artefici l'ave- vano
formato, ninna potenza terrena può ri- crearlo indipendentemente: un
individuo inso- stituibile scompare. E^ scomparso, non lui solo
perdiamo. Molte saghe venner create con bel- l'impeto dalla giovine
mitopeja dei Pagani; molte, non tutte le nate, si svolsero traverso gl'inni
dei poeti, i bronzi degli statuarii, i gesti sacer- dotali; non molte,
poche divennero nell'epoca del pili adulto pensiero classico, quando per
con- taminazioni la ricchezza del numero si fu as- sottigliata in
bellezza della specie. E ogni nuova morte sminuisce quella dovizia di una
unità, scema questa bellezza di grande efficacia : quel che
sottentra è copia e grazia dello spirito umano, della mitopeja classica
non più... Una maggior individualità, dunque, è minacciata dalle
morti di questi minori individui mitici. Un colpo di accetta, ognuna ; e
la quercia si squassa. Il genio mitopeico.Quella individualità
maggiore è oramai em- brionalmente posseduta dal nostro pensiero.
Quando siasi letta la saga di Andromeda, e poi di Cirene, e di
Caco, e anche di Cora; appresso, non si conoscono pure quattro vite
di saghe, come fossero di eroi o di santi o di statisti; ma è già vivo,
se anche non maturo, nel- l'intelletto un nuovo sapere. La ancor
recente esperienza, rotti i termini entro cui si è for- mata, tenta
di organarsi in altro stampo, in- frange l'intuizione del singolo per
disporsi, in che ? come ? Per la risposta, da principio ingan- nano
due parvenze, contradittorie nella forma, entrambe erronee. La
prima parvenza è brevemente questa. Con l'ajuto delle cognizioni
acquisite nello studio di quattro miti si possono perseguire due
com- piti differenti. Uno, più modesto, consiste nel raccogliere
tutti i fatti constatati durante lo studio e nel disporli con altro
criterio che il cro- nologico e genetico : nel guardare, in breve,
il medesimo mondo, nei medesimi margini, ma da altro pimto di
veduta. H secondo compito, in vece, costringe a trascendere i limiti
segnati dalle quattro saghe, fino ad affermare di tutte le saghe
qualcosa che per le quattro soltanto venne sperimentato : costringe a
varcare verso l'ignoto l'esperienza acquisita, pregiudicando da
questa quello. Entrambi i compiti hanno natura e scopo pratico ; come
quelli che servono a concludere ordinatamente sotto la specie di leggi
(nel se- condo caso) o di formule (nel primo) esperienze compiute
storicamente sotto la specie delFindi- viduo. E sono , perché pratici ,
utilissimi ; né giova, secondo piace a taluno, predicarli ride- voli
o in altro modo spregiarli. — Non mostrano, tuttavia, lo stremo di quanto
possa e voglia il nostro pensiero, elaborato che abbia un certo
numero di storie su fiabe. Non può esistere un soggetto vivo cui
attribuire quelle formule e quelle leggi, si cke gli aderiscano come i carat-
teri all'uomo ; ond'è che ci appajono e le une e le altre, dopo che
arbitrarie, insufficienti. Arbi- trarie le formule, perché incardinate su
criterii che non sono immanenti al loro soggetto, ignoto e irreale,
ma che vengono dal di fuori imposti alla massa dei fatti storici ; e le
leggi, perchè teme- rariamente affermano più del conosciuto, impe-
gnando in sé, insieme con il già intuito, il non mai visto. Cosi le
prime, avulse dalla realtà viva onde germinano, incadaveriscono in
freddo schema e, come schema, lasciano straripare oltre di sé e
sfuggire sotto di sé la vita vera delle quattro saghe ; le seconde, pur
danneggiando tal vita nella stessa guisa, non sodisfano i^oi
affatto un intelletto veramente avido di sapere concreto : entrambe,
quindi, definimmo or ora insufficienti. Fallita la prova di
questa parvenza, l'altra vediamo qual sia, e ]Derché non appaghi. Dove
fu avvertita mancanza d'un soggetto che sostituisca nella nuova
opera i miti, soggetti delle singole storie, ci s'illude di coglierne uno
; se ne crea uno difatti, f)ur che si astragga un poco come suole
il pensiero. Si crea un (diciamo) ente o spi- rito, cui competano tutti i
caratteri dei varii in- telletti che influirono, di stadio in stadio,
su l'uno o su l'altro dei quattro miti storicamente appresi; cui,
quindi, appartengano patriottismo e fede, scettico scherno e dubbio
religioso, pre- occupazione sociale, sensualità voluttuosa e i)re-
giudizio manchevole ; e che concilii inoltre ogni virtù in una sintesi
superiore alle contradizioni apparenti. Cotesto ente o spirito avrebbe,
forse. esso pure una evoluzione, e certi stadii lungo i quali
si disporrebbero le sue energie e i suoi attributi. Parrebbe, per tanto,
assai bene passibile di storia. — Ma l'artificio più palese l'ha
origina to. Difatti, mentre chi narra la storia di un mito
opera (vedemmo) su stadii, che sono di per sé congiunti, e che senza
nesso non sono né pure compiutamente intelligibili ; i caratteri in
vece e le energie di quel pseudo spirito vengono solo per caso
delimitati, avvicinati e graduati : già che unico motivo per cui quel
falso ente si af- ferma con alcune qualità, e non altre, con alcune
vicende, e non altre, è la scelta, precedente- mente fatta con criteri!
estranei, di quattro miti, e non d'altri. Che se dieci o diversi fossero,
gli attributi muterebbero numero, specie e succes- sione. Segue,
che è necessario guardarsi dall'in- sistere sopra un soggetto cosi fittizio,
se non si voglia ricadere negli stessi vantaggi pratici e svantaggi
teorici in cui trascinano formule e leggi. Vinto l'errore, la salute
appare spontanea. Basta che si trovi uno spirito, il qual sia vero
e non artificiato, intuibile dallo storico e sog- getto vivo delle nostre
esperienze anteriori, li- mitate per qualità e per quantità. Ora, se
è (come dicemmo) arbitrario determinare un in- dividuo mitopeico
valevole per quattro miti, perché è introdotto dal caso, ossia dalla
nostra anterior ricerca, il numero di quattro : soppri- mendo quel
numero, ci troveremo dinanzi a un reale individuo, allo spirito
greco-romano in quanto elabora saghe, o al genio mitopeico dei
Pagani: dinanzi, ciò è, a un che di esistito ef- fettivamente, di
certamente vivifìcabile, di indùbitabilmente storico. Qui il pensiero si
ritrova a suo agio e, intuendo, lotta a sottomettersi la realtà
proteiforme ; qui formule e leggi vanno a confluire nella materia ignea ,
rimettendo di lor rigidezza fino a liquefarsi nel flusso incan-
descente. — E conquistato una volta questo certo soggetto, si comprende
d'un tratto come tutto che si afferma nell'ambito delle quattro
fiabe conosciute vale ed è esatto per il genio mito- peico, ne è la
storia ; è, sol tanto, incompiuto e insufficiente : perché lembo di un
tutto ; lembo casuale di un tutto reale. Ma, appunto in forza di
questo tutto, ha importanza, dev'essere affer- mato, e può assumere,
esprimendosi, un tono generale. La medesima sua incompiutezza poi è
solo in parte insufficienza. E, in quanto oltre alle quattro fiabe cónte
altre assai sarebbero a disposizione del pensiero che volesse
conoscerle in istoria e attribuirle poi al genio mitopeico. Non è,
quando si avverta che, i)ur conoscendo tutte le fiabe, quel genio
mitopeico risulterebbe per noi sempre, dalle fortune del caso e dal
de- corso del tempo, privo di qualche sua saga, e quindi scemo di
talune energie, per guisa che dovrà in ogni maniera venir intuito
traverso molte si ma non tutte le sue manifestazioni ; non
dissimilmente dall'indole degli uomini che la sorte ci pone su la via o
dalle vicende degli istituti che remoti echi ci tramandano irrego-
lari. Quattro miti son dunque poco i3er
pos- sedere, nei suoi confini e nelle sue virtù, l'animo
leggendario dei Pagani ; tuttavia il loro inse- gnamento è certo, se bene
incompiuto; insuffi- ciente, non arbitrario. Cosi le storie di
quattro miti conducono alla storia della mitopeja. La quale pertanto non
può consistere nell'insieme inorganico di quelle quattro singole storie,
se si mantenga incom- piuta, né, se voglia integrarsi, nell'insieme
inor- ganico delle storie su le varie saghe conosciute. Tale è
l'uso dei manuali; ed è uso degno del nome e dei libri: che noi vedemmo
dianzi la esigenza di quella più larga istoria emergere a punto dal
succedersi (che è stimolo, dunque, non sodisf acimento) di taluni
racconti men larghi. Come, per analogia, le biografie di cento
indi- vidui non souD la storia della nazione cui ap- partengono, e
che li comprende in sé e in sé li distrugge. Flutti nel mare, le
molteplici saghe non s'individuano che a patto di delimitar volta
per volta il total genio mitopeico in mar- gini che non sono i suoi
proprii. E a quel modo che l'Uomo non attua le sue potenze tutte se
non nella umanità ; il Mito non sviluppa tutte le sue virtù se non se
nella mitopeja. E tutte non si conoscono, che spezzando in un testo
più ampio i termini in cui si conchiusero le cono- scenze dei
singoli. — Evidenza pari ha, o do- vrebbe avere, un altro vero eh' è
parallelo a questo. Dianzi, giustificandosi legittima la storia di
un mito, nell'atto di mostrare come le mol- teplici manifestazioni
leggendarie potessero ag- grupparsi in tanti cespiti quanti sono i nomi
e le fondamentali vicende che accomunano ta- lune fra esse ;
disegnavasi pure , come possi- bile, l'impresa di ridurre quelle
manifestazioni molteplici più tosto sotto le rubriche delle di-
verse epoche e dei differenti luoghi, per comporre, con criterio cronologico e
geografico, la storia della mitopeja pagana lungo i secoli e
traverso le regioni del mondo classico. Età per età si vedrebbero gli
spiriti, informati da quella determinata temperie, intervenire su tutto
il pa- trimonio favoloso; e ciascuna avrebbe le sue predilezioni
nello scegliere i soggetti e le sue attitudini nel foggiarli. Or bene :
dopo una tale opera, cosi se siasi estesa a intero l'ambito tem-
porale e regionale dei Gentili, come se sia stata ristretta in taluni
confini di paese o di momento, è tutto sodisfatto il desiderio di conoscenza?
o pure, anche da essa deriva allo spirito un bi- sogno più alto? Senza
dubbio, un paragone con l'insieme inorganico delle singole storie
di miti sarebbe a sproposito. In questo secondo caso difatti v'è
organicità : ogni epoca influendo su la susseguente dopo che la
precedente su essa aveva operato ; ogni luogo fra i Glreco-romani
riconnettendosi, quant'alla mitopeja, con qualcbe altro, o in senso
negativo o in positivo. Ma, a parte tal rilievo, è certo che il bisogno
sussiste tuttavia. Sopra le differenze più o men no- tevoli fra
regioni e tempi, colpisce in tutt'e due i casi la costanza con cui talune
energie del- l'anima nostra, e sol tanto quelle, e sempre quelle,
influiscono su le saghe: siano la fede e Tamor patrio, il senso
naturalistico e l'acume psicolo- gico, lo scetticismo ragionevole ed il
razionale. Colpisce che, come più si risalga nei secoli, meno fra
esse intervengono nella mitopeja, fin che alle scaturigini pochissime si
ritrovano ; e che, come più si discenda nei secoli, non solo si ac-
crescono per numero ma quasi si succedono per dignità, tramandandosi tal
volta nel corso la fiaccola, umanamente. Si comprende che son le
potenze del genio pagano in officio di mitopeja ; s'indovina, entro la
libertà delle manifestazioni, cosi traverso l'epoche come sotto i cespiti
no- minativi, un'armonia ch'è ancora imprecisa ma merita indagine;
e si desidera cercare questa armonia e quelle potenze.
Concetti empirici, dunque, tali potenze? ar- bitrio di astrazione a
scopo pratico? Non cosi. Il tono generico è solo esteriore ; nell'intimo,
chi ben guardi, ciascuna di quelle parole vuol indi- care qualcosa
di assai individuo e concreto : al- tr' e tante energie spirituali che,
in certi momenti della storia, e in determinati punti della terra,
hanno gittate singolari riflessi su la saga, ora iridandola di sfumature,
ora riardendola fin nel- l'essenza : altr'e tanti fatti passibili di
storia, e solo per storia conoscibili. Le carità patrie di Euripide
e di Vergilio ; i razionalismi di Dio- nisio e di Luciano ; le religioni
d'un esiodeo e d'un latino : fatta breccia nei confini onde sto-
ricamente son racchiusi entro un'opera e un temperamento, si
compenetrano, ricalcano l'un l'altro i caratteri comuni,
contraddistinguono le differenze, quelli e queste ordinano in
sintesi: fino a divenire, in diverso contesto storico, la carità
patria, il razionalismo, la religione del genio mitopeico pagano,con
valore (si vide) bensi non compiuto, ma pm- sufficiente ; generale e
in- dividuato a un tempo. Generale, rispetto alle sin- gole saghe:
individuato, rispetto al genio mito- peico. ,— Di che può aversi riprova.
A quel modo che durante la storia d'una specifi.ca fiaba, l’interesse più
attento soverchia il cerchio breve del palco ove poche persone son mosse
in non molte vicende, e tocca, al di là, la forza animatrice di
quel moto ; del pari, per l'interesse più attento, anche gli amor patrii
di Vergilio e di Euripide, e i razionalismi di Dionisio e di Luciano,
com- petono fin da principio , dopo che a Vergilio a Luciano a
Dionisio ad Euripide, alla mentalità pagana di cui son pregni, alla vita
de' Grreco- romani nella quale immersi son trascinati su- bendo e
reagendo, come massi che il fiume ha composti e disgretola poi con la
medesima forza. Si che, a rigor di discorso, già i successivi
stadii d'un mito superano il mito, e si proiettano, in altra serie,
su lo sfondo comune, dove li dispone non più affinità di nomi e di casi,
ma di potenze spmtuali. Però a questa disposizione nuova
manca tut- tora l'ordine della successione : che è, anche, l'ordine
secondo cui la mitopeja si evolve. Non può valerci più, adesso, il
criterio cronologico : atto bensì a graduare strati di leggende ;
inetto del tutto a decider, con certezza che non sia di pallida
congettura o non nasca da arbitrio di pregiudizio, a decider se la fede
versi la purezza delle sue acque nel mito prima che l' analisi psicologica
vi gitti i suoi dati. Interrogata al proposito, ogni saga darebbe una
propria ri- sposta, diversa secondo vicende casuali o neces- sarie
(1). Qualcuna persino mostrerebbe con- temporanee le manifestazioni in
apparenza più Sul valore di queste es^pressioni LA STORIA DEL MITO
disparate o in sostanza più contradittorie. E, per tanto,
necessario sceglier altro mezzo allo scopo di vedere il genio mitopeico
vivere, com'è d'ogni individuo definito, evolvendo le sue speciali
energie. Ora, esso ha, tra i Pagani, alcune espres- sioni che ci
richiamano senza dubbio alla sua origine ; altre, che ci riportano quasi
con cer- tezza al suo termine. Basta dunque, jier graduare ciascuna
delle caratteristiche mitopeiche, com- pararle o alle qualità originarie
o agl i ultimi corrompimenti. Ma perché più certe appajono le
prime, a esse la com[)arazione va riferita. E tanto più si sente, allora,
tarda (nell'essenza) quell'energia che, acquisita allo spirito
mito- peico, più lo distorna dai suoi primi sogni : per essa, in
vero, lo spirito procede, nel tutto suo insieme, a una tappa nuova ; si
che il momento della conquista è ben paragonabile all'oscillazione d'una
lancetta sul quadrante : s'inizia l'ora. Una storia compiuta dovrebbe
però seguire il mostrarsi di ciascuna energia, segnalando il punto
in cui dopo la precedente essa confluisce nella saga a nutrirla e
deformarla, e precisando il modo del deformare. Una storia, per
contro, incompiuta e provvisoria dovrebbe, facendo i suoi raffronti,
mantenersi entro gli argini della sua incompiutezza, col tratteggiare
senza dise- gnarle le linee dell'opera propria. Tutt'e due
vedrebbero , oltre l'assiduo rinnovellarsi delle forme e il disordine
scapigliato in ciascuna saga introdotto dall'insita sorte, la vasta e
chiara armonia del complessivo progresso geniale, le cui pietre
miliari hanno nome dalle potenze del- l'animo e dalle forze del
pensiero. Legame, da ultimo, fra quel disordine e questa armonia,
apparirebbe la constatazione che tutte quasi le saghe, le quali la storia
può scegliere a suo oggetto, fanno testimonianza di sé di fronte a
noi, in lavori di arte letteraria e ma- nuale o in riti di culto, quando
oramai o per intiero o in buona parte lo spirito onde sono
elaborate ha acquisito le sue virtù: pel che quest'ultime possono
manifestarsi od occultarsi, secondo nessi stabiliti non dal loro
reciproco grado, ma dalle vicende della fiaba. Succede, in somma,
nei singoli miti, un perpetuo rinnovarsi di quei fenomeni che segnano,
ciascuno, un di- verso stadio del genio mitopeico ; rinnovarsi che
non è senza evoluzione ma con evoluzione di- versa dall'originaria.
Condizioni di ambiente fanno si che in una sola età, l'augustea, la
leg- genda di Caco si manifesti infusa di x^atriottismo e zelo
religioso presso Vergilio, incrinata di scettico dubbio e di saccente
sofisticheria presso Dionisio ; ma, contro questa contemporaneità
cronologica, non esitiamo a proclamare più ve- tusta l'una forma a petto
dell'altra nel riguardo della complessiva mitopeja. Tal certezza si
con- forta, in questo caso, dell'esame delle fonti, donde appare
VergiKo attingere a più antica sorgente che Dionisio ; certezza dovrebbe
durar tuttavia anche quando il riscontro non fosse possibile per
qual siasi motivo. Com'è del mito di An- dromeda, il quale è già scaduto
in un tentativo di travestimento storico allor che Euripide lo
solleva al culmine della sua vita penetrandolo di passione patria e di
pensiero religioso. Crii è che la mitopeja ha oramai il possesso
sicuro di ciascuna tra quelle sue forze e di volta in volta ne fa
uso secondo richieggano sorti di- verse. Spetta all'occliio dello storico
separare, caso per caso, dal suo rinnovarsi il primigenio acquisto:
per decidere se lo stadio di una fiaba sia evolutivo solo rispetto agli
stadii anteriori di quella fiaba; o sia in vece, insieme, evolutivo
nel progresso del genio mitopeico. Va perduto cosi l'impetuoso
rigoglio di forme, per cui le figure si moltiplicano disponendosi l'una
a canto dell'altra, affini sorelle, non iden- tiche aggeminazioni ; e i
casi si ripetono e s'in- trecciano simiglianti e differenti ; e si
dispon- gono in racconti svariati, che ciascuno possiede, quasi
nome personale, una peculiare orma, né confusioni son lecite, e taluno,
fatto vivo dal- l'arte, ha destino qualche volta non perituro. La
storia della mitopeja per contro diviene scaltra a scoprire, in luogo
dell'abbondanza creativa, la limitatezza fondamentale della ma-
nifestazione : il sottostrato di potenza definita, di là dalla superficie
delle creazioni che si tra- mutano lungo serie senza termine e fogge
senza numero. — E né meno qui, in quest'altro ufficio, essa si
converte in scienza astraente e classifi- cante. Quando vengono disegnate
le vie che la mitopeja trovò per le sue creature, si adoperano
certo concetti empirici e partizioni; quali fra letteratura e arte
pittorica, fra statuaria e culto, per cui il filosofo userebbe termini
ben diversi. Ma i medesimi concetti intervengono nelle storie dei
singoli miti, insieme con altri, e non impe- discono che quelle storie
concretino individui ben precisi e reali. Si che a ogni modo la
loro presenza non può decidere senz'altro contro la natura storica
di un' opera. Difatti, ancor questa di cui parliamo lata storia
mitopeica fonde leggi categorie e formule nello scoprire: in primo
luogo, i confini entro cui tutte le ma- nifestazioni favolose son
racchiuse; in secondo luogo, i gradi secondo cui esse sono
disposte; onde riesce a precisare una risposta a questo problema,
ch'è denso di realtà storica : con che mezzi e con quale sodisfacimento
lo spirito pagano mitopeico si manifesta ? Il badile ed il coltello han diritto
alla loro epopea, dopo le pagine ove Tincruento travaglio campestre e
la sanguinolenta strage hanno diffuso riflessi dolci e
selvaggi. Ma poi che questa diversa istoria del genio
mitopeico, nel suo nascere, nel succedersi delle sue potenze, nell'ordine
dei suoi mezzi, siasi compiuta, e non ancora conchiusa, riapparirà
a sua volta catastrofica e non elegiaca : segnando, senza
sconforto, la fine della mitopeja pagana. — Non senza rimpianto però,
ch'è differente cosa. Non vediamo pili Centauri scender galoppando
dai ventosi antri dei monti : né per noi ogni sera il Sole muove verso
l'ombra a combattere mostri marini e piegare tracotanza di violenti.
Quella cecità e questa negazione sono stati il prezzo con cui
pagammo altri spettacoli ed altre cer- tezze. Ma il prezzo duole, nel
fondo del cuore, alla nostra avarizia di uomini, a questa cupi-
digia di opulenza spirituale. Sin qui tentammo della mitopeja e della
sua storia il concetto compiuto. Ma un motivo, che si forma nella
pratica degli studii e della vita, e si rafforza di esigenze, estranee
bensì alle fiabe e alle storie loro, ma non agli storici ; un
motivo interviene spesso a ridurre le indagini e le ricostruzioni del
mito nei confini di una sol tanto fra le maniere dell'espressione mitica:
nei confini della letteratura. Certo, il genio lette- rario dei
Grreci e dei Latini ha saputo rendere immortale il tessuto de' suoi sogni
mitici con l'opera di non so qual spola d'oro. E anche sia concesso
senz'altro esser la letteratura di gran lunga preminente rispetto e alle
altre arti e ad ogni diversa forma del significare le saghe (1).
Non cessa però che di queste ridurre la storia nell'ambito di pur una fra
le loro espressioni è compiere una arbitraria amputazione.
Lealmente riconoscendola, questa colpa è grave. Né
medicabile. Si può palliarla: come suole lo storico dell'arte richiamarsi
per accenni alla storia civile e alla letteraria ; e cosi in reci-
proca guisa. In ispecie quando, per le lacune che sono ampie e non rade
nel pur ricco pa- trimonio trasmessoci dagli antichi, uno o più
stadii d'un mito sieno costituiti da nessuna forma di letteratura, bensi
da prodotti scolpiti o dipinti o in altro modo artisticamente lavorati
dall'attrezzo e dalla mano. Allora la storia monca deve a forza
integrarsi di quella sua parte che un caso rende ben necessaria e come
vitale. Con simile pensiero è fatto ricorso alle notizie cul-
tuali, e le formule de' sacerdoti le litanie dei fe- deli si cercano,
farmachi preziosi, a supplire e lenire organiche deficienze. Ma la plenitudine
non è se non nell'intreccio del tutto ; e i rife- rimenti, fìngendola,
tradiscono il vuoto. Mal colmato, il difetto permane, e si appaja
con la incompiutezza cui limitate esperienze entro esiguo numero di
miti costringono il ritratto del genio pagano facitore di saghe. Permane
: la sua radice s'insinua fra stretto] e rupestri, si che non è
pronto lo svellerla ; ineffettuabile tal volta. Onde avviene che dinanzi
la storia insuf- ficiente cosi della singola favola come della total
mitopeja antica , la nostra insoddisfazione si cresce del diffìcile
sforzo per rimanerne sgom- bri. Tant'è: nell'isola ove piaceva a Kalypso
di amarlo, con promessa di rendergli " senza vec- chiezza né
morte per sempre „ la vita, Odisseo, da la rupe a fronte del mare, piangeva
la pa- tria lontana. L'anno avanti Cristo quattrocento dodici
Eu- ripide fece rappresentare in Atene una sua tra- gedia
intitolata Andromeda^ alla quale forniva materia un episodio del mito di
Perseo. Ma se l'opera dramatica aveva tratto dalla saga la so-
stanza a nutrire la sua compagine, nell'opera la saga viveva una vita
altra da l'anteriore: però che lunga già e complessa ne fosse
stata, innanzi, l'evoluzione. Antichissimamente, negli anni
cui corrispon- dono, eco affievolita, i più vetusti canti della
epopea e poche mal certe tracce, una assai uber- ei) Cfr.
per tutto questo cap. l'Indagine in libro II cap. I; di cui si citano i
§§ nelle note successive. tosa terra di Grecia aveva fecondato di
sé un semplice racconto (1). Si narrava in Tessaglia, e in
ispecie nella pianura pelasgia che fu detta Pelasgiotide poi, di un
re, cui era regno in Ai'go (Pelasgico), molto potente ma triste. Vecchio,
difatti, e non lontano da morte, egli era tuttora senza prole
maschile, unica essendogli nata una figlia a nome Danae. Ansioso per l'
avvenire di sua schiatta, si sarebbe recato a consultare in Delfi
l'oracolo di Apollo, dal quale ebbe in risposta, non essergli per nascer
maschi se non da Danae, ma dovergli il nipote togliere e trono e
vita. Non fu vano il grave mònito; ed ogni cura fu posta a che la
vergine restasse dal generare, contro la sorte. Ma Preto, fratello del re
Acrisio, riusci occultamente a renderla madre d'un bimbo che fu
chiamato Perseo. La nascita, che si volle tener celata, fu in vece
scoperta e causò l'irosa vendetta del re impaurito, il quale
decretava che la giovine e il neonato fossero, — come Preto per
altra parte fu, — cacciati, e derelitti in balìa della violenta natura e delle
intemperie. Mossero Danae e Perseo verso l'oriente e per- vennero
in Magnesia: ove per loro fortuna li accolse un pescatore, Ditti, che li
ospitò di poi nella casa sua e del fratel Polidette. Il bambino
crebbe fanciullo, giovane agile e vigoroso: tra i coetanei valente in
giuochi ginnici ove nerbo di muscoli e destrezza di ginocchia d'occhi
di braccia si rivelassero. Allora piacque al caso (1)
Cfr. § II e III. che il re di Larisa indicesse fra' giovani ima
gara pubblica e che all'agone partecipasse l'a- dolescente Perseo e
assistesse il vecchio Acrisio ospite del dinaste vicino. Accadde
l'inevitabile, che la Pizia aveva predetto e a cui non si poteva
sfuggire: il disco venne dalla mano di Perseo lanciato, — opera d'un
nume! — contro le de- boli membra del nonno, che ne fu morto. L'o-
racolo per tal modo compiendosi, il nepote ri- conosciuto si ebbe il
trono e la dignità dell'avo. Una tal fiaba parrebbe germogliata,
semplice e intiera, su dal suolo mitico d'una tribù aria, frutto
non insolito d'un seme a più altri simi- gliante: ove la stessa sua
trasparenza non ne scernesse, una ad una, le fibre. C'è, in quel
breve racconto, lo spunto originario della morte inflitta dal
giovine, che si rivendica l'avvenire, al vecchio progenitore, che il
passato ha curvo e fiacco : dal Sole, — ciò sono, — nascente circonfuso
di purpureo sangue, per illuminare l'oggi, al Sole occidente verso
il bujo, circonfuso di pm-pureo sangue, dopo aver rischiarato il jeri.
Durante la notte, nell'ombre, il delitto si è compiuto ; e l'astro
giovine regna in luogo dell'antico, nato da una Danae (donna di quei
Danai che nella leggenda combattono i Liei o ^' Luminosi „) e
sorto, oltre la linea dell'orizzonte, su dalle case sotterranee
diPolidette ("l'accoglitoredi molti „ sovrano dell'oltretomba). A
cotesto schema rozzo, cui è il mal grato biancore di ossa a pena
commesse, diedero nel principio veste di muscoli e colori i nomi locali,
che tante reminiscenze di bellezza e di rigoglio traevano con sé e
richiama- vano a tanti concreti particolari della realtà :
le pianure d'Argo Pelasgico ; Larisa ; il venerando oracolo di
Delfi; le montagne della Magnesia in ispecie, nell'est, dalle cui giogaje
ride prima la luce su i pascoli, e che dalle grotte temibili,
disagiato ospizio di fuggiaschi, recavano al mito un brivido tra di paura
e di pietà. Di poi sul racconto naturalistico, come i3Ìù
venne foggiandosi in forme di plastica umana, s'innestò una di quelle
novelle, simili tra loro come tra essi i cristalli di medesima specie,
nelle quali il popolo par condensare, con la propria esperienza, la
propria filosofìa della vita, i^erché vi fissa gli esempli tipici delle
consuete vicende (per lo più, familiari) e le sembianze caratteri-
stiche delle figure che sospinge la sorte comune. Traverso la fantasia
delle masse, come traverso un vaglio singolare, il complesso, per
esempio, dei pastori o de' pescatori e l'insieme de' vizii e delle
virtù che in genere presso quelli si riscontrano, si affina in una
selezione di cui è vano cercar le leggi, per comporsi nella sintesi d'un
personaggio tradizionale con tradizionali e pregi e difetti : il
pastore, dico, o il pescatore soccorrevole e onesto che come suo alleva,
dopo averlo accolto ed ospitato, il figlio non suo. Analogo è lo
schema della fanciulla cui nasce illegittimo un bimbo e che l'ira
del padre discaccia per pena. Grracili virgulti quello e questo ; cosi
fatti però che im- provvisa linfa vi rifluisce non a pena s'immet-
tano sopra una determinata leggenda : cui recano, per altro, non esiguo
contributo in compiutezza e bellezza. Nella Pelasgiotide appunto
impres- sero alla fiaba tutta una diversa vivacità roman- zesca e
forza dramatica. Non fu tuttavia sovrapporsi d'uno strato a un altro, cosi che
il più recente prevalesse sul più antico fino a ri- durlo in oblio:
fu, come mi espressi, innesto; onde l'essenza solare di Perseo, la sede
orientale del bujo Polidette, permasero a costituire il volto
significativo del mito durante tutto questo primo stadio, tessalico,
della sua formazione. Il che fu chiaro in sèguito (1). L'Argo
Pelasgico o v'erano re nella fiaba Acrisio prima e Perseo poi,
venne confondendosi, nei canti dei poeti e per gli scambi! mitici fra i
varii popoli della Grecia, con altro Argo, che sorgeva a offuscar in
gloria e potenza il più antico, ed era situato in un con- chiuso
piano del Peloponneso fra monti e mare, nell'oriente della penisola. I
due Argo furon quindi, in realtà, uno: prima il tessalico, poi il
peloponnesiaco; per guisa che a questo si riportarono via via le leggende
che a quello si erano dianzi riferite. Fra l'altre, anche la nostra
di Perseo: il quale divenne adunque, se pm" nipote dello stesso
nonno, rampollo di schiatta cresciuta sopra altro suolo. La popola-
zione argolica assimilò ben presto la saga tes- sala con i suoi
particolari e le sue figure: persino l'accenno a la Magnesia, che quanto
mai discon- veniva alle sedi mutate, si serbò in solco pro- fondo ;
persino, e specialmente, la morte di Acrisio in Larisa, cui grande varco
di terre e di mare separava dal Peloponneso, si mantenne non
alterata. Al conservarsi contribuirono due motivi. La Magnesia era nel
mito ricordata per mezzo del suo eponimo Magnete, che si fìngeva
padre di Polidette e Ditti: facile quindi sottrarre al nome della persona
ogni valore di riferimento al luogo geografico e ripeterlo fuor d'ogni
atti- nenza concreta, A Larisa poi durò alquanto un sacrario
{heroon) dedicato ad Acrisie : sicuro perno adimque, che nemmeno la nuova
leggenda poteva facilmente trascurare. Ma col proceder degli
anni tutto che nel mito non fosse o compatibile senz'altro con la
mutata sede o ineliminabile per cause intrinseche fini con
l'alterarsi. Il ricetto, in particolare, ove Ditti figlio di Magnete
avrebbe accolto Danae, e il padre di Perseo vennero corretti e adattati:
né è a dirsi qual de' due ritocchi sia il più antico ; ma si vede
bene quale è per essere il più impor- tante. A Preto fu, nella seduzion
furtiva, sosti- tuito Zeus, il dio veneratissimo in Argo, da cui si
faceva discendere anche l'eroe eponimo Argo : già che forse piacque cosi
adombrare quel Preto che in Argolide doveva riuscir meno noto, e
che aveva, per quanto ci è dato supporre, contenuto naturalistico
simile a Zeus. Ai monti poi della Magnesia, pur permanendo Magnete, fu
sosti- tuita l'isola di Serifo ch'è di fronte all'orientai costa
del Peloponneso nel mare del golfo argivo. Perché quell'isola fosse la
prescelta, s'ignora; notevole a ogni modo è che per essa un lembo
di territorio jonico sia tocco dalla leggenda nata fra Eoli e trapiantata
in Argolide. Da Argo fra tanto il mito si diffonde: attinge Micene,
pe- netra a Tirinto. Nella quale anzi cosi si radica, che s'inventò
come Perseo, ucciso il nonno, avesse onta di rientrare in Argo e
preferissenceder questa, per riceverne Tirinto, a suo cugino Megapènte
figlio di Preto. Se non che: con l'irradiarsi la saga, perno
Argo, nel Peloponneso; e col pervenire essa in territorio jonico: si
prepara all'evoluzione futura una base duplice in cui son contenuti
potenzial- mente due ulteriori sviluppi. Entrambi si devol- vono
nel fatto, simiglianti tra loro per sostrato e valore, e paralleli in
modo che non è riuscibile lo stabilire la priorità dell'uno su l'altro.
Era leggenda fra i Joni (1) che la dea Atena, cui molto culto si
tributava e particolar reve- renza, recasse sopra il suo scudo la testa
di un mostro pauroso e ricinto d'ombre : Medusa, una delle Gròrgoni
dimoranti al limite estremo del- l'Oceano, oltre la terra, dove il Sole
scompare e si profonda nel bujo. Su lo scudo quel capo significava
trofeo d'una vittoria conseguita dal- l'iddia avverso la protervia
nefasta di quella figlia di abissi marini. La leggenda era antica,
traccia della natura xDrima ond'era informata Atena, divinità della luce
solare, nume del tem- porale, in cui più vivo è il contrasto fra le
forze luminose e la potenza delle tenebre. E del Sole per vero un
altro attributo si riferiva, tra i Joni, alla dea Pallade: il possesso
d'una cappa, lavorata nella pelle canina, onde si dissimulava il
suo splendoreogni qualvolta piacesse a lei di occultarsi : a quel modo
che l'astro sparisce agli occhi umani per molte ore vestendosi
di oscuro. C'erano adunque, in racconti embrionali tuttavia, spunti
di gesta eroiche o divine: le quali, se si accoglievano bene nella figura
di Atena, non formavano ancora intorno alla sua persona una veste
cosi aderente, che non fosse possibile separamela in parte con lievi
altera- zioni. Si direbbe anzi che la vittoria contro la Gròrgone e
la proprietà della cappa invisibile si riportavano assai meglio al
sostrato naturalistico della Dea che non al suo individuo, alla
folgo- rante luce che non alla sostanza corporea della effigie
umanata. E perché Perseo quando per- venne in Serifo, e come in Serifo in
Atene in Mileto nella Jonia, ancor traeva alimento al suo essere
dall'energia naturale (la veemenza del Sole) di cui era forma e onde era
nato, e poteva pertanto in facil guisa accostarsi, simile nume, a
Pallade; accadde che a lui pure si attribuissero e l'impresa contro
Medusa e il cappuccio ca- nino : cosi che alla dea non rimase altro
ufficio se non quello di ajutare e protegger l'eroe. Fu quasi una
contaminazione delle due leggende in una; ma di due leggende non
indipendenti né ciascuna distinta per sé, si di due che si originavano da
una medesima intuizione delle forze naturali, e aggeminate si erano dopo
che aspetti simigliantissimi dell'unico Astro avevan tolto in
luoghi distinti doppio nome di Atena e di Perseo. Il racconto
che ne nacque, come prese a vi- vere d'una essenza propria, ebbe la sorte
d'ogni materia vivente in organismo : si accrebbe. La fantasia che
plasma le leggende ha certi suoi modi, quasi formule, quasi schemi, nei
quali va foggiando analoghe le sue opere : essa imprime del suo
segno terreno il racconto di quegli spet- tacoli della Natui'a cui aveva
già dato volti e gesti umani : prende una seconda volta pos- sesso
della sua materia. Cosi non concede essa all'eroe, — e sia pur grande
d'assai più che l'uomo, e assistito da soccorrevoli iddii. — facile
e pronto il conquisto; vuole sia arduo: prepa- rato con forza ed astuzia.
Ecco imaginati talis- mani senza cui l'opera non può compiersi e
per i quali trovare si richiederanno altre fatiche : ecco pensata,
prima dell'impresa, un'awentui'a preparatoria, ch'è mezzo non fine , ma
non è dispensabile : e all'avventura apparecchiati i per- sonaggi.
— Qui, furono le figure in cui la novella fissa ed esagera la vecchiaia:
le tre sorelle Graje, canute fin dalla nascita, veggenti, tre, per
un occhio solo vicendevolmente, masticanti, tre, con un dente.
Esse, — si narrò, — sapevano la sede di certe Ninfe dai calzari alati,
senza cui non era concesso ad uomo trasvolar fino al limite
dell'Oceano presso le Gòrgóni, e dalla bisaccia (xi^iaig) magica, che
fosse atta a contenere, dopo spiccato, il capo di Medusa. Perseo vi si
recò dunque ma non ottenne né quelli né questa se prima non ebbe
con violenza privato le tre vec- chiarde dell' occhio e del dente ,
esigendo a compenso della restituzione i due oggetti cui
mirava. Gli fu agevole poi, auspice Atena, conseguire lo
scopo. Arma gli venne attribuita la falce. Ermes glie l'avrebbe donata,
nume in particolare diletto, se pur non quanto Atena, agli
Ateniesi; il quale, avendo allora già assunto rilievo di
dio luminoso, era affine a Perseo e dicevole soc- corritore contro i
mostri bui. Cosi erasi d'assai allargata la saga. A
concliiuder la quale non rimaneva oramai se non motivare l'impresa strana
del fanciullo cacciato con la madre da Argo e accolto in Serifo.
Cronologicamente essa non poteva cadere ciie nell'intervallo fra l'ordine
iniquo di Acrisio e il ritorno del giovine sul trono avito.
Logicamente la causa dell'avventura e del pericolo aveva a
connettersi con gli ospiti di Danae : Ditti e Po- lidette. E poiché non
certo l'originalità è più ricercata nella mitopeja, fu sfruttato ancor
qui un comune motivo leggendario, stracco per quel che parrebbe a
noi, non tuttavia si sterile da non riuscire ad arricchii'e la fiaba di
quei tramiti episodici onde abbisognava. Come contro la Chi- mera
fu spinto Bellerofonte da chi ne desiderò la morte; come Q-iàsone in
Colchide venne in- viato perché perdesse nell'arduo cimento la
vita; cosi Perseo avrebbe assunto il rischio medusèo per stimolo di
Polidette, che innamorato di Danae bramava toglier di mezzo il giovine
di- fensor della donna. Oramai il racconto era compiuto :
armonico, organico, uno: vibrava d'una forza sintetica dalla quale
eran fusi i diversi elementi confluitivi da parti lontane. 11 lavorio
invisibile di penetra- zione, lata e i)rofonda, nel suolo jonico a
traverso strati naturalistici e nove] listici aveva dato alla fine il suo
bel frutto maturo. Analogo al processo d'evoluzione mitica
per cui il nucleo tessalo-argolico della saga s'era accresciuto d'un
episodio e di due campeggianti figure, Atena e Medusa, fu l'altro che in
diverso terreno preparò novella sixnigliante (1). Ma, a un tempo,
incomparabilmente più complesso ed inviluppato: tanto che l'indagine
riesce a rico- struirlo non con la fondata probabilità ch'è con-
cessa all'esame del mito di Medusa, ma con in- certezze non jDOclie, e
con grande cautela. Se l'ipotesi non erra, due personaggi costituirono
i X^erni fondamentali di quel processo: e l'uno è Perseo nella sua
natura di eroe luminoso in lotta con i mostri tenebrosi ; l'altro è
Cassiepèa o, — come il suo nome significa senza dubbio, — la "
millantatrice „; tipo popolaresco della donna orgogliosa troppo di sua
bellezza che osa com- petere in gara ineguale con le Dee, e n'è
punita per fiere pene nella sua prole. Due perni adunque di essenza
diversa, che l'uno è naturalistico, novellistico l'altro ; cui tuttavia
compete un co- mune carattere precipuo: l'attitudine, cioè, a
commettersi con più altri elementi, a raccoglierli intorno a sé, quasi
per energia magnetica; cosi da allacciare in maglia e in rete più trame
mi- tiche distinte. Per essi si formarono due compa- gini
leggendarie che insieme li contenevano e n'erano quindi accostate fra
loro. — L'una. Si conosceva, fra i Peloponnesiaci in
particolare, un re mitico Càfeo o, in altra forma, Cèfeo, che sarà x)iù tardi
venerato con carattere e attributi di divinità ctonia in Cafìe, luogo
del- l'Arcadia ; e che veniva creduto signore di popoli abitanti
all'orizzonte fra la luce e l'ombra. Quivi eran, secondo già l'epopea
omerica, gli Etiopi, arsi appunto dal Sol nascente e dal tra-
montante, tòcchi dal bujo per un lato, immersi nella vampa per l'altro.
Cèfeo dunque re degli Etiopi reggeva il suo popolo in quelle stesse
lontane regioni, o in tutt'affatto conformi, nelle quali ritrovammo aver
sede le Grorgoni, e verso cui come a simili mete muovono in
awentm'a i simili eroi solari. Che anche fra gli Etiopi nella terra
di Cefeo fosse condotto Perseo, è a pena bisogno, — quindi, — di dire.
Per scopo fu scelto non an mostro specifico, quale Medusa, ma una
vagamente indicata belva che sorgesse da l'onde a esterminio e terrore:
il ketos. Soc- correvole, nell'officio di Atena contro la preda
gorgonèa, s'indusse un diffuso tipo di Vergine, strenua in combattere,
ignara di mollezze fe- minee, il cui maschio nome istesso rendeva
ima- gine di possanza non muliebre si virile: l'An- dromeda. Qual
motivo in fine si ritrovasse alla impresa ignoriamo; ma possiam senza
errore fìngercene uno non dissimile da quel che ap- prendemmo
nell'altro episodio , cosi concorde con questo per contenuto forma e
valore. Si ottiene un mito modellato sopra i medesimi schemi su cui
è foggiata l'impresa fra i Joni ; nel quale i nomi a pena pajon mutati;
ma tutte le tinte sarebber identiche se non fosser d'alquanto più
sbiadite, e tutti i particolari in- variati se non apparissero scemi al
paragone. Un arricchimento però venne ad esso mito quando Cassiepèa
vi fu introdotta. E consistette non nell' aggiungersi d'un personaggio
all'azione. si più tosto nel trasformarsi profondo del signi- ficato
complessivo che quell'acquisto ebbe a pre- parare. Due avventure di
Perseo contro mostri delle tenebre non potevano non venir
avvicinate prima, e dissimilate i)oi. Si tramutò Tuna, la minore e
più svigorita. E fu iDer un evolversi, si direbbe spontaneo, della
sostanza eroica di Andromeda. La " Maschia v, si andò
raggenti- lendo fin che si transfuse del tutto nel tipo
novellistico della fanciulla che l'eroe libera di prigionia, ama e sposa.
Gli era stata al fianco nella lotta, in gara aveva lanciato i sassi contro
il ketos avanzante dal mare, — e un vaso del secolo sesto ce raffigura
nell'atto sgraziato del lancio, — constringendole e movendole le
membra l'animo pugnace. Fu poi dinanzi al prode, premio insigne
alla vittoria, bella non forte. Allora, di- venne indispensabile
giustificar la cattività della fanciulla, motivar la lotta di Perseo
contro il mostro a liberarla : e Cassiepea servi allo scopo. n
vanto della " millantatrice „, dalle Dee offese punito nella vita
giovine e florida della figlia, — Andromeda fu tramutata in sua figlia,
— sarebbe appunto stato la causa prima del peri- colo orrendo e
della pugna eroica. Per tal modo tutto l'aspetto originario dell'episodio
è alterato, nel profondo. La seconda forma possiede la vita che non
la prima. E individuata come non la prima. Da l'una a l'altra
segna il passaggio Andro- meda trasformantesi, e accanto a lei resta
Cefeo che con lei si evolve. Ma se questi sono di tal mito i personaggi
caratteristici, i fondamentali sono Perseo e Cassiepea. Cassiepea e
Perseo prevalsero pure, sembra, in un'altra leggenda differente di
origine. Pro- tagonista è qui Fineo : divinità del fosco setten-
trione di cui le saghe lumeggiarono due aspetti opposti. Benefico e
malefico egli può esser difatti : secondo che dietro lui muova il rigente
turbine del nord a offuscare le chiarità solatie ; o che la
freschezza dei suoi vènti temperi l'afe estive ri- cacciando a mezzodì
gli affocati avversarli che il Sole suscita su l'equatore. Quest'ultimo
carattere fu, in vero, la base del racconto, giusta cui egli
sarebbe stato fin nelle sue sedi assalito dalle Arpie, mostruosi uccelli,
mossegli contro da Elios ene sarebbe perito senza l'intervento
de'fìgli di Bòrea i quali respinsero le moleste e perse- guitarono
a ritroso fin là dond'erano venute. In tutto parallelo al formarsi di
questo mito delle Arpie, ma mosso da principio diverso, fu il for-
marsi della nostra saga intorno a Fineo. Contro di lui il Sole non si
sarebbe levato col maleficio deleterio de' suoi vènti meridionali, ma con
la forza purificatrice dei suoi raggi chiari: per vincerlo, non per
esserne sopraffatto. Non l'au- tunno sopravviene, nella nostra leggenda,
a miti- gare le ardenze della riarsa estate ; si la prima- vera a
dissipar le brume e i geli foschi dello inverno. Ora l'eroe
solare che trionfa del re nordico fu, — sembra, — appunto Perseo, in
singoiar duello. E cotesto embrionale racconto, cercò, e trovò, un
motivo in Cassiepea : ancor una volta pare che il vanto di lei fosse
addotto a spiegar la sorte inferiore di Fineo, — suo figlio :
figlio per vero alla donna ce lo testimonia l'epica che si
dice da Esiodo. Col che si ottenne anche di fornire compiutezza
romanzesca alla favola, quando il significato naturalistico ne
andasse smarrito. C era dunque la materia , idonea a produrre, ove
uno spirito creatore trovasse in sé il levame opportuno, un mito pur esso
drama- tico né meno denso di bellezza poetica. In vece, prima
ancora che riuscisse a comporsi in opera ben delimitata, fu travolta e
assorbita in diverso complesso. Però che i due intrecci di Andromeda e di
Fineo, ne' quali entrambi Perseo e Cassiepea appari- vano non pure
nell'identità de' nomi ma e nella analogia degli uffici, non potevano
rimanere distinti: e tanto meno potevano se, — come non è provato
ma è forse da ritenere, — un mede- simo suolo li generava. Si com
penetrarono di- fatti fin che divennero una narrazione sola in cui
gli elementi delle due generatrici sussiste- vano tuttavia presso che
integri, là sol tanto alterati ove fosse parso inevitabile alla
logica della commessura. Rimase il duello fra Perseo e Fineo;
rimase la discendenza di Andromeda da Cassiepea: ma, e fu il segno della con- nessione fra
le 'due saghe indipendenti, la
causa della lotta fra i due eroi, fu rintracciata non più nel supposto
vanto d'una madre, ma nella stessa precedente vittoria di Perseo
contro il ketos e nelle successive nozze. Fineo, si disse, sarebbe
stato il promesso sposo di Andromeda avanti la venuta del giovine
liberatore: cosi ignavo prima a soccorrerla, come presuntuoso poi
nell'accampare diritti di precedenza. Inascol- tato ricorse, ancora si
disse, al coperto agguato con l'armi. Fu abbattuto. Cosi si conchiuse
questa fiaba di doppia scatuiigine : senza che nulla dei due miti
che vi si fusero (su Cefeo l'uno e An- dromeda, su rineo r altro) andasse
perduto, tranne il nesso di maternità fra Cassiepea e Fineo.
Chi confronti ora da un lato l'avventura me- dusèa di Perseo con
l'assistenza di Atena ed Ermes, e l'impresa d'altro lato avverso il
ketos con il premio della vergine e il contrasto con Fineo ; e si
fermi alla superfìcie variopinta dei due episodii, senza indagarne il
significato re- condito ; non vi trova pili tracce di quella simi-
gliali za che le saghe della "Maschia,, e della Gorgone rendeva
pallide entrambe ; bensì li av- verte dramaticamente diversi, materiati
entrambi di moti sentimentali ma or verso la madre Danae or verso
la liberata Andromeda; di cimenti pe- rigliosi ma ora contro Medusa
spietata ora contro la famelica belva ora contro l'imbelle
ostinato. La cosi ottenuta diversità formale, permise a chi volle
aggruppare intorno al nome di Perseo tutte le vicende di lui, di comporre
queste due in ordine insieme con la nascita dell'eroe e la
uccisione del nonno Acrisio. — Un'opera siffatta fu compiuta da Ferecide,
il quale ci trasmise tutto il mito, nel suo insieme organico, e di-
venne per tanto la base prima d'ogni ricerca costruttrice (1). Ne
possediamo un sunto per opera d'uno scoliaste; lacunoso, j)erò, onde
è necessario integrarlo col testo del ben più tardo Apollodoro. Non
ridaremo qui la trama disa- dorna. Essa non è più per noi, nella forma
con cui ci pervenne, il corpo, plasmatosi dopo la lunga gestazione
per effetto della sintesi nar- rativa; ma è, di quel corpo, lo scheletro.
Dalla nascita misteriosa vediamo Perseo compiere , dopo l'infanzia
trascorsa in Serifo, le sue av- venture, la medusèa e l'etiopica, per
ritornar- sene in Serifo a impietrar Polidette e in Larisa a
uccidere per equivoco Acrisio, stabilendo poi in Tirinto il suo regno,
che Argo gli era di- venuta infesta. Ma effetto dell'esser stata
rac- colta in sintesi la serie delle gesta eroiche di Perseo non fu
solo di fargli attribuire per arma contro Fineo il capo della Gorgone o
di condurre sul trono di Argo Andromeda re- gina; ma fu, più tosto
e meglio, di sottraiTe all' episodio del ketos ogni vita autonoma :
valse esso qual momento d'una complessiva azione ed ebbe valore di
conseguenza da un lato, di premessa da l'altro. Parte d'un tutto,
doveva dal tutto ricever sua norma e sua im- portanza: fin che al meno
non ne fosse mu- tato il sostanziai contenuto; e l'essenza sua romanzesca,
— gradita a' novellatori, tanto più quanto più di fatti si 'arricchiva la
trama, di particolari le vicende, di gesti le figure, — non si
trasformasse in essenza diversa. Nel molto che andò perduto eran
certo forme varie di cotesta indispensabile trasformazione. Una ne
ravvisiamo tuttavia appresso gli storici del secolo quinto (1). Per essi la
favola di Perseo e Andromeda acquista una impor- tanza nuova di
reliquia fededegna serbata a traverso gli anni. La cagione è un
avvicina- mento verbale : uno de' consueti di cui si com- piacque
la fantasia degli anticM nel conato e nella pretesa di farsi pensiero
critico : fra Perseo e i Persiani. L' analogia non etimolo- gica ma
fonica indusse a ritener quello capo- stipite di questi: non direttamente
però, si bene per mezzo d'un figlio suo di cui fu coniato il nome
" Perse „ per più di verisimiglianza. A dar poi un aspetto anche
meglio credibile alla congettm^a fu addotto il nome d'impronta ària
di cui doveva esser memoria fra i Persiani, " Artèi „: questo
ritenendosi epiteto primitivo ; quello, posteriore, tolto dall'eroe e
dalla sua discendenza. Naturalmente si lasciò, a tal fine, sbiadire
fino alla scomparsa il ricordo degli Etiopi, sudditi di Cefeo nella più
antica saga: però che essi si riconoscessero, in quell'epoca, or
mai identici a reali " Etiopi „, situati al sud dell' Egitto. In
luogo loro si coniarono i " Ce- fèni „ desumendoli, come traspare,
dall'ap- pellativo medesimo del re. E si pensò che a Cefeo succedesse
nel regno il nipote Perse, figlio di Andromeda e Perseo ; che Perse,
guidando i Cefeni, li conducesse a sottometter gli Artei ; e il
popolo fuso dei vincitori e vinti da lui si denominasse Persiano. La
garbata ricostru- zione critica non fini in questo : perché,
difatti, i Cefeni con Perse sarebbero mossi a sottoporsi gli Artei?
La risposta si trovò combinando questa congettm:"a con un'altra.
Oltre ai Caldèi semiti che avevan sede intorno a Babilonia, eran
noti altri Caldei abitanti lungo il Ponto, presso i Mariandini e i
Paflàgoni; e il gruppo esiguo di questi si riteneva un ramo da
quelli staccatosi in età antichissime. Poiché inoltre sul Ponto la
leggenda delle Arpie affermava abitar Fineo fratello di Cefeo e principe
per tanto dei Cefeni; fu facile dire che i Cefeni avevano
abbandonato la regione loro, allor quando da Babilonia i Caldei eran
mossi verso il nord. E costrurre quindi in un sol tutto la
trasmigrazione totale cosi: da Babilonia si di- parte una schiera di
Caldei ad occupare la terra settentrionale dei Cefeni e scaccia questi
; che si spingono verso gli Allei, li sottomet- tono e insieme
divengono il popolo de' Persiani. Se non che questa mitopeja di
eruditi pur riuscendo a staccar l'episodio di Andromeda in singoiar
guisa dalla leggenda di Perseo, infon- dendogli una essenza nuova
dissonante dal resto della fiaba , finiva però in una soppressione
dell'avventura. La venuta di Perseo fra i Ce- feni, la lotta col ketos,
le nozze con Andro- meda, il duello con Fineo, sono un niente a
petto della conseguenza precipua su cui ogni altro fatto s'impernia : la
nascita di Perse. Le premesse non hanno più vita artistica; le con-
seguenze, ne hanno una storica. Una pseudo realtà nasce; ma la bellezza
muore. Per tanto, se le gravi lacune del nostro pa- trimonio
letterario troppo non ci traggono in inganno, l'episodio di Andromeda, che
nacque dal combinarsi di esigui intrecci leggendarii» emergenti a
lor volta su da rigide abitudini mentali e in mezzo a consueti aspetti
della fantasia mitopeica, non solo perde presto la sua autonomia
col commettersi ad altre vicende, ma indugiò a svincolarsi da F impaccio,
e a cir- coscriversi in forma e colore : a bastanza, perché il
senso critico lo adulterasse e , un poco , lo vituperasse. n.
— Euripide. Fu sorte della tragedia dare a esso episodio di
Andromeda il contenuto nuovo : che non fu né romanzesco né storico ; ma
psicologico. Di altri non ci rimase sufficiente notizia. Di Euri-
pide possediamo i frammenti bastevoli a rico- struire il drama, se non
ne' suoi particolari di arte e nelle sue forme di tecnica teatrale,
certo nelle sue linee maestre (1). Era consuetudine ferrea
che la tragedia nei suoi episodii svolgesse un mito. Ma in quale
modo i tragedi pervenissero all' elezione del tema e alla scelta
dell'argomento non è possi- bile dire, per la oscurità imperscrutabile
de' pro- cessi artistici tal volta inconsci, e per la penui'ia I
frammenti, naturalmente, son citati e tradotti su Nauck Fragmenta
tragicorum graecorum^ (Lipsia 1889). delle notizie tradizionali.
Sol tanto si può con qualche chiarezza intendere come il problema
di arte si presentasse al poeta allor quando si ac- cinse a
elaborare la fiaba di Perseo e Andro- meda ; come, in somma, lo spirito
di lui pren- desse possesso, nell'impeto creatore, della materia
leggendaria. Nel mito del ketos si trovavano fusi, come ai)pare dal testo
di Ferecide, due elementi distinti : e l'uno era il divino, palese nel
potere singolare della Gorgone e nel volo miracoloso tra- verso
l'aria, segni d'una forza mossa da l'alto per consenso di Dei ; e l'altro
era l'umano, sensibile nell'amore dell'eroe con la fanciulla, nel
corruccio di Fineo, nel vanto di Cassieijea, nel patto nu- ziale di
Cefeo. Entrambi cotesti elementi trovano la loro unità in un terzo, che
è, in somma, del mito il carattere eroico e la forma romanzesca.
Euripide adunque ebbe , dinanzi al suo pen- siero, l'umano, il divino,
l'eroico. Di questi, uno suscitava spontaneamente il suo più vivo
inte- resse. Non solo difatti egli staccava nella tra- gedia
l'episodio mitico dalla serie narrativa sua I)ropria; ma lo indirizzava
al fine, eh' è di tutta la dramatica greca, di appassionare non la
fan- tasia bensì il sentimento degli sf)ettatori; e lo sottoponeva
all'esigenza di \àbrare per pregio e forza intrinseci non per smaglianza
esteriore di tinte. Le menti in cui il mito ora si accoglie, come
sono ben lontane da quelle che l'hanno creato dinanzi la natura e
complicato in novella, cosi son anche più mature dell'altre che ne
han goduto, con puerile compiacenza, lo straordinario e
l'impossibile. Per certo le più antiche e le moderne cerca van tutte
nella saga una verità ; ma la verità naturalistica e la verità eroica
non appagavano ora quei cittadini di Atene che vi desideravano una
verità psichica. Ora, con si fatto spostarsi dell'interesse mitologico,
il colorito ro- manzesco che un tempo riusciva opportuna o
indispensabile commessione fra i due diversi elementi della fiaba,
sopravviveva adesso, in- sieme col divino, quale materia in
apparenza superflua. In qual maniera difatti allivellare sopra un
piano medesimo una gesta miracolosa, un affetto terreno, un intervento di
Dei? E ovvio però che il poeta non vide, come qui cri- ticamente si
espone, il suo problema; ma che lo intui da artista. A punto per questo
egli non ebbe un modo costante di risolverlo in tutte le sue opere;
ma il genio gli soccorse, or peggio or meglio, di volta in volta, e a
seconda dei casi in guise diverse. Poiché ci sono rimaste
nella loro integrità V Elettra ch'è del 413 e V Elena ch'è di quel
medesimo 412 da cui V Andromeda si data, in- trawediamo a bastanza la
vita dello spirito euripideo nel torno di tempo in cui la sua arte
tentava il nodo mitico di Perseo. Il nucleo primo cosi dell'una come
dell'altra tragedia è un contrasto di passioni. Elettra ed Oreste
che, contro ogni vincolo di stirpe, per (1) L'analisi, che
segue, del pensiero religioso e so- ciale d'Euripide intorno al 412 è
fatta di sul testo (edi- zione Murray Oxford s. a.) di&WEletta e AqW
Elettra ed emana da quello. Di più cfr. § Vili. vendicare il padre
uccidono la madre ; clie odiano fino a darle la morte la donna da cui
nacquero, ma le sono tuttavia carnalmente congiunti, cosi che col
sangue di lei scorre nelle lor vene una indicibile virtù di amore e
rispetto : proten- dono da la scena una dolorante maschera umana ;
fraterna con la grande pallida faccia intenta dagli scanni del teatro. —
E quando Menelao re- duce da Troja naufraga su le spiagge d'Egitto
recando con sé la riconquistata Elena ; e vi s'im- batte nell'Elena vera,
quella che gli Dei re- carono celatamente in Egitto, mentre un
vuoto simulacro fuggiva con Paride e presedeva alla decennale
guerra; e la gioja irrompente per la ritrovata sposa s'urta nello spirito
del principe con lo sconforto per i travagli sopportati in vano e
la vita gittata in vano da centina] a di prodi : allora con la sua
s'agita la sorte di tutte le creature terrene, cui piacere e sofferenza
giun- gono inseparabili per tramutarsi a vicenda l'uno nell'altra.—
E in queste situazioni palese l'immer- gersi dell'artista nella sostanza
dei personaggi, nella correntia delle vicende, con un oblio com-
pleto di tutto l'estraneo : stolto cercarvi un si- stema filosofico
applicato, co' suoi postulati ge- nerali, ai casi particolari. Qui l'uomo
è espresso, dal profondo, con la freschezza d'una polla cui s'apra
nel terreno la via. Ma di qui non è pos- sibile indurre riferimenti con
l'ambiente storico del poeta o, peggio, conseguenze intorno allo
stato psichico di lui in quegli anni; ma solo intorno al consueto modo
della sua forza d'arte. L'animo di Euripide si rivela più in là. In
quello anzitutto che dalla tradizione egli accettò. ANDROMEDA Giacché
nei miti di Clitemestra uccisa e di Elena in Egitto erano affermati fatti
ch'egli non poteva respingerené poteva non alterare. Tali l'oracolo
delfico di Apollo, che avrebbe imposto a Oreste di compiere l'esecrando
delitto ; e l'or- dine di Zeus, che Ermes recasse di nascosto Elena
in Egitto e un simulacro inviasse a Troja, permettendo sperpero immane di
energie e va- lore. Cotali interventi divini eran la premessa
indispensabile dell'azione ; divennero per Euri- pide radice di nuova tragicità
: però che, tanto più gli parve orribile il delitto di Elettra, in
quanto era ineluttabile ; e in quanto voluto dal Dio sommo, tanto più
spaventoso il vacuo scempio di vite intorno ad Ilio. Sotto questo
aspetto adunque le parti divine della tragedia si con- nettono per
lui strettamente con il travaglio umano ; ma costituiscono una forza
cieca e buja contro cui bisogna urtare : simile al peso corporeo
che non s'evita con gli slanci dello spirito, all'aderenza col suolo che
non si sopprime con i trovati dell'ingegno. Onde il poeta
accettò l'oracolo di Apollo ; ma chiese ' come potè il Dio saggio
ordinar cose non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri,
"Febo Febo... — taccio: certo egli è saggio; ma vaticinò cose non
saggio „ (1) : o sia non ri- spose. E anche si domandava, e fece suo
inter- prete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei e
fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non distornaste la sciagura dalla
casa ? „ ; per farsi (1) Elett. vv. 1245-6. rispondere
con una parola ch'è poco o molto, àvdyxr] " Necessità „ (1). E
chiaro : il suo spirito s' è formato un concetto alto della divinità
: giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non può concepire
derivi il delitto ; né la stoltizia, né alcuna forma di male ; ma sol
tanto il bene : e quel concetto urta contro le affermazioni del
mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta; non supera. Il poeta,
in quanto poeta, resta per- plesso ; non decide, ma porge intatta la
que- stione al pubblico , dopo averla agitata col prestigio
dell'arte, e posta con lucidezza di in- telligenza. Del
iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si comporta nelVElena. Un
capriccio di Afrodite ha voluto il ratto della bellissima per opera
di Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di conseguir il
fine, e a Paride concede una par- venza di quel corpo che nella realtà si
cela ap- presso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa delle
feminette continua ; e mentre la dea amante vuol Elena sposa di
Teoclìmeno, successo a Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol
salva e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su la terra fra
tanto, uomini e donne, migliori che gli " abitatori delle case
olimpie ,,, procedono secondo purezza di virtù : Elena si mantiene
fedele al marito lontano e sopp ' come potè il Dio saggio ordinar
cose non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri, "Febo
Febo... — taccio: certo egli è saggio; ma vaticinò cose non saggio „ (1)
: o sia non ri- spose. E anche si domandava, e fece suo inter-
prete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei e fratelli di questa
ch'è morta Clitemestra, non distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per
farsi (1) Elett. rispondere con una parola ch'è poco o
molto, àvdyxr] " Necessità „ (1). E chiaro : il suo spirito s'
è formato un concetto alto della divinità : giusta, la pensa, e
misericordiosa; da essa non può concepire derivi il delitto ; né la
stoltizia, né alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene : e quel
concetto urta contro le affermazioni del mito, contro l'eco che il
passato gli manda. Urta; non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta
per- plesso ; non decide, ma porge intatta la que- stione al
pubblico , dopo averla agitata col prestigio dell'arte, e posta con
lucidezza di in- telligenza. Del iDari, se non forse in guisa
più a^Dcrta, si comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite ha
voluto il ratto della bellissima per opera di Paride ; l'ambizione rivale
di Era le toglie di conseguir il fine, e a Paride concede una par-
venza di quel corpo che nella realtà si cela ap- presso Proteo in Egitto.
Non basta : la contesa delle feminette continua ; e mentre la dea
amante vuol Elena sposa di Teoclìmeno, successo a Proteo nel trono,
la moglie di Zeus la vuol salva e casta per Menelao : indi volgare
bisticcio. Su la terra fra tanto, uomini e donne, migliori che gli
" abitatori delle case olimpie ,,, procedono secondo purezza di
virtù : Elena si mantiene fedele al marito lontano e sopp orta
paziente l'ignominia che cade sopra lei incolpevole, con- fusa con
il simulacro ; Teonoe, sorella di Teo- climeno, ajuta lei nel proposito,
non il fratello (1) Elett. vv. 1298-1301. ne' suoi
tentativi di coniugio ; Menelao è onesto, cortese e affettuoso. Che
dunque ? Cotesti iddii sarebbero d'assai più piccini, nell'animo, che
i terreni ? risibili ? Eui'ipide non dice. Anche qui il problema si
formula ; ma nulla lo risolve ; nessun raggio fende il cumulo nero nel
cielo. Osserva il Coro (1) : " Chi è dio, chi non dio, chi semidio?
qual fra i mortali, anche spingendo molto lontano la sua ricerca, dirà di
saperlo? quale, dopo aver visto l'opere divine or qua or là balzare
con contradittorie e inaspettate vicende? ,,. Nessuno risponde.
Questo silenzio è una tragedia a sé. Non si svolge materialmente su
la scena, accanto i per- sonaggi sé moventi, ma è nello spirito del
poeta, ed è a noi non meno fraterna. Ben sua, la se- conda
tragedia, più che la prima. Non di com- passione, di simpatia geniale
verso la sofferenza d'un'Elettra o d'un Menelao ; ma di spasimo e
strazio interiore. E la tragedia del dubbio. La quale nasce ad Euripide
nel seno medesimo della sua arte, lungi a ogni filosofìa. Il suo
pensiero di critico e filosofo, nel fatto, ha superato or mai la
concezione omerica e infantile degli Dei, non vi crede ; l'ha sostituita
con una più matura. Ma, poeta, vi deve credere per rivivere il suo
mito, che rivivere gli bisogna per crear il drama. Poeta, sente l'urto
fra le due idee; se ne tor- menta : ripete a chi l'ode la favola bella
degli antichi, fa trasparire a chi l'intende la sua filo-
(1) Elena tv. 1136 sgg. sofia ; questa e quella compone,
senz'accordo logico, entro il suo affanno. Ma oltre agl'interventi
divini, che la tradizione postulava nel mito, ed Euripide accetta
trava- gliandosene ; sono neW Elettra e, di più anche hqW Eìena^
giunte che il poeta solo volle e in cui espresse il pili personale tra'
suoi aneliti ; intrusioni sgorgate da un animo che, non pure
assorbe in sé per rielaborarla la saga, ma nella saga si profonda e si
abbandona, anche con quelle forze e ricchezze che le sarebbero
estranee. Tale s'originò nel drama di Clitemestra la figura
del contadino, povero e rozzo, ma pur squisito di sentimenti e schietto
di azioni : VaixovQyóc,, a cui Elettra sarebbe stata costretta in
sposa dalla madre, la qual ne temeva i figli se nati da nobile genitore.
Egli, come apprese la condizione della fanciulla che gli veniva de-
stinata e gli scopi della regina, fece rinunzia a' suoi diritti
coniugali, pur continuando ad ospi- tare nell'umile sua capanna la donna
e fìngendo, per eluder la maligna, nozze felici. A lui, quando
aijpare su la scena verso l'alba e l'ultime ombre son vinte da le prime
luci, fanno sfondo i campi arati e le file degli alberi e i freschi pozzi
: la Terra, la grande generatrice di frutti buoni e di forze sane.
Dopo, ogni suo gesto è virile e so- brio, contenuto e cordiale ; il suo
spirito si rivela semplice perché diritto : e mentre Elettra ed Oreste
si laniano di x^assioni, di odii, di paure, egli va crescendo in valore
fino a superarli nella sua persona salda e nel suo fermo polso. Né
basta. Il poeta, sottolineando sé stesso, richiama gli sguardi su la sua
creatura : e ad Oreste fa A. Feekabino, Kalypso. 5
esclamare con maraviglia un poco attonita: "Ahimé! Non v'ò
criterio alcuno a distinguere la nobiltà : v'è scompiglio nella natura
degli uomini. Ecco io vidi esser da nulla il figlio di padre
generoso; e rampolli onesti di genitori perversi ; la penuria nello
spirito d'un ricco ; la magnanimità in un corpo povero. C'ome
orien- tarsi ? secondo il danaro ? mal fido criterio questo sarebbe
: secondo la povertà ? ma la mi- seria è una malattia, cattivo maestro è
il bi- sogno : secondo l'esercizio dell'armi ? ma cM risguardando a
la lancia giudicherebbe qual sia il virtuoso ? Meglio sembra lasciare
inde- cisi codesti problemi. Costui per esempio grande non è fra
gli Argivi [VadTOVQyóg], non insigne per rinomata schiatta : è uno dei
molti : e pure si rivela ottimo „. Ottimo si che la sua onesta
figura divien quasi di maniera e par disegnata per dimostrar una tesi o
attingere uno scopo. Quale tesi o quale scopo si propose Euripide
nel concepirla e nello stagliarla? Non meno larga che neìV Elettra
è nelV Elena la novità introdotta. E anzitutto nella scelta
medesima della favola : un mito secondario che risale a Stesicoro (2) e
che, a lato della principal leggenda di Menelao e Paride a Troja,
sem- brava destinato a viversi gramo nell'oblio. Il tragico lo
preferi per motivi ch'è vano indagare; che forse si assommano nel
desiderio di met- (1) Elett. vv. 367 sgg. (2)
Cfr. Bethe Helene in Pauly-Wissowa " R. Encyclo- pàdie , VII (1912)
pag. 2833. terne in risalto il singoiar contenuto. La donna
bellissima che, secondo la tradizione diffusa, sa- rebbe stata causa
unica di ire e guerre per un decennio, di sventure ed errori per altri
dieci anni di poi ; la donna su cui pittarono tutti gli strali
dell'ironia del sarcasmo e fin dell'odio i poeti misogini ; è di colpo
trasformata nella più pura e casta moglie che fiaba conosca. Ella
ha giurato a Menelao di " morire ma non mai vio- lare il letto
„ (1) ; né ha giurato in vano, che di morire è sul punto, e attiene la
parola, ed è beata di cadere, — dice al marito, — " vicino a
te „ (2). E a lei fa degno riscontro (forse troppo) il coniugale amore di
Menelao ; che le afferma " Privo di te, io finirò la vita „ (3).
Onde sol più li preoccupa di scomparir degnamente cosi " da
acquistare gloria „ (4). Ora tanta fedeltà di af- fetti traverso anni e
vicende acquista il suo più vero significato quando venga contrapposta
al- l'adulterio di Clitemestra verso Agamemnone, di cui era
intessuta l' Elettra. Fra questa di- fatti e V Elena le attinenze sono
indubbie, non pure cronologicamente, ma anche, e si direbbe più,
spiritualmente : su la fine difatti di quella prima viene annunziato e
svolto in breve il tema della seconda (5). E le attinenze diven-
gono palesi quando le due cognate si parago- nino fra loro e le due
sorti. Clitemestra non è presso Euripide se non la malvagia donna :
tale la condanna Elettra che le rinfaccia il lusso e i
(1) Elena v. 836. (2) Ih. v. 837. (3) Ih. v. 840. (4) Ib. V. 841.
(5) Elett. v. 1278 sgg. vezzi durante l'assenza del re. Si difende
ella bensì rimproverando ad Agamemnone l'uccisione di Ifigenia ; in
vano : " la moglie bisogna che, s'è savia, tutto consenta al marito
„ (1); non è giustoj per una figlia, ammazzar lo sposo, uomo
insigne nell'Eliade (2). No, — osserva sdegnata Elettra, — tu
nascesti cattiva (3) : " tu, prima che fosse decisa l'uccisione
della tua figlia, lontano appena da le sue case il marito, intrecciavi
allo sj^ecchio le bionde trecce della tua chioma „ (4) : e "
la donna che, assente il marito, adorna la sua bel- lezza, si
cancelli come cattiva „ (5). Appropriato amico di cotesta non buona,
figura Egisto, non prode, non nobile, ma ambizioso della sua grazia
corporea e avventurato sol tanto fra mezzo alle donne. C'è dunque nelle
due tragedie il riscontro fra due coppie : riscontro a base morale, ma
in- trodotto dall'arbitrio dell'artista in miti privi d'ogni cosi
fatta preoccupazione. E perché intro- dotto? perché l'arbitrio?
Alla domanda che per la seconda volta in breve esame ci si presenta
non si deve rispon- dere se non dopo aver rilevato un altro parti-
colare. Il Nunzio, veduto vanii*e in fumo il simulacro d'Elena e ridursi
in nulla sforzi du- rissimi e sacrifìzii immensi, si accende di
sdegno contro gl'indovini che, prendendo parte all'im- presa, non
scorsero la verità, non svelarono il comune abbaglio, né evitarono
vittime inutili. Dice al suo Signore : " Vedi quanto l'
opere Elett. V. 1052. (2) Ih. vv. 1066 sgg. (3) ib. v. 1061. (4) Ib.
vv. 1069-71. (5) Ib. vv. 1072-3. degli auguri sono stolte e menzognere!...
Cal- cante non disse né rivelò all'esercito vedendo gli amici
morire per una nuvola ; e né pure Eleno : e la città fu predata in vano.
Dirai forse, che un Dio non volle. E perché allora ci rivol- giamo
agli auguri ? agli Dei basta far sacrifizio invocando fortuna ; e non
badar ai vaticinii : furono inventati ad allettaménto della vita,
ma nessun ozioso divenne ricco per gl'ignispicii. Il senno e il
buon consiglio sono l'augure mi- gliore „ (1). Per contro è nella
tragedia perso- naggio, non pur dramaticamente notevole, ma anche
moralmente insigne, Teonoe sorella di Teoclimeno, la quale dagli Dei
possiede la virtù di saper tutte quante cose avvengono ; è quindi
invasa da una potenza profetica analoga alla magia d'un Calcante o d'un
Eleno. Ma ella è buona, ella è giusta, ella è savia : sa, ove
occorra, tacere al fratello gli avvenimenti più vicini af- finché
trionfi la fede amorosa di Elena e Me- nelao. Perché aver creato questo
contrasto ? Che non è fittizio né casuale : Euripide parla cosi per
bocca del Nunzio come per bocca de' Dio- scuri lodanti Teonoe : esprime
in entrambi i casi il suo più soggettivo pensiero. In questo
suo pensiero sta di fatti la ragione e dell'esser stato concepito
VadxovQyóg, e della purezza di Elena, e del dissidio tra le due
forme di vaticinio. Il poeta è percosso da un'unica ansia, di cui
quelle son le forme momentanee ; è morso (1) Elena vv.
744 da convinzioni contradittorie, di cui quelli sono
gl'indizii occasionali. Egli appare un moralista. Ecco i
personaggi per cui parteggia con simpatia : una moglie onesta, un
marito fedele, un'indovina equa ; la figura che crea con compiacenza
paterna : un lavoratore dignitoso e saggio ; gli esseri che av-
versa acre e violento : un bellimbusto galante, una feminetta vana, un
augm'e stolto. Da un lato coloro che rientrano nel suo concetto del
bene e del giusto ; dall'altro quelli che appar- tengono al suo concetto
del male e dell'iniquo. Ed è dicevole : nessuno può disconvenire
sul principio che regola la sua morale ; solo la espressione può
venirne discussa. Ma quando gli si scruta più dentro nell'animo
ci s'accorge che quel bene e quel giusto egli vuole a prò dello Stato,
che VavtovQyóg egli re- puta degno e capace di governare la
pubblica cosa, che di mariti e di mogli simili ad Elcna e Menelao
gli piace constituita la polis a scopo di fermezza e quiete politica. Ci
s'accorge che il suo occhio mira più in là d'una teoria morale:
mira, fiso e intento, ad Atene, alla patria. Mentre scrive, navi e uomini
ateniesi sono in pericolo in Sicilia : pericolo grave che si tramuterà di
K a poco in disastro immane. I Dioscuri si affret- tano a
conchiuder V Elettra perché debbon " sal- vare le prore nel mar
siciliano „. Il Peloponneso minaccia dal Sud. Negli altri territori! la
sorte non volge migliore. E all'interno ? E peggio. La democrazia
non dà buoni frutti dopo la morte di Pericle. Il partito de' temperati si
alterna nel potere con quello degli estremi : ed è tale la
EURIPIDE 71 sfortuna di Atene che gli uni non
attingono il governo se non quando le disfatte han dimo- strato
rinettitudine degli altri, e non son per per lasciarlo fin che disastri
non li colpiscano a lor volta. Ogni mutamento è una esperienza; ed
ogni esperienza, fruttifera di tosco (1). Sopra tutti, male comune
nell'inettitudine comune, si stende la piovra della cupidigia, la sete
del gua- dagno a ogni costo e in ogni modo. Corrono massime cui
ciascuno informa l'opere se non le parole : ' beato chi è ricco ', ' la
ricchezza è po- tenza ', ' il ricco è libero, anche se schiavo ; il
povero è servo, anche se cittadino'; 'l'uomo è il danaro '. E la sete
inesausta travolge ognuno in una lotta, ove il pregio morale non
conta, la forza intellettiva non importa più che il tesoro cumulato
; forse meno. Aspra e grovigliata situazione adunque ; dif- ficile a
risolversi. Che per risolverla bisognava superarla ; piegar la realtà
possedendola sino al fondo, conoscendola in ogni forma ed esigenza.
E difatti voci di riforma e tentativi d'un ri- volgimento costituzionale
serpeggiavano e fer- mentavano all'oscuro : si preparava la rivolu-
zione dei Quattrocento. Il lievito che era in tutta la materia sociale
toccò Euripide ; il suo spi- rito ne fu macerato e sconvolto : però che
contro l'immediata e ineluttabile realtà dello Stato, ine- riva il
suo ideale con i pallidi sogni. Egli non Cfr. su questi anni Beloch
Attische Politik (Leipzig 1884). Naturalmente il rapido quadro che se ne
dà qui è veduto con gli occhi di Euripide. segui né l'uno né
l'altro dei partiti. Fu in vece con la classe di mezzo. Ebbe il cuore con
gli adxovgyoi della sua fantasia, con l'Elene e i Me- nelai del suo
mito. Trasfuse l'esigenza politica, che il suo genio d'artista non poteva
né doveva sodisfare, in esigenza morale: spostando i pro- blemi
dalla sfera pratica a quella etica. E di- venne malinconico di speranze
deluse e rina- scenti. A canto alla tragedia religiosa sussistette
nel suo spirito quest'altra: di patriota, di sta- tista, che è a bastanza
acuto per vedere i pro- blemi, troppo poeta per saperli
risolvere.Tragedia flebile, nella quale confluiscono, — opportuna-
mente, — tutte quante le quistioni minori della vita sociale e familiare
; le contese minute su questa legge o quel decreto : le spine
sparse lungo i sentieri del grande roveto. Tale l'invet- tiva
contro gli auguri, secondaria piaga dello Stato ateniese e di tutte le
poleis greche, che repugnava, ancor \)\\x che al suo intelletto di
filosofo evoluto, alla sua coscienza di cittadino probo ; e il riscontro
di Teonoe in cui il vero dono divino si rivela appunto pel modo del
suo uso e la bontà delle sue conseguenze. " Attuale „
corruccio ancor questo: che favore di auguri aveva secondato l'infausta
spedizione siciliana. Cosi tutta Atene può entrare, ed entra, nel-
l'animo del poeta per tal via: melanconico spi- raglio alla più intensa
vita. Mirabile di intuito psicologico nell'elaborar la
materia umana del mito ; pensoso su' dubbii della Tucidide VII 50; Vili
1.religione e della filosofia ; preoccupato dalle sorti politiclie e
dalle condizioni sociali della sua patria Atene : Euripide crea i drami
fra l'urto di due interiori tragedie. Crea, dopo V Elettra e con
VElena^ V Andromeda. Il suo spirito si fece largo, sùbito, di fra i
par- ticolari minori e grinciampanti aneddoti della saga ; e colse
di questa il profondo cuore. Nel pensiero di chi imaginò la lotta di
Perseo col ketos la tragedia era nel combattimento delle due
potenze avverse ; l'ansia, nell'esito incerto. Nel pensiero di cìii
raccolse, ordinando, tutta la leggenda dell'eroe argivo e ne divenne
mito- grafo, la bellezza era constituita dal numero e
dall'intreccio delle gesta. Nel pensiero, ora, del poeta di Atene, il
pregio consistette nell'amore di Perseo e di Andromeda : il congiungersi
dei due giovini fu ritmo fondamentale all'opera in cui novellamente
l'antico mito viveva. Ogni altro elemento si dispose intorno a questo :
dal quale ebbero tutti l'armonia di composizione. Era il primo
flusso del nuovo sangue infuso nella vecchia compagine: fu vigoroso ancor
pili che non sembri. Come dichiarano i frammenti, a l'inizio
della tragedia appariva la fanciulla sospesa a una rupe, in abiti
di cerimonia festiva, mestissima e piangente. I lamenti di lei Eco ripete
da lungi; non lontano è il mare onde la belva vorace verrà al
selvaggio convito ; sono li presso, in Coro, fanciulle etiopi, le eguali
di Andromeda, che tentano vani conforti a la tremenda scia- gm-a. E
notte. All'alba il ketos deve sopravve- nire. E nell'animo degli astanti
la deprecazione del male imminente lotta con la tormentosa ansia pel
greve indugio : l'attesa gravita su i capi come un mostro informe. "
sacra notte, qual lungo cammino con i cavalli percorri, reg- gendo
il tuo cocchio su gli stellanti dorsi del divino etra, traverso il
santissimo Olim^DO ! „ (1): tale parla nei silenzii l'aspettazione. E il
cuore si ribella contro l'asprezza del fato e la trista disparità
del dolore : " loerché più larga parte di mali Andromeda s'ebbe^ che
misera è presso alla morte ? „ (2). Il Coro s'impietosisce e tenta
il conforto dividendo il dolore : " perché chi soffre sente
alleviato il suo male, se del pianto fa parte con altri „ (3). La
sofferenza che sta nel petto, senza sollievo, con la durezza della
ma- teria minerale, e non prorompe se non per voci d'ira e suoni di
sdegno, non a pena ha inteso il moto compassionevole delle compagne, si
di- scioglie nella rievocazione lacrimosa di tutta la vicenda : la
vanità f eminea e il puntiglio divino onde la fanciulla fu addotta,
incolpevole, alla pena. I presupj)osti dell'eiDisodio vibrano non
di forza narrativa, si di spasimo lirico : che si as- sommano nel
presente pianto della figlia pu- nita, e di quel pianto s'impregnano. Ve
su la scena, nell'ambiente creatovi dall'arte, un'amara voluttà del
dolore stesso onde si soffre, e una insistenza : non sposa a nozze, — e
delle nozze avrebbe diritto pel fiore della sua giovinezza, — ma
vittima a sacrifizio la fanciulla è recata; non fra i cori delle
compagne, si avvinta in funi (1) Fr. 114. (2) Fr. 115. (3)
Fr. 119. e tra il compianto virgineo (1). Ma a rompere Tuniformità
di questo tormento, giunge a tra- verso l'aria con l'alato piede Perseo,
reduce dal rischio di morte incontro a Medusa: il capo ne reca in
Argo (2). E radioso della sua recente gloria ; bello della sua giovinezza.
Stupisce prima : "" Dei ! a qual terra di barbari col
veloce sandalo siam giunti? (3) Che vedo? Timagine d'una
vergine, come scolpita da mano sapiente tra i rupestri rilievi! „ (4). Si
fa poi sol- lecito. E richiede l'avvinta. Ma invano. " Tu taci
„ — la persuade — " ma il silenzio è inade- guato interprete del
pensiero „ (5). Non senza ran- cuna son le prime parole di quella :
" ma tu chi sei ? „ ; se non che la forza stessa del dolore la
tradisce e senz'altro, per la veemenza del sof- frire, non definisce
audace colui che persiste nel voler sapere, si comx)assionevole : "
ma tu chi sei, c'hai pietà del mio male ? „ (6). " vergine, ho
pietà di te che veggo sospesa „ (7). Ogni freddezza si dissipa. Quel che
d'ostile era an- cora nelle parole della fanciulla si placa. Quel
che di vago era nell'animo dell'eroe si concreta. Fr. 117, 121-122.
Convengo col Bethe " Jahrb. des Arch. Inst. „ XI (1896) pa^. 252
sgg. che questa scena, nei particolari esteriori, è rappresentata sul
cratere del Beri. Mus. Inv. N. 3237. Lascio indiscussa la quistione,
però, ntorno al coro che il Bethe riconoscerebbe nella figura
a sinistra di Ermes. (2) Fr. 123. (3) Principio del fr.
124. Fr. 125, parafrasi. (5) Fr. 126. (6) Fr. 127. (7) ibid. Inverto
l'ordine dei due versi ipoteticamente dato dal Nauck. La
frase dell'uno accende quella dell'altra ; si susseguono rincalzandosi
per armonizzarsi in un concento unico di vivace simpatia
vicendevole. E alla fine la generosità dell'eroe, la quale si forma
adesso assai più nell'inconscio secreto del cuore desideroso che nella
vigoria dei muscoli forti e pronti, erompe in promessa : "
vergine! s'io ti salvi, mi sarai grata?,, (1), Egli si è tradite-
la sua prodezza non vuole compenso per solito ; la gloria gli è premio
valevole. Ma quel che ora chiede è più che una gloria : è il possesso
ma- gnifico, Andromeda intende ; se non che il suo animo troppo è
ancora tenuto dall'imminenza mortale per abbandonarsi alla fede: teme
d'il- ludersi : e lo dice " Non m' esser cagione di pianto,
inducendomi speranze! „. La risposta, che nasce da l'immensità del suo
soffrire, può parer dura al generoso offertore; l'istinto femineo
se ne avvede e la spinge a soggiungere : non per colpa di te "
ma molto può avvenire contro l'aspettazione... „ (2), La speranza di
campar la vita non è nata o almeno non è del tutto salda; è nata la
fiducia in Perseo. Ma questi, in nome del suo passato di vittoria, della
sua strenua energia, dell'animo bramoso che lo incende e gli
moltiplica le forze, riesce finalmente a trasci- narla con sé nel sogno,
a persuaderle certa la liberazione prossima. E Andromeda allora
lascia ch'esca diritto dall'anima il grido di promessa onde è dato
al giovane, oltre l'avanzante mostro oltre la minacciata morte, su la
rupe triste sul (1) Fr. 129. (2) Fr. 131. mare
vicino, gaudio maraviglioso : " Straniero ! e tu conducimi, come tu
vuoi, sia ancella, sia moglie, sia schiava ! Abbi pietà di me che
soffro tutto; mi sciogli dai vincoli! Perseo com- batterà difatti
il ketos sorgente da " l'Atlantico mare „. E gli s'affollerà intorno
" tutto il popolo dei pastori : a ristoro della fatica, chi
recando una tazza d'edera colma di latte, chi succo di grappoli „.
I principi, " in casa, a torno la tavola del banchetto „. Si vuoterà
il xéÀsiog, la coppa del salvatore (2). Sùbito profondo si
manifesta, in questa ch'è la fondamental intuizione psicologica della
tra- gedia, il progresso rispetto al mito ferecideo. In quello
Andromeda non è più, nel suo intrinseco valore, che una fronda di alloro
o un raro cammeo offerto da Cefeo al vincitore Perseo. La fan-
ciulla è mezzo nelle loro mani ; come è vittima nelle mani di Cassiepea.
L'anima le è sottratta: meglio, l'anima non le è data. Euripide per
contro ne fa il centro della scena : plasmandola d'una sostanza
indipendente, la costituisce di sensazioni affetti empiti ; e,
conchiudendola in una persona non comparabile con altre, la crea
fuor dalla materia ove si giaceva informe. Ella gitta nell'aria lo
spirito sofferente; eia natura mesta le si accoglie d'intorno nel
compianto di Eco. Ella contrappone il proprio forsennato de-
siderio di vivere alla sorte tremenda che la vuol morta ; e ogni volto,
dal cielo dalla terra dal mare, la guarda. E quando il giovine eroe
giunge, (1) Frr. 132 e 128. (2) Dai frr. 145-148.
la divinità di lui si menoma e si abbassa di- nanzi la sventiu'a
di lei: ella è chiusa in una corazza dura di dolore, ed egli supplica.
Poi, tutto sembra invertirsi : nel riandar le sue glorie Perseo si
accresce, nel narrar la sua doglia An- dromeda si piega in lacrime, e il
giovane ve- nuto per l'aria pare alla fine attrarre sopra di sé,
ch'è per affrontare il ketos, tutta la luce. Ma è parvenza fallace. La
vergine lancia al fervido desiderio del prode il grido della sua
dedizione, — e si afferma per tanto di nuovo, vivace, nella sua libertà
che dalla passione forma il volere, del volere compone il proprio
decreto. La " Maschia „ che nel primitivo antichissimo mito
ajutava d'opera e di consiglio Perseo contro la belva, era più vigorosa
corporalmente; non era cosi forte nell'interiore spirito. Certo,
nella tragedia euripidea, una tanto geniale innova- zione doveva
sembrare anche anarchica urtando contro le consuetudini legali e morali
della vita ateniese; e per ciò senza dubbio si dovette ve- lare e
temiDcrare agli occhi dei cittadini. E chiaro che Cefeo interveniva in
qualche modo, o prima o dopo, a simulare la sanzione paterna, e a
ricomporre nello schema giuridico la mossa ardita della figlia. E fine si
manifestava forse, in questo, l'arte del poeta. Ma s'ignora.
L'intervento, tuttavia, di Cefeo non fu senza effetti. L'amore
della vergine che prima della lotta trionfale era come offuscato di paura
e di speranza egoistica se ben legittima, dopo si velò di
malinconia contrastando con gli affetti filiali. " Conducimi con te
„ aveva esclamato : dove ? Lontano : in Ai'go, in Serif o. Ma ell'era
unica al vecchio padre canuto : e la dipartita ne diveniva grave,
aspra la lontananza : era svèlta ancora (da un eroe, sia pure, non dalla
morte) alla vec- chiezza di lui. Accanto al padre, la madre : col-
pevole, è vero, del rischio; madre tuttavia. Nel doloroso contrasto
levasi l'appello al dio che travaglia, a Eros, il quale dovrebbe
soccorrere i mortali che affligge : " Ma tu, tiranno di uomini
e Dei, Eros, o non mostrarci belle le cose belle o ajuta benigno gli
amanti che penano pene di cui tu sei l'artefice ! E, per tal modo facendo,
onorando sarai ai mortali ; non facendo, per lo stesso insegnare l'amore,
tu perderai la grazia di che ti onorano „ (1). Calda invocazione che
tanto piacque al pubblico perché nella veemenza del- l'amante
incontro al Dio della sua passione tras- pare il profondo gaudio, onde,
pur nel soffrire, non invoca la salute del morbo, ma un ajuto a
tollerarlo. Eros soccorrerà nel fatto : l'amore vince. Era
ancor questa una giunta di Euripide al mito. Ma secondaria: un che di
convenzionale la gravava ; non improntandola il segno del pen-
siero innovatore, ma parendo scaturir ovvia dalla situazione medesima.
Per ciò lo spirito del- l'artista, inappagato, volle nutrir d'altro
sangue quel dissidio sorto dalla pietà e dall' affetto e dirizzarlo
a scopi diversi, più profondi o più larghi. S'innestarono difatti sopra
l'analisi psi- cologica queir ansia pregna di preoccupazione Fr.
136, leggendo dvìjzots al v. 5. Cfr. § VII. politica, quel travaglio
complesso di meditazione sociale, che vedemmo costituire Tuna delle
due tragedie soggettive al poeta e tutta l'opera ma- gnificamente
arricchire. Quando l'ingegno di lui crede di aver esaurito per una via la
materia psichica del dramma, una nuova senza indugio gli s'apre :
cessa di toccare la più schietta ma generica umanità del suo pubblico,
per eccitarne peculiari moti e destarne i singolari interessi.
Parlava all'uomo : parla all'ateniese. E, al solito, l'idealismo lo
tradisce, conducendolo senz'altro alla difesa della giovinezza e della
passione, da lui concette e atteggiate sotto la piti seducente
specie: a Perseo e Andromeda fa esprimere il pensiero eh' egli dilige; a
Cefeo e forse a Cas- siepea spetta di combatterlo. Qualunque sia la
quistione giuridica o sociale o politica di cui è per far cenno, dalla
sola impostatura dei ter- mini si comprende che Euripide, — anche
una volta, — aspira a risolvere una difficoltà em- pirica col
criterio non dell' utile e del pratico ma del buono e del bello.
La quistione poi non è sola, si consta più ve- ramente di due. I
genitori della vergine s'ar- mano oltre che dei proprii diritti
sentimentali, di sofismi ed argomentazioni. Il congiungimento degli
esseri si trasforma in un contratto econo- mico: nel quale l'eroe
detronizzato, e cresciuto da la pietà ospitale, ha troppo palesemente
la peggio di fronte a le ricchezze dell'unica figlia del fastoso re
etiopico. Dice l'un parente : " Oro io voglio sovra tutto avere
nelle mie case : anche se schiavo, onorabile è l'uomo ricco ; il libero,
bi- sognoso, a nulla riesce : l'oro riconosci causa della felicità!
„ (1). Che importa forza di gioventù, ardimento di cuore ? clie importa
la gloria im- mortale, per cui " già morto, già sotto la terra,
sii venerato ancora „ ? Nulla : " è vano : fin ch'uno viva,
l'agio gli giova „ (2). Né basta obiettargli, con l'esempio recente, che
si può per ricchezze fiorire, e tuttavia giacersi nella sventura
(3). Risponde, al ricco anche la sventura esser più lieve che al
povero: già che quello non soffre se non del presente ; questo "
ogni giorno spa- venta il futuro, che non sia dell' attuale il do-
lore avvenire più grande „ (4). Il dissidio fra la fiducia idealistica e
il materialismo gretto si as- somma in una sentenza : " questa delle
ricchezze è la maggiore : nobili nozze contrarre „ (5). Eu- ripide
ha torto ; la ragion pratica lo deve con- dannare, se pure lo asseconda
il sentimento. Ha torto tanto più quanto che egli ha lo sguardo non
al singolo caso svolgentesi su la scena, ma alla plutocrazia d'Atene e
alla cupidigia immorale dei suoi concittadini. Ma se il fine propostosi
dal tragico non vien conseguito, un altro lo è, più dramatico : di
far sorgere il dubbio, di irritare la piaga, di stimolare i cuori. La
memoria è recente della sconfitta tócca in Sicilia ; è vivo il
lutto de' numerosi uomini perduti ; dalle Latomie di Siracusa gli urli
de' suppliziati giungono an- cora in Atene ; ognuno interroga l'
imminente destino; ma le risposte scavano inutili l'aria tor- bida
d'ansie. Su questi spiriti Euripide lasciando Fr. 142. (2) Fr. 154. Cfr.
§ VII. (3) Fr. 143. (4) Fr. 135. (5) Fr. 137. A.
Ferbabiko, Kalypso. cader la sua massima morale il suo rigido e
teorico principio, se non insegna una via, dis- gusta del presente
cammino. Nel male generico poi rocchio di lui scorge, e
rileva, un difetto specifico. Nel 451 a. C, — quarant'anni circa prima
deìVAndromeda^ — Pe- ricle aveva proposto e fatto votare un
psèfisma, secondo cui si ritenevano illegittimi (vód'Oi) i nati da
genitori di cui l'uno fosse non cittadino. E tale legge era durata in
vigore di poi fino ad attirarsi nel 414 gli strali sarcastici di
Ari- stofane. In verità se si pensa agli scambii con- tinui fra
Aliene e gli alleati e gli stranieri, ci s'avvede subito in qual forte
numero gli Ate- niesi dovevano veder diseredati i x3roprii figli e
decaduti a un grado inferiore, solo per aver con- tratto unioni con donne
straniere. Pericle stesso fu colpito a causa di Aspasia da Mileto.
Né solo il sentimento coniugale e l'affetto paterno urtava quel
decreto incresciosamente; ma tutte le esigenze politi clie gli eran
contrarie. Se né pure la cittadinanza dello sposo poteva far ate-
niese, per esempio, una donna nata in città della Lega marittima, dura e
perigliosa barriera si rincalzava fra gli alleati ed Atene, la quale
pur del loro ajuto di continuo abbisognava, e su la loro fedele
assistenza doveva contare specie du- rante le guerre infelici. Onde il
largo spirito euripideo, il qual tutto accoglieva che agitasse la
società de' suoi tempi, si giovò dell'attributo etnico che la saga
conferiva ad Andromeda per riproporre al suo pubblico il quesito scabro.
Ad Andromeda difatti diceva il padre, — o la madre : " Non
voglio che tu n' abbia figli illegittimi ! che, ai legittimi in nulla essendo
inferiori, sof- frono per legge: da questo è necessario che ti
guardi„ (1). L'accortezza artistica di un cosi fatto mònito è pari alla
profondità del problema toc- cato. Perseo accoglie su di sé le simpatie
non pur dell'autore si del pubblico, per la sua ge- nerosa
attitudine verso la vergine. Ch'egli proprio sia la eventual vittima
della dura legge ; che la ragion giuridica stia con il cattivo genio
della tragedia avverso il buono : trasporta l' uditorio intiero
contro il decreto e gli strappa, non per raziocinio ma per sentimento, il
solenne biasimo. Aristofane muove a riso se un suo cotale perde
l'eredità a causa del psèfisma periclèo. Eurij^ide indigna se fìnge
Perseo offeso non nell' avere ma, dopo un estremo rischio, nel giusto
com- penso d' amore. All' architettura passionale la scenica doveva
corrispondere per modo che non s'adombrasse alcuno né dell'anacronismo né
del- l'irrazionaUtà (2), di cui qualche mediocre spirito potrebbe
menare grande scalpore. Anacronismo e irrazionalità era difatti
mo- strare Perseo ed Andromeda sotto l'aspetto — che so ? — di
Pericle e Aspasia : l'arte forse non se ne avvide, certo non li
discoperse. Ma restano essi indizio d'un' alterazione del mito ben
più profonda ed esiziale di quella operata dalla ge- nialità
iDsicologica : ch'era tuttavia un modo di (1) Fr. 141. Cfr.
§ VII. (2) Mi piace qui ricordare l'arguto e acuto studio di
G. Fraccaroli su L'irrazionale nella letteratura (To- rino
1903). rivivere il mito, di serrare e appalesare i tramiti fra
la nostra essenza umana e le favolose vi- cende. Invece, una volta
intrusi fini di ripren- sione politica e di biasimo sociale sopra la
trama della sa^a, essa ne rimane soffocata e asservita. Eppure il
poeta che, a proposito di Perseo e del ketos, affronta problemi proprii
dello statista, non prosegue se non l'opera del mitologo che, al
me- desimo proposito, finse l'amore di Andromeda e il vanto di
Cassiepea : quegli immette nel mito la società, questi l'uomo ; e tutt'e
due sviluppano r antropomorfismo contenuto nel primissimo germe. Si
assiste cosi a una penetrazione suc- cessiva e graduale del fenomeno
solare nella sostanza umana. Ma quanto più l'assorbimento procede,
tanto meno il mito serbasi, qual era, mito di maraviglia cui si presta la
fede non ra- zionale ma fantastica: tanto meglio si tramuta in
paradigma d'una teoria logica, in schema di una tesi politica. In vero,
dopo che Perseo è di- venuto pretesto a un problema giuridico, egli
è per diventare l'esempio aggraziato d'una fra le possibili soluzioni :
segno che già l'intelletto si preoccupa d'altro. Cosi la saga si avvince
alla vita con nuovi sottili filamenti, che non valgono però le sue
prime rigogliose radici. Mentre da questo lato la leggenda si
profonda verso la terra, per l'altro richiama al cielo i pen-
sieri. Il religioso spirito di Euripide non mancò di agitare, anche per
Andromeda e Perseo e le vicende loro, i dubbii e le incertezze della
fede. Quanto e come, è impossibile dire: solo per bar- lumi
s'intravvede alcunché : " Non vedi come la divinità sconvolge la
sorte ? in un giorno ri- EUKIPIDE 85
volge l'un qua l'altro là Quegli era felice ; lui, un dio
oscurò dell'antico splendore: piega la vita, piega la fortuna con lo
spirar dei vènti „ (1), " Non v' è mortale che nasca felice,
senza che in molto l'assecondi il Divino „ (2). E ancora: " La
Giustizia si dice esser figlia di Zeus e seder presso ai falli degli
uomini „ (3). Né manca un moto d'ira contro la divinità che ha
voluto il sacrifizio di Andromeda ; ma è espresso in forma accorta e
velata : non avverso a Posidone e alle Nereidi, si a Cefeo che ha
ub- bidito loro. " Spietato è quegli „ — dice ad An- dromeda
il Coro — " che dopo averti generata, o afflittissima fra i mortali,
ti concesse all'Ade in favor della patria ! „ (4). Di questi
frammenti il principale, da cui traggono luce gli altri, è intorno
a Dike, la Giustizia : e si compie esso con un suo analogo, rimastoci
della Melanippe incatenata (5). " Pensate voi che le colpe
bal- zino su con le ali presso gli Dei? e che poi qualcuno vi sia
per inscriverle entro le tavo- lette di 'Zeus? che Zeus le vegga e ne
renda giustizia ai mortali? L'intiero cielo non baste- rebbe, se Zeus
volesse annotare i peccati degli uomini ; non basterebbe Egli stesso a
tutti esa- minarli e aggiudicare le pene. Aprite gli occhi : Dike
[non è là su: ella] è qui basso, vicino a voi,,. Dunque Euripide ha un
concetto di giustizia (1) Fr. 152-3. Nel primo leggo (Aolgav
al v. 2. Nel se- condo, Tòv al V. 1. (2) Fr. 150. (3) Fr.
151. Leggo àf^aQziag, non TifioìQlag. (4) Fr. 120. (5j Fr.
506. a cui non vede rispondere né l'opere né i de- creti divini, a
cui gli pare meglio s' addica la condotta degli uomini. Per lui v' è
disaccordo fra Zeus eDike: questa non può seder presso quello. Per
lui v'è incoerenza fra colpe e pene: queste mal rispondono a quelle né
sempre presso al " fallo dei mortali „ abita Griustizia. In
verità: un re felice è tramutato in infelicissimo per l'ambizione
di talune iddie ; un eroe vittorioso non ha la gioja del premio e deve
superare nuovi contrasti; la figlia è punita per la madre. E pure
tutto ciò vogliono gli Dei dall'alto. Che cos'è dio? che cosa non dio? che
cosa semidio? La domanda angosciosa, — l'eterna del dubbio tragico,
- — ritorna, e accompagna, in tono mi- nore, il concerto delle passioni
eroiche e dei problemi sociali. Ma cotesto non è più mito. E
critica del mito : in quanto esso contiene un ricco elemento religioso. Critica
singolare però : che è insieme atto di negazione e atto di fede. Euripide
accetta la leggenda, la narra senza alterarne il lineamento
essenziale. Solo dopo si domanda s'essa riveli un legittimo procedere
della divinità. E la sua risposta ha un sottinteso profondo. Egli
po- trebbe difatti negar di credere al racconto per le azioni che
vi sono attribuite agli Dei. Al con- trario, perché le sente, dopo averle
psicologica- mente vivificate, umane e, come umane, verisi- mili,
se ne fa una base al suo dubbio di filosofo. E una maniera di sceverar,
nella fiaba, la in- corruttibile verità, — il dolore l'amore la
morte, — dalla verità caduca, onde sorgono gli aspetti e le forme
divine. Se non che essa verità caduca non è morta, ha vita in assai spiriti
an- cora: quindi la ribellione è difficile, faticosa; lo
svilupparsi da' suoi impacci è un travaglio. E il tentativo di
ripossedere totalmente il mito fallisce; una rocca resta
inespugnata. Cosi fu adunque, dal genio artistico di Euri- pide investito
il problema che la leggenda eroica di Perseo e Andromeda offriva al suo
magistero. Della leggenda la sostanza umana fu la più riccamente
rielaborata : quella in cui lo spirito creatore si profondò con la sua
potenza d'in- tuito da un lato, con le sue preoccupazioni di
politica da l'altro; quella per cui l'animo si com- piacque della
finzione antica, e la godette ri- creandola. L'elemento divino fu
contemplato con occhi di esitazione, accettato quasi rassegnata-
mente. Al di sopra si conservava intanto la patina eroica, lo splendore
delle avventure, la maestà delle figure e dei gesti. Perseo giunge a
volo.; reca il capo di Medusa; trionfa di un mostro orrendo : v'è
quanto basta perché chi s' appaga dell' ap]3arenza lo senta d' un' altra
specie, im- mensamente lontano. Non si sa se nella tra- gedia
avesse luogo, come nel racconto di Fere- cide, l'ostilità di Fineo e il
duello fra i due rivali: certo questo fu, se mai, un fatto di più, non
un sentimento nuovo: rientrò insomma nella sfera estrinseca eroica
della tragedia. Ma sostanza umana, elemento divino, vernice romanzesca
non trovarono la loro sintesi se non nell'unità dello spirito
euripideo : sintesi che non è concordia logica, né armonia estetica ; si
bene vita in an- goscioso travaglio ; nel quale l'intuito psicolo-
gico e l'affanno politico e il dubbio religioso si fondono ; pel quale il
personaggio di Perseo, la sorte di Perseo assommano in un solo vivo
vertice le divergenti passioni dell' intera tra- gedia. Per comprender
questa nella sua forma poliedrica, per ravvisarla una, oltre le
superfìcie molteplici, bisogna aver ricostruito l'animo del poeta e
essersi immedesimati con lui. Con lui potè identificarsi anche il popolo
d'Atene: una sola volta: quello stesso anno 412 onde nacque e in
cui fu rappresentato il drama. Preoccu- pato del pari, aveva sotto gli
occhi uguali spet- tacoli, sentimenti simili ne scaturivano. Agli
spettatori come al poeta il fato travaglioso dell'eroe, audace generoso e
mal soccorso dagli Dei, suscitando il dubbio d'una vera Dike, si
tramutava a poco a poco in un'altra angoscia più sorda di spavento : chi
avrebbe retto e vigilato, da l'alto, le infortunate vicende della
grande Atene ? Questo Perseo che la leggenda pretende argivo, si è
quasi fatto cittadino ateniese dinanzi gl'inconsci risguardanti, da
quando un psèfìsma di Pericle viene opposto al suo amore; si è
quasi fatto simbolo concreto e doloroso di Atene, da quando il suo
impulso ideale vien premuto dalla material cupidigia. L'incerto futuro
che lo elude ha la maschera ambigua dell' avvenire che at- tende,
lontano, la Città confusa. A lui definisce la sorte Atena, apparendo a
predirgli le nozze con Andromeda, il ritorno in Argo, l'assunzione
in cielo con la sposa e Cefeo e Cassiepea tra- mutati in constellazioni.
I problemi umani della sua vita sono tronchi da un intervento divino
: non resoluti. Onde più tragico ricade sugli ascol- tanti il
timore per le imminenti sorti della patria; s'accresce il senso vivace del
mistero che regola le fortune terrene. Se non che Tessersi
l'umano, il celeste e l'eroico del mito compaginati negli spiriti di
Euripide e del primo suo pubblico, non significa che si fosser fusi
nell'opera d'arte: perché la scissione può, nello spirito, comporsi per
il dolore me- desimo di cui è causa; ma rende, senza dubbio,
disarmonica la forma estetica che la esi^rime- Quindi l'unità è
momentanea, non stabile. Le diverse materie della leggenda si serbano
dis- gregate e inorganiche. E, non potendosi nel tempo, se non per
via di critica, riprodurre iden- tico l'ambiente spirituale del tragedo e
dell'età che fu sua, le innovazioni che al mito ne erano derivate
non accolgono simpatie e non trovan cultori. Ond' è che il drama nella
storia della fiaba rappresentò una pausa senza echi. Dopo
Euripide. Si assiste, nell'ulteriore vicenda del mito, a un
lento ma spiccato impoverirsi della sua vita. Fino ad Euripide, il
processo era stato, in vece, di arricchimento; la tendenza verso una polie-
drica complessità: onde naturalismo e novel- Hstica s'eran da prima
complicati insieme, avevan avuto giunta dal romanzesco, per attingere
il sommo della pienezza nel dramatico travaglio del pensiero
religioso e politico, il vertice del- l'altitudine nella fine intuizione
psicologica. Dopo Euripide, la parabola discende sino ai confini
d'una più consueta mediocrità: si che par nel principio che fuor dalla
corteccia non si sviluppi se non il midollo originario della fiaba, ma
si mostra poi ch'esso medesimo è presso che inari- dito. Che la
saga non ritorna in sua vecchiezza alle fogge giovanili, acerbe più che
esigue; si bene lo spirito che negli inizii verso lei convergeva intiero,
vie meglio alimentandola nel suo assiduo allargarsi, se ne distrae ora
insensibilmente, e si immerge in altre creazioni. L'impoverirsi
della leggenda di Andromeda è parallelo al formarsi del
disinteresse mitico; ed è quindi preludio d'un nuovo stadio spirituale,
in cui l'uomo, colmato a pena uno stampo, prende a foggiarsene e
riempire un altro : maggiore. Il lamento ch'è solito allo storico del mito
si deve ripetere ancor qui: assai fu perduto che ci avrebbe di
molto giovato nello studio di cosi fatta decadenza mitica. Non son più che
quattro gli autori, in cui ci ritorni il racconto del ketos; ma per
fortuna rappresenta ciascuno una tappa caratteristica.
Apollodoro, raccogliendo nella Biblioteca con l'altre ancor questa
favola, si riconnette a Ferecide : muove ciò è, non dalle forme eh' essa
aveva assunte nei più vicini tempi, ma dalla sua origine. Né vi aggiunge
gran cosa ; al più, pio- ti) Dal numero è escluso Igino
Fav., come quello che contiene varianti di particolari, ma non
imprime d'un propi'io segno la fiaba. coli insignificanti
particolari; qua e colà, quasi in margine, ferma la notizia d' una
tradizione alcun poco diversa dalla ferecidea. Chi legga distratto
vi bada a pena. Vi s' indugia sol chi abbia intenti d'investigazione
erudita : nel che si appalesa dunque la caratteristica di questo
strato evolutivo. All'autore che la narra la leg- genda è morta: è
cadavere che egli ricompone fra bende, con qualche cautela, a fin che
poco di quelle membra che furono organismo vada disperso. E vi sono
ragioni pratiche per cui, nell'opera, si preferisca modello
l'antichissimo compilatore ; presso il quale è già armonia di
contesto e compiutezza di termini. V'è, inoltre, una ragione più alta,
intima alla logica dello sviluppo storico, onde Euripide dev' essere
ta- ciuto : la singolare opera di lui non ha vinto, e la volgata
con tutte le sue piccole e grandi va- rianti è oltre; più sopra o più
sotto, non importa ; è distinta e prevale. Quindi ben fa chi
compila a lasciar quella in oblio: le compete luogo fra le
produzioni libere dell'arte, non fra le specifiche della mitopeja; già
che la distinzione deve va- lere, se mai per alcuno, per il mitografo
tardo. Se non che tale aspetto non fu del solo Apol- lodoro.
Anche di un poeta. Ovidio mosse del pari, se pure non nell'atto materiale
del suo la- voro, certo nella sfera fantastica della sua mente, da
Ferecide : o sia da quelle che in Ferecide erano le fondamentali
intuizioni della saga. Ciò sono : lo stupore simpatico verso il romanzesco
; la ricchezza dei gesti e dei movimenti nei per- sonaggi ; il
pathos sobrio dell' idillio fra i due giovini. Ciascuna di queste
intuizioni è ripresa e svolta a costituire l'ordito del racconto; e
sol tanto entro i loro limiti il poeta si concede di imitare altre
fonti, sia pure Euripide. Il romanzesco imprenta tutto quanto il
com- patto manipolo degli esametri tra la fine del quarto e il
principio del quinto libro nelle Me- tamorfosi. Sottinteso costante e
necessario è il miracolo della potenza oltreumana: dal volo che
conduce Perseo fra i Cefeni, alla virtù del capo gorgoneo che termina
l'episodio. In appa- renza però Ovidio non se ne compiace con la
maraviglia schietta di Ferecide ; si tenta di com- primerlo in termini di
umanità. E fallacia. Certo, il ketos avanzante al feroce convito vien
pa- ragonato a nave rapida: onde n'è ridotto il con- fine
mostruoso. E Perseo gli piomba di sopra con l'empito discendente
dell'aquila: non insolito spettacolo. Ed essa belva si dibatte a
simi- glianza di cignale fra cani in torma : scena cui è abitudine
nella vita comune. E lo scoppiar degli applausi su la spiaggia dopo la
vittoria dell'eroe richiama l'eco dei fragorosi anfiteatri. In
realtà, queste similitudini umane riescono una più sicura esaltazione
dello stupefacente: — ne- cessarie perché le intuizioni si concretino,
escano dall'indefinito ferecideo, e conseguano una pla- sticità
chiusa e viva, che non sarebbe senza il riscontro consueto e terreno : —
utili, di più, per creare, di là del riscontro, il contrasto fra lo
straordinario e il normale. Si compie qui, accanto a un magistero d' arte più
evoluto che vede i particolari e li esprime non li accenna, uno
sforzo per accrescere la distanza di cui se- parasi la terra dal cielo,
la creatura dal semidio. Gli corrisponde il rombo del verso. A che
fine? Per la metamorfosi che conchiude, in due ri- prese, il
racconto. In quella il romanzesco si dissolve, come in sua foce : il capo
di Medusa che impietra in coralli le verghe del mare e converte lo
stuolo dei congiurati in affoltata marmorea di statue danno una sanzione
estrema a l'inverosimile che precede. Non in egual modo, a dir vero
; che ciascuna di quelle trasforma- zioni ha importanza speciale, né può
valere se non congiunta con la prima o la seconda delle scene in
cui il racconto si divide. La prima è intorno alla venuta di
Perseo, al duello con la fiera, alla vittoria (1). Novamente
da l'una parte e da l'altra egli si av- vince con le penne i piedi ;
della curva spada sì arma : e il limpido etra fende movendo i talari.
D'intoi'no e di sotto innumeri genti lasciate, scorge le schiatte
etiopiche e i campi cefèi. Ivi l'ingiusto Ammone aveva ingiunto che
l'incolpevole Andromeda della materna lingua scontasse le colpe. Lei come
l'Abantìade vide, avvinta le braccia su la dura rupe, se Paura lieve
non avesse agitato i capelli né gh occhi stillato un tepido pianto,
opera di marmo l'avrebbe creduta. Ignaro ne avvampa e stupisce, e rapito
all'aspetto dell'apparsa (1) IV vv. 665-752. Traduco sul
testo di H. Magnus (Berlino 1914). bellezza dimentica quasi
d'agitare le penne per l'aria. Si ferma. "0 tu — dice — degna non di
queste ca- tene, ma di quelle che serran fra loro i cupidi amanti,
il nome a chi '1 chiede rivela della terra e di te, e perché porti legami
„. Si tace ella da prima né osa parlare, vergine, a un uomo : delle mani
celerebbesi il volto pudico, se legata non fosse. Gli occhi, — e
poteva, — di sgorgante pianto colmava. A lui, che insiste più
spesso, svela, perché celar non sembrasse delitti suoi proprii, il nome
della terra e di sé, e quanta fosse stata fiducia della materna
bellezza. Ancor non compiuto il racconto, l'onda risuona :
avanzando, la belva a l'immenso mare sovrasta, e molta sotto il petto
acqua soggioga. Stride la vergine. Do- loroso il padre, e insieme la
madre è presente : miseri entrambi, più giustamente questa. Non recano
ajuto con sé, ma, come vuole il momento, pianti e lamenti, e si
serrano al corpo legato. Or cosi l'ospite parla : " Di la- crime
molti giorni vi potranno restare ; a porger sal- vezza è breve l'ora.
Questa s'io vi chiedessi, — Perseo nato da Giove e da quella che
rinchiusa Giove fé' pregna d'oro fecondo; Perseo vincitor della Gorgone
anguicoma, e per gli spazii etèrei agitando le ali vo- latore ardito, —
sarei qual genero a tutti, per certo, an- teposto. A tante doti io tento
di aggiungere un bene- fizio, pur che m'assistan gli Dei. Che, dal mio
valore salvata, sia mia, fo patto ,. Accettano (chi avrebbe per
vero esitato ?) e pregano, e promettono inoltre in dote il lor regno, i
genitori. Ecco, quale nave veloce solca col prominente rostro
le acque, da sudanti braccia di giovini condotta ; tale la fiera,
spartendo con l'empito del petto le onde, tanto dalla rupe distava, quanto
del cielo interposto possa Balearica fionda col piombo vibrato varcare :
allorquando d'un sùbito il giovane, da i piedi respinta la terra,
alto si leva verso le nubi. Come alla sommità dell'acque fu vista l'ombra
dell'uomo, s'infuria contro la vista ombra la belva. E come l'uccel di
Giove, vedendo che nel campo sgombro un serpe al Sole le livide
terga concede, da dietro lo afferra, perché la nefasta bocca non
torca, e figge i bramosi artigli nella cervice squammea; cosi con volo
rapido a piombo calando pel vuoto, della fiera fremente oppresse le
terga, nel fianco destro l'Ina- chide le nascose il ferro, fin dove è
ricurvo (1). Laniata da grave ferita, ora eretta si aderge nell'aria, ora
si asconde nell'acque, ora voltando si avventa a guisa di fiero
cignale cui la turba de' cani latranti d'intorno spaura. Egli causa con
l'ale veloci gli avidi morsi ; adesso le terga soprasparse di cave
conchiglie, adesso dei fianchi i margini, adesso dove la tenuissima coda
si termina in pesce, ovunque si porga indifesa, flagella con la
spada falcata. La belva da le fauci vome i fiotti misti con purpureo
sangue. Le penne asperse s'appe- santiron madide : né Perseo osando più
oltre affidarsi a' zuppi talari, scorse uno scoglio che col supremo
vertice l'onde supera chete, è coperto da l'onde agitate. A quello
poggiato, con la sinistra della rupe tenendo i gioghi estremi, tre
quattro volte inferisce la spada nei fianchi colpiti.
D'applausi il clamore riempie la spiaggia e le su- perne case de'
Numi. S'allietano, lo salutano genero, au- silio della schiatta e
salvator io proclamano, Cassìope e Per avere una idea precisa della "
spada ricurva , " falcata „ di Perseo e per comprendere il v.
720 {curvo tenus hamo) si veda il disegno in Roscher Lexicon d. Gr.
ti. R. Mythologie III 2 (Leipzig Cefeo padre. Sciolta da le catene s'avanza la
vergine, della fatica e causa e premio. Egli in acqua attinta
purifica le vincitrici mani : e perché dura non offenda l'arena il capo
gorgoneo, fé' molle di foglie il terreno, virgulti distese nati nel mare,
e sopra vi pose la testa di Medusa Porcinide. Il recente virgulto, dal
succoso midollo ancor vivo assorbì la forza del mostro, al con-
tatto di questo fu duro, nelle fronde e nei rami assunse rigidezza
inusata. Ma sperimentan le ninfe del pelago il mu-abile fatto in più
verghe e con gaudio lo vedon ripetersi uguale. Poi che di quelle i semi
sparser su l'acque, ancora ai coralli la stessa natura è rimasta,
che dal tocco dell'aria ricevan durezza, e ciò ch'era verga nel mare,
sopra il mare sasso diventi. Seguono le scene di festoso tripudio
cui s'ab- bandonano con Cefeo e Cassiepea i Cefeni tutti. E si
termina, col libro quarto, il primo episodio, per sé stante, del mito. Chi
lo cerchi più a fondo, deve soffermarsi sopra il dialogo fra Perseo e
Andromeda, fra Perseo e Cefeo con Cassiepea. Vibra, ivi, il sen-
timento attorno cui Ferecide aveva trovato rac- colta la fiaba del ketos.
Ma, si direbbe, in sor- dina. Un che d'ignoto par che l'attenui
come d'un velo. Cosa non senza maraviglia, giustifi- candosi tutto
il successivo evento appunto dal sorger dell'amore in Perseo e dalla
promessa del padre. Anzi, se l'origine dei coralli è il vertice
avventuroso del racconto, questa scena a l'inizio dovrebbe esser il perno
sentimentale o, meglio, umano. Ora in ciò a punto è la causa del
poco rilievo concessole dal poeta. Il suo senso d'arte l'avverti che
questo poteva divenire "iin elemento disgregatore, una
disarmonia nel- l'opera: e la passione tramutò in accordo nu-
ziale. I due protagonisti impiccioliscono visibil- mente: ella s'induce a
rivelare allo straniero il perché di sua xDOsitura " a fin clie non
sembri celare colpe sue proprie „, — e accusa la madre: egli
sciorina dinanzi ai piangenti genitori, mentre la belva avanza e il
terror tragico martella i cuori, i proprii titoli, quelli per cui si
ritiene onorevole genero al re. I più generosi appajono, poveretti,
quei due vecchi che di tutto cuore danno, con la figlia, il regno! Si che
l'artista fu, in questo argomento, volubile ; né gli soccorse
alcuno di quei fini tratti di psicologia di cui è capace in altri casi. I
soli accenni più appropriati toglie a Euripide: tali lo stupor del
veniente Perseo per l'aria, e il pudore silenzioso della vergine.
Ma deliba a pena il calice, e l'ampiezza numerica della forma cela
l'esiguità della intui- zione. Il romanzo gli ha, non pur scemato,
ma un poco anche guasto la vita. Dopo che tra grande
esultanza si sono raccolti a banchetto nuziale il re e la regina con
la figlia e il genero nuovo, si fa innanzi Fineo. E l'uomo di
Ferecide: il fratello di Cefeo già fidan- zato con Andromeda ; il quale
non ha avuto il coraggio di liberarla col proprio rischio ; ma tenta
ora di riaverla quando il ketos è ben morto. Mentre fra mezzo
alla schiera cefena quell' im- prese (1) l'eroe danaejo racconta, gli
atrii regali riempie (1) Le precedenti sue avventure : le
Graje, Medusa, ecc. una turba fremente ; sorge un clamore, non di
canti alle feste nuziali, ma d'annunzio a feroce contesa. E i
conviti mutati in sìibiti tumulti potresti assomigliare a golfo che,
quieto, sollevi in onde commosse la fervida rabbia dei vènti.
Primo Fineo tra quelli, temerario autore della con- tesa, agitando
un'asta di frassino con bronzea punta, " Ecco „ dice * ecco, mi
avanzo a vendetta della car- pita sposa. Né a me te le penne, né
sottrarrà Giove in falso oro converso „ (1). A lui clie tentava
scagliare, Cefeo opponeva " Che fai ? qual mente ti spinge in-
furiato al delitto ? tale grazia si rende a ineriti grandi ? con questa
mercede compensi la vita di lei ch'è sal- vata ? La quale ritolse, se tu
cerchi il vero, non Perseo a te, ma l'aspro nume delle Nereidi, ma il
cornìgero Ammone, ma quella belva del mare che veniva per farsi
satolla delle viscere mie ! Allora rapita ti fu, quand'era a morire. Se
non se, crudele, ciò stesso tu brami, che muoja, e t'allieti del nostro
dolore. non basta che nel tuo cospetto ella fu avvinta ? che nullo
soccorso recasti, tu sposo, tu zio ? in oltre, ti duoli che fu da taluno
salvata, e gli carpisci il premio ? Questo se a te grande paresse, da
quegli scogli dov'era affisso l'avresti richiesto. Ora lascia che quegli
il qual lo richiese, pel qual non è orba questa vecchiezza, si
porti quanto con opre e parole pattuì ; e comprendi come lui s'antepone
non a te, ma a una morte sicui'a „. Non cede Fineo a' consigli del
fratello, anzi (1) È forse inutile ricordare che, secondo il
mito, Zeus avrebbe generato Perseo (sopra pag. 94) cadendo dal sof-
fitto in forma di pioggia aurea nel grembo di Danae. comincia il
combattere. E il racconto si distende lungo per circa due centinaja di
versi : che la battaglia è seguita ne' suoi particolari con ab-
bondanza di nomi di persone di gesti. Il tu- multo è grande (1).
" Le congiurate schiere d'ogni lato combatton per la causa che
impugna inerito e fede. Per questi il va- namente pio suocero, e con la
madre la nuova sposa, son favorevoli, e d'ululato riempiono gli atrii.
Ma prevaleva il suon dell'armi e il gemito dei caduti „. Per poco
ancora dura la lotta. " Però quando alla turba soccombere vide il
valore, Perseo : " Poi che mi costringete voi stessi, ausilio
richiederò al nemico. Rivolga il viso chi, propizio, è presente „ : e
trasse il capo della Gorgone. " Cerca un altro, che i tuoi
vanti commuovano! „ esclamò Tèscelo; ma, mentre con la mano
apprestavasi a scagliare il dardo fatale, in tal gesto rimase statua di
marmo ,. All'ultimo è pro- strato, dopo assai altri come Tescelo
irrigiditi dal mostro meduseo, lo stesso Fineo. E implora : "
Vinci, Perseo : allontana i fieri mostri, togli il capo impie-
trante della tua Medusa, qual che si sia. Togli, ti prego. Non odio ci
spinse a contesa, né brama di regno ; per la sposa movemmo le armi ;
migliore fu la tua causa per opre, pel tempo la mia. Non m'è grave di
cedere. Nulla, fortissimo, fuor che quest'anima concedi a me! tuo
il resto ti sia „. A lui, che cosi parlava, né risguardare ardiva quello
cui con la voce pregava, rispose : " Ciò che, o timidissimo Fineo,
concederti posso, ed al vile è dono ben grande, — lascia il timore.
; la parafrasi è dei vv. 150 sgg.
ti concederò: da ferro non sarai violato. Che anzi vo' darti un
monumento che duri perenne ; e sempre, nella casa del suocero nostro,
sarai guardato si che la mia sposa da l'imagine del fidanzato abbia
conforto „. E lo impietra. Cosi la vasta e agitata folla che
nel principio commoveva la scena si tramuta in un popolo rigido di
statue, di cui ciascuna serba, nella fis- sità, un gesto di vita. Ed è
qui a punto il car- dine del secondo episodio mitico: efficace tra-
passo per il quale la compiacenza ferecidea verso la riccliezza del
movimento e l'ampiezza dell'azione si sublima in motivo di
armoniosa bellezza. Che è quasi esclusivamente merito di Ovidio;
come di quello che, sviluppando a sé tutta la seconda parte della
leggenda, la equi- librò con l'ampUarne, ai due estremi, il combat-
mento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto. Inserì nella sua materia
anche la nobile fede di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo
a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non priva di malignità né di
un grossolano sale. Se bene già questa non era una giunta che com-
piesse, si più tosto una intrusione che alterava, il jDoeta volle
perseguir fin nelle minuzie anche le vicende della contesa; e tradusse il
duello in una battaglia omerica; — cadendo nella più stucchevole
prolissità. Non fu ricco, ma pleto- rico : non diverso, si bene monotono.
Nella scialba sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine,
senza garbo né acume, tracce d' umane pas- sioni. Della cui banale
mediocrità s' intende quindi il motivo : fu necessario all'autore
inspessirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' im- menso piano
uniforme dello sfondo. Sola, or qui or là, la perizia tecnica foggia il
verso con eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nel- l'insieme,
sopra un ben intuito fondamental con- trasto, lo sforzo d' esser profondo
deforma e rigonfia gli elementi dell'opera. E ricordiamo.
Contrario ci apparve il difetto nel primo episodio: volubile
superficialità psico- logica accanto a larghezza romanzesca. Ma
ana- logo è nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro il poeta
non ha colto il cuore del mito, né ha, da quello, vissuto il mito.
Altrimenti, egK non avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe
con il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea : pagina
fredda di volume svolto. Il suo interesse la tentò con approcci successivi,
e di ciascuno rimase una traccia: ora piacque l'analisi psichica,
ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agita- zione bellicosa; in parte
fu possibile imitare Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun
punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno amore. Sembra che la
leggenda uncini con tutte le molteplici sue bellezze uno spirito stanco,
che reagisce pigramente se ben non dorma ancora. In realtà lo
spirito è distolto ; vive altrove. Un secolo e mezzo dopo, il
pensiero umano è molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia
nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo dei Dialoghi marini di
Luciano. Le nozze di Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il
ketos è a pena morto. In non si sa qual recesso del mare Tritone e
le Nereidi cambian fra sé quattro ciance. È un mormorio di
donnicciuole con un rivenditore del mercato. L'uno dà le notizie ;
l'altre gli si fanno attorno, — e ov'è la bellezza dei volti? — con moti
curiosi: ora questa ora quella alza la voce ; le compagne in tanto
ascoltano con stupor muto. Sono ignare de' più recenti fatti, e l'amico
li ha appresi ori- gliando. L'eco della terra par muovere da una
lontananza. Ma la terra è presente (1). Tritone e le Nereidi.
Tbit. — Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste contro la figlia
di Cefeo, Andromeda, non solo non fé' danno alla fanciulla come credete,
ma fu ucciso già esso medesimo. Ner. — Da chi, o Tritone ?
forse Cefeo, esposta come ésca la vergine, lo assalse ed uccise,
attenden- dolo in agguato con molti guerrieri ? Trit. — No.
Ma voi conoscete, — credo o Ifianassa — Perseo, il bambino di Danae, che
fu cacciato sul mare nell'arca insieme con la madre ad opera del
nonno e che per compassione di loro voi avete salvato. Ifian.
— So di chi parli: suppongo che ora sia un giovine e molto prode e bello
di aspetto. Trit. — Egli uccise il ketos. If. — E
perché, o Tritone ? non questo compenso per vero egli ci doveva.
Trit. — Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu man- dato contro le
Gorgoni per compiere al re quest'im- presa ; dopo poi che fu pervenuto in
Libia... If. — Come, o Tritone ? solo ? o conduceva com-
pagni? che altrimenti la via è difficile. Testo del Jacobitz (Lipsia,
Teubner). Tbit. — Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito d'ali.
Quando dunque fu pervenuto là dove dimora- vano, esse dormivano, ritengo,
ed egli potè tagliare il capo a Medusa e scapparsene a volo.
If. — Ma come le guardava ? sono difatti inguar- dabili : o pure
chi le guardi, non vedrà altro dopo di esse. Trit. — Atena
col porgli innanzi lo scudo (queste cose udii ch'egli raccontava di poi
ad Andromeda e a Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di
Me- dusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio : allora
egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre riguardando
nell'imagine, recise con la falce nella destra il capo di lei, e prima
che le sorelle si destas- sero volò via. Come poi giunse a
questa spiaggia d'Etiopia, già basso su la terra volando scorge Andromeda
esposta sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o dèi !,
sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da prima,
compassionando la sorte di lei, dimandava la causa del supplizio, ma a
poco a poco preso da amore (bisognava pure che uscisse salva la
fanciulla) decise di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava
pauroso come per divorar Andromeda ; e il giovine, penden- dogli di
sopra, e brandendo la falce, con una mano lo colpi, con l'altra gli
mostrò la Gorgone e lo fece pietra: la belva tosto mori e divenne rigida
in molte membra, quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i
vincoli della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre
scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole; e ora celebra le
nozze nelle case di Cefeo e la condurrà in Argo : cosi che in luogo della
morte ella trovò un marito, e non comune. Ir. — Io già
dell'avvenuto non mi sdegno; che colpa di fatti aveva verso noi la figlia
se la madre menava vanto e riteneva d'esser più bella ? DoB.
— Ma in tal modo, come madre, avrebbe sofferto per la figlia sua.
If. — Non rammentiamo più tali cose, o Doride, se una donna barbara
ciarlò un po' più del giusto. Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata
per la figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze. Certo, la
terra è presente. E nei gesti che si sottintendono ; e, più, nei confini
mentali degli interlocutori. L'arte di Luciano li designa con
perizia finissima nelle varie domande chemuovon a Tritone le Nereidi. Da
principio, annunziata la morte del ketos, suppongono, com'era più
semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo : — è il primo ingresso
dello stupefacente. Perseo s'era recato in Libia. E quelle pensano a
una regolare spedizione con compagni, ^' che altri- menti la via è
difficile „. Ragionan bene; ma, per altro, Perseo volava : — nuova
maraviglia. Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come la
guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da quel momento Tritone può
continuar ininter- rotto. E continua; ma svela, in un suo breve inciso,
improvvisamente, l'importanza di quelle interrogazioni. Perché Perseo fu
" preso da amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava
salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per l'animo dell'eroe, che in
esso quella non è causa sufficiente e appropriata ; bensì smaschera
l'ar- tificio del mitologo, e mostra la passione in- ventata a
giustificare la salvezza della vergine. E una critica genetica, diremmo
oggi. Ed è la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie di
Nereo. Il dono delle ali è rilevato come stro- mento mitopeico perché
Perseo potesse recarsi in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo
ar- tefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima nefasta
efficacia che le si soleva attribuire Dunque, è deduzione implicita, ci
fu una interessata volontà, la qual condusse con varie furberie il
giovine in Libia e contro Medusa e fra gli Etiopi. Dunque il mito è
favola che ima- ginò taluno. Passo a passo i colpi son recati, fin
che la leggenda non ha più una base di fede, si una di scetticismo
sorridente e maligno. Onde si appalesa fittizio lo stupore crescente
delle Ne- reidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero da cui
sono animate è, non cosi ristretto da non concepir l'insueto, ma largo a
bastanza da ne- garlo. E nell'ultime parole la larghezza si ac-
cresce d'un contenuto morale , estrema vetta di cotesta saliente bellezza
d'arte : non era giusto colpir la figlia per Terrore materno ; fu
molto che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ; né dovrebbe
importare a Dee la gara in bellezza d'una donna barbara con loro. Son
questi, si, ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la
coscienza etica di Euripide; ma la tragedia manca, né può sussistere
adesso. La fiaba è stata svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ;
onde il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora il cuore
stesso dell'artista. Come un luogo comune dell'ornamentazione
retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue Astronomiche^ a proposito
delle costellazioni denominate da Perseo e da Andromeda. Ma senza
vigoria originale. E difatti in cotesto uso (non importa se anteriore nel
tempo) assai men vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel
quale l'intellettual sorriso della critica è tutta- via indizio di un
sopravvissuto interesse, come a passato recente e sentito ancora. Manilio
per contro segue l'andazzo letterario, e non illumina né pure con
la luce della sfera più alta le te- nebre deir ormai superata. La
conversione dei personaggi in astri, che presso Euripide era giunta
a troncare ardui problemi dello spirito, diviene qui lo spunto, donde il
raccónto si di- parte : le è anzi asservito il racconto medesimo,
il quale nella mente all'astrologo imbelletta la pseudo scienza celeste,
che di Grecia aveva tro- vato favor di accoglienza fra i Latini (1).
Si che qui si misura, con precisa esattezza, il re- gresso
dell'efficacia leggendaria. Né Luciano né Manilio accennano a
Fineo. Se per ciò si connettano con il tragico che, — forse, — non
gli aveva trovato luogo nel drama, non è a dirsi. La natura del tema, in
entrambi, giustifica il silenzio: che Fineo non divenne astro né
ebbe attinenze col ketos. Per contro è notevole che non essi, come non
Apollodoro né Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E per
chiaro motivo. Creata quella nel momento del culminante interesse pel
mito, scompare di (1) Cfr. M. ScHANZ Geschichte der
romischen Litteratur^ (Miinchen) II 2 pagg. 28 e 37. poi con lo
scemarsi della simpatia traverso le posteriori vicende del pensiero. Nel
sommo della parabola, che segna lo sviluppo di questa leg- genda,
sta adunque una singolare originalità ch'è in contrapposto ad un tempo
con gli stadii precedenti e con i successivi. E una singolare
ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa diretta.
Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che mille metri sul
mare, non lungi a un lago cui oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era
nella antichità, sopra una larga groppa dei monti Erei (2), onde,
traverso l'aria diafana delle au- rore e dei tramonti settembrini, le
pupille be- vono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi
solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. De- metra genitrice delle
biade, Cora-Persef one figlia (1) Per questo capitolo v.
Vlndagine in libro II cap. II, di cui nelle note successive si citano i
§§. La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Ca- strogiovanni,
das alte Henna in Sizilien (Leipzig LA DEMETRA d'bNNA di lei,
Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli anni di Cicerone templi statue
culto. Le donne, cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano
forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo da Drèpano da Catana da
Camarina da Siracusa da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pen-
siero divoto, supplice per la famiglia ed i campi, timoroso dell'ire e
delle vendette divine: però elle di là la Dea, la quale è nume ad un
tempo del matrimonio e delle spighe, sembrasse ve- gliare su
l'intiera isola, e proteggere l'isolane in casa, gl'isolani su le glebe.
Di quella religione l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta
contro il mal governo di Verre, l'origine anti- chissima : ivi nate le
Dee, ivi vissute e viventi ; ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i
riti sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da ogni popolo
senza contrasto (1). Contrasto certo non sussisteva, in Sicilia, ove al
santuario ennense si guardava, come a reliquia dei tempi, con un
profondo rispetto, che le arcane leggende dei primordii rendevano più
intimo e sentito. Né la memoria secreta del popolo o il suo
pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi che, — forse, — la Storia
oggi, molti nessi rav- visando e molte trasformazioni che
s'ignoravano allora, riesce a dare un più saldo fondamento alla
credenza di quei Siciliani, un contenuto meglio ampio al loro ricordo; se
bene diffìcil- mente serbi la grata bellezza poetica di cui in-
sieme erano pregnanti religione e mito. CicER. in Verr. IV 106.
IL MITO SICULO. È probabile che gli avvenimenti seguissero
cosi (1). Enna, nella sua forte positura montana, è da
presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici appartenenti alla tribù dei
Siculi ebbero a cercar rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec.
IX avanti l'èra. Le coste, più agevole sede, eran divenute mal fide
per l'incursione dall'Oriente di predatori troppo ben armati perché fosse
riu- scibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei vio- lenti s'era
per alcun tempo spostato verso l'in- terno il processo evolutivo che, non
senza influssi esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età
eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava fino a
cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ; tra cui, com'è ovvio,
prendeva consistenza anche il pensiero religioso, con la leggenda divina
che n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavven- tura, dagli
scavi archeologici noi siamo assai meglio informati su gli oggetti delle
più ve- tuste necropoli e su gli stili loro, che non su la maturità
mentale, su gli dèi, su le fiabe, di questa tribù in quell'epoca. Ci
manca, sovra tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare una
caratteristica dell'intelletto siculo antichis- simo la quale valga a
contraddistinguerne, p. es., i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio
e nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri l'analogia; ma
questa deve, sobria, fermarsi a linee sommarie e incompiute.
Per ciò la congettura ancor che acuta lascia intrawedere, se cauta,
poco. Gl'incunabuli del- l'arte e scienza che insieme ammaestra a
sparger il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'isti- tuto
familiare, erano stati il tesoro comune che gl'Indoeuropei dividendosi
recavano seco traverso le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia,
vie meglio possedute e costituite col cessar del no- madismo, avevano
per sé più e più secoli di trionfo nell'avvenire : costituivano, con la
loro celata forza e importanza, due poli essenziali nella vita
presente. Essenziali e magnetici tanto, da attrarre parecchie fra le
medesime divinità della luce e del cielo, e sopra tutto fra le
divi- nità delle tenebre e di quella morte, che la mente bambina
dei primitivi, iDer non averne compreso il profondo valore e la non
palese bellezza, cir- condava di ombra nelle celate viscere della
terra ove scompajono i corpi di uomini'ed animali. Di questi
due poli religiosi seguire a ritroso la progressiva formazione, conduce a
origini tra sé lontane. Il naturismo che venera l'albero e il
sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ; l'animismo, che poi
se ne evolve, e adora lo spi- rito del sasso e la potenza del seme ; il
più ma- turo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di tutta la
terra una divinità sola o di tutte le biade: ci riassumono, — nei loro
gradi più re- cisi, e nelle loro sfumature assai meno formula-
bili, — la storia sintetica del Nume agreste, il quale tutta la vita
degli agricoltori accoglie e disciplina intorno al suo proprio culto. È
un'a- scesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : è un
germogliare della credenza su da quel suolo cui si richiama. — Altra via
tien la famiglia nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che è
morto dopo aver in vita esercitata la suprema autorità su le mogli e i
figli ; ed è morto la- sciando nella dimora le cose tutte che già
furono segnate del suo possesso e cedendole ai succes- sori insieme
con le vendette da compiere e gli odii da esaurire; ed è morto spezzando
con l'ul- timo alito la compagine che si raccoglieva in- torno a
lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo che li legava per la sua difesa
: rappresenta con la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché
l'ombra di lui non debba venir placata dai ne- poti, e il suo nome di
" Padre „ ripetuto. E quando, anche qui, la intelligenza divien
sensi- bile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si accostano
si penetrano si fondono nella simi- glianza della lor figura, la divinità
del Padre è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a in- fluire su
l'altre simili della Madre (ove anche il matriarcato le sia al tutto
estraneo) del Figlio della Figlia; le quali presuppongono però
sensi d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti tra i
diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo vivo, che s'era sminuito tra
l'ombre, si addensa di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro;
e, in sintesi, protegge per la sua parte la vita fa- miliare. Ed è
processo comparativamente recente, se si pensa all'istituto e agli
affetti che lo pre- cedono; ma è comparativamente vetusto se si
pensa alla non piccola serie di alterazioni cui già è andato soggetto in
poemi antichi come gli omerici. Ma, se la formazione
originaria degli iddii agresti su dalla natura è diversa da quella
dei A. Febeabino, Kalypso. 8 familiari su dalla
morte , non mancano , tra le due, attinenze. Che il culto dei morti e il
culto de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicende- volmente, è
ben noto. Ma nel caso speciale anche più efficace influenza vi doveva
essere. Però che la terra sola faccia (se fecondata dal cielo)
prosperare il gregge ed i figli, — la fa- miglia, in somma. Il campo
dell'erba e quel delle biade son la ricchezza; perché sono il nu-
trimento la salute la vigoria, de' buoi e delle capre l'uno, di uomini e
donne l'altro. Il padre vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indo-
rasse al sole la spiga; il Padre morto, perché protegga i suoi che lo
placano e pregano, deve tener lontana dal grano la tempesta e la
rubigine, e provveder che carestia non affami gli agri- coltori. Antica accanto a questa, ma anche
maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la nascita dei figli per
opera delle madri, e il ger- mogliar dei semi in seno alla terra ;
riflessi a pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi, se non i
primissimi, uomini apersero gli occhi: la conservazione e la rinnovazione
perenne di quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più
seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice, in Euripide, Febo a Lajo:
" re, non seminare di figli il tuo solco „: e intende il talamo ma-
ritale (1). E o può sembrare un antropomorfismo capovolto : una
figurazione dell'uomo a simi- glianza della terra. Se non che, in realtà,
deve più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo- Biade I 303,
Euripide Fenici 18. morfismo, per cui il fenomeno naturale
assume, nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto dell'atto
umano: cosi che Zeus, nell'alto del- Taria, è padre della pioggia, e i
campi hanno dopo il raccolto un abbandono puerperale. E tra le
forme questa appare certo antichissima: perché, anche psicologicamente,
sembra tosto suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica e
dalla importanza, tanto della generazione umana , quanto della produzione
terrestre : e perché è contraddistinta da una elementare
semplicità, che la rende compatibile con uno stadio civile ancor a
bastanza involuto. E ad ogni modo, — come principio ad effetto, forma
anteriore a quella teogonia che figura gli Dei a sé costituiti, come gli
uomini, in fa- miglie composte da genitori e figli, da parenti ed
affini. Or come per un lato le divinità dei campi e della
famiglia si avvicinano e fan intimi i lor nessi, cosi per l'altro i Numi
della terra feconda richiamano al pensiero quelli che sotto la
terra regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto il seme per
lunghi mesi; sotto la terra profon- dano le radici gli alberi, e ve le
abbarbicano con tanta forza e tenacia che duro è abbattere una
quercia; sotto terra scompaiono tal volta alcuni tra i fiumi; da la terra
sgorgano polle, che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dis-
setano del pari la bocca dei bimbi e i grumi inariditi del suolo. Nelle
viscere che inghiottono il corpo dei morti si svolge un mistero
tenebroso, di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda
della spiga, ad esempio, matura e granita, che s'è indugiata prima tra i
meandri terrosi, e ad essi deve in parte tornare di poi. La Dea che
la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli Dei inferi forse sanno.
Ed ecco l'attinenza fra i due, diversi. Quanto però sono
facili rapporti fra la zolla feconda e l'invisibile profondità
sotterranea, tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo. La
luce del Sole, la pioggia delle nubi danno forza e colore, spirano nella
vegetazione la loro secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la
crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è onusto di grappoli,
l'Astro sol tanto par dargli il verde per le frondi e il rosso per i
frutti. Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo perché
l'aria l'impregni, da la calda aria pure essa sembra ricevere l'oro e il
peso per che si flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,
l'assalto cieco della gragnuola convertono in desolazione la speranza, in
strage la messe. Le potenze della luce e della volta celeste
reggono, per una grande lor parte, benigne o maligne, le vicende
della terra ferace. A tale stadio di evoluzione religiosa (1)
eran assai probabilmente giunti i Siculi quando in Enna si elaborò
il mito. E tutti i concetti fonda- mentali, tutti i principali stami di
questo inci- piente tessuto sacro, nel mito appunto conversero. Quando
delle figurazioni che si accennarono Una sintesi su la religione degl’arii
e sull’antichissima romana, in SANCTIS (si veda), STORIA DEI ROMANI I (Torino) capp. Ili e Vili.
è ormai ricca la mente, le fiabe che possono es- serne
conteste sono molteplici, e solo il caso o la preponderante importanza di
taluno tra i fe- nomeni riesce a far prevalere qualunque l'una di
esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe o fecondato dalla pioggia
o isterilito dalla sic- cità o squassato dai vènti ; il suo nascer e
i primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta brucare;
l'incurvarsi sotto il peso della spiga e l'abbondante capellatura delle
arèste ; la semina- gione e il riposo invernale: posson del pari
offrire contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi sotto
sembianza umana e familiare, si attengono per l'uno o per T altro modo
agli Dei del cielo e delle tenebre. — Ma principalissimo è senza
dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo, onde la pianta nasce, del
soggiorno lungo che il seme, spiccato alla messe matura, compie
sotto la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad elaborare.
Richiamò i riti degli uomini, tra cui avevan parte le nozze della figlia
tolta alla madre; le nozze richiamò in una delle forme consuete, il
ratto. Fece salire su la terra la po- tenza delle sotteiTanee ombre, e il
ratto le at- tribuì. Disse il lamento della Madre biada cui la
biada sua Figlia è rapita, simile al lamento delle madri umane. Alla
scena disegnò lo sfondo delle selve che circondavano il lago di
Pergo, da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito il Dio
inferno. A questo poco si limita quel che nella proba- bilità
storica la congettura può affermare della originaria saga sicula. Però
che troppo esigue tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta,
più tardi, da nuove vicende, e non fermata, — quel che più importa,
— in canti che il pregio del- l'arte e la fortuna ci serbassero. Visse
nel culto ; i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse me- moria
traverso gli anni; ma col suggello del segreto. E forse ancora nei primi
secoli avanti e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai
riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo : il nome delle Dee
agresti, antichissimo; quel del rapitore; o le circostanze del ratto; o
tutto il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma ogni
rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi è, e resterà, nelle
tenebre. E certo tenebre graverebbero del pari sopra un
altro consimile mito e culto in Grecia, ove l'arte non ce ne avesse
serbato ampio e colorito ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò
la leggenda furono, secondo è verisimile, a un di presso quei
medesimi che si possono tracciare in sintesi svelta pei Siculi: cosi che
le due saghe sono strette, come i due popoli, da intima pa-
rentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dis- simili certo ma certo
anche analoghi fra loro. Se non che quando l'arte, almeno nella
più vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il mito presso gli
Eliòni, questo ha già raggiunto uno sviluppo maggiore, che non toccasse
i)ro- babilmente nell'antichissima Enna. Certo nel- Vlnno omerico a
Demetra^ il quale è da attribuire, sembra, al secolo VII avanti l'èra (1),
la leggenda si preoccupa, non pur di adombrare le vicende del seme
durante l'inverno, ma ancbe di giustificar la periodicità costante con
cui la seminagione la vegetazione e il raccolto si al- ternano nei
mesi dell'anno : coglie in somma il fenomeno con uno sguardo più ampio,
oltre il singolo momento. La figlia pertanto è tolta prima, poi
ricondotta alla madre; col patto però cbe abbia ad intervalli determinati
a ritornare nel grembo della terra, soggiornando con vicenda
alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre. La ragione del fatto
è cercata, com'è ovvio, nel- l'essersi ormai consumato tra la rapita e il
dio rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel simbolo di
questo, il gustato frutto del melo- grano. Oltre poi a
rivelare cotesta sostanziale matu- rità mitica, l'Inno a Demetra palesa
anche di- venuta più ricca la leggenda. Un primo a ba- stanza
antico innesto accrescitivo è da scorgersi nella presenza di Ecate "
bendata di luce ,, e di Elios " chdaro figlio di Iperione ,. ; i
quali, giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade il modo
del ratto e, dopo nove giorni di vana e affannosa ricerca, la persona del
rapitore. Ecate, sia la Luna che risplende su le notti della terra
; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni e vede tutto degli uomini:
sono probabilmente (1) T. W. Allen and E. E. Sikes The
homeric hymns (London 1904) pag. 10 sgg. i pili arcaici personaggi
entrati su la scena ac- canto ai protagonisti : però che essi fossero i
più adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „ su la
" Figlia „ perduta, essi che son gli occhi diurni e notturni del
cielo. Né l'originario lor valore è al tutto obliterato nel carme; se
bene non vi permanga senza alterazione. Di più, altro segno
di compiutosi progresso mitico, nell'Inno ogni figura è precisa
perché risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede con
sicurezza una teologia e una teogonia. Cia- scun Dio è figlio di un
certo, padre di un altro e fratello, ha caratteristiche sue, un passato
ben suo. Le due principali Dee del racconto, le di- vinità agresti,
hanno assunto definito aspetto. La Madre, la Signora delle biade "
Demetra „, ha profondamente evoluto la sua duplice essenza agricola
e familiare : è delirante nel suo dolore di madre cui l'unica figlia è
tolta X3er tradi- mento ; è d'altra parte padrona della vita degli
uomini, che può prosperar per il dono grami- minaceo di lei ed esaurirsi
senz'esse: porta in somma al supremo vertice la sua natura umana e
la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco " Cora „, spazia,
vivente d'una vita che par s'a- limenti da sangue nostro, su tutti i
campi ov'è vegetazione, e le grazie della sua feminea gio- vinezza
cercan a preferenza fiori profumi e prati. Il suo valore naturalistico dì
seme che i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra : è dea, è
bella, è ingenua, e le vergini Oceanine le fanno corteo. Presso agli
agresti, con uguale individuata determinatezza appajono gli Dei
sot- terranei, addotti da quel vincolo di analogia che vedemmo pili
sopra. L'infero Nume rapitore è " Ade „ o " Aidòneo „ ;
signoreggia su la vasta moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ;
non gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per preda; ripiomba
nel bujo: e i cavalli del suo cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo
cocchio è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco, siede
Persèfone, regina fra i trapassati com'egli re; com'egli veneranda e
truce fra le xDallide larve. — Dal cielo le potenze luminose,
gl'Iddii supremi, partecipano alle scene del dramma : Zeus, giusto
in sue sentenze, x^adre di uomini e numi; Iride, messaggera di lui a
Demetra per placarne il dolore, se bene vano le riesca il viaggio;
Ermes, loquace ambasciatore ed accorto, che induce Ade a cedere la
recente conquista. — Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si
stringono attinenze come sogliono tra gli umani : Zeus, fecondatore dei
campi con la pioggia di cui è padre, appar fratello di Demetra :
Zeus, risplendente face della terra, è germano di Ade, come quegli
che da l'alto ajuta il suolo nella secreta germinazione del grano. Uniche
non po- tevano congiungersi in parentela, perché s'eli- devano
l'una con l'altra, Cora e Persèfone : la rapita di Aidoneo e la moglie
del He. E poiché il contrasto non si poteva dalla fantasia supe-
rare in altro modo, il quale non offendesse l'una delle Dee, le due
figure diverse si ridussero a differenti nomi dalla medesima persona
scam- bievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto il tono
austero della Regina, di cui tuttavia mitigava la maschera accigliata. La
creatura leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne delle due
onde fu composta, ma risultò armo- nica ed ebbe riso e vezzi su la terra
i)resso la Madre, rigidezza e austerità fra i morti i^resso il
marito. Il poeta adunque ricevette dalla tradizione una trama
di leggenda ben più ricca che la povera da noi ricostruita per Enna ;
i^ersonaggi più precisi e raccolti in gruppo organico. Vi apportò
in oltre la sua arte che addusse la saga a nuovo grado di progresso. La
vagheggia egli difatti non senza raccoglimento religioso né senza
coscienza, al meno complessiva, del suo significato riposto. Ma la
vagheggia sovra tutto quale una creazione bella dello sph'ito : come
il suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare il torso nudo di
un efebo o le ginocchia del vincitore nella corsa. Insensibilmente per
lui, sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla sua origine; e
le mani pajono comporla e pla- smarla allora per la prima volta in un
fervore pacato di concezione e di espressione. Tutto si ordina
secondo un'architettura severa, dal re- spiro ampio e calmo. E il centro
di quel mondo di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei secoli
lontanissimi è, più che in ogni altro senso, in un tranquillo godimento.
Segno non piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'ef-
ficacia che all'arte compete qual balsamo delle belle creature
mitiche. Intercalato però nel mito è un lungo
racconto, diverso (1). Demetra, appreso da Elios il nome del
rapitore, in preda alla sua folle sofferenza giunge neir Attica ad Eleusi
e qui^d sosta sopra un sasso, " la pietra del pianto „,
assumendo l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le figlie del
Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono col chiederle e col darle notizie:
attratte anzi dalla simpatia che spira il sembiante venerando,
l'invitano nella casa della madre loro, Metanira, accennandole d'un bimbo
di recente nato cui ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia
la Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta al piccolo
Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vor- rebbe donare il sacro dono
dell'immortalità ; onde di notte lo pone, con certe sue arti ma-
giche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si accresce di vigore e
acquista la virtù sovrumana. Se non che Metanira, destatasi d'improvviso
e scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e distrugge
l'incantesimo. Demofonte non sarà libero di morte. Ma per compenso la
Madre delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini!
Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti del suo culto. — A
spiegare, appimto, il culto che in Eleusi con specialissima pompa si
rendeva a Demetra è dunque indirizzata tutta questa ampia parte del
carme ; la quale cosi nell'insieme come nei particolari costituisce dunque
un complesso etiologico ben distinto dal complesso mitologico. E a
quel modo che quest'ultimo ci mostrava quanto a\Tebber potuto maturità di
pensiero e soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo rozzo e
imperfetto del mito ennense ; quel primo fa intrawedere la guisa per cui,
nel seno della vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno alla
Dea agreste innominata, la saga si sarebbe potuta complicare di
personaggi e di episodii, ri- vestendo un venerando colore di antichità
sacra. Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie deirinno
attraggono la nostra attenzione (1). All'uno e all'altre è sostrato
un'idea r)rincipale che importa porre in tutto il suo risalto.
Questa: nel momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli uomini
conoscono già l'uso del grano, come si semini e come cresca fra le zolle
; quel momento anzi cagiona un temporaneo danno ai campi : che
" molti nei campi in vano trascinarono i bovi aratri ricurvi; molto
su la gleba bianco orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini
tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „ (2). E solo dopo la
sentenza di Zeus che ridona alla Madre la figlia per " due terzi del
volgente anno „ ritorna in terra la gloria del biondo cibo. Il
soggiorno di Demetra in Eleusi è contempo- raneo al danno, e la sua
conseguenza si riduce intera all'iniziazione dei misteri sacri. In
somma, appare qui a bastanza conservato il contenuto originario del
mito naturalistico: se difatti De- metra è la biada il cui chicco scompar
sotterra per germinare e risorgere culmo, è giusto che le biade
esistano prima del ratto sotterraneo, scompaiano poi, riappajano col
ritorno della rapita. E la sentenza di Zeus giova a rendere periodico, ma
senza dolore, questo alternarsi agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di
uma- nità siasi trasfuso nel racconto a velarne il si- gnificato
primitivo, questo permase non corrotto; si che la leggenda dell'Inno
merita il nome di prisca. E noi la diremo protoattica, in
confronto con un'altra meno antica (del V secolo) che, per essere
del pari eleusinia, può dirsi neoattica. Questa seconda concepisce il
mondo ignaro di messe prima che si compisse il ratto, esperto solo
di poi : di maniera che la violenza di Ade è causa, oltre che de' Misteri
e del giudizio di Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la semi-
nagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di Trittolemo : nome che
ricorre già nell'Inno qual di principe in Eleusi a lato di Celeo re in
una con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura per contro che
appare adesso la prima volta, e prevale, e si diffonde nell'arte
letteraria pla- stica pittorica, col carattere di adolescente gio-
vinezza e con l'officio di maestro nella fatica no- vissima e preziosa.
Semi ed aratro definiscono il pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e
la triade recente spezza lo schema anteriore rico- stituendone un
altro. Nel quale, dunque, non si oblitera tutto il senso naturalistico
del mito, ma acquista un valore riflesso : perché il rapimento di
Cora diviene, meglio che la trasfigurazione umana della sorte graminacea,
l'inizio storico, cronologicamente e geograficamente inteso, del
grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto non sostituisce
soltanto con importanza maggiore Trittolemo al Demofonte deirinno per la
magia del fuoco ; bensi sopprime anche la ven- detta di Demetra, che in
verità non avrebbe più modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira,
genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a quella condizione di misera
vita, ch'è acconcia a uomini privi della vera e primissima fonte di
agio. Accetta permase questa leggenda. Nel suo largo
diffondersi subì, è vero, non pochie, sviluppando a sé tutta la seconda
parte della leggenda, la equi- librò con l'ampUarne, ai due estremi, il
combat- mento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto. Inserì
nella sua materia anche la nobile fede di Cefeo che si oppone al fratello
esortandolo a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non priva di
malignità né di un grossolano sale. Se bene già questa non era una giunta
che com- piesse, si più tosto una intrusione che alterava, il
jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche le vicende della contesa;
e tradusse il duello in una battaglia omerica; — cadendo nella più
stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pleto- rico : non diverso, si
bene monotono. Nella scialba sostanza impresse poi, su l'inizio e su la
fine, senza garbo né acume, tracce d' umane pas- sioni. Della cui
banale mediocrità s' intende quindi il motivo : fu necessario all'autore
inspessirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' im- menso piano
uniforme dello sfondo. Sola, or qui or là, la perizia tecnica foggia il
verso con eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nel- l'insieme,
sopra un ben intuito fondamental con- trasto, lo sforzo d' esser profondo
deforma e rigonfia gli elementi dell'opera. E ricordiamo.
Contrario ci apparve il difetto nel primo episodio: volubile
superficialità psico- logica accanto a larghezza romanzesca. Ma
ana- logo è nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro il poeta
non ha colto il cuore del mito, né ha, da quello, vissuto il mito.
Altrimenti, egK non avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe
con il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea : pagina
fredda di volume svolto. Il suo interesse la tentò con approcci
successivi, e di ciascuno rimase una traccia: ora piacque l'analisi
psichica, ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agita- zione
bellicosa; in parte fu possibile imitare Euripide, Omero in parte. Mai
però, in alcun punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno
amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte le molteplici sue bellezze
uno spirito stanco, che reagisce pigramente se ben non dorma
ancora. In realtà lo spirito è distolto ; vive altrove. Un
secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è molto lungi. Ha nel trattare il
mito una grazia nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo dei
Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di Perseo e Andromeda si stan
celebrando ; il ketos è a pena morto. In non si sa qual recesso del
mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé quattro ciance. È un mormorio di
donnicciuole con un rivenditore del mercato. L'uno dà le notizie ;
l'altre gli si fanno attorno, — e ov'è la bellezza dei volti? — con moti
curiosi: ora questa ora quella alza la voce ; le compagne in tanto
ascoltano con stupor muto. Sono ignare de' più recenti fatti, e l'amico
li ha appresi ori- gliando. L'eco della terra par muovere da una
lontananza. Ma la terra è presente. Tritone e le Nereidi.
Tbit. — Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste contro la figlia
di Cefeo, Andromeda, non solo non fé' danno alla fanciulla come credete,
ma fu ucciso già esso medesimo. Ner. — Da chi, o Tritone ?
forse Cefeo, esposta come ésca la vergine, lo assalse ed uccise,
attenden- dolo in agguato con molti guerrieri ? Trit. — No.
Ma voi conoscete, — credo o Ifianassa — Perseo, il bambino di Danae, che
fu cacciato sul mare nell'arca insieme con la madre ad opera del
nonno e che per compassione di loro voi avete salvato. Ifian.
— So di chi parli: suppongo che ora sia un giovine e molto prode e bello
di aspetto. Trit. — Egli uccise il ketos. If. — E perché, o
Tritone ? non questo compenso per vero egli ci doveva. Trit.
— Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu man- dato contro le Gorgoni per
compiere al re quest'im- presa ; dopo poi che fu pervenuto in
Libia... If. — Come, o Tritone ? solo ? o conduceva com-
pagni? che altrimenti la via è difficile. (1) Testo del
Jacobitz (Lipsia, Teubner). Tbit. — Traverso l'aria : Atena lo
aveva fornito d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimora-
vano, esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il capo a Medusa e
scapparsene a volo. If. — Ma come le guardava ? sono difatti
inguar- dabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo di
esse. Trit. — Atena col porgli innanzi lo scudo (queste cose
udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a Cefeo) Atena dunque gli diede
a vedere l'imagine di Me- dusa su lo scudo risplendente, come sur uno
specchio : allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre
riguardando nell'imagine, recise con la falce nella destra il capo di
lei, e prima che le sorelle si destas- sero volò via. Come
poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già basso su la terra volando
scorge Andromeda esposta sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima,
o dèi !, sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da
prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la causa del supplizio,
ma a poco a poco preso da amore (bisognava pure che uscisse salva la
fanciulla) decise di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava
pauroso come per divorar Andromeda ; e il giovine, penden- dogli di
sopra, e brandendo la falce, con una mano lo colpi, con l'altra gli
mostrò la Gorgone e lo fece pietra: la belva tosto mori e divenne rigida
in molte membra, quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i
vincoli della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre scendeva
in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole; e ora celebra le nozze
nelle case di Cefeo e la condurrà in Argo : cosi che in luogo della morte
ella trovò un marito, e non comune. Ir. — Io già
dell'avvenuto non mi sdegno; che colpa di fatti aveva verso noi la figlia
se la madre menava vanto e riteneva d'esser più bella ? DoB.
— Ma in tal modo, come madre, avrebbe sofferto per la figlia sua.
If. — Non rammentiamo più tali cose, o Doride, se una donna barbara
ciarlò un po' più del giusto. Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata
per la figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze. Certo, la
terra è presente. E nei gesti che si sottintendono ; e, più, nei confini
mentali degli interlocutori. L'arte di Luciano li designa con
perizia finissima nelle varie domande chemuovon a Tritone le Nereidi. Da
principio, annunziata la morte del ketos, suppongono, com'era più
semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo : — è il primo ingresso
dello stupefacente. Perseo s'era recato in Libia. E quelle pensano a
una regolare spedizione con compagni, ^' che altri- menti la via è
difficile „. Ragionan bene; ma, per altro, Perseo volava : — nuova
maraviglia. Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come la
guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da quel momento Tritone può
continuar ininter- rotto. E continua; ma svela, in un suo breve
inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle interrogazioni. Perché
Perseo fu " preso da amore „ per Andromeda? Risponde: "
bisognava salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per l'animo
dell'eroe, che in esso quella non è causa sufficiente e appropriata ;
bensì smaschera l'ar- tificio del mitologo, e mostra la passione
in- ventata a giustificare la salvezza della vergine. E una critica
genetica, diremmo oggi. Ed è la stessa che avevan fatta, più coperta, le
figlie di Nereo. Il dono delle ali è rilevato come stro- mento
mitopeico perché Perseo potesse recarsi in Libia ; l'astuzia dello scudo,
come mezzo ar- tefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima
nefasta efficacia che le si soleva attribuire Dunque, — è deduzione
implicita, — ci fu una interessata volontà, la qual condusse con
varie furberie il giovine in Libia e contro Medusa e fra gli
Etiopi. Dunque il mito è favola che ima- ginò taluno. Passo a passo i
colpi son recati, fin che la leggenda non ha più una base di fede,
si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde si appalesa fittizio lo
stupore crescente delle Ne- reidi dinanzi all'avventura: però che il
pensiero da cui sono animate è, non cosi ristretto da non concepir
l'insueto, ma largo a bastanza da ne- garlo. E nell'ultime parole la
larghezza si ac- cresce d'un contenuto morale , estrema vetta di
cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto colpir la figlia per
Terrore materno ; fu molto che Cassiepea avesse a temere tanta sventura
; né dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza d'una donna
barbara con loro. Son questi, si, ancor gli attacchi che al mito avrebbe
mossi la coscienza etica di Euripide; ma la tragedia manca, né può
sussistere adesso. La fiaba è stata svèlta da l'anima, e respinta al di
fuori ; onde il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora il
cuore stesso dell'artista. Come un luogo comune
dell'ornamentazione retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue
Astronomiche^ a proposito delle costellazioni denominate da Perseo e da
Andromeda. Ma senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso
(non importa se anteriore nel tempo) assai men vita leggendaria che nello
stesso Luciano: nel quale l'intellettual sorriso della critica è tutta-
via indizio di un sopravvissuto interesse, come a passato recente e
sentito ancora. Manilio per contro segue l'andazzo letterario, e non
illumina né pure con la luce della sfera più alta le te- nebre deir
ormai superata. La conversione dei personaggi in astri, che presso
Euripide era giunta a troncare ardui problemi dello spirito,
diviene qui lo spunto, donde il raccónto si di- parte : le è anzi
asservito il racconto medesimo, il quale nella mente all'astrologo
imbelletta la pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva tro- vato
favor di accoglienza fra i Latini (1). Si che qui si misura, con precisa
esattezza, il re- gresso dell'efficacia leggendaria. Né
Luciano né Manilio accennano a Fineo. Se per ciò si connettano con il
tragico che, — forse, — non gli aveva trovato luogo nel drama, non
è a dirsi. La natura del tema, in entrambi, giustifica il silenzio: che
Fineo non divenne astro né ebbe attinenze col ketos. Per contro è notevole
che non essi, come non Apollodoro né Ovidio, accettano la Andromeda
euripidea. E per chiaro motivo. Creata quella nel momento del
culminante interesse pel mito, scompare di Cfr. M. ScHANZ Geschichte der
romischen Litteratur^ (Miinchen 1913) II 2 pagg. 28 e 37. poi con lo
scemarsi della simpatia traverso le posteriori vicende del pensiero. Nel
sommo della parabola, che segna lo sviluppo di questa leg- genda,
sta adunque una singolare originalità ch'è in contrapposto ad un tempo
con gli stadii precedenti e con i successivi. E una singolare
ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa diretta. Enna:
nell'interno della Sicilia, a presso che mille metri sul mare, non lungi
a un lago cui oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella
antichità, sopra una larga groppa dei monti Erei (2), onde, traverso
l'aria diafana delle au- rore e dei tramonti settembrini, le pupille
be- vono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi solchi dei
fiumi, la dorata luce dei piani. De- metra genitrice delle biade,
Cora-Persef one figlia (1) Per questo capitolo v. Vlndagine
in libro II cap. II, di cui nelle note successive si citano i §§.
(2) La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Ca- strogiovanni,
das alte Henna in Sizilien (Leipzig LA DEMETRA d'bNNA di lei,
Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli anni di Cicerone templi statue
culto. Le donne, cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano
forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo da Drèpano da Catana da
Camarina da Siracusa da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pen-
siero divoto, supplice per la famiglia ed i campi, timoroso dell'ire e
delle vendette divine: però elle di là la Dea, la quale è nume ad un
tempo del matrimonio e delle spighe, sembrasse ve- gliare su
l'intiera isola, e proteggere l'isolane in casa, gl'isolani su le glebe.
Di quella religione l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta
contro il mal governo di Verre, l'origine anti- chissima : ivi nate le
Dee, ivi vissute e viventi ; ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i
riti sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da ogni popolo
senza contrasto (1). Contrasto certo non sussisteva, in Sicilia, ove al
santuario ennense si guardava, come a reliquia dei tempi, con un
profondo rispetto, che le arcane leggende dei primordii rendevano più
intimo e sentito. Né la memoria secreta del popolo o il suo
pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi che, — forse, — la Storia
oggi, molti nessi rav- visando e molte trasformazioni che s'ignoravano
allora, riesce a dare un più saldo fondamento alla credenza di quei
Siciliani, un contenuto meglio ampio al loro ricordo; se bene
diffìcil- mente serbi la grata bellezza poetica di cui in- sieme
erano pregnanti religione e mito. CICERONE (si veda) in Verr. IV
106. È probabile che gli avvenimenti seguissero cosi (1).
Enna, nella sua forte positura montana, è da presumere fosse uno
dei luoghi ove gl'Italici appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a
cercar rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX avanti
l'èra. Le coste, più agevole sede, eran divenute mal fide per
l'incursione dall'Oriente di predatori troppo ben armati perché fosse
riu- scibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei vio- lenti s'era
per alcun tempo spostato verso l'in- terno il processo evolutivo che, non
senza influssi esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età
eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava fino a
cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ; tra cui, com'è ovvio,
prendeva consistenza anche il pensiero religioso, con la leggenda divina che
n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavven- tura, dagli scavi
archeologici noi siamo assai meglio informati su gli oggetti delle più
ve- tuste necropoli e su gli stili loro, che non su la maturità
mentale, su gli dèi, su le fiabe, di questa tribù in quell'epoca. Ci
manca, sovra tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare una
caratteristica dell'intelletto siculo antichis- simo la quale valga a
contraddistinguerne, p. es., i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio
e nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri l'analogia; ma
questa deve, sobria, fermarsi a linee sommarie e incompiute.
Per ciò la congettura ancor che acuta lascia (Ij Cfr.
§§ 1 e III. 112 III. - intrawedere, se cauta, poco.
Gl'incunabuli del- l'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger
il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'isti- tuto familiare, erano
stati il tesoro comune che gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco
traverso le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie meglio possedute
e costituite col cessar del no- madismo, avevano per sé più e più secoli
di trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro celata forza e
importanza, due poli essenziali nella vita presente. Essenziali e
magnetici tanto, da attrarre parecchie fra le medesime divinità
della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divi- nità delle tenebre e
di quella morte, che la mente bambina dei primitivi, iDer non averne
compreso il profondo valore e la non palese bellezza, cir- condava
di ombra nelle celate viscere della terra ove scompajono i corpi di
uomini'ed animali. Di questi due poli religiosi seguire a
ritroso la progressiva formazione, conduce a origini tra sé
lontane. Il naturismo che venera l'albero e il sasso, il ruscello e la
zolla, la spiga del grano ; l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo
spi- rito del sasso e la potenza del seme ; il più ma- turo
pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di tutta la terra una divinità
sola o di tutte le biade: ci riassumono, — nei loro gradi più re-
cisi, e nelle loro sfumature assai meno formula- bili, — la storia
sintetica del Nume agreste, il quale tutta la vita degli agricoltori
accoglie e disciplina intorno al suo proprio culto. È un'a- scesa
dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : è un germogliare della
credenza su da quel suolo cui si richiama. — Altra via tien la
famiglia nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che è morto
dopo aver in vita esercitata la suprema autorità su le mogli e i figli ;
ed è morto la- sciando nella dimora le cose tutte che già furono
segnate del suo possesso e cedendole ai succes- sori insieme con le
vendette da compiere e gli odii da esaurire; ed è morto spezzando con
l'ul- timo alito la compagine che si raccoglieva in- torno a lui e
sciogliendo i suoi nati dal vincolo che li legava per la sua difesa :
rappresenta con la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché
l'ombra di lui non debba venir placata dai ne- poti, e il suo nome di
" Padre „ ripetuto. E quando, anche qui, la intelligenza divien
sensi- bile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si accostano
si penetrano si fondono nella simi- glianza della lor figura, la divinità
del Padre è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a in- fluire su
l'altre simili della Madre (ove anche il matriarcato le sia al tutto
estraneo) del Figlio della Figlia; le quali presuppongono però
sensi d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti tra i
diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo vivo, che s'era sminuito tra
l'ombre, si addensa di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro;
e, in sintesi, protegge per la sua parte la vita fa- miliare. Ed è
processo comparativamente recente, se si pensa all'istituto e agli
affetti che lo pre- cedono; ma è comparativamente vetusto se si
pensa alla non piccola serie di alterazioni cui già è andato soggetto in
poemi antichi come gli omerici. Ma, se la formazione
originaria degli iddii agresti su dalla natura è diversa da quella
dei familiari su dalla morte , non mancano , tra le due, attinenze.
Che il culto dei morti e il culto de' divini influiscano l'uno su
l'altro, vicende- volmente, è ben noto. Ma nel caso speciale anche
più efficace influenza vi doveva essere. Però che la terra sola faccia (se
fecondata dal cielo) prosperare il gregge ed i figli, — la fa-
miglia, in somma. Il campo dell'erba e quel delle biade son la ricchezza;
perché sono il nu- trimento la salute la vigoria, de' buoi e delle
capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre vivo ha gittato il seme
e ha fatto che s'indo- rasse al sole la spiga; il Padre morto,
perché protegga i suoi che lo placano e pregano, deve tener lontana
dal grano la tempesta e la rubigine, e provveder che carestia non affami
gli agri- coltori. — Antica accanto a questa, ma anche maggiore, è
l'attinenza tra il concepimento e la nascita dei figli per opera delle
madri, e il ger- mogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a
pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi, se non i primissimi,
uomini apersero gli occhi: la conservazione e la rinnovazione perenne
di quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più seme „ è in
Omero la schiatta che muore. Dice, in Euripide, Febo a Lajo: " re,
non seminare di figli il tuo solco „: e intende il talamo ma-
ritale (1). E o può sembrare un antropomorfismo capovolto : una
figurazione dell'uomo a simi- glianza della terra. Se non che, in realtà,
deve più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo- Biade I 303,
Euripide Fenici 18. morfismo, per cui il fenomeno naturale assume,
nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto dell'atto umano: cosi
che Zeus, nell'alto del- Taria, è padre della pioggia, e i campi
hanno dopo il raccolto un abbandono puerperale. E tra le forme
questa appare certo antichissima: perché, anche psicologicamente, sembra
tosto suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica e dalla
importanza, tanto della generazione umana , quanto della produzione
terrestre : e perché è contraddistinta da una elementare
semplicità, che la rende compatibile con uno stadio civile ancor a
bastanza involuto. E ad ogni modo, — come principio ad effetto, —
forma anteriore a quella teogonia che figura gli Dei a sé costituiti,
come gli uomini, in fa- miglie composte da genitori e figli, da
parenti ed affini. Or come per un lato le divinità dei
campi e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor nessi, cosi
per l'altro i Numi della terra feconda richiamano al pensiero quelli che
sotto la terra regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto il
seme per lunghi mesi; sotto la terra profon- dano le radici gli alberi, e
ve le abbarbicano con tanta forza e tenacia che duro è abbattere
una quercia; sotto terra scompaiono tal volta alcuni tra i fiumi; da la
terra sgorgano polle, che l'uomo ignora dove abbiano origine, e
dis- setano del pari la bocca dei bimbi e i grumi inariditi del
suolo. Nelle viscere che inghiottono il corpo dei morti si svolge un
mistero tenebroso, di cui si scorgono al sole pochi segni : la
vicenda della spiga, ad esempio, matura e granita, che s'è indugiata
prima tra i meandri terrosi, e ad essi deve in parte tornare di poi. La
Dea che la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli Dei inferi
forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i due, diversi. Quanto
però sono facili rapporti fra la zolla feconda e l'invisibile profondità
sotterranea, tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo. La
luce del Sole, la pioggia delle nubi danno forza e colore, spirano nella
vegetazione la loro secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la
crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è onusto di grappoli,
l'Astro sol tanto par dargli il verde per le frondi e il rosso per i
frutti. Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo perché
l'aria l'impregni, da la calda aria pure essa sembra ricevere l'oro e il
peso per che si flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,
l'assalto cieco della gragnuola convertono in desolazione la speranza, in
strage la messe. Le potenze della luce e della volta celeste
reggono, per una grande lor parte, benigne o maligne, le vicende
della terra ferace. A tale stadio di evoluzione religiosa (1)
eran assai probabilmente giunti i Siculi quando in Enna si elaborò
il mito. E tutti i concetti fonda- mentali, tutti i principali stami di
questo inci- piente tessuto sacro, nel mito appunto
conversero. Quando delle figurazioni che si accennarono Una sintesi
su la religione degli Indoeuropei e su Fantichissima romana, in De
Sanctis Storia dei Romani I (Torino 1907) capp. Ili e Vili. è ormai
ricca la mente, le fiabe che possono es- serne conteste sono molteplici,
e solo il caso o la preponderante importanza di taluno tra i fe-
nomeni riesce a far prevalere qualunque l'una di esse. Le vicende del
grano assalito dalla golpe o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla
sic- cità o squassato dai vènti ; il suo nascer e i primi fili
gracili che il bestiame calpesta e tenta brucare; l'incurvarsi sotto il
peso della spiga e l'abbondante capellatura delle arèste ; la
semina- gione e il riposo invernale: posson del pari offrire
contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi sotto sembianza umana e
familiare, si attengono per l'uno o per T altro modo agli Dei del
cielo e delle tenebre. — Ma principalissimo è senza dubbio, nel suo
assiduo mistero, il miracolo, onde la pianta nasce, del soggiorno lungo
che il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto la terra. Tal
miracolo il mito ennense venne ad elaborare. Richiamò i riti degli
uomini, tra cui avevan parte le nozze della figlia tolta alla
madre; le nozze richiamò in una delle forme consuete, il ratto. Fece
salire su la terra la po- tenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le
at- tribuì. Disse il lamento della Madre biada cui la biada sua Figlia
è rapita, simile al lamento delle madri umane. Alla scena disegnò lo
sfondo delle selve che circondavano il lago di Pergo, da cui,
secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito il Dio inferno. A
questo poco si limita quel che nella proba- bilità storica la congettura
può affermare della originaria saga sicula. Però che troppo esigue
tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più tardi, da nuove
vicende, e non fermata, — quel che più importa, — in canti che il pregio
del- l'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ; i
sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse me- moria traverso gli anni; ma
col suggello del segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti e
dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai riti, conoscevano alcun
particolare che ignoriamo : il nome delle Dee agresti, antichissimo;
quel del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto il di più
ch'è vano e impossibile supporre. Ma ogni rivelazione era celata tra veli
mistici. Oggi è, e resterà, nelle tenebre. n. — Il
mito greco. E certo tenebre graverebbero del pari sopra un
altro consimile mito e culto in Grecia, ove l'arte non ce ne avesse
serbato ampio e colorito ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò
la leggenda furono, secondo è verisimile, a un di presso quei medesimi
che si possono tracciare in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due
saghe sono strette, come i due popoli, da intima pa- rentela. Rami
e fiori dell'unico ceppo ario, dis- simili certo ma certo anche analoghi
fra loro. Se non che quando l'arte, almeno nella più vetusta
espressione a noi pervenuta, elabora il mito presso gli Eliòni, questo ha
già raggiunto uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)ro-
babilmente nell'antichissima Enna. Certo nel- Vlnno omerico a Demetra^ il
quale è da attribuire, sembra, al secolo VII avanti l'èra (1), la
leggenda si preoccupa, non pur di adombrare le vicende del seme durante
l'inverno, ma ancbe di giustificar la periodicità costante con cui
la seminagione la vegetazione e il raccolto si al- ternano nei mesi
dell'anno : coglie in somma il fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre
il singolo momento. La figlia pertanto è tolta prima, poi
ricondotta alla madre; col patto però cbe abbia ad intervalli determinati
a ritornare nel grembo della terra, soggiornando con vicenda
alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre. La ragione del fatto
è cercata, com'è ovvio, nel- l'essersi ormai consumato tra la rapita e il
dio rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel simbolo di
questo, il gustato frutto del melo- grano. Oltre poi a
rivelare cotesta sostanziale matu- rità mitica, l'Inno a Demetra palesa
anche di- venuta più ricca la leggenda. Un primo a ba- stanza
antico innesto accrescitivo è da scorgersi nella presenza di Ecate "
bendata di luce ,, e di Elios " chdaro figlio di Iperione ,. ; i
quali, giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade il modo
del ratto e, dopo nove giorni di vana e affannosa ricerca, la persona del
rapitore. Ecate, sia la Luna che risplende su le notti della terra
; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni e vede tutto degli uomini:
sono probabilmente (1) T. W. Allen and E. E. Sikes The
homeric hymns (London LA DKMETRA d'eNNA i pili arcaici
personaggi entrati su la scena ac- canto ai protagonisti : però che essi
fossero i più adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „
su la " Figlia „ perduta, essi che son gli occhi diurni e notturni
del cielo. Né l'originario lor valore è al tutto obliterato nel carme; se
bene non vi permanga senza alterazione. Di più, altro segno
di compiutosi progresso mitico, nell'Inno ogni figura è precisa
perché risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede con
sicurezza una teologia e una teogonia. Cia- scun Dio è figlio di un
certo, padre di un altro e fratello, ha caratteristiche sue, un passato
ben suo. Le due principali Dee del racconto, le di- vinità agresti,
hanno assunto definito aspetto. La Madre, la Signora delle biade "
Demetra „, ha profondamente evoluto la sua duplice essenza agricola
e familiare : è delirante nel suo dolore di madre cui l'unica figlia è
tolta X3er tradi- mento ; è d'altra parte padrona della vita degli
uomini, che può prosperar per il dono grami- minaceo di lei ed esaurirsi
senz'esse: porta in somma al supremo vertice la sua natura umana e
la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco " Cora „, spazia,
vivente d'una vita che par s'a- limenti da sangue nostro, su tutti i
campi ov'è vegetazione, e le grazie della sua feminea gio- vinezza
cercan a preferenza fiori profumi e prati. Il suo valore naturalistico dì
seme che i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra : è dea, è
bella, è ingenua, e le vergini Oceanine le fanno corteo. — Presso agli
agresti, con uguale individuata determinatezza appajono gli Dei sot-
terranei, addotti da quel vincolo di analogia che vedemmo pili sopra (1).
L'infero Nume rapitore è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su
la vasta moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non
gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per preda; ripiomba nel bujo: e
i cavalli del suo cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo
cocchio è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco, siede
Persèfone, regina fra i trapassati com'egli re; com'egli veneranda e
truce fra le xDallide larve. — Dal cielo le potenze luminose,
gl'Iddii supremi, partecipano alle scene del dramma : Zeus, giusto
in sue sentenze, x^adre di uomini e numi; Iride, messaggera di lui a
Demetra per placarne il dolore, se bene vano le riesca il viaggio;
Ermes, loquace ambasciatore ed accorto, che induce Ade a cedere la
recente conquista. — Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si
stringono attinenze come sogliono tra gli umani : Zeus, fecondatore dei
campi con la pioggia di cui è padre, appar fratello di Demetra :
Zeus, risplendente face della terra, è germano di Ade, come quegli
che da l'alto ajuta il suolo nella secreta germinazione del grano. Uniche
non po- tevano congiungersi in parentela, perché s'eli- devano
l'una con l'altra, Cora e Persèfone : la rapita di Aidoneo e la moglie
del He. E poiché il contrasto non si poteva dalla fantasia supe-
rare in altro modo, il quale non offendesse l'una delle Dee, le due
figure diverse si ridussero a differenti nomi dalla medesima persona
scam- bievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto il tono
austero della Regina, di cui tuttavia mitigava la maschera accigliata. La
creatura leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne delle due
onde fu composta, ma risultò armo- nica ed ebbe riso e vezzi su la terra
i)resso la Madre, rigidezza e austerità fra i morti i^resso il
marito. Il poeta adunque ricevette dalla tradizione una trama
di leggenda ben più ricca che la povera da noi ricostruita per Enna ;
i^ersonaggi più precisi e raccolti in gruppo organico. Vi apportò
in oltre la sua arte che addusse la saga a nuovo grado di progresso. La
vagheggia egli difatti non senza raccoglimento religioso né senza
coscienza, al meno complessiva, del suo significato riposto. Ma la vagheggia
sovra tutto quale una creazione bella dello sph'ito : come il suo
sguardo di greco avrebbe potuto carezzare il torso nudo di un efebo o le
ginocchia del vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui,
sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla sua origine; e le mani pajono
comporla e pla- smarla allora per la prima volta in un fervore
pacato di concezione e di espressione. Tutto si ordina secondo
un'architettura severa, dal re- spiro ampio e calmo. E il centro di quel
mondo di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei secoli
lontanissimi è, più che in ogni altro senso, in un tranquillo godimento.
Segno non piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'ef-
ficacia che all'arte compete qual balsamo delle belle creature
mitiche. Intercalato però nel mito è un lungo
racconto, diverso (1). Demetra, appreso da Elios il nome del
rapitore, in preda alla sua folle sofferenza giunge neir Attica ad Eleusi
e qui^d sosta sopra un sasso, " la pietra del pianto „,
assumendo l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le figlie del
Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono col chiederle e col darle notizie:
attratte anzi dalla simpatia che spira il sembiante venerando,
l'invitano nella casa della madre loro, Metanira, accennandole d'un bimbo
di recente nato cui ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia
la Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta al piccolo
Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vor- rebbe donare il sacro dono
dell'immortalità ; onde di notte lo pone, con certe sue arti ma-
giche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si accresce di vigore e
acquista la virtù sovrumana. Se non che Metanira, destatasi d'improvviso
e scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e distrugge
l'incantesimo. Demofonte non sarà libero di morte. Ma per compenso la
Madre delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini!
Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti del suo culto. A
spiegare, appimto, il culto che in Eleusi con specialissima pompa si
rendeva a Demetra è dunque indirizzata tutta questa ampia parte del
carme ; la quale cosi nell'insieme come nei particolari costituisce
dunque un complesso etiologico ben distinto dal complesso
mitologico. E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava quanto
a\Tebber potuto maturità di pensiero e (1) Yv. 91-304.
soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo rozzo e imperfetto del
mito ennense ; quel primo fa intrawedere la guisa per cui, nel seno
della vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno alla Dea
agreste innominata, la saga si sarebbe potuta complicare di personaggi e
di episodii, ri- vestendo un venerando colore di antichità sacra.
Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie deirinno attraggono la
nostra attenzione (1). All'uno e all'altre è sostrato un'idea
r)rincipale che importa porre in tutto il suo risalto. Questa: nel
momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli uomini conoscono già l'uso del
grano, come si semini e come cresca fra le zolle ; quel momento
anzi cagiona un temporaneo danno ai campi : che " molti nei campi in
vano trascinarono i bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco
orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini tutta quanta la schiatta
per fiera fame periva „ (2). E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona
alla Madre la figlia per " due terzi del volgente anno „
ritorna in terra la gloria del biondo cibo. Il soggiorno di Demetra in
Eleusi è contempo- raneo al danno, e la sua conseguenza si riduce
intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma, appare qui a bastanza
conservato il contenuto originario del mito naturalistico: se difatti
De- metra è la biada il cui chicco scompar sotterra per germinare e
risorgere culmo, è giusto che le biade esistano prima del ratto
sotterraneo, scompaiano poi, riappajano col ritorno della rapita. E la sentenza
di Zeus giova a rendere periodico, ma senza dolore, questo
alternarsi agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di uma- nità siasi
trasfuso nel racconto a velarne il si- gnificato primitivo, questo
permase non corrotto; si che la leggenda dell'Inno merita il nome
di prisca. E noi la diremo protoattica, in confronto
con un'altra meno antica (del V secolo) che, per essere del pari
eleusinia, può dirsi neoattica. Questa seconda concepisce il mondo ignaro
di messe prima che si compisse il ratto, esperto solo di poi : di
maniera che la violenza di Ade è causa, oltre che de' Misteri e del
giudizio di Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la semi- nagione
e l'aratura. E l'apprendono a opera di Trittolemo : nome che ricorre già
nell'Inno qual di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una con
altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura per contro che appare adesso
la prima volta, e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria pla-
stica pittorica, col carattere di adolescente gio- vinezza e con
l'officio di maestro nella fatica no- vissima e preziosa. Semi ed aratro
definiscono il pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la
triade recente spezza lo schema anteriore rico- stituendone un altro. Nel
quale, dunque, non si oblitera tutto il senso naturalistico del mito,
ma acquista un valore riflesso : perché il rapimento di Cora
diviene, meglio che la trasfigurazione umana della sorte graminacea,
l'inizio storico, cronologicamente e geograficamente inteso, del
grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto non sostituisce
soltanto con importanza maggiore Trittolemo al Demofonte deirinno per la
magia del fuoco ; bensi sopprime anche la ven- detta di Demetra, che in
verità non avrebbe più modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira,
genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a quella condizione di misera
vita, ch'è acconcia a uomini privi della vera e primissima fonte di
agio. Accetta permase questa leggenda. Nel suo largo
diffondersi subì, è vero, non pochimuta- menti, né tutti soltanto di
particolari; giacché, dovunque a Demetra e Cora fosse culto,
divenne costume lecito alterare la saga per adattarla alle esigenze
e ai vanti locali. Ma sul xjullulare di coteste piccole invenzioni essa
si ergeva con l'alto suo fusto, destinata a varcare i confini di un
Comune per attingere gli estremi del mondo colto. Unica può starle a
paro, per intima vì- goria di concepimento, e per potenza
espansiva, la favola composta nell'ambito di quel moto filosofico e
religioso onde il pensiero greco, e specie nell'Attica, fu travagliato al
tempo dei Pisistratidi, moto che conosciamo col termine di "
Orficismo „. Serbandosi solo le due Dee e Trittolemo, nuova veste di nomi
e nuovo in- treccio di casi assunse il mito di Cora fra gli Orfici
; ma non tutti i suoi particolari ci impor- tano qui : quelli soltanto
che furono poi efficaci sul vetusto nucleo leggendario dei Siculi in
Enna. Però che tutt'e tre, la proto e neoattica e l'orfica,
s'incontrassero queste versioni greche con la siciliana, tenace per
antichità, infantile per incompiutezza. E dall'incontro scaturiva un
lungo moto di storia. in. Il mito
siracusano. I Siculi, che si erano ritirati su i monti del-
l'interno perché incapaci di resistere ai predoni dell'Oriente venuti a
loro traverso i mari, e che in Enna avevan con più insistenza fissato il
lor mito agreste, lasciarono nello scorcio dell'^TH se- colo le
coste dell'isola popolarsi di Greci, sonare dei nuovi linguaggi e
dell'armi nnove, ornarsi di sedi le quali si trasformavano via via,
dive- nendo sempre più salde più ampie più belle, in città ricche.
E gli EUeni in quel secolo e nel VII e nel VI seguenti, trovando sgombro
per sé il terreno, o sgombro facendolo con distruggere e sottoporre
gl'indigeni, s'insediarono nella teri'a siciliana con tutto agio, fino a
giungere in breve a fiore civile intellettuale e artistico grandis-
simo in paragone di quelli, e a distendere sn tutte le portuose spiagge
dell' isola un incan- cellabile smalto greco (1). Dèi miti templi
ceri- monie della loro mentalità religiosa si radicano ivi senza
resistenza, e, nel trapiantamento fuor dalla patria, pajon rinascere con
rinnovellata vigoria e bellezza. Certo la lor somma di progresso
spirituale e Ampio racconto su la colonizzazione greca dell'Oc-
cidente, in HoLM Storia della Sicilia (trad. ital.) voi. I (Torino 1896)
lib. Il; Freeman History of Sicihj voi. I (Oxford 1891); Pais Storia
della Sicilia e Magna Grecia voi. I (Torino 1894). di culto civico,
accopj)iandosi con la congenita irrequieta genialità e l'inconculcabile
aspira- zione ad accrescere il possesso, doveva spingerli presto a
violare i segreti delle regioni più in- terne e a portarvi il soffio
della propria opera contro le resistenze dei Siculi, non restii ad
evol- versi si a sottomettersi. E forse, traverso anche i commerci
di scambio, a Enna ebbero a per- venire folate di vento greco fin dal
secolo VI. Eorse (1). Ma quante e quali nessuno direbbe ; perclié
non la minima traccia n' è rimasta ; né fino ad ora gli scavi
archeologici e' illuminano alcun poco. La palese influenza
dei Grreci su Enna co- mincia nel V secolo e per opera di
Sii^acusa. Dopo che Gelone ebbe, con il sussidio del suo alleato
Terone tiranno di Agrigento, sconfìtti ad Imera circa il 480 a. C. gli
eserciti cartaginesi di Amilcare, Enna entrò nella sfera siracusana
e ne fu assorbita. Qual resistenza politica op- ponesse non importa qui
sapere. Senza dubbio oppose una resistenza riguardo al suo culto e
al suo mito, che non poterono venir eliminati, ma rispettati dovettero
essere. La risultante di queste due forze (la siracusana che assorbiva
e la ennense che non cedeva) fu una leggenda, la quale
impropriamente si direbbe contaminata, perché è più tosto un compromesso
di politica religiosa, una formula felice per conciliare le pretese
o, se piace, i diritti dei due centri diversi. In Siracusa Grelone fu un
institutore e un pro- pagatore zelante del culto delle greche iddie
Demetra e Cora (-Persefone). Di queste il culto aveva, — come fu visto
poc' anzi, — a base il mito del rapimento. E a quel modo che nel- r
Inno a Demetra la favola naturalistica , non spoglia della sua prisca
indeterminatezza, vien ad arte connessa con un preciso e
determinato centro religioso, Eleusi; cosi un' analoga ten- denza
doveva indurre i Siracusani, per mezzo dei loro sacerdoti e poeti (questi
gli artefici delle saghe), a sostituire i nomi dei lor proprii
luoglii alle indeterminate frasi del racconto mitico e a applicare
quest'ultimo non senza artifìcio su le cerimonie sacre vigenti nella loro
città. Era un moto religioso, tanto spontaneo e consueto fra Greci,
quanto egoisticamente esclusivo, per la preferenza che cosi ciascun paese
si attribuisce di fronte a un certo nume. Di qui nascono di- fatti
sovente contese tra regioni ; in particolare se vi partecipa, com'è per
le dee agresti, il vanto della maggior fecondità d'un suolo a
paragone d'un altro. Né pare che Siracusa derogasse alla generale
tendenza: però che ci sia rimasto in- dizio, se bene esiguo, d' una sua
leggenda la quale vi s'informa per l'appunto. ^q\V Epitafìo di
Bione (1) ch'è del sec. I a. C. non che in altri testi il ratto di Cora è
localizzato su l'Etna ; onde Ade sarebbe molto dicevolmente
scaturito, come da una delle bocche dell'Erebo e del sot- terraneo
fuoco. Che se accanto a questo parti- ci) V. 133.
A. Ferrabino, Kalypao. colare si pone Taltro, secondo
cui il Dio infer- nale si apre la via del ritorno presso lo stagno
di Ciane (1); si ottengono i due estremi punti topografici di una saga
che adatta il vecchio mito greco agl'interessi di Siracusa: perché
Ciane è una palude nelle vicinanze della città ; e sulla zona
dell'Etna l'influenza politica e militare dei Siracusani si è sempre
estesa o nel fatto o nel- l'intenzioni. Ma come tale tentativo mitico
pret- tamente libero da Enna dimostra qual fosse l'impulso
originario del culto instituito da Ge- lone ; cosi la penombra in cui
permane e la ca- ducità che lo contraddistingue provano quanto
diffìcile fosse serbar nella leggenda di Demetra l'indipendenza contro i
diritti di prima occu- pante che competevano alla fiaba dei Siculi.
La quale s'imponeva difatti tanto più quanto maggiormente s' era,
traverso gli anni molti, radicata nelle coscienze degl'indigeni
rifugiati su i monti, e quanto era più stretta, nel nucleo
essenziale per lo meno, la sua simiglianza con il mito ellenico. Il
ratto, sul lago di Pergo po- tevasi rivestir di fogge e definire con
nomi greci ; non asportare dal lago : ove del resto la feracità del
luogo e la credenza, anche greca, che dai laghi o da vicine grotte
sorgessero so- vente i numi sotterranei, ne difendevan la vita.
E difatti il ratto rimase. I Siracusani die- dero alla divinità
delle biade il nome di De- metra; ne chiamaron la figlia col duplice
ter- mine di Cora-Persef one ; il rapitore con quello V. sotto pag.
131. di Ade o Aidoneo. Colorirono i loro artisti tutto l'episodio
con quei pennelli che gli Elleni ben sapevano, e con quei particolari che
eran dive- nuti fissi e tradizionali. Ma sottostettero ai di- ritti
di precedenza. Nel resto si valsero del campo libero : la palude
siracusana di Ciane fu l'aper- tura per il ritorno, dopo che Ade sul
cocchio vi aveva da Enna trascinata Cora-Persefone. A Siracusa,
sembra, si poneva pure 1' " anagoge „ di Cora dall' Èrebo alla terra
su bianchi ca- valli. E noi non sappiamo molto di più; ma è facile
che altri particolari della leggenda si connettessero al culto ai suoi
riti ed ai sacer- doti. Suggello poi di questo compromesso reli-
gioso tra Enna e Siracusa è l' elaborazione ca- ratteristica d'un motivo
orfico attinente al ratto di Cora. Questa avrebbe avuto compagne
du- rante la raccolta dei fiori (1' " antologia „), oltre le
Oceanine, anche Artemide ed Atena, le dee vergini. Ora Artemide
grandemente importava nel culto siracusano ; Atena in quello di
Imera, città a Siracusa amica durante le guerre del V secolo specie
contro Atene. Per ciò in uno dei suoi rami la leggenda, la quale ancor
qui si vede costretta a riconoscere che a Demetra doveva esser
spettata la signoria di Enna, at- tribuisce al meno quella di Imera ad
Atena, di Siracusa ad Artemide ; introducendo pertanto questi due
luoghi per obliqua via a lato di Enna e, quel che importava, al medesimo
livello. Conchiuso in tal modo il compromesso tra l'esigenze
dell'antichissima saga ennense e le pretese della pili recentemente
sopraggiunta saga sira- cusana, i due centri dovettero trovarsi concordi nell'adattare
a sé la figura e gli uffici di Trit- tolemo. Non poteva esservi dubbio. A
Enna Cora è rapita mentre coglie fiori mirabili per vaghezza e
profumo ; presso Ciane Cora scende sotterra e in Siracusa risale alla
luce; Demetra e la figlia prediligono l'isola e dal suo ombelico la
proteggono; Atena ed Artemide, compagne alla violata, signoreggiano due
città siciliane ; il suolo è opulento di biade come non altrove :
certo dunque che in Sicilia, non altrove, cadde il primo seme, e il primo
culmo spuntò da zolla sicana. Ma la leggenda neoattica, prevalente,
diceva l'attico Trittolemo beneficato primo del grano. Bisognava dunque,
da che respinger Trit- tolemo non era dicevole, adattarlo in
Sii^acusa ed Enna. E l'adattamento avvenne non senza garbo (1). Si
concedette che un eleusinio, Tritto- lemo, avesse avuto il favore di
Demetra e co- municato alle terre il dono preziosissimo; si con-
cedette che ciò accadesse in occasione del ratto di Cora ; e fu lasciato
cosi senza ritocco tutto il racconto. Ma, — gli si premise, — già
dianzi, avanti il ratto e avanti Trittolemo, la Sicilia produceva
grano, prediletta alle due Dee per la sua fertilità e scelta a loro
dimora. Quindi, — si conchiuse, — Trittolemo fu primo rispetto agli
altri popoli; secondo dopo i Siciliani. Una separazione dunque della
Sicilia dal restante paese, onde il ratto divenne il momento pro-
pizio per diffondere al mondo il privilegio si- culo. Che era non poco
orgoglio. Dopo ciò esistevano in Sicilia oramai tutti senz'eccezione
gli elementi per un ben contesto tessuto leggendario che un poeta potesse
far suo tema : i luoghi pittoreschi fra Enna e Sira- cusa offrivano
dicevole sfondo, il racconto mi- tico aveva i suoi punti topografici
fìssi e armo- nicamente collegati ; il culto preparava salda e e
vasta base per un'accorta serie di invenzioni etiologiche ; gli stessi
orgogli delle singole città s'eran tradotti in accrescimenti della
favola, la stessa gara con Eleusi le aveva tribuito qualche particolare
non privo di attraenza. Né manca- rono forse i cantori che la materia non
inde- gnamente lusingasse. E pure a noi non rimane se non il testo,
povero non chiaro e senza vi- goria espressiva, di Diodoro che attinge a
Timeo. Perché tutto vivace si senta il contrasto fra la
potenzialità artistica del mito e la mancata espressione di esso, eh' è a
un tempo mancata intuizione, piace qui tradurre dalla Biblioteca
istorica (1), lasciando il racconto nel suo disor- dinato
svolgimento. I Sicelioti che abitano l' isola appresero dai
loro progenitori la fama, tramandatasi traverso il tempo nelle
generazioni, ch'essa fosse sacra a Demetra e Cora; ... e che le predette
Dee in questa isola primamente ap- parvero ; e che questa per prima
produsse il fi-utto del grano a cagione della feracità del suolo... (2).
A riprova (1) Cfr. Geffcken Timaios' Geographie des Westens
in Phi lologische Untersuchungen , XIII (1892) pag. 103 sgg.
(2) DioDORo V 2, 3. 4 passim. adducono il ratto
di Cora che avvenne in quest'isola e che mostra chiarissimamente come in
questa le Dee soggiornassero e di questa sovra tutto si
compiacessero. Favoleggiano poi che il ratto di Cora accadde
ne' prati intorno ad Enna. Questo luogo è vicino alla città, per
viole insigne e altri fiori d'ogni genere, e degno di vedersi. A causa
del profumo di quei fiori si narra che i cani avvezzi a cacciare perdon
le tracce ottun- dendosi loro la naturai virtù. È il prato predetto
piano e d'ogni parte ben irriguo; ai lati però scosceso e rotto
tutt'intorno da burroni. Sembra giacere nel mezzo dell'isola : per che è
detto anche da alcuni l'om- belico della Sicilia. Ha vicino boschi e,
intorno a questi, paludi, e un grande speco con apertura sot- terranea
rivolta a settentrione; dal quale favoleggiano che balzasse col cocchio
Plutone a rapire Cora. Le viole e gli altri fiori colà odoranti rimangon
fioriti mi- racolosamente per l'intero anno e rendono lo spetta-
colo pittoresco e gradito. Favoleggiano ancora che insieme con Cora
cre- scessero Atena e Artemide, tutt'e tre vergini, e che insieme
raccogliessero fioH e preparassero in comune il peplo al padre Zeus. Per
l'intimità e la conversa- zione reciproca si compiacquero specialmente di
que- st'isola; e ciascuna si ebbe un territorio : Atena dalle parti
di Imera..., cosi che gli indigeni consacrarono a lei la città e il
territorio chiamato fino ad oggi Atenèo : Artemide ebbe in Siracusa dagli
Iddii l'isola che per lei è da oracoli e uomini chiamata Ortigia: e,
pa- rimenti alle due predette dee, anche Cora ottenne i prati
intorno a Enna. Favoleggiano poi che Plutone, compiuto il ratto, recò
Cora sul cocchio presso Sira- cusa ; e che, spalancata la terra,
scomparve con la rapita nell'Ade ; e che ivi fece sgorgare la fonte detta
Ciane. Dopo il ratto di Cora favoleggiano che Demetra, non potendo
ritrovare la figlia, accese fiaccole nei crateri dell'Etna, si recò in
molte parti della terra abitata e beneficò, donando il frutto del grano,
gli uo- mini i quali meglio l'accolsero. Più benignamente aven-
dola accolta gli Ateniesi, a essi primi dopo i Sicelioti donò il frutto
del grano ; pel che questo popolo più d'ogni altro onora la dea con
splendidi sacrifìzii e coi misteri eleusinii... (1). Il mito
siracusano è qui per intero : ogni linea ne viene accennata; pietra a
pietra, chi nùmeri, l'edifìcio esiste. Né mancano (che noi trala-
sciammo per brevità) cenni etiologici alle feste sacre. Fece difetto il genio
architettonico: e il difetto si tradisce ogni volta che Diodoro ri-
pete, — ed è spesso, — quel suo " favoleggiano „. Altri; non egli:
eh' è estraneo a quel che rac- conta. Modello insigne, questo, del come
possano mascelle di erudito maciullare e rugumare il fiore della
saga. Il mito contaminato. Il mito siracusano di Demetra e Cora,
imper- niato in Enna e Ciane, e nato dal compromesso dei due centri
religiosi, venne accolto nell'am- biente poetico di Alessandria. E fu
questo l'i- DioDOBo V 3-4:, 4 con qualche omissione. nizio
d'una sua vita nuova. In Alessandria (1) di fatti, oltre alla forma
siracusana della favola, erano affluite, ed affluivano, la primitiva
forma dell' Inno omerico, insieme con la variante di Trittolemo
inventor dell'aratro : cosi che quella diveniva la fucina ove cotesti
elementi, parte simili, parte dissimili, mossi da origini diverse,
avevan da commettersi l'un l'altro e penetrarsi. E non pur cotesti
elementi precipui ; bensì anche alcuni altri secondarii, che per varie
ragioni fos- sero riusciti a trascendere i limiti della medio-
crità espressiva e della ristrettezza geografica, per intrudersi nella
letteratura tradizionale. La mitopeja orfica in ispecie aveva trovato
acco- glienza favorevole nel colto ambiente alessan- drino ; e a
canto d'essa fiorivano ivi le differenti e notevoli saghe metamorfiche,
che presso i più antichi non erano se non una forma, fra l'altre,
dell'intuizione naturalistica, e che il gusto po- steriore,
compiacendosene, moltiplicò artefece. La storia per tanto del mito siculo
fuor di Sicilia è la storia della sua seconda immersione nel flusso
del pensiero e dell'arte greca; è la storia del successivo accogliersi
intorno ad esso di giunte e di innovazioni via via più complesse.
Si sono smarrite per noi parecchie fra l'opere dell'arte letteraria
in cui cotesto processo ci sa- rebbe stato trasparente: dei maggiori
alessan- drini medesimi. Sola di quelle ci è rimasta traccia Sul
culto di Demetra e Cora in Alessandria cfr., p. es., Scolio a Callimaco
Inni VI (Schneider I 133). e tal volta quasi copia in autori romani.
Con questo valore, ci appare un ampio tratto del quinto delle
Metamorfosi ovidiane (1), in cui appunto si rivela la contaminazione fra
diverse correnti leggendarie. Vige l'indirizzo siracusano, —
senza dubbio. Anzi vi si manifesta con talun nuovo partico- lare ;
cosi il poeta sembra seguire più tosto una tradizione tutt'affatto
sicula, che abbandonarsi a una variazion fantastica, quando nel luogo
di Ecate fa dare a Demetra, durante la ricerca affannosa e dolorante di
Cora, il primo indizio del ratto dalla fonte Ciane ; e in luogo di
Elios introduce la ninfa del siracusano lago di Are- tusa,
nell'isola di Ortigia fra mezzo i due Porti. Se non che questi elementi
siciliani, che al pari di Enna pajono saldati con il concetto
duplice di una Sicilia esperta del grano prima del ratto e di una
umanità esperta sol dopo (si ricordi Timeo), qui invece sono trasfusi in
uno schema diverso. Quando Proserpina è rapita, la terra, se non
tutta per buona parte, già ha avuto il dono del seme ; e Cerere del suo
dolore si vendica col privare gli uomini di aratri di bovi di spighe
: dunque, come nel mito protoattico. Ma, come nel neoattico,
Trittolemo, dopo il verdetto di Giove, sparge per segno di pace la
semenza. E i due miti si conciliano nel pensiero che uguale bi-
sogno del nuovo dono ha cosi la zolla mai colta come quella di cui per la
vendetta divina fu pretermessa la coltura. In tale contaminazione
(1) Vv. 341-661. Cfr. § IV. dei due miti protoattico e
neoattico la saga si- ciliana s'inquadra umiliandosi un poco, col
porre la propria terra fra più altre, prima nel godere le biade,
i)oi nel riaverle. Resta il vanto di fer- tilità singolare e di fedeltà a
Demetra. D'altra parte il poeta asseconda, cosi per l'at-
titudine sua mentale come per la natura del suo tema, con particolar
compiacenza l'impulso letterario delle metamorfosi. Sembra persino
che ogni vicenda del mito in tanto gì' importi in quanto si risolve
in uno di cotesti travestimenti di forme. Ciane, ad esempio, che solo
perché palude era sembrata luogo dicevole alla scom- parsa di Ade
come un lago alla comparsa, offre spunto a una d'esse, quale ninfa
tramutata in acqua. E anche. L'episodio di Cora-Persefone che gusta
la melagrana è sfruttato per immet- tervi un Ascalafo ; il quale scorge
la Dea nel- l'atto, ne riferisce ed è converso in gufo. Sovra tutto
però, l'efficacia della tradizione letteraria si risente in Ovidio per il
tentativo di analisi psicologica nei personaggi: in Cora special-
mente, per cui egli giunge sino a finezze troppo cerebrali per esser
vere, sino a farla piangere, non che per il ratto, j)er lo smarrimento
dei fiori raccolti. Anzi, passionale diventa tutto l' antefatto del
mito : il ratto è voluto , non da un decreto di Zeus, bensì da Afrodite
cui è sdegno che tante dee si sottraggano al suo po- tere e che
libero ne resti il medesimo Ade (la- tinamente Dite). Amore sostituisce
cosi, quando psicologico diviene il racconto, un particolare che,
allor che esso era naturalistico, valeva con tutt' altra importanza: la
fecondante pioggia. Tuttavia lo spunto viene, non senza garbo, in-
serito sullo sfondo siciliano della fiaba : Afrodite difatti è l'Ericina,
che i Siculi facevan oggetto di culto singolare. Cosi perché pili appaja
la giustizia di Griove e ne risalti la umanità del mito, l'anno è
pel doppio soggiorno di Proser- pina con la madre e col marito diviso a
mezzo non più per terzi. Simile attenzione psicologica governa i
discorsi di Aretusa a Demetra, di De- metra a Giove, materiati di
accortezza feminea e l'uno e l'altro. Al qual carattere corrisponde
poi lo studio dei gesti in ciascuna figura, per toccare di quelli che a
ciascun momento del- l'animo competono, là dove tecniche
mitologiche più elementari non cercano se non il consueto e
costante attributo del Nume : cosi che Aretusa, e basti per tutti l'
esempio solo, ritrae prima di parlare i capelli roridi via dalla fronte
sino alle orecchie per lasciar nudi la bocca e il viso. Siam lontani dal
cristallizzato epiteto omerico che s'addice alla Dea; il gesto si
con- viene alla donna. Siamo allo stremo dell' alle- goria agreste.
E su la soglia dell'umanità. Non lungi a le mura di Enna son le profonde
aeque d'un lago: Pergo, di nome. Più numerosi non spande canti di cigno
Caìstro su l'onde scorrenti. L'acque corona una selva, d'ogni lato le
cinge ; con le sue fronde è di schermo alla vampa solare. Frescura, i
rami; purpurei fiori dà l'umida terra. Primavera è perjDetua.
Mentre nel bosco Proserpina gioca ed or viole or (1)
Vv. 885 sgg. Edizione H. Magnus (Berlino 1914). gigli candidi coglie,
mentre con fanciullesca cura seno e canestri empie e nella raccolta
studia superar le com- pagne — ad un punto è veduta amata rapita da
Dite. Tanto fu pronto amore! Atterrita la Diva con mesta voce madre e
compagne chiamava; la madre più spesso ; e poi che lacerata dal sommo
s'era la veste, da r allentata tunica caddero i fiori raccolti. Ed
ecco anche questa sventura, cosi fur ingenui gli anni pue- rili, il
virgineo dolore commosse. Il rapitor regge il cocchio, e ciascuno
chiamando per nome esorta i ca- valli: scuote su colli e criniere le
redini tinte di fer- ruggine persa (1). È nel mezzo fra Ciane
ed Aretusa un golfo d'an- gusti bracci raccolto e chiuso. Quivi fu già —
e dal suo nome lo stagno ha nome — tra le siciliane ninfe
notissima, Ciane. Ella fino a sommo il ventre sorse tra mezzo il gorgo, e
riconobbe la Dea. " Non più lungi andrete ! „ esclamò " non
puoi di Cerere essere il ge- nero contra sua voglia: chiederla non
rapirla dovevi. Che se m'è lecito alle grandi le piccole cose
accostare, me pure Anàpi amava; ma pregata sposa mi addusse non,
come questa, atterrita „. Disse, e con aperte le braccia si oppose. Non
più non più l'ira il Saturnio frenava: i cavalli terribile esortando, nel
fondo del gorgo il vibrato scettro regale con forte braccio affondò :
la terra percossa una via pel Tàrtaro aperse ed i preci- piti carri
nel mezzo della voragine accolse. Ma Ciane, la rapita Dea piangendo ed i
violati diritti della sua fonte, tacita soffri ferita inconsolabile e si
consunse tutta di pianto. Neil' acque di cui grande nume già era,
or s'estenuava: molli le membra, flettevansi (1) Omessi i
vv. 405-8. l'ossa, la rigidezza perdevano l'unghie ; le
tenerissime parti da prima si sciolser fra tutte, le cerulee
chiome, le dita le gambe ed i piedi, che di delicate membra in acque
gelide il trapasso è breve: gli omeri poi e le terga ed i fianchi
vanescendo ed il petto in tenui si dissolvono rivi: nelle tramutate vene
alla fine al vivo sangue la linfa subentra, e nulla rimane che
prender si possa (1). Per quali terre la Dea, e per quali acque
errasse, lungo indugio sarebbe narrare. A lei che cercava venne
meno la ten'a. Ritornò in Sicilia ; e mentre ogni dove indaga vagando , a
Ciane viene. Tutto le avrebbe narrato, se non fosse mutata; ma lei che
voleva, non ajutavan la bocca e la lingua, né con altro poteva
parlare. Ma segni palesi ella diede e indizio alla madre: di Persefone il
cinto, in quel luogo per caso caduto nel gurgite sacro, a fiore
dell'acqua mostrava. Come lo riconobbe, quasi il ratto appena allora
apprendesse, i disadorni capelli si lacerava la Dea ed una e più
volte il petto con le sue mani percosse. Dove la figlia si sia
ancora non sa ; ma le terre biasima tutte ed ingrate le chiama né degne
del dono di biade: Trinacria su tutte, dove le tracce del danno aveva
trovate. Ed ecco colà di sua mano spez- zava gli aratri che fendono duri
le glebe, ed a pari morte nell'ira mandava e i coloni ed i bovi
aratori, ed ai campi di sperdere il lor aflSdato tesoro ordinò, ed
i semi corruppe. La molto nota nel mondo fertilità del paese è fiaccata:
senza far césto muojon le biade, ed ora le vizia l'eccesso di sole ed ora
di piogge l'ec- Omessi i w. 438-461: errore di Cerere; metamor- fosi
di Ascalabo. cesso, le stelle ed i vènti fan danno, gli sparsi semi
ingordi nccelli colgono, triboli e loglio fan guerra a le piante del
grano e non estirpabil gramigna. Il capo allora da l'elèe onde
solleva Alfèjade e dalla fronte le roride chiome a l'orecchie ritrae.
Dice: " tu della vergine cercata nel mondo, o tu genitrice di
biade, cessa da tue immense fatiche e da la vio- lenta ira contro la
teiTa a te fida. Non ha colpa la terra ; la rapina tollerò contro sua
voglia. Né per la pati'ia sup- plico : ospite son qui venuta. Pisa è mia
patria, l'Elide diede i nataK. Sicania abito straniera, ma d'ogni
suolo pili grata m'è questa terra. Ai-etusa, questi ora ho per
penati, questa per sede : e tu clementissima la salva ! Perché mi sia
mossa per tanto spazio, e per tanto grande mare all'Ortigia mi rechi,
tempo verrà ch'io ti dica, op- portuno, quando alleviato TatìPanno e
migliore il tuo volto sarà. A me un sotterraneo varco offre il cam-
mino e, traverso profonde caverne scendendo, qui il capo sollevo e a le
stelle di nuovo mi avvezzo. Or mentre là sotto nel gurgite Stigio scorreva,
là sotto dai nostri occhi veduta la tua Proserpina fu. Triste ella per
vero, né per anco tranquilla nel volto; — ma Regina, ma nell'oscuro
mondo Signora, ma dell'inferno tiranno Sposa potente „. La
madre udendo le voci stupisce ed impietra, ed attonita a lungo rimane.
Appena dal grave dolore la grave demenza è rimossa, a l'aure superne col
cocchio ella ascende. Ivi tenebrosa il volto, scarmigliata i ca-
pelli, d'odio riarsa, stié innanzi a Giove. " Per il mio (dice)
supplice a te venni o Giove e per il tuo sangue ! se nessuno gode favore
la madre, la figlia il padre com- muova; né meno cara — preghiamo — ti
sia perché da nostro parto nata. La figlia che a lungo cercai ecco
rinvenni: — se rinvenire tu chiami il perder più cex-to, se
rinvenire tu chiami il saper dove sia. Rapita, sop- porto : pur ch'egK la
renda : che d'un marito predone degna non è la tua figlia..., se anche
mia figlia non è ,. E Giove obiettava : " Pegno comune e gravame a
me con te è la figlia. Ma, se i veri nomi alle cose noi vogliam
dare, non è questa un'offesa : è amore ! Né ci sarà quel genero a
vergogna, sol che tu voglia o Dea. Se pur altri pregi non sieno , qua!
pregio è fra- tello dirsi di Giove ! Né mancano gli altri ; né fuor
che per sorte mi cede. Ma se tanto di separarli hai desiderio, ritomi
Proserpina al cielo, fermo il patto restando che con la bocca là giù cibo
alcuno non abbia toccato: che delle Parche tal fu la legge „.
Avea detto. Ma Cerere è ferma di ricondur la figlia. Non cosi
vogliono i fati ; la vergine aveva rotto il di- giuno e, ingenua errando
per gli adorni giardini, dal ricurvo albero dispiccato un pomo fenicio e
fuor da la gialla corteccia sette chicchi fra i denti premuti (1).
Ma, tra il fratello e la mesta sorella, imparziale, il volgente
anno per mezzo Giove divide. Ora la Dea, di due regni nume comune,
altrettanti mesi è con la madre, altrettanti è con lo sposo. D'animo si
muta ella e di volto ; e la fronte che dianzi poteva allo stesso
Dite mesta parere, lieta fronte diviene: simile a Sole che da gravide nubi
coperto era già e da le vinte nubi riappare (2). A coppia i
serpenti la fertile Dea al cocchio ag- gioga, e costringe coi freni le
bocche, e nel mezzo per l'aria fra il cielo e la terra coire e conduce il
lieve (1) Omessi i vv. 538-563: metamorfosi di Ascalafo
e delle Sirene. (2j Omessi i vv. 572-641 : metamorfosi di
Aretusa. SUO carro nella città Tritonide, a Trittolemo : e parte
dei semi donati comandava di sparger sul suolo mai colto, parte sul suolo
dopo assai tempo rilavorato. Contaminato ma diversamente, ci appare
il racconto appresso Ovidio medesimo, nei Fasti libro quarto (1).
Occasione gli è offerta dai ro- mani Ludi Cereri. E alle cerimonie
rituali tien difatti rocchio alquanto il poeta (o il suo mo-
dello). La mente che ricorda il racconto delle Meta- morfosi,
pur riconoscendo nel principio del nuovo carme (2), con la mano del
medesimo poeta, il I)aesaggio siculo del ratto, nota tuttavia un
ri- tegno, quasi una schiva attenzione per evitar d'insistervi
troppo. In Enna le Dee sono invi- tate da Aretusa; non quella è la lor
sede: né nella palude Ciane si sprofonda Dite, o al meno non è
detto. Il mito sorto dal compromesso ta- cito fra Enna e Siracusa è senza
dubbio noto ; ma non usurpa da signore lo schema greco più antico:
vi s'insinua. E quando la ricerca affan- nosa della Madre comincia
(" dai tuoi campi, o Enna „), Ciane l'Anapo Oela Ortigia
Mègara Imera Agrigento Tauromènio Camarina ed altri luoghi ancora e
i tre capi Peloro Pachino e Li- libeo, offrono bensì materia alla
fantasia del poeta non ignaro di geografìa siciliana, ma sono per
ciò a punto introdotti dal suo solo arbitrio nella leggenda, onde
costituiscono un elenco di (1) Vv. 393-620. Edizione H.
Peter* (Leipzig 1907). Confronta § IV. (2) Vv. 419-50. nomi
regionali, non già altr'e tanti addentellati mitici. C'è dunque una cauta
fedeltà al mito siracusano : speciosa fedeltà che è per risolversi
sùbito dopo in abbandono. Quel che oggi si chiama la Cereale
Eleusi, questo del vecchio Cèleo fu il campo. Egli in casa
porta le ghiande e le more spiccate agli spini e le risecche legna pel
focolare che l'arda. La figlia piccina riconduce due caprette dal monte
; e nella zana un tenero figlio giace malato. " Madre „ la
fanciulla dice — e commossa è la Diva pel nome di madre — " che fai
in solitarii luoghi senza com- pagnia ? „ . Si sofferma anche il vecchio,
quantunque il peso lo spinga, e la prega, ella vada sotto il come
che misero tetto della sua capanna. Si rifiuta. Assemprava una
vecchia e d'una mitra i capelli avea cinti. A quello, che insiste, tali
parole risponde : " Salvo tu stia ! e padre per sempre. A me fu
rapita la figlia. Oh la tua sorte di quanto è migliore che la mia sorte!.
Disse, e come di lacrima — che non piangon gli Dei — cadde sul
tepido seno una lucida goccia. Piangon, del pari teneri in cuore, la
fanciulla ed il vecchio ; e dopo, del giusto vecchio le parole son queste
: " Se a te, che la piangi rapita, sia salva la figlia, levati,
non disprezzare il tetto della misera casa „. Cui la Dea "
Conducimi „ dice " come mi potessi costringer, hai ben saputo ! „ .
E s'alza dal sasso ed al vecchio tien dietro. Alla compagna
la guida racconta, come sia il figlio malato e sonni non prenda ma vegli
pel male. Ella, pria di varcare la povera soglia, soporoso il papavero
coglie lene nella terra agreste. Mentre raccoglie, si narra che ne
gustasse con bocca obliosa, e involontaria rompesse A. Ferrabino,
Kalypso. 10 la lunga fame: — e perché della notte in principio
ella finiva i digiuni, gl'iniziati ritengon per tempo del cibo l'apparir
delle stelle. Come varcò la soglia, piena di pianto vede ogni
cosa : già speranza alcuna non v'era di salvezza pel bimbo. Salutata la
madre — Metanìra la madre si chiama — alla sua congiunger degnava la
bocca pue- rile. Fugge il pallore, sùbite forze vengon nel corpo:
tanto vigore viene da la celeste bocca. Tutta la casa è lieta : la madre
il padre — ciò sono — e la figlia : tutta la casa, quei tre. Pongon tosto
le mense, e cagli stemprati nel latte e pomi e nei favi suoi proprii
miele dorato. L'alma Cerere non mangia, ma a te, o bimbo, a bere
con tiepido latte dà i papaveri causa del sonno. Della notte
era il mezzo, era nel placido sonno silenzio ; ed ella nel grembo
Trittolemo prende, con la mano tre volte lo palpa, tre dice scongiuri : —
scon- giuri, che non ripete parola mortale. E nel focolare il corpo
del bimbo entro la calda cinigia nasconde, che l'ardore purghi l'umano
incarco. Si scuote dal sonno la madre a torto pietosa, ed insensata
esclama " che fai ? , e rapisce dal fuoco le membra. A lei la Dea :
" Per non esser scellerata tal fosti „ dice ; " vani i miei
doni divengon pel timore materno. Questi sarà bensì mor- tale; ma
primo e con aratro e con seme da le colti- vate terre coglierà premii
„. " Disse : uscendo d'una nube s'avvolse, su i serpenti
sali, e con l'alato cocchio Cerere riparte „ (1). Qui non è più il
racconto dell'Inno con il (1) Vv. 507-562. mito
protoattico ; non è né meno il racconto di Timeo con il mito siracusano :
però che a diffe- renza profonda dal primo la umanità è presen-
tata ignara di biade e cibata di ghiande prima del ratto; e a differenza
caratteristica dal se- condo la Sicilia non ha privilegio alcuno
rispetto all'altre terre. Qui dunque è il mito neoattico» di cui
dicemmo, che ha sostituito Trittolemo a Demofonte nella magia del fuoco,
e ha tra- mutato il semplice istitutore di un rituale sacro nel
giovinetto onde per favore della Dea un inestimabile benefizio si largiva
agli umani. Celeo e Metanira recano identici i loro nomi, ma
intorno ad essi il polito palazzo regale s'è tramutato in povera capanna:
sul desco stanno cagli; nei cuori è ingenua ignoranza. Cosi per-
tanto la versione siciliana, dianzi cautamente se- guita, è soppiantata,
senz'urti, da una seconda. Ma finisce apjjena questo brano, che un
terzo influsso si rivela. Come nell' Inno, informatori di Cerere su
la persona del rapitore sono due astri ; identico è il nome dell'uno, il
Sole (EHos) ; analogo l'officio dell'altro. Elice, che è però non
la Luna (Ecate), ma la stella dell'Orsa maggiore che mai non tramonta nel
mare, e per ciò tutto vede, di notte. D'altra parte, dopo il
colloquio fra Cerere e Griove, questi decide di dividere l'anno in
due parti perché Proserpina rimanga sei mesi col marito e sei con la
madre (1). Ora, Elice sostituisce Ecate perché preferita nella con-
sueta mitopoetica alessandrina; e l'anno diviso Vv. .575-614. pel
mezzo già ritrovammo nel gusto alessandrino delle Metamorfosi. E sotto la
medesima luce posson venire considerati anche l'idilliaca scena in
casa di Celeo, dal tono dolce dal colore de- licato dall'insieme grazioso
; e il quadro del flo- rilegio in Enna. L'arte però converte
la triplice mischianza in armonia. Onde la vicenda si snoda men
lenta che nelle Metamorfosi, s'indugia solo nel pasto- rale
abbandono di Eleusi, e diviene rapida nel termine ove più personaggi
agiscono e parlano con una stringata prontezza che culmina forse
nelle parole di Ermes " La rapita ruppe il di- giuno con tre di quei
grani che le melagrane ri- copron con molle corteccia „ (1). Le varie
correnti mitiche son fuse ed è scomparsa ogni traccia di mosaico
mitologico; una inspirazione centrale muove tutto il carme, lo ricollega
con qualche sparso accenno a questo o a quel particolare del culto,
su dal culto lo stacca elevandolo a ricordo solenne del benefìzio divino,
scaturito dal dolore d'una Madre e compiuto nella capanna d'un
misero. La gratitudine verso la Dea si traduce bensì in sacrifìzii suini
e in vestimenta candide, ma non è di origine religiosa, si più tosto
muove da una intima commozione umana, di simpatia per la sofferenza
eterna, per la semplicità pri- meva, per la faticosa Terra.
Nei Fasti quindi minor parte è fatta al mito siracusano; ma per
compenso è conseguito più alto pregio letterario che non nell'altro
carme (1) Vv. 606-7. ovidiano, ove il poeta con
l'innesto delle frequenti trasformazioni deforma la sua materia, or
ridu- cendola a magrezza or distraendola a rimoti oggetti.
Oltre che elementi siculi proto e neoattici, anche particolari
orfici compose insieme con abbondanza Claudiano nel poemetto che al
Ratto di Proserpina volle dedicare, senza per altro condurlo a
termine. Grli spunti siciliani sono i ben noti: Enna sede del rapimento,
Ciane op- pressa dal rapitore e tramutata in fonte (1), le fiaccole
notturne accese su l'Etna. Gli spunti protoattici dovevano esser copiosi
nella parte del poemetto che non fu scritta e trattava del
soggiorno della Madre in Eleusi, forse nella casa di Coleo e Metanira.
Gli spunti neoattici in fine si assommano nella figura di Trittolemo a
cui par probabile che venisse attribuito il dono delle biade (2).
Su questa trama vennero innestati parecchi motivi che si dovevano
all'orficismo. Leggevasi presso gli Orfici che Demetra aveva
affidato la propria figlia alle Ninfe ai Coribanti e ai Cm-eti e che in
loro custodia Cora trascor- reva il tempo intenta a tessere un tessuto
ove fossero affigurate le stelle del cielo. E ancora : che il ratto
accadde si per volontà del Fato {òaifiovog aiarj) sotto cui traspare il
favore di Zeus pluvio, ma con l' inganno delle sorelle
{pvvófiaifioì) : o sia Artemide ed Atena. Più tardi cotesta circostanza
fu alterata ; da chi, pare, non (1) III 246 sgg. (2) I 12
sgg., Ili 51.s'accorse o non volle accorgersi che il concorso delle due
Dee al ratto non era se non un asse- condar le leggi fatali e
irremovibili ; ma ritenne che più nobile officio loro, nel punto in cui
Cora, vergine com'esse erano vergini, soggiaceva a violenza, fosse
la lotta contro il fosco Aidoneo : nelVElena di Euripide difatti (1)
elleno gli ap- pajono ostili. Se non che scemato cosi al ratto il
favore di Atena e d'Artemide, a compenso vi fu introdotto quello, che
pareva più dicevole, d'Afrodite, nume propizio agli amori (2).
L'an- tico aneddoto orfico pertanto fu e rinnovato nel suo
contenuto e ampliato nelle sue linee : rimase tuttavia, e Claudiano ne
fece suo possesso. Molte altre fiabe erano nella poesia orfica attinenti
a Demetra e a Persef one ; ma poi che vertono su quella parte la
quale nel poemetto sul Ratto non è svolta sarà qui da tacerne. Oramai
difatti sono stati raccolti tutti i materiali che da tri- plice
fonte il poeta adunò per l'opera sua e che gli bastarono, con giunte e
innovazioni, a nar- rare del ratto e i precedenti e le primissime
conseguenze. Importa ora vedere come lo spirito del poeta investisse
quella sostanza leggendaria e la elaborasse esprimendo. Il
suo racconto si spezza spontaneamente in due parti: delle quali la prima
ha termine col ratto. Plutone nell'Ade è infelice perché privo di
moglie e ignaro delle dolcezze che la pater- nità concede. Tanto
l'assilla il suo veemente Vv. 1301 sgg. (2) V. Igino Fav. 146
e cfr. § IV. desiderio, ch'egli giunge a minacciare lo stesso Zeus
di sovvertirgli l'ordine dell'universo e li- berare i Titani incatenati,
ove non sia fatto pago. E Zeus, intimorito, cede e promette: solo è
in dubbio intorno alla scelta della sposa, già che nessuna
volentieri accetterebbe marito il tene- broso Re dei morti. Contemporanea
a cotesta scena però si svolge l'altra in cui Demetra, per
sottrarre l'unica sua figlia Cora allo stuolo degli insistenti proci fra
cui Apollo e Ares primeg- giano, la reca in Sicilia ove l'affida alle
cure della nutrice Elettra delle Ninfe e di Ciane (ri- tornano, —
come si vede, — sott' altra specie, le orfiche Ninfe e i Coribanti e i
Cureti) e la ritiene certa da ogni attentato sotto l'alta
protezione celeste del padre Zeus : onde si ritorna ella poi in
Frigia appresso Cibele. Si congiungono alla fine queste due linee
narrative da quando il Signore degli Dei decide di maritare Cora
ap- punto, profittando della lontananza materna, a Plutone, e
j)repara le nozze. Connivente Afro- dite, egli fa si che la vergine esca
con le com- pagne e Artemide ed Atena e la stessa dea del- l'amore
a raccoglier fiori su i prati smaglianti di Enna e che su quelli,
balzando improvviso dal suolo spalancato in voragine, la rapisca il
sotterraneo Nume. Grande scompiglio ne sorge. Fuggono le giovani amiche.
Atena e Artemide tentano opporsi con l'armi che sono lor proprie.
Ma Zeus da l'alto tuona il suo assentimento. E presto Cora, trascinata
dai cavalli dell'oltretomba, fa il suo solenne ingresso nelle sedi buje,
ove l'accolgono, con festa ch'è insueta colà, gl'iddii torvi e le
paurose iddie de' regni flegetontèi. La seconda parte possiede quell'unità
di strut- tura che manca a questa prima. Il centro natu- rale
dell'azione è offerto da Demetra; intorno a cui ogni altra luce si deve
comporre. La Madre non vive tranquilli i giorni presso i Frigi: un
presentimento vago ma assiduo la turba con sogni atri che mal si
dileguano nel risveglio. Alla fine, decide di abbandonar le terre di
Ci- bele e recarsi a visitar la figlia fra i Siciliani. Parte,
tutto temendo, nulla sperando. Da Imigi le appajono i luoghi ove
s'aspetta di trovar Cora ; ma ben presto scorge deserta e sconvolta
la casa. Entra, e vede incompiuta l'opera tessile della vergine, e
lacrimante in profondo dolore la nutrice Elettra. Chiede con voce ch'è
già di disperazione; e apprende il ratto. Lo schianto le è però
quasi sùbito superato dallo sdegno contro gli Dei tutti, e Zeus in
ispecie, che per- misero il delitto, lo lasciarono impune, non cu-
rando se per tal modo si sovvertissero leggi di giustizia e principii di
morale. Giura che non cesserà di percorrere, intenta alla ricerca,
l'uni- verso intero fin che non le sia ritrovata la figlia. E la
ricerca inizia senz'altro, dopo aver fatto a sé, per la notte, fiaccole
di due pini recisi presso il fiume Aci in bosco sacro a Zeus.
Il resto si desidera. Ne importa gran fatto, che poco più
apprenderemmo nel sèguito. Il poeta si era assunto ben grave soma, chi
guardi alla difficoltà insita in ogni forma leggendaria, ove sempre
la materia poetica è molta, ma sorda ad artefice che non sia di assai
fermo polso; e ove la stessa potenziale bellezza contribuisce a
rendere scabro l'officio dell'attuarla. Claudiano vi mancò: non esito a
dire che vi mancò per intiero (1). Noi lo giudichiamo qui a fronte
della sua saga, e possiamo farlo con pienezza di giu- dizio, che la
sua saga è la nostra: abbiam appreso a conoscerla da l'origine lungo la
vita complessa. Non c'illude quindi, — e sarebbe facile errore, —
quella, che prima colpisce, bellezza formale di particolari, eleganza di
scene, armonia di verso. Riconosciamo cotesti pregi ; ma come
perfezion delle parti in un tutto su cui si volge il nostro interesse e
l'esame più vero. Né la per- fezione stessa è anche da concedersi intera
: guasta per certa esuberanza, che assempra il vecchio pescatore
teocriteo dalle vene gonfie sul collo, spiace dopo le prove d'un'arte più
cauta se bene già troppo a sé indulgente. Ma in ogni modo, sopra le
singole pennellate riuscite e oltre le mancate, com'è composto il
grande affresco ? Claudiano avverti primi, e svolse gli
spunti psichici di cui tutto il racconto è pregno: non diversamente
operando, in ciò, da Ovidio. Le sue dee per tanto divennero donne;
uomini, i suoi numi. E suo grande compiacimento si fu narrare ora
il cordoglio della madre, ora lo spavento della figlia; qua i coniugali
rimpianti di Plu- tone, là le dolcezze filiali di Cora. Se non che
in Ovidio tal via era tenuta con due pregi: la accorta profondità
dell'investigazione intima; e, (1) Giudizio opposto tenne W.
Pater, nel suo garbato essay su Demeter and Persephone in " Greek
Studies , (London LA DEMETRA d'eNNA inoltre, una grazia di
tocco per cui, oltre la donna o l'uomo, figuravan sempre senza
stri- denza di contrasti la Dea e il Dio. Nel Ratto per contro cosi
quello come questo pregio man- cano del tutto. Nulla, che non sia vieto e
grosso- lano richiamo di motivi abusati, è infuso nel- l'ordito
passionale; le finezze di certi gesti, le sfumature di talune emozioni
gli sono ignote ; i suoi personaggi, non pur non condensano la loro
personalità per l'arte di lui, si scemano per la imperizia fin quel
vigore e scancellano quella determinatezza ch'era lor impressa dalla
tradi- zionale teologia. Una madre, una figlia, un ma- rito
recente, un giudice un po' pauroso e a bastanza ingiusto: ecco i
protagonisti: non im- portano nomi, non colori, non linee. Basta,
che per ciascun tipo sono applicati i luoghi comuni della
retorica. Che se poi ci s'avvicina alla scena, colpisce la
solennità jeratica dei paesaggi. Lungo periodo di versi circoscrive la
Sicilia con un senso di sacro rispetto. Enna, poco prima che le Dee
l'onorino di lor presenza, invoca da Zefiro splen- dor di fiori ; ed ha
nell'atto una compostezza e un contenuto orgoglio matronali. La
Frigia lontana riceve da Cibele, quasi un recondito balsamo
religioso. Persino il bosco onde Demetra svelle i due pini a illuminare
la notte è un lucus Jovis. Lo sfondo, pertanto, delle scene, se pur
varia, è tuttavia sempre ampio alto e severo : non è in proporzione con
la statura degli attori ; o meglio, non con la loro statura d'uomini,
si con un'altra, fittizia, di Dei. Onde si a\^erte il primo
contrasto, che par creato a posta dal poeta, IL MITO
CONTAMINATO fra la diminuita materia divina della fiaba e l'accresciuta
materia terrena: quasi fosse stato trasferito al paesaggio il decoro che
avrebbe dovuto essere dei Numi. Primo contrasto ; non solo.
Ben presto si nota che nessuno dei consueti attributi è stato tolto
da Claudiano né a Demetra né a Cora né a Plutone né ad Atena né ad
Artemide né ad alcun'altra figura celeste del poemetto. Il re dei
morti Ila tutta la sua terrificante corte ; la ver- gine Figlia ha intero
il suo sèguito di bellissime ninfe; hanno l'armi Pallade e la
Cacciatrice, quella lo scudo gorgonèo, questa l'arco e le frecce;
la Madre corre per l'aria su cocchio trai- nato da draghi e doma leoni.
Il meccanismo oltreumano resta inalterato, e il poeta v'insiste.
Ond'è che la vita umana e affettiva vi è poi spirata dentro senza che
Fautore mostri di ac- corgersi del dissidio che ne risulta. Il quale
è, a volte, men grave. Ma a volte attinge a dirit- tura il
grottesco e tramuta il poema in com- media. Quando, — gli esempii
potrebber essere moltissimi, desunti ogni cento versi ; basti l'uno
più notevole, — quando Plutone ha rapito Cora e ne ha uditi i primi
gemiti e poi gli urli e i lamenti pietosi e le invocazioni alla Madre,
si commuove : " Da tali detti il feroce e dal pianto vezzoso è
convinto, e sente i palpiti del primo amore. Le lacrime (le) deterge con
ferruginea tunica, e con pacata voce consola il mesto do- lore (di
lei) „ (1). E, questa, una innovazione di (1) II
273-276. Claudiano : già che le parole che seguono e che vantano di
Plutone i pregi qual marito e re son le medesime che l' Inno attribuiva
ad Elios e Ovidio a Giove, per consolar Demetra. Ma rin- novazione
a punto svela a maraviglia a qual grado di risibile pervenga il poeta nel
colorire pateticamente quello spauracchio " feroce „ di
Aidoneo che egli stesso ha poc'anzi dipinto mostro a tutte
tremendo. Dai medesimi errori iniziali consegue l'essere
artisticamente (non dico logicamente, che sa- rebbe inutile rilevarlo)
mal connesso il mondo divino del breve poema. Tutti gli Dei balzano
all'improvviso su dalla terra al cielo. Demetra ridiviene di colpo
sorella di Zeus, dopo che il tono dei suoi lamenti e l'incertezza
dell'angoscia ce l'avevano affigurata di Zeus suddita umile e
meschina al pari d'una qualsiasi siracusana. Ciascun dio sembra
supinamente soggetto a Zeus; ma Zeus a sua volta prende a impaurirsi e
tre- mare non a pena Plutone lo minaccia di far liberi i Titani.
Non c'ispirano quindi reverenza né ti- more cotesti numi ambigui. E
l'invettiva che contr'essi scaglia la Madre nell'ira non è per
nulla sacrilega : ci scende fredda nel pensiero, perché è vuota
cosi di dolore materno come di ribellion religiosa. Se per poco fosse
spinta in là la ten- denza del poeta, i suoi dèi finirebbero con l'ap-
parirci, nella loro scema sostanza um^ana, e tra- cotante pompa
esteriore, marionette fìngenti per gioco di fili occulti e virtù di
orpelli gravità olimpica, in un consesso di stolidi e in una fa-
miglia disamorata. L'errore d'intuizione artistica in fine culmina in
quel solenne decreto di Zeus con cui s'apre il libroni: il quale vorrebbe
mo- strare come, col decretar da Demetra il dono del seme, la
suprema volontà sapesse ritrarre un vantaggio agli uomini dalla vicenda
di Cora; ma non prova nel fatto se non quanto Claudiano ha
deformato il sommo Iddio. Conchiudendo , il poeta è giunto proprio
al contrario di quel che era compito dell'arte: ha dissimilato in
luogo di ordinare in armonia ; ha contrapposto, in vece di avvicinare
senza con- trasto. Ora, gli elementi del dissidio erano già tutti
nella primitiva saga di Cora, e avevan perdurato identici lungo il suo
evolversi. E pure non gli avevamo avvertiti: non so che secreta
forza li faceva coerire in unità e bellezza. Se adesso adunque si
frangono e s'iu"tano, segno è che non pure s'è svigorita l'arte, ma
l'orga- nismo del mito è moribondo, — e si dissolve. Cosi né
pur la contaminazione di motivi, desunti dalle più diverse fonti, riesce
a infon- dere ricchezza di contenuto alla leggenda agreste. Un più
profondo guasto la uccide, senza rimedio. Onde finisce l'ultima forma di
quell'antichissimo racconto siculo, che una prima volta aveva sen-
tito, per opera di Siracusa, vigoroso l'influsso greco, e trovò una
seconda volta, traverso gli AlessandiTni, arricchimento di bellezza poetica
da iDrincipio, gravame in sèguito di mal con- gesti elementi. Indra
e Vritra si combattono. Nel profondo cielo dove il Sole si vela di
ar- dore, Indra teneva le sue smaglianti mucche al pascolo e
lasciava vagare leggère, qua e colà, nell'azzurro. Non sfuggirono a
Vritra, turpe fi- gura di serx^e dalle tre teste, né tentarono in
vano la sua maligna cupidigia. Le rapi, e tras- sele nell'antro che gli
era dimora; e ve le tenne secrete. I ben colorati animali furono
avvolti dalle tenebre, celati sotto un' incupita parvenza uniforme.
Ma Indra corse alla vendetta. Dal- l'antro, ove segregato si stava il
bottino, gli (1) Per tutto questo capitolo v. Vlndagine, in
libro II cap. Ili ; di cui si citano i §§ nelle note successive.
giunse un profondo e rauco muggito che gli svelò e il furto e il luogo.
Vi si precipita, fende con la sua possente forza la grotta, di frecce e
di clava colpisce più e più volte il mostro nemico, l'abbatte, lo
uccide. E riconduce le mucche nel cielo, onde lasciano esse scorrere il
latte fin sopra la terra. Cosi nel Rigveda indiano (1) si
adombra per noi la vicenda del temporale, i bianchi cirri sparsi
per l'azzurro mutandosi in torvi cumuli, che dopo tuoni e lampi scatenano
benefica la pioggia. L' odio , che un' anima paganamente
infusa nella natura nutre acre contro il velame dal quale è tal
volta celato il Sole agli sguardi, ha sentito nelle nubi gravide d'acqua
e di fuoco la presenza di una forza attiva, e nemica cosi della
luce benefica come della fiamma benefica, però che si compiaccia, in
vece, di tenebrori e di vampe distruggitrici. Vampe escono dalla
caverna di Vritra : fulmini percuotono 1' opere umane e le annientano. Il
bujo della notte; l'ombra dei secreti abissi sotterranei, ove
occhio non si spinge, e che, quando spiragli appajono traverso il
suolo, atterriscono i cuori ; l'atra tinta del fumo , che gì' incendii
sprigionano, pregno di odori corrotti, su dai possessi degli uomini
; l'ambiguo rossastro delle lame di fuoco, che s'insinuano avide fra cosa
e cosa, per far di tutte cenere uguale ; la negra cortina dei cu-
muli ; l'abbagliante incandescenza del baleno, che acceca le pupille: —
questi colori queste (1) Cfr. fino a pag. 163 § E.
PRESSO gl'indiani E I GRECI 161 forme quest' energie si
accostano nel pensiero primitivo, si compongono variamente e
diversi si foggiano in figurazioni molte, ripetendo però con ritmo
unico il malefìcio costante e il duro danno, in antitesi violenta contro
il dono, in cui è prodigo l'Astro, di luce e di calore. La fiam-
mata che cuoce l'alimento è una scintilla tolta dal Sole per gli uomini :
e, come il Sole, ha virtù di respingere l'oscurità intomo a sé. La
fiam- mata in vece che rade una selva è nemica del Sole perché
nemica dell'uomo: e, poi che teme la luce solare, s'avvolge di bujo. La
mente bam- bina non sa che la tenebra è un modo della luce, e che
il fuoco è un solo principio, distrugga o giovi. Contrappone le parvenze ;
crea, dagli effetti, delle antinomie fallaci nelle cause.
Cosi fatto l'atteggiamento fondamentale del pensiero. Che è comune,
come si sa, agli Arii ; e comuni, se bene traverso le differenze a
volte non piccole, sono le forme di cui si veste e le associazioni
psichiche di cui si vale : l'antropo- morfismo, ciò sono, ed i nessi fra
la notte e il sotterraneo mondo, fra il bujo e la fiamma ma-
lefica, fra gli ascosi meandri del suolo ed il cielo. E questo d'ogni
singolo mito del fuoco, quale che sia per esserne il valore più
immediato, per- mane il riposto senso di allegoria naturalistica.
Anzi, in grazia a punto di essa affinità di con- cetti, poco importa se
la fiaba si connetta più tosto con la freccia del fulmine che squarcia
il perso involucro dei nuvoli, o più tosto col dente infocato che
appare impro\^iso e avido tra le sph'e di un fumo caliginoso, o
altrimenti con altro. Griacché la fantasia primigenia, la quale ha
narrato sotto la specie dell'uomo una spet- tacolosa vicenda della natura,
deve esser stata indotta dalle medesime sue associazioni analo-
giclie a ripetere, nelle aridità della concezione, un solo racconto per
fenomeni simili. Ciò spiega perché, fuor del E-igveda, il
mito ritorni bensì presso assai popoli arii, ma presso pochi come
là simboleggi il temporale. Presso gli Eranii tramutato si è, pur
serbando pa- recchie simiglianze, in una forma, per cui Tistrj^a e
Apaosha si combattono ; e a dirittura rinno- vato in altra forma, la
quale, per il nesso che nel pensiero già intercede fra tenebra e
male, luce e bene, trasporta il mito a significare il contrasto tra
Ormuzd il buono e il cattivo Ahriman. Che se, dopo averle
spiegate, non grande conto è da farsi di queste trasposizioni della
fiaba da uno ad altro fenomeno ; molto mag- giore se ne deve attribuire
in vece all'alterarsi o al persistere di taluni particolari
significanti. In essi è il segno di qilanto si accosti o allon-
tani dalla saga originaria il nuovo racconto : simili a quei tratti
caratteristici che perman- gono a contraddistinguere il volto di una
fa- miglia nei secoli. E quando del mito si è poi perduto tutto il
senso riposto, restano testimoni veritieri ed irrefutabili dell'origine
prima e di- mostrano che in fondo scarsa fu la elaborazione
innovatrice sul modello più antico. Quando in vece un significato
s'intrude sopra e contro l'o- riginario e lo modifica o lo soffoca, si
perdono insieme i primitivi particolari episodici, come un muro
coinvolge nella sua caduta gli affreschi. o solo tanti se ne serbano
quanti non discon- vengono al nuovo dominante pensiero. Giacclié
l'energia conservatrice insita in quei partico- lari è costituita, in
somma, da una non più co- sciente memoria dell'importanza essenziale
clie tutti, in vario modo, avevano, quando ancora la saga
travestiva un reale fenomeno. E cessa pertanto, allorclié al ricordo
incosciente sot- tentra nel racconto la coscienza d'un contenuto e
d'un fine diverso. Un fine e un contenuto del tutto nuovi ha
assunti il mito primitivo appresso i Greci. Ed ecco difatti tramutarsi
anche la foggia este- riore e l'intreccio dei casi. Come il furto di
buoi perpetrato a danno d'una divinità solare venisse narrato
insieme con la successiva vendetta nelle saghe antichissime degli Elleni,
ignoriamo : e ci sembra inutile pel nostro assunto la conget- tura.
Certo che in secolo a bastanza antico la metamorfosi del racconto si
rivela profondis- sima. L'omerico i Inno a Ermes è la nostra fonte
in una sua ampia parte(1). Ed è pervaso tutto dalla minore anima greca:
quella che baratta e commercia; che ruba con astuzia, e nega con
impudenza ; che è scaltra in ben parlare, e av- volge di parole
artificiate, di periodi fluenti, di frasi ambigue, d'esclamazioni infinte
e do- li) Tralascio tutte le quistioni su gli " strati
,, la cronologia, ecc. dell'/nno, come estranee al tema. Con-
fronta A. Gemoll Die homerischen Hymnen (Leipzig 1886) 181 sgg. e T. W.
Allen and E. E. Sikes The homeric hymns (London 1904) 128 sgg. mande
coperte, l'infelice derubato ; che giura invocando i men pericolosi dèi,
nella speranza di averli meglio indulgenti ; che non ignora al-
cuna furberia, e si vanta di tutte ; e nessuno più le crede, e ognuno le
s'arma di sospetto, ma ne resta poco o molto gabbato. L'uomo il quale
discorre a lungo e lascia i suoi detti vagare per l'aria, incurante se
assai ne cadano a vuoto, certo che giungono in parte al brocco, e
tiene fra tanto i suoi occhi, sotto le palpebre basse, fissi qua e
là su oggetti che non guarda; il Grreco dei proverbi e dei motti ironici:
vive in- tiero, per una fresca vivacità di dipintura, nel ladro di
buoi. E lo ritrae la maggiore anima greca, la virile, cui la cupidigia di
guadagno s'è congiunta con la brama di gloria, cui il buono è anche
bello, e forza indirizzata al suo fine è anche il bene. Ma fra questa
maggiore e la mi- nore anima greca i tramiti non sono affatto
tronchi. Onde una celata coscienza della supe- riorità di quello spirito
che può, se voglia, rin- chiudere in un labii"into di dubbii e di
certezze, entrambi illusorii, l'intelligenza del suo inter-
locutore, serpeggia per il racconto. E un sorriso di compiacimento
interno lo illumina : il sorriso mal palese degli aruspici, secondo
Catone; il sorriso, dagli occhi assai più che dalla bocca, con cui
gli ambasciatori d'Atene dovevan ac- cogliere, pacati d'indulgenza
ironica, la dichia- razione frequente dei Peloponnesiaci : " Grli
Ate- niesi discorrono troppo bene perché si possa lor credere „. C
è un biasimo tacito del furto ; ma c'è una lode sobria del ladro abile. E
la com- media nasce. Comico, il racconto eh' era stato tragico
allorquando Vritra cadeva sotto la in- vitta clava di Indra.
Perno del mito diviene adunque l'astuzia clie elude la forza. I
protagonisti sono mutati. Ca- duti taluni particolari, altri
s'improvvisano dal largo patrimonio novellistico. Lo sfondo è di-
verso, perchè alla furberia del mortale compete scena la terra, come alla
violenza del mostruoso iddio sede il cielo. Resta la pascente mandra
di- vina, di splendido aspetto ; e il secreto del furto ; e l'antro
ove l'ombra accoglie i mugghianti. Apollo è il derubato, Ermes il ladro;
Ermes, nella sera del giorno in cui nacque, piccolo bimbo di
inverosimile forza e di mente già dotta nelle oblique vie. Fra il neonato
dalla tenera pelle ed esigua statura, e il Dio vigoroso e alto, si
svolge la principal scena. Due altre la precedono. La prima narra
il furto. Non è opera di vio- lenza, ma di scaltrezza. I buoi, —
cinquanta, — pascevano nella Pieria mentre " con il suo carro
e i cavalli „ il Sole spariva sotto la terra. Ermes, per celare ogni
traccia dell' abigeato sul suolo sabbioso, condusse le bestie
all'indietro, intrec- ciando per sé accorti e leggeri sandali con
vin- castri e sarmenti. Giunto presso TAlfeo cela la refurtiva in
una grotta " da la volta elevata „. Poi, ritorna presso la madre,
sul monte Cillène. E ha luogo la seconda scena (1). E
di Cillene, tosto, egli ai divi gioghi toi'nava in sul mattino ; né per
la lunga via alcuno scontrossi con Vv. 142 sgg. Edizione T. W. Allen
(Oxford l'abigeato di caco lui o tra gli Dei beati o tra i mortali
uomini; e non la- travano i cani. Ermete, il benefico figlio di
Zeus, obliquo per il serrarne della casa scomparve, simile a vento
d'autunno o pure a la nebbia. Avanza dix-itto nell'antro fino al ricco
recesso, piano coi piedi mo- vendo : né così fa rumore sul suolo.
Subitamente entrò nella zana l'inclito Ermes, le fasce a le spaUe
avvol- gendo, come d'un piccolo bimbo che in braccio alla balia i
lini scompone coi piedi (1). Ma non sfuggiva l'Iddio alla sua madre Dea,
che gli disse parole. " E perchè mai tu, o ben furbo, e donde
in ora di notte ne giungi, o cinto d'inverecondia ? Ed ecco te
pi'eveggo, da indissolubili vincoli intorno allo sterno legato, uscir da
queste soglie fra le mani di Apollo, o finir per recarti a predar nelle
valli al pari di ladro. Pèrditi, stolto : che per grande sventura ti
generava il Padre agli uomini mortali e agl'immortali Dei „.
Ed Ermete a lei scaltre parole rendeva : " Madre, perché
queste cose tu m'ammonisci, come ad un piccolo bimbo, che malizie ben
poche conosca nel cuore, e ti- mido tema fin della madre i rimprocei ? Ma
io un'arte apprendere voglio, ch'è la più bella (2). Né fra gli Dei
immortali spogli di doni e negletti, quivi restando, ci rimarremo come tu
vuoi. Meglio è per sempre fre- quentar gl'immortali ricco ed agiato di
beni e di messi che nella casa sederci, nell'oscura caverna. Quanto
ad onore, il convenevole anch'io voglio ottenere, ben come Apollo.
E se il mio padre non me lo dona, io stesso per certo tenterò — che posso
— dei rapinatori dive- nire il capo. Che se mi ricerchi il figlio
dell'illustre (1) Omesso il v. 153. Omesso il v. 167
ch'è corrotto. Latòna, altr'e tanto (io mi credo) avrebbe in
ricambio e anche più : mi reco in Pitóne al saccheggio della grande
sua casa, molto da quella rubando stupendi tripodi ed oro e lebéti, molto
sfavillante ferro, e vesti di molte. Tu certo vedrai — se ti piaccia
„. n senso d'umanità e la sostanza greca che sono divenuti il
nucleo nuovo del mito appa- iono qui in tutta la loro vivace
contrapiDOsizione alla forma indiana di cui fu veduto. Perché la
difesa, che il poeta adorna cosi bene su le labbra bambine, è un breve
mal represso anelito di sim- patia per il ladro perspicace ed
ardimentoso, simile a profondo brivido onde nelle fibre arcane
della carne si ax)provi quel che la ragione con- danna. Ben altro era
l'odio atterrito per cui, nel Rigveda, il rapinatore trascinava la sua
mole serpentina nel dimenio orrendo delle tre teste. Là, freme il
ribrezzo contro Vritra, l'ignobile, e l'ombra della sua caverna, dalla
quale il mug- ghio bovino suscita un' eco di sgomento negli animi.
Qui, noi abbiamo ormai preso parte in favor del breve Ermes fasciato, che
si crogiola di caldo nella zana, orgoglioso senza pudore di quanto
ha compiuto, pronto a difender sé e la i)ropria opera, certo di saperla
proseguire nel futuro. E non v' è dubbio che a Maja piac- ciano le
vesti che l'arti del figlio le recheranno rapite! Le due spanne onde il
corpicino si mi- sura sono molto piccola cosa di fronte alle cin-
quanta terga di tori: e nella grazia furbesca del contrasto, che la
onnipotenza divina giustifica e legittima, sta il motivo della simpatia e
nostra e del poeta. l'abigeato di caco Come lui (1)
scorse di Zeus e di Màjade il figlio, adirato pel furto dei bovi
l'arciero Apollo, dentro la fascia odorosa s'immerse : quale del legno la
cenere molta brace di ceppi nasconde all'intorno, tale celava sé
stesso Ermes, il Lungisaettante vedendo : in breve raccolse il capo le
mani ed i piedi, come se per bagno dolce sonno chiamasse a ristoro,
sveglio restando però. Il figlio di Leto e di Zeus riconobbe, né gli
sfuggì, la montana bellissima ninfa con il suo figlio, bimbo
piccino, avvolto dentro ingannevoli astuzie. Della grande casa i recessi
mirando, con la splendida chiave tre ri- postigli schiudeva, di nettare
colmi e di gradita am- brosia : molto oro ed argento dentro giaceva,
molte della Ninfa purpuree vesti e smaglianti : tutto che dei beati
dentro sogliono avere le sacre dimore. Della grande casa i seni
esplorati, il Latoide con detti par- lava ad Ermes illustre.
" bimbo che nella zana ti giaci, mostrami i bovi : presto, che
tosto in disdicevole modo contenderemo fra noi. Ti piglierò ti scaglierò
nel fosco Tartaro nella te- nebra triste irreparabile ; né te la madre né
il padre alla luce potrà ritrarre ; ma' sotto terra errerai primeg-
giando fra i bimbi „. Ed Ermete a lui scaltre parole rendeva :
" Latoide, qual mai aspro discorso parlasti ? e perché
ricercando agresti bovi qui sei venuto ? Non vidi, non so, né
d'altri intesi parole, né mostrare potrei, né vprenderne premio, né
somiglio ad un ladro di buoi, uomo pos- sente. Non questo è da me, e
prima altre cose mi piac- ciono : il sonno a me piace, ed il latte della
mia madre, e attorno alle spalle le fasce, ed i tiepidi bagni.
(1) Vv. 235 sgg. Nessuno potrebbe sapere donde sorse tale
contesa, che per vero gran maraviglia fra gl'immortali sarebbe che
un bimbo nato da poco varcasse la soglia fra mezzo di bovi silvani. Oh
male tu parli ! Ieri mi nacqui ; i piedi son molli ; scabra, di sotto, la
teri'a. Ma se vuoi, su la testa del padre un grande giuramento farò :
né io — affermo — né io stesso fai causa, né vidi alcun altro ladro
dei vostri buoi — checché i bovi si sieno, poi che per fama sol tanto ne
odo „. Cosi dunque parlò, e di frequente con le palpebre
ammiccava, inarcando le ciglia, e qua e là guar- dando (1). Ma a lui lene
ridendo l'arciero Apollo ri- spose : " amico, in dolo
scaltro e in inganni, io preveggo per vero che spesso per invader le ben
abitate case durante la notte, più c'uno stenderai sul suolo, senza
rumore ripulendo la casa : tale tu parli. E molti nelle valli dei monti
molesterai agresti pastori, allor che, bramoso di carne, t'imbatta in
mandre di bovi o in pecore lanute. Ma via! l'ultimo ed estremo sonno
se non vuoi dormire, scendi dalla zana, o compagno della nera
notte. Questo per certo anche poi tra gl'immor- tali avi'ai officio, di
esser per sempre chiamato capo dei ladri „. Cosi disse
adunque e il bimbo prendendo trasse Apolline Febo. Allora, il forte
Argicida, tra le mani levato, tutto serio, un presagio emetteva, ardito
servo del ventre, e messaggero impronto. Dopo esso, starnuti tosto
: poi che Apollo l'udiva, da le mani sul suolo l'illustre Ermes gittava.
Gli si mise dinanzi e, pur af- frettando il cammino, Ermes gabbava ed a
lui diceva Omesso il v. l'abigeato di oaco parole : *
Coraggio, o fasciato, figlio di Majade e Zeus: con questi presagi troverò
pure, alla fine, i capi ga- gliardi dei buoi : tu, per altro,
m'insegnerai la strada „ . La contesa continua un po', fin che si
deci- dono entrambi a recarsi nel cospetto del Cronio Zeus per aver
giustizia. Li Ermete giura di nuovo solennemente il falso ; ma poco vale.
Pur troppo Zeus conosce ogni cosa e anche dell' abigeato ben sa.
Sorride, il gran Dio, e comanda ai due Dei di cercare insieme " con
animo concorde „ i buoi e ad Ermes ordina d'indicarne il rifugio.
Ubbidiscono. E la commedia finisce come le com- medie sogliono terminare:
con una buona pace. Di essa rimangono cardini notevoli l'accor-
tezza del trascinare le mucche all'indietro per disperderne l'orme e
travolger gl'indizii ; e l'in- sistente ammiccante spergiui'o di Ermes
dinanzi ad Apollo ed a Zeus : particolari che, pur ap- partenendo
forse ad antiche trame novellistiche, sono tuttavia qui per il loro piglio
maliziato probabilmente a bastanza tardi. Presso i Latini.
Le fila s'intrecciano poi presso gl'Italici, e presso i Latini in
ispecie (1). Né della trasposizione, per cui il mito vien
riportato da un fenomeno all'altro analogo ; né Cfr., di qui fino a pag.
182, § V e (in parte) § VI. dell'intrusione, per la quale un nuovo
signifi- cato scaccia, d'entro lo schema leggendario, l'an- tico, e
rinnova per conseguenza i particolari del racconto : si deve tener parola
a proposito della saga romana di Caco. Altre vicende essa ha su-
bite allor quando ci appare formata in età di storia. Non quelle. Segno
certo, che rimase da prima ben radicata nella memoria delle gene-
razioni, approfondita nel sangue della stirpe ; che vi si cristallizzò in
una foggia, la quale non aveva più il contenuto cosciente della an-
tica, ma dell'antica tutti serbava i tratti, anche i più minuti, e
dall'antica ripetendo il suo essere ne diveniva veneranda e intangibile.
E però al- lora che r elaborazione artistica sopravvenne con voce
più sicura e lievito più possente, non potè distruggere per ricreare ;
dovette co- stringersi nella materia, né sorda né asx^ra, ma
irrigidita dai secoli : sopravveniva difatto troppo tardi. Il rispetto,
per vero, di tutti i particolari, che furono proprii della saga
primordiale aria e che si rinvengono intatti nel Rigveda,
contraddi- stingue, senza eccezione, la serie intiera delle vicende
che il racconto attraversa di poi, tanto nei carmi dei poeti, quanto
nelle storie e nelle interpretazioni dei dotti. La
presentazione dei protagonisti. Però che forse la differenza più notevole
fra il racconto indiano e il probabile, d'una probabilità ottimamente
fondata, — i^rimitivo racconto latino, consista nei mutati nomi delle
iDersone. Né è da ammirare. Sono molteplici gli aspetti onde un
qual siasi spettacolo naturale si presenta all'occhio ingenuo : e tanto più
quanto meno il pensiero scorge tra i varii il nesso unico e ha vigoria
per riportare ciascun parvente alla sola sostanza. Ogni aspetto poi
si presta a tramutarsi, da prima, assai più che in una personale
figura di Dio, in un nome cui risponde una sbiadita ombra divina.
Spiccatisi più tardi dal comune ceppo ario i rami diversi, l'evoluzione
linguistica da un lato trasforma quei nomi per fenomeni fonetici
appresso le differenti razze; dall'altro, il caso lascia smarrire taluni
di essi, e taluno fa prevalere, addensando di questo il contenuto e
concretando il valore (1). Cosi l'intuizione fon- damentale della fiamma
aveva certo moltissimi termini che le corrispondevano : ma uno ne
trion- fava là, ed un altro qui. Onde accade che un solo mito del
fuoco possa rinvenirsi in fogge bensì quasi identiche presso gl'Indiani e
i La- tini, — ma non mai con identici nomi. La presentazione,
adunque, dei protagonisti. Quando i Latini (e forse si potrebbe dii-e
sen- z'altro gl'Italici ; ma, se bene intorno a ciò le loro
leggende ci appajono per barlumi, in fondo ne siamo all'oscuro, ed è
quindi prudenza non affermare alcun che) ripeterono l'antichissimo
mito indoeuropeo senza ancora averne dimen- ticato il valore
naturalistico, s'indussero ad usare i nomi di Caco e di un non sappiamo
se Garano o Recarano. Di fronte ai quali la storia si trova in ben
diverse condizioni. Non solo il primo è Cfr. G. De Sanctis Storia dei
Bomani I (Torino 1907) 88. ben certo, là dove il secondo non è né
pur for- malmente sicuro e varia nei due testi ove ap- pare sol
tanto ; ma quello è analizzabile con un etimo di cui riflessi si
rinvengono pure fra i Grreci, e questo offre difficoltà molto
maggiori. Glie in Caco ritorni la radice che anche in xaio) ("
brucio, ardo „) e nel prenestino Caeculus, è probabilissimo e consuona
bene alla sua natura ed ai suoi offìcii. Ma Garano-Recarano è
restio a tentativi cosi fatti ; ed è preferibile compren- derlo fra
gli dèi cui non è di certa analisi il nome. Inoltre a lui toccò di esser
più tardi sop- piantato da un altro Iddio, ond'è impossibile
definire, quali sieno gli attributi suoi proprii, e quali al personaggio
sieno stati aggiunti dal secondo attore. Unica certezza, cbe se fu
pre- scelto a significare la forza della natm-a la quale nel
Rigveda esprime Indra, da Indra non dif- ferì forse troppo. E difatti
Caco non differisce né pure, nel tutt' insieme, molto da Vritra.
In- dubitata è la forma mostruosa ; certo è l'atto del vomitar
fuoco da le fauci e nerissimo fumo ; congetturabile, l'orribile cervice
tripartita. Un antro immane è sua dimora, fra le tenebre cupe.
AlFintorno, egli rapisce e distrugge: né forza gli resiste, né ostacolo
lo rattiene. Il terrore lo circonda. L'odio invano lo minaccia. Tale
sua effìgie ripugnante ed immonda però si deve riferire ad un
secondo stadio del suo evolversi mitico , perché son tracce palesi
d'una sua più vasta comprensione. Egli dovette, ciò è, nell'i-
nizio, valere come non pur malefico si anche fuoco benefico: e senza
dubbio i due aspetti antitetici erano potenzialmente, più che in
lui, 174 IV. - l'abigeato di caco nel suo nome.
Difatti sotto sembianze piacevoli ed amicali Cacu ritorna presso gli
Etruschi in certi specclii dipinti che ne pervennero unica
reliquia. E, sopra tutto, in Roma è attestato il culto d'una Caca^ cui
vergini avrebbero con as- sidua cura vigilato un sacro focolare, non
dissi- milmente da Vesta. Eorse il termine non signi- ficava da
principio se non il fuoco nell'atto dell'ardere e in quanto arde ; e solo
poi le due contrapposte concezioni della fiamma conflui- rono in
esso, e valsero a derivarne ben due figure divine. Il terzo stadio in
fine della sua evoluzione Caco toccava quando nei posteriori
tentativi di genealogie divine divenne figlio di Vulcano, che aveva a sua
volta assunto il primo posto fra i Numi della fiamma. Dei due
protagonisti, il furto e il duello si svolgeva quasi certamente in modo
simile al racconto del Rigveda. Vi ritornavano il muggito bovino
rivelatore dell'inganno; le frecce e la clava, forse ; con certezza, la
distruzione violenta della caverna e l'abbattimento del mostro tra
il fragore il fumo ed il fuoco. E tutto il mito latino si esauriva, per
quanto ci è concesso sa- pere, dentro questi termini : senza né
originalità sua propria di particolari e di figure né sma- glianza
singolare di colorito formale. Un primo arricchimento gli derivò
dall'avere, in proceder di tempi, localizzato con più esat- tezza
la fiaba, — topograficamente vaga nelle origini, come quasi ogni altra.
Nello spazzo che s'apre su la riva sinistra del Tevere tra il
Palatino a oriente, a sud l'Aventino, il Campi- doglio a nord, e dove
erano nell'età storica il Foro Boario e il Velabro, trovò la sua fìssa
sede la saga. E fu più vicina alla terra, e più lontana come dal
cielo cosi dal suo proprio senso natura- listico. Fra i colli romani essa
divenne il racconto di avventure terrene, il ricordo di tempi
lonta- nissimi, di cui testimoni unici restavano i monti ed il
fiume. Prese a trasformarsi in una leggenda che la pretende a storia
accampando una verità fallace e diversa dalla sua prima, ben j)ìu
ef- fettiva. Un particolare locale s'insinua : la ca- verna di Caco
è pensata nel monte Aventino. E, assai più di quanto possiamo scorgere
nelle te- stimonianze, i luoghi ove poi saranno le scalae Caci e
Vatrium Caci danno contributo di pic- coli nuovi tocchi precisanti alla
fiaba. La quale si forma pertanto colà in uno stadio, che è il suo
primo fra i Latini, e di cui il colle Aven- tino e i due numi Caco e
Garano-Recarano co- stituiscono i iDerni. Acquistare una sede
significa però per un mito, non pure raggiungere una consistenza e
saldezza maggiori, bensi allargarsi via via per attinenze nuove,
suggerite dai luoghi ove altri miti son radicati. E un contagio cui il
suolo serve di conduttore: e che qui fu invero non presto, ma fu
per compenso profondo. Quando il dio greco Eracle penetrasse nel
patrimonio leggendario latino e sotto la veste di Ercole venisse
defini- tivamente adottato è e sarà del tutto incerto (1). Senza
dubbio poi alquanto tempo dovette tras- correre innanzi ch'egli potesse
fondersi con gli (1) Cfr. De Sanctis St. d. R. l'abigeato di
caco dèi latini a lui simiglianti o per qual si voglia modo
contigui : prima, dovette divenire familiare, ottenere culto e insediarsi
sugli altari, esser co- nosciuto anche nei suoi minori attributi, assi-
milarsi infine air ambiente. Non presto dunque dall' " Ara massima „
ove nel Foro Boario gli si faceva sacrifizio, presso al Palatino,
soprav- venne ad assorbire in sé ed annientare la figura di Grarano-Recarano.
La quale difatti non cade in cosi profondo oblio clie non se ne
serbino tracce fra gli eruditi dell'età imperiale. Ma come l'ebbe
assorbita. Ercole prevalse onninamente. Il dio solare poco noto che era
di fronte al dio solare notissimo, impresso di grecità? A en-
trambi, sembra, competevano e le frecce e la clava: simboli dei raggi
della Stella. E le lotte erculee avverso l'Ade o avverso Neleo non
erano se non se i riscontri analoghi del duello fra Grarano-Recarano e
Caco. Ma là dove l'uno apparteneva a una religione poco evoluta
qual la latina, l'altre recavano con sé grande matu- rità
religiosa. Una poi di cotesto imprese di Eracle, la fatica con cui uccise
il ^' ruggente „ Gerione e gli tolse la stux)enda mandra, offriva
il pretesto per rinsaldare quel nesso fra Ercole e Caco, che circostanze
di luogo e simiglianza di forma e contenuto tanto favorivano. Fra
Eritia nell'occidente spagnolo, ove quella fatica avrebbe avuto
luogo, e la Grecia, cui doveva ritornare l'eroe, l' Italia era ponte, e
nell' Italia Roma. Della positura geografica approfittarono molti
facitori di saghe per le loro combinazioni (1); Per es. Stesicoeo nella
sua Gerioneide: cfr. U. Man- per nessuna forse cosi felicemente
come per la latina di Caco. Giacché la vittoria conseguita in
Eritia sul Ruggente giustificava, oltre che la presenza di Ercole su
l'Aventino, il possesso della mandra che Caco rapisce. In
progressione, quanto più Ercole prevaleva su Recarano-Grarano, tanto più
s'allargò la leg- genda. Vi si aggiunsero i particolari sul culto
romano dell'eroe nel Foro Boario, e se ne fece tutto un paragrafo nuovo
del racconto, contrad- distinto per profondi caratteri dal resto. Non
più il mito della natura; ma l'impasto non sempre coerente di
etiologie, con le quali si tenta di spiegare l'uno o l'altro aspetto del
rituale, un costume, un gesto, projettando il tutto, senza
prospettiva di tempo, sopra uno schermo unico. Del paragrafo che cosi
accresce la leggenda, uno strato appare, se l'ipotesi non erra, di
unica origine; rispetto a cui sussistono inserzioni più
tarde. Addette al culto di Ercole nell'Ara Massima erano in
età storica, prima che il servizio vi fosse assunto da pubblici ufficiali
(anno 312 a. C), le famiglie dei Potizii e dei Pinarii ; se non che
a questi ultimi sembra che non spettasse come a quei primi di partecipare
al banchetto in cui dopo il sacrifizio si consumavano i resti delle
vittime. Era inoltre uso di offrire al Nume la decima, per consueto, d'un
proprio guadagno o CUBO La Urica classica greca in Sicilia e nella
Magna Grecia I (Pisa 1912) (" Annali della R. Scuola Normale
Sup. di Pisa l'abigeato di caco d'un bottino conseguito in guerra :
e l'offerta era lecita cosi a generali come a privati cittadini. Il
primo fra questi fatti e forse anche il secondo costituiscono la trama
originaria della leggenda etiologica. Per essa Ercole avrebbe
instituito, subito dopo la sua vittoria su Caco, un altare, l'Ara
Massima, e vi avrebbe sacrificato la decima del bottino strappato al
mostro: sacrifizio cui sarebber stati partecipi membri dei Potizii e
dei Pinarii, con zelo e per tempo quelli, con ritardo questi onde
non poteron partecipare al ban- chetto delle viscere. Ercole decretò
allora che tale nei secoli restasse il costume fra le due
famiglie. Se non che dal culto erculeo dell'Ara le donne
erano escluse. Anche qui occorrendo un motivo, non si pensò che in Roma
Ercole è anche dio della generazione maschile ; ma si disse che le
donne avevano offeso il Nume, in qualche ma- niera, durante quel primo
sacrifizio. L'etiologia dev'essere a bastanza tarda, e discorda nei
testi ov'è riferita. Per gli uni Carmenta (e la Porta Carmentalis
che ne ha il nome è prossima al Foro Boario) avrebbe respinto l'invito di
assi- stere l'eroe presso l'ara ; o vi sarebbe pervenuta in ritardo
: ancor più che i Pinarii ! Per una reda- zione forse più antica in vece,
donne rinchiuse presso il Velabro pel culto della Bona Dea avreb-
bero, per mezzo della loro sacerdotessa, rifiutato al Dio sitibondo di
concedergli un po' d'acqua, per non lasciar violare il sacrario da un
uomo : — onde la vendetta di lui. E anche recente è, sembra, il
nesso che si strinse fra Ercole e un'ara, esistente vicino alla Porta
Trigemina non lungi al Foro Boario, dedicata Jovi inventori. Certo è
secondario, e per ciò non da tutti accolto, il particolare che essa fosse
eretta da Ercole per ringraziare, col sacrifizio di un giovenco, il
suo padre Giove. Ora, se tutti cotesti accrescimenti
leggendarii, i quali si commettono con la figura di Ercole ed il
culto di lui nell'Ara Massima, rappresen- tano, pur tenendo conto di
talune interpola- zioni più tarde, nel complesso un secondo stadio
del racconto; un terzo venne di poi a sovrap- porsi. Entrò nel mito la
figura di Evandro. Le cause furono, come per Ercole, due. L'una è
identica per entrambi : la contiguità delle sedi ; poiché di Evandro era
un altare presso la Porta Trigemina non lungi all'Aventino e al
Foro Boario. L'altra è analoga, non uguale. Come per Ercole era
valsa la simiglianza di lui con Ga- rano-Recarano, cosi per Evandro
influì la forma del suo nome. La mente non matura che cerca di
motivarsi le tradizioni, quasi sem^^re ritiene d'aver tutto spiegato
allor che ha supposto l'e- timo d'un termine. Caco ad esempio venne,
— e forse da eruditi greci, — accostato per omo- fonia
all'aggettivo xaTtó^ ^' cattivo ^ ; il quale parve del resto convenir
bene al mostruoso la- drone. D'altra parte Euander che volto in
greco divenne EdavÓQog, fu inteso " buon uomo „. Indi fu
facile il riscontro tra il " malvagio ,, del- l'Aventino e il •'
buon uomo „ della Porta Tri- gemina. Evandro era, — in una
leggenda che qui non l'abigeato di caco accade di analizzare
(1), — un signore di Arcadi dalla Grecia venuti a insediarsi sul
Palatino, accanto agli Aborigeni retti da Fauno. La sua persona
pareva dunque acconcia a esser legata per più attinenze con quella di
Ercole e Caco; e se il racconto lo avesse accolto in età pili
antica senza dubbio troveremmo una volgata concorde intorno a ciò.
L'accoglimento in vece fu tardo, e la volgata non esiste. Esistono
rac- conti cbe oscillano, dalla forma in cui egli è ostile ad
Ercole, alla forma in cui egli ospita Feroe e gli rende culto. Ma
evidentemente la natura stessa dei suoi ra^Dporti etimologici con
Caco rende certo ch'egli dovette in prevalenza figurar contro di questo e
a favore del greco figlio di Zeus. In questo medesimo terzo
stadio venne a confluire, confondendovisi, e innestandosi con
Evandro, un'altra tarda invenzione. Quella Car- menta, di cui era un
anticbissimo sacrario presso la Porta Carmentalis e che già vedevamo
usu- fruita per una etiologia del racconto, fu in altra guisa
sfruttata per accrescere di solennità la venuta di Ercole in Roma e
immetterla nelle tra- dizioni più propriamente indigene. Ella
avrebbe, cioè, predetto in un suo vaticinio l'avvento del- l'eroe e
la futura divinità di lui. Il fato cosi rendeva veneranda la gesta; e la
favoletta ser- viva assai bene a vantare per antichissimo fra tutti
il culto romano di Ercole. Tarda trovata, che si foggia tal volta coi
nomi, in vece che di L'analisi v. in De Sanctis St. d. R. Carmenta, di
Nicostrata, di Temide o, presso Greci, con quel dell'oracolo Delfico.
Tarda, che si trovò la maniera di unire all'altra di Evandro»
questo facendo figlio o amico della profetessa, e col ricordo del
vaticinio giustificando l'acco- glienza di lui al Tirinzio.
Basti di coteste invenzioni, cosi povere e re- centi che anche
presso i poeti mal si collegano col restante racconto. E impossibile dire
chi per primo abbia in un testo scritto accolto il nucleo
leggendario più antico, dai successivi stadi! delFetà volgenti deformato
in parte, in parte svolto e compiuto ; chi abbia, bene o male com-
posto un organismo di quel che era opera, non del tutto compaginata, d'
una lenta e libera evoluzione traverso slanci fantastici ed erudi-
zieni grame. Sol tanto si può congetturare che Ennio commettesse nel suo
poema la materia come del primo (Caco), cosi anche del secondo
stadio (Ercole), al meno nella sua più vetusta parte. E di poi un
annalista del II sec. a. C. desse adito al terzo stadio (Evandro) ed alle
sue pro- paggini. La quale ipotesi potrebbe sussistere
parallela- mente ad un' altra che giustifica assai bene ta- luni
aspetti del mito di Caco ax)presso gli scrit- tori dell'età augustea. E
probabile difatti, la fiaba greca di , Ermes ed Apollo, che l' Inno
omerico divulgava in degna veste d'arte e con autorevole efficacia, non
rimanesse senza influsso su quel mito il quale tra i Latini riproduce,
con fedeltà maggiore, lo stesso unico spunto alle- gorico
indoeuropeo. E se l'abigeato del figlio di l'abigeato di caco
Maja fu nella mente di talun culto scrittore, come Ennio, non privo di
analogie con l'a- bigeato di Caco, da quello questo ebbe forse a
ripetere qualche particolare attinente più tosto all'astuzia che alla forza.
Tale lo scaltro accor- gimento del condurre per la coda all'indietro
i buoi fino all'antro per disperderne le tracce ; tale anche lo
spergiuro del ladro che nega il furto : questi difatti ritrovammo nella
G-recia tratti essenziali della saga rielaborata. Certamente
però, quanto al di là di coteste innovazioni e giunte s'è conservato
intatto il primo profilo del mito, cosi che i particolari
posteriori si sono aggregati ma non sostituiti ai precedenti ; tanto se
ne son venute alterando la luce e la prospettiva e se n'è obliterata
la coscienza. Chi ricorda più se la rapina e la vendetta narrino
del temporale che il Sole vince o del fuoco malefico e tenebroso cui la
luce è nemica ? Ora, il fenomeno naturale è lontano : la terra il
cielo il fiume ^ sono intorno alla leg- genda, non dentro ; la colorano,
non la costi- tuiscono. Ora, essa è duplice nella sua parvenza.
Narrata con un certo abbandono della fantasia, con una cura precisa di
non omettere le più vivide tinte, è una fiaba, da ripetersi perché
gradita, da ripetersi con arte per non guastarla, da apprezzarsi come
l'eco di due cose venerande : il tempo e la bellezza. E i poeti la
toccheranno con il loro tocco più lieve e più esperto. Tra- mandata
in vece con un ritegno sobrio che la contenga dentro i margini dell'umano
e dell'e- roico, riman sospesa ambigua tra la realtà e il sogno,
che la fiaba muore e non è storia ancora; riempirebbe la lacuna dei tempi
bui, ma non elimina ogni dubbio e non genera certezza di co-
noscenza. E gli storici dotati di senso d'arte la riprodurranno
guardinghi e pur non spiacenti. Una fiaba, dunque, presso e il poeta e
lo storico. Ma una, cui quello è pago di ammirare, questo è
desideroso di credere. Noi non posse- diamo però né i versi degli artisti
più antichi né le prose dei più antichi annalisti che in Roma
accolsero il mito : solo li conosciamo ri- prodotti e compiuti nell'opere
mature dell'età di Augusto. ni. — I Poeti. Quando, dopo
Ennio, l'arte incastonò nel verso il fulgore della fiaba, già la tecnica
aveva po- lito r esametro e , temprandolo per la forza» l'aveva
reso agile per la grazia delle movenze. La parola regnava : scelta,
limata, contesta, vi- geva nel tono quanto nel significato; aveva
un senso nel pensiero, e un ritmo nella frase. Espri- meva, e
aggiungeva. E il mito visse nella pa- rola, che gli divenne fine più che
mezzo. Valse in quella come la congiuntura nella vita: per gli
effetti che produceva, scelto a pretesto o a tema di un carme; per i
distici che l'infrena- vano e gli esametri in cui adagiavasi; per
gli aggettivi che esigeva e i sostantivi ove si distil- lava. Ond'
è che raro il poeta innovò, sempre quasi si attenne alla tradizione.
L'arte era nel- l'abigeato di caco l'adattamento, che non
fosse trito, della ribelle massa linguistica allo schema rigido e
inviola- bile : mentre la licenza facilitava l'opera, il me- rito
splendeva nel difficile. Il gesto della mano che elegge e soppesa la
parola, simboleggia, riguardo a Caco, l'opera e di Properzio e di
Vergilio e di Ovidio: emblema cui sol tanto non si attennero là dove
altro procedere esigesse il general tema dell'opera loro, — il
quarto libro delle Elegie^ l'ottavo déìTEneide^ il primo dei Fasti.
Properzio occupa rispetto agli altri due un posto singolare. La sua
dipendenza da Vergilio, difficile cronologicamente a dimostrarsi, è
anche artisticamente improbabile, cosi che gli sembra più tosto
parallelo. In tal caso, sia che egli at- tingesse a un modello diverso,
sia che con Ennio non contaminasse altre fonti, sia che in- fine si
ritenesse lecita una libertà maggiore, il suo racconto non comprende Evandro,
il terzo stadio della leggenda, ma, solo i due primi. Caco ed
Ercole : per noi è quindi, qual che ne sia la causa, un esempio della
forma che avrebbe po- tuto assumere la fiaba senza il mito
etimologico sul " cattivo „ ladro. Pel resto, il
racconto è in tutto personale. I vero tema dell'elegia è Ercole
Anfitrioniade, in qualità di Dio venerato nel foro boario con rito
greco e senso romano. La sua sola figura campeggia in due quadri, che
uniscono egli e il momento del tempo e la postura della scena. Nel
primo combatte Caco in una lotta breve- mente descritta, la quale sembra
importare al poeta più nel suo insieme cbe nei particolari. Nel
secondo invoca dalle donne, raccolte nel mi- stico culto della Bona Dea,
l'acqua che gli ne- gano e ne trae vendetta. Sono dunque le due
sole avversioni che Teroe abbia trovate innanzi a sé sul suolo dell'Urbe,
superate entrambe con un moto di violenza, concretate entrambe in
prescrizione di rito. Una caverna dell'Aventino, e il riposto limitare
sacro d'un bosco presso il Velabro, si fanno riscontro; le tre teste di
Caco, e le chiome bianche d'una sacerdotessa. E l'an- tichissimo
mito della natura si dispone allo stesso piano e nella medesima luce del
recente mito etiologico. L'arte, serbata la bellezza di quello, ha
creato la bellezza di questo ; svolgen- done una fantasiosa scena cui
rende grata e fresca il murmure d'un fonte. Quando l'Anfitriomade
da le tue stalle, o Eritia, aveva stornato i giovenchi, vincitor venne
agli alti pe- corosi palatini monti, ed i bovi stanchi stanco egli
stesso posò, là dove il Velàbro con la sua propria cor- rente stagnava,
dove su le urbane acque apriva le vele il nocchiero. Ma su la terra
dell'infido Caco salvi non furono : quegli di furto Giove macchiava.
Indigeno Caco si era, ladrone da l'antro pauroso, che suoni
emetteva per tre bocche divisi. Egh, perchè non fos-Properzio Elegie IV 9;
edizione Phillimore^ (Oxford l'abigeato di caco sere indizi!
certi di palese rapina, per la coda al- l'indietro trasse nell'antro i
buoi ; ma non sfuggiva al Dio: i giovenchi muggirono il ladro, del ladro
le tane spietate l'ira abbatté. Dalla Menalia clava le tre tempie
percosso, giacque Caco, ed Alcide si parla : " bovi andate, o
d'Ercole bovi andate, fatica estrema della clava nostra, due volte da me
ricercati, due volte mia preda, o buoi, ed i campi Boarii con lungo
mug- gito sacrate : il pascolo vostro sarà nobile Foro di Eoma „.
Avea detto, e per la sete ond'è secco il palato il volto è
contratto ma nessun'acqua gli procacciava umida la terra. Il riso ode
lungi di rinchiuse fanciulle. In om- brosa cerchia gli alberi un bosco
avevan formato, clau- sura di feminea dea, con venerandi fonti e sacelli,
a maschio nessuno impunemente aperti. Le riposte soglie purpuree
bende velavano; nella vecchia dimora odoroso fuoco splendeva ; il tempio
adornava con lunghe fronde un pioppo e cantanti uccelli densa ombra
copriva. Quivi egli corre, con ammucchiata la polvere su
l'arida barba, e parole non degne d'un Dio gitta di- nanzi all'ingresso :
" voij che nel sacro recesso del bosco giocate, aprite, vi prego,
allo stanco eroe ospi- tale il santuario ! Erro una fonte cercando, e qui
in- torno è sonoro di acque ; del ruscello mi basta quanto nel
concavo palmo si accoglie. Udiste di alcuno che il mondo con le spalle
sostenne ? Quegli son io : Al- cide la sostenuta terra mi chiama. Chi
dell'Erculea clava le forti imjirese non ode ? e contro le immense
fiere le non mai vane frecce ? e che ad un uomo solo si diradar le
tenebre di Stige? E s'anche celebraste Omesso il v. [42J.
sacrifizio all'avversa Giunone ? le sue acque non mi avrebbe negate la
stessa matrigna. Ma se qualcuno il mio volto e del leone il vello e le
chiome riarse dal libico Sole spaventano, io pure, in veste Sidonia,
compii offici di schiava, e cotidiani pennecchi con Lida co-
nocchia ; ed anche a me cinse una fascia morbida l'ir- suto petto e fui
con le dure mani garbata fanciulla ,. Con tali detti Alcide ; ma
con tali l'alma sacerdo- tessa, da purpureo nastro ricinta le chiome
bianche : * Non riguardar, o straniero, e lascia l'inviolabil
bosco; ritirati or su, abbandona, sicuro fuggendo, la soglia. Per
temibile legge interdetta ai maschi, si venera un'ara che del rimoto
sacello si fa riparo. Con gran danno scorse il vate Tiresia Pallade
mentre, la Gorgone de- posta, le forti membra lavava! Altre fonti gli Dei
ti donino : quest'acqua scorre per le fanciulle solo, ap- partata
dentro limitare secreto „. Cosi la vecchia : quegli con le spalle
scuote gli opachi battenti : né l'uscio chiuso all'adirata sete resiste.
Ma poi che col ruscello bevuto aveva placato l'ardore, un triste
giuro con le a pena rasciutte labbra pronuncia. " Quest'angolo del
mondo ora me con i miei fati ac- coglie : questa terra a me stanco s'apre
con pena. La massima ara „ egli dice " che dai ritrovati greggi
è consacrata, l'ara da queste mani Massima fatta, questa nessuna donna
mai veneri, perché senza vendetta non resti la sete d'Ercole escluso
„. Padre santo salve! di cui si compiace oramai l'avversa
Giunone ; o santo vogliti rivolgere benigno al libro mio.
Cosi il breve carme assempra il magistero delle pause musicali, cui
si affida più espressione tal volta che al contesto delle note : giacché
l'abigeato di caco quando il mito vive di forza verbale, la
pausa lo costituisce non meno della parola. Dal com- plesso della
leggenda volgata e nota, che rin- chiude abbozzato nella mente di tutti
il lavoro dell'arte, il poeta crea con pochi tocchi i rilievi e le
luci, le ombre e gli sfondi lascia alla me- moria comune ; e nel silenzio
di lui vibra il ri- cordo di tutti. Noi non sappiamo oggi a pieno
ciò che tale ricordo potesse supplire; ma in parte l'abbiamo supposto, in
parte ci verrà mostrato da Vergilio ed Ovidio. Intendiamo per tanto
quest'arte. E insieme ne scorgiamo il ca- rattere profondo: è eulta. Il
mito, nella sua squisitezza formale, è dottrina; e il compiacimento del
poeta è di una garbata esumazione dinanzi a lettori cui la raffinatezza
ha svigorito la forza delle sensazioni. Non il senso religiosa non
l'idea nazionale anima quei distici, se bene dell'uno e dell'altra vi
sieno echi. Li regola un senso fine dello stile e un gusto
aristocratico dell'accenno sapiente, della misurata allusione
mitologica. Nei limiti dell'arte, che non può esser mai volgare,
assai meno aristocratica, ma in compenso atta a una più vasta cerchia di
lettori, è la narrazione di Vergilio: perché l'informano quei caldi
sensi trascendenti, i quali sono Tamor patrio e la santità della fede.
Dentro la cornice del poema, che esalta la nazione nei suoi principi!
primi, ed è percorso tutto dal rispetto alla leggenda, come a quella onde
scaturisce l'orgoglio del nome romano e si giustifica la gloriosa istoria dei
tempi più vicini; accanto alla I POETI figura del pio eroe Enea, che opera
per volere di Griove e abbassa la fronte sotto l'afflato de-
gl'incombenti Numi : il mito, cbe narra Tinsti- tuzione del culto
erculeo, e celebra età anteriori alla venuta dei Trojani nel Lazio, non
può non essere circonfuso d'una luce due volte sacra, e ascoltato
in atteggiamento inchinevole. Il libro ottavo dell'Eneide si equilibra su
i due suoi estremi: comincia con le lotte cruente di Enea contro
Turno; finisce con l'inno alle mirabili vittorie romane e alla battaglia
d'Azio, signi- ficate da Vulcano su lo scudo dell'eroe. Dalle prime
alle estreme gesta, balza il pensiero senza intervallo in un constante
sentimento ; e, nella compagine salda degli esametri, appajono le
divinità di tre Dei, Venere Ercole e Vulcano. La leggenda si affonda
nella realtà; la religione le penetra entrambe ; e il canto muove dalle
ra- dici profonde dei profondi sentimenti del popolo che diede la
fantasia alle fiabe, i soldati forti alle imprese, al culto i
divoti. Per ciò, e il mito di Caco vien esposto durante un
sacrifizio ad Ercole, e spazia abbon- dante di particolari. Qui è detto
quel che Properzio accenna. Qui Ennio non si lùchiama, ma si sostituisce.
E la primordiale figura della saga, Caco, non è svolta meno della
seconda, Ercole, né della terza, Evandro: però che rappresentino, in
ordine, la divinità mostruosa e la divinità bella e un antichissimo
assetto poli- tico presso il colle Palatino. E tutt'e tre sono
edizione Sabbadini' (Torino). l'abigeato di caco cosi
collegate che Evandro, il quale dà il segno dell'epoca, è il narratore, e
nel racconto di lui le due forze divine si combattono. Il combatti-
mento assume, difatti, la parte più notevole perché il canto intiero
suona d'armi e perché nella lotta si rivelano a pieno tutti gli
aspetti dei due awersarii. Quindi, per l'esigenze del tema generale,
il mito adombra quei particolari di astuzia che supponemmo dedotti dalla
Grecia, e lumeggia bene ogni forma di violenza; riconducendoci per
obliqua via alla sua probabile foggia originaria: breve in ispecie
l'accenno allo spergiuro del ladro, che più si accosta al furbo
diniego di Ermes. Ma allora, quasi insensibilmente, il gravitar
dell'importanza su questo duello ne accresce le conseguenze e, insieme
col pretenzioso sfondo storico, le spinge al di là dell'origine di un
culto. Poiché il poeta vuol credere alla leggenda, e la pareggia
alla storia, in Caco con la belva muore la vita selvaggia, e dalla sua
fine principia non sol tanto il rito d'Ercole, con i Potizii e i
Pi- narii, ma la quiete per gli abitanti del Palatino. E il suo
cadavere trascinato per i piedi empie d'un'avida curiosità le menti e non
basta ad appagare i cuori, atterriti dal lor terrore morto; e i
fuochi spenti su le fauci somigliano un simbolo. Le lotte saran poi di
guerrieri con guerrieri. E sull’Aventino, ove ENEA contempla ancora
le tracce del passato, i contemporanei d'OTTAVIANO (si veda) scorgono
marmoree dimore. Parla Evandro ad ENEA: Guarda da prima questo masso
tra le rupi sospeso: e come lungi son sparsi i macigni, e deserta è la
di- mora nel monte, e rovinarono le pietre in frana. Qui fu la
spelonca, remota in suo immenso recesso, che il
semiumano Caco di feroce aspetto abitava non tócca dai raggi del sole ; e
sempre di strage recente era calda la terra ed affissi su la soglia
violenta pende- vano volti foschi di lurida tabe. A un tal mostro Vulcano
era padre, del quale atri fuochi dalla bocca recendo trascinava la sua vasta
mole. A noi bramanti il tempo alla fine recava soccorso, e l'avvento del
Dio. Infatti vendicator supremo Alcide giunse, di Gerìone
ucciso e deUe spoglie superbo, e i tori ingenti qui vittorioso guidava, e
la valle ed il fiume occupavano i buoi. Ma l'efferata mente bramosa di
Caco — a ciò che nullo delitto ed inganno inosato o intentato restasse
dal pascolo quattro di mirabile corpo tori distorna e altr'e tante di
magnifiche forme giovenche. Poi, perchè nessun'orma diretta vi sia, per
la coda li trascina nell'antro, del cammino capovolgendo
gl'indizii, e li occulta nell'opaca caverna. Traccia nessuna guidava
chi cercasse allo speco. Fra tanto, quando già dal pascolo il gregge
pasciuto moveva l'Anfitrionìade, e procacciava il partire, nella
partenza mugghiano i buoi e tutta di lamenti riempion la selva e con
clamore abbandonano i colli. Alle voci una delle giovenche rispose per
l'enorme antro mugghiando, onde deluse le speranze di Caco la
prigioniera. Allor per la rabbia il dolore d'Alcide d'atra bile
riarse: con la mano afferra l'armi e la quercia gra- vata di nocchi, e a
corsa raggiunge l'erta dell'aereo monte. Per la prima volta videro i
nostri occhi Caco pauroso e turbato. Fugge senz'altro più veloce
dell'Euro, l'antro raggiunge : ai piedi il timore presta le l'abigeato di
caco ali. A pena vi s'era rinchiuso, ed un immane macigno,
che per ferro e per l'arte patema stava sospeso, avea fatto cadere le
catene spezzando, e di quello munito le porte rinchiuse : ed ecco furente
nel cuore incalza il Tirinzio, e ogni accesso indagava, ratto qua e là
movendo, e digrignando i denti. Tre volte, d'ira fremente, tutto
perlustra il monte Aventino : tre volte le pietrose soglie in vano tenta
: tre volte, stanco, nella valle riposa. Vera, tra i diruti intorno
macigni, acuminata una roccia, a la caverna sorgente sul dorso, altissima
allo sguardo, sede opportuna a nidi d'inauspicati uccelli. Questa
che, prona, dal giogo a sinistra incombeva sul fiume, verso destra
all'incontro spingendo scrollava; da le profonde radici la strappa e la
svelle ; indi d'un sù- bito la scaglia con impeto onde risuona l'etra
gran- dissimo, sussultano le rive, e si ritira spaventato il fiume.
E lo speco, e di Caco la reggia immane appar scoperta, e l'ombrosa
caverna si mostrò nel profondo, non diversa che se nel profondo
spalancandosi per forza secreta la terra aprisse le inferne sedi e
di- schiudesse gl'invisi agli Dei pallidi regni, e dall'alto
l'immenso bàratro si scorgesse, e pel penetrato lucore tremassero i
Mani. Lui, colto improvviso da la inattesa luce e nella cava rupe
rinchiuso e per insolito modo ruggente, di sopra Alcide opprime di dardi,
e si vale di tutte le armi, e con rami l'incalza e con enormi macigni.
Quegli allora (non sopravanza difatti al pericolo scampo nessuno)
da le fauci, mirabile a dirsi, moltissimo fumo vomita, ed avvolge la casa
in caligine cieca, agli occhi togliendo il vedere, e nell'antro una
fumosa notte aduna, tenebre miste con fuoco. Non sopporta Alcide
'nel cuore, e con precipite salto si scaglia nel fuoco, là dove più fitto
il fumo volge sua spira e nel grande speco fluttua atra la nebbia. Qui
nelle tenebre afferra in stretto nodo Caco, che vani incendii rece,
compresso schiacciato gli esorbitan occhi e la gola si ingorga di
sangue. Si spalanca tosto, abbattute le porte, la nera casa: i buoi
rubati, la spergiurata rapina, riappajono al cielo, e il deforme cadavere
è trascinato pei piedi. Non possono placarsi i cuori mirando gli occhi
tre- mendi, il volto, ed il petto della mezza fiera, villoso di
séte, e su le fauci i fuochi spenti. Da allora gli si celebra
onore, e i posteri lieti ricordarono il giorno ; e primo Potizio institutore ne
fu con la schiatta Pinaria, custode del sacrifizio erculeo. Que-
st'ara Ercole eresse nel bosco, che massima sempre verrà detta da noi, e
massima sempre sarà. AVIRGILIO (si veda) sembrerebbe di poter fare
seguire senz'altro OVIDIO (si veda); che lo imita su questo punto
assai strettamente e ne finge anche il senso religioso e patrio, non
inoioportuni né l'uno né l'altro in quei Fasti ove si rassegnano le
feste sacre e nazionali di Roma. In realtà sotto una superficiale
simiglianza si cela ben profonda differenza. La vita artistica del mito,
pregnante in Properzio, rigogliosa in Vergilio, vi agonizza. Ce ne
accorgiamo prima dalla parola; che s'è esaurita, che non osa violare il
modello i^er rinnovarne le linee e si sforza imj)otente di mutarne
i suoni. Cosi che si perde nel vanto piccolo d'un nuovo vocabolo coniato,
allor che -- edizione Petee (Lipsia). l'abigeato di caco claviger è
detto con falsa audacia Ercole; si sminuisce nel gioco artificioso d'una
frase, quando è eletta a costituire un verso cosi: Dira viro facies,
vires prò corpore, corpus Grande; sorride bolsa nel bisticcio
etimologico Cacus non leve malum Non è più la finezza properziana e
la ricca concisione: è il lezio ricercato a far un poco attonito chi
legga. Ciò spiega poi anche la freddezza riposta di tutto il
racconto. Di esso l'occasione son le Carmentalia dell'll gennaio, e il legame
che alla cerimonia sacra lo congiunge è rappresentato dal nesso '
Carmenta-Evandro-Ercole-Caco. Carmenta difatti, e perché madre di Evandro,
e perché profetessa del culto erculeo, giustifica tutta la seconda
parte del carme ovidiano. Ma il legame è sottile. Carmenta, numen
pì-aesens della poesia, ne è lontana dal verso; e la sua lontananza
nell'essenza e nella forma (e nell'essenza persiste forse anche quando
cessa nella forma) sottrae parte della forza reKgiosa al mito: il
quale tutta l'avrebbe avuta, se rac- contato a proposito der sacrifìcio
ad Ercole nel 12 agosto. E parte similmente della sua forza
patria la fiaba smarrisce (inconscio il poeta) per il co- lore eh'
è dato alla figura di Evandro. Questi non è più, come in Vergilio, il re
che, ormai latinizzato, ajuta Enea, e appare nell'atto di celebrar un
sacro rito romano : è lo straniero, l'Ar- cade, giunto da poco, nuovo
alla terra, foru- scito dalla sua patria, il quale lia bisogno ad
apprezzar il Lazio dell'incitamento e dello sprone materno. Indi, senza
dubbio, la luce, per coerenza al tema, si addensa su la figura di
Carmenta; ma il figlio di lei se ne menoma. E menomato, stronca il
vigore nazionale del mito. Non solo : che ^ stabant nova tecta „ quando
Ercole giunse, straniero egli pure. Unico indigeno, Caco: ossia
proprio il personaggio odioso del racconto ; Caco terrore ed infamia della
selva aventina. Cosi una inezia apparente ha tramutato la situa-
zione. Ma l'inezia non sarebbe sfuggita all'ar- tista se il suo
sentimento patrio fosse stato, nei riguardi di questo mito, reale ed
efficace. In vece egli imitò Vergilio nella superfìcie; e all'artifizio
di tale imitazione sospese il suo racconto. Pur nella facile vena del
verso, nella sonorità scorrevole, nella fantasia corriva, l'artifizio
s'eleva ad arte. Ecco i bovi d'Eritia conduce colà il clavigero eroe
che del lungo orbe ha misurato il percorso. Mentre lui ospita la casa
d'Evandro, incustoditi vagano pei campi feraci i bovi. Il mattino
sorgeva, e desto dal sonno il Tirinzio pastore dal novero avverte mancare
due tori. Del tacito furto non vede, cercando, vestigia; le bestie
airindietro aveva tratte Caco nell'antro ; Caco, terrore ed infamia della
selva aventina, danno non lieve a l'abigeato di caco stranieri
e a vicini. Spietato è del forte l'aspetto, le forze rispondono al corpo,
il corpo ha grande. Del mostro, Mulcìbero è padre : per casa, ingente di
lunghi recessi ha una spelonca nascosta, che mal troverebbero fino
le belve. Teste all'ingresso e braccia pendono infisse: la terra
squallida d'umane ossa biancheggia. Con la mal serbata parte dei buoi, o
nato da Giove, ne andavi : diedero un mugghio i nibati con rauco suono.
" Ac- colgo il richiamo „ dice e, seguendo la voce, vincitor
per la selva all'empio antro perviene. L'adito quegli con un masso
strappato dal monte aveva munito, che cinque a stento e cinque avrebbero
smosso pariglie. Delle spalle questi si serve anche il cielo
v'aveva posato e il peso immane smuove crollando. L'abbatte, e il fragore
lo stesso etra spaventa ; da la pe- sante mole percossa cede la terra. Da
prima, venuti alle mani, Caco combatte, e feroce con travi e con
sassi sostien la difesa. Ma poscia che non n'ha vantaggio, ricorre,
mal forte, alle arti del padre, e fiamme vo- mita da la sonora bocca. Le
quali sempre che esala, crederesti che respiri Tifeo e che dal fuoco
dell'Etna ratto baleno si scagli. Alcide, incalza, e la vibrata
tri- nocchiuta mazza dell'avversario il capo tre quattro volte
percuote. Egli cade, e misto col sangue vomita il fumo, e batte morendo col
vasto petto la terra. Un toro fra quelli, o Giove, t'immola il
vincitore, e chiama Evandro con gli agricoltoii. A sé costituiva
quell'ara che Massima è detta : qui, dove una parte dell'Urbe ha il nome
dal bue. Né tace la madre di Evandro, che prossimo è il tempo, in cui la
terra abbia a bastanza goduto l'Ercole suo. Il gesto più
significante clie insieme compiano Livio e Dionisio (i due storici
dell'età di Augusto, i quali riferirono la leggenda di Caco) è la
di- chiarazione con cui rifiutano di accettare respon- sabilità per
quanto raccontano. Cosi si suol tramandare dice Livio; e richiama
tacitamente le parole del suo prologo: né di affermare né di negare
ho in animo. E Dionisio: " vi sono intorno al nume d'Eracle racconti
più favolosi, e altri più credibili. Il più favoloso è questo. E
vero che, nel gesto comune, Livio crede più di Dionisio ; tuttavia
entrambi hanno accettato l'opinione che il mito abbia un contenuto
storico (opinione la quale, come si disse dianzi, dovette prender
radice col primo insediarsi laleggenda sull'Aventino) ed entrambi si
pongono, e risol- vono male, il problema della sua attendibilità.
Anzi, per diminuire quasi l'importanza stessa del problema,
giunsero ad accrescerla. Se aves- sero riferito il racconto com'è in
Vergilio, né pur Livio, con la scarsa perspicacia critica che lo
segnala, avrebbe esitato a respingerlo tra le fa- vole. In vece essi lo
trovano attenuato presso i più antichi annalisti: lo rinvengono sotto
quella veste di fiaba si, ma umana, che vedemmo con- venirgli alla
fine delia sua evoluzione. Caco vale a dire,^non vome fiamma né è un
mostro. E (Ij Su Livio e Dionisio l'abigeato di caco un
uomo malvagio (xaxóg), un violento, un ladro : uomo. La possibilità
terrena informa la fiaba e non ammette sopra sé che l'eroico, Ercole
; onde le due forze divine avverse si spogliano del soprannaturale
e il valore del racconto pesa assai più sul furto che su la vendetta. In
questa difatti troppo palese appare la natura mostruosa di Caco,
troppo il padre mitico di lui si rivela nelle armi ch'egli usa. Un cenno
breve dà, cosi in Livio come in Dionisio, notizia della vittoria
d'Ercole. All'offesa serve la clava, arma d'eroe. Alla difesa dovrebbe
valere l'ajuto dei vicini ; ma il malvagio lo invoca in vano.
Resta, tuttavia, la fiaba. Il colore la tradisce, i buoi stupendi
di Gerione la palesano. Fuor dai nitidi periodi di Livio appaiono,
negl'incu- naboli di Roma, il fiume Tevere cosparso le ripe di
erbosi pascoli, ed Ercole dormiente nella queta ombra sotto il peso del
cibo e del vino. Sorge l'aurora, si svolge la ricerca inutile, la
vendetta ; poi una breve folla d'uomini vigorosi si accoglie
intorno a un'ara, consuma il sacrificio fumante, il banchetto ; su tutto,
il carme profetico di Car- menta. E l'aura favolosa si forma, oltre il
pre- ciso linguaggio prosastico, nel pensiero di chi legge. Resta
la fiaba. E nella trama della storia si tinge d'una gravità un po'
paludata, d'una serietà riflessiva, le quali non la soffocano affatto, si
al contrario l'abbellano di un candore ingenuo. Ma solo la
stessa arte di Livio può dare quel senso secreto -- edizione
Weissknbohn'^ (Lipsia). GLI STORICI Che Ercole in quei luoghi conducesse
dopo l'ucci- sione di Gerione magnifici buoi e che presso il fiume
Tevere, per dove aveva nuotando traghettato innanzi a sé la mandra, in
luogo erboso si giacesse, stanco egli stesso del viaggio e per ristorar
con la quiete e con un buon pascolo i buoi, si suol tramandare. Ivi,
come per la gravezza del cibo e del vino il sopore l'oppresse, un pastore
di quei dintorni, a nome Caco e di violenta forza, allettato dalla
bellezza dei buoi e volendo stornar quella preda, perché, se avesse
spinto all'inuanzi la mandra verso la spelonca, le impronte
medesime vi avrebbero addotto il padrone nella ricerca, trasse per le
code all'indietro verso la spelonca i bovi, quelli insigni per bellezza.
Ercole in sul far dell'aurora come, desto dal sonno, esaminò con gli
occhi il gregge e s'accorse che una parte ne mancava dal numero, si
diresse alla vicina spelonca, se per caso colà conducesser le impronte. Quando
queste vide tutte rivolte al di fuori né altrove dirette, confuso e mal
certo prese a condurre la mandra lungi dall'inospite luogo. Ma poi,
avendo alcune delle giovenche sospinte mug- gito, come accade, per
desiderio delle restanti, il risponder dalla spelonca dei buoi rinchiusi
rivolse Ercole. Lui che assaltava la spelonca Caco tentò di
rattener con la forza, ma colpito dalla clava in vano invocando
l'ajuto dei pastori cadde. Evandro allora reggeva quei
luoghi. Quest'Evandro, turbato dall'accorrer dei pa- stori
trepidanti pel forestiero reo di manifesta ucsione, dopo ch'ebbe udito il fatto
e del fatto la causa, scorgendo l'aspetto e i modi dell'eroe alquanto
mag- giori e più augusti degli umani, gli chiede chi mai Omesso in
parte il l'abigeato di caco si sia. Quando il nome e la paternità e
la patria ne apprese: nato da Giove, Ercole , disse salve! Che tu
avresti accresciuto il numero dei celesti pre- disse a me la madre,
veritiera interprete degli Dei, e che a te qui un'ara sarebbe stata
dedicata, la quale un giorno il popolo più opulento della terra
chiamerà massima e venererà secondo il tuo rito. Dando la destra
Ercole dichiara di accoglier l'augurio e di adempiere i fati, instituita e
dedicata a lui l'ara. Ivi allora per la prima volta con una stupenda
giovenca della mandra il sacrifizio di Ercole, attendendo al
ministero e al banchetto i Potizii e i Pinarii, che allora eran le
famiglie più insigni abitanti quei luoghi, fu celebrato. Ora accadde che
i Potizii fosser pronti per tempo e ad essi venissero imbandite le
interiora, i Pinarii giun- gessero per i restanti cibi ma già consumate
le interiora. Di qui rimase stabilito, finché la schiatta dei Pinarii
visse, che non mangiassero le interiora del sacrifizio. I Potizii istruiti da
Evandro furon i capi di quella cerimonia per molte età, fin quando
trasferito a pubblici servi il ministero sacro della famiglia,
tutta la schiatta dei Potizii peri. Tale, nell'insieme, è
Dionisio: se se ne toglie che Caco è per lui non un pastor ma un
predone dei luoglii; che Carmenta è mutata in Temide; che il ladro,
interrogato, nega la sua rapina ; che Ercole, prima che a sé, alza
un altare a Giove Inventore; e pochi altri particolari minori su la cui
natura e sul cui valore non è qui da dir nulla, poi che fiu'on
sopra vagliati. Se non che in Dionisio è, di più, una stanchezza che
Livio ignora. Si dilunga per due capitoli sopra un racconto cui non crede
affatto; scrive ciascun particolare, ma reputa di vedervi adombrato
un simbolo che rivelerà poi, con si- cumera da erudito certo di sé e del
proprio sapere (povera certezza in vero!). Eppure non è nervoso;
non sorvola né condensa: insiste e stanca. Il suo pensiero critico è
estraneo: si afferma all'inizio, si ritrae poi, non ricompare se
non alla fine : Intorno ad Ercole questo è il racconto favoloso che si
tramanda. Alla fiaba manca l'amore. I Razionalisti. Quando
alla fiaba manca l'amore, essa non può che singhiozzare i suoi ultimi
guizzi fra le stretto j e fatali del razionalismo. I don Ferrante
dell'erudizione romana trovarono il fatto loro» come i poeti in Ennio,
gli storici negli an- tichi annalisti, negli annalisti dell'età dei
Gracchi: Cassio Emina e Gneo Gelilo. Su la forma precisa del racconto che
si trovava presso l'uno e l'altro siam tanto jdoco certi quanto non
possiamo dubitare su la forma generale. Entrambi, abbandonandosi alla più
rigorosa critica razionalista, concordano nel ridurre il mito a un
gramo cencio per tramutarlo in realtà; ma si l'abigeato di caco
direbbe che il primo abbia l'occhio più tosto alla redazione
poetica della favola siccome ap- parve poi in Vergilio ed era apparsa
prima in Ennio, il secondo invece si parta più tosto dalla
redazione storica che con riserve riprodurranno Livio e Dionisio.
Cassio Emina difatti narrava un preteso " racconto veritiero „ ove
Caco appariva in qualità di servo. Suo padrone sarebbe stato Evandro,
il buono Evandro signore del cattivo servo. Cotesta concezione
fondamentale ci ritorna in due testimonianze, ma un po' diversamente:
presso il commentator di Vergilio Servio e il suo inter- polatore ;
e presso uno scritto L'origine del popolo romano^ opera probabile d'un
erudito del IV secolo che compilava con grami intenti storici.
Quest'ultimo solo cita Cassio per sua fonte; il primo sembra contaminarlo
con altre informazioni, ma certo non l'ignora. Per Servio adunque
(e chi l'interpola) Caco fu un uomo, soggetto al re degli Arcadi, che per
l'abitudine malvagia di devastare i campi col fuoco fu detto
vomitar fumo e fiamme dalla bocca. Il nome gli venne dal greco xanóg col
ritiro dell'accento^ come fu di 'EMvtj in Hélena. Ercole lo abbatté
ponendo fine al suo mal fare. Dunque: il rac- conto di Vergilio resta,
ma, ridotto Ercole a uomo forte e il fuoco di Caco a simbolo, è
tra- visato nella sua essenza. A tale effetto furono bastevoli tre
interventi del razionalismo: l'uno a spiegar e ridurre la natura
mostruosa del ladro, l'altro a legittimarne il nome, l'ultimo a
giustificarne i rapporti con Evandro. Più in là si spinge in vece
L'origine nell' attinger forse più compiutamente, certo in modo più esclusivo,
a Cassio Emina. Non solo Ercole è un uomo forte (il suo vero nome è
Recarano), e Caco uno schiavo ribelle; ma il furto è punito per autorità
di Evandro senza duello né lotta. I motivi razionali di questa notevole
soppressione son due : lo scrittore non aveva spiegato allegoricamente il
fuoco di Caco e doveva quindi sorvolare su la circostanza in cui più il fuoco
ha parte ; la qual necessità poi gli servi anche per metter in
rilievo la buona figura di Evandro e la giustizia di lui. Ma in cosi fare
egli si allontana dalla fiaba poetica molto più che non appaja Servio, se
bene come questo la tenga presente. Come però questa di Cassio Emina
doveva essere, rispetto ad Ennio, una considerevole riduzione del mito
fantastico nei termini della realtà possibile, ma, rispetto al racconto
degli annalisti più antichi, non era se non se un lieve i tocco;
cosi su questo racconto altri critici in- rtervennero assai più
profondamente. Ridurre il mostro a servo: ecco una trovata buona.
Ma m.utare l'uomo singolo in condottiero di eserciti: ecco uno spunto
ottimo per inquadrare meglio nella storia dei popoli anche la breve
favola. Quest'atteggiamento era assunto in Gelilo; e da un
contemporaneo di lui, per qual si voglia via, la derivò a sé Dionisio per
il suo più credibile racconto; edizione Jacoby (Lipsia). l'abigeato di
caco Quale capitano fra tutti fortissimo nei tempi suoi e
comandante d'un numeroso esercito, Eracle percorse tutta la terra
compresa dall'Oceano; abbattendo, ove c'ei'ano, le tirannidi gravi ed
aspre per i sudditi o le repubbliche violente e dannose ai vicini o i
ridotti di uomini dalla condotta selvaggia ed iniqui uccisori di
stranieri; instituendo in vece legittimi regni e savie repubbliche e
costumanze socievoli e umanitarie; collegando inoltre gli Elleni con i barbari,
i popoli marittimi con i continentali, che fin allora vivevano disuniti
e diffidenti; eostruendo città ne' luoghi deserti, deviando fiumi
che inondavano i piani, aprendo strade nei monti inaccessibili; e l'altre
opere compiendo, per modo che l'intiera terra ed il mare divenisse comune
pel vantaggio di tutti. Venne dunque in Italia, non da solo né conducendo
una mandra di buoi (né di fatti la regione è sulla via di chi si rechi ad
Argo dall'Iberia, né per aver traversato la contrada avi'ebbe meritato
tanto onore); ma guidando numeroso esercito per sottomettere e
dominare questi abitanti dopo avere ormai soggiogato l'Iberia: e a colà
permanere più a lungo fu costretto e dall'assenza della flotta phe
avvenne pel soprag- giunger dell'inverno e dal non accettare tutti
i popoli che occupavano l'Italia di sottoporsi a lui. Quindi è
narrata la sottomissione armata dei LIGURI, non che d'altri ; per
continuare: Fra costoro che furono superati in battaglia, si dice
che anche il favoleggiato Caco dei Romani, un re affatto barbaro e
signore di sudditi selvaggi avesse con Eracle contesa, perché occupando
luoghi forti era di danno ai finitimi. Costui, tosto ch'ebbe
appreso Eracle essersi accampato nella pianura vicina, con apparecchio da
ladrone attaccò in sùbita mossa l'eser- cito dormiente, e quanto del
bottino rinvenne incusto- dito caricandosene predò. Dopo però, stretto
d'assedio dagli Elleni, vide i presidi! conquistati a forza e fu
ucciso egli stesso nelle fortificazioni. Abbattuti i pre- sidi! di lui, i
territorii all'intorno presero per sé i seguaci d'Eracle e alcuni Arcadi con
Evandro. Quest'ultima asserzione rivela quanta libertà il razionalista si
arrogasse; fino a far giunger nel Lazio insieme con Ercole quell'Evandro
si- gnore degli Arcadi che la volgata afferma in- sediato sul
Palatino al momento del duello. Libertà intesa al servizio del vero
" secondo i filosofi e gli storici come s'esprime Servio, ossia
di quella critica, che conduce a creare, accanto alla favola più propria
una fiaba fittizia e grottesca : la fiaba dell'Ercole errante in
awen- tm'e cavalleresche, a liberare gli oppressi, render civili i
barbari, pacificar i nemici. Né del resto sarebbe cosi risibile un tale
sforzo verso il " vero „, né cosi miserandi apparirebber i
suoi risultati; se non gl'inquinasse una mal celata boria, un vanto
sicuro di superiorità intellettiva che è solamente sterile miseria.
Su queste rovine pochi poveri racconti si stre- mano ancora.
Evandro richiama con sé la figura di Fauno di cui era divenuto un
equivalente sotto l'aspetto di buona mitezza: Fauno attira il nome
di Latino, suo figlio : il sacrario di Caca suggerisce la storiella che
la dea abbia otte- l'abigeato di caco nuto il culto sacro
rivelando il furto di Caco, suo fratello. Poi, è il
silenzio. Singolare sorte della saga, in verità. Ricca di
densa materia; vissuta traverso il succedersi delle geniture in una
propaggine del vigoroso ceppo ario; maturatasi lentamente tra il Pala-
tino l'Aventino e il Tevere : ebbe nel II se- colo a. C. non pur la sua
forma poetica e la sua foggia istorica, si anclie soffri su quella
e su questa lo spruzzo livido dei razionalisti : per modo, che
sopra il quadruplice schema l'età più possente del pensiero romano,
l'augustea, non seppe se non disporre adorne trame di ben va-
gliate parole, ma di poco varii disegni. Onde il mito ebbe preclusa nel
sèguito ogni ulteriore vita : però che dovesse morire intero con
l'estin- guersi la potenza alla sua bellezza verbale. Cirene mitica
<i). Il sostrato storico. Ricamo magnifico, pel quale dedussero i
più eletti stami poeti, tra quanti furono nell'antichità, grandissimi, il
mito greco di Cirene e di Apollo, l'uno a l'altra amante, ha però
nella storia reale una sua trama di fatti concreti e in parte
sicuri, da cui deriva direttamente o indirettamente tutte le proprie successive
forme e in cui è da ricercare il motivo appunto di questa
evolventesi trasformazione. Se il Peloponneso, con due suoi luoghi in ispecie,
Sparta e il Tènaro; se Tera, l'isola che nell'Egeo sta a set- Per tutto
queeto capitolo vedi Vlndagine in libro II cap. IV. Nelle note successive
indicheremo solo i rispettivi paragrafi. CIRENE MITICA tentrione di Creta;
se la Libia, ferace di gregge e di frutti, costituiscono alla leggenda lo
sfondo geografico: certo fra questi perni essenziali si svolgono
gli avvenimenti, di cui gli uni trovano nella fiaba un riflesso e una
deformazione im- mediata, gli altri solo in modo mediato danno
impulso a talune vicende, determinano qualche figura, causano pochi
episodi! Grià in tempo antichissimo, intorno al secolo decimo a. C,
sciami di coloni s'eran condotti fuor dal Peloponneso in Tera,
costituendo a quest 'isola un' incancellabile fìsonomia dorica. Più
tardi sol tanto, presso che nel secolo VI, sembra Sparta abbia inviato
colà uomini suoi, a suggellare della sua particolar impronta il
carattere e la storia di quella breve terra. Ma fin dallo scorcio
dell'età precedente una mano di cittadini Terei abbandonava con ardire
la spiaggia patria per avventurarsi nel mare, oltre Creta, fino in
Libia. Comunque l'impresa nei particolari procedesse, quali che fossero
le fatiche sostenute e gli ostacoli superati, i coloni non posero in vano
il piede su la terra straniera : la quale divenne per essi fiorente di
fiore civile, prospera di ricchezza, famosa al mondo; da essi si
ebbe i suoi Re. Largo era dunque il volo con- cesso alla ricordevole
fantasia dei discendenti, perseguendo il tramutar delle sedi dalla
penisola Cfr. Beloch Griechische Geschichte; Bo- soLT Griechische
Geschichte : Malten Kyrene C Philologische Untersuchungen. a
l'isola, dall'isola al continente. E la lunga vicenda fu, come nella memoria,
cosi nel mito; ma quale è la realtà in cristallo iridato.
Però che la memoria fosse alterata da quell'am- pio patrimonio di
figure di\dne e leggendarie, il quale è pregio d'ogni stirpe greca, in
diversa misui^a; e giungendo alla s^Diaggia insueta recassero i Terei,
nell'anima, il loro spirituale pos- sesso di Dei di Ninfe di Dee : Numi
abita- tori del cielo della terra del mare. E allargato, di li a
non molto, già nel principio del secolo VI, fu ancora l'ambito dei culti
e delle figurazioni. Regnando difatti Batto II della stirpe che
prima aveva ivi instaurato il soglio regale, un notevole flusso di
nuovi coloni pervenne alla Libia, pervadendo e mischiando l' antica massa.
Giungevano dal Peloponneso, e tra essi gli Arcadi distinti per la lor
propria dissimiglianza. Griungevano dall'isole egee, e tra essi i Cretesi,
precipui per la loro importante sede. Rinnovarono la stirpe
corrompendone l'uniformità; apx)ortarono un soffio diverso e molteplice
ad alimentare di parole mistiche e di riti i sacri fuochi accesi dai
venuti prima. E furono per le vicende delle fiabe locali di efficacia non
piccola ; grandissima. Non soltanto perché apportatori di nuovi elementi
al racconto; ma anche perché, numerosi, costitui- rono a sé un
centro secondario di creazione e diffusione mitica, in antitesi al
principale, cui la casa regnante tribuiva più solenne sanzione e la
priorità donava un più schietto rilievo. Ond'era, Ebodoto da questi due
distinti gruppi del popolo greco in Libia formato, quasi per intiero, il
sostrato mitico delle leggende cirenaiche. Tuttavia, né
questo, che pur ora è stato detto, sostrato mitico, né quella, che fu
tratteggiata, realtà storica, sarebbero bastevoli a chiarire, soli,
le mature forme della favola di Cirene e Apollo; ove sfuggisse il centro
vero, il proprio crogiuolo, nel quale divenne creazione viva e
vitale, possente d'un suo secreto alito di pura bellezza, organata in una
palese e pur varia armonia, la massa confusa e diffusa che si sprecava
candescendo in poveri rigagnoli senz'ordine. Quel centro, quel crogiuolo
fu l'antichissimo san- tuario di Apollo in Delfi, già noto
all'epopea vetusta ch'è detta di Omero. Ivi la favola libica si
tramutò in mito greco: era d'una stirpe, divenne d'un popolo ; era d'una
regione, se ne im- possessò l'arte, universale. E l'arte fu
in fine la plasmatrice maggiore di quel mondo fantastico, cui diede
l'espressione con voci perenni. L'epica esiodea , l'ode pitica di
Pindaro, l'inno di Callimaco, il racconto di Erodoto, il carme
didascalico di Vergilio in- tonarono per quell'armonia le note. n.
— L' " Bea ., di Cirene e d'Aristeo. D drappello d'uomini terei che
s'insediava primo sulla proda del mare libico recava con sé,
principalissimo tra i suoi Iddii, idoleggiato con spe- ciale e insigne culto,
uno il cui doppio nome serbava ricordo di antica vicenda: Apollo
Carneo. Carneo era stato il Dio dell'età più antiche, venerato di
profondo e rispetto e amore fra i po- l}oli dori. Sol più tardi il nume
di Febo Apolline era sorvenuto, in uno slancio di prepotente predominio,
a fondere con sé, come quella che gii era per qualche carattere e
attribuzione simigliante ed afiine, la vetusta divinità dorica. E dalla
mischianza, per nulla inconsueta, eran nati il nome nuovo di termine
duplice, e la figura nuova in cui le linee primordiali soprav-
vivevano accanto alle ultimamente tracciate ; senza vero dissidio, a
causa della sostanziale contiguità dei concetti, il Febo dei Delfi
acco- standosi al Carneo dei Dori. E ad Apollo Carneo non fu, nella
terra libica, pretermesso il culto. Anzi, poiché dopo alcun tempo i
coloni trovarono nella patria nuova un'abbondante fontana da cui l'acqua
scorreva copiosa a fecondare il suolo riarso, a quel Nume appunto questa
sor- gente ricchezza delle glebe fu piamente dedicata. A torno il "
fonte di Apollo „, nel luogo ove conosciamo la città di Cirene, posò una
schiera di cittadini terei. Fra tanto, rapido era l'accostarsi de'
coloni alla stirpe dei Libi la cui compattezza venivan variegando
in un disegno ellenico: e come alla stirpe, cosi a' costumi, cosi alla
lingua. Appresero, per ciò, che la notevole polla chiamata dal Carneo
aveva pure, nella parlata indigena, un suo appellativo: era detta '^ Gira
„. Onde, presso a quel più greco, questo ijiù libico nome rimase. E
poiché alla fantasia per abitudine secolare si popolavan di Driadi gli
alberi e di Ninfe le sorgive, nell'acqua si vide abitatrice una
vergine fanciulla, diva del luogo: " quella di Gira suonò
l'espressione; e grecamente " Cirene „ (KvQi^vf], Kvqdva). E fu ella
quasi il simbolo, e certo il segno, del penetrarsi cbe il popolo indigeno
e il sopraggiunto venivan facendo ; e tanto più doveva apparir cara ai
Dori quanto più a' luoghi s'avvezzavano e le generazioni si
succedevano. Era destinata a compaginarsi per impulso crescente con essi
; cosi che nessuno stupisce di vederla scelta a riprodurre, direi eternare, in
sé l'opera che quelli spesero per adat- tare il paese e renderlo
quetamente abitabile. Fu difatti rappresentata qual Dea cacciatrice
(nÓTvia d-i]Q(òv) nell'atto di afferrare crollare abbattere un leone:
sola, E nell'atto fu in breve ferma per sempre, irrigidendolo come
in uno schema, fissandolo in un gesto tipico. Rimase. La
Signora delle belve e la Ninfa di Gira era, e per l'uno e per l'altro de'
suoi attributi, insen- sibilmente e inevitabilmente condotta presso
Apollo Carneo : protettore della fonte ov'ella abitava, e antico Dio del
popolo che simboleg- giava ormai ella. Divennero amanti divini ;
amanti li narrò il sogno nuovo. E cosi il nodo l' " EEA „ primo del
tessuto mitico s'era allacciato. In Libia si compievano le nozze ; e
Libia, l'eponima del paese, la divinità che dava al nome della
regione una grazia feminea, fu difatti la pronuba benigna e ospitale, cortese
di favori agli sposi. Il pensiero era in un felice momento
creativo : in uno di quei momenti in cui il volo non si tronca; e
non si perde, e né meno si smarrisce, la spinta prima. In quest'atmosfera
innovatrice, ove pareva urgesse il bisogno di costituire allo Stato
nascente un diverso patrimonio anche di leggende, fu sùbito còlta
l'analogia fra Cirene, che reprimendo le belve e prodigando l'acque
procacciava agli agricoltori quiete e abbondanza; Apollo Carneo, la cui
natura solare era, in guisa eminente, beneiica alle zolle ; e Aristeo, un
gio- vinetto iddio, il quale in Libia era giunto non sappiamo ben
d'onde. Egli era il caratteristico protettore dei campi ove crescon le
messi, dei pascoli ove erran le mandre e le gregge, degli aratori e
dei pastori. Tale si venerava in assai regioni greche, e fu presto
diffuso sopra un'am- plissima area : fino in Italia, fino in Sicilia,
fino in Sardegna, da un lato; fino in Tracia, da l'altro.
Nell'isole del mar Egeo aveva culto ; culto in Ar- cadia. che dunque
dall'isole si spingesse in Libia o che da l'Arcadia lo recassero i
venuti all'appello di Batto II ; egli fu là. E, sia per la natura
sua propria assimilantesi, sia per la legge, onde la fantasia greca è governata,
di non lasciar nume alcuno isolato ; come altrove s'era commesso con
Dioniso dalle feraci viti o con Ninfe indigene propizie agli aratri, cosi
nell'Africa si congiunse, e presto, con la coppia amante; av-
vicinandosi forse prima a Febo, a quella guisa che gli Arcadi lo dicevan
non pur Aristeo ma "Apollo Aristeo,,; o prima a Cirene: ad en-
trambi tuttavia divenendo figlio dopo aver ac- costato l'uno,
necessariamente. Portava egli con sé tutt'una serie di attributi e di
nessi, dei quali alcuni gli eran più intimi; altri più proprii eran
di paesi lontani, sua antica sede. Congiunto era con Agrèo, nume
cacciatore; con Opàone, cu- stode di gregge; con Nò mio, pastore;
x^ersino con Zeus padre. Né il dio delle terre coltivate poteva non
esser attinente, nel racconto, a Gea. la madre TeiTa; e alle Ore, le
fanciulle vario- pinte il cui corso regola la vicenda dei raccolti,
e allieta o attrista i contadini a volta a volta : attinenze indubbie, e
antiche certo, ma costitui- tesi s'ignora in qual luogo prima.
Spiccatamente però egli era tessalico : in Tessaglia è forse da
vedere fin la sua origine; di Tessaglia a ogni modo gli venne la sua più
speciale sembianza: dalla pianura fertilissima in Grecia. Onde è
pro- babile che ivi fosse da tempo unito con il " giu-
stissimo tra i Centauri ,,, Chirone: quegli mede- simo che, secondo
l'epopea, ammaestrò nella salutare arte medica Pèleo, e di questo il
figlio Achille, e Asclepio il sanatore eccellente di ferite. Accanto
dunque alla coppia d'Apollo e Cirene, la quale recava mischiati i suoi
caratteri delfici dorici e libici, il dio fanciullo era a preferenza
tessalico. niade Di questa situazione profittò accortamente chi ebbe a
elaborare il mito in Delfi o nel flusso letterario originatosi da Delfi.
Colà la leggenda in naturai guisa si riportava a cagione della
figura di Febo; sotto il supremo patronato del quale la favola ricevette
un più ampio svolgi- mento. Ma per ben comprendere di esso
l'origine e i modi, è necessario badare a quella ch'è dei
rifacimenti leggendarii delfici la più profonda, se ben forse più
riposta, caratteristica. Tendono tutti bensì, e in primissima linea, a
rilevar l'im- portanza del nume Apolline venerato nel locale
santuario; ma e tendono a intrecciare, sotto di lui, le fila di più e
diversi miti, ancor che sieno (e meglio se sieno) attinenti a diverse e
fin lon- tane regioni. Un esempio: per più punti simili, Asclepio
di Tessaglia e Apollo di Delfi, dèi sa- natori entrambi, dovevan
facilmente unirsi nel racconto, e spontaneamente Apollo aveva da soverchiar
Asclepio: orbene, a Delfi se ne trae lo spunto per trasportar nei piani
di Larisa e di Tricca il dio di Pito. Ardimento anche mag- giore
permetteva la favola africana: il Carneo di Libia e l'Aristeo di
Tessaglia favorivano l'orditura d'un'ampia tela fra due paesi lontani e
ben separati; la quale filo maestro contenesse Febo Latoide,
identificato già col primo e padre già del secondo; e come su punti
estremi si fissasse su la città di Cirene e su le vette del Pelio. E
tra Cirene e il Pelio Febo Latoide fu mosso, tra la sede dell'amata
e la sede del figlio. Cosi fatta opera era compiuta nell' " Eea „ di
Cirene e di Aristeo, appartenente all'epica detta di Esiodo. Due versi ce
ne giunsero, unici: " O quale in Ftia, donata di bellezza dalle
Cariti, presso l'acque del Pèneo abitava la bella Cirene „. Il resto del
carme si ricostruisce per congettura. Figlia del tessalo Ipsèo, re
dei Làpiti, e nipote del Penco, fiume locale, Cirene crebbe
vigorosa e animosa, strenua in combat- tere. Durante la lotta con un
leone la sorprese Apollo e, còlto da amore, si ebbe da Chirone la
profezia delle nozze. La rapi dunque e la recò sul cocchio aureo in
Libia, ove Libia la ninfa li accolse. Un bimbo nacque: Aristeo. Il j)adre
recò questo presso le Ore e Gea che l'allevarono e fecero di lui un
immortale simile a Zeus, ad Apollo simile, un Agreo cacciante, un
Opaone custode di gregge, un Nomio pastore. Tale lo schema breve
della fiaba. Ove si riconosce, senz'altro, il corteggio dei numi che nel
racconto penetrarono al sèguito del fanciullo tessalo Aristeo; e
sùbito si avverte il colorito libico riflessovi da Cirene; e né meno
s'indugia a inten- der perché, volendo insieme serbar intatto il
carattere tessalico del giovinetto e non cancellare l'episodio della sua
nascita in Africa, venisse alla madre attribuita prosapia fra i Làpiti
presso i Centauri. S'otteneva cosi, è vero, di raffigurar popolosi
di leoni queti piani della Tessaglia; ma qual poeta ha mai temuto
d'essere illogico '? E fuor di questo, la trama era pregevole per
molta armonia ; e sovra tutto per un'intima leg- gera grazia di tocco che
temperava con l'amore del dio la salvatichezza della fanciulla; per
una accorta sapienza prospettica nel disegnare le scene su lo sfondo
di due feracissime terre, onde senza contrasto si rilevava, ben
stagliato, in gesto benefico, il giovine Aristeo ; per un intimo
senso sacro in fine diffuso nel carme, traverso le parole di Chirone dal
molto senno e assai venerando, sino a dargli temperatamente un tono
religioso. Che stupenda, del resto, fosse la concezione,
dimostrò la sua vita ulteriore presso gl'imitanti poeti. Fascinati
questi, oltre che dall'aura di sogno emanante fuor della fiaba, anche
dalle lusinghe di cui eran ricche cosi la vecchia culla dei canti
greci, la Tessaglia, come la nuova fiorentissima colonia dorica, la Cirenaica.
Per l'una il mito si riallacciava alle tradizioni vetuste, per
l'altra si commetteva alle vicende di uno Stato. Ma era inevitabile che
questi due poli, ben armonizzati (all'inf uori della irrazionalità su i
leoni) dall'Eea, attraessero poi in modo palese cia- scuno a sé la
materia; e la Ninfa tendesse a divenire di qui quasi totalmente tessala,
a ridi- venire di là quasi esclusivamente libica. Due filoni se ne
originarono, non privi né l'uno né l'altro, all'origine, di tracce
lasciate dall'Eea, unica fonte primitiva; ma ben divergenti in
processo di tempo: l'uno che con Aristeo tras- porta sul Penco la stabile
sede di Cirene: l'altro che con Apollo rinforza e rincalza i tratti
afri- cani di lei. Su la via per la quale Cirene jDerverrà a
sta- bilirsi in Tessaglia la prima tappa è compiuta dall'ode pitica
nona di Pindaro, nel 474 a C, in onore del cireneo Telesicrate,
vittorioso nella corsa in armi La patria del vincitore cui il
canto è indiriz- zato dovrebbe far supporre che amplissimamente sul
racconto pindarico si esercitasse l'influenza libica. Fu, in vece,
limitatissima. E ben deve ridursi a un unico particolare. Ove l'Eea introdu-
ceva Libia accogliente gli amanti, Pindaro che conosce tanto questo
particolare e tanto lo ricorda da valersene nel suo carme (1), non esita
a dise- gnar in vece, nel principio del carme medesimo, la figura
di Afrodite dal piede d'argento: riu- scendo a un doppione. Perché ? Ad
Afrodite era dedicato un giardino in Cirene e a lei si ren- deva
culto con qualche importanza ; onde fu che la notizia regionale s'
insinuò non pur a modi- ficar la trama del racconto esiodeo ma a
dupli- carne un tratto. Accanto a questa ben lieve al- terazione
può esser posta un'altra, meno visibile, e dovuta a causa diversa. Apollo
era con Ermes strettamente congiunto nel mito; v'era tra essi quasi
un vincolo che ove Funo stava l'altro adducesse. Quest'attinenza fu il
motivo per il quale, in Pindaro, altrimenti da l'Eea, non Apollo, ma
Ermes ebbe a recare il recente nato Aristeo presso le Ore e Crea:
ufficio, a ogni modo, ben dicevole a lui. Delle quali intrusioni
però assai più notabile è la non compiuta au- dacia con cui il poeta
svolge la profezia di Ghi- rone. Contro di essa si ribellava la sua
coscienza religiosa e la sua dottrina, ove a ciascun Iddio eran
assegnati attributi fissi e certi da non vio- larsi da non obliarsi, ed
erano al tutto scono- sciute, riprovevoli, le confusioni le
incertezze dei primi canti divini. Già che, i^er esempio, Apollo
era, nell'essenza, l'onnisciente e profe- tante Nume, troppo illogica e,
diciamo, troppo antropomorfica risultava la scena in cui al Vate da
un Centauro vengono vaticinate le nozze. Sùbito lo vede Pindaro ; si
ribella, ma a metà 5 protesta, non totalmente. Dimostra l'inconsi-
stenza dell'episodio, poi lo accetta con un sorriso ed un sospiro. Fuori
però di queste tre deviazioni il suo inno riproduce l'Eea. Splendidamente
per vero. Voglio, con le altocinte Cariti Telesicrate procla-
mando, il Pitionica di bronzeo scudo, fortunato e prode, celebrare,
corona di Cirene agitatrice di cavalli: Questa un giorno dai ventosi
sonori antri del Pelio il chiomato Latoide rapi ; condusse Egli su
l'aureo cocchio la Vergine selvaggia là, dove d'una terra in gregge
ed in biade ferace l'institui Signora, ad abitar Edizione di Schrodeer (Lipsia).
la terza amabile fiorente radice del mondo. Accolse Afrodite dal piede
d'argento il Delio ospite, le divine redini toccando con mano lieve: e
per loro sul dolce letto gi'ato diffuse pudore, in comuni nuziali vincoli
l'Iddio mischiando e la figlia d'Ipsèo ampio possente: Ipsèo, re
allora dei bellicosi Làpiti, da l'Ocèano seconda genitura eroica ; lui un
tempo negl'incliti an- fratti del Pindo generò, goduto il letto del Pèneo,
la Nàjade Creusa, nata dalla Terra ; egli la figlia di belle
braccia crebbe, Cirene. La quale, né de' telai amava l'alterna vicenda, né
i gaudii delle danze fra casalinghe amiche ; ma, con bronzei dardi
e con spada lottando, l'ispide belve uc- cidere. E molta per vero e queta
pace ella ai bovi procacciava del padre, e poco spendeva del sonno
che, dolce compagno di letto, su le ciglia si stende verso
l'aurora. Sorprese lei un giorno, sola, in lotta senz'armi con
vigoroso leone, il lungisaettante Apollo d'ampia faretra. Sùbito dalle
sue stanze chiamò con grida Chirone: " Lascia il venerando recesso,
o Filiride, lascia ! l'animo d'una donna e la grande possanza stu-
pisci, quale lotta con impavida fronte sostiene, giovi- netta dal cuore
all'impi'esa più alto: di paura non le treman gli spiriti ! Chi lei fi-a
gli uomini generò ? da quale schiatta rampollata degli ombrosi monti abita
le caverne ? Forza illimitata manifesta in vero.. È lecito l'inclita mia mano
avvicinare a lei, e dal letto tondere il fiore dolcissimo ? ., A
lui il forte Centauro, con sopracciglio benigno chiaro ridendo, tosto il
suo divisamento rispose : Se- Nel V. 19 leggo òeCvcùv per óeljivoìv
col Bergk. crete alla savia persuasione sono le chiavi dei sacri
amori, o Febo ; e cosi fra gli Dei come fra gli uomini questo del pari è
pudore : palesemente il dolce letto la prima volta salire. Ma ora te, cui
non si conviene menzogna, mite desiderio indusse a parlare queste
finte parole. Tu, onde sia interroghi la schiatta della fanciulla, o
Signore? tu, che di tutte le cose conosci il fine e tutte le vie: e quante
di primavera germina foglie la terra; e quante nel mare e nei fiumi
da l'empito dei flutti e dei vènti sono agitate réne ; e quel che
sarà e donde sarà, ben vedi! Ma, se anche coi profeti bisogna gareggiare,
dirò : a costei sposo venisti su questa balza ; e oltre il mare devi
portarla, nell'in- signe giardino di Zeus. Donna di città ivi la
porrai raccogliendo l'isolano popolo sul colle c'ha cintura di
piani. Allora la diva Libia dagli ampi pascoli acco- glierà l'inclita
sposa benignamente nelle case d'oro ; parte della terra a lei tosto
donando, possesso comune, non spoglia di tutte fruttifere piante né
ignara di belve. Ivi ella un fanciullo genererà, da l'illustre
Ermes di poi ritolto alla cara madre, e recato alla Terra e alle
Ore di ben costrutto trono. Queste su le ginocchia al piccino di nettare
le labbra e d'ambrosia stil- leranno: lui rendendo immortale, uno Zeus,
un pui-o Apollo, delizia agli uomini diletti, un Opaone cu- stode
di gregge, un Agreo cacciante, Nomio pastore: altri lui nominando Aristeo
„. Nella pausa che succede a quest'inno, se ne sente inevitabilmente
refficacia anticirenaica. La più bella e la maggior sua scena si svolge
fuor di Libia, in Tessaglia; i progenitori tessalici della
fanciulla son rammentati; narrate le sue imprese virginali su le vette
ventose del Pelio; né il suo figlio pure s'indugia su la sponda
afri- cana. E tuttavia non per questi motivi, di per sé valevoli,
l'ode pindarica scema IL SIGNIFICATO PRIMORDIALE di Cirene; si perché,
continuando l'impulso dell'Eea, sanziona in lei, più assai che
l'eroina indigena venerata e creata da un popolo in uno Stato, la comune
divinità ellenica sposa di Apollo e madre di Aristeo, Apollo delfico e
Aristeo tessalico ; e le dà per tanto, come plinto alla sua statua,
l'Eliade; come credenti al suo culto, gli EUeni. A testimoniar
tuttavia, effìcacenaente, su l'origine vera della Ninfa resta la sua lotta
col leone: particolare di precipuo sapore africano. E questo pure
andò, in progresso di vicende, eliminato. Apollonio Rodio ne' suoi
Argonauti nel trattar da erudito la leggenda avverti l'in- coerenza
di quell'episodio che a due veri poeti era sfuggita ; e lo soppresse
senz'altro. Per lui. Apollo scorge la vergine in Tessaglia intenta
a custodire gregge e di li la rapisce, senza lo speciale motivo della
forza ammiranda di lei, in Libia. In Libia le ninfe sotterranee
(x&óviai vv/i,g)ai) li accolgono: le quali son, come tutrici,
numi del paese e occupano presso il nuovo poeta sapiente, cui la sminuita
fantasia e l'accresciuta dottrina tolgono d'intuire la bellezza nella
personificazione d'una terra, il luogo dell'eponima ninfa Libia. Apollo
poi recherà il nato Aristeo alle Muse, sue allevatrici: ove delle Muse
il concetto è attratto dalla fama del Latoide qual Musagète. Che
più resta della Signora delle belve e Dea della fontana? L'esiguo
accenno alle nozze compiutesi in Libia e al soggiorno duraturo della
sposa colà. La maggior luce è gittata su Aristeo, su la sua nascita e le
sue vicende ulteriori: l'africana, nel contesto, è un momento.
Contro questa general tendenza di Apollonio non starebbe che la
soppressione della profezia del Centauro. Pindaro, discutendola,
l'aveva serbata; egli, più razionale e men rispettoso, l'elimina. Ma appunto
perché a lui tutta la leggenda si presenta in un'aura tessala,
sente poi il bisogno di non perdere totalmente questa figura, cosi
dicevole al suo pensiero; e la ram- menta quindi, in altro luogo, come
partecipe all'educazione del Fanciullo pastore, insieme con le
Muse. Non più grande né più intenso poteva essere, sembra, l'influsso
della patria acquisita contro la patria e prima e vera. E fu
più grande e fu più intenso. Bastò che un poeta, Vergilio, riprendesse il
racconto, im- perniandolo, ancor più che i suoi predecessori, su
Aristeo. L'inevitabile avvenne. Dinanzi la memore mente dell'artista (o
della sua fonte) è il noto e diffuso episodio omerico di Achille
invocante nella passion dell'ira e dello sconforto la madre Tetide su la
riva del mare. Quando dunque egli ha narrato come il Fanciullo
perdesse il prezioso suo alveare, gli piace di figm^arselo nell'atto
dell'eroe epico ; e lo conduce verso la madre Cirene. Di questa l'Eea
diceva padre Ipseo e nonno il fiume Peneo. Con una assai piccola
libertà il j)oeta la dice figlia non di quello ma di questo ; e ottiene
cosi di farla abitare nel profondo gorgo paterno e di addurre su la
sponda della corrente acqua il Giovinetto afflitto da eccessivo
dolore. Non oblia Apollo, che a lui fa breve cenno; ma al fantasioso
innovatore del mito tutta la scena si transfigura. Nuovo sfondo è
il talamo recondito di Penco ove le Ninfe vivono. Aristeo
pastore fuggiva la ralle di Tempe penèa, perdute, si narra, per morbo e
per fame le api. Triste, fé' sosta presso il sacro capo del fiume ; molto
lagnandosi, e così invocando la madre: " Madre Ci- rene, madre, che
il profondo abiti di questo gùrgite, perché da preclara stirpe di Dei, se
(come dici) Apollo mi è padre, inviso ai fati mi generasti? o il
tuo amore per noi dove hai gittato? perché onori celesti sperar mi facevi
? Ecco : fin questi onori ter- reni, che a me alacre con pena procacciava
solerte custodia di biada e bestiame, ho perduti, te avendo per
madre. Or su or su : svelli di tua stessa mano le beate selve ! apporta
il nemico fuoco a le stalle ! distruggi le messi! i seminati riardi! e la
temprata bi- penne vibra neUe viti ! se tanto fastidio ti px-ese
della mia fama. La madre il lamento senti nel talamo del fiume
profondo. A lei d'intorno lane milèsie le Ninfe fila- vano, lane di
verdastro colore ritinte : Drimo e Santo e Ligèa e Fillòdoce, sparse le
chiome splendide su i bianchi colh; e Cidippe e Lieorìade bionda: vergine
l'una, esperta l'altra allora a pena i dolori del Georgiche edizione Hietzkl
(Oxford). Omesso il v. parto; e Clio e la sorella Bèroe. oceanine
entrambe, entrambe d'oro, di colorate pelli entrambe fasciate (1) ;
ed in fine, le saette deposte, la veloce Aretusa. Fra le quali Olimene
nan-ava di Vulcano la vana fatica e l'astuzia di Marte e i dolci furti, e
i frequenti anno- verava dal Caos amori di Dei. Or mentre nel
racconto rapite devolvon dai fusi i molli pennecchi, novamente il
pianto di Aristeo percosse le orecchie materne. Su i cristallini seggi stupirono
tutte. Ma innanzi a l'altre sorelle Aretusa a guatare dalla suprema onda
il biondo capo levò. E da lungi: di tanto gemito non
atterrita in vano, Cirene sorella : egli stesso, la tua massima
cura, Aristeo! , tristemente lacrima presso l'onda del tuo padre
Penco : e te chiama crudele , . Allor percossa la mente di nuovo terrore
la madre: Conducilo, or su,
conducilo a noi; è lecito a lui toccare le soglie di- vine ,. E insieme,
al profondo fiume comanda di lasciar per V ingi'esso del giovine adito
largo. Lui l'onda ricinge, ricurva di montagna in guisa, e nel
vasto seno lo accoglie e sotto il fiume l'invia. Già la sede della madre
ammirando, ne andava egli, e gli umidi regni, i laghi rinchiusi in
spelonche, i risonanti boschi ; stupefatto da l'ingente moto dell'acque
tutti osservava i fiumi sotto la grande terra fiuenti. Dopo che fu
sotto il redine pomicoso tetto del ta- lamo giunto, e conosciuti lievi
ebbe Cirene i pianti del figlio ; alle mani danno le sorelle a vece
limpida l'acqua ; mantili recano di tonduti velli ; gravan di cibi
le mense ; colmi calici dispongono. Odoran gli Omesso il v. Omessi i vv.]
altari d'arabi incensi. E la madre: " Prendi, dice, la tazza di
meònio bacco. Libiamo a l'Ocèano „. E insieme, prega ella l'Oceano padre
delle cose e le Ninfe sorelle, che proteggon cento le selve, e i fiumi
cento. Tre volte del liquido nettare cosparse il fuoco ardente ;
tre volte la sottoposta fiamma al sommo del tetto avvampò.
Mentre duran le cure ninfali, noi indugiamo a convincerci d'esser
tuttora dinanzi a una stessa Cirene. In realtà, d'identico non rimase che
il nome. L'Eea aveva posti accanto, creando una scena singolare, la
Ninfa vincitrice del leone, Apollo ammirato, e il Centauro in atto
profetico ; ed era stata, in cosi fare, scaltra ed ingenua. Pindaro
piomba su la scena col suo volo rapido di aquila: con Chirone si
corruccia e si tra- stulla ; par clie debba annientarlo con un
colpo d'artiglio della sua fede evoluta; ne cava in vece un motteggiatore
ironico del Dio, e ne fa un epi- sodio marginale, quasi comico, e un poco
inoppor- tuno : — ma Apollo e Cirene pone l'uno dell'altra a
fronte; e sopr'essi non l'amore, non tanto la cupidigia, quanto la
Necessità, onde debbono unirsi, onde il Nume s'è recato su quel poggio
montano, e ha da portare la selvaggia nella terra dei Libi. Anzi, la
Legge, che è la prota- gonista men palese e più reale del duetto,
de- termina essa sola l'episodio centaureo che segue, e gli dà,
essa sola, quel contenuto da cui è sce- mato e quasi annullato il comico
inevitabile. Sicché la Pitia addensa la materia vasta del- l'Eea,
nel nodo di un momento: ma uno di quelli che la sorte prepara e rende
decisivi nei secoli. Due Muse austere, di Storia e di Reli- gione,
han toccato le loro ardue corde su l'arpa •ttemplice. VIRGILIO
(si veda), e tanto tempo era trascorso! fu più indipendente nel trasfonder sé
entro il mito. Si rammentò dell'ombre fresche sotto cupole silvane
; e gli fu nel cuore la bramosia con cui aveva assai volte spinto il viso
nei misteri li- quidi dei fiumi e del mare, fin sotto là dove il
Sole non giunge. E negli occhi gli fu l'imagine che è nell'acque: la vita
delle rive, capovolta sopra uno sfondo d'inconsistenza e di fuggevolezza,
l'uomo nel divino. E l'uomo fu il VIRGILIO (si veda) georgico. Quindi bellezze
carnali soffuse di grazia e immerse in un pudico garbo di colori e
di movenze; costumi domestici di fusi e di conocchie, uso agreste di
vivande parche e di sacrifizii larghi ; tranquillità villereccia di
rac- conti, e brio, salace forse, non lubrico, di aneddoti e
facezie. Sovra ogni cosa, poi, assemprato dallo stillar non triste delle
grotte sotterranee, dall'umidore non nocivo di margini erbosi, sovra ogni
cosa, il pianto, un po' futile, di Aristeo, e le bambinesche
imprecazioni, e lo spavento, non estremo, della madre, e il racconsolo
ultimo, flebile ancor esso. Questo tono, appunto, flebile, questo
sapor non ripugnevole di lacrime, nel recesso romantico, nega, da solo,
l'antico mito della Cacciatrice, vigorosa senz'arme in contro alla
belva, lo nega nell'origine e nell'intimo, più che ogni variante di
particolari o differenza di luoghi o contrasto di episodii. C'è aria di
Man- tova; non, come in Cirenaica, calura di ghibli conscio di
ruggiti; non, come presso Pindaro, impetuoso vento del Pelio. Il mito è
diverso. Molle e prolisso nepote di un avo ferrigno e
conciso. Ma è necessario non dimenticare che di tanto trapasso, se
il terreno è lo spirito vergiliano, la radice è l'aver posto nell'acque,
non più della sorgente Gira, ma del paterno fiume tes- salo, colei
clie i Dori avevan veduta sterminare le belve, e procacciar pace agli
aratori nel franger glebe. Ed è, questa, si rammenti anche, l'estrema
foce della vena mitica clie, dall'Eea, trovò in Aristeo la sua origine
prima e il fti'inio motivo ; questo è l'ultimo effetto dello
spostarsi la materia mitica dall'un polo, la Libia, all'altro, la
Tessaglia. Narra in vece Acesandro, storico cireneo vissuto come,
regnando in Libia un Euripilo, da Apollo fosse in Libia trasportata
Cirene; e come, poiché un leone infestava il paese, Euripilo offrisse
in premio a chi uccidesse la belva il regno. Cirene l'abbatté, e
ottenne il trono. E press'a poco identico è il racconto d'un altro
storico, Filarco. Entrambi adunque lumeggiano a preferenza
l'aspetto libico della Ninfa. E fin l'episodio, culminante, della lotta con il
leone avviene dicevolmente, non in Tessaglia, ma in Africa, a
difesa del paese e per iniziativa di un re indi- geno, Euripilo. Né
cotesta è accorta correzione di eruditi ra- zionalisti. Il contesto
medesimo ci appare difatti negli esametri martellati d'un poeta cireneo:
di Callimaco; segno che la fiaba possiede, come una non dubbia
energia vitale, cosi radici assai vaste e assai profonde nel territorio
cirenaico. Di Apollo e Cirene egli abbozza, nel suo Inno ad Apollo^
rapidamente un quadro che ha per sottinteso un racconto analogo a quel di
Ace- s andrò. In verità molto fu lieto Febo, quando i succinti
se- guaci di Bellona tra le bionde figlie di Libia danzarono, il
sacro tempo ad essi venuto delle Cameadi. Non ancor potevano alla fonte
di Gira accostarsi i Dori; ma la fitta di boscaglie Azili abitavano. Essi
riguardò il Signore, egli stesso, e alla sua sposa additava : sul
colle dei Mirti dove la figlia di Ipseo uccise il leone, infesto
d'Euripilo ai buoi. Di quella più gradita danza non vide ApoUo mai; né a
città alcuna tanto giovò quanto a Cirene, memore dell'antico
ratto. L'antico ratto è quel medesimo narrato dal- l'Eea e da
Pindaro ; ma il racconto di Callimaco, come quello di Acesandro, è da
l'Eea molto lon- tano. Siam bene in Libia ; bene è lungi la Tessaglia; e
il leone rugge da vero su le sabbie del deserto. Per che modo e traverso
che vicenda si giungesse a cotesta forma della saga, che due Il
testo di Callimaco è del WilamowiTz^ (Berlino). Domina la fontana di
Gira. CIRENE MITICA storici e un poeta indigeno ripetono
analoga- mente, è indicato, nel medesimo carme calli- macheo, dal
processo del pensiero artistico. Un gruppo di giovini si fìnge,
nell'inizio, rac- colto in un recesso ove son palme e allori, gli alberi
di Febo Apolline; e nelFaria sta, grave e dolce, il senso sacro del Dio
imminente. Oli quale di Apollo croliossi la fronda d'alloro, quale
tutto il recesso ! Lungi lungi l'impuro ! Già già a la porta col bello
piede Febo percuote. Non vedi? Stormi dolce lene la Delia palma d'un
sùbito; il cigno nell'aere soavemente canta. Da soli or disserratevi
pa- letti dell'uscio; da soli, chiavistelli : però clie il Dio non
è juii lontano. Giovini, al canto ed aUa danza or vi ap-
parecchiate! Apollo non a tutti appare; ai generosi, pure. Chi lui
scorge, è grande; chi non lo vede, pie- colo è quegli. Noi ti vedi'emo o
Lungisaettante ; e non mai saremo esigui. Nell'èmpito di
ardore sacro e, più, poetico che trascina Callimaco , alquanto si svolge
cosi da prima il fervoroso esordio ; il quale non è tuttavia vano,
ma serve a preparare, animan- dola della sua vita illuminandola del suo
lucore, la lauda che vi si farà poi del Dio e l'enume- razione
delle bellezze di lui e degli attributi. Egli è Nomio, nei pascoli. Egli
è l'Ecistère, fon- dator di città. Quadrienne pose le fondamenta in
Ortigia. E Febo anche la mia città ferace [Cirene] a Batto
indicò : corvo, fu guida al popolo che
si recava iu Libia, propizio al colono : e fé' giuramento di mura
donare ai nostri Re. Sempre buon giuratore è Apollo- La città di Callimaco
è dunque fondata, egli dice, dal Latoide e sotto la protezione di lui
re- stano i Sovrani. Quest'è fra il Dio e Cirene una attinenza
nuova e diversa, clie non avevamo fino ad ora conosciuta. Apollo non è lo
sposo di una Vergine cacciatrice, ma il fondatore della città che
di quella lia il nome: si che accanto al nesso pindarico del Nume e della
Ninfa amanti, si dispone quest'altro nesso, diverso. Ed è la prima
novità che ci sorprende. Una lunga parentesi segue poi in cui si
rintracciano le sedi del culto di Apollo Carneo: Apollo, molti te chiamano
Boedromio ; molti Clario; ovunque a te sono assai nomi. Io però
Carneo te chiamo : mi è patrio costume cosi. Sparta, Carneo, fu la tua
prima sede: seconda Tera: terza poi Cirene. Da Sparta te il sesto
rampollo di Edipo conduce alla colonia Tera; da Tera te il sanato Aristotele
recò in terra d'Asbisti e splendido ti eresse un tempio , un'annua
cerimonia in città istituendo, in cui molti fan l'estrema caduta su
l'anca per te tori, o Signore. 'l'j 1^ Carneo molto pregato! i tuoi
altari fiori in primavera recano, quanti variopinti le Ore adducono
mentre lo Zefiro spira rugiade: dolce croco, l'inverno. Sempre a te è
fuoco perenne ; né mai la ce- nere rode carbone di jeri. Cfr.
Erodoto e il sèguito del nostro testo. Traluce qui nella vicenda del
culto al Carneo la realtà storica dei coloni dori mossi da Sparta a
Tera nel sec. VI e, nel VII, da Tera in Libia: vanno, e li segue il Dio.
Appare qui, di più, quel " sesto nepote di Edipo „ e
quell'Aristotele che avrebbero, a punto, contribuito ai due
trapassi. Ed è la novità seconda. Sùbito appresso vengono dal poeta
indotte, figure prime su la scena, Apollo e Cirene sul colle dei
Mirti in atto di contemplar, vedemmo dianzi, i coloni Dori danzanti tra
le fanciulle libiche: sùbito appresso, dunque, al brano in cui Cirene
è asserita colonia di Apollo, e allo squarcio dove dal Peloponneso a Tera
e in Libia vien perseguito il culto di Carneo e il trapasso dei
Dori. Comprendiamo allora da tale succedersi dell'imagini, che
l'Euripilodi cui la Ninfa avrebbe quotato il regno deve essere in
rapporto mitico appunto con quei due spunti favolosi poco prima,
più che svolti, accennati: con la fondazione di Cirene per opera di
Apollo; e con le migrazioni dei coloni dal Peloponneso, traverso Tera,
in Libia. Comprendiamo che al racconto più prettamente libico su la
Signora delle belve è prefazione una saga su l'origine di essa colonia
cirenaica, saga in cui è da ricercare la causa di quello. Ed è da
ricercare, anche, il motivo per che la coppia di Apollo e Cirene s'aderge
qui, su quel suo colle dei Mirti, con un'energia nuova, che non è
la pindarica e oltrepassa l'Eea. Da prima di fatti genera maraviglia che
in un carme reli- gioso, qual'è l'Inno in apparenza, si rilevi
assai meno che in un epinicio quel rispetto austero e insieme
divotamente inchinevole il quale costituisce Tanima della scena pindarica.
Eppure tutto l'Inno parrebbe mosso da quel medesimo vento che, dal
Nume, agita la palma delia e la fronda peneja. Non è. Un sentimento
vivace spira, bensi; ma è patriottico: è del cittadino verso chiunque,
e sia dio, protegge le mura della sua Città e il trono dei suoi Re ; non
del fedele verso (luel solo, ed è Dio, da cui è rapito
nell'assoluto. Quindi il breve componimento si spezza in due parti
diverse tenute insieme, male, da un elenco dei pregi e degli attributi di
Apollo. La prima di quelle parti è mossa da una contenuta esal-
tazione patriottica che si veste, abito non suo, del i^aramento
religioso, si schematizza nella scena rituale: ivi Callimaco non sa
trovar che scarsa armonia di struttura, e abusa di formule innovate
sol con sapienza verbale. La parte seconda, in vece, lascia prorompere la
stessa esaltazione patriottica, ma questa volta verso espressioni sue proprie
ed adeguate: ivi è la glorifìcazion della patria nel suo bel passato.
L'artificio si discioglie in arte. Ma il bel passato della patria
Cirenaica è la leggenda. E la leggenda bisogna a noi oramai,
sospettatala, rivivere tutta. Euripilo ed Eufemo. Regna in
Cirene una famiglia, la quale, per ricorrere in essa il nome Batto e per
esser ritenuto un Batto primo re del luogo, era
detta I dei Battiadi. Di quel primo sovrano si serbava
memoria, e accanto al più vulgato si ricordava un altro nome: Aristotele.
Anzi era sorta in qualche maniera a questo proposito una leggenda
etimologica: avvicinandosi cioè Batto al greco verbo ^atTaQi^o)
(balbettare) si raccontava d'una sua balbuzie dalla quale avrebbe avuto
il nomi- gnolo (1). Ma ben più su di lui si spingeva la genealogia
fittizia dei Battiadi ; a simiglianza difatti d'altre molte case
regnanti, sostenevano essi di scendere da un eroe : un Euf emo, che
rite- nevan figlio di Posidone e di stirpe beotica. Qua- lunque
valore tal j)retesa avesse e comunque si fosse originata, a ogni modo raggiungeva
lo scopo di collegare i Re con un Dio: scopo, si sa, non
infrequente in fra i Sovrani. E poiché tra la Libia e la Beozia un nesso
era tutt' altro che palese, fu facile lasciar in breve cadere
nell'ombra il particolare della patria di Eufemo o, per lo meno, non accentuarlo
con insistenza (2). Ottimo appiglio inoltre era quell'Eufemo, a fin
di compiacere un desiderio che diremo non illegittimo per regnanti.
Bisognava, per rendere più sacrosanta più fatale la signoria de'
Battiadi in Libia, che qualche avvenimento degli antichissimi tempi, di
tempi narrati nelle epoi^ee dai cantori di eroi, non pur la
giustificasse, si anche la rendesse a dirittura inevitabile. E se
già Eufemo fosse stato su la spiaggia africana, ben poteva quello essere
il punto in cui il Fato Studniczka Kyrene (Leipzig) 96. ineluttabile
toglieva inizio, e si stringeva il nodo primordiale delle vicende future.
Cosi piacque loro di imaginar la fiaba. Sono questi i due
dati (l'Eufemo capostipite, l'Eufemo in Libia) su cui deve aggirarsi
tutta la tradizione della colonia cirenaica. Ed entrambi seppe
assai opportunamente disporre svolgere e compiere quella fucina medesima
che aveva fog- giato l'Eea di Cirene. E fu con gli stessi modi e
risultati analoghi. Come allora si vide la grezza materia indigena
imprimersi di uno stampo ellenico e assimilare in sua roventezza
talun'altra fiaba estranea; cosi si scorge ora il territorio
leggendario dei Greci spigolato a favore e di Eufemo e dei Battiadi suoi
nepoti. E d'Eufemo questa è l'Eea, la quale risponde, abilmente, a
due domande: con chi e quando fu in Libia Eufemo, il figlio di Posidone?
quali vicende traversarono e quali vie tennero i discendenti di
lui, fino a Batto, per raggiunger la Libia e compiere il fato? Alla
prima dimanda fu sodisfatto con un antico spunto mitico, assai propizio.
Si racconta che gli Argonauti compagni di Griàsone ìran giunti, in certo
punto del loro viaggio, al [lago Tritonio {Ufivri TQiTùìvig), ove
sarebbero stati impacciati nel proseguimento. Cotesto lago 'era
quello ove venne detersa Atena nascente da Zeus ed era riconosciuto poi
(prima indipendente da luoghi concreti) nella palude ch'è presso la
piccola Sirte, nell'odierna Tunisia: all'estremo limite occidentale,
verso l'occaso del sole. Quivi sarebbe apparso loro il dio del luogo
Tritone e, placato col dono d'un tripode, avrebbe
ammae- i strato gli eroi su la via da tenere fuor
dalle strette. Episodio dunque atto quant'altro mai a favorir qual
si voglia racconto di anticM soggiorni greci in Africa. Quando, ad esempio,
lo spartano Dorieo tentò di colonizzare quei luoghi, la novella fu
rinverniciata a prò di lui cosi: dopo aver ricevuto il dono e aver
ajutato i naviganti, il Dio profetò che il tripode rinvenuto da un
discendente degli Argonauti avrebbe determinato presso il lago la fon-
dazione di cento città greche. Malauguratamente Dorieo falli nel suo
tentativo, non lungi da Tri- poli, al Cinipe, fiume tra le due Sirti: e
il tripode non fu rinvenuto perché le cento città non crebbero. Ora
in modo analogo procedette TEea in grazia dei Battiadi. Per essa gli
Argonauti sarebber pure giunti alla palude Tritònide ; ma a un'altra del
medesimo nome: a un lago chiamato cosi presso l'odierna Bengasi (si
pen- sino i '' laghi salati „), in temtorio dunque della Cirenaica.
Inoltre colà si presentò loro non Tritone, ma un diverso nume: Euripilo (2). Il
quale è, come la sua denominazione significa, il Dio della "
larga porta ,, infernale ; molto diffuso in vero tra i Q-reci e
localizzato di preferenza, qual divinità ctonia, presso grotte e antri
ove la volta rocciosa s' inarchi su la buja ombra. Cosi appunto
vicino ai laghi salati s'apre la bocca orrida del Gioh onde le acque
profluiscono fuor dalle tenebre alla luce : e chi vi si avventuri non
può far all'oscuro lungo viaggio su l'onde, che Erodoto. ben presto la
fiaccola è troppo scialbo chiarore, e v'è al corpo concreto delFuomo
esiguo spazio, molto alle fantasime deirimaginazione spaurita. I
Dori scorsero i\'i la voragine dell'Ade e sentirono ivi presente il dio
Euripilo. Lui dunque addussero al prossimo lago Tritonio e lui nar-
rarono farsi incontro ai compagni di Griasone in luogo di Tritone. Con
una variazione poi del motivo originario, egli fu fatto donare una
zolla non ottenere un tripode. Chi la ricevette? Eufemo. L'avo dei
Battiadi fu imaginato per tanto Argonauta allo scopo di poterlo far
x)aTtecipare al \'iaggio che doveva sanzionare il dominio dei suoi
favolosi discendenti. Non vano dono in vero, né inutile a chi Tebbe tra
mani I però che fosse fatidico e necessitasse molte vicende
av\'enire. D'Eufemo i nepoti toccheranno come lui quel lago,
ritorneranno nelle terre di Euripilo. Per quali cammini? Era la
dimanda seconda. Alla risposta forniva argomento anzi tutto la
realtà della storia: il Peloponneso, l'isola di Tera, la Libia (le tre
tappe storiche de' coloni Dori di Cirenaica) dovevan essere almeno i
tre punti obbligati e le tre tappe della via compiuta dai
discendenti di Eufemo. Ad esse tre una quarta ne aggiunse il mito : poiché
Eufemo era di- venuto Argonauta, e già l'epopea omerica co-
nosceva, come sede temporanea di Griasone e dei compagni di lui, l'isola
di Lemno, di fronte a la costa trojana e all'apertura dell'Ellesponto
(Dar- danelli). Accettate e fissate queste come pietre miliari su la
strada, ancora bisognava addurre i motivi per i quali i nati da Eufemo
dall'una all'altra di quelle sedi si trasportassero: e i mo- tivi
dovevano tutti accogliersi e disporsi intorno alla prima causa e
centrale, il dono della zolla d'Euripilo. Eufemo dunque dalla Libia,
rice- \aita la piota africana, si recò con i navigatori iVArgo in
Lemno e con essi là procreò, giusta il mito assai vetusto, da l'isolane
donne una schiatta nuova. Questa aveva ora da recarsi nel Pelo-
ponneso e da toccar quella Sparta che inviò pure una colonia a Tera; ma
perché? A giustificare si disse che nel Peloponneso era la patria
di Eufemo; e poiché Posidone gli era, nella leggenda, padre e poiché al
capo Tènaro Posidone aveva, coll'appellativo di Greàoco e con
valore di divinità ctonia, rinomatissimo culto, ivi fu asserita la
propria sede di quello. Ciò non era senza incoerenze : al contrario,
Eufemo {£v(prifiElv) non aveva fin allora avuto carattere alcuno di
nume sotterraneo, e gli fu tribuito; era precipuamente beota, e diventò
tenario; non godeva di venerazione presso il Geaoco, e vi venne
imaginato. Ma l'incoerenza non è, com'è noto, affatto l'eccezione non pur
nell'arte si anche nel mito. E qui ben trascurabile riusciva : di
fronte al risultato, raggiunto, di spiegare il viaggio da Lemno al Tenaro
come un ritorno nei luoghi del packe. Ed eccellente riusciva : per
il vantaggio, conseguito, d'innestare nel racconto le relazioni fra gli
Eufèmidi e Sparta, come con quella ch'era al Tenaro non lungi. Inverati
or dunque questi primi due scopi, era d'uopo con pari arte
legittimar l'approdo in Tera. E qui lo spunto fu favorito da un aneddoto
epico. Odisseo na\dgante con l'otre di Eolo, ove tutti i maligni
vènti eran raccldusi, fu tradito nel sonno dai compagni; dai quali
sciolto l'otre contro il di- vieto, la nave rifuggi da la pietrosa
Itaca. Similmente l'Eea narrò che su VArgo la gleba d'Euripilo, ben
custodita dai servi, era poi stata, in un istante di men vigile
attenzione, travolta dall'acqua del mare: sin che, su l'onde e le
correnti, pervenne all'isola di Tera. Per ciò, non essendo essa da Eufemo
stata recata sul Tenaro nella sua patria, ma dai flutti all'isola,
da l'isola non dal Tenaro partirono i coloni. Ma se cosi fatta partenza era
voluta dai fati, il segno ne fu offerto e il momento scelto per
opera di Apollo nel suo santuario delfico. Colà essendosi Batto recato a
cagion della sua mal sicm^a voce {§aTxaQÌl,o)), n'ebbe 1' ordine espresso
di colonizzar quel tratto della spiaggia africana : ove sarebbe guarito
dell'ingrato difetto. Lode dunque, ben meritata, al Dio. Ultima
invenzione questa che rivela il luogo ove la leggenda degli Eufemidi si
elabora e fa d'improvviso su tutte le vicende camjjeggiare Febo ; ma che
si riconnette assai bene con la figura del Latoide in qualità di
Ecistere o colonizzatore, siccome già rinvenimmo in Callimaco. Il calcolo
poi genealogico fissava nella quarta generazione dopo l'Argonauta
l'abbandono del Peloponneso; nella diciassettesima la spedizione verso la
Libia. Con la qual serie di invenzioni episodiche l'Eea Odissea v.
46. Malte. aveva alla fine assolto anche il secondo tra i suoi due
compiti fondamentali. Essa era dunque intessuta sovi^a un canovaccio
dall'apparenza assai più logica che fantastica; ciascuna delle sue
trovate secondarie era indi- rizzata a un ben preciso fine e sodisfaceva
a un bisogno del ragionamento; al ragionamento ai suoi scopi alle
sue esigenze eran subordinati i particolari, anche minuti, inerenti agli
eroi e alle sedi loro. E tuttavia quell'era opera di eccellenza poetica.
Queste, che pajono a noi am- bizioncelle dinastiche e pretese mediocri ;
questi, che ci sembrano fini pratici non artistici: eran nella
realtà stimoli possenti della fantasia ; la quale, obliando ben jjresto
l'origine delle sue imagini e il termine, spaziava poi nel suo
proprio regno da inconcussa signora. E la bella favola, creata,
ignorava il compenso del suo mercenario creatore. L'accortezza medesima
con cui vi si profìtta di analogie nominali per accostare, ad
esempio, Eufemo traverso Posidone al Tenaro; la prontezza con cui vi si
sfruttano i vecchi motivi dell'epopea e degli Argonauti; j)otrebber
essere mezzucci d'artifizio : ma sono in vece fun- zioni spontanee della
mente ricca di antiche e recenti novelle, di miti radiosi e tenebrosi.
Nel- l'ardenza del fuoco inventivo, come le impurità si
distruggono, cosi si avvicinano i diversi, si mischiano i contigui. Ond'è
che il dovere dello storico, intento a ricercar la causa d'ogni
linea nel disegno leggendario, incresce al contempla- tore della
bellezza. La quale riappare, con tutta la sua unità sin- tetica,
nell'inno smagliante di Pindaro, quarto tra le Pitiche, in onore del re
cireneo Arcesilao vincente col cocchio. Oggi bisogna, o Musa, che tu stia
presso un valo- roso amico, Re dell'equestre Cirene, a fine di
spirare col trionfante Arcesilao l'aura degli inni dovuta ai
Latoidi e a Pitone. In Delfi un giorno, presso le dorate aquile di
Zeus, presente Apollo, la sacerdotessa profetò Batto colo-
nizzatore della ferace Libia: 'avrebbe, la sacra isola lasciata,
costrutto una città di bei cocchi sul risplen- dente colle e di Medea
compiuto, con la settima e decima generazione, il detto Tereo ; il qual
l'animosa figlia d'Eéta disse da la bocca immortale un di, la re-
gina dei Colehi '. Disse Medea cosi ai semidivini navigatori del
prode Giasone: " Udite, figli di prodi e uomini e Dei! Af-
fermo che da quest'isola (1) battuta dai flutti, nelle sedi di Zeus
Ammone [Libia] la figlia di Epafo tra- pianterà una stirpe cara ai
mortali. Con i delfini di brevi pinne scambiate veloci cavalle ; le
redini coi remi; guideranno vorticosi cocchi. Il fatidico segno è
per mutare Tei-a in madre di grandi città; il segno che su le foci del
Tritonio lago, da un Dio a uomo simile, donante in dono ospitale una
zolla, ricevette Eufemo dalla prora disceso benigno su lui Cronio
Zeus fé' rimbombar un tuono quando gli s'imbattè, mentre l'ancora di
bronzee marre, briglia della veloce Argo, sospendevano alla nave. Dodici
giorni già la portavamo, trave marina, dall'Oceano trattala per i
miei (Tera). consigli, su i
deserti dorsi della Terra. Allora solitario un dèmone avanzò, bello assunto
l'aspetto di venerando uomo : con amici detti fece principio, come
ai sopravvenienti ospiti i generosi le mense offron da prima. Ma la scusa
del dolce ritorno ci vietava l'indugio. Disse Euripilo nomarsi, figlio
del Geàoco immortale Enosigèo : riconobbe la fretta : sùbito
allora, con la destra divelta dal suolo una piota, l' improvvi-
sato dono ospitale volle donare. Non si rifiutò l'eroe, ma balzato su la
riva, a la mano porgendo la mano, ricevette la fatidica zolla. Veggo che
essa, travolta fuor della nave, galleggia sul mare coi flutti, di
sera, l'umido pelago seguendo: che certo spesso furon esortati i
servi, che allevian le fatiche, di lei custodire; ma gli animi loro
obliarono. Ed ecco in quest'isola l'eterno s'è riverso seme della Libia
d'ampie contrade, prima del tempo. Che se in vece gittato l'avesse in
patria, a canto della sotterranea bocca dell'Ade, sul sacro Tènaro, il
sire Eufemo figlio dell'equestre Posidone che un di Europa nata da Tizio
generò presso le sponde del Cefiso, nella quarta generazione allora
il sangue di lui avrebbe toccato l'ampio continente con i Danai, da
la vasta Lacedemone partitisi da l'Argivo golfo e da Micene. Adesso per
contro nobili discen- denti troverà nei letti di straniere donne, i
quali, col favor degli Dei, giunti a quest'isola genereranno un
Eroe signore nei piani di cupa nuvolaglia: a lui nella molto dorata casa
Febo , a lui in epoca futura disceso al tempio Pitico, vaticinando ricorderà di
condur . popolo su navi presso l'opimo santuario niliaco del figlio
di Crono. Tali di Medea le schierate parole. S'impaurirono, immobili
silenziosi, gli eroi simili a Dei, gli accorti detti
ascoltando. beato figlio di Polimnesto, te giusta il discorso di
Medea elesse l'oracolo dell'Ape delfica con spontaneo accento: la quale te, tre
volte salutato, dichiarò fatidico re di Cirene, te per la imperfetta voce
inter- rogante qual rimedio vi fosse appresso gli Dei! Il
conchiuso ciclo dell'ode si termina col santuario delfico da cui aveva tolto
l'inizio : nel mezzo stanno le vicende di Eufemo e dei ne- poti. Le
quali sono in altro brano anche più esplicitamente significate, ancor su
la trama dell'Eea: dico nei versi. E su le distese dell'Oceano e
nel XJurpureo mare e tra le mariticide donne di Lemno
furono essi Ivi un giorno o notti
fatali il seme accolsero della raggiante vostra fortuna (o Bat-
tiadi); ivi infatti la stirpe di Eufemo piantata, per l'avvenir sempre
fiori. E mescolatisi di poi per sedi coi Lacedemoni, abitarono l'antica
isola Calliste (Tera): dalla quale a Voi il Latoide concesse di far
prosperare con gli Dei le i^ianure di Libia e di abitare, con savio
con- siglio regnando, la divina città di Cirene dall'aureo trono Ma
questo secondo sviluppo del mito, se è più minuto, è anche assai
inferiore rispetto al primo, n quale mostra quanto profondamente
l'animo severo e ascetico di Pindaro consentisse e con- cordasse
con il contenuto riposto della leggenda cirenaica. Le due profezie
(l'una, da cui comincia e che sul finire richiama, della Pizia; Faltra, (Batto-Aristotele).
(Gli Argonauti). b svolta con ampiezza, di Medea) son come il
motto ripetuto sur un soffitto nel ricorrere dei fregi :
significano con insistenza l'unico essenziale e fon- damentale concetto
del mito, il Fato onde il regno dei Battiadi è voluto nei tempi.
Medea con il veggente occhio lo prevede. La Pizia con la bocca
immortale lo attua. Gli uomini si scemano a strumenti della sorte; s'accrescono
a suoi eletti. Se non che il Fato è non soltanto il nucleo del
mito, ma l'intima fede di Pindaro, che è apx^unto stimolata dalle esteriori
circo- stanze in cui fu composta l'ode. Aveva egli avuto incarico
di indurre il re, Arcesilao di Cirene, col vantarne la vittoria, a
riaccogliere in città il f oruscito Damofilo; ne era nuovo a tali offici
non graziosi e vi si vedeva sovente 'costretto. Di qui un'amara
tristezza: non pure pel rimorso secreto, e qua e là palese, di piegar la
sua Musa a com- pito venale ; si anche ]3ev un coperto pessimismo
umano, onde crollava con uguale sfiducia il capo dinanzi al forte che
aveva vinto la gara come dinanzi all'opulento che l'aveva pagato. Per
lui ricchezza e prodezza vengono all'uomo dal de- stino dagli Dei,
e l'uomo non se ne scordi, e per sé lasci levare in minor tono il vanto,
si massimo per i Numi che l'hanno in protezion benigna. Il fato
dunque ancora. Tal coincidenza fra la propria fede e il nucleo del mito
fu còlta dal poeta con un balzo magnifico di rapidità intuitiva: Arcesilao
vince a Pito; da Pito muove Batto; ecco il trapasso esterno : un
destino solo fa vittorioso Arcesilao e colonizzatore Batto; ecco il
midollo intimo a questo organismo lirico. Il resto, lo scopo pratico
dell'ode è cosi obliato che Pindaro deve ritornarci su con uno sforzo alla
fine, quand'è ormai arido e gli si spingon a fior dell'animo i men nobili
desiderii e una certa compiacenza d'intrigo. Per ora, nell'inizio,
tutto è divino. Ma quella che comincia non è l'epopea d'un eroe, né
l'inno sacro ad un Dio: è l'elegia d'uno spirito d'uomo. La
strada su cui Pindaro s'è lanciato non è la " carrozzabile „
(à/ia^izóg) : è nuova , aperta con un colpo di fantasia geniale. Oggi
sarebbe una scena coreografica ; a quei tempi uno spet- tacolo dei
misteri eleusinii ; sempre , il basso-rilievo d'uno scultore che faccia i corpi
come le anime, concreti di evanescenza. Nella notte dei tempi
Medea, maga di semplici e vate del futuro, dice agli eroi irrigiditi
d'ansia la sua profezia. Sono circa cento kola percorsi da un
brivido unico, che culmina alla fine nell'invoca- zione a Batto, vibrante
di fede. Se non che, su la strada nuova ed insueta non dura
l'imaginazione: già l'episodio di Euripilo apparso agli Argonauti s'era
innestato con diversissima effi- cienza nel gran quadro di Medea
vaticinante, come quello che vi recava tempere più pesanti e meno
diafane. Con esso episodio si riconnette poi, non appena cessato
l'anelito dell'incom- bente fato, l'ami^io racconto su i motivi e
sulle vicende onde mosse e per che riusci la impresa degli Argonauti:
ampio racconto che ha tutto una nuova serenità omerica, una placidezza
di lunghi favellari, un indugio molle su i modi delle vesti e i
sussurri delle folle, un tono, in somma, appreso dai rapsodi. Giasone
fermo su la piazza di Fere con le due lance e il doppio costume,
l'abboccamento con Pelia, i banchetti di cinque notti e cinque giorni,
l'accorgimento obliquo del Re contro il giovine, l'elenco degli
eroi saliti su l'Argo: questa è l'altra strada, la carrozzabile Pindaro vi
entra franco e libero; lo illude la facilità con cui la fantasia gli crea
nuove scene: nelle quali egli dà segni dell'attitudine sua di statuario
creatore della vita neirimmobilità. Ma a poco a poco la concision
vigorosa scompare; la scena diviene atto, l'atto dramma; e una imperfetta
dramaticità trava- glia lo spirito del poeta per affermarsi, senza
riuscirvi, o per integrarsi, senza poterlo. Egli si distrae troppo, una
parola lo devia spesso, gli manca la sicurezza del ritaglio e il coraggio
di sacrificare i trucioli. E continua cosi, a lungo, faticandosi,
irritandosi: l'opera gli riesce un in- sieme di momenti, scelti senza
acume di tragedo, e cuciti con lungaggini di epico. Lascia un luogo e un
gruppo per correre nell'altro luogo e presso l'altro grupx30 a cercarvi
quel che là non aveva trovato; non si sodisfa; riprende; e cade senza
lena alla fine. Allora grida con sdegno: è troppo lungo per me
seguir la carrozzabile! E sul suo spirito esausto hanno presa, soli
oramai, gli scopi materiali del carme. Termina in pesce. Falliva
adunque l'epopea il dramma l'inno sacro. Eppure Pindaro è tempora che sa
gittare un'ostia armoniosa su l'altare del Dio ; né sempre
sbigottisce di fronte all'eroe ed all'uomo, ma tal volta li costringe col
suo verso in perfetti camagli. Perché, quindi, gli mancò quell'arte
nella quarta Pitica? La risposta è nella natura stessa del suo errore.
Tutta quella ricerca affannosa d'una base ove consistere cli'è il
racconto degli Argonauti è piena di maraviglie oltre umane e di
giustizie divine. Giasone viene a rivendicare appunto il sacrosanto
diritto di sedere sul trono tolto ingiustamente agli avi; e nel paese dei
Colclii, come già lungo il viaggio, le sue gesta sono insolite non di
coraggio ma di miracolo. Il fuoco dei mostri non l'offende, né i
colpi del drago. Par chiaro, pertanto, che il poeta poteva credersi
avvolto sempre da quel- l'atmosfera di fatalità grandiosa la quale
sommerge in sé il tereo detto di Medea. Ma s'ingannò, ed è qui la sua
elegia. Toccava il romanzesco della novella, il mirabile della fiaba,
dopo essersi abbandonato, supino il volto, nell'estasi santa. La magia lo
deludeva con una maschera di religione; il cuore non pago pungendolo a
irrequetudine. Cosi la sua arte non propriamente gli mancò, ma più
veramente venne provandosi in vano a molti cimenti sotto cui è una
continua insoddisfazione intima: la insoddisfazione dello spirito che ha
aderito intiero a un impeto di profonda religione e, non accorgendosi a tempo
del transito verso minori sfere, s'agita come per men perfetti gusti.
Ora quella adesione era stata possibile nel cuore di un mito: il
mito dei Battiadi, in cui pulsa, ori- gine e scopo della sua stessa vita,
il senso so- lenne d'una prov^ddenza e volontà fatale. Sicché poche
volte una saga ebbe più consono poeta; pochissime, un tal inno è rimasto
documento lirico della mischianza dell'uno con l'altra e
dell'elegiaca nostalgia che ne consegue. Una cosi compiuta intuizion del
mito non ha più Erodoto (1). Il sicuro suo equilibrio lo porta anzi
a svolgere della saga proprio quella parte che Pindaro meno degnava di
cure : dove, difatti, il poeta volge tutto il suo compiacimento verso
Tetà primeve, verso Eufemo e gli Argo- nauti , Euripilo ed Apollo, eroi e
numi ; lo storico è pien di zelo per i discendenti di coloro, }3er gli
Eufemidi, per l'Euf emide preferito Batto, non eroi né numi ma uomini. Il
primo era assorto nella premessa della leggenda; il secondo corre
alle conseguenze. Delle conseguenze Pindaro stesso aveva bensì fatto
cenno, non più nella Pitia quarta, ma nella quinta; gli accadde però per
sbalzi e tratti non connessi, senza organismo, e senza profondità
di attenzione. Vide Batto porre in fuga i leoni africani perché recò loro
una lingua d'oltre mare; vide i Terei guidati da Aristotele fondar
templi e instituir cerimonie: tutto in pochi kola de' quali la lode di
Apollo è lo scopo vero e precipuo. Ben altro Erodoto: a lui la
fiaba, che non è proprio fiaba, comincia anzi dagli Eufemidi e da Lemno ;
quel che pre- cede è avvolto in un silenzio il quale può essere
incredulità, è forse sol tanto indifferenza. Cosi lo storico comincia a
narrare. Egli narra con Cfr. Malten. una ingenuità dagli ocelli un
poco attoniti e forse un poco sorridenti; molto si compiace
nei particolari minuti; molto più pensa di poter la tradizione degli
Eufemidi connettere con altre indipendenti. Ecco, a suo dire, da
Lemno partono non solo gli Eufemidi ma i più fra i nepoti degli
Argonauti, di cui quelli sono porzione. Onde gli accade di giustificar
doppiamente il loro sog- giorno nel Peloponneso: sul Taigeto, non
lon- tano dal Tenaro, perché ivi (si sottintende; egli non dice) è
la sede di Eufemo; a Sparta, perché i Tindaridi lacedemoni navigavan su
VA?-go : ritornan dunque " nelle sedi dei padri „. A tutti
X)oi dà il nome di Minii. Minii e Ai^gonauti son difatti concetti affini
(su la cui origine non è qui dicevole indagare) ben presto uniti e
tal volta identificati. Per spiegar poi la loro par- tenza da Lemno
richiama la leggenda, a bastanza tarda, dei Pelasgi cacciati dall'Attica
nell'isola: i quali avrebbero sloggiato i Minii. Ma è com-
binazione grama e non primitiva. In fine, i Minii, giunti nel Peloponneso
per quella causa, per quale si recarono in Tera? Esisteva, come un
mito cirenaico dei Battiadi, cosi un mito, ma j)iù tardo, tereo su la
colonia spartana giunta nell’isola; e in esso si parlava di un
" Tera „, palese eponimo dell'isola, che vi avrebbe condotto taluni
Lacedemoni e le avrebbe dato il suo nome. Di tal mito trae vantaggio
lo storico per far muovere parte de' Minii insieme con quei
Lacedemoni, il cui capo Tera avrebbe fatto loro la profferta. Uniti
navigarono dunque su tre triacòntori verso l'isola. Ivi, bisogna supporre,
i Minii si serbaron distinti dagli altri cittadini, al meno come
schiatta; laddove il trono fu ottenuto, è ovvio, dai discendenti di
quel Tera. [In proceder di tempo] Grinno figlio di Esania e
discendente di cotesto Tera, essendo re dell'isola di Tera, si recò a Delfi
per condurre dalla città un'eca- tombe. Lo seguiva, insieme con altri
cittadini, Batto figlio di Polimnesto, per stirpe appartenente agli
Eufemidi dei Minii. A cotesto Grinno re dei Terei clie lo interrogava
intorno ad altre cose, la Pizia rispose di fondare in Libia una città.
Quegli obiettò dicendo: Ma io, o Signore, sono già vecchio e pesante
nel moto: tu dunque comanda di far queste cose a qualcuno di questi
giovini. A un tempo disse queste cose e accennò a Batto. Allora tali
avvenimenti. Più tardi, andatisene, trascurarono l'oracolo non
sapendo in qual luogo della terra fosse la Libia né osando inviare
una colonia in un'impresa ignota. Per sette anni dopo ciò non pioveva in
Tera, durante i quali le piante tutte dell'isola tranne una
s'inaridirono. Ai Terei allora che l'interrogavano la Pizia
rinfacciò la colonia in Libia. E poiché non avevano altro rimedio al male,
mandarono in Creta messaggeri per ricercar se qualcuno dei Cretesi o dei meteci
fosse per- venuto in Libia. Vagando per l'isola, costoro giunsero
anche alla città di Itano, nella quale s'imbatterono in un pescatore di
porpora a nome Corobio, che dichiara d'esser arrivato, portandolo i vènti, in
Libia e, di Libia, all'isola Platea. Assoldato costui, lo condussero
Cfr. Erodoto. a Tera, e da Tera parti da prima un'avanguardia non
numerosa. Avendoli Corobio guidati a quest'isola di Platea, vi lasciarono
Corobio con cibi per alquanti mesi e tornarono essi rapidamente ad
informare i Terei intorno all'isola. Ma indugiandosi costoro più del
con- venuto, a Corobio venne meno ogni cosa. In sèguito una nave
Samia, di cui era nocchiero Coleo, diretta in Egitto, fu portata dinanzi
a questa Platea. I Samii appresero da Coi'obio l'avvenuto e gli
lasciarono cibi per un anno. I Cirenei e i Terei strinsero a partir
da quel fatto grande amicizia coi Samii. I Terei che avevan
lasciato Corobio nell'isola, giunti a Tera an- nunziarono d'aver occupata
un'isola di fronte alla Libia. Ai Terei piacque d'inviarvi il fratello
sorteggiato in gara col fratello e uomini da tutti i distretti che
erano sette : a loro preposero condottiero e re Batto. Cosi inviano due
navi pentecòntori a Platea (1). Questo racconto riesce notevole
anche perché vi è taciuta con arte la balbuzie di Batto senza che
al consulto dell'oracolo si sostituisca altro preciso motivo; e perché vi
appare la volontà di attribuire, oltre che ai Terei anche ai
Cretesi e ai Samii qualche parte nella colonizzazione della Libia.
Volontà, la quale risponde, eviden- temente, a una tendenza politica
tarda: a giustificar le relazioni e di commercio e d'altro fra lo Stato
cirenaico e le due importanti isole. Ora a xDunto questo facile rilievo
addita il luogo Cfr. Eeodoto. Il brano che riguarda l'ul- teriore
storia dei Samii è omesso perchè estraneo al nostro mito. Edizione Hude
(Oxford)] onde Erodoto trasse tutta la sua fiaba. Egli fu verso la metà
del V secolo in Cirene. Ivi erano, come si dice, due focolari mitici :
l'uno dei primi coloni, l'altro dei secondi venuti sotto il re
Batto II. Tra quelli, che tenevano il governo e avevan quindi desiderio
di giustificar con il mito non pure il regno dei Battiadi ma anche
la loro politica, raccolse la narrazione tradotta pur ora. Tra
quegli altri in vece che osteggiavano i Re e i loro predecessori attinse
un'altra fiaba. La quale non è se non questa medesima ove Aristotele del
LIZIO sia divenuto e balbuziente e bastardo, e i coloni Terei appajano
pochi di numero e cac- ciati dall'isola per opera dei lor proprii concittadini.
E poiché Creta, per la sua stessa posi- tm-a geografica fra Tera e la
Libia, non poteva facilmente esser soppressa nel racconto, ne fu
tratto con accortezza profitto per far aiDparire anche di impura
discendenza il primo colono Batto. Cosi: Vi è a Creta una
città Gasso nella quale era re Etearco; che, avendo una figlia orfana, a
nome Frò- nime, sposò un'altra donna. Costei, entrata in casa,
volle anche nel fatto esser matrigna verso Fronime, procacciandole danni
e macchinando ogni male contro di essa. Alla fine calunniatala d'insana
lascivia persuase il marito che le cose stavano cosi. Questi indotto
dalla moglie concepì un piano infame contro la figlia. Vi era
infatti ad Gasso un commerciante Tereo, Temisone. II sostrato
storico. Costui Etearco invitò a banchetto ospitale e fece giu- rare
che lo avrebbe servito in ciò di cui lo pregasse. Quando quegli ebbe
giurato, gli consegnò la figlia sua propria e gl'ingiunse di condurla via
e d'immergerla nel mare. Temisone in vece, sdegnato per l'inganno
del giuramento, sciolse i vincoli ospitali e fece cosi: prese la
fanciulla e salpò ; quando poi fu in alto mare, adempiendo il giuramento
di Etearco, la legò con funi e l'immerse nel mare; ma la ritrasse poi e
si recò a Tera. Colà Polimnesto, insigne cittadino tereo, fece
Fronime sua concubina. Trascorso del tempo, nacque ad essa un figlio
balbo e di sbilenca voce, cui fu posto il nome di Batto... [A Batto la
Pizia interrogata d'un rimedio per la balbuzie, impose di colonizzar
la Libia, ma solo dopo una lunga serie di sventure e un secondo
comando inviarono i Terei Batto con due navi pentecòntori]. Navigando
verso la Libia costoro non riuscirono ad altro fare che ritornarsene a
Tera. Ma i Terei cacciarono i reduci e non consentirono che si
avvicinassero alla spiaggia; ordinarono invece di navigare indietro. Essi,
costretti, navigarono indietro, e occuparono l'isola che giace sopra la
Libia, la quale, come fu detto, si chiama Platea. Ma se tal
versione della fiaba aveva il preciso scopo di sminuire i Battiadi, anche
l'altra non serbava più in Erodoto la intima e possente vigoria
pindarica. C'è una troppo spessa pàtina di comune e piatta concretezza
umana, su questa leggenda, oramai. Le figure hanno scemato la Erodoto. Sono
omesse le considerazioni personali di Erodoto sul nome Batto. loro
statura; le voci, abbassato il tono; i gesti, ristretta l'ampiezza; fin
l'oracolo delfico ha rimesso della sua dignità religiosa, un poco a
pena, e a stento riesce a dargli valore di vene- rando il sèguito delle
sventure che puniscono la trasgressione del suo ordine. Qui il mito
vuol esser storia con esagerata pretesa: ne ingoffisce ed
ingaglioffa alquanto. E in quell'aspetto della sua evoluzione che
permette la esegesi degli eruditi o la prepara o quasi
l'attende. Gruardando ora a distanza questa tradizione dei Battiadi,
se ne distinguono ben chiare e rilevate tre figure essenziali : Apollo
Latoide, di cui con pari insistenza Pindaro ed Erodoto ripetono
l'opera importante nell'impingere i co- loni; Eufemo, capostipite della
casata e com- pagno di Giasone ; Euripilo infine, nume indigete
d'una grotta libica, simbolo, in sembianza d'uomo e con valore divino,
della pili antica vita afri- cana anteriore ai Greci, strumento per ciò
eletto dai Fati a preparare dei Greci l'avvento. Ma Apollo era il
Dio medesimo che, nell'Eea di Aristeo, aveva condotto Cirene dalla
Tessaglia in Libia. Euripilo è il nome stesso che ritorna in Callimaco
come d'un re da cui la Signora delle belve ha il trono. Si profila dunque
ora compiuta tutta l'ossatura di questa compagine mitica. Due
Eee stanno a fronte : di Cirene e Aristeo, luna; l'altra di Eufemo.
Diverso hanno il con- tenuto e diversa leggenda elaborano: della Ninfa,
la prima; dei Battiadi, la seconda. Ma comuni sono e il rilievo di Apollo
e il suolo libico e la origine delfica. Simili dunque e differenti.
In forza della lor dissimiglianza restano in più d'una evoluzione
lontane: cosi l'Eea d'Aristeo tocca, da un lato, il massimo del suo
adulterarsi tessalico; l'Eea di Eufemo raggiunge, dall'altro, la
maggior sua umana pianezza; senza che si formino attinenze e stringano
nessi. Ma in forza della loro simiglianza giungono per diversa via,
in uno stadio della lor vicenda, a compenetrarsi : cosi TEuripilo dell'una Eea
s'intrude nell'altra, da Eufemo si trasporta a Cirene; e la Ninfa della
fontana j)assa a proteggere (insieme con Febo) i coloni dori danzanti tra
le fanciulle libiche, la lottatrice solitaria si circonda d'un
popolo. Unici restano distinti, di qua e di là, Eufemo ed Aristeo : i due
perni delle due Eee. Nel centro, punto del contatto, il carme di
Callimaco. All'un fianco, di Pindaro la Pitia e VIRGILIO (si veda);
all'altro, Erodoto e la Pitia quarta. Lo schema di cotesta
evoluzione mitologica è dunque complesso come un quadro genealo-
gico. E per vero le singole forme della saga son congiunte da intime
attinenze di derivazion vicendevole; alle quali tutte predomina il
nesso fra la Cirenaica e Delfi, nesso che di tanto vasto e lento
propagginarsi mitopoetico è, quasi capostipite, la origine prima.
Il mito è miracolo. L'occliio vede il chicco di grano scender
fra le zolle, il Sole sparire nel mare, la luce vincer le tenebre:
vede piccole cose ed esigui spetta- coli che appena lo affaticano lo
abbagliano lo trattengono, e che UN NULLA BASTA A SIGNIFICARE. Ma se
all'occhio dia lo spirito una freschezza nuova, una maraviglia ingenua,
un acume creato di verginità animatrice, fuor dal mondo reale il
fatto e la cosa escono trasfigurati, esalano la lor concretezza in
trasparenza, sfumano i [In questo capitolo gli esempii addotti son
desunti dai precedenti capp. Ma ci dispenseremo dalle continue citazioni.]
loro contorni in nuove linee: si tramutano in una specie nuova. Il Sole
che tramonta nel mare era il mondo esteriore, vivo della sua vita
secreta. Il vecchio re che il figlio uccide è il mondo interiore, vivo
della vita spirituale. E il miracolo si è già compiuto: restio ad
analisi nella sua complessa essenza ed inesauribile ric- chezza:
figlio del mistero, perché nato da una energia la quale tanto meglio si
cela, quanto più si manifesta varia: nato dall'uomo. Il filo- sofo,
riflesso dell'età tarde (1), indaga l'opera mirabile, ne scevera taluni
elementi : il più, il fondo vero, — il miracolo dello spirito
transfi- gurante, — si perde fra le sue dita incerte. Quindi, il
mito solare è di origine oscura come le vicende, che narra, dell'Astro. E
il mito del seme è miste- rioso nel suo principio come la
fecondazione della gleba. Per ciò la saga naturalistica vibra
tutta d'un afflato lirico. E il canto dell'anima umana nel- l'atto
di coglier la vita al di fuori, di possedere con suggello suo proprio
quel che i sensi avver- tono. Contiene quasi un ebro balzar ferigno dall'
interno all' esterno ; e pur racchiude insieme un' illuminata
elaborazione intima, un assorbi- mento dell'esterno nell'interno. Esulta
nello sco- prir la natura, e le dà un nome e la umanizza. Cfr. p. e.
la teoria dell'illusione presso Steinthal Einleitung in die Psychologie
und SPRACHWISSENSCHAFT; e quella dell'appercezione (impressione,
associazione, appercezione) presso Wundt Volkerpsychologie (Leipzig) per
avvicinarla allo spirito. Quando l'aratore ha segnato diritto il suo
solco, obbedendo al secreto istinto geometrico della stirpe e imponendo
alla Terra indomita il segno dell'Uomo, ha preceduto con atto
analogo colui che armerà di clava, per assomigliarlo agli umani, il Sole
vittorioso contro il bujo. Onde l'individuo in cui più intenso il
miracolo mitopeico si avvera, esalta in sé tutta la razza, le dà la sua
anima come una divina coppa cui tutti e attingano e contribuiscano;
è l'eletto a godere il brivido e a lanciare il prorompente grido della
vittoria, conseguita sopra la sensibile natura dallo spirito scosso
fin nelle radici profonde; è il mortale che, calcando la terra,
volge in breve giro il suo braccio, in più ampio, e pur ristretto,
orizzonte il suo sguardo, ma dice in sé stesso di fronte all'universo dei
suoi sensi “ti capisco.” La malinconia dello scienziato moderno che sa di
non poter dare alla forza ignota, o mal palese in talune forme, che
un nome, e non crede d'aver capito l'essenza quando ha vestito d'un
aspetto umano il fenomeno, è lungi di secoli. Quegli che ha
scoperto tra la luce e l'uomo un nesso, tra il cielo e l'uomo, tra il
mare e l'uomo, sente, trion- fando di felice ignoranza, che ha, allora
solo, veduto la luce il cielo ed il mare. Ma lo spirito
umano, nell'atto di travestir di sé il mare ed il cielo, di foggiar volti
all'ar- cobaleno e alla fiamma ed alla spiga, e di scorgere nella
vicenda delle stagioni un fatto come civile, non va però si oltre in
questo suo bello errore, da non serbar, della forza immane rivelata
da quei fenomeni, del mistero per cui avvengono e sono ref rattarii
all'intervento nostro, traccia alcuna; né, per serbarla, trova modo
più efficace che trasportare il tutto in una sfera più che la
consueta possente e a cui esso medesimo soggiace. Cosi il mito
naturalistico si svolge su la scena del divino. E il fenomeno
mitologico s'intreccia e si compone con il fenomeno religioso, seguendo
con questo una simigliante evo- luzione dal naturismo all'animismo al
perso- nismo, per la quale si complica si allarga si condensa, e
giunge ad acquisire diversa bellezza perdendo l'originaria trasparenza.
Si che nel principio ogni mito della natura è un racconto intorno
ad un nume; e sia pur rozzo il racconto e rozzo il nume. La
creazione della saga, adunque, somiglia per tre aspetti a tre diversi
ordini di elaborazion spirituale : perché infonde la vita a individui
che la fantasia par animare di un soffio e la realtà foggiar a sua
sembianza, è analoga all'opera del- l'arte ; perché finge i motivi dei
fenomeni e quasi li spiega dinanzi al pensiero non ancora ben
destro, è affine ai procedimenti scientifici che insegnano le cause dei
fatti ; perché, da ultimo, induce l'animo a reverenza d'un potere più
largo più alto, or solo più forte or anche più buono, rasenta
l'intuito di Dio e il senso religioso. Non può, tuttavia, identificarsi con
alcuno fra quei tre ordini disparati. Anche quello con cui sembra
meglio coincidere è per vero disforme: l'opera dell'arte non è
accompagnata dalla coscienza di certezza e di apprendimento che è
(vedemmo) insita nella fiaba; non è quindi se- guita, come la fiaba, da
una tradizione di rispetto, per cui venga riprodotta e amata traverso le
succedentisi geniture. La fede mistica per contro, quando sente la
divinità vivere e spirare, e la vede risplendere, non si menoma in
individua- zioni personificate e denominate, si più tosto in
formule ove all'Essere è congiunto l'attributo. Dalla scienza che mira alle
leggi generali su dai fatti specifici, che raggruppa in classi, riordina
in ischemi, è necessario dir lontanissima la saga? la quale dal singolo
fenomeno trae la sua materia, e scorge ogni giorno un diverso Sole
farsi occiduo, ogni stagione un diverso seme scender fra le zolle ; e
soltanto tardi scopre le ripetizioni delle apparenze e le identità
fonda- mentali; ed è già matura quando narra Cora ritornar ogni
anno, con sorte alterna, alla madre e al marito. Anzi, lungo ciascuno di
quei tre ordini lo spirito si evolve in guisa indipendente; fin che
da l'una delle tre mete sopravviene a deformare o incrinare o addirittura
distruggere il processo mitologico. Quanto l'artista, e specie il
letterario, violi con la sua indomabile licenza la primordial purezza
della favola è in queste pagine segnato con studio. Né qui si tace
come anche la religione scavi alacre nella polpa stessa del mito,
fin nel ricettacolo della sua virtù ri- posta, e lo vuoti del succo
secrétovi dalle sca- turigini prime. Ma, violento senza pietà, lo
scienziato non erige ove non abbia prima di- strutto ; e ogni sua parola
che afferma, nega in pari tempo la saga. Diverso dall'arte dalla
fede dalla scienza, che cos'è dunque il mito? Badiamo anzi tutto
che in esso il soddisfacimento pseudo-scientifico non è essenziale quanto
il resto, ma un poco estraneo. Forse, dopo aver pensato il conflitto fra
tenebre e luce sotto la specie di lotta fra l'uomo forte e bello e l'uomo
torvo e mostruoso, il pensiero, poveramente cri- tico, si appaga della
rappresentazione come di causa; ed è quella medesima che stimola un
senso rudimentale di questa: o forse, è il con- trario ; e l'uomo crea la
saga i^er apprendere, e per spiegarsi le forze naturali le plasma umana-
mente e umanamente le fa vivere. Certo, negli inizii ogni fenomeno pare,
trasfigurato, causa di sé stesso : ma incerto rimane se la ricerca
della causa preceda o segua la trasfigurazione, la de- termini o ne
scaturisca. Oggi nel bimbo si av- verano entrambi i casi, cbé la fragile
mente or si chiede, dinanzi al sorgere della Luna dal mare, perché?;
ora con spontaneo moto traveste in fogge fantastiche la veduta dei sensi.
Comunque, sia certo l'un modo, o sia sicuro l'altro, il mito serba
il nucleo più vero, là dove è il suo secreto, intatto dalla
pseudo-scienza. Accade un temporale; e un altro; e un terzo; molti: diversi
sx)i- riti li contemiDlano; tutti (supponiamo) si dimandano il motivo
dello scompiglio dei bagliori dei tuoni; ognuno, per contro, crea una favola
differente; a tutti (supponiamo) la favola creata è spiegazion del
fenomeno apparso. L'identità dell'impulso iniziale o, se cosi vuol
credersi, dell'effetto ultimo iDermane contradittoria alla varietà
delle creature mitologiche. Queste, superando sempre e l'uno e l'altro,
s'ergono animate da una congenita forza eh' è propria, splendenti
d'una bellezza intima ch'è peculiare a loro. Più tardi si scorgono bensi
le simiglianze fra i varii temporali e si adduce la falsa causa comune;
ma allora la saga non deve nascere, si trasforma in vece e,
accrescendosi di un particolar nuovo clie la integra, raggiunge una
taiDpa del suo evolversi: dall'esterno dunque si muove questo
ulteriore intervento. Cosi il racconto di Cora rapita sotterra e
riapparsa in terra si compie poi del giudizio di Zeus e del ritorno
periodico ; ma era. E si compie, fin che al meno l'attitudine
scientifica non si maturi cosi da non poter più arrotondare la fiaba, ma
da doverla oppugnare e distruggere. Né anche Tintuizione religiosa
però dev'essere senz'altro inclusa nel fenomeno mitico. E quella,
difatti, estremamente varia e vasta; trascen- dendo la natura e le sue
forze, si nutre anche d'ogni altra esperienza attinta all'ambito che
è più specialmente umano. I primitivi avvertono Dio nella famiglia,
e onorano di culto la dea Madre e il dio Padre; lo sospettano o persin
lo affermano nell'individuo che più sa e più intende, onde
inchinano il Vate. E pure ammesso che primieramente la divinità appaja
traverso la luce del Sole e il risucchio del mare, non si di-
mentichi che, in quei casi, l'uomo primevo si pone in contatto con la
sovrapotente forza della Natura, in cui è Dio, ma non tutto Dio;
che, ciò è, egli si trova in un primo stadio della sua evoluzione
religiosa, oltre il quale deve progre- dire ed entro il quale non
intuisce, a dir vero, se non se la sola Natura; che, quindi, il
mito coincide con il senso di Dio, ma con un aspetto un momento,
transitorii e insufficienti, di quel senso. E allora è più esatto
affermare, la saga contener l'intuito della possanza naturale rivelata
nel fenomeno. Da ultimo, molta luce viene anche dall'ana-
lisi di quelle che dicemmo trasformazioni e individuazioni artistiche: il
vecchio re che cade dal suo trono e cui succede il figlio; la donna
che le rapiscono la figlia per nozze; il duello fra Perseo e Fineo. Qui
sono i tipi dell'espe- rienza consueta; qui accennano le figure che
jeri vide il mitopoeta, che vede oggi, e domani di nuovo; i casi, di cui
ha acquistato l'abito il suo pensiero. Le forme della consuetudine
sociale alle quali è avvezzo gli aderiscono alla fantasia come una veste
indistruttibile. E somigliano ai mezzi espressivi della tecnica che ogni
artefice possiede e che sono, nel suo spirito, quasi le vie ove
s'incanala l'intuizione. Lo scultore ha l'esercizio della creta
plasmanda; è sicuro del proprio pollice ; la mano gli vale una certezza
: si che traverso questo possesso egli vede la statua e foggia la
statua. Il poeta sa giacente nel suo scrigno celato la materia ambrata
del Verbo e la numerosa del Ritmo: onde ricava stimolo e mezzo
all'imaginare. Il facitor del mito aveva limiti non varcabili alla sua
ricchezza: le parole eran acconce a dire le vicende sociali e a de-
scriver le forme umane ; la vita arborea non possedeva moto se non per
braccia, e il suo prin- cipio non era da esprimersi se non con
l'imagine dell'uomo ; sola la umanità si possedeva dall'in- terno,
immersi in lei; la Natura si affrontava dall'esterno: a questa quella
unica poteva per tanto fornire linee e procacciar significazioni.
Il l'intuiziqne mitica Sole è lontano ; nuoce e giova a noi fuori di
noi; come narrarlo? E un re. Il seme cresce nella spiga celato allo
sguardo, sta nel pugno ma è diverso dal pugno, cade nel suolo ma è
diverso dall'occliio che lo vede: come narrarlo? E la creatura
tolta alla madre. In progresso di tempo l'uomo troverà i termini atti ad
esprimere il corso apparente del Sole e il trapasso del chicco; non
li ha trovati allora. Allora serve per la Natura l'umano; l'umano è quasi
tecnica all'intuizione naturalistica. E l'analogia (non identità,
si badi) è i3rofonda; come quella che si regge anche su
l'indissolubile nesso intercedente tanto fra le diverse intuizioni
artistiche e le rispettive tec- niche, quanto fra il fenomeno naturale e
le forme umane. V'è, tra l'uno e l'altre, vincolo di reci- procità,
si che queste par violino bensi quello, ma par insieme che il primo esiga
senza scampo il sussidio di tal violazione. Parvenze entrambe vere,
che di tutt'e due il mito è complesso. Ac- cade quindi che si possa
decidere dell'epoca in cui una saga fu da principio narrata, per
ciò solo, che gli elementi umani e i dati dell'espe- rienza sociale
sono, nel groppo originario, scarsi o abondevoli. E accadde per converso
che taluni fenomeni non determinassero la loro leggenda, se non
quando li potè assalire e trascolorare una copia maggiore di consuetudini
nostre. Si pensi. Perseo contro la belva ed Ercole contro Caco sono analoghe
manifestazioni dell'urto fra luce tenebra ; ma quella non presuppone che
l'uomo, la selce acuminata, la fiera; quest'altra in vece 3ontiene
già l'uso della mandra, la proprietà, e costume dell'abigeato. Si pensi,
anche: le vicende agresti del seme e della spiga non diven- gono vicende,
o siano trama narrativa, che a patto di convertirsi in rito nuziale;
anteriormente non esistono, clié non sono intuibili. Come (con-
tinua l'analogia) non esiste per me, ignaro di plastica, la posa
statuaria, che gli occhi vedono senza il consenso dello spirito seguace.
Analogia, non identità. Che il divario è tosto sensibile, non a pena si
rifletta alla rispondenza che è fra l'arti e le tecniche, in contrapposto
alla ineguaglianza che è fra l'umano e il naturale. Le tecniche non
esistono che per l'arti, ne costi- tuiscono la preparazione voluta, né
servono ad altro che non sieno l'arti, né hanno radici altrove che
nell'arti. Il loro progredire è verso un affi- namento che permetta di
sottoporre sempre più e sem^Dre meglio la materia sorda al possesso
artistico. E il loro affinamento esalta sempre più e sempre meglio le
arti; non le nega non le di- strugge già mai. La storia della mitologia
per contro attesta, nelle sue pagine severe, che, come sia salita a
più grosso valore la somma delle esperienze umane, di quelle esperienze
(ciò sono) traverso cui il fenomeno della Natura passa tra-
sfigurandosi, incontanente questo legame s'infrange, si che a due poli estremi
la vita sociale e gii spettacoli naturali si esprimono con indipendenza.
L'accresciutasi esperienza ha tocche le discrepanze superando le
affinità; e la perizia esercitatasi martella, per le discrepanze,
fogge diverse da le dicevoli per le affinità. Si dichiara ora pertanto
l'oscuro testo. Nel mito è una visione manchevole del mondo esteriore
all'uomo, limitata alle crasse sue simiglianze co^
i jH mondo interiore all'uomo. Nel mito è, per
converso, una vision manclievole di questo ultimo mondo, ignara del suo
contrapposto con quel primo. Quindi fra l'uno e l'altro di essi un
rapporto sol temporaneo, perclié solo parallelo alla doppia
manchevolezza. Ma perché le due insufiicienti visioni sono le uniche per ora
acquisite, e iDerché la duplice acquisizione è avvenuta sul
fondamento delle crasse analogie, il rapporto dev'essere ed è, anche,
necessario e indispensabile; ed è, anche, bastevole ai primitivi bisogni.
Dunque conchiudendo si avrà ; ogni mito è un detei'minato
avvenimento naturale intuito come forza so"VT.'apotente e veduto a
traverso l'umano in una mischianza che li deforma entrambi:
come forza sovrapotente e divina; indi il rispetto della tradizione
letteraria, l'onore del culto, e il pregio di motivazione
scientifica; in una mischianza che li deforma entrambi; indi la fine
della mitopeja con l'eccesso della deformazione e l'imxDOssibilità della
mischianza. Vita, per ciò, e morte. Quale la vita, e onde la morte,
sarà detto appresso. Scaturita, la mitopeja si moltiplica multifor-
memente e si altera evolvendosi. Ma immutati Questo nostro risultato
storico intorno al mito contraddice CROCE (si veda) (VICO (si veda)) per cui il
mito è un universale fantastico restano, fra tanto trasfigurarsi di
innovazioni e di creazioni, i modi e i mezzi della manifestazione mitica.
La quale quindi è necessario pre- cisare, innanzi che s'imprenda
l'indagine sul viver e sul morire mitopeico. Poi che il fenomeno
della Natura dovette, per affiorare su le coscienze, traversar l'umano,
pati d'esser contemplato come l'umano, in tutti i rispetti; ciò è: quale
linea, volume, colore, moto psichico e gesto corporeo ; e fu scolpito
nella ma- teria, dipinto su le tavole, narrato con parole. Poi che
d'altra parte il fenomeno della Natura rimase luminoso della magnificenza
divina, richiese di penetrare nei culti e nei riti in cui ai Numi offrono
i terreni l'olocausto dei loro puri e torbidi cuori. Sono dunque due
grandi categorie espressive; e su i caratteri di ciascuna in
generale non è qui da far cenno, che ne trattano apposite discipline. Qui basta
notare come sieno entrambe primigenie, coeve tutt'e due
agl'incunaboli della saga; la quale quindi le trovò senz'altro, sbocchi
dicevoli alla sua vitalità impetuosa. Il fuoco sotterraneo, rompendo
la crosta terrestre e scorrendo in lava, ebbe apparecchiati i canali al
suo corso ardente. Che anzi non si sarebbe né meno levato in un
respiro immane, ove non si fossero rinvenute le vie atte al suo
sfogo. Or è certo che dopo la nascita fu dalla mitopeja tentato di
continuo l'allargamento di quei suoi mezzi; riuscendole senza dubbio
di svolgerli e di migliorarli, col secondare l'affinarsi verbale,
scultorio, pittorico, religioso. Ma falli, se mai avvenne, ogni prova
d'acquistare alla saga quell'espressioni ch'erano potenziali all'ora
del ritò LE MANIFESTAZIONI MITICHE primo suo crearsi, e attuali
divennero solo più tardi. IL TERMINE FILOSOFICO, la parola
scientifica (vocaboli astratti) fuggirono la leggenda come si
respingono sostanze non consentanee. E in un dialogo di Platone la fiaba
fu racconto anche se le si immettesse, come allegoria, un'astrazione: l'astrazione
riuscendo espressa, sia pure inadeguatamente, dalla fiaba; mai questa da
quella, in alcun modo. Un poema sacro o patriottico, i frontoni
d'un tempio, l'umbone d'uno scudo, il ventre d'un' anfora, il tergo di
uno specchio: qui la saga si foggia a rivelare or l'una or l'altra delle
sue congenite potenze, senza dis- sonare. L'arte. E quello, in cui la
antichissima intuizione della Natura esala uno dei suoi profumi pili
reconditi, e non tra i meno intensi : il culto. Il mito può
esser nel culto. AUor quando su l'Ara massima si sacrificano tori
ad Ercole, in Roma, si narra la lotta del dio contro il ladrone Caco.
Persino nelle feste di Carmenta o in quelle di Evandro il richiamo
della saga, se non certo, è possibile ; è in parte sottinteso nelle menti
dei fedeli. In Enna non si venera Demetra senza ripetere il ratto
di Cora e, molto più, senza affigurarlo concreta- mente. Nelle
feste cirenaiche di Apollo Carneo le danze trovan riscontro con i
leggendarii balli dei Dori in mezzo alle fanciulle di Libia. Le
forme però di questa interferenza fra culto e saga sono varie. Nella più
tipica, e ad un tempo più semplice, il gesto del rito ripete la
vicenda mitica. Il cocchio trainato da cavalli bianchi, tra il popolo e i
sacerdoti adunati a Siracusa, fìnge l'azione onde Cora fu ri
addotta alla Madre; e pretende di fingerla nel luogo istesso ove
l'anagoge avvenne. Il medesimo è del ratto. E ad Eleusi si mostrava la
pietra del pianto che aveva parte non piccola nel culto e su cui
Demetra si sarebbe seduta nel cordoglio prima d'incontrarvi le figlie di
Celeo. Ma nessuno di cotesti esempii è tanto significa- tivo, quanto
il dramma greco nel suo contenuto mitico. Né pure in Euripide, ove la
concezione è cosi moderna e lo spirito maturo cosi largamente innova, è
andato perduto il carattere peculiare della tragedia o s'è cancellato il
segno delle attinenze antiche fra il lavoro letterario e il culto
sacro. Per le quali, in fondo, il dramma appariva quasi la ripetizione
gestita del mito, il mito riprodotto attorno ad un altare, da persone che
ne affiguravano gli eroi, in vicende che ne rendeno la trama. Appariva,
in somma, una specie di culto in cui il rispetto religioso era ben
presente, ben si sentiva l'ambrosia dei numi; e tuttavia l'azione e il
gesto awiavansi a prendere il sopravvento. Appariva un culto
modellato sul mito. Questa però, se è la più tipica interferenza
tra i due fenomeni umani, perché in essa la saga offre al rituale i
modi i tempi e i luoghi, non è la sola né forse la più consueta. Un'altra
è frequentissima: per cui avviene appunto il con- trario. Nel
culto, molti fra gli atti obbligatorii Pindaro Olimpica e lo
scolio. e tradizionali si riportano, idìiì che ad un determinato racconto
leggendario intorno al dio che si venera, agli attributi di quel dio alle
sue mansioni alle sue ordinarie potenze: le quali si invocano in
circostanze favorevoli, si supplicano benigne; o vero si irrogano
lontane, si distornano con offerte e con formule ritenute idonee.
Vi hanno inoltre, pure estranei al mito, atti religiosi sorti in momenti
diversi, per caso, per coincidenze fortuite, per iniziative, anche
intenzionate, di sacerdoti e di governatori. Si danno infine templi e
altari elevati, fuori di un certo mito, per un nume cui il mito fu
collegato lDÌd tardi; come l'ara d'Ercole nel Foro Boario che
esistette innanzi all'avvento del Tirinzio nella saga di Caco. Ora, tal
complesso cultuale, che è solo parallelo o, peggio, solo per
incidenza contiguo al racconto leggendario, non ne dura a lungo
estraneo, ma finisce col penetrarvi e costituirvi un capitolo
interpolato. E questa la massa delle etiologie, che notammo neìVInìio
a Deìnefra, e che rinvenimmo a proposito dell'abi- geato del
ladrone latino. Sempre, in questi esempii, il contesto narrativo si
amplia a van- taggio e ad interesse della realtà religiosa : fenomeno che
attinse il suo vertice in quei casi, ma non ne appajono in questo
scritto, che tutta quanta la leggenda nasce dal rito. Ebbene. Nella
prima delle due interferenze notate, troviamo la leggenda esprimersi
per mezzo del culto. Nella seconda, il modo opposto. Fra le due non
difettano attinenze; né è diffi- cile decidere intorno alla priorità. I
miti etiologici che scaturiscono dall'esercizio religioso sono senza
dubbio, al pari degli etimologici, alquanto più tardi degli spontanei
miti naturalistici e per solito, a differenza di questi, tristanzuoli.
Anche, la prima interferenza intacca e interessa intiera la
leggenda: onde il culto di Demetra investe tutto il mito di Demetra, e il
dramma tragico tutta la saga di Andromeda; laddove la seconda
interferenza presuppone la leggenda, l'adotta, non l'identifica con sé.
Tuttavia, se ben si guardi, la diversità non è tanto profonda quanto
parrebbe. In entrambi i casi, difatti, dura un'antitesi irrimediabile tra mito
e culto. Del mito sussiste sempre qualcosa, che non affluisce al
culto, ma lo prepara, lo motiva; permane un che di non riducibile: fra
una scena e l'altra del rituale, fra un episodio e l'altro del
dramma, qualcosa è sottinteso, alcuni avvenimenti son accaduti, che
si rivelano nelle loro conseguenze, ma si riferiscono a un diverso
contesto: nel- l'intervallo fra il sacrifizio a Giove Inventore e
quello su l'Ara Massima, si pensa, o si deve narrare, l'apparir di
Evandro con i Potizii e i Pinarii, e quanto è poscia scritto: nel
mezzo tra la Catagoge e l'Anagoge sta il giudizio di Zeus insieme con
l'altre vicende : prima che Perseo appaja ad Andromeda avvinta su la
rupe e agli spettatori stupefatti, egli ha compiuto delle gesta e
conquistato il capo della Gorgone ; il che si deve dire, come in
postilla, ma non appartiene più al dramma sacro, bensi risale al
mito. Del mito, adunque, il culto illumina alcuni tratti, essenziali se
si vuole, esprime taluni punti; ma si integra poi con interstizii d'ombra
o con premesse a pena accennate o con parentesi suppletive. Al che
corrisponde quel che deve dirsi sulla impotenza espressiva del mito
rispetto al culto ; la quale è però fatta più tosto di abbondanza,
ijerché quello per solito trascende questo; consta tuttavia anche di
debolezza. L'avventura mitica di Cirene, invero, traduce assai poco
del culto ad Apollo Carneo: e le cerimonie eleusinie 0, in genere,
greche in onore di Demetra non sono a sufficienza chiarite dal solo ratto
di Persefone, si debbono venir comentate col sussidio e d'altri mezzi e
degli attributi che alla Dea spettano in testi estranei a quella saga.
Qui, come altrove, il culto traspare nella leggenda, ma per uno
spiraglio solamente. Il fenomeno cultuale e il fenomeno
mitologico non sono dunque idonei a esprimersi l'un l'altro. Ciò può
sembrare da prima strano, da poi che si disse poc'anzi il nesso che li
stringe. Strano invece cessa di essere, quando si ponga mente (che
si disse pure poc'anzi) alla distinta natura di tutt'e due: l'uno segue,
se bene per solito con lentezza, il maturarsi del pensiero religioso e
l'af- finarsi della sensibilità mistica, cosi che molto si
modifica, e si perfeziona di disinteresse, col- l'evolversi del concetto
di Dio; l'altro per contro nasce da un'intuizione della natura che
deve permanere durabile, e vive nel suo profondo di vita
indipendente dalla religiosa. Due rami, dunque, bensì dello stesso
tronco; ma rami diversi. I quali s'incontrano come si vide ; e non
accidentalmente, giacché non si spiegherebbe la costanza dell'incontro
nei casi diversi ; ma per due motivi. 1^ Ci è ben noto, per
l'anteriore discorso, il carattere scientifico che assume la saga o già
prima del suo concretarsi o sùbito dopo. Ora, valendo qual
spiegazione del fenomeno essa tradisce tosto un aspetto di utilità
pratica ch'è quanto mai confacente alle menti primitive (né solo a
quelle). Se il fulmine è la clava immane che un Dio a volto d'uomo
brandisce e agita con braccio più che d'uomo possente, se ne
stornerà la minaccia e l'esizio con il j)lacare l'ira al Nume dal
cuore d'uomo : venerandolo di offerte, in culto. E della spiga granita,
della messe co- j)iosa, è più salda la speranza se con gli aratori
l'attende una Dea, madre alla Spiga: e comune suona il tripudio, come
comune il lutto per il rapimento: a lusinga, i mortali secondan
pianto e gioja dell'Immortale. Qui il sogno si af fioca, si
appanna; o no, ch'è meglio, si sgombra delle nebbie rosate e si converte
nell'egoismo quoti- diano, ch'è il pane, il benessere, la vita. Ma
l'altro motivo per cui culto e mito in- terferiscono sta nella
concretezza plastica, che è di talune cerimonie del culto, e che le
assempra all'opera dello statuario, ossia le avvicina all'arte. Quando di
fatti la parola narra Demetra trasmigrante per le terre con due fiaccole
accese su l'Etna, ha virtù di riprodurre nel suono la figura dei
sacerdoti agitanti le tede nelle cerimonie di Eleusi. E quando il ketos
apparisse vorace e si apprestasse alla vettovaglia umana,
riescirebbe a rendere nell'atto la forza conchiusa del racconto. Il
paludamento ed il gesto corri- spondono all'elezione e alla disposizione
verbale. Ma non vi rispondono a pieno; e costituiscono anzi forme
secondarie dell'esprimersi, come un volto contratto nell'angoscia
sottintende ma non significa il dolore medesimo che il poeta piange
nell'elegia; né l'urlo del viandante assalito crea nella carne vivente la
divina maschera di Laocoonte (BELVEDERE). Per tanto, non pure mito
e culto non si so- vrappongono del tutto; ma, anche là dove pajono
coincidere, il culto risulta una imperfetta espressione del mito. Accanto alla
quale perdura sempre, e per integrarla nella quantità e per
elevarla nella qualità, la forma primaria e più acconcia: l'arte.
Onde, nel fatto, all'arte aspirano, quasi a compimento ed abbellimento,
le varie forme del culto, come i minerali alle fogge cristalline. E la
statua, il dipinto, il rilievo, insieme con la poesia, emergono, fiori di
alto stelo, su da quella gramigna ch'è il racconto dei sacerdoti e
il disadorno ricordo delle generazioni. Tuttavia nell'arte stessa il mito
trova diversa efficienza di espressione. Il vasajo, che affigura la saga
di Andromeda su la materia tornita e preparata alle vernici, si ripete,
traverso la serie dei suoi modelli, ad un'antica forma del racconto
caduta già in oblio nella let- teratura ; ed è , solo , sufficiente per
indurci a costruire quella forma, di cui altre tracce non sono
rimaste. Ma sarebbe anche in questo specialissimo caso ardimento soverchio
asserire in- dipendente l'opera dei colori di lui. Giacché, in
tanto lo comprendiamo, e in tanto ci serve a simboleggiare un intero
strato mitico, in quanto la letteratura possiede gli strati posteriori.
Ci fa risalire a una narrazione ; non ce la narra, per sé. E del
pari un bassorilievo ove Ades e Persefone seggano sul trono tenendo fra
le dita tre spighe, richiama le nostre cognizioni sul ratto della
fanciulla, le conferma; ma non ce le fornirebbe mai, per sé. Il motivo
n'è palese per le esigenze ineluttabili della scultura e pittura.
Non possono essere indipendenti dal racconto parlato quelle arti
che non debbono né fermare l'istante né descrivere il moto. Il momento è
la loro mi- sura, ai due estremi della quale sono invarcabili
colonne d'Ercole. L'accenno è il loro mezzo per rendere una vicenda, per
fìngere il moto nella statica. E né meno costituendo in serie i lor
prodotti riescono a rendersi autonome dalla forma letteraria; che una Via
Crucis raffigu- rata da un genio non è se non mirabile chiosa agli
Evangeli. Non pure, adunque, il mito è fenomeno, nella sua
espressione, a preferenza artistico; ma anche è precipuamente letterario.
La letteratura sola ha il vantaggio di esprimerlo intiero, di
insegnarcelo se l'ignoriamo, di non abbisognare né di com- pimenti
né di premesse. Cotesto privilegio però non s'intende tutto, che
prescindendo da alquante restrizioni. Bisogna, in primo luogo,
ricordare che il patrimonio delle lettere antiche ci giunse i
guasto e lacunoso, per dissipar lo stupore che, contro la conchiusione
recente, nasce dal ricordo Annali dell'Istituto tav. Su i rapporti fra
arte e letteratura mitopoetica scrisse belle pagine C. Robert BUd und
Lied (Philologische Untersuchungen, Berlin. dell'esame condotto intorno a
quattro notevoli miti. Si comprende difatti allora che, se le
epopee omerica ed esiodea, ad esempio, ci fosser per- venute nella
loro opulenza, il sussidio dell'arte plastica alla Storia sarebbe ben
diverso: non cosi indispensabile né tanto notevole. La poesia
basterebbe. Bisogna inoltre allargare i termini onde è concbiuso il
concetto di letteratura: non fermando l'occliio pure alla forma eletta,
alla ninfea emergente sul pelo dell'acque chete; ma comprendendo
nel vocabolo anche le manife- stazioni più povere e grame, il racconto
d'un antistite, l'osservazione inetta d'un erudito, la favola
ciarlata fra i fedeli. Perché, se si consi- dera nella sua ampiezza tutta
questa saliente marea, che si diparte da bassissimi fondi ed espugna
ben erte rupi, pervasa da un assiduo moto di ascesa, insito nell'intimo o
sospeso su le forme come una legge fatale; se si scorge il fremito
creativo trascorrere in corsi e ricorsi da Pindaro all'atleta, da
l'atleta a VIRGILIO (si veda), da l'umile all'eccelso, toccare le donne
di Siracusa e la mente di Timeo, raggiungere la Biblioteca di
Diodoro e la corte imperiale di Roma, pervadere l'abitante dell'Aventino e
l'Annalista dell'età travagliose: si appalesa a pieno il dominio,
indipendente e incomparabile, che sul Mito possiede la Parola.
Ed è dominio attivo. Il verbo non s'imprime su l'intuizione, se non
in una sintesi, che è sempre originale, com'è sempre imprevedibile prima
del suo compiersi, e non del tutto sceverabile dopo. E un castone
che costringe il diamante ora a smussare una punta ora ad arrotondare uno
spi- f?olo. Ogni racconto letterario di un mito, scritto e parlato,
ne è una forma nuova che non si può ridurre, senza violenza o astrazione,
a un'altra. In questo, l'arte figurata e il culto, a parte la loro
incompiutezza che si vide, somigliano alla letteratura; ma, anche in
questo, le restano addietro: perché serbano più tenaci, e l'una e
l'altro, non appena possedutala, una certa forma e una certa versione
d'una saga incidendola per anni e anni in dati tipi e modi ; laddove
la parola ha una sua duttile mobilità, una sua invitta energia
innovatrice, che si tradiscono nelle sfumature; fino a che l'imitatore,
inconsa- j)evolmente, travisa il modello, e Ovidio si dilunga intorno a
Caco dall'Eneide, della quale vuol ricalcare l'orme. La misura tuttavia
d'una cosi fatta attività di dominio, come distingue tra loro le
forme dell'arte, cosi gradua le specie letterarie medesime, ed è il
criterio del loro pregio. La goffa nutrice che ripete la saga al
poppante innova bensì, che non s'evita; ma per vero minimamente, a
confronto dello storico e del poeta: l'angolo del prisma è troppo
esiguo, al paragone, e la luce ne devia cosi poco che si trascura.
La personalità della parola è quella di chi narra ; non si annienta mai,
ma o si strema; o si invigorisce: e il mito ne riceve più o meno
] individuate le sue forme. Onde è lecita per comodo di ricerca, se non
esattissima in tutto, la distinzione in due grandi categorie, separate
per; una diversa potenza creativa, dei contesti verbali in cui la fiaba
si esprime: nell'una stanno gli sterili e gl'impotenti, nell'altra i
vigorosi: fecondatori. Senza traccia, come senza nome e senza
gloria, rimangono, e son massa, quelli: i ripetitori menni. Non
dispregevoli né pur essi, clie sono la gleba rude, disprezzata ma
indispensabile, senza cui non esiste nulla e da cui tutto si ri-
pete. Sono del resto costoro, nella lor supinità passiva, cosi tenaci nel
rispettare per manco di fantasia le fogge tradizionali, come utili a
vagliar le innovazioni, che, diffidando, non accet- tano se non quando
una forza geniale le imponga, e costanti ad applaudirle poi,
assicurandone, col ripeterle, la esistenza. Somigliano agli spettatori,
dinanzi a cui i tragedi vedevano agitarsi le sorti delle loro creature, e
che si serbavan fedeli alle opere premiate. Per essi avviene la
selezione e si conserva la vita. Cosi che quando non uno pili ne
sopravvive, com'è oggi fra il popolo nostro per i miti pagani, la favola
è ben morta, s'anche l'arte ne tenti con tocco divino la
resurrezione. Le radici sono inaridite. Ma non possono d'altra parte
raccogliersi in un solo tutto i fecondatori del mito: che la
energia mitica non è semx)re la bellezza. Tal volta l'artista dà il suo
suono alla favola d'un creatore ch'è disadorno: esiste il mitologo
che ordisce; esiste il mitopoeta che contesse ad arazzo. Verità di
non poca importanza, come quella che serve a spiegare, perché il mito
duri e s'evolva anche durante periodi in cui l'arte si tace, o
compia anteriormente all'arte uno svi- luppo assai grande. Cosi, pur
tenendo conto dei carmi perduti, ritorna nel nostro, pensiero la
trasformazione profonda subita dalla fiaba aria j)i"esso i Grreci prima di
vestirsi nell’lnno a Ermes di begli esametri omerici: o pmi'e il comporsi
della saga siracusana di De- metra avanti a Timeo e agli Alessandrini.
Né senza traccia è rimasta, come senza nome d'in- dividui, l'opera
di cotesti facitori non artisti o, per dir meglio, scarsamente artisti:
dei mitologi. Ai nomi delle persone, clie mancano e non varrebbero,
possiamo sostituire quelli dei centri onde il moto di elaborazione mosse
e si propagò: quali Delfi per la saga cirenaica, lo spazzo del Foro
Boario per il furto di Caco, Argo per le imprese di Perseo: feraci campi
di rigogliosa messe, tra cui raro langue il ciano e il papa- vero,
e su cui ci vien fatto di gittare obliquo lo sguardo traverso i voli di
Pindaro i colori di VIRGILIO (si veda) il racconto di Ferecide. In generale,
per conseguenza, la mitopoetica vigoreggia come un progresso
rispetto alla mitologia (1). E tale as- serzione è sempre vera, se intesa
a dovere: perocché il progresso può essere istantaneo e com- piersi
nell'attimo medesimo della innovazione, ma né pui^e allora manca. Non
sappiamo se l'autor dell'^ea di Eufemo metta in versi il lavoro
mitologico di un predecessore o crei esso medesimo la saga che contamina
le pretese dei Battiadi con la spedizione degli Argonauti al lago
Tritonio: non sappiamo né sapremo, e la Per chiarezza: mitopeja dico la
complessiva ela- borazione mitica (letteraria, artistica, cultuale). Fra
l'elaborazioni mitopeiche della letteratura distinguo la mi- tologica
dalla mitopoetica che sola ha pregio estetico. verità elude con
volti ambigui i nostri occki incerti. Ma se, come si ritiene meglio
probabile, la contaminazione balza insieme con il ritmo dallo
spirito di lui, è segno che, per fortunata sorte, il gusto estetico
coincidette con la vigoria generatrice. E il caso è, in Grecia specialmente,
non raro; ed è ben motivato dalle premesse nostre. Quando, difatti, il
mitologo preferecideo raccolga in un racconto su Perseo il mito
tessalo e il peloponnesiaco, e li fonda con gli elementi jonici,
che si dissero sopra, stringe membra prima incoerenti in tale organismo
d'intuizione unitaria, che è del tutto normale, se egli stesso
riveli una a pena minore vigoria nell'esprimer quello col verso; se
appaja egli stesso anche mitopoeta. Sa vedere di più, e sa dire
meglio, che gli altri. Il nesso è cosi ovvio, che sembrerebbe quasi
insolita la contingenza, in cui al più dell'intuizione non rispondesse il
meglio dell'espressione. Insolita certo; ma assai meno che non
sembri, a causa dell'indole propria di ; talune stirpi e della natura
speciale di certe in- [novazioni mitiche. Nel fatto, TRA I ROMANI è
[facilissimo che una fiaba si innovi appresso un [arido annalista e che
quindi scada dal carme )opolare allo schema di un rozzo diario:
tale [fu, tra l'altro, la sorte della leggenda di Caco [allorché,
forse, un greco v'introdusse, per con- [•asto etimologico, Evandro la
prima volta, pur [senza avere alcun intento, si badi, di rasionalismo. E,
ancora tra i Romani, è probabile 3he il capitolo delle etiologie inerenti
al culto [di Ercole si aggiungesse a quella stessa leggenda in una
forma regrediente, che non attingeva alcun pregio artistico. Tuttavia
lasciando un necessario margine a simili casi, per solito si varca d'un
salto dalla medesima mente il varco che intercede, non ampio e non breve,
fra la innovazione mitica e la procreazione d'un'opera
d'arte. Superato tal varco, o per felicità d'ingegno o per maturità
conseguita nel tempo, e attinto il vertice più bello, si apre una serie
nuova d'in- novazioni mitopoetiche, che son ben diverse dalle
mitologiche. Ma un facile criterio le distingue senza possibile equivoco.
Le une hanno un fine che è estraneo alle altre ; le une si dipartono
da esigenze che sono estranee alle altre. Lo scrittore, che altera la
leggenda nel comporre, ob- bedisce a uno scopo d'arte, cosciente o non
con- sapevole che l'obbedienza sia: un istinto, o il suo gusto
culto e fine, lo avvertono di dar quel ritocco, mutar questo colore,
adombrare una figura, correggere la prospettiva ; il pubblico spe-
ciale cui si rivolge gli suggerisce, rimanendogli dinanzi al pensiero
dui'ante il lavoro, di conce- dersi certi accenni e taluni richiami, di
svilup- pare più ampiamente una parte. Per contro il mi- tologo,
che è tale prima d'essere artista, tende a una mèta mitica : pensa al
patrimonio leggen- dario, o nel suo insieme o in uno de' suoi vigorosi
rami, e a quello procura di recar contributo, adunando, intorno a un nome
di eroe o di nume, tutte le gesta attribuitegli. Ovvero cerca una
mèta politica o altrimenti pratica : per conciliare le pretese di due
luoghi intorno a una Dea, si chiamino anche i luoghi Siracusa ed Enna;
per esaltare una dinastia, e sia essa dei Battiadi ; per comprimere mia
città avversaria, quale Tera; per lodar un oracolo, il precipuo fra
molti, il Delfico. In ogni caso, muove da esigenze che non sono
quelle del suo tema letterario, né consistono nel tono d'un poema su Enea
o d'un canto su le Metamorfosi; ma che sono inerenti a un indi-
rizzo mitologico. I due ordini d'innovazioni però, pur
essendo tanto ben distinti nel fine e nell'origine, eserci- tano,
l'uno su l'altro, continui influssi. E l'imagine che rende la loro reciproca
condizione, è quella della pila voltaica ove il succedersi alternato dei
dischi di rame e di zinco permette lo scoccare sintetico della scintilla.
Ogni mito difatti non potrebbe entrare in quel componimento letterario
ove deve alterarsi, se per effetto della sua intrinseca evoluzione
mitologica non avesse conseguito già un certo stadio; e per
converso, poi. il colore diversamente sfumato dall'arte la variata
prospettiva sono a punto cause che permetteranno ad altro mitologo
l'aggiun- gere o il contaminare. Dopo che, nei carmi del popolo, la
leggenda di Caco è andata smarrendo il suo senso allegorico antichissimo,
per assumerne, a gradi, uno storico ben diverso: allora solo, Ercole può
sottentrare a Garano-Recarano, e il gruppo delle etiologie incunearsi nel
racconto. E allora solo la fiaba di Perseo e An- dromeda è matura per una
interpretazione psi- cologica e sociale nella tragedia, quando il
mitologo l'ha dissimilata dalla lotta contro la Grorgone, cui era
identica. Un ardimento giustifica l'altro; un passo prepara il
susseguente: non importa se i fini del primo non sieno per l'appunto
quelli del secondo. Anzi, perché, come si vide, l'innovazione mitologica
avviene talvolta in una con la innovazione mitopoetica, lo storico
resta esitante, in quei casi, prima di decidere da quale fra esse sia mosso
l'impulso, a quale tocchi la precedenza, non nel tempo, ma nella
respon- sabilità del nuovo stadio raggiunto dalla saga. Nessuno
cosi saprebbe dire, fuor che in conget- tura mal certa, se un poeta o un
mitologo abbia, per esigenza d'arte e ritocco estetico, o per scoilo
di chiarezza genealogica e armonia anagrafica, identificato primo
Persefone con Cora. I confini sbiadiscono indecisi, la sintesi creatrice
non ri- trova chiare le sue vere cause. Questi casi am- moniscono
lo storico a cancellare ogni categoria empirica allor quando si accinge ad
esporre l'evolversi nella letteratura del genio mitopeico
pagano. Da due radici trae vigore la mitopéja al suo arricchimento
progressivo e al suo lungo variarsi: dall'elaborare gli elementi
spirituali onde consta negli inizii ; e dall'acquisirne nuovi a sé
stessa. Curiosità scientifica, senso del divino, intuito dell'uomo
e della natura, immanendo nella saga costituiscono costantemente altr'e
tanti tentacoli, che attirano verso di essa i prodotti del più
maturo pensiero scientifico, spirito religioso, abito di contemplazione
umana e sociale. Ma inoltre l'evoluzione della mitopeja letteraria nuove
energie se le aggiungono; nuove, le quali son sorte non da uno sviluppo
delle primissime antiche, ma da un superamento deciso di
queste. Siffatta opera duplice e immane di rinnovamento si comijie entro
certi ampi limiti temporali. Da principio, ogni fenomeno, ogni aspetto
del medesimo fenomeno, ogni nesso, ogni sfumatura, sono sufficienti
impulsi alla creazione d'un mito: nuovo, se pur non profondamente diverso
dal complesso dei suoi analoghi. E il fermentante rigoglio della
giovinezza. E la festa dei frutici che il suolo ferace esprime da sé, per
l'esuberanza della sua forza, in unico impeto con le roveri e i pioppi.
Si che le figure si moltipKcano disponendosi l'una a canto dell'altra,
affini sorelle, non identiche aggeminazioni ; e i casi si addensano e
s'intrecciano, uno appresso all'altro, simiglianti e differenti, e si
dispongono in racconti svariati, che ciascuno i^ossiede, quasi nome
personale, un peculiare suggello. La mitologia indiana serba traccia di
questo pletorico groviglio li fiabe, X30C0 dissimili ma non uguali,
intrecciate Era loro per tenui fili. Nella greca la traccia è
linore: perché già in essa sono sopravvissute [unicamente le forme, in
genere, geniali, cui la [singolarità medesima apprestasse vigoria e
resistenza vitale, laddove le più scialbe, e per ciò stesso meno
individuate, vennero assorbite da pelle cui somigliavano. Tuttavia, anche
fra gli lElleni il durar l'uno accanto all'altro i miti, che man
tutti il medesimo sostrato naturalistico, di [Eracle nell'Ade, di Eracle
contro Gerione, di Eracle contro Nèleo, di Perseo contro la Gorgone, di
Perseo contro il ketos, attesta l'antichissima fecondità originaria in favole
dissociate per minime differenze, per esigui e mal certi confini, e
prova anche come la mente creatrice da sé e dalla propria stirpe sapesse
a ciascuna derivar notevole forza di vita e non scarsa energia
personale. Di questo periodo di creazione mitica e di
moltiplicazione, le quattro saghe del nostro studio additano gli ultimi,
e non miserevoli, bagliori tra il VI e V secolo avanti l'èra. In tale età
difatti, che l'occhio della storia può riguardar sicuro traverso poche
nebbie^ la letteratura mi- tica si accresce della fiaba duplice di Cirene
e della siracusana di Demetra. Entrambe sono cosi vigorose e
determinate che non possono in verun modo confondersi con le lor sorelle.
E tuttavia né Tuna né l'altra sono originali. Non originali anzi
tutto, perché non escono, se bene adorne poi, dall'arte, di stupenda
efficacia poetica : Pindaro Ovidio Vergilio le ritrovano in sottili ragne
do- rate su la loro cetra, non escono da un bisogno lirico
incomprimibile: ma sono posteriori a un fine pratico, in grazia del quale
soltanto sussi- stono, ma a malgrado del quale splendono di
magnificenza. Per ciò non creano, ma compon- gono elementi noti,
sfruttando intrecci anteriori. La saga degli Argonauti era ; conteneva il
lor soggiorno in Libia. I Cirenei se ne valsero, e dissero di Eufemo e
della zolla e d'Euripilo e dei coloni giunti da Tera sul luogo del
dono. Cosi il ratto di Cora in Enna, la sua catagoge presso la palude
Ciane, non sono se non le sosti- l'evoluzione della mitopeja
letteraria tuzioni d'un patriottismo locale ai termini ed alle forme d'un
antichissimo racconto greco. Singolari apparizioni mitiche queste, adunque :
nelle quali si unisce un cotale spirito di riflessione, un quasi gretto
senso di praticità, con una indu- bitabile freschezza creativa, un
abbandono lan- guido di sogno. Questo permise il loro travestimento
poetico, e cosi grande permise che i razionalisti antichi non s'accorsero
punto dello scopo politico e materiale onde le belle fiabe che gì'
irritavano erano mosse; né se ne accor- sero, prima che sorgesse il
metodo critico mo- derno, gli studiosi nuovi, i quali non esitarono
in vece ad avvertirsene in più disadorni e meno ricchi racconti.
Tuttavia, in quel senso di rifles- sione pratica è il non dubbio indizio
che il periodo in cui si moltiplicano i miti è per finire. Esso si
estenua, per vero, in bolse invenzioncelle, in genealogie stremate, in
giuochi etimologici trasj)arentissimi ; singhiozza gli ultimi
guizzi in favolette che pochi eruditi ripetono; rivendica il passaggio di
Perseo per Micene ove egli avrebbe perduto il puntale della spada
(ó /ivxt]g); attribuisce a Trittolemo discendenza argiva; spiega il nome
dei Pinarii pel dover essi astenersi dal banchetto sacrificale
{neivciù), ho fame). Poi muore. Entro i limiti di tempo cosi
largamente se- gnati, profondo e vasto è il rivolgimento. Pausania. Servio
Comm. a VIRGILIO (si veda) Eneide In apparenza, tutti coloro che trattarono
let- terariamente le fiabe della nostra ricerca, le considerarono,
non il fine, ma un mezzo o, tal volta, un artificio pel loro tema. Fine
era, di caso in caso, la celebrazione di una vittoria gin- nastica,
l'ammaestramento georgico, la meta- morfosi d'una ninfa o d'un uccello,
la ricorrenza d'una festa, il vanto della preistoria romana :
mezzo, sempre, il mito. Persino nel dramma di Euripide lo scopo vero è
altro da quel che la leggenda, in se, richiederebbe: è scopo comx)a-
tibile con essa, ma ad essa imposto mutandole il suo contenuto.
L'interesse per la saga non è quello primigenio della intuizion
naturalistica onde nacque: è, nei varii letterati, vario. Quest'apparenza
è troppo costante, e troppo si conferma con tutti i testi del nostro
studio, per non dover essere tenuta in somma considerazione. Ma ecco che
la realtà la contrasta duramente. In tutti i carmi letti, in tutte le
prose, il mito entra non di straforo, si per le spalancate porte:
signore, certo del dominio che nell'interno lo attende. Delle Pitie è il perno
; la colonna vertebrale della tragedia; la sostanza dell'elegia
properziana. Nel libro d'un poema vasto come l'Eneide è rispettato
anche in certi j)articolari minuti: ospite sacro che Giove protegge. Dove
penetra, penetra tutto. Non importa che Callimaco sia molto breve
nel cenno alla saga di Cirene: i pochi tòcchi bastano perché gli
elementi essenziali delle due leggende contaminate appajano totalmente.
Fin in Livio. Fin in Dionisio. Si contraddicono, dunque, le cause e
i modi onde la letteratura accoglie il l'evoluzione della mitopeja
letteraria mito: controversia intima a Kalypso. Controversia, da cui derivano e
gli acquisti letterarii della saga e le sue letterarie deformazioni;
clié, violata da interessi nuovi, cui già era estranea, per quanto
con tutta la preponderanza della sua congenita foga imponga le sue forme,
è costretta ad accettare, dalla sede che l'ospita, le luci. Su la
soglia, le si fanno incontro, e prime la intaccano, la novella e l'etiologia.
Ne la novella il popolo par condensare, con la propria esperienza, la
x^ropria filosofìa della vita, perché vi fìssa gli esempii tipici delle
consuete vicende (per lo più, familiari) e i modelli caratteristici
delle fìgure che muove la sorte comune. Per essa, traverso la fantasia
delle masse, come at- traverso un vaglio singolare, il complesso
(ad esempio) dei pastori o de' pescatori, e l'insieme delle vii'tù
e dei vizii che in genere presso quelli si riscontrano, affìnansi in una
selezione di cui è vano cercar le leggi, per comporsi nella sintesi
di un personaggio tradizionale con tradizionali pregi e difetti: il pastore,
dico, o il pescatore soccorrevole e onesto che come suo alleva, dopo
averlo accolto ed ospitato, il figlio non suo. La novella è dunque, per
propria natura, pregna della medesima umanità che, nel mito,
conforma a sé il fenomeno esteriore ; le creature difatti dell'una e
dell'altro si somigliano a volte come nate da unico ceppo. E si accordano
quindi, sovente e bene, in un medesimo testo: tale il ferecideo su
Perseo. Un'acqua affluisce cosi nella saga che del pari riflette,
da le rive imminenti, i cotidiani spettacoli; non, però, riverbera
simileraente la vampa solare, né vi si specchia azzurro di cieli e
svettar di fronde durante la divina estate: si che il volume fluviale
acquista potenza di voce che s'ode da lungi, vigore di empito che
infrange le sponde ; ma divino di stelle e di selve men vi trova
echi e consensi. E pertanto nella mischianza fra mito e novella il
principio dell'abbassarsi quello verso pianure terrene e dell'adattarsi a
stature umane : in cui si attenua, senza per altro smarrirsi del
tutto, l'esorbitare originario fuor dai limiti che più sono nostri. E
poiché, d'altra parte, un vago velame d' irrealtà favolosa soffonde pur
la novella, di spiriti non consueti anzi straordinarii ; accade che essa
ajuti a tenere la saga in un'aura mediana fra il dio e l'uomo; la quale è
dell'eroe. E a questo si deve a punto se di eroi sono i miti.
Quando i lor personaggi non sono stati dal culto salvi e resi intangibili
su l'ara dell'alta e intiera divinità, allora il nume pro-
tagonista della saga, e il vecchio vecchio vecchio che i novellatori esagerando
desumono dalla vita loro visibile, si allivellano sopra il piano
istesso ; fin che anche il piccolo rito locale, se mai fosse già iniziato
da qualcuno, finisce, non trovando altrove favori, con l'estinguersi
o diventare eroico. Vicino a Larisa di Tessaglia, era il Sacrario
di Acrisio, prisco iddio ; ma, per ciò che oramai a lui stavano accanto
Ditti pe- scatore e le vecchiarde Graje, il tempio chiamavasi, né si
ricordava nome diverso, tempio di eroe [fjQc^ov). La novella trae cosi a
sua società il mito; ed entrambi corteggiano il popolo illudendolo nella
speciosa finzione di maraviglie l'evoluzione della mitopeja
lbttbbaria elle sono sol tanto le trite consuetudini di lui, ma mosse dal
soffio d'un più, dall'anelito d'un meglio: gocciole di piova che
rifrangono il Sole. Nella cortegiania è terza l'invenzione etiolo-
gica, intenta a cercare la causa del fatto umano. Affine sùbito, con ciò,
essa pure alla saga, in cui è, prima o dopo, inerente il conato verso
la causa del fatto naturale. Caco spiega il fuoco distruttore; la
presenza dei Potizii pronta e il ritardo dei Pinarii spiega un costume
del rito erculeo nel Foro Boario. Che se i tentativi scien- tifici
appajono per tal guisa paralleli nei due fenomeni, anche la semplicità
dei procedimenti gli adegua l'un l'altro. Entrambi ripetono per
causa del fatto il fatto medesimo, correggendo solo uno, o pochi, tra i
particolari che lo accom- pagnano. La fiamma muta contorni
divenendo Caco e serba immutata la sua potenza deleteria. E
l'attinenza fra Potizii e Pinarii si trasporta, identica, in tempi
anteriori di assai, erculei. La giunta sta nell'episodio umano e abituale
: il costume ladresco di Caco; l'indugio pigro dei Pinarii. Quindi
l'etiologia insinuandosi nella leggenda integra per un lato quel suo volto
che par compaginarsi di nostri nervi muscoli sangue; secónda per
l'altro quella sua tendenza che si origina dalla gloriosa nostra
curiosità di tutto. Questo tributo però non è solo copia. Rappresenta anche una
riserva di potenze e di sviluppi, che si determineranno in varia misura a
seconda dei contatti posteriori, dei luoghi, dei tempi. Un poeta,
un romanzatore, uno storico, e i diversi individui entro queste diverse
categorie, ne trarranno spunto alla lor compiacenza differente. E questi
svolgerà l'etiologia in scena compiuta che si disponga a fronte del più
vero e antico nucleo mitico. Quegli ne prenderà solo occasione per
ripeter la fiaba, comprimendo pel resto l'etio- logia in ombra a mala
pena schiarita. Properzio, il primo; l'altro, Ovidio: li scorgemmo in
atto di elaborare diversamente cosi il mito di Caco. L'effetto quindi
dell'innesto etiologico si misura insieme con il deformarsi della saga
sotto l'influsso dei molteplici interessi cui la fa sottostare il cuore
infaticabile e travaglioso ch'è nostro Cosi il patriottismo adultera il
mito; e per vero duplicemente. Prima, in forma subdola lo ritocca o
accresce. Poi, gli dà un contenuto sto- rico che gli era estraneo
affatto. Caco è un ladro mostruoso di tempi antichi; Euripilo un re di
età lontane : il lor valore d'iddio del fuoco o della porta
infernale è perduto, perché una storia fallace lo usurpa. Ciò mette un mito di
sostrato naturalistico al medesimo livello di uno a sostrato
storico; o fa prevalere questo su quello, ove si trovino misti. Immutato
resta soltanto, insieme con il complesso dei particolari cristallizzati,
il rapporto tra i protagonisti, però che il favore patrio si
trasporti tutto per l'appunto su l'eroe che qual Dio aveva, nel primo
significato, combattuto le tenebre; e l'odio nazionale si accumuli su la
figura che era stata, nel primo significato, ostile alla luce. Cosi
nell'Eneide. Non muta la leg- genda, ma solo il suo presupposto. Anzi,
sotto questo aspetto, poche luci di poesia sono tanto favorevoli al
serbarsi integro della saga. La psicologica o la sensuale posson compiacersi
del l'evoluzione della MITOPEJA LETTERARIA mostro come dell'eroe, a causa
della plasticità e della intelligenza clie li accomunano. La
patriot- tica no: deve preferire, deve parteggiare: rida al mito un
sentimento, lo riscalda con un calore affettivo che, dopo la sua origine,
gli eran dive- nuti ignoti. Né anche il senso religioso è cosi
efficace : Pindaro coglie, nell'amore di Apollo e Cirene, assai meno di
Callimaco quello che n'è il nucleo effettivo: la simpatia dei coloni per
il Dio e la Cacciatrice ne' quali si rispecchiano, e la protezione
perenne assicurata dalla coppia divina ai Cirenei. Ond'è che nessun colpo
dello scalpello pindarico è giunto a scolpire la statua che il
patriottismo di Callimaco crea indelebilmente: la statua del giovine Iddio che
accenna, sul Colle dei mirti, alla bella sposa le danze, onde si
compiace, dei Doriensi fra le fanciulle libiche. Il mito palpita invero
nel gruppo con la vita della sua stessa radice. E quando un brivido
di fervorosa simpatia scosse gli spetta- tori ateniesi nell'atto di
scorgere sul capo di Perseo una sorte agitarsi non dissimile dalla
sorte che in allora il Fato volgeva su la città marmorea, l'uomo si
accrebbe ad eroe, l'eroe a Dio, Dio, qual era da prima, splendido al pari
del Sole. Se m.ai per lui si creò di nuovo un anelito di innamorata
estasi simigliante a quello che fu verso l'Astro la Luce il Calore, e
onde il suo mito s'era originato in una mente ingenua e profonda;
se mai si creò, fu l'anno 412 sopra una scena greca, auspice l'amor della
Polis. Diverso anche allora, eppur analogo d'empito e di
vivezza. Il senso religioso è, già si vide più volte, intrinseco al
mito, che anzi se ne informa. Esiste fra i due concordia come di gemelli.
La quale si svela però non molto jjrofonda. Le si oppone anzi tutto
l'essere il sacro uno bensì, ma uno solo, fra i caratteri della saga;
ch'è ben piti ricca di contenuto e complessa di aspetti: ond'è elle
il carme inspirato alla fede tende inevitabilmente a sviluppare un membro della
leggenda a scapito degli altri, tende a farne vibrare una corda
sola. E la contemplazione del mito da un punto vicinissimo, ma cosi
accosto da non per- mettere più che una visione unilaterale. Tal incompiutezza
è grave; ma v'ha di peggio. Il mito, dopo che è creato, resta e si
cristallizza; non è privo di vita, tutt'altro, sotto quella sua
crosta, ma serba un'apparenza di rigidezza e di immutabilità. Somiglia la
formula d'un culto, che i sacerdoti dicano, negli anni, un dopo
l'altro. Il pensiero e il sentimento religioso in vece sono di lor natura
non statici, ma energici d'un moto assiduo e incalzante; sono la
vita stessa in una delle sue sublimazioni migliori. Presto,
raggiungono, se non presso tutti, presso talune menti alte al meno,
presso l'inspirato poeta della fede quasi sempre, uno stadio superiore, e
forse di gran lunga, a quello onde il mito si generò. E allora v'è
contrasto. V'è bisogno di eliminar una figura, di scemar la
crudeltà feroce d'un dio, di togliere il carattere umano al cordoglio
d'una dea : si deve informar il vecchio mito al nuovo pensiero. Per ciò
ap- presso Pindaro Chirone esita e sorride e si atteggia a loico furbo,
prima di dir la sua pro- fezia ad Apollo. Altre volte in vece il
particolare l'evoluzione della mitopeja letteraria leggendario rimane, non
alterato; ma il pensiero critico lo discute e ne dubita: che è in
apparenza guasto minore, maggiore in realtà. Per quel modo, difatti, lo
spirito cessa di riviver la leggenda immergendovisi: la projetta lungi
e fuori di sé, se la contrappone: per qualche istante, e sotto
certe forme, le diviene estraneo. Simile, Euripide dinanzi l'oracolo
Ammoneo che ha indotto Andromeda preda succulenta al ketos. Tuttavia
né prevale il dubbio filosofico né la fede alla saga: il tradizionalismo
mitico e il modernismo religioso scendono a un compromesso: e possono,
fin che sono entrambi avvolti da una atmosfera unica di j)aganità. Quando
vènti nuovi avran dissipato quell'atmosfera, i Padri della Chiesa
si rideranno dei miti: e vi rinverranno l'indizio d'una religione povera
e bambina. Come la religione, cosi erano inclusi, fin dalle origini,
nel mito l'elemento sensuale e il psicologico. Poi che i fenomeni della natui-a
si ve- stivano di fogge umane, e il tuono e il Sole e il mare
acquistavano volti membra ed atti nostri, essi divenivan senz'altro
passibili di figurazione sotto l'aspetto dei sensi e d'interpretazione
nel campo della psiche. Analizzare e graduare i sen- timenti di un
Perseo non è se non completar l'opera di chi lui, uomo, ha veduto
nell'Astro. Perseguir con compiacenza, nelle particolari movenze di
grazia femminea, Cora mentre raccoglie i fiori, o descrivere con tocchi accorti
le brune e bionde bellezze delle Ninfe adunate in- torno a Cirene
nelle case cristalline di Penco, non è che un rinvigorir di sangue,
spremuto dalla profonda voluttà umana, le creature cui
KALYPSO da un sesso il mito. Se non che, anche per questa via la
fiaba si trasforma: essa diviene un modo di dire, una frase efficace per
signi- ficar un pensiero o una intuizione, una forma vuota, per sé,
di contenuto che si riempie, ade- guatamente, a volta a volta. Perseo, è
l'esempio già scelto, può vestire di sé e delle proprie avventure
esteriori un ideal personaggio di Euripide, e potrebbe vestirne più altri,
abito di molti individui. Cora, è l'esempio già usato, si muove con
la leggiadria un po' stereotipa della giovinetta innocente e pudica, che
solo fiori ama e fresche cascatelle e aromi salienti dalla eulta
terra: è scema di sé medesima, un'altra è penetrata in lei, e l'anima
d'una vita che è fittizia, perché non è la prima, antica e vera. Per ciò
Vergilio sceglie, a caso o con arte, le com- pagne di Cirene da un repertorio
di nomi; e non più che nomi, ciascuno dei quali si riduce a un
colore, non svela una persona. Demetra che piange, e di cui si regola il
pianto con magistero di psicologia poetica, è una madre. Ma ell'era
anche una Dea. E da siffatte menomazioni nasce il bisogno di sminuire, se
non proprio sopprimere, Fineo nell'episodio di Andromeda, di creare fra
Andromeda e Perseo una scena novissima, di plasmar un altro gesto a
Cirene: nasce per- sino la spiacevole inopportunità dell'intervento
di un Nume, in sul finire del dramma, per scio- gliere, con atto
oltreumano, una situazione divenuta umana. Accanto a questa, che la
psicologia e il sensualismo gittano sul mito, è singolare la luce che vi
gitta la natura. Su nessuno sfondo, in l'evoluzione della MITOPEJA
LETTERARIA alcun ambiente, gl'iddii e gli eroi, che la natura
personificano e di cui con la loro vicenda ren- dono il fenomeno,
dovrebber trovarsi più agevolmente. In pochi in vece si altera e deforma
forse tanto la saga. La Dea delle biade non domina su la
vegetazione lussureggiante, non vi regna, qual'è, regina: vi
s'incornicia, iDersonaggio del quadro. Vive la sua vita di donna, non
sopra, ma in mezzo alle messi che significa e possiede: parte
d"un tutto che pur dovrebb'essere rajDpre- sentato in lei. Aristeo,
cui perirono l'api e che si duole nella valle di Tempe,
maravigliosa di rigoglio verzicante, tiene su i pastorelli un
privilegio di nobiltà, che gli vien solo dagli anni antichissimi in cui
gli accadde di vivere; ma è per altro uno di loro. L'erba gli cede sotto
il passo similemente. La cintura dei monti lo comprime. Di qui lo stupore
ond'è còlto nell'attra- versare i regni del nonno, le sedi di
cristallo, gli antri muscosi, cune di fiumi, roridi recessi
ignorati agli uomini. In lui, e nella sua madre ninfa, non è difatti
adunato lo splendore sacro della natura acquatile e pastorale che af
figu- rano, ma una cosi fatta magnificenza è concretata al di fuori di
essi; li allieta in perpetuo con perpetui doni ; li circonda non li
costituisce. La bellezza e il primato sono altrove che nelle persone
di entrambi: nella Natura, effettiva protagonista, cui convergono lo
slancio del poeta innamorato e la sua lode contesta di ritmi. Si
direbbe che il mito ritoma alla sua sorgente; ed è vero: ma colà la
Natura riprende il posto che i suoi impersonati rappresentanti le avevano
occupato.E una restaurazione. Dalla sorgente, in vece, è lontanissima
l'eru- dita sapienza di Properzio. La leggenda diviene, nelle mani
di lui, uno strumento polito da usarsi con un'arte accorta e a pochi
nota: unico esempio, nel nostro studio, di quanto essa possa, senza
scemo di pregio letterario, stremarsi della sua vita prima. Nata sopra un
pascuo giogo di monte si ritrova in una sala dal lacunare eburneo.
La qual cosa non toglie che ivi appunto il rispetto al mito sia
cànone più severo : per crescere al magistero verbale pregio di finezza e
di virtuosa agilità. In vano; che altra vi è l'aria; e son
tramutati i tempi. Più in là, si ritrova, fra più ampio
volume di carte, in una più chiusa austerità di ambienti, la
Storia. Qui l'atteggiamento è senza dubbio uniforme. Erodoto, sotto
questo aspetto, non differisce troppo da LIVIO (si veda), Livio da
Diodoro. La lor critica e il loro metodo sono diversamente insufficienti.
Ma un intuito comune li induce a sopprimere, nel mito, talune scene e a
servirsi a tempo di certi silenzii, pel fine di non arrecare una
sto- natura sensibilissima nell'insieme dell'edifizio che erigono.
Serse Temistocle Milziade riducono alle loro dimensioni un Tera; gli
Ateniesi, i Minii ; i Gracchi, Caco. Quando le leggende non hanno
ancora una storia per sé, si adattano in quel letto di Procuste ch'è la
storia civile, la qual le raccorcia, esuberanti come son
sempre. Sopravvivono esse: attestando la loro incoer- cibile
vitalità. Uomini culti, che posseggono la lingua, conoscono il passato,
partecipan col'evoluzione della mitopeja letteraria scienti al presente del
loro paese, pur avveden- dosi del carattere favoloso di taluni
racconti, pur sentendosene costretti a scemarlo, ritengono
impossibile dar a quelli l'ostracismo totale con l'espungerli da gli
scritti che compongono. Livio giunge persino a dichiarare in anticipo che
non vuol esser chiamato responsabile di quanto narra per gli
antichissimi tempi; ma narra tuttavia. Dionisio sa, o crede sapere (il
che è lo stesso), il vero che si cela sotto il velame; ma riproduce
tuttavia il velame. Del fenomeno una spiegazione sola è possibile: il pubblico
esige la parola degli storici su i miti. Ne va dell'orgoglio
patrio, ne va della consuetudine. L'orgoglio : che non ammette si
ignorino le origini prime della propria stirpe, le vicende antiche della
propria città, i nomi dei prischi abitatori, le gesta, i culti; che
si sente sodisfatto, assai piti che dal contenuto stesso della fiaba,
dalla sua forma di bellezza e di fantasia, dai suoi colori vaghi
meglio della realtà; che ritiene di non poter conoscere la vita dei padri
se non traverso la tradizione eredata da essi. E la consuetudine:
ch'è la forza grande delle masse; e resiste, sotto la specie del
misoneismo, alla ricerca innovatrice del dotto; e ricalcitra, sotto la
specie dell'ortodossia, ai risultati dell'indagine, illuminata da un
nuovo pensiero religioso o FILOSOFICO. Tucidide doveva saper di spiacere quando
negava un nesso fra Tereo, del mito di Filomela, e Tere degli
Odrisi signore di Tracia; ma era da lui l'af- Tucidide frontar i
supercilii dei ben pensanti. Solo di fatti la vigoria d'una tale niente
può bilanciare la resistenza che, per tradizione patriottica, è
insita nella leggenda. Che se parallelo a tal risultato appare
l'effetto dell'amor nazionale sul mito, i due fenomeni però sono
distinti. Il poeta, che canta la saga patria, o nella saga introduce
opportuni accenni alle patrie vicende, serra un legame, tratto dal
cuore anelante, fra la sua visione di bellezza e il cerchio della realtà
che l'urge d'ogni lato: sospira il presente nell'antico, e sotto le
luci dell'antico vede il presente: scorge l'Urbe maestosa degl'Imperatori
dietro il velo tenue del re savio regnante Evandro: imagina la
spada del guerriero cadere, simile alla clava d'Ercole, contro il
male e l'onta e il mostruoso. Allo storico in vece accade appunto l'opposto:
per lui, il mito emana su su dalla storia, come una causa su dagli
effetti, una premessa su dalle conseguenze: j)er lui il mito è una preistoria,
una motivazione. Il nesso genetico di causa ed effetto, ch'è insito nella
storia ancor quando si manifesta sol grossolanamente in un nesso di
precedenza e susseguenza cronologica, orienta nel suo indirizzo anche la
concezione della saga, e l'informa di sé. Onde l'analogia, che il
poeta vede tra il contemporaneo e l'antichissimo, è per lo storico
in vece un dipendere causalmente del contemporaneo dall'antichissimo:
sicché la lotta fra Ercole e Caco serve solca spiegare un rito di
carattere greco, e la leggenda dei Minii e di Tera e di Batto è una
necessaria e suffi- ciente premessa alla storia cirenaica. Per
questo valgono : perché giustificano. E il loro valore di motivi è
cosi grande, che si accettano come ipotesi sostenibili, anche quando è
infirmata la fede su la veridicità del lor contenuto. Si fatta
deformazione del mito, per cui il carattere etiologico di taluni suoi
particolari e, qualche volta, d'intieri suoi paragrafi intacca il
nucleo stesso, e lo tramuta in causa storica, segna l'estremo della
lontananza evolutiva dalle origini. La saga aveva avuto negli inizii
importanza per sé : stava oltre gli scopi pratici, riflessi in parte nel
culto, e i bisogni scientifici; superavali entrambi. Divenuta, nella poesia,
quasi un mezzo d'arte si alterò, serbando tutta volta officio
consono alla sua natura; tanto che, pur connettendosi con etiologie cultuali,
mantenne su di esse il suo primato di bellezza e di forza, presso
poeti quali Vergilio ed Ovidio. Quando alla fine si trasforma nella pura
e semplice causa di fatti, allora si astrae dai suoi termini, cessa
dalla sua indipendenza, acquista un che di cerebrale fra le idee, perde
molto d'imaginoso tra le fantasie. In seno al possente spirito
mitopeico letterario, della cui evoluzione segnammo, con l'ajuto della
nostra recente esperienza, talune tappe ed erigemmo le precipue pietre
miliari, s'opera un continuo nascere maturarsi ed estinguersi di
saghe : paragonabile all'immane vicenda di morte e di vita cui
sottostanno gl'individui umani nel grembo dell’umanità , che s'è originata
e deve a sua volta perire. Tale assiduo flusso e riflusso è libero
; non perché non lo determinino sempre forze pullulanti e incroci anti
si, del cui intreccio è schiavo e le cui maglie seconda, composte in
arduo disegno; ma perché nessun nodo della contessi- tm'a è
prevedibile, prima del suo stringersi, o analizzabile compiutamente,
dopo. Non tutto vi è del pari degno d'istoria; v'accade regresso in
rapporto al livello mediano della mitopeja, e anche progresso: entrambi
in diverso modo notevoli. Esiste tuttavia una fondamentale sorte, ch'è
comune a quella ricchezza divèrsa. Il mito, ciò è, ha due vite; o forse
vita duplice. Una è la sua più propria: e consiste nella capacità
di evolversi, di assumer forme nuove luci nuove sensi nuo^à, di
concretarsi in individui diversi: spirito di molte sostanze. L'altra
è la vita di ciascuna sua forma di ciascun in- dividuo: della Pitia, dell’Eneide,
della lirica properziana, del racconto di LIVIO (si veda). Uno stadio
dell'evoluzione non elimina i precedenti, né li comprende solo in
potenza, ma li lascia sussistere in tutta la loro realtà concreta ;
si allinea con essi. Ciascuna di queste due vite pare uniformarsi a leggi
diverse. La vita seconda, delle singole individuazioni
mitiche, è retta da una forza d'arte. Dalla quale s'informa la
"lotta per l'esistenza,, dei varii com- ponimenti e il sopravviver
loro. Onde il carme d'un poeta non affiora alla superficie che per
la strage di numerosi fratelli suoi minori, cui fu più povero lo
spirito vitale. Non pure ; ma anche tra i superstiti l'arte conferisce
più a l'uno che all'altro il primato, con decreto che non si di-
scute e che finisce col condur, tal volta, a pre- valere una redazione e
col tramutarla in volgata. Fa cosi Pindaro per Cirene, VIRGILIO (si veda)
per Caco, Ylnno a Deinetra pel ratto di Cora. All'in fuori d'ogni
vero rapporto cronologico, oltre ogni effettiva consistenza di strati e
importanza di varianti, le narrazioni di pregio artistico infe-
riore si aggruppano intorno a quella cui più riser le Muse, come forme
incompiute d'uno stesso pensiero. Vive tuttavia ciascuna ancóra: di
bellezza. E da tutte in selva risplende il mito. Tra questa folla non è
morte, fin che sieno occhi a risguardare ; da questa sgorga anzi
pe- renne la vita, perché ogni forma è capace d'impulsi, e nella diversità
degli spiriti sono impon- derabili gli effetti suoi. I\n. è serbato il
seme dei sopravviventi miti; e la virtù della razza, che diede la
passione onde nacquero ; e la virtù del suolo del cielo dell'aria
dell'acqua del fuoco, che diede la materia onde si fusero. Di li
ritor- nano al nostro pensiero, affacciandosi in vetta all'anime
come iddìi giovinetti e belli: fantasmi radiosi ai nexDoti nella veglia
nottui-na. La prima vita in vece non è né cosi varia né
altr'e tanto sgombra da morte. Si sviluppa secondo una linea chiara.
Durante lo svolgersi della quale però, ed è sua prima
peculiarità, permangono al mito, quasi irrimediabili stimmate, i segni che
furono del suo nascimento: resistenti oltre ogni deformarsi. La saga di
Cirene, che sorse imperniandosi su la Libia e la Tessagha, ha da queste
due regioni diverse e lontane la sua sorte ; e par che fino la più
profonda violenza recata al suo schema confermi quel carattere
regionale. Similmente, per essersi formato sopra un compromesso e in una
contaminazione, il racconto siracusano di Cora rapita si mischia, negli
anni, in una sempre più larga massa di favole. E allo sviluppo di Caco
deriva modo storico e religioso, quando prima s'insedia, col suo
nome, la sua memoria nei pressi del Palatino. Anzi, il vero inizio di un
mito, qual forma spirituale a sé profilata, si rivela appunto
dall'apparire di quell'impronta che dovrà farlo per sempre
caratteristico. Onde la trama di Andromeda non è da vero compiuta, non pure
nei particolari esteriori, ma e nell'essenza più pro- pria, se non
allorché gli spunti novellistici si immettono nel contesto naturalistico,
a preparare per l'avvenire la triplice serie di innovazioni, psicologiche
romanzesche e religiose. Quasi entro gli argini cosi definiti si
muove la corrente del tempo. E di mano in mano che la storia della
paganità procede, che il pensiero pagano si trasforma, anche la saga è
amata sotto aspetti differenti. Demetra e Cora son narrate con intenti di
gran lunga dissimili da quelli che, dopo Cristo, inspirano Claudiano e
l'età sua. Ogni generazione distende sul mito una propria vernice: che è
un particolar modo di vederlo. A noi poco è j) er- venuto di questo
stratificarsi perché non ogni strato ha lasciato la sua traccia
letteraria (e artistica). Ma possiamo imaginarlo riandando, in
sintesi rapida, il processo spirituale del mondo antico : a ogni tappa
corrisponderebbe, se la ri- costruzione fosse riuscibile nei particolari,
una foggia mitica, e sia pure a pena diversamente sfumata
dell'anteriore, o a pena diversamente disposta della posteriore. Tra
l'una e l'altra di esse, nesso causativo, porremmo la sintesi creativa
per cui l'intelletto comune, innovandosi, si è superato. Il caso opera
poi su talune vicende della saga. Che ad Euripide sia caduto in mente di
trattar l'Andromeda nel 412 o che nel 412 sol tanto il suo
proposito si potesse tradurre in atto ; che non esistesse un grande poeta
quando il mito di Demetra in Enna fu compiuto: è effetto di caso,
perché a volta a volta risulta dall'interf erire di due linee causali la
cui interferenza non con- segue da nessuna delle due premesse. Dal
caso pertanto deriva, che non tutti gli strati della evoluzione
mitica hanno " lasciata traccia letteraria (e artistica) „; e che qualche
strato ci ha tramandate tracce più profonde e più varie. Del mito
di Cirene un secolo, il quinto, ci mostra due trame sostanzialmente
diverse, la pindarica e la erodotea; il quarto non ce ne concede
al- cuna. Del mito di Caco l'età di Augusto ci tra- manda ben
cinque quadri con varianti colori e linee; l'età di Giovenale nessuno.
VIRGILIO (si veda) irradia del suo patriottismo il racconto, Properzio
della sua raffinatezza, OVIDIO (si veda) della sua sonora compiacenza
verbale, LIVIO (si veda) della sua ingenua critica, Dionisio del suo
impotente razionalismo; ma queste luci tutte scaturiscono
dall'opere complessive nelle quali esso viene inserito e
dagl'ingegni degli autori: onde nulla vietava che altre ne potesse
assumere e che ancor taluna di queste potesse non aver assunta.F.,
Kalypso. Attinenze fra l'evoluzione spirituale complessiva stratificantesi sul
mito, e le forme casuali della leggenda, esistono visibilmente. Il
modo con cui i posteri di Ferecide di VIRGILIO (si veda) di OVIDIO
(si veda) di Callimaco amarono e ripeterono le saghe di Perseo di Caco di
Cora di Cirene deriva, come dalla trasformazione compiutasi nel
xDensiero collettivo, cosi anche dalle peculiarità dell'arte con cui quei
letterati, dopo che il caso gl'indusse a eleggere la fiaba
all'opera loro, la impressero di sé medesimi. Ora, tra quella che
dicemmo trasformazione del pensiero collettivo, e questa che potrem
definire energia plasmatrice di artisti, esistono riferimenti quali
d'una parte al tutto: gli effetti, in vero, chela letteratura d'una
generazione compie su la ge- nerazione successiva, non sono se non
alcuni degli effetti che tutta la mentalità della prima compie su
lo spirito della seconda. Vale a dire : il fenomeno mitico-letterario avvenuto
per l'in- terferenza casuale di due linee causali riprende,
fondendo quelle in sé, l'efficacia determinativa. Indi si spiegan anche,
facilmente, le morti dei singoli miti: quelle pause del loro
evolversi per cui si sospende il ritmo vitale onde parevano spinti
alla trasformazione né si riprende che tardi, quando oramai è chiusa a
sua volta la mitopeja pagana. Non è dubbio difatti che una saga
qua! siasi continua, più fioco più intenso, il suo respiro fin che il
genio mitopeico è una operosa realtà. Ma per l'appunto quel che di-
ciam caso fa si che le manifestazioni letterarie di ciascun mito si
arrestino a un certo punto, oltre il quale bruiva forse ancora il
susurro, non più sonò il canto. Prova tipica, che non ve n'ha forse
più palmare, è la storia del mito di Caco: languido già in quel torno di
tempo che segna il suo fine, si circonda poi di silenzio se bene
seguano ad OTTAVIANO (si veda) epoche di
culto intellettuale di esumazione erudita di compiacenza artistica in cui
l'abigeato violento e fumoso avi'ebbe potuto, possibilità vana,
trovar non manchevoli espressioni. Persino i germi dissolutori
insiti nel testo di VIRGILIO (si veda) e, più, d’OVIDIO (si veda) e, peggio, di
Dionisio, tolleravano sviluppo maggiore, cui certo l'agio non sarebbe
mancato, di cui in vece manca fin l'eco. Opposto ammaestramento porge la fiaba
di Cora e la sua sorte. Un poeta di età protratte, mentre sotto il
cielo d'Omero si levavano vie più fre- quenti i crociati segni di Cristo,
tenta di possedere, anche una volta, la saga. Fallisce ; ma il crollo
dell'edificio male eretto non travolge pure la perizia artistica di un
uomo, pare in vece che si ripercuota funereo fra peristilii e celle
dei templi cui men frequente stuolo di fedeli e men pio animo di
sacerdoti rende l'omaggio: già che, allora, la mitopeja pagana sentiva da
l'èdèma tronco a' suoi inni il respiro. Non il caso terminando, quindi, in
questo secondo esempio, la vita favolosa; ma, rigida causa,
l'orientamento diverso, vòlto a meta ch'è lunge, del pensiero collettivo
e delle passioni. In un rosajo si sfanno di molte corolle senza che
scemi il vigore delle radici e l'ascesa della linfa pei rami: culmina
l'estate. Ma come giunga il settembre, con cieli più chiari e men caldi,
gli ultimi calici si reclinano su foglie vizze su cortecce aride su
stecchi rigidi, e odore di dissolvimento è nell'aria: il cespo si addorme
nell'imminenti brume. Kalypso lia pure, difatti, la sua morte ; che
non è scomparsa, ma fine di produzione. Cessando d'immortalare afferma la sua
mortalità. L'agonia comincia con un periodo di riordinamento, in cui i
miti non si moltiplicano ma si assommano, e che è già iniziato
quando l'altro, creativo, ancor dura. Lo motivano, del resto, le stesse
qualità psichiche proprie dei Greci: di ordine di armonia di chiarezza.
Qualità che furono per fortuna, nel principio, assi- stite da una levità
di tocco e da un rispetto per quanto è bello, i quali impedirono che le
si tramutassero tosto in ruvida villania distruggitrice di fiabe.
L'esempio più notevole ci fu offerto, in queste pagine, da chi raccolse
in unico con- testo tutto che si riferiva a Perseo: la novella
della sua nascita, cui è congiunto il fatale as- sassinio del nonno, la
lotta contro la tenebrosa G-orgone, il duello con la belva del mar
etiopico. E un'attività solerte e diligente, cui poco sfugge, e che ogni
occasione cerca per compiere, compaginando rinsaldando, la sua galleria
di dittici trittici Unisce con Cora, pel vincolo della
verginità comune, Artemide e Atena. Trova posto per Ermes dov'è Apollo. E
sovra tutto venera e tutela sempre i miti che riordina. Li ama. Per
ciò non distrugge, e non guasta né meno. Al contrario, tal volta crea:
inventando, per unire due leggende, un passaggio accorto ; dissimilando
due fiabe troppo visibilmente sorelle, a fin di poterle narrare Funa appresso
l'altra senza ripetizione uggiosa; imagi- nando una circostanza, per
colmare un vuoto; innestando un particolare nuovo su altri più
antichi. Caca somiglia troppo a Caco nella forma verbale perché a cotesti
ordinatori di miti non cada nel pensiero di trovarle un posto nel
racconto del furto: ed ecco ch'ella diviene sorella del ladrone, e spia
dell'abigeato. Andromeda è il troppo trasparente riscontro di Atena a
canto di Perseo nella lotta contro i mostri del bujo, perché non
abbia a essere (e con questa altre cause v'influiscono per diversa via)
trasformata, e mutata in amante. Affinché però un cosi fatto
procedere si man- tenga utile, è necessario, da un lato, che le va-
rianti da comporre in ordine intorno a un mito non sieno strabocchevoli
di numero o irriducibili di forma; è necessario, dall'altro, che
l'amoroso rispetto per le fiabe si mantenga incorrotto. Col cessar
di queste due circostanze l'attività assom- matrice prende a divenire
impotente, perché il suo compito s'è di troppo accresciuto, e
deleteria, perché i suoi modi si sono inviliti. Per questo motivo
essa si riduce a una compilazione che, come presso Apollodoro, deve
limitarsi a citar le varianti inconciliabili con la volgata, a ricordar
Demofonte per preferirgli Trittolemo, senza riuscire né ad eliminar quel
d'essi che sia soverchio né a superare il dissidio contaminando e
creando. Non anche creando : però che la forza creativa scompaja in una
colla simpatia concorde per le leggende. Quasi sensibilmente il mito
diviene oggetto di erudizione, opera di dotto lo scriverne, ufficio di
memoria e vanto di facoltà tenace il serbarne i modi e i nomi di
persone e luoghi. Ora, quando il mitologo ha esausta la forza
inventrice, e s'è ridotto a catalogar la ricchezza delle fiabe, la sua
attenzione è tutta rivolta alla forma di esse, ai j)articolari, cioè, il
cui va- riare costituisce fogge nuove della saga, e persino alle
sfumature. Ma per ciò appunto la sua credenza si sposta: non può più,
come nel prin-cipio, poggiare suiresteriore, perché egli non ha una
redazione di ciascun mito cui sola presti fede, ma di ciascuno ne scorge
parecchie : deve in vece fondarsi sull'interiore nucleo, su la sostanza,
su quel che, in breve, è comune, oltre ogni variante. Le vesti si mutano
sotto i suoi occhi: gl'importa il corpo. Ma questo effetto somiglia
quello che segue alla deformazione storica del mito. Quando difatti
l'artista non è più intento a perseguir, nei carmi, di eleganze
ritmiche ciascuna peculiarità della fiaba, ad eleggere un suono per
ciascun colore; quando della fiaba interessa il fatto ch'ella
contiene, per la storia, e il fatto poi vale come causa: allora le
vesti adorne e diverse cadono; importa il corpo. Ed ecco il razionalismo
dare, in entrambi i casi, una veste nuova a quel corpo, ch'egli
crede più consona, sovra tutto più seria e dignitosa. Il mostruoso
aspetto di Caco, la spelonca, la clava d'Ercole, i bovi al
pascolo, il furto e la sua astuzia, la lotta risonante sotto il cavo
etra, il sussultar delle rive all'urto im- mane : tutto ciò non conta.
Conta il duello tra due, e i due nomi: Ercole e Caco. Su questi la
com- piaciuta furberia del loico intesse un'altra sua trama,
imagina gli eserciti, ne fìssa gl'itinerarii con le norme d'età posteriori,
concepisce le tempeste invernali proibenti il tragitto alla flotta
erculea: crea una fiaba nuova su l'antico scheletro, die resta ed è creduto. Originatosi,
cosi, dalle stanchezze della mitopeja, come un sentiero costrutto su scorie,
il mito razionale potrebbe vivere, se la sua nascita non fosse
troppo tarda. La saga di un Ercole errante per monti e piagge, in imprese
di cavalleresca generosità, serba in sé, chi ben guardi, non minore forza
di vita che la leggenda dell'eroe solare. Quel che le manca è l'aura
d'intorno: per ciò, il suo fiato è breve. La leggenda non è ancor
morta, quando essa saga si forma; e, rimanendole al fianco, le è assidua
pietra di paragone. Per superarla e sostituirla, la saga deve
difendersi discutendo, far valere palesi le sue origini logiche non
artistiche. Onde il suo vero e mortale scapito: però che la logica
chiegga, anche fra gli antichi, d'esser discussa; l'arte, fra gli antichi
in ispecie, d'essere imitata. Quindi è che il razionalismo non genera
figli morti, ma, Saturno diverso, ingracilisce, col soffocarle di
greve afa, le sue creature fin dalla cuna. A questa capacità
distruttiva, che il raziona- lismo rivela a suo proprio danno, non
corrisponde una eguale potenza deleteria per le belle favole: che
diviene esso della fiaba la foggia estrema. Né pure allora si serba
indipendente; vive anzi come un parassita accanto ai testi dei poeti
e degli storici. In tarde età riflessive il lettor di Vergilio o
quel di Pindaro accetta la loro fan- tasia mitica, ma dopo esser divenuto
conscio del suo sostrato. Dice: due eserciti si son combattuti nel Lazio,
condotti da Ercole che vinse e da Caco che fu battuto ; ma al poeta piace
esprimere altrimenti il fatto, approfittando della sua libertà „. pure
dice: Caco era servo di Evandro e devastava i campi col fuoco; questo
significa il vate con frase adorna „. E, se ha sensi di gentilezza,
s'india nell'espressione libera e nella frase adorna. Il razionalismo gli
ha fatto da passaporto ; ma l'arte ha conservato il mito. Ciascuna
leggenda avrà molte di queste giu- stificazioni; qualcuna ne cercherà in
vano; tutte ne sentiranno il bisogno. Cosi l'ultima forma in cui la
saga vive, soccorre, pur nella sua esigua e stentata energia, le forme
più antiche, più belle e da più possente alito nate. Malefica è
appena quando in una mente rozza, distruggendo intorno a sé, predomina
sola. Notevole è sempre perché, ultima, contiene i motivi del morir
la mitopeja pagana. La favoletta pretensiosa del razionalista è tutta contenuta
nell'ambito di una esperienza soda della pratica umana: prova, l'esercito
eracleo presso Dionisio. Supera quindi essa il mito, che non
possiede altr'e tanta sicurezza di conoscimento umano; non delle
esteriori fogge sociali, ridotte per quello a poche linee sommarie e a
rapporti semplicissimi ; non delle tortuosità e dei meandri intimi
all'anima: giacché nelle prime porta il razionalismo una imaginativa più
nutrita e più competente, consona ai tempi progrediti e agli
instituti nuovi evoluti; nelle seconde reca una certa gi'ossezza logica
che se è lungi al sottile acume del psicologo, è sopra, d'assai,
all'ingenua intuizione primitiva. Ma vanitoso di questa sua prestanza su
la leggenda, il razionalista non s'avvede d' una inferiorità che la
compensa: smarrendosi in lui pur ogni traccia del fenomeno naturale come
potenza che trascende, come magnificenza ricca di colori di suoni e
di moti, come mistero pregno d' interrogazioni. Ciascuno di cotesti
aspetti ha, quando il razionalismo regna nella mitopeja, trovato ad esprimersi
nel culto, nell'arte, nella scienza ; può quindi, e deve, venir separato
dalla saga, in cui né anche l'uno dei tre vien più avvertito, se
non forse, tal volta, per ipotesi filosofica. Evidentemente, dunque, è venuta
meno la condizion prima ch'era stata già bastevole e necessaria al
nascer dell'attività mitopeica; la condizione per cui lo spettacolo della
Natura, nel punto che lo spirito umano lo assaliva per esprimerlo in
sé, non disponeva per cotale manifestazione se non d'una imprecisa
conoscenza degli avvenimenti umani onde era, nel suo grosso, assomigliato; la
condizione senza cui la spontaneità mitologica si allontana nelle tenebre
d'un pretèrito memorando. Se non che la fine della spontaneità mitologica,
che cosi si spiega, non è la fine dell'interesse spirituale verso il mito,
interesse dal quale trae inesausta vita, per secoli, la mitopeja. Vedemmo
fioriture minori di saghe in forza di questo interesse; tanto forte
ancora nelle masse da indurre regnanti e poeti a foggiare e contaminare
fiabe per accre- scimento di lor potenza e di favore. Più tardi, se
non induce a creazioni novelle con l'imitare le prische e il ricomporle,
spreme però nelle guise più varie, secondo i gusti più diversi (se-
guimmo nei particolari tal opera), molteplici aromi dal mito, a
inebriarne spiriti lontani; e ogni aroma si esala in seguito a una
alterazione, e una alterazione ognuno prepara; e dalla vi- cenda
vasta si conferma la forza vitale del genio mitologico e del mitopoetico.
Ma lo storico, che sa l'uomo e le sue potenze nei limiti oltre che
nei modi, da questo adoperarsi dello spirito pagano intorno alle favole
dorate, spiega, deducendo, dopo la fine della creazione spon-
tanea, il termine della ripetizione devota. Difatti, ogni volta che un nuovo
compiacimento attrae l'antico verso la saga, quando il patriottismo lo
lega ad essa, e la sensualità lo diverte di essa, e la fede se ne turba,
e il senso psico- logico la scava; ogni volta, una virtù di quella
appare splendendo, e si esaurisce vanendo: perché, al pari d'ogni
passione, patriottismo fede sensualità, energie indipendenti e non
fa- ticabili, non si arrestano mai su la lor via : ma da ogni
letizia si sdanno per un'altra che sia nuova, e dopo aver succhiato il
sangue migliore degl'idoli loro li lasciano cader dietro sé, cenci
vuoti di sostanza o lerci di dissolvimento. Grli approcci si rinnovano su
una su vénti saghe; le energie si succedono, ad una due, a due
dieci; il culmine si attinge in cui il groppo profondo dell'anima è uncinato
dal mito: ma poi la patria l'amore l'altare cercano ostie diverse,
e canti di altro suono si intonano in loro servaggio. Nel suo complesso lo
spirito dei Gentili si distrae lentamente dalla mitopeja, le
diviene a poco a poco estraneo e si immerge in altre creazioni ;
s'aprono nuovi stadii spirituali in cui l'uomo, colmato a pena uno
stampo, prende a foggiarsene e a riempirne un altro : maggiore.
E il disinteresse mitopeico: la seconda morte che la storia deve
registrare nelle sue pagine. Non è, né pur essa, senza compenso; però
che una resurrezion i)arziale pare la segua. Quando, e come, e
perché, non è qui luogo opportuno a dirsi: chi narra dell'Umanesimo lo
dice; e chi fa opera d'indagine letteraria nei secoli più re- centi
e nel nostro raccoglie le tracce e cumula le testimonianze della terza
vita. Qui si elegge la figura, tocca da melancolia, di Maurice
de Guérin, che rivide con questi nostri occhi mortali il Centauro,
avendolo i fragori marini e l'albe di perla e le sere di ciano educato
allo spettacolo insueto. Egli potè dalla imagine favolosa esprimere nuove
bellezze poi che, con- cordando col mito nella sensibilità viva
della natura, vi seppe scernere làtèbre occulte, ove languiva la
mestizia nata dalla coscienza della propria debolezza in confronto con le
cime sfiorate a volo dall'anima. E rinnovò, cosi, il gesto mirabile di
Kalypso, ritrovata la spola d'oro. Ma è miracolo breve, e rado. Un poeta
nostro, che sé con vigore asseriva pagano, vide Ninfe e Driadi egli
pure; eran però fuggiasche, e l'anelito del suo cuore si compose prima in
sdegno violento contro la presunta causa della fuga, Cristo, che in
ammirazione amorosa verso le bellezze virginali. A un altro, vivo e
fecondo, Versilia ninfa boschereccia deve dire, sbucando da
l'albero, Non temere o uomo; e il rimpianto strappa biasimo fiero avverso chi
più non vede gli antichi numi italici: vivon eglino pieni di
possanza; hanno il fiato dei boschi entro le nari. Ma non è giusto il suo
rimproccio; il cuore non si sfa nel petto come frutto putre. A lui
medesimo, che pure vi portava, nuova, la sua sensualità ferina e torbida
e tormentosa, il mito, creatura fraterna alle stelle ed ai sogni, sembra
vanire implacabile, senza che il vanto e le promesse d'un'arte magnifica e
fin troppo cosciente della sua maraviglia valgano a fermarlo un istante,
né meno presso le ruine del tempio antico, e l'alte statue cadute dai
fastigi, e le colonne tronche. Si allontana melodiosamente Perché?
Eumene di Cardia, nell'età dei Diadochi, sogna, innanzi a la
battaglia contro Cratere, l'assistenza di Demetra, avversa ad Atena, e l'
imposizione di una corona spicea. Il di seguente i soldati si
ricingono tutti del segno augurale; e la promessa divina incita i cuori, come
il calcagno i cavalli. Sei secoli dopo, Costantino annunzia (si
narra) la croce apparsagli e l'esortazione fatidica in hoc signo vinces; e lo
sprone è uguale. Eloquenza del fatto minore! Nei petti si muta
la fede; le masse scerpano dagli spiriti creduli le credenze adusate
e (è la forma di scetticismo lor propria il mutare credenza) altre ne accolgono
al posto; scompare l'aura benigna in cui si moltiplicano gli echi della
saga; si isterilisce il terreno fecondante ove ne penetravano le
radici. E accade che il valore religioso della fiaba, il valore che
sembrava, ed era presso molti, scom- parso e ottenebrato, si riafferma
non per rav- vivarla ma iDer offrire appiglio alla sua distru-
zione. G-li eroi non avevano cessato di essere, nel profondo delle
coscienze, al meno, iddii scaduti; e con gli iddii vengon ripudiati, di
mano in mano che la Divinità si schiarisce e si eleva agl'intelletti
collettivi: Perseo con Demetra. Il resto opera la scienza. Non la
nostra, che rispettiamo oggi come vera. Ma tutte, le rispettate durante i
secoli come vere e come sole, sostituiscono nelle menti la loro verità e
il loro equivoco alle interpretazioni fan- tastiche; e sopprimono quei
vincoli fra popolo e mito pagano, che un appagamento della cu-
riosità pel fenomeno poteva ancor stringere. L'urlo delle dimonia nel
temporale e l'arcobaleno di Noè condannano Caco ed Iride, come Sansone soppianta
Perseo. Si che l'elemento scientifico, insito nella saga (se non
intrinseco a lei) fin dal suo nascer, contribuisce con il religioso
al suo perire, quando l'una e l'altra sete umana, di sapere e di credere,
abbian trovato altr'acqua al loro bisogno. Morta la capacità creativa
della mitopeja, stornatosi l'interesse spirituale ad altre mete,
indottesi le masse per diversi cammini; non restan più, dell'opulenza
antica, che i riti agresti simiglianti per sostanza o per forme ai pagani,
e l'ammirazione nostra nata da l'erudito ricordo. Ma i riti agresti
accolgono festoso scampanìo di chiese, e ignorano il nume degli antichi
dèi. E noi siam piccola schiera ; bramosa in vano di quella fresca
e ingenua maraviglia, onde s'originò la saga; volonterosa in vano del
passionato amore, fra cui si svolse; pallida, dinanzi
l'ombre crepuscolari ove si rifugian labili le figure favolose evocate un
istante, pallida di accorata nostalgia. Restano anche le storie
dei miti e la storia della mitopeja classica: nudrite, dunque,
tutte di nostalgia. Ho procurato che la bibliografia speciale dei
suc- cessivi argomenti da me dibattuti nei capitoli di questo Libro
II fosse né ingombra dell'inutile né monca del pregevole o dell'indispensabile.
Diverso criterio mi parve in vece di tenere per la bibliografia generale
su gl'in- dirizzi varii che intorno al mito si combattono per opera
degli studiosi, su i problemi di metodo e di ermeneu- tica, su le
dottrine che filosofi sociologi psicologi etnologi ecc. ecc. sostengono od
oppugnano. A raccoglier difatti quest'altra bibliografia un grosso volume
mal basterebbe; e persino una scelta, oltre ad essere in parte
arbitraria, usurperebbe grandissimo spazio. La omisi dunque presso che
intera, salvo pochi accenni sporadici; né l'includerla sarebbe stato
dicevole, per esser questo Saggio opera, non metodologica né sociologica,
ma sto- rica; tale, ciò è, che la posizione da me assunta di fronte
alle varie correnti e agli opposti principii degli studii mitologici deve
risultare, non da discussioni teoriche e generali, bensì dal giudizio
particolare recato nella in- dagine e nella storia dei singoli
miti. Un ottimo esempio di ciò che potrebbe farsi è il recentissimo
lavoro di Luigi Salvatorelli Introduzione bibliografica alla scienza
delie religioni (Roma): lavoro che, per il nesso intercedente fra
religione e mito, riesce utile anche per chi studia in particolare
quest'ultimo. A. F., Kalypso. Andromeda. Il racconto di Ferecide. Il
problema che si presenta primo intorno al mito di Perseo e Andromeda consiste
nella ricostruzione del racconto presso Ferecide, del quale ci è bensì
pervenuta nell'estratto di uno scoliaste la narrazione della nascita
dell'eroe e del suo soggiorno in Serifo e dell'impresa contro Medusa; ci è
pervenuta anche, nella medesima fonte, la parte estrema delle vicende cui
Polidette ed Acrisio andarono incontro dopo il ritomo di Perseo
vittorioso; ma difetta del tutto l'avventura di Andromeda (cfr. Scoi. Apoll. R.
= Fee. fr. 26 Mùller ì^/fG'.). Ma la parte mancante del mito in
Ferecide può venir ricostrutta con sicurezza bastevole, con l'uso del
testo di Apollodoro (Wagner). Se si riesce difatti a dimostrare che per
tutto il resto della fiaba quel che ci avanza di Ferecide e quel
che racconta Apollodoro son congiunti da strettissima simiglianza, divien
lecito ritenere che il testo della Biblioteca possa supplire senza errore né
equivoco la lacuna ferecidea. ANDROMEDA Ora, bisogna anzi tutto
tener presente che il mito di Perseo, mentre non ci è giunto nel testo
proprio di Ferecide, ma solo attraverso al riassunto d'uno scoliaste, ci
resta invece integralmente nella Biblioteca. È quindi a priori chiaro che
in quest'ultima debba essere qualche particolare pili che in quell'altro.
Ma ciò può anche provarsi ne' singoli casi.In due punti ApoUodoro dà a
lato del suo racconto una variante : 1. oltre ad attribuire la paternità
di Perseo a Giove, riferisce senza esplicita preferenza che altri
l'attribuivano a Prete fll 34); dopo aver raccontato l'uccisione di Medusa
per opera di Perseo, testimonia d'un'altra versione, per cui la
Gor- gone è uccisa da Atena. Ciò mostra ch'egli aveva presenti
racconti un poco diversi ; ma mostra a un tempo che sapeva serbarli
distinti: onde è legittima l'opinione che forse non si sarebbe
notevolmente scostato da una fonte importante qual'era Ferecide senza
avvertircene in modo aperto. Di ben lieve natura difatti son le
varianti che, senza l'avvertenza dello stesso Apollod., separano il suo
racconto da quello degli scolii citati. Nella Bihl. è detto che Polidette
ottiene da Perseo la promessa del capo di Medusa come sQavov ... èitl
tovg 'Injtoòa- f^eìag T^g Oivofidov ydfiovg; nello scoliosi parla bensì
àQWMQavog non delle nozze : ma par chiaro che l'omissione è qui dovuta
solo al riassumere, tanto più che in entrambe le fonti Perseo fa
spontaneamente la promessa mentre gli altri promettono cavalli. Poi
in ApoUodoro (II 39) Ermete dà a Perseo una falce che non gli dà nello
scolio: evidentemente chi riassunse omise questo particolare ; e difatti
la falce è menzionata nello scolio medesimo quando l'eroe è per
recidere il capo di Medusa. E lo stesso è da dirsi quando la Bihl. (II
40) reca i nomi di tutt'e tre le Gorgoni, Steno, Euriale e Medusa, là dove lo
scolio dà sol quello di quest'ultima; quando Apollod. narra di Atena che guida
la mano di Perseo e gl'insegna a guardar Medusa nello scudo per non
esserne impie- trato, mentre lo scoliaste riferisce solo che gli dèi
Er- mete e Atena insegnano all'eroe Ticàg xqÌ] zìjv KecpaÀìjv
àjioTeftEÌv à^teaTQUftfiévov; quando in Apollod. dal capo reciso di Medusa
nascono Crisaore e Pegaso, di cui tace il riassunto da Ferecide ; quando
la fonte più estesa fa rifugiare Danae e Ditti in Serifo su l'altare,
mentre la pili concisa omette a dirittura ogni accenno al riguardo;
quando infine nella Bibl. la gara in cui Perseo uccide il nonno Acrisio è
indetta da Teutamida re di Larisa in onore del padre defunto, e nello
scolio in vece si fa cenno solo a un àyoyv vétov iv Tfl Aagioar]. Unica
più profonda discre- panza è questa : ApoUodoro dice che Perseo gareggiò
nel pentatlo; lo scolio per contro afferma névvad'Àov o^jio) ^v. Ma
qui evidentemente sussistevano tradizioni un poco diverse: contro la
tradizione che ricordava un pentatlo polemizza lo scoliaste e la sua
recisa negazione fa a sufficienza intravvedere una tesi opposta e taciuta: la
quale dev'essere a punto o la ferecidea accolta da Apollodoro altra
analoga. Non è questo l'unico caso in cui uno scoliaste introduca
tacitamente una correzione nel testo che riassume e di cui cita
l'autore. Stabilita pertanto la strettissima attinenza fra Ferecide
e ApoUodoro è da dedurne che in Ferecide fosse identico (salvo le
insignificanti sfumature de' più piccoli particolari) alla versione
apollodorea anche l'episodio di Andromeda, del quale gli scolii di
Apollonio Rodio tacciono. Ed è adunque legittimo valersi di ApoUodoro per
colmare la lacuna nel racconto ferecideo. Col possesso in tal modo
conseguito di una redazione comparativamente antica del mito di Perseo e,
in particolare, dell'episodio di Andromeda, sono segnate le vie per cui
la critica deve procedere nel suo esame : però che la natura stessa del
racconto orienta l'analisi intorno a Perseo, prima ; ad Acrisio Preto
Polidette e Ditti, poi ; ad Atena e alla Gorgone Medusa, in séguito ; a
Cefeo Fineo Cassiepea, da ultimo. IL Perseo. Le imprese di
questo eroe sono nu- merose e varie nell'apparenza, ma un occhio esperto
non esita a ridurle tutte a un medesimo tipo. Uccide l'avo;
decapita Medusa; abbatte il >t^roj; libera Ditti e la madre Danae;
impietra Polidette e quei di Serifo : compie in somma parecchi fra i
consueti atti degli eroi solari. Che il sole nascente sia considerato
l'assassino del sole, suo padre, scomparso la sera innanzi : che al sole
competa la perenne lotta contro le tenebre, nei paesi del Nord
dell'estremo occidente, e contro i mostri tenebrosi che ivi abitano : e ormai
cosf risaputo che può esser per criteri soggettivi negato, ma non deve
più esser ribadito con argomenti. Cfr. Beloch Griech. Gesch. Absch. VI
Mythos und Religion e SANCTIS (si veda), Storia dei Romani Religione
primitiva dei Romani e GL’INDO-EUROPEI IN ITALIA. GL’ARII IN ITALIA. Un
eroe solare ri- tiene difatti Perseo, a. e., 0. Gruppe nella sua
Griech. Mythologie. Né sono sufficienti, anzi non sono
valevoli , le argomentazioni in contrario di E. Kuhneet, in Roscher Lex.:
giacché egli dimentica la differenza profonda A parte (e, secondo noi,
insostenibile) sta la teoria di A. J. Reinach " Rev. de l'hist. d.
relig.: Perseus 'le destructeur' n'est sans doute qu'un vocable qu'on
donnait à son arme, la harpé, adorée comme Vakinekés l'était chez les
Scythes e sensibile che intercede fra i motivi naturalistici e gli spunti
novellistici, cui tutto il mito di Perseo vuol ridotto. A questo
proposito sarà anzi bene osservare che, per reagire agli eccessi di
quegli studiosi che in ogni eroe videro un dio solare e un fenomeno
meteorologico in ogni episodio dei miti, i recenti indagatori caddero
nell'eccesso opposto di negare ogni sostrato o nucleo na- turalistico e
di ridurre ogni episodio a novella. Sintomo significativo di questo
secondo eccesso è l'articolo di R. Sciava in " Atene e Roma. Assai
equilibrato era in vece il saggio del Comparetti Edipo e la mitologia
comparata Pisa. Ma è notevole che quest'ultimo autore deve lasciar nel
bujo il significato e l'origine della Sfinge; e quel primo,
trattando di BELLEROFONTE (si veda – H. P. Grice, “Vacuous Names”), non
spiega la CHIMERA (Grice, Vacuous Names). Entrambi quindi appajono per
ciò stesso attenti a un aspetto del fenomeno mitologico non a tutti. È
quindi metodo migliore, credo, far giusta parte nel mito cosi al
naturalismo come alla novellistica. Il problema poi intorno alla priorità
dell'uno o dell'altra entro le singole saghe va, in parte, resoluto caso
per caso; in parte è d'indole generale e vien trattato in questo saggio. Qui
diremo solo, in breve, che l'intuizione naturalistica suppone una grossolana
conoscenza della natura e dell'uomo, mentre la novella è già densa di più
larga e più ricca esperienza umana. Comunque, procureremo, dopo queste
premesse, di sceverare quei due elementi, naturalistico e novellistico,
nei varii nuclei in cui abbiam veduto per sé stesso spez- zarsi il
racconto di Perseo. È tesi vecchia: cfr. per es. il sennato art. diJ.
Ré- viLLK in " Rev. de l'hist. d. relig. Acrisie, Prete, Polidette e
Ditti. Nel racconto Ferecideo, riassunto dallo scoliaste e ricostrutto
dalla critica, attira fortemente l'attenzione il particolare della fuga
di Acrisie re da Argo in Larisa, dal Peloponneso alla Pelasgiodide tessalica:
fuga con cui è connessa la menzione del re pelasgico Teutamida e di un
ijQipov in onore di Acrisie medesimo (Scoi. Apoll. R.). Si son
sempre in ciò vedute tracce d'un'influenza tessa- lica sul mito di Perseo
(cfr. Kuhnert). Ma ben più sembra che se ne possa dedurre ricordando
quanto, dopo il Busolt e il Beloch, ha dimostrato P. Cauer Grandfragen
der Homerkritik, intorno allo scambio fra Argo peloponnesiaca e Argo
tessalica ["Aqyos JleÀaa- yiKÓv deìVHiad. B 681). Se difatti si
danno casi in cui l'Argo pelasgica dei Tessali s'è potuta identificare
con l'Argo del Peloponneso cosi che gli eroi di quella furono a
questa attribuiti, è molto probabile che l'Argo di cui è re quell'Acrisio
che la stessa leggenda peloponnesiaca fa pertinacemente morire in Larisa sia,
in origine al meno, non quella pretesa dai mitografi antichi e critici
moderni, si l'altra di Tessaglia. E si può con probabilità scientifica ritenere
che abbiamo in Perseo un nuovo caso d'un equivoco di cui altri casi
furono già constatati e che si ripresenta con i caratteri consueti.
Da questa constatazione fondamentale traggono rilievo alcuni
particolari, a cosi dire, laterali del mito, il cui valore era fin qui
stato in gran parte misconosciuto; particolari i quali son pure, a un
tempo, riprova della verità di essa ipotesi. Cosi fatti sono: 1. la discendenza
di Ditti e Polidette da Magnete; di cui dà notizia Apoll. I 88, in un
luogo che non è, come il v., sotto l'influsso di Ferecide ma rispecchia
fonte diversa; 2. la nascita di Perseo non per opera di Zeus si di Preto
fra- tello di Acrisie : sulla quale informano Apoll. II 34, che
riferisce questa come una tradizione parallela alla ferecidea, e lo Scoi.
A II. S, che fa risalir la notizia a Pindaro. 11 primo di questi
particolari lascia chiaramente iutravvedere una forma della fiaba in cui i
due salvatori di Perseo e Danae sono personaggi tessalici della
Magnesia: se adunque Acrisie è, in origine, re pelasgico, quella ha da essere
la forma primitiva della fiaba. Onde e assicurato al nucleo originario
del mito l'intervento di quelle due figure. 11 secondo particolare
poi è d'importanza anche maggiore. Per esso noi dob- biamo di fatti
scegliere fra la tradizione che dice Zeus padre di Perseo e quella che
padre afferma Preto : e non possiamo non propendere a riconoscere
carattere argolieo nella prima, ricordando quanto nei miti e nella vita
dell'Argo peloponnesiaca Zeus abbia parte, cosi che fin Argo l'eponimo
del luogo, è figlio di lui (Esiodo fr. RzACH^ = Paus. Il 26, 2; cfr.
Feeec. fr., MùLLER FHG). La tradizione pertanto che dice di Preto
sarebbe da ritenersi, in contrapposto, tessalica, e quindi anteriore a
quella su cui gl'influssi peloponnesiaci son già palesissimi. E poiché col
delitto di Preto si riconnette bene la cacciata di lui per opera di
Acrisie irato, allo strato tessalico appartiene, forse, anche quest'altro
spunto: su cui vedi Apoll. Il 24 (diverso da Paus. Il 25, 7 e pili ancora
da Ovidio Metani. versi; i quali riproducono una tradizione già alterata
da elementi estranei introdotti dalle genealogie peloponnesiache,
per cui poteva interessare che Preto riuscisse pari ad Acrisie
addirittura lo superasse). Né contro l'ipotesi che Preto appartenga allo
strato tessalico del mito crea ostacoli il rilievo ch'egli acquistò poi
nelle saghe tirinzie : che potrebbe essere, come riteniamo, posteriore al
suo trasporto nell'Argolide insieme con Perseo e Acrisie. Anzi la nostra
congettura, ove paja ragionevole, spiega forse anche il valore
naturalistico di Prete, ritenendolo analogo a Zeus, e da Zeus sostituito in
regioni ov'egli era poco noto in sul principio e ove potè localizzarsi
solo obliterando il proprio valore. Che però, velatamente, appare anche
nella connessione con i Liei C Luminosi) in cui egli è posto dtiìVIliade
Z. Tuttavia gli elementi cosi sceverati, che appartengono potrebbero
appartenere a uno strato tessalico della leggenda, non sarebbero di per
sé sufficienti a provare di quello strato l'esistenza, ove accostati l'un
l'altro non dessero modo di trarne un racconto organico e coerente,
che potesse reggere al paragone di altri svolgimenti mi- tici e
novellistici analoghi. Ora è notevole in vece che, tenendo conto dei
materiali tessalici, espungendo le inserzioni argoliche, si giunge a
ricostruire la trama compiuta d'un mito: serbate le due figure di Acrisio e di
Preto di cui l'una ha avuto culto in Larisa, l'altra è anteriore a Zeus
peloponnesiaco e ne sarà sostituita; serbato l'oracolo delfico (Feeec. in
Scol.ApoU. R.) che diviene anche più dicevole per la vicinanza e le
attinenze fra Delfi e la Tessaglia; serbati Ditti e Po- lidette figli di
Magnete, onde si acquista anche sufficiente notizia del luogo ove
trovarono asilo Perseo e Danae; serbata in fine l'uccisione di Acrisio a'
giuochi larisei: ne nasce un racconto che è omogeneo e definito, e
si raccomanda quindi tanto per la sua localizzazione geografica uniforme quanto
per la sua coerenza interiore. Incerto potrebbe rimanere sol tanto se allo
strato tessalico a quello peloponnesiaco abbia a farsi risalire il nome e
la figura di Danae: giacché se il secondo caso fosse il vero bisognerebbe
supporre che essa sostituisse un nome e una figura più antichi. Ora se è
certo che nell'Argo del Peloponneso Danao e le Danaidi, cui Danae
si riconnette senza dubbio, costituiscono un vigoroso e caratteristico ceppo
mitico; non è però man certa la presenza di Danaidi in Tessaglia, se si
cfr. Scoi. Apoll. R. e Antonino Liberale. Va pertanto conchiuso che
Danae può appartenere assai bene allo strato tessalico del nostro mito; e che,
se non è dicevole ai fini della ricerca presente il vagliare il problema
mitico di Danao, in questo problema tuttavia la nostra ipotesi intorno
alla primitiva sede della saga di Perseo s'inquadra
ottimamente. Restano cosi delimitate a sufficienza le due stratificazioni
distinte in cui si spezza quell'episodio del nostro mito ch'è intorno ad
Acrisio e alla sua morte. Né è dif- ficile stabilire l'epoca
approssimativa in cui la seconda si sovrappone alla prima di esse. Se
difatti Zeus è, come congetturammo, la sostituzione peloponnesiaca del
Prete tessalico, quando Vlliad. S 319 dice Perseo figlio appunto di
Zeus, se ne deve dedurre che come l'età tarda del passo lascia buon
margine alla leggenda tessalica di Prete, cosi la sua comparativa
antichità, giacché anche le meno antiche interpolazioni dell'Iliade son
certo abbastanza vetuste, fa risalire non poco nei tempi l'inter- vento
del Peloponneso. Non rimane adunque che studiare partitamente l'uno e
l'altro strato. Affermata una volta l'esistenza dello strato
peloponnesiaco come posteriore al tessalico, il problema critico consiste
non tanto nel cercar le cause singole dei singoli nessi instituiti fra il mito
di Perseo e il Peloponneso, quanto nel graduarli cronologicamente per
seguire passo passo, fin che è possibile, il processo di penetrazione di
quel mito in quel territorio. (Le testimonianze si veggano raccolte dal
Kuhnert in Roschee Lex.; cui mi richiamerò volta a volta). Ora non v'ha
dubbio che al complesso di piccole saghe esistenti in Micene in Tirinto
in Lerna in Midea e nella stessa Argo non che in Elo e in Cinuria
dev'esser andata innanzi la diffusione del culto a Perseo e alle figure
che a lui si attengono miticamente. Ed è del pari certo che cotesta
germinazione di miti secondari sul ceppo del principale dev'essere stata
a bastanza tarda se nella trama vera e propria della leggenda le
peculiarità locali non han potuto trovar posto adatto. Ma ben altro è da dirsi
riguardo a Serifo: per cui è a priori possibile cosi che il culto
abbia preceduto la leggenda onde ivi son localizzati Ditti e Polidette,
come che sia avvenuto l'opposto. Nel primo caso sarebbe però da spiegare
perché il culto di Perseo abbia toccato Serifo, a preferenza di ogni
altra dell'isole vicine. Nel secondo caso in vece rimarrebbe senza risposta
la domanda che chiedesse il motivo onde Serifo fu dai mitologi preferita
ad altre isole, anche pili .vicine all'Argolide, come sede del salvator di
Perseo. Né l'esame della genealogia di Ditti e Polidette conduce ad
alcun che (Febeo, fr. -= Scoi. Apoll. R.), come di quella la quale
contiene bensì riferimenti a Danao e all'Argolide, non a Serifo. Nel mito
primitivo il luogo donde Perseo avea da venire per uccidere Acrisie era
senza dubbio indicato, in modo vago s'intende, a oriente. Più tardi
la localizzazione dev'esser divenuta più esplicita, e sappiamo che nella
Magnesia s'era trovato il punto dicevole, di cui per altro ignoriamo il
nome. E non e improbabile che questo fosse tale da determinar per
ana- logia a dirittura omonimia la scelta di Serifo fra l'isole che
sono ad oriente e non lontano da Argo peloponne- siaca. Pure accettabile
sembra l'ipotesi che la scelta avesse un motivo unicamente geografico —
l'est; ma è ipotesi non sufficiente a spiegar tutti i fatti se si guarda
all'isole che sono nella stessa giacitura di Serifo; ed ipo- tesi che
dovrebbe, quindi, integrarsi con altra la quale supponesse un intervento
di casualità. Il problema rimane ACBISIO, PBETO, POLIDETTE E DITTI
333 dunque senza soluzione recisa. A ogni modo Serifo deve
essere entrata assai presto nel mito peloponnesiaco perchè vi rimase
nettamente e saldamente incastrata. E poiché lo stesso è da dire di Zeus
che prende il posto di Preto, bisogna ritenere che questi due punti
fossero ben fissati già quando il culto di Perseo prese a difiondersi
per tutto il Peloponneso. Un momento successivo è occupato dalla
saga di Tirinto (Apoll.). Questa saga non si sarebbe dovuta creare se il
culto di Perseo non avesse in Tirinto assunto importanza ben maggiore che
nell'Argo medesima, costringendo i mitologi a darne una giustificazione.
D'altra parte se era plausibile che, come si disse da quelli, dopo
aver ucciso il nonno i e d'Argo, Perseo si vergognasse sls "Aqyos
ènaveÀ&Elv, era facile legittimare la scelta di Tirinto ch'egli
avrebbe fatta in cambio, se a Tirinto s'era radicato e svolto quel Preto
che impor- tato forse dall'Argo tessalica non aveva trovato favore
nell'Argo peloponnesiaca. Onde i miti tirinzii di Preto e Bellerofonte e
di Perseo e Megapente mostrano entrambi che i personaggi della saga tessala
attecchirono assai meglio in Tirinto che in Argo. Seguono poi tutte
l'altre saghe minori e meno importanti (quella di Micene p. e.: Pads.), che
sfuggono al racconto d’Apollodoro, testimoniando per tal modo la loro
recenziorità. La sanzione definitiva però dell'insediarsi nel
Pelopon- neso, specialmente nell'Argolide, il mito di Perseo, i;
data dai genealogisti. Combinando Apollodoro (con Ferec. fr. = Scoi. Ap.
R.) risulta il seguente schema che può valere come volgata su
questo punto: Linceo Ipermestra Lacedemone Abante Euridice
ACRISIO Prkto Zeus Danae Megapente PERSEO Andromeda Posidone Amimone
Nauplio Damaatore Pericastore Peristene Androtoe Alceo
Elettrione Stenelo Mestore Ditti Polidette Anfitrione Alcmene Euristeo
Ippotoe ERACLE Tafio Poiché è troppo chiaro che di questa genealogia i
punti fermi sono Danao ed Eracle, il Kuhnert vi vedeva la riprova che
Acrisio e Preto sono originarie divinità argive (predoriche) cui si vuol
imparentare l'eroe dorico più recente Eracle, non senza che nel
contrasto fra questo ed Euristeo sussista traccia della diversità
dei ceppi. Ma se a Kuhnert si può concedere che tardo sia
l'intervento di Eracle nei miti argolici, non gli si può consentire in
vece intorno ad Acrisio e Preto. Per vero il posto che essi occupano
nello schema genealogico è ben motivato, ma da tutt'altre ragioni che la
lor origine peloponnesiaca. Il nome di Danae doveva riportar
sìibito a Danao, cui sarebbe stato da avvicinare per quanto era
possibile; ma due generazioni dovevano necessariamente intercedere: una, quella
di Acrisio e Preto; l'altra, quella delle Danaidi. Più oscura resta la
presenza della terza generazione: di Abante. Ma non mancano
elementi per la congettura. Abante è ritenuto l'eponimo di Abe in
Focide (Stef. Biz. g. v. "Affai; Paus. X 35, 1); capo degli Abanti
di Eubea (Stef. Biz. s. v. 'Affaviig, Scoi. B II. B 536, Scoi.
Pind. FU. Vili 77). Su di lui Strabone 431 ha un luogo che merita comento
: oc oh [rò "AQyog tò IleÀaaytìiòv] oò itóÀiv [óéxovrai] à^Àà tò
zojv QerzaÀ&v 7t€Óiov oSrcog òvoiiuTtyiaig Àeyófievov , &ef.tévov
zovvofia ''Aj^avTog, è^ "Agyovg Ssvq àTioixi^aavTog. Qui è,
sùbito evidente, un giuoco di omonimia fra le due Argo; ma è del
pari evidente che un motivo deve aver indotto a sceglier per l'appunto
Abante per attribuirgli l'introduzione del nome Argo in Tessaglia. E il motivo
non può esser altro che il trovarsi come nel Peloponneso cosi nella
Pelasgiotide tessalica tracce o di lui o del suo culto. La quale ipotesi
concorda bene con la presenza di nomi affini a quello di lui in Eubea e
nella Focide: territori miticamente affini alla Tessaglia. Ma se
ciò è probabile, ne deriva che Abante potè essere importato in Argolide
in una con Acrisio e Preto da l'Argo pelasgica e si spiega in fine la
presenza di lui, terzo, fra Danao e Danae. Per Ditti e Polidette non si
trat- tava in vece che di porli nella medesima generazione di
Perseo e Andromeda, di imparentarli con essi per meglio giustificarne
l'accoglienza: e a ciò valsero nomi come quello di Nauplio, eponimo di
Nauplia, di Damastore, padre dell'argivo Tlepolemo in U., di
Peristene, sposo d'una danaide Elettra in Apoll. Or come lo schema
genealogico studiato fin qui mostra Acrisio e Danae innestati fra Danao
(già anticamente peloponnesiaco) ed Eracle (meno anticamente
pelopon- nesiaco.', cosi i matrimonii fra i figli di Perseo e le
Sglie di Pelope (le testimonianze presso Kuhnert) rivelano la
analoga tendenza a collegar il nuovo venuto eroe con il pili vetusto. E
l'opposto vale per Dioniso che la leggenda fa superar da Perseo [cfr.
Edseb. Chron. II 44
Schone; Cirillo c. lui.; Agost. de Civ.; Scoi. Totr. IL. Questa dev'essere la leggenda più antica;
l'altra in cui il vinto è Perseo (cfr. Kthnert) dovè nascere allor che Dioniso
fu più a fondo penetrato in Argolide]. Che se però lo strato argohco
può esser suddiviso in parti cronologicamente succedentisi, il tessalico
offre occasione a diverso studio. Il personaggio di Danae serve a
gittar, di fatti, molta luce su elementi che a tutta prima sfuggirebbero
nel mito e che sono tutt'afFatto no- vellistici. Certo esso è,
originariamente, vivo di sostanza naturalistica ; si riconnette con Danao
e, come esso, deve valere quale divinità del mare (Beloch Gr. G.)
della nuvola nera o di alcun che di simile: e, se bene forse sia
eccessivo precisare di più, in ciascuno di questi casi è chiarissima la
ragione per che Perseo, l'eroe solare, fu detto nato da lei. Tuttavia, sopra
questo inne- gabile strato, nel mito tessalico Danae ci appare già
ricca di un nuovo contenuto. Il motivo invero della figlia o, più
latamente, della vergine che contro un esplicito divieto divien madre e paga il
fio di questa sua colpa insieme con la sua piccola creatura è svolto in
larga diffusione nel folk-lore. E non ha nulla in comune con lo spunto,
che si fonda sopra una primitiva bambinesca intuizione del succedersi dei soli,
intorno al delitto di Perseo contro il nonno. Ugual carattere
novellistico si riscontra poi in Ditti: il cui nome non è se non il
generico appellativo " pescatore , (cosi che è quasi vana postilla
quella di Ferec. fr. òiy.Tvi>)
àÀievmv) e la cui natura è per tanto assimilabile a quella del consueto
pa- store agricoltore che rinviene la derelitta ed il figliolo abbandonati
alla violenza delle forze naturali. Potrebbe bensì pensarsi anche a una
divinità pescatrice (cfr. la cretese Diktynna, su cui bene giudica Maass
presso Wide Lahonische Kulte e il
Gruppe Gr. Myth.). Ma il contesto della fiaba lo esclude, e al pili concede di
supporre che il caso sia per Ditti analogo a quello di Danae:
che cioè l'indubitabile carattere novellistico offuschi un antico sostrato
naturalistico. Certo in ogni modo che per quel primo carattere non per
questo sostrato Ditti entrò e rimase nel mito di Perseo. Altro è di
Polidette: questa stessa forma verbale si rintraccia difatti in un
attributo di Plutone-Ade, onde, tra altri, 0. Crusios Jbb. Phil. ha
creduto di identitìcar con Ade appunto anche l'ospite di Danae e Perseo.
L'ipo- tesi ci par ragionevole, a patto che si facciano due restrizioni :
anzi tutto non è da credere col Crusius che Ditti fosse epiteto primitivo
di questa figura dell'Ade- Polidette, e da epiteto si trasformasse in fratello;
ma tenendo conto del folk-lore e delle sue forme consuete, è da
pensare invece che originario fosse Polidette, il cui significato
trasparente fa intra vvedere un fondo natura- listico al suo episodio
come a tutto il primo nucleo della saga, e posteriore Ditti. Inoltre
altra è la interpretazione da darsi, io credo, ai rapporti fra
Polidette-Ade e Perseo con Danae. Il Crusius difatti, col far gravitar
tutta l'im- portanza del mito su questa, la riteneva simbolo del-
l'anima che il re sotterraneo rapisce e Perseo (= Ermes) libera. Se al
contrario è vero che Danae è divinità del mare o del bujo e Polidette è
nume sotterraneo, la spie- gazione di entrambi esiste rispetto a Perseo
in un concetto unico. Nel fatto l'eroe solore Perseo si pretendeva nato
da Danae come il sole dall'ombra; ma poi, sopravvenuta per Danae la forma
novellistica, fu concepito un doppione di lei m Polidette. per cui Perseo
viene ad uccidere Acrisio non pur dall'onental Magnesia (v. sopra)
si anche dall'ombra, dalla regione sotterranea, onde ogni mattina il sole
emerge. La cattività di Danae presso Ade-Polidette è dunque giustificata
anche dalla affinità F., Kalypso. ANDROMEDA sostanziale dei due
personaggi. In tal caso, ammettendo la diversità di Ditti e di Polidette,
la tradizione fere- cidea che li fa fratelli e figli di Magnete par che
si debba spiegare come un atto unico di elaborazione mitologica per
cui dalla Magnesia (per la sua positura astronomica rispetto ad Argo
pelasgica) fu desunto il nome del padre, e dalla paternità dedotto il
rapporto fraterno. Considerati nel loro insieme lo strato argolico, di
cui vedemmo i successivi momenti, e il tessalico, di cui tentammo
scernere gli elementi naturalistici e novellistici, costituiscono per un
lato una fiaba di schema consueto e di per sé bastevole, ma offrono per
altro lato appiglio a giunte e svolgimenti mitici. L'indagine ,
continuando, ce ne darà conferma. Atena e la Gorgone Medusa. Gl’elementi
che caratterizzano la prima avventura di Perseo in quell'intervallo di azione
ch'è compreso fra la sua cacciata da Argo e il suo ritorno, sono tutti a
un tempo elementi jonici. La Dea che lo protegge è Atena, la quale ci
ri- porta senz'altro ad Atene; il Dio che l'ajuta è Ermes, di cui
in Atene è culto notevolissimo (cfr. p. e. Roscher nel suo Lex.); il
mostro che combatte e vince è quel medesimo di cui il capo è sullo scudo
di Pallade (Iliade); il luogo onde si muove è Serifo, colonia di
Joni. A questi dati fanno buon riscontro le notizie che per altra via si
posseggono intorno al culto di Perseo in Serifo (Paus., per le monete
cfr. Head H. N), in Atene (Kchnert), in Mileto (Strab. cfr. Erod., Edrip.
Elena, Kuhnert): in Mileto, specialmente, tali da risalire al VII sec. a.
C. Da tutto ciò, poiché anche il mito di Perseo e Medusa non contiene
altri elementi all'infuori di questi né favorevoli né contrarli, è lecito
dedurre che quell'episodio dev'essersi formato in territorio jonico;
e che per conseguenza la sua formazione è posteriore ai principii
dello strato peloponnesiaco, del quale appare un effetto.
Quanto è probabile questo risultato tanto par certo il contenuto
naturalistico dell'impresa. Le Gorgoni abitano (presso [Esiodo] Teog.)
néQrjv kÀvtov 'Qxeavoìo èoxa^tfl TCQÒg vvìCTÓg, tv' 'EajtEQiòsg
Àiy^cpcovoi ; sono per- tanto evidenti mostri delle tenebre e della notte
che dicevolmente si contrappongono all'eroe solare in aperto
contrasto. Là presso si devono ritrovare gli Etiopi che abitano dove
sorge e dove tramonta il Sole {Odissea. A Nord, ma con egual significato tenebroso,
stanno gli Iperborei (cfr. Pind. Pit. X 50 sgg. e SniiA di Rodi appr.
Tzetze Chil.). Non è dunque dubbio, anzi tutto che l'avventura contro le
Gorgoni si riconnette pel sostrato naturalistico e con l'uccisione di
Acrisie e con quella del kìjtos (v. sotto) ; in secondo luogo che
quando in territorio jonico il mito di Perseo venne im- portato e
diffuso, il suo valore era ancor a sufficienza noto e chiaro.
E da origine rintracciabile con probabilità derivano anche i
singoli elementi constitutivi della saga. Che Atena avesse sul suo scudo
il capo di Medusa non è spunto vano: il suo valore di Dea nata dal cielo
e in (Ij Su le Gorgoni v. Roschee Gorgonen u.
Verwandtes (Leipzig 1879). Un recente lavoro (Berlin 1912) su lo
stesso tema non merita d'esser citato. (2) Cfr. WiLAMOwiTZ Hom.
TJnters. {= " Phil. Unt. Cfr. Knaack Hermes. Su gl'Iperborei v.
0. Schròder " Archiv f. Religionswiss., A. KoETE ibid. X (1907) 152
sgg.; Gruppe in Bubsian-Kroll ' Jahresb. particolar modo di Dea del
temporale (Beloch Griech. Gesch} I 1, 154) dà risalto a quello spunto,
cosi che vi fa trasparire un'antica antitesi fra Pallade e le
tenebrose Gorgoni. Antitesi invero che si serbò sempre, accanto al
mito di Perseo, se Eurip. Jone la ricorda e Apoll. II 46 è costretto a
farne menzione. E, ultima riprova di un fatto già a bastanza palese, —
anche quando alla Dea si sottrae il merito della vittoria contro Medusa,
a lei sempre si attribuisce l'ausilio in favor di Perseo (Ferec.
fr. 26 e Apoll. ). Se non che il capo di Medusa è pure su lo scudo di
Agamennone in //. A Pensando alla natura prima di lui (Beloch Griech. Gesch.)
si potrebbe supporre per lui un'antitesi con Medusa analoga a quella che è fra
Atena e la stessa Me- dusa. Ma bisogna rammentare che su lo scudo il
capo della Gorgone diventò ben presto un costante e diffuso
ornamento senz'altro motivo che di estetica e di tradizione. Dalla medesima
Atena è desunta la y.vvi\ ond'è coperto, e reso invisibile, Perseo: si
trova di fatti men- zionata per lei in //. E 845 ("^'^os KvvérJ. Di
natura diversa, e novellistica, sembrano in vece e i calzari alati
e la Kifiiacg e l'episodio delle Graje. Queste non sono mostri analoghi
alle Gorgoni bensì tipi esagerati della vecchiaia, di cui la novella suol
compiacersi; ma perché un aspetto mostruoso è in loro innegabile, per ciò
bene [Esiodo] Teog. 270 sgg.; Esch. Promet.; Apoll.; TzETZE a
Licofr. 838. 846 fanno le une sorelle delle altre. Accadde però che la
parentela con le Gorgoni e la paternità di Forco traviasse i critici; che
vollero in gran numero ritener le Graje personaggi naturalistici
(Rapp in RoscHER Lex.). Ma bisognava prima pro- vare (e la prova
manca) che la parentela e la paternità sono originarie nel mito, e non
indotte dall'essersi nella fiaba le tre Graje e le tre Gorgoni (di
diversa origine) trovate vicine. Di fatti delle Graje la novella
approfittò per farne i personaggi di una pre-avventura, la quale
trova moltissime analogie, e le depositarie di alcuni ta- lismani, che
ritornano sotto mutati aspetti con frequenza nelle fiabe. Ufficio analogo (e analoga origine per
conseguenza compete al suo intervento) esercita Ermes e la falce di lui.
Mentre però le Graje dovevano contrapporsi a Perseo, come quelle che la
notte ricinge, Ermes dove essergli propizio, come quello che quando si
scontrò con Perseo aveva caratteri di dio della luce esso pure
(Beloch Griech. Gesch. Mentre inoltre le Graje nel cammino dell'eroe si
trovano solo per motivi novel- listici; Ermes si trovava in vece anche
nella real sfera della diffusione cui andò soggetto il culto di
Perseo. Riassumendo, dunque : l'episodio di Medusa nel mito
di Perseo pare concepito in territorio jonico; è, nel suo fondamento,
senza dubbio naturalistico; ma coi personaggi naturalistici (le Gorgoni, Atena,
Ermes) si mischiano gli elementi novellistici (le Graie, la Kt^iffig, i
talari); e tutto il contesto è per tal modo novellistico che anche
quei personaggi vi intervengono con offici proprii della novella. V.
Cefeo Fineo e Cassiepea. Gli elementi onde è costituita la impresa di
Perseo contro il x^roy sono di natura e origine assai più incerta che
quelli raccolti intorno a Medusa. Tuttavia, anche a prescindere
dalla prima forma del racconto e a limitar l'indagine pur ai In
quanto al valore originario di Ermes lascio qui intatto il problema e
solo rimando a E. Metek G. d. A. IRicordo anche Roscher Heìines der
Windgott (Leipzig) (cfr. l'art, nel Lex.); e Siecke Hermes der Mondgott
(Leipzig 1908) che determinò una polemica appunto col Roscher. dati
tardi delle genealogie e delle saghe secondarie, la diffusione di Cefeo
nell'Arcadia e nell'Acaja (v. sotto), la constatata presenza di Fineo in
quei luoghi (v. sotto), in- ducono a cercar di preferenza nel Peloponneso
il terri- torio forse di formazione e probabilmente di diffusione
di quell'episodio mitico. Molto più deve dire un esame delle figure
singole. La lotta di Perseo contro il v,f}zog è, bisogna a pena
osservarlo, parallela per significato all'impresa avverso Medusa. Sarebbe
quindi già a priori da attender notizia intomo a un Nume che in
quell'avventura compiesse gli uffici i quali nell'altra esercita Atena; e un
cosi fatto nume sarebbe anche, per pura indagine etimologica, da ravvisar
in Andromeda , nel cui nome è non dubbia la radicale di àvfjQ; se a
conferma validissima non ci fosse serbato un cratere (" Mon. d.
Inst.; KuNHERT) in cui Andromeda appare non legata, vittima
prossima del n^Tog e premio futuro all'eroico liberatore, ma ritta presso
l'eroe nell'atto di ajutarlo a respinger la belva col lanciar sassi, che
sono raccolti in mucchio li presso. Ivi ella è senza dubbio queir "
ajutatrice „ che la congettura avrebbe per sé supposta. Né la
comparativamente tarda età del vaso (VI sec.) deve stupire: è ovvio che
la stilizzata tradizione artistica dei vasai deve aver serbato in anni
posteriori, quando il mito s'era al tutto tramutato, memoria della forma
che esso aveva pia anticamente assunta. Questa ipotesi però intorno
al primitivo racconto sul x^rof, se è tanto evidente da indur meraviglia
che il cratere possa esser stato prima non cosi interpretato (Kuhnert o,
c. 2020), pone anche il problema su le cause del passaggio da
quello stadio mitico a quello ch'è in Ferecide. Ora è chiaro che
l'episodio di Medusa e quel del ìtijTog non potevano, nella veste più
arcaica, venir raccontati l'uno appresso all'altro senza che se ne dovesse
notare, sùbito, la simiglianza strettissima: quindi il bisogno di dissi-
milarli. Inoltre, a sodisfar quel bisogno giovava il facile innesto su
quella saga naturalistica di uno spunto no- vellistico : la fanciulla
cattiva e liberata, premio al prode che la salva (si ricordino le epopee
cavalleresche). — Se non che alla medesima forma vetusta e primordiale
dell'episodio non dovevano mancare gli Etiopi. Fu veduto dianzi come le
sedi loro nella concezione mitica li raccostassero ai mostri tenebrosi. E
tanto più qui il loro ricordo era importante in quanto, mentre le Gorgoni
richiamavano, sole, a sufficienza i luoghi di lor sede, il nrjTog per sé
non sarebbe stato indizio locale bastevole. È cosi preparato il
terreno a giudicar di Cefeo. Le testimonianze intorno a lui (doricamente
Cafeo) sono tali da non permettere dubbi sul luogo ove il mito lo ha
più a fondo radicato. I testi fondamentali di Apoll., di Paus., di
Apoll. R. Argoti., che tutti lo fanno figlio di Aleo, eponimo di Alea in
Arcadia, e re di Tegea; le monete di Tegea appunto, in cui abbondanti
volte ritorna (cfr. Deexlek in Roschee Lex.: fissano in modo esplicito
per l'età storica la sede prevalente del suo essere mitico presso gli
Arcadi. In particolare poi Paus. asserisce che da Cafeo avrebbe preso
nome la città arcadica di Cafìe. Il problema, che non in questo caso solo
si presenta alla critica, — fra le attinenze reciproche de' due
nomi non può esser risolto fin che manchino notizie sul culto di
Cefeo, che solo risolverebbe la quistione col far deri- Cfr. Immerwahr Die
Kulte u. Myihen Arkadiens; che mi sembra però superficiale. vare alla città
il nome dal Dio. Ma ad ogni modo quelle attinenze non sono da negare. E
queste notizie sono non infirmate, ma consolidate da Licofkone Aless. ove
Cefeo è àn:' ^QÀevov \ Avfii^£ re BovQaiotoiv ijyef*ù)v OTQazov : perché
nell'Acuja dobbiamo ravvisare uno dei punti tòcchi dall' irradiarsi di
lui fuor dell'Arcadia nel restante Peloponneso. Analogamente Cefeo fu,
fuor del- l'Arcadia, introdotto nel mito spartano degli
Ippocoontidi, cacciati da Eracle, cui egli avrebbe recalo ajuto
otte- nendone in premio la perenne salvezza del suo dominio in
Tegea: saga, pare, a bastanza antica, se già Alcmane fr. Bgk. {^axé ztg
audcpevg [Kaq>evs Nelmann] àvda- où)v) ne aveva sentore: cfr. inoltre
Apoll. II 144, Stef. Biz. s. v. Kacpvai. Ma se eifetto d'una più tosto
tarda irradiazione sono coteste attinenze fra Cefeo e l'Acaja, fra
Cefeo e Sparta, di gran lunga posteriore va ritenuto, sembra, il
trasporto di lui in Beozia: scoi. B a lliad. B 498 QeaTCEiov zov Ki^q>ews
^ d-vyatéQe^ ^aav v' . 11 TiÌMPEL Kephcus presso Roscher Lex. II 1, 1113
esclude, senza peraltro addur motivi, che queste parole de- rivino
dal facile equivoco tra Cefeo e Cefiso, o da una combinazione tra le 50
figlie di Tespio e 60 figli di Cefeo ; e ne deduce, richiamandosi alle
sue ipotesi su Cassiepea, che in Beozia va cercata la sede prima di
Cefeo! Lasciando ora di discutere le asserzioni del Tumpel su Cassiepea
(v. sotto), va qui solo rilevato che non è difficile chiarire la genesi, posto
che equivoco di nome non siavi, della notizia serbata in quello scolio.
Le genealogie (1) che esamineremo più tardi (v. sotto) uni- scono
Cefeo con Fenice e Cadmo, tebani e beoti per Queste genealogie sono
studiate ampiamente, se non acutamente, da A. W. Gomme " Jour. of
Hell. Stud. „ XXXIII (1913) 53 sgg. eccellenza: con Fenice e Cadmo,
tardi quindi, Cefeo dev'essere pertanto giunto in Beozia. — Tra queste
no- tizie, più meno tarde, che ci riportano all'Acaja a Sparta alla
Beozia, e quelle che ci richiamano all'Arcadia il cri- terio per
scegliere in modo decisivo non manca. 11 Cefeo arcade è secondo Ellanico
(fr. = scoi. Apoll. R. I 162 combinato col fr. senza numero = scoi. MTA a
Eurip. Fenice; contro l'opinione del Tumpel a. e.) figlio di
Posidone; e secondo Apoll. fratello di
Licurgo (per contro di Licurgo è figlio presso Apoll.). Questi dati
genealogici, come ci vengono riferiti solo per il Cefeo dell'Arcadia,
cosi concordano del tutto e con il suo ca- rattere di re degli Etiopi (v.
sopra) e con la probabile etimologia del suo nome. Di fatti sia che vi si
voglia riscontrare la radice kuF- sia che con gli antichi gramatici
lo si riconnetta con ncjcpóg (confr. x^go^f), sempre vi traspare la
natura d'una divinità ctonica e tenebrosa: la quale in vero viene pensata
o abitante nelle oscure cavità che sono oltre la linea donde sorge
il sole, pure priva della voce. Se ne conclude che la localizzazione di
Cefeo in Arcadia dev'essere la più an- tica, come quella con cui va
tuttavia connesso il ricordo di quell'essenza naturalistica di lui che
mito e nome ri- velano del pari. Mentre però il nesso fra Cefeo e
gli Etiopi risulta in tal modo se non primordiale certo an-
tichissimo, non si può dire altrettanto del nesso con Andromeda. In vero se
questa è sul principio 1' " ajutatrice , di Perseo, solo quando, ed
è, come si vide, assai per tempo, l'avventura dell'eroe contro il
xijvos fu localizzata fra gli Etiopi, e solo a traverso questa
localizzazione, pervenne a commettersi con Cefeo. Perseo, Andromeda,
Cefeo, gli Etiopi, il x^roj, erano per tal modo sufficienti a costituire,
per sé soli, la trama di un episodio mitico; onde la presenza di Fineo e
Gassiepea , per non sembrare un' intrusione superflua deve venir
giustificata con l'indagare partitamente il valore di quelle due
figure. Quanto a Cassiepea, lo stesso nome rende non dubbio che si
tratta del tipo novellistico della " millantatrìce „ (cfr. TùMPEL in
Roschek Lex.) che compete in bellezza con le dee e ne è punita in sé o
nella prole. I luoghi per tanto dove vien fatto di rintracciarla
non hanno attinenza alcuna con la sua natura e solo ella vi è
indotta a traverso i miti in cui penetra. Cosi per esser stata congiunta
(miticamente e genealogicamente) con Cefeo Fenice e Cadmo, viene sostituita
a Memphis come moglie di Epafo presso Igino Fav. 149 e, altrove
(Esiodo fr. Rz.), fatta discendere da Thronie, l'eponima d'un luogo
Thronion della Locride : cfr. scoi. D a, II. B. Si sa difatti che con
Epafo ed Egitto han nessi mitici e genealogici Fenice e Cadmo ; e che con
la Beozia (e quindi con le regioni vicine) han nessi cultuali e
geogra- fici. Fu dunque abbagliato da localizzazioni, che son con-
seguenza d'una erudita elaborazione mitologica, il Tumpel quando su la
fede dei luoghi citati asserì Cassiepea esser beota. Ma se la
Millantatrice è originariamente estranea a ogni luogo, essa anche
con Andromeda e Cefeo si deve esser connessa non per contiguità di luoghi
ma a compimento della trama novelli- stica che quelli comprendeva. Non è
quindi dubbio che la sua presenza accanto Andromeda risalga a quel
mo- mento in cui la figura di questa viene appunto novelli-
sticamente atteggiata nel tipo della vergine che un prode libera da
prossima morte (v. sopra). Allora di fatti diven- tava necessario
giustificare in qualche modo la cattività della fanciulla; alla quale il
vanto della Millantatrice, potè divenire argomento sufficiente (contro
Tumpel). E solo a traverso Andromeda si strinse il legame di lei con Cefeo
e gli Etiopi. La riprova di questa ipotesi sta nel non potersi rintracciare
nella sua figura e in quella parte del mito ohe più le attiene alcun
indizio d'un'antica e diversa vita mitica. Quanto a Fineo, il Sittig
in Fault- Wissowa R.-Encr . mette a sufficenza in luce il sostrato
naturalistico del mito, che è più propriamente suo, delle Arpie di Elios
e de' Boreadi; ciò è la lotta dei caldi venti del Sud, che il Sole
suscita apportatori di nuvole e di danno, contro i venti del Nord, che
insorgono a respinger quelli e a difendere il nume cieco del bujo
settentrione. In questo sostrato però non si vede elemento alcuno onde
possa giustificarsi l'intervento di Fineo nel mito di Andromeda,
all'infuori del contrasto che è fra la sua figura e l'eroe solare Perseo
: contrasto che rendeva anche dicevole la presenza sua fra gli Etiopi. Ma
se le sedi mitiche di Fineo si potevano cercare senza con-
traddizione cosi al nord come a l'estremo oriente o a l'estremo
occidente, la sede geografica di lui fu rintrac- ciata sul Ponto quando
divenne pei coloni Greci quello l'estremo punto settentrionale conosciuto
(cfr. le testimo- nianze raccolte dalJESSEN sul Roscher Lex.). Colà
egli divenne l'eponimo della regione vicina e de' po- poli : onde si
commise con Fenice ritenuto l'eponimo dei Fenici (Bkloch Griech. Gesch.)
e con Egitto e Libia. Di qui appare possibile anche l'ipotesi,
contraddicente quella cui si pervenne pur ora, che il nesso fra Fineo
e Perseo si sia stretto non per motivi di sostrato naturalistico ma
traverso Cefeo, considerato re e rappresentante degli Etiopi in senso
geografico.Senza dubbio però le tracce che si riscontrano intorno a un
Fineo Arcade (presso Apoll. ove Fineo è figlio dell'arcade Licaone
e presso Servio a Verg, Eneid. Ili 209 ove è rex Ar- cadiae) debbono
ritenersi posteriori al nesso con Cefeo ANDROMEDA e determinate da
questo. Né giova a sostegno del contrario addurre l'analogia fra le Stinfalidi
e le Arpie ; perché non è giusto che ci uniformiamo al sincretismo
de' mitografi Greci, onde più figure analoghe di numi erano unificati in
un solo aspetto leggendario ; ma dobbiamo, giusta i pili savi e moderni
concetti critici, ritenere che in luoghi diversi esistessero divinità
analoghe parte simili parte dissimili, senza che la località dell'una
possa illuminarci su quella, probabile, delle altre. Restano ancóra da
indagare le attinenze tra Fineo e Cassiepea, prima che il problema
critico si presenti in tutta la sua complessità. A tale scopo è
necessario ricostruire lo schema genealogico la cui esistenza sia presumibile
presso Tepica esiodea. Il Tììmpel (negli articoli citi del RoscHER Lex.)
ha considerati divisi e distinti i due frr. di 'EìSiq-do {Rzach) 31 e 23.
E ha pertanto ritenuto provata l'esistenza mitica di due Cassiepee,
secondo questi due schemi: I (fr.): Tronie
Ermes Arabo I Cassiepea (fr.): Agenore
Cassiepea ~ Fenice I Fineo Il testo SU cui si fonda è Strab:
che per vero egli interpreta male. Strabene sostiene che Erembi ed
Arabi sono nomi diversi d'uno stesso popolo: TteQÌ òì Che han per
fondamento, insieme con l'altro art. del Lex., il voluminoso saggio dello
stesso TùMPEL in " Jahbb. Phil. , Supplbnd. II concetto
essenziale di questo saggio (che nella più antica forma del mito la sede
dell'episodio di Andromeda è Rodi) è stato, mi sembra a ragione, confu-
tato dal KuHNERT 0- e.CEFEO FINEO E CASSIEPEA TÒùv 'EQ£f*pò}v TtoÀÀà fièv
s'iQrizai, 7if&avù)raT0t Sé elaiv ol voui^ovreg zovg "A^afiag
Àéyea&ai. Tuttavia nel verso omerico Aid-iOTidg '&'
ly,ófA,t]v koI Siòovlovg nal 'EQefi^ovg {S 84) non ritiene dicevole
il sostituire con Zenone "AQa^dg te : perché, dice, non v'è
corruttela di testo; v'è bensì mutazione di nome dalla più antica all'età
posteriore. Omero difatti ricorda gli E r e m b i ; Esiodo in vece
év KaiaXóyqj conosce Arabo: Kal xoijQ'ì]v 'Aqcì^oio ...KTé
[fr.]. Bisogna dunque dedurre (slad^eiv) che già ai tempi di Esiodo
il nome di Arabia esistesse, e non esistesse an- cora ai tempi di Omero
(aarà tovg rJQcoag). Di questo passo l'interpretazione non può essere,
pare, che una : Esiodo faceva fCassiepea] (1) figlia di Arabo, figlio a
sua volta di Tronie ed Ermes. Il Tììmpel in vece si lascia
fuorviare dalla menzione, che quivi è fatta brevemente, degli Etiopi, e
ritiene che per Strabene Arabia sia il nome esiodeo d'Etiopia e che
quindi la KovQri ^Aqu- fioio sia la regina degli Etiopi moglie di Cefeo ;
onde integra il fr. cosi: Tronie Ermes Arabo
I Cassiepea Cefeo Andromeda. Se non che nel luogo
di Strabene gli Etiopi non costi- Il nome si supplisce da Scoi. Apoll. R.
e Anton. Lib. 40. tuiscono che un argomento a mo' di parentesi.
\Ì7tò yàQ xov elg zìjv ^Qav é/*fiaìvetv toòg 'EQe/*fiovg
èzv(ji,oÀo- yovat, oUvcùg ol tioààoI, ofig fieraÀafióvzeg ol dareQov
ènl TÒ aacpéateQOv TQtùyÀoóviag éndÀeaav ' oìtoi Sé (ol 'E Q e fi
fio i) e la IV ^A Qd fi wv olèTcl&dzegov fié- Qog Tov 'Agafilov
kóÀtiov kskÀ i fiévo i , tò TiQÒg AlyÙ7tx(fi v.a\ AI& ton la. E,
continua, per tal motivo appunto questi Erembi son ricordati da
Omero: in causa, ciò è, della lor vicinanza con gli Etiopi, citati
nel verso medesimo : to-ùtoìv (twv 'E^efifi&v) eluòg fie-
fivìja&ai TÒv TioifjTÌjv xal TiQÒg vovTOvg à(pl%d-aL Xéyeiv TÒv
MevéXaov, xad' hv tqótiov sÌQrjxai, xal TtQÒg zovg Ald'loTiag' zfj yÙQ
Orjfiatdt nal odzoi TtÀTjaid^ovoi. E pa- rimenti {ó/A.ol(og) son
rammentati tov fn^aovg zi^g àTioòrj- filag (xdQLv) y,al zov èvòó^ov. Come
si vede, gli Etiopi servono a dare un'idea della positura geografica
degli Erembi {^QÒg) e a fornire un motivo dell'averli Omero
ricordati insieme. Ma si è ben lungi da una qual si voglia
identificazione " Erembi = Etiopi „ ! L'unico dato posi- tivo
adunque che dal luogo cit. di Strab. si ricava è la discendenza di
Cassiepea da Arabo. — La qual notizia spiega un'altra, poco appresso (I
43), da cui è a sua volta integrata. " Vi sono alcuni ot xal ttjv
Al&ioniav elg TÌjv Kad"' ^f*àg ^otvlTirjv fA.Ezdyovai, nal za
nsQÌ ztjv 'Av~ ÒQOftéSav èv 'lÓTZì] avfifiy\val (paai ' oi> ór'jnov
xar' ay- voiav Tonimjv aal zovzcùv Àeyofiévcov, àÀÀ^ èv ^v&ov
fiàÀÀov a^'^fiazi " xad-dyie^ tial zwv Jiaq 'HaióSq) aul zoìg aÀÀoig
à 7tQ0(péQei ó ' AnoXXóòoìQog ... „ Vi erano adunque alcuni (1) che
fondandosi su Esiodo portavano gli Cfr. Ps.-SciL. GGM. I 79, Stef. Biz. s. v.
'Unti, Eust. Cotnm. in GGM. II
375- Di questa localizzazione fenicia del mito non mi sono occupato, che
ritengo essa possa e debba studiarsi e spiegarsi del tutto a
parte. Etiopi fra i F enici. L'ipotesi pili semplice chespieghi
questo fatto è che in Esiodo era moglie di Fenice (fr. 31 Rz.) quella
Cassiopea che nel mito di Andromeda è regina degli Etiopi. Non è quindi
in nessun modo lecito dedurre che in Esiodo la figlia di Arabo
avesse ad essere moglie di Cefeo : né si vede a che condurrebbe,
COSI fatta interpretazione, se non a confonder il testo altrimenti
chiaro. Concludendo, da Strabene, ben letto; può risultar soltanto: che
Cassiopea era figlia di Arabo in Esiodo ; 2) che era moglie di Fenice. E
quindi per- messo unificare i fr. 23 e 31 Rz.' e costruire il
seguente schema esiodeo: I-f II (fr. 23 + 31): Tronie -
Ermes I Agenore Arabo j I I
Cassiepea - Fenice I Fineo. Nel quale
schema, analizzando si ravvisano svibito ele- menti secondari quali Arabo
ed Agenore, ed elementi principali raccolti nei due nessi Cassiepea-Fineo
e Fenice-Fineo. Quest'ultimo è senza alcun dubbio da spiegarsi al
modo medesimo del nesso Arabo-Fenice, Fenice-Egitto; come, ciò è, un
avvicinamento di numi eroi creduti eponimi o rappresentanti di popoli
stranieri. Ma il primo di quei nessi non può legittimarsi se non pensando
a possibili analogie mitiche tra Fineo e Cassiepea (poiché l'ipotesi d'un
legame casuale non servirebbe che ove tutte le altre non fosser
riuscibili). E difatti un'affinità si vede sùbito tra le due figure
invise agli dèi e dagli dèi punite : l'una come millantatrice;
l'altra come dio tenebroso vinto dal Sole. Di più poi per- mette di
discernere l'esame dei motivi dalla tradizione addotti a spiegar la pena
di Fineo. Tre sono : Fineo avrebbe preferito una lunga vita alla vista ,
offendendo Elios (Esiodo fr. 52 Rz^.); Fineo avrebbe additato la
via a Frisso; Fineo avrebbe ajutato nel viaggio fra le Simplégadi
gli Argonauti (Apollod. 1 124; Apoll. R. Il). Ora è ovvio che il terzo motivo è
ricalcato sul secondo, e molto tardo ; che il secondo è posteriore alla
localizzazione di Fineo sul Ponto, e quindi recente ; che il primo è il
piìi antico. Ma del pari è ovvio che di questo motivo si dove cominciar a
sentir bisogno quando il sostrato naturalistico delle Arpie e di Fineo
andò inavvertito ; giacché prima era sufBciente a tutto legittimare
la natura di lui e quella di Elios. Non è pertanto improbabile che in
quell'età comparativamente non antica in cui si ebbero a cercar gli
spunii novelli- stici a fin di motivare l'antitesi tra Fineo e la luce,
come piacque l'aneddoto dell'offesa al prezioso dono del ve- dere,
COSI piacesse (e forse per una pena analoga ma di- versa) l'aneddoto del
vanto di Cassiepea punito nel figlio, Dell'invenzione unica traccia ci
rimarrebbe la genealogia esiodea. In somma, può darsi sia che Cassiepea e
Fineo si connettessero primamente per i motivi or ora supposti, sia
che si connettessero poi, traverso Fenice, al par del quale Fineo era
considerato eponimo di popoli stranieri. Riassumendo ora in breve i
risultati delle singole in- dagini, veniamo a importanti ipotesi:
Cassiepea offre al mito di Perseo -Cefeo - Andromeda (Etiopi) , uno
spunto, ed entra in quella trama; Fineo si unisce a Cassiepea per
lo spunto no- L'ipotesi è del mio maestro SANCTIS (si veda); la
responsabilità dell'argomentazione è mia. vellistico che trova in questa
la causa della pena di quello; o, in linea secondaria, col marito di
Cassiepea (Fenice), come rappresentante di genti straniere;
Fineo si unisce a Perseo come nume del bujo ad eroe solare; o, in
linea secondaria, a Cefeo come rappresentante di genti straniere. Di
questo triplice rapporto rimangono le tracce sensibili : a) nel racconto
ferecideo del mito di Perseo; V nella genealogia esiodea di Fineo; e) in
Ferecide e specie nel duello tra Perseo e Fineo. Se non che questa è
una matassa confusa di cui bisogna sceverare le fila conduttrici. Un gruppo a
sé, e d'importanza minore, è costituito dalle attinenze a sostrato
etnico-geografico (tra Fineo e Fenice; Fineo e Cefeo) la loro natura
evidentemente tarda è tale, che ove accanto a una di esse se ne possa ravvisare
un'altra a sostrato naturalistico o novellistico, a questa è da dar la
preferenza su quella, in via d'ipotesi. Un secondo gruppo è costituito da
questo racconto, coerente e conchiuso: Cassiepea si vanta e la divinità
offesa la punisce nel figlio Fineo (h); questi è condannato a venir
superato in duello da Perseo. Un terzo gruppo infine è costituito
da quest'altro racconto, esso pure coerente e conchiuso; Cassiepea
si vanta; la figlia Andromeda ne è punita 5 Perseo libera la fanciulla
(a). Di questi gruppi il terzo è testimoniato in Ferecide (= Apollodoro)
; il pili ipotetico è il secondo : esso suppone in vero e una variante su
la causa della pena di Fineo, e una variante su questa pena medesima : vale a
dire tutto un mito parallelo a quel dell'Arpie. Ma come l'esistenza
di coteste varianti non è affatto improbabile nella ricchezza di
produzione mitica originaria, cosi esso gruppo spiega molto bene, e
insieme, tanto la discendenza esiodea di Fineo da Cassiepea quanto il
duello tra Perseo e Fineo; F., Kalypso. discendenza e duello che si
potrebber bensì giustificare pensando per l'una a un errore di
genealogia, per l'altro a una tarda aggiunta novellistica; con due
ipotesi però che non ci saprebbero render ragione né della
singolarità per cui l'errore sopravviene appunto tra due nomi che
uno spunto mitico può ottimamente congiungere, né della preferenza data a
Fineo su ogni altro per farne il protagonista dello spunto novellistico.
Poiché invece l'equivoco si può ammettere solo ove sieno confusi elementi
tra sé inconciliabili e discrepanti; e la preferenza casuale si può concedere
solo quando la preferenza logica sia impossibile; dobbiam conchiudere che
l'ipotesi nostra, pur non pretendendo di rispondere con esat- tezza
alla verità né di essere perentoria, spiega almeno nel modo che pare pili
semplice tutte le testimonianze che sono a noi conosciute. E, ultimo
vantaggio, non piccolo, ci fa intendere come il secondo gruppo e il
terzo, in entrambi i quali eran Cassiepea e Perseo, si fondessero,
trasformandosi accanto ad Andromeda la figura di Fineo, in un racconto
unico, in cui Cassiepea si vanta, la figlia di Andromeda ne è punita e
Perseo la libera col tradimento di Fineo che è ucciso da
Perseo. Dopo le quali conclusioni, non resta che da determinar
conpid esattezza il valore di alcuni trai personaggi secondari cui la
genealogia collega con Cefeo Cassiepea Fineo e Perseo. L'Egitto e la
Libia son già noti all'epopea omerica: Il; Od.; e sono
trasparentissimi simboli di quelle regioni i personaggi delle
genealogie. Ma più oscura è la essenza di Agenore (cfr. Stoll in
RoscHEK Lex). Se si prescinde da II. A 467 A 59 M 93 S'425 545-90 ove
appare un Agenore figlio del trojano Antenore, con una non dubbia
consistenza eroica, tutte l'altre testimonianze come son tarde
cosi ci dan una scialba imagine di cotesta persona, senza attinenze
chiare con miti, con alcuni dei quali a mala pena si collega per nessi
insignificanti e punto caratteristici. Tranne la notizia ([Plut.] de fltiv.)
singolare di un Agenore padre di Sipilo, la quale potrebbe ricon-
nettersi con l'epopea in qualche modo, i testi su un Agenore argivo
(Pads.; Apoll.; Igino Fav.; Ellan. app. scoi. A II. F) o un Agenore
avo di Patreo eponimo di Patre in Acaia (Pads.) un Agenore figlio di
Fegeo re di Psofide in Arcadia (Apollod.) un Agenore etolico figlio di
Pleurone, genero di Calidone, zio di Meleagro (Apoll. 1 58 cfr.
Igino fav.), se rendono non dubbia una larga diffusione di quel nome, non
son tuttavia sufficienti a orientar con certezza sul centro onde quella
ebbe a prender inizio. Poiché non può esser qui da discutere
l'Agenore etolico, il problema consiste nel decidere se il
peloponnesiaco siasi introdotto nella genealogia di Cefeo e Fenice
per motivi di contiguità geografica con il primo d'essi e con Danao ;
oppure se la presenza sporadica del nome di lui negli schemi del
Peloponneso sia posteriore al nesso con Cefeo e con Danao. Ora, tenuto
conto del- l'esser la genealogia di Cefeo e Fineo contesta o sopra
fondamento naturalistico-novellistico o sopra base etnico- geografica,
sembra da preferirsi la congettura che in quest'ultimo caso rientri anche
Agenore, in qualità di rappresentante dei popoli che abitavano la
Troade, grossolanamente limitrofi di quei del Ponto, cui Fineo
simboleggia : congettura che è confortata dal nesso di Agenore con le
genealogie ove appajono Cadmo e Fenice (cfr. DuMMLER in Pauly-Wissowa
R.-Encl.). L'indagine laboriosa che ora finisce conferma, secondo a
noi pare, quel che affermammo nell'inizio. ANDROMEDA Il personaggio
fondamentale di questo episodio mitico, Cefeo, è peloponnesiaco; l'altro
personaggio che come Cefeo ha valore naturalistico, Fineo, nel
Peloponneso si diiFon,de: dunque il Peloponneso è l'area dove
s'informa il mito, se pure non è quella ove si crea. Fuori da quel-
l'area, come fuori da ogni altra stanno, o possono stare. Cassiopea
"millantatrice,, e Andromeda, "maschia „ prima, in seguito
vittima del n^rog: personaggi novellistici della fiaba. Per quale
intreccio di casi e d'influssi poi la trama cosi si serrasse e cosi si connettessero
quelle quattro figure tentammo di concepire, per ipotesi ; ma il
risultato rimane , è d'uopo convenirne, opinabile. Tale, credemmo
tuttavia di manifestarlo e sostenerlo : sia perché ci parve tesi
rispondente, meglio dell'altre fin qui difese, a quei criteri! su la mitopeja
che riteniamo validi; sia perché ci parve tesi, se non di per sé
probabile, molto possibile al meno, e dalla probabilità certo non
lontana. I miti etimologici presso Erodoto ed Ellanico (frr.). Che il nome
di Perseo sia stato a bastanza presto collegato con i Persiani, non
può far meraviglia ad alcuno. Importa solo precisare i particolari di
quel collegamento. A tale scopo si confronti anzi tutto Erodoto: 'EKaÀéovTO óè ndÀai (1) ÒJiò [*hv
'EÀÀ^viàv Krjip^veg, vtiò fiévroi. aq>é(Ov atx&v nal Tù)v
7t£(iioìxù)v ^ AQtaloi. 'Enel oh HeQaevg ó Aavdt^g Te Kai A log ànineio
na^à K'^ifpéa xòv Bì^àov, nal è'aj^e aitov Tì]v d-vyatéQa ^AvS^OfieS'Tjv,
ylverai aUt^ nalg r^ oi!vo/A^a ed'ETO TléQarjVj tovtov óè airov
y^avaÀsCnei ' èvóy- ^ave yÙQ ànaig èòv ò Kt]<pEvg egaevog yóvov.
"Eni zovvov oh TÌ^v éTitovvfiirjv ea^ov : con Ellanico fr. 159:
'Aliala, Sogg.: i Persiani I MITI ETIMOLOGICI PBESSO ERODOTO ED
ELLANICO Ile^aixìj %(JiQO; tiv ènóÀiae Heoaei's, ó Ilegaécag koI
^Av- ÓQOf*édag [= Stef. Biz. 'AQTala). Le due notizie concor- dano
nel rieonnettere il nome Persiani a un Perse {Usq-' aevg presso Ellanico
è svista) e nel ricordar di quel popolo un nome anteriore " Artei ,.
Questa è forma che ritorna in nomi persiani frequentemente : tali,
Artabazo, Artaferne, ecc. (cfr. E. Meyee G. d. A.^ l 2, 900. 924.
929) : quindi non v'ha alcuna difficoltà critica a spiegar la presenza di
questo nome nel mito. Ma Erodoto ci dà di pili un nome di " Cefeni:
con cui gli Artei (= Persiani) sarebbero stati noti presso i Greci: in cui
però non è né pur difficile riconoscer l'invenzione erudita év
ax^fiavi fiv&ov. Popolo di Cefeo sono da principio gli Etiopi ; quando però
Perseo e Per- siani furono avvicinati dalla leggenda, si era già
troppo localizzata geograficamente 1' " Etiopia „ a sud
dell'Egitto perché fosse possibile un'equazione fra Etiopi e
Persiani. Bisognava pertanto, a designar i sudditi di Cefeo, usare
un termine diverso : e da Cefeo si derivò * Cefeni „. Questi, secondo
logica, avrebber dovuto equivalere agli Etiopi: e tale concetto ritroviam
difatti presso Stef. Biz. Aifivrj (Aid'iOTiCa = Kri^pTivli]) e '/otti;
(cfr. inoltre FHG. m 25, 4 e GGM); in realtà però furon concepiti
come diversi, cosi che la saga la quale loca- lizzava in Etiopia o in
Fenicia l'episodio di Andromeda non parla di Cefeni, mentre l'altra che
l'episodio loca- lizza fra i Persiani non parla di Etiopi. Solo più
tardi (a e. presso Ovidio), perdutasi coscienza del vario con-
tenuto de' due termini, entrambi si usano indifferentemente. (Sui Cefeni v.
Tùupel in Roschkr Lex., ov'é il materiale, ma non si trova alcun'ipotesi
accettabile). Va pertanto ritenuto che Cefeni eran detti i Per- siani dai
mitografi, dopo che Perseo s'era fra essi per mito etimologico insediato;
e che quel nome non ha quindi alcuna analogia con l'altro , di ben diverso
valore, Artei. Parallelo al fr. 159 è il 160 di Ellanico : (= Stef.
Biz. XaÀóaìoi) XaÀóaìoi ol n^órsQov Krjcp^veg ... Krjcpéoìg oi-
nért ^òìVTog, (Xigaievadifievoi ex Ba^vÀòjvog, àvéatt^aav én zrfg xwQag.
y,al tìjv *XoyT]v sa^ov. Oiy.éti ^ X^QV Ki^cpìjvit] TiaÀserai, oòS"
àvd-qoìnoi ol èvoiy.ovvTsg Kijq>rjv£g, àÀÀà XaÀSaloi. Il soggetto di
àvéoTrjaav qual è? Dev'essere XaÀòaìoi. Noi sappiamo che esistevan dei
Caldei sul Ponto (cfr. Baumstark in Pauly-Wissowa R-E.). L'omonimia
con i Semiti di Babilonia non poteva non indurre gli eruditi antichi a
connetter, senza alcun altro fondamento che verbale, i due popoli
lontanissimi. E, come quei di Babilonia eran di gran lunga più noti,
da questi si fecero derivare gli abitanti sul Ponto. Se non che
tutti i popoli (Tini Mariandini Paflagoni ecc.) che fino alla Colchide
occupavano le rive di quel mare erano da alcuni supposti sotto il dominio
di Fineo (cfr. Jessen in RoscHER Lex.); e da Fineo rappresentati.
Se dunque i Caldei del Ponto venivan dal sud (Babilonia) e se quindi alla
regione ch'essi migrando occuparono conveniva dare un anteriore nome ;
questo si poteva sce- gliere dal mito di Fineo. Nel mito, Fineo è
fratello di Cefeo: tra i Cefeni, adunque. Ed ecco che Cefenia e Cefeni
vennero assunti a nomi pristini della regione e del popolo su cui si
sarebbero insediati poi, fuor da Babilonia, i Caldei. I frammenti
dell'Andromeda di Euripide. Su i framm. che di questa tragedia euripidea
ci son pervenuti e che si trovan raccolti presso Nauck Su questo punto
sono insufficienti cosi il cemento dello Stein come quello del Macan a
Erodoto. FTG}. furon tentate piti di una volta ricostru- zioni
della tragedia : cfr. Matthiae Eurip. fragm., Wklckek Die Griechische
Tragedie, Hartcng Eurip. restitutus, Wagner fragni. Eurip., Fr.
Fedde De Perseo et Andromeda (diss.), P. Johne Die Andromeda des
Euripidea in Elfter Jahresbericht des K. K. Staats- Obergymnasiums zu
Landskron in Bòhmen, Wernicke Andromeda in Fault- Wissowa R-E.^ I 2156 sgg., E. Kuhxert
Perseus in Roscher Lex., Wecklein in Sitz.-Ber. d. K. Bayr. Akad. d. Wiss. H.-Phil. Kl., Mùller Die
Andromeda des Euripides in '' Philologus (N. F.). Di tutte le
trattazioni citate scopo è ricostruire la tra- gedia frammentaria per
modo che ne riescan fissati i singoli episodi nel loro succedersi, la
struttura complessiva nel suo organamento tecnico e scenico, le parti dei
varii personaggi. Ma appunto perché tale è il loro fine, né pur una fra
esse riesce a liberarsi da una duplice inevitabile contraddizione. Anzi
tutto mentre è pacifico oramai che Euripide si deve essere pili o men
libera- mente allontanato dallo schema mitico tradizionale qual è
riprodotto in Ferecide e che deve aver più o men pro- fondamente
rielaborato non pur la trama tutta si anche le diverse figure, per contro
si tende da tutti a far coin- cidere quanto più e meglio è possibile i
frammenti con il racconto ferecideo, ripugnandosi ad ammettere nei
par- ticolari quella libertà che in generale si concede al poeta Pel
rapporto coi vasi dipinti, cfr.
Hcddilston Greek Trag. in the tight of vases painting (London);
con le antichità sceniche, Engelmann Arch. Stud. zu den Trag. (Berlin
tragico. Inoltre laddove riesce a chi che sia impossibile dar ai
ditferenti attori del dramma un contenuto il qual non derivi dallo studio
dei frammenti, i frammenti ap- punto si distribuiscono poi tra gli attori
in armonia a quel contenuto che in questi avevan fatto pensare essi
medesimi. Uscire da questi circoli viziosi, che sono i fondamentali
e in cui altri minori si assommano, non si può, io credo, se non ponendo
alla ricerca un altro scopo: il raggruppare i frammenti intorno a
ciascuno dei motivi e degli spunti di sentimento e di pensiero onde la
tragedia doveva vibrare e onde sembra vibrasse dai pochi suoi avanzi. Non
resta dunque che interpretare e scernere. I framm. debbono venir
lasciati in disparte per l'ambiguità della loro interpretazione: giacché
se b innegabile che in essi è asserita la instabilità delle umane
vicende e l'incostanza della fortuna, non è men vero che tale asserzione
può colorire assai bene , cosi l'angoscia di Andromeda offerta preda al
x^zog , come l'ansia di Perseo, cui Cefeo neghi la figlia in isposa, o
Fineo tenda insidia sùbito dopo l'esultanza pel trionfo. Del pari il
151 si conviene tanto a un discorso di ammonimento rivolto a Cefeo
o a Fineo per distoglierli dall'ó^a^rm; quanto a uno indirizzato a
Cassiepea, il cui vanto deve scontar la figlia. I framm. in vece lasciano
trasparire una situazione di fatto piena di forza tragica, ma non
tale da permetterci di dedurne conseguenze sul resto del dramma: debbono
pertanto essi pure venire, al nostro scopo, omessi. E quasi lo stesso è
da ripetersi per i frammenti, che tanto svelano in parte l'azione quanto
8on vuoti di contrasto passionale. n primo gruppo che attira la
nostra attenzione è quello. Perseo giunge volando traverso l'aria a
una terra di barbari; scorge sùbito, su la riva del mare,
TteQÙQQVTOv à(pQ(p &aÀd(jat]g, una vergine, nag^évov eixo) riva,
Andromeda. I versi che seguono non possono non appartenere, com'è
concorde giudizio, a un colloquio fra Perseo e Andromeda. Ora sembra
chiaro che tra la situazione 124-125 e il colloquio 126-32 dev'es-
sere troppo stretta attinenza perché sia possibile pen- sare tra l'una e
l'altro un abboccamento tra Perseo e Cefeo. Il quale è pertanto da
escludere prima del col- loquio tra il giovine e la fanciulla. Del
colloquio, ora, attirano lo sguardo due frammenti specialmente. Nel primo
Perseo chiede ad Andromeda qual compenso egli potrà avere dopo la sua vittoria
contro la belva {eiofj ftoi ;ifa()tv/): e avere da lei. Nel secondo
An- dromeda si offre, ed è questo da ritener il compenso, — ette
riQÓaitoÀov &éÀeig \ elY aÀoy^ov ehe óf^coió'... Da entrambi risulta
chiarissima, sgombra d'ogni possibile dubbio, l'intuizione artistica di
Euripide: per cui da un lato Perseo chiedendo, in garbato modo, l'amore
di An- dromeda mostra di ritenere ch'ella gli si possa concedere;
dall'altro lato la fanciulla promettendosi mostra di rite- nersi libera
nel disporre della propria persona. Onde, confrontando questi
incontrovertibili risultati con Apoll. (= Febecide, V. § 1) II 44
(TavTTiV ["AvÓQOftéSav] d'ea- aduevog ó HeQaevg Kal égaad'elg,
àvai^i^asiv vnéa'x^szo Krjq>st TÒ y.fjTog, el ^ékXei aùì&etaav
adtrjv aiz(p ó(óasiv yvvatxa) appare, in tutta la sua profondità, la
discre- panza tra le due forme del mito: la Euripidea, in cui il
patto si stringe tra i due giovini; la Ferecidea, per la quale le nozze
si promettono da Cefeo e su Cefeo grava l'importanza della deliberazione.
Per conseguenza bisogna conchiudere che : o come non prima cosi non
dopo il colloquio tra i due giovini, avesse luogo l'abboccamento tra Perseo e
Cefeo; o pure, avvenendo, avesse esso tutt'altra importanza che presso
Ferecide ed Apollodoro, tutt'altro contenuto, forma diversa. Né si
obietti che la tradizione posteriore è concorde nel serbar
quell'abboccamento e nel serbarlo com'è presso Ferecide ; poiché tal
fatto deve, di fronte alla logica argomentazione svolta or ora, indurre pili
tosto ad affermare la genialità innovatrice di Euripide non esser stata
imitata che a negar fede a conseguenze logiche di premesse certe.
Un secondo grappo che dev'essere studiato nel suo insieme è costituito dai
framm. Essi si dividono sùbito in due serie, contrappo- nendosi l'una
all'altra. La prima è un vanto del valore, degl'ideali, della nobiltà
spirituale, di tutto che s'origina per un ardimentoso slancio del-
l'animo {d'Qccaog Tov vov) : il fr. 134 e il 149 in partico- lare esaltano
la fama conseguita con fatiche (svKÀeiav eXa^ov oèn avev noXXòiv nóvcav)
e con rigoglio di gio- vinezza {veózrjg fi' èjiTlQe..); il 137 e 138
contrappongono alle ricchezze un nobile amore {yevvalov Xé^og ...
éa&ÀòJv èQù}fiév(ùv) ; il 143 afferma il denaro insufficiente
alla felicità. La seconda serie in vece è tutta una dichiara- zione
di preferenza del denaro a ogni altro bene : il po- vero non solo soffre
ma teme di continuo il futuro, che non gli rechi dolore pili grave del
presente (135"); il ricco anche se schiavo è stimato (taì dovÀog S)v
yÙQ tC/Mog tiXovtGìv àvfiQ 142^ 2) laddove il libero bisognoso
otòhv ad'évei: onde di tutta la serie può esser conchiusione il
verso ultimo del fr. 142 : XQvaov vófii^s aavzòv e^vex' eìtvxeIv. Fra
queste due serie può trovar posto anche il fr. 154 : ove però venga letto
non nella forma in cui lo dà il Nadck 404, che è inintellegibile, ma
nell'emen- dazione del Hkrwekden Exerc. crii. 35 tò ^ijv àcpévza ae
Kazà yijs r£/*d)ff' l'awg ; e del MnsGBAVE nsvóv y' ' 5vav yàQ ^fl tig
sÌTvx£tv XQ^^^- Cosi letto di fatti esso as- I FBAMME^TI DELL’ANDROMEDA ,
DI EURIPIDE 3omma bene in sé il contrasto delle due serie opposte che
furono esaminate : tra l'idealismo che non trascura la fama la quale dopo
morte conforta l'egregie opere ; e il materialismo gretto che nella vita
vuole il godi- mento e aborre dal morire e non scorge più oltre. —
Ora, se si può questionare, ove si voglia, su l'attribu- zione di tutti
cotesti framm. ai singoli personaggi, non può in vece dubitarsi su la
realtà del contrasto passio- nale che abbiamo delineato. Su questa
certezza si deve dunque, a mio avviso, costruire una parte della
trama del dramma ; tralasciando del tutto il litigio su quei punti
troppo mal sicuri e fors'anche inutili. Terzo spunto ci è offerto il fr.
141 : èyò) Ss TiaìSag oiy. écj vó&ovg ÀaiSetv' Tù)V
yvrjaiitìv yÙQ oiòèv òvieg èvòeelg vófKp voaovai ' S ae (pvXd^aad-at,
yQE<hv. Del quale due interpretazioni sono filologicamente pos-
sibili: 1. non voglio che tu Andromeda prenda (= sposi) de' figli
illegittimi „ ; 2. non voglio che tu Andromeda prenda (= generi) de'
figli illegittimi ,. Wecklein sembra preferire questa seconda; il Kdhnert 1999
dom- maticamente e non senza ironia la respinge, e si attiene alla
prima. Anzi tutto però si osservi ch'è fuor di luogo avvicinare al fr. il
verso 11 del V delle Metam. di Ovidio: Nec mihi te pennae, nec
falsum versus in aurum Juppiter eripiet. Giacché in questo v'è
un'allusione bensì alla paternità divina di Perseo ; ma non cosi fatta da
equivalere a un biasimo [vód'og), biasimo che nel fr. è, comunque
inteso e a chi che sia riferito, indubbio ed esplicito: v' è più I.
- ANDROMEDA tosto un'offesa al Dio che generò Perseo e che Fineo
sfida ; v'è, in somma, un riconoscimento a bastanza lusin- ghiero
dell'origine nobilissima onde si vanta l'eroe. Se il ravvicinamento fatto
non vale, per decidere tra le due possibili interpretazioni non restano
che due vie: il porre il fr. nell'insieme del dramma e del mito ;
l'inquadrarlo nelle condizioni sociali di Atene. Ora il fr. insiste
esplicitamente sul vó[A,og in forza del quale i vó&oi hanno a
soffrire : non una consuetudine simile, bensì una legge. Non solo. Tal
legge san- cisce l'inferiorità dei vód'OL in confronto con i Tialòeg
yvi'jffioi. È applicabile a Perseo questa sanzione ? al figlio di Zeus
che torna a Serifo e poi ad Argo trionfante, per regnarvi, senza
fratelli, rampollo unico di sua stirpe dopo la cacciata di Preto ? Certo
che no. È applicabile in vece ai figli di Perseo e di Andromeda? Se si
ricorda che una legge di Pericle nel 451 (De Sanctis 'At&lg'^) pone i
figli di una straniera (Andro- meda è etiopica) nella condizione di
vó&oi; se si ram- menta che tal legge periclea ne amplia una
soloniana, ch'era il riconoscimento giuridico d'una consuetudine di
cui già in I 202 è traccia e che valse anche e sovra tutto pei re; si
deve rispondere che si: che cioè i nati a Perseo da Andromeda, avrebbero
nel diritto ateniese potuto trovarsi e come uomini e come principi in
condizioni inferiori a petto di altri eventuali nalòeg yvfjatoi,. Né si
dubiti che la legge di Pericle non avesse più tutto il suo vigore.
Tutt'altro : nel 414 Aristofane fa- ceva rappresentare gli Uccelli ove al
v. 1660 si richiama il decreto di Solone a proposito a punto di Eracle
ìóv ye ^évrjg yvvaiKÓs: HPA. èyòì vód-og ; tu Àéyeig; IIEI.
ah fiévroi vrj Ala, &v ye iévrjg ywamóg I FKAMMENTI
DELL' " ANDROMEDA „ DI EURIPIDE HPA. Ti S\ ìjv ó TtaiìiQ èfwl óió(p xh
yqii^axa, vód-cp ^ ^ano&vfjayiùìv ; IIEI. ó vóf.iog adròv oìk
éà, odvog ó Iloasióctìv TtQtÒTog, bg èTiaÌQet, ae vvv, àvd-é^eiaC
aov tùìv Tcar^ipcov ')(^Qì]j.vàxùìv q)d(jno)v àóeÀcpòg atvòg elvai
yviqaiog. èQòJ Se Sì] Kul TÒv 2óÀù)vóg aoi vófA,ov ' ktÀ. Non
è quindi da dubitarsi che Euripide poteva senza esser frainteso dagli
uditori alludere alla legge ateniese sui figli di straniera. D'altra
parte non mancano ragioni per ritenere che a quella legge egli doveva
alludere più tosto che all'altra su i vó&oi nel senso più largo.
Questa di fatti era troppo normale e ovvia e antica perché potesse più
meritar l'accenno del poeta turbato da' problemi sociali; quella per
contro era e singolare e nociva agli interessi di molti e alquanto
recente. Qui era il ndd'og; là no. Riassumendo, gli unici
contrasti di passione che dai framm. risaltano con certezza sono: l'amore
di Andromeda e Perseo nella sua prepotente e individualistica libertà;
l'urto fra l'idealismo e la grettezza materialistica ; il rincalzo che la quistione
giuridica e sociale dà a quell'urto in favore della grettezza pratica e
contro lo slancio spirituale. I problemi minori: se Fineo sia
parte, e qual parte, del dramma; come differiscano fra loro Cefeo e
Cassiepea: posson risolversi, ma con congetture esti-emamente mal certe.
Una quarta, e ultima^ linea del quadro ci dà [Eratostene] nei suoi
Catasterismi: il contrasto fra l'affetto figliale e l'amore in Andromeda
(cfr. [Eratost.] Catast. 'Av- dQOfiéSa). Ora, se si tengon
presenti i conflitti cosi delineati, non potrà cader dubbio sul momento
cui compete il fr., che solo, io credo, merita di venir assegnato
al- l'uno più tosto che all'altro punto della tragedia: ai) 6' (ó
d'eiàv TVQavvE yiàv&QÓiTiaiv "K^cog, fA.ri dldaarKe za xaÀà (paCvead'ai
HaÀd, ^ TOÌg ègùaiv Eizvji^ùg avvenTtóvei f^ox'd'ovai fióx&ovg
&v ah óijfiiovQyòg et. Kal vavza f*èv ÒQcJv ri/iiog d'vr^TOÌg (1)
?atj, [lì] Sqwv ò' vk aizov tov óiSdaxea&ai (piÀelv
àq)aiQs&tjafi ydQttag alg rifiùai ae. In genere il fr. si
attribuisce a Perseo, prima del com- battimento col K^Tog: cfr. Fedde 31,
Johne 12, Wecklein 97, Moller 61 e n. 61. I quali intendono i iA,ó%d-oi
di cui Eros è causa in senso del tutto materiale. In vece, a chi
tenga conto della concezione che Euripide ha dell'amore (cfr. p. e. W.
Nestle Euripides pag. 222) appare molto più dicevole l'interpretarli in
senso psicologico e riferirli ai contrasti che Perseo e Andromeda
incontrano dopo l'uccisione del nfjiog. — Se non che i critici citati
sogliono addurre per loro argomento Luciano de conscr. kist. 1 e
FiLosTRATo im. I . Il primo : tììv tov Uegaétùg ^ijatv èv fiéQsi (2)
SiE^f^eaav nal fisavì] i^v -fj TióÀig ò^qìòv àTidvTWv aal ÀejiTÒJv xùv
é^óoftaiiov èKeivoiv zQayqìóòiv " 2v d' (L d-eòjv liQavve
■x.àvd'Qbìmùv "EQog , Kal rà àÀXa (AeydÀrj Tfj qxììvf] àva^owvTtav
Kzé. Ora, che si recitasse con tanta frequenza la ^iiaig invocante Eros
in una età ch'era sotto l'influsso alessandrino non dice nulla quanto
al posto che nella tragedia la ^'^aig occupava; ma, se mai dice
qualcosa , è a favore della nostra tesi : perché le parole di Luciano,
lasciano intravvedere una interpretazione, da parte degli Abderiti, tutta
intimamente passionale della preghiera all'Amore. Quanto poi a Filostrato Il
testo ha d'eolg; la corr. è proposta dal Dobbeb. Sogg. " gli
Abderiti ,. l. c, la sua testimonianza è ben più esplicita: xal yàQ
sdx'iv àvE^dÀeio rtp "Egcaii ó HsQasvg tiqò tov è'Qyov. Ma deve
essere rettamente intesa. Sul cratere di Andro- meda del Beri. Mus.
(Bethe in " Jahrb. d. Arch. Inst.), ch'è della fine del V sec. e di
poco posteriore nW Andromeda, è rappresentata Afrodite nell'atto
d'incoronare Perseo. Che significa? Par chiaro che il pittore ha voluto a
quel modo esprimere con la figura il sentimento ch'era il sostrato della
tragedia e la commozione più forte per gli spettatori. Di poi, il rappresentare
la Dea dell'amore accanto a Perseo e Andromeda divenne parte de' motivi
tradizionali di decorazione. E Filostrato, ch'e sotto l'influsso di
quelli, fa difatti scioglier la fanciulla dai legami ond'è avvinta, appunto
da Eros. A questa medesima corrente tradizionale è dovuta anche la
frase riportata dianzi, e ha lo stesso valore: ciò e non ne ha nessuno
per la ricostruzione della tragedia. Probabilmente qualche scena dipinta
raffigurava Amore o, che fa lo stesso, Afrodite benignamente guardata da
Perseo : Filostrato ne ripete il motivo e ne dà la sua libera
interpretazione imaginando l'eroe che prega la Dea prima del duello.
Mentre dunque il testo di Filostrato non ha nessun valore, molto
significativo è il silenzio di Ovidio. Questi segue {Metani.) assai
da vicino Euripide; si trova in oltre sotto l'influsso dell'alessandrinismo che
delle scene e situazioni erotiche molto si compiace; aveva quindi forti
impulsi a ripeter l'invocazione ad Eros. Non la ripete. E ciò si spiega,
s'essa apparteneva al conflitto nato dall'opporsi i genitori al
patto dei giovani, perché questo conflitto Ovidio ha soppresso, cosi che
gli venne anche soppressa la ^'^ais- Non si spiega, se si fa precedere il
fr. al duello, perché in OVIDIO (si veda) il duello è rimasto ed è
ampiamente svolto. Conchiudendo per tanto, è da tener fermo a
quella Bvolt i attribuzione di esso framm. che fin
dal principio par la più ovvia, a chi conosca la trama sentimentale
della tragedia. La quale ci sembra cosi ricostruita in quei
limiti che dagli stessi frammenti vengono imposti. Euripide. Abbiamo
tentato di ricostruire le tendenze più spiccate dello spirito euripideo
valendoci deìVEIettra e àeWElena. Naturalmente talune delle affermazioni
intorno a quel problema valgono, o dovrebbero valere, per la complessiva
persona di Euripide. Ma non credo opportuno né di riferire una
bibliografia compiuta né di impegnar minuta discussione su i singoli
punti. Rinvio
soltanto a: Decharme Euripide et V esprit de son théàtre (Paris); Verrall
Euripides the rationalist (Cambridge 1895); Nestle Euripides der Dìchter
der griechischen Aiif- klàrung (Stuttgart) ; Masqueray Euripide et ses
idées (Paris 1905). Questi
libri però, notevoli per ampiezza di trattazione e larga conoscenza del
materiale, hanno il torto, con gli altri numerosi che vi si trovano
citati, di voler ricostruire un presupposto sistema filosofico di
Euripide ; indi la tendenza a catalogarlo, dividendone lo spirito sotto
varie rubriche. Cosi va perduta la vita di esso spirito, ch'è la sola
realtà. Fini osservazioni sono in Croiset " Journal des Savants;
acuti rilievi, come sempre, nel Wilamovp'itz Einlei- tung usw. ed
Hera1cles. Per le allusioni storiche di Eu- ripide v. E. Bruhn Jahrbb. f.
class. Phil. Supplb. e L. Radermacheb " Rh. Mus. , LUI Per ragione di
tempo, non ho potuto vedere i! recentissimo voi. di Murray Eur. and his
age. BUBIPIDB NEL Il recente saggio di Steiger Euripides, seine
Dich- tung und seine Personlichkeit (= " das Erbe der Alten ,
Heft. V, Leipzig) rappresenta senza dubbio un buon tentativo per
delineare l'ardua figura euripidea; ma è, a mio credere, viziato per un
lato da poca profondità, per l'altro dal parallelo costituito fra
Euripide ed Ibsen; parallelo che è di poco rilievo dove può farsi con
certezza (cbé molti altri se ne potrebbero istituire analo- gamente); e
di nessuna utilità è dove l'autore vuol at- tribuire a Euripide
caratteristiche testimoniate solo per Ibsen (che in ciò è arbitrio).
Pregevolissime sono le poche pagine di Schwartz Charakterkopfe a. d.
antiken Lite- ratuì'^ ; le sue intuizioni colpiscono, secondo a noi
sembra, quasi sempre nel segno ; avrebbero solo bisogno di uno sviluppo,
che sarebbe anche approfondimento, maggiore. F., Kalypso. Sul
notevolissimo culto siciliano di Demetra e Per- sefone in Enua si
combattono due teorie. L'una è sostenuta dal HoLM Storia della Sicilia
nell'antichità (traduz. ital.) che ritiene preesistente all'influsso
greco il culto della sola Demetra; e dal Fkebmax History of Si-
cily I 169 sgg. 530, il quale preesistente ritiene anche Persefone.
L'altra teoria è sostenuta sovra tutto da E. CiACERi Culti e miti nella
Storia dell'antica Sicilia (Catania): questi difatti, pur non
negando la verisimiglianza di un culto siculo alla Dea alle Dee, afferma
di non saperne trovare indizio vera- mente probante, di esser invece
costretto a riconoscere il carattere del tutto ellenico di esso culto
nell'età sto- rica e nelle nostre testimonianze. L'argomento
fondamen- tale addotto dall'una parte, e combattuto dall'altra, è
la non possibile derivazione del culto ennense da Siracusa da
Megara Iblea; là dove il Ciaceri addita nel fiorire della potenza
Agrigentina 'sotto Falaride e Terone la via per esso a penetrare e
radicarsi nell'interno dell'isola. Per lui di fatti da Gela ed Agrigento
GIRGENTI il mito e il culto delle Due Dee si sarebbe irradiato, in Enna e
in Siracusa. Se non che pare che in tal modo il problema sia posto con
poca precisione. Chi difatti nega il culto esser entrato in Enna per
opera di Greci, pretende assai più che non sia necessario alla tesi di un
sottostrato cultuale siculo. Chi per contro traccia possibili vie di
penetrazione in epoca comparativamente tarda, dimostra assai meno che non sia
necessario per rifiutare quel sottostrato. Qui pertanto l'esame merita di esser
ripreso. E poiché le nostre testimonianze vertono sopra il culto ennense
quand'esso ha già assunto foggia greca, non resta da prima che esaminarne
gli elementi e i caratteri interni, per scoprire s'essi rivelino o
neghino la preesistenza d'un culto, del pari ennense, ma pre-greco. Solo
dopo, se la prima ipotesi si avveri, sarà da determinare, dentro limiti
approssimativi, quel vetustissimo sostrato mitico e cultuale. I caratteri
del culto ennense nell'età storica. Sottoponiamo dunque in primo luogo ad
analisi i caratteri con cui il culto e il mito ennense si presentano a
noi, traverso le fonti, nell'età storica. Il materiale si trova raccolto
da Bloch in Roscher Lex. e a lui facciamo rinvio. Scartiamo il giudizio di
Zeus che divide l'anno pel mezzo anziché per terzi come nell'/nno omerico
a Demetra. Questo particolare, che Bloch (col.) dice siciliano-alessandrino,
non può riferirsi alle condizioni agricole di Sicilia, in cui anzi il seme
(Cora) men dura sotterra; ma è d'impronta letteraria alessan-
drina, tendendo a rilevare la giustizia del Dio. Ma quando la tradizione
fa rapire Persefone presso Enna e solo presso Siracusa, vicino alla fonte
Ciane, la fa scender sotterra (Timeo in Diodobo = Geffcken Timaios'
Geogr. des Westens Philolog. Unters.; cfr. Ovidio Metamorf.). è
necessario intender tutto il valore di questo particolare essenziale.
Si sa che Siracusa fu potente centro di diffusione del culto di
Proserpina nell'isola e fuori. Ora l'esempio della città di Ipponio è
utile a dimostrare come si compor- tasse il mito secondo le esigenze
politiche di essa diffusione. A Ipponio era venerata la Dea; in CIL. 8on
ricordate statue e arac di lei. D'altra parte Siracusa vantava
antichissimo culto di Demetra. Per conciliare l'uno con l'altro culto, il
mito narrò che ad Ipponio Proserpina si era recata dalla Sicilia per coglier
fiori (Steab.): conservò tuttavia quel che importa il primato a Siracusa.
Per Enna avviene il contrario: è (cioè) evidente che il mito siracusano,
perché deve ri- spettare una tradizione autorevole che il ratto pone
in Enna, non osa far rapire presso Siracusa Persefone, ma deve
accontentarsi di farla presso Siracusa discendere all'inferno.
Al risultato medesimo conduce anche il testo di Timeo (DioD. =
Geffcken) su Atena ed Artemide che avrebber accompagnata Cora nel
raccoglier fiori e conseguita rispettivamente la signoria di Imera e
dell'isola Ortigia mentre Demetra conseguiva quella di Enna. La
presenza di Artemide e Atena nell'antologia è motivo orfico. La
testimonianza di Diodoro fa dunque legittimamente supporre che in Siracusa
si adat- tasse alle condizioni politiche e cultuali indigene un
parti- colare non indigeno. Per questo adattamento sembra epoca
assai propizia la seconda metà del V sec, in cui più ef- fettivamente
ebbe valore l'alleanza tra Siracusa ed Imera contro gli Ateniesi (Beloch
Gr. Gesch.). Checché ne sia, resta certo che, rielaborando
l'episodio dell'antologia, Siracusa riconosce, non solo il culto di Atena
predo- minante in Imera, non solo dà rilievo al proprio culto di
Artemide (sui quali v. Ciaceri); ma si acconcia a sanzionare la supremazia del
culto di Demetra in Enna. E ciò proprio a un dipresso nell'epoca in
cui, secondo p. e. Ciaceri, il culto siracusano doveva su- perar
per fasto quello ennense ; prima cioè che per effetto della politica di Roma
" il culto di Enna assumesse grande importanza (Ciacebi).
Il valore di questi forzati riconoscimenti del culto en- nense da
parte di Siracusa appare a pieno dopo aver esaminato Ovidio Met. Quivi
difatti è narrato come Demetra apprendesse del ratto : prima la rende
accorta la Persephones zona abbandonata su l'acque della palude
siracusana Ciane; poi Aretusa, fonte dell'Ortigia, le racconta d'aver
veduto Cora nell'Ade. In somma. Ciane e Aretusa tengono presso
Ovidio il luogo che neWInno om. a Demetra hanno Ecate ed Elios. Bloch
ritiene "priva di significato „ questa forma del mito ; Malten
"Hermes la spiega come un arbitrio del poeta pel desiderio di
narrare le due metamorfosi di Ciane e di Aretusa. In realtà essa è molto
significativa, se si ricorda che , ai due personaggi dell' Inno omerico,
i quali non sono evidentemente che il Sole, l'occhio che tutto vede nel
giorno, e la Luna, che vede nella notte (cfr. Roschee in Roscheb Lex.),
la maggior parte delle saghe, eccettuati in parte i Fasti ovidiani,
sostituiscono nell'uf- ficio d'informatori presso Demetra figure più
concrete e sopra tutto più attinenti ai singoli luoghi. Cosi Ke-
leos in scoi. Aristid. Panai. (Frommel), scoi. Aristof. Cavai., Mit.
Vat.; Trittolemo in Paus., Claud. 0. e. Ili 52, Nonno appr.
Mignk Patr. gr. , Tzetze ad Es. Opp. 33; cittadini di Ermione, secondo
Apoll., scoi. Arisi. Cavai. 785, Zenob. Prov.; Kabarnos, della
famiglia sacerdotale dei Kabarnoi (Hestch.) presso Stef. Brz. s.v.
IldQog, nell'isola di Paro; Chrysanthis
figlia di Pelasgo in Argo, giusta Paus.; cittadini di Fé ne o (Arcadia),
Coy. Narr. app. Fozio Bibl. cod. Di fronte a cosi numerose analogie
è difficile sostenere che Aretusa nelle parvenze d'informatrice sia
un'invenzione arbitraria di Ovidio e non più tosto appartenga alla saga
siracusana : a quella medesima che presso la non lontana Ciane fa
avvenire la di- scesa nell'Ade, e che narra il mito di Aretusa ed
Alfeo (su cui V. anche Ciackei). Né fa ostacolo il fatto che solo
le Metamorfosi narrano quel particolare : ciò significa solamente ch'esso
è di pretta natura locale e che, in parte per tal motivo, in parte pel
predominio dell'Inno omerico, non fu accolto con favore in altre tradizioni
mitiche e nelle elaborazioni letterarie. Se dunque si ammette che Ovidio
ci riproduce, a proposito di Ciane e Aretusa informatrici, la saga
siracusana, appar chiara l'insistenza con la quale, accettato per forza
il ratto in Enna, si colorisce poi tutto il resto del racconto in
senso siracusano. Anzi per capire ancor meglio il valore di questa
con- siderazione va rilevato che un tentativo mitico in antitesi ad Enna
dovette esserci: giacché pili fonti narrano il rapimento di Persefone non
presso il lago Pergo di Enna ma presso l'Etna: cfr. l’Epitafio di Pione
Nella stessa Sicilia vigeva un'altra forma del racconto, per cui Vayys^og era
Ecate, se è valida l'ipotesi del CiACEEi e G. Knaack "Hermes, il
quale sennatamente dimostra che non può né ivi né in altri testi simili
(Igino fav., scoi. Pind. Nem., Giovanni Lido de mens., Oppiano Hai., VALERIO
(si veda), Flacco Argon., Ausonio Epist.) trattarsi di uno scambio
tra AXtvri ed "Evva. Questo mito secondario che menziona Etna e
sopprime Enna è certo posteriore a quello che ad Enna dà la precipua
importanza perché su quello è foggiato e perché si vale di una
imperfetta omofonia per ribellarsi ad esso più noto e accettato. E
n'è confermata l'ipotesi che Siracusa dovesse in Enna- riconoscere una
incontestabile priorità initica. Dopo questo esame dei particolari vien
fatto di giungere a un'ovvia conclusione: il mito di Demetra in
Enna, nell'età storica, ci riporta con ciascuno dei suoi elementi
essenziali a Siracusa, la quale sembra essere il centro dell'elaborazione
di esso; elaborazione che in Enna presuppone però un culto di Dee agresti
cosi radicato, qual che ne sia la forma, da non poter essere né taciuto
né artificiato favorevolmente. A cotesta conclusione è propizia la
testimonianza più antica che ci sia pervenuta del culto ennense:
una litra d'argento che reca Demetra sul cocchio (Head H. N.). Di
fatti : se in Siracusa fu elaborata la saga del ratto di Cora per cui
ebbe valore ufficiale l'antico mito ennense, ciò dovette avvenire dopo la
vittoria di Imera. Dopo quella vittoria invero Gelone (Diod.) innalza in
Siracusa i templi di Demetra e di Cora, iniziando il formarsi di quella
piattaforma leggendaria donde il culto delle Dee potè diffondersi in
ampia area. Per conseguenza le testimonianze del culto
eimense-sira- Cusano a Cora non debbono essere anteriori al V sec.
; e in verità la litra, che è la testimonianza più antica, è dal
HoLif Si. d. tnon. 84 n. 116 riferita, per criterii numismatici e dal
Hill Coins. Al sec. V pertanto può farsi di- cevolmente risalire
l'origine di tutta la tradizione e mitica e cultuale che allaccia Enna e
Siracusa; e che ha per indispensabile antecedente una credenza a divinità
agresti in Enna, ignota nella forma, ma salda nella sostanza. Le
nostre testimonianze tutte rendono quindi inutile l'ipotesi del Ciaceri
189 sgg. che il culto greco della greca Demetra penetra in Enna per opera
di Agrigento (GIRGENTI) e Gela durante la tirannide di Falaride e Terone.
Se ogni ipotesi vale in quanto tenta spiegare dei fatti, questa del
Ciaceri non par che spieghi nessun fatto. Né anticipando rispetto a noi,
come fa, di un cinquant'anni l'influsso dei Greci in Enna, riesce a
legittimare l'autententicità del culto ennense dì cui e menzione presso CICERONE
(si veda) in Veri. Noi difatti di quella vantata antichità rendiam piena
ragione avendo dimostrato l'esistenza d'un vetustissimo culto e
mito siculo in Enna e dichiarando che, anche dopo l'in- tervento di
Siracusa nel V sec, se ne dove serbar ri- spettosa memoria. Il Ciaceri,
in vece, non giustifica essa antichità né meno facendola risalire alla
fine del VI sec. con l'influsso di Agrigento; giacché, come si sarebbe
di- menticato che Enna aveva accolto le due Dee dopo Agrigento? E
si badi che di esse in Agrigento parla Pindaro Pit. (Schhodek) e
che quindi nella tradizione letteraria non poteva essersene perduta la
traccia. E si badi, anche, che lo lo stesso CICERONE (si veda) {in Verr.:
cfr. Lattanz. div. inst.) sa di un signum vetusto di Cerere esi-
stente in Catania. Quindi il vanto di antichità con- forta la nostra tesi
e rivela impotente quella del Ciaceri. Ancor meno poi questa è
sufficiente a spiegar il rispetto che Siracusa serbò al culto ennense nel
mito. Se di fatti, come si afferma, da Gela si fosse partito, a non
molta distanza di tempo, e il culto siracusano e l'ennense, è chiaro che
molto probabilmente quello non avrebbe esitato, se bene di poco più
tardo, a soppiantar questo, assai meno favorito da ogni sorta di
circostanze geografiche e politiche. E tutto ciò scriviamo prescindendo
affatto, come si vede, dal problema su la colonizzazione di Enna; di cui
si ap- prende che è colonia di Siracusa da un luogo di Stefano
Bizantino ( s. v, "Evva) ove è senza dubbio un equivoco di data e
forse uno di fatto ; e si apprende l'alleanza con Siracusa nella guerra
di questa contro Camarina da un frammento di Filisto (fr. = FHG.)
che è impugnato a ragione dal Pais {St. della Sicilia e Magna
Grecia). Sembra in somma che nulla si sappia di positivo su la città onde
Enna fu grecizzata e sul tempo : certo è arrischiato CIACERI (si veda) nel
dire Enna colonia di Siracusa ; ed è nel vero Freeman {H. of S.)
nell'ammettere la nostra ignoranza. Per ciò preferimmo studiare il
problema della Demetra en- nense movendo da altre basi e usando dati
diversi. Con i quali, concludendo, possiamo supporre un forte influsso
siracusano in Enna, che mantiene però inalterato il proprio privilegio
mitologico. E non possiamo né provare altri influssi greci anteriori su
Enna né concedere che il supporli giovi a risolvere la questione. Il
primitivo probabile nucleo siculo. Dall'indagine del precedente § è risultato,
ci sembra, in modo esplicito che quando nel V sec. il mito siracusano
si formò dovette tener conto di un precedente e forse molto più
antico nucleo mitico e cultuale di Enna, la cui forma ci è ignota. È
risultato inoltre che molto difficilmente quel nucleo potrebbe esser
greco, perché in tal caso la sua scarsa priorità (di men che
cinquant'anni) mal spiegherebbe il forzato rispetto di Siracusa.
Ora per altro riguardo i dati delle pili recenti indagini
archeologiche e storiche (cfr. SANCTIS, STORIA DEI ROMANI) ci danno un quadro
delle condizioni più vetuste dell'isola assai bene consono a quei
nostri risultati. Ai quali non ripugna davvero la tesi della italicità
dei siculi : giacché presso una stirpe italica, e perciò molto affine ai
greci, è facilissimo esi- stesse una saga simigliante alla greca di Kora
e che questa saga costituisse il sostrato di quella che Siracusa
foggiò nel sec. V. Resta solo da determinarne, s'è possibile, la
forma verisimile. Il primo criterio ci è dato dall'analizzata saga
siracusana. Poiché essa si permette ogni sorta d'invenzioni a suo favore
in tutta la seconda parte del mito, ma rispetta scrupolosamente la
localizzazione del ratto in Enna; conviene ritenere che questo sia il
probabile nucleo essenziale del culto preesistente. D'altra parte (è il
secondo criterio) l'affinità tra Siculi (ITALI I) e Greci deve permettere
all'indagatore di cercar fra questi il piti antico embrione della
leggenda e di attribuirlo ipoteticamente e per analogia a quelli.
Analogia che è confortata da piii esempii : sovra tutto da quel di
Caco e da quello di Numa Pico e Fauno (cfr. inoltre G. De Sanctis). Il più
antico testo che racconti in Grecia il ratto di Kora è l'Inno omerico
a Demetra : dal quale parta dunque l'analisi. Ma bisogna
naturalmente prescindere, in esso Inno, da tutti i parti- colari
attinenti ad Eleusi ed al suo culto. E prescindere, inoltre, da tutte le
altre divinità messe in relazione con le due dee : Hermes ed Iris, nelle
loro funzioni di mes- saggeri; Helios ed Hecate come luci del mondo;
le Oceanidi quali compagne di Kora; Rea, perché una tra le pili
notevoli figure divine delle campagne feconde, al par di Gea. Rimangono
dunque 1° ^Aiòitìvevs (= IIo- ÀvSéKTTjS, IIoÀvóéyfiojv); Ar]/iii^Ti]Q; IIeQaeq>óv£ia; KÓQu. Siibito,
questa necessaria eliminazione di taluni ele- menti deìVInno induce una
conseguenza: se nell’età probabile della composizione di esso, il mito
era già cosi maturo da poter e accogliere elementi nuovi e
localizzarsi in un determinato centro di culto ; se inoltre non è
probabile che a favor di questo centro appunto sia stato inventato, come
quello il quale nel suo riposto senso è troppo intimamente connesso con i
primordiali riti delia madre terra; si può senz'altro affermare che
doveva, prima di quell'epoca, aver vissuta oramai una, certo non molto
breve, vita mitologica. E poco quindi importa che neìV Iliade non appaja
(v. le opinioni contrastanti del Forster Raiib und Rilckkehr d. Persephone;
Welcker Griech. Gotterl.; Preller Griech. Mith}; Bloch;
Malten Archiv. ftìr Religionswiss.): soltanto significa che mancò
l'occasione o non fu colta per intro- durvelo. Ora, nell'epopea omerica
Persefone non ha alcun carattere (come fu notato) che l'avvicini, anche
di poco, all'aspetto ch'ella assume, sotto la foggia "Persefone-Kora
„, noìVInno om. citato, all'in fuori di questo: ella è la signora
dell'Ade, regina dei morti accanto al re delle tenebre. Demetra per
contro vi appare già col suo aspetto di Dea campestre {E 500 JV 322 =
<P) delle biade. Aidoneo in fine si richiama alla terra per l'unico
attributo HÀvrónoiÀos {E 654 A cfr. Stengel " Archiv. fùr Religionswiss.;
Maass Orpheus e Wilamowitz Reden und Vortrage). Dal quale s'è voluto
dedurre che l'epopea conobbe il ratto di Kora : ma si ebbe ragione
ad asserire che la conseguenza troppo supera la premessa (Prkller
Dem. u. Pers.). Tuttavia non si può né si deve negare che quell'epiteto
si addice assai bene alla saga di Demetra e Kora. — Riassumendo dunque è
le- cito affermare che nell'epopea (a prescinder d'ogni pos- sibile
ma non pervenuto ampio racconto o aperto rife- rimento) del ratto
appaiono : 1* Ade guidator di cavalli; 2° Demetra dea delle biade ; 3°
Persefone regina del- l'inferno. Manca sol Kora. Ma Kora non
è né può essere se non la " Figlia , e il suo valore e significato è
tutto conte- nuto nella * Madre „ vale a dire in Demetra. Quindi anche
nel silenzio delle fonti antichissime non è luogo a dubbio sul suo
carattere agreste. Carattere agreste che è confermato da quello che il
mito narra di lei nella sua forma più compiuta, ossia la vicenda annuale
di par- tenza e di ritomo dalla terra a sotterra. È quindi da
escludere l'ipotesi del Beloch Griech. (?escA. che vede in Kora una
divinità lunare; la cui vicenda do- vrebbe essere, non annuale, ma
mensile. Egli non ha badato (seguendo gli antichi stoici: cfr. Sekv. a
Verg. Georg. I 5, Varr. de l. l. V 68, Plut. de facie in orbe lunae
e. 27 ecc.) che Kora e Persefone si uniscono tardi e che pertanto il
carattere della seconda non può essere quel della prima. Mi pare in vece
che ben distingua la natura di Kora in confronto con Demetra il La
stessa opinione difese il Costanzi " Riv. di St. ant. Fkazek The
golden Bough^ parte V, Spirits of the corn and of the wild; se bene egli
sia stato un po' schematico nella separazione delle due figure e lo
temperino opportunamente le osservazioni di Harrison Prolegotnena to the
study of greek Religione. In breve Kora è il seme nuovo o la biada
nascente in confronto con la biada matura da cui si stacca e a cui
ritorna. Un riferimento diverso che ci riconduce pure alle fonti del
mito è quel di Esiodo Op. e Gior., ove Zebs Xd'óvios e Demetra son
pregati insieme dall'agricoltore al tempo della seminagione. Contro Lehrs
Pop. Aufs} 298 lo ScHERER (in Roscher Lex.) sostiene a ragione che
quel nome designa non Zeus ma Ade, lo Zevg naxa%&óviog àoìVlliade. Ed
è certo evidente che nell'avvicinamento di Zeus ctonio con Demetra,
si tratta d'uno dei soliti casi di "divinità agri- cole messe in
relazione coi defunti e con la loro sede solo perché divinità della terra
feconda, (De Sanctis St. d. R. I 305): analogamente ai latini Tellure Conso
Saturno (ibi). Ed è quindi del pari evidente che quel nesso ' Ade-Demetra
' non dipende da quello ' Ade-Kora ' ma gli è parallelo e simigliante.
Non bisogna però con- fondere quest'attinenza tra Ade e Demetra con le
scarse tracce di una At]fti]Ti]Q aaxaxd'óvLa che L. Bloch o. c.
1334-5 raccoglie: queste son posteriori, a quel che pare, alla tra-
dizione del ratto e da essa determinate : dopo cioè che Persefone regina
dei morti è divenuta figlia della dea delle biade , allora questa assume
un carattere nuovo consono all'officio di quella. Al racconto pure
del ratto si deve e agli attinenti misteri Eleusini se in in
processo di tempo si verrà sempre pili accentuando il carattere agricolo
di Dio fecondo in Ade, fino a trasformarlo in Plutone (v. i testi in
Scherer). L'esame adunque delle testimonianze che si avvicinano di
pili ai primordii del mito conduce a costituire due gruppi: composto
l'uno da Demetra e Kora; composto l'altro daPersefone e Ade: trai quali
sussiste visibile nell'arte più arcaica (Esiodo) un nesso soltanto, quello
tra Ade e Demetra. La relazione tra Kora e Persefone non appare
pertanto negl'incunaboli della leggenda. Ciò sta contro l'ipotesi di
Farnell The cults of the greek States (Oxford) che suppone un'antica
divinità Persefone-Kora analoga all'Hera-Tratj e fusa poi con De-
metra. Né più felice mi sembra l'altra ipotesi di lui che Demetra-Kora
costituisse una divinità unica, madre di Persefone, con cui, staccandosi
da De- metra, si sarebbe unito l'epiteto di Kora. Assai più sem-
plice è la teoria comune che la rapita di Ade, Kora, si fondesse con la
moglie di Ade, Persefone (cfr. anche Carter in Roscher Lex.). A ogni
modo, si tratta di nesso non originario ma tardo. Che non è quindi
metodico supporre per la saga sicula : giacché questa non deve mai aver
superato i primissimi stadii, tenuto conto dell'indole dei Siculi e
dell'assenza d'una elaborazione letteraria : e difSciimente pertanto può
aver fatto della " rapita „ la regina dei morti. A completar le
caratteristiche di essa saga sicula, al- cune altre indagini. Demetra
QeafAO(pÓQog ed ''EÀev&ta CEÀevd-ìa, ^EÀev&oj, 'EÀevffivìa) son
certamente figura- zioni molto antiche in Grecia : anzitutto perché il
concetto della terra ferace richiama sùbito presso gli Arii quel
della maternità (cfr. il denso volumetto del Dif.terich Milite)- Erde^) ;
poi perché la enorme diftùsione del culto tesmoforio ed eleusinio, che
non si può spiegar tutta da un unico centro (Bloch), trova la sua ragione
nell'estrema antichità del rito. La quale del resto era nota già ai Greci
stessi : cfr. Erodoto. Sotto pertanto l'aspetto cosi di terra che di
donna Demetra fe la Madre , per eccellenza : checché sia da
ritenersi su la etimologia del. nome (cfr. Maìì^uardt Myth.
Forsch. e Frazer The golden
bough). Cosi lumeggiandosi Demetra, assume un valore più
significativo anche Kora, la " Figlia,, giacché entrambe si
presentano sotto l'aspetto di divinità famigliari, ana- loghe alle "
Madri , dei Celti e Siculi (De Sanctis "Boll. Fil. class.. e a
Libero e Libera dei Latini; e rappresentano probabilmente tutt'insieme
quella deificazione dei membri delle famiglie che par consueta fra l’arii
(SANCTIS (si veda), STORIA DI ROMA). Cosi si spiega anche meglio il valor
personale di Kora, che come dea delle biade è assai languida accanto alla
madre, ma come dea filiale riacquista una maggiore consistenza. E
vale in tutto il parallelo con i culti latini, tra i quali non pur si
verifica l'indipendenza di Proserpina e Libera, unificate sol tardi (cfr.
Wissowa Rei. Rom.); ma anche oltre a Libera si venera la Madre Matuta. In
tal caso si lega strettamente al nucleo primordiale del mito il
particolare del ratto. Si sa difatti che questa è, accanto alla compera,
una delle forme di matrimonio presso gli Arii, e quindi l'avventura di
Kora significherebbe a un tempo il mistero della vegetazione nel grembo
della terra e la cerimonia nuziale: anzi, questa olirebbe la forma
espressiva a quello. Risultato, questo, che assicu- rando alla leggenda
sicula il rapimento, concorda con quel che nel principio di questo §
notavamo a proposito del rispetto che al ratto di Enna osserva la saga
sira- cusana. E le due considerazioni si confermano a vicenda. Cfr.
anche G. Gassies ' Rev. d. Étud. anc. Più in là ci mancano i dati. Basti
un'ultima osserva- zione. Nel mito greco tutta la seconda parte (la
mela- grana e il patto tra Ade e Demetra e Zeus) è intesa a
giustificar la periodicità con cui in ogni inverno il seme si cela nella
terra per lasciar solo nella primavera riap- parire gli steli del grano.
Ora non è punto certo e forse né meno probabile che anche nella leggenda
sicula esi- stesse una parte a questa simile. Giacché la sua formazione
dovrebbe esser non solo molto antica ma assai pili rudimentale che presso
i Greci (a cagione, come dicemmo dianzi, delle doti intellettuali delle
singole stirpi e dell'as- senza d'una elaborazione letteraria) ; non è
permesso per tanto di pensare, metodicamente, che fosse superato
quello stadio religioso in cui ogni sole nascente è ritenuto di-
verso dal tramontato e non si afferra ancora né continuità né periodicità
di fenomeni (DESA^'CTIs St. d. Rom.). Il superamento è possibile; ma la
possibilità non fa storia. Concludendo. Per ricostruire la
probabile forma dei primitivo nucleo leggendario dei Siculi in Enna ci
siamo valsi dei soli due mezzi di cui possiamo disporre : la con-
statazione degli elementi che quel nucleo portò con in- sistenza nella
saga siracusana del V sec, e la ricerca del primitivo nucleo nella
leggenda analoga di un popolo affine, il greco. I risultati sono scarsi,
ma non insuffi- cienti. I Siculi dovettero, sembra, raccontare che
una Dea agreste (delle biade in ispecie) aveva una Figlia rapita da
un Dio sotterraneo dai campi nelle sedi dei morti. E nel loro racconto si
fondeva il fenomeno del seme che sparisce fra le zolle con il rito
consueto del matrimonio a mezzo del ratto. Di questo, che è poco,
ma è anche molto a confronto con quanto si è osato as- serire su
l'argomento fin qui, ci è forza restare paghi, IL CULTO DI DEMETBA IN
ENNA Le versioni greche del ratto di Kora. Ofifri- rebbe materia a
larghissimo studio l'indagare tutte le forme che il ratto di Kora assunse
ovunque si sparsero abitarono Greci; e di ogni forma precisare i
motivi. Qui a noi importa soltanto di fissare quelle versioni del
mito che sulla saga siracusana influirono, cosi contribuendo al suo formarsi,
come confluendo ad allargarla per contaminazione ; e fissatele, ci
limiteremo, per non uscire dal nostro tema ristretto in un campo
sconfinato, alla constatazione senza cercare la spiegazione. L'Inno
omerico a Demetra è, come si disse, il testo più antico in cui il mito di
Kora rapita appaja; e come tale ne costituisce, non già il primo stadio,^
ma la prima forma capace di influssi e passibile di riferimenti:
noi la chiameremo protoattica per brevità. In essa sono state
distinte due parti, l'una mitologica, l'altra etio- logica; entrambe
furono oggetto di esami attenti: ci basti il rinvio al cemento di T. W.
Allen and E. E. Sikes The homeric hymns e a Jevons An introduction
to the history of religion. Solo un punto richiama qui il nostro esame
ed è di facilissimo rilievo : secondo Vlnno gli uomini conoscevano già le
biade prima del ratto di Cora, tanto che Demetra del ratto si vendica col
privare gli uomini del seme fecondo. Il rapimento dunque è solo
l'occasione in cui la Dea compie su Demofonte, figlio di Celeo e Metanira
re in Eleusi, la magia del foco e insegna i suoi riti ai principi
eleusini fra cui è Trittolemo. La concezione che predomina nel V
secolo è in vece, com'è noto, ben diversa. Trittolemo, non più principe
fra altri, diviene il giovinetto cui primo la Dea insegna l'arte
del seminare e raccogliere grano (cfr. L. Bloch in RoscHER Lex.; Malten
"Archiv ftìr Religionswiss.; Pringsheim Archdol. Bei- i trdge
zur Geschichte cles eleus. Kults). Ora è anzi tutto da vedere come questa
concezione nuova, che contraddice esplicitamente la protoattica in quanto
sup- pone che solo dopo il ratto gli uomini conoscano le biade, e
si può quindi chiamare neoattica, si comporti con Demofonte Celeo e
Metanira. Una prima risposta ci dà Apollodoro che conserva Demofonte per
la magia del fuoco, Trittolemo per il dono del seme, e tutt'e due
pone nella famiglia di Celeo e Metanira, so- vrani in Eleusi, come figlio
minore l'uno, primogenito l'altro. Una seconda risposta ci dà nei Fasti Ovidio
: Demofonte non esiste più ; Trittolemo subisce la magia del fuoco ed è
predetto primo aratore ; Celeo e Metanira gli son genitori, ma non re, si
poveri in me- schina capanna. Di qui due problemi. È anteriore la
versione di Apollodoro o quella di Ovidio ? Notiamo che Apollodoro è
l'unico autore dopo Vlnno da cui Demo- fonte figlio di Celeo sia
ricordato ; notiamo che egli compone con varii materiali un testo unico,
della leggenda; so- spetteremo che la sua sia una combinazione di
mitologia erudita fra Vlnno e la saga neoattica di Trittolemo, col
proposito di guastare il meno possibile l'uno e l'altra. In OVIDIO (si
veda) in vece la combinazione appare di mitologia poetica; c'è una sicura mossa
fantastica: Trittolemo sopravviene, noto nei tempi nuovi, al posto di
Demofonte, noto negli antichi: l'ignoranza del grano e la povertà
sopravviene, conforme al nuovo concetto, in luogo della cono- scenza ed
opulenza narrate nell' Jm«o. Ora poiché nel santuario eleusinio una innovazione
erudita è meno congetturabile di una fantastica, dobbiam dare la
precedenza cronologica, pur con riserva, alla forma ovidiana. Ci pare
allora che il nome e il concetto di Trittolemo abbiano acquistato
predominio attirando nell'orbita loro Demofonte, che scomparve, Celeo e
Metanira, che digradarono a poveri vecchi. Questa innovazione fantastica è
d'influsso orfico ? Afferma che si Malten e "Hermes: perché
orfico è il personaggio di Dysauìes ch'egli interpreta óvaavÀog " der eine
arme Hiirte hat Noi lo neghiamo per due gravi motivi. Anzi tutto, se
dairOrficismo fosse derivato Trittolemo = primo semi- natore, Dysauìes e
Baubo, legati con lui presso gli Orfici quali genitori, avrebbero
scalzato Celeo e Metanira al pari di Demofonte ; in vece non si capisce
come gli Orfici scegliessero proprio il nome di quel principe, fra
gli altri deir//mo, per innovarlo e per congiungerlo con nome e
personaggi di loro creazione; né come esso solo acquistasse tanto
predominio, mentre Dysauìes, Baubo, e parecchi motivi orfici, restarono
senza eco fuor della setta. In secondo luogo tutto il brano dei Fasti e estraneo
all'influenza orfica : che il particolare dei majali, non è orfico
esclusivamente, come pare a Malten e già a Forster {R. u. R.), ma si
riconnette col culto e coi sacrifizii suini, accennati a un verso. Dunque in un
carme ove dagli Orfici nemmeno si accetta quella presenza di Atena e
Artemide che fin la saga siracusana aveva fatta sua, la scena
centrale deve essere dimostrata orfica per venir ritenuta tale ;
altrimenti altra spiegazione sarà migliore. Di fatti a noi par chiaro che
lo stesso moto onde Trittolemo = primo se- minatore fu portato a
soppiantare Demofonte e impoverire Celeo, recò lui medesimo nel patrimonio
orfico e determinò la nuova paternità di Dysauìes. Onde ci sembra
evidente che la scena eleusinia dei Fasti sia di Contro l'opinione comune
che è in Gruppe Gr. Mi/th. origine neoattica e di quel gusto alessandrino
che ai ri- vela neWEcale callimachea. Negata agli Orfici la
creazione di Trittolemo = semi- natore, dobbiamo, nei limiti del nostro
tema, rettificare un'opinione imperfetta degli studiosi. Negli Orfici
Argonauti si legge che Cora è^duacpov avvófiatfiot ingannarono le
sorelle,. Per sorelle s'intendono dal Forster, Atena Artemide e Afrodite.
Il confronto con EuKiPiDE Elena (cfr. il testo del Wilamowitz in
Comm. gramm. e " Sitzb. Beri. Akad.) dimostra però che si deve trattare
soltanto di Ar- temide e Atena. Di queste due parla difatti il
Malten " Archi V; ma le presenta nell'aspetto eu- ripideo
(ripetuto in Claudiano) di difenditrici, non in quello orfico di ingannatrici.
Correggendo da un lato il Forster dall'altro Malten, mi sembra che
l'ipotesi migliore per superare il contrasto fra gli Argonauti e
VElena e spiegare l'aggiunta di Afrodite che si ritrova in Igino fav. (non che in Claudiano), sia l'ammettere che
Afrodite abbia in un secondo strato orfico so- stituito nell'inganno, per
esser a ciò più adatta, Atena e Artemide, e queste, in qualità di vergini
compagne e di dee armate, sieno passate alla difesa della rapita.
L'aver precisato cosi le varie forme leggendarie, pro- toattica
neoattica (e orfica), ci ajuta a intendere in primo luogo il testo di
Timeo (cfr. Diodoro e Geffcken). Notammol'uso che ivi è fatto del motivo
orfico su Atena e Artemide. Notiamo ora, a guisa di premessa, che tutto
il racconto del mito vi è estre- mamente sommario. Ma il puoto essenziale
vi appare in Impreciso è anche A. Olivieri ' Arch. st. per la
Sicilia or. , li. modo non dubbio: vale
a dire, secondo Timeo la Sicilia conobbe tòv tov alrov KaQnóv prima
d'ogni altra regione; in Sicilia le due Dee facevano spesso soggiorno;
avvenuto poi il ratto, Demetra fece dono del grano a tutti coloro che
durante la ricerca la accolsero q>iÀavd-Q<j}7t(ag e, fra costoro
primi, agli Ateniesi; gli Ateniesi quindi eb- bero e diffusero la
conoscenza del grano primi dopo i Siciliani, i quali se l'erano avuto
dalle Dee (5tà zì]v Tijg AijfirjtQog koI Kóqtjs TiQÒg aèzovg ol-
KeiÓTi]Ta. Dunque non può rimanere incertezza che Timeo e la saga
siracusana da lui ripetutaci accettavano per intero la versione neoattica
secondo cui l'ateniese (eleu- sinio) Trittolemo avrebbe appreso primo
l'arte del se- minare e l'avrebbe insegnata agli uomini in luogo
del- l'uso di ghiande ; l'accettavano però con la orgogliosa
premessa che la Sicilia, per la special benevolenza e la famigliarità
delle due Dee, aveva preceduto gli Ateniesi e l'intero mondo. Ne balza la
concezione duplice di una Sicilia che ha il privilegio del grano, mentre
tutti gli altri lo ignorano , prima del ratto ; e della restante
umanità, che il privilegio si conquista poi col trattar bene la Madre
dolorosa, in occasione del ratto. Cosi i Siracusani non ebbero bisogno di
sostituire Trittolemo con una figura indigena, come quei di Sidone
con un Orthopolis figlio del re Plemnaios (cfr. Paus.); né di farlo
entrare in genealogie locali, come gli Argivi che gli diedero padre un
argivo Trochilos (Paus.); né di identificarlo con un antico loro iddio,
come suppone, ma senza convinzione, 0. Rossbach Castrogiovanni (Leipzig) Essi
poterono venerare Trittolemo (CICERONE (i veda) in Verr.) come
colui che per benevolenza della lor Demetra diffuse al mondo il già
loro secreto del seme. LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA La
conoìcenza del racconto di Timeo deve ajutarci a comprendere il doppio
testo di Ovidio in Fasti e in Metamorfosi. Si è discusso se si tratti di
un'unica fiaba desunta da un'unica fonte e variamente ripetuta nelle due
opere; o se anche la fonte sia distinta per ciascun racconto. Tennero la prima
opinione alquanti critici citati dall'ultimo di questa teoria L.
Malten 'Hermes, Tennero la seconda opinione sovra tutti prima il
Forster R. m. R. d, Pers. poi Ehwald-Korn Metani. Noi crediamo che il
Malten, il quale pure ebbe autorevole assenso dal Wilamowitz
(Sitzungsber. d. Beri. Akad.), sia in errore. Nelle Metamorfosi le fasi
del ratto sono le seguenti : Persefone vien rapita da Plutone presso Enna
ov'è il lago Pergo durante l'antologia; Cerere ne fa ricerca per
tutte le terre con due pini accesi su l'Etna; veduta presso la fonte
Ciane la zona di Proserpina, se ne sdegna: terras tamen increpat
omnes Ingratasqiie vocat nec friigum munere dignas, Trinacriam ante
alias e distrugge gli aratri e impedisce la vegetazione del grano; Demetra,
dopo le indicazioni di Aretusa, il colloquio con Giove, il giudizio di
questo, ristorata del suo dolore corre medium caeli terraeque per
aera e va in Atene, consegna a Trittolemo i semi e partim iussit spargere
rudi humo partimqiie post tempora longa recultae. Ora, noi vedemmo
sopra che la sostituzione di Ciane e Aretusa ad Ecate ed Elios
deir7«no omerico sono pretti elementi della saga siracusana. E con questo
risultato concorda, il ratto in IL CULTO DI DEMETEA IN BNNA Euna. Ma
la concezione espressa nei versi citati non si copre con la siciliana: è più
larga. Terrae omnes conoscono il frugum muniis, e fra esse è si la
Sicilia, ma non sola, se bene più fertile. E Trittolemo insegna a
seminare su la terra post tempora longa recalta, quindi anche su la
Sicilia dopo il danno subito per vendetta della Dea. Ora, donde viene
questa concezione che accoglie e umilia in sé la saga di Timeo? Ognun
vede che essa contiene : del mito protoattico, la conoscenza del grano
anteriore al ratto e la vendetta divina ; del neoattico, Trittolemo =
seminatore. Ne rappresenta quindi un tentativo di conciliazione in cui
s'innesta la leggenda siracusana con qualche mortificazione. Quanto
all'intervallo fra la veduta, della zona e la supplica di Aretusa che il
Malten calcola a un anno, è chiaro che non è pre- ciso nella mente
del poeta, come appare dalla frase post tempora longa. Che sia assurdo
lascerem dire al Malten, che trascura la libertà fantastica dei poeti. Né
col Malten diremo adesso che la metamorfosi di Lineo trascinò con sé in
fine del racconto anche Trittolemo ; dacché vedemmo come questo
personaggio stia bene in quel posto in cui i Fasti lo pongono, data la
contaminazione proto-neoattica. In fine contatti con la poesia orfica non
vi sono : perché è taciuta la presenza di Atena e Artemide ; perché
Trittolemo spargitore del seme non è orfico; e perché ha ragione il
Malten di riconnettere con la volgata poetica degli Alessandrini la
parte introduttiva su Plutone colpito da Cosi mi fece notare il mio
maestro G. De Sanctis. Resto incerto se questa conciliazione si trovasse
già in Carcino junior (cfr. Timeo presso Geffcken = DiOD.). amore per volere di
Afrodite. E di modello alessan- drino essendo tutte le metamorfosi, la
nostra conclusione è che la fonte di Ovidio fu un testo alessandrino ove
nella trama proto-neoattica con innesto siciliano sono interpolate favolose
trasformazioni di Ciane Ascalafo Ascalabo Aretusa e l'altre.
Pei Fasti l'esame è anche più pronto : 1" 11 ratto avviene in Enna ;
ma ivi non è la sede delle due Dee. Di fatti Aretusa ve le aveva invitate
e Cerere vi era giunta da poco (modo venerai Hennam) allorché
Proserpina fu presa. Sicché quando il poeta dice della Sicilia Grata
doìnus Cereri; multas ea possidet tirbes ecc., la frase, come vuole il
verbo al presente, si deve riferire ai tempi di Ovidio (contro il Malten). E
quando Prosei'pina è introdotta vagante per sua prata (v., si deve
intendere " i prati di cui è dea che tutta la vegetazione è in lei
compresa nel tardo concetto poetico (contro il Malten). Dopo il ratto,
Cerere, cominciando dalla Sicilia, vaga per tutte le terre e pel cielo in
affannosa ricerca; della quale una prima tappa è il soggiorno in Eleusi
presso Celeo e Metanira, al cui figlio Trittolemo essa predice pi'imus
arabit et seret et eulta praernia tollet humo, togliendo cosi la famigliola e
gli uomini tutti dalle condizioni di vita primordiale in che
nutrendosi di bacche duravano (cfr. il proemio Ceres, homine ad
meliora alimenta vocato, mutavit glandes uti- Nel verso Dixerat, at
Cereri certum est educere natam il Malten) vuol vedere un riferimento
all'orfica discesa di Demetra sotterra. Non mi par che basti. Non
ho potuto prender conoscenza di G. Bubbe De metamorphosibus Graecorum
capita selecta " Diss. Phil. Hai.. Uore cibo). Seconda tappa
della ricerca è costituita dalle informazioni che nel cielo danno sul
ratto alla Dea, Helice ed il Sole. Da ultimo accade il colloquio
con Giove e il verdetto finale. Ermes è il messaggero fra Giove e
Proserpina. Cerere si cinge d'una corona di spighe, segno di pace
che ricorda la promessa fatta a Trittolemo ; e larga messe proventi
(non rediit) cessatis in arvis, ossia nei campi incoltivati {cesso = non
exerceo). L'interpretazione comune (nei campi trascurati) non può
reggersi confrontando i vv. già citati. Ora, dallo schema cosi
tracciato ne' suoi punti cardinali non è difficile trarre le conclusioni
: il concetto fondamentale di una umanità che prima del ratto si nutre di
bacche ed è povera, e dopo il ratto apprende da Trittolemo la cultura del
grano e si fa prospera, è neoattico ; il luogo del ratto (con cui
si connette l'elenco dei luoghi ove prima avvenne la ricerca) è
desunto dal mito siracusano; la coppia Helice-Sole è una variante
alessandrina della coppia Ecate-Elios del- Vlnno omerico (cfr. Malten);
l'ordine cronologico degli episodii non è quello dell'Inno, che la tappa
in Eleusi e le informazioni degli astri sono invertite rispetto ad
esso. Di più: quest'ultima inversione obbedisce all'in- tento artistico
di non rappresentar Cerere nell'indugio di Eleusi quando, già conoscendo
il nome del rapitore, può sperare di riaverne la figlia ; e la
sostituzione di Helice ad Ecate ha per fine una maggiore
perspicuità in rapporto con la più volgata nozion mitologica; e di
gusto alessandrino è la divisione dell'anno per metà può reggersi
ammettendo un' incongruenza irrazionale fra i due luoghi; la quale non sarebbe
strana nel poeta.; e col gusto medesimo concorda l'accettazione del
concetto neoattico. Adunque possiamo dire che il racconto dei Fasti è
un'alessandrina combinazione sagace del fondamentale mito neoattico con
pochissimi tratti siciliani e con spunti di recente mitologia.
Siamo pertanto molto lontani dalla trama riprodotta nelle Metamorfosi e
definita sopra: là si ricerca di salvare il concetto dell'/nno
contaminandolo con la saga neoattica; qui deWInno e corretto fin
l'unico particolare non respinto, e predomina una idea
aWTnno contradittoria. Sicché ha torto il Malten di supporre ai due
componimenti unica fonte. Diversi essi appajono anche negl'intenti.
L'uno ha scopi di compiacimento fra letterario e favoloso con le
sue metamorfosi numerose; l'altro ha scopo etiologico. Tale
constatazione può giovare alla ricerca dei due modelli alessandrini
seguiti da Ovidio; ma noi non ci permetteremo di esaminare a fondo questo
punto, ritenendolo di spettanza degli storici della letteratura, e del
tutto secondario per gli storici del mito. A noi basta l'aver determinato
quelle forme fondamentali del mito di Cora che, costituitesi in Grecia,
intervennero poi sul mito si- racusano, variamente intrecciandosi in
complessi disegni. Cfr. Cessi ' Arch. stor. per la Sicilia or. ,
L'abigeato di Caco. Il problema. Intorno al mito che narra il furto
di Caco ad Ercole e la vendetta di questo, assai pili che singole ipotesi
si combattono opposte teorie. Per l'ima fra esse, della quale basti
citare rappresentanti il Peter in Roscher Lexicon e il Binder Die
Plebs fra i Tedeschi, e fra gl'Italiani il SANCTIS, STORIA DI ROMA, il
nucleo primordiale del mito è italico, intrecciato su i due nomi di Caco
e di Garano (-Recarano), e travestito sol più tardi con le
sembianze di Eracle-Ercole; il contenuto di esso è na- turalistico e
consiste nella lotta fra il dio solare e il dio sotterraneo del fuoco;
vive nelle tradizioni mitico-poe- tiche del popolo che lo perpetua, fino
a che gli artisti lo foggiano secondo la tradizione letteraria e gli
sto- rici lo umanizzano e variamente razionalizzano. — Per l'altra
teoria in vece, che sostengono fra noi il Pais Storia critica di Roma e
all'estero il v. WiLAMowiTZ Euripidea Herakles, il Wissowa in
PAtTLy-WissowA Real-Encykl. snon che, ora, Rei. u. Kult. d. Romer) e J.
G. Winter The myth lu - l'abigeato di caco of Hercules at Rome
in " University of Michigan Studies, Humanistic Series „ Roman
History and Mythology edit. by H. A. Sanders (New York), il mito è opera
dell'influsso letterario greco, pur conceden- dosi in esso una parte
all'elemento indigeno (latino o italico): sia col riconoscere in Caco un
" figlio di Vul- cano , (Pais) " forse , un'antica divinità del
fuoco (Winter); sia col limitarsi ad ammettere che il nome di lui è
ben radicato nel suolo di Roma e d'Italia. Il problema era in questi
termini quando fu ripreso recen- temente da Friedrich Mììnzee Cacus der
Rinderdieb (Basel). Questi facendo suoi i risultati del Wilamo- witz e
del Wissowa dichiarava dover "...nicht die Gewinnung neuer Resultate das
Hauptziel sein ; sondern es sollen nur die alterprobten Mittel
philologischer Methode Interpretation, Analyse, Vergleichung mit
moglichster Griindlichkeit, Sorgfalt und Umsicht angewendet werden. Difatti,
dopo una indagine la quale " vielleicht bisweilen allzu peinlich und
kleinlich er- schienen sein solite giunge a sostener questa tesi :
Il racconto è forse da far risalire fino ai principii della letteratura
latina. I più antichi annalisti lo concretarono nella forma che ci appare
in Livio; due generazioni appresso, gli annalisti dell'età graccana
(Cassio Emina, Cn. Gelilo) avevan già razionalizzato la fiaba e vi avevan
imaginato un riposto nucleo di reale istoria; solo la Romantik „ dell'età
augustea Nello stesso anno 0. Gruppe svolse in breve nella Beri.
Phil. Woch. una sua ingegnosissima ma, a nostro avviso, non
convincente teoria sul mito di Caco. Egli si fonda su i testi di
Festo, Diodoro e Cn. Gellio che noi sotto interpretiamo con tutt'altro
valore. IL VALOKE DEL MITO INDIANO riprese la forma originaria : "
Livius, indem er die Sage einfach als Sage erzàhlte und sich im Hinblick
auf seinen allgemeinen Vorbehalt der Kritik des einzelnen enthielt,
Vergi], indem er die schlichte Sage in das glanzende Kleid der Poesie
hullte. Il nome Caco era diffuso in antiche tradizioni italiche; egli
era da prima concepito come semplice uomo, pastore o ladrone, e da VIRGILIO
(si veda) solo è mutato in un mostro tra divino e bestiale. 'Eracle-Ercole' è già
nella primitiva forma della narrazione e il nome di Garano (Recarano) è il
prodotto di una rielaborazione eve- meristica della versione volgata del
racconto. A chi pertanto voglia novamente studiare il mito di
Caco corre obbligo di tener conto in particolar modo di questa che, per
esser l'ultima ricerca e per presentarsi con speciali pretese di saldezza
logica e precisione me- todica, sembra aver eliminato ogni obiezione e
distrutto la teoria del Peter e del De Sanctis. Quanto tal sem-
bianza sia falsa è per apparire. II valore del mito indiano.Nella mitologia
indiana del Rigveda il Rosen (a Rigveda) ravvisò primo un racconto che si
potrebbe dire senza esagerazione identico a quello latino di Caco : la
lotta di Indra con Vritra. I particolari più minuti coincidono
dall'una all'altra fiaba: cosi la clava di Ercole e di Indra, il muggir
dei buoi di entrambi, la caverna rocciosa, ecc. (cfr. Peter). E ne furono
tratte da più studiosi le conseguenze ovvie: p. e. da Bréal Hercule et
Cactts, Elude de Myihologie comparée (Paris), da Fé. Spiegel in "
Zeitschr. f. vgl. Spr.-F. MuNZER in vece ha creduto di poter tra- scurare
al tutto questa significativa coincidenza tra il racconto indiano e il
latino, appellandosi ai nvich- l'abigeato di caco ternen „
giudizii del Wilamowitz e del Wissowa (p. 6 e n. 8). Commise cosi, secondo
a noi pare, (simile in questo al WiNTER) l'errore fondamentale di tutta
la sua ricerca, perché gli sfuggi l'importanza che la suddetta
coincidenza può e deve avere non solo come argomento, ma come prova
" cruciale „ fra due possibilità logiche. Di fatti, accertato che,
in forma quanto più è possi- bile simigliante, presso i Latini ritorna un
mito indiano, ne consegue da prima che il valore allegorico di
questo, il quale non è dubbio (Bréal), dev'essere a un di presso
identico al significato di quello romano : la lotta cioè fra luce e
tenebra, fra la potenza benefica del sole e quella malefica dell'ombra e
del fuoco. Inoltre, se la forma latina è, fra le molte che il mito
assunse presso i popoli indo-germani, la piii simigliante al racconto del
Rigveda (Kuhn " Zeitschr. f. deutsch. Al- terth.), par metodico
con- chiudere che la fiaba di Caco germoglia in suolo italico dalle
radici arie, e non è in vece l'imitazione delle fiabe vigenti presso i
popoli affini, quali p. e. i Greci. Giacche è ozioso e assurdo supporre
che imitando un modello già lontanatosi dal tipo indiano si giungesse
a riprodur questo appunto più fedelmente. In particolare,
prescindendo dalle saghe degli Brani (Ormuzd e Ahriman; Tistrya e
Apaosha) e dei Germani (Siegfried e Fàfnir, ecc.), su cui si veggano
Bréal, Spiegel, i miti greci di Apollo in lotta col Pitone, di Zeus con Tifeo,
di Ercole con Gerione, e anche il racconto dell'abigeato di Ermes in
danno di Apollo, pur ripetendo tutti e tutti travestendo un unico concetto
naturalistico e le sue sfumature e analogie, sono ben lungi dal
riprodurre tanto quanto il mito latino la forma del Rigveda. Basti a
convincersene l'aver letto per Gerione Apollod., per Ermes l'omerico Inno a
Ermes, per Tifeo [Esiodo] Teog. 820 e romenco Inno ad Apollo.
Da ultimo la constatata simiglianza iatima tra l'episodio di Caco e quel
di Vritra serve, nell'indagine, a decidere quale fra le discrepanti redazioni
del racconto latino più si accosti al nucleo italico primordiale,
quali elementi sieno gli originarli rispetto ai posteriori o evolutisi
corrottisi: però che sia evidentissimo, tanto mag- giormente esser antico
un particolare e vetusta una fi- gura quanto meglio collimi con le forme
e le linee del racconto indiano. Questo non avverti il Mùnzer (e né
il Winter), e si precluse la via a giudicar con metodica Nùchternheit i testi cosi dei poeti come
degli storici e degli eruditi latini. VIRGILIO (si veda) ed OVIDIO
(si veda); Properzio Il risultato della ricerca che Munzer conduce nel
suo I cap. (se si omettono, com'è bene, le singole osservazioni le
quali non sempre tengono il dovuto conto delle esigenze poe- tiche
e delle poetiche irrazionalità) è che fra il racconto del furto e la
vendetta di Ercole corre nel material nu- mero dei versi la proporzione
di 1:3 presso Vergilio, 1:2 presso Ovidio, 2:1presso Properzio. Die
Folgerung scheint unabweisbar, che appunto nella vendetta di Ercole
Vergilio dev' essersi allontanato dalla tradizione precedente per concedere
alla propria fantasia volo pili libero e più ampia indipendenza.
Dopo aver fatte alquante riserve su cotesto metodo di contar i
versi d'un carme per determinarne gli strati mitici, i dati sembran da
disporre in ben altro modo, ch'è, solo, logico. Poiché in Vergilio e in
Ovidio (il quale Cfr. Eneide; Fasti; Elegie. F., Kalypso l'abigeato di caco da quello
dipende, come risulta evidente dalla semplice lettura e fin troppo è
dimostrato dall'analisi del Munzer) è dato più grande sviluppo alla lotta
fra Ercole e Caco olle al furto dei buoi, due possibilità logiche son da
tener in pari conto. che lo spirito inventivo di Vergilio ivi si
esercitasse piti liberamente e più profondamente in- novasse. che invece
quello fosse anche nella sua fonte leggendaria l'episodio meglio notevole
e significativo del racconto, e che nel dargli i colori della sua
tavolozza il poeta assecondasse il modello. Tra queste due
possibili ipotesi è d'uopo scegliere; ma scegliere con argomenti. E
non si vede per contro qual motivo induca il Munzer a preferir senz'altro
la prima e a proclamarla unabvreisbar. Ecco in vece che il mito del Rigveda
in- terviene qual pietra di paragone. In esso la vendetta di Indra
contro Vritra è ampiamente narrata con presso che tutti i particolari
noti da VIRGILIO (si veda) ed OVIDIO (si veda) e costituisce, non meno che in
questi poeti, un'essenzial parte della fiaba. Per esso dunque la seconda
ipotesi è da sceglier non la prima, ed è da ritenere che il rac-
conto della lotta fra il dio solare e quel del fuoco te- nebroso
costituisse non pur una rilevante porzione della leggenda preesistente a
Vergilio, ma a dirittura il nucleo della vetustissima saga italica.
Nella descrizione della grotta di Caco Vergilio è pedissequamente imitato
da Ovidio : cfr. En., Fasti. Ma perchè V. usa per la spelonca la
frase " solis inaccessum radiis „ là dove 0. preferisce vix ipsis
invenienda feris a esprimere un concetto affine, il Munzer insiste a
lungo su la differenza. Non ci fermeremo, rispettando i poeti. Con eguale
sottigliezza d'analisi il M. studia le due parole semihomo, e semifer che
V. usa a designar Caco accanto a l'altra di monstrum Perché il sembiante
degli dei è identico a quello degli ucraini, per questo semihomo equivale
ad halb Gott. Ma se cotesta è solo una minuzia, grave diviene
l'errore metodico allorquando da essa si traggono le più rigorose
deduzioni logiche : fino a trovare che l'epiteto di vir , da 0. tribuito
a Caco non si conviene alla concezione vergiliana del semihomo sebbene
0. imiti pel resto l'Eneide e ripeta la parola monstrum e la
paternità del ladrone. Per vero il vir , ovidiano disdice bensì, ma non
al concetto di Vergilio, SI a quello del Mùnzer. Ugual giudizio deve
farsi di una serie d'altre inezie, e in particolare delle osservazioni su
l'uso delle saette e della clava, presso V. ed 0. . Nel mito indiano
Indra usa il fulmine o la clava. Ed è da ricordar pure che cosi le
saette come la clava sono i simboli primordiali dei raggi solari, e si
addicono quindi entrambi all'essenza del rac- conto. Se quindi la clava o
le saette o l'una e l'altre fossero già nella forma originaria o vi
mancassero è im- possibile dire. Il M. rileva in fine
un'analogia fra l'episodio di Caco e quel di Polifemo (Odissea t) : dalla
quale trae una deduzione che gli è fondamentale. A quel modo che nell'Odissea
Polifemo invoca contro Odisseo il proprio padre, cosi, Caco dovendo
essere assistito da un Dio, Vergili© lo avrebbe fatto figlio di Vulcano
(p. 49). E questo è accanto a una serie di altri monstra ,
vergiliani riportati ad analogia, l'unico argomento per asserire
che Caco è nell'Eneide " eine freie Schopfung der dichterischen
Phantasie. Per qual motivo Vulcano fosse prescelto; perché Caco emettesse
fuoco e fumo ; non è detto ; ma tutto si fa dipendere dalla "
ihn (Vergil) beherrschende Auffassung des Cacus als eines halb
gottlichen, halb tierischen Wesens. l'abigeato di caco Una confutazione
ormai non è più necessaria. Più ragionevole è la tesi del Winteb:
che VIRGILIO (si veda) risusciti i caratteri dell'antica divinità del
fuoco Caco sul modello di Tifeo ([Esiodo] Teog.; Inno ad Apollo).
Ma in tal caso è ipotesi molto più logica e semplice che Vergilio si
valga dei caratteri i quali la tradizione letteraria ha fissati per Tifeo
(non che, si può aggiungere, per altri consimili mostri), a fine di
colorire artisticamente un personaggio del suo tema, non già di
ricrearlo. Resta che si dica di Properzio. Intorno al quale pru-
dentissimo diviene Münzer; e non a torto, in massima. Le rassomiglianze
del suo racconto con quel dell'Eneide che il PtOTHSTEm dichiara come
riferimenti culti a VIRGILIO potrebbero in vece esser soltanto
riferimenti al modello di questo, per certo assai noto, a cui è dovuta la
conservazione poetica della saga: riferimenti p. e. ad ENNIO (si veda). E
parimenti antichissima potrebb'essere la concezione di Caco a tre
teste, la quale è nel Rigveda. Si è anche pensato, in vero, che essa sia
dovuta all'influsso greco traverso Ge- rione : e può essere. Ma forse si
preferirebbe pensare che il particolare venisse soppresso da Vergilio
appunto per dissimilar Caco da Gerione, entrambi avversarii di
Ercole. Se poi l'assenza di Evandro, che nel mito ori- ginario mancava e
che fu indotta dall'equazione erudita Cacus = Jtajtdff (De Sanctis St.
rf. i2. I 194 e n. 2; cfr. sotto § V), sia pur dovuta alla fonte di
Properzio o a una sua brachilogica omissione, non è possibile dire.
A ogni modo nel tutt'insieme il racconto di lui sembra avere un'impronta
arcaica ed è certo un indizio egregio di quel che il mito potesse essere
prima dell'intrusione di Evandro. LIVIO E DIONISIO Livio e Dionisio.
Cfr. LIVIO (si veda); Dion. Il Caco di LIVIO (si veda) è pastor ferox viribus,
e prima di venir abbattuto da Ercole " fidem pastorum
nequiquam , invoca. E in somma un uomo: ben diverso dal monstrum di VIRGILIO
(si veda). Di qui due possibilità si presentano al critico: o la concezione
liviana è prodotto d'un erudito razionalista che ha abbassato la
statura del personaggio; o la concezione vergiliana è l'effetto d'un volo
fantastico del libero poeta. Münzer che s'è chiusa la via a sceglier
con metodo, si attiene a questa seconda ipotesi senza visibili ragioni.
E nello stesso errore cade, per motivi analoghi, il Winter o. c. Il mito
indiano per contrario decide incontrovertibilmente a favor della prima e
induce ad affermare, con la maggior sicurezza possibile in cosi
fatte ricerche, che Livio riflette una forma razionalizzata e umanata
della saga. La quale serba tuttavia anche cosi un indubbio color favoloso
ma è più lontana assai dall'origine naturalistica. E poiché a ragione il
Miinzer afferma LIVIO (si veda) indipendente da VIRGILIO (si veda) e attinente
a una fonte pre-vergiliana, se ne deve conchiudere che l'età augustea
riceva dalle anteriori intorno a Caxìo ed Ercole almen due versioni,
l'una più dell'altra co- lorita. A punto perché anche il
racconto della fonte di Livio è coperto di una patina da fiaba, Dionisio
scrive : UoTi óè xGiv i}7iÈQ Tov Sttifiovog Tovóe Àeyoftévojv tà
fièv fiv&iKÓtteQa, za d' àÀij&éais^a; e a lui difatti, se il
rac- conto della fonte vergiliana poteva sembrare degno di poeti,
ma non di uno storico erudito, quello della fonte liviana doveva apparire
a bastanza verisimile per esser riportato, troppo poco prammatico per non
preferirgliene uno in cui dietro a Ercole e a Caco stessero degli
eser- citi interi. Col che si confuta il Mùnzer quando, l'abigeato
di caco prendendo rigorosamente alla lettera il [iv&iKdjxsQa,
af- ferma che Dionisio intese narrare "die Fassung, der
Sage..., die mit den buntesten Farben geschmùckt war „; e non si accorge
che il comparativo è da riferirsi solo alla seconda versione, più vera „
della prima e men favolosa. Assai brevi sono Livio e Dionisio
nel narrare la lotta fra Ercole e Caco, quella su cui si dilunga VIRGILIO
(si ved) e il mito del Rigveda. Il motivo è chiaro: quivi appunto
era il perno del mito e il fondo della sua allegoria; quivi il
razionalista più deve sopprimere (contro M.). Mentre però Livio concepisce
Caco qual pastore, Dionisio lo dichiara Àrjatrig rtg èjtix(ì>Qios. Tal
diffe- renza acquista valore se la si contrappone alla concordia
con cui due poeti indipendenti, VIRGILIO (si veda) e Properzio, raffigurano
Caco sotto la specie del mostro. Gli è che in questi ritorna l'immutato
concetto primordiale; negli storici in vece si rispecchiano
razionalizzazioni, simili non identiche, dell'unico mito: non identiche,
perché è dif- . fìcile raggiunger l'accordo nel travestir le fiabe :
del- l'unico mito, perchè nel " ferox viribus , come nel
yi^/oTTjj ri j traspare ugualmente il ' monstrum „. (Contro
MùNZER). In Dionisio Caco ad Ercole che lo interroga risponde di non
aver visto i buoi. Ciò, fu notato, corrisponde a Vergilio (abiuratæ rapinæ).
In Livio (e in Ovidio in Properzio) manca il particolare. Se non
che cosi della presenza come dell'omissione è difficile far giudizio. Cotesta
astuzia di Caco è da avvicinare all'altra di condurre " aversos „ i
buoi : ed entrambe ritornano nell'omer. Inno a Ermes. Nel quale, ove si narrano
le astute imprese del Dio, son per vero dicevolissime e consuonano al
tono burlesco di tutto il racconto; là dove sembra che la fiaba di
Caco, che è contesta su la lotta violenta della luce contro il tenebroso
fuoco, male armonizzi con scaltrezze COSI fatte. Si propenderebbe quindi
a ritenere tutt'e due i particolari più tosto ornamenti introdotti sotto
l'influsso letterario greco che analogie originarie. La quale
ipotesi spiegherebbe anche la brevità degli accenni in Vergilio e
Dionisio. Mentre ben altra è la natura del muggire i buoi nell'antro di
Caco: che è primitivo simbolo del tuono (Bkéal 0. e. 93 sgg.). (Contro
Mììnzer). E anche sotto l'influsso greco di Polifemo {Odiss. i) può
essersi introdotta l'invocazione di Caco ai pastori vi- cini a quelli che
solevano adz^ avvayQavÀslv : la quale difatti manca nel Rigveda, e non è
intrinseca- mente connessa con la forma prima del mito. — Né si
erra forse di molto attribuendo a Ennio stesso queste imitazioni di fonti
greche che si ritrovano poi, cosi nei poeti come negli storici; cosi,
cioè, nel mito come nei suoi travestimenti razionali. Risulta
adunque che la fonte di Livio e, in parte, di Dionisio conteneva un
racconto umanato rispetto a quello poetico che è fonte di Vergilio, di
Ovidio e di Properzio; ma tale che lascia trasparire a sufficienza la
forma pri- mitiva, in ispecie negli episodii di astuzia. Ma comune
agli storici e ai poeti è anche un'altra parte del mito: la etiologica,
che attende ora il nostro esame. I particolari etiologici del culto.
Quella parte del racconto, in VIRGILIO (si veda), OVIDIO (si veda), Properzio,
LIVIO (si veda), Dionisio, che narra gli avvenimenti seguiti
all'uccisione di Caco fu presto riconosciuta posteriore alla prima e
intessuta di particolari etiologicamente desunti dal culto di Er-
cole. Ma se non è più possibile questionare su ciò, bisogna ancor discutere su
i singoli particolari. A tal pro- posito il MùNZEE (p. 88) asserisce:
dassin der Tat Cacus l'abigeato di caco und Euander nichts
miteinander zu tun haben; dass zwei ganz rerschiedene Erzàhlungen, die
nur die Persoti des Hercules als einen Trdger der Handlung gemeinsam
haben, rein àusserlich zusammengeschweisst worden sind. E anche:
Der Einfluss der Verbindung mit Euander àusserte sich am frubesten und am
bedeutssamsten dadurch, dass der Scbauplatz des Cacusabenteuers naher
bestimmt wurde. A questa concezione si contrappongono le parole del De Sanctis
(ìS^^. d. jB. I 154): "hanno contribuito a suggerirne del mito i
particolari l'Ara Massima d’Ercole vincitore nel foro boario e le
vicine scale di Caco sul pendio del Palatino (Solino; Diod.). Tardo poi e
dovuto soprattutto a un giuoco etimologico è il contrapposto fra l'uomo buono e
benefico del Palatino, Evandro (1), e il cattivo ladrone (xaxó^)
del- l'Aventino (su questo punto ha giudicato rettamente A. Bormann
... Kritik der Sage vom Konige Evandros). La tesi del De Sanctis si può
dimostrare più verisimile. Due son le figure principali del mito: Caco ed
Ercole; e l'una d'esse certo latina o italica, l'altra certo, in
quella forma, greca. Se v'è dunque in Roma un luogo cui si at-
tiene il nome di Caco (scalæ Caci) e uno ove si rende culto ad Ercole, il
metodo e la logica vogliono che questi due servissero a localizzar il
mito e il primo in- nanzi al secondo. Si potrebbe, è vero, pensare anche
che l'Ara Massima sia stata la causa della localizzazione di Caco
(quando a Recarano-Garano fu sostituito Ercole). Ma l'ipotesi sarebbe
difficile da sostenere perché suppone, prima della comparativamente tarda
intrusione di Ercole, Euander, che nella sua forma greca sonava
-E'^av^^ìo^, e che era la mitica personificazione della eéavÒQÌa, fu
interpretato buon uomo per un lunghissimo lasso di tempo non localizzata
la saga. Là dove l' essersi anche topograficamente Garano-Recarano ed
Ercole trovati vicini giova a spiegarne la fusione : se difatti l'uno era
con Caco fissato presso il Palatino, l'altro si stabili all'Ara massima,
la contiguità dei luoghi giovò senza dubbio a fondere le due simiglianti
figure. Se non che nel Thes. L. L. Suppl. {Nom. propr.) a proposito del Kdxiog
diodoreo è osservato: hic perperam idem esse putatus est atque Cacus deus ;
fuit re vera auctor gentis Caciæ. E il Mùnzer accetta, pur
ammettendo che il nome alle scale possa derivar anche da Cacus (non
Cacius): " aber dann bleibt eben Cacus ein Name, der schon for die
Romer ohne Tnhalt und Bedeutung war. Ora il testo di Diod. (che è : èv
xavtrj oh twv éTiicpavcóv ò'vreg àv6Qù>v Kamog xal HivaQiog èòé^avvo
tòv 'H^UKÀsa §evcoig àicoÀóyoig Hai ócàQealg xsxccQiafiévaig étifirjaav '
noi tovtcov tòìv àvÒQcàv èTCOfiv^fiata ftéxQi t&vòe tù>v KaiQÒiv
óiafiévet Korà xìiv 'PiLfiTjv.TÒJv yàQ vvv eiiysvùv àvÓQwv zò ziàv
UtvaQÙoìv òvofia^o^évcùv yévog òia^évei, nagà zoìg 'Pco- ftaloig, à)^
vTiccQXov àQ^aLÓzazov, zov óè Kaxiov èv z(p HaÀazCcj) •/.azd^aalg èaziv
ey^ovaa Ài&lvrjv KÀifiaaa zrjv òvof*a^ofi£vt]v àn èy.eùvov KaKÌav,
oiaav nÀrjaiov zfjg zóve yevofAévrig oiniag zov Kaxiov.) mostra troppo
chiara l'origine del suo contenuto. I dati certi che possiede
sono: l'esistenza di scalae Caciæ, l'antichità dei Pinarii; le
attinenze amichevoli, tradotte nel culto, tra Pinarii ed Ercole. Da
questi dati sono desunti: per falsa etimologia il nome KaKtog; il nome
Ilivd^tog) (per analogia) le attinenze amichevoli tra Ercole e Cacio,
le cui scale son prossime a quell'Ara Massima (Joedan- HuLSEN
Topogr.) ove al culto erculeo i Pinarii partecipavano. Tale costruzione
da erudito costringe ad l'abigeato di caco ammettere
l'ignoranza, vera o pretesa, e della lotta fra Ercole e Caco, e dei
Potizii (ignoranza, si badi, che anche il Miinzer deve presupporre, nella
sua ipotesi). E poiché i Potizii, estinti (Haug in Pauly-Wissowa R. E.,
VITI), avevan avuto di fronte ai Pinarii privilegio nel culto, non è
arrischiato pensare che il racconto in cui di quelli si tace al tutto e
si tace del mito ove quelli eran inevitabilmente da menzionarsi, sia
dovuto a questi appunto (cfr. Pais STORIA CRITICA DI ROMA: contro
WiNTER). A ogni modo le scalae Caci del Palatino derivano, se la
nostra ipotesi è vera, da Cacus, come da esse fu tolto Kdxiog: e additano
per tanto la prima naturai sede della lotta. E perchè accanto alla
menzione di esse va posto il dato tradizionale su la caverna
dell'Aventino (VIRGILIO (si veda)En., OVIDIO (si veda) Fasti), se ne deve
concludere: che la localizzazione di Caco è mossa dall'area piana
ch'è fra Palatino Aventino e Tevere, diffondendosi in un senso
verso il Palatino {scalae: cfr. poi Evandro, sotto), nel- l'altro verso
l'Aventino (caverna). La seconda sede, non lontana, fu l'Ara maxima
la quale servi a fornire assai più tratti al disegno: ciò sono,
tutti i particolari connessi con il culto romano d'Ercole. (Cfr. Peter).
Che se il mito di Caco è, come si vide, italico e vetustissimo, là dove
Ercole è un, comparativamente, tardo travestimento dell'Eracle
greco, si deve ritenere che tutto quanto si attiene solo alla figura di
questo costituisca un secondo strato leggendario. Del quale le diverse
derivazioni appajono in genere concordi nella sostanza : cfr. gli
aneddoti sul sacrifizio di buoi, su i Potizii e i Pinarii, su la decima,
ecc. In vece maggior discrepanza si presenta intorno all'esclusione delle
donne dal culto di Eracle, su cui si danno tre versioni : da Properzio;
dallo scritto OìHgo geni. rom. 6; e daPtUTAECo Q. r. 60: tutte dififerenti,
in ispecie la prima rispetto alle due altre. TI che signi- fica come un
unico fatto venisse travestito in almeno due forme diverse. Lo stesso si
può dire dell'ara lovi in- ventori che è ricordata in Dion., Solino,
Origo geni. rom., OVIDIO (si veda), e taciuta dagli altri. Il qual
silenzio dimostra, se non più, che il nesso tra quell'al- tare e YAra
maxima non era nel mito etiologico essen- ziale, e forse anche che v'era
entrato tardi. Onde non è improbabile che il motivo ne vada cercato nella
topo- grafia: giacché secondo Dion. l. e. l'altare lovi inventori è
naqà tfj TQiòifiq) IIvÀrj ov'è un altro tempio d'Ercole (Cfr. Gilbert
Gesch. u. Topogr. d. St. Rom. II 158). Ma ha certo ragione il Peter quando
ritiene tarda invenzione il voto di Ercole per cui presso Solino I 7
l'eroe erige l'ara a Giove. Or se la discordia delle fonti
giustifica l'ipotesi che il secondo strato leggendario si sia arricchito
parzialmente per più tarde aggiunte, la medesima discordia conferma
l'asserzione del De Sanctis (nonché del Bormaim) in- torno ad Evandro. Di
fatti la presenza di lui, che è essenziale nei racconti di Strab. V 2 30,
Veeg. l. e, Lrvio 1. e, Dion. l. e, OVIDIO (si veda) e, Solino, Serv.
En. (= Myth. Vat.) e nello scritto
Origo geni. rom. 7, e manca solo in Propeez. l. e. non si sa bene perché,
è però narrata in fogge diverse. Mentre p. e. Livio e Dionisio
attribuiscono a lui la instituzione dell'Ara Massima, in Vergilio in
Ovidio in Solino Evandro non è che uno, e sia pur il principale,
fra gli spettatori del primo sacrifizio: e secondo Servio egli è da prima
ostile ad Ercole. D'altra parte la istitu- zione medesima dell'Ara è
attribuita a un vaticinio ora di Nicostrato (Strab. e Solin.) ora di
Carmenta (Liv. e Ovid.) ora di Temide (Dion.) ora dell'oracolo
Delfico l'abigeato di caco (Myth. Vat.). Ma Carmenta partecipa
al mito sol perché la Porta Carmentalis (a sud-ovest del Campidoglio) è
a nord del Foro Boario ov'è l'Ara Massima. E Nicostrato e Temide
son sue variazioni di sapore greco. E parimenti è chiaro che il vaticinio di
lei è un accessorio della leggenda, parallelo bensì a quel di Evandro,
però con una base topografica non pseudo-etimologica. Entrambi poi
vennero fusi col far Carmenta madre di Evandro.Se non che tutto cotesto
processo semierudito e semifantastico traspare ancora nelle fonti
dell'età Augustea, in quelle medesime ove non è più incerta la
localizzazione della saga nel Foro boario ed è solidamente fissata la figura
greca di Eracle-Ereole: e se ne deve pertanto dedurre che Evandro è
rispetto a questo di gran lunga più tardo. Rappresenta dunque il
terzo strato leggendario, fuso con quel di Carmenta; e a cui
un'aggiunta è introdotta col far da lui annimziare la venuta di Ercole a Fauno (Cfr.
De Sanctis o. c. 192 su Fauno ed Evandro, e Origo geni. rom.). Di
qui s'iniziò poi una mitografia del tutto secondaria la quale combattente
contro Ercole o introduce Fauno in luogo di Caco (se non parallelamente a
questo) (Der- CYLUS Italica fr. 6 appr. Mullee); o di Fauno il
figlio, Latino (Conone Narr. appr. Fozio Bibl. cod.; cfr. anche Schweglee
Rom. Gesch.). In breve, il complesso etiologico inseritosi nel mito
è, a prescinder da tarde superfetazioni, sceverabile in tre strati:
Caco, con le scalae e la caverna (Palatino-Aventino) ; Ercole, con l'Ara
Massima; Evandro, con taluni episodii mal fissati e fluttuanti. Anche su
queste etiologie, come sul mito vero e proprio, si esercita il
razionalismo degli eruditi. Gli eruditi. Il riscontro degli errori
in cui GLI ERUDITI cade la dimostrazione del Munzer su Caco è offerto
dal suo cap. VI die antike Forschung. Egli si trova di fatti
costretto, dinanzi a due testimonianze che la nostra tesi spiega
traendone a sua volta conforto, a dichiararsi incapace di chiarirle.
Nell'Interpol, di Seev. En. Sane de Caco interempto ab Hercule tam Graeci
quam Romani consentiunt: solus Verrius Flaccus dicit Garanum
fuisse, pastorem magnarum virium, qui Cacum adflixit, omnes autem
magnarum virium apud veteres Hercules dictos ,) e nello scritto Or. gen.
rom. Recaranus quidam, Graecæ originis, ingentis corporis et magnarum virium
pastor, qui erat fortuna et virtute ceteris antecellens, Hercules
appellatus) ritoma sotto due forme diverse un nome diffe- rente da quel
di Ercole, nella lotta contro Caco: Garanus e Recaranus. Qual delle due
forme sia da preferirsi è incerto (con Mukzee contro Peter o. c.,
Pais., Winter, Bohm in Pault-Wissowa R. E.). Ma non è incerta, a noi pare,
la in- terpretazione di esse. Sappiamo che il mito di Caco è
antichissimo, che Eracle non divenne Ercole se non più tardi, che per
tanto una figura indigena, latina o italica, lo deve aver preceduto.
Troviamo ora un nome sotto due forme, che sembra prettamente italico ;
troviamo che gli eruditi si son sforzati di conciliar esso nome (e
non potevan quindi senz'altro eliminarlo) con quel di Ercole per
mezzo dell'asserzione " omnes magnarum virium Hercules dictos ,. Riteniamo
per conseguenza legittimo at- tribuire tale nome appunto al personaggio
italico il cui Cfr. H. Peter Die Schrift * Origo gentis romanae in
Berichte der K. Sàchsischen Gesell. d. Wiss. zu Leipzig , Phil.-hist. Kl.
l'abigeato di caco preesistere ad Eracle era a priori pensato.
Quando in vece Mùnzer deve asserire, giusta la sua tesi, che un cotal
Garano (Recarano) è invenzione di eruditi (i quali dunque avrebber
voluto, essendo Caco un pastore, dargli avversario un semplice pastore
non un eroe famoso) contraddice in parte sé stesso perché, se Caco è
originariamente un pastore, un uomo anzi che un dio, sin dall'origine non
doveva essere un dicevole avversario di Ercole; e non riesce poi a
interpretare il nome Garano (Recarano) né a dire donde Verrio l'abbia
ricavato. Là dove per noi l'oscuro nome è conferma della natura del
vetusto iddio. Né giova, per questo secondo rispetto, l'ipotesi dello
Schott (che il Pais St. crii. d. R. I 1, 200 n. e WiNTER accettano),
Garano e Recarano esser " due forme errate di Karanos l'eroe argivo
eraclide, fondatore della stirpe dei re Macedoni „. Nulla di fatti
può esser addotto a conferma di tale ipotesi, che non ha per sé se non
un'approssimativa simiglianza formale dei nomi, e ha bisogno a sua volta
d'esser spiegata, giacché sembra assai strana cotesta scelta degli
eruditi latini. Il supporre, in fine, col Mììnzee 95 che Garanus
sia un obliterato epiteto di Ercole è pericoloso per la tesi di lui
: giacché in quel caso diventa di nuovo probabile che l'epiteto
obliteratosi non sia se non il nome stesso della divinità soppiantata da
esso Ercole. In breve l'osta- colo non si supera bene se non da chi, come
noi, abbia preso le mosse dal mito indiano e creda all'antichissimo
mito latino. Altra testimonianza che il M. non spiega è quella su
Caca. Servio En. (= Myth. Vai.) parla d'una sorella di Caco, Caca, la
quale lo avrebbe denunziato: ed ivi pure è data notizia di un "
sacellum Cacao ,, e si aggiunge " in quo ei per virgines sacrificabatur (cod.
Reginensis); per vir- GLI ERUDITI gines Vestae sacrificabatur {codd.
rei.); pervigili igne sicut Vestae sacriflcabatur {cod. Floriacensis) „.
L'ultima lettura è la preferita; la prima sceglie il M. Ch'egli abbia
torto dimostra la seconda: la quale nella sua concisa oscurità e nella
confusione che contiene, è pili tosto il risultato d'un'amputazione dell'ultima
che un ampliamento della prima. Comunque, lo stesso M. deve ridursi
ad ammettere l'esistenza del sacellum a una dea Caca. Col che ha già
ammesso troppo contro la sua tesi : perché una dea di quel nome è il
riscontro pili magnifico che si potesse sperare a un supposto dio
Caco. Se poi si aggiunge che all'una si sacrifica sicut Vestae, e l'altro
emette fiamme dalla bocca, la deduzione non può esser che una. Verissimo
tuttavia che lo spionaggio attribuito a Caca in Servio non le è da
imputare, come quello ch'è una erudita invenzione poco felice in
contrasto con tutto il mito. Che Caca sia poi il travestimento di queir
" una boum , che appresso VIRGILIO (si veda) rivela il furto né meno il M.
osa sostenere. E se il sacellum Cacæ sia per il M. oscuro al pari
dell'atrium Caci, e se entrambi oscuri non sono per la nostra tesi, par
che non vi sia più molto a discuter su gli argomenti dell'una e
dell'altra parte. Due composizioni erudite meritano di esser qui ravvicinate,
l'una più compiuta che l'altra. Servio En. si esprime: Cacus secundum fabulam
Vulcani filius fuit, ore ignem ac fumum vomens, qui vicina omnia
populabatur. veritas tamen secundum philologos et historicos hoc habet, hunc
fuisse Euandri nequissimum servum ac furem; ignem autem dictus est
vomere, Cfr. su Caca, Giannelli II sacerdozio delle vestali romane
(Firenze l'abigeato di caco quod agros igne populabatur; novimus
autem malum a Graecis kuhóv dici: quem ita ilio tempore Arcades ap-
pellabant. postea translato accentu Cacus dictua est ut 'EÀévi] Helena
(Cfr. Myth. Vat.). Poi a En. si danno le notizie sull'Ara Massima i
Potizii e i Pinarii ecc. in una forma non inconsueta, che qui non
c'interessa più. Il razionalismo si è qui dunque limitato: a ridurre a
uomo il dio, a spiegar il fuoco che il poeta gli fa emettere, a
interpretar il nome. Molto più si permette il racconto che si
trova in Origo gen. rom.: " Recaranus quidam, Graecae
originis, ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui erat
forma et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus; Cacus Euandri
servus, nequitiae versutus et praeter caetera furacissimus: tali i due
avversarii. Caco ruba a Recarano i buoi e questi dopo vana ricerca
è per partirsi quando Enander, excellentissimae iustitiae vir, postquam
rem uti acta erat comperit, servum noxae dedit bovesque restitui fecit ,.
Allora Recarano dedica " inventori patri ^ un altare e lo chiama
Ara Massima e vi sacrifica la decima parte dei proprii buoi.
Carmenta, invitata, si rifiuta di parteciparvi e le donne son perciò per
sempre escluse dai sacrifizii in quel luogo. Cotesto racconto è di gran
lunga più finito e parti- colareggiato di quel ch'è in Servio.
L'interpretazione razionale qui si estende fin là, dove il primo non si
dilungava da Vergilio. L'antico nome Recarano (Garano) l'autore concilia
col più noto d’Ercole, Ercole mutando in soprannome. Inoltre, poiché non
può giustificar l'intervento d'Evandro come p. e. Livio, né valersi di
vaticinio alcuno ; poiché d'altra parte il giuoco etimologico ha fatto
%aKÓs servo di EijavÒQos: omette il duello tra Recarano e Caco,
ch'era ricchissimo di particolari mitici (fuoco fumo clava ecc.),
GLI ERUDITI e attribuisce ad Evandro la scoperta del furto, senza dircene
il modo, nel testo pervenuto almeno, che non si esclude in un testo piii
ampio il muggito indiziale po- tesse ritornare. E di Carmenta in fine
tralascia la pro- fezia; ma si vale di essa per un mito etiologico.
Allo stesso modo, non potendo l'Ara massima venir instituita da
Ercole ch'è qui soppresso, viene a ragion veduta con- fusa con l'ara lovi
inventori, e la gratitudine basta a spiegarla. Tra Servio e
il racconto della Origo v'è simiglianza profonda in taluni punti: cfr. la
figura di Caco; dissimiglianza in altri. Di questa si comprende il valore
comparando la sicurezza con cui ixqW Origo si assevera che Ercole non è
se non il soprannome di Recarano, alla prudenza con cui l'Interp. di
Servio {En. Vili 203) oltre i concordi racconti su Caco nota la tesi di
Verrio Fiacco su l'identità Garano = Ercole. Ciò mostra che Servio ha
presente con altre la fonte medesima àoìVOrigo; ma se ne vale solo
saltuariamente rispettando molto pili il racconto di Vergilio che commenta.
Qual fosse poi la fonte di cui, in vario modo, approfittano e Servio e
l'autore àeWOrigo, è detto quivi haec Cassius libro primo Ossia
quasi certamente L. Cassio Emina. Mùnzer a tal proposito suppone che a
Cassio venisse attribuito tutto il racconto per esagerazione, in luogo di
un solo passo. Di Cassio però abbiamo (Peter fr. 4) un frammento su
Evandro e Fauno. Egli trattò ve- risimilmente tutta la saga di Evandro e
quella di Caco. Non v'è dunque ragione per negare che nella
tradizione erudita si serbassero (anche e specie mediatamente) di
lui estratti a bastanza ampii intorno a quel mito. Del resto, se anche un
solo suo passo poteva addirsi al racconto dell'Orlerò, si può sostenere che in
lui era al mena assai simile la razionalizzazione del duello fra Ercole
e F. Kalypso. l'abigeato di caco Caco. Ma poiché questa appare
neWOrigo organica e armonica in tutti i particolari, è difficile negare che,
cosi definita, non si trovasse già anche in Cassio. (Contro M.). Di
natura opposta alle due testimonianze erudite che furon or ora discusse
sono i racconti di Dion. e di Cn. Gellio appr. Solino = Peter fr. Difatti
là dove in quelle la lotta pur umanandosi resta limitata a due soli
personaggi; in queste in vece si allarga ad eserciti. Ma se Dion. non
ofi"re grandi difficoltà, quando si conoscano le fiabe degli eruditi
latini su gli Arcadi di Evandro e gli Aborigeni di Fauno (De Sanctis St.
d. Bom.); per contro Gellio è oscurissimo, Cacus, ut Gellius tradidit,
cum a Tarchone Tyrrheno, ad quem legatus venerat missu Marsj'ae regis,
socio Megale Phryge, custodiae foret datus, frustratus vincula et unde
venerat redux, praesidiis amplioribus occupato circa Vulturnum et
Campaniam regno oppressus est. Megalen Sabini receperunt, disciplinam
augurandi ab eo docti. Il carattere che sùbito appare più evidente in tal
rac- conto è il travestimento erudito razionalista; cosi che, se
esso anche avesse a contenere forme ignorate del mito, le conterrebbe
certo sotto un velame. Inoltre vi son tracce palesi di contaminazione :
gli Etruschi difatti, i Marsi, i Sabini, i Campani sono compresi in
queste poche righe, ed è difficile che una schietta e unica
leggenda originaria accosti per tal modo tanti popoli. Ora fin che
Gellio fa combattere Ercole contro un Caco insediato sul Volturno più
tosto che contro uno sul Palatino, possiamo intendere ch'egli preferisse
foggiarsi il mito a imagine della reale storia e si valesse a ciò p. e. della
prima Sannitica inventandone un precedente; che non si scoste-
rebbe in questo metodo gran che dalla fonte di Dionisio la quale di Caco
crea un antecessore di Fauno ed Evandro. LI ERUDITI E non è rigorosa
l'ipotesi che costretto egli vi fosse da un mito cumano o campano (il
passo di Festo s. V. Romam è di lettura troppo mal sicura e nulla se ne
trae). Cosi quando ricorda Megale Frigio e i Sabini, si ricava dalla
" disciplina augurandi , trattarsi d'una secondaria e piccola
leggenda etiologica o etimologica che qui viene inserita per ignoti motivi.
Quando in vece è introdotto l'eponimo di Tarquinii (Tarchone) che
avrebbe usato violenza contro Caco non si sa per qual modo, sembra
tutt'altro che improbabile, vi sia qui un'elaborazione di quella leggenda
istessa la quale è ritratta, sotto forma mutata, in alcuni specchi
etruschi [KòETE Etruskische Spiegel V tav., Rilievi delle tirne
etnische; Petersen Jahr. D. Instituts; De Sanctis Elio; MuNZER 0. e. e
Rhein. Mus.] e il cui nucleo dovrebbe consistere nell'assalto
proditorio contro un Caco dal benigno aspetto. Ond'è che difficilissimo
resta, nell'attuali condizioni della scienza, decidere se anche per i
Marsi si debba attribuire la loro pre- senza al desiderio di foggiar il
mito su lo schema della storia, come ci parve probabile per i Campani; o
alla contaminazione d'una terza leggenda con la latina e
l'etrusca. Riassumendo adunque, Cassio Emina e Cn. Gelilo rappresentano
bensì un unico atteggiamento di fronte alla leggenda di Caco, come vuole
il Mùnzer, ma ciascuno ne esprime una forma diversa. Il primo si serba
vicino alla poesia molto piii che il secondo. Quello par travestire
la fiaba che sarà poi seguita da VIRGILIO (si veda). Questo, il racconto che
narra Livio. Per ciò Dionisio dopo aver esposto il mito assai similmente
a LIVIO (si veda), dà il suo àAri- éazeQos Myog come un'interpretazione
del fiv&ty.óg = liviano: dà, in somma, il racconto razionale
dell'anna- m. - l'abigeato di caco lista pili tardo come
ermeneutica del racconto favoloso dell'annalista più antico. Allo stesso modo
che Servio appone la forma cassiana del mito per esegesi al testo
vergiliano, desunto da Ennio. Tra le due teorie che (cóme vedemmo in
principio) si combattono intorno a Caco, è da preferire quella che crede
ad un antico mito latino» in quanto tien maggior conto di tutte le
testimonianze ed è meglio in grado di spiegarle tutte insieme e
coerentemente. La evoluzione letteraria poi del mito, contradicendo il Mùnzer e
compiendo il breve disegno del De Sanctis, va tratteggiata cosi: dopo che
in tre strati (intorno a Caco prima, poi ad Ercole, poi ad Evandro)
si è contesta la leggenda, la parte sostanziale di essa è elaborata con
diversità di tono da un poeta (Ennio) e da un annalista; l'una e l'altra
forma vengono, nell'età succescessiva, razionalizzate in Cassio Emina e Cn,
Gellio. L'età augustea riproduce (con i poeti e Livio da un lato,
Dio- nisio e Verrio Fiacco dall'altro) tutt'e quattro queste ma-
nifestazioni. Cirene mitica. Bibliografìa e metodo. Il complesso dei
miti raccolti attorno alla figura di Cirene è studiato già da Theige Res
Cyrenensium etc. (Bafniae) che raccolge i materiali e, in comparazion dei
tempi, seppe vagliarli. Trova poi trattazione minuta ed accurata per
opera di Studniczka Kyrene, eine altgriechische Gottin (Leipzig), che la
stessa materia rielaborò in RoscHER Lexicon; e di Malten Kyrene,
sagengeschichtliche und historisehe Untersuchungen in Philologische
Untersuchungen, del Kiessling e Wilamowitz ove è tenuto conto anche delle
ipotesi brevemente enunciate da Geecke in Hermes. Nella sostanza identico e sol
nella forma diverso si vegga questo capitolo negl’Atti della R.
Accademia delle Scienze di Torino. Qui appare con un'ampiezza più
dicevole, che lo spazio ora consente. Dopo i quali non si vuol
citare che lo scritto di Vincenzo Costanzi Tradizioni Cirenaiche
in Ausonia. Indipendentemente il Costanzi ed io abbiamo nel medesimo
tempo assunto una stessa attitudine di fronte ai miti cirenaici, la quale
si contrappone in modo reciso a quella dei nostri prede- cessori. A
prescindere di fatti dalle particolari discre- panze che ci dividono, noi
siamo concordi nel non " voler cercare un significato recondito nei
miti (Costanzi) p, oom'io mi espressi (Atti), nel non volervi
cercare la chiave delle più antiche vicende greche in Tara e in Libia. Là
dove in vero lo Studniczka {Eyrene) nega di poter spiegare la leggenda di
Cirene senz'ammettere una vetustissima colonizzazione tessalobeota in
Tera; e Malten pure stimava necessaria l'ipotesi che, prima dei Dori, la
Libia fosse stata abitata da un popolo misto tessalico e pelopico
direttamente venuto dal Tenaro recando e figure divine e fogge
linguistiche; mi assumo in vece di provare come le vicende storiche, ben note
nell'insieme, tra cui sorse e visse la Pentapoli cirenaica, sieno
sufficienti a spiegar del mito non pure Toriginarsi si anche, di
stadio in stadio, l'evolversi. Determinato cosi il mio antitetico
punto di veduta, passo ai particolari. La ninfa Cirene. Dopo che il Malten
ebbe dimostrato contro lo Studniczka la natura libica di Cirene e la vera
origine del nome e del suo essere mitico non avrei che da richiamarmi a
lui su questo punto, se non dovessi rispondere alle obiezioni a me
mosse, avverso tale tesi, privatamente da 0. Geuppe. Egli, nel permettermi di
pubblicare questa sua let- Ich glaube nicht, dass Kyrene nach der
libyschen Lokalbezeichnung einer Quelle (Kyra) genannt und erst
nachtràglich mit Aristaios in Verbindung gesetzt ist. Die Kyrene von Abdera und
Maroneia ist zwar, wie dies bei der Aehnlichkeit der Namen natùrlich
ist, friih mit der Pyrene von Kreston verwechselt worden, war aber
gewiss ursprùnglich von ihr verschieden, und es ist zum mindesten unstatthaft,
ftìr Kyrene, die Mutter des Diomedes bei Apollodor, Pyrene einzusetzen.
Es kommt hinzu, dass eben hier, auf dem benachbarten Ismaros, auch
von Orpheus, Eurydike und Aristaios die Rede ist, und von dieser Kùste
stammt der im Schiffs- katalog erwàhnte Kikonenkonig Euphemos, der
Sohn des Troizenos. Nicht weniger als vier Namen der kyrenaischen Sage,
Kyrene Aristaios Euphemos und Diomedes, kehren auf ganz engem Raum an der
thrakischen Kùste wieder. Dass die Verbindung dort eine ganz andere ist,
beweist gerade dass wir es hier mit einer sehr alten, den bekannten Epen
vorausliegenden Ueberlieferung zu tun haben „ (Cfr. Malten; Studniczka).
" Aber nicht genug damit. Auch in Kroton ist ein Kyrene (als Mutter
des Lakinios) bezeugt, und dass auch hier Aristaios nicht fehlte ist aus
demPersonennamen des krotoniaten Aristaios mit Wahrscheinlichkeit zu schliessen.
Diomedes ist fùr Kroton bisher, so viel mir bekannt, nicht
bezeugt, tera, esprime il dubbio che le sue argomentazioni non
potessero riuscire efficaci a bastanza, per la brevità con cui ebbe ad
esprimermele. Del che ogni lettore intelli- gente gli terrà, credo, il
dovuto conto. Quanto a noi, manifestiamo l'augurio che l'illustre e dotto
studioso sostenga presto in pubblico con tutta i'ampiezza la
propria Jambl. vii. Pijth. (N. d. Gr.). CIRENE MITICA aber doch
fùr das benachbarte Thurioi. Aus alledem glaube ich entnehmen zu durfen:
dass Kyrana und seine Kurzform Kyra griechischen, nicht libyschen,
UrspruDgs sind, also die Quelle nach der Gòttin heisst oder der
Quellnamen selbst aus dem dann, aber wohl schon im griechischen
Mutterland, eine Gottin oder Heroine geschopft sein mùsete von Griechen
tìbertragen wurde; dass die vier Namen Euphemos, Aristaios, Kyrene und Diomedes
in einer ausserordentlich alten Sagenùberlieferung zusammenstanden.
Aus Grùnden, die ich nicht in der Kurze entwickeln kann, bin ich
ùberzeugt, dass die Verknùpfung dieser vier Namen in Troizen erfolgte, das ein bedeutendes
Kolonialreich besessen haben muss. Troizenische Kolonisten werden Diomedes
Kyrene und Aristaios nach Sybaris mitgenommen haben, von wo jener
nach Thurioi, diese nach Kroton ubernommen wurden. Dass Troizenier einst
auch in Kyrene sassen, will ich nicht behaupten obwohl ich es glaube;
aber dass diese Bruchstiicke troizenischer Sagen den àltesten Bestand der
Ueberlieferung von Kyrene bilden, balte ich fiif gesichert. Ora, per
dimostrare in modo esauriente che da Trezene il complesso mitico di Cirene
Aristeo Diomede ed Eufemo s'irradiò da vero in Tracia, a Crotone, in
Libia; bisogna provare: l'esistenza di questo quadrinomio a
Trezene; il ritorno costante di esso nei luoghi rassegnati or ora, e il ritorno
non dubbio, scevro da pos- sibili equivoci; l'insistente ripetersi, nelle
forme e nei luoghi diversi, del perno o nucleo originario, ove il
suo alterarsi non sia ben motivato. Il carattere spaziato è introdotto
solo nella trascri- zione. Sul primo punto il Gruppe si scusa
di non insistere in der Kiirze: sorvoleremo noi pure. A CROTONE si
sarebbero potute raccogliere tracce di due al meno fra le quattro figure
la cui presenza è riscontrata in Cirenaica; Aristeo e Cirene. Tuttavia
farò sùbito notare quanto sia debole il fondamento su cui si basa la
supposta esistenza mitica di Aristeo in Crotone: il nome di un nume
notissimo e diffusissimo dato a una persona non prova assolutamente nulla
intorno al culto locale del nume. Inoltre è ben dubbio se sia
veramente da mantenere la forma Cirene per la madre di Lacinio, non sia
da correggersi in Pirene (Maltes; cfr. Serv. a VIRGILIO (si veda) Eneid.
Localizzata di fatti Eritia in Spagna e prese a narrare le lotte di
Ercole, reduce in Grecia, traverso la Campania (De Sanctis Storia
dei Romani), non è improbabile che a Crotone si riprendesse il mito di
Eracle contrastante con i figli di Pirene, solo al nome d'uno fra questi
sostituendo l'eponimo del Lacinium promontorium li presso. Ma se mal
sicure son le tracce di Aristeo e di Cirene in CROTONE, altr' e tanto
incerte son quelle che Gruppe ne riscontra in Tracia. Si sa che nel testo
di Apollodoro il Malten corregge il nome della madre di Diomede da Kvqi^vij
in IIvQr^vrj. Per Gr. l'equivoco consisterebbe in vece nell'essersi
permutato Cirene in Pirene. E poiché pare molto improbabile che in paesi
limitrofi sussistessero due tradizioni diverse, di cui l'una a Crestone facesse
moglie di Ares Pirene con i figli Cieno e Licaone, l'altra in
Abdera e Maronia facesse moglie di Ares Cirene col figlio Diomede;
credo d'interpretar bene il Gruppe attribuendogli la supposizione che,
corrottosi Cirene in Pirene, ne derivasse il nesso con Ares con Cicno e con
Licaone. Ma né questa ipotesi è semplice, perché presuppone un originario
nesso Cirene-Diomede una corruzione Pirene-Diomede
un ampliamento Ares-Pirene-Diomede-Cicno-Licaone né è in alcun
modo giustificata, perché, all'infuori di Apollodoro nessuna fonte accennando a
Cirene in Tracia, nulla ci costringe a supporvela necessariamente
ricorrendo persino a contorte vicende. Più semplice e giusti- ficata la
supposizione del Malten : in territorio predominato da Pirene un'unica traccia
di Cirene deve attribuirsi a testo corrotto, non ad altro. Del pari
Aristeo in Maronia è troppo evidentemente introdotto da Chio per opera
de' Chii che la colonizzarono (Malten 80); troppo vi è congiunto con
Dioniso; perché non si debba rite- nere ch'egli non fu importato insieme
con Diomede e la supposta Cirene, da cui invece rimane colà al tutto
indi- pendente. In fine si resta molto perplessi su le profonde
difi'erenze fra il tracio Eufemo re dei Cleoni, e il beota Eufemo figlio
di Posidone, o il tenario figlio del Fai^oxog. Or come né in Crotone né
in Tracia Cirene e Aristeo son di sicura esistenza, cosi si può fon-
datamente asserire che in Libia Diomede non ha radici profonde: su quelle
coste di fatti naufraga bensì, a simiglianza di Euripilo di Protoo di Guneo
tessalici e a simiglianza degli Argonauti; ma sol tanto perché
quelle coste sono, nella tradizione poetica dei vóaioi, il luogo tipico
delle fortune di mare: in Argo quindi, sua patria e sede della sua pili
elaborata leggenda, è probabile fosse foggiato anche quel particolare. In
breve, Aristeo e Cirene son dubbii in CROTONE, dubbii in Tracia; in
Tracia l'Eufemo non è con certezza iden- tico all'avo dei Battiadi; in
Libia Diomede non esiste. Per di più, oltre ad essere incerta la
presenza di tutt'e quattro i numi in CROTONE in Tracia in Libia,
non si capisce, se, come vuole Grappe, tra quelli lin nesso s'era
stabilito prima in Trezene e diffuso poi altrove, perché a CROTONE il
perno del mito sia il APOLLO CARNEO nesso dell'ipotetica Cirene con
Lacinio, in Tracia la linea fondamentale della leggenda sia la
discendenza di Dio- mede da Cirene, mentre in Libia il nucleo è
costituito dalla commessione Cirene-Aristeo. E né pure si capisce perché
in Tracia resti indipendente, come forse a Crotone, Aristeo che in
Cirenaica è figura essenziale; e per converso qui si scemi quasi al tutto
la persona di Diomede, la quale là campeggia. Tutta la fisonomia della
leggenda si distrugge e si trasforma: senza causa evidente. Non
posso dunque finora accettare la teoria di Gruppe; e resto fermo, per
Cirene, alla dimostrazione del Malten. Passiamo adesso a studiare la
seconda figura fondamentale del mito. Apollo Carneo. Non cade dubbio che
Apollo e Carneo fossero in origine distinti numi (cfr. gli artt. di
Wide e Hofeb in Roscheb Lex. Ma per il mito di Cirene è di somma
importanza il determinare se la fusione tra di essi fosse avvenuta già in
Tara prima che il VII sec. a. C. finisse, o vero si compiesse
soltanto in Cirenaica (cfr. Malten). Ora tenendo conto dell'esser il
culto di 'AnóÀXoìv Kdgvecog diffusissimo non pure fra i Dori ma anche
fuor del Peloponneso {scoi. Teocr. V 83: Tavzriv t{]v éoQvriv... ol
fievocy.i^aavTeg ex nsÀonovvfjaov elg ézé^ag nóXsig ...èneTÉÀovv : e cfr.
gli articc. citt., quello spec. del Hofer), due ipotesi sono possibili :
o che in tutti quei luoghi ove il culto appare di sufficiente antichità
la figura di Apollo, separatamente, sorvenisse ad assimilare a sé Carneo;
o pure che l'assimilazione fosse vetustissima e si propaga dal centro
originario nelle altre sedi del culto. E questa ipotesi com'è più
verisimile e più semplice cosi ritengo preferibile all'altra. CIRENE
MITICA Né offre difficoltà nello special caso di Tera e
Cirene, giacché l'iscrizione di Aglotele (Hilleb v. Gaektringen
Thera) accertando pel VI sec. a. C. il culto teraico di Apollo-Carneo non
è imprudente o arbitrario il supporlo già sussistente nella seconda metà
del sec. an- teriore. Né a tale ipotesi è contrario Malten; il quale
scrive: Gewiss ist die Verbindung ' Apollon- Kameios ' nicht zum
erstenmal um Kyrenes willen oder erst in der Eoe vorgenommen worden; sie
ist alter und hat sich auf griechischem Boden weit verbreitet. Se
non che egli non trae da ciò l'unica deduzione che è logicamente
possibile. Poiché difatti tutta l’lliade (prescindendo dai più meno
antichi strati) dimostra il carattere premi- nentemente delfico di
Apollo; e poiché l'antichità del santuario delfico e della sua
preponderanza famosa è ben riconosciuta dal Beloch Griech. Gesch.; se si ammette
che già in Tera Apollo prepondera su Carneo, si da mutar questo in suo epiteto;
si ammette a un tempo che i coloni dori pervenuti in Cirenaica avevano
ormai alla loro principale divinità ricono- sciuto un rilevante carattere
delfico. E diviene pertanto del tutto superflua la opinione che un tal
carattere a quella non venisse attribuito se non neWEea di Ch'ene.
La quale appar quindi non la causa del fondersi in- sieme i caratteri di
Apollo e quei di Carneo, ma un ef- fetto di esso, cui tengon dietro in
proceder di tempo e per medesimo impulso Pindaro con le sue Pit. IV e
IX, Erodoto IV 158 e Callimaco ad Apollo. Dove appaja la
originalità della Eea ci verrà mostrato, crediamo, dalla terza figura su
cui è costituita la saga: Aristeo. Aristeo. Non è qui opportuno
studiarne la diffusione: basteranno poche note. (Cfr. il materiale
raccolto dal Malten e negl’Atti dell'Accad. di Torino. Il
culto di Aristeo in Cirenaica è attestato da scoi. Aristof. Cavalieri
894, Ititi. Anton., scoi. Pit. IV (ràv 'A^iaraìov, 8v Tia^à KvQrjvaioig
ó)g oIklotì^v óià Ttfi^g dyead-at). Dinanzi a queste testimonianze tra
due possi- bilità si può scegliere : o Aristeo ha culto in Libia
dopo il suo congiungimento con Cirene (avvenuto in Grecia) e a
causa di esso; o pure perviene in Libia prima di quella connessione e la
determina. Tra le due possibili ipotesi va scelta la seconda. Di fatti
Aristeo ha una vasta area di diffusione, nella quale sono comprese
isole dell'Egeo, quali Ceo (1) Chic l'Eubea, e l'Arcadia: onde non
è per nulla strano che o già in Tera qualche strato della popolazione e
qualche famiglia gli rendesse culto, vero in Libia pervenisse con quei
coloni che nel principio del sec. VI, regnando Batto II, da l'isole e
dal Peloponneso si recarono ad accrescere il primitivo manipolo di Dori.
Contro la prima supposizione non si può obiettare l'assenza di
testimonianze da cui un culto teraico di Aristeo sia provato: che troppo
poco conosciamo in proposito e molto in ogni caso, restando nei più bassi
strati, non emerse alla superficie storica. Contro la seconda non fa
ostacolo la cronologia; già che cui risale la Pitia IX di Pindaro resta
spazio sufficiente per l’Eea di Cirene. Nessuno stupore poi che in Libia
Aristeo si commettesse con Apollo (protettore della fonte) e con Cirene
(vincitrice del leone); a quel modo che nessuno Cfr. Stobck Die dltesten
Sagen der Insel Keos Diss. Giessen stupore v'è, se in Tracia si connette
con Dioniso e con Zeus in Arcadia: cfr. Malten. L'analogia è sufficiente
motivo. Stimo in fine inutile discutere se Aristeo sia da vero
originario di Tessaglia. Basti che nel mito nostro egli è tessalo per
eccellenza: segno sicuro che doveva avere un vivacissimo carattere
tessalico allor quando del mito venne a far parte. Né mi riesce di
precisare il luogo ove potesse connettersi con Gea e le Ore. Ma questi
punti riescono di minore rilievo a confronto con quelli che
riteniamo di aver assodati su la libica Cirene, il delfico Apollo, e
Aristeo : e l'averli assodati giova a ricostruire nelle sue linee
principali il componimento da cui quelle tre figure vennero collegate in
racconto: l'Eea. La ricostruzione dell'Eea di Cirene. Convengo col Malten
che le fonti cui dobbiamo at- tingere più direttamente per la
ricostruzione dell'^'ea di Cirene sono : Pindaro Pit., Esiodo t'r. 128
Rzach^, Ferecide in scoi. Pit., Seiivio a VIRGILIO (si veda) Georg. =
Esiodo fr. Rz., Apoll. Rodio cui vengono aggiunti se bene per la loro
sommarietà non sieno di grande valore, Timeo appr. Diod., Nonno
Pan. Dionis. (Malten). Quanto
poi al modo di usar cotesti sussidii, mi sono attenuto a due criterii
fondamentali. Il primo è il piti Malten lascia in dubbio ob der Gott schon
in der kyrenàischen Lokalsage zum Sohne der Kjrene wurde; ma, per amor
della sua tesi, asserisce quasi il contrario. In Thessalien erregte
Kyrene das Gefallen des Gottes. hr Sohn ward Aristaios, elementare
: ritenni originario tutto che ritornasse co- stantemente nelle diverse
forme assunte dal mito e riflettenti, in vario modo, l'Eea. Il secondo criterio
è più complesso. Fu dimostrato poc'anzi che non può venir attribuita
all'Eea la mischianza de' caratteri proprii di Apollo Delfico con quelli
del Carneo. Altra è, chi ben guardi, l'essenza di quel carme. Per esso,
com'è noto, Cirene, ninfa e cacciatrice libica, vien trasportata in
Tessaglia av'era ben radicato il culto di Aristeo. Aristeo dunque, non
Apollo, dev'essere stato il motivo del trasferimento da l'una all'altra
regione, l'impulso a trasformare in tessala la dea libica. Ma se l'Eea, con lo
spunto del giovinetto iddio pastorale, atteggia per il mito cirenaico uno
sfondo tessalico, è legittimo ritenere, ed è pure ovvio, che essa
contenga più propriamente tutti quei particolari i quali più propriamente
sono con Aristeo connessi. Di questo, nel fatto, meglio che della madre,
è il carme : e lo dimostra anche il rilievo che, com'è probabile, vi
aveva la sua ulteriore vicenda Cea e il racconto sul figlio di lui Atteone.
D'altra parte la figura di Apollo troppo era di per sé notevole e
preponderante perché traverso essa e per sua causa non dovessero
penetrare nella favola personaggi ed episodii a lei aderenti: i quali per
ciò è dicevole attribuire meglio che al canne esiodeo alle sue più tarde
propaggini. Nei particolari i criterii esposti conducono a questi
risultati; Cirene è figlia di Ipseo re dei Lapiti; Ipseo è nato da Creusa
(una Najade) e dal fiume Peneo: cfr. Malten. Lo storico cirenaico
Acesandeo {scoi. Pit. Cfr. sul mito di Atteone, che per l'economia
del nostro lavoro qui si omette, Malten. Si vegga inoltre,
Castiglioni Atteone e Artemis nella miscellanea di Studi critici offerti
a C. Pascal , (Catania). CIRENE MITICA fa discendere Ipseo da
Filira, madre di Chirone. Se non che questa variante è sospetta, come quella
che tende a giustificare con la parentela l'intervento di Chirone nelle
nozze tra Apollo e Cirene: intervento che spiace a Pindaro pure e
Apollonio tace: là dove il centauro nell'Eea ha parte solo perché già connesso
con Aristeo prima che questo con Cirene. Apollo scorge la ninfa
nell'atto di lottare con un leone, sul Pelio. La lotta col leone è
ricordata da Pino. Pit., da Nonno; non da Apoll. R.: questi l'introduce
nell'officio di pastorella. Il Malten resta per ciò incerto su l'esistenza di
essa lotta nell'Eea: mi risolvo pel si. L'esame del racconto di
Apollonio, che si fa più sopra, mostra come esso si allontani assai
dall'originaria forma del mito a causa dell'influsso del razionalismo: al quale
adunque si deve anche attribuire la soppressione della belva e della lotta che
troppo male consentivano al paese tessalo. Chirone profèta le nozze
del dio e della fanciulla: cfr. Stddniczka. Col quale ove si ammetta che
Pindaro tenti invano di ribel- larsi all'Eea su questo punto, ne consegue
che Apollonio, allor quando sopprime tutta la scena e induce il Centauro
allevatore sol tanto di Aristeo, non compie se non la prosecuzione di
quel tentativo. Ciò è confermato dal doppione che ne risulta : Aristeo di
fatti sarebbe in Apol- lonio allevato e da Chirone e dalle Muse:
originarii essendo, se non nel nome nell'essenza, questi dèmoni; in-
serto quello. Apollo trasporta la fanciulla in Libia sul suo carro
(Malten). Cirene è accolta da Libia. Non v'è di fatti differenza
sostanziale tra le xd'óviai vifA,q>ai e la eiQVÀeifioìv nÓTvia Ai^vrj:
cfr. Malten. Mi parrebbe quindi sofisticheria l'insistere su la lieve
dissimiglianza. A ogni modo, se una forma fosse da preferire per antichità
sceglierei Libia: giacché le xd-óviai. vófifat sembrano ben proprie di
un'epoca più tarda in cui dal nome di Libia il concetto di persona,
sostituito pili fermamente da quel di regione, si è al tutto
ritirato; mentre se Libia era nella Eea si spiega meglio come mai
Pindaro fosse indotto a raddoppiarla con Afrodite. La quale all'Eea non
apparteneva certo; e fu introdotta a causa di quel KvQdvag yÀvy.vg nÙTiog
'AtpQo- óczag, che era al nostro poeta ben conosciuto {Pit.) e a
cui si può riportare un passo di Erodoto II 181 (cfr. Malten); giacché
non trascurabile culto a essa dea si doveva rendere, se quando fu fondata
Evesperide venne presso il lago Tritonio a lei eretto un tempio
(Steabone). Aristeo è riportato in Tessaglia da Apollo. Cosi Apoll. R.
Pindaro Pit. attribuisce quell'ufficio a Ermes: ma senza dubbio l'innovazione,
a scopo esornativo, è favorita dalle attinenze fra i due dèi : cfr.
l'omerico Inno a Ermes ed Esiodo fr. Rz. = Anton. LiBEB. XXIII. E se
un'analogia giova, si ricordi che in Euripide Ione Ermes per ordine di
Apollo reca Ione, colatamente, in Delfi. Aristeo è allevato dalle
Ore e da Gea. Pare qui che il profilo primitivo meglio si serbi in Pixd.
Pit. IX 60 che in Apollon.: però che tre sieno, principalmente, le
varianti poetiche dell'unico fondamentale concetto; l'una Cea che narra
di Bglaai (Aristot. fr. Rose); l'altra pindarica che introduce le Ore; la
terza di Apollonio che ricorda le Muse; varianti delle quali la prima
troppo strettamente Cea disdirebbe alla general intonazione tessalica
del carme esiodeo, l'ultima traspare sùbito come un'alterazione dovuta
alla figura di Apollo Musagete (basti ricordare B. A); la mediana è pertanto
preferibile. (Ciò contro Malten 14). Da ultimo è forse da notare
che le Ninfe di Timeo presso Diod. IV 81 sono pili un tra- scorso
impreciso dell'autore che una vera e propria va- A. Fersabi>-o,
Kalypso. CIBENE MITICA riante. Aristeo ha i nomi di Nomio Agreo
Opaone ed è avvicinato a Zeus {Zevg 'Agiaiatos) e ad Apollo (cfr. Malten).
Nel complesso adunque Pindaro pare, a mal grado delle due intrusioni di
Ermes e di Afrodite, pili vicino all'Eea che Apollonio; questi più
razionalista di quello. Un confronto opportuno con l'Eea di Cirene (o di
Aristeo) ci offre l'Eea di Coronide (oltre che quella di Eufemo su cui v.
): cfr. Malten che qui si combatte. Sappiamo che Asclepio (figlio di
Coronide) è nume salutare di Tessaglia [cfr. M. G. Columba Le
origini tessaliche del culto di Asklepios in Rassegna di Antichità
classica contro Kjellberg Asklepios, mythologisch-archdologische Studien
in Sàrtr. u. Sprakv. Sàllsk. forhandl. Upsala Universitets
Arsskrift,]. Apollo gli somiglia nell'aspetto di divinità salutare e
sanatrice: cfr. Beloch Griech. Gesch} e Wilamowitz Isylìoi. E bene: prima
si congiunge Apollo ad Asclepio; poi A^jollo si trasporta in Tessaglia. A
quel modo che, secondo crediamo, prima si congiunge Cirene con
Aristeo e poi la si trasporta in Tessaglia. Riassumendo dunque in
breve i risultati di queste ricerche, abbiamo: che Cirene è nome
libio-greco della ninfa che protegge e abita la fonte dedicata ad
Apollo Carneo; che Aristeo tessalo, pervenuto, durante il diffondersi del
suo culto, in Libia, si accosta a Cirene; che questa è la causa per cui
Cirene passa in Tessaglia; che su questi elementi si può ricostruire
l'Eea di Cirene ottenendo un'opera analoga per indirizzo all'Eea di Coronide,
tale quindi da potersi ricondurre al medesimo centro d’elaborazione
mitopoetica. Euripilo ed Eufemo. Le due principali figure del
racconto di Pindaro Pit. han dato occasione alle più diverse ipotesi: cfr.
Studniczka e Malten. Il farne oggetto di minuto esame gioverà a pre-
parare risultati atti a spiegare e ricostruire quel mito cirenaico dei
Battiadi che fa riscontro al mito della ninfa Cirene. Euripilo si
rinviene: in Tessaglia, figlio di Evemone; in Cos, figlio di Posidone; in
Misia, figlio di Telefo e condottiero dei Cetei; in Acaja, Pads.
Ora è probabile che l'Euripilo di Cos si possa far risalire a quello di
Tessaglia: cfr. WilamowiTz Isyllos 52 e " Hermes „ XLIV (1909) 474 sgg. Ma
tutti gli altri sono indipendenti. L'Acaico viene bensì da Pausania
identificato con il Tessalico; ma è notevole che altri già allora
combattevano questa teoria: iy^aipav de i]Srj Tivég od tip OeaaaÀtp
av^i^dvza E-ÒQV7tvÀ(p xà siqri- jtteVa, àXXà EdQVTcvÀov Ae§afievov Ttatda
xov èv ^i2Àév(p PaoiÀevaavTog éd'sÀovai afia 'HQay.Àeì aiQatevaavxa
ég "lÀiov TiaQÙ Tov 'HQw^Aéovs tìjv ÀÙQvay,a ntÀ. Eviden-
temente gli eruditi greci cercavan di precisare l'origine dell'eroe
Euripilo cui si rendeva culto in Acaja; ed era ipotesi di taluno fra essi
che egli fosse il medesimo Eu- ripilo di Tessaglia. Il re dei Cetei è da
Malten ricondotto in Arcadia. Ammesso che Keteig possa ricon- dursi in
Arcadia e con lui Telefo; è arbitrario dedurne senz'altro un Euripilo
arcadico : perché questi potrebbe esser stato connesso con quelli dopo il
loro trasporto in Misia; il che par dimostrare la nessuna traccia da
lui lasciata in Arcadia al contrario di Telefo (1) e Ceteo. Sarebbe
quindi da ritenere probabile l'esistenza indipendente di un Euripilo in Misia.
Alla schiera adunque Cfr. IiiMEBWAHR Die Kulte und Mythen
Arkadiens. di questi tre Euripili (in Tessaglia in Acaja in Misia)
viene ad aggiungersi l'Euripilo della Cirenaica. Contro i tentativi di
ridurre l'uno all'altro i quattro omo- nimi G. De Sanctis m'insegna a
ritener questi manifestazione, varia nel tempo e nei luoghi, d'una
medesima unica tendenza mitica; la quale ci è dall'etimologia facilmente
chiarita, Euripilo essendo il dio dell' " ampia porta „ infernale.
Era ovvio che questo comune concetto, questo, meglio, fantasma venisse
volta a volta applicato presso popoli di stirpe greca. In tal caso poiché
egli appare presso la Ài^vij Tgizoìvlg è legittimo credere che
impulso alla sua localizzazione libica desse la grotta del Gioh [su cui
MiNUTiLLi La Tripolitania (Torino)] che era ritenuta appunto apertura di
Dite (cfr. Strab; Tolemeo Geog., 4, 8; PLINIO (si veda). In
Cirenaica Euripilo è congiunto con altri numi da uno schema genealogico
che si ritrova presso Acesandbo [scoi. Pind. Pit.) cfr. Malten:
Atlante I PosiDONE ->- Celeno £lios I I
Tritone Euripilo Sterope Pasifae LicAONE Lbdcippo Se non che
questo schema ci appare sùbito una com- binazione accorta di eruditi
locali. Pasifae (Wide Lak. Kul.), Tritone {Àìfiv^ TqitcovIs Strab. e
Pind. Pit.), Lieeo = Zeus Liceo (Eeod. eSTUDNiczKA) souo accertati in Libia da
altre fonti: elementi arcadici e cretesi la cui presenza non
stupisce (cfr. Maass Hermes e Studniczka). A Liceo corrispondono,
miticamente, Licaone « Lieo. Di Lieo in altre fonti (Ellan. in Scoi.,
Apoll. Bibl.) è padre Posidone e madre Celano, Atlan- tide. E
il nostro erudito ha serbato la genealogia, inserendo però fra Licaone e Celeno-Posidone
una generazione : Tritone e Euripilo, il dio della palude e il dio della
grotta, l'una e l'altra vicina. Sorella di Celeno è Sterope (Apoll. Bibl.
Ili 110): e questa offre all'erudito lo spunto per introdurre Pasifae e
con lei Elios. Sia però questo o altro il procedimento seguito dall'autore
dello schema, a ogni modo esso dimostra niilla più che già non sapessimo
: l'influenza grande di Creta e dell'Arcadia su i miti libici, influenza
che le attinenze commerciali e politiche spiegano senz'altra ipotesi :
a quel modo istesso che Euripilo al Gioh non prova se non la
costanza con cui un unico tipo di nume ctonio fissa la sua sede in luoghi
diversi col favor delle condizioni geografiche. 2. Eufemo è nel
mito cirenaico (Pind. Pit.) connesso con la Beozia con Lemno con il Tenaro con
Tera con la Libia. La connessione con Lemno è una conseguenza della sua
qualità di Argonauta: sta e cade con questa. A Tera non v'è traccia di
lui, e anche il mito vi fa giungere solo i suoi discendenti con Samo o
Sesamo {scoi Pit., scoi. Apoll. R.). Resta adunque ch'egli sarebbe
nato in Beozia, il Tenaro avrebbe per patria (Pind.: ol'aoi), i Battiadi
di Cirene per vantati discendenti. Ora in Beozia v'è traccia della
sua supposta madre Mecionice (Tzetzk Chiliad.) : e non v'è, ch'io
vegga, motivo alcuno per dubitare che, se non originario di quella
regione, egli sia tuttavia caratteri- sticamente beota. Col che si
connette la sua presenza in Lesbo (EsicH. s. v) che lo fa supporre anche
in Tessaglia : a ognuno invero è nota l'attinenza stretta fra i
miti beotici e tessalici. Ma perché i Battiadi ne avrebbero fatto
il loro capostipite? Lo Studniczka pensa che i co- [CIRENE MITICA] Ioni
recassero quel nome con sé daTera: il Malten che in Libia lo trovassero e che
per legittimarsi ne fa- cessero il proprio avo. Costanzi mi par ben
più vicino a una probabile ipotesi: I Battiadi stanno ad Eufemo
come gli Agiadi di Sparta ad Euristene e gli Euripontidi a Prode; come,
soggiungo, i dinasti Molossi ad Achille, i Pisistratidi a Nestore. E queste
analogie ultime, a punto, possono lumeggiare il fenomeno cirenaico:
Pisistrato è nome d'uno dei figli di Nestore; Neottolemo, che ricorre fra
i Molossi, è figlio di Achille nell'epopea: e similmente ArcesLlao,
appellativo di quattro re di Cirene, è un eroe beota nelVIliade (cfr.
Pads.). E se è errato sostenere col Mììller Orchomenos che di Beozia fu
tratto il nome, non è però arrischiato l'asserire la possibilità che il
nome beotico abbia attratto l'avo beotico. A ogni modo, quand'anche
restasse oscuro il preciso motivo di tale genealogia, non sarebbero meno da
respingere, com'è ovvio, le due ipotesi dello Studniczka e del Malten:
sproporzionate al fatto che vogliono spiegare. Non resta da vagliare che
la sede al Tenaro. Colà non è traccia di Eufemo che sia indipendente da
questa leggenda : c'è in vece, importantissimo, il culto di Posidone
Geaoco (S. Wide Lak. Kulte). Non solo, ma i caratteri di Eufemo (si
ricordi eicprjfielv, e il suo significato religioso) son più vicini a
quelli di Apollo (Stodniczka) e, in genere, del dio solare (cfr. Zsòg
Eécpiifiog, Esich. s. v.) che a quelli d'un nume sotterraneo. Nume
sotterraneo ritennero Eufemo p. es. Studniczka e Maass (Gòtt. Gel. Anz.;
Orpheus) solo sul fonda- Ben altrimenti Gruppe Gr. Myth. I rapporti
di un nume o eroe con Posidone non implicano senz'altro un carattere
ctonio di quello: con Posidone difatti ha mento della sua localizzazione
al Tenaro, bocca dell'Ade : fondamento per cui s'indussero anche a
forzare il significato di eiiq>r,iA,og, spiegandolo come un epiteto,
appunto, eufemistico in luogo del nome pauroso della divinità
ctonia. Tutto ciò cade, se la localizzazione al Tenaro risulta
artificiosa, e dovuta a tutt'altri motivi che l'affinità fra Eufemo e
l'Ade. Difatti, se tenendo presenti queste osservazioni, si legge la Pitia,
vien fatto d'interpretarla nel seguente modo. Ai discendenti di Eufemo
quattro punti si dovevano necessariamente far toccare, tre forniti dalla
storia, uno dal mito: Lemno, il Peloponneso, Tera, la Libia. Or bene: a
Lemno abbiam già veduto Eufemo. Ma dopo ciò occorrevano due motivi per
spiegare il soggiorno nel Peloponneso e quello a Tera. Per Tera s'inventò
lo smarrimento della zolla; per il Peloponneso, lo si disse patria di Eufemo. E
siccome Eufemo èfiglio, in Beozia, di Posidone, e al Tenaro v'era
culto di Posidone Geaoco, Eufemo fu localizzato al Tenaro.
Interpretando in tal modo tutto si spiega: ed è questa ipotesi molto più
semplice che non quella del Malten. Localizzato per tal guisa al Tenaro
Eufemo, e ovvio che i tardi genealogisti si preoccupassero di introdurlo
nelle genealogie laconiche; difatti lo troviamo nipote dell'Eurota
(Tzetze Chil.); o figlio di una Doride [scoi. Pind. Pit.); o sposo di una
Laonome sorella di Eracle (scoi. Pind. Pit.). Ma ha torto Malten di dar
peso a tali genealogie, e in ispecie all'ultima: bisognerebbe ch'egli
potesse dimostrarle indipendenti dalla localizzazione di Eufemo al Tenaro ;
mentre è arbitraria anche la soppressione di Eracle fra
Guneo attinenze cultuali anche Apollo (Gerhabd Abh. Beri. Akad.
Wiss.). CIRENE MITICA e Eufemo nello schema che ci dà il cit.
scoi. Pind. Pif. Ora, al Tenaro Eufemo è localizzato, a quel che
pare, già nell'Eea di lui (fr. 143 Rzach ^): se lo si deve dedurre
dall'epiteto di Fairioyos che vi si trova e che è quello con cui al
Tenaro si venerava Posidone: fi oirj 'TQitj TtVKLVócpQùìv
MrjKiovìiiri ^ zéxev JEvq)f]fiov yairjóxffi Evvoacyaiq)
fieix&ela' èv (ptÀÓTrjzc noÀv^Qvaov 'Aq)QodÌTi]g. Di li
dipenderebbero: Pind. Pit. IV, Apoll. R.; Igino fav.; Acesandro e Teoceesto
in scoi. Apoll. B.. Se dunque è vero che la localizzazione .al Tenaro è
tutta a favor degli Eufemidi (= Bat- tiadi), cotesta Eea non può esser
che sotto l'influsso cire- naico. La qual cosa spiega o può spiegare per
analogia anche il formarsi dell'Eea di Cirene o (più propriamente)
di Aristeo, che già abbiamo accennato dianzi. E poiché l'importanza che
in entrambe le Eee ha Apollo è singolare (in quella di Aristeo come padre del
fanciullo, in quella di Eufemo come ecistère), avremmo in esse un
modello del come in Delfi si servissero gl'interessi d'altre regioni :
togliendo p. e. lo spunto da Aristeo per trasportar Cirene in Tessaglia
(v. sopra pag. 429); dagli Argonauti, per Eufemo in Lemno ; da Posidone
per Eufemo al Tenaro, ecc. ecc. Cfr. in vece Malten Crediamo adunque di aver
mostrato e che Euripilo in Libia non ci riporta ad alcuna regione ma solo
a un comune concetto mitico dei Greci, e che Eufemo beota si connette
forse per fiabe etimologiche ai Battiadi, certo è estraneo al Tenaro. Al
Malten pertanto che afferma Euripilo ed Eufemo costituire eine Reihe,
die ihre Endpunkte in der Kyrenaika und im sudlichen Thessalien hat, e
con l'uno d'essi collegarsi intimamente [EUBIPILO ED EUFEMO] Atlante e
Posidone, urpeloponnesisch, possiamo rispondere di aver troncato a quella
" Reihe per Euripilo r Endpunkt , che sta in Tessaglia, per Eufemo
l'estremità che si fissa in Libia e il centro che si posa sul Tenaro. Abbiamo
in somma, se non c'inganniamo, reciso i nervi a quella teoria.
Del pari cadono le analogie con cui la rincalza. In LicoFEONE
naufragano su la costa libica Euri pilo (ma figlio di Evemone tessalico),
Guneo perrebico e Proteo magnete. Onde Malten sostiene che il naufragio
in Libia di Guneo e di Proteo è leggenda cirenaica (LicoFB., Apollod. a
Wagner): e rintraccia poi quegli eroi a Creta e in Tessaglia. Noi
però abbiamo già osservato a proposito di Diomede che nei vóaroi la
spiaggia libica appare il luogo tipico dei naufragi e che quindi tali
leggende son da ritenere indipendenti affatto da Cirene. Il trovare ora
che un mito secondario, attinente per contenuto all'epopea dei vóazoi, fa
naufragare in Libia un Euripilo senza avvertire l'esistenza in quei
luoghi di un omonimo, rilevante figura locale, ci conferma nella
nostra opinione, e prova contro il Malten che Guneo e Proteo non
appartennero mai a saghe cirenaiche, se non, al pili, per molto tardo
riflesso. Col che si spezza sin dall'inizio la feste Kette von Beziehungen
zwischen Libyen und Kreta einerseits und Nordthessalien andererseits,
die in Arkadien ihren Knotenpunkt hat, (Malten). Se non che, secondo
il mito cirenaico dei Battiadi, Eufemo ed Euripilo ebbero attinenze in
quanto quegli era Argonauta, e questi agli Argonauti fece dono di
una zolla libica. A noi quindi, che analizzammo partitamente le due
figure, non resta che studiare la trama narrativa in cui si accostano e
agiscono: ossia il mito degli Argonauti in Libia. CIRENE
MITICA Gli Argonauti in Libia. Poiché su questo punto io
profondamente mi allontano dal Malten terrò più minuto discorso. A quattro
redazioni leggendarie dobbiamo por mente: Pindaro Pit.; Erodoto;
Licofronk; Apoll. Rodio; e tutte bisogna esaminare. Pindaro racconta che
gli Argonauti, ritornando con Medea dall' Oceano sopra l’Argo, debbono
per dodici giorni trasportare la loro nave su la terra deserta fino
al lago Tritonio, ove nel punto della partenza appar loro Euripilo a
donare all'eroe Eufemo, compagno di Giasone, una zolla: fatidico dono. In
questo racconto non v'è nulla che non si convenga ai desiderii dei
Battiadi; nulla quindi che non paja inventato per il loro
compiacimento; fuor che il particolare del Iago Tritonio, il quale è
l'unico non indispensabile. Dev'essere difatti questo il lago, di cui
Strab., presso Berenice (Bengasi) che esiste tuttora (i laghi salati). E
non si vede bene, svibito, perché per l'appunto quel lago venisse
scelto per il dono. Né Euripilo poteva esser causa della preferenza; però
che paja invece piti probabile il contrario: Euripilo esser intervenuto a
cagione del lago. D'altra parte difficilmente, sembra, Eufemo, avo mitico
dei Bat- tiadi, sarebbe stato fatto Argonauta, ove con tal mezzo a
punto non lo si fosse potuto far giungere in Libia: il che lascia
supporre che in Libia una leggenda più antica recasse già gli Argonauti.
Per queste due possibilità adunque, nel racconto di Pindaro parrebbe
che l'episodio della palude Tritonide debba risalire a un nucleo
mitico più antico : parvenza bisognosa d'altri suffragi. Sul valore che
tal dono ha nelle leggende cfr. una interessante nota in Gebckk o. c.
455. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ora in Erodoto si
narra che presso la minor Sirte esiste una MjAvri f^eydÀrj T^ubìvig: ben
lontano dunque da (Bengasi) Berenice; e ivi Giasone il quale tentava
circumnavigare il Peloponneso avrebbe subito naufragio, per ciò che una
fortuna di mare ve lo avrebbe improvvisamente trasportato senza possibile
uscita fuor dalle strette del lago. Ma Trìtone apparso trasse di rischio
la nave, dimostrò la via, e ricevette in dono un tripode. Dopo le
quali cose, profetò agli Argonauti che un giomo presso quel lago i Greci
avrebbero fondato cento città: Taira àytovaavzag rovg è7tix<^QÙovg twv
Ai^voìv KQV'kpat, TÒv zQLJioòa. Qui sono due particolari ben distinti :
il dono del tripode per ottener lo scampo, e la profezia.
Quest'ultima non si avverò perché la piccola Sirte non ebbe colonie
greche ; ed è da vedere in essa (cfr. tra gli altri CosTANzi 0) un
riflesso del tentativo com- piuto nel Cinipe fra le due Sirti dallo
spartano Dorieo. Ma il dono del tripode non è che fittisiiamente collegato con
la profezia e il tentativo di Dorieo: suo vero e unico e primo scopo è
ottenere da Tritone la via. Il resto è superfetazione più tarda. Da
ultimo è notevole che ritorna ancor qui il lago Tritonio, localizzato
però non pili presso Berenice ma nella piccola Sirte. Esistono dunque nel breve
racconto erodoteo due strati. L'uno è recente, e non risale più in là
della spedizione infelice di Dorieo: appartengono a questo la profezia
di Tritone e il valore fatidico dato al tripode. L'altro è assai più
antico, e preesiste a Dorieo: gli appartengono i nomi degli Argonauti e
del lago Tritonio e il dono di Giasone al dio. Ora, quest'ultimo strato
assomiglia, grossolanamente, al nucleo che ci parve originario in
Pindaro. Esaminiamo pertanto pivi da vicino questi elementi simili.
Identico è il nome della palude; ma diversi sono i luoghi: tuttavia più
vetusta appare la identificazione C'IBENE MITICA con il lago
dell'estremo occidente nella minor Sirte (cfr. RoscHER nel Lex. e
Costanzio.). Identico l'apparire di un nume; ma i nomi differiscono: e
non è dubbio che Tritone, aderente com'è al lago stesso, risalga a pivi
vetusta forma che Euripilo, figura recente dei nuovi coloni. Identica la
circostanza d'un dono, ma la vicenda è mutata: ed è chiaro come al mito
primo degl’argonauti si convenga il dono che serve a favorire il
viaggio, più tosto che quello il quale prepara, a tutto vantaggio d'una
regnante dinastia, una colonia. Lo strato adunque più antico d’Erodoto
appare alla nostra analisi come la forma su cui vennero foggiate: da un
lato la leggenda cirenaica a prò dei Battiadi, con alcune
alterazioni dicevoli; dall'altro la leggenda spartana in favor di Dorico,
con altri mutamenti opportuni. Se questo è vero si spiegano facilmente
Licofrone e Apollonio. Licofrone dice dei naufragi di Guneo Proteo
ed Euripilo presso Tauchira (città della Cirenaica non lungi a l'odierna
Bengasi). Quivi (soggiunge) furon già gli Argonauti, che ad Ausigda
seppellirono Mopso (Ausigda giace fra Tauchira e Cirene). Quivi (insiste)
scorre ò Ki- vv(pEiog ^óog (il Cinipe, cfr. Malten, che fluisce, in
vece, fra le due Sirti, molto lontano di li). Agli Argonauti appare Tritone, e
a lui dona Medea un cratere, per compenso del quale egli insegna loro la
via, e profèta che i Greci colonizzeranno quella regione, allorché
riavranno il cratere. Onde gli Asbisti {= i Libii) impauriti lo celano. Ora è
evidentissimo che, ove si muti il cratere in tripode, il colorito e
l'andamento della scena son quelli medesimi erodotei. Mutati sono
unicamente i luoghi: i quali, tranne il Cinipe, sono della
Cirenaica. Né il Cinipe turba gran che l'armonia: questa irrazionalità
geografica è qui indotta dal ricordo, che tutto il mito del resto nella
sua forma erodotea presuppone, di [GLI ARGONAUTI IN LIBIA] Dorieo sbarcato
presso quel fiume : ricordo cosi vivo che in una fonte anche Guneo
tessalo al Cinipe fa naufragio (Apollod. vi 15 a Wagner = scoi, a
Licofr.) (contro Malten). In breve, Licofrone contamina; mischia
in- sieme, di qui due località cirenaiche, di là il contesto
sirtico-spartano del mito. Ben più contamina Apollonio. Dal Peloponneso
gli Argonauti naufragano alla Sirte, dove le Eroine gli esortano a recare
per dodici giorni le navi verso oriente. Giungono cosi al lago Tritonio, presso
cui a loro impediti nel viaggio insegna la via Ti-itone: dona a Eufemo una
zolla, riceve da Orfeo il tripode. Sono, ciò è, ravvicinati: il tripode
erodoteo alla zolla pindarica; Eufemo ad Orfeo (= Giasone, in lieve
vai-iante); la Sirte a Bengasi. E il poeta (o la sua fonte) è cosi conscio
della contaminazione, che i due distanti luoghi (Sirte-Bengasi) congiunge
con una fittizia marcia di dodici giorni da occidente a oriente : marcia
il cui modello può bene esser in quella, di cui Pindaro, fra l'Oceano e
la palude Tritonia. Né coteste contaminazioni erano puro effetto
dell'ar- bitrio di poeti. DioD. IV 56, 6, narrando (qual che ne sia
la fonte) c'ne gli abitanti di Evesperide pretendevano d'aver rinvenuto
essi il tripode donato a Tritone, dimostra come la leggenda
sirtico-erodotea, la quale nella piccola Sirte, dopo l'insuccesso di
Dorieo, era spostata, avesse trovato terreno propizio, anche nella
realtà, presso l'altro lago Tritonio, a Bengasi. Conchiudiamo. La
facilità con cui dalle nostre premesse furono spiegate le complesse
narrazioni di Licofrone e Apollonio, insieme col loro sostrato reale, par
buona con- ferma delle premesse medesime. Poche parole bastino
dunque, ancóra, sul posto che, nella complessiva spedizione, occupa
l'episodio degl’argonauti . Pindaro e Licofrone lo collocano dopo
la CIRENE MITICA conquista del vello : Medea è presente. Apollonio ed
Erodoto, prima. Anzi tutto va osservato che non bisogna dar troppo peso a
Licofrone, in cui un equivoco è ben possibile e facile, da poi che non
tratta egli esplicita- mente, ma solo parenteticamente, degl’argonauti.
Inoltre la discrepanza dimostra a pena che il nucleo primitivo del
mito non aveva carattere cronologico preciso: cosi che ogni poeta poteva
tribuirgliene uno, secondo l'esigenze poetiche o l'estro
dell'ispirazione. E possiamo finalmente raccogliere in breve i
risultati delle ricerche sul mito dei Battiadi. A favore di questi
ultimi l'Eea di Eufemo rielaborò un antico motivo favoloso su gli Argonauti in
Libia: conducendo quivi e a Lemno, e localizzando al Tenaro, il
capostipite dei Battiadi Eufemo, in qualità di Argonauta;
trasportando i suoi discendenti a Tera; e approfittando del nume di
Euripilo, che fra i Greci di Libia vigoreggiava come altrove. In tutta l'Eea
quindi è, si, un complesso rifacimento di miti con scopo dinastico e
religioso; ma tal rifacimento riflette sol tanto le condizioni storiche a noi
note, non già altre, anteriori e ignote. Questa Eea di Eufemo
poi e quella di Cirene cre- diamo si possano mostrare contaminate
parzialmente in Callimaco. Vili. Callimaco e il mito di Cirene.
Malten vede nel nesso Cirene-Euripilo la forma più antica della
leggenda, quella che l'Eea adultera. Ora è bensì verissimo che Callimaco, come
Ace- SANDRO {scoi. Apoll. R.) e Filakco, storici, cirenaico l'uno,
egizio forse l'altro, sente una più viva eco e più genuina della
primitiva forma mitica allorquando fa combattere in Libia, non in
Tessaglia, Cirene col leone. Ma è altr'e tanto' vero, e intui- [CALLIMACO
E IL MITO DI CIRENE] tivo, che il nesso con Euripilo è tardo. Se difatti
l'Eea avesse trovato questo nome congiunto, comunque, con quel di
Cirene, non avrebbe omesso di trasportarlo, con Apollo e Aristeo, in
Tessaglia: in Tessaglia è invero signore di Ormenio un Euripilo figlio di
Evemone. Che se dunque il nesso è posteriore all'Eea e a Pindaro, è
pur posteriore alla leggenda dinastica degl’Eufemidi, già riflessa in
quest'ultimo poeta, e in cui Euripilo ha preponderante azione. Par quindi
legittimo pensare che Euripilo si commetta con Cirene, dopo che la sua
figura ha assunto valore e rilievo indigeni nel mito degl’argonauti su la
Tquoìvìc Àifivrj. Callimaco pertanto rispecchia una posteriore forma
indigena della leggenda che è oggetto del nostro studio; a quel modo che VIRGILIO
(si veda) rispecchia una posteriore forma straniera. A parte bisogna
considerare Filarco l. e. per la frase di lui fievà jiÀeióvùìv: Cirene di
fatti sarebbe pervenuta in Libia non sola ma con molti. Analogo, se bene
un po' diverso, è Giustino: mandati dal padre di Cirene, Ipseo re di
Tessaglia, i Tessali si sarebbero fermati in Libia con la fanciulla, loci
amoenitate capti. Ora, come Callimaco fa trasparire un mito ove la favola
di Cirene ninfa e la leggenda dei Battiadi si compenetrano in
parte; cosi i due passi or ora citati continuano lo stesso indirizzo, non
più solo col connettere Cirene ed Euripilo, bensì anche col porre intorno
a Cirene coloni tessali, che vengono imaginati ad analogia dei coloni
dori. I gradi di questo processo mitopeico sono: Euripilo è in
Libia quando Eufemo, capostipite dei Battiadi, vi giunge ; dunque
molto prima di Batto; Cirene è in Libia rapita da Apollo, essa pure prima che
vi pervenga Batto; Cirene ed Euripilo ebbero rapporti in Libia in
quegli antichi tempi) con Cirene, che ha il trono da Euri- [OIBENE
MITICA] pilo, eran Tessali suoi compatrioti. Lento (ma chiaro) processo,
adunque, le cui forme non si debbon confondere con le primitive quali ci
appajono nelle due Eee. Esegesi novissima. Storia e indagine su Civette
mitica soo in questo volume già per intero composte quando apparvero di
Pasquali le Quaestiones Callimacheae (Gottingae) ove il mito di
Cirene è di nuovo trattato. Ne pubblicheremo altrove una confutazione
(" Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino). Torino, BOCCA, TORINO Piccola
Biblioteca di Scienze Moderne Grice: “Mussolini lacked a classical
education – he was obsessed, if we are talking alla hymns, of the modern, not
the ancient!” Grice: “Mussolini, who wasn’t from Rome, called Rome the city of
prostitutes. Hausmann suggested that he should build the third Rome somewhere
in the Lazio”. Keywords: la terza Roma, Mazzini. Una e
unica Roma, one and only. Mussolini’s
dislike for ruins, Mussolini’s use of ‘modern’ versus ‘ancient’. Calypso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrabino” –
The Swimming-Pool Library. Aldo Ferrabino. Ferrabino.
Grice e Ferrando: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale di CORIOLANO, ovvero, la filosofia – scuola di Roma -- filosofia
romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Ferarndo; for one,
he is what I would call an Anglo-Italian – cf. Anglo-Argentine; so he
philosophised on Otello, Coroliano, la creazione di Carpenter and the forces of
Prentice Mulford; on Byron’s Manfredi, and more beyond!” Si laurea a Pisa. Insegna a Firenze. Direttore della Biblioteca
Filosofica. In qualità di filosofo s’interessa a Bergson, il misticismo, il
transcendentalism (saggi per L’Annuario Filosofico), come filosofo anglista
s'interessa a Shakespeare (“Otello”, “Corolliano”), e Coleridge, Carpenter (“La
creazione”), Coleridge, Byron (“Manfredi”), “Le forze che dormono in noi”
(Prichard). dando di alcuni di questi anche delle versioni. È inoltre studioso
di psicologia e redattore della rivista Psiche. Collabora con SALVEMINI (si
veda) alla propaganda anti-fascista e firma il manifesto di Croce. Espatria a
New York, dove continua la sua attività anti-fascista, insegna filosofia e
sposa Wilhelmina Anieka Leggett, con cui adotta la figlia Vasanti. Contribue
più a fondare la Besant Hill School di Ojai, California, praticandovi l'insegnamento
more socratico. L’istruzione è un processo d'indagine dove l’studente impara dal
tutore *come* pensare, non *cosa* pensare". RootsWeb's World Connect Project: LEGGETT of ELY,
CAMBRIDGESHIRE, ENGLAND. Fe. appointed Chairman of italian dept. Vassar Miscellany
News, Besanthill. Opere: Saggi, “La Voce” -- Coriolano politico e Generale
dell'Antica Roma Lingua Segui Gneo Marcio Coriolano, in latino Gnaeus Marcius
Coriolanus, generalmente conosciuto come Coriolano, membro dell'antica Gens
Marcia, fu uomo politico e valoroso generale al tempo delle guerre contro i
Volsci. Veturia ai piedi di Coriolano di Nicolas Poussin.
BiografiaModifica Il giovane Gneo Marcio, non ancora Coriolano, partecipò come
semplice soldato alla decisiva battaglia del lago Regillo, distinguendosi per
il proprio valore, tanto da meritare la Corona civica per aver salvato da solo
in battaglia un altro cittadino romano. Secondo Livio e Plutarco a Gneo Marcio
fu attribuito il cognome a seguito della vittoria di Roma contro i Volsci di
Corioli, ottenuta anche grazie al valore del giovane patrizio; secondo altri
storici il cognome indica che la sua famiglia fosse originaria della città
stessa. Q. Marcius, dux
Romanus, qui Coriolos ceperat, Volscorum civitatem, ad ipsos Volscos contendit
iratus et auxilia contra Romanos accepit. Romanos saepe vicit, usque ad quintum
miliarium urbis accessit, oppugnaturus etiam patriam suam, legatis qui pacem
petebant, repudiatis, nisi ad eum mater Veturia et uxor Volumnia ex urbe
venissent, quarum fletu et deprecatione superatus removit exercitum. Atque hic
secundus post Tarquinium fuit, qui dux contra patriam suam esset. Q. Marcio, comandante romano, che aveva conquistato
Corioli, città dei Volsci, accecato dall'ira si recò presso i Volsci e ottenne aiuti
contro i Romani. Sconfisse spesso i Romani, arrivando fino a cinque miglia da
Roma, pronto a combattere anche contro la sua patria, respinti i legati inviati
per chiedere la pace, vinto solamente dal pianto e dalle suppliche della madre
Veturia e della moglie Volumnia, andate a lui da Roma, ritirò l'esercito. E
questo fu il secondo capo, dopo Tarquinio, ad essersi opposto alla propria
patria.» (Eutropio, Breviarium ab Urbe condita) L'Eroe della presa di
Corioli Consoli Postumio Cominio Aurunco e Spurio Cassio Vecellino, a Roma, per
quella che sarebbe stata ricordata come la prima secessione, la plebe si era
ritirata sul Monte Sacro. La situazione era poi resa oltremodo complicata
dalla necessità di definire un nuovo trattato (Fœdus) con i Latini, compito che
fu affidato al console Spurio Cassio, trattato che da lui prese di nome (Fœdus
Cassianum), e dai preparativi bellici intrapresi dai Volsci, contro cui si
decise di intraprendere l'ennesima azione militare, affidandola al console
Postumio Cominio. Postumio Cominio iniziò la campagna militare guidando
l'esercito romano contro i Volsci di Antium, città che venne espugnata.
Successivamente l'esercito romano marciò contro le città volsche di Longula,
Polusca e Corioli, tutte e tre conquistate dai Romani, quest'ultima con
l'apporto decisivo di Gneo Marcio, tanto che Livio annota: L'impresa di
Marcio eclissò la gloria del console al punto che, se il trattato coi Latini,
concluso dal solo Spurio Cassio in assenza del collega, non fosse rimasto inciso
a perenne memoria su una colonna di bronzo, nessuno si ricorderebbe che
Postumio Cominio combatté contro i Volsci LIVIO Ab Urbe condita. Dai contrasti tra
patrizi e plebei all'esilio. Intanto a Roma la prima secessio plebis e la
conseguente mancata coltura dei campi aveva provocato un rincaro del grano e la
necessità della sua importazione. Sotto il consolato di Marco Minucio Augurino
e Aulo Sempronio Atratino, Coriolano si oppose fortemente alla riduzione del
prezzo del grano alla plebe, che lo prese in forte odio. In effetti la
contesa non riguardava tanto il prezzo del grano, ma il conflitto tra plebei e
patrizi, con questi ultimi che ancora non si erano rassegnati all'istituzione
dei tribuni della plebe, e cercavano in tutti i modi di contrastarne l'azione.
In un contesto di feroci attacchi politici, Coriolano rappresentava l'ala più
oltranzista dei patrizi, che propugnava il ritorno alla situazione antecedente
alla concessione del tribunato ai plebei, e per questo motivo era attaccato
violentemente da questi. Durante una di queste infuocate assemblee mancò poco
che Coriolano fosse mandato a morte, gettato dalla rupe Tarpea. «...A
questo punto Sicinnio, il più impudente dei tribuni, dopo una breve
consultazione con i colleghi, proclamò davanti a tutti che Marcio era stato
condannato a morte dai tribuni della plebe, e ordinò agli edili di portarlo
immediatamente sulla rocca Tarpea e di gettarlo giù nella voragine.»
(Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade) Alla fine fu
citato in giudizio dai tribuni della plebe, e a questo punto le versioni di
Livio e Plutarco divergono. Secondo Livio, Gneo Marcio rifiutò di andare in
giudizio, scegliendo l'esilio volontario presso i Volsci, e per questo motivo
fu condannato in contumacia all'esilio a vita. Invece per Plutarco[5] Gneo
Marcio fu sottoposto al giudizio del popolo con l'accusa di essersi opposto al
ribasso dei prezzi del grano, e per aver distribuito il tesoro di Anzio tra i
commilitoni, invece di consegnarlo all'Erario. Anche per Plutarco, la condanna
fu quella dell'esilio a vita. La guerra contro RomaModifica Gneo Marcio
scelse di recarsi in esilio nella città di Anzio, ospite di Attio Tullio,
eminente personalità tra i Volsci. I due, animati da forti sentimenti di rivincita
nei confronti di Roma, iniziarono a tramare affinché tra i Volsci, più volte
battuti in scontri campali dall'esercito romano, si sviluppassero nuovamente
motivi di risentimento contro i Romani, tali da far nascere in questi il
desiderio di entrare in guerra contro il potente vicino. Marcio e Tullo
discutevano di nascosto in Anzio con i più potenti e li spingevano a scatenare
la guerra mentre i Romani si combattevano tra loro. Ma mentre i Volsci erano
trattenuti dal pudore perché le due parti avevano concordato una tregua e un
armistizio di due anni, e furono i Romani a fornire loro stessi il pretesto,
annunziando durante certi spettacoli e giochi, sulla base di qualche sospetto o
falsa accusa, che i Volsci dovevano lasciare la città prima del tramonto.
Plutarco, Vite parallele, Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade) Alla fine i Volsci
decisero per una nuova guerra contro Roma, ed affidarono a Coriolano e ad Attio
Tullio il comando dell'esercito. Quindi i due comandanti si risolsero a
dividersi le forze, rivolgendosi Attio ai territori dei Latini, per impedire
che portassero soccorso a Roma, e Coriolano a saccheggiare la campagna romana,
evitando però di attaccare le proprietà dei Patrizi, così da fomentare la
discordia tra Plebei e Patrizi. L'espediente ebbe successo, tanto da permettere
ai due eserciti Volsci, di tornare nel proprio territorio, carichi di bottino e
senza aver subito alcun attacco dai Romani. Successivamente, mentre Attio
proteggeva con il proprio esercito la città, Coriolano volse il proprio esercito
contro la colonia romana di Circei che fu presa, mentre Roma non reagiva per il
montare della discordia tra i due ordini. Alla fine a Roma si decise di
arruolare un esercito, e si permise agli alleati Latini di prepararne uno per
proprio conto, in quanto Roma non era in grado di difenderli dalle incursioni
dei Volsci. Ai Volsci, che si preparavano alla guerra, si aggiunse poi la
rivolta degli Equi. Coriolano, al comando del proprio esercito quindi prese
Tolerium, Bola, Labicum, Corbione, Bovillae e pose l'assedio a Lavinium, senza
che i Romani portassero aiuto a queste città. Quindi Coriolano si accampò
a sole cinque miglia dalle mura della città in località Cluvilie, dove fu
raggiunto da un'ambasceria composta da cinque ambasciatori. Per tutti parlò
Marco Minucio Augurino, senza però riuscire a far desistere Coriolano dal
proprio intento; anzi i Volsci, sempre guidati dal condottiero romano, presero
Longula, Satricum, Polusca, le città degli Albieti, Mugillae e vennero a patti
con i Coriolani. Leggermente diversa la versione di Livio: Quindi
conquistò Satrico, Longula, Polusca, Corioli, Mugilla, tutte città recentemente
sottomesse dai Romani. Poi riprese Lavinio e di lì, raggiungendo la via Latina
tramite delle scorciatoie, catturò una dopo l'altra Corbione, Vetelia, Trebio,
Labico, Pedo. Infine da Pedo marciò su Roma e si accampò presso le fosse
Cluilie, a cinque miglia dalla città» (LIVIO (si veda), Ab Urbe condita
libri) Qui, alle porte dell'Urbe al IV miglio della Via Latina, dove si trovava
il confine dell'Ager Romanus Antiquus (nei pressi dell'attuale Via del
Quadraro), mentre i consoli, Spurio Nauzio e Sesto Furio, organizzano le difese
della città, venne fermato dalle implorazioni della madre Veturia e della
moglie Volumnia, accorsa con i due figlioletti in braccio, che lo convinsero a
desistere dal proprio proposito di distruggere Roma. «....Coriolano saltò
giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per abbracciarla.
Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse: «Fermo lì, prima di
abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da un figlio e se
nel tuo accampamento devo considerarmi una prigioniera o una madre.» (LIVIO
(si veda), Ab Urbe condita libri) Morte LIVIO (si veda) riporta come non ci è
concordanza sulla morte di Coriolano. Secondo parte della tradizione, è ucciso
dai Volsci, che lo considerarono un traditore per aver sciolto l'esercito sotto
le mura di Roma. Secondo Fabio, muore di vecchiaia in esilio. Plutarco e
Dionigi di Alicarnasso raccontano come Coriolano è ucciso da una congiura,
capitanata da Attio Tullio, mentre si sta difendendo in un pubblico processo ad
Anzio, dove è stato messo sotto accusa dai Volsci per essersi ritirato, senza
aver combattuto, da Roma.Poi, però, è dimostrato che l’azione non è affatto
condivisa da tutti, sicché fu seppellito con grandi onori e il sepolcro di
Coriolano, ornato con armi e spoglie, fu considerato dalla popolazione il
sepolcro di un eroe e di un grande generale. I Romani, invece, non gli tributarono
onori quando seppero della sua morte, né tuttavia gli serbarono rancore, tant'è
vero che alle donne fu consentito portare il lutto fino a un massimo di 10
mesi. CICERONE (si veda), nel Brutus, nel paragonare Coriolano a Temistocle ne
accomuna la sorte: si sarebbero entrambi tolti la vita una volta allontanati
dalla patria.Critica storica Secondo parte della moderna storiografia Coriolano
rappresenta un personaggio leggendario, creato per giustificare le sconfitte
dei Romani nelle guerre contro i Volsci nella prima epoca repubblicana, guerre
che arrivarono a minacciare l'esistenza stessa di Roma. I Romani trovarono
giustificazione delle loro ripetute sconfitte, nella credenza che solo un
condottiero romano avrebbe potuto sconfiggere un esercito romano. La
circostanza che Coriolano non appaia tra i fasti consulares aumenta il dubbio
che si sia trattato di un personaggio storico (cf. Grice, “Vacuous Names”). Plutarco,
Vite parallele, Vita di Coriolano, Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite
parallele Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco,
Vite parallele Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Plutarco, Vite parallele, 6.
Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane,
Livio, Ab Urbe condita libri Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi
di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane,
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità
romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso,
Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Dionigi
di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane,
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Appiano, Storia romana, Livio, Ab Urbe
condita libri, lib. II, par. 40 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio
Coriolano e Alcibiade, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, V Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane CICERONE (si veda), Laelius de amicitia CICERONE
(si veda), Brutus. Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite parallele,
Coriolano Eutropio, Breviarium ab Urbe condita (che lo chiama Quinto) Ispirata
pure alla vicenda di Coriolano è un'ouverture di Beethoven (in do min.),
composta per la tragedia teatrale omonima di Collin. Gens Marcia Volumnia
Veturia Coriolano, tragedia di Shakespeare Coriolano, Gneo Marcio, in
Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Coriolano, Gnèo
Màrcio, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata Gneo Marcio Coriolano
Gneo Marcio Coriolano (altra versione), su Enciclopedia Britannica,
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Biografie Portale Guerra Portale Politica Sesto Furio
Medullino Fuso politico romano Roma e le guerre con Equi e Volsci Attio
Tullio Nobile volsco di Antium (le odierne Nettuno ed Anzio) CORIOLANO
Tragedia Note di Raponi. Il testo inglese adottato per la traduzione è quello d’Alexander
(Shakespeare - “The complete Works”, Collins., London), con qualche variante
suggerita da altri testi, specialmente quello prodotto dal Furnivall per la
“Early English Text Society”, l’“Arden Shakespeare” e l’ultima edizione
dell’“Oxford Shakespeare” curata da G. Taylor e G. Wells per la Clarendon. Alcune
didascalie sono state aggiunte dal traduttore di sua iniziativa, per la
migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è
essenzialmente intesa. 3) All’inizio di ciascuna scena i personaggi sono
introdotti con il rituale “Entra” o “Entrano”, che ripete l’“Enter” del testo;
giova avvertire però che tale dizione non implica che i personaggi debbano
“entrare” in scena al levarsi del sipario; è spesso possibile che essi vi si
trovino già, in un qualunque atteggiamento. La reciproca vale per le dizioni
“Exit” - “Exeunt”, “Esce”, “Escono”. 4) Il metro è l’endecasillabo sciolto,
intercalato da settenari, come l’abbia richiesto al traduttore lo scorrere
della verseggiatura. 5) Trattandosi della Roma di Coriolano, la forma del “tu”
(i Romani non ne conoscevano altra) è sembrata imperativa, ad onta del
dialogante alternarsi dello “you” e del “thou” dell’inglese. 6) La divisione in
atti e scene, com’è noto, non si trova nell’in-folio; essa è stata elaborata,
spesso anche con l’elenco dei personaggi, da vari curatori nel tempo, a
cominciare da Rowe. Li si riproduce come figurano nella citata edizione
dell’Alexander. CORIOLANO Nota introduttiva Plutarco, dalle cui “Vite
parallele” Shakespeare trae essenzialmente la trama della sua tragedia, associa
Coriolano con Alcibiade, come esempio di due grandi condottieri e uomini
politici venuti in contrasto con la loro patria e scesi contro di essa in
guerra alla testa di eserciti nemici. I due sono contemporanei: Alcibiade vive
nell’Atene di Pericle (V sec. a.C.), già matura repubblica demo- aristocratica;
Coriolano nella giovane immatura repubblica di una Roma che si è appena
liberata della tirannia dei re etruschi. Ma il parallelismo tra i due è per
contrasto; perché Alcibiade cerca, contro l’aristocrazia di cui è parte (è il
nipote di Pericle), e che gli dà l’ostracismo, il favore del popolo(1);
Coriolano, all’opposto, nel suo orgoglio di aristocratico rozzo e impolitico,
disprezza la massa plebea ed è da questa prima eletto poi privato del consolato
e bandito da Roma. L’orgoglio di Coriolano e il suo conflitto con l’intima
nobiltà dell’uomo è il “leitmotiv” del dramma shakespeariano; ad esso fa da
sfondo una Roma la cui politica interna è caratterizzata dalle lotte di classe
fra patrizi e plebei, quella esterna dalle prime guerre di espansione. I nemici
più vicini sono i Volsci, che abitano le terre del sud del Lazio, comprese le
città di Anzio e Corioli. La superbia è il peggiore dei vizi, il massimo dei peccati
capitali della dottrina cristiana; tradotta nella persona di un eroe della Roma
pagana essa acquista la dimensione di un vizio legato ad una virtù: nobiltà e
onore. Le parole “nobility” e “honour”, come osserva il Melchiori, con i loro
derivati nominali e verbali ricorrono ben 137 volte nel testo della tragedia.
Questo conflitto, come una fatale condanna, nega a Coriolano la capacità di
convivere con gli oppositori, l’inclinazione al possibilismo che è la massima
dote del politico, e sarà, nel mondo politico nel quale egli si muove, la sua
tragica fine. Il linguaggio di Coriolano, a differenza di quello raffinato e
colto di Alcibiade, è sempre rude, quasi urlato, di rissa; e ad accentuarne la
rudezza Shakespeare crea, in contrapposto, di sua fantasia, il personaggio di
Menenio Agrippa, un modello di scaltrezza politica - questo sì - simile ad
Alcibiade, che parla studiando l’avversario, per saggiarne i punti deboli e,
prima assecondandolo poi demolendolo, averne ragione. Ma Coriolano non è solo
questo. All’intolleranza faziosa egli aggiunge l’incostanza del carattere,
l’ignoranza di sé. Questo lo porta ad ingannarsi non solo sulla realtà politica
che lo circonda, ma sulla sua stessa immagine; si trova così, quasi senza
volerlo, sottomesso alla volontà della madre, Volumnia. Questa è la figura di
matrona romana nelle cui parole par quasi di sentire un’eco ante litteram del
Machiavelli: “Chi diventa principe col favore dei grandi deve anzitutto
guadagnarsi il favore del popolo, farsi “gran simulatore e dissimulatore”.
Coriolano, a differenza di Alcibiade, è il contrario di tutto questo.
CAIO MARCIO, detto poi “Coriolano” TITO LARZIO COMINIO, generali romani nella
guerra contro i Volsci MENENIO AGRIPPA, amico di Coriolano SICINIO VELUTO
GIUNIO BRUTO, tribuni della plebe IL PICCOLO MARCIO, figliolo di Coriolano Un
araldo romano NICANOR, romano al servizio dei Volsci TULLO AUFIDIO, generale
dei Volsci Un luogotenente di Aufidio ADRIANO, volsco Un cittadino di Anzio Due
sentinelle volsche VOLUMNIA, madre di Coriolano VIRGINIA, sposa di Coriolano
VALERIA, amica di Virginia Una dama di compagnia di Virginia Senatori romani e
volsci Patrizi, edili, littori, soldati, cittadini, messaggeri Servi di Aufidio
ed altri dei vari seguiti Cospiratori del partito di Aufidio SCENA: parte a
Roma e nei dintorni di Roma; parte a Corioli e dintorni; parte ad Anzio.
PERSONAGGI Roma, una strada Entra un gruppo di POPOLANI in rivolta, con
mazze, randelli e altri ordigni PRIMO CITTADINO - (Agli altri) Prima d’andare
avanti, m’ascoltate! TUTTI - Parla, parla. PRIMO CITT. - Decisi allora: morti,
piuttosto che affamati! TUTTI - Decisi sì! - Decisi! PRIMO CITT. - Primo:
ciascuno sa che Caio Marcio è il principale nemico del popolo. TUTTI – È Caio
Marcio! Lo sappiamo tutti. PRIMO CITT. - Uccidiamolo, allora, e avremo il grano
al prezzo nostro! Chiaro? TUTTI - Chiaro. Basta parole. Andiamo ai fatti!
SECONDO CITT. - Una parola, buoni cittadini. PRIMO CITT. - “Buoni” dillo ai
patrizi! Noi per loro non siamo che gentaccia! Il sovrappiù che avanza a
lorsignori già ci procurerebbe alcun sollievo; quello che avanza dalla loro
tavola, dico, che fosse appena digeribile; potremmo almeno farci l’illusione
che ci aiutino per umanità; ma pensano che già costiamo troppo. La macilenza
che ci affligge tutti, a specchio della nostra povertà, è per loro un
inventario ad uomo per esibire la loro abbondanza. La nostra sofferenza è il
lor guadagno. Vendichiamoci con le nostre picche prima che diventiamo dei
rastrelli, ché se parlo così, sanno gli dèi ch’è per fame di pane, e non punto
per sete di vendetta! SECONDO CITT. - E vorresti che noi si procedesse
prima di tutti contro Caio Marcio? PRIMO CITT. - Contro di lui per primo; è un
vero cane, quello, per il popolo. SECONDO CITT. - Hai ben considerato, tuttavia,
quali servigi egli ha reso alla patria? PRIMO CITT. - Certamente, e sarei anche
contento di dargliene pubblicamente merito; ma di ciò lui si paga da se stesso
con la sua boria. SECONDO CITT. - Via, non dirne male. PRIMO CITT. - Io ti dico
che tutto che di buono ha fatto è stato per un solo fine; anche se a certe
tenere animucce può piacere di dire che l’ha fatto pel suo paese, in verità
l’ha fatto per piacere a sua madre, ed anche, in parte, per soddisfare la
propria ambizione, ché ce n’ha tanta per quanto ha coraggio. SECONDO CITT. - Tu
gli addebiti a colpa qualcosa contro cui lui non può niente, perché fa parte
della sua natura. Non puoi dire però che sia corrotto. PRIMO CITT. - Questo no,
ma di accuse su di lui ne posso partorire a volontà. Di difetti ce n’ha di
sopravanzo, da stancare ad enumerarli tutti! (Clamori all’interno) Ma che son
queste grida?... L’altra parte della città è in rivolta, e noi ce ne restiamo
qui a cianciare? Al Campidoglio, tutti! TUTTI - Andiamo! Andiamo! PRIMO CITT. -
Un momento! Chi è che viene qui? Entra MENENIO AGRIPPA SECONDO CITT. - Il buon
Menenio Agrippa, un galantuomo, uno che sempre volle bene al popolo.
PRIMO CITT. - Una persona onesta. Fossero tutti gli altri come lui! MENENIO -
Ehi, cittadini, che intendete fare, dove volete andare, così armati di mazze e
di randelli? PRIMO CITT. - Il motivo lo sa bene il Senato. È da due settimane
che sanno quello che vogliamo fare. Ora glielo mostriamo con i fatti. Loro
dicono che noi postulanti abbiamo il fiato forte: ora sapranno che abbiamo
forti pure mani e braccia. MENENIO - Evvia, signori, buoni amici miei, onesti
miei concittadini, diamine!, volete rovinarvi? PRIMO CITT. - Rovinati già
siamo, amico; più non è possibile. MENENIO - Ed io vi dico invece, brava gente,
che i patrizi si curano di voi col più caritatevole riguardo. Quanto a quel che
vi manca, ciò che soffrite in questa carestia, alzare contro lo Stato romano le
vostre mazze, è come alzarle in aria con l’intenzione di colpire il cielo: esso
seguiterà per la sua strada, spezzando mille, diecimila ostacoli più forti che
non possa mai sembrare quello di questa vostra opposizione. Quanto alla
carestia, sono gli dèi che l’han voluta, non punto i patrizi, e davanti agli
dèi sono i ginocchi, non le braccia, che possono soccorrervi. Ahimè, che voi vi
fate trascinare dalla disgrazia dove altri malanni v’aspettano, a calunniar
così e maledir come nemici gli uomini che reggono il timone dello Stato e di
voi son pensosi, come padri. PRIMO CITT. - Di noi pensosi, quelli? Figuriamoci!
Mai se ne son curati fino ad oggi. Ecco, ci lasciano morir di fame, e i
magazzini son pieni di grano; sfornano editti per punir l’usura e favoriscon
solo gli strozzini; abrogano ogni giorno sane leggi promulgate a suo
tempo contro i ricchi ed ogni giorno sfornano decreti sempre più duri per
impastoiare ed affamare la povera gente. Se non saran le guerre, saranno loro a
sterminarci tutti. Ecco qual è l’amore che ci portano. MENENIO - Dovete
ammettere che a dir così siete mostruosamente in malafede, o si dovrà accusarvi
di follia. Vi voglio raccontare una storiella su misura. L’avrete già sentita,
ma poiché ben s’adatta al mio proposito, m’avventuro a ridurla un po’ più
trita. PRIMO CITT. - Beh, sentiamola un po’. Ma non pensare di far sparire con
un raccontino il nostro obbrobrio. Dilla, se ti piace. MENENIO - Successe un
tempo che tutte le membra del corpo si levarono in rivolta contro lo stomaco,
così accusandolo: restarsene esso solo, in mezzo al corpo, a ingozzarsi di cibo
tutto il tempo come un gorgo, infingardo ed inattivo, senza divider mai con
l’altre parti il lavoro comune, mentre quelle eran continuamente ad esso
intente, ad udire, a pensare, a impartir ordini, a camminare, a percepir coi
sensi, sì che aiutandosi l’una con l’altra, provvedevano insieme agli appetiti
e ai bisogni comuni a tutto il corpo. Lo stomaco rispose... PRIMO CITT. - Beh,
sentiamo, quale fu la risposta dello stomaco? MENENIO - Stavo appunto per
dirtelo. Lo stomaco, mostrando loro un certo sorrisetto che non gli venne
affatto dai polmoni(9) ma proprio qui, così...(10) perché, vedete, se posso
farlo parlare, lo stomaco, posso ben farlo egualmente sorridere,
provocatoriamente replicò alle parti che s’eran ribellate invidiose ch’ei solo
ricevesse, esattamente come adesso voi che criticate i nostri senatori
perché non sono quali siete voi. PRIMO CITT. - La risposta del tuo stomaco...
Beh? La testa, sede di regal diadema, l’occhio, vigil guardiano, il cuore,
consigliere, il braccio, nostro difensore armato, la gamba, nostro caval di battaglia,
la lingua, nostro araldo trombettiere, con tutte l’altre nostre munizioni e
piccoli ausiliari di difesa di questa nostra fabbrica, se questi, tutti
insieme... MENENIO - Ebbene, che?... (Tra sé) Parola mia, costui si parla
addosso! (Forte) Ebbene, allora? Avanti, su, che cosa? PRIMO CITT. - ...
dovessero venir prevaricati dal cormorano stomaco, ch’è la fogna del corpo...
MENENIO - Ebbene allora? PRIMO CITT. - Allora, insomma, se questi che ho detto
si lamentavano, che mai rispondere poteva il ventre? MENENIO - Te lo dico io,
se mi concedi un poco di pazienza, anche se, come vedo, ce n’hai poca. PRIMO
CITT. - Eh, quanto la fai lunga! MENENIO - Stammi bene a sentire, buon amico...
Dunque lo stomaco, con gran sussiego, pesando le parole, in tutta calma, al contrario
dei suoi accusatori, dice: “Miei cari consociati, è vero ch’io ricevo per primo
tutto il cibo da cui traete voi sostentamento; ma è giusto e logico che sia
così dal momento ch’io sono il magazzino e l’officina di lavorazione di tutto
il corpo. E se ci riflettete, io lo rimando poi regolarmente, pei canali del
sangue, fino al palazzo della corte, al cuore, al suo trono, il cervello,
e, attraverso i tortuosi labirinti e le diverse stanze di servizio della
persona, i più robusti muscoli, e le più capillari delle vene ricevono da me
regolarmente la naturale dose d’alimento onde ciascuno trae la propria vita. Ed
anche se voi tutti presi insieme...” - attenti, amici, adesso, attenti bene, a
ciò che dice il ventre... PRIMO CITT. - Sì, ma sbrigati. MENENIO - “... anche
se non potete, lì per lì, vedere ciò che fornisco a ciascuno, cionondimeno alla
resa dei conti il mio bilancio è a posto, perché tutti ricevono da me il fior
fiore di tutto, laddove a me non resta che la crusca”. Beh, che ne dite? PRIMO
CITT. - Una risposta l’era, questa; ma come può adattarsi a noi? MENENIO - Fate
conto che siano i senatori di Roma questo stomaco, e voialtri le membra
ammutinate. Perché considerate in generale le lor delibere e le lor premure,
digerite a dovere entro di voi quanto concerne il pubblico benessere, e
troverete che dei benefici che tutti riceviamo dallo Stato non ce n’è che non
vengano da loro, e nessuno da voi. (Al Primo Cittadino) Beh, che ne pensi, tu
che sei, come mi sembri, l’alluce del piede di codesto assembramento? PRIMO
CITT. - Io, alluce? Perché? MENENIO - Perché sei tra i più bassi, i più
schifosi, i più morti di fame di codesta saggissima rivolta, e vai avanti a
tutti, tu, cagnaccio che sei del peggior sangue quanto a correre, e ti dài arie
da caporione sol per trarne vantaggio personale! Impugnateli pure i
vostri arnesi, i nodosi randelli ed i batacchi: Roma ed i sorci della sua
cloaca stan per darsi battaglia, chi sa quale dei due avrà la peggio(15)! Entra
CAIO MARCIO MENENIO - Salute a te, nobile Marcio. MARCIO - Grazie! (Al popolo)
Che vi succede, torpida canaglia, che a furia di grattarvi notte e giorno la
scabbia della vostra ostinazione siete ridotti a una putrida rogna? PRIMO CITT.
- Sempre buone parole da te, Marcio! MARCIO - Buone parole, ad uno come te,
chiunque le dice sse, sarebbe un basso e immondo adulatore. Che volete,
cagnacci, cui non va bene né pace, né guerra, perché l’una vi fa tanti conigli,
l’altra vi fa sfrontati e tracotanti? E a fidarsi di voi, non che scoprir che
siete dei leoni, ci si accorge che siete solo lepri, oche, invece di volpi. No,
si può far meno fiducia in voi che in un tizzone acceso in mezzo al ghiaccio,
che in un granello di grandine al sole. Siete capaci d’innalzare al cielo chi è
punito per qualche sua magagna, e insieme maledire la giustizia che l’ha
punito. Chi merita onore, non può che meritare l’odio vostro; le vostre
simpatie per questo o quello son come l’appetito di un malato che va
desiderando soprattutto ciò che può solo peggiorargli il male. Chi dipendesse
dal vostro favore è come se nuotasse avendo ai piedi pinne di piombo, o avesse
l’illusione di segare una quercia con dei giunchi. Fidare in voi?...
Impiccatevi! Voi mutate gabbana ogni minuto. Siete pronti a dir nobile chi poco
prima coprivate d’odio, e vile chi era prima il vostro eroe. E adesso che
v’ha preso, d’andare urlando per le vie di Roma contro il Senato che, grazie
agli dèi, riesce ancora a mantenervi a freno(17), se no vi sbranereste l’un con
l’altro? (A Menenio) Che van cercando? MENENIO - Grano, al loro prezzo, perché
sostengono che la città n’è ben fornita. MARCIO - Alla forca! “Sostengono”!...
Siedono tutto il tempo accanto al fuoco, e pretendono di sapere loro tutto quel
che succede in Campidoglio: chi può andare più in alto, chi ci sta con buone
prospettive, chi declina; parteggiano or per uno or per un altro, s’inventano
alleanze immaginarie, innalzano alle stelle una fazione e sotto le lor scarpe
rattoppate calpestano chi non va loro a genio. Dicono che c’è grano in
abbondanza! Se i nobili mettessero da parte per una volta la loro pietà e
lasciassero a me d’usar la spada, ne farei un tal mucchio, fatti a pezzi, di
migliaia di questi miserabili alto quanto gittar può la mia lancia(19). MENENIO
- Non c’è bisogno. Quelli che son qui son già quasi convinti tutti quanti;
perché se pur son largamente privi d’ogni criterio di moderatezza, sono pure
abbondantemente vili. Dimmi piuttosto tu, che cosa dice il resto della mandria.
MARCIO - Si son dissolti. Che crepino tutti! Dicevan d’aver fame, e davan fiato
sospirando a sentenze come queste: “La fame fa crepare anche le mura”; “Pure i
cani han diritto di mangiare”; “Gli dèi non hanno dato il grano agli uomini
soltanto per i ricchi”... ed altre simili. E con questi cascami di saggezza
esalavano il loro malcontento; finché han trovato chi gli ha dato retta ed ha
esaudito una lor petizione... una richiesta assurda, da spezzare il più
generoso cuore, e spegnere sul volto del potere ogni baldanza. E quelli tutti a
urlare, gettando i loro cappellacci in aria, come se li volessero appiccare ai
corni della luna. MENENIO - E che cos’è ch’è stato lor concesso? MARCIO -
Cinque tribuni, di lor propria scelta, a difesa della plebea saggezza. Uno dei
cinque è Giunio Bruto, un altro è Sicinio Voluto... e non so più. Ma, sangue
degli dèi, se stesse a me, questa canaglia, prima di spuntarla doveva
scoperchiare tutta Roma! Questi col tempo prenderan la mano sul potere
legittimo, e pian pian accamperanno sempre altre pretese come pretesto ad una
insurrezione. MENENIO - Certo, la cosa è sconcertante assai. MARCIO - (Alla
folla) A casa, a casa, avanti, spazzatura! Entra di corsa un MESSAGGERO
MESSAGGERO - Caio Marcio dov’è? MARCIO - Qui. Che succede? MESSAGGERO - Marcio,
è giunta notizia che i Volsci sono in armi. MARCIO - Ne ho piacere. Potremo
sbarazzarci finalmente di tanto nostro ammuffito superfluo. Ma ecco i nostri
più nobili anziani. Entrano COMINIO, TITO LARZIO, con altri SENATORI, poi
GIUNIO BRUTO e SICINIO VOLUTO PRIMO SENATORE - Marcio, quel che ci hai detto
ultimamente è confermato: i Volsci sono in armi. MARCIO - Ed hanno a capitano
Tullo Aufidio, uno che vi darà filo da torcere. Peccherò, ma m’invidio il suo
valore, e se fossi altro da quello che sono, vorrei essere lui, e nessun
altro. COMINIO - Vi siete già scontrati faccia a faccia. MARCIO - Se la metà
del mondo si scontrasse con l’altra, e Tullo Aufidio si venisse a trovar dalla
mia parte, io cambierei di fronte per guerreggiar con lui solo. È un leone a
cui m’inorgoglisce dar la caccia(25). PRIMO SENAT. - E allora, degno Marcio,
unisciti a Cominio in questa guerra. COMINIO - Me l’hai promesso, Marcio.
MARCIO - E lo mantengo. E mi vedrai ancora, Tito Larzio, volteggiare la lama in
faccia a Aufidio. Che hai? Ti vedo alquanto titubante. Ti tiri fuori? LARZIO -
No, Marcio, che dici? Appoggiato magari a una stampella e brandendo quell’altra
come un’arma, piuttosto che mancare a quest’impresa. MENENIO - Eh, buon sangue
romano... PRIMO SENAT. - Allora tutti insieme in Campidoglio, dove so che si
trovano ad attenderci i più degni ed illustri nostri amici. LARZIO - (A
Cominio) Tu avanti a tutti. (A Marcio) E tu dopo di lui. Noi seguiremo. A voi
la precedenza. COMINIO - (Prendendo sottobraccio Marcio e avviandosi) Nobile
Marcio! (Alla folla) A casa, via, sparite! MARCIO - Ma no, lascia che vengano
anche loro. I Volsci han molto grano. Portiamoli da loro, questi sorci, a
rosicchiare i lor granai, perbacco! Ribelli rispettabili, il valor vostro ha
buone prospettive. Seguiteci, vi prego. (I popolani si disperdono) (Gli altri
escono tutti, meno SICINIO e BRUTO) SICINIO - S’è visto mai un uomo più
arrogante di questo Marcio? BRUTO - Non ce n’è l’uguale. SICINIO - Quando ci
elessero tribuni... BRUTO - Già, notasti pure tu le labbra, gli occhi? SICINIO
- No, notai solo le sue insolenze. BRUTO - Oh, quanto a quelle, se perde le
staffe non esita ad insolentir gli dèi. SICINIO - O a schernire la vereconda
luna. BRUTO - Se questa guerra se lo divorasse! È diventato troppo
strafottente, per essere altrettanto valoroso. SICINIO - Uno con un carattere
così, se il successo gli fa montar la testa, arriverà a sdegnare la sua ombra e
pestarla coi piedi a mezzogiorno. Mi sorprende perciò che tanta boria giunga a
piegarsi tanto docilmente da farsi comandare da Cominio. BRUTO - La fama, cui
palesemente aspira, e che già gli ha concesso i suoi favori, non c’è mezzo
migliore per serbarla intatta ed anche accrescerla che operare in un posto dopo
il primo; così quando le cose vanno male, sarà colpa del comandante in capo,
abbia pur egli fatto tutto il meglio ch’è possibile a un uomo; ed a quel punto
gl’immancabili stupidi censori si daranno a gridar di Caio Marcio: “Ah, se
l’avesse comandata lui quest’impresa!”. SICINIO - Se invece vanno bene, la voce
della pubblica opinione, ch’è già così favorevole a Marcio, defrauderà Cominio
d’ogni merito. BRUTO - E così la metà di tutti i meriti che spettano a
Cominio andranno a Marcio, senza che questo li abbia meritati. SICINIO - Ma
muoviamoci. Andiamo un po’ a sentire che cosa si decide per la guerra e come
intende lui, col suo carattere, avventurarsi in questa impresa. BRUTO -
Andiamo. (Escono) SCENA Corioli, il Senato Entra TULLO AUFIDIO con alcuni
SENATORI PRIMO SENATORE - Così, tu pensi, Aufidio, che quei di Roma siano a
conoscenza dei nostri piani e delle nostre mosse? AUFIDIO - E voi non lo
pensate? Ci fu mai decisione in questo Stato ch’abbia potuto mandarsi ad
effetto prima che Roma se ne impadronisse? Ho notizie di là abbastanza fresche,
meno di quattro giorni, che mi dicono... Credo d’aver con me il dispaccio...
Eccolo (Legge) “Hanno ammassato un poderoso esercito, “ma non si sa per qual
destinazione, “se ad est oppure ad ovest... “Nella città la carestia è grande,
“e nel popolo c’è molto fermento. “Si dice che Cominio insieme a Marcio, “il
vecchio tuo nemico, odiato a Roma “più che da te, e insieme a Tito Larzio, “un
romano di altissimo valore, “saranno i comandanti designati “di quest’azione,
dovunque diretta. “Molto probabilmente “essa è contro di voi. State in
allarme”. PRIMO SENAT. - La nostra armata è in campo. Eravamo sicuri che da
Roma ci sarebbe venuta la risposta)... AUFIDIO - ... a giudicar non certo una
follia creder che i vostri piani di battaglia avessero a tenersi sotto
chiave finché non fosse proprio necessario ch’essi si rivelassero da soli(29);
invece, a quanto pare, erano noti a Roma sin da quando si covavano. Questa
brutta scoperta c’impone adesso d’abbassar la mira, ch’era di prendere molte
città prima almeno che Roma sapesse ch’eravamo scesi in guerra. SECONDO SENAT.
- Nobile Aufidio, assumi tu il comando, raggiungi le tue truppe, e lascia a noi
di difender Corioli. Se s’accampasser qui davanti a noi, porta su le tue forze
per cacciarli. Ma penso ch’essi, lo vedrai tu stesso, non si preparano contro
di noi. AUFIDIO - Ah, su ciò non illuderti. Le mie notizie son di fonte certa.
Dirò di più, già alcuni scaglioni del loro esercito stanno marciando, e
soltanto per questa direzione. Mi congedo, signori. Se Marcio ed io dovessimo
incontrarci, ci siamo già giurati di combattere fin che un non soccomba. TUTTI
- Il ciel t’assista! AUFIDIO - E protegga le vostre signorie. PRIMO SENAT. -
Addio! SECONDO SENAT. - Addio! TUTTI - Addio! (Escono tutti, i Senatori da una
parte, Aufidio dall’altra) SCENA III - Roma, la casa di Caio Marcio VOLUMNIA e
VIRGINIA siedono intente a cucire VOLUMNIA - Canta, figlia, ti prego, o almeno
mostrati un po’ meno triste! Se Marcio invece d’essere mio figlio fosse mio
sposo, sarei più felice di saperlo lontano a farsi onore, che averlo a
letto a gustarne gli amplessi, per quanto amore egli potesse effondere.
Quand’era ancora un tenero fanciullo, e l’unico rampollo del mio ventre, e la
sua fascinosa giovinezza gli attirava gli sguardi della gente; quando una
madre, neppure se un re l’avesse scongiurata un giorno intero, se lo sarebbe
fatto allontanare dalla vista nemmeno per un’ora, io, presaga da allora della
gloria cui uno come lui era votato (ché se brama d’onor non lo animasse,
sarebbe stato nulla più che un quadro da restare appiccato alla parete), ero
felice di lasciarlo andare in cerca di pericolo, dovunque egli potesse
incontrar fama. E lo mandai ad una cruda guerra, dalla quale però fece ritorno
col capo cinto di foglie di quercia. Ti dico, figlia, che di tanta gioia non
sussultai sentendo il primo annuncio che avevo partorito un figlio maschio,
quanta fu a veder la prima volta qual uomo vero egli s’era mostrato. VIRGINIA -
E se fosse caduto in quell’impresa, madre, che avreste fatto? VOLUMNIA - Avrei
serbato al posto di mio figlio la gloria del suo nome, e in essa avrei
ritrovato mio figlio. Senti quel che ti dico, cuore in mano: avessi pur dodici
figli maschi, tutti egualmente amati, e nessuno di loro meno caro del tuo e mio
buon Marcio, preferirei vederne morir undici nobilmente, in difesa della
patria, che saperne uno solo dissipare la vita nei piaceri, lontano dalle
fatiche di guerra. Entra un’ANCELLA ANCELLA - Padrona, è qui la nobile Valeria,
per farti visita. VIRGINIA - Madre, ti supplico, dammi licenza, vorrei
ritirarmi. VOLUMNIA - Niente affatto, non devi. Mi par già di sentire
qui, vicino, il rullo dei tamburi del tuo sposo, e di vederlo che trascina in
terra, presolo pei capelli, quell’Aufidio, ed i Volsci fuggire innanzi a lui
come bambini alla vista dell’orso... E vederlo che pesta i piedi a terra, così,
e gridare: “Avanti, voi, vigliacchi! Figli della paura, e non di Roma!” e
asciugarsi la fronte insanguinata con una mano inguantata di ferro, ed avanzar
pel campo di battaglia simile a un mietitore che s’imponga di mieter tutto il
campo per non perder la paga giornaliera. VIRGINIA - La fronte insanguinata?...
Oh, Giove, no! VOLUMNIA - Via, sciocca! Il sangue s’addice ad un uomo meglio
dell’oro sopra il suo trofeo(33). I seni d’Ecuba giovane sposa che allattavano
Ettore bambino non erano più belli della fronte di lui quando, sprezzante,
schizzava sangue per le greche spade. (All’ancella) Va’, di’ a Valeria che
siamo qui pronte a darle il benvenuto in casa nostra. (Esce l’ancella) VIRGINIA
- Proteggano gli dèi il mio signore dal terribile Aufidio. VOLUMNIA - Sarà lui,
che schiaccerà del fero Aufidio il capo col suo ginocchio e il collo col suo
piede. Rientra l’Ancella con VALERIA e un servo di questa VALERIA - Buongiorno
a voi, mie donne! VOLUMNIA - Cara amica! VIRGINIA - Son lieta di vederti.
VALERIA - Come state? Brave massaie, vedo. Un bel lavoro: che
ricamate?... E il bimbo come sta? VIRGINIA - Sta bene, buona amica, ti
ringrazio. VOLUMNIA - Preferirebbe stare tutto il giorno a veder spade ed udire
tamburi, piuttosto che star dietro al suo maestro. VALERIA - Parola mia, il
figlio di suo padre! Un frugoletto stupendo, davvero. Vi dirò, sono stata ad
osservarlo mercoledì scorso per una mezz’ora: che piglio risoluto! A un certo
punto l’ho visto correr dietro a una farfalla dalle alucce dorate; l’acchiappò,
poi la lasciò andar libera di nuovo, e lui di nuovo dietro, ruzzolando su e
giù, e rialzandosi, finché riesce ad acchiapparla ancora; e là, o l’avesse
urtato il ruzzolone, o che cos’altro, la serra tra i denti, così, e la sbrana.
E come l’ha ridotta, non vi dico. VOLUMNIA - Gli scatti di suo padre! VALERIA –
È così, vero, un bimbetto di razza. VIRGINIA - Un monello, mia cara. VALERIA -
Via, mettete da parte quel ricamo. Vo’ farvi fare, questo pomeriggio con me la
parte di massaie oziose. VIRGINIA - No, mi dispiace, non mi va uscire. VALERIA
- Non vuoi uscire? VOLUMNIA - Uscirà, uscirà! VIRGINIA - Davvero, no,
perdonami, Valeria, ma ho deciso di non varcar quell’uscio finché non sia
tornato il mio signore dalla guerra. VALERIA - Ma via, è irragionevole. che tu
t’imponga un simile confino. Su, devi pur deciderti a far visita a quell’amica
che sta per sgravarsi. VIRGINIA - Le faccio voti d’un felice parto e le
sto accanto con le mie preghiere; ma visitarla, adesso, no, non posso. VOLUMNIA
- Perché? VIRGINIA - Non per sottrarmi ad un fastidio, e tanto meno per poca
affezione. VALERIA - Vuoi farti proprio una nuova Penelope. Dicon però che
tutta quella lana ch’ella filò nell’assenza di Ulisse non servì che a riempir
di tarme Itaca. Eh, vorrei tanto che questa tua tela fosse sensibile come il
tuo dito, così potresti, almeno per pietà, smettere di bucarla con quell’ago!
Su, devi uscir con noi. VIRGINIA - No, cara amica, perdonami, ma io non uscirò.
VALERIA - Senti, se vieni, sulla mia parola, ti fornirò eccellenti notizie di
tuo marito. VIRGINIA - Ah, mia buona amica, è troppo presto ancora per averne.
VALERIA - T’assicuro, non scherzo. Ne abbiamo ricevute ieri sera. VIRGINIA -
Parli sul serio? VALERIA - In sacra verità. Ne ho sentito parlare un senatore.
Son queste: i Volsci sono scesi in campo, contro di loro è partito Cominio con
una parte delle nostre forze. Con l’altra tuo marito e Tito Larzio sono
accampati davanti a Corioli, la loro capitale. Son sicuri di prenderla, e
concludere presto la campagna. La notizia è sicura, sul mio onore. E dunque
avanti, non farti pregare, vieni con noi. VIRGINIA - Ti chiedo ancora scusa,
mia cara. Un’altra volta, tutto quello che vuoi, te lo prometto. VOLUMNIA
- Evvia, lasciala stare! Con l’umore che adesso si ritrova non farebbe che
rattristar noi pure. VALERIA - Lo penso anch’io. (A Virginia) Allora,
arrivederci. (A Volumnia) Andiamo, cara amica. (Volgendosi di nuovo a Virginia)
Evvia, ti prego, caccia la mutria, vieni via con noi. VIRGINIA - No, non
insistere. Non esco e basta. V’auguro buon divertimento. VALERIA - Addio.
(Escono Volumnia e Valeria. Virginia si richina sul ricamo) SCENA
L’accampamento romano davanti a Corioli Entrano CAIO MARCIO e TITO LARZIO con
un seguito di ufficiali e soldati con tamburi e vessilli. Un MESSAGGERO si fa
loro incontro. MARCIO - Arrivano notizie. Scommetto che si sono già scontrati.
LARZIO - Il mio cavallo contro il tuo che no. MARCIO - Accettato. LARZIO -
D’accordo, affare fatto. MARCIO - (Al Messaggero) Di’, s’è scontrato il nostro
generale col nemico? MESSAGGERO - Si trovano già in vista l’un dell’altro, ma
scontro ancora niente. LARZIO - Il tuo cavallo è mio! MARCIO - Te lo ricompro.
LARZIO - Nient’affatto, né te lo do in regalo. Te lo do in prestito per
cinquant’anni. (Al Trombettiere) Appella a parlamento la città. MARCIO -
(Al Messaggero) Quanto distan da qui i due eserciti? MESSAGGERO - Un miglio e
mezzo circa, non di più. MARCIO - Allora sentiremo il loro allarme d’inizio
della mischia, ed essi il nostro. Ora, Marte, ti prego, facci concludere alla
svelta qui, sì che da qui possiamo poi marciare, con le daghe di sangue ancor
fumanti, in aiuto dei nostri amici in campo. (Al Trombettiere) Avanti, la tua
squilla. (Tromba a parlamento. Sugli spalti delle mura di Corioli appaiono due
SENATORI con altra gente) (Ai due Senatori volsci) Tullo Aufidio è in città?
PRIMO SENATORE - No, né c’è uomo qui che men di lui vi tema: vale a dir meno
che niente. (Rullo di tamburi in lontananza) Ecco i nostri tamburi che chiamano
a battaglia i nostri giovani. E noi, piuttosto che lasciarci chiudere come in
trappola dentro queste mura, le abbatteremo. Queste nostre porte che sembrano
sbarrate fortemente, le abbiam fermate appena con dei giunchi. Si apriranno da
sé. (Frastuono di carica guerresca in lontananza) Laggiù, sentite? Aufidio è
là; potete immaginarlo il bel lavoro ch’egli sta facendo in mezzo al vostro
dimezzato esercito(35). MARCIO - Oh, s’azzuffano! LARZIO - Questo lor clamore
sia il nostro segnale. Qua le scale! (Soldati volsci escono improvvisamente dalle
mura) MARCIO - Non ci temono, questi, anzi, vedete, ci fanno addirittura una
sortita! Avanti allora, scudi avanti al cuore, e col cuore più saldo degli
scudi, all’assalto, mio valoroso Tito! Costoro mostrano d’averci a
spregio più di quanto potessimo pensare; e ciò mi fa sudare dalla rabbia!
All’assalto, all’assalto, miei soldati! Il primo che indietreggia, lo prenderò
per un soldato volsco, e gli farò assaggiare la mia spada! (Allarme di
battaglia. I Romani sono respinti sulle loro posizioni) (Marcio esce
combattendo, poi rientra, infuriato, gridando) Ah, vergogna di Roma! Branco
di... Vi s’attacchino addosso tutti i mali più pestilenti d’Africa! Carogne! Vi
ricoprano pustole e bubboni, sì che ancor prima di guardarvi in faccia vi
possiate infettar l’un con l’altro a un miglio di distanza controvento! Anime
d’oca dentro umane forme! Come avete potuto indietreggiare davanti a
un’accozzaglia di straccioni che perfino le scimmie sarebbero capaci di
sconfiggere? Per Plutone e l’inferno siete feriti tutti nella schiena, con le
facce slavate per la fuga e la paura che vi fa tremare! Pensate a riscattarvi,
scellerati! Ricacciateli indietro, o, per il cielo, mollo il nemico e vi
combatto contro! V’ho avvertiti. Tenete duro! Avanti! E li ricacceremo
alle lor tane, in braccio alle lor mogli, così com’essi ci hanno ricacciati
alle nostre trincee. Su, dietro a noi! (Altra carica. Questa volta i Romani
hanno la meglio, i Volsci sono volti in fuga, e Marcio li insegue da solo fino
alle porte della città) Ecco, le porte adesso sono aperte. Dimostratevi buoni
inseguitori. A chi insegue le apre la Fortuna, le porte, non a chi se la dà a
gambe! Guardate me, e fate come me. (Entra da solo in Corioli) PRIMO SOLDATO -
(Arrestandosi cogli altri davanti alla porta ancora aperta) È prodezza da
folle, io non lo seguo. SECONDO SOLD. - E io nemmeno. (Improvvisamente la
porta si chiude) Toh, guardalo là! L’han chiuso dentro. TUTTI – È in trappola,
sicuro! Entra TITO LARZIO LARZIO - Che succede di Marcio? TUTTI - Ucciso,
generale, non c’è dubbio. PRIMO SOLDATO - Stava inseguendo quelli che
fuggivano, è entrato insieme a loro, e quelli, subito, gli hanno richiuso la
porta alle spalle. È solo, contro tutta la città. LARZIO - Oh, nobile collega!
Tu che sensibilmente(36) in audacia superi l’insensibile tua spada, e resisti,
se pur essa si piega! Tu sei perduto, Marcio! Un diamante della più pura
luce(37) e dello stesso peso del tuo corpo non sarebbe gioiello più prezioso!
Tu eri, come nessun altro a Roma, il soldato voluto da Catone(38), fiero e
tremendo non solo a colpire, ma cui bastava solo un truce sguardo e un grido
della tua voce di tuono, per incuter tal tremito al nemico, come se tutto il
mondo fosse preso subitamente da tremor febbrile. Entra MARCIO, sanguinante,
inseguito da soldati volsci PRIMO SOLDATO - Oh, generale, guarda, guarda là! Ma
quello è Marcio! Corriamo a salvarlo, o qui si muore tutti insieme a lui!
(Zuffa. I Romani sopraffanno i Volsci ed entrano tutti in Corioli) SCENA V -
Corioli, una strada Entrano alcuni legionari romani recando in mano delle
spoglie di guerra PRIMO SOLDATO - (Mostrando un oggetto d’argento) Io questa
roba me la porto a Roma. SECONDO SOLD. - E io con quest’altra. TERZO
SOLDATO - (Gettando via il proprio bottino) Accidentaccio!... Questo l’avevo preso
per argento! (In lontananza, il fragore di cariche che continuano) Entra CAIO
MARCIO, sanguinante, con TITO LARZIO e un trombettiere. Al vederli, i soldati
con le spoglie di guerra escono. Marcio si ferma a seguirli con lo sguardo.
MARCIO - Eccoli là, questi eroi da strapazzo! L’onore di soldato(40) per
costoro non vale più d’una dracma crepata(41). Ferri vecchi, cuscini,
cucchiaiacci, giaccacce lise che perfino il boia seppellirebbe con chi le
portava(42), saccheggian tutto, questi manigoldi, tutto imballano, per portarlo
a casa, prima ancora che cessi la battaglia! Che crepassero tutti!... Senti,
senti che chiasso leva di là il generale(43)! A lui adesso! Là c’è un uomo,
Aufidio, ch’io odio sovra ogni altra cosa al mondo, e sta facendo strage di
Romani! Perciò, trattieniti, mio prode Tito, quanti soldati credi che ti
servano per tener la città; io, nel frattempo, con quelli che hanno l’animo di
farlo, accorro a dare man forte a Cominio. LARZIO - Ma tu sanguini, mio nobile
Marcio. Già troppo dura prova hai sostenuto, per combattere ancora. MARCIO -
Niente lodi. Quel che ho fatto non m’ha manco scaldato. Perdere un po’ di
sangue, col mio fisico, fa più bene che male. Voglio apparir così davanti a
Aufidio, e battermi con lui. LARZIO - Possa allora la bella dea Fortuna
innamorarsi di te follemente, e con la forza dei suoi incantesimi sviar da te
le spade dei nemici, ed il Successo diventar tuo paggio. MARCIO - E a te non
meno sia il Successo amico di quanto l’è a coloro cui Fortuna decide di
portare in alto. Addio. (Esce) LARZIO - Nobile Marcio! (Al trombettiere) Va’,
recati al Foro e chiama con la tromba a parlamento tutti i notabili della
città: che s’adunino in piazza, per conoscere i nostri intendimenti. (Escono)
SCENA VI -Il campo di Cominio Entra COMINIO alla testa di soldati romani in
ritirata COMINIO - Alt, riprendete fiato, miei soldati! Vi siete ben battuti!
Ne siamo usciti fuori da Romani, senza resistere spavaldamente, senza
vigliaccamente ritirarci. Ci attaccheranno ancora, son sicuro. Mentre ci scontravamo,
di quando in quando, portate dal vento, si sentivan le cariche dei nostri
dall’altra parte. Che gli dèi di Roma li vogliano guidare alla vittoria, come
speriamo vogliano con noi, così che al fine entrambi i nostri eserciti,
incontrandosi col sorriso in fronte, possano offrirvi, o dèi, i sacrifici di
ringraziamento! Entra un MESSAGGERO Che nuove porti? MESSAGGERO - Quelli di
Corioli, han fatto all’imprevisto una sortita e hanno dato battaglia a Larzio e
Marcio. Ho visto io stesso i nostri che venivano ricacciati indietro nelle loro
trincee; e son partito. COMINIO - Sarà come tu dici, ma non mi pare sia proprio
così. Da quanto tempo sei venuto via? MESSAGGERO - Da più di un’ora.
COMINIO - Ma da qui a Corioli non c’è nemmeno un miglio di distanza, e da poco
si sono uditi qui i lor tamburi. Come hai tu potuto metterci un’ora a
percorrere un miglio, e recar così tardi il tuo messaggio? MESSAGGERO - Sulle
mie tracce alcune spie dei Volsci m’hanno dato la caccia, e m’ha costretto a
fare un giro di tre o quattro miglia, per evitarle; se no, generale, t’avrei
recato già mezz’ora fa il mio messaggio. Entra MARCIO dal fondo Ma chi è
laggiù, che par come se l’abbian scorticato? O dèi! Dalla figura sembra Marcio!
L’ho visto già altre volte in quello stato. MARCIO - (Da lontano) Arrivo troppo
tardi? COMINIO – È la sua voce. Saprei distinguerla da altre mille, meglio di
quanto non sappia il pastore il fragore di un tuono da un tamburo. MARCIO -
(Avvicinandosi) Arrivo troppo tardi? COMINIO - Sì, se quel sangue che t’ammanta
tutto, è sangue tuo, e non sangue nemico(45). MARCIO - Ah, lascia ch’io ti
abbracci forte, Cominio, e con la stessa gioia con la quale abbracciai la mia
ragazza al declinar del giorno delle nozze, quando ardenti bruciavano le
fiaccole a farmi luce sulla via del talamo! COMINIO - Fior di tutti i
guerrieri! E Tito Larzio, che mi dici di lui? MARCIO - Ch’è tutto preso ad
emanar decreti di giustizia, chi condannando a morte, chi all’esilio, di chi
accettando il prezzo del riscatto, con chi indulgente, con chi rigoroso;
tiene Corioli, nel nome di Roma, al guinzaglio, come un levriero docile da
lasciar libero come si voglia. COMINIO - (Volgendosi intorno) Dov’è quel
miserabile che poc’anzi è venuto ad annunciarmi che il nemico v’aveva
ricacciati nelle vostre trincee?... Dov’è? Chiamatelo! MARCIO - Lascialo stare.
T’ha informato bene. A parte i nobili, la bassa forza - peste li colga! E gli
han dato i tribuni! - son fuggiti, come da gatto sorcio, davanti a scalcagnati
più di loro. COMINIO - E come avete fatto a prevalere? MARCIO - C’è tempo per
spiegartelo? Non credo. Ma il nemico dov’è? Siete rimasti, a quanto pare,
padroni del campo. Se no, perché cessaste di combattere? COMINIO - Finora,
Marcio, abbiamo combattuto in una posizione di svantaggio, e ci siam ritirati
di proposito, per poi rifarci e vincerli. MARCIO - Sai com’hanno schierato il
loro esercito? E dove han messo gli uomini migliori? COMINIO - Da quel che m’è
dato indovinare, in prima linea son quelli di Anzio, che sono i combattenti più
affidabili, e li comanda Aufidio, il vero cuore delle lor speranze. MARCIO - Ti
supplico, Cominio, per le battaglie combattute insieme, per il sangue che
insieme abbiam versato, pei giuramenti che ci siam fatti, fa’ in modo ch’io mi
trovi faccia a faccia con Aufidio e con tutti i suoi Anziati, e non tardare ad
attaccar battaglia; affrontiamoli subito, riempiamo di frecce l’aria, e di
spade brandite. COMINIO - Sarebbe meglio, penso, nel tuo stato, ch’io ti faccia
condurre ad un bel bagno e spalmarti d’unguenti le ferite; ma non saprò
giammai negarti nulla. Scegli tu stesso gli uomini più adatti a secondarti
nell’azione. MARCIO - Saranno solo quelli che mi diranno d’esservi disposti.
(Forte, ai soldati) Se c’è qualcuno qui - e sarebbe peccato dubitarlo - cui
piaccia questa tinta ond’io, vedete, sono imbrattato dalla testa ai piedi; se
c’è qualcuno che ha meno paura di rischiare la vita che il suo nome, che pensa
che una morte valorosa vale più d’una vita senza onore; e che la patria val più
che se stesso, egli solo, o quant’altri in mezzo a voi si trovino a pensarla
come lui, levino in alto il lor gladio, così, per dir che sono pronti a seguir
Marcio. (Tutti, con un grido, agitano in alto i gladii; alcuni sollevano Marcio
sulle loro braccia, altri lanciano in aria i berretti) Di me solo, di me fate
una spada(46)! Se queste vostre manifestazioni non son soltanto mostra, quale
di voi non vale quattro Volsci? Non c’è nessuno che non sia capace d’opporre al
grande Aufidio uno scudo robusto come il suo. Io vi ringrazio tutti, ma tra voi
debbo scegliere solo un certo numero. Gli altri daranno prova in altra impresa,
quando se ne presenti l’occasione. Ora vi piaccia di sfilarmi innanzi in
bell’ordine, sì ch’io possa scegliere subito quelli più adatti a seguirmi.
COMINIO - In marcia, miei soldati! Date prova d’avere quel coraggio che avete
sì altamente proclamato, e ciascuno dividerà con noi la sua parte di rischi e
di bottino. (Escono marciando) SCENA Davanti alle porte di Corioli TITO
LARZIO con un tamburino, un trombettiere e una guida è sul punto di partire per
recare aiuto a Cominio e Caio Marcio; con lui è anche un LUOGOTENENTE con altri
soldati LARZIO - (Al Luogotenente) Dunque, le porte siano ben guardate.
Attenetevi agli ordini impartiti. Se lo richiederò, mandate subito quelle
centurie in nostro aiuto. Il resto basterà a tenere per poco la città; per
poco, sì, ché se perdiamo in campo, la città non potremo più tenerla.
LUOGOTENENTE - Va bene, generale, sarà fatto(48). LARZIO - Muoviamo, dunque, e
chiudete le porte dietro di noi. (Alla Guida) Andiamo, battistrada, scortaci
fino al campo dei Romani. (Escono) SCENA - Il campo di battaglia. Allarme
d’assalto Entrano da parti opposte, AUFIDIO e MARCIO MARCIO - Con te e con
nessun altro voglio battermi, ché ti porto un odio quale nemmeno al peggiore
spergiuro. AUFIDIO - Siamo pari. Non c’è serpente in Africa ch’io aborrisca più
della tua fama e della tua rivalità. Difenditi(49)! MARCIO - Il primo che fa un
solo passo indietro muoia schiavo dell’altro, e poi gli dèi lo dannino in
eterno. AUFIDIO - Se mi vedi fuggire, urlami dietro, Marcio, come un cane corre
abbaiando dietro ad una lepre. MARCIO - Tullo, da meno di tre ore, io, da solo
ho combattuto contro tutti dentro le mura della tua Corioli, facendo tutto
quello che ho voluto. Lo vedi questo sangue di cui sono imbrattato? Non è
mio. Chiama a raccolta tutte le tue forze, adesso, se vuoi farne tu
vendetta. AUFIDIO - Fossi tu pure l’Ettore di Troia che della tua altezzosa
progenie fu la frusta(50), stavolta non mi scappi. (Si battono. Soldati volsci
accorrono in aiuto ad Aufidio, ma Marcio li ricaccia tutti indietro) (Ai suoi
soldati) Gente zelante, ma non valorosa, con questo vostro maledetto aiuto
m’avete sol coperto di vergogna! (Escono) SCENA Il campo romano Squilli di tromba
come segnali di carica. Trambusto e cozzo d’armi all’interno. Poi, segnale di
ritirata Entra da una parte COMINIO con l’esercito romano; dall’altra MARCIO
con un braccio al collo COMINIO - Marcio, foss’io a raccontare a te quel che
t’ho visto fare oggi in battaglia, tu stesso non mi presteresti fede. Ma lo
riferirò dove saranno a udirlo senatori che mesceranno lacrime a sospiri ad
ascoltarlo: dove grandi nobili ascolteranno, prima spallucciando tra loro
increduli, infine ammirati; dove matrone, dapprima atterrite, poi trepidanti
d’intimo piacere, vorranno udirmi raccontare ancora; dove gli ottusi, stupidi
tribuni, che insieme alla lor plebe puzzolente t’hanno in odio, dovranno a
malincuore pur esclamare: “Sien grazie agli dèi che Roma ha un tal soldato!”. Senza
dire che tu, ad un tal banchetto sei venuto per dare solo un morso, avendo già
mangiato a sazietà. Entra TITO LARZIO con l’esercito, di ritorno dall’aver
inseguito i Volsci in rotta LARZIO - (A Cominio, indicando Marcio) Generale, il
cavallo di battaglia è lui, noi siamo la sua bardatura. Lo avessi
visto!... MARCIO - Evvia, basta, ti prego! Anche mia madre, che pure ha
il diritto di vantar con orgoglio il proprio sangue, se si mette ad elogiarmi,
mi fa male. Ho fatto ciò che avete fatto tutti, cioè quanto ho potuto, come voi
animato da un solo sentimento, l’amor della mia patria. Chiunque abbia operato
con nient’altro che con la propria buona volontà, ha fatto esattamente come me.
COMINIO - Non sarai tu la tomba dei tuoi meriti(53). Roma deve sapere quanto
vali. Tener nascoste al mondo le tue gesta, sarebbe compiere un trafugamento
peggior d’un furto; ammantar di silenzio qualcosa che quand’anche proclamata
sui vertici più alti dell’elogio apparirebbe ancor ben più modesta della
realtà, non è minor delitto d’una calunnia. Perciò ti scongiuro: per quello che
tu sei, e non in premio di quello ch’hai fatto, ascoltami davanti al nostro
esercito. MARCIO - Le ferite ch’ho addosso mi dolgono a sentirsi ricordare.
COMINIO - Potrebbero, se non le ricordassimo, esulcerate dall’ingratitudine,
curarsi da se stesse con la morte. Di tutti quei cavalli - e ne abbiam
catturati d’assai buoni ed in gran numero - e del bottino conquistato sul campo
ed in città, noi ti assegniamo la decima parte, che potrai scegliere liberamente
prima che sia spartito tutto il resto. MARCIO - No, generale, grazie, ma non
potrei convincere il mio cuore ad accettare un dono sottobanco per pagar la mia
spada. Lo rifiuto, e reclamo per me semplicemente la parte che hanno avuto
tutti gli altri ch’hanno partecipato alla battaglia. (Lunga fanfara(55). Tutti
gridano: “Marcio!”, lanciando in aria i berretti e le lance. Cominio e Larzio
restano a capo scoperto) Questi strumenti che voi profanate non risuonino
più così a sproposito! Quando tamburi e trombe son ridotti, sul campo di
battaglia, a strumenti per adulare, allora si riempian le corti e le città di
genti dalle facce false e ipocrite. Quando l’acciaio si fa così morbido come la
seta addosso al parassita, s’elevi questo a simbolo di guerra(57)! Basta,
basta, vi dico! Sol perch’io non mi son lavato il naso che sanguinava, sol
ch’abbia abbattuto qualche misero scarto di natura - ciò che molti altri han
fatto come me senza la minima nota di elogio - ecco che voi mi portate alle
stelle con iperboliche acclamazioni, come s’io fossi un uomo che tenesse a
vedere la pochezza ch’ei sa di essere alimentata dalle lodi con salsa di
menzogne. COMINIO - Tu sei troppo modesto, e più spietato contro la tua fama
che grato a noi che te la tributiamo con tutto il cuore. Con tua buona pace,
però, se sei irritato con te stesso, ti metteremo le manette ai polsi come ad
uno deciso a farsi male, così potremo ragionare insieme senza incorrere in chi
sa quali rischi(58). Perciò sia proclamato a tutto il mondo, come a noi tutti
qui, che Caio Marcio di questa guerra è il vero vincitore(59), ed io per questa
sua benemerenza gli faccio dono del mio bel corsiero, animale famoso in tutto
il campo, e della relativa bardatura. E d’ora in poi per quanto egli ha
compiuto di valoroso davanti a Corioli, con unanime applauso ed un sol grido,
si chiami Caio Marcio “Coriolano”. (A Coriolano) Di questo titolo sii sempre
degno! TUTTI - (Con applausi e suon di trombe e tamburi) Sia gloria a Caio
Marcio Coriolano! CORIOLANO - Ora vado a lavarmi, e sul mio viso poi che
l’avrò pulito, osserverete se me l’avrete fatto o no arrossire. Comunque vi
ringrazio. (A Cominio) Intendo cavalcare il tuo destriero, ed il bel soprannome
che m’hai dato porterò sempre, e nel modo più degno, in cima al mio cimiero.
COMINIO - Ora torni ciascuno alla sua tenda: io, nella mia, prima di riposare,
scriverò a Roma del nostro successo. Tu, però, Tito Larzio, è necessario che
torni a Corioli, e mandi a Roma i loro più autorevoli, coi quali, per il bene
loro e nostro, si possa negoziare. LARZIO - Lo farò. CORIOLANO - Gli dèi
cominciano a prendermi a gioco: ho appena rifiutato d’accettare doni degni d’un
principe, ed eccomi costretto a mendicare qualcosa dal mio comandante in capo.
COMINIO - Già concessa, è tua. Di che si tratta? CORIOLANO - Io, a Corioli, più
d’una volta fui ospite di un certo pover’uomo che mi si dimostrò molto cortese.
L’ho visto adesso qui, tra i prigionieri, che mi gridava aiuto; in
quell’istante però m’è apparso innanzi agli occhi Aufidio, e l’ira ha sopraffatto
la pietà. Ecco, ti chiedo di lasciare libero quel mio buon ospite. COMINIO - E
bene hai chiesto! Fosse pur l’assassino di mio figlio, libero se n’andrebbe,
come l’aria. (A Larzio) Rilàsciaglielo, Tito. LARZIO - Il nome, Marcio?
CORIOLANO - Per gli dèi, me lo son dimenticato! Sono stanco, ho la mente
affaticata... Non avreste del vino? COMINIO - Alla mia tenda, Marcio, andiamo,
vieni. Il sangue sulla faccia ti si secca. Pensiamo intanto a questo,
adesso. Vieni. (Escono) Il campo dei Volsci Fanfara di cornette. Entra AUFIDIO
tutto coperto di sangue, con dei soldati AUFIDIO - La città è presa. PRIMO
SOLDATO - Ce la renderanno a buone condizioni. AUFIDIO - Condizioni!... Romano
vorrei essere, ché da volsco non sono più me stesso! Condizioni!... Che buone
condizioni può portare una resa a discrezione alla parte ch’è alla mercé
dell’altra? O Marcio, ho combattuto cinque volte con te, e cinque volte tu
m’hai vinto; e faresti altrettanto, son sicuro, c’incontrassimo pure tante
volte quante ogni giorno ci sediamo a mensa. Ma, pel cielo e la terra!, se
accadrà ch’io mi trovi un’altra volta faccia a faccia con lui, o io o lui! Il
mio spirito di rivalità ha perduto ogni scrupolo d’onore; ché, se prima pensavo
di schiacciarlo ad armi pari, spada contro spada, ora, sia l’ira a darmelo o
l’astuzia, non più, qualsiasi mezzo sarà buono a spacciarlo. PRIMO SOLDATO – È
il diavolo in persona. AUFIDIO - Più ardito, anche, se pur meno furbo. Il mio
valore è come avvelenato solo a soffrire d’essere oscurato per colpa sua; e per
causa di lui sarà costretto a fuggir da se stesso(62). Non ci sarà né sonno né
santuario(63), sia nudo o infermo, non ci sarà tempio né Campidoglio, non sacre
preghiere né cerimonia d’offerta agli dèi, - tutti freni al furore scatenato -
ad arginare l’odio mio per Marcio in forza del lor marcio privilegio e
dell’usanza che ancor li sostiene. Dovunque me lo trovi innanzi agli
occhi, foss’anche a casa mia, pure là, l’avesse pur mio fratello in custodia,
contro ogni legge d’ospitalità, laverò la mia mano inferocita nel suo cuore...
Tu ora va’ in città, informati in che modo è presidiata e chi son quelli
ch’essi hanno prescelto per inviarli a Roma come ostaggi. PRIMO SOLDATO - Tu
non ti muovi? AUFIDIO - Sì, sono aspettato al bosco dei cipressi. Là, ti prego
(è a sud della città, dopo i mulini) fammi sapere come stan le cose, ch’io
possa regolarmi su quale corso muovere i miei passi. PRIMO SOLDATO - E così
sarà fatto, comandante. (Escono) ATTO SCENA Roma, una piazza Entrano MENENIO e
i tribuni SICINIO e BRUTO, incontrandosi MENENIO - L’augure dice che per questa
sera avremo novità. BRUTO - Buone o cattive? MENENIO - Non certo tali da
piacere al popolo, che non vuol bene a Marcio. SICINIO - Natura insegna pure
agli animali a conoscere chi è loro amico. MENENIO - Già, guarda, infatti: a
chi vuol bene il lupo? SICINIO - All’agnello. MENENIO - Sì, appunto: per
sbranarselo; come vorrebbero fare con Marcio gli affamati plebei. BRUTO -
Quello è un agnello però che bela come un orso. MENENIO - Un orso, che vive
tuttavia come un agnello. Beh, voi siete due uomini maturi, ditemi solo questo.
I DUE TRIBUNI - Ossia, che cosa? MENENIO - Che vizi possono imputarsi a Marcio,
che voi due non abbiate in abbondanza? BRUTO - Nessuno gliene manca; anzi, di
tutti, si può dir che possieda ampia provvista. SICINIO - Specialmente di
boria. BRUTO - E di alterigia come nessun altro. MENENIO - Ah, questo sì che è
buffo! Lo sapete voi due come vi giudicano in città... Sì, qui, dico, in mezzo
a noi della fila di destra(67)? Lo sapete? I DUE TRIBUNI - Ebbene, come siamo
giudicati? MENENIO - Voi che parlate tanto d’alterigia... se ve lo dico non
andrete in collera? I DUE TRIBUNI - Bene, allora?... MENENIO - Del resto, poco
male, tanto si sa che a voi basta un’inezia per farvi uscire dai gangheri(68)...
Ma sì, lasciate pur andar la briglia sciolta sul collo ai vostri permalosi
umori, e andate in collera quanto vi pare, se ci provate gusto!... Proprio voi,
accusar d’alterigia Caio Marcio? BRUTO - Non siamo i soli. MENENIO - Ah, questo
lo so bene! Da soli voi sapete far ben poco; ed è perché son tanti ad aiutarvi
che riuscite a fare anche quel poco: troppo infantili sono i vostri mezzi
perché riusciate a far molto da soli. E venite a parlare d’alterigia! Ah,
poteste rivolger gli occhi in dentro, nei meandri dei vostri cervicali e fare
un bell’esame di coscienza! Magari lo poteste! BRUTO - Ebbene, allora? MENENIO
- Allora scoprireste un’accoppiata di magistrati scialbi, senza meriti, e
tuttavia boriosi, prepotenti, lunatici, bizzosi, e insomma stolidi, come non ce
n’è a Roma nessun altro. SICINIO - Va’ là, Menenio, che anche tu sei noto...
MENENIO - Sì, lo so, sono noto per essere un patrizio un poco estroso, al quale
piace un buon bicchier di vino(69) non annacquato nell’acqua del Tevere; uno di
cui si dice che ha il difetto di dar ragione al primo che reclama; uno che
prende fuoco facilmente; uno che bazzica più volentieri il nero deretano della
notte che non la chiara fronte del mattino. Io quel che ho dentro ce l’ho sulla
bocca e la malizia m’esce via col fiato. Se mi trovo con due politici (che non
posso dir certo due Licurghi(70) ) come voi, e volete darmi a bere qualcosa
ch’è sgradito al mio palato, fo boccacce. Non posso certo dire che le signorie
vostre han detto bene una cosa, se in ogni vostra sillaba io trovo tutto un
concentrato d’asino(71). E se sopporto con rassegnazione chi mi dice che siete
uomini seri e rispettabili, dico ch’è un bugiardo chiunque dica che le vostre
facce. son facce oneste. E ammesso che voi due riusciate a legger questo sulla
mappa del microcosmo della mia persona, ne segue forse che possiate dire di
conoscermi bene? E se pur fosse, qual difetto riescono a discernere le vostre
miopi facoltà visive in questa mia natura? BRUTO - Via, Menenio, pensiamo di
conoscerti abbastanza! MENENIO - No, voi non conoscete né Menenio, né voi
stessi, né niente! Siete solo ambiziosi di scappellate e inchini dalla parte di
misere canaglie. Siete capaci di buttare ai cani il tempo d’una intera
mattinata ad ascoltare la banale bega tra un’ortolana e un venditor di zaffi,
per rinviare poi ad altra udienza quella controversiuccia da tre soldi. E se,
mentre sedete ad ascoltare in una lite l’una e l’altra parte, v’accade d’esser
colti dalla strizza d’andar di corpo, fate mille smorfie, da somigliare a delle
marionette, innalzate bandiera rosso-sangue(74) contro chiunque non voglia
aspettare, e, bofonchiando in cerca d’un pitale, lasciate lì la causa nel bel
mezzo, a sanguinar più imbrogliata di prima; col risultato che la conclusione
che sarete riusciti ad apportare alla vertenza sarà stata in tutto l’aver
chiamato entrambi i litiganti “farabutti”. Che bella coppia, siete! BRUTO - E
tu? Va’ là che tu sei meglio noto come un brillante pigliaingiro a tavola che
come un altrettanto indispensabile occupante d’un seggio in Campidoglio!
MENENIO - Perfino i nostri bravi sacerdoti devono diventar delle linguacce se
son costretti ad aver a che fare con tipi della vostra bassa tacca. Quel che
sapete dire di più acconcio non vale l’agitarsi che nel dirlo fanno le vostre
barbe; quelle barbe che non meritan fine più onorata che d’andare a servir da
imbottitura al cuscino di qualche tappezziere o d’esser chiuse dentro a un
basto d’asino(79). E tuttavia dovete andar dicendo a destra e a manca che
Marcio è superbo; lui, che a stimarlo poco, val più di tutti i vostri
antecessori presi insieme, da Deucalione in giù(80); anche se casualmente, tra
coloro, ci sia stato qualcuno, tra i migliori, col mestiere di boia ereditario.
Ma buona sera alle eccellenze vostre; ché a star ancora a discuter con
voi, mandriani del plebeo bestiale armento, c’è rischio d’infettarsi le
cervella. Fa per allontanarsi, quando vede arrivare VOLUMNIA, VIRGINIA e
VALERIA. Bruto e Sicinio si fanno da parte mentre Menenio va loro incontro Oh, le
mie belle e nobili matrone! Non sarebbe più nobile la Luna, se mai fosse
terrena creatura. Dov’è che indirizzate in tanta fretta i vostri passi?
VOLUMNIA - Nobile Menenio, sta per giungere qui mio figlio Marcio. Lasciaci
andare, per Giove e Giunone! MENENIO - Ah, Marcio torna a casa? VOLUMNIA - Sì,
Menenio, e accompagnato dal più vivo applauso, e dai migliori auspici. MENENIO
- (Gettando in aria il berretto in segno di gioia) Oh allora, Giove, prenditi
il mio berretto, e ti ringrazio! Dunque, Marcio ritorna? VIRGINIA E VALERIA -
Sì, Menenio. VOLUMNIA - Guarda, ho qui una sua lettera; un’altra l’ha il
Senato, una sua moglie; e ce n’è un’altra, credo, anche per te, a casa tua.
MENENIO - Per me? Una sua lettera?... Uh, uh, stanotte, per tutti gli dèi, mi metto
a far ballar tutta la casa! VIRGINIA - Proprio così, una lettera per te. L’ho
vista con i miei occhi. MENENIO - Una sua lettera! Mi regala sette anni di
salute! Per sette anni farò boccacce al medico! A fronte d’una tale medicina,
la ricetta più eccelsa di Galeno è uno specifico da ciarlatano! Peggio d’un
beverone da cavallo! Non è mica ferito?... Perché sempre tornò a casa ferito le
altre volte. VIRGINIA - Oh, no, no, no, no, no! VOLUMNIA - Ferito, sì, ed
io di ciò rendo grazie agli dèi. MENENIO - Anch’io, se non lo sia di troppo
grave... Le ferite stan bene a chi si porta la vittoria in tasca. VOLUMNIA -
Lui se la porta in fronte, la vittoria, ed è la terza volta che mi torna col
capo cinto di foglie di quercia! MENENIO - E Aufidio? L’ha sistemato a dovere?
VOLUMNIA - Secondo quanto scrive Tito Larzio, si son scontrati, ma quello è
scappato. MENENIO - E per fortuna sua, gliel’assicuro! Ché se fosse rimasto,
io, al suo posto, non mi sarei voluto “aufidizzare” per tutto l’oro che sta
custodito dentro le casseforti di Corioli. Il Senato è informato? VOLUMNIA - (A
Virginia e Valeria) Andiamo, donne. VALERIA - Oh, sì, di lui si dicon
meraviglie. MENENIO - Meraviglie! Ma certo! E tutte vere(83), garantito!
VIRGINIA - Così voglion gli dèi! VOLUMNIA - Che siano vere? Toh, sentite
questa! MENENIO - Che siano vere, son pronto a giurarlo. Dov’è ferito?...
(S’interrompe vedendo avvicinarsi i due Tribuni) Vostre signorie, che Dio le
salvi, Marcio sta tornando, ed ha ancor più ragioni, questa volta, d’esser
superbo. (Alle due donne) Dov’è ch’è ferito? VOLUMNIA - Alla spalla ed al
braccio, qui, a sinistra. Ce ne saran di belle cicatrici da scodellare al
popolo quando concorrerà per la sua carica! Sette ne ha ricevute per il corpo
nel cacciare Tarquinio. MENENIO - Un’altra al collo, altre due alla coscia, e
fanno nove, ch’io conosca. VOLUMNIA - Ne aveva venticinque quando è iniziata
questa spedizione. MENENIO - Sicché con queste fanno ventisette: e ogni tacca
la tomba d’un nemico. (Uno squillo di tromba, poi fanfara da dentro, con
clamori di popolo) Ecco le trombe. VOLUMNIA - Sono i suoi araldi. Egli si porta
innanzi a sé i clamori, dietro si lascia lacrime. Nel suo possente braccio sta
di stanza il tenebroso spirito, la Morte. Esso avanza con lui, con lui
colpisce, e gli uomini periscono(86). Fanfara. Entrano, in pompa, COMINIO e
TITO LARZIO, in mezzo a loro CORIOLANO cinto il capo di foglie di quercia, indi
ufficiali, soldati e un ARALDO ARALDO - Sappia Roma che Marcio ha combattuto,
lui solo, tra le mura di Corioli, dove s’è guadagnato, con la gloria, un nome:
Coriolano, che va aggiunto, quale segno d’onore, d’ora in poi, a quello suo.
Sii benvenuto a Roma, illustre Caio Marcio Coriolano! TUTTI - Benvenuto,
illustre Coriolano! CORIOLANO - Basta! M’offende l’anima. Vi prego! COMINIO -
Guarda, Marcio, tua madre. CORIOLANO - Oh, tu, lo so, hai pregato gli dèi pel
mio successo. (S’inginocchia) VOLUMNIA - No, mio bravo soldato, alzati, su!
Marcio mio nobile, mio degno Caio... ora che t’hanno dato un soprannome
in onore delle tue grandi gesta, come debbo chiamarti... Coriolano? Mah, oh!,
ecco tua moglie! CORIOLANO - (A Virginia) Mio grazioso silenzio(87), ti saluto!
Piangi a vedermi tornar vittorioso, perché? Avresti atteso, per sorridere,
ch’io ti fossi tornato in una bara? Occhi, mia cara, come questi tuoi hanno a
Corioli le madri e le vedove rimaste senza i lor figli e mariti. MENENIO - E
ora t’incoronino gli dèi! CORIOLANO - Anche tu qui, Menenio(88)? (A Valeria)
Oh, mia gentile signora, perdonami. VOLUMNIA - Non so dove voltarmi... (A
Cominio) Generale, ben tornato anche a te... ed a voi tutti! MENENIO -
Bentornati, sì, centomila volte! Mi vien da piangere, mi vien da ridere, son
triste e allegro insieme. (A Coriolano) Bentornato! Un cancro(90) morda il
cuore alla radice a chi non è contento di vederti! Siete tre uomini che tutta
Roma dovrebbe amare; e invece, guarda un po’(91), abbiamo in casa dei meli
selvatici che non si vogliono far innestare al vostro gusto. Ma, a loro
dispetto, bentornati guerrieri! Noi l’ortica chiamiamo ortica, e chiamiamo
sciocchezza l’errore degli sciocchi. COMINIO - Sempre giusto, Menenio.
CORIOLANO - Sempre, sempre. ARALDO - (Alla folla) Largo, largo! CORIOLANO - (A
Volumnia e Virginia, prendendole per mano) La tua mano, e la tua. Prima di
ritirarmi in casa nostra(92), debbo rendere omaggio ai senatori dai quali
insieme col loro saluto ho ricevuto anche nuovi onori. VOLUMNIA - Sarò vissuta
fino a veder oggi realizzati i desideri miei ed avverate le mie fantasie. Manca
solo una cosa, ma non dubito che la nostra Roma te la concederà. CORIOLANO -
Ricordati, però, mia buona madre, che tuo figlio preferirà comunque d’essere
loro servo a modo suo, piuttosto che padrone a modo loro. COMINIO - Avanti, al
Campidoglio! (Trombe. Escono tutti in corteo, meno BRUTO e SICINIO) BRUTO -
Tutte le lingue parlano di lui, ed anche quelli che han la vista debole si
procurano occhiali per vederlo. La balia, per pettegolar di lui, lascia il
proprio marmocchio a urlare e piangere fino a venirgli il convulso; la
sguattera s’appunta attorno al suo bisunto collo la stola più vistosa e per
vederlo s’arrampica sul muro per guardarlo; gremiti stalli, banchine, finestre;
su i tetti, a cavalcioni sui comignoli gente d’ogni colore e d’ogni risma,
tutti presi dall’ansia di vederlo. Persino i flàmini(96) (che raramente è dato
di vedere per la via) si pigiano affannati tra la calca per conquistarsi un
posto in mezzo a loro. Le matrone le delicate guance solitamente protette da un
velo, sulle quali con sfida civettuola lottano il bianco e il rosa damaschino,
espongon oggi al lascivo saccheggio degli infuocati baci del Dio Sole(98):
un’atmosfera così surreale, da far pensar che un dio, per guidarlo, si sia
insinuato furtivo nelle sue facoltà umane, e gli abbia dato una forma divina.
SICINIO - Io, per me, già lo vedo fatto console. BRUTO - Allora sì che il
nostro tribunato potrà dormire i suoi sonni beati per tutto il suo mandato!
SICINIO - Non è uomo capace di tenersi in quella carica fino al termine. Finirà
col perderla. BRUTO - Ciò mi conforta. SICINIO - Puoi restarne certo. Il
popolo, che noi rappresentiamo, non fosse che per antico rancore, si scorderà,
alla minima occasione, di queste nuove sue benemerenze; e l’occasione l’offrirà
lui stesso, cosa ch’io tengo altrettanto per certa come la sua superbia
nell’offrirglielo. BRUTO - L’ho sentito giurare che se dovesse candidarsi a
console, mai lo farebbe scendendo nel Foro, e nemmeno umiliandosi a indossare
la lisa tunica dell’umiltà, né mostrando le sue ferite al popolo per mendicarne
i puzzolenti voti(99). SICINIO - Bene. BRUTO - Son sue parole. Oh, lui
piuttosto vi rinuncerebbe se lo dovesse chiedere altrimenti che per espressa
richiesta dei nobili e per unanime loro volere. SICINIO - Per me, io non
desidero di meglio: si tenga fermo in un tale proposito, e agisca in
conseguenza. BRUTO – È assai probabile che lo farà. SICINIO - E sarà allora,
come ci auguriamo, per lui andare a sicura rovina. BRUTO - Così dev’essere; se
no, per noi sarà la fine del nostro potere. Perciò sta a noi di ricordare al
popolo l’odio ch’egli nutrì sempre per loro; spiegar a tutti che, fosse per
lui, avrebbe fatto di ciascun di loro bestia da soma, ridotto al silenzio
i loro difensori; conculcate le loro libertà: perché li stima, quanto alla lor
capacità di fare, inferiori per facoltà d’intendere ed attitudine di stare al
mondo, ai dromedari usati per la guerra, a cui si somministrano foraggi sol
perché possano portare il carico, salvo ad ucciderli a bastonate quando sotto
quel carico stramazzano. SICINIO - Sì, appunto, questo, come tu lo dici va
ricordato al momento opportuno, quando la tracotante sua burbanza toccherà il
colmo sì da urtare il popolo (e l’occasione non potrà mancare se saremo noi
stessi a trascinarvelo, cosa altrettanto facile quanto aizzar dei cani contro
un gregge); e sarà questa l’esca che d’un colpo accenderà le loro vecchie
stoppie; e la loro fiammata l’oscurerà per sempre. Entra un MESSAGGERO BRUTO -
(Al Messaggero) Che c’è adesso? MESSAGGERO - Vengo a dirvi di andare in
Campidoglio. Sembra che Marcio sarà fatto console. Ho visto fare ressa, per
vederlo, pure i muti, ed i ciechi per udirlo; le matrone gettargli i loro
guanti mentre passava, e donne e giovinette le loro sciarpe, i loro fazzoletti;
i nobili inchinarsi avanti a lui come davanti alla statua di Giove, e il popol
tutto fare pioggia e tuono coi lor berretti in aria e i loro strilli... Cose
mai viste! BRUTO - Andiamo in Campidoglio. Occhi e orecchi attenti, e cuore
pronto a tutto. SICINIO - Eccomi, andiamo. (Escono) SCENA II -Roma, il
Campidoglio Due USCIERI stanno disponendo i cuscini sui seggi dei senatori
PRIMO USCIERE - Su, su, sbrighiamoci. Son qui che arrivano. Quanti sono a
concorrere per console? SECONDO USC. - Dicono tre, ma tutti son convinti che ad
ottenerlo sarà Coriolano. PRIMO USCIERE - Un tipo valoroso, ma superbo come
nessuno; e poi non ama il popolo. SECONDO USC. - Oh, quanto a questo se ne son
ben visti uomini illustri che te l’han lisciato, e mai gli sono entrati in
simpatia; così come altri ch’esso ha benvoluto senza saper perché. II popolo è
così: vuol bene o male a questo o a quello senza una ragione. Perciò, dunque,
riguardo a Coriolano, il fatto ch’egli non tenga alcun conto s’essi l’abbiano
in odio o in simpatia prova solo che li conosce bene, e glielo lascia intendere
ben chiaro con la sua signorile indifferenza. PRIMO USCIERE - Mah! Se davvero
non gliene importasse ch’essi l’abbiano o no in lor favore, dovrebbe mantenersi
in equilibrio, senza far loro né bene né male; invece va cercando il loro odio
più che non faccian essi a ricambiarglielo, e non trascura nessuna occasione
perch’essi possano scoprire in lui apertamente il loro gran nemico. SECONDO
USC. - Ha bene meritato della patria, e va detto altresì che la sua ascesa non
è stata per facili gradini come quella di chi, facendo mostra di sorrisi e
premure per il popolo, è riverito a inchini e scappellate dallo stesso, senza
aver fatto nulla per meritarsene stima e rispetto. Ma lui è riuscito così bene
a imprimere nei lor occhi i suoi meriti e in tutti i loro cuori le sue gesta,
che s’essi non volessero parlarne e rifiutassero di riconoscerli, si
renderebbero certo colpevoli di una forma di nera ingratitudine. Così
come il parlar male di lui sarebbe veramente una malizia destinata a smentirsi
da se stessa, perché chiunque si trovasse a udirla, la smentirebbe subito, con
sdegno. PRIMO USCIERE - Insomma, è un uomo di tutto rispetto. Basta, facciamo
luogo. Ecco che arrivano. Preceduti da squilli di tromba e da littori entrano i
SENATORI, i TRIBUNI DELLA PLEBE, poi CORIOLANO, MENENIO, COMINIO. Siedono tutti
sui loro scanni, i senatori da una parte, i tribuni dall’altra. Coriolano resta
in piedi MENENIO - Dunque, poiché dei Volsci s’è deciso, ed altresì di
richiamare in patria Tito Larzio, non resta che decidere in questa nostra coda
di seduta come ed in che misura compensare i servigi di chi sì nobilmente ha
combattuto per la propria patria. Perciò vi piaccia chiedere, reverendissimi e
saggi maggiori, a colui che ha la carica di console ed è stato alla testa
dell’esercito in questa nostra fortunata impresa, di farci una succinta
esposizione dell’encomiabile comportamento di Caio Marcio Coriolano; al quale
siamo qui riuniti per dar merito e decretare, in riconoscimento, onori che a
tal merito sian pari. (Coriolano si siede) PRIMO SENATORE - Bene, a te la
parola, buon Cominio. Non omettere alcun particolare per il timore d’apparir
prolisso; dicci anzi cose da farci pensare che sia piuttosto la nostra
repubblica a mancare dei mezzi convenienti a sdebitarsi, che l’animo nostro a
voler ch’essi sian quanto più alti. (Ai tribuni) A voi, capi del popolo,
chiediamo di prestar cortese orecchio, e di voler, dopo aver ascoltato, usar la
vostra influenza col popolo, per ottenere ch’esso sia concorde con quanto sarà
qui deliberato. SICINIO - Siamo qui convocati per discutere sopra una
materia che trova tutto il nostro gradimento; e siam di tutto cuore favorevoli
ad onorare e innalzare l’uomo ch’è l’argomento di questa assemblea. BRUTO - E
tanto più favorevoli a farlo saremo, s’egli si ricorderà di nutrir per il
popolo una stima un poco più benevola di quella che ha finora dimostrato.
MENENIO - Questo non c’entra! Non ci azzecca niente! Avresti fatto meglio a
stare zitto! Volete compiacervi, sì o no, di ascoltare Cominio? BRUTO -
Volentieri. Ma il mio avvertimento di poc’anzi era più pertinente all’argomento
di quanto non sia ora il tuo rabbuffo! MENENIO - Coriolano vuol bene al vostro
popolo; Ma non puoi obbligarlo fino al punto di diventar suo compagno di letto.
Parla, degno Cominio, ti ascoltiamo(102). (Coriolano, a questo punto, s’alza e
fa per lasciar la sala) Ehi, che fai?... Fermo là. Resta al tuo posto! PRIMO
SENATORE - Sì, siedi, Coriolano. Non dev’esser motivo di vergogna per te
ascoltare tutto ciò ch’hai fatto di nobile. CORIOLANO - Le vostre signorie mi
scuseranno, ma preferirei vedermi riaperte e doloranti le ferite, che stare ad
ascoltare come le ho ricevute... BRUTO - Non siano state le parole mie, voglio
sperare, a farti alzar dal seggio. CORIOLANO - No, se pur siano state le parole
spesso a farmi scappare anche da luoghi da cui nemmeno dure sciabolate
sarebbero riuscite a trattenermi. Tu non m’hai adulato, tuttavia, e le
parole tue non m’han ferito. Quanto però al tuo popolo, gli voglio bene per
quel ch’esso vale... MENENIO - Ti prego, avanti, siedi. CORIOLANO - Preferirei
restare sotto il sole, in ozio, a farmi grattare la testa quando suonasse
l’allarme di guerra, che starmene seduto qui, per niente, ad udir magnificare i
miei nonnulla. (Esce) MENENIO - (Ai tribuni) Ecco, capi del popolo, ditemi
adesso voi come un tal uomo potrebbe mai ridursi ad adulare il prolifico vostro
canagliume - ché di buoni ce n’è uno su mille - quando voi stessi l’avete ora
visto pronto a tutto rischiare per l’onore, piuttosto che prestare un solo orecchio
a sentire esaltare le sue gesta... Parla, avanti, Cominio. COMINIO - Mi
mancherà la voce. Troppo flebile è la mia per ridir di Coriolano le gesta(104).
Se il valore militare è nell’uomo la massima virtù, che nobilita assai chi la
possiede, l’uomo del quale mi accingo a parlare non ha chi possa stargli a pari
al mondo. Aveva sedici anni quando Tarquinio mosse contro Roma, e combatteva
già meglio di tutti; e il nostro dittatore di quel tempo che voglio ricordar
con ogni lode, l’osservava, col suo mento d’Amazzone(106), battersi in armi e
ricacciare in fuga avversari con baffi sulle labbra; e lo vide piantarsi a
gambe larghe su un Romano caduto, e in quella posa affrontare ed uccider tre
nemici. Poi si scontrò con lo stesso Tarquinio e, d’un sol colpo, lo forzò in
ginocchio. Tra i fasti di quel dì, quel giovinetto che avrebbe ben potuto
recitare una parte di donna sulle scene, si dimostrò il miglior soldato in
campo meritandosi, in degna ricompensa, una corona di foglie di quercia.
Entrato poi dall’età minorile nella virilità, simile al mare quando ingrossa, è
venuto su crescendo e in diciassette battaglie, da allora, ha rubato la palma a
ogni altra spada. Quanto poi a quest’ultima sua gesta, fuori e dentro le mura
di Corioli, devo dire che non ho parole adatte a riferirne come si conviene. Ha
fermato i suoi legionari in fuga, e col suo raro esempio ha volto in gioco
quella ch’era paura nei codardi. Davanti alla sua prua, come alghe sotto l’urto
d’un vascello lanciato a tutto vento, obbedienti, si piegavano gli uomini e
cadevano; la sua spada, come mortal sigillo lasciava il segno ovunque
s’abbattesse, Era, da capo a piedi, tutto sangue ogni suo gesto essendo
punteggiato dal grido dei morenti. Varcò da solo la fatale porta della città,
segnandola così col crisma d’un destino inesorabile; poi senza alcun aiuto ne
sortì, e, ricevuto un rapido rinforzo, piombò sopra Corioli con la forza d’un
fatal pianeta. Da quel punto, tutto era in mano sua, quando, di nuovo, il
lontano clamor della battaglia ferisce i suoi sempre vigili sensi: allora il
suo coraggio, raddoppiato, ravviva subito nella sua carne quel che v’era di
stanco e affaticato, e lì torna sul campo di battaglia, dove imperversa,
fumante di sangue, sopra i nemici come in una strage che non dovesse avere mai
più fine; e fino a che non potemmo dir nostro tutto il terreno e nostra la
città, non si concesse un attimo di tregua, anche solo per dare alcun sollievo
al respiro affannato. MENENIO - Degno uomo! PRIMO SENATORE - Sicuramente degno
degli onori che abbiamo in animo di conferirgli. COMINIO - Ha respinto
con sdegno la parte di bottino a lui spettante guardando a quegli oggetti di
valore come a vil spazzatura. Per se stesso desidera di meno di quello che la
stessa povertà potrebbe dargli, unico compenso alle sue gesta essendo a lui il
compierle; ed è contento di spendere il tempo della vita così, a lasciarlo
scorrere(111). MENENIO - Animo nobile! Lo si richiami. PRIMO SENATORE - (Ad un
ufficiale) Chiamate Coriolano. UFFICIALE - Sta venendo. Rientra CORIOLANO MENENIO
- Il Senato altamente si compiace, Coriolano, di nominarti console. CORIOLANO -
Son suoi la mia vita e i miei servigi. MENENIO - Rimane solo che tu parli al
popolo. CORIOLANO - Vi supplico, vogliate dispensarmi da quell’usanza. Io,
quella tunica, non me la sento di portarla addosso, d’espormi in piazza, nudo
della mia, e pregarli di darmi il lor suffragio solo a cagione delle mie
ferite... Esoneratemi da tutto questo. SICINIO - Il popolo dovrà pur dir la
sua, né vorrà consentir che si tralasci un solo punto del cerimoniale. MENENIO
- (A Coriolano) Non starli a contrastare, ora, ti prego. Confòrmati all’usanza
nelle forme da questa stabilite, così come hanno fatto puntualmente tutti
quelli che t’hanno preceduto. CORIOLANO – È una parte che mi farà arrossire a
recitarla: un “diritto del popolo” che si farebbe bene ad abolire. BRUTO - (A
parte, a Sicinio) Hai sentito? CORIOLANO - ... Sbracarmi avanti a loro a
vantarmi che ho fatto questo e quello, mettere in mostra le mie cicatrici ormai
indolori, che dovrei nascondere, come chi se le fosse procurate solo per
guadagnarsi i loro voti... MENENIO - E via, non farne un caso proprio adesso!
(Ai due tribuni) Ed ora a voi, tribuni della plebe, raccomandiamo la nostra
delibera perché la sosteniate presso il popolo; e al nostro nobile novello
console auguriamo felicità ed onore. TUTTI - Felicità ed onore a Coriolano!
(Squilli di tromba. Escono tutti nell’ordine in cui sono entrati, tranne i due
tribuni) BRUTO - Ecco, hai sentito con quali intenzioni vuol trattar con il
popolo. SICINIO - Ho sentito, e speriamo che il popolo capisca. Andrà a
sollecitare il lor suffragio con l’aria d’uno che tenga a disdegno che siano
loro a doverglielo dare. BRUTO - Andiamo, adesso. Bisogna informarli di quanto
è stato qui deliberato. So che sono nel Foro ad aspettarci. (Escono) Entra un
gruppo di CITTADINI SCENA Roma, il Foro PRIMO CITTADINO - Insomma, se ci chiede
il nostro voto, rifiutarglielo certo non possiamo. SECONDO CITT. - E invece sì;
basterà che vogliamo! TERZO CITTADINO - Il potere di farlo ce l’abbiamo: ci
manca quello di tradurlo in atto. Perché se mette in mostra le ferite e ci
spiattella tutto quel che ha fatto ci tocca cedere la nostra lingua a
quelle, e far che parlino per noi. Così se si presenta avanti a noi a raccontar
le sue nobili gesta, come facciamo a non significargli la nostra generosa
gratitudine? L’ingratitudine è cosa mostruosa, e per il popolo mostrarsi
ingrato vuol dire farsi mostro da se stesso; e noi tutti, che ne facciamo
parte, passeremo così per tanti mostri. PRIMO CITTADINO - E ci vuol poco a far
ch’essi ci vedano non meglio di così. Quando insorgemmo per il grano, non esitò
un istante proprio lui, Coriolano, a definirci “una plebaglia dalle molte
teste”. TERZO CITTADINO - Oh, quanti ci chiamavano così! E non perché la testa
fra tutti noi c’è chi la tiene grigia, chi castana, corvina e chi pelata, ma
son le nostre idee che sono tutte di color diverso. Del resto penso anch’io,
per parte mia, che se le idee di ciascuno di noi dovessero uscir tutte da un
sol cranio, sciamerebbero in ogni direzione, a est, a ovest, a nord e a sud; e
il solo punto su cui accordarsi circa la direzione dove andare, sarebbe di
volarsene ciascuna per tutti i quattro punti cardinali. SECONDO CITT. - Così
pensi? Ed in quale direzione volerebbe la mia, secondo te? TERZO CITTADINO -
Beh, intanto non è facile, alla tua, di venirsene fuori come l’altre, chiusa
com’è in una zucca di legno; ma direi che, se uscisse in libertà, tirerebbe
filato verso sud. SECONDO CITT. - E perché proprio là? TERZO CITTADINO - Per
andare a disfarsi nella nebbia; dove si scioglierebbe per tre quarti mischiata
con vapori puzzolenti, mentre la quarta, presa dallo scrupolo, ritornerebbe a
te, per aiutarti a sceglierti una moglie. SECONDO CITT. - A te la voglia di
sfottere il prossimo non manca mai. Ma fa’ pure, fa’ pure! TERZO CITTADINO -
Allora, siete tutti risoluti a dargli il vostro voto? Anche se, poi, sì o no,
non cambia niente. La maggioranza è quella che decide. Però se si mostrasse un
po’ più incline al popolo, più degno uomo di lui non c’è mai stato. Eccolo che
viene, e con la tunica dell’umiltà. Entra CORIOLANO. Ha indosso la “tunica
dell’umiltà”. Con lui è MENENIO Stiamo a vedere come si comporta... Ma non
restiamo qui tutti ammassati; avviciniamolo, pochi per volta, a uno, a due, a
tre, dove si ferma... Deve rivolgere la sua richiesta a ciascuno di noi,
singolarmente: perché ciascuno di noi ha diritto di dargli il voto con la
propria voce. Perciò statemi dietro, vi mostrerò come dovete fare quando l’avvicinate.
TUTTI - Ti seguiamo. (Escono tutti) MENENIO - No, hai torto, mio caro, a far
così! Ma non hai mai saputo che persone degnissime l’han fatto, prima di te?
CORIOLANO - Che cosa devo fare? “Ti prego, cittadino...”. Dannazione! Non
me la sento proprio di forzare la lingua ad un tal passo! “Guarda le mie
ferite, cittadino, le ho buscate al servizio della patria, quando non pochi dei
compagni vostri se la davano a gambe schiamazzando al primo rullo dei nostri
tamburi...”. MENENIO - O dèi, per carità, poveri noi! Non devi tirar fuori
tutto questo! Tu non devi far altro che pregarli che si ricordino di te.
CORIOLANO - Di me... Loro!... Che s’impiccassero piuttosto! Di me magari
si dimenticassero, invece, come fanno coi precetti di virtù che gli predicano i
preti! MENENIO - Tu rischi di mandare tutto all’aria. Ti lascio adesso. Vedi di
parlare a quella gente in maniera garbata. CORIOLANO - Sì, chieder loro di
lavarsi il viso e di pulirsi i denti. (Esce Menenio) (Entrano il SECONDO e il
TERZO CITTADINO) Eccone appunto un paio. (Al Terzo Cittadino) Cittadino, tu sai
il motivo per cui io sto qui. TERZO CITTADINO - Già. Ma dicci che cosa ti ci
porta. CORIOLANO - I miei meriti. SECONDO CITT. - I tuoi meriti? CORIOLANO -
Già, non certo il mio volere personale. TERZO CITTADINO - Ah, non il tuo
volere... CORIOLANO - Nossignore; non fu mai voler mio importunare la povera
gente chiedendo io l’elemosina a loro. TERZO CITTADINO - Beh, devi pur pensare
che se noi plebe ti diamo qualcosa speriamo d’ottener qualcosa in cambio.
CORIOLANO - Bene, ditemi allora, per favore, qual è il prezzo che date al
consolato. SECONDO CITT. - Che tu ce lo richieda gentilmente. CORIOLANO - E
gentilmente, amico, io ti chiedo di farmelo ottenere. Ho qui delle ferite da
mostrarti, che puoi vedere, se lo vuoi, in privato. (All’altro) Il tuo buon
voto, amico. Che mi dici? TERZO CITTADINO - Che l’avrai, degno Marcio.
CORIOLANO - Affare fatto. Ecco già due magnifici suffragi mendicati. Ho
intascato l’elemosina. Statevi bene! (Volta loro le spalle, come per andarsene)
TERZO CITTADINO - Ma che strano modo! SECONDO CITT. - Mah, se dovessi darglielo
di nuovo, chissà... Comunque, beh, lasciamo stare. (Escono i due cittadini)
Entrano il QUARTO e il QUINTO CITTADINO CORIOLANO - (Andando loro incontro) Di
grazia, amici, se mai s’accordasse col tono stesso dei vostri suffragi il fatto
ch’io sia nominato console, eccomi qua vestito come richiesto dalla
consuetudine. QUARTO CITT. - Hai meritato bene della patria, ma hai anche non
bene meritato. CORIOLANO - Cos’è, un indovinello? QUARTO CITT. - Pei suoi
nemici sei stato un flagello, ma per i suoi amici una tortura(115). Tu, la
povera gente, in verità, non l’hai tenuta mai in simpatia. CORIOLANO - Tanto
più meritevole per questo dovresti ritenermi, perché “povero” non sono stato
nel volerle bene(116). Comunque, cittadino, d’ora in poi l’adulerò il mio
grande fratello, il popolo, per conquistar da lui maggiore stima: ché questo
per loro vuol dire “esser gentili con il popolo”. E dal momento che la lor
saggezza preferisce guardare al mio cappello piuttosto che al mio cuore, d’ora
innanzi li tratterò col più ipocrita inchino e con la più leccosa scappellata.
Vale a dire che imiterò, brav’uomo, le smancerie di certi capipopolo, che
elargirò con generosità a quanti gradiranno di riceverne. Perciò, vi supplico,
fatemi console. QUINTO CITTADINO - Noi speriamo poterti avere amico; perciò ti
diamo di buon cuore il voto. QUARTO CITT. - Ti sei buscato un sacco di ferite
per la tua patria... CORIOLANO - Non suggellerò col mostrarvele la lor
conoscenza, che del resto già avete. Farò gran conto dei vostri suffragi, e
così non vi disturberò più(117). I DUE CITTADINI - Gli dèi ti diano felicità,
te l’auguriamo molto cordialmente. (Escono i due cittadini) CORIOLANO - Che
dolcezza di voti!... Meglio morire, crepare di fame che andare accattonando una
mercede che pur ci spetta, perché meritata. Ed io dovrei restarmene qui, fermo,
in questa veste da sembrare un lupo, a questuar dal primo Tizio e Caio voti dei
quali non c’è alcun bisogno? Dicono che così vuole l’usanza. Ma se dovessimo in
tutte le cose far quel che vuol l’usanza, la polvere che copre il tempo andato
mai non sarebbe più spazzata via, ed ammucchiando errore sopra errore si
formerebbe tale una montagna di tutti errori, che la verità sarebbe poi
impedita a sovrastarla. Ah, no! Piuttosto che starmene qui a recitar la parte
del buffone, che l’alto ufficio e i relativi onori vadano ad altri, più di me
disposto ad eseguire quel che vuol l’usanza. Ma son già a mezza strada... Ho sopportato
la prima metà, farò anche l’altra...(118) Entrano il SESTO e SETTIMO CITTADINO
Ma ecco altri voti. (Ai due) I vostri voti, amici. Pei vostri voti io ho
combattuto. Pei vostri voti ho vegliato la notte. Pei vostri voti porto su di
me almeno due dozzine di ferite. Pei vostri voti ho visto e raccontato diciotto
fatti d’arme. Pei vostri voti ho fatto tante cose qual più qual meno, ma tutte
importanti. I vostri voti, sì, per esser console. SESTO CITTADINO - S’è ben
portato, e non gli può mancare il voto d’ogni cittadino onesto. SETTIMO CITT. -
Sia console, perciò. Gli diano gli dèi felicità e faccian ch’egli voglia bene
al popolo. SESTO CITTADINO - E così sia! Che gli dèi ti proteggano, nobile
console! (Escono) CORIOLANO - Che fior di voti! Entrano MENENIO, SICINIO e
BRUTO MENENIO - Sei stato qui per il tempo prescritto, ed i Tribuni, col voto
del popolo, ora ti conferiscono il potere. Resta che con le insegne della
carica tu ti presenti subito al Senato. CORIOLANO - Allora è fatto? SICINIO -
Hai fatto la richiesta secondo il rito: il popolo ti accetta ed è già convocato
in assemblea per la ratifica. CORIOLANO - Dove, al Senato? SICINIO - Sì,
Coriolano, là. CORIOLANO - Posso togliermi allora questa veste? SICINIO -
Certo. CORIOLANO - Allora non esito un istante, così potrò riconoscer me
stesso. Poi andrò al Senato. MENENIO - T’accompagno. (Ai due tribuni) Voi
che fate, venite via con noi? BRUTO - Restiamo qui ad attendere il popolo.
SICINIO - Ci rivediamo dopo. (Escono Coriolano e Menenio) Ce l’ha fatta. È suo,
e a giudicar dagli sguardi ha il cuore in festa. BRUTO - Ma con quale sdegno
portava indosso quell’umile veste!... Che facciamo? Lo congediamo il popolo?
(Entrano parecchi CITTADINI) SICINIO - Ebbene, miei compagni? Avete dunque
preferito lui? PRIMO CITTADINO - Abbiamo dato a lui il nostro voto. BRUTO -
Voglia il cielo che sappia meritarla la vostra preferenza. SECONDO CITT. – È
quel che dico. Perché a mio povero, modesto avviso, quello mentre ci domandava
il voto, si beffava di noi. TERZO CITTADINO - E come no! Ci ha preso pei
fondelli a tutto spiano! PRIMO CITTADINO – È il suo modo di fare; quello. No,
lui non s’è fatto gioco di nessuno. SECONDO CITT. - Qui non ci sei che tu a dir
così, fra tutti noi. Ci doveva mostrare i segni delle sue benemerenze: le
ferite buscate per la patria... SICINIO - Ma l’avrà fatto, spero, son sicuro.
TUTTI - Niente affatto! Nessuno qui le ha viste. TERZO CITTADINO - Ha detto,
sì, che aveva le ferite, ma che poteva mostrarle in privato; e col
berretto in mano, ecco, così, agitandolo in aria come a beffa, “Vorrei - dice -
esser console; “e antica usanza senza i vostri voti “me l’impedisce. I vostri
voti, dunque”. E quando glieli abbiamo assicurati, lui: “Vi ringrazio del
vostro favore, “grazie dei vostri carissimi voti. “Ora che avete espresso i
vostri voti, “con voi non ho più nulla da spartire”. Non è questa una beffa?
SICINIO - Ma eravate incoscienti a non capirlo? O, avendolo capito, tanto
ingenui da dargli il voto come dei bambocci? BRUTO - Eppure v’avevamo
ammaestrati - e avreste ben potuto ricordarglielo - che quando non aveva alcun
potere, piccolo servitore dello Stato, vi si mostrò nemico e parlò sempre
contro i vostri diritti e privilegi di cui godete in seno alla repubblica; e
adesso, giunto che fosse al potere e a governar lo Stato, se seguitasse ad
essere lo stesso il nemico giurato dei plebei i vostri voti potrebbero essere
per tutti voi tante maledizioni. E ancora questo dovevate dirgli: che come le
sue gesta valorose gli meritavano una ricompensa non inferiore a quella cui
aspira, così la sua generosa natura dovrebbe spingerlo a pensare a voi, che
l’avete votato, e volgere in affetto il malvolere, facendolo patrono e amico
vostro. SICINIO - A parlargli così, come, del resto, vi fu consigliato, avreste
scosso le sue fibre all’intimo e saggiato il suo animo; e strappato gli avreste
forse una bella promessa, da vincolarlo alla prima occasione; oppure, al
peggio, avreste esasperato quel suo caratteraccio insofferente incapace di
assumersi un impegno che lo leghi a qualsiasi adempimento; e, fattegli così
perder le staffe, avreste poi potuto trar partito dalla sua collera, per
non eleggerlo. BRUTO - Ma come avete fatto a non vedere con che aria palese di
disprezzo vi domandava il voto, mentre gli abbisognava il vostro appoggio? E
come avete fatto a non pensare che quel disprezzo vi potrà recare chi sa quale
malanno, ora ch’egli ha il potere di schiacciarci? Diamine! Solo corpi e nessun
cuore tutti quanti? E avevate sol la lingua per sbraitare, come avete fatto,
contro il buonsenso per cacciarlo via? SICINIO - E dire che altre volte, nel
passato, avete pur rifiutato il consenso a postulanti in cerca di suffragi; ed
ora regalate come niente i vostri voti tanto ricercati ad uno che nemmeno ve li
ha chiesti in buona forma, e per di più schernendovi? TERZO CITTADINO -
Comunque ancora non è confermato(121). Possiamo sempre revocargli il voto.
SECONDO CITT. - E lo revocheremo! Io, per me, posso accordare cinquecento voci
su questa nota. PRIMO CITTADINO - Ed io due volte tante. E tutti i loro amici
in sovrappiù. BRUTO - Presto, allora muovetevi di qui e andate a dire a questi
vostri amici che hanno scelto per diventare console uno che torrà loro ogni
diritto, e non darà lor voce più che a quei cani bastonati apposta per abbaiare,
e a questo mantenuti. SICINIO - Fateli riunire in assemblea, e unanimi, su più
serio giudizio, revocate questo inconsulto voto. Battete sul suo orgoglio e
sull’antico odio che ha per voi; e non dimenticatevi, per giunta, con quale
aria sprezzante egli indossò l’umile veste, e si schernì di voi nell’atto
stesso di chiedervi il voto. Dite loro che è stato il vostro affetto,
memore dei servigi da lui resi, a non farvi capire, in quel momento, il suo
comportamento provocante, offensivo per voi, indecoroso, volutamente da lui
conformato all’odio radicale che vi porta. BRUTO - Gettate su di noi, vostri
Tribuni, tutta la colpa: che nulla abbiam fatto - dite - perché non sorgessero
ostacoli alla sua elezione presso il popolo. SICINIO - E che l’avete eletto per
conformarvi ad un nostro comando più che per vostra vera convinzione; che le
vostre coscienze, in conseguenza, preoccupate più di conformarsi a ciò che ad
esse era stato ordinato, che a ciò che esse avrebbero dovuto, v’hanno indotto
ad esprimere quel voto contro la vostra propria inclinazione. Insomma, date a
noi tutta la colpa. BRUTO - Sì, non vi fate scrupolo per noi. Dite che vi
abbiam fatto su di lui, per istruirvi sulla sua persona, lunghi discorsi: come,
ancora imberbe, abbia iniziato a servire la patria, e seguitato a farlo poi
negli anni; da qual nobile stirpe egli discenda, la nobilissima gente
“marciana”, da cui discese pur quell’Anco Marcio nipote di re Numa, che regnò a
Roma dopo il grande Ostilio; donde provennero e Publio e Quinto che con la costruzione
di acquedotti ci addussero la nostra acqua migliore; e suo grande avo fu quel
Censorino, così meritamente nominato per esser stato due volte censore, per
voto popolare. SICINIO - Ed un tal uomo discendente da sì nobile stirpe e
onusto per di più di tanti meriti per ricoprire una sì alta carica, siamo stati
noi stessi, noi tribuni, a segnalarlo alla vostra attenzione; ma voi, dopo aver
bene soppesato il suo comportamento nel presente a confronto con quello del
passato, avete tutti in lui riconosciuto un vostro irriducibile nemico, e
gli avete pertanto revocato un gradimento dato troppo in fretta. BRUTO - E non
sareste giunti mai a tanto - battete sempre sopra questo tasto - se non vi
avessimo incitato noi. TUTTI - Sì, sì, faremo come dite voi. Ormai qui quasi
tutti si son pentiti della scelta fatta. (Escono i cittadini) BRUTO - Ora non
c’è che da lasciarli fare. Meglio rischiare adesso una sommossa, piuttosto che
tirarsi addosso il peggio, che certamente verrà, se aspettiamo. Se lui, per
questo loro voltafaccia, si facesse, con quella sua natura, prendere dalla
rabbia, attenti noi a saper profittar dell’occasione e trar vantaggio da questa
sua collera. SICINIO - Al Campidoglio. Troviamoci là prima che vi affluisca
tutto il popolo. Dovrà apparire - come in parte è - tutta e soltanto loro
iniziativa, cui noi ci siamo solo limitati a fornire uno sprone dall’esterno.
(Escono) ATTO TERZO SCENA I -Roma, una strada Fanfara. Entrano CORIOLANO,
MENENIO, COMINIO, TITO LARZIO e SENATORI CORIOLANO - (A Larzio) Tullo Aufidio
sicché è riuscito a rimettere in piedi un nuovo esercito? LARZIO - Sì,
Coriolano, ed è questo il motivo che ci ha deciso a negoziar l’accordo.
CORIOLANO - I Volsci son lì, dunque, come prima, pronti a saltarci addosso
appena s’offra loro l’occasione. COMINIO - Sono sfiancati, Console: è difficile
che rivedremo, noi di nostre età, garrire ancora i lor vessilli al vento.
CORIOLANO - (A Larzio) Tu Aufidio l’hai visto? LARZIO - Venne da me sotto
salvacondotto, solo per dirmi peste e vituperio contro i Volsci, che avevano
ceduto così vilmente la loro città. S’è ritirato ad Anzio. CORIOLANO - T’ha
parlato di me? LARZIO - Sì, Coriolano. CORIOLANO - In che modo? Che ha detto?
LARZIO - Ha ricordato come si sia spesso con te scontrato solo, spada a spada;
che per la tua persona nutre un odio come per nessun altro al mondo; e inoltre
che sarebbe disposto - ha dichiarato -, ad impegnarsi tutto che possiede, così,
senza speranza di riscatto, pur di potersi dir tuo vincitore. CORIOLANO - E
vive ad Anzio, adesso? LARZIO - Ad Anzio, sì. CORIOLANO - Come vorrei che
mi s’offrisse il destro d’andare là a scovarlo dove sta, e affrontare il suo
odio faccia a faccia! Ma ben tornato, Larzio. Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO
Ecco, guardate: questi sono i Tribuni della plebe, le lingue della sua volgare
bocca. Sento per loro un disprezzo istintivo perché si bardano d’autorità
contro ogni nobile sopportazione. SICINIO - (A Coriolano) Fermo! Non andar
oltre! CORIOLANO - Che vuol dire? BRUTO - Che è rischioso per te andar oltre.
Fèrmati. CORIOLANO - Che diavolo di voltafaccia è questo! MENENIO - Che
succede? COMINIO - Non ha forse il consenso dei nobili e del popolo? BRUTO -
Del popolo, Cominio, proprio no. CORIOLANO - Son voti di fanciulli allora
quelli ch’essi m’hanno dato? UN SENATORE - Tribuni, andiamo, fateci passare.
Coriolano deve recarsi al Foro. BRUTO - Il popolo è in fermento. Non lo vuole.
SICINIO - Fermi, o qui si finisce in un tumulto. CORIOLANO - Il vostro gregge,
eh? E deve dunque questa gentaglia aver diritto al voto, se prima te lo danno,
e poi, subito dopo, lo rinnegano? E voi, che state a fare? Voi che siete la
loro stessa bocca, perché non governate i loro denti? O siete stati voi ad
aizzarli? MENENIO - (A Coriolano) Calma, sta’ calmo! CORIOLANO - (Ai Senatori)
È tutta una manovra, una combutta preparata ad arte, per piegare la volontà dei
nobili. Se li lasciate fare, rassegnatevi a vivere con gente incapace così di
governare, come d’esser comunque governata. BRUTO - Non parlar di combutta. Il
popolo vocifera di rabbia perché ha capito che l’hai preso in giro; e perché
quando fu distribuito, ultimamente, a loro il grano gratis, fosti tu solo ad
alzare la voce, e a coprire d’insulti e vituperi chiunque fosse dalla loro
parte, tacciandolo di basso opportunista, adulatore, nemico dei nobili.
CORIOLANO - Ebbene? Questa è cosa risaputa. BRUTO - Non tutti la sapevano, di
loro. CORIOLANO - E così hai pensato ad informarli. BRUTO - Informarli, chi,
io? CORIOLANO - Non sei tu il tipo ben tagliato per simili faccende? BRUTO -
Non meno bene che per far le tue meglio che possa farle tu. CORIOLANO - Ma
certo! Perché dovrei io diventare console? Per tutti i fulmini, datemi il tempo
di diventare un nulla come te, e fatemi tribuno, tuo collega! SICINIO - Tu
porti ancora addosso troppo di quello che dispiace al popolo; se ti preme
raggiungere il tuo scopo, devi chieder la strada, che hai smarrita, con uno
spirito più malleabile, o non sarai giammai tanto virtuoso da poter esser
console, e nemmeno da stare accanto a lui (Indica Bruto) come tribuno.
MENENIO - Calmi, state calmi! COMINIO - Il popolo è ingannato, è subornato.
Questo ondeggiare tra il sì e il no non è degno di Roma, e Coriolano non merita
davvero un’ostruzione così disonorante posta ad arte lungo il piano cammino del
suo merito. CORIOLANO - Venirmi adesso a parlare del grano! Quello che ho detto
allora lo ripeto! MENENIO - Non adesso, però, per carità. UN SENATORE - No,
Marcio, non in tanta eccitazione. CORIOLANO - Sì, invece, adesso! Sì, per la
mia vita! I miei nobili amici mi perdonino; ma la fetida, bassa minuzzaglia
voltagabbana s’ha da render conto ch’io non son uomo che sappia adulare, si
specchi in me, piuttosto, e in ciò che dico. Lo ripeto: a cercar di
assecondarla, noi non facciamo che dare alimento alla malerba della ribellione,
dell’insolenza, della sedizione contro il Senato; per la qual zizzania noi
stessi abbiamo arato, seminato e consentito che si propagasse mescolandosi a
noi, gente d’onore, cui non manca virtù né autorità, salvo quella ceduta a dei
pezzenti. MENENIO - Bene, ora basta. UN SENATORE - Basta, ti preghiamo.
CORIOLANO - Basta? E perché? Com’io ho sparso sangue per la mia patria senza
aver paura, così nessuna forza impedirà ai miei polmoni di coniar parole, fino
a diventar marci, contro questi pestiferi miasmi di cui tutti temiamo
d’infettarci avendo tuttavia fatto del tutto per buscarceli. BRUTO - Tu parli
del popolo né più e né meno che se fossi un dio, che sia pronto a punirlo, e
non un uomo affetto dalle stesse debolezze. SICINIO - Ed è bene che il
popolo lo sappia. MENENIO - Sappia che cosa? Questa sua sfuriata? CORIOLANO -
Sfuriata!... Foss’io calmo, per Giove!, come il sonno a mezzanotte, sarei
sempre di questa stessa idea! SICINIO – È un’idea velenosa che tale deve
rimaner dov’è, senza infettare gli altri intorno a sé. CORIOLANO - “Deve”!...
Sentitelo questo Tritone dei lattarini(124)! Avete preso nota di codesto suo
“deve” perentorio? COMINIO – È contro regola, senz’altro. CORIOLANO - “Deve”! O
buoni ma incautissimi patrizi, voi, gravi ed imprudenti Senatori, voi che avete
permesso qui a quest’Idra di scegliersi un suo proprio magistrato che con
questo suo “deve” perentorio, qual rumoroso corno di quel mostro non si fa
scrupolo di minacciare d’esser capace di deviare altrove, entro altra fossa, la
vostra corrente, e di far suo l’attuale suo letto! Se è vero ch’ei possiede un
tal potere, s’inchini allora a lui la vostra ignavia; ma se non l’ha, svegliate
dal suo sonno la vostra mite e rischiosa indulgenza. Se saggezza è in voi, non
comportatevi come volgari sprovveduti sciocchi; se saggezza non v’è, fateli pur
sedere accanto a voi. Sarete voi la plebe, ed essi i senatori; e tali sono, già
ora se, quando le loro voci son mischiate alle vostre, il loro accento è il
tono che prevale nell’insieme. Si scelgono il lor proprio magistrato, e questo
è uno che sbatte in faccia il suo “deve”, quel suo “deve” plebeo, contro
un’assise che nemmen la Grecia ebbe mai di più seria e veneranda. Ma, tutto
questo, per il sommo Giove!, riduce i consoli a ben poca cosa! E mi
sanguina il cuore a pensare che quando due poteri sono in sella
contemporaneamente, sì che nessun dei due può prevalere, nel loro vuoto può
infilarsi il caos, e far che si distruggano a vicenda! COMINIO - Al Foro,
dunque, andiamo. CORIOLANO - Chiunque siano ch’abbian consigliato di far
distribuir gratuitamente il grano dei depositi statali, come s’è fatto qualche
volta in Grecia... MENENIO - Via, via, non ne parliamo più. CORIOLANO -
(Seguendo il suo discorso) (... ma in Grecia ben più ampi poteri aveva il
popolo...), io dico che costoro, chi essi siano, hanno nutrito la
disobbedienza, cibato la rovina dello Stato. BRUTO - E il popolo dovrebbe dare
il voto ad uno che si esprime in questi termini? CORIOLANO - Al popolo dirò le
mie ragioni, che valgono ben più dei loro voti. Essi sanno benissimo che il
grano non doveva servir da ricompensa, essendo noto che per meritarlo nessun
servizio avevano essi reso. Chiamati per la guerra, in un momento in cui il
cuore stesso dello Stato correva gran pericolo, ricusaron perfino di varcare le
porte di città; non si può dire che sia stato codesto un tal servizio da
meritare loro il grano a ufo. Né, partiti che furon per la guerra, hanno
parlato poi a lor favore le sedizioni e gli ammutinamenti in cui han fatto prova
- oh, allora sì! - di tutto il lor valore di guerrieri. Così come plausibile
motivo non potevano certamente offrire per così generosa elargizione le assurde
accuse da loro lanciate contro il Senato, l’una dopo l’altra. E adesso? Come
questo milleteste digerirà nel suo multiplo ventre la cortesia che gli ha
fatto il Senato? Dai fatti si può già pronosticare quali saranno le loro
parole: “L’abbiamo chiesto, siamo maggioranza, e ci hanno accontentati, per
paura”. Così noi degradiamo i nostri seggi, ed offriamo motivo alla marmaglia
di dir che quanto facciamo per loro lo facciamo soltanto per paura; il qual
ragionamento, con il tempo, scardinerà le porte del Senato, e allor
v’irromperanno le cornacchie a dar di becco all’aquile. MENENIO - Via, basta!
BRUTO - Basta ed avanza. CORIOLANO - No, ce n’è di più! E sia suggello a quanto
sto per dire tutto quello che al mondo c’è d’umano e di divino sopra cui
giurare. Questo nostro bicipite potere dove una delle teste, con ragione,
disdegna l’altra che, senza ragione insulta, dove nobiltà di nascita e titoli e
saggezza di governo non possono decidere un bel niente senza aver ottenuto il
“sì” o il “no” dell’ignoranza di un’intera classe, è costretto per forza a
trascurare i reali interessi dello Stato per dare spazio a fanfaluche inutili;
talché, sbarrato qualsiasi proposito, ne vien che nulla è fatto più a
proposito. Perciò vi supplico - se la paura non ha offuscato in voi ogni
saggezza - voi, cui le fondamenta dello Stato stan troppo a cuore perché
dubitiate della necessità di migliorarle; voi che a una vita lunga preferite
una vita dignitosa, e siete pronti a medicine estreme per un corpo malato,
destinato altrimenti a morte certa, strappate via di colpo, di violenza, questa
lingua dal corpo dello Stato, ch’essa non abbia più a leccar quel dolce ch’è
anche il suo veleno! La vostra indecorosa umiliazione rende monco ogni sano
giudicare, priva lo Stato di quell’unità che dovrebb’essere sempre la
sua, rendendolo impotente ad operare, come vorrebbe, pel bene comune, per colpa
di un tal male, che lo domina. BRUTO - Ha detto quanto basta(132). SICINIO - Ha
parlato da vero traditore, e come tale ne dovrà rispondere. CORIOLANO -
Miserabile! La tua stessa bile ti seppellisca!... Che può fare il popolo con
queste zucche vuote di tribuni? Finché avranno costoro come guida, si
sentiranno tutti esonerati dall’obbedire a maggior dignità. A quella carica li
hanno eletti in un momento di piena rivolta, quando non la giustizia ma
soltanto la forza era la legge. I tempi son cambiati, per fortuna: oggi si dica
che dev’esser giusto quello che è giusto, e si getti alle ortiche il lor
potere. BRUTO - Questo è tradimento! Flagrante! SICINIO - Console costui?
Giammai! BRUTO - Gli Edili(134), oh! Venite! Entra un EDILE (Indicandogli
Coriolano) Sia arrestato! SICINIO - (All’Edile) Va’ e riunisci il popolo in
comizio. (Esce l’edile) (A Coriolano) Ed in nome del popolo, io qui t’arresto
come traditore, sovvertitor di modi e di costumi, e nemico del popolo romano!
T’ordino di obbedirmi e di venire subito con me, a risponder di quanto sei
accusato. CORIOLANO - (Respingendo con forza Sicinio) Sta’ lontano da me,
vecchio caprone! SENATORI e PATRIZI - Ci facciamo garanti noi per lui.
COMINIO - (A Sicinio, che cerca d’impadronirsi di Coriolano) Ehi, vecchio, giù
le mani. CORIOLANO - Via, carogna, o ti sparpaglio l’ossa dai tuoi stracci!
Entrano i due EDILI con una folla di PLEBEI SICINIO - Aiuto, cittadini! MENENIO
- Cittadini, più rispetto, dall’una e l’altra parte! SICINIO - (Indicando alla
folla Coriolano) Ecco colui che intende spodestarvi d’ogni potere! BRUTO -
Arrestatelo, edili! PLEBEI - Abbasso! A morte! UN SENATORE - L’armi! L’armi!
L’armi! (Zuffa generale attorno a Coriolano) TUTTI A VICENDA - Senatori!
Patrizi! Cittadini! Sicinio! Bruto! Coriolano!... MENENIO - Pace!!!! Calmatevi
un momento!... Che succede? Non ho più fiato... Ma qui si va diritti alla
rovina!... Non posso più parlare... Voi, tribuni, parlate voi al popolo. (A
Coriolano) Sta’ calmo. Sicinio, parla tu. SICINIO - Ascoltatemi, gente mia...
Silenzio! PLEBEI - Udiamo il nostro tribuno. Silenzio! Fate silenzio! Parla,
parla, parla! SICINIO - Le vostre libertà sono in pericolo. Marcio, che
avete appena eletto console, vuol togliervele tutte. MENENIO - No così! Ma tu
invece di spegnere la fiamma, l’attizzi! UN SENATORE - Demolisci la città, in
questo modo, tu la radi al suolo! SICINIO - Che cos’è la città, se non il
popolo? PLEBEI - Giusto, Sicinio, la città è il popolo! SICINIO - E noi, per
loro unanime consenso, siamo i loro legali difensori. PLEBEI - E tali
resterete! MENENIO - Resteranno, sì, certo, resteranno. COMINIO - Questa è la
via per demolirla al suolo, la città, e tirarne il tetto giù fino alle
fondamenta, seppellendo tra ammassi di rovine tutto quello che ancora ci rimane
d’ordinato. SICINIO - Costui merita morte. BRUTO - Qui è in gioco la nostra
autorità, o la perdiamo. Ed in nome del popolo, nella cui potestà noi fummo
eletti a suoi legittimi rappresentanti, noi dichiariamo qui che Caio Marcio è
meritevole di morte, subito. SICINIO - (Agli Edili) Arrestatelo dunque; che
aspettate! Lo si conduca alla Rupe Tarpea, e che sia di lassù precipitato, alla
sua fine! BRUTO - Prendetelo, Edili! PLEBEI - Marcio, arrenditi! MENENIO -
Ancora una parola, Tribuni, ve ne supplico. EDILI - (Alla folla)
Silenzio! MENENIO - (Ai Tribuni) Siate per una volta quelli che sempre volete
apparire: sinceri amici della vostra patria; e procedete con ponderazione a ciò
che invece con tanta violenza, a quanto vedo, intendete distruggere. BRUTO -
Menenio, questi tuoi gelidi modi, che sembrano consigli di prudenza son un
veleno pericolosissimo per un male violento come questo. (Agli Edili) Avanti,
impadronitevi di lui, ho detto, e conducetelo alla Rupe! CORIOLANO -
(Sguainando la daga) No, morirò qui stesso. Ci sarà pur qualcuno in mezzo a voi
che m’ha visto combattere. Beh, avanti, venga a provare adesso su di sé quel
che m’ha visto fare. MENENIO - Via quell’arma! Tribuni, allontanatevi un
momento. BRUTO - (Agli Edili) Afferratelo! MENENIO - Aiuto a Marcio, aiuto!
Nobili, giovani, vecchi, aiutatelo! PLEBEI - A morte! A morte! A morte!
(Mischia. I tribuni, gli edili e i plebei sono respinti ed escono) MENENIO - (A
Coriolano) Va’, torna a casa, presto! Via da qui. Altrimenti sarà rovina piena.
UN SENATORE - (A Coriolano) Parti da qui. CORIOLANO - Dobbiamo tener duro!
Siamo, amici e nemici, in pari numero. MENENIO - S’ha da arrivare a
questo? UN SENATORE - Gli dèi non vogliano! (A Coriolano) Nobile amico, ti
prego, adesso tornatene a casa; lascia a noi di curar questa faccenda. MENENIO
- Perché è una piaga che portiamo addosso tutti quanti, e che tu non puoi
curare. Va’, ti scongiuro. COMINIO - Vieni via con noi. CORIOLANO - Come vorrei
che fossero costoro barbari - come sono in realtà, se pure furono partoriti a
Roma - e non Romani, come non lo sono, fossero pure stati partoriti di sotto al
portico del Campidoglio!... MENENIO - Va’, va’, non affidare alla tua lingua la
tua rabbia, per quanto giusta sia. Lasciamo tempo al tempo. CORIOLANO - (Senza
ascoltarlo) Ne abbatterei quaranta, in campo aperto! MENENIO - Io pure saprei
farne fuori un paio, tra i lor migliori: i tribuni, ad esempio. COMINIO - Ma
qui la sproporzione è troppo grande, tra noi e loro, e il coraggio è follia
quando pretende di tenere in piedi un edificio che sta per crollare. È meglio
che tu vada via di qua, prima che ci ritorni la plebaglia. La sua furia oramai
è come un fiume cui si sia posto un blocco, che, straripando fuor da tutti gli
argini entro i quali scorreva normalmente, travolge e abbatte tutto quel che
incontra. MENENIO - Sì, va’ via, te ne supplico... Vedrò io se il mio antico
spirito potrà servire a qualcosa di buono con gente che sì poco ne possiede.
Questo strappo dev’esser rattoppato con una pezza di qualsiasi tinta.
COMINIO - Sì, Marcio, andiamo via. (Escono Coriolano e Cominio) UN PATRIZIO -
Quest’uomo ha danneggiato seriamente le sue fortune di uomo politico. MENENIO –
È che la sua natura è troppo nobile per conformarsi alle cose del mondo. Mai
s’indurrebbe ad adular Nettuno pel suo tridente, o Giove pel suo tuono. Ha in
bocca quel che ha in cuore: la sua lingua deve dar fiato a ciò che detta il
cuore; e se s’infuria, non ricorda più d’avere udito la parola “morte”. (Rumori
da dentro) Eccoli. Qui l’affare s’ingarbuglia! UN PATRIZIO - Come vorrei
saperli tutti a letto! MENENIO - Sì, nel letto del Tevere!... Che diamine,
però! Che gli costava di parlar loro in modo più civile? Entrano BRUTO e
SICINIO con la folla dei plebei SICINIO - Dove sta quella vipera cui piacerebbe
di vedere Roma spopolata, per esser tutta lui? MENENIO - Tribuni... SICINIO -
Giù dalla Rupe Tarpea merita d’essere precipitato con la forza di mani
inesorabili! S’è messo contro la legge, e la legge altro giudizio non dovrà
concedergli che la severa giustizia del popolo, da lui costantemente
disprezzato. PRIMO CITTADINO - Imparerà così che i nobili Tribuni son la bocca
del popolo, e noi siamo le sue mani. PLEBEI - Dovrà impararlo, certo! MENENIO -
(A Sicinio) Amico, ascolta... SICINIO - (Alla folla) Silenzio, olà! MENENIO
- Non gridate “Sterminio!”, quando invece dovreste limitare la vostra caccia in
modesti confini. SICINIO - Di’ piuttosto, Menenio, la ragione perché hai
favorito la sua fuga. MENENIO - Sentimi bene: come so a memoria i meriti del
Console, so dirti ad uno ad uno i suoi difetti. SICINIO - “Il Console”! Di che
console parli? MENENIO - Di Coriolano, diamine! SICINIO - Lui, Console! PLEBEI
- No, no, no, no, no, no! MENENIO - (Alla folla) Se, con licenza dei Tribuni e
vostra, brava gente, mi si vorrà ascoltare, mi basta dirvi una parola o due: ad
ascoltarla non vi costerà più d’una lieve perdita di tempo. SICINIO - Ebbene
parla, ma senza lungaggini, perché qui siamo tutti ben decisi a sbarazzarci
subito e per sempre di questo velenoso traditore. Esiliarlo sarebbe già
rischioso per noi; ma trattenerlo vivo qui, sarebbe morte certa per noi tutti.
Perciò s’è decretato in assemblea ch’egli sia messo a morte questa notte.
MENENIO - Ahimè, non vogliano gli dèi benigni che la nostra famosa, illustre
Roma, la cui riconoscenza verso i figli che d’essa han meritato è registrata
nel grande libro dello stesso Giove, divori, come madre snaturata, le proprie
creature! SICINIO - È un cancro che dev’essere estirpato! MENENIO - No,
Sicinio, se mai è solo un arto, malato, ma è la morte ad amputarlo; curarlo, è
facile. Che male ha fatto egli, a Roma, per esser messo a morte? Il
sangue che ha perduto a imperversare sui nostri nemici - e posso dire ch’è
assai più di un’oncia di quello che gli scorre nelle vene - l’ha ben versato
per il suo paese; che ora, ad opera della sua patria debba perdere quello che
gli resta, sarebbe una vergogna per noi tutti, chi lo facesse e chi lo
permettesse, una macchia che porteremmo addosso per sempre, fino alla fine del
mondo. SICINIO - Questo vuol dir mistificare i fatti! BRUTO - Semplicemente il
contrario del vero. Tutte le volte ch’egli ha dato prova di amare il suo paese,
il suo paese l’ha ben onorato. SICINIO - Se un piede va in cancrena, non
s’esita davvero ad amputarlo per i servizi resi in precedenza. BRUTO - Basta
con le parole. (Agli Edili) Ricercatelo a casa, ed arrestatelo, ché la sua
infezione è contagiosa, e può diffondersi tra l’altra gente. MENENIO - Ancora
una parola! Una parola!... Questo vostro furore piè-di-tigre(140) quando vedrà
qual danno avrà prodotto tanta precipitosa avventatezza, vorrà legarsi dei pesi
di piombo ai calcagni, ma sarà troppo tardi! Processatelo per le vie legali, se
volete evitar che le fazioni si scatenino, perché è molto amato, e che alla
grande Roma tocchi in sorte d’essere messa a sacco dai Romani. BRUTO - Se così
fosse... SICINIO - Ma che vieni a dirci! Non abbiam forse avuto un primo
assaggio del suo rispetto per l’autorità? Non ha forse percosso i nostri Edili?
Aggredito noi stessi?... Andiamo, via! MENENIO - Considerate questo che
vi dico: egli è uno cresciuto tra le guerre da quando seppe impugnare una
spada, e non ha avuto mai chi gli insegnasse ad usare un linguaggio raffinato.
Mischia farina e crusca, tutto insieme, senza badarci. Datemi licenza d’andar
da lui, ed io ve lo conduco, parola mia, dove potrà rispondere in piena calma
ed in forma legale, ad assoluto suo rischio e pericolo. PRIMO SENATORE – È
questo il modo, nobili Tribuni, di trattare la cosa umanamente; l’altro sarebbe
via troppo cruenta, e di sbocco imprevisto e imprevedibile. SICINIO - Ebbene,
allora, nobile Menenio, sii tu il rappresentante della plebe. (Alla folla)
Mastri, giù l’armi. BRUTO - Ma senza disperdervi. SICINIO - E radunatevi di
nuovo al Foro. (A Menenio) Ti aspetteremo là; e se torni senza condurre Marcio,
procederemo come stabilito. MENENIO - Ve lo conduco. (Ai Senatori) Mi sia
consentito di chiedere la vostra compagnia. Dovrà venire, o ne seguirà il
peggio. PRIMO SENATORE - Sì, vi prego, rechiamoci da lui. (Escono tutti) SCENA II
-Roma, in casa di Coriolano Entra CORIOLANO con alcuni PATRIZI CORIOLANO - Mi
facciano crollare il mondo addosso, mi minaccino morte sulla ruota, o
trascinato da cavalli bradi, o accatastino l’una sopra l’altra sulla Rupe
Tarpea dieci colline, sì che non sia più manifesto agli occhi il fondo stesso
di quel precipizio, io con loro, sarò sempre così! PRIMO PATRIZIO - E ciò ti
rende di tanto più nobile. CORIOLANO - Quello che mi stupisce è che mia madre
non approvi più questa mia condotta, lei che ha sempre chiamato quella gente
servitoracci imbottiti di lana(143), cose fatte per essere comprate e rivendute
poi per quattro soldi(144) o per mostrar nelle loro assemblee zucche pelate,
bocche spalancate, ferme inchiodate lì, in ammirazione, se solamente alcuno del
mio rango si levasse a parlar di pace o guerra. Entra VOLUMNIA Di te parlavo
appunto: perché vuoi ch’io mi mostri più tenero? Dovrei tradir la mia vera
natura? Dimmi piuttosto che ad agir così non faccio che mostrarmi quel che
sono. VOLUMNIA - Ah, figliolo, figliolo, tu, il potere avrei voluto l’avessi
indossato(145) prima di consumarlo, come hai fatto... CORIOLANO - Lascia
andare. VOLUMNIA - ... e restare pur te stesso senza sforzarti tanto di
ostentarlo. E ti saresti posto meno ostacoli ai tuoi fini, se non li avessi
esposti così scopertamente agli occhi loro prima ch’essi perdessero il potere
di frapporti essi stessi degli ostacoli. CORIOLANO - Vadano tutti quanti ad
impiccarsi! VOLUMNIA - Ah, per me, vadano a bruciarsi vivi! Entra MENENIO, coi
SENATORI MENENIO - Troppo rude sei stato, su, un po’ troppo! Ora devi
ripresentarti a loro, e rimediare. PRIMO SENATORE – È l’unico rimedio, o
la città si spacca e va in rovina. VOLUMNIA - Segui il loro consiglio, te ne
prego. Ho un cuore anch’io poco incline alla resa simile al tuo, ma ho pure un
cervello che sa sfruttare a suo pro l’ira altrui. MENENIO - Ben detto,
nobilissima matrona! Anch’io piuttosto che vederlo prono ad umiliarsi innanzi a
questo gregge, se non fosse che il corso degli eventi lo rende necessario come
un farmaco per la salute dell’intero Stato, indosserei la mia vecchia armatura,
con tutto che ne regga appena il peso. CORIOLANO - Che devo fare? MENENIO -
Tornar dai Tribuni. CORIOLANO - Va bene, e poi? MENENIO - Far finta di pentirti
di tutto ciò che hai detto. CORIOLANO - Innanzi a loro? Non lo faccio nemmeno
con gli dèi, devo farlo con loro? VOLUMNIA - Figlio mio(146), sei troppo
altero, troppo distaccato, pur se questo non può mai dirsi troppo per un
nobile; salvo che a parlare non siano le esigenze del momento. T’ho udito dire
sovente che in guerra onore e astuzia crescon di conserta, da amici
inseparabili. È così? Spiegami allora che cosa han da perdere i due dal
seguitare quest’accordo anche in tempo di pace. CORIOLANO - Che discorsi! MENENIO
- Una domanda pertinente, invece! VOLUMNIA - Se in guerra tu consideri
onorevole sembrar quello che non sei, e fai di questo il mezzo per raggiungere
i tuoi fini, perché dovrebbe questa tua politica perdere d’efficacia e di
valore, accoppiandosi in pace, come in guerra, all’onore, se d’ambedue le
cose si presenti l’egual necessità? CORIOLANO - Perché insisti su questo?
VOLUMNIA - Perché è questo per te il momento di parlare al popolo, non seguendo
la tua ispirazione, o quello che ti suggerisca il cuore, ma con parole mandate
a memoria sulla lingua, se pur solo bastarde e sillabate senza alcun rapporto
con quella verità che hai nel petto. Ebbene, non c’è nulla in tutto questo che
ti possa recare disonore; non più che conquistare una città col mezzo di gentili
paroline, in un momento in cui ogni altro mezzo t’avrebbe esposto ai colpi di
fortuna o al rischio di far correr molto sangue. Io non avrei alcuna esitazione
a nasconder la mia vera natura, se mi fosse richiesto dall’onore essendo in
gioco la mia stessa sorte, o quella degli amici. Ebbene, figlio, in tal
frangente adesso ci troviamo io, tua moglie, tuo figlio, i senatori, i nobili;
e tu stimi che sia meglio mostrare a questa turba di pagliacci come sei bravo a
far la faccia dura, invece di sprecare una moina per guadagnarti le lor
simpatie e per salvare ciò che, senza questo, può andar perduto. MENENIO -
Nobile matrona! (A Coriolano) Vieni dunque con noi, e parla loro con parole
acconce. Potrai così non soltanto salvare quel che oggi è in pericolo, ma
rimediare alle passate perdite. VOLUMNIA - Sì, figlio mio, ti prego, ti
scongiuro, va’ da loro con il cappello in mano(149), e, tesolo così, con largo
gesto - perché così devi fare con loro - le tue ginocchia sfiorando le pietre -
in certe cose il gesto è più eloquente delle parole, ché degli ignoranti
son più istruiti gli occhi che le orecchie - ed abbassando e rialzando il capo
come a correggere, con questo gesto, l’altero cuore, divenuto docile per
l’occasione come mora sfatta che si stacca dal rovo al primo tocco, di’ loro
che tu sei il lor soldato, e che, cresciuto in mezzo alle battaglie, non hai
quel tanto di buone maniere che - lo confesserai - sarebbe giusto per te di
usare e per loro di esigere nel momento in cui chiedi il loro voto; ma che, d’ora
in avanti, a giuramento, modellerai te stesso a lor talento, per quanto sarà in
te e in tuo potere. MENENIO - Una volta che avrai fatto così, esattamente come
lei ti dice, ebbene, i loro cuori saran tuoi: perché quelli, se uno glielo
chiede, sono altrettanto facili al perdono che a sbraitare per cose da nulla.
VOLUMNIA - Ti prego, va’ e riesci a dominarti; anche se so che con un tuo
nemico preferiresti magari inseguirlo fin dentro una voragine di fuoco
piuttosto che adularlo in un salotto. Entra COMINIO Ecco Cominio. COMINIO -
Sono stato al Foro; bisognerà davvero, Coriolano, che tu ci vada bene
accompagnato, e che sappi difenderti con calma, o non andarci affatto. È tutto
furia. MENENIO - Basta parlare con un po’ di garbo. COMINIO - Sì, basterà, se
saprà contenersi. VOLUMNIA - Si deve contenere, e lo farà. Ti prego, dimmi che
sei pronto a farlo, e vacci. CORIOLANO - Debbo andare a mostrar loro la mia
zucca scoperta(150)? Dare con vile lingua una smentita al mio nobile cuore, e
comandargli di sopportarla?... Bene, lo farò. Sebbene, si trattasse sol
di perdere questo pugno di fango, per mio conto questa forma che porta nome
Marcio la potrebbero macinare in polvere e disperderla al vento... Andiamo al
Foro! Però la parte che m’avete imposta non saprò mai rappresentarla al vivo.
COMINIO - Via, via, te la suggeriremo noi. VOLUMNIA - Figlio caro, ti prego,
hai sempre detto che le mie lodi furono le prime a far di te un soldato, e
questa volta per meritarle recita una parte mai fatta prima. CORIOLANO - Bene, devo
farlo. Natura mia, abbandonami, e di me s’impossessi ora lo spirito d’una
puttana! La voce di guerra che si fondeva con il mio tamburo si tramuti
nell’esile falsetto da sottile cannuccia dell’eunuco e da vocina della
verginella che culla i bimbi con la ninna-nanna! Sulle mie guance restino
accampati i ghignosi sorrisi dei furfanti, le lacrimucce dello scolaretto
m’inondino gli specchi della vista; tra le mie labbra venga ad agitarsi una
lingua d’abbietto mendicante, ed i ginocchi che nell’armatura si piegavano solo
sulla staffa, si flettan come quelli del pitocco ch’abbia pur mo’ buscato
l’elemosina! Non lo farò, non voglio tralignare dal rimanere fedele a me
stesso, e col comportamento del mio corpo indurmi ad insegnare alla mia anima
una bassezza non più cancellabile. VOLUMNIA - Fa’ come credi. Sento più
vergogna io a pregare te, che tu non senta a pregar loro. Vada tutto a male! E
lascia che tua madre abbia a soffrire del tuo orgoglio, più di quanto tema per
questa tua rischiosa ostinazione; perch’io so farmi beffa quanto te della
morte. Ma fa’ a tuo talento. Il tuo coraggio è mio: tu l’hai succhiato da
me. Ma la superbia è solo tua. CORIOLANO - Non inquietarti, madre, te ne prego.
Vado al Foro. Non farmi più rimbrotti. Farò sfoggio di ciarlataneria per
conquistar le loro simpatie, riuscirò a scroccare i loro cuori, e mi vedrai
tornare a casa amato da tutte le romane mestieranze. Guarda, sto andando.
Saluta mia moglie. Tornerò console, o d’ora in poi non fidarti di quanto saprà
fare la mia lingua nell’arte di adulare. VOLUMNIA - Fa’ come vuoi. Addio.
(Esce) COMINIO - I Tribuni t’aspettano. Muoviamoci. Preparati a rispondere con
calma, ché quelli, a quanto sento, hanno approntato contro di te accuse assai
più gravi di quelle che già porti sulle spalle. CORIOLANO - “Con calma”, sì, è
la parola d’ordine. Andiamo pure. Risponderò loro come mi detta il cuore,: per
quante accuse vorranno inventarsi. MENENIO - Sì, ma garbatamente. CORIOLANO - E
come no! Garbatamente, sì, garbatamente! (Escono) Entrano BRUTO e SICINIO SCENA
III -Roma, il Foro BRUTO - Su questo punto attacchiamolo a fondo: che la sua
mira è il potere assoluto. Se qui ci sfugge, dobbiamo incalzarlo sul suo
comportamento ostile al popolo, e sul bottino tolto a quelli di Anzio, che non
è stato mai distribuito. Entra un EDILE Allora, viene? EDILE – È qui che
sta arrivando. BRUTO - Chi l’accompagna? EDILE - Il solito Menenio e i patrizi
che l’han sempre appoggiato. SICINIO - Hai la lista completa dei voti che gli
abbiamo procurato, suddivisi per singoli comizi? EDILE - L’ho qui con me,
completa. SICINIO - Per tribù(152)? EDILE - Sì. SICINIO - Convochiamo allora in
assemblea la plebe, subito. E quando udranno da me queste parole: “Così sia,
per il diritto e il potere del popolo”, o si tratti di condannarlo a morte, o a
pagare un’ammenda, o all’esilio, s’io grido: “Ammenda!”, ripetano: “Ammenda!”,
se grido: “Morte!”, ripetano: “Morte!”, riaffermando con questa procedura
l’antico privilegio ed il potere di giudicare nella giusta causa. EDILE - Li
informerò di queste tue istruzioni. BRUTO - E che non cessino più di gridare,
ma reclamino, con maggior clamore la pronta ed immediata esecuzione di quanto
sarà stato sentenziato. EDILE - Perfettamente. SICINIO - E vengano in gran
numero, e siano tutti pronti all’imbeccata che noi daremo loro al punto giusto.
BRUTO - Va’, provvedi che tutto ciò sia fatto. (Esce l’Edile) (A Sicinio)
Portalo subito a perder la calma. È uso a vincere e s’avvampa subito se
contraddetto: una volta scaldato, non ha più freni alla moderazione,
spiattella tutto ciò che tiene in petto; ed è a quel punto che ci porge il
destro di farsi rompere l’osso del collo. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO,
con senatori e patrizi SICINIO - Bene, arriva. MENENIO - (Piano, a Coriolano)
Mi raccomando, calma. CORIOLANO - Sì, calma, calma, come uno stalliere che per
i quattro soldi della paga sopporta d’essere chiamato “bestia”! (Forte)
Vogliano sempre i venerandi dèi serbar sicura Roma e provvedere che agli alti
seggi della sua giustizia seggan uomini degni! Vogliano seminar tra noi
l’amore, affollar di pacifici cortei i nostri templi, e non d’interne lotte le
nostre strade. PRIMO SENATORE - Amèn. MENENIO - Nobile augurio. Rientra l’EDILE
con la folla dei plebei SICINIO - Venite pure avanti, cittadini. EDILE - Ascoltate
i Tribuni. Olà, silenzio! CORIOLANO - Prima ascoltate me. I DUE TRIBUNI - Va
bene, parla. (Alla folla) Silenzio, voi, laggiù! CORIOLANO - Ci saranno altre
accuse aggiunte a queste, oppure tutto si decide qui? SICINIO - Io ti chiedo se
intendi sottostare a quel che il popolo andrà a votare, riconoscere i suoi
rappresentanti, se accetterai di scontare la pena prevista dalla legge per le
colpe che saranno a tuo carico provate. CORIOLANO - Accetto. MENENIO - Lo
sentite, cittadini? Ecco, dice che è pronto ad accettare! A voi di valutare
giustamente tutti i servizi da lui resi in guerra; considerate pure le ferite
che porta numerose sul suo corpo, come tombe in un santo cimitero. CORIOLANO -
Solo graffi di spine, cicatrici da ridere, nient’altro. MENENIO - Considerate
poi che nell’esprimersi, se non parla come uno di città, dovete in lui vedere
il soldato. Non prendete l’asprezza del suo dire per malagrazia nei riguardi
vostri, ma, come dico, lo dovete prendere come il parlare proprio d’un soldato
e non già d’uno che vi vuole male. COMINIO - Bene, basta così. CORIOLANO - Per
qual motivo, dopo che sono stato eletto console con voto unanime, devo sentirmi
leso nell’onore a tal punto, che, dopo appena un’ora, volete ritrattare il
vostro voto? SICINIO - Rispondi a noi, piuttosto. CORIOLANO - Già, tocca a me
rispondere. Di’ pure. SICINIO - Noi t’accusiamo d’aver macchinato con l’intento
di spazzar via da Roma tutte le cariche costituite, e di puntare, per traverse
vie, al potere assoluto: onde tu sei traditore del popolo romano. CORIOLANO -
Che! Traditore, io? MENENIO - No, no, sta’ calmo. Ricorda la promessa...
CORIOLANO - Questo popolo, che se lo inghiotta il più profondo inferno! Io,
traditore! Insolente tribuno! Avessi tu stampata nei tuoi occhi la morte
ventimila volte, e in mano ne avessi tu milioni, e ancora il doppio su quella
tua linguaccia di bugiardo, ti griderò: “Tu menti!” con quella stessa mia voce
dell’animo altrettanto spontanea come quella con cui prego gli dèi: SICINIO -
(Alla folla) Lo senti, popolo? PLEBEI - Alla Rupe! Alla Rupe quello là! SICINIO
- Basta così, non servono altre accuse! Avete visto tutti quel che ha fatto,
udito che ha detto: ha malmenato i vostri delegati, v’ha insultati, ha
resistito violento alla legge, ed ha sfidato qui l’alto potere di coloro che
devon giudicarlo: tutto questo è delitto capitale, da meritar nient’altro che
la morte. BRUTO - Tuttavia, poiché ha ben servito per il bene di Roma...
CORIOLANO - Che vuoi cianciare tu di ben servire? BRUTO - Dico ciò che conosco.
CORIOLANO - Proprio tu! MENENIO - (A Coriolano) È così che mantieni la promessa
fatta a tua madre? COMINIO - Sappi, amico, che... CORIOLANO - Non voglio saper
altro! Mi condannino pure come vogliono: ad essere buttato dalla Rupe, ad
andare in esilio vagabondo, magari ad essere scuoiato vivo, o a languire di
fame in una cella con un granello di frumento al giorno: mai m’indurrò a
comprare la pietà al prezzo d’una sola parolina d’adulazione, mai mi s’indurrà
a trattenere la mia repulsione dall’ottener da loro qualche cosa,
bastasse pure dir solo “buongiorno”! SICINIO - Attesoché in diverse occasioni
ha fatto tutto ch’era in suo potere per mostrare il suo odio contro il popolo,
cercando ogni possibile espediente per strappargli il potere; ed anche in questa
s’è mostrato ostile non solo contro l’austera giustizia ma contro chi la deve
amministrare, noi, in nome del popolo e nella nostra veste di tribuni, lo
bandiamo da questo stesso istante dalla nostra città, sotto minaccia d’esser
precipitato dalla Rupe, se ancor varcasse le porte di Roma. Così sentenzio, nel
nome del popolo. PLEBEI - E così sia! E così sia! Cacciamolo! È bandito da
Roma, e così sia! COMINIO - Ch’io vi parli, miei mastri, amici miei...
Ascoltatemi. Sono stato console, e sul mio corpo porto le ferite che m’hanno
fatto i nemici di Roma. Io di questa mia patria ho caro il bene con più tenero,
più sacro rispetto, più profondo della mia stessa vita, dell’onore della mia
cara sposa, dei frutti del suo grembo, e prezioso tesoro dei miei lombi. Perciò
s’io vi dicessi... SICINIO - Che vuoi dire? Sappiamo già dove vuoi arrivare.
BRUTO - Non c’è altro da dire, se non che questi è bandito da Roma, come nemico
di Roma e del popolo. E così sia. PLEBEI - E così ha da essere! CORIOLANO -
Branco di miserabili cagnacci, il cui fiato fetente io detesto come l’aria
d’una palude infetta, i cui favori apprezzo quanto il lezzo ammorbante
l’atmosfera delle carcasse d’uomini insepolti, son io che vi bandisco ora da
me! E qui restate coi vostri orgasmi! Che ogni minima voce metta a tutti
in cuor la tremarella! Ed i nemici col solo scuotere delle lor piume, vi
piombino nella disperazione. Tenetevelo stretto un tal potere di dare il bando
a chi vi può difendere, finché alla lunga la vostra insipienza, che nulla
impara finché non lo prova, non risparmiando nemmeno voi stessi, di voi stessi
facendovi nemici, non vi consegni, come prigionieri i più disonorati, a una
nazione, che vi avrà vinti senza un solo colpo! Così, sprezzando io la mia
città per causa vostra, le volto le spalle. C’è un mondo pure altrove! (Esce
con Cominio, Menenio e gli altri patrizi) EDILE - Il nemico del popolo è
partito! PLEBEI - Via il nostro nemico! Al bando! Evviva! (Gridano tutti,
gettando in aria i berretti) SICINIO - Ora andate a vederlo quand’esce dalla
porta di città, e con lo sguardo lo segua ciascuno con lo stesso disprezzo col
quale egli ha guardato sempre voi. Dategli la tortura che si merita. Che una
guardia ci scorti, nel mentre attraversiamo la città. PLEBEI - Alla porta! Alla
porta! Andiamo, andiamo! A vederlo mentre esce di città! Gli dèi proteggano i
nostri Tribuni! Andiamo, andiamo tutti! (Escono) ATTO QUARTO SCENA I
-Roma, davanti a una porta della città(155) Entrano CORIOLANO, VOLUMNIA,
VIRGINIA, MENENIO, COMINIO e giovani patrizi CORIOLANO - (Alla madre e alla
moglie) Basta, via, con le lacrime. Un addio breve. Mi caccia a cornate la mala
bestia dalle molte teste(156)... Madre, suvvia, fa’ cuore! Dov’è dunque
l’antico tuo coraggio? M’hai sempre detto che gli estremi mali sono le grandi
prove dello spirito; che le comuni avversità son cose che anche la gente bassa
sa patire; che con calma di mare, ogni naviglio, qual che sia la stazza, si
mostra in grado di tenere il mare; che quanto più in profondo si dirigono i
colpi della sorte, tanto più nobilmente i nostri sensi devon sopportarne le
ferite. M’hai sempre caricato di precetti che dovevano rendere invincibile il
cuore che li avesse assimilati(157)... VIRGINIA - O cieli! O cieli! CORIOLANO -
No, ti prego, donna... VOLUMNIA - La peste colga tutti i mestieranti di Roma, e
muoiano tutti i mestieri! CORIOLANO - Via, via, che assente mi rimpiangeranno.
Su, su, madre, ritrova il vecchio spirito di quando non facevi che ripetermi -
ricordi? - che se fossi stata tu la moglie d’Ercole, avresti fatto sei delle
sue fatiche, risparmiando metà dei suoi sudori a tuo marito... Cominio, non ti
contristare. Adieu! Addio, mia sposa, addio, madre mia! Saprò cavarmela,
malgrado tutto. E tu, mio vecchio e fedele Menenio, le tue lacrime sono più
salate delle lacrime d’occhi giovanili, e son come veleno per i tuoi. (A
Cominio) Mio caro generale, t’ho visto spesso fermo ed impassibile davanti a
viste da impietrire il cuore: fa’ tu capire a queste afflitte donne che
piangere per colpi inevitabili è tanto stolto quanto è stolto il riderne.
Madre, sai bene che per te i miei rischi sono stati la tua consolazione, e sta’
certa che s’anche me ne vado solo, solingo come un drago solitario che fa
temibile la sua palude e del quale la gente parla tanto quanto meno lo vede,
questo figlio farà qualcosa di straordinario; se non riusciranno a catturarlo
col mezzo dell’inganno e dell’astuzia. VOLUMNIA - Ma dove te ne andrai,
figliolo mio? Prendi almeno con te, per qualche tempo, il buon Cominio. Decidi
che fare, non esporti alla cieca ad ogni evento che ti si possa offrire sul
cammino. VIRGINIA - O dèi!... COMINIO - Vengo con te per tutto un mese; così
potremo decidere insieme dove fermarti sì che poi di te possiamo aver notizia e
tu di noi; così se con il tempo fiorirà l’occasione del tuo richiamo in patria,
non dovremo mandare per un uomo alla ricerca in tutto il vasto mondo e perdere
il vantaggio del momento, che sempre fatalmente si raffredda nell’assenza di
chi deve giovarsene. CORIOLANO - Addio, Cominio. Sei carico d’anni, e pesano
ancor troppo su di te le fatiche di guerra, per pensare d’andare alla ventura
per il mondo con uno che ce la può far da sé. Accompagnami solo per un pezzo
fuori le mura. Vieni, dolce sposa, madre amatissima, amici miei di nobil
tempra; e appena sarò fuori ditemi tutti addio con un sorriso. Vi prego,
andiamo. Avrete mie notizie fintanto che avrò i piedi sulla terra; e non
saprete mai nulla di me se non di quel che sono sempre stato. MENENIO -
Questo parlare è quanto di più nobile può udire orecchio. Ebbene, niente
lacrime! Potessi scuotermi solo sett’anni da queste stagionate braccia e gambe,
ti seguirei, per gli dèi, passo passo! CORIOLANO - Qua la tua mano nella mia.
Andiamo. (Escono) SCENA Roma, davanti a una porta della città Entrano i due
TRIBUNI con un EDILE SICINIO - Rimandiamoli a casa. È andato via. È inutile che
procediamo oltre. I nobili non l’han mandata giù. Tutti dalla sua parte,
abbiamo visto. BRUTO - Ora, però, che abbiam mostrato i denti ci conviene
mostrarci più dimessi di quando tutto questo era da fare. SICINIO - (All’Edile)
Mandali a casa. Di’ che il gran nemico se n’è andato, e la loro antica forza è
sempre intatta. BRUTO - (All’Edile) Sì, mandali a casa. Esce l’Edile Ecco sua
madre. Entrano VOLUMNIA, VIRGINIA e MENENIO SICINIO - Evitiamola. È meglio.
BRUTO - Perché? SICINIO - La dicon furibonda pazza. BRUTO - Ci hanno visti.
Cammina, tira dritto. VOLUMNIA - Oh, v’incontro a buon punto! Tutte le più
schifose pestilenze tenute in serbo dagli dèi per gli uomini possano
ripagare il vostro zelo! MENENIO - Non gridare così! VOLUMNIA - Ancor più forte
mi sentiresti, se non fosse il pianto... Anzi, mi sentirai lo stesso, adesso...
(A Bruto) Che! Te ne vai? VIRGINIA - (A Sicinio) Resta qui anche tu... Potessi
dir lo stesso a mio marito! SICINIO - (A Volumnia) Diamine, siete diventate
uomini? VOLUMNIA - Certo, imbecille, è forse una vergogna? Stammi a sentire,
pezzo di babbeo: uomo non era forse il padre mio? Tu invece no, tu sei solo la
volpe ch’è riuscita a cacciar via da Roma un uomo che per Roma ha dispensato
più colpi che parole tu abbia detto. SICINIO - O dèi beati! VOLUMNIA - Sì,
colpi più nobili che tu sagge parole, e dispensati per il bene di Roma. Sai che
ti dico?... Ma va’, va’... No, invece, no, anzi resta... Vorrei che mio figlio
si trovasse in Arabia, spada in pugno, a faccia a faccia con la tua tribù.
SICINIO - Ebbene, allora? VIRGINIA - Allora sentiresti! Porrebbe fine a tutta
la tua schiatta. VOLUMNIA - A tutta la tua razza di bastardi. Quel gagliardo,
con tutte le ferite che si porta per Roma! MENENIO - Via, sta’ calma. SICINIO -
Se avesse seguitato a comportarsi verso la patria come da principio, e non
avesse spezzato lui stesso il generoso nodo da lui stretto... BRUTO - Ah,
sì, magari avesse... VOLUMNIA - “Ah, sì, magari”! Ma se vi siete dati proprio
voi ad infiammar la folla! Voi, gattacci, che siete in grado di stimare i
meriti non più di quanto io sappia scrutare i misteri insondabili del cielo!
BRUTO - Andiamo, prego. VOLUMNIA - Prego, andate, andate. Avete fatto una bella
prodezza. Prima, però, sentite che vi dico: di quanto s’erge in alto il
Campidoglio sopra il più misero tetto di Roma, di tanto il figlio mio e di
costei sposo - di questa donna qui, vedete? -, da voi bandito, vi sovrasta
tutti. BRUTO - Bene, bene, ma adesso vi lasciamo. SICINIO - Perché star qui a
sorbirci gli improperi d’una che ha perso chiaramente il senno? (Escono i due
Tribuni) VOLUMNIA - E v’accompagnino le mie preghiere. Non avesser gli dèi
altro da fare che confermar le mie maledizioni! Ah, potessi incontrarli, questi
due, anche una volta al giorno: già basterebbe per sentirmi il cuore sollevato
dal peso che l’opprime. MENENIO - Gli hai detto il fatto loro, e, francamente,
ne avevi ragione. Non vorreste cenare insieme a me? VOLUMNIA - È la rabbia il
mio cibo. La mia cena la farò su me stessa, divorandomi, così mangiando morirò
di fame. (A Virginia) Andiamo, cessa di piagnucolare, e lamentati, come faccio
io, di rabbia, alla maniera di Giunone. Andiamo. (Escono Volumnia e Virginia)
MENENIO - Vituperio, vituperio! (Esce) SCENA La strada fra Roma e Anzio
Entrano NICANOR, soldato romano, e ADRIANO, soldato volsco, incontrandosi
NICANOR - Io ti conosco, amico; ed anche tu devi conoscer me. Se non mi
sbaglio, ti chiami Adriano. ADRIANO - Esattamente, amico; ma, in coscienza, di
te non mi ricordo. NICANOR - Son romano, ma uno che lavora, come te, contro i
Romani. Mi ravvisi adesso? ADRIANO - Nicanor?... NICANOR - Sì, amico, proprio
lui. ADRIANO - Più barba avevi, quando t’ho incontrato l’ultima volta, ma la
voce è quella. Bene, che novità ci sono a Roma? Ho qui un mandato del governo
volsco di ricercarti là; ma adesso tu m’hai risparmiato un giorno di cammino.
NICANOR - Ci sono state a Roma insurrezioni mai viste prima(163): il popolo in
rivolta contro il Senato, i nobili, i patrizi. ADRIANO - “Ci sono state...”.
Perché, son finite? I nostri governanti non lo credono; stanno facendo grandi
apprestamenti per la guerra, sperando di sorprenderli nel pieno ardore delle
lor discordie. NICANOR - Beh, la grande fiammata ormai è spenta; ma basta una
scintilla a ravvivarla, perché i nobili han preso così male la cacciata del
prode Coriolano, da ritener matura l’occasione per togliere alla plebe ogni
potere e strapparle per sempre i suoi tribuni. C’è fuoco sotto cenere, ti dico,
e sta lì lì per divampar di nuovo. ADRIANO - Coriolano bandito! NICANOR -
Sì, bandito. ADRIANO - A Corioli farà molto piacere, Nicanor, questa tua
informazione. NICANOR - Lo credo; è un buon momento, ora, per loro. Ho sempre
udito che il miglior momento per sedurre la moglie di qualcuno è quando ha
litigato col marito. Il vostro valoroso Tullo Aufidio avrà modo di mettersi in
gran luce in questa guerra, il suo grande avversario, Coriolano, trovandosi in
disgrazia col suo paese. ADRIANO - Per forza di cose. È stata veramente una
fortuna per me incontrarti, così, casualmente; hai concluso così la mia
missione, e con piacere t’accompagno a casa. NICANOR - Fino all’ora di cena
avrò da dirti molte cose stranissime da Roma, e tutte vantaggiose ai suoi nemici.
Hai detto che hanno pronto già un esercito? ADRIANO - E che fiore d’esercito!
Magnifico! I centurioni, con i loro uomini, già arruolati, al soldo dello
Stato, equipaggiati e pronti a entrare in campo in termine di un’ora. NICANOR -
Son contento di udire che son pronti, perché ritengo d’esser proprio io quello
che li farà mettere in marcia con la massima urgenza. Bene incontrato, dunque,
amico mio, e molto lieto della compagnia. ADRIANO - Tu mi rubi di bocca le
parole, amico; sono io che ho più ragione di rallegrarmi. NICANOR - Bene,
incamminiamoci. (Escono) SCENA IV - Anzio, davanti alla casa di Aufidio
Entra CORIOLANO in abito dimesso, travestito e imbacuccato CORIOLANO - Bella
città quest’Anzio! E son io qui, Anzio, che le tue donne ha reso vedove. Ho
udito gemere sotto i miei colpi molti eredi di queste tue magioni e cadere.
Perciò non riconoscermi, che le tue donne con i loro spiedi ed i ragazzi con le
lor sassate non m’uccidano in un puerile scontro. Entra un CITTADINO Salve,
amico. CITTADINO - Salute a te. CORIOLANO - Di grazia, sapresti dirmi dove sta
di casa il grande Aufidio? Si trova qui ad Anzio? CITTADINO - Sì, e banchetta a
casa sua stasera con i notabili della città. CORIOLANO - Qual è la casa sua?
CITTADINO - Ce l’hai davanti. CORIOLANO - Grazie, amico, salute. (Esce il
Cittadino) O mondo, le tue scivolose curve! Amici uniti da antica affezione, da
sembrare un sol cuore entro due petti, da trascorrere insieme tutti i giorni le
ore, il letto, la mensa, il lavoro, inseparabili nel loro affetto come fossero
stati due gemelli, basta uno screzio, un dissenso da niente per rompere in
tremenda inimicizia. Così ugualmente nemici giurati cui l’ira e il furore
dell’intrigo tolsero il sonno a forza di pensare come distruggersi l’uno con
l’altro, ecco che per un caso, una sciocchezza che vale meno d’una coccia
d’uovo, possono diventare grandi amici e unir le loro sorti. Così io: detesto
il luogo dove sono nato e guardo con amore a una città che mi è stata
nemica... Beh, io entro. Se m’uccide, si sarà solo preso una giusta rivalsa. Se
m’accetta, mi metterò a servire il suo paese. (Esce) Musica da dentro SCENA V -
Anzio, l’interno della casa di Aufidio Entra un SERVO, gridando, affaccendato e
traversando la scena PRIMO SERVO - Vino, vino!... Che razza di servizio! Qui mi
paiono tutti addormentati! (Esce) Entra un altro SERVO SECONDO SERVO -
(Chiamando) Coto!... Ma dove s’è cacciato?... Coto! Il padrone lo vuole. Entra
CORIOLANO CORIOLANO - Bella casa... Dal banchetto promana un buon odore; ma io
non sembro certo un convitato. Rientra il PRIMO SERVO PRIMO SERVO - Che vuoi,
amico? Da che parte vieni? Qui per te non c’è posto. Fila, prego. (Esce)
CORIOLANO - Essendo Coriolano, non mi merito da questa gente miglior
trattamento(164). Rientra il SECONDO SERVO SECONDO SERVO - Da dove spunti,
amico?... Ma il portiere ce l’ha gli occhi, che lascia entrare qui figuri come
te? Va’ fuori, via! CORIOLANO - Via tu, piuttosto. SECONDO SERVO - Io? Aria,
sparisci! CORIOLANO - Ora cominci a infastidirmi. SECONDO SERVO - Ah! Ci
fai pure il gradasso? Ora vedrai: ti faccio dire io due paroline. Entra un
TERZO SERVO, insieme con il PRIMO TERZO SERVO - Chi è costui? PRIMO SERVO - Uno
strano figuro quale mai m’è caduto sotto gli occhi. Non mi riesce di mandarlo
via. Fammi il favore, chiama tu il padrone. TERZO SERVO - (A Coriolano) Che ci
fai qui, compare? Su, va’ fuori. CORIOLANO - Lasciami solo starmene qui, in
piedi. Non ti farò alcun danno al focolare. TERZO SERVO - Chi sei? CORIOLANO -
Un nobile. TERZO SERVO - Sarai un nobile, ma sei meravigliosamente povero.
CORIOLANO - È vero. TERZO SERVO - E dunque, nobile spiantato, ti prego,
scegliti qualche altro posto. Questo non è per te. Sgombrare, via! CORIOLANO -
Seguita pure a far le tue faccende, va’ ad ingozzarti con i loro avanzi. (Gli
dà una spinta, mentre il Terzo Servo gli si avvicina) TERZO SERVO - Che! Non
vuoi? (Al Secondo Servo) Per favore, di’ al padrone che strano convitato ha
dentro casa. SECONDO SERVO - Vado subito. (Esce) TERZO SERVO - (A Coriolano)
Dove stai di casa? CORIOLANO - Sotto il gran baldacchino(165). TERZO
SERVO - Il baldacchino? CORIOLANO - Sì. TERZO SERVO - E dov’è codesto
baldacchino? CORIOLANO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi. TERZO SERVO -
Nella città dei nibbi e dei corbacchi? Che razza di somaro è mai costui! Allora
alloggi pure con le taccole(167)? CORIOLANO - No, questo no: non mi trovo al
servizio del tuo padrone. TERZO SERVO - Che vuoi dir, compare? Vuoi avere a che
far col mio padrone? CORIOLANO - Certo, e sarebbe più onesto servizio dell’aver
a che far con la tua ganza. Tu cianci troppo. Va’ a servir la tavola col tuo
tagliere. Lèvati di mezzo! (Lo caccia via percuotendolo) Entra TULLO AUFIDIO
col SECONDO SERVO AUFIDIO - Dov’è dunque quest’uomo? SECONDO SERVO - (Indicando
Coriolano) È qui, padrone. L’avrei cacciato a calci come un cane; non l’ho
fatto per non recar disturbo alle lor signorie che son di là. (Il Primo e
Secondo Servo si fanno da parte) AUFIDIO - (A Coriolano) Da dove vieni? Che
vuoi? Il tuo nome?... Perché non parli?... Avanti, di’ chi sei. CORIOLANO -
(Scoprendosi il volto) Tullo, se ancor non m’hai riconosciuto, e se, a
guardarmi, non sai ravvisarmi per quel che sono, ti dirò il mio nome. AUFIDIO -
Cioè? CORIOLANO - Un nome che non suona musica agli orecchi dei Volsci, e
soprattutto deve suonar ben aspro a quelli tuoi. AUFIDIO - E dillo, questo
nome! Hai l’aria fiera e impresso in faccia il segno del comando. Anche se il
tuo sartiame va a brandelli, la struttura completa dello scafo rivela nobiltà.
Qual è il tuo nome? CORIOLANO - Prepara la tua fronte ad aggrottarsi. Ancora
dunque non mi riconosci? AUFIDIO - No, non ti riconosco. Dimmi il nome.
CORIOLANO - Son Caio Marcio: l’uomo che ha procurato a te in particolare e a
tutti i Volsci assai malanni e lutti. N’è testimone questo soprannome:
Coriolano, che m’hanno dato a Roma. Il gravoso servizio militare, i pericoli
estremi da me corsi e le gocce di sangue che ho versato per l’irriconoscente
patria mia m’hanno fruttato, quale ricompensa, nulla di più che questo
soprannome: un bel ricordo, una testimonianza per te di tutto l’odio ed il
rancore che dovresti portarmi. Questo nome è però tutto ciò che mi rimane: le
crudeltà, l’invidia della plebe secondata da nobili vigliacchi che m’han
lasciato a lottare da solo, si sono divorate tutto il resto ed han permesso
ch’io fossi cacciato da Roma per i voti degli schiavi. È stato questo estremo
di sventura che m’ha portato qui, al tuo focolare; non già con la speranza -
non fraintendermi - d’aver salva la vita, ché, se avessi paura della morte, e
c’è un uomo da cui dovrei guardarmi, quello sei tu, ma per puro dispetto, e per
rifarmi in pieno con coloro che m’han bandito. E son davanti a te. Se tu covi
nel cuore una rivincita che ti ripaghi dei torti subiti, se brami cancellare la
vergogna delle mutilazioni che si vedono in ogni angolo del tuo paese, non
esitare a trarre beneficio dalla mia situazione di disgrazia: usala in
modo da trarre un vantaggio da quanto io possa far per vendicarmi. Perch’io ti
dico che combatterò contro l’incancrenito mio paese con la rabbia dei diavoli
d’inferno. Ma se di tanto osare non ti senti, e stanco sei di tentar nuove
sorti, anch’io sono stanchissimo di vivere, e pronto a presentare la mia gola a
te ed all’antico tuo rancore. E se ti rifiutassi di tagliarla, ti mostreresti
soltanto uno stolto, perché il mio odio t’ha sempre inseguito, ha fatto correre
botti di sangue dalla tua terra, ed io non potrei vivere se non che a tuo
completo disonore, salvo che non vivessi per servirti. AUFIDIO - (Dopo un cenno
al servo, che si ritira) Oh, Marcio, Marcio! Come ogni parola di queste tue
m’ha strappato dal cuore una radice dell’antico odio! Se Giove stesso su da
quella nuvola mi rivelasse divini misteri, e mi dicesse: “Questa è verità!” a
lui non crederei più che ora a te, nobilissimo Marcio! Ch’io recinga in un
abbraccio codesto tuo corpo contro il quale la mia forcuta lancia si spezzò
cento volte, e le sue schegge sfregiarono la faccia della luna! E adesso invece
stringo fra le braccia la stessa incudine della mia spada, e caldamente quanto
nobilmente gareggio col tuo ardore, come prima, con ambiziosa forza, col tuo
valore. Sappi solo questo: ho amato molto colei che ho sposato; mai uomo
sospirò più lealmente. Ma ora, nel vederti avanti a me, nobilissimo uomo, con
più gioia mi sobbalza rapito il cuore in petto di quando vidi per la prima
volta la mia sposa varcare la mia soglia. Ebbene, dico a te, come al dio Marte,
che abbiamo già un esercito allestito, pronto all’azione, ed ancora una volta
m’ero proposto di falciarti via con la mia spada lo scudo dal braccio, o di
perdere il mio; dodici volte, l’una dopo l’altra, tu m’hai piegato, e da
allora ogni notte non sogno che di scontri tra noi due: ci vedo tutti e due
avvinti a terra, e lì, dopo esserci slacciati gli elmi, afferrarci l’un l’altro
per la gola... per poi svegliarmi tutto tramortito, e perché?, per un nulla,
solo un sogno. Degno Marcio, se pur altra querela non avessimo che la tua
cacciata con Roma, chiameremmo tutti gli uomini alle armi, dai dodici ai settanta,
e, rovesciando rivoli di guerra nelle viscere dell’ingrata Roma, strariperemmo
su tutto il suo corpo con la violenza d’un torrente in piena. Ma entra, vieni a
stringere la mano ai senatori amici qui venuti a salutarmi, poi che mi preparo
ad attaccare i vostri territori, se non proprio la stessa Roma. CORIOLANO - O
dèi, questa è una vostra benedizione! AUFIDIO - Perciò se vuoi, nobilissimo
amico, prender la guida della tua vendetta, prenditi la metà delle mie forze e
decidi il da fare, a tuo talento come ti detta meglio l’esperienza; ché tu
conosci più di chiunque altro del tuo paese forza e debolezza, se sia meglio,
cioè, picchiare d’impeto alle porte di Roma, o se investirli con violenza nella
periferia, per spaventarli prima di distruggerli. Ma vieni dentro, ch’io per
prima cosa ti presenti a coloro cui compete di secondare i tuoi desiderata. Sii
dunque mille volte benvenuto, più amico oggi che nemico ieri (e lo sei stato,
Marcio, e che nemico!). Qua la mano. Sii molto benvenuto. (Escono) Il PRIMO e
il SECONDO SERVO si fanno avanti(169) PRIMO SERVO - Quale sbalorditiva
metamorfosi! SECONDO SERVO - Per questa mano, avevo già pensato, ti giuro, di
cacciarlo a bastonate... Però dentro di me lo sentivo che il suo abito
non diceva il vero... PRIMO SERVO - E che braccia!... M’ha fatto fare un giro
con la presa del pollice e del medio, come se avesse avviato una trottola.
SECONDO SERVO - Eh, l’ho capito subito dal viso che c’era in lui qualcosa; una
tal faccia che mi pareva... non so come dire. PRIMO SERVO - Sì, sì, aveva
un’aria, quasi fosse... Eh, m’impicchino se non ho capito che quello lì ci
aveva qualche cosa in più di quanto potessi pensare. SECONDO SERVO - E io lo
stesso, lo potrei giurare. Senz’altro è l’uomo più straordinario che ho visto
al mondo. PRIMO SERVO - Penso anch’io così. Però, come soldato, c’è qualcuno di
lui più grande, e tu lo sai chi è. SECONDO SERVO - Chi, il padrone? PRIMO SERVO
- Non c’è discussione. SECONDO SERVO - Ne vale sei. PRIMO SERVO - No, non
esageriamo. Però lo reputo miglior soldato. SECONDO SERVO - Guarda, in
coscienza, non so come metterla: nella difesa d’una roccaforte il nostro
generale è ineguagliabile. PRIMO SERVO - Certamente, ma pure nell’attacco.
Entra il TERZO SERVO TERZO SERVO - Ehi, furfantacci! Ho notizie da darvi, e che
notizie, figli di puttana! I DUE - Quali, quali, su, spùtale! TERZO SERVO - Fra
tutte le nazioni della terra, non vorrei essere proprio un romano: sarebbe come
una condanna a morte. I DUE - Perché, perché? TERZO SERVO - Perché quel
Caio Marcio che le ha suonate non so quante volte al nostro generale, è qui con
noi. PRIMO SERVO - “Suonate al nostro generale” hai detto? TERZO SERVO -
“Suonate” proprio no, non dico, via, però gli ha dato del filo da torcere.
SECONDO SERVO - Ah, per questo, sia detto fra di noi, per lui è stato sempre un
osso duro. L’ho udito spesso dirlo da lui stesso. PRIMO SERVO - Un osso troppo
duro, sì, per lui, a dire il vero: davanti a Corioli l’ha tagliuzzato come una
braciola. SECONDO SERVO - Se avesse avuto gusti da cannibale se lo sarebbe pur
cotto e mangiato. PRIMO SERVO - Beh, tutte qui le tue grandi notizie? TERZO
SERVO - No, lì dentro lo trattan tutti quanti che pare il figlio e l’erede di
Marte: l’hanno fatto sedere a capotavola; e i senatori, per fargli domande,
s’alzano in piedi e si scoprono il capo. Il nostro generale, poi, lo tratta
come fosse la sua cara morosa: lo sfiora con la mano come un santo, e a
sentirlo parlar strabuzza gli occhi. Ma il vero succo sapete qual è? Che il
nostro generale è dimezzato rispetto a ieri, perché l’altro mezzo se l’è preso
quell’altro, col consenso e le preghiere di tutta la tavola. Andrà, egli dice,
a tirare le orecchie a chi sta a guardia delle porte di Roma, che falcerà ogni
cosa avanti a sé, per far pulito e sgombro il suo passaggio. SECONDO SERVO - Ed
è uomo capace di far questo, quant’altri al mondo. TERZO SERVO - Farlo, lo
farà; perché, vedi, avrà, sì, tanti nemici, ma anche tanti amici; i quali amici
non hanno avuto, diciamo, il coraggio, di mostrarsi, diciamo, amici suoi mentre
lui è in discapito... PRIMO SERVO - “Discapito”? E che cos’è? TERZO SERVO
- ... ma quando lo vedranno con la cresta rialzata e bene in sangue salteran
fuori dalle loro tane come conigli dopo l’acquazzone e tutti insieme a fargli
grande festa. PRIMO SERVO - Ma quando ciò? TERZO SERVO - Domani, oggi, subito.
Potresti sentir battere il tamburo addirittura questo pomeriggio, come se fosse
l’ultima portata del lor banchetto, da tradurre in atto prima ch’essi
s’asciughino la bocca. SECONDO SERVO - Così riavremo almeno intorno a noi un
po’ di movimento. Questa pace serve solo ad arrugginire il ferro, ad accrescere
il numero dei sarti e partorire autori di ballate. PRIMO SERVO - Ah, per me,
dico, datemi la guerra! È meglio cento volte della pace, come il giorno è
migliore della notte; la guerra è cosa viva, movimento, è vispa, ha voce, è
piena di sorprese. La pace è apoplessia, è letargia: spenta, sorda,
insensibile, assonnata, e fa mettere al mondo più bastardi che non uccida
uomini la guerra. SECONDO SERVO - Proprio così. La guerra la puoi dire, per un
verso, una grande scopatrice, così come la pace una grande fattrice di cornuti.
PRIMO SERVO - Già, e fa odiare gli uomini tra loro. TERZO SERVO - Logico:
perché quando sono in pace, hanno meno bisogno l’un dell’altro. Eh, sì, la
guerra a me va proprio a genio! E spero che vedremo qui Romani a pochi soldi
l’uno, come i Volsci. Si alzano da tavola! Si alzano! PRIMO e SEC. SERVO -
Dentro, dentro, sbrighiamoci! (Escono entrando nella sala da pranzo)
SCENA VI -Roma, una piazza Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO SICINIO - Di lui
non s’è sentito più parlare, né c’è luogo a temerne: le sue armi sono
spuntate... Il popolo sta quieto e in pace, la selvaggia agitazione è finita.
Che tutto ora vada bene a Roma, grazie a noi, fa arrossire di rabbia i suoi
amici, che avrebbero di certo preferito, a costo di soffrirne loro stessi,
vedere moltitudini in rivolta per le strade di Roma anziché udire cantare i
nostri nelle lor botteghe, serenamente intenti ai lor mestieri. BRUTO - Abbiam
puntato i piedi al punto giusto. Entra MENENIO Non è Menenio, questo? SICINIO -
È lui, è lui, s’è fatto gentilissimo con noi, da qualche tempo in qua. Salute,
amico. MENENIO - Salute a voi. SICINIO - Il vostro Coriolano non sembra essere
molto rimpianto, tranne che nella cerchia degli amici. La repubblica regge bene
in piedi senza di lui, e reggerebbe sempre, foss’egli ancor più in collera con
lei. MENENIO - Sì, tutto bene, infatti. Andrebbe meglio però, se avesse saputo
aspettare. SICINIO - Hai notizie di lui? Dove si trova? MENENIO - Non ne so
nulla. La madre e la moglie sono anch’esse sprovviste di notizie. Entrano
alcuni POPOLANI I POPOLANI - (In coro) Gli dèi v’assistano sempre,
tribuni! SICINIO - Buona sera a voi tutti. BRUTO - Buona sera! PRIMO POPOLANO -
Dovremmo stare sempre inginocchiati, noi, con le nostre mogli e i nostri figli,
a pregare gli dèi per voi due! SICINIO - Vivete e prosperate, brava gente!
BRUTO - Addio, buona salute, cari amici! Avesse avuto per voi Coriolano la
premura che vi portiamo noi! I POPOLANI - (In coro) Il cielo vi protegga! I DUE
TRIBUNI - State bene. (Escono i popolani) SICINIO - Grazie al cielo, son tempi
più felici questi, rispetto a quando questa gente si riversava in massa per le
strade urlando e seminando la rivolta. BRUTO - Marcio alla guerra è stato
certamente un bravo condottiero, ma altezzoso, ambiziosissimo, pieno di sé...
SICINIO - ... e quanto mai smanioso di diventare il padrone assoluto della
repubblica, senza collega. MENENIO - No, questo non lo credo. SICINIO - Eh, a
quest’ora ce lo saremmo ritrovato tale, a nostro gran rimpianto, s’egli fosse
salito al consolato. BRUTO - Gli dèi l’hanno impedito, per fortuna; e Roma, lui
assente, può viver tranquilla e in sicurezza. Entra un EDILE EDILE - Onorandi
tribuni, c’è uno schiavo che abbiam messo in prigione, ch’era in giro spargendo
dappertutto la notizia che i Volsci, da due parti, con due eserciti, son
penetrati nei nostri confini in armi, e van con furia micidiale, distruggendo
ogni cosa che si para sulla loro avanzata. MENENIO - Questo è Aufidio, che,
avendo appreso del bando di Marcio, tira fuori di nuovo ora le corna che ha
mantenuto sempre dentro il guscio senza osar di mostrarle, finché per Roma
combatteva Marcio. SICINIO - Evvia! Che c’entra tirar fuori Marcio! (All’Edile)
Va’, fallo fustigare l’allarmista! Non può esser che i Volsci osino tanto da
romperla con noi! MENENIO - Ah, può ben essere! Abbiamo precedenti che può
essere. Però interrogatelo quest’uomo prima di castigarlo: che dica da che
fonte ha la notizia, se non volete andar incontro al rischio di frustare la
vostra informazione e bastonare chi vi mette in guardia contro qualcosa ch’è da
far paura. SICINIO - Ma son fandonie. So che non può essere. BRUTO - No, no,
non è possibile. Entra un MESSO MESSO - Tutti i patrizi, in grande agitazione,
stanno andando al Senato. Ci son notizie che li hanno sconvolti. SICINIO - È
tutto questo schiavo... (All’Edile) Va’, fallo fustigare avanti a tutti.
L’allarme è suo; nient’altro che fandonie. MESSO - No, onorevole tribuno, no!
Il suo racconto è tutto confermato. E c’è dell’altro, ancora più terribile!
SICINIO - Ancora più terribile? Che cosa? MESSO - È tutto un dire, da bocche
diverse - quanto ci sia di vero non lo so - che Caio Marcio, unito a
Tullo Aufidio, vien marciando alla testa d’un esercito contro Roma, e giurando
una vendetta generale, così indiscriminata da includere i più giovani e i più
vecchi. SICINIO - Per chi ci crede! BRUTO - Voci sparse ad arte, per ravvivar
negli animi più fiacchi l’augurio che il “buon Marcio” torni a casa. SICINIO -
Già, questo è il loro gioco. MENENIO - Anch’io ci credo poco. Aufidio e lui son
due che possono andare d’accordo non più di quanto può l’acqua col fuoco. Entra
un altro MESSO SECONDO MESSO - Siete attesi in Senato. Un grande esercito al
comando di Marcio e Aufidio uniti, imperversa sui nostri territori,
travolgendo, incendiando, distruggendo tutto quello che incontra avanti a sé.
Entra COMINIO COMINIO - (Ai due tribuni) Che bel capolavoro avete fatto!
MENENIO - Perché, che sai, che sai? COMINIO - (Come sopra) Non potevate meglio
dare mano a farvi violentar le vostre figlie, a far piovere sulle vostre zucche
il piombo fuso dai tetti di Roma, a vedervi stuprare sotto gli occhi le vostre
mogli... MENENIO - Perché? Che succede? COMINIO - ... a vedervi bruciare,
incenerire i vostri templi, e vedervi ridotte sì sottili le vostre guarentigie
e poteri, cui tenevate tanto, da entrar nel forellino d’un succhiello! MENENIO
- Insomma, che notizie sai? Ti prego! (Ai due Tribuni) Avete fatto, ho
paura, voi due un bel capolavoro... (A Cominio) Di’, ti prego. Che nuove porti?
Se davvero Marcio s’è unito ai Volsci... COMINIO - Se? È il loro dio! Li guida
come fosse un’entità non generata da madre Natura, da deità diversa, e più
capace della Natura stessa a fare un uomo; e quelli là lo seguono contro di
noi, mocciosi bamboccioni, con la stessa svagata sicurezza di ragazzi che
inseguono farfalle sotto il sole d’estate, o di beccai che si trovino a
macellare mosche. MENENIO - (Ai tribuni) Che bel lavoro avete combinato, voi ed
i vostri grembiulati amici(174)! Voi, che tanto eravate infatuati del voto
della vostra mestieranza e del fiato dei mangiatori d’aglio! COMINIO - Ve la
farà crollare sulla testa, la vostra Roma! MENENIO - Come quando Ercole,
scrollò le mele mature dall’albero!(175). Avete fatto proprio un bel lavoro!
BRUTO - Insomma, è proprio vero? COMINIO - Tanto vero, che prima di scoprire
che non l’è, dovrete divenir pallidi morti. Tutte le genti gli aprono le porte
sorridendo, ed i pochi che resistono, derisi per il lor vano eroismo, periscono
da stolidi lealisti. Chi può muovergli biasimo, del resto? Anche i nemici, i
vostri come i suoi, riconoscono che c’è in lui qualcosa. MENENIO - Siete tutti
spacciati, se quel nobile non avrà pietà. COMINIO - Pietà! Chi dovrà chiederla?
I Tribuni? Almeno per pudore, quelli no! Il popolo? Ma il popolo da lui
merita tanta pietà quanto il lupo dai pastori. Chi altro? I suoi seguaci? Ma se
costoro gli andassero a dire: “Sii pietoso con Roma”, la lor preghiera avrebbe
l’accoglienza di quella di chi merita il suo odio, e cioè di chi fosse suo
nemico. MENENIO - È vero. S’anche m’appiccasse fuoco alla casa e me
l’incendiasse tutta, io non avrei la faccia di gridargli: “Fermati, ti
scongiuro!”. Avete fatto proprio un bel lavoro, voi due, con tutto il vostro
artigianume! COMINIO - Per colpa vostra Roma sta tremando, come non ha mai
fatto nel passato. I DUE TRIBUNI - Non direte che questo è colpa nostra.
MENENIO - Ah, no? Sarebbe dunque colpa nostra? Marcio noi l’amavamo, ma da
nobili bestie, quanto vili, abbiam ceduto alla vostra ciurmaglia che urlando
l’ha cacciato via da Roma. COMINIO - Ho paura però che questa volta dovranno
urlando chiedergli pietà. Tullo Aufidio, il cui nome di soldato è secondo nel
mondo, gli obbedisce come un qualunque suo subordinato. Ormai tutta la tattica
di guerra tutta la forza, tutte le difese che Roma potrà opporre a questi due
sarà solo la sua disperazione. Entra un gruppo di POPOLANI MENENIO - Arriva il
branco... E Aufidio è insieme a lui? (Ai popolani) Voi siete quelli che gli
avete reso irrespirabile l’aria di Roma, quando gettaste in aria quelle coppole
vostre unte e fetenti per acclamare la sua messa al bando! Adesso egli ritorna,
e non c’è pelo in testa a un suo soldato che non si farà sferza per voi
tutti: farà cadere a terra tante zucche quanti berretti voi gettaste in
aria, e vi salderà il conto dei voti che gli avete ritrattato. E se poi ci
mandasse tutti a fuoco, fino a ridurci un unico tizzone, tanto peggio! L’avremo
meritato! I POPOLANI - Certo, udiamo terribili notizie. PRIMO POPOLANO - Per
parte mia, quando gridai: “Al bando!” aggiunsi pure che mi dispiaceva...
SECONDO POPOL. - E così io. TERZO POPOLANO - E io no?... In coscienza, fece
così la gran parte di noi. Quel che abbiam fatto è stato a fin di bene; e se
pur assentimmo volentieri a bandirlo, fu certo controvoglia. COMINIO -
Bravissimi, voi tutti e i vostri voti! MENENIO - Avete combinato un bel lavoro,
voi e i vostri schiamazzi! (A Cominio) Che facciamo, saliamo al Campidoglio?
COMINIO - Mi pare non ci sia altro da fare. (Escono Cominio e Menenio) SICINIO
- (Alla folla) A casa, amici; ma non vi allarmate. Quelli là appartengono a una
parte cui farebbe davvero gran piacere se dovesse avverarsi quello che fanno
finta di temere. A casa, e che nessuno dia a vedere d’aver paura. PRIMO
POPOLANO - Gli dèi ci proteggano! Compagni, a casa!... Io l’ho sempre detto che
facevamo male ad esiliarlo. SECONDO POPOL. - Tutti l’abbiamo detto, s’è per
questo! Andiamo, andiamo a casa! (Escono i popolani) BRUTO - Brutte
notizie. Proprio non mi piacciono. SICINIO - Nemmeno a me. Darei metà del mio,
se servisse a saper che sono false. BRUTO - Saliamo al Campidoglio. SICINIO -
Prego, andiamo. (Escono) SCENA - Il campo dei Volsci presso Roma Entrano
AUFIDIO e il suo LUOGOTENENTE AUFIDIO - Passano ancora molti col Romano(178)?
LUOGOTENENTE - Non so quale magia egli abbia addosso ma i tuoi soldati l’hanno
sempre in bocca manco fosse il “Signore benedicite” prima dei pasti, il lor discorso
a tavola e il lor ringraziamento a fine pasto(179); e tu sei messo in ombra,
generale, anche dai tuoi, in questa spedizione. AUFIDIO - Per il momento non ci
posso nulla, a men di far ricorso a tali mezzi che finirebbero con l’azzoppare
i nostri stessi piani. Anche con me si mostra assai più altero di quanto avessi
mai immaginato, il giorno che lo accolsi a braccia aperte. Ma è sua natura, in
ciò non si smentisce e io debbo per forza perdonare ciò che non è possibile
correggere. LUOGOTENENTE - Avrei desiderato tuttavia - nel tuo stesso
interesse, intendo dire - che non lo avessi associato al comando, ma che avessi
da solo preso in mano la suprema condotta dell’impresa; o l’avessi lasciata
solo a lui. AUFIDIO - Intendo quel che dici, ma sta’ certo, quando verrà che
dovrà render conto, non sa quel che saprò tirare in ballo contro di lui.
Sebbene in apparenza, come egli stesso crede - e come appare non meno bene agli
occhi della gente - ei compia tutto in piena lealtà e dimostri d’avere
buona cura degli interessi dello Stato volsco, che si batta per esso come un
drago e che tutto riesca ad ottenere col solo sguainar della sua spada, c’è una
cosa però che ha trascurato, e sarà tale da spezzargli il collo, o a mettere il
mio a pari rischio, quando verremo alla resa dei conti. LUOGOTENENTE - Che
pensi, generale, sarà capace di prendere Roma? AUFIDIO - Ogni località
s’arrende a lui, prima ch’egli s’appresti ad assediarla; la nobiltà di Roma è
tutta sua: senatori, patrizi fanno a gara a chi più l’ama. I tribuni del popolo
non son uomini d’arme, e il loro popolo sarà altrettanto pronto a richiamarlo
quanto lo è stato a decretarne il bando. Penso ch’ei sia per Roma e pei Romani
quel ch’è la procellaria per il pesce, che lo divora per suprema legge della
natura. D’essi è stato prima nobile servitore, ma incapace in seguito di
mantener le cariche con tutto l’equilibrio necessario. Sia stato orgoglio -
che, con il successo, sempre contagia l’uomo che lo coglie - sia stata assenza
di discernimento nel lasciarsi sfuggire le occasioni che pure aveva saldamente
in pugno; sia stata pure la sua stessa indole che lo rende istintivamente
inabile a mostrarsi diverso da se stesso quando passa dall’elmo del guerriero
al cuscino del seggio consolare, e a concepire che non è possibile governare la
pace col piglio e la durezza usati in guerra, sta che uno solo di questi
difetti - ché in lui di tutti quanti c’è sentore, seppur nessuno ne possieda al
massimo, ciò che finora me l’ha fatto assolvere - l’ha reso un uomo da tutti
temuto, e così odiato, e così messo al bando. Ha certamente un merito che
annulla ogni difetto al solo dirlo. Ma le virtù degli uomini, si sa,
soggiacciono alla stima del momento; e il potere, in se stesso
pregiatissimo, non ha tomba più certa che lo scanno su cui siede a esaltare ciò
che ha fatto. Così il fuoco divora un altro fuoco, e un chiodo scaccia l’altro;
così cade un diritto per forza d’un diritto, la forza per la forza d’altra
forza. Ma muoviamoci adesso... Caio Marcio, quando tua sarà Roma, tu sarai il più
povero di tutti, ed allora sarai subito mio! (Escono) SCENA Roma, una
piazza Entrano MENENIO, COMINIO, SICINIO, BRUTO e altri MENENIO - No, non ci
vado. Avete tutti udito come ha parlato a colui che fu un tempo suo comandante
e ch’era a lui legato dal più tenero affetto. Mi chiamava suo padre. E che con
ciò? Andate voi, che l’avete bandito, e prima d’arrivare alla sua tenda, un
miglio prima cadete in ginocchio e implorate la sua misericordia. No, se s’è
dimostrato indifferente a sentire Cominio, io resto a casa. COMINIO - Era come
se non mi conoscesse... MENENIO - Ecco, sentite?... COMINIO - Eppure nel
passato mi chiamò sempre per nome: Cominio. Gli ho richiamato la vecchia
amicizia ed il sangue che abbiam versato insieme; ma a chiamarlo col nome “Coriolano”
non rispondeva, e lo stesso con gli altri; come se fosse un nulla, un senza
nome, fin quando non si fosse da se stesso forgiato un altro nome, un nome
nuovo, nel braciere di Roma messa a fuoco. MENENIO - Addirittura! (Ai Tribuni)
Ecco, ora vedete, che bel lavoro avete combinato? Una bella pariglia di tribuni
che han fatto il necessario perché a Roma ci fosse del carbone a buon mercato.
Che nobile epitaffio(182)! COMINIO - Non ho mancato poi di ricordargli come
regale sia il perdonare specie se meno atteso. M’ha risposto. ch’era quella
richiesta senza senso da parte di uno Stato a una persona ch’esso stesso aveva
castigato. ATTO QUINTO MENENIO - Benissimo! Poteva dir di meno? COMINIO -
Ho cercato di risvegliare in lui l’attaccamento agli amici più cari: m’ha
risposto che non poteva certo star lì a sceverarli uno per uno in un mucchio di
pula infetta e putrida; e che sarebbe stato da imbecilli, per salvar qualche
chicco di frumento in quel putrido ammasso, astenersi dall’appiccarvi il fuoco
e seguitare ad annusarne il lezzo. MENENIO - “Per qualche chicco di frumento”,
ha detto? Uno son io di quelli, e sua madre, e sua moglie, e il suo figliolo,
ed anche questo valoroso amico, (Indica Cominio) siam tutti i granellini
ch’egli dice... (Ai Tribuni) ... ma voi siete la lolla imputridita, che spande
il suo fetore oltre la luna. E noi, per causa vostra, sarem forzati a farci
abbrustolire! SICINIO - Evvia, ti prego, non t’imbestialire! Se ti rifiuti di
prestarci aiuto, ora ch’esso ci occorre come mai, non rinfacciarci almeno la
disgrazia! Certo, però, se tu fossi disposto ad intercedere presso di lui pel
tuo paese, l’abile tua lingua sarebbe ben capace di fermarlo il nostro, come
non potrebbe fare qualunque esercito che gli opponessimo. MENENIO - No, non
voglio immischiarmi. SICINIO - Ti prego, va’ da lui. MENENIO - A far che cosa?
SICINIO - Soltanto un tentativo, quale può fare a favore di Roma il tuo legame
d’affetto con Marcio. MENENIO - Beh, mettiamo che mi rimandi indietro, senza
ascoltarmi, come pure ha fatto con Cominio... Che cosa ne verrebbe?
Nient’altro che un amico disilluso, ferito dalla sua indifferenza. Non ti pare?
SICINIO - Quand’anche così fosse, la tua prova di buona volontà non potrà non
ricevere da Roma la gratitudine commisurata alla buona intenzione dimostrata.
MENENIO - Bah, mi ci proverò. Chissà che non si degni d’ascoltarmi; sebbene
quel suo mordersi le labbra, quell’inarticolato bofonchiare che ci ha detto
Cominio, non son cose che m’incoraggino un gran che a tentare... Ma forse non
fu colto il buon momento: non aveva pranzato, e il sangue è ancora freddo nelle
vene quando queste non son ben riempite, al mattino, imbronciati come siamo,
siamo sempre, si sa, poco disposti a dare o a perdonare; quando, invece,
abbiamo riempito in abbondanza con vino e cibo queste condutture in cui si
canalizza il nostro sangue abbiamo l’animo più disponibile che non nei nostri
digiuni da preti. Perciò starò lì attento ad aspettare che sia sazio e disposto
ad ascoltarmi, e allora cercherò di avvicinarlo. BRUTO - Tu conosci qual è la
strada giusta per giungere alla sua arrendevolezza, e non ti puoi smarrire.
MENENIO - Per mia buona coscienza, io ci provo; poi vada come vuole. Non ci
sarà poi tanto da aspettare per constatare se sarò riuscito. (Esce) COMINIO -
Non sarà mai che voglia dargli ascolto. SICINIO - No? COMINIO - Ve l’ho detto:
se ne sta seduto in un seggio dorato(183), l’occhio rosso quasi a volere, col
solo suo sguardo, incenerire Roma; e la sua offesa(184) è il carceriere
della sua pietà. Gli son caduto davanti in ginocchio, e lui m’ha detto appena,
in un sussurro: “Rialzati”, e d’un gesto della mano in silenzio, così, m’ha
congedato. M’ha fatto poi sapere per iscritto quel ch’è disposto a fare e quel
che no: impegnato com’è da un giuramento ad osservare certe condizioni. È così;
non c’è nulla da sperare, salvoché, come ho udito, la sua nobile madre e la sua
sposa non vadano esse stesse a implorargli mercé per la sua patria. Perciò
muoviamoci, andiamo a pregarle di recarsi da lui quanto più presto. (Escono) SCENA
- Il campo volsco, davanti a Roma Entra MENENIO, e avanza verso due SENTINELLE
1a SENTINELLA - Alto là! Dove vai? 2a SENTINELLA - Fermati! Indietro! MENENIO -
Voi fate buona guardia, e fate bene. Ma, con vostra licenza, io sono qui in
veste di ufficiale dello Stato, e vengo per parlare a Coriolano. 1a SENTINELLA
- E da dove? MENENIO - Da Roma. 1a SENTINELLA - Non si passa! Devi tornare
indietro: il generale da lì non vuol ricevere nessuno. 2a SENTINELLA - Potrai
vedere la tua Roma in fiamme prima di colloquiar con Coriolano. MENENIO - Miei
buoni amici, se vi sia occorso d’udir parlare il vostro generale di Roma e
degli amici ch’egli ha là, c’è da scommetter mille contro uno che il nome mio
vi sia giunto all’orecchio: è Menenio. 1a SENTINELLA - Può darsi, ma va’
indietro, perché il tuo nome qua non conta niente. MENENIO - Ti dico, amico,
ascolta, ch’io son uno al quale il generale tuo vuol bene, uno che è stato,
vedi, in qualche modo il libro delle sue famose imprese, e dove gli uomini han
potuto leggere le sue gesta. magari un po’ gonfiate, per via che degli amici (e
lui è il primo) ho cercato di dire sempre bene ed in tutta l’ampiezza
consentita da verità, senza toglierci un ette. Talvolta posso aver passato il
segno, come accade a una boccia, tirata sopra un fondo diseguale; e nel far le
sue lodi m’è accaduto quasi di fabbricar moneta falsa... Pertanto, amico, credo
d’aver titolo e che tu debba lasciarmi passare. 1a SENTINELLA - Senti, amico,
se pure avessi detto in favore di lui tante bugie per quante chiacchiere hai
speso per te, di qui non passi; manco se fregare(185) fosse virtù come vivere
casti. Perciò indietro. MENENIO - Ma per favore, amico, ricordati che il mio
nome è Menenio, e sono sempre stato partigiano del partito del vostro generale.
2a SENTINELLA - Tu potrai essere, come tu dici, il suo bugiardo, quanto ti fa
comodo, io son uno che sta sotto di lui e non dico bugie, perciò ti debbo dire
che non passi. Avanti, sgombra! MENENIO - Puoi dirmi soltanto se ha già
pranzato? Non vorrei parlargli prima ch’abbia mangiato. 1a SENTINELLA - Sei
romano? MENENIO - Romano, come il vostro generale. 1a SENTINELLA - Allora tu
dovresti odiare Roma né più né meno quanto l’odia lui. Come fate a
pensare che dopo aver cacciato dalle porte colui che era il loro
difensore e dopo aver regalato al nemico il vostro scudo, possiate sperare ora
di fronteggiar la sua vendetta con i facili piagnistei di vecchie o in virtù
delle virginali palme giunte in preghiera delle vostre figlie, o per
l’intercessione paralitica d’un vecchio rimbambito come te? Come puoi credere
di poter spegnere con un debole fiato come il tuo le fiamme in cui fra poco
dovrà ardere la tua città? Ti fai illusioni, vecchio, e perciò fila, tornatene
a Roma, e prepàrati per l’esecuzione. Perché là siete tutti condannati; il
generale non v’accorderà, l’ha giurato, né tregua né perdono. MENENIO - Stammi
a sentire, amico: se il tuo capo fosse informato ch’io mi trovo qui, mi
tratterebbe con ogni riguardo. 1a SENTINELLA - Il mio capo? Nemmeno sa chi sei.
MENENIO - Volevo intendere il tuo generale. 1a SENTINELLA - Che vuoi che gliene
importi, al generale, di uno come te! Va’ indietro, via, se non vuoi che ti
faccia spillar fuori quel bicchiere di sangue che ti resta. Sloggiare, via,
sloggiare! Via di qua! MENENIO - Eh, ma... amico, un momento! Entra CORIOLANO
con AUFIDIO CORIOLANO - Che succede? MENENIO - (Alla sentinella) Oh, adesso,
amico, te lo faccio io un bel rapporto col tuo superiore! Così saprai se m’ha
riguardo o no. Vedrai se un bischero di sentinella si può permettere di
trattenermi dall’incontrarmi col mio Coriolano. Già dal modo con cui mi
tratterà potrai immaginare se per te c’è già pronta la forca o altra sorta di
più lungo supplizio. Sta’ a guardare e poi svieni, per quello che
t’aspetta! (A Coriolano) Gli dèi gloriosi seggano in consesso ora per ora a
conservarti prospero e non t’abbiano essi meno caro del tuo vecchio Menenio.
Figlio mio tu ci stai preparando fuoco e fiamme. Guarda: ecco qui l’acqua per
estinguerle. A stento hanno cercato di convincermi a venir qui da te; ma quando
io stesso alla fine mi sono persuaso che nessun altro all’infuori di me potesse
fare tanto da commuoverti, coi lor sospiri sono stato spinto fuor dalle porte
della tua città ad implorarti il perdono per Roma e pei supplici tuoi
compatrioti. Gli dèi benigni plachino il tuo sdegno e ne faccian cader l’ultima
feccia sulla testa di questo manigoldo (Indica la 2a Sentinella) che s’è
impuntato, duro come un ciocco, a sbarrarmi l’accesso a te... CORIOLANO - Va’
via! MENENIO - Come! Che dici? CORIOLANO - Moglie, madre, figlio, non li
conosco. Tutte le mie cose son sottomesse ad altri. La vendetta è tutto quanto
mi resta di mio; il mio perdono è nel cuore dei Volsci. Che un’amicizia sia
stata fra noi, sia l’ingrata oblivione suo veleno piuttosto che venirci la
pietà a ricordar quant’essa fosse grande. Perciò vattene. A queste vostre
suppliche i miei orecchi son più resistenti che le porte di Roma alle mie armi.
Tuttavia, per l’affetto che t’ho avuto, prendi questo con te: (Gli consegna una
lettera) per te l’ho scritto, e te l’avrei mandato. Altro da te, Menenio, non
starò ad ascoltare. (Ad Aufidio) Quest’uomo a Roma m’era molto caro fra tutti:
eppure tu lo vedi, Aufidio. AUFIDIO - Vedo: sei uomo di tempra costante.
(Escono Coriolano e Aufidio) 1a SENTINELLA - Sicché, compare, il tuo nome è
Menenio? 2a SENTINELLA - Caspita, un nome di molto potere. La via di casa la
conosci. Va’. 1a SENTINELLA - Hai sentito che striglia abbiamo preso per aver
bloccato Tua Eccellenza? 2° SENTINELLA - Che motivo ci avrei io di svenire,
secondo te? MENENIO - Non me ne importa più né del tuo generale, né del mondo!
Quanto ad arnesi della vostra specie faccio fatica soltanto a pensare che siete
al mondo, tanto vi considero! Chi è deciso a morir di propria mano non teme di
morir per mano altrui. Faccia pure quanto di peggio ha in mente, il vostro
generale; quanto a voi, restate pure a lungo quel che siete, e vi cresca, cogli
anni, la miseria! Dico a voi quel ch’è stato detto a me. (Esce) 1a SENTINELLA -
Un brav’uomo, però, non c’è che dire. 2a SENTINELLA - Che tipo in gamba il
nostro generale! Una roccia, una quercia che non crolla per quanti venti gli
soffino contro. (Escono) SCENA -La tenda di Coriolano Entrano CORIOLANO,
AUFIDIO e Ufficiali. Si siedono CORIOLANO - Accamperemo domani l’esercito
proprio davanti alle mura di Roma. Tu, mio collega in questa spedizione, farai
sapere ai senatori volsci con quanta lealtà verso di loro io l’ho portata
avanti. AUFIDIO - Hai guardato soltanto ai loro fini e sei rimasto
pienamente sordo alle suppliche dell’intera Roma; non hai ammesso a privato
colloquio nessuno, no, nemmeno quegli amici ch’eran sicuri di poterlo fare.
CORIOLANO - Quest’ultimo venuto, quel vegliardo che ho rinviato con il cuore a
pezzi a Roma, mi teneva ancor più caro che se fosse mio padre, ed io per lui
ero un dio. Mandarlo ora da me è stata l’ultima loro risorsa; ed io, in nome
dell’antico affetto, pur mostrandomi duro anche con lui, ho loro offerto una
seconda volta per suo mezzo le prime condizioni, le stesse ch’essi avevan
rifiutato e che ora non posson più accettare; e ciò solo per un riguardo a lui
che pensava poter fare di più. Ho ceduto ben poco. Non presterò più orecchio,
d’ora in poi, a suppliche o altre ambascerie, che vengan dallo Stato o dagli
amici... (Grida dall’esterno) Che grida sono queste? Non dovrò mica vedermi
tentato a ritrattare una promessa fatta appena adesso?... No, non lo farò.
Entrano VIRGINIA, VOLUMNIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO e altri del seguito (Tra
sé) Prima, davanti a tutti, la mia sposa; poi l’onorato grembo da cui forma
prese questo mio tronco, ed in mano a lei il nipotino del suo stesso sangue...
Ma via da me la piena degli affetti! Spezzatevi legami di natura e diritti del
sangue! La caparbia sia virtù. Che valore ha quell’inchino? Che valgono per me
gli sguardi di quegli occhi di colomba che spergiurar farebbero gli dèi?... Ma
oh!, m’intenerisco, non son di terra più forte degli altri! Mia madre mi
s’inchina... È come se l’Olimpo si curvasse ad implorare una tana di talpa; e
il mio ragazzo ha un’aria così supplice ha un’espressione così
supplichevole che par sia la Natura che mi gridi a tutta voce: “Non dire di
no!”. Ma passino coi loro aratri i Volsci sopra il suolo che vide eretta Roma,
e rompano col vomere l’Italia! Non sarò così insulso da cedere alla forza
dell’istinto, ma resterò deciso ed incrollabile come uomo padrone di se stesso
ignorando qualsiasi parentela. VIRGINIA - Mio signore e marito!... CORIOLANO -
Questi occhi non son più i miei di Roma. VIRGINIA - È la grande afflizione che
ci fa sì mutate agli occhi tuoi. CORIOLANO - (A parte) Ecco che adesso, da
cattivo attore, dimentico la parte, m’impappino fino a un fiasco completo!...
(Alzandosi e andando verso la moglie) Tu, della carne mia la miglior parte,
perdona la spietata mia durezza, ma non chiedermi in cambio di perdonar “questi
nostri Romani”. (Virginia lo abbraccia e lo bacia) Oh, mia diletta, questo
lungo bacio, lungo come l’esilio, un bacio dolce come la mia vendetta! Per la
gelosa regina del cielo, quel tuo bacio d’addio io l’ho portato sempre con me e
vergine il mio labbro da quell’istante l’ha serbato... O dèi, io sto lasciando
senza il mio saluto la più nobile madre della terra! (S’inginocchia ai piedi di
Volumnia) Già, mio ginocchio, affòndati per terra, lasciaci il calco d’una
devozione, la più grande che figlio abbia sentito. VOLUMNIA - Oh, rialzati,
figlio benedetto! (Coriolano si rialza) Son io che m’inginocchio avanti a
te su questo duro cuscino di pietra, mostrando in un tal gesto per se
stesso irriguardoso di civil decoro, come finora mal sia stato inteso il
rispetto fra figlio e genitore. (S’inginocchia) CORIOLANO - Che significa
questo? Tu inginocchiata qui davanti a me? Davanti a questo figlio tante volte
da te rimproverato? Oh, allora volino a punger le stelle anche le ghiaie
dell’arida spiaggia! Allora scaglino i venti in rivolta gli alteri cedri contro
il sole ardente, spazzando via dal mondo l’impossibile, sì che diventi all’uomo
facil opra fare che ciò che non può esser sia. VOLUMNIA - Tu sei il mio
guerriero e a farti tale io t’aiutai. Conosci questa donna? (Indica Valeria)
CORIOLANO - La nobile sorella di Publicola, luna di Roma, casta come il
ghiaccio che da neve purissima s’aggruma col gelo, e pende sul tempio di
Diana... Cara Valeria!... VOLUMNIA - (Indicando il piccolo Marcio) Questo è la
tua copia, un acerbo compendio di te stesso, che quando il tempo l’avrà
maturato potrà essere tutto il tuo ritratto. CORIOLANO - (Carezzando il viso
del piccolo Marcio) Possa il dio dei soldati, col consenso di Giove
ottimo-massimo, informarti di nobiltà la mente sì da renderti immune al
disonore e farti emergere nelle battaglie come un gran promontorio in mezzo al
mare, che regge l’impeto delle burrasche e salva tutti quelli che lo vedono!
VOLUMNIA - (Al piccolo Marcio) Giù, in ginocchio! CORIOLANO - Il mio bravo
figlietto! (Il piccolo Marcio s’inginocchia, ma il padre lo tira su)
VOLUMNIA - Ecco, anche lui, tua moglie, questa donna(195) ed io, tua madre,
siamo qui tuoi supplici. CORIOLANO - Ti scongiuro, non domandarmi nulla! O, se
qualcosa devi domandarmi, prima di tutto tieni in mente questo: le cose che
giurai di non concedere non siano mai da te considerate come rifiuti, se non le
concedo. Non chiedermi di rimandare a casa i miei soldati, o di capitolare alla
plebe di Roma un’altra volta. Non dirmi snaturato se ricuso non smorzare con
più freddi argomenti la mia rabbiosa sete di vendetta. VOLUMNIA - Oh, basta,
basta, hai detto: non sei disposto a concedere nulla... e noi qui non abbiamo che
da chiedere quello che tu hai detto di negarci. E tuttavia te lo vogliamo
chiedere, sì che, se ci fai vana la richiesta se ne possa dar colpa solo alla
tua protervia. Perciò ascolta. CORIOLANO - Aufidio, ed anche voi, Volsci,
sentite; perché in privato qui nulla da Roma s’ha da sentire. (Si siede) Che
cos’hai da chiedere? VOLUMNIA - Quand’anche rimanessimo in silenzio, senza
profferir verbo, il nostro aspetto e queste nostre vesti ti direbbero che
genere di vita abbiam vissuto da quando sei partito per l’esilio. Considera che
donne sventurate noi siamo, come nessun’altra al mondo, nel venir qui da te, se
il sol vederti, che ci dovrebbe empir di gioia gli occhi e far danzare di
conforto i cuori, li costringe al contrario a lacrimare e tremar di paura e di
dolore, e far che madre, sposa e figlioletto vedano il loro figlio, sposo e
padre che strappa i visceri alla propria terra. E l’esser tu di questa nostra
terra divenuto nemico è più funesto per noi, povere donne, che per gli
altri. Ché almeno agli altri è concesso il conforto di pregare gli dèi, a
noi per causa tua proibito. Come possiamo, ahimè, noi le tue donne, pregare il
cielo per la nostra patria (come sarebbe pur nostro dovere) e nel contempo per
la tua vittoria (come sarebbe pur nostro dovere)? Ahimè, tra dover perdere la
patria, nostra cara nutrice, o perder te, che nella patria sei nostro conforto,
andiamo incontro a una sciagura certa, qualunque sia la parte, delle due, che
possiamo augurarci vittoriosa: ché o dovrem vederti tratto in ceppi come un
nemico vinto attraversare le strade di Roma, oppur calcare da trionfatore le
rovine di questa tua città con la palma d’aver sparso da eroe il sangue di tua
moglie e dei tuoi figli(196). Quanto a me, figlio mio, non ho certo intenzione
d’aspettare qual esito la sorte avrà voluto serbare a questa guerra. Se non
potrò convincerti a far grazia con nobiltà di cuore alle due parti piuttosto
che cercare la rovina d’una sola di esse, non potrai - credimi, tu non potrai!
- muovere ad assaltare il tuo paese, figlio, senza aver prima calpestato il
ventre di tua madre che t’ha portato al mondo. VIRGINIA - E quello mio che ha
partorito a te questo ragazzo per far vivere il nome tuo nel tempo! IL PICCOLO
MARCIO - A me, però, non mi calpesterai! Io scapperò finché non sarò grande, ma
poi voglio combattere! CORIOLANO - Per non intenerirsi come femmine bisogna non
vedere innanzi a sé facce di donne o di fanciulli... Basta, ho già troppo
ascoltato. (Si alza dal seggio e fa per andarsene) VOLUMNIA - No, no, Marcio,
non lasciarci così! Se il nostro chiedere mirasse solo a salvare i Romani
e a distruggere i Volsci che tu servi, ci potresti accusar d’esser venute come
avvelenatrici del tuo onore. No, ti chiediamo di riconciliarli, sì che, da un
lato i Volsci possan dire: “Ecco mostrata la nostra clemenza”, e i Romani:
“L’abbiamo ricevuta”; e ciascuno ti acclami, da ogni parte, ed esclami: “Che tu
sia benedetto, per aver combinato questa pace!”. Tu sai, nobile figlio, come
incerte siano sempre le sorti della guerra; ma questo è certo: se conquisti
Roma il beneficio che potrai raccoglierne sarà un nome che, appena menzionato,
sarà inseguito da maledizioni come cervo da una canea latrante(197), e così
d’esso scriverà la storia: “L’uomo fu certo di gran nobiltà, della quale però
l’ultima impresa ha spazzato fin l’ultimo vestigio, ha distrutto la patria, ed
il suo nome resta esecrato per le età future”. Parlami, figlio. Tu ch’hai
sempre amato i generosi slanci dell’onore, tu ch’hai sempre aspirato ad imitar
gli dèi nella clemenza, a lacerar col tuono l’ampio spazio, come puoi caricare
la tua collera con un fulmine buono appena appena a buttar giù un querciolo...
Perché taci? Credi sia degno d’un animo nobile non saper cancellar dalla
memoria le offese ricevute? (A Virginia) Parla, figlia, parla anche tu, perché
delle tue lacrime lui non si cura. (Al piccolo Marcio) Parla anche tu, piccolo.
Forse la tenera tua fanciullezza più che i nostri argomenti può riuscire a
dargli un briciolo di commozione. Non c’è uomo che debba più di lui a sua madre,
e mi lascia qui a cianciare come una alla gogna... (A Coriolano) Per tua madre
non hai avuto mai in vita tua un tratto di filiale gentilezza; per lei
che, invece, da povera chioccia, incurante d’aver altra covata, t’ha sempre
accompagnato chiocciolando alla guerra, e t’ha ricondotto a casa felicemente e
carico d’onori. Di’ che la mia richiesta non è giusta e respingimi pure con
disprezzo; ma se tale non è, non sei onesto, e gli dèi ti faranno ripagare
questo tuo rifiutare l’obbedienza che spetta di diritto ad una madre...
(Coriolano guarda da un’altra parte) Ah, volge il viso altrove!... Donne, giù!
(S’inginocchia, e gli altri la imitano) Ci veda inginocchiati, e si vergogni!
Al soprannome suo di Coriolano meglio s’addice la boria proterva che la pietà
per le nostre preghiere. Giù, sia finita, per l’ultima volta! Poi torneremo a
Roma, e moriremo coi nostri vicini. No, no, devi guardarci! Questo bimbo, che
non sa profferir ciò che vorrebbe ma s’inginocchia e ti tende le mani con noi,
sostiene la nostra preghiera con più forza di quanto tu ne adoperi nel
respingerla. Via, andiamo via! (Si alzano) Quest’uomo ha avuto per madre una
Volsca, sua moglie sta a Corioli, e suo figlio somiglia a lui per caso. (A
Coriolano) Parla, per dirci almeno “Andate via”! Io, da qui innanzi resterò in
silenzio finché la nostra Roma non sia in fiamme; solo allora dirò qualche
parola. CORIOLANO - (Prendendole la mano, dopo lungo silenzio) Ah, madre, madre
mia che cosa hai fatto!... Guarda, s’aprono i cieli e di lassù irridono gli dèi
a questa scena innaturale! Oh, madre, madre, hai vinto! Una felice vittoria per
Roma; ma per tuo figlio - credilo, ah, credilo! - hai prevalso su lui, ma
esponendolo a un pericolo estremo, se non proprio alla morte. E così sia!
(Ad Aufidio) Aufidio, io non potrò più condurre questa guerra in piena lealtà.
Negozierò perciò una congrua pace. Ma dimmi, buon Aufidio, al posto mio,
avresti dato tu ad una madre minore ascolto? O concesso di meno? AUFIDIO - Sono
commosso anch’io. CORIOLANO - L’avrei giurato! Ché non è poco, Aufidio, che i
miei occhi trasudino pietà. Ma dimmi tu, buon collega, che pace vuoi
concludere. Per parte mia, non resterò a Roma; torno con te a Corioli e ti
prego di darmi il tuo sostegno in questa contingenza. O madre! O moglie! AUFIDIO
- (A parte) Godo a veder che ti sei messo dentro questo conflitto tra pietà ed
onore; ed è proprio su questo che farò rifiorir la mia fortuna. CORIOLANO -
(Alle donne) Subito, sì. Beviamo prima insieme. Ma voi dovete riportare a Roma
miglior testimonianza della cosa che non sian le parole: un documento dalle due
parti rato e sigillato. Venite, dunque, entrate insieme a noi. Donne, voi
meritate a Roma un tempio: tutte le spade che sono in Italia e i suoi eserciti
confederati non avrebbero fatto questa pace. (Escono) SCENA. Roma, una piazza
Entrano MENENIO e SICINIO MENENIO - Lo vedi quello spigolo di pietra lassù sul
Campidoglio? SICINIO - Ebbene, allora? MENENIO - Ebbene allora se tu col
tuo mignolo riesci a smuoverlo, qualche speranza vuol dir che c’è che le donne
di Roma, soprattutto sua madre, lo convincano. Ma io ti dico che non c’è
speranza. Le nostre gole sono condannate, si tratta solo d’aspettare il boia.
SICINIO - Possibile che in così poco tempo possa cambiare l’animo di un uomo?
MENENIO - Tra un bruco e una farfalla ce ne corre; eppure la farfalla è stata
un bruco. Questo Marcio, da uomo ch’era prima s’è tramutato in drago. Ha messo
l’ali. Non è più cosa che striscia per terra. SICINIO - A sua madre era molto
affezionato. MENENIO - Ah, per questo anche a me; ma di sua madre adesso si
ricorda non più che della sua uno stallone partorito da lei ott’anni fa. Porta
sul viso i segni di un’asprezza da far inacidir l’uva matura. Quando cammina
par né più e né meno che stia muovendosi una catapulta: la terra si raggrinza
al suo passare. Ha uno sguardo che fora le corazze, parla rintocchi di campana
a morto, e borbotta come una sparatoria. A vederlo seduto sul suo scanno pare
la statua d’Alessandro Magno. Se dà un ordine, questo è già eseguito prima ch’abbia
finito d’impartirlo. Gli manca solo, per essere un dio, l’eternità e un cielo
in cui regnare. SICINIO - E la pietà, se è vero il tuo ritratto. MENENIO - Io
lo dipingo per quello che è. Vedrai quanta pietà saprà ottenere da lui sua
madre. Ce n’è meno in lui pietà, che latte in una tigre maschio. Se ne avvedrà
questa povera Roma. SICINIO - N’abbian gli dèi misericordia! MENENIO - No, in
questo caso gli dèi non ne avranno! Non avemmo per loro alcun rispetto
quando l’abbiam cacciato e messo al bando; ora che torna a fracassarci il
collo, non possiamo dagli dèi rispetto. Entra un MESSO MESSO - (A Sicinio) Se
vuoi salva la vita, corri a casa, i plebei hanno preso il tuo collega e lo
trascinano di su e di giù, giurando in coro che se le matrone non dovessero riportare
a casa qualcosa che dia loro alcun conforto, lo linceranno, lo faranno a pezzi.
Entra un SECONDO MESSO SICINIO - Notizie? SECONDO MESSO - Buone! Buone! Le
matrone ce l’hanno fatta: i Volsci hanno sloggiato e Marcio è andato via. Roma
non salutò più fausto giorno, nemmeno alla cacciata dei Tarquinii. SICINIO -
Amico, sei sicuro che sia vero? Proprio sicuro? SECONDO MESSO - Come il sole è
fuoco. Ma tu dove sei stato fino ad ora che non ci credi? Mai un fiume in piena
irruppe sotto l’arcata d’un ponte, con l’impeto con cui s’è riversata tutta la
gente, ormai rassicurata, attraverso le porte. Ecco, li senti? (Frastuono
all’interno di trombe, oboi, tamburi, voci, alla rinfusa) Trombe, sambuche,
pifferi, salterii, cimbali, tamburelli(200), e tutta Roma urla da far ballare
il sole. Senti? (Grida di gioia all’interno) MENENIO - Splendido! Vado incontro
alle matrone. Questa Volumnia vale, solo lei, tanti consoli, senatori, nobili
da popolare un’intera città; tribuni come te, poi, ce ne vogliono, appetto a
lei, un mare, un continente. Oggi dovete aver pregato bene: stamattina
non avrei dato un soldo per diecimila delle vostre teste. Senti come si sgolano
di gioia! (Altre voci e grida all’interno) SICINIO - (Al Messo) Prima, ti
benedicano gli dèi per la bella notizia che hai portato; e poi accetta i miei
ringraziamenti. SECONDO MESSO - Tribuno, qui di far ringraziamenti abbiamo
tutti abbondanti ragioni. SICINIO - Son presso la città? SECONDO MESSO - Quasi
alle porte. SICINIO - Allora andiamo tutti loro incontro, ad accrescer la gioia
della festa. (Escono) SCENA V - Strada presso la porta della città Entrano,
attraversando la scena, due SENATORI con VOLUMNIA, VIRGINIA, VALERIA, il
PICCOLO MARCIO, seguiti da altri PRIMO SENATORE - Ecco, guardate, la nostra
patrona, la salvezza di Roma! Chiamate ad adunata le tribù, innalzate agli dèi
ringraziamenti, ed accendete fuochi trionfali! Spargete fiori sul loro cammino,
e cancellate con gioiose grida il clamore che mise al bando Marcio;
richiamatelo dando il benvenuto a sua madre, gridando tutti in coro:
“Benvenute, matrone, benvenute!”. TUTTI - Benvenute, matrone, benvenute!
(Fanfara con trombe e tamburi. Escono tutti) SCENA Corioli, una piazza Entra
TULLO AUFIDIO con seguito AUFIDIO - Andate ad annunciare ai senatori
ch’io sono qui a Corioli, e consegnate loro questa carta. La leggano e poi
vadano nel Foro dove dinanzi a loro e a tutto il popolo io fornirò le prove di
tutto quanto v’han trovato scritto. L’uomo che in essa accuso a quest’ora si
trova già in città e intende presentarsi avanti al popolo nella speranza che
con un discorso riesca a scagionarsi. Fate presto. (Escono alcuni del seguito)
Entrano alcuni CONGIURATI del partito di Aufidio Benvenuti! 1° CONGIURATO -
Stai bene, generale? AUFIDIO - Come uno ch’è rimasto avvelenato dalle proprie
elemosine ed ucciso dalla sua stessa generosità. 2° CONGIURATO - Aufidio
nobilissimo, se ancora sei dello stesso proposito del quale ci hai voluto tuoi
partecipi, noi siamo pronti a sbarazzarti subito di questo gran pericolo.
AUFIDIO - Non so che dirti. Bisognerà agire come troviamo gli umori del popolo.
3° CONGIURATO - Il popolo non si saprà decidere, finché duri il contrasto fra
voi due; ma una volta caduto l’uno o l’altro, sarà tutto per quello che rimane.
AUFIDIO - Lo so, e il mio pretesto per colpirlo è basato su solidi argomenti.
Io l’ho fatto salire, ed ho impegnato sulla sua lealtà l’onore mio; ma, giunto
così in alto, egli ha innaffiato i suoi nuovi germogli con la rugiada
dell’adulazione, seducendomi tutte le amicizie. Ed a questo ha piegato la sua
indole, mai conosciuta prima altro che rude, indomabile, chiusa, indipendente.
3° CONGIURATO - Già, quella sua proterva ostinazione, quando concorse per
il consolato che perdette per non voler piegarsi... AUFIDIO - Stavo per dirlo. Bandito
per questo, venne a cercar rifugio a casa mia, presentando la gola al mio
coltello. Io l’accolsi, lo feci mio collega nel comando, gli detti aperta via a
soddisfare ogni suo desiderio; anzi, gli feci sceglier da lui stesso tra le mie
file gli uomini migliori per meglio perseguire i suoi disegni; mi misi io
stesso a sua disposizione e l’ho aiutato a mieter quella fama che ha finito per
fare tutta sua, al punto da sentirmi io stesso fiero di recare a me stesso
questo torto. Ho fatto fino all’ultimo la parte d’un umile e modesto suo
seguace, e non già quella d’un suo pari grado, ed egli me l’ha sempre ripagato
con ostentata altera sufficienza, manco se fossi stato un mercenario... 1°
CONGIURATO - È vero, generale; la truppa n’è rimasta sbalordita. E infine,
quando aveva in mano Roma e ci arrideva a tutti un gran bottino, oltre alla
gloria... AUFIDIO - Questo è proprio il punto su cui concentrerò contro di lui
tutte le fibre; il sangue ed il sudore che ci è costata questa grande impresa
egli li ha bassamente barattati per quattro lagrimucce di donnette, che non
valgono più delle bugie. Perciò deve morire, ed io risorgerò dal suo tramonto.
Ma eccolo, sentite queste grida? (Tamburi e trombe da dentro, fra grida di
popolo) 1° CONGIURATO - Tu sei entrato nella tua città come un qualsiasi comune
corriere: nessuno t’aspettava a salutarti; ed ecco che lui torna, e il lor
clamore spacca l’arco del cielo! 2° CONGIURATO - E questi idioti avvezzi a ogni
sopruso ai quali lui ha massacrato i figli si spellano i lor vili
gargarozzi ad osannarlo. 3° CONGIURATO - Tu, al momento giusto, prima che parli
e che commuova il popolo, fagli sentir la lama della spada, noi ti daremo mano.
Lui caduto, racconta lor la storia a modo tuo: avrai così seppellito per sempre
le sue ragioni insieme al suo cadavere. AUFIDIO - Silenzio, i senatori. Entrano
i SENATORI della città TUTTI I SENATORI - (Ad Aufidio) Un caldissimo bentornato
a casa! AUFIDIO - Non lo merito... Nobili signori avete letto bene quanto ho
scritto? TUTTI I SENATORI - Sì, certo. PRIMO SENATORE - E con non poco
dispiacere. Perché quali che fossero le colpe da lui commesse prima di
quest’ultima avrebbero trovato, a mio giudizio, facile ammenda; ma finire là
dove avrebbe dovuto cominciare, gettando via l’indubbio beneficio d’avere nelle
mani il nostro esercito con le spese di guerra a nostro carico, e stipulando un
trattato di pace con un nemico che s’era già arreso... tutto questo non può
presso di noi trovare alcuna giustificazione. AUFIDIO - È qui che viene. Potete
ascoltarlo. Entra CORIOLANO, alla testa di soldati in marcia, con tamburi e
vessilli; dietro una folla di popolo CORIOLANO - Salute a voi, signori! Ritorno
a voi come vostro soldato, non più preso d’amor per la mia patria di quando son
partito; e sempre sottomesso ed ossequiente alla vostra suprema autorità.
Sappiate che ho condotto questa impresa con successo, e guidato i vostri
eserciti attraverso passaggi sanguinosi fino davanti alle porte di Roma.
Il bottino che abbiamo riportato può compensare per almeno un terzo la spesa
sostenuta per la guerra. Abbiam fatto una pace altrettanto onorevole pei Volsci
quanto disonorevole per Roma; e qui vi consegniamo il documento col testo del
trattato stipulato, sottoscritto da consoli e patrizi, munito del sigillo del
Senato. AUFIDIO - Non leggetelo, nobili signori! Dite piuttosto a questo
traditore ch’egli ha abusato fuor d’ogni misura dei poteri che voi gli avete
dato. CORIOLANO - Io, traditore? AUFIDIO - Sì, tu, Marcio! CORIOLANO -
Marcio... AUFIDIO - Sì Marcio, Marcio, dico: Caio Marcio! O credi forse ch’io
ti faccia bello chiamandoti col tuo nome rubato, Coriolano, a Corioli?...
Senatori, voi che sedete a capo dello Stato, costui s’è comportato con perfidia
da traditore della vostra causa ed ha ceduto la vostra città, sì, dico, Roma,
ch’era già vostra, per poche goccioline d’acqua salsa, alla madre e alla
moglie, stracciando via giuramenti e propositi come una stringa di seta
tarlata, senza curarsi mai di convocare un consiglio di guerra. Così alle
lacrime della sua balia, egli, tra molti gemiti e guaiti ha dato ai cani la
nostra vittoria, sì da far arrossire di vergogna perfino le ramazze
dell’esercito(203) e costringere gli uomini di tempra a guardarsi in silenzio,
sbalorditi. CORIOLANO - O Marte, ascolti? AUFIDIO - Non lo nominare quel dio,
piagnucoloso ragazzotto! CORIOLANO - Eh?... AUFIDIO - Non sei altro!
CORIOLANO - Sfacciato bugiardo! Vil carogna, mi fai scoppiare il cuore!
“Piagnucoloso ragazzotto”, a me! Signori, perdonatemi, questa è la prima volta
in vita mia che mi vedo costretto ad insultare. Questo cane, signori venerandi,
sarà smentito dal vostro giudizio; e tutto quanto potrà dir di me - lui, che
porta stampati nella carne i segni dei miei colpi, lui, che deve portarsi nella
tomba le cicatrici delle mie batoste - dovrà unirsi alla vostra verità per
ricacciargli in gola la menzogna. 1° SENATORE - Calmatevi, voi due, ed
ascoltatemi. CORIOLANO - Volsci, fatemi a pezzi! Grandi e piccini, uomini e
ragazzi, intingete le lame nel mio sangue! “Ragazzotto”!... A me! Cane
bastardo! Se nelle cronache in vostro possesso c’è scritto il vero, ci
dev’esser scritto ch’io, come un’aquila in un colombaio, ho seminato tra i
vostri, a Corioli, il putiferio. E l’ho fatto da solo! “Piagnucoloso
ragazzotto”... Eh?! AUFIDIO - E voi, nobili padri, permettete a questo
maledetto fanfarone di richiamare alla vostra memoria, innanzi agli occhi
vostri, ai vostri orecchi, quello che fu un suo colpo di fortuna, e la vostra
vergogna? TUTTI I COSPIRATORI - E per ciò, muoia! TUTTI I POPOLANI - Sì,
facciamolo subito! Linciamolo! A me ha ucciso un figlio! A me una figlia! A me
il cugino Marco! A me mio padre! 2° SENATORE - Calma, oh! Niente violenze!
Calma! È un uomo di valore, ed il suo nome abbraccia tutto l’orbe della
terra. Il suo colpevole comportamento in questa guerra sarà giudicato secondo
legge. Aufidio, tu non muoverti, e non turbare la pubblica quiete. CORIOLANO -
Ah, se potessi usar contro di lui, contro sei altri Aufidi ed anche più, e
tutta la sua razza, questa spada! La farei io la legge! AUFIDIO - Insolente
canaglia! (A questo punto, d’improvviso i cospiratori traggono le spade e
uccidono Coriolano, che crolla a terra. Aufidio gli mette un piede sopra) I
COSPIRATORI - Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! I SENATORI - Fermi!
Fermi! Fermatevi! Fermatevi! AUFIDIO - Ascoltatemi, nobili signori! 1° SENATORE
- Ah, Tullo, cos’hai fatto! 2° SENATORE - Tullo, ti sei macchiato di un’azione
sulla quale il valore piangerà. 3° SENATORE - Togli quel piede da sopra il suo
corpo! E voi tutti, silenzio! Via le spade! AUFIDIO - Signori, quando avrete
conosciuto (ora non lo potete certamente, nello scompiglio da lui provocato)
qual pericolo fosse per voi tutti quest’uomo, vi dovrete rallegrare che sia
stato così eliminato. Piaccia alle vostre signorie onorevoli di convocarmi
davanti al Senato: mi metterò, da fedel servitore, alla mercé della vostra
giustizia, accetterò la più grave condanna. 1° SENATORE - Portate via il
cadavere. Si prepari per lui un funerale con la solennità che si conviene
ad onorare la salma più nobile che mai araldo accompagnò alla tomba. 2°
SENATORE - L’irruenza di lui libera Aufidio da gran parte di colpa. Ora
ciascuno faccia tesoro di quel che è successo. AUFIDIO - La mia collera è, ora,
tutta spenta, mi sento sol pervaso da tristezza. Solleviamolo. Diano qua una
mano tre dei soldati di più alto grado. Io sarò il quarto. (Al tamburino) Tu,
batti il tamburo, voi, voltate le picche, punta a terra. Pur se in questa città
molte mogli egli abbia reso vedove e molte madri privato dei figli, s’abbia da
noi la degna sepoltura che spetta a un grande cuore. Su, aiutatemi! (Escono
portando a spalla il corpo di Coriolano, al rullo prolungato del tamburo). Sapeva,
come nessun altro, l’arte di “flatter le peuple” e farsi da esso benvolere,
ricorrendo senza scrupoli ad ogni sorta d’intrighi personali (Senofonte,
“Memorabili”, citato da Romilly in “Alcibiade”, ed. De Fallois, Parigi,
Melchiori, “Shakespeare”, Laterza, Bari “Il préférait l’opportunitè aux
principes” (Romilly, “But they think we are too dear”: frase d’incerta
interpretazione. Qualcuno (D’Agostino) intende: “Ma per loro stiamo bene così
come siamo”, cioè magri. “Ere we become
rakes”: “rake”, era simbolo di magrezza; si diceva “magro come un rastrello”
(“as lean as a rake”). “I need not be
barren of...” letteralm.: “Non c’è bisogno ch’io ne sia sterile...”. Il testo
gioca sull’aggettivo “strong” che con “breath” ha il significato di “bad
smelling”, “fiato che puzza”. “I shall tell you a pretty tale”: qui “pretty” ha
il senso di “properly”, “shaperly formed”, “tagliato al caso”, “ben tagliato”.
(9) Cioè non con la parola ma col gesto delle labbra. (10) Cioè sulle labbra.
“Fore me, this fellow speaks!”: “Parola mia, questo compare ha la lingua
sciolta!” Il primo cittadino fa anche il saputo, e Menenio esprime a se stesso
la propria stizza. “... the cormorant belly”: il cormorano, vorace uccello dei
mari australi, è simbolo dell’insaziabilità (cfr. “Riccardo II” “Light vanity,
insatiate cormorant”). Simile immagine dello stomaco è in Dante, “Inferno”:
“... il tristo sacco/ che merda fa di quel che si trangugia”. “... and fit it is”: “is fit”
ha qui valore imperativo di “is duty of...”, “is due to...”; e “and” ha valore
avversativo. “The one side must have the bale”: la
frase è ironica, per intendere che si sa bene chi avrà la peggio. È il gesto di
scherno con cui Menenio chiude il suo apologo. Cominciato in tono amichevole,
quasi sottomesso, questo è venuto man mano crescendo d’enfasi e di efficacia
persuasiva, fino all’invettiva finale di Menenio contro il suo interlocutore
principale, il Primo cittadino, e al sarcasmo per l’esito della sommossa.
L’entrata in scena di Caio Marcio e il tono trionfale con cui Menenio lo saluta
sono il suo magistrale coronamento. “The one affrights you”, letteralm.: “L’una
vi terrorizza”; ma Coriolano è uno d’arme, e nel suo “affrights you” c’è il
disprezzo di chi ha paura di andare a battersi in armi. (17) “Keep you in awe”:
“to keep in awe” è espressione colloquiale per “trattenere qualcuno, se necessario,
con la forza”. In realtà il Senato romano non si riuniva in Campidoglio, ma
nella Curia Hostilia, al Foro, o nella Curia Pompeiana, presso il teatro di
Pompeo, dove fu ucciso Cesare. Ma per Shakespeare il Campidoglio è il centro
politico della Roma antica. “... as high
as I could pick my lance”: “pick”, nell’inglese del ’500 era sinonimo di
“throw”, “lanciare (in ogni direzione)”. “Convinti”, cioè, a desistere dalla
sommossa. “What says the other troop?”:
Marcio proviene da un’altra parte della città, dove - come ha detto prima il
Primo cittadino - la plebe è già insorta. Il testo, come spesso in Shakespeare,
ha la frase in astratto: “... da spezzare il cuore alla generosità”. Così dice
Plutarco; in verità, quanti fossero i “tribuni plebis” nella prima repubblica,
non si sa, le fonti si contraddicono. Con certezza si sa che furono dieci dopo
il 448 a.C. Qui, per tutto il dramma, ne compaiono soltanto due, Bruto e
Sicinio. Per Coriolano, rappresentante della classe guerriera, una guerra è
rimedio sicuro per interrompere le lotte interne e, insieme, togliere di mezzo
quello che egli chiama “ammuffito superfluo” (“musty superfluity”) negli uomini
e nelle istituzioni. È il primo tratto, dopo le sprezzanti invettive alla
plebe, che Coriolano fa da se stesso del suo carattere: orgoglioso, fazioso,
intollerante; e il primo accenno alla sua rivalità con l’altro grande guerriero
del dramma, il volsco Aufidio. “.. his lips and eyes”: boccacce e occhiatacce.
La luna come divinità era impersonata da Diana, la dea della castità muliebre.
Marcio, quando s’arrabbia, è sboccato anche in senso lubrico. “We never yet
made doubt but Roma was ready to aswer us”: letteralm.: “Mai noi finora ponemmo
in dubbio che Roma fosse pronta a risponderci”. Cioè al momento della loro
messa in atto. Plutarco - ch’è la fonte di Shakespeare per questo dramma - così
spiega la ragione per cui i Romani usavano incoronare di fronde di quercia la
fronte dell’eroe: “... o perché riverissero sovra l’altre piante la quercia in
onore degli Arcadi... o perché tosto e in ogni parte i soldati trovavano fronde
di quercia... l’albero sacro a Giove, protettore della città” (“Vita di
Coriolano”). La guerra cui accennava Volumnia è quella contro Tarquinio il
Superbo, che tentava di rientrare a Roma dopo la vittoria del Lago Regillo sui
Latini. Questa immagine nella mente esaltata della madre, che vede il
figlio/eroe trascinar nella polvere, presolo pei capelli, il nemico ucciso, e,
più sotto, quella di lui che schiaccia al nemico abbattuto la testa col
ginocchio, si rivelerà un tragico presagio all’inverso del destino di Marcio.
“You were got in fear, though you were born in Rome”: letteralm.: “Voi siete
stati concepiti nella paura, sebbene siate nati a Roma”.“It more becomes a man
than gilt his trophy”: il “trofeo” era il cumulo delle armi e delle spoglie del
nemico vinto, che il vincitore appendeva ad un albero o ammucchiava sul luogo
della battaglia, per offrirlo in voto di ringraziamento agli dèi: tanto più
bello e prezioso se le armi luccicassero d’oro. Cioè conquistare la città di
Corioli assediata. “Amongst your cloven army”: i Volsci sanno che quello che li
assedia è metà dell’esercito romano, l’altra metà essendo impegnata a
respingere il loro, capitanato da Tullo Aufidio. “Sensibilmente” (“sensibly”)
ha qui valore di “con sensi vivi del tuo essere”, in opposto all’inerte materia
della tua spada (cfr. in Dante, “Inferno”: “Tu dici che di Silvio lo parente /
Corruttibile ancora, ad immortale / Secolo andò e fu sensibilmente”). “A
carbuncle entire”: “entire” è qui nel suo significato di “perfect”, e la
perfezione di un diamante si giudica dalla sua luce. In verità, Catone è
vissuto 250 anni dopo Coriolano; ma Shakespeare segue pedissequamente Plutarco,
e non si cura degli anacronismi. Questa didascalia, che figura in molte fonti,
lascia intendere, se ce ne fosse bisogno, che il corso dell’azione scenica ha
saltato quel che è successo a Marcio dopo che è rimasto chiuso da solo in
Corioli. Lo si saprà dall’elogio che gli farà più sotto Cominio. “... their
honours”: si accetta la lezione “honours” dell’“Oxford Shakespeare”, in luogo
di quella “... their hours” dell’Alexander (la cui traduzione sarebbe: “Un’ora
di battaglia per costoro...”). “A craked drachma”: le monete crepate
hanno un suono fasullo e non valgono più. Ma la dracma era moneta greca. È
un’altra prova che Shakespeare copia acriticamente il greco Plutarco. Il boia
aveva il diritto di appropriarsi dei vestiti del condannato da lui giustiziato.
“The general” è, s’intende, Aufidio, che si sta battendo con Cominio, a meno di
un miglio e mezzo di distanza, come ha annunciato prima il Messaggero. La
traduzione letterale di queste parole di Cominio sarebbe: “Non distingue il
pastore il tuono da un tamburo/ più di quanto io distingua il suono della voce
di Marcio da quello di qualsiasi altra”.
Cioè: “Arrivi tardi, se sei ferito (se fossi venuto prima non lo saresti
stato). Ma se quello che hai addosso è sangue nemico, non sei affatto in
ritardo”. “O me alone, make you a sword
of me”: è uno dei versi più discussi del dramma. La lezione è incerta. C’è chi
lo fa seguire da un punto interrogativo (“Oxford Shakespeare”, cit.), come se
Marcio dica ai soldati che lo sollevano in aria: “Povero me, volete fare di me
una spada?”; chi ci mette un esclamativo (è la lezione qui adottata); chi
addirittura (Brockbanck) l’attribuisce ai soldati. Secondo noi, Shakespeare fa
esclamare Marcio con l’espressione massima del condottiero che incita i suoi
alla battaglia: “Di me solo, fate la vostra spada!”; che è, tra le altre lezioni,
anche la più poetica. “... dispatch
those centuries to our aid”: quali centurie intenda Larzio, non si capisce;
forse egli accompagna la frase con un gesto ad indicare le truppe rimaste
accampate fuori le mura di Corioli; o forse “quelle” vuol indicare “quelle
sulle quali ci siamo già intesi che ci avreste mandato”. “Fear not out care,
Sir”: letteralm.: “Non aver timori sulla nostra premura, signore”. “Fix thy foot”: letteralm.: “Tienti saldo sui
piedi”, espressione che nel gergo cavalleresco significava: “Sta’ in guardia!”.
“Wert thou Hector/ That was the hip of your bragged progeny”: Aufidio chiama
Ettore “frusta” dei suoi Troiani, dai quali i Romani, da Enea, discendevano, ad
intendere che anche Marcio, come Ettore, è per i suoi esempio di virtù guerriera.
Per i segnali musicali in tutto il teatro shakespeariano, v. la “Nota
preliminare” alla mia traduzione del “Re Lear”. Senso: “Eppure a questo
banchetto (l’orgia di sangue della battaglia) al quale tu sei venuto tardi, tu
non hai mangiato che un boccone, rispetto al grande banchetto che avevi già
fatto (a Corioli)”. Queste battute tra Marcio e Cominio danno un’altra forte
pennellata al ritratto dell’eroe. Cominio - per la cui bocca è Shakespeare che
parla - non crede alla modestia di Marcio: il suo rifiuto d’ogni lode per
l’impresa di Corioli, che gli darà il trionfale soprannome di Coriolano, e di
partecipare in forma privilegiata alla divisione del bottino di guerra è solo
una manifestazione dell’egocentrismo dell’uomo e della sua smisurata superbia.
E Cominio, elegantemente, con moderazione e senza offenderlo, ce lo fa
intendere. “But cannot make my heart consent to take e bribe to pay my sword”:
in quel “bribe” che vale, più che “mancia”, “compenso dato a qualcuno per
corromperlo”, c’è tutto il carattere sdegnoso di Marcio. La didascalia ha
“Flourish”, che è uno dei segnali musicali del teatro shakespeariano. Perché la
loro funzione è quella di strumenti di guerra e non di adulazione. “Let him be
made an ovator for th’ wars”: si accetta la lezione “ovator” in luogo di
“ouverture” di altri testi, perché, pur nella relativa oscurità della frase,
sembra la più pertinente, oltre che la più poetica. “Ovator” è termine creato
da Shakespeare forse in derivazione da “ovate”, derivato a sua volta dal latino
“vates”, “vate”, “bardo”, “profeta”; sì che il senso ci sembra essere: “Sia
ormai il parassita, vestito di morbida seta, e non più il guerriero vestito di
duro ferro, il simbolo della guerra”. Pertanto “him” sarebbe riferito a
“parasite” del verso precedente. Il testo ha semplicemente: “safety”, che non è
tanto “con calma” o “serenamente”, ma “in safety”, “in security” (che
giustifica le manette). “... that Caius Marcius wears this war’s garland”:
letteralm.: “... che Caio Marcio veste la ghirlanda (di trionfatore) di questa
guerra”. D’ora in poi, il personaggio
sarà indicato col nome di Coriolano, non più con quello di Caio Marcio. Questo
episodio del prigioniero di Corioli che l’aveva ospitato e del quale egli
chiede la liberazione, ma non ne ricorda il nome, introduce un magistrale tocco
psicologico sulla personalità dell’eroe. L’episodio è in Plutarco, dove però
l’ospitante è “un ricco e onesto cittadino”: in Shakespeare diventa “a poor
man”, senza nome, del quale nel dramma non si saprà più nulla; nemmeno se è
stato liberato. “La magnanimità del condottiero non sa estendersi alla comune
umanità, i poveri non hanno nome e perciò sono dimenticati” (Melchiori,
“Shakespeare” Ripete, con altre parole, il concetto di prima: è sparito in lui
ogni scrupolo d’onore; il suo valore - di cui l’onore è cospicuo componente - è
avvelenato. Aufidio enumera qui tutte le situazioni che, secondo le leggi della
cavalleria medioevale (ma agli anacronismi di Shakespeare siamo abituati)
impedivano di perseguire un avversario: quando dormisse; quando trovasse asilo
in un luogo sacro (“sanctuary”); quando assistesse in un tempio a funzioni
religiose o sacrificali. A Corioli, occupata dai Romani. Questa scena, che
chiude l’atto, chiude anche la serie di avvenimenti incentrati intorno all’impresa
di Corioli, dalla quale Marcio ha tratto il suo soprannome. Il quadro è ormai
completo: alla figura di guerriero violento e perfidamente machiavellico di
Aufidio fa riscontro lo sfrenato orgoglio di Marcio, che disprezza e
insulta la soldataglia romana che pensa più a far bottino che a
combattere, la saggezza politica di Cominio, il comportamento smargiasso dei
notabili volsci che fanno tentare ai loro una sortita sotto gli occhi degli
assedianti. “Will not you go”: è improbabile che il soldato dica ad Aufidio:
“Tu non vieni?”, come intendono molti. Aufidio non può andare in una città
occupata dai Romani, che sarebbe riconosciuto; e il soldato non può non
saperlo. “In what enormity is Martius poor...”: “poor” non ha qui il senso di
“povero”, “privo”, “difettoso”, ma di “contemptible”: altrimenti la frase non
avrebbe senso. “... I mean of us of the right-hand file...”: solo al tempo di
Shakespeare, nelle parate militari, la fila a destra del sovrano era riservata
ai nobili. È uno dei soliti anacronismi shakespeariani. “... for a very little
tief of occasion will rob you of great deal of patience”: letteralm: “...
perché anche un piccolo furtarello d’occasione vi deruba di molta pazienza”.
Senso: “A gente come voi basta il minimo pretesto per farla diventare
sproporzionatamente irascibile e intollerante”. “One that loves a cup of hot
wine”: “hot” sta qui per “generoso”, ma anche, secondo alcuni, proprio per
“caldo”, il vino caldo (che però si diceva “mulled wine”) essendo molto in uso
in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Si legga come si vuole. Licurgo, il grande uomo politico greco,
divenuto esempio di saggezza politica. “... I find the ass in compound”:
letteralm: “... trovo l’asino in amalgama”, “un concentrato d’asineria”. Il
testo ha “an orange-wife”, “una venditrice di arance”. Menenio parla qui come
se i tribuni della plebe avessero anche funzioni giurisdizionali; il che non è
storicamente esatto. Plutarco parla di loro come “magistrati”, ma nel senso
classico di persone investite di pubblica carica. “...(you)... set up the bloody flag...”: la
bandiera rossa era la bandiera di guerra, o di resistenza nelle città
assediate, in contrapposto alla bandiera bianca della resa. “... against all patience”: cioè non
curandovi, o a dispetto di quelli che aspettano giustizia. Ma si può anche
intendere: “Contro ogni limite di tolleranza”. Il testo ha: “... the more
entangled by your hearing”, letteralm.: “... tanto più imbrogliata dalla vostra
udienza”. “... such ridiculous subjects as you”: “ridiculous” ha qui il senso
di “risibile”, “da poco”, “insignificante”, non quello di “che fa ridere”. Con
capelli e crini s’usava imbottire cuscini, sellame per cavalcature e anche
palle da tennis. Deucalione è il corrispondente pagano del biblico Noè,
progenitore dell’umanità, dopo Adamo. Il suo mito è che quando Zeus, nell’età
del bronzo, scatenò sulla terra il diluvio per punire gli uomini, Deucalione
costruì un’arca e vi entrò insieme con la moglie Pirra. I due, rimasti gli
unici scampati al diluvio, su consiglio di Temi ripopolarono il mondo, gettando
sassi alle loro spalle all’uscita del tempio della dea: i sassi scagliati da
Deucalione diventarono uomini, donne quelli scagliati da Pirra. Galeno, il
padre della medicina greco-romana, soprannominato “principe dei medici”, autore
di circa 500 trattati. Solo che Galeno è vissuto nel II secolo dopo Cristo,
dunque almeno 600 anni dopo Coriolano! “... is but empiricutic”:
“empiricutique” nell’in-folio è, verosimilmente una deformazione, in chiave
comico- dispregiativa, di “empirical”.
“... and not without his true purchesing”: letteralm.: “... e non senza
che egli l’abbia pagate di tasca sua”. Coriolano ha bisogno di “vere” ferite da
mostrare al popolo, quando ne chiederà il favore per ottenere il consolato.
Perciò s’insiste qui sulla “verità” delle sue ferite. “God save your
worships!”: “God” al singolare è nel testo, e così lo si è tradotto. Ma è
invocazione cristiana. I pagani di Coriolano invocavano gli dèi (“Gods”).
Coriolano aveva partecipato alla cacciata dei Tarquini da Roma (provocata dallo
stupro che Tarquinio Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo, aveva fatto a
Lucrezia) e alla instaurazione della Repubblica. Questa battuta di Volumnia,
ritenuta di palese fattura non-shakespeariana, è omessa da molti testi; ma
serve teatralmente a preparare l’ingresso in scena del corteo dei
vincitori. “My gracious silence, hail!”:
questo saluto di Coriolano alla sua sposa contiene una tale carica di poetica
tenerezza, che comunque tradotta diversamente dalla sua lettera, si perderebbe.
Baldini traduce: “Mia tacita sposa”, altri “mia graziosa taciturna”, “mia bella
silenziosa”... ma non è lo stesso! “And
live you yet?”: letteralm.: “E sei ancor vivo?”. Ma in italiano un saluto del
genere è tutt’altro che un saluto. Si scusa con Valeria per non averla vista
prima. “A curse... at very root on’s heart...”: “curse” qui non è
“maledizione”, come intendono molti; il vocabolo, nell’inglese aveva lo stesso
significato di “bane”, termine che esprime tutto ciò che distrugge fisicamente,
fino a far morire; perciò “cancro”. “By faith of men...”: espressione da
intendere non altro che come semplice esclamazione derivata dalla più usata “By
my faith”, che riecheggia il francese “ma foi”. Non credo si possa intendere
“Per la mia fiducia negli uomini” (Baldini e altri), che non sembra avere molto
senso, specie in bocca a Menenio. “Ere in our own house I do shade my head”: “To shade
his own’s head” significa “togliersi alla vista degli altri”, “to shade” avendo
il senso di “screan”, “mask”, “recess”. “The
good patricians must be visited”: qui, come altrove, Shakespeare chiama
“patricians” i membri del Senato. Altro smaccato anacronismo: nella Roma
di Coriolano gli occhiali non esistevano (furono inventati intorno al 1300 dopo
Cristo!). “... her richest lockram”: il
“lockram” era un tipo di stoffa che prendeva il nome dall’omonimo villaggio
della Britannia, dove si fabbricava. Qui deve trattarsi di una sciarpa o di una
stola, se è indumento da “appuntarsi al collo” (“pins... about her neck”). I Flàmini (“Flamines”) sono sacerdoti
incaricati del culto di una singola divinità (per opposto a “pontefici”,
sacerdoti del culto di tutti gli dèi). Erano così chiamati perché portavano
attorno al capo scoperto, o intorno al berretto sacerdotale, un filo di lana
(filamen). “... their nicely gawded cheeks”: si segue la lezione “gawded” in
luogo della più corrente “guarded”, perché il termine esprime meglio - come
verosimilmente Shakespeare abbia voluto - la civetteria femminile nella
circostanza. “Gawded” è sinonimo di “gaudy”, “vistoso”, “sgargiante”.
Nell’“Amleto” Polonio raccomanda al figlio Laerte, che va a vivere a Parigi, di
vestire “rich, non gaudy”. Le matrone romane, in verità, non avevano la fobia
del sole che avevano le dame inglesi, e non andavano velate per proteggere il
viso dai raggi solari. Secondo Plutarco (“Vita di Coriolano”) era consuetudine
che un generale romano che aspirasse al consolato dovesse presentarsi al popolo
nel Foro, per chiederne il suffragio, indossando solo la “tunica dell’umiltà”
(“the vesture of humility”), che era normalmente portata dalla povera gente e
dagli schiavi; doveva inoltre mettere in mostra le cicatrici delle ferite
riportate nelle guerre. La tunica era il capo di abbigliamento di uso generale;
ma da sola la portava solo il popolo minuto e gli schiavi: i patrizi la
coprivano con la toga; le matrone con la stola o la “palla”; i cavalieri con
l’“angustus clavus”; i senatori col “laticlavio”. “Most reverend and grave
elders”: “elders” è il corrispondente del latino “patres” con cui si chiamavano
i membri del Senato, ritenuto esser composto tutto di uomini in età venerabile.
“We are convented upon a pleasing treaty”: letteralm.: “Siamo qui convocati per
una piacevole trattativa”. I due tribuni, si noti, si astengono dal nominare
Coriolano: per loro è solo un “aderire a portare a buon esito la discussione su
un ordine del giorno (“the theme of our assembly”)”. “Ti ascoltiamo” non è nel testo. “I had
rather one scratch my head in th’ sun / When alarum were struck...”: senso:
“provo tanta smania di andarmene, per non star qui a sentir esaltare le mie
gesta, quanto non ne proverei nemmeno se dovessi restare neghittoso a farmi
massaggiare il capo da qualcuno, quando fosse squillato sul campo l’allarme di
guerra”. Il che è tutto dire. “I shall lack voice. The deeds of Coriolanus /
Should not be uttered feeby”: letteralm.: “Mi mancherà la voce. Le gesta di
Coriolano non dovrebbero essere scandite da una voce flebile (come la mia)”.
Nella Roma repubblicana il dittatore (“dictator”) era il magistrato investito
dal Senato della suprema autorità civile e militare nei momenti difficili della
nazione; l’incarico cessava col cessare delle condizioni che l’avevano reso
necessario. “... with his Amazonian chin...”, cioè col suo mento ancora
imberbe, da donna. Le Amazzoni erano le donne guerriere della mitologia greca,
e il viso femmineo di Marcio giovinetto è messo in contrasto con le “baffute
labbra” (“bristled lips”) dei nemici che egli batte. Al tempo di Shakespeare le
parti femminili nel teatro erano sostenute da giovinetti imberbi, alle donne
essendo vietato di far parte di compagnie drammatiche. Non così nella Roma di
Coriolano. “... like a planet”: “planet” in senso figurativo indica vagamente
un potere occulto che, come l’influsso d’una maligna stella, s’abbatte
fatalmente su uomini e cose. “He cannot but with measure fit the honours which we devise him”: “Egli
non può che essere adeguato agli onori che intendiamo decretagli”. “Fit with measure” è appunto “corrispondente”,
“adeguato” (a qualcuno o a qualcosa) secondo il senso biblico di “measure” che
include il concetto di paragone/contraccambio, come nel titolo della commedia
“Measure for Measure”. “... and is
content to spend the time to end it”: frase ambigua. L’interpretazione più comune è: “Usa il tempo senza
ambizioni, senza pensar di trarne alcun vantaggio”. Qualcuno intende “it” come
riferito idealmente al precedente “deeds” e traduce “è contento di spendere il
tempo per compierle (le sue gesta)” (Lodovici). Questo racconto di Cominio ha
una funzione fondamentale nella impalcatura della tragedia; quasi la
prosecuzione della parola di Volumnia nella 3a scena del I atto, a
completamento dell’immagine di Coriolano come forza cieca, per quanto nobile,
della natura, alla quale immagine il poeta opporrà quella dell’uomo debole e
indeciso, privo del tutto di senso politico: contrapposizione che è la ragione
e il contrappunto teatrale di tutta la tragedia. Il candidato che chiedeva la
carica di console doveva presentarsi al Foro, davanti al popolo e chiederne il
suffragio. Roma, al tempo di Coriolano, è una repubblica aristocratica, cioè
con il potere nelle mani dei nobili, ma il voto della plebe, per consuetudine
non codificata, è necessario. “... to all the point of the compass”: “... per
tutti i quattro punti della bussola (“compass”)”;... ma la bussola è stata
inventata nel Medioevo! “If it may stand with the tune of your
voices...”: Coriolano gioca sul doppio significato di “voices”, che vale “voti”
ma anche “voci”. S’è cercato di rendere il bisticcio alla meglio. “... you have been a rod to her friends”:
“rod”, “corda”, “nerbo”, “sferza”, era uno strumento di tortura. Altro
bisticcio del testo inglese sul termine “common”. Il cittadino ha detto: “You
have not indeed loved the common people”, dove “common” riferito a persone
(“people”) ha il senso di “of inferior quality”, “of inferior value”; ma
significa anche “comune”, “popolare”. Coriolano dice il suo amore per il popolo
essere stato nei due sensi. “... and so trouble you no farther”: c’è chi
intende qui: “E così vi tolgo il disturbo”, come se Coriolano stesse per
andarsene; ma sono i due che se ne vanno, mentre Coriolano resta; sarebbe
inoltre difficile, grammaticalmente, non vedere che quel “trouble” è retto dal
precedente “will”. Questo monologo di Coriolano completa il ritratto che
Shakespeare vuol fare dell’eroe; all’orgoglio si aggiunge e contrappone
l’indecisione. Coriolano aborre il popolo, e la consuetudine che costringe a
mendicare da esso il voto, ma alla fine l’accetta, ci si adegua, trovando un
alibi al suo impulso a reagire a tale imposizione nel: “Sono ormai a mezza
strada, meglio proseguire”. Sarà lo stesso conflitto interno a farlo cedere
alle preghiere della madre e della sposa davanti alle mura di Roma. “... battles
thrice six I have seen and heard of”: “Heard of” ha qui valore di “called to
account for”: “Ho visto diciotto (tre volte sei) battaglie e altrettante volte
ne ho riferito”. Il condottiero doveva riferire al Senato sullo svolgimento del
fatto d’arme, come ha fatto Cominio qui per la battaglia di Corioli. “... have you chose this man?”: si ricorderà
che, come si son detti tra loro gli uscieri del Senato all’inizio della 2a
scena del II atto, i candidati al consolato sono tre. Secondo una prescrizione
d’allora, introdotta con l’istituzione del tribunato della plebe, il candidato
alla carica di console, dopo che avesse ricevuto l’accettazione da parte del
popolo, richiesta nella forma della vestizione della “tunica dell’umiltà”,
doveva ricevere la conferma, con voto formale, dai “comitia tributa”,
l’assemblea, appunto, di cui parla qui Sicinio. Il testo inglese gioca ancora
sul doppio senso di “voices”. Questa genealogia della “gens” marcia, o marzia,
è tratta di peso da Plutarco. Ma poiché Plutarco nomina questi personaggi senza
datarli, Shakespeare mette qui in bocca a Bruto alcuni anacronismi: Bruto non
poteva conoscere tutti i personaggi della “gens” che nomina, perché a lui
posteriori, eccetto il primo, Anco Marzio, re di Roma. Caio Marcio Rutilio, detto
il “Censorino”; Quinto è il Quinto Marcio costruttore dell’acquedotto
dell’acqua detta appunto “marcia”, che è stato pretore. “... this Triton of the
minnows”: si dice “a Triton of or among the minnows” di uno che appare grande
solo grazie all’estrema piccolezza di quelli che gli stanno intorno. Tritone è
il dio marino del mito classico; “minnows” è la minuzzaglia ittica. Il mitico
serpente dalle molte teste che infestava le paludi di Lerna e le cui teste
rinascevano appena tagliate. L’immagine della folla come “mostro dalle molte
teste” è frequente in Shakespeare. “... being but the horn and the noise o’ th’
monster”: che l’Idra avesse un corno attraverso il quale diffondere il suo
strepito, non sta scritto in nessun luogo, ma l’immagine serve a Shakespeare
per designare il tribuno come “portavoce” del mostro. Questo discorso di
Coriolano sulla distribuzione del grano alla plebe, come la seguente apostrofe
ai senatori, sono tratti quasi di peso dal testo della “Vita di Coriolano” di
Plutarco, nella traduzione inglese del North. È quasi un secondo monologo
dell’eroe, che sbozza ancor meglio la sua immagine di rappresentante
dell’aristocrazia al potere, e getta altra luce sulla lotta delle due classi,
la patrizia e la plebea, nella Roma agli albori della repubblica. “... by yea and no of general ignorance...”:
“general” è qui da intendere come sinonimo di “common”, che equivale a
“belonging to a given community” (“Oxford International Dictionary”). “Therefore beseech you / You that will be
less fearful than discreet...”: letteralm.: “Perciò vi supplico / Voi che
volete avere in voi meno timore che discernimento...”; frase, in italiano,
insopportabilmente artificiosa. “... dal corpo dello Stato...” non è nel testo.
“Your dishonour”: “Il vostro disonore”, ma si capisce che è un disonore imposto
dall’esterno a gente onorata. In italiano, “il vostro disonore” suonerebbe
ambiguo. “Has said enough”: intendi: quanto basta a confermarlo nemico del
popolo. “... when what’s not meet, but what must be, was law...”: letteralm.:
“... quando era legge non ciò che era lecito fare, ma ciò che si doveva fare
per imposizione”. Gli Edili erano magistrati con funzioni amministrative di
custodia dei pubblici edifici (“aedes”, donde il nome), oltre che dei templi, e
di organizzazione di pubblici spettacoli. Al tempo di Coriolano si chiamavano
“aediles plebis”, e affiancavano i tribuni nella difesa degli interessi civili
della plebe. Donde il loro intervento qui. Come i tribuni, erano due e duravano
in carica un anno. Successivamente ad essi se ne aggiunsero due, detti
“curuli”, dalla “sedia curule” (“sella curulis”) simbolo di tutte le
magistrature dello Stato; questi potevano essere eletti anche tra i patrizi.
“One time will owe another”: letteralm.: “Un momento sarà debitore all’altro”.
S’è dovuto tradurre a senso. “When it stands against a falling fabric”: s’è
reso “stands” con “pretende di tenere in piedi” e non come intendono molti, con
“s’oppone”, per evitare l’immagine peregrina data dal “volersi opporre” ad un
edificio che sta per crollare. “His nature is too noble for
the world”: “world” ha qui il senso di “interests of the present life” o anche
“state of human affairs” (v. “Oxford International Dictionary”, alla voce). “Where you should but hunt with modeste warrant”.
Senso: “Laddove dovreste esercitare i vostri poteri con maggior discrezione”.
L’immagine è tolta dal linguaggio venatorio, dove “warrant” era il permesso di
esercitare la caccia entro un certo raggio e in certi periodi dell’anno. Questa
battuta è attribuita da molti, compreso l’autorevole “New Arden”, a Menenio,
con il senso d’una interrogazione che questi rivolge a Sicinio a continuazione
del suo traslato dell’arto infetto: “E se un piede va in cancrena, vuol dire
forse che i servizi resi da esso quand’era sano non si debbano tenere in
conto?”; ma m’è sembrato che la battuta, in bocca a Sicinio, s’attagli meglio
al contesto. Il testo ha “This tiger-footed rage”, “Questo furore dalle zampe
di tigre”, ossia violento, precipitoso e famelico. “Let them pull all about mine
ears”: “to pull (something) about one’s ears” è frase idiomatica usata nel
senso di provocare una pioggia di oggetti sul capo o il crollo di una casa su
qualcuno, e simili. La ruota era uno strumento di tortura: il condannato veniva
legato intorno al suo cerchio e dilaniato dai chiodi che essa incontrava
girando. “Wollen vassals”: le robe di
lana erano la veste dei poveri. I ricchi invece vestivano di seta. “Vassal” è
“umile servitore”, col senso di moralmente abbietto. “To buy and sell with
groats”: “da comprare e rivendere a pochi soldi”. Il “groat” (dal latino
medioev. “grossum”, italiano “grosso”) era una moneta di poco valore (circa 1/8
di oncia d’argento) in circolazione in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Era
il “soldino” senza valore per eccellenza (cfr. il titolo del pamphlet di Greene
“A groatsworth of wit bought with a million of repentance”, uno dei rari
scritti dell’epoca in cui si può scorgere un accenno alla persona di
Shakespeare). “I would had you put your power well on / before you had worn it
out”: Volumnia qui paragona la carica di console di suo figlio ad un vestito da
indossare (“put on”) e che egli, prima ancora di indossare, ha ridotto liso
(“worn out”). “Figlio mio” non è nel testo. “Not by your own instruction”:
“instruction” è termine che contiene la nozione di intelletto affinato
dall’istruzione - ispirazione raziocinante - per contrapposto al sentimento
(“passion”), ispirato dal cuore. “Ispirazione” è piuttosto riduttivo, ma non si
è trovato termine più proprio. Queste esclamazioni di Menenio - la prima e la
seconda - punteggiano drammaticamente, come un applauso, la grande “tirata” di
Volumnia, che dà lezione di politica al figlio riecheggiando sorprendentemente
MACHIAVELLI (si veda) (che Shakespeare non risulta conoscesse). Il principe
che, per regnare, deve guadagnarsi il favore del popolo, a costo di essere
“gran simulatore e dissimulatore” (“Il Principe”); l’arte politica che
richiede, in chi la esercita, d’essere ad un tempo leone e volpe, colomba e
serpe, sono tra i massimi insegnamenti del grande Segretario fiorentino.
Coriolano, uomo d’arme e di cuore, quest’arte non possiede; ne è tragico segno
la sua domanda: “Che debbo fare?”, che corona, con l’immagine dell’uomo
indeciso e votato ormai al suo destino, lo scontro verbale dell’eroe “too
absolute” con la machiavellica e volitiva genitrice. Il “cappello in mano” in segno di ossequio è
immagine ed espressione del parlare del tempo di Shakespeare. I Romani non
avevano altro copricapo all’infuori dell’elmo. “Must I go show them my unbarbed
sconce?”. La frase è volutamente ambigua, perché può anche significare: “Devo
andare a mostrar loro la mia fortezza indifesa?”. Perché “sconce” ha il doppio
significato di “testa”, “zucca” e di “fortezza”, “roccaforte”; e “unbarbed” significa
“senza peli”, “senza capelli”, ma anche “indifesa”. Il significato figurato si
attaglia perfettamente al discorso. “I will not do’t lest I surcease to honour
mine own truth”: letteralm.: “Non lo farò, almeno ch’io non voglia rinunciare
ad onorare la mia intima verità”. Il senso di questa richiesta di Sicinio
all’Edile è così spiegato da Plutarco (“Vita di Coriolano”): “Congregandosi
dunque il popolo, tentarono i tribuni con ogni sforzo in prima che si
rendessero i voti non a centurie, ma a tribù, perché in questo modo la turba
vile dei poveri e saccenti, che non tien conto d’onore, veniva ad aver più
forza nei voti, ciascuno porgendo il suo, di quanta non avessero gli abbienti e
conosciuti, che andavano alla guerra”. Le “centurie” erano le 193 divisioni in
cui Servio Tullio aveva ripartito i cittadini di Roma secondo il censo. “Every
feeble rumour”: ogni voce di pericolo (per la presenza di nemici dall’esterno);
si capisce da quel che dice dopo. Le
piume dei loro cimieri, s’intende. Di quale porta si tratti, non si sa. I testi
non hanno alcuna didascalia per questa scena; si capisce, tuttavia, che essa si
svolge presso una porta di Roma. La plebe: Coriolano l’ha chiamata così prima. “... with precepts that would make
invincible...”: il “would” è palesemente riferito alle intenzioni della madre
nel dare al figlio i precetti; il che giustifica, nella traduzione, il
“dovevano”. “Ti ricordi?” non è nel testo. Il testo ha “... with one / that is
umbruised”,“... con uno che non è contuso”, e prosegue la metafora del corpo
(di Cominio) sopraffatto (“too full”) dalle fatiche della guerra. Il testo ha
“Ora che abbiam mostrato il nostro potere” (“Now we have shown our
power”). “Are you mankind?”. C’è chi ha creduto di vedere in questa
battuta di Sicinio una sottile intenzione di equivoco, perché la frase
significherebbe anche “Siete matte?”. Ma il senso di “matto” in “mankind” non
si trova in alcun testo; e del resto la risposta di Volumnia sarebbe diversa,
perché la donna avrebbe capito l’allusione. Giunone è il simbolo dell’ira
femminile vendicativa. Prese parte alla sommossa degli dèi contro lo stesso suo
marito, Zeus (cfr. VIRGILIO (si veda), “Eneide”: “saeve memorem Junonis ob
iram”). “Strange insurrections”: “strange” qui ha il valore di “abnormal”,
“unknown”, “unfamiliar”. “I have deserved no better entertainement / in being
Coriolanus”: “Non m’aspettavo miglior trattamento, essendo Coriolano”; ma mi
pare grammaticalmente errata (“I would have...” sarebbe stato d’obbligo) e
incongrua di senso (il servo non sa di trovarsi di fronte a Coriolano). “Under
the canopy”: “canopy” è il baldacchino sospeso su un trono, un letto, un
altare, tradizionale segno di regalità; ma in senso figurato vale “cielo”,
“firmamento” (il baldacchino del cielo). Coriolano, giocando sul doppio senso,
si attribuisce la regalità. Che cosa sia questa città, nella mente di
Coriolano, è incerto; forse egli allude all’esilio o al campo di battaglia. È
comunque, una figurazione sinistra: l’unico esempio - secondo iBradley - in
tutto il dramma di accostamento della Natura a uno stato d’animo. “Then thou dwells with daws too”. Doppio
senso: “Daw”, “taccola” (uccello della famiglia dei corvacei) è usato
familiarmente anche per “simpleton”, “sciocco”, “scemo”. “Che m’hanno dato a
Roma” non è nel testo inglese. I servi sono introdotti qui quasi in funzione di
coro; le loro battute preparano e, alla fine, commentano, quasi fosse uno
spettacolo, lo “strano” incontro tra Coriolano e Aufidio. Nel loro dialogo
rozzo e ironicamente dissacrante s’avverte la tragica impossibilità di un
accordo tra i due grandi guerrieri, la cui cordialità presente nasconde, in
Aufidio, l’invidia e il sordo quasi inconscio desiderio di rivalsa, e in
Coriolano e nella sua forzata “voglia di servire” il nemico, l’intima debolezza
che lo porterà a cedere alle preghiere della madre e della sposa. “Whilst he’s in directitude”: sta
verosimilmente per “in discredit”. È uno degli “humourous blunders”,
strafalcioni lessicali che Shakespeare si compiace di mettere in bocca ai suoi
personaggi minori, per l’ilarità del pubblico. “The wars for my money”: l’espressione colloquiale
“for my money” in frasi come “this is for my money” equivale a “this is what I
desire”, “this is my choice”, eccetera. “His
remedies are tame”: frase di senso ambiguo, che si può intendere diversamente,
a seconda del senso che si dia a “his”, “i suoi rimedi”, e cioè: “i rimedi che
egli può adottare contro di noi”, oppure “i rimedi che noi abbiamo contro di
lui”: s’è preferita la prima, intendendo “remedies” nella sua accezione di
“means of counteracting an outward evil” (“Oxford Dictionary”), traducendo a
senso. “And affecting one sole throne
without assistance”; letteralm.: “E aspirando ad esser solo in trono senza
collega”. I consoli, nella Roma repubblicana, erano due. “You and your
apron-men”: il grembiule, normalmente di pelle, era, in certo modo, il
distintivo di chi esercitava a Roma un mestiere e che, non essendo né nobile né
cavaliere, apparteneva alla plebe (cfr. “Giulio Cesare”: “Where is thy leather
apron?”). Allusione alla leggenda dei pomi d’oro delle Esperidi che Ercole, per
ordine di Euristeo, andò a rubare nel giardino di quelle, custodito dal drago
Ladone. “... and you’ll look pale before
you find it other”. Senso: “Morirete di vecchiaia, prima di poter dimostrare
che non è vero”. Si capisce che “quelli” (“these”) si riferisce a Cominio e
Menenio testé usciti. “Do they fly to
th’ Roman?”. Qui “fly to” ha piuttosto il significato di “to flee from” che
contiene l’idea di chi fugge da un luogo ad un altro, oppure “sfugge” ad una
certa situazione; ed è l’idea insita nella domanda di Aufidio che vede i suoi
soldati abbandonare sempre in maggior numero le sue file attratti dal fascino
di Coriolano. È l’inizio del voltafaccia di Aufidio e la svolta del dramma.
Tutta la scena sarà lo spiegamento di questo stato d’animo dell’eroe volsco,
che verso Coriolano, poco prima amato ed ammirato, cova un odio mortale. Il suo
colloquio col luogotenente ne farà risaltare il carattere torbido, ambiguo,
tortuoso, teso quasi inconsciamente alla fine dell’avversario, che lo sovrasta.
“... as the grace fore meat...”: è ancora Shakespeare che anacronisticamente
attribuisce ai tempi di Coriolano un uso, come quello della preghiera di
ringraziamento prima e dopo i pasti, tipico della civiltà del suo tempo. La
frase è ambigua, come è oscuro il concetto del passo seguente, quasi
sicuramente guasto. A quale “merito” di Coriolano si riferisca Aufidio non è
chiaro, forse all’unico ch’egli possa apprezzare: quello di aver tradito Roma per
venire da lui. Il testo ha: “A mile before his tent, fall down”: “un miglio
prima della sua tenda, cadete in ginocchio”; a parte l’anacronismo del miglio,
si tratta di un’esagerazione dialettica di Cominio per sottolineare la
colpevolezza dei tribuni.“A noble memory!”: è come se Menenio dicesse:
“Scriveremo sulle vostre tombe, come epitaffio, quando sarete morti: - Fecero
il necessario perché Roma avesse il carbone a buon mercato -”; cioè fosse tutta
ridotta a carbone. “He does sits in gold”. Coriolano che siede su un seggio
d’oro come un trionfatore circonfuso di gloria poco prima della sua tragica
fine: un magistrale espediente del drammaturgo ad accentuare il contrasto delle
tinte del dramma. “And his injury / the gaoler to his pity”: “... e l’ingiuria (da
lui sofferta ad opera dei Romani) a far da carceriere perché non esca da lui il
minimo moto di pietà”. “Thoug it were as virtuous to lie as to live
chastely”: è il solito gioco di doppi sensi sulla parola “lie” che significa
“mentire” e “giacersi” (nel senso sessuale).
“Nay, but fellow, fellow...”: la battuta lascia intendere che Menenio ha
visto arrivare Coriolano.“Col tuo superiore” non è nel testo. È la scena
culminante del dramma. Con l’ingresso, in silenzio, della madre e del
figlioletto dell’eroe nella tenda di questi, Shakespeare ha bisogno di
guardare, in un soliloquio che sarà l’ultimo, nell’animo di Coriolano e
scavarne i più intimi sentimenti, suscitati dallo svolgersi fatale dell’azione.
È la lotta dell’eroe contro il suo destino, che lo vedrà ineluttabilmente
perdente. Si confronti questa esclamazione con quella di Antonio nell’“Antonio
e Cleopatra”: “Let home in Tiber melt, and the wide arch/ of the ranged empire
fall...”, che accomunano, nelle due tragedie, la catarsi dell’eroe. Cioè “io ti vedo in una luce diversa da
quando ero a Roma”. È l’ultima espressione di irrigidimento dell’eroe. La
battuta seguente dirà che la piena degli affetti lo ha già vinto. È uno dei
frequenti riferimenti di Shakespeare, uomo di teatro, a immagini del mondo del
teatro. La gelosia di Giunone è proverbiale. Shakespeare la ricorda spesso nei
suoi drammi. “To your corrected son?”:
frase ambigua, che si può intendere “(davanti) al tuo figlio punito (da Roma,
col bando)”, oppure “(davanti) al tuo figlio da te rimproverato”. S’è scelta la
seconda. Diana è la dea protettrice della castità virginale. Il suo tempio a
Roma era stato eretto da Servio Tullio sull’Aventino. Secondo Plutarco, è
Valeria che spinge Volumnia e Virginia a recarsi da Coriolano. Indica Valeria. Così nel testo: “thy wife and
children’s blood”; una evidente distrazione dell’Autore indotta dal fatto che
in Plutarco (“Vita di Coriolano”) i figli di Coriolano sono due, laddove
Shakespeare ha assegnato all’eroe solo il piccolo Marcio. Testo: “... will be dogged with curses”: “...
sarà inseguito da una canea di maledizioni”. Si è creduto di ampliare, nella
traduzione, la bella immagine venatoria. Plutarco, unica fonte di Shakespeare
per questo suo dramma, narra che, tornate a Roma, la madre e la moglie di
Coriolano, insieme a Valeria furono salutate in Senato come salvatrici della
patria e vennero loro offerti dallo stesso Senato onori e ricompense, che esse
rifiutarono, solo chiedendo che fosse eretto un tempio alla “Fortuna
muliebris”, sulla Via Latina. Sparatorie, al tempo di Coriolano, evidentemente,
non ce n’erano, e Menenio non poteva pensare a un siffatto termine di paragone.
È un altro dei frequenti anacronismi del poeta. Alcuni di questi strumenti -
come la sambuca e il salterio - non esistevano al tempo di Coriolano: è un
altro degli scusabili e, per certi versi, suggestivi, anacronismi di
Shakespeare. Plutarco (“Vita di Coriolano”) pone questa scena e tutti gli
eventi che seguono, fino alla morte di Coriolano, ad Anzio, dove l’eroe è tornato
con l’esercito volsco. L’ubicazione della scena a Corioli sembra tuttavia
giustificata dalle parole del 1° Congiurato: “Your native town you entered”, e
da quelle dello stesso Aufidio: “Though this city he hath widowed...”. Il testo
ha “una pace onorevole per Anzio”. “Pages”: il termine sta ad indicare, spesso
in senso spregiativo, qualsiasi persona, di sesso maschile, addetta a mansioni
umili e subordinate; nel gergo militare le “ramazze” sono gli uomini addetti
alle pulizie delle caserme. thou has made my heart / too great for what
contains it...”; letteralm.: “... m’hai fatto diventare il cuore troppo grosso
per quello che lo contiene. Keywords: CORIOLIANO, ovvero, la filosofia. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Ferrando” – The Swimming-Pool Library. Guido Ferrando.
Ferrando
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