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Tuesday, June 11, 2024

Grice e Mastrofini

 •BIBLIOTECA- 

LVCCHESI -PALLI- 





BIBLIOTECA LUCCHESI • PALLI 

III.» SALA 



Scaffale. 



Pluteo. 



N.» CATENA. 



h 








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COLLANA 

DEGLI 

ANTICHI STORICI GRECI 

VOLGARIZZATI. 




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Digit zec! ov 



\Vo3^ 

LE 

ANTICHITÀ ROMANE 

I 

DI 

DIONIGI 

D’ALIGARNASSO 

VOLGARIZZATE 
DALL’ AB. MARCO MASTROFINI 
già’ frofessore di matematica e di filosofia 

NEL SEMINARIO DI FRASCATI 

MtmOKX KOrJMMKTt USCOKTIUTÀ COI TM3T0 BAh TKÀBVTTOBt 

TOMO PRIMO 



MILANO 

DALLA TIPOGRAFIA De’ FRATELLI SONZOCMO 

1823. 





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I 



MARCO MASTROFINl 
AI LETTORI 

NOTIZIE 



su DIONIGI DI ALICARNASSO. 






I. Dionigi^ di Alessandro fu di Alicarnasso , 
reggia un tempo della Caria , della quale pur furono 
Eraclito il poeta ed 



Erodoto di gr^ca istoria padre 



come Petrarca lo intitola nel terzo de' capitoli sul 
trionfo della Fama. E difficile determinare V anno , 
non che il giorno della sua nascita. Fozio nella sua 
Biblioteca (cod. ^4) dice che egli precedette Dione 
Cassio , ed Appiano Alessandrino, espositori aneli essi 
di Storie Romane. Errico Dodwello che meditò gra- 
vemente quelt argomento non seppe ristringersi ad 
altra particolarità , se non a questa , che Dionigi 
debbo essere nato fra t anno (i"G e ^oo di Roma 
calcolali alla maniera di V airone. 

DIOyiGI , toma ^ ‘ ■ 

, X 



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/ 






2 

I(. Dionigi sentiva in sè la nobiltà del cor suo] 
c si mosse verso la capitale del mondo, e venne a 
Roma nelt anno F^arroniano ja5 , cioè finita la guerra 
interna di Augusto contro di Antonio ; domd è che 
egli non vi giunse prima dell' anno suo venticinque- 
simo. Fi si trattenne 22 anni: vi compose le opere 
critiche , e vi apprese intanto diligentemente C idioma 
del popolo vincitore su la mira di leggerne gli antichi 
monumenti nazionali, e di scriverne infine con greco 
stile una stona per uso de’ Greci suoi che troppo la 
ignoravano. Egli riusci nell intento , e la scrisse, e la 
divulgò nell anno Fcu roniano y47 sotto il nome di 
Antichità Romane come l ebreo Giuseppe Jion molto 
dipoi , forse ad imitazione di lui , e certo con più 
proprietà, pubblicò sotto il titolo di Antichità Giudai- 
che la storia del popolo ebreo , la quale era insieme 
la storia della origine stessa del mondo. 

III. Par che Dionigi delineasse la storia col di- 
segno stesso con cui Firgilio cantava la Eneida: vuol 
dire l uno e l altro spargevano fiori appiè de’ trion- 
fatori non senza il lusinghevole desiderio di guada- 
gnarne la grazia : non leggera conquista per uomini 
inermi , autorevoli solo per sillabe , per parole, e per 
periodi ! 'Dionigi fece sapere a’ suoi che il popolo del 
Campidoglio non era poi barbaro ; anzi che era pur 
esso greco di origine, e che assai conosceva leggi e 
costumi ; e ciò perchè riuscisse il comando romano , 
se non pregevole , certo men duro nella Grecia d’ Asia 
e di Europa , paesi che una volta orati patria e tempio 
di fortezza e di libertà. 



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3 



IV. Egli distese il suo scrino in venti liLri ; ma 
non sopravanzano che i primi dieci e parte dell’ un- 
decimo; tutto il resto perì per la ingiuria de' tempi. 
Per quanto ci racconta Fozio (i) che aveala letta per 
intero, scorre ane la narrazione dagli Aborigeni e dalla 
venuta di Enea nella Italia fino alla guerra de’ lio- 
mani con Pirro , monarca degli Epiroti ; perchè ivi 
appunto comincia la storia Romana deli altro greco 
scriuor precedente , Polibio da Megalopoli. Quest or- 
dine di storie si consideri diligentemente ; perchè da 
indi apparisce che Dionigi dee precedere c non se- 
guire Polibio, come parve al primo che dispose la Col- 
lana Greca , e come trovo fatto pur questa volta irre- 
parabilmente su Cantico disegno (a). Siccome un estero 
per la novità che v incontra , può notare ì. costumi 
varj de' popoli meglio che il nazionale che cresce e 
invecchia con essi ; così questi due Greci conversando 
co’ Romani seppero distinguervi e descriver più cose 
che i Romani stessi non han descritto e trasmesso 
con la successione de’ tempi ai tardi nipoti. Or ciò 
dovea tanto più seguitarne quanto che scrivean quelli 
pel greco il quale non avrebbe gustata nè intesa la 
loro narrazione se non esponevano minatamente le 
cose notissime tra Romani. E quindi è che Polibio 
delincò su la milizia romana quello che non si legge 
in niuno de’ romani scrittori medesimi: e Dionigi toccò 
tante picciole circostanze che meglio dichiarano le ori- 
,gmi, il complesso, ed il termine degli eventi: cioc- 

(i) Bihiiotre. cod. 8f>. 

( 1 ) Ediz. romana di Vinccoio Pojryiuli delT anno 



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che ne ha rendalo , e ne renderà sempre , preziosis- 
simo quanto sopravanza delle storie di lui. 

V. Livio rimpelto a Dionigi è come il compendio 
rimpello all' opera estesa ; tanto che il primo racco- 
glie in tre libri ciocché l’altro dilata in undici. Nè io 
saprei dolermi su tanta espansione quando le cose vi 
fossero state moltiplicale in proporzione. Ma per dirne 
ciocché io ne penso, e dare intanto il paragone degli 
autori fin qui da me volgarizzati che sono Sallustio, 
Quinto Curzio , Lucio Floro , e Dionigi ; mi è sem- 
pre parato che in Sallustio non capano i sentimenti 
dentro le parole , che in Curzio si pareggino compiu- 
tamente gli uni alle altre, che in Floro le parole su- 
perino alquanto i sentimenti, e che in Dionigi fincd- 
mente- ( siami cosi lecito di esprimermi) le sentenze 
galleggino affatto tra le parole. Sallustio é come il 
fior vivo, che di sé promette gran cose , ma stretto 
in parte ancora dalla sua buccia : Curzio è il fior 
copioso , odoralo , aperto graziosamente al sole che 

10 vagheggia ; Floro è il fior vago , ma tutto spam- 
panato con molte le f rendette e poco t odore; e Dio- 
nigi finalmente è il fiore delle ampie e libere frondi 

11 quale sot^ di sé nasconde il picciolo guscio che 
ravvolgevalo , e par sorgere pomposo e vario tra le 
aure che lo investono , ma troppo , se lo stringi , è 
minore delle belle apparenze. Dionigi era un greco 
dell jfsia, e fa sentire in sé la prolissità propria di 
quella vastissima parte del globo. Le parlate in lui 
sono lunghissime , e per ordinario non ripetono se 
non ciò che presentano le storiche narrazioni ; lad- 



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■ 5 

doue in ,Tilo Livio sono lampi e folgori, sentenze e 
risultati. V ultimo lascia a pensare , il primo li lascia 
senza pensieri prima che finisca di parlare ; nelV uno 
senti il capitano ed il console , nell altro lo storico 
«d il declamatore : quegli è pieno di entusiasmo e di 
fuoco su gt interessi della sua nazione , /’ altro vi si 
spazia sopra come il panegirista che loda non per 
affetto , ma in vista di ricompense , o per moda. 
Forse tanta loquacità non piacque nemmeno tra' suoi 
nazionali; e Dionigi voglioso di essere letto , s’indusse 
a ristringere in un compendio di cinque libri quanto 
avea steso in venti. Fozio nella sua Biblioteca [cod. ^4) 
parla eziandio di un tale compendio ; e lo dice più 
utile per questo , che non contiene se non le cose 
necessarie alla storia. Egli paragona Dionigi in quel 
nuovo scritto ad un re che giudica e tiene intanto in 
mano lo scettro; e sentenzia ma con la precisione e 
col tuono di chi comanda (i). 

Vr. Quanto allo stile i giudizj ne sono difformi : 
vi è chi lo chiama scrittor soave , scrittore elegante ; 
e non vi è dubbio che e"li abbia de' bei tratti, dei 
pellegrini concetti , e gravissimi documenti. Nondimeno 
vi è chi dice risolutamente che Dionigi rimpetlo a 
Senofonte è come il duro e licenzioso jépulejo rim- 
pclto alle maniere delicate e spontanee di Livio. Dio- 
nigi fa pur troppo conoscervi che egli non era nativo 
deir Attica. Fra le sue formole ne occorrono alcune 

(i) La prcsealc versione fu stampala in Roma l’anno i8ia. Dopo 
quest’ anno il Compendio fu creduto rilrovato in Milano. Se ne 
patterà nel tomo quarlo là dove sono i fiammcnli. 



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G 

nuove , Ialine (T indole , o certo non abbastanza monde 
da solecismo ; tantoché vi si violano le regole prò- 
poste da esso medesimo nelle opere sue critiche per 
gli storici e per gli oratori. Ad ogni modo Dionigi é 
come la miniera ampia di oro , e come V archivio 
ricco di monumenti preziosi in mezzo di altri che 
sono anzi un ingombro ; dond è che un tale scrittore , 
come ho toccato dianzi , sarà caro finché saran care 
le storie. Ora diciamo qualche cosa delle versioni del 
nostro Autore. 

VII. Lapo lìira^o fiorentino il primo diede una 
versione latina di Dionigi. Questa fu pubblicata la 
prima volta in Trevigi Hanno i48o, e poi di nuovo 
in Basilea nel i53a. Il Glareano ebbe cura di tal 
seconda edizione e la purificò da sei mila errori co- 
ni egli dice. Boberto Stefano vedendo pubblicato Dio- 
nigi nella lingua non sua, trasse il greco originalo 
dalla Biblioteca dei re di Francia, e lo mise in luce 
l’anno ì5^(i. Il Gelenio divulgò colle stampe in Ba- 
silea [ anno iS/fg una nuova versione latina de’ dieci 
primi libri. Silburgio rettificò con critica squisitezza 
le tante lezioni non sane che ci aveano nel greco 
dello Stefano , e nel latino del Gelenio , e congiunse 
i due testi e li stampò V anno i586 in Francfort. In 
questa edizione vi é la traduzione dell’ undecimo libro 
fattu da Silburgio medesimo , li frammenti ricorielti 
delle Legazioni già pubblicale da Fulvio Ursino , ed 
un libro di annotazioni in fine. Mentre apparecchia- 
vasi o compivasi da Silburgio questa edizione ; Emilio 
Porto diede su t originale dello Stefano una nuova 



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7 

traduzione latina delle antichità con amplissime an- 
notazioni, imprimendo anche il libro delle legazioni 
con la trina interpretazione dì Stefano, di Sitburgio 
e di Porto. JSel 1704 si ebbe la vaghissima edizione 
fatta in Oxford la quale comprende il testo greco di 
Dionigi colla versione di Porto , emendata dove nera 
il bisogno , e le legazioni secondo la impressione fat- 
tane da falesie riunite a quelle già pubblicate da 
Ursino. Si cominciò finalmente nel 1774» ^ ^i com- 
piè nel 1777 lO' edizione riputata la più corretta di 
Lipsia colle note varie di Errico Stefano , di Silbur- 
gio , di Porto , di Casaubono , di Fulvio Ursino , e 
di Giangiacomo Peiscke. 

Vili. Francesco Venturi fiorentino ci diede nel 
1545 colle stampe venete la prima versione italiana 
delle sole antichità di Dionigi. In quell'epoca il testo 
greco non era nè stampato nè rettificato , e quindi 
avendo egli lavorato su di ^un manoscritto, frequen- 
tissime sono le aberrazioni dcd vero senso. Aggiungasi 
che lo stile è contorto , implicato , nè sempre regolare: 
in somma risente tutte le imperfezioni del primo tra- 
duttore latino Lapo Birago : nè questi potè sempre 
capire il senso del testo , ma dove ciò non potè fu 
contento di volgarizzare le parole greche , appunto 
come significavano , una per una. Il signor Desiderj 
nel continuare in Roma V anno 1 794 la edizion sua 
della Collana Greca ideava, parmi , riprodurre la ver- 
sione stessa del Venturi; ed il primo periodo di questa 
è del V snturi in gran parte ; ma fatto accorto che 
grande ne era la oscurità, e poca la naturalezza. 



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8 

continuò a pubblicare non il resto del Venturi, ma 
una traduzione di traduzione; t'uol dire , diede alla 
Italia un Dionigi tradotto , forse non sempre ade- 
guatamente , e certo non sempre con purità di stile , 
sopra la traduzione francese , e non sid greco origi- 
nale. Al primo leggere il Dionigi del Desiderj mi 
parve ravvisarvi una fisionomia anzi francese che gre- 
ca. Adunque paragonai la versione framese del padre 
Francesco la Jai Gesuita con la produzione del De- 
siderj a luogo a luogo , e fui convinto che era ciò 
veramente che io sospettava. Questa immagine éT im- 
magine , questa eco di eco che scolora le fattezze , e 
deprime sempre più la energia dell originale , questa 
stampa non greca , non francese, e forse non italia- 
na , non dee numerarsi tra le versioni , degna almeno 
di un tal nome ; tanto più che quella versione fraru- 
cese essa stessa non lascia gustare la vena ampia , 
continua , maestosa del greco originale , ma presenta 
la inquietudine, lo scintillamento , e come la spezi 
satura consueta delle parli. 

IX. Che io sappia niun altro ha poi volgarizzalo 
tra noi Dionigi. La mia versione è diretta su la edi- 
zione di quest' autore intrapresa in Lipsia nel i 
Chi vuol ragione di ciascuna delle mie interpretazioni 
dee consultare il testo greco , la versione latina , le 
note in piè di pagina, ed in fine de’ tomi. Spesso a 
fissare i sensi ho consideralo anche la versione fran- 
cese , supplitami dalla Biblioteca del Collegio Romano 
nella nuova mia dolcissima dimora in quel luogo nel- 
l’ anno 1 8 1 1 , la quale mi concedè calma profondis- 



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9 

sima da compiervi quasi per intero la traduzione che 
ora presento. Sarebbemi piaciuto ugualmente di con- 
sultale la traduzione inglese di Eduard Spelman im- 
pressa in Londra t anno 1759; ma per quanto la 
ricercassi tra le Biblioteche , tra i libraj e tra gli 
amatori di libri , non mi venne fatto di rinvenirla in 
Roma. Aveva io già presso che terminato questo mio 
travaglio quando mi ju significalo che in Francia si 
pubblica una nuova versione di Dionigi: ho il piacere 
che l'Italia he veda contemporaneamente un altra sua, 
lavorata quasi tutta in Roma , ove lo storico di Ali-, 
carnasso stendevano già t originale. 

Roma i8ia , 10 Febbrajo. 



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PROEMIO. 



1 1 



I. UANTU^■QUE alieno io ne sia , pur sono astretlo ad 
una prefazione , com’ usa nelle storie , e sopra di mfe ; 
non già per diffondermi nelle lodi mie proprie , che so 
quanto , udite , dispiacciano , o nelle accuse di altri 
scrittori , come fecero Teopompo ed Anassilao gli sto- 
rici, ne’ prologhi loro ; ma solo per dichiarare le cagioni 
per le quali mi diedi a .quest’opera , e per dire de’ mezzi , 
onde io seppi ciocché son per iscrivere. E certamente 
chi risolve lasciare a’ posteri monumenti d’ ingegno , i 
quali , come i corpi , non vengano meno per anni , e 
molto più chi scrive le istorie, nelle quali, tutti conce- 
piamo che siavi la verità, principio del sapere e della 
prudenza ; costui dee per mio sentimento , scegliere 
argomenti vaghi e magnifici , come bene fruttuosi a chi 
legge ; e poi dee preparare le materie opportune al 
subjelto con assai previdenza e lavoro. Imperocché chi 
ponesi a trattare di cose vili, abominate , indegne delle 
cure di una storia , sia che brami rendersi chiaro , ed 
acquistare comunque una fama , sia che voglia manife- 
stare la idoneità sua nell’ arte del dire , non sarà mai 
da’ posteri né invidiato per la fama sua , né per 1’ arte 
encomialo ; lasciando a chi leggelo da sospettare che egli 
amasse nel vivere le maniere appunto che descrisse ; 
per essere gli scritti la immagine de’ cuori , come da 
tutti si giudica. Colui ^ poi che ottimo sceglie l’argo- 
mento; ma ne scrive scioperatamente, e come per caso , 



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I 2 ■ PROEMIO. 

seguendo i ronoorl del volgo, nemmen’ esso ne ottiene lo- 
de niuna ; imperocché si spregiano , se negligenti sle- 
no e confuse le storie delle città famose e de’ principi. 
Or pensando Io per uno storico esser questi I canoni 
sommi ed inviolabili, ed avendone tenuto cura gelosa ; 
non volli nè trasandare il discorso su di essi , nè com- 
partirlo altrove , che nel proemio. 

II. £ che io scelsi argomento, bello, grandioso, uti-' 
lissimo; non bisognano, credo, molte parole a con- 
vincerne chi non affatto Ignora la storia comune. Im- 
perocché se alcuno recando 41 pensiero su’ governi an- 
tichissimi delle città e delle genti e contemplandoli , 
parte a parte , o nel paragone dell’ uno coll’ altro , vo- 
glia saperne qual di esse fondasse principato più grande, 
o che più splendesse per azioni belle , in guerra ed in 
pace; vedrà che la signoria di Roma sorpassò di gran 
lunga quante prima di lei se ne additano , non solo jper 
grandezza d’impero e per luce d’imprese, cui niuno 
mai lodò' quanto basta , ma per la durazione ancora del 
tempo che abbraccia , 6no al presente. Fu pur antica 
la signoria degli Assirj , e ne chiama fino ai secoli fa- 
volosi ; ma non comandò che su picciola parte dell’Asia. 
Abbattè la monarchia de’ Medi quella degli Assiri , e 
crebbe a potenza maggiore sì , non però molto diutur- 
na , cadendo alla quarta successione. I Persiani fiacca* 
t ono il Medo , e dominarono infine quasi per tutto nel* 
r Asia ; ben si gettarono poi su gli Europei , ma noti 
molto vi profittarono , e tennero poco più che dugen- 
t’ anqi II comando. Il Macedone , vinti li Persiani , su- 
però colla sua tutte le dominazioni che precederono : 



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PROEMIO. l3 

Don però fiorì lungo tempo , comiuciaiido a declinare 
alla morte appunto di Alessandro : imperocché smem- 
brato da’ successori il potere in molti principi , sosten- 
nesi la monarchia fino alla terza o quarta generazione ; 
ma resa debole per sé stessa, fu distrutta finalmente dai 
Romani : nou tenne poi mai servi tutti i mari e le ter* 
re : che non vinse in Africa se non l’ Egitto , il quale 
non è vasto , nè sottomise tutta l’Europa ; ma nel set- 
tentrione di questa si estese alla Tracia , e nell’ occaso 
fino all’ Adriatico. 

III. Pertanto i più famosi degl’ imperj che precede- 
rono , giunti , come sappiam dalla storia , a tanta forza 
e grandezza , rovinarono. Con essi non sono poi da pa- 
ragonare le Greche potenze le quali nè spiegarono mai 
si ampia la signoria , nè lo splendore si diuturno. Gii 
Ateniesi quando più poterono in mare , ne dominaro- 
no per anni sessantotto la spiaggia , e non tutta , ma 
quella solamente tra l’ Eusino ed il mar di Pamfilìa. E 
gli Spartani impadronitisi del Peloponneso e del resto 
della Grecia stesero fino alla Macedonia le leggi; ma 
non prevalsero che per quarant’ anni (i) nemmeno in- 
teri, e trovarono ne’Tebani chi li depresse. Ma la Re- 
pubblica romana signoreggia tutta la terra , non già la 

(i) testa uri o?ici in TpmiccfTx: cioè nemmeuo iuteri treo- 
t’aimi. Isacco Casaubono vi saslilui rinrxfxi'oyTX cioè quaranta. 
Pur questa emenda fu tolta, nè so perchè : concedendosi comune- 
mente che gli Spartani dopo vinti gli .Ateniesi al fìuinc Egio furono 
gli arbitri più che 33 anni. Ciò stando non può dirsi nel testo m-m- 
meno interi treni’ anni , ma usando un numero rotondo , dovremo 
leggere quaranta come il Casaubono. 




l4 PROEMIO, 

deserta , ma quanta ne è 1’ abitata : signoreggia tutto il 
mare non solo <lt qua dalle colonne d’ Ercole , ma pur 
su r oceano, Gii dove può navigarsi; e la prima, anzi 
la sola dopo la memoria degli uomini fe’ conGni al suo 
regno l’ oriente e 1’ occaso : nè picciola è già la dura'- 
zione del comando , ma quanta nè cittadi mai ne eb- 
bero , ne monarchie. Perciocché Roma fondata appena 
incorporò tra le sue , le genti vicine , grandi e bellicose; 
avanzandosi poi sempre con sottomettere quanto le si 
opponeva. E già corre l’anno di lei settecento quaran- 
tacinque sotto Calpurnio Pisone, per la prima, e Clau- 
dio Nerone per la seconda volta dichiarati consoli nella 
olimpiade centesima novantesima terza. Ma da che con- 
quistò tutta r Italia, e mise il cuore a possedere 1’ uni- 
verso ; cacciò dal mare' i Cartaginesi , quei che ci ave- 
vano forze navali grandissime , e soggiogò la Macedo- 
nia, quella che parca potentissima nel continente: nè 
più avendo avuto oppositori nei Barbari o nei Greci ; 
tiensi r arbitra d’ ogni luogo , ornai da sette generazio - 
ni (i) Gno alla mia: nè vi è, direi , di presente pur un 
popolo che possa disputarle il comando , o di non es- 
sere almeno comandato. Dopo ciò non vedo perchè io 
debba convincere più a lungo che nè io scelsi il meno 
grande dei temi , nè deliberai trattare di fatti ingloriosi 

(i) ÌVel testo : voce ambigua e frequente in Dionigi. Ora 

significa generazione, ora prole, ora spazio di tempo dalla nascila 
di on padre a quella di un figlio , ora durazione di un regno • Sem- 
bra clic egli rapportasse le diverse generazioni ai gradi genealogici 
della famiglia Giulia nella quale numeravaii Augusto , nell’ impera 
del quale Dionigi venne in Roma. 



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PROEMIO. 1 5 

c spregevoli ; ma che scrivo anzi di una città la più ce- 
lebre, e di gesta delle quali iiiuno può dimostrarne al- 
tre più luminose. 

IV. Ora vo’ preaecennare brevemente che io non ri- 
volsimi senza consiglio e prudenza alle cose antiche che 
di lei si raccontano , anzi che ebbi ragioni plausibili 
della scelta : e questo perchè quelli c1ie malignano su 
tutto , non avendo pure un sentore di ciò che io sono 
per dire nou m’ incolpino , quasi io che avea tanti 
splendidi argomenti , deviassi alle ignobili antichità di 
una città mal nota fra noi , e vile in tutto nelle ori* 
gini prime, nè degna di storia , e giunta solo a cele- 
brità da poche generazioni addietro , quando disfece il 
regno de’ Macedoni , e compiè faustamente la guerra 
con Cartagine. La primitiva storia romana poco meno 
che ignorasi ancoia tra’ Greci ; ed alcune opinioni non 
vere , nate da novelle volgari , ingannarono molti , quasi 
Roma avesse per suoi fondatori , uomini affatto non li- 
beri , anzi barbari e vagabondi, e senza abitazioni; e 
quasi col tempo non giugnesse al dominio del mondo 
per la pietà sua , per la giustizia e per le altre vir- 
tù , ma pe’ casi e per le ingiustizie della sorte , che 
temeraria dispensa i beni più grandi ai men degni. 
Per tal modo uomini turpissimi accusano palesemente la 
sorte che desse a’ più tristi de’ barbari i beni de’ Greci. 
E che giova poi dire ancor d’ altri , quando alcuni de- 
gli storici osarono lasciare anche scritte tali favole ? se 
non che formaron essi la storia nè giusta nè vera; per- 
chè servivano ed adulavano barbari monarchi che odia- 
vano quella potenza. 



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■l6 PROEMIO. 

y. Ora io deliberato a togliere tali sentenze erronee , 
come dissi , da molti e supplirvi le vere , dichiarerò 
col mio scrivere quali fossero i fondatori di Roma , in 
quali tempi via via si congregassero , e per quali vicen- 
de lasciassero le patrie loro sedi : e prometto dimostrare 
eh’ essi erano delia Grecia , nè già de’ popoli più pic- 
cioli , e meno pregiati di questa. Dato cosi principio , 
esporrò poi le azioni che operarono di buon’ ora dopo la 
fondazione , e le industrie per le quali i posteri perven- 
nero a tanto impero , senza omettere , quanto è da me, 
niente che degno sia di ricordanza; perché chi siegue 
il vero, i mezzi ne abbia, onde pensare con decoro di 
questa città ; se alieno in tutto e malevolo non le sia ; 
e perchè non isdegnisi che servi le siam fatti , mentre 
il voleva la ragione ; essendo legge naturale a tutti co- 
mune , cui niun tempo mai potrà cancellare, che sem- 
pre i migliori comandino a quelli che sono da meno. 
Nè più ila dopo ciò redarguita la sorte ; quasi donasse 
temerariamente , ornai da tanto tempo , un sì grande 
potere a eittà non meritevole : imperocché vedremo per 
la storia , che essa ben tosto dopo la origine produsse 
in copia tali grand’ uomini , quali non barbara o greca 
città mai produsse , nè più pii , nè più giusti , nè più 
sav) nel vivere , nè più segnalati nelle arme ; seppure 
sarà da un tal dire lontana la invidia ; involgendola ap- 
punto in sé le promesse di tali meraviglie e portenti. 
Ora questi tutti che a lei fabbricarono la grandezza di 
un tanto impero , ignoransi nella Grecia , perchè privi 
di scrittore condegno : imperocché non ancora apparve 
su loro greca istoria niuna, se non compend) brevissimi. 



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IPROEMIO. 1 7 

VI. Lo storico Geronimo Cardiano il primo , che io 
sappia , toccò le antichità romane nell’ opera sua intorno 
i figli de’snccessori (i). Dopo lui Timeo di Sicilia espose 
in una storia comune le antichità delle storie , dando 

10 opera a parte le guerre di Pirro 1’ Epirota. Antigo- 
no con questi , e Sileno , e Polibio e mille altri tenta- 
rono ma con vario modo quell’ argomento : e tutti ne 
scrissero poche memorie , e queste nè diligenti nè cri- 
tiche , ma raccolte da ogui aura di fama. Diedero pur 
simigliami , non diverse da queste , le storie , quanti 
romani narrarono con greco idioma le vecchie cose: 
de’ quali furono i primi Quinte. Fabio e Lucio Ciucio; 
illustri ambedue circa i tempi delle guerre con Carta- 
gine: e r uno e l’altro dipinse, com’erano, per scienza 
propria le imprese alle quali intervennero; ma trascor- 
sero come di volo gli antichi fatti dopo la fondazione 
di Roma. Ora per tali cagfoni io non volli trasandare 
una storia eccellente , lasciata senza memorie da’ mag- 
giori , e dalla quale nasceranno , se scritta sia con dili- 
genza , i beni più solidi e più convenienti : vuol dire 
i valentuomini i quali consumarono il corso loro aeqiii- 
steranno gloria e laude sempiterna per ciò che iecero , 

11 che pareggia quasi una frale natura alla divina , non 
morendo le opere come li corpi : e quanti discendono 
o discenderanno da quegli nomini , simili agli Dii , non 
seguiranno già vita dilettevole e molle, ma generosa e 

(i ) Cioè di Alessaadro Magno : È nolo che i successori di questa 
oiascuno nella parte che ebbe dell’ impero', furono detti imitati 
e che i figli de' sueeessoti furono chiamati iariy«ra<* 

' DIONJGX , tomo I. , 



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1 8 PROEMIO. 

piena di onore , sul n'flesso che chi tiene splendidi eserapj 
dalla sua stirpe , debbo avere I’ animo grande , nè vol- 
gerlo a cose indegne degli avi. E Bnalmente io che 
non ‘mi posi per adulare a quest’opera, ma per la cu- 
ra , coniuue ad ogni storia , del vero e del giusto, io 
potrò far vedere com’ella sia vantaggiosa a tutti i buoni 
ed a tutti gli amici delle azioni sublimi e belle ; e pt- 
trò , quanto è da me , rendere le debite grazie a tanta 
città tra la memoria degl’ insegnamenti e de’ beni che 
ne derivai , dimorandovi. 

VII. Ora detto avendo del mio subjetto, vo’ dire dei 
mezzi dei quali mi valsi per iscriverne. Forse coloro 
che lessero Geronimo , Timeo, Polibio , o tal altro de- 
gli storici mentovati dianzi , da’ quali non abbiamo che 
de’ compendj , non trovandovi molte delle cose scritte 
da me , sospetteranno che io le inventassi , e vorranno 
conoscere come le seppi. Perché dunque non si abbia 
un tale sospetto ,■ fia meglio scorrere i monumenti e i 
modi onde cominciai. Nel mezzo della olimpiade cen- 
tesima ottantesima settima quando cessò la guerra civile 
sotto di Augusto, navigando io per l’Italia , e da indi 
In qua tenendomi in Roma per ventidue anni ve ne 
appresi il parlare e lo scrivere , proprio del luogo ; ed 
In tutto quel tempo ebbi l’animo so le cose oppor- 
tune al mio scopo : e parte traendo da’ dotti co’ quali io 
conversava , parte dalle storie delineate da’ più famosi 
Romani, io dico d.-i quelle di Porcio Catone, di Fabio 
Massimo , di Valerio Ansiate , di Licinio Macro , degli 
Elj, de’ Gelij, de’ Calpurnj e di altri in copia , nè ignobili, 
anzi eccitandomi in vista d’ istorie tali , che non sono 



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reoEMio. r,9 

poi altro che ÌDimagÌDÌ di greci anoali ; mi diedi a scri- 
vere finalmente. E questo sia detto su me. Rimane che 
io dica anticipatamente ancora della mia storia a quali 
tempi , o cose io la riduca , e con qual forma. 

yUl. Io comincio T opera dalle antichissime &vole , 
trasandate dai scrittori che mi precederono perchè non 
facili a ritrovarle sensa grande fatica ; e stendo la nar- 
razione fino alla origine della prima guerra cartaginese 
nelT anno terzo della olimpiade centesima ventesima ot- 
tava. Comprenderò le guerre esterne , quante Roma di 
qv e’ tempi ne fece, e le interne sedizioni e le cause, 
e con qual modo e per quali argomenti cessassero : ri- 
dirò le specie tutte a cui venne di stato , e quando fi^ 
dominata dai re , e quando ne fu libera , e qual fosse 
r apparato di ognuna : dirò le costumanze ottime , e le 
leggi famosissime : in somma io tutto appaleso T antico 
vivere de’ cittadini. La forma poi sarà tale , qual non 
diede alle storie chi scrisse le guerre , o le cose civili 
per sè stesse , anzi non avrà somiglianza pur con gli an« 
nali come gli espose chi narrò le cose di Atene ; essen- 
do questi senza varietà , e facili quindi a nojare chi leg- 
ge : piuttosto sarà come un tutto di cose pratico-teore- 
tiche, perchè abbia materie in copia per chi si versa nella 
politica , per chi siegue le contemplazioni de’ filosofi -, e 
per chi bisogna di un placido trattenimento nella lezio- 
ne delle storie. Su tali cose dunque si aggirerà la stòria 
nostra , e tale ne sarà la natura ; ed io che la compon- 
go, sono io Dionigi di Aiicamasso il figlio di Alessan- 
dro. Ora incomincio. 



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20 



DELLE 

ANTICHITÀ ROMANE 

D I 

DIONIGI ALICARNASSEO 



LIBRO PRIMO. 

I 

I. Si dice che i Sicoli , barbara gente ed indigena , 
gieno i più antichi de’ quali s’ abbia memoria , che abi- 
tassero la città che ora domina i mari e la terra , e che 
è patria a’ Romani : e ninno può divisare se innanzi loro 
fosse abitata da altri , o se fosse un deserto. Appresso 
spogliandone con lunga guerra i possessori , la ebbero 
gli Aborigeni , uomini già sparsi in villaggi senza mora 
pe' monti. Quindi i Pelasghi mescolati con alcuni de’ 
Gi'eci unironsi ad essi per la guerra contro de’ conG- 
uanti , e cacciati del tutto i Sicoli circondarono molte 
città di mura , e fecero che soggiacesse loro tutto il 
paese tra i due Gumi Liri e Tevere, i quali nascono 



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DELLE Antichità’ romane libro i. 21 

appiè degli Appennini , mónti che dividono per lungo 
tutta la Italia , e che distanti quasi di cento miglia fra 
loro sboccano nel mare Tirreno , il Tevere da setten- 
trione presso di Ostia , ed il Liei da mezzogiorno , tra- 
versando Minturna ; città 1’ una e 1’ altra che sono co- 
lonie de’ Romani. Rimasero in quella sede i popoli 
stessi non più. espulsi da altri , ma variando ad ora ad 
ora il nome; e fino alla guerra trojana serbarono il nome 
antico di Aborigeni : ma intorno a quei tempi comin- 
ciarono a chiamarsi Latini per Latino re che li domi- 
nava : sedici generazioni appresso fondando Romolo una 
città che portasse il nome di lui , presero il nome che 
ora tengono : e si apparecchiarono per essere di piaào- 
lissimi alBne grandissimi ; e famosissimi di oscurissimi ; 
dando a chi ne bisognava , ricovero umanamente fra lo- 
ro , ammettendo tra’ cittadini coloro che sebbene vinti i 
erano generosi fra le armi , e sebbene servi , erano da 
essi fatti liberi , nè spregiando ceto alcuno di persone 
che giovevoli fossero al pubblico , e soprattutto colla 
forma buona di governo cui fondarono con stenti assai , 
traendo da ogni circostanza , quanto era il più utile. 

II. Ora questi Aborigeni da’ quali comincia la gente 
romana , dimostrasi per alcuni che derivino da sè stes- 
si , e siano appunto naturali d Italia : io dico di tutto 
il tratto quanto ne circondano colle acque i due mari 
Ionio e Tirreno c terze (i) le Alpi da terrai dicesi 

(i) Tale mi sembra la spicgaxiooe facile di questo luogo e non 
quella con cui gl' iolerpreti ci fan sapere che tre furono le Alpi , 
Cozie , Pemitue c Mnfiuimr • Il che puh esser buono in un trat- 
tato delle Alpi. ’ . 



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22 DBLLE ANTICHITÀ* ROMANE 

pertanto che quel primo nome si avessero come Io avreb» 
boD fra noi di genarchi o proto geni perchè furono per 
la generazione il principio de’ posteri. Altri affermano 
che uomini senza case , erranti , e mossi da più parti , 
imbattutisi per sorte a vicenda in luoghi medesimi , ne 
abitassero i più forti } vivendo colle prede e co’ bestia- 
mi : e volgono il nome loro , forse più propriamente , 
in quello di ^herrigìni, dal quale sono vagabondi di- 
chiarati : e forse secondo questi gli Aborigeni niente 
differiscono da quelli che Lelegi si chiamavano dagli an- 
tichi : i quali spesso davan tal nome a nomini collettizi, 
senza case e senza stabile sede , ove come in patria abi- 
tassero. Altri favoleggiano esser questi un tralcio de’ Li- 
guri, confinanti con gli Umbri : imperocché gran parte 
de’ Liguri , soggiorna nell' Italia , e parte pur nelle GaL 
lie ; e quale delle due sia la lor patria s’ ignora ; non 
dicendosi con chiarezza su loro altra cosa. 

IH. Gli storici romani più illuminati come Porcio 
Catone, il quale trattò diligentissimamente delie origini 
delle città della Italia , e Cajo Sempronio , ed altri molti 
dicono che questi derivano dai Greci un tempo del- 
r Acaja , i quali di là trasmigrarono molte generazioni 
prima della guem di Troja ; ma non distinguono nè 
la greca gente della quale eran parte , né la città dalla 
quale spatriarono , né il tempo , né sotto qual condot- 
tiero , nè per quali vicenda , e come in greche favole , 
non allegano autorità ninna di greco scrittore. Quindi 
non apparisce come il vero ne stia ; ma se giusto é 
un tal dire, non vengono altronde, che dalla genie, 
Arcade nominata ; mentre questi i primi de’ Greci pas- 



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LIBRO I. • 23 

sanilo il mar Jonio sotto la scorta di Oenoli^ figlinolo 
di Licaone abitaron la Italia. Era Oenotro il quinto 
dopo Ezeo , e Foroneo che primi dominarono nel Pe« 
loponneso : perciocché F oroneo generò Niobe : e questa 
e Giove diedero Pelasgo come porta la fìima : Ezeo diè 
Licaone , e Licaone ebbe figlia Dejanira ; sorse da De» 
ìanira e da Pelasgo un altro Licaone , e da questo fi> 
nai mente Oenotro diciassette generazioni avanti che a 
Troja si combattesse. E questa è l’epoca nella quale 
mandarono i Greci nella Italia una colonia. Oenotro poi 
si levò di Grecia ; perché non pago della sua parte : 
giacché nati essendo a Licaone ventidue figli; aveasi l’Ai^ 
cidia a dividere in altrettanti. Per tale cagione lasciando 
OcDOiro il Peloponneso, passò con fiotta gié preparata il 
mar Ionio, e passavalo teco Peucezio l’uno de' fratelli 
di lui. Navigavano con essi molti della sua gente , po^ 
pelosissima , come si dice , nelle origini ; e quanti altri 
de’ Greci non aveano terreno ^he loro bastasse. Peucezio 
pigliò sede in sul promontorio Japigio , appunto ove 
prima sbarcò nella Italia , cacciando chi v’ era , e da lui 
furono Pcucezj chiamati quanti abitarono que’ luoghi. 
Oenotro guidando seco il più dell’ esercito , venne ad 
altro seno più occidentale d’Italia, Ausonio allora chia- 
mato dagli Ausonj, che la spiaggia nc popolavano. Ma 
quando i Tirreni diventarono i padroni de' mari prese 
il nome che tien di presente. 

IV. E trovando la regione bonissima da pascolarvi 
o da ararvi , ma deserta in moltissimi tratti , anzi con 
poco popolo ov’ era abitata j dìé la caccia a’ barbari in 
tina parte della medesima , e fondò citt.ì non grandi 



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a4 DELLE antichità’ ROMANE 

si, ma frequenti in sui mouli ; com’era stile antichissi> 
mo , di situarsi. Così tutta la regione fu detta Oenotria, 
essendone amplissimo lo spazio occupalo ; ed Oeuotr) 
pure si dissero gli uomini tutti a’quali comandava , mu- 
tando nome per la terza volta ; mentre Ezei si chiama- 
vano dominandoli Ezeo , e poi subito Licaonj quando 
al governo succedè Ligaone. Menati però nella Italia da 
Oenotro , Oenotrj si nominarono per un tempo : nel 
che Sofocle il tragico mi è testimonio net suo Tripto- 
Icmo : perciocché vi s’ inU'oduce la madre degli Dei che 
dimostra a Triptolcmo quanto spazio debba trascorrere 
per seminare i semi eh’ ella dati gli aveva. Or ella , 
mentovato prima l’ oriente d’Italia dal promontorio J.i- 
pigio 6uo allo stretto Siciliano, e poscia additata la Si- 
cilia che sta dirimpetto; volgasi tosto alla Italia occi- 
dentale , e numera i popoli più grandi della spiaggia , 
cominciando dagli Oenotrj: ma bastino le sole cose da 
lei dette ne’ jambj , percl)è dice : 

Questo é do tergo ; a destra siegue tutto 

La Oenotrìa , il mar Tirreno , e la Liguria. 

Antioco di Siracusa , scrittore antichissimo , annoverando 
i primi ad abitare la Italia e le parli occupale da ognu- 
no , afferma che gli Oenotri in questo precederono ogni 
altro di cui s’abbia ricordo, dicendo: jéntioco il fi- 
gliuolo di Zenofanle compilò su la Italia queste cose, 
le più credibili e più manifeste ira vecchi monumenti', 
la terra che ora Italia dimandasi la ebbero antkhism 
simamente gli Oenotri : poi discorre in qual modo la 
governassero , e come Italo un tempo divenisse re loro 



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LIBRO I. 35 

cd Itali ue fossero oomioati : e poi Morgili per essere 
a Morgite venato quel principato. E siccome stando 
Sicolo per ospite presso Morgite , e tentando appro- 
priarsene la signoria , ne divise le genti ; conclude : cosi 
gli Oenotri divennero e Sicoli e Morgiti ed Italiani. 

V. Ora dichiareremo quanta fosse la gente degli 
Oenotri allegando per testimonio nn altro vecchissimo 
autore, io dico Ferecide, non secondo a niuno degK 
Ateniesi che trattasse delie genealogie. Egli fa su quelli 
che dominaron 1’ Arcadia questo discorso: nacque Li- 
caoue da Pelasgo e Dejanira e sposò Cillene , una ninfa 
dell» Najadi dalla quale ebbe nome il monte Cillene: 
poi divisando i generati da questi e quai luoghi cia- 
scuno abitasse , fa menzione di Oenotro , e di Peucezio 
dicendo : Oenotro , donde Oenolrj son detti gli abi- 
tatori Italia ; e Peucezio onde sono i Peucezj lungo 
il golfo Ionio. Tali sono le cose dette da’ vècchj poeti 
e mitologi sul popolarsi d’Italia, e su la origine degli 
Oenotri. In forza di che, se greca veramente è la stirpe 
degli Aborigeni , come disse Catone , e Sempronio e 
molti altri ; io penso che provenisse da questi Oenotrj : 
perocché trovo e Pelasgbi e Cretesi , e quanti altri abi- 
taron l’ Italia , venuti in tempi di poi : nè so vedere 
spedizione più antica di questa , che si recasse dalla 
Qrecia alle parti occidentali di Europa. Giudico poi che 
gli Oenotri occupassero molti luoghi d’Italia, o deserti, 
o poco popolati, e parte smembrati ancora dalle terre 
degli Umbri , e che Aborigeni si chiamassero per le 
abitazioni, come gli antichi le amavano, prese ne’ monti: 
cosi pur v’ ebbero in Atene que’ della spiaggia e dd 




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a6 DELLE Antichità’ romane 

monti. Che ie alcuni per indole non ricevono di subito 
senza prove quanto si afferma su cose antiche , nem- 
men subito decidano esser questi , o Liguri ovvero Um- 
bri , o tali altri de’ barbari : ma sospendendo finché 
apprendano le cose che restano , giudichino poi da tutte 
qual ne sia la più verìsimile. 

VI. Delie città che furono degli Aborigeni , poche 
ora ne sopravanzano : perocché premute la maggior 
parte dalle guerre , o da altri mali che straziano , fini- 
rono in solitudini. E secoudo che Terrenzio Varrone 
scrisse nelle anlichilà , ve ne erano nell’ agro Reatino 
non lungi dagli Appennini ; e le meno disgiunte da 
Roma , ne disiavano per lo viaggio di un giorno. Di 
esse io ridirò le più celebri secondo la storia di lui. 
Palazio è l’ una , lontana venticinque stadj da Rieti , 
cittade abitata da’ Romani fino a miei giorni , presso la 
strada Quinzia. Siede Trebula a sessanta stadj pur da 
Rieti , su dolce collina : e da Trebula con pari inter- 
vallo disgiungesi Vesbola dicontro a’ monti CerauBj: lad- 
dove quaranta stadj ne è lungi Soana , città famosa con 
antichissimo tempio di Marte. Discostavasi Mifula da 
Soana per trenta stadj , e se ne additano ancora le ror 
vine, e le vestigia de’ muri. A quaranta stadj da Mifula 
elevavasi Orvinio, città, quanto altra mai, chiara e grande 
in que’ luoghi : e segno ancora ne sono i fondamenti 
delle mura di lei come le tombe di antica struttura , e 
li recinti pe’ cimiterj comuni su’ monti altissimi : e là 
pure vedessi nella sommità di lei 1’ antico tempio di 
Minerva : lungi dieci miglia da Rieti , procedendo per 
la strada Giulia , là presso il monte Corito v’ era Car- 

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LIBRO I. 27 

sola , ora distmUa , lua ili recente. Additasi insieme un 
isoletta , ed Issa è nominata , cinta da una palude : e 
dicesi che uomini vi abitassero senza fortificarla , valen- 
dosi delle lacune intorno , come di mura. Vicino ad 
Issa , in un seno delia palude , giace Marruvio , lungi 
quaranta stadj dalle setle acque che chiamano. Pari- 
mente andando da Rieti in su la via Latina trovasi dopo 
trenta stadj Vazìa, e dopo trecento (i) Tiora detta an- 
cora Matiena , ove è fama che un antichissimo oracolo 
fosse di Marte; nella forma quasi di quello che la fa- 
vola un tempo descriveva in Oodona ; eccetto che si 
dice che in Dodona da una sacra quercia rispondesse 
fatidica una colomba ; laddove tra gli Aborigeni sup- 
pliva a tanto , su di una colonna di legno un uccello 
visibile mandalo dallo Dio , chiamato Pico da loro , e 
driocolapti da’ Greci. Lungi ventiquattro stadj da questa 
città sorgeva Lista la capitale degli Aborigeni , la quale 
non custodita, fu ne’ vecchi tempi invasa da’Sabini che 
armati uscirono tra la notte dalla città di Amiterna. 
Quei che scamparono dalla invasione accolti in Rieti , 
fecero più e più tentativi : alfine impotenti a ricupe- 
rarla , dedicarono quasi fosse ancor loro , quella terra 
agl’Iddii, ponendo sotto l’ira de’ medesimi chiunque da 
indi innanzi i fratti ne ritraesse. 

VII. Settanta stadj in qua da Rieti giace appiè di n.4 
monte Coiilia , città famosa : non lungi dalla quale si 



(1) Qui vi t sbaglio di voci : pcrchfc 1 ’ agro Reatia» mai non $i 
s^cie giusta Cluveriu a trecento stari] ossia 37 miglia e mezso ; pa- 
rimente forse di sopra non dee leggersi via Latina , che traversava 
il Lasio , ed era loatann quasi ipiarania miglia da Rieti. 



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2 8 DELLE Antichità’ romane 

spande per quattro jugeri un Iago, profondissimo com? 
dicono, e pieno sempre di acque che vi nascono, e ne 
trascorrono. Or questo , come augusto per non so che 
divino , Io credono i paesani sacro alla Vittoria ; e ripas 
randolo intorno con de’ recìnti , Io custodiscono come 
inaccessibile; perché nìuno se nc accosti alle acqne , se 
non in tempi periodici , nc’ qnali , sacriGcandosi a nor- 
ma della legge, qnelH a cui si conviene, ascendono alla 
isoletta che vi si trova. Stesa è questa isoletta in dia- 
metro circa cinquanta piedi : ma non emerge più che 
un piede su le onde. Non è già fissa in sé stessa ; ma 
qua e là galleggia , dove spingela il vento : e genera 
erbe simili al butomo , e virgulti , quantunque non 
grandi. Ineffabile ne è lo spettacolo; itè secondo a me- 
raviglia ninna per chi non ha contemplato quanto opera 
la natura. 

YIIL Ora iti queste parti è fama che gli Aborigeni 
in prima si collocassero , cacciatine gli Umbri. Poi di 
là movendosi disputarono colle arme il paese ad altri 
]>arbari , e soprattutto ai Sicoli , loro conGnanti. E sa 
le prime pochi bravi , quasi giovani sacri mandati da 
genitori in traccia de’ bisogni della vita , nscirono se- 
guendo un primitivo costume , che pur vedo seguito 
da molti de’ Barbari e de’ Greci. Imperocché quante 
volte le città moltiplicavano tanto in popolo che non 
più bastassero ad esse i proprj viveri ; quante volte fa 
terra danneggiata dalle mutazioni del cielo rendea meno 
dell’usato; e quante volte altro caso non dissimile buono 
o rio le necessitava a minorarsi di gente ; consacrando 
allora agl’ Idd^ d’anno in anno una serie di discendeuti 



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libro I. 2g 

gii armavano , e li congedavano. E con fausti augurii 
gli accompagnavano se giusta le patrie leggi sacrificando, 
rendevano grazie ai cieli per la generazione copiosa , o 
per le vittorie tra Tarmi : laddove se pregavano i Numi 
irati a rimovere da loro i mali che tolleravano ; li di- 
mettevano pure slmilmente , ma rattristandosi , e chie- 
dendo die loro si perdonasse. E quei sen partivano 
quasi non più avendo una patria, se pure altra non sen 
facevano che li raccogliesse o per amicizia , o combat- 
tendo , e vincendo ; ed il Nume al quale i congedati 
eran sacri parca per lo più cooperare con essi , ed al- 
zarne sopra la espettazione le colonie. Su tale consue- 
tudine gli Aborigeni , floridi allora in popolazione , e 
schivi , perchè noi credeano il meno de* mali , di ucci- 
dete alcuno de’ posteri , consacravano agl’ Iddii d’ anno 
io anno le generazioni, e via via dimetteano gli allievi, 
già grandi fatti , dalla patria. Uscitine questi non desi- 
sterono di far contro i Sicoli , e derubarli. Ma non si 
tosto conquistarono alcuna delle contrade inimiche ; di- 
venutine ornai più sicuri ancora gli altri Aborigeni i 
quali bisognavano di terreno , insorsero parte a parte 
su’ confinanti : e fondarono alcune città , e quelle , abi- 
tate ancor di presente , degli Antemnati , de’ Tellenesi , 
e de’ Ficolesi presso i monti Cornicli nominati , e dei 
Tiburtini finalmente , tra’ quali evvi un luogo della città 
che pure a dì nostri si chiama Siciliano. Nè furono ad 
altro vicino più molesti che incontro de’ Sicoli. Sorse 
da tali contrasti guerra con tutte le genti ; talché mai 
non fu per addietro la più grande in Italia, e v’ infierì 
lungo tempo. 



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3o DELLE AXTICIIITA’ ROMANE 

IX. Dopo questo alcuni de’ Pelasgbi che abitavano la 
regione ora detta Tessaglia costretti di trasmigrarne , 
divenuei'o gli ospiti degli Aborigeni ; ed i compagni di 
arme, contro de’SicoIi. Gli accolsero gli Aborigeni forse 
{icr la speranza , io penso , di un utile , ma più per la 
comunanza di origine: perocché son pure i Pelasgbi un 
greco lignaggio , antichissimo del Peloponneso : quan» 
tunque sciaurati per molte cose e principalmente per la 
vita errante , nè mai stabile in sede ninna. E certo , 
come molli affermano su di essi, abitarono su le prime 
la città che ora chiamasi Argo di Acaja ; traendo il 
nome di Pelasgbi da Pelasgo , loro sovrano , generato 
da Giove e da Niobe la figlia di F oroneo , quando il 
Dio si congiunse la prima volta con donna mortale , 
come è ndle favole. Poi nella sesta generazione lasciato 
il Peloponneso, passarono nella Emonia che ora Tessa* 
glia si nomina ; e duci furono del passaggio Acheo e 
F tio , e Pelasgo , figli di Larissa e di Nettuno. Giunti 
nella Emonia ne cacciarono i barbari che 1’ abitavano , 
e la divisero in tre regioni cognominandole da’ condot* 
tieri , F liotide , Acaja , e Pelasgiote. Fissi colà da cin- 
que generazioni , lungamente vi prosperavano , profit- 
tando pur de’ campi migliori della Tessaglia: ma intorno 
la sesta generazione ne furono espulsi da Cureti , e da 
Lelegi che ora sono gli Eioli ed i Locri, e da più altri 
che abitavano intorno del Parnasso , guidando i nemici 
Dencalione il figlio di Prometeo e di Glimene nata 
dall’ Oceano. ' 

X. Dispersi nella fuga , altri vennero io Creta , altri 
ottennero alcune deile Cicladi. Alcuni abitarono la re* 



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LIBRO I. 3 1 

gione intorno di Olimpo e di Ossa, ora detta Estiotidc: 
ed altri furon portati nella Beozia, nella Focide e nella 
Eiubea : alcuni tragittandosi in Asia occuparono molte 
delle spiagge deli’ Ellesponto e molte delle isole dirim> 
petto , e quella che ora Lesbo si chiama , mescolatisi 
alla colonia che prima andavaci dalla Grecia sotto gU 
auspizj di Macaro Gglio di Criaso. La maggior parte 
però dirigeudosi entro terra a’ loro parenti i quali al- 
bergavano in Dodona , ed a' quali , come sacri , niuno 
facea guerra , abitarono quivi alcun tempo : ma poiché 
si avvidero che eran di aggravio, non bastando la terra 
a nutrire tutti in comune, se ne involarono, mossi dal- 
r oracolo che ordinava loro di navigare in verso la Ita- 
lia , allora chiamata Saturnia. E fatto apparecchio in 
copia di navi, passarono il mar Jonio, procurando giun- 
gere in parti presso la Italia. Ma pel vento di mezzo- 
giorno , e per la imperizia de’ luoghi , portati più oltre 
capitarono ad una delle bocche del Pò chiamata Spi” 
itelo e quivi lasciarono le navi, e la turba meno idonea 
ai travagli con un presidio , per avervi una ritirata , se 
i disegni non riuscivano. Or questi rimanendo in quella 
regione circondarono di muro il campo dell’ esercito , 
cd introdussero colle navi copia di vettovaglie. E poi 
che videro succedere loro le cose come voleano , fab- 
bricarono una città coLnome appunto della- bocca del 
fiume. Quindi prosperando più che tutti su le spiagge 
dell’ Jonio , e prevalendo lungo tempo sulle onde , por- 
tarono quant’ altri mai, decime vistosissime in Delfo alla 
Divinità , de’ beni tratti dal mare. Da ultimo però ve- 
nendo amplissima guerra su loro da’ barbari intorno , 



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32 DELLE Antichità' romase 

losciarono la città , donde anche i barbari furono dopo 
nn tempo cacciati da’ Romani. Cosi mancarono i Pela<- 
ghi lasciati a Spineto. 

XI. Ma quelli che eransi dirizzati entro terra , supe- 
rando i monti d’Italia, capitarono a’ paesi degli Umbri, 
vicini degli Aborigeni. Abitarono gli Umbri molte e 
varie terre d’ Italia, e furono grandi tra’ popoli per nu- 
mero e per antichità. Nondimeno i Pelasghi pigliaroito 
da principio per forza i lor campi dove posarono , ar- 
rogandosi ancora alcune cittadelle degli ymbri. Ma ve- 
nendo su loro ampio esercito , ne sbigottirono ; e si 
avanzarono tra gli Aborigeni. Decisero questi dhe fos- 
sero da incontrarsi come nemici e pronti concorsero da 
prossimi luoghi per escluderli. Intanto i Pelasghi trova- 
tisi per avventura intorno di Cotila , città degli Abori- 
geni presso di un sacro lago , come videro che adden- 
tro vi ondeggiava una isoletta , e come insieme da’ pri- 
gionieri presi pe’campi seppero del nome de’ terrazzani ; 
concepiron che ivi si compiesse alfine il vaticinio fatto 
su loro in Dodona. E Lucio Mamio , uomo non igno- 
bile , dice avere ivi lui stesso veduto impresso con an- 
tichi caratteri quell’ oracolo in uno de’ tripodi , posti n^ 
tempio di Giove, e tale ne era la sentenza. 

V affrettale de" Sicolì alia terra 

Già di Saturno : a Cotila ne andate 

Degli Aborigeni , ove Visoletta 

Movesi incerta : e là frammisti ad essi 

Decime a Febo indirizzate ; e Plato 

S’ abbia in dono le teste , e il padre , un uomo. 



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LIBRO I. 33 

Quindi gìugnendo gli Abot'igeni colle tante milizie, al- 
zarono i Pelasghi ramuscelli di oliva: ed inermi si pre- 
sentarono dicendo le sorti loro , e pregando che li ac- 
cogliessero , almeno per 1’ amicizia in que’ luoghi : già 
non sarebbero di aggravio ; mentre 1’ oracolo ivi ap- 
punto gl’ indirizzava , e qui 1’ oracolo esposero. Udendo 
ciò gli Aborigeni , parve loro di ubbidire all’oracolo , e 
ricevere in essi , tanti Greci alleati : molto più che ave- 
vano briga co’ barbari , stanchi ornai dalla guerra coi 
Sicoli. Vengono dunque a’ santi patti co’ Pelasghi , e 
spogliandosen’ essi , compartono loro la terra intorno 
quel sacro lago, paludosa in molti tratti, donde Elia si 
direbbe, ma Velia si chiama: giacché per antico dialetto 
solcano spesso i Greci , se una parola cominciava da 
vocale , anteporvi la V , figurata con un segno unico , 
il quale era come un doppio r (i), vuol dire una retta 
con due trasverse di fronte , come l’hanno le voci Fe- 
leni , F anace , Folco , e Fanir , e molte altre. Dopo 
ciò parte non picciola di Pelasghi, perchè la terra non 
bastava a tutti, persuadono gli Aborigeni a congiungersi 
con loro che uscivano con le arme su gli Umbri. Cosi 
piombando con impeto repentino , pigliarono Crotone , 
città grande e felice. E di questa si valsero come di 
antemurale e di guardia; essendo conformata per essere 

' (l) r. Q'icsto al presente e il G greco: ed F sarebbe il Digam- 

ma o doppio T' Era già proprio degli Eolj, e Ira’ Greci avea furia 
di V coDsnuaiite. La senleuia di Dionigi può confermarsi con molti 
esempi : Cosi f'eneti sono dalla voce £,«r<. Erri* ò da fresia, 
veapera da , vis da it, vestis da ec- 

nioNiai , ictio I. s 



/ 



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34 DELLE AT^TICHITA’ KOMA^^E 

un baluardo di guerra in mezzo a campi fecondissimi. 
Conquistarono ancora altri luoghi non pochi , coadjn- 
vando con sommo ardore gli Aborigeni nella guerra 
che aveano tuttavia co’Sicoli, finché gli bandirono dalle 
loro sedi. E 1’ un popolo e l’ altro , Pelasghi ed Abori- 
geni abitarono promiscuamente molte città fabbricate da 
loro o tenute un tempo da’ Sicoli : tale era la città dei 
Ceretani , Agilla detta in que’ giorni , e tale era Pisa , 
e Saturnia , ed Alsio ed altre , espugnate col volger 
degli anni da’ Tirreni. 

XII. Falerio e Fascennio , ancor esse un tempo dei 
Sicoli , abitate dai Romani serbavano fino a’ miei giorni 
quasi scintille , poche reliquie di gente Pelasga. Anzi 
per lunghissimo tempo in esse durarono molti antichi 
usi già proprii de’ Greci come 1’ ornato delle arme da 
guerra, gli scudi all’argolica e le aste; e quando spe- 
divano ai confini l’esercito per dare la guerra o respi- 
gnerla , facean precedere alcuni uomini sacri senz’ arme 
a richiamarsi della pace. De’ quali sacri uomini erano 
r apparato , tempietti di Numi, sagrifizj e santificazioni, 
e molte non dissimili cose. Il segno manifestissimo che 
in Argo abitarono un tempo coloro che cacciarono i 
Sicoli è il tempio di Giunone in Falerio conformato 
come quello di Argo. Quivi simile è il modo de’ sagri- 
fizj , e sacre donne ancora curano il tempio , e quella 
che detta è portatrice de’ canestri , donzella e pura da 
cose maritali, tiene gli apparecchi primi co’ quali s’ im- 
mola, e cori di vergini lodano il Nume con patrie can- 
zoni. Ebbero questi popoli ancora non poco del terri- 
torio detto Campano , fecondissimo e vaghissimo a ri- 



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LIBRO I. 35 

guardarlo, cacciatine in parte gli Àurunci, barbaro po- 
polo : e quivi fondarono altre cittadi , e Larissa ; deno> 
minandola da Larissa , metropoli loro nel Peloponneso. 
Delle altre città ne resta pure alcuna fino a miei giorni, 
quantunque variati spesso gli abitatori: ma Larissa è di- 
strutta già (la gran tempo : nè presenta dell’ antica esi- 
stenza altro segno più manifesto che il nome , e nem- 
meno questo è noto a moltissimi. Era non lontana dal 
foro chiamato Popilio. Finalmente possederono , toglien- 
doli a Sicoli , molti altri luoghi entro terra , o lungo 
la spiaggia. 

XIII. I Sicoli ornai non più valevoli a resistere ai 
Pelasghi ed agli Aborigeni, riunendo i figli e le mogli 
e quanto aveano di moneta in oro ed argento, si leva- 
rono in tutto da quella terra. Ripiegatisi a’ monti verso 
del mezzogiorno , e trascorsa tutta l’ Italia inferiore , 
siccome dovunque erano discacciati , apparecchiarono in 
fine delle barche nello stretto , e notandovi il flusso e 
(piando era fausto , passarono dalla Italia in su l’ isola 
vicina. Allora i Sicani , Spagnuoli di origine , la poue- 
devano , nè da gran tempo vi erano stati ammessi, cer- 
cando uno scampo dai Liguri; e già per essi era detta 
Sicania l’isola un tempo chiamata Trinacria^ per la fi- 
gura sua di triangolo. Non molti erano in questa gran- 
d’isola gli abitatori; ma la più gran parte vedeasi ancora 
deserta. Giunti i Sicoli ad essa , ne abitarono su le 
prime i luoghi occidentali , e mano a mano più altri , 
talché l’isola ne fu detta Sicilia. Cosi la gente de’ Sicoli 
abbandonò la Italia ', tre generazioni , come Ellanico di 
Lesbo scrive , prima delle cose trojane , correndo in 



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36 DELLE Antichità’ romane 
Argo r anno vigesimo sesto del sacerdozio di Alcione. 
Perciocché stabilisce due passaggi fatti dalla Italia nella 
Sicilia il primo degli Elimei cacciati dagli Oenotri , e 
l’altro dopo cinque anni degli Ausoni, che fuggivano i 
Japigi. Dice che re di questi fu Sicolo , donde ebbero 
il nome gli uomini e 1’ isola. Filisto però di Siracusa 
scrisse che 1’ anno di quella discesa fu 1’ otuntesimo in- 
nanzi la guerra trojana: e che non Sicoli, non Ausonj, 
non Elimei , ma Liguri furono gli uomini trasportati 
dalla Italia , conducendoli Sicolo , figliuolo di Italo , e 
che dalla signoria di quello furono Sicoli nominati. La- 
sciavano i Liguri le patrie terre , astrettivi dagli Umbri 
e da’ Pelasghi. Antioco di Siracusa non distingue il 
tempo del tragitto; ma Sicoli dichiara quelli che tra- 
gittarono, premuti dagli Oenotrj e dagli Umbri, piglia- 
tosi nel trasmigrare Sicolo per condottiero. Tucidide 
scrive che Sicoli furono i profughi , e Opici quelli che 
li fugavano , per altro molti anni dopo la guerra di 
Troja. E queste sono le cose che affermansi da uomini 
riguardevoli intorno de’ Sicoli , passati dalla Italia nella 
Sicilia. 

XIV. Impadronitisi i Pelasghi di una regione ampia 
e bella , ne ebbero pur le città ; poi fondandone altre 
ancor essi , crebbero presto e molto in forze , in ric- 
chezze , ed altri beni ; non però ne goderono lungo 
tempo. Ma sembrando floridi troppo per ogni parte fu- 
rono sbattuti dall’ ira de’ celesti , e quali ne perirono 
per divine calamità , quali pe’ barbari confinanti : e la 
parte più grande ne fu dispersa tra’ barbari , o nuova- 
mente Ira’ Greci , e lungo ne sarebbe il discorso se per 



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tninuto seguissi un tal fatto. Pochi ne sopravanzaronc 
nella Italia per cura degli Aborigeni. Parve alle città 
che la origine prima di un tale struggersi di famiglie 
fosse la siccità che intristiva la terra, talché non restava 
frutto alcuno Gno al maturarsi negli arbori; ma innanzi 
tempo cadevano 5 nè i semi che sbucciavano in germi, 
vegetavano Gnchè le spighe floride si empiessero nei 
tempi naturali , nè bastavano i pascoli alle greggio. Non 
più le fonti eran atte a toglier la sete , guaste , impic- 
ciolite o spente dagli estivi calori. Consentivano con ciò 
le vicende delle bestie e delle donne nel generare : e 
quale sconciavasi in aborti , e quale dava Agli , morenti 
nel parto , o fatali nell’ utero ancora alle madri. Se 
scampavano 1 pericoli del parto , mutili , o storpi , o 
manchevoli per altro disagio , non eran’ utili , onde si 
allevassero. L’ altra moltitudine poi , specialmente la più 
vegeta era colta da mali, e da morti frequenti più del- 
r usato. E consultando l’ oracolo per quale violazione di 
genj o di Nomi questo patissero , e per quali pratiche 
mai fosse da sperare una calma in tanti orrori, udirono 
ciò essere perchè esauditi ne’ loro desiderj , non aveano 
penduto quanto promisero ; ma dovevano ancora agli 
Dei cose preziosissime. Imperocché li Pelasghi l’idotti a 
penuria di ogni cosa nelle loro terre , si votarono a 
Giove , ad Apollo , ed ai Cabiri (i) di santiGcare ad 
essi le decime di ogni prodotto. Appagati nella pre- 
ghiera presero ed offerirono agli Dei parte delle messi 
e de' frutti , quasi votati si fossero per questo soltanto. 

(i) Forte Castore e Polluce. E certo che erano Dei di Sanietracia. 



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38 DELLE Antichità’ romane 

Mii'silo di Le$bo scrive ciò quasi con le parole medesi- 
me , toltone , che egli chiama Tirreni e non Pelasghi 
quegli uomini , di che dirò più sotto le cause. 

XV. Ascoltato 1’ oracolo non sapevano interpretarlo. 
Fra dubbj loro un più vecchio, raccogliendone i sensi, 
disse che erravano affatto , se credevano che gli Dei li 
punissero a torto : volere il diritto ed il giusto , che si 
desse loro la primizia di tutto : nondimeno aspettavano 
ancora parte della generazione degli uomini , cosa più 
che tutte ad essi accettissima: se avessero questa, l’ora- 
colo sarebbe adempito. Parve ad altri che costui parlasse 
rettamente ; ad altri che tendesse delle insidie. E pro- 
ponendo un tale che s’ interrogasse il Dio se gradiva 
che si facessero per lui le decime , ancora degli uomini ; 
inandarono i sacri vati per questo , e rispose che si fa- 
cessero. Quand’ecco sedizione fra loro sul modo di de- 
cimarsi : e prima surse a vicenda tra’ capi della città ; 
poi l’altra moltitudine prese i suoi magistrati io sospetto: 
nè già sollevavansi con regola alcuna, ma come per en- 
tusiasmo e per divino furore. Cosi molte case furono 
abbandonate, trasmigrandosi parte di essi, nè sostenendo 
gli attenenti di essere abbandonati dai loro carissimi , e 
restarsene tra i più crudi nemici. Primi questi levandosi 
dall’ Italia errarono per la Grecia, e molto tra’ barbari: 
quindi ancor altri incorsero ne’ mali medesimi , conti- 
nuandosi ogni anno la decima. Nè i magistrati la so- 
spendevano , ma sceglievano le primizie de’ giovani più 
robusti pe’Numi, quantunque nel proposito di soddisfare 
agli Dei , temessero i moti di chi usciva a sorte per 
vittima. Erano ancora non pochi espulsi dagli avversar) 



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LIBRO I. 3^ 

per nimiclzia , lutto che sotto specie di oneste cagioni. 
Laonde spessissime furono la partenze ; e la gente Pe- 
lasga errò dispersa in più terre. 

XVI. Erano i Pelasghi , vivendo in mezzo a genti 
bellicose tra cure e pericoli , divenuti assai buoni nelle 
armi , e più ancora nella nautica per avere coabitato 
co’ Tirreni. La necessiti che ne’ stenti della vita ispira 
coraggio, fu loro maestra e direttrice in tutti i cimenti. 
Perciò non difUcilmente dovunque ne andavano vince- 
vano. Erano chiamati ad un tempo Pelasghi e Tirreni 
dagli altri uomini si pel nome delia regione donde par* 
ti vano , come in memoria della origine antica. Ora io 
dico ciò perchè alcuno udendoli chiamati Pelasghi e 
Tirreni da’ poeti e dagli storici , non meraviglisi come 
abbiano ambedue le denominazioni. Tucidide in Atte 
di Tracia fa menzione di loro e delle città che vi era* 
no , abitate da uomini bilingui : e questo è il dir suo 
su’ Pelasghi. Ivi sono de Calcidesi , ma i più sono 
Pelasghi , cioè que’ Tirreni che abilarono un tempo 
Lemno ed Atene. E Sofocle nel dramma suo dell’ I- 
naco fa questi versi detti dal coro : 

Inaco genitor, figlio de' fonti 
Bel padre Oceano, assai splendendo , reggi 
Le terre d’ Argo e di Giunone i colli 
E i Tirreni Pelasghi. 

Quindi il nome de’Tirreni risuonava in que’ tempi nella 
Grecia : e tutta la Italia occidentale lo assunse ancora 
per sé , lasciando i nomi speciali de’ suoi popoli. Oc- 
corse già pari vicenda nella Grecia e nella regione ora 



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4° DELLE ANTICinTA’ KOMA!SE 

detta Peloponneso: giacché dagli Achei, che eran Tuno 
de* popoli che v’ abitavano, fu detta Acaja tutta la Pe« 
nisola ov’ erano gli Arcadj , c li Jonj , ed altre nazioni 
non poche. 

XVII. L' epoca nella quale cominciarono i Pelasghi 
a decadere fu quasi nella seconda generazione innanzi 
la guerra di Troja, e durarono, direi, dopo ancora di 
questa 6nchè si ridussero ad un gruppo di gente. E , 
salvo la città di Crotone , famosa nell’ Umbria , e tale 
altra, se pur v’ ebbe, data loro ad abitare dagli Abori- 
geni , perirono tutte le rimanenti de’ Pelasghi. Crotone 
serbò lungo tempo l’antica sua forma, ora non è molto, 
ha mutato nome ed abitatori , e divenuta colonia ro- 
mana, si chiama Cortona (i). Varj poi furono c molti 
che occuparono le sedi abbandonate da’ Pelasghi secondo 
che ciascuno vi confinava ; ma le migliori e le più si 
rimasero pe’ Tirreni. Quanto ai Tirreni v’ è chi li dice 
naturali d’ Italia e chi forestieri. E quei che li stimano 
propri della regione , affermano che si diè loro quel 
nome per gli edifizj sicuri , che essi i primi di quanti 
vi erano, si fabbricarono : imperocché le abitazioni con 
muri e con tetto son tirseis chiamate dai Tirreni come 
da’ Greci. Cosi pensano imposto loro quel nome per 
accidente come nell’ Asia ai MosinIcI dalle mosine che 
sono le case di legno abitate da essi , altissime in for- 
ma di torri. 

XVIII. Ma quelli che favoleggiano che i Tiireni 
sono stranieri , additano un tale, detto Tirreno, che fa 



(i) Ssronito altri Cotorni'n ■ 



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LIBRO I. 4 1 

duce della colonia , e dal quale ebbe nome la nazione. 
Dicono che originario fosse di Lidia , chiamata già 
Meonia; e che da indi antichissimamente si trasmigrasse; 
e che egli fosse il quinto dopo di Giove. Imperocché 
narrano che da Giove e dalla terra nacque Mani , il 
primo a regnare in que’ luoghi : che da questo e da 
Calliroe. figlia dell’ Oceano nascesse Coti ; che da Coti 
sposatosi con Alle , figlia di Tulio , uomo paesano , 
germinassero due figli Adie ed Ati : che da Ati e da 
Callitea figliuola di Coreo sorgessero Lido e Tirreno : 
e che Lido rimastosi in que’ luoghi succedesse al regno 
paterno , e Lidia lo denominasse dal suo nome ; ma 
che Tirreno fattosi duce di una colonia occupò gran 
parte d’Italia, Tirreni chiamando il luogo, e quanti lo 
seguitarono. Erodoto però dice che Tirreno nacque da 
Ati figlio di Manco , e che P andarsene de’ Meonj nel- 
r Italia non fu volontario. Imperciocché narra che re- 
gnando Ati si mise la penuria tra Meonj : che gli uo- 
mini ritenuti dall’ amore della regione si argomentarono 
in più modi a vincer quel male , taluni di colla parsi- 
monia , e tal altri con 1’ astinenza : ma che prorogan- 
dosi la sciagura , tutto il popolo diviso in due , decise 
per le sorti chi dovesse di là trasmigrarsi , e chi rima- 
nere y e che perciò 1’ un figlio di Ati si stette , parten- 
dosi r altro : la moltitudine che pendeva da Lido trasse 
colle sorti il suo meglio , e si stette ; ma 1’ altra pi- 
gliando quanto le si dovea per le sorti in danaro , na- 
vigò verso r occidente d’ Italia , e postasi dove erano 
gli Umbri , vi fondò città che duravano ancora al suo 
tempo. 



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42 «ELLE Antichità’ bomane 

XIX. Ben so che altri non pochi scrissero , ap- 
punto come io scrissi , della origine de’ Tirreni ; ma 
che altri ne variano il fondatore ed il tempo. Imperoc- 
ché dissero alcuni che Tirreno era figlio di Ercole e 
di Onfale Lidia : che venuto questo in Italia , espuke i 
Pelasghi dalle loro città , non però da tutte , ma da 
qnelle poste di là del Tevere su le parti boreali. Altri 
però ci fan vedere in Tirreno un figliuolo di Telefo 
venuto in Italia dopo la rovina di Troja. Zanto lidio 
perito quant’ altri mai delle storie antiche , e creduto 
nelle patrie non inferiore a niuno, nè mentova in parte 
alcuna de’ suoi scritti un tirreno signore de’ Lidj , nè 
conosce passaggio alcuno de’Meonj nella Italia, nè parla 
mai de’ Tirreni come di Lipia colonia, sebbene parlasse 
di cose ancora bassissime. Dice che Ati generò Lido e 
Toribo , che dividendosi il regno paterno si rimasero 
ambedue nell’ Asia , c che diedero il nome loro a’ po- 
poli su’ quali comandavano. Imperocché scrive: da Lido 
si fecero i Lidj , e da Toriho i Toribi 5 poco d’ am- 
bedue differisce l’ idioma , e gii uni , come li Jonj e li 
Doriesi , usano a vicenda le parole degli altri : Ellanico 
di Lesbo dice che i Tirreni chiamati già Pelasghi as- 
sunsero il nome che or hanno , quando abitarono la 
Italia ; imperocché nel suo Foronide (i) scrive , da 
Pelasgo re loro , e da Menippe figliuola di Peneo 
nacque Fraslore , da questo surse Amintore , che 
diede Teutamide , e da Teutamide ebbesi Nanas j 
regnando il quale i Pelasghi , profughi dalla Grecia 

(1) Opaieolo di Ellaaieo; ne fa meniione Ateneo nel lib. 9. 



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LIBRO I. 4^ 

lasciarono le navi dove il fiume Spineto esce nel mare 
Ionio (i), ed invasero entro terra la città di Crotone; 
e di là movendosi fondarono quella che Tirrenia ora 
si chiama. Mirsilo sponendo come Ellauico le altre co- 
se , dice tuttavia che i Tirreni quando erravano profu- 
ghi dalla patria , furono detti Pelasghi per certa somi- 
glianza loro con le cicogne, pelarghi chiamate; giacché 
passavano in truppa per le terre de’ Greci e de’ barbari: 
aggiunge che essi alzarono il muro detto Pelargico in- 
torno la rocca di Atene. 

XX. A me però sembra che s’ ingannino quanti si 
persuasero che i Tirreni e i Pelasghi non sieno che 
una gente ; perciocché non è meraviglia che alcuni ab- 
bian talvolta il nome di altri , mentre in pari vicenda 
incorsero ancora altri popoli greci o barbari come i 
Trojani ed i F rigi , perchè prossimi di regione. Eppure 
molti fanno di questi due popoli Un solo, quasi distinti 
di nomi, non di lignaggio. I popoli poi d’Italia, nom« 
meno che quei d’altri luoghi , furono confusi ne’ nomi. 
E v’ ebbe un tempo quando Latini , Umbri , Ausoni , e 
molti altri si chiamavano Tirreni da’ Greci ; riuscendo 
ogni ricerca di questi men chiara per la lontananza di 
que’ popoli : anzi molti degli scrittori pigliarono Roma 
ancora per città de’ Tirreni. Io dunque penso che que- 
ste genti mutassero il nome , variandosi fino il vivere : 
non penso però che una fosse la origine di ambedue , 
per molte cagioni , e più per le voci loro non simili , 

(i) Qui si estende il nome di ionio all’interno dell’ Adriatico. 
Spesso gli storici antichi cosi praticarono contro 1’ uso de’ geografi 
che distinguono 1’ uno dall’ altro mare. 



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44 BELLE A^TICHITA’ ROMANE 

ma diversissime. Imperciocché nè li Crotoniati (i) come 
scrive Erodoto , nè li Piaciani ne’ proprj luoghi parlan 
la lingua dei circonvicini ; ma una ne parlano tutta lor 
propria; donde è manifesto che serbano i caratteri del- 
r idioma che aveano quando in que’ luoghi si traslata- 
rono. Meraviglisi poscia chi può che li Crotonlati somi- 
glino nell’ idioma al Piaciani , popoli ne’ lidi dell’ Elle- 
sponto , nè somiglino intanto a’ vicini Tirreni. Erano 
que’ primi ambedue Pelasghl ne’ principj loro : e se la 
unità di origine prendesi per causa della uniformità nei 
linguaggi ; dunque la differenza di origine è pur causa 
del divario di essi ; non dando un principio medesimo 
contrarj gli effetti. Certamente , se avvenga , ben è ra- 
gionevole quello , cioè che uomini di una gente mede- 
sima domiciliatisi lontani fra loro non conservino i ca- 
ratteri de’ proprj idiomi per lo conversar col vicini; ma 
che poi negl’idiomi non somiglino popoli di una origine 
istessa , e d’ istesse contrade, ciò non è ragionevole per 
ninna maniera. 

XXI. Seguendo tali indizj convincomi che differi- 
scono i Pelasghi dai Tirreni ; nè credo i Tireeni un 
tralcio de’ Lidj ; perocché nè parlano la lingua mede- 
sima , nè può dirsi che se non la parlano , ritengono 
almeno alcuni vestigi della teiTa materna , nè tengono 
per IdJj que’ che da’ Lidj si tengono ; nè li somigliano 
per leggi o per abitudini , ma in ciò dai Lidj si diver- 
sificano più , che da’ Pelasghi. Pertanto sembrano più 
verisimili quelli , che dicono un tal popolo , naturale 

( I ) Cortoncsi . 



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LIBRO I. 4^ 

della contrada , non venutovi altronde : pérciocchè si 
rinviene antico in tutto ; nè simile ad altri nel parlare , 
o nel vivere : e niente ripugna che avesse un tal nome 
da’Greci o per le abitazioni fortissime (i) o per l’uomo 
ancora che li dominava. Ma i Romani con altri nomi 
li chiamano Etruschi dalla Etruria , regione dove un 
tempo abitarono : ed ora li dicono Toschi men pro- 
priamente , avendoli come i Greci , nominali prima con 
più verità Tioscovi per lo magistero nelle cerimonie 
del culto divino, nelle quali sorpassano lutti, Que’ po- 
poli inoltre distinguono sè stessi dal nome di Rasenna 
r uno già de’ loro comandanti. Sarà poi dichiarato in 
altro libro quali città fossero abitate dai Tirreni e con / 

quali forme di governo , quanta fosse di tutti insieme 
la potenza , e quali , se pur degne ne ebbero di ricor- 
danza , le azioni ne fossero , e le vicende. 1 Pelasghi 
che non perirono , nè si disgiunsero per fare colonie , 
si rimasero, pochi di molti, con gli Aborigeni , sotto 
le leggi de’ luoghi ne’ quali si lasciavano , e ne’ quali col 
volger degli anui i posteri loro fondarono Roma. E tali 
sono le novelle intorno de’ Pelasghi. 

XXII. Dopo non molto tempo , nell’ anno , al più , 
sessantesimo come narrano i Romani , prima della guerra 
trojana , capitò ne’ luoghi medesimi un’ altra spedizione 
di Greci la quale abbandonava il Pallanteo , città del- 
r Arcadia. Il duce erane Evandro , figlio di Mercurio , 
e di una ninfa , abitatrice di Arcadia. I Greci la ten- 
gono per ispirata da’ Numi , e la chiamano Temide ; 

(i) Tirseis delle di *opa J xvii. 



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46 DELLE Antichità’ romane 

ma Carmeiita è delta nella patria lingua da’ romani 
che scrissero le antichità di Roma: perocché la ninfa 
avrebbesi a dir propriamente Tespi-ode con greca pa- 
rola : ma le odi chiamansi carmi da’ Romani , e quindi 
è Carmenta : si consente poi che tal donna presa dallo 
spirito divino presagisse , cantandole , le cose avvenire 
ai popoli. Non venne quella spedizione di comun senti- 
mento; ma nata sedizione del popolo, la parte inferiore, 
di voler suo si spatriò. Dominava di que’ tempi su gli 
Aborigeni Fauno, un discendente come dicono di Marte, 
uomo di azione e di prudenza , e riverito da’ Romani 
con sagrifìzj e con inni come un genio del loco. Ricevè' 
costui con assai benevolenza gli Arcadi che erano po- 
chi , e diede loro della sua terra , quanta ne vollero ; 
ed essi , come Temide gli avea , vaticinando , ammae- 
strati , presero un colle poco lontano dal Tevere , il 
quale ora è nel mezzo di Roma , e tanto vi fabbrica- 
rono , che bastasse alle genti venute con le due navi 
dalla Grecia. Era questo il principio segnato dai. destini 
per formare col volger degli anni una città , non pareg- 
giala mai da greca o barbara città per grandezza di 
abitazioni, di comando, e di ogni bene, e certamente 
memorabile soprattutto finché dureranno i mortali. Pal- 
lanteo chiamarono quel fabbricato come la metropoli 
loro in Arcadia: ora Palagio è detto da’ Romani per la 
confusione che inducono i tempi ; e ciò diede a molti 
la occasione di stolte etimologie. 

XXIIl. Dicono molti , e tra questi Polibio di Me- 
galopoli , che quel nome viene da Pallante, un giovi- 
netto ivi morto , nato da Ercole e da Cauna la 6glia 



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LIBRO I. 4? 

di Evandro: perchè facendogli questo avolo materno in 
quel colle un sepolcro , chiamò ' Pallanteo , quel luogo 
dal giovinetto. Io nè mirai in Roma la tomba di Fal- 
lante , nè conobbi che vi si praticassero funebri onori , 
nè potei conoscere nulla di slmile : quantunque la fami- 
glia di lui non sia dimenticata , nè priva del culto col 
quale i semidei sono venerali dagli uomini. Perocché 
vidi che i Romani faceano gelosamente ogni anno pub- 
blici sacriGzj ad Evandro e a Carmenta, come agli altri 
genj ed eroi : e vidi gli altari dedicali a Carmenta appiè 
del Campidoglio presso la porta carmentale , e quelli 
dedicali ad Evandro appiè dell’ altro colle detto Aven- 
tino , non lungi dalla porta trigemina ; nè vidi intanto 
cosa ninna di queste latta inverso Fallante. Gli Arcadi 
i quali coabitavano appiè del colle, eressero pure altri 
monumenti nelle forme della patria , e santi riti v’ isti- 
tuirono ; ma per ispirazione di Temide, innanzi lutti a 
Pane Liceo , Nume il più antico e più riverito tra quelli 
di Arcadia , in sito idoneo , che i Romani chiamano 
Lupercale , e noi diremmo Liceo. Ora empiuto essen- 
dosi di abitazioni il suolo intorno ; non è facile rintrac- 
ciarne la natura del luogo. Era questo , come dicono , 
appiè del colle, una spelonca, vetusta , grande, coperta 
da una querce, ramosa qual bosco : profonde bulicavano 
le fonti abbasso delle pietre ; e lo spazio appresso ai 
dirupi era opaco per arbori , altissime e folte. Qui col- 
locando un altare a quel Nume compierono il patrio 
sagriGzio , che i Romani , non mutando cosa alcuna 
delle antiche allora fatte, ripetono ancora di presente 
dopo il solstizio d’ inverno nel mese di febbrajo. La 



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48 DELLE Antichità’ romane 

maniera del sagrìGzio sarà detta più innanzi. Ergendo 
poi su le cime del colle un tempio alla Vittoria, stabi- 
lirono in questo ancora annui sagriGzj che i Romani 
tributano ancora. 

XXIV. Gli Arcadi favoleggiano che questa sia figlia 
di Fallante generata da Licaone : e Minerva , fece , che 
ricevesse da’ mortali gli onori che le si rendono ; impe- 
rocché fu essa educata colla Dea , giacché la Dea nata 
appena fu consegnata da Giove a Fallante, e presso lui 
fu nudrita finché ascese alle stelle. Fondarono ancora 
un tempio a Cerere ed il sagrifizio, che faceano le donne 
ma non usate al vino , com' era la pratica de' Greci : 
nel che 1’ andare del tempo non ha cagionato muta- 
zioni , fino a miei giorni. E Nettuno Ippio ebbe pure 
il suo tempio e le feste , dette Ippocratie da’ Greci , 
ma ConsucUi da' Romani: e Roma in esse libera per 
uso dal travaglio cavalli e muli, e ne incorona le teste 
di fiori. Consecraronu similmente altri tempj , altri al- 
tari, altri simulacri, costituendo purificazioni e sacri- 
fici , ritenuti ancora ne’ modi medesimi. Né già sarei 
meravigliato se alcune di queste cose neglette , come 
antiche troppo , non avessero più ricordanza tra’ po- 
steri : nondimeno le consuetudini presenti danno ancora 
assai da congetturare su’ riti arcadici d’ allora , de’ quali 
diremo altrove più pienamente. Dicesi che gli Arcadi 
recassero i primi nella Italia 1’ uso delle lettere greche, 
note ad essi da poco , e la musica della lira , della ti- 
bia e del trigono , non sonandosi ivi altri armonici 
stromenti che le sampogne de’ pastori : e dicesi che vi 
introducessero le leggi , vi raddolcissero le maniere del 



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LIBRO I. 49 

vivere , 6ere in gran parte , e che vi diflondessero le 
arti , e le istruzioni , ed altre utili cose in gran nume* 
ro« onde assai ne furono rispettati dagli ospiti. Questa 
greca moltitudine , seuouda dopo i Pelasghi , giunta 
nella Italia ebbe comune 1’ abitazione con gli Aborigeni 
in uno de’ bonissimi luoghi di Roma. 

XXV. Pochi anni dopo degli Arcadi vennero nella 
Italia altri Greci, guidati da Ercole il quale avea do- 
mato la Spagna , e le parti , fiu dove il sole tramonta. 
Alcuni di loro , implorato da Ercole il congedo dalla 
milizia , si fermarono in questi luoghi ; e trovando un 
colle opportuno , lontano al più tre sladj dal Pallanteo, 
vi si accasarono : chiamalo alloca Saturnio , o Crònio 
come i greci direbbono , ora si chiama Capitolino. 
Erano quei che rimasero per la più parte del Pelopon- 
neso , io dico i F enueati , e gli Epei della EUide , di- 
samorati di viaggiare in verso la patria, perchè deva- 
stata nella guerra con Ercole. Mescolavansi ad essi al- 
cuni de’ Trojani &tti prigionieri quando Èrcole prese 
già Troja , regnandovi Laomedonte. E pormi che in quei 
luogo si annidassero ancora tutti di quell’esercito , quanti 
o stanchi dalla fatica , o dal rigirarsi ottennero levarsi 
dalla milizia. Alcuni , come ho detto , stimano antico il 
nome del colle ; tanto che gli Epei gli si affezionarono 
nommeno in memoria del colle , Gronio chiamato nella 
Elide in su le terre di Pisa lungo le rive dell’ Alfeo. 
Gii Elicsi riputando quel poggio loro sacro a Saturno 
vi si adunano in fìssi tempi, e l’onorano con sacriGzj 
e con altro colto. Nondimeno Eusseno , ed altri mitologi 

VIOlfJGT , tomo I. i 



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5o nr.LLE Antichità’ romane 

Italiani pensano che i Pisani per la simiglianza del Cro- 
mo loro dessero il nome anche all’ altro : che gli Epei 
con Ercole erigessero a Saturno l’ altare che trovasi alle 
falde del colle presso la via che mena dal Foro al 
Campidoglio : e che essi istituissero il sagriCzio che i 
Romani v’ immolano ancora con greche cerimonie. Ma 
io , paragonando , trovo » che prima della venuta di 
Ercole nella Italia quel luogo era sacro a Saturno , e 
Saturnio chiamavasi da’ terrazzani : e che tutta 1’ altra 
regione, che ora dimandasi Italia, era dedicata ancor 
essa a quel Nume, e Saturnia nominavasi dagli abitanti, 
come trovasi detto nelle risposte date dalle sibille o da 
altri Iddii. Eid in molti luoghi di questa sonovi de’tempj 
alzati a quel Nume , ed alcune città da lui si denomi- 
nano , come allora tutta la Italia: e portano ancora il 
nome del Dio molti luoghi, singolarmente i monti e le 
rupi. 

XXVL Col volger degli anni fu detta Italia per un 
uom potentissimo , Italo nominato. Antioco di Siracusa 
lo dipinge per uomo destro e filosofo , il quale convin- 
cendo molti popoli col dire e molti colla forza, ridusse 
in poter suo quanto v’ è tra ’l golfo Napitino (i) e 
quello di Scilla : e quel tratto fu il primo che Italia 
da Italo si dicesse. Dopo ciò scrive che divenuto più 
forte, fece che molti altri gli ubbidissero; perocché 
mise il cuore su’confinanti , e ne prese molte città: e 
scrive finalmente eh’ egli era Qenotro di nazione. Ella- 

(l) Cluverio in tini. Aniiq. I. IV crede die deliba Irgf’ersi La- 
me/in* in Tece di IVrpitino. Filoguno k di parere die Lamet città 
di Lucania desse nome a questo golfo. 



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MBRO J. !) I 

iiko di Lesbo narra die Ercole coiiJucevasi i bovi di 
Gerione alia volta di Argo , ma che essendo già nell' I- 
talia il tenero figlio di una vacca spiccossegli dall’ ar- 
mento , e profugo vi errò da per tutto ; finché solcalo 
il mare interpostp giunse nella Sicilia : che cercando 
Ercole quell’ animale , e chiedendo ovunque capitava , 
se alcuno lo avesse veduto de’ paesani , siccome poco 
intendevano il greco , e da’ segni lo chiamavano come 
aneli’ oggi si chiama nella patria lingua vitello ; cosi 
Vilalia chiamò tutta la regione da questo percorsa. 
Non è poi meraviglia che uu tal nome si tramutasse 
com' è di presente ; mentre tanti greci nomi eziandio 
subirono pari vicende. Ma , sia che prendesse quel no- 
me , come dice Antioco, dal condottiero, il che forse 
è più probabile , sia ebe dal vitello come pensa Ella- 
nico ; raccogliesi da ambedue che lo prese intorno ai 
tempi di Ercole , o poco prima ; essendo chiamala iu- 
nanzi Esperia ed Ausonia dai Greci , e Saturnia da 
[laesani , come di sopra fu detto. 

XXVII. Coutasi ancora tra qne’ popoli la novella 
ebe innanzi al principato di Giove ivi Saturno regnasse: 
e che tra loro più che altrove si avesse quella vita sì 
famosa , beata per tutti i beni , quanti le stagioni ne 
apportano. Ma se alcuno risecando ciocch’è di favoloso 
nel discorso , vaglia Intenderne la bontà di quella 
gioite , dalla quale il genere umano , sorto di recente 
dalla terra , come è vecchia fama , o d’ altronde , ne 
raccolse vantaggi moitissiini , e giocondissimi ; non tro- 
verà [>cr tal fine suolo pili acconcio di questo. Iiiipe- 
rocciiè se paragonisi una terra con altra di eguale gran- 




5-2 DELLE Antichità’ romane 

àezza , T Italia pei* mio giudizio è la migliore neU' Eu- 
ropa, e dovunque. Non ignoro clie io sembrerò dir cose 
incredibili a molti, i quali risguardano l’Egitto, la Li- 
bia , e Babilonia , e quante altre vi sono beate contrade: 
ma io non pongo la ricchezza della terra in una specie 
sola di prodotti , nè invidierei di abitare dove pingui 
sono le campagne , nè vi si scorge altro bene se non 
tenuissimo: ma quella regione chiamo la migliore la 
^ale sia bastantissima a sé Stessa, e che meno abbisogni 
deir altrui. Sono poi persuaso che la Italia paragonata 
con altra qualunque, appunto sia la terra datrice di ogni 
frutto , e di ogni utile* 

XXVIII. E certamente, se comprende campagne fe- 
lici e molte , non perchè madre è di messi , è men 
propizia per gli arbori : e se vale assai per ogni genere 
di alberi, non perchè tale, è poco ubertosa^ nel semi- 
narvi: o s’ è bonissima per ambedue questi usi, non per 
questo è men propria pe’ bestiami : nè perchè varia si 
dimostri ne’ prodotti e ne’ pascoli è disamena poi se vi 
si abita. Ma direi che di ogni agio soprabbonda e di 
ogni diletto. E qual terra mai frumentaria vince le terre 
dette della Campania, bagnate dalle acque non de’fiumi, 
ma del cielo f Io vi contemplai campagne che davano 
tre raccolte nudrendo dopo i semi del verno , quelli 
per la state , e dopo gli estivi , gli altri in 6ne per 
1' autunno. Quale coltivazione supera in olio quella dei 
Messapj , de’ Daunj , de’ Sabini e di altri? Qual mai 
suolo con vigne sorp rende più che il Tirreno, l’Albano 
e il Falerno 7 il quale ama così le viti, che ne porge 
col tnen di lavoro amplissimi frutti e bonissimi. Ma 



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LIBRO I. 



oltre le terre che si lavorano, ivi molte pur se ue tro- 
vano, riservate per le capre e per le pecore ; ma più 
mirabili ancora sono quelle da pascervi le mandre dei 
cavalli e de’ bovi: imperocché soprabbondandovi l’erba 
palustre c dei prati , e riuscendovi fresca e rugiadosa 
nelle parti che si coltivano , dan pascoli senza limite in 
tutta l’estate , e mantengono in fiore gli armenti. Qual 
dolce spettacolo ivi sono le selve per balze , per valli , 
per colli non culti , e di qnale e quanto niateriale per 
le navi e per altre operazioni ì Nè già cosa alcuna di 
queste è dilTìcile ad ottenerla , nè rimota dall’uso degli ^ 
uomic» : ma tutte sono pianissime, e tutte facili a tras- 
mettersi per la moltitudine de’ fiumi , i quali scorrono 
tutta la regione : e li quali con utile vi agevolano i tra- 
sporti e le permute dei prodotti della terra. Vi si tro- 
vano ancora in più luoghi delie acque calde , propriis- 
sime a’ bagni , e bonissime per le cure di mali diu- 
turni. E metalli vi sono d‘ ogni genere , e cacce d’ani- 
mali in copia , e mari fecondissimi , come pure altre 
cose moltissime ; e più utili e più meravigliose. Benis- 
simo soprattutto ne è 1’ aere per la dolce sua temperie 
secondo le stagioni, e poco opponesi con calori o 
freddi eccessivi al formarsi de’ fratti , ed al vivere degli 
animali. 

XXIX. Non è dunque da meravigliarsi che gli an- 
tichi prendessero quella terra per sacra a Crono , o 
Saturno; concependo che questo Dio vi fornisse , e sa- 
ziasse i mortali d’ogni bene. Ma sia che chiamisi Crono 
come da’ Greci, sia che Saturno (i) come da’Romaui; 

(i) Stefano r fiasaubono credono ebr qui fosse nel testo K«^ac 



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ìy!^ dkt.i.t; Antichità’ koma^e 

•omprenJeitilo ciascuno di essi la natura tutta delle 
cose ; tu lo nomina come più vuoi. Nemmeno è da 
meravigliarsi cbe contemplando in quella ogni abbon- 
danza e delizia , commoventissime cose , ne credessero 
ogni luogo più acconcio , degno degli Dei , com' era 
de’ mortali ; e li monti e le selve si ascrivessero a Pane, 
i prati e floridi luoghi alle ninfe , e le rive e le isole ai 
geuj marini , ed ogni altra parte ad un genio o a un 
Dio , come più couvenivagli. È fama che gli antichi im- 
molassero a Crono umane vittime , come in Cartagine , 

^ mentre esistè , come tra’ Celti , e come in mezzo di 
altri occidentali ; e che Ercole volendo precludere U 
barbarie di quel sacrificio, innalzasse l’ altare nel colle 
Saturnio, e facesse che vittime pure vi si ardessero con 
puro fuoco. E perchè que' popoli non sen corucciassero 
quasi spregiasse i patrj sacrifizj, è fama die gli ammo- 
nisse a placare l’ira di quel Nume; e piuttosto che gli 
uomini gettare nel Tevere legati nelle mani e ne’piedi , 
a gettarvi i simulacri loro , vestiti appunto com’ essi. 
Egli serbava una immagine degli antichi costumi , per- 
chè si sterpasse alfine, quanta superstizione, ' restava an- 
cora ne’ cuori. Conservavano i Romani tal pratica ancor 
ucl mio tempo , rlnovandola poco appresso all’equinozio 
di primavera nel mese di maggio nelle idi che chia- 
mano, le quali vogliono che ricorrano il giorno aj>- 
punto , cbe è il ipezzo del mese della luna (i). In questo 

il che «linde > «azieti , e bcDÌssiraa corrisponde alla pa- 
rola Ialina di Saturno i e perh di sopra abbiamo usala il verbo sa- 
ziata. Crono poi non h che il tempo ; cd il tempo lutto prepara , a 
di tallo ioruiicc ^li iiooiini col suo corso. 

(i) 1 fiamapi «Inp» \nraa regolavano l’anuo sul corsa delia Urna, 

* 



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LIBBO I. DD 

i ponteGci , vale a dire i primi tra’ sacerdoti , come le 
vérgini , custodi del fuoco inestinguibile , i pretori , e gli 
altri che esser possono all’ opera santa , dopo avere com- 
piuti secondo la legge il sagriGzio , gettano del ponte 
sublicio nel Tevere, trenta simulacri in forma umana 
Argei (i) nominati. Ma de’ sagriGzj e delle altre divine 
cerimonie^di Roma , nazionali o greche di maniere , 
diremo in altro libro ; richiedendo ora il subjetto che 
più riposatamente seguitiamo Ercole nella sua venuta 
in Italia, nè trasandiamo cosa da lui fattavi, degna di 
lode. ! 

XXX. E su questo Dio diconsi delle cose , quali 
più vere e quali più favolose : e cosi stanno le favolose. 
Ercole , oltre gli altri travagli , comandato da Eurisleo 
di condurgli da Eritea li bon di Gerione in Argo , 
tornando dalla impresa in sua casa , venne in molte 
parti d’ Italia e della terra degli Aborigeni, prossima ai 
Pallanteo. E trovandovi copioso e buon pascolo , vi 
addusse i bovi, ed egli, quasi stanco dalle fatiche, die* 
desi al sonno. Intanto un ladro paesano, Caco di nome, 
capitò tra’ bovi , pascolanti senza custòde , e se ne in-' 
vaghi. Ben conobbe che Ercole si riposava ; ma vide 
che> nè puteali tutti involare occultamente , nè facile ne 
sarebbe la impresa. Quindi ne ascose pochi solamente 

ed il principio della nuora luna era principio insieme del nnoT» 
mete. Di qui nasce che faceano combinare te idi di maggia c«l 
plenilunio o col mezzo del mese lunare. 

(i) Queste figure erauo di giuoco: si chiamavano Argei, qnsai 
rappreseiilasscro tanti Argivi che si slarmioavann come nemici degli 
Arcadi. * 




56 DELLE Antichità’ eomane 

nell’ antro vicino , dov’ egli vivea , traendoveli via via 
retrogradi per la coda , perché vedendovisi le pedate 
contrarie all’ ingresso , potesse render vano ogni argo- 
mento sa di essi. Ma levatosi Ercole poco appresso , e 
numerati i suoi bovi ; come vide che ne mancavano , 
dubitò su le prime, ove fossero andati , e li cercò mano a 
a mano come erranti da’pascoli. Nè raggiungendoli ancora ; 
venne alla spelonca sebbene sconsigliatovi dalle pedate , 
niente meno pensando , quanto che ivi ne ritroverebbe 
il covile. Standone Caco dinanzi l’entrata, e richie- 
stone , dicendo non averle vedute , nè volere che ivi 
più si cercassero ; anzi convocando clamorosamente i 
vicini , quasi patisse violenza dal forestiero ; Ercole , 
dubbioso in prima come istrigarsela , prende in fine a 
' dirigere all’ antro ancor gli altri bovi. Ma non sì tosto 
quegli da entro sentirono la nota voce e 1’ odore , la- 
sciarono verso gli altri di fnora un muggito , e fu quel 
muggito r accusatore del furto. Caco, vedutosi reo ma- 
nifestamente , ricone alla forza convocando tutti i suoi 
compastori. Ecco Alcide investirlo colla clava , ed ucci- 
derlo e sprigionarne i suoi bovi: poi vedendo, com’era 
la spelonca un refugio opportuno pe’ rubatori, la dirupò. 
Quindi, parificatosi con Tonde del fiume dalla strage, 
inalzò presso quel luogo a Giove ritrovatore un altare , 
ora visibile in Roma nella porta trigemina ; sacrifican- 
dovi un vitello al Nume onde ringraziarlo su’ bovi ricu-, 
perati. Roma porge ancora quel sacrificio, tutto con 
greci riti , come Ercole lo istituì. 

XXXI. Gli Aborigeni e quegli Arcadi che abitavano il 
Pallanteo come seppero della morte di Caco , c mira- 



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LIBRO I. 57 

rono Èrcole , nemici già del primo per le rapine, siu> 
pirano all’ aspetto del secondo , credendo non so che 
divino in lui per la grande avventura sua nella vittoria. 
I poveri tra loro spiccando ramnscelli di alloro , copioso 
in que’luoghi , ne coronarono Ercole e sè stessi ; ed 
accorrendo i loro monarchi lo invitarono ad ospizio. 
Come poi dal dir suo ne conobbero il nome , il lignag- 
gio , e le imprese ; prolferivano a lui per benevolenza 
il i-egno e sé stessi. Ed Evandro che anticamente udito 
avea da Temide stessa, volere il destino che Erctde, il 
figlio di Giove e di Alcmena, cambiasse per la virtù la 
natura mortale colla immortale , appena ravvisò chi egli 
fosse, ansioso di prevenire tutti e di rendersi propizio 
l’eroe con gli onori de’ Numi, alzò di repente con assai 
cura un alure , sacrificandogli dove l' oracolo avea già 
significato, un giovenco, intatto ancora di giogo, e 
supplicandolo a ricevere da lui le primizie di un culto. 
Meravigliatosi Ercole delle accoglienze , tenne il popolo 
a convito, immolando parte de* bovi , e separando per 
ciò le decime delle altre prede : poi donò a quei re 
che assai Io bramavano , molte delle terre de’ Liguri ^ 
e di altri confinanti , cacciando da esse alquanti ribaldi. 
Dicesi ancora che egli fe’ la ricerca , giacché i primi 
de’ paesani lo tenevano per un’ Iddio , che gli perpe- 
tuassero quegli onori , sagrificandogli ciascun anno un 
giovenco non domo, e santificandone l’azione con gre- 
che cerimonie : e dicesi che insegnasse queste a due 
famiglie le più riguardevoli perchè vittime in tutto ac- 
cette gli si offerissero: essere poi quelle de’Potizj e dei 
Pinarj , le famiglie allora istruite del greco rito , e le 



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.^8 DETXK antichità’ ROMANE 

loro generaziout aver lungo tempo continuata la cam 
de’ sagriiìzj , come v’ erano da colui depuute : talché i 
Potizj erano i capi nella santa operazione , ed aveano 
le primizie al bruciarsi delle vittime; laddove i Pinarj 
non ammetteansi a parte delle viscere , e teneano sem- 
pre i secondi onori nelle cose comuni ad ambedue. E 
cagione a questi della onorificenza minore fu la tardanza 
loro nel presentarsi; giacché comandati di venire sul far 
del mattino , giunsero essendo già consumate le viscere. 
Ora r incarico del santo ministero non è più de’ posteri 
loro: ma di servi comperali dal pubblico. Dirò poi nel 
suo luogo le cause per le quali il costume fu varialo , 
e le significazioni del Dio quando i santi ministri si 
permutarono (i). L’ara ov’ Ercole offerì le sue decime, 
chiamasi Massima da’ Romani , e trovasi presso al foro 
detto boario , veneratissima , quanto altra mai , da’ pae- 
sani : imperocché su questa fa patti e giuramenti chiun- 
que vuole stabilità negli accordi ; e su questa si offrono 
spesso ancora le decime a compimento de’ voti. Nondi- 
meno un tale altare nelle fattezze è minore della sua 
gloria. Vi ha de’ tempj di questo Nume altrove ancora 
in più luoghi d’ Italia ; e gli'altari ne sono per le città 
e per le strade: e diffìcilmente trovcrebbesi una popo- 
lazione che non lo adorasse. E questo ci tramandan le 
favole intorno di Ercole. 

(i) Il testo ove DioDÌp spiegava tali cose è perito. Potrà veder- 
seue ciocché ne scrive Livio oel libro nouo. Egli dice occorsa la 
mutaiioDc quando Appio Claudio esercitava le funxinni di censore. 
Allora in un anno perirono dei Potizj trenta tnaschj abili a rinovaro 
le famiglie , a cosi la stirpe virile corse al suo termine. 



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T.IBRO I, f)C) 

XXXIL Ma il più vero è quest’ altro : e molti die 
scrissero le imprese di lui , cosi nella storia lo delinca- 
rono. Ercole divenuto potentissimo in arme tra tutti dei 
suo tempo, e postosi con esercito numeroso scorse tutta 
la terra cinta dall’ Oceano , levando , se ce ne aveano , 
qualunque tirannide, grave e molesta ai sudditi, e qua- 
lunque impero di città contumelioso e nocevole agli altri 
vicini colla condotta dura e colle uccisioni ingiuste degli 
ospiti , e stabilendo monarchi onesti , governi savj , c 
costumi socievoli ed umani. Scorse ancora tra’ Greci e 
tra’barbari, neirinterno de’ mari e delle terre, in mezzo 
popoli infidi , intrattabili : fondò città .su luoghi deserti, 
diresse fiumi che inondavano i campi, aprì vie su monti 
impraticabili , e mille cose fece onde i mari tutti e le 
terre si comunicassero ogni vantaggio. Giunse finalmente 
in Italia ma non già solo , nè con mandre di bovi ; 
perocché non è questa regione in senti«‘o per chi viene 
dalle Spagne in Argo , nè conseguito ci avrebbe tanti 
onori per causa di un passaggio. Egli vi giungea dalle 
Spagne conquistate, ma con esercito amplissimo per sot- 
toporsela , e dominarvi. Se non che fu costretto a con- 
sumarvi gran tempo, e perchè lontana era la sua fiotta, 
stanti le bnrrasche ree dell’ inverno , e perchè le genti 
d’ Italia , non tutte spontanee gli si abbassavano. E per 
non dire di altri barbari , i Liguri , popolo numeroso e 
guerriero, posto ne’ passi delle Alpi, tentarono d’impe- 
dirgli colle arme 1’ ingresso nella Italia , e là s’ ebbero i 
Greci battaglia fierissima , esaurendovi tutti gli strali. 
Eschilo , poeta antichissimo , menziona questa battaglia 



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6o 



DELLE ANTICHITÀ ROMANE 



nel suo Prometeo disciolto (i). Ivi inducesi Prometeo 
(he presagisce ad Ercole non che le altre vicende , 
quelle che gli sovrastavano nella spedizione contro di 
Gerione , e nella guerra co’ Liguri , certamente non fo- 
cile : e questi ne sono li versi : 



À fronte là de" Liguri starai. 

Imperterrita gente : onta e rammarco 
Non ti fa guerreggiarli , e per destino , 

Pugnanda , ti vedrai mancar gli strali. 

XXXIII. Ma poiché , vincendo , s’ impadronì di quei 
passi ; alcuni , specialmente se greci di origine , o non 
valevoli a resistere , sottomisero volontai^' le loro città ; 
ma i più vi furono astretti con le arme e con gli as- 
sedj. Quanto ai vinti in battaglia, dicesi che Caco, quel 
si noto per le favole de’ Romani , barbaro principe di 
barbara gente , gli si opponesse perchè dominava luoghi 
assai forti , il che lo rendeva molesto ancora ai vicini. 
Costui poiché seppe che Ercole si accampava ne’ piani 
contigui apparecchiatosi all’ uso de’ ladroni , appari con 
subita scorreria su 1' esercito di lui che dormiva , e ne 
involò le prede , quante ne erano senza guardia. i Ma 
rinchiuso poscia per assedio da’ Greci che ne espugnavano 
le fortezze , finalmente anch’ egli soggiacque , e nel 
mezzo de’ suoi baluardi. 1 suoi castelli furono rovesciati; 
ed i compagni di Ercole , Evandro con gli Arcadi , . c 
Fauno con gli Aborigeni suoi pigliarono ciascuno per 

(i) Eboliìlo sdisse il suo Proiueleo ignìfera, il suo Promeleo 
legato, ed il Prometeo seioUo. Strabono nel lib. i , Ateneo nel 14 
liarlarono dell’ ultimo. Il secondo ci resta ancora. 



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LIBRO I.' 6l 

9Ò parte delle terre del vinto. Ma ben può taluno im- 
magnare che i Greci rimasti in quella regione furono 
gli Epei , e gli Arcadi originar) della città di Feneo , 
e li Trojani, lasciativi a presidiarla. Perocché tra le arti 
imperiali di Ercole fu pur quella nommeno sorprendente 
che le altre , di sospingere tra le sue milizie uomini 
divelti a forza dalle città conquistate , e di metterli al- 
fine , se animosi combattessero , ad abitare le terre in- 
vase , arricchendoli dell’ altrui. Per tali cagioni , e non 
per II viaggio che niente area di rispettabile , il nome 
e la fama di Ercole divenne grandissima nell’ Italia. 

XXXIV. Aggiungono alcuni, che ne’ luoghi ora abi- 
tati ^a’Komani egli vi lasciasse due suoi figliuoli gen^ 
retigli da due donne. Pallente era 1’ uno natogli da 
Launa (i) la figlia di Evandro: Latino è l’altro, natogli 
da una donzella boreale. Egli la conduceva seco dataci 
dal padre in ostaggio , e custodivaia finché candida si 
maritasse ; navigando però verso 1’ Italia ne fu vinto 
dall’ amore , e la fecondò. Ma essendo egli ornai per 
tornarsene in Argo concedè che si restasse sposa di 
F anno , re degli Aborigeni ; e per tale cagione molti 
tengono Latino per figlio di Fauno , e non di Elrcole. 
Narrano che PaUante morisse nel fiore primo degli anni: 
ma che Latino , adulto fatto , succedesse al comando 
degli Aborigeni : e che venuto lui meno senza stirpe 
virile , il regno , per la battaglia co’Rutòli confinanti , 
restasse al figlio di Anchise , vale a dire ad Enea, che 

(i) Quesu nel S Zini, precedeatemente è chiamata Canna, ed ora 
« chiama Launa. Forse non k che la tanto nota Lavinia detta da 
Greci Launa, Labina, Laiinia , o Laouinia. 



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63 DEixE Antichità- homane 

iliveuae suo genero'; ma queste cose accaddero in altro 

tempo. 

XXXV. Ercole , ordinate come volea , le cose tutte 
d’Italia, e giuntagli la flotta, salva dalle Spagne, ofTerl 
con sagrifizio agl’ Iddii le dècime delle sue prede, e là , 
dove alloggiavasi la milizia navale , eresse una piccola 
città , dandole il nome di sè stesso (i) , la quale ora 
albergaci Romani, e giace tra Pompeiano e tra Napoli 
con porto sicurissimo per ogni tempo. Cosi divenuto 
tra gl’ Italiani simile ad un Dio per gloria , per emu> 
lazione , per onori , fece vela per la Sicilia. Gli uomini 
lasciali custodi ed abitatori dell’ Italia , là , d’ intorno al 
colle di Saturno , si ressero un tempo da sè stessi : ma 
non molto dopo compartendo i proprj costumi, le leggi, 
i santi riti agii Aborigeni , come già fecero gli Arcadi, 
e prima i Pelasgbi , divennero coudttadini degli Abo- 
rigeni , talché sembrarono in (ine una gente medesima. 
E questo sia dettò su la spedizione di Ercole nella Ita- 
lia , e su quei del Peloponneso che vi restarono. Nella 
seconda generazione dopo la partenza di Ercole , nel- 
r anno cinquautesimoquinto al più regnava su gli Abo- 
rigeni ornai da trentacinque anni Latino il Aglio di 
Fauno il discendente di quel magnanimo. 

XXXVI. In quel tempo i Trojani fuggendo con 
Enea da Ilio già debellata approdarono a Laurento , 
.spiaggia degli Aborigeni in sul mare Tirreno non lon- 
tano dalle bocche del Tevere. Ed avendo da’ paesani'uu 
luogo per abitarvi, c quanto chiedevano, alzarono poco 

(i) (^uMia citi à di Ercole, si crede dorè ora è la torre del Grt-cu 
nel gulfe di . 



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LIBRO I. 63 

lungi dal mare in un colie uqa città cui chiamarono 
Lavinia. Ma da indi ’ a non molto , cedendo 1’ antico 
nome , ebbero quello di Latini dal re di que’ luoghi ; 
e levandosi da Lavinia insieme co’ terrazzani fondarono 
una città più grande, Alba denominata. Donde uscendo 
di tempo io tempo fabbricarono molte e molte delle 
città de’vecchj Latini, abitate in grandissima parte ancor 
di presente. Sedici generazioni 'dopo la presa di Troja 
spedirono- una colonia nel Pallanteo , e nella Saturnia , 
dove già fabbricato avcano i Pelopounesj e gli Arcadi , 
e dove erano pur le reliquie di essi, e fecero che vi ^ 
abitasse. Allora cinto di mura il Pallanteo prese la prima 
volta la forma di una città. Allora ebbe il nome di Ro- 
ma dal duce della colonia , io dico da Romolo , dicias- 
settesimo tra’ posteri di Enea. Ma , perciocché gli scrit- 
tori , parte ignorano, e parte ricordano variamente quanto 
è della venuta di Enea nella Italia , non io vo' trattarne 
come di fuga , ma prendendo ciò dalle storie , almeno 
più accreditate de’ Greci e de’ Romani. Ora tali sono le 
cose narrate su quell’ argomento. 

XXXVII. Espugnato ilio da’ Greci .sia per l’ inganno 
del cavallo di legno , come è presso di Omero , sia pel 
tradimento degli Aulcnoridi , o per altra maniera , pe- 
rirono in città la popolazione , e gli alleati , sorpresi 
ancora nelle camere loro ; sembrando che la sciagura 
gii assalisse , non guardandosene , tra la notte. Enea e 
con esso i Trojani venuti da Dardano c da Olrinio a 
soccorrere gl’lliesi , c quanti altri conobbero in tempo 
la sciagura, che era preso il basso della città, fuggendo 
a luoghi più forti di Pergamo occuparono il castello , 



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64 DELLE Antichità’ romane 
difeso da proprj muri, ove, come ia saldissima parte, 
erano le sante cose di Troja , e danaro in copia , in- 
sieme col fior dell’ esercito. Standosi colà respingevano 
chi tentava di espugnarveli; ma per la perizia ne’ sot- 
terranei vi riceveano chi vi si riparava dalia città già 
pigliata. Così più furono quelli che ne scamparono, che 
non quelli che caddero prigionieri. Con tal metodo 
Enea conseguì che l' impeto col quale i nemici ovunque 
infuriavano, non comprendesse in un tempo ogni cosa. 
Poi calcolando nelle sue probabilità l’avvenire , siccome 
era impossibile conservare la città , perdutane già la più 
gran parte , si rivolse al partito di cedere le mura ai 
nemici, e di salvare almeno le persone , e le sante cose 
della patria , e quanto potea trasportarsi di danaro. Così 
deliberato , comandò che fanciulli , e donne, e vecchj , 
e quanti abbisognavano di pausa nel fuggire , s’ incam- 
minassero intanto verso le cime dell’ Ida ; mentre ~gli 
Achei tra T ardore di espugnar la fortezza non curereb- 
bero d’insegnire la moltitudine che levavasi dalla città: 
destinò parte di milizie in guardia di ehi si avviava 
perchè la fuga riuscisse più certa , e nello stato presente 
men dura; avvertendoli insieme che occupassero i luoghi 
più forti dell’ Ida. Intanto ( col resto dell’ esercito , ed 
era il più rilevante ) egli persistendo su le mura , te- 
neavi dis’ ratti i nemici che le attaccavano , e rendeva 
meno disagiato lo scampo ai suoi , che sfilavano : se 
non che salendo poi Neptolemo co’ suoi la fortezza , e 
convocandovi d’ ogn’ intorno i Greci perchè lo ajutas- 
sero; Enea finalmente si ritirò. Spalancate le porte , 



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LlhRO T. 6 !) 

deuominate perla fuga di tanti (i), anch’egli uscì per 
esse , ma in ordine di batiaglia tra quelli che gli re- 
stavano , portando su di ottime bighe il genitore , i pa- 
trj Dei , la sua donna , i figli , e quante v’ erano per- 
sone , o suppellettili più riguardevoli. 

XXXVIII. Intanto gli Achei, presa di for/.a la città , 
spaziandosi intorno la preda , lasciavano ai fuggitivi 
grande comodità di salvarsi. Enea raggiungeva via via 
gli altri suoi, finché raccoltisi tutti in un corpo, occu- 
parono i luoghi più forti deir Ida. Sopravvennero ivi 
ancora quelli che abitavano in Cardano ; perocché ve- 
dendo lanciarsi da Ilio fiamme copiose fuor dell' usato , 
abbandonarono tra la notte insieme la loro città , leva- 
tine gli altri , i quali partirono prima coti Elimo ed 
Egesto , avendosi apparecchiate delle navi. Poi vi giunse 
tutto il popolo della città di Ofrinio , e vi giunsero dalle 
altre città Trojane quanti aveansi cara la libertà , sicché 
in poco tempo la milizia vi divenne grandissima. Ora 
questi', fuggiti con Enea dal cader prigionieri , tenen- 
dosi in quei luoghi sperarono di rendersi dopo non 
molto alle patrie , appena i Greui via navigherebbero : 
ma i Greci sottomettendo Troja e le adjacenze , e de- 
vastandone le fortezze , apparecchiavansi a porre sotto 
giogo ì rifuggiti ancora ne’ monti. E mandando questi 
gli araldi perchè desistessero , nè li necessitassero alla 
guerra , si venne per le suppliche a trattative , e tali ne 
furono gli accordi. Enea e li suoi recandosi tjuanlQ 

(i) ni/Asf ^vyciéits , porle de' fu(;giiÌTÌ. 

s 



DIOAIGI t l. 




66 DELLE Antichità’ romane 

aveano salvalo nella fuga partissero in dato tempo 
dalla Traode , e consegnassero le fortezze : i Greci 
in apposito ovunque dominavano in mare ed in ter- 
ra , vi procurassero la sicurezza à Trojani che viag~ 
giovano a norma de’ patti. Enea consentendo a lai leggi, 
anzi bonissime riputandole per le circostanze ; manda 
Ascaiiio il più grande de’ figli con banda di milizie per 

10 più frigie , alla terra detta Dascilite ove ora è il 
lago uiscanio, perchè invitatovi da’ paesani a prendervi 

11 comando. Ascanio andò , e vi stette ; ma non molto : 
perocché giugneudogli dalla Grecia Scamandrio e gli 
altri Ettoridi , rilasciativi da Necptolemo , egli guidan- 
doli ne’ regni paterni , si rimise in Troja. E tanto è 
quello che si narra di Ascanio. Enea però com’ ebbe 
pronta la flotta , vj assunse gli altri figli , il padre , le 
cose auguste de’ Numi , e navigò su 1’ Ellesponto alla 
penisola vicina, chiamata Pallene, la quale giace dirim* 
petto di Europia (i). Ivi un popolo ci avea , di Traci 
si , detto Cruseo , ma bellicoso e fidissimo tra quanti 
erano gli alleati de’ Trojani nella guerra. 

XXXIX. Tale è il racconto il più verisimile fatto da 

Ellanico , scrittore antichissimo , intorno la fuga di Enea 

1 

(i) Nel teilo si legge: ZufUTns Europa: ciocebè ha prodotto 
degli equivoci: la vera lezione deve essere cioè di Europia 

la quale h regione della Macedonia che prende nn tal nome dal 
fiume Europo. Pailene talvolta è detta ancora città di Tracia, per- 
chè li Traci vi comandarono. Del resto essa è pib distante che la 
Tracia a quelli che navigano dall’ Asia per 1’ Ellesponto. E Dionigi 
Den propriamente 1’ ha chiamala vicinissima per questi, essendo 
tale pinitesto la Tracia. 



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là dove tratta delle cose Trojane. Se ne hanno ancora 
degli altri e non simili in altre leggende , ma non si , 
come io penso , persuasivi. Decidane chi gli ode , come 
più vuole. Sofocle il tragico nel suo dramma su Lao« 
coonte , esseudo già Troja in sul termine , rappresenta 
Enea che va con le sue robe in sull’ Ida , seguendo i 
voleri del padre Anchise , pieno dei ricordi di Venere, 
e mirando la distruzione ornai della patria ne’ freschi 
portenti avvenuti su’ figli di Laomedonte. E tali souo i 
versi di lui ma pronunziati da altra persona : 

£cco il fgliuol di tenere alle porte ; 

In dorso ha il padre, a cui di [bisso pende 
Cerulea veste dalle spalle , tocche 
Dalla folgore un tempo ; intorno intorno 
Gli fin turba i domestici , e le schiere 
Non si grande però , come tu pensi , 

De‘ Frigi , amanti d’ aver sede altrove. 

Menecrate di Zante fa saperci che Enea mise la patria 
nelle mani de’ Greci , tradendola per l’odio suo contro 
di Alessandro , e che gli Achei per tal merito gli con* 
cederono che salvasse la sua casa (i). Egli comincia la 
sua storia dalla sepoltura di Achille in tal modo. Erano 
gli Achei liete afflizione , sembrando a sè stessi co- 
me privi del capo della milizia. Nondimeno ergendo- 
gli una tomba guerreggiavano di tutta lena ; finché 
Ti'P]a fu presa per tradimento di Enea. Quest’ uomo, 
perche spregiato da Alessando , ed escluso dagli onori 

(i) Piccolo dooo aozi nullo: raentte Enea aveva luLio questo, c 
più ancora, sema il iradìmento: yorrei dire che Meuecraie non è 
savio , uel tulio aluaeuo de’iUCt;outì , e quindi cUc poco stm» da 
aiifudarsi. 



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68 DELLE Antichità’ romane 

sacerdolali , rovesciò la reggia di Priamo , e divenne 
per tali opere come uno de' Greci. Altri però narrano 
eh’ Enea di quel tempo si trovava dove ferme si stava- 
no le inavi trojane, ed altri che nella Frigia , spedi- 
tovi da Priamo con soldatesca pe’ bisogni della guerra ; 
anzi evvi pure chi; assai piò favoleggia su la partenza di 
Enea : ma ne senta ognuno come vien persuaso. 

XL. Le vicende di lui dopo la partenza mettono 
più incertezza ancora in molti; perciocché taluni gui- 
dandolo in Tracia dicono che ivi compiesse la vita ; e 
tra questi sono Cefalone Gergitio, ed Egesippo il quale 
scrìsse intorno Pelleiie , antichi entrambi e rispettabili. 
Altri ripigliandolo dalla Tracia lo sieguono 6no all’ Ar- 
cadia ; e dicono che abitasse in Orcomeno di Arcadia , 
e nel luogo , che , sebbene entro terra , cangiossi in 
isola , per le paludi e pel fiume , che le colonie che 
ora chiamansi Cafie sursero per Enea e pe’ compagni , 
ma Gamie nominandosi allora da Capi trojano. Sono 
questi racconti di varj e di Aristo che scrisse le cose 
degli Arcadi. Novelleggiasi ancora eh’ Enea capitasse 
veramente in que’ luoghi , non però che in essi moris- 
se , ma nell’ Italia : e ciò da molti attestali , come da 
Agatillo , Arcade poeta , nelle elegie scrivendo : 

Feline in Arcadia e generò nell’ isola 

Con le due donne Antèmone e Codone , 

■ Due ,/iglie ; e scorse nell' Italia , e quivi 

Del gran Romolo suo padre divenne. 

La venuta di Enea e de’ Trojani nella Italia la sosten- 
gono tutti i Romani ; e monumento ne sono le pratiche 



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LIBRO I. 69 

nelle feste e ne’ sagi'ifizj , i libri sibillini , gli oracoli 
Pitici , e ben altre cose , le quali niuno trascurerà , 
quasi aggiunte per ornamento. In Grecia ne restano 
tuttora molti indizj notissimi , come il porto nel quale 
approdarono , ed i luoghi ne’ quali si . trattennero , non 
essendo il mare navigabile. Siccome dunque sono tanti , 
io ne farò come posso menzione , ma breve. Primiera- 
mente dunque vennero in Tracia approdando alla pe- 
nisola detta Pailene , tenuta , come indicai , da’ barbari 
chiamati Crusei , e v’ ebbero ospizio sicuro. Passando 
ivi r inverno edificarono in un promontorio un tempio 
a Venere , e fondarono la città di Enea , dove lascia* 
rono quanti non poteano pe’ disagi più navigare , o 
quanti voleano rimanere , vivendovisi come nella patria. 
Questa durò fino al regno de’ successori di. Alessapdro , 
ma nel regno poi di Cassandro fu distrutta, quando 
sorse Tes.salonica : e gli Eneati e molti altri passarono 
alla nuova città. , ; 

XLI. Salpando da Pailene vennero i Trojani a Deio , 
ove Anio signoreggiava. E , finché - Deio fu popolata r e 
(lorida , molti erano gl’ indizj della venuta di • Enea , e 
de’ compagni nell’ isola. Dalla quale navigando a Cite- 
rà (1) aUra isola incontro del Peloponneso ’ vi edifica- 
rono un tempio a Venere. Da Citerà tornandosi al mare 
e trovando morto non lungi< dal Peloponneso Cineto , 
l’ uno de’ cari di Enea , Io seppellirono in un promon- 
torio perciò chiamato Cinetio , anche al presente. Ri- 
novatovi il parentado cogli Arcadi , del quale diremo 

(1) Ora Carigo. 



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70 DEU.C anticbita’ romane 

in altro liliro , lasciarono dopo breve dimora , alquanti 
di loro in que’ luoghi , e vennero a Zantc. Ricevuti vi 
furono con benevolenza pe’ ligami del sangue ; peroc- 
ché Dardano figlio di Giove e di Elettra - nata da Atlante 
generò , dicono , con Balia li due figli , Zacinto^ed 
Eriltonio , questo 1’ uno de’ progenitori di Enea , e 
quello , autore colà degl’ isolani. In memoria dunque di 
tal congiunzione , come per l’ amorevolezza di questi 
vi si trattennero: e sospesi dal mare burrascoso , edifi- 
cando un tempio , v’ immolarono a Venere un sagrifi- 
zio , festeggiatovi ogni anno ancora da quei popolo. E 
qui competerono i giovani , come in aliti esercizi , nel 
correre. Otteneva in questo il premio chi primo en- 
trasse nel tempio. 11 corso chiamavasi di Enea e di Ve* 
nere , e vi erano i simulacri di ambedue. Di là navi- 
gando per 1’ alto mare giunsero in Leucade , posseduta 
allora dagli Acamani ; e qui pure alzarono a Venere 
un tempio , appunto quello che chiamato di Venere 
Eneade , osservasi ancora nella isoletta tra Dioritto e 
Leucade. Ma facendo vela e venendo ad Azzio , e fer- 
matisi poi lungo il promontorio del golfo di Ambra- 
eia si recarono in fine alla città stessa di Ambracia, ovO 
dominava Ambrace , cognominato Dessameno , oriundo 
da Ercole. Lasciarono in ambedue monumenti della loro 
venuta ; in Azzio il tempio di Venere Eneade , e vici- 
no a questo Taltro, superstite ancora, degl’ Iddii Gran- 
di : in Ambracia il tempio parimente di quella Dea , e 
da presso al piccioi teatro un tempietto di Enea con 
statua antica che Ini si dice rappresentare , ove fan sa- 
crifizio le donne Amfipoli nominate. 



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LIBRO I. 71 

XLII. Da Ambracia Ancbise colle oavi giunse costeg^ 
giando a Buirìnto (1) porto dell’ Epiro ; ma Enea e con 
esso il Gor dell’ esercito si diressero , viaggiando due 
giorni , a Dodone per interrogarvi l’ oracolo , e vi tro> 
varono i Trojani con Eleno. Ottenuto l’ oracolo sulla 
nuova loro sede, offersero al Dio cose trojane , e tra 
queste crateri di bronzo , de’ quali alcuni manifestano 
ancora con iscrizioni antichissime gli oblatori : e quindi 
si ricondussero camminando quattro giorni alle navi. 
Intendesi la venuta de’ Trojani a Butrinlo da un colle 
ove accamparono , che ancora chiamasi Troja. Da Bu> 
trinto sospinti lido lido Gno al porto detto, dopo un tal 
fatto, di uincitise ed ora chiamato con nome men chia* 
ro (a), eressero ancor ivi un tempio di Venere : e pas- 
sarono il mar Ionio avendo per guida della navigazione 
molli , che volontari li seguitavano , e li quali menava- 
no con sé Patrone da Turi con la sua genie ; ma li 
più di questi , giunta l’ armata nell’ Italia , tornaronsi alle 
patrie : rimasero però nella flotta Patrone ed alquanti 
de’ suoi mossi a far causa con Enea , nel cercar nuove 
sedi ; quantunque alcuni dicano che il domicilio mettes- 
sero in Alunzio di Sicilia. In memoria di tal beneGzio 
col volger del tempo i Romani donarono agli Acarnani 
Leucade ed Auaitorio , togliendole ai Corintii ; e per- 
misero ad essi che lo bramavano , di rimettere ne’ pro- 

(i) Regia dirimpetto a Corfb dalla qnale è lontana 13 miglia. 

(a) Il Casaubono crede questo porto quello che da Tolomeo h 
chiamato Onchesmo, e da Strabone Oochismo ; il quale incontra- 
Tasi dopo Butriuto e Cassiope ( ora Januia ); crede che in principio 
si chiamasse di Anchise , poi di Anchesmo , o d^i Anchismo , e 
quindi men chiaramente , di Onchesmo , o di Oncbismo. 



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7^ nm.LE antichità’ romane 

prj averi gli Oniadi , e di godere in comune con gli 
Etoli il frutto delle isole Ecliioadi. Calarono i compagni 
di Enea , ma non tutti in un luogo a terra ; approdan- 
do coi più delle navi al capo japigio , detto allora dei 
SalenUni ; e con le altre al lido , prossimo a quello 
cliiamato di Minerva nel quale Enea stesso sbarcò. Era 
questo sito ancora un promontorio ma con porto estivo 
denominato di Venere , appunto dopo quel giorno. Poi 
navigarono , quasi col piè sulla terra , fino allo stretto 
di Sicilia , lasciando, ovunque andavano, de’ monumenti, 
e tra questi là nel tempio di Giunone, la caraffa me* 
fallica , la quale con antichissimo scritto manifesta 4I 
nome di Enea che porgevala in dono alla Diva. 

XLIII. Fattisi ornai vicini, eccoli nella Sicilia final- 
mente a Drepano , dir non saprei , se portativi per di- 
segno di sbarcare, o se per le burrasche de’ venti, con- 
suete in quel mare. Qui s’imbatterono coi compagni di 
Elimo e di Egesto fuggiti prima di loro da Troja. Fa- 
voriti questi da’ venti propizj e dalla sorte, nè gi'avati 
di molte bagaglio , erano in poco tempo approdati in 
Sicilia , e fabbricato aveano intorno al fiume Crimiso 
in una terra che i Sicani aveano amorevolmente ad essi 
ceduta , per essere Egeste nodrito già nella Sicilia e 
congiunto col sangue di loro per questo Caso. Uno dei 
maggiori suoi , famoso trojano , cadde nell’ ira di Lao- 
medonte , e quel re pigliandolo , certo per una incol- 
pazione , lo uccise , uccidendo nemmeno tutta la stirpe 
virile di lui perchè alfine non • sen vendicasse ; ma le 
vergini figlie giudicò bensì cosa non degna lo ucciderle, 
ma uon sicura nemmeno a permettersi che si accasassero 



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LIBRO I. 73 

eoa Trujani. Pertanto le diede a mercadanti con ordine 
che lontanissime le portassero. Or queste rimovendosi 
navigò con esse un cospicno garzone, il quale preso già 
dall’amore di una maritollasi , e trassela nella Sicilia; e 
là dimorandosi nacque di loro il fanciullo Egesle nomi- 
nato. Apprese i costumi e la lingua del loco : infine 
morendogli i genitori , e dominando Priamo in Troja , 
brigossi per lo ritorno. E militò pur egli contro gli 
Achei ; ma prendendosi ornai la città, navigò di nuovo 
per la Sicilia , fuggendo con Elimo su tre navi , usate 
già da Achille quando saccheggiava la Troade , e poi 
da esso abbandonale perché < urtarono alfine in scogli 
nascosti. Imbattutosi Enea con gli anzidetti, trattolli con 
amicizia , e fabbricò per essi le città di Egesta e di 
Elima, lasciandovi parte ancora de’ suoi spontaneamente; 
io penso , perchè gl’ indisposti pe’ travagli e pel mare , 
avessero calma e ricovero, e questo sicuro: ma secondo 
alcuni lasciovvela necessariamente , perchè non poteaue 
menar seco tutta la moltitudine, essendosi le navi sue 
diminuite per 1’ incendio fattone da alquante donne , 
esasperate dal sempre girare. 

XLIY. Havvi purè altri indizj e molti della venuta 
di Enea e de’ Trojani nella Sicilia. E tra questi signifì» 
cautissimo è 1’ altare di Venere Eneade su le cime di 
Elimo (i) ed il tempio di Enea in Egesta: il primo 
eretto da Enea alla madre; l’altro dedicato da quei che 
lasciava, in memoria che erano stati salvati. Li Trojani 
compagni di Egesto e di Elimo presero albergo in quei 

(i) Forse dee leggersi Eriee , vi è però chi tospella che Elimo 
fosse aa simulacro su cui stesse l’altare. 




^ \ DELLE Antichità' romane 

luoghi e vel tennero, Elimi tutti cfalamandosi ria EIiino« 
primo nella onorificenza fra tutti per la regia sua stirpe. 
Enea navigando co’ suoi dalla Sicilia toccò primieramente 
r Italia in Palinuro, porto che sortì, dicono, quel no- 
me da uno de’ timonieri di Enea che ivi moti. Poi 
giunsero ad una isoletta cui chiamarono Leucasia dal 
nome di una cugina di Enea spirata in quelle vicinanze. 
Di là passarono ad un porto buono (i) e profondo negli 
Opici cui denominarono da Miseno , uno de’ compagni 
più riguardevoli ivi defunto. Spintisi all’ isola Procida , 
ed al promontorio Cajeta diedero parimente un nome a 
que’ luoghi onde renderli ricordanze di femmine che ivi 
cessarono , parente 1’ una , e nudrice 1’ altra di Enea. 
Da ultimo pervennero a Laurento d’ Italia : e là , dato 
fine a’ viaggi , fecero campo in un luogo , Troja d’ al- 
lora in poi nominato ; e lontano un mezzo miglio dal 
mare. Io scrissi , ma necessariamente cosi spaziandomi , 
lai cose: imperocché taluni degli storici dicono che Enea 
non venne mai nell’ Italia co’ Trojani : taluni che non 
fu questo 1’ Enea di Anchise e di Venere , ma un al- 
tro: taluni che fu l’Àscanio figlio di Enea: ed altri au- 
cora altre cose ne dissero. E vi è pure chi scrive che 
r Enea di Venere dopo stabilita la colonia nella Italia 
si rendesse novamente a Troja , e vi dominasse ; e che 
morendo lasciasse la corona ad Ascanio suo figlio, te— 
iiuu poi lungamente dai discendenti. A tanto io penso, 
indussero i versi di Omero non bene interpretati , nei 

(i) Nel testo: Xiftti» r«As> portn bello ^ o buono, ma nel co- 
dice Valicano ai La porto cattivo: il che varia la 

àeuicuta . 



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LIBRO I. 7 5 

quali finge Nettuno che presagisca la grandezza avvenire 
«li Enea , come de’ posteri , con tali maniere : 

Ifo , non i dubbio ; la virtù di Enea 
/leggerà li Troiani , e re^ranli 
Be’ figli i fgli, e chi verrà da loro. 

G^ncependo da ciò , che Omero conosciuto avesse che 
questi regnavano nella Frigia ; inventarono qnel ritorno 
di Enea, quasi fosse impossibile che abitando nella Italia 
dominassero genti trojaue. Eppure ben poteano coman- 
dare a Trojani già diretti nei viaggio e stabilitisi altrove: 
vi saranno forse altre cause per le quali diasi a vedere 
r inganno. 

XLY. Che se alcuni sien turbati da questo : che la 
tomba di Enea si dica e si additi in più luoghi , non 
potendo in più luoghi esser lui tumulato ; riflettano es- 
ser tal dubbio comune su molti uomini , specialmente 
su gli insigni per sorte , e vivuti sotto cielo ognor va- 
rio : e sappiano che una è 1’ urna che accoglie i loro 
cadaveri, ma molti tra le nazioni li monumenti per gra- 
titudine sul bene che vi operarono, massimamente se tra 
quelle esistano stirpe o città che da essi provengano , o 
se lungo vi fecero ed amorevol soggiorno. Or tali ap- 
punto conosciamo che furono i casi che del nostro eroe 
si novelleggiano. Costui dopo aver operato che Ilio nel- 
r esser preso non fosse totalmente distrutto , dopo aver 
operato che gli alleati si ritirassero salvi in Bebricia che 
chiamano; lasciò sovrano della Frigia 'Ascanio suo figlio, 
eresse in Pailene una città col nome di sé medesimo , 
maritò la figlia nell’ Arcadia, e fissò parte de’suoi nella 
Sicilia : e sembrando che segnalato avesse la sua dimora 



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76 



DELLE Antichità’ romane 



in più altre parti , beneficandovi ; ne acquistò la bene- 
vola propensione per la quale gli eroi quando cessano 
la vita dell' uomo si onorano , e con pompa di monu- 
menti in più luoghi. £ veramente quali altre cause mai 
potrebbe alcuno ideare de’ monumenti di lui nell’ Italia ? 
Ma di ciò sarà detto nuovamente secondo che le materie 
de’ subjetti si dorran rischiarare. 

XLVI. Che poi l’armata trojana non veleggiasse verso 
parti più remote di Europa, ne furono cagione gli ora- 
coli , i quali prendéano compimento appunto in quei 
luoghi, e la divinità che tante volte avea rivelato, cioc- 
ché si volesse. Laonde approdati a Laurento alzarono le 
tende in sul lido. Ma stentandovi su le prime per la 
sete , perchè il luogo mancava di acque ; ecco vedonsi , 

( dico ciò che ne udii tra’ paesani ) prorompere dalla 
terra spontanei rampolli di acque dolci , dalle quali fu 
tutto abbeverato 1’ esercito , ed irriguo ne divenne quel 
campo , scorrendo co’ rivoli loro dalle sorgenti fino a 
gettarsi nel mare. Ora però non si le acque abbondano 
che ne trascorrano , ma scarsissime , si restano in un 
cavo luogo , credute da’ paesani sacre al sole : e presso 
queste si additano due altari, trojani monumenti, rivolto 
r nno all’oriente l’altro all’occaso, ove favoleggiano che 
Enea facesse il primo sagrifizio in ringraziamento al 
Nume per le fonti che scaturirono. Poi sedutisi in terra 
per desinarvi , posero i cibi secondo molti su degli strati 
di appio come su le tavole ; ma secondo altri , per 
mondezza maggiore , li posero su focacce di farina : se 
non che finitisi i cibi apparecchiati , prima 1’ urto , indi 
r altro mangiava già 1’ appio o le focacce sottoposte ; 



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LIBRO I. 77 

quando com’ è fama , uno de’ Ggli , o certo della tenda 
slessa di Enea disse : oh ! Gn le tavole ci divoriamo. 
Destossi all’ udir ciò fra tutti un entusiasmo , uno stre- 
pito , come allora si compiessero i primi oracoli che 
riceverono : essendo già fatto ad essi un presagio , in 
Dodona secondo alcuni , o come altri dicono in En- 
tra (i) nelle vicinanze dell’Ida ove sta la Sibilla, fatidica 
ninfa di que’luoghi. Questa annunziò loro che navigas- 
sero verso /’ occidente , finché giungevano in luogo , 
dove sarebbero mangiale le mense : e che prendesse- 
ro , quando vedeano ciò verificaio, per guida un qua- 
drupede, e dove stanco del viaggio sdrajavasi, ivi fon- 
dassero una città. Ricordevoli di quest’oracolo, chi per 
comando di Enea portava custoditi com’ erano i simu- 
lacri de’ Numi dalle uavi a luogo destinalo , e chi pre- 
parava basi ed altari per essi. Le donne accompagna- 
vano le sante cose con ululati e con danze. InGne es- 
sendo già tutto pronto pei sacriGzio , i compagni di 
Enea stavano coronati intorno l’ altare. 

XLVII. E già questi facevano de’ voti , quando la 
porca già pronta pel sagriGzio , gravida nè lontana dal 
parto , dibattendosi tra le mani de’ sacri ministri che la 
tenevano, fuggissene in parti più remote del mare. Enea 
concependo esser questa il quadrupede di cui 1’ oracolo 
signiGcò che sarebbe loro di guida le tiene dietro , non 

(i) Vi ebbero pià Lrilre ; I’ una in Beoiia l’altra in Tessaglia; (jui 
si parla della terza nella Jooia tra Llazomcns c Teon. Ma questa 
Krilra non era poi cosi vicina dell’ Ida : il che fa vedere che il 
testo non è puro abbastanza : seppure la idea di vicinanza non è 
qui relativa a distanze beo grandi. 



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<j8 DELLE Antichità’ romane 
distante si , ma con pochi , sul timore che lo strepito 
dei molli in seguirla non la deviasse dal cammino , uni* 
forme ai destini. E già fattasi lontana intorno a tre mi< 
glia dal mare , corse ad un colle ; e vinta dalla staa— 
cliezza, vi si sdrsjò. Pareva che gli oracoli qui si com- 
piessero ; ma vedendo Enea quel sito , nè bello , nè 
prossimo al mare, nè acconcio per la stazion delle navi, 
dubitò molto se ubbidisse ai presagj divini , e fabbri- 
casse dove sarebbe la vita afllitla sempre, e senz’agi; o 
se cercando sede migliore , si avanzasse più oltre. In 
mezzo a tali dubbj , de’ quali ne accagionava i Numi , 
ecco uscire dalla selva una subita voce , senza che 'ap- 
parisse chi parlava , la quale ordinava che ivi si Jei^ 
masse, e fondassevi prestamente la città; se non fon- 
dovala in terre feconde, non insistesse per le anzietA 
del suo cuore a precludersi una felicità futura alla 
quale restava solo di presentarsi. Portare il destino 
che egli da tal primo domicilio, incomodo e picciolo, 
si facesse col tempo a possedere terre ampie e beale ; 
ove massimo e lunghissimo sarebbe l' impero de' figli 
e de' posteri suoi. Pertanto quel luogo desse il primo 
ospizio a' Trojani : quindi a tanti anni , quanti sa- 
rebbero i fgli partoriti dalla scrofa, ergerebbero i di- 
scendenti di esso un altra città prospera e grarule. 
Enea sentendo , e concependo non so che di celeste in 
tal voce, fece come il Nume'avea comandato. Altri 
però dicono che abbattendosene , nè reggendo per l'af- 
faimo , nè tornando all’ esercito , nè mangiando , e pas- 
sando ivi per caso quella notte , gli apparisse una im- 
magine grande e meravigliosa colle sembianze di uu dio 



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LIBRO I. 79 

della patria , e cbe gli aDuunziasse le cose poc’ anzi 
narrate. Ma quale dei due dica il vero , i celesti po- 
tranno conoscerlo. £ (ama cbe nel giorno seguente la 
scrofa desse in luce trenta porcelli , e cbe dopo altret- 
tanti anni li Trojani fabbricassero a norma dell’ oracelo 
la nuova città, come diremo a suo luogo. 

XLVIII. Enea sagrìfìcò a patrj dii la porca e li te- 
neri Cgli di essa , ed ancora se ne addita il luogo , te- 
nuto da quei di Lavinia come sacro , ed inaccessibile 
agli altri : poi comandando ai Trojani cbe si traessero 
ad accampare sul colle , eresse nel più bello di questo 
i simulacri de’ Numi , e si elevò ben tosto con tutto 
r ardore a formare la nuova città. Scorrendo pertanto i 
luoghi d’ intorno , ne pigliava quanto aveaci per uso 
degli ediGzj: e soprattutto ferri> legni e cose di rustico 
apparecchio su le quali appariva che dolentissimo ne 
sarebbe chi ne era privato. In quel tempo Latino re 
guerreggiava co’ Rutoli , suoi vicini , ma con poca pro- 
sperità nelle battaglie. In tale suo stato gli annunziano , 
esagerando le imprese di Enea : che un esercito di fo- 
restieri gli devastava tutto il litlorale: che se non davasi 
presto a riutuzzarlo, avrebbe poi manifestamente guerra 
più aspra con essi , che non co’ vicini. Temè Latino a 
tal nuova , e ben tosto , sospesa la guerra presente , 
mosse con esercito poderoso contro a’ Trojani. Ma ve- 
deudoli armali alla greca , intrepidi , in buon ordine , 
aspettare il cimento , si arrestò , difGdando di poterli 
sottomettere in un colpo , come avea già speralo nel 
moversi contro di essi. Ed accampatosi in un colle 
pensò che doveva iuuanzi tutto ricrear le milizie dalla 




So DELLE antichità’ ROMANE 

molta fatica , sostenuta nel lungo e coutinuo travaglio. 
Adunque ivi riposò quella notte; ma disegnò di lanciarsi 
al fare del giorno sul nemico. Fra tali risoluzioni un 
genio del loco venne a lui tra ’l sonno , e gl’ impose 
di ammettere i Greci che venivano a grande utilità di 
Latino , e bene comune degli Aborìgeni. Parimenti i 
Dei patrii, svelandosi tra la notte ad Enea, suggerivano 
che inducesse Latino a concedergli spontaneamente una 
sede nel luogo che bramava, e rendersi i Greci alleati, 
e non competitori nelle arme. Tal sogno contenne l’uno 
e r altro dal cominciar la battaglia. E non si tosto fu 
giorno, elle milizie mossero in campo; ecco gli araldi 
venire da ambe le parti ai capitani per chiedere un vi- 
cendevole parlamento; e si tenne.* 

XLIX. Latino il primo querelatosi della guerra im- 
provisa e non intimata , chiedeva ad Enea che dicesse 
chi fosse , e con quale disegno invadeva e derubava 
que’ luoghi , non avendone mai ricevuto alcun danno , 
e non ignorando che gli assaliti rispingono gli autori 
della guerra. E laddove tutto esibivasi a lui se moderate 
ne erano le dimande, e potea rinvenire tutto nella cor- 
tesia degli abitanti ; egli violando la giustizia comune 
degli uomini , voile impudentemente anzi che da ono- 
rato , arrogarsi ogni cosa colla forza. Enea rispose : 
Noi siamo Trojani di lignaggio , e veniamo da una 
città non ignota affatto tra Greci. Essi espugnandola 
con gueira di dieci anni ce la tolsero ; ed ora vaga- 
bondi ci rigiriamo , sema città , senza regione , ove 
prendere sede finalmente. Siamo qui venuti seguendo 
i voleri de' Numi ; annunziandoci gli oracoli che que-_ 




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LIBRO I. 8 I 

»ta è la tota terra che ci lascia come requie da tanti 
errori, Abbiam preso dalle wstre terre quanto ri era 
bisogno ; Noi provvedevamo anzi alla nostra infelicità 
che al decoro, lutto che non volessimo far cosa meno 
di questa, come novizj in tai luoghi. Ma ne daremo 
copiose e buone ricompense. Vi offeriamo i nostri 
corpi, le nostre anime, costumati ahbaslanza ai tra- 
vagli. Comunque usar ne vogliale ; noi custodiremo 
come inviolabili le vostre tene , noi ci lanceremo ad 
acquistarvi quelle de' nemici. Noi vi supplichiamo che 
non ascriviate ad odio le cose operate; non avendole 
noi fatte per ingiuriarvi ma dalla necessità violentati; 
e ciò che non è volontario è pur degno di scusa. E 
se ora ce ne scusiamo , se ne imploriamo voi sten- 
dendovi le mani supplichevoli; già non si conviene 
che ci destiniate alcun male, Altrimente invocheremo 
gli Dei, invocheremo gli Genj di queste terre perchè ci 
condonino quanto abbiamo fatto o necessitati faremo. 
Noi tenteremo respingervi la guerra se ce la incomin- 
ciate ; chè non è questa la prima nè la massima di 
quante ne abbiamo sostenute. Latino ciò udendo sog- 
giunse : Io sono propenso inverso di tutti i Greci e 
mi struggono il cuore i mali necessarj degli uomini. 
E pregerei moltissimo di salvarvi se poteste mai far- 
mi chiaro che qua venite bisognosi di una sede, per 
aver parte nelle nostre terre e su quanto vi sarà dato 
per amicizia , non per involarmi colle armi il coman- 
do. Se questo dir vostro è vero ; se ne dia , chiedo , 
la vostra fede e se ne riceva la nostra : e saranno 
queste le mallevadrici pure de' patii. 

Dtomet , Hmt r. s 



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8 3 DELLE A;VTICHITA.’ ROMANE 

L. Enea encomiò quel parlare ; e si giurarono tali 
patti tra i due popoli : Darebbero gli Aboiigeiti ai 
Trojani quanta terra volessero in qualunque parte del 
colle , dentro il giro di cinque miglia da questo. Li 
Trojani entrerebbero a parte della guerra che gli Abo- 
rigeni aveano tra le mani, e militerebbero con essi 
in qualunque altra li chiamerebbero. Farebbero in co- 
mune ambedue col senno e colla mano t utile vicen- 
devole. Stabiliti tali patti , e confermatili con gli ostaggi, 
combatterono insieme contro le città dei Rutoli : e sog- 
giogando in brevissimo tempo ogni cosa , presentaronsi 
ad ultimare la trojana città non compiuta , e tutti con 
un ardore vi fabbricavano. Enea le diè nome di Lavi- 
nia , come dicono i romani scrittori , dalla figlia di 
Latino, chiamata anch’ essa Lavinia; e secondo alcuni 
de' greci mitologi dalla figlia di Anio re tra Deliesi , 
Lavinia nominata ugualmente : perchè morendo questa 
nel primo costruirsi degli edifizj, e datale sepoltura ap- 
punto nello spazio dove Enea fabbricava (i), la città 
ne era il monumento. Dicesi che navigasse co’ Trojani 
conceduta dal padre alle istanze di Enea , come donna 
di senno e di profezie. È fama che i Trojani nel fab- 
bricare Lavinia ne avessero questi segni. Accesosi jl 
fuoco da sè stesso in una valle, narrano che un lupo 
vi traesse colla bocca e gittassevi aride materie ; e che 

(i) si spiega per infermarsi, travagliarsi, quasi Dionigi 

dica che la donna fu sepolta dove infermava ; ma tal voce significa 
ancora fabbricare e rende il senso pib acconcio e concorde. Altronde 
non è facile che uno seppeliscasi nel luogo appunto o aiansa. o tenda 
dove si ammala. 



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LIBKO I. 83 

no’ aquila volaado , Vi eccitasse le (ìamtue col battere 
delb ale ; ma che una volpe in contrario si desse ad 
estinguerle colla coda , bagnatala iu un Hume : e die 
ora vincendo chi accendeva ed ora chi ammorzava, al> 
fine , prevalessero le due ale , partendosi la volpe senza 
che nulla più vi potesse: che Enea da quello spettacolo 
conchiudessc , come la colonia diverrebbe magniCca , 
meravigliosa , celeberrima ; darebbe il crescere di essa 
invidia ed affanno ai vicini ; ma ne vincerebbe ogni 
ostacolo , ricevendo dagl’ Idùii fortuna più potente del- 
l’odio de’ mortali in combatterla. Questi sono i portenti 
famosi , nati colla città : e per memoria se ne custodi- 
scono ancora da tempo antichissimo in mezzo al foro di 
Lavinia le immagini metalliche di quegli animali. 

LI. Poiché fu compiuta la città de’ Trojani entrò 
desiderio in tutti di giovarsi a vicenda ; e primi ne die- 
dero r esempio i monarchi accomunando pe’ matriinonj 
il grado de* paesani e de’ forestieri , e sposando Latino la 
sua figlia Lavinia ad Enea. Quindi presi ancor gli altri 
da brama eguale, dandosi in breve a gara 1’ uno all’al- 
tro leggi , costumi , sacrifici , congiungendosi in città 
di cure e di consorzio , e divenendone tutti un corpo 
e chiamandosene Latini dal re degli Aborigeni , osser- 
varono con tal fermezza gli accordi , che uiun tempo 
mai più li divise. .Tali sono le genti che vennero e si 
congiunsero, e dalle quali è la stirpe de’ Romani, pri- 
ma che si fondasse la città che otn gli alberga. Erano 
i primi gli Aborigeni , i quali cacciarono dalle proprie 
.sedi i Sicoli 4 greci antichissimi del Peloponneso , di 
quelli , io credo , spatriatisi con Eouotro dalle terre ora 



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84 DELLE Antichità’ romane 

dette di Arcadia . erano secondi ì Pelasghi , usciti dal>' 
r Emonia , ora chiamata Tessaglia : ed erano terzi quei 
che vennero con Evandro nell’ Italia dalla città del Pal- 
lanteo. Si ebbero dopo questi gli Epei ed i Feneati del 
Peloponneso , militari di Ercole , a quali si mescolava- 
no alquanti Trojani; e gli ultimi furono i Trojani scam- 
pati con Enea da Ilio , da Cardano e da altre loro città. 

LII. Che poi li Trojani ancora fossero Greci, prin- 
cipalmente di orìgine , usciti un tempo dal Peloponneso 
fu già detto da molti , ed io pure lo dirò brevemente: 
e cosi stà quel racconto. Atlante divenuto primo re 
dell* Arcadia che ora chiamano, abitava intorno al monte 
detto Taumasio. Sette erano le figlie di questo ora tras- 
ferite , dicesi , nel cielo col nome di Plejadi. Giove 
sposandosi 1’ una di esse vi generò Giasone e Cardano: 
Glasoue si tenne celibe, ma Cardano sposò Crise la fi- 
glia di Palante, e gli nacquero Ideo e Cimante, i quali 
due regnarono nell’Arcadia, succedendo al trono di 
Atlante. Poscia avvenendo il gran diluvio in Arcadia ; 
i campi ne divennero paludosi , nò più coltivabili per 
lungo tempo. Gli uomini ridottisi ad abitare nei monti , 
e con scarsi viveri, consentendo ad una voce che le 
terre intorno non erano più bastanti a nutrirli , si divi- 
sero in due. Rimastisi gli uni nell’Arcadia crearono so- 
vrano Cimante il figlio di Cardano > gli arltri partirono 
su gran flotta dal Peloponneso ; e direttisi in verso di 
Europia giunsero al golfo detto di Me lane , recandosi 
ad un* isola della Tracia , non saprei se abitata allora 
o deserta , cui chiamarono Samo Tracia con nome com- 
posto dal duce e dal luogo , per essere questo nella 



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usno I. 85 

Tracia , e Samone 1’ altro , figlio di Mercurio e di Re- 
ne , ninfa Gillenide. Ma non a lungo vi dimorarono ; 
cbé non era ivi una facile cosa la vita , avendosi a lot« 
tare con terre ingrate e mare disastroso. Adunque la- 
sciando un gruppo di loro nell’ isola, li più se ne mos- 
sero nuovamente inverso dell’ Asia sotto gli Auspicj di 
Bardano ; perocché Giasone era morto fulminato nell’ i- 
sola per avervi appetito il concubito con Cerere. Ve- 
nuti al mare chiamato Ellesponto , e sbarcatine , abita- 
rono la terra detta poi di Frigia. Ideo con la parte da 
lui retta della milizia di Bardano , abitò ne’ monti che • 
Idei si appellano da lui , ne’ quali ergendo un tempio 
alla madre degl’ Iddii v’ istituì misteri e sacrifici , du- 
revoli ancora in tutta la Frigia: e Bardano nella Troa- 
de che dicono , fondandovi la città coi nome di sé me- 
desimo , e ricevendone delle campagne da Teucro re , 
dal quale Teucria fu nominata la terra. Molti, tra’ quali 
Faiiodimo che scrisse delle antichità dell’ Attica , nar- 
rano che Teucro ancora passasse dall’ Attica nell’ Asia , 
e regnasse in sul popolo di Zipeta ; allegando su ciò 
molti argomenti. Quivi dominando egli campagna am- 
pia p buona , ma non molto popolata , desiderò di ve- 
dere Bardano , e li Greci con esso venuti , si per avergli 
alleati nelle guerre co’ barbari , sì perchè la sua terra 
non giacesse deserta. 

LIU. Ora porta il subjetto eh’ espongasi da quali Enea 
discendesse : ed io ciò laro ; ma brevemente. Bardano 
morendogli Crise la figlia dL Fallante dalla quale avea 
due fanciulli , si sposò òon Batia la figlia di Teucro. 
Di lei nacqn^li Elrittooio, creduto tra’ mortali felidssif 



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86 dt:lle antichità’ eomane 

mo per la*cloppia eredità della signoria paterna , come 
deli’ altra fondata dall’avo materno. Da Erittonio e de 
Callii’oe figlia di Scamandro nacque Troe dal quale 
ebbe nome la nazione. Da Troe e da Acalide fisiia di 

O 

Euniida sorse Assaraco : e da questo e da Glitodora 
figlia di Laomedonte ebbes! Capi. Poi questo e la ninfa, 
Kaide chiamata, generarono Anchise: e di Anchise e 
di Venere è figlio Enea. Cosi avrò dichiarato che i Tro- 
iani siano Greci di origine. 

LIV. Su 1’ epoca della fondazione di Lavinia scrivesi 
variamente : a me sembrano piò verisimiii quelli che 
r assegnano all’ anno secondo dopo la partenza da Troja. 
Imperocché Ilio fu preso nel fine della primavera , il 
giorno diciassettesimo prima del solstizio estivo , mancan- 
dovi otto giorni a compiersi il mese Targhilione secon- 
do la cronologia di Atene: e dopo il solstizio rimaneanci 
venti giorni a terminare quel giro di anno. Pertanto nei 
trentasette giorni decorsi dopo quella presa io stimo che 
gli Achei provvedessero su le cose della città , che rice- 
vessero le ambascerie di quelli che erano usciti , e giu- 
rassero dei patti con essi. Nell’ anno seguente e primo 
dopo la espugnazione , i Trojani salpando da quella 
terra circa l’ equinozio autunnale passarono 1’ Ellesponto: 
e portati nella Tracia ivi dimorarono quell’ inverno, rac^ 
cogliendo gli altri che giungevano ancora dalla fuga, e 
preparando la navigazione. Levandosi dalla Tracia in 
sul fare biella primavera tragittarono fino alla Sicilia 
dove riparatisi spirò intanto quell’ anno : ivi spesero il 
secondo inverno fabbricando città con gli Elimi. Ma 
divenuto il pela^ navigabile fecero vela dall’ isola , e 



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LIBRO I. 87 

valicando il mare Tirreno vennero finalmente sul mezzo 
della estate a Laurento , spiaggia marittima degli Abo- 
rigeni , e presavi terra , vi fabbricarono Lavinia mentre 
compievano 1’ anno secondo dopo la invasione di Troja. 
Per tali detti sarà chiaro quanto io su ciò concepisco. 

LV. Enea fornendo la nuova città di tempj e di altri 
edifizj i più de’ quali persistevano ancora a’ miei giorni, 
alfine nell' anno seguente , terzo della sua emigrazione , 
regnò ma su’ Trojani solamente. Morendo però Latino 
nel quarto , ebbe anche il regno di questo si per 1’ af- 
finità sua con esso, di cui Lavinia era la erede, si 
per essere lui già duce degli eserciti nella guerra coi 
vicini. Imperocché li Rutoli si erano di bel nuovo ri- 
bellati da Latino scegliendosi per capitano Turno un 
disertore di Latino , e cugino di Amata , regia moglie 
di lui. Questo giovine alle nozze di Lavinia comccia- 
tosi dell’ affine suo che tenesse anzi cura degli esteri 
che de’ parenti , e sospinto da Amata e da altri , andò 
cM>lle milizie delle quali era capo , e si congiunse coi 
Rutoli. E mossasi per tali richiami la guerra perirono 
in battaglia vivissima Latino e Turno e molli altri ; 
trionfandone Enea. Da quell’ epoca ebbe questi lo scet- 
tro del suocero , e regnò dopo la morte di lui tre anni 
ancora ; ma nel quarto morì combattendo : perocché gli 
uscirono contro dalle loro città tutti in arme li Rutoli 
e Mezenzio re de’ Tirreni che per le sue regioni te- 
meva , conturbato al vedere che la greca poteuza via 
via si ampliava. Si dié la battaglia , ma fortissima non 
lungi da Lavinia; soccombendone molti da ambe le parti, 
finché la notte sopravvenendo , divise gli eserciti. Enea ^ 



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88 PEi.T.E Antichità’ romane 

più non apparve ; e chi lo disse trasferito Ira’ Numi , 
chi perito nel fiume , presso cui fu la pugna. I Latini 
gli eressero un tempietto iscrivendolo : del Padre e Dio 
del loco il quale regge il corso del Jiume Numicio. 
Pur vi è chi dice edificato il tempio da Enea per An* 
chise , morto P anno avanti tal guerra. L’ edifizio è non 
grande : ma tiene arbori ordinatamente intorno degne 
da vedersi. 

LVI. Passando Enea da questa vita , al più I’ anno 
settimo dopo la presa di Troja , assunse il comando 
su’ Latini Eurileone , quegli che . nella fuga intitolavasi 
Ascanio. Erano allora i Trojan! chiusi tra le mora , e 
la forza nemica ognora più spaventava ; nè bastavano i 
Latini a soccorrere gli assediati a Lavinia. Ascanio dun» 
que il primo chiese pace e condizioni onorate ai ne» 
mici : ma non giovando la inchiesta , fu costretto ren» 
dersi pienamente , e finire la guerra come il vincitore 
ne giudicasse. Ma siccome il monarca de’ Tirreni oltre 
le tante cose intollerabili comandava come agli schiavi 
che si recasse ogni anno ai Tirreni quanto vino pro- 
ducerasi dalla campagna latina ; cosi per la ìndegnissi» 
ma condizione Ascanio prima , e dopo lui li Trojani 
dichiararono co’ decreti loro sacro' a Giove ogni frutto 
della vite. E confortandosi gli uni gli altri ad impren- 
dere da valentuomini , e chiamando i Numi a parte dei 
loro pericoli , si mossero di città ma tra notte non chiara 
per luna. E sopravvenendo improvvisamente, presero in 
un subito il campo nemico il più vicino alla città , ri- 
putato antemurale ancora delle altre milizie , perchè te- 
nuto su luogo forte e difeso dal fiore de’ giovani tir- 



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LIBRO I. 89 

reni , comandati da Lauso , figlio di Mezenzio, Intanto 
che questo luogo espugnavasi le soldatesche attendate nei 
piani vedendo la luce insolita , ed ascoltando le voci 
degli oppressi fuggirono ai monti. Ivi sorse fra loro 
paura e strepito grande qual suole tra schiere mosse di 
notte , che apprendano già già di essere assalite , ma nè 
ordinate uè provvedute abbastanza. I Latini all’ opposito 
poiché vinsero per assalto quel presidio , e conobbero 
lo scompiglio deir altra milizia , le furon sopra incal- 
zando e trucidando : e questa non potea nemmeno sa- 
pere i suoi mali; non che pensasse ricorrere alla forza. 
Quindi confusi , incerti che fare chi s’ avvia tra .dirupi 
e ne soccombe , chi tra luoghi cavi ma senza esito , ed 
è preso. Li più non distinguendosi tra loro si trattaro- 
no ira le tenebre a vicenda come uemicì ; e ben fu la 
sciagi>ra micidialissima. Mezenzio occupato un colle con 
pochi , poiché vi seppe la morte del figlio, quanto eset- 
cito gli fosse perito , ed in quai luoghi ora si fosse iin< 
chiuso egli stesso ; mandò , come ne’ dubbj casi , gli 
araldi in Lavinia a parlamentarvi di pace. E consiglian- 
do Ascanio moderazione ai Latini ; colui ne ottenne si- 
curezza ed alleanza ; e partito con tutte le schiere che 
volle , e deposte le inimicizie , visse da indi in poi sta- 
bile amico de’ medesimi. 

LVIL Nell’anno trentesimo dopo la fondazione di 
Lavinia Ascanio il figlio di Enea , secondo i vaticinj già 
fatti al padre , eresse una nuova città ; trasferendovi da 
Lavinia e da altri luoghi dei Lazio , quanti bramavano 
soggiorno migliore. Aìha, che in greco vai quanto Zeu- 
es , fu il nome della città : ma per distinguerla da altra 



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90 DELLE Antichità’ romane 

che ha nome ugnale si circoscrive con soprannome preso 
dalja 6gura ; talché la denominazione di essa risulti dalle 
due voci Alba Lunga , cioè Lanci macra che noi di- 
remmo. Ma ora é questa un deserto. Imperciocché nei 
tempi di Tulio Ostilio , re de’ Romani , parve conten- 
dere del principato colla colonia , e fu distrutta ; e di- 
strutta la città madre, Roma ne ricevè nel suo seno la 
popolazione. Queste e cose consimili occorsero in quei 
tempi. Nella origine sua fu costrutta , appunto nel mez- 
zo , tra il lago ed il monte i quali ue erano come i 
ripari che la rendeano dillìcile a prendersi. Certamente 
altissimo è quel monte e fortissimo , ed il lago profon- 
do e vasto : 1’ acqua , all’ aprirsene i condotti , passa ai 
piani sottoposti ; e gli uomini ne proQttano come più 
vogliono. Spandonsi appiè della città campagne meravi- 
gliose a vedere , e fecondissime a rendere ogni prodot-' 
to : buono , quanto nel resto d’ Italia , è principalmente 
il vino chiamato albano , soave e brillante , e più squi- 
sito di tutti , salvo il falerno. 

LVIII. Dicesi che al fondarsi della città succedesse uni 
portento , grandissimo. Imperocché essendovi stato fabbri- 
cato un tempio con un cupo penetrale agli Dii recati 
per Enea daila Troade , e già collocati in Lavinia ; ed 
essendone stati di qua trasferiti i simulacri in quel pe- 
netrale ; la uotte seguente , quando le porte erano più 
chiuse, mutarono di nuovo la sede, e senza guasto 
alcuno di muri o tetti furono ritrovati ove prima si sta- 
vano. E quantunque riportati nii’ altra volta da Lavinia 
con preci e con sagriGzj paciGci ; pure ai posti loro si 
ricondussero. Dubitarono a tal’ evento Che fare , non 



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LIBRO I. 91 

roleudo gli nomini nè senza le patrie divinità domici- 
liarsi , nè tornare alle abitazioni lasciate. Da ultimo a 
conciliare i due estremi idearono il partilo di lasciare 
che gl’ Iddi! se ne stessero , e di rimenare da Alba in 
Lavinia uomini che ne avessero cura. E deputando se- 
cento per le sante cose , vi si traslatarono colle fami- 
glie sotto di Egesto , costituito per capo. 1 Romani 
chiamano questi Numi Penati: e tra quelli che ne in* 
terpretano in greco il nome , chi li chiama putrii , 
chi natalìzj , chi Dei custodi , eà intimi ^ o Dei penetrali: 
e sembra che ognun li denomini dall’ una o dall’ altra 
delle loro incombenze, tentando tutti* esprimere in più 
guise un subjetto medesimo. Intorno poi alla forma e fi-, 
gura loro Timeo lo storico ci fa intendere che le sante 
cose tenute ne’ penetrali di Lavinia erano caducei di 
rame e di ferro, e vasi di creta trojana ; avendone lui 
cosi udito da’ paesani, lo però penso che le cose le 
quali non è lecito a tutti vedere nè udire da chi le ha 
vedute , non siano nemmeno da scrivere : anzi mi co- 
ruccio con quanti vogliono investigare o conoscere più 
oltre che non concedesi per le leggi. 

LIX. Ma le cose che io vidi e conobbi nè sento paura 
di scrivere sono queste : Additasi in Roma un tempio 
mirabilmente opaco nè grande, non lungi dal foro in 
quello scorcio di via , che guida alle Carene , e Velia 
nella patria lingua si, chiama quel luogo. Ivi per chi 
brama vederle si trovano le immagini dè’ Numi trojani 
coir indice ; ànctf che vai quanto Penati : perciocché 
io penso che non essendosi ancora inventato il P , gli 
antichi lo supplissero col D. Ivi sono visibili due gio- 




JJ2 DELLE Antichità’ romane 

vani che seduti impugnaiio le aste ; opere di antico la- 
voro : abbiamo pure veduto ne’ tempj primitivi molte 
altre immagini di questi Dei ; ma sempre i due giovani 
vi si osservano in contegno militare. Ora queste cose a 
tutti si concede vederle ; come si concede conoscere e 
scrivere quanto ne ha detto Callistrato di Samo-Tracia 
nel tessere la storia , e Satiro nel compilare le favole 
primitive , e molti altri , ed Àrtino poeta il piu antico 
che io sappia di tutti. Narrano essi dunque : che Crise 
6glia di Fallante, maritandosi a Dardano gli recasse 
per dote i doni di Minerva , io dico il Palladio , e le 
sante cose de’ Numi grandi, de’ quali \ conosceva i mi- 
steri: e che uscendo gii Arcadi dal Peloponneso , per 
fuggire le inondazioni e riparandosi nell’ isola deUa Tra- 
cia , Dardano ivi fondasse un tempio a quc’ Nomi , oc- 
cultato il nome di essi , e v’ istituisse i riti , mantenu-^ 
tivi ancora da’ Samoiraci : e narrano insieme che tras- 
ferendosi poi Dardano col più del popolo nell’ Asia 
lasciasse il tempio e le sante cose agli altri che nella 
isola rimanevano ; ma che il Palladio e le immagini 
degl’ Iddii se le raccogliesse e portasse. Imperocché con- 
sultando r oracolo ne udì più cose intorno la propria 
sede, come prese pure questa risposta intorno la custo- 
dia di tali sante cose : 

'Nella città che fonderete, un culto 
Istituirete immacolato ai Numi, 

Con guardie e cori , e sagrìfzj ; e mentre 
Saran cari tra voi gli augusti doni 
Della vergine Paìlade , non fa 
ìiai la vostra città tomba a sé stessa. 



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LIBRO I. 93 

LX. Pertanto narrano che Cardano lasciò queste sante 
cose nella città che egli costrnsse, e distinse col nome 
di sé medesimo: ma che essendo poi fabbricato Ilio fu- 
rono colà trasferite dai posteri : che quei d’ Ilio fecero 
per esse un tempio ed un penetrale nella fortezza cu- 
stodendovele con sollecitudine , quanto poteano più 

grande , riputandole mandate dal cielo , e pegno di si- 
curezza per la città : che preso in fine il basso di que- 
sta , Enea trovandosi tuttavia l’ arbitro della fortezza 
levò dagli aditi santi le cose sacre de’ Numi grandi, e 
quel Palladio che eravi ancora ; mentre Ulisse e Dio- 
mede penetrali di notte in città ne aveano 1’ altro invo- 

lato : e che Enea partito di città con quelle giugnesse 
col caro peso nella Italia. Certamente Artino dice che 
un Palladio fu dato da Giove a Dardano , e che Iro- 
vavasi questo occultissimo in un penetrale di Troja fin- 
ché fu presa : che la immagine però di lui fatta all’ o- 
riginale similissima per deludere chi sopra vi macchi- 
nasse , tenevasi in pubblico , e questa appunto essere 
quella che i Greci insidiatori si tolsero. Su la scorta 
dunque degli uomini anzidelli scrivo che le sante cose 
recate da Enea nella Italia erano le immagini appunto 
degli Dii grandi venerate fra’ Greci dai Samoiraci , ed 
il Palladio notissimo per la favola che dicesi posto nel 
tempio di Vesta e custoditovi da vergini sante , che ivi 
pure il fuoco conservano inestinguibile^ Ma di questo 
diremo altrove. Ben su tale .argomento vi saranno altre 
cose recondite a noi profani : ma ciò basti intorno le 
•ante cose de’ Trojani. 

LXI. Morto Ascanio nell’ anno trig^imo ottavo dei 




p4 DELLE Antichità’ romane 

regDO , succedetiegli Silvio il fratello, partorito dopo la 
morte di Enea da Lavinia la figlia di Latino, e nndrilo, 
dicono , da’ pastori pe’ monti. Perocché nell’ ascendere 
Ascanio al trono , Lavinia paventò di averne , per lo 
nome suo di madrigna, alcun male; e gravida essendo, 
affidò sé stessa a Tirreno , prefetto de’ regj armenti , e 
già, com’ella sapea, domesticissimo di Latino. E costui 
menaudola come donnetta volgare in selve deserte , in- 
tento sempre che non fosse veduta da quei che la co- 
noscevano , fecele quivi un ainturo e ve la nudr). Poi 
dando questa il frutto del suo ventre ; egli ne raccolse 
e ne allevò Silvio , o come in greco diremmo , Yleo , 
cosi nominato dalle selve. Ma coi volger degli anni co- 
noscendo che i Latini faceano grande ricerca della donna 
per essere Ascanio incolpato come se 1’ avesse tolta di 
vita, scopri la vicenda , e ricondusse dalle selve la donna 
eoi figlio. Silvio incorso in tali casi ne ebbe il nomo 
anzidetto, e quindi pur lo ebbero tutti i posteri di lui. 
Venuto meno il fratello , ne ottenne il regno , disputa- 
togli da Giulo , il maggiore de’ figli di Ascanio , che 
per sé cercava il principato del padre , ma il popwlo 
confermò li diritti di lui per varie cagioni e per quella 
non meno che la madre di Silvio era la erede in tutto 
del regno : a Giulo in suo luogo fu dato un sacro po- 
tere ed onore , preminente anche al trono , per la si- 
curezza e tranquillità della vita. Godevano questo fino 
al mio tempo i posteri suoi , Giulj chiamati da lui , 
massimi , e chiarissimi divenuti di prosapia , tra quante 
io ne sappia ; essendo di lei nati duci insignissimi , le 
virtù de’ quali non sparsero diffidenza su la nobile ori- 
gine loro. Ma di ciò diremo altrove più degnamente. 



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LXII. Avendo Silvio omai da ventinove anni il co- 
mando , gli succedette il 6glio Enea che ne regnò tren* 
tuno. Dopo lui signoreggiò Latino per cinquantuno e 
quindi Alba per trentanove : ad Alba seguitò Capeto 
per ventisei anni , e poi Capi per ventotto. Appresso 
Capi fu Calpeto in trono per tredici , e via via Tibe- 
rino per otto. Dicesi che 1’ ultimo morisse combat- 
tendo lungo il 6ume , e che rapitone dalla corrente 
lasciasse il suo nome a quel fiume , Albula chiamato 
per addietro. Sottentrato Agrippa a Tiberino regolò per 
anni quarantuno. Dopo Agrippa fu per diciannove anni 
Afiadio una tirannica cosa ed esecrata da’ Numi ; pe- 
rocché spregiando i celesti ne andava con macchine co- 
inè fulminando e tonando, perchè volea quasi Dio spa- 
ventare i mortali : ma cadendo, alfine pioggie e fulmini 
veri su la casa di lui , e crescendo straordinariamente 
la palude, che la circondava; egli vi si annegò con tutti 
i domestici : e lasciata ora la palude in una vicenda di 
acque che inondat o o s’ inabissano , se quando s’ ina- 
bissano , quella restasi in calma , si vedono ancora gK 
avanzi de’ portici, ed altri vestigj dell’abitazione. Ricevè 
lo scettro di lui Avenlino , dal quale ebbe nome 1’ uno 
de’ sette colli di . Roma , e sovraneggiò per trentasette 
anni. Quindi Proca per ventitré anni , e quindi per 
quarantadue anni fu principe Amulio , i quale a torto 
invase la reggia dovuta a Numitore , come primo tra i 
fratelli. Ma tolto di mezzo Amulio da Romolo e da 
Remo nati da una vergine sacra come or’ Ora diremo ; 
Numitore, avo materno de’ giovani, riebbe conformemente 
«Ile leggi il governo. L’anno secondo della reggenza di 



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p6 DELLE Antichità’ romane 
Numitore , e quattracentesìcno trentesimoseconclo dopo 
la presa di Troja gli Albanesi spedendo una colonia 
sotto gli auspici di Romolo e di Remo fondarono Ro- 
ma nel principiare dell’anno primo delia olimpiade 
quando Diocle di Messene vinse nello stadio, e quando 
Caropo era arconte in Atene nel primo delli dieci anni. 

LXIII. Ma perciocché molti sono i dubbj su l’ epoca 
della fondazione, e su i fondatori di Ruma; non sono 
queste cose da trascorrere in un lampo , quasi presso 
tutti se ne convenga. E nel vero , Cefalone Gergitio , 
scrittore senza dubbio antichissimo, dice ediGcata Roma 
nella seconda generazione dopo la guerra trojana da 
quelli che con Enea ne scamparono. Svelane 1’ autore 
in Remo, duce della colonia, e l’ano de’Ggli di Enea; 
che quattro ne ebbe , Ascanio , Eurileonte , Romolo e 
Remo : Demagora ed Agatillo ed altri Gssano 1’ epoca 
stessa e io stesso duce della colonia. Ma colui che scrisse 
de’ sacerdoti di Argo e delle cose operate ne’ tempi di 
ognuno dice che Enea venendo con Ulisse dai Moloss) 
fabbricò la città denominandola Roma da una delle tro- 
iane , e dice che questa donna stanca da’ viaggi suscitò 
le compagne, e con esse mise in fiamme la flotta. Con- 
cordano con lui Damaste Sigieo , ed alcuni altri. Ari- 
stotele il filosofo narra che tornando alquanti Greci da 
Troja navigarono intorno a Capo Malio , ma che sor- 
presi da fiera burrasca errarono in più luoghi alfarbiu-io 
de’ venti , finché capitarono in luogo della Opica , il 
quale chiamasi Lazio, e confina col mare Tirreno : che 
dilettali aH’aspetto della regione tirarono a terra le bari 
che , e vi passarono quell’ inverno , apparecchiandosi • 



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, LIBRO I. 97 

£ir vela sul nascere della primavera : ma che incendia- 
tesi poi tra la notte le navi , non avendo più come 
])artirne , domiciliaronsi per necessità nella sponda ove 
erano approdati : che ciò era accaduto per le donne 
che essi menavano prigioniere da Troja , le quali te- 
meano , se gli Greci ripatriavano , giungere nell’ Acaja 
per ischiave. In opposito Calila scrivendo le gesta di 
Agatocle afferma che Roma , l’ una delle donne trojane 
venute con gli altri Trojani nell’ Italia , si maritò con 
Latino re degli Aborigeni e ne partorì due figli Remo 
e Romolo i quali fabbricando la città le diedero il no- 
me della madre. Zenagora lo storico scrive che li figli 
di Ulisse e di Circe furono tre Remo , Antia , ed Ar- 
dea , e fondarono tre città , chiamandone ciascuno la 
sua dal nome di sé medesimo. Dionigi Calcidense fa 
conoscerci in Remo 1’ autore di Roma , dichiarandolo 
secondo alcuni figlio di Ascanio , e secondo altri di 
Imatione. E vi è pure chi sostiene che Remo il figlio 
di queir Itale che avea per madre Elettra la figlia di 
Latino fosse il fondatore di Roma. 

LXIV. Ben avrei più altri greci scrittori , varj nel- 
1’ assegnare chi diede la origine alla città ; nondimeno 
per non sembrare prolisso vengo agl’ istorici romani. E 
primieramente non v’ ebbe ne’ tempi antichi storico o 
scrittore alcuno romano; ma ciascuno dipoi ciò che dié 
per iscritto , lo. attinse dalle memorie primitive de’ sacri 
libri. E quindi chi disse che i fondatori della città Ro* 
molo e Remo erano prole di Enea , e chi figli della 
figlia di lui senza indicarcene il padre , dati da Enea 

DI OSICI , tomo I. j 



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DKLLK ANXlOHJfA’ UOMANE 
per ostaggi a Latino signore degli Aborigeni , quando 
si concordò tra i paesani e tra’ forestieri ; e poi tanto 
amati e curati , cbe morendo quel re .seuza lignaggio 
virile furono lasciati eredi di una parte del suo princi- 
pato. Altri però narrano che Ascanio , alla morte di 
Enea prendesse tutto il regno latino , e ne dividesse 
co’ fratelli Romolo e Remo in tre parti le terre e le 
forze : che egli fabbricasse Alba ed altri castelli ; che 
Reoo fondasse Gapua da Capio il proavo, Anchisa da 
Anchise 1’ avolo suo ; Eneja poi detta Gianicolo , dal 
padre , e Roma finalmente da sé stesso : che questa si 
rimase un tempo deserta , finché riebbe 1’ antica strut- 
tura andandovi una nuova colonia speditavi da Alba 
sotto gli auspicj di Romolo e di Remo ; talché due 
sono le fondazioni di Roma , 1’ una poco dopo le vi- 
cende trojane , l’ altra , quindici generazioni appresso la 
prima. Che se alcuno voglia investigare cose ancora più 
remote , troverà nemmeno una terza Roma più antica , 
inalzata prima che Enea capitasse nella Italia co’Trojani. 
Nè ciò raccontano scrittori volgari o nuovi ma .Antioco 
di Siracusa , quegli di cui già si fece menzione. Impe- 
rocché scrìve che regnando Morgete nella Italia , la quale 
era allora la spiaggia da Taranto a Pesto , venne ad 
esso uno che era fuggito da Roma : e queste ne sono 
le parole: dopo che Italo invecchiò, prese il comando 
Morgete : c ne’ tempi di questo venne un fuggitivo 
da Roma : Sicolo ne era il nome. Quindi seguendo 
lo storico siracusano si rinviene un’antica Roma la quale 
precede i tempi ti'ojani. Siccome però non egli ha di- 
chiarato se stesse nel luogo dove ora , o se in altro 



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LIBRO 1. 99 

cCs) nominalo ; nemmen io posso congetturarne. Ma 
su le prime fondazioni credo che bastino le cose dette 
finora. 

LXV. Quanto all’ essere poi Roma 1 ’ ultima volta , 
popolata o fondata , o comunque dir vogli , Timeo di 
Sicilia , non saprei per quale cronologia, narra che ciò 
fu quando cdiGcavasi Cartagine trentotto anni avanti la 
prima olimpiade. Lucio Ciucio , uomo senatorio , ne 
fissa l’epoca intorno all’anno quarto dell’olimpiade 12.’: 
Porcio Catone non definisce i tempi alla Greca : ma 
diligente quanto altri nel tessere la storia delle antichità, 
colloca un tal fatto 1’ anno quattrocento trentadue dopo 
la rovina di Troja. Questo tempo medesimo computato 
secondo le cronologie di Eratoslene si scontra coll’anno 
primo della olimpiade 7.“. Che poi li calcoli di Eraio- 
slenc sian giusti , e come possano gli anni de' Romani 
ridursi a quelli de’ Greci , fu già da me dichiarato con 
.altra scrittura : perciocché non volli , come Polibio di 
Megalopoli , dir solamente che io penso , che Roma fu 
edificata l’anno secondo della olimpiade 7.': nè credere 
senza esame alla tavola unica e sola , esistente presso 
gli Anchisesi ; ma volli io stesso allegarne de’ raziocinj , 
pubblicandoli , perchè chiunque 11 bramava , li rettifi- 
casse. Questa è diligenza visibile in quel trattato : non- 
dimeno dirò qui ancora , quanto è pili necessario al 
subjetto. Il che è di questo tenore. Si consente quasi 
da tutti che la irruzione nella quale i Galli pigliarono 
Roma avvenisse quando in Atene era arconte Pirgione, 
circa r anno primo della olimpiade 9^.*. Il tempo pre- 
cedente , dalla invasione fino a Lucio Bruto e Lucio 



V 



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loo ©ellt: antichità’ romane 
Tarquinio Collatinio , primi consoli in Roma dopo la 
espulsione dei re , comprende centoventi anni. Ciò ri- 
levasi da più cose, come pure dai ricordi chiamati cen- 
sorj , che il figlio riceve dal padre , tanto pregiati dai 
posteri , quasi con questi si consegnino loro le sante 
cose paterne : e nelle famiglie censorie molti sono gli 
uomini insigni che li custodiscono. Ora io trovo due 
anni avanti la presa della città fatto un censo da’ Ro- 
mani , ove come negli altri è notato questo tempo ; es- 
sendo consoli Lucio Valerio Potilo , e Tito Manlio 
Capitolino r anno cenlodiciannove dopo la cacciala 
dei Te : dond’ è che la irruzione de’ Galli che troviamo 
avvenuta 1’ anno secondo dopo il censo , avvenisse 
compiendosi l’anno appunto centoventi. E se tale dura- 
zione vale trenta olimpiadi, dobbiamo di necessità con- 
fessare , che i primi cbe furono dichiarati consoli , as- 
sunsero quel grado essendo arconte di Atene Isagora , 
r anno primo della olimpiade 68.“. 

LXVI. Comprende poi dugento quarantaquattro anni 
il tempo dalla l'emozione dei re fino a Romolo , che 
primo di essi dominò la città : rilevandosi questo dalle 
successioni loro , e dagli anni ne’ quali ciascuno tenne 
il comando. E certamente leggesi che Romolo il fonda- 
tore di Roma regnasse trentasette anni; restando questa 
dopo la morte di lui senza monarca per un anno : 
quindi che Numa Pompilio eletto dal popolo governasse 
quarantatrè anni, e Tulio Ostilio dopo Numa trentadue 
anni: appresso Anco Marcio fu re per ventiquattro anni: 
e dopo Marcio per trentotto Lucio Tarquinio chiamato 
l'antico. A lui seguitò per quarantaquattro anni Servio 



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IDI 



LIBRO I. 

Tulio, alfine tolto di mezzo da Lucio Tarquinio, uomo 
tirannico , anzi detto il superbo per lo disprezzo suo 
della giustizia. Pure costui & ebbe il principato ventì- 
cinque anni. Prendendo dunque dugenloquarantaquattro 
anni , quanti que’ monarchi ne regnarono , cioè sessan- 
tuna olimpiadi ne viene di necessità , che Romolo il 
primo di essi prendesse il comando 1’ anno primo della 
olimpiade ; essendo Caropo 1’ arconte di Atene nel 
primo de’dieci suoi anni. Cosi domanda il calcolo degli 
anni. Che poi ciascuno dei re dominasse tanti anni , si 
è da me dimostrato nella cronologia detta di sopra. Tali 
sono le sentenze degli antichi , e tali i pareri miei sul > 

tempo in cui fu costrutta la città , signora al presente 
delle cose. Ma quali ne fossero i fondatori , con quali 
vicende recassero la colonia , o le fondassero la città , 
molti già lo narrarono , discordandone alcuni in più 
casi. Io sceglierò da' monumenti le cose più persuade- 
voli ; te quali sqn queste. 

LXYIl. Dopo che Amulio usurpò colla forza la reggia 
di Alba eliminando dagli onori paterni Numitore il fra- 
tello. più grande , scorse ad altre infamie col molto abuso 
dei diritti, macchinando all’ultimo distruggere la stirpe 
di Numitore per timore di subirne la vendetta , e per 
desideri^ di perpetuarsene il principato. E macchinando 
ciò da gran tempo , notò primieramente dove recavasi 
alla caccia Egeste il figlio già pubescente di Numitore, 
e, fattegli delle insidie nel meno visibile di que’luoghi , 
lo uccisse appunto che inseguiva le fiere , dando opera 
che si dicesse poi , che il giovine fu vittima de’ladroni. 

Ma tal voce artificiosa uon potè soffocare la verità che 



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102 DKi.LE Antichità’ honianf. 
lacevasi; perocché molli ebbero cuore di palesarla , con 
pericolo ancora. Ben conobbe Nunillore il successo ; ma 
tollerando con saviezza bonissima fìnse non conoscerlo 
per differirne i risentimenti a tempo meno pericoloso. 
Amulio tenendo la vicenda per occulta , fece ancora , 
che la figlia di IVumitore detta Rea secondo alcuni , e 
poscia Ilia quando fu matura per le nozze , si dedicasse 
al sacerdozio di Vesta perchè andando subito a marito 
noti partorisse un vindice della sua gente. Dee iren- 
l’anni, e nommeuo rimanersi candida da cose maritali 
lina donzella messa alla cura del fuoco inestinguibile, 
o per altro religioso ministero serbato per legge alle 
sue pari. Compieva Amulio tutto ciò co’ bei nomi di 
onorare c distinguere il parentado : perchè non avevane 
egli introdotto la legge : anzi essendo già praticata non 
astringeva il fratello, sicché la prima volta esso tra’ no- 
bili si valettse di quelli onori. E pregiavasi tra g]i Al- 
bani che le donzelle più nobili ministrassero a*\^esia. 
Ben vedea Numitorc che il fratello non facea Ciò per 
amore del meglio: tuttavia non espresse l’ira* sua, ma 
tacque profondamente ancora su questa ingiuria per .non 
esserne malmenato dal popolo. 

LXYIII. Dopo quattro anni Ilia recatasi al bosco sacro 
di Marte ad attingervi limpide acque pc’ sacriGzj vi fu 
violentala da uno, dicono, de’ giovani innamorato della 
donzella : o da Amulio non si per amori che per in- 
ganni , tutto in arme , e travisatosi quanto poteva , onde 
essere terribilissimo a vedere. Molli però novelleggiano 
che fu in persona il Nume del loco, acconciando a tal 
fatto varie circostanze divine , e che il sole se ne ascose. 






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LIBRO I. 



I()3 

e le tenebre si spnrsero in cielo. Essersi ,la immagine 
di quel Dio presentata augusta più che la umana per 
la mole e per la bellezza. Aggiungono che colui che 
aveala violata ( e da ciò conchiudono che fosse un Id- 
dio) dicesse alla fanciulla che si consolasse, non si afflig- 
gesse per la vicenda* essere a lei fatte le cose de’ma- 
trimonj dall’ unirsele del genio del loco : ne partorirebbe 
due figli y potentissimi in arme. Narrano che, ciò di- 
cendo , nna nuvola lo circondasse , e che spiccatosi di 
terra , si elevasse per 1’ aere. Non è poi questo il luogo, 
ma bastino i detti de’ filosofi , per discutere la sentenza 
da aversi su queste cose, cioè se debbano dispregiarsi 
come opere umane imputate agli Dei, la natura de’quali 
felice nè corruttibile non subisce niente d’ indegno ; o 
se debbano riceversene le narrazioni , perchè 1’ universo 
è un composto di tutte le sostanze , tra le quali haccene 
pure una intermedia tra la umana e divina , che ora 
mescendosi agli uomini , ora ai Numi , genera la stirpe 
degli eroi. La donzella dopo la violenza si diè per in- 
ferma : consigliatavi dalla madre per la sicurezza di lei , 
come per la riverenza de’ Numi : nè più andava alle sante 
cose ,' ma se dovea porgervi l’ opera sua , supplivano le 
vergini , compagne nel ministero. 

LXIX. Amulio , sia che mosso dalla coscienza , sia 
che da’ concetti del verisimile, spiava attentissimo le ca* 
gioni per le quali tcneasi tanto tempo lontana da’ riti 
divini. E mandò de’ medici su’ quali fidava moltissimo : 
ma pretestando le donne non essere un tal male da 
presentarsi ai maschj , mise la moglie sua per guardia 
della fanciulla. Ma non si tosto colei gli accusò la in- 



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io4 DELLE Antichità’ romane 
(loie del male , conghietlurando da indizj muliebri , 
ignoti alle altre ; egli fe’ custodire co’ soldati la donzella: 
perchè il parto , ornai prossimo , non si occultasse. £ 
chiamando a collocjuio il fratello , disse la violazione 
recondita , dolendosi che i genitori vi stessero a parte 
con la fanciulla, e comandò che non tacessero, anzi pub- 
blicassero il fatto. Asseriva Numitore eh’ egli udiva cosa 
incredibile: ma che egli era innocente in tutto, e chie- 
dea tempo per chiarire la verità. £d ottenutolo a stento, 
poiché seppe dalla moglie la cosa come erale narrata in 
principio dalla fanciulla , gli riferì la violenza fatta dal 
Nume, e le cose dette su’ due gemelli, e dimandò che 
si prestasse fede a tanto , se da quel parto nasceane la 
]>role cora’ era presagita dal Nume. Non essendo ornai 
lontano il parto ; egli non sarebbene deluso lungamente : 
intanto esibiva donne in custodia della figlia, nè ricu- 
savasi a prova ninna. Acconsentivano quanti erano in 
parlamento: Amiilio però diceva che non aveaci punto 
di buono in que’ detti , e diedesi per ogni guisa a pci^ 
dere la lànciulla. Intanto presentansi gl’ incaricati per invi- 
gilare su quel parto , e narrano aver lei dato in luce due 
maschi. Insistè Numitore ben tosto in dimostrare che a'veaci. 
r opera del Nume, e richiedÈva che oltraggio non si facesse 
alla vergine incolpabile. Amulio nondimeno concepiva 
che ci avesse della cabala umana anche nel parto mer 
desimo , con essersi procurato 1’ uno de’ fanciulli da al- 
tra donua , ignorandolo o cooperandovi le custodi ; e 
molto su ciò fu disputato. Come i consiglieri videro 
che il re piegavasi ad ira inesorabile , sentenziarono an- 
eh’ essi , com’ egli volea ; che si applicasse la legge , la 



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LIBRO I. I o5 

quale ordina che uccidasi , battuta con verghe , la ver* 
gine profanata nel corpo, e gettisi ciò che è nato da 
lei ndla corrente del fiume. Ora però le leggi per le 
sacre cose prescrivono che tali donne seppelliscansi vive. 

LXX. Fin qui la più parte degli scrittori narrano le cose 
medesime o con picciolo divario , altri seguendo più la 
favola , ed altri la verisimiglianza. Ben però discordano 
su ciò che vi rimane ; dicendo altri che la condannata 
fu tolta immantinente di mezzo , ed altri che serbata 
in carcere oscura fe’ nascere nel volgo la idea della oc- 
culta morte di lei. Scrivono che Amulio a ciò s’indu- 
cesse vinto dalla figlia supplichevole che chiedevagli in 
dono la cugina ; già nudrite insieme , e pari di età vo- 
leansi il bene di sorelle. Amulio che non avea se non 
quella figlia , gliela concedette ; nè più compiè la morte 
di Ilia , ma tennela rinchiusa, nè visibile; finché fu li- 
berata col morir del medesimo. Cosi le antiche scritture 
discordano intorno di Ilia , ma tutte presentano un ap- 
parenza di vero ; e perciò ne ho fatta menzione. Chi 
legge intenderà da sè stesso quale sia più credibile. 

Quanto ai figli d’Ilia cosi scrive Fabio detto il Pit- 
tore , cui seguirono Lucio Cincio , Porcio Catone, Cal- 
purnio Pisone, e la più degli storici. « Alcuni de’ mini- 
stri prendendo per comando di Amulio i fanciulli, posti 
in un cestello, ve li U'asportavano per gettarli nel fiu- 
me , lontano quasi cento venti stadii dalla città. Ma co- 
me vi si approssimarono e videro che il Tevere per le 
pioggie incessanti usciva dall’ alveo suo naturale in su 
i campi , discesero dalle cime del Pallanteo fino alle 
acque più vicine ; uè polendo avanzarsi più oltre , de- 



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ìoG DF.LLK Antichità’ homane 
posero il cestello appunto ove il fiume toccava , inon- 
dando le falde del monte. Ondeggiò quello alcun tem- 
po ] ma poi ritirandosi la fiumana dalle parti più ester> 
ne , il vasello percosse in un sasso , e deviatone , tra- 
volse i fanciulli ^ che vagendo in sol fango si dimena- 
vano. Quando apparendo una lupa , fresca di parto» 
e gonfie le mammelle di latte ne porse i capi alle te- 
nere bocche de’ medesimi , tergendoli via via colla lingua 
dal loto onde erano intrisi. Frattanto sopravvengono dei 
pastori che guidavano le greggi ai pascoli ; potendosi 
già per que’ luoghi camminare. Al vedere 1’ uno di essi 
come la bestia carezzava que’ pargoletti , restossi estati- 
co per lo spavento e per la incredibilità dello spettacolo. 
Quindi ( perciocché non era col solo dire creduto ) an- 
dando, e raccogliendo quanti potea de’ vicini pastori, li con* 
duce a mirare il portento. Approssimatisi questi, e vedendo 
come la bestia molcea que’ pargoletti, e come i pargoletti 
usavano colla bestia quasi colla madre , parvero a sé st«si 
presenti a celeste meraviglia : ma congregatisi e proce- 
duti ancora più oltre tentarono col tuonare delle grida 
impaurire la lupa. E questa non incrudita affatto dal 
giungere degli uomini , ma quasi domestica fosse, riti- 
randosi passo passo da’ fanciulli, si levò ( mutoli restan- 
done ) dalla vista de’ pastori , essendovi non lungi un 
luogo sacro , opaco per selva profonda , ove le fonti 
sgorgavano da pietre cave. Dicesi che quello fosse il 
bosco di Pane ; ed un allare’per lui vi sorgeva. In que- 
sto venne la fiera e si ascose. Ora il bosco non è più: 
ma ben additasi 1’ antro dal quale scorrevano le acque , 
in vicinanza del Pallanteo , lungo la via che mena al- 



} 



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LIBRO I. 107 

r Ippodromo ( 1 ) : scorgesi ivi prossimo un tempietto 
ov’ è j come effigie del fatto , una lupa che offre a due 
fànciullini le poppe ; metallico e di antico lavoro è quel 
monumento. 

Era questo luogo , com’ è fama , sacro per gli Ai'^ 
cadi che vi si accasarono con Evandro. Allontanatasi la 
fiera , i pastori presero i fanciulletti provvedendo che 
si allevassero appunto , come se volessero gli Dèi che si 
conservassero. Era tra questi un placido uomo , il capo 
de’ regj pastori , F austolo nominato , il quale trovavasi 
in città per alcun suo bisogno , nel tempo che lo stu- 
pro vi si riprendeva ed il parto d' Ilia.' Dopo ciò men- 
tre erano que’ teneri putti portati al fiume , egli nel 
tornare ài Pallanteo , tenne per incontro divino la stra- 
da medesima di quelli che li portavano. E non dando 
vista di sapere principio alcuno del fatto , dimandò per 
sè que’ miserelli , e presili con voto comune , e recan- 
doseli , venne alla moglie. E trovatala che avea parto- 
rito , e dolente , che il parto erale morto, la racconsolò, 
e le diede que’ fanciulli da sostituirsi ; contandole dalle 
origini la vicenda che li riguardava. Poi crescendo, chia- 
mò r uno di essi Romolo e Remo 1’ altro. Fatti adulti 

/ 

non somigliavano per la bellezza dell’ aspetto e della 
prudenza a pastore niuno di gregge immonde o di bo- 
vi , ma chiunque numerati li avrebbe tra’ regj figli , 
specialmente tra quelli creduti di generazione divina , 
come in Roma cantano ancora nelle patrie canzoni. Era 
la vita loro fra’ pastori , e col travaglio la sostenevano, 

(i) Cirro oTc -garrpgiavasi col corso Je’ cavalli. 



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io8 DELLE Antichità’ bomane 
fissando per lo più su’ monti e legni e canne in guisa 
che dessero in un tempo alloggio e tetto. Ed ancora 
nel lato che dal Pallanteo piegasi verso l’ Ippodromo V 
sopravanza 1’ uno di questi abituri , detto di Romolo > 
cui guardano come sacro , ma nulla vi aggiungono on-, 
de renderlo più venerando. Che se parte alcuna ne vi6a 
meno per anni o tempeste , la suppliscono , riparando- 
la , quanto possono con simiglianza. Giunti a’ diciotto 
anni ebbero dispute su de’ pascoli co’ pastori di Numi- 
tore i quali tenevano i loro bovili sull’ Aventino , colle 
situato rimpetto del Pallanteo. Ricbiamavansi spesso gli 
uni su gli altri, che pascessero i campi non proprj , o 
soli si tenessero i campi comuni , o per cose altrettali, 
se ne avvenivano. Davansi per tali dissidj colpfdi mani 
e di armi ; e ricevendone da’ giovani assai li servi di 
Numitore , e perdendovi alcuni di loro, ed essendone 
esclusi a forza dalle campagne, cosi macchinarono. Dis- 
posero in valle occulta le insidie su’ giovani , e concor- 
dato con quei che le disponevano il tempo di eseguirle , 
gli altri intanto andarono in folla alle roandre de’ me- 
desimi. Romolo di quel tempo crasi co’ paesani più ri- 
guardevoii recato alla città detta Genina per farvi a no^ 
me della comune i patrj sacrifizj. Avvedutosi Remo della 
incursione volò per la difesa , prendendo in un subito 
le armi , e li pochi venuti a lui per unirsegli dal vil- 
laggio. Non aspettarono quelli , ma fuggirono per tirar- 
seli dietro , dove rivolgendosi a proposito gli assalissero. 
Ignaro della trama , seguitandoli Remo lungamente , si 
ingolfò nel luogo delle insidie ; e le insidie proruppero 
e li fuggitivi si rivolsero ; e circondando lui co’ seguaci 



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LIBRO I. 1 09 

e tempestando co’ sassi , gli arrestarono, com’ era il co- 
mando de’ loro padroni che volevano vivi que’ giovani 
nelle mani. Cosi 'fu Remo condotto prigioniero. » 
LXXl. Ma Elio Tuberone uomo grave , e ben cauto 
nel tessere le istorie scrìve : che avendo que’ di Numi- 
tore preveduto che i due garzoncelli erano per ofTerire 
a Pane ne’ lupercali 1’ arcade sagriGzio come era isti- 
tuito da Evandro , tesero gli agguati pel tempo appunto 
del santo ministero , quando bisognava che I giovani , 
abitanti il Pallanteo, correswro dopo le oblazioni nudi 
per la terra , e velati solo nel sesso con le pelli recenti 
delle vittime. Era questo un tal rito patrio di espiazio^ 
ne , praticato ancora di presente. Standosi nel più an- 
gusto de’ sentieri i nemici a tempo per le insidie su 
quei facitori di sante cose , ecco venirsene ad essi la 
prima banda con Remo , seguitando più tarda 1’ altra 
con Romolo per essersi la gente loro divisa in tre masse, 
e distanze. Non aspettando quelli il giungere degli al- 
tri , dato un grido, uscirono in folla sa’ primi, e cir- 
condatili , gl’ investirono > chi con dardi e chi con sassi 
o con altro , comunque gli era alle mani. Sbalorditi 
questi dall’ inaspettato assalto , e mal sapendo che fare , 
inermi contro gli armati , furono assai facilmente arre- 
stati. Con tal modo, o con quello tramandatoci da Fa- 
bio , divenuto Remo il prigioniero de’ nemici , fu tratto 
in Alba. Romolo, al conoscere le ingiurie sul fratello, 
pensò dover subito tenergli dietro col Bore de’ suoi pa- 
stori , quasi a ricuperarselo ancora tra via : ma ne fu 
distolto da Faustolo che vedea la insania del disegno. 
Era F austolo ancora tenuto come padre , avendo sem- 



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1 1 o DELLE Antichità’ romane 
pre occultato ai due garzoacelli i loro primi tempi , 
perchè non si mettessero di slancio a’ pericoli , prima 
della robustezza degli anni. Allora peiTò vinto dalla ne- 
cessità rivela , solo a solo , a Romolo ogni cosa. E Ro- 
molo in udire tutta la sciagura che areali involti 6n 
dalla nascita, impietosito per la madre venne in grande 
ansietà verso di Nnmitore. E molto consultandosi con 
Faustolo conchiuse che doveva allora contenersi da ogni 
impeto ; sorgere poi con apparato più grande di forze 
a redimere la sua famiglia dalle ingiustizie di Amulio , 
e subire fin 1’ ultimo rischio in vista de’ grandi risul- 
tati , operando col padre della madre , quanto egli nc 
risolvesse. 

LXXII. Stabilito ciò per lo m^lio , Romolo convo- 
cando i paesani , e pregandoli a recarsi di subito in 
Alba , non però tutti io folla , nè ad una porta perchè 
non si eccitasse in città sospetto di loro , c a tenersi 
nel foro , pronti per eseguire , s’ incamminò per il pri- 
mo verso di quella. Intanto quei che menavano Remo 
presentatolo ai regj tribunali , ve lo accusavano delle in- 
giurie, quante ne aveano da lui ricevute, e vi addita- 
.vano le ferite dei loro protestando che abbandonerebbero 
tutte le manche , se non erano vendicati. Amulio vo- 
lendo fare cosa grata alla moltitudine accorsa , come a 
Numitore, forse presente ad incolparlo per altri (i), volen- 
do la tranquillità del paese, e stimando insieme sospetta 
la baldanza del giovane , imperterrito in sue parole ; lo 



( i) Secondo Dionigi , Numitorc ignaro della condiziona di lìcmti, 
lo accusava a nome de’ suoi clienti. 



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LIBRO I. Ili 

.condannò con rendere Numitore 1’ arbitro del castigo , 
e con dire che chi fa ree cose , non dee rintuzzarsene 
da altri quanto da chi le ha sostenute. Intanto che Re- 
mo era condotto con le mani addietro legate, ed erane 
vilipeso da’ pastori (i) che sei conducevano Numitore 
postoglisi appresso ne ammirava la bellezza delle forme 
che aveano molto del regio , e ne contemplava la no- 
biltà de’ sentimenti , che egli conservava in mezzo an- 
cora a terribili cose , non volgendosi a far compassione 
nè importunando , come tutti fanno in simili casi , ma 
procedendo con silenzio maestoso al suo termine. Giunto 
in sua casa , Numitore fece che gli altri si ritirassero , 
ed egli , solo con solo , chiese a Remo chi fosse , e da 
quali parenti ; non potendo lui , : ootal giovine , essere 
da ignobile stirpe. E soggiungendo Remo quanto ne 
sapea dal suo nutritore. , come dopo la nascita era stato 
esposto bambino nella selva col germano , gemello di 
lui , come raccolto da’ pastori fosse poi stato allevato ; 
colui , sospesone alcun tempo , alfine , sia che in ciò 
vedesse < un qualche raggio di vero , sia che un Dio lo 
guidasse a scoprire com’ era la cosa , gli disse: Già non 
rileva che io ti annunzii, o Remo, vedendolo tu da 
te medesimo che tu se' nelle mie menti , perchè sii 
dolo al supplizio eli io ne giudico ; e che quelli 
che qui ti condussero , avendo da te ricevuto tanti 
mali , tengono assai- caro che tu mora. Dì , se io ti 

(i) ]Nel testo si dice che questi pastori erano di Mumilore. Forse 
vi k sbaglio e dee leggersi che erano di Amulio : e forse quella pa- 
rola scorse nel testo se .ia bisogno ; sembrando assai chiaro die do- 
veva essere portalo dagli uomini di dii lo condannava. 



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1 1 2 DELLE Antichità’ romane 
campassi da morte e da ogni male , me ne sapresti 
tu grado ? e coopereresti con me se te ne prego il 
bene di ambedue noi ? E rispondendo esso tante cose 
quante la speranza della salute fa dire e prometterne 
da chi la dispera a chi può dargliela ; Numitore ordi- 
nando che si sciogliesse , e che gli altri immantinente 
si ritirassero , gli rivelò la sua sorte : come Amulio pri- 
vò lui , che pure gli era fratello , del regno , come lo 
rendette oii )0 de’ 6gli , uccisogliene uno occultamente 
nella caccia, e messagli l’altra tra’ ceppi nella carcere, 
e come in fine trattavaio co’ modi appunto de’ tiranni 
verso lo schiavo. 

’ LXXIlI. Cosi dicendo e molto nel dire sospirando im- 
plorò che Remo fosse il vendicatore della sua casa. Ascoltò 
di buon grado il giovine la istanza ; e chiedendo ornai di 
essere portato a compierla ; Numitore ne lodò la viva 
corrispondenza , e disse : io prenderà cura del tempo 
della esecuzione : ma tu , senza che altri ne sappia^ 

' no , manda al tuo fratello dichiarandogli che tu sei 
salvo , e supplicandolo che venga a te quanto prima. 
E cercato immantinente e spedito un tale che parea 
buon messaggere , ed imbattutosi costui con Romolo , 
non lontano allora dalia città, gli manifesta le commis- 
sioni. Giubilandone Romolo volò prontissimo à Numi- 
tore , ed abbracciati e salutati primieramente ambedue , 
poi narrò la projezione, 1’ educamento de’ fratelli e le 
altre cose che Faustolo aveva udite dalla guardia d' A- 
mulio. Riuscì quel dire dolcissimo ad essi che tale ap- 
punto lo desideravano , non che .domandassero molti 
argomenti per credervi. Riconosciutisi a vicenda , im- 



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LIBRO I. , I 1 3 

mantinente si concordavano , e ponderavano quale sa- 
rebbe il tempo ed il mezzo opportuno per la impresa ; 
quando ecco Fanstolo è condotto ad Àmulio. Perocché 
temendo che fattosi Romolo a svelare senza i contras- 
segni evidenti il gran caso a Numitore , non potesse ab- 
bastanza accreditarglielo ; recavasi poco dopo in città 
col cestello , ' che era documento della projezione dei 
fanciulli : ma entrando le porte tutto in paura , e tutto 
sollecito di occultare . ciocché portava, iie fu notato da 
una delle guardie. Temevasi allora di una incursione 
nemica, . ed erano guardie dell’ ingresso i soldati creduti 
più fedeli al monarca. Ora colui lo arresta , e voglioso 
di 'conoscere che mai fosse ciocché nascondeva , scoprelo 
a forza. E vedutone il ccstellino , e tutte le ansietà del 
portatore , chiedea donde fosse mai quel turbamento , 
e quale il disegno d’introdurre celatamente un tal vase, 
non degno affatto di occultazioni. Frattanto si affolla- 
rono ancora altre guardie , e 1’ uno di essi riconobbe il 
cestellino : e fu quegli appunto che già portò con que- 
sto ai fiume i bamboletti , e dicevalo ai circostanti. Adun- 
que Faustolo è preso , e tirato al monarca. Amulio in- 
vestendolo col terrore de’ tormenti se non recasse il vero, 
ne’ suoi detti ; ricercò sulle prime se vivessero quei fan- 
cinlli : e saputo che viveano , dimandò quali fossero stali 
i modi delio scampo. Narrando lui com’ era il successo, 
or sà , disse il monarca , poiché sponesti finora la ve^ 
rilà ; dinne dove essi mai si troverebbero di presen- 
te : già non è giusto che essi , miei consanguinei , e 
salvi per la provvidenza de' Numi vivano nella ignoli- 
lUà de’ pastori. 

DIONIGI , urna I. » 



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I 1 4 DELLE antichità’ ROMANE 

LXXIV. Faustolo a tal mansuetudine non ra^one> 
vole sospettando che egli non pensasse come parlava , 
cosi rispose : I giovani , come è loro mestieri , vanno 
pasturando de' bovi pe' monti. Io men veniva in no- 
me di essi cdla madre per dichiararle come stieno i 
loro fatti. Ma udendo come tu fai guardare questa 
donna , io dirigevami a supplicare la figlia tua perché 
a lei m' introducesse. E questo cestello , io recavalo 
meco per certificare i miei detti. Ora poiché tur sei 
fermo di ricondurre qua li garzoncelli , ne esulto ; e 
manda con me chi vuoi , che io dimostreroUi , perchè 
loro si annunzino gli ordini tuoi. Cosi dunque diceva 
per allontanare la morte de’ giovani , e sperando egli 
insieme fuggire da quelli che sei menavano , quando sa- 
rebbe ne’ monti. Amulio immantinente invia con esso i 
più fidi tra’ suoi militari , ordinando però segretamente 
che afferrino , e gli rechino quelli che il pastore dimo- 
strerebbe. Intanto deliberò chiamare il fratello e farlo 
custodire , ma senza catene finché 1’ affare presente se 
gli acconciasse. Lo chiamò dunque ma in vista ben di 
altre cose. Mosso l’ araldo speditogli , dalla benevolenza 
e dalia compassione de’ mali di lui che pericolava non 
tacque i disegni di Amulio a Numitore : e questo ma- 
nifestando a’ giovani l’ infortunio che pendeva su loro , 
e confortandoli a farla da valentuomini , -andò alla reg» 
già tra le arme di clienti , di amici , e di non pochi 
servi fedeli ; e lasciato il mercato pel qual erano venuti 
in città , vi andarono ancora co’ pugnali sotto degli abiti 
i contadini, gente robustissima. £ forzando tutti con 
impeto comune l’ ingressa , non presidiato da molli , 



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LIBRO I. I l5 

bea tosto uccisero Amulio , e presero poi la fortezza. 
Cosi Fabio ne racconta su ciò. ' 

LXXV. Altri però giudicando non convenirsi punto 
di favoloso alla storia dicono inverisimile che la proje> 
zione de’ fanciulli non seguisse com’ era ordinata ; e di- 
cono che l’amorevolezza della lupa che porge le- mam- 
melle ai fanciulli è piena di comiche incoerenze. Rac- 
contano invece che Nnmitore al conoscere la gravidanza 
d’ Uia , ne tramutasse poi nel parto i figliuoletti , sup- 
plendovene altri nati di fresco ; e dandoli in fine ai cu- 
stodi della parturieute , perchè al re li recassero. Sia 
che la fedeltà di questi fosse comperata con oro , sia 
che la sostituzione fosse compiuta per mezzo di fem- 
mine ; ad ogni modo Amulio prese ed uccise gli spurj; 
laddove i figli d’ llia cari più che ogni cosa a Numito- 
re , furono da lui salvati, e consegnati a Faustolo. As- 
seriscono che un tal F austolo era un Arcade , originato 
da’ compagni di Evandro , alloggiato in sul Pallanteo 
colla cura degli armenti di Amulio ; e che condiscen- 
desse di allevare i figli di Numitore , indottovi da Fau- 
stino (i) , fratello sno , presidente de’ bestiami di ]Vn- 
mitore i quali pascolavano per 1’ Aventino : essere stata 
la nudrice , la esibitrice delle poppe sue , non la lupa , 
ma com’^ verisimile la moglie di Faustino detta Lau- 
renza , e Lupa con soprannome da quei del Pallanteo 
perchè prostituiva il suo corpo. Certamente era questo 

(i) Questo nome si legge Tariaroenle. Plutarco io Rumalo Io chiama 
PUiacino. Altri Io ha chiamalo Fausto: perchè tra Faustolo e Fausto 
siavi somiglianza come tra Romolo e Remo : ed altri con molla con- 
fusione lo chiama Faustolo come il fratello. 



V 



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1 1 6 DELLE Antichità’ romane 

il greco aatico ^ soprannome per le femmine le quali si 
vendono ne’ riti di amore , e le quali ora con più gen- 
til nome, amiche si appellano. E «quindi alcuni che ciò 
non sapevano ne tesserono la fàvola della Lupa , cosi 
chiamandosi quella bestia tra’ Latini. Aggiungono che 
i fanciulli slattati appena , filrono dagli aj loro man- 
dati a Gabio città non lontana dal Pallanteo perchè vi 
prendessero greca istruzione ; e che nudriti colà presso 
gli ospiti di Faustolo Gno alla pubertà furono ammae- 
strati nelle lettere , nel canto , e nell’ uso greco delle 
armi ; che rivenendo poscia ai padri loro putativi bri- 
garonsi co’ pastori di Numitore intorno de' pascoli co- 
muni , e li percossero , e gli allontanarono colle greg- 
gie : essere tali cose state fatte col volere di Numitore 
perché si avesse un principio di ridami, ed una causa 
onde la turba de’ pastori in città si recasse : che dopo 
dò Numitore fe’ lamentanze contro di Amulio , quasi 
per grave danno e ruberie de’ pastori di lui ; diman- 
dando che se egli non avead parte, gli desse nelle mani 
il porcajo , reo delia lite , e li Ggli di quello : che 
Amulio a rimuovere da sè quella . incolpazione , ordinasse 
a tutti gli accusati , ed a quanti si dicevano essere stati 
presenti al successo di comparire in giudizio per Numi- 
tore : che insieme concorrendo molti altri sul pretesto 
di quella causa, Numitore dicesse a’ nipoti quanta, scia- 
gura gli avea perseguitali : e dimostrando^ lui che quella, 
se altra mai ve ne fu , quella appunto era 1’ ora della 
vendetta , iramautiuenle volarono colla turba de’ pastori 
all’ assalto. E queste sono le memorie su la origine e su 
la educaziouc de’ fondatori di Roma. 



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LIBtlO I. 1 1 7 

' LXXVI. Ecco poi le cose avvenute nella fondazione: 
ciò clic mi resta anche a scrivere, ed ora mi vi accin- 
go. Poiché Numitore col morirsi di Amulio riebbe il 
principato ; spese breve tempo a riordinare su le anti- 
che maniere la città , già premuta colla tirannide , e 
ben tosto fabbricandone un’ altra , meditava di crearvi 
anche un regno pe’ figli. Pareagli bello , essendosi il po- 
polo suo troppo moltiplicato , levarne totalmente la 
parte almeno già sua contraria , per non più sospet- 
tarne. E comunicatosi co’ figli , ed essendone questi di- 
lettati ; diè loro , perchè vi regnassero , le terre dove 
erano stali allevati , e la parte del popolo divenuta a lui 
sospetta , e disposta ancora per fare innovazioni , e 
quanti voleano spontaneamente mutar sede. Ci avca tra 
questi , come per una città che si mova , molti della 
plebe , e buon numero de’ più potenti , anzi pure dei 
Trojani reputati più nobili , de’ quali esistevano ancora 
a’ miei giorni , almeno cinquanta famiglie. Diede a’ gio- 
vani danaro , arme , frumento , schiavi , bestie pe’ tras- 
porti , è quanto ricercasi per la fondazione di una cit- 
tà. Poiché questi ebbero cavato da Alba il popolo loro, 
aggregarono ad esso quanti rimaneano nel Pallanteo e 
nella Saturnia , e ne divisero tutta la massa in due parti. 
Sembrava loro che ciò desterebbe dell’ ardore nella gara 
di compiere più speditamente un lavoro ; quando fu 
causa del pessimo de’ mali , cioè di una sedizione. Im- 
perocché celebrando le due parli il suo capo , ciascuna 
lo inalzava come il più idoneo al comando di tutti: al- 
tronde li due capi non più avendo una mente e non 
quella di fratelli , ma di soprastanti 1’ uno su 1’ altro , 



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1 1 8 DELLE Antichità’ romane 
ornai non curavano 1’ eguaglianza , e moltissimo ambi'^ 
hivano. Celatasi fin qui , proruppe finalmente la loro 
ambizione per questo incontro. Non piaceva ugualmente 
a ciascun d'essi il luogo per fabbricarvi la città : vdleala 
Romolo sul Pallanteo per più cause , e per la prospe- 
rità del luogo , essendovi stati salvati e nudriti : ma 
sembrava a Remo da edificarsi nella sponda che ora da 
lui lìomoria si addi manda (i). Ben erane il luogo ac- 
concio per una città , su di un colle non lontano dal 
Tevere , in distanza di circa trenta stadj da Roma. Da 
tal gara appalesaronsi ben tosto le voglie di soprastarsi; 
apparendo assai chiaro che qual, di essi prevaleva sul- 
r altro dominerebbe ancora su tutti. 

LXXVII. Passato intanto alcun tempo, nè sceman. 
dosi punto il dissidio , parve ad ambedue da rimetter- 
sene all’ avo materno , e si recarono in Alba. E colui 
suggerì che lasciassero giudicare agli Dei , quale di loro 
due desse nome e comandi alia colonia. E predestinan* 
do ad essi il giorno , ordinò che si trovasserò di buon 
mattino separatamente ciascuno nel luogo ove 'bramava 
porre la sede : e che sagrificandovi prima secondo le 
usanze agl’ Iddii vi osservassero gli uccelli propizj : e 
qudlo di loro due per cui sarebbero gli uccelli più 
fausti , quello comandasse la colonia. •! giovani lodato il 
consiglio partirono , e trovaronsi poi nel giorno deci- 
sivo , appunto come avevano convenuto. Prendeva Ro- 
molo gli augurj sui Pallanteo dove ujeditava fissare la 

(i) Pesto con altri colloca Komeria nelle cime dell’ Arentino : ma 
Dionigi sembra collocarla più lontana. Sarebbero mai state due que- 
ste Romnrie , o Remurie t 



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LIBRO I. II9 

colonia : ma Remo nel colle contiguo , detto Aventino, 
o Romoria , come altri raccontano. Erano con essi le 
guardie , perchè non permettessero che alcuno de’ due 
dicesse altre cose che le vedute. Postisi ambedue nei 
luoghi convenienti ; Romolo dopo un poco , per ansia, 
-e per invidia del fratello , e più che per invidia , per 
impulso forse di un qualche Nume , innanzi di avere 
osservato alcun segno , quasi il primo avesse veduto lo 
augurio lieto , spedi messaggeri al fratello, perchè a lui 
ne 'venisse prontamente. Ma non accellerandosi questi , 
perchè vergognosi di portare un inganno p intanto sei 
avvoltoi , volandogli a destra , apparirono a Remo. Era 
costui lietissimo delia veduta , ma dopo non molto gli 
inviati da Romolo , movendolo , sei menarono al Pallaa" 
teo. Dove giunti , Remo chiedeva da Romolo , quali 
uccelli avesse veduto : e dubitando Romolo come rispon- 
dere ; ecco dodici avvoltoi , propizj col volo gli si mo- 
strarono. Inanimato al vederli disse, addiundoii a Re- 
mo: che cerchi tu s<^r cose già occorse, quando di 
presente vedi per te stesso gii uccelli ? Corucciossene 
r altro, e dichiaravasi aggravato come per inganno , e 
che mai non cederebbegli la colonia. 

LXXVIII. Pertanto sorsene discordia maggiore della 
prima , cercando non oscuramente ciascuno di prevalere 
sull’ altro , e ciò che non era meno , di subordinai^ 
selo per diritto manifesto. Imperocché dall’ avo materno 
era stato detto che la colonia soggiacesse a quello al 
quale appanrebbero upcelli più propizj. Ed essendo gli 
uccelli appariti ad ambedue , medesimi nella specie, l’u- 
no superava in ciò, che aveali veduti il primo , l'altro 



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120 DELLE Antichità’ romane 
che iu più numero. Infiammatasi nel dissidio tutta la 
moltitudine , venne , senza 1’ ordine loro alle armi , e 
grande ne fu la battaglia , e molta in ambe le parti la 
strage. In questa battaglia , dicesi che Fauslolo l’educa* 
tore de’ giovani volendo dividere la lite fraterna , nè riu* 
scendevi punto, si cacciasse inerme tra’ combattenti, per 
averne , conpi’ ebbela , morte immediata. E vi è chi dice 
che il leone marmoreo presso al rostri , là nel luogo 
più cospicuo del Foro romano , fosse posto sul cada- 
vere di Faustolo , seppellito da chi lo aveva ritrovato , 
appunto ove cadde. Morto Remo nella battaglia , Ro- ' 
molo ottenuta una miseranda vittoria colla strage del 
fratello e de’ cittadini fra loro , diè la tomba a questo 
in Romoria , luogo ove già vivendo destinava di eri- 
gere la città ; ed egli per il dolore e la penitenza del 
fatto trascurava sè stesso , ripudiando ornai quasi la vi- 
ta. Ma Laurenza che gli avea , nati appena , ricevuti <e 
nudriti , Laurenza che lo amava nommeno che una ma- 
dre, pregandolo , consolandolo , persuadendolo , Romolo 
alfine si rincorò. E raccogliendo i Latini che non era- 
no stati vittima della battaglia , ridotti a poco più che 
tre mila , di tanti che ne avea portati per la colonia , 
edificò la città nel Pallanteo. Questa a me sembra la 
più verisimile delle storie su la morte di Remo. Dicasi 
nondimeno come altri variamente la tramandarono. Adua* 
que narrano alcuni che egli cedesse a Romolo la pre- 
minenza , ma che dolente poscia e sdegnato per essere 
stato ingannato , dopo la erezione de’ muri dicesse per di- 
mostrare quanto poco difendessero chiunque forse di voi 
se fosse un nemico passerebbe come me senza slento 



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LIBRO I. I 2 I 

questi ripari ; e così dicendo li trapassò. E Celere , un 
soprastante degli operièri essendo su’ muri soggiunse : e 
chiunque pur di noi senza stento rispingerebbe que- 
sto inimico : e così dicendo gli diè con una pala sul 
capo , e lo uccise. £ tale si dice la fine della discordia 
de’ fratelli. 

LXXIX. Poiché niente impediva più la fondazione , 
Romolo pronunziando il tempo in cui sacriGcherebbe 
agl’ Iddii come in preludio dell’ opera ; e preparando 
quanto utile sarebbe per la cerimonia santa e pel con- 
vito del popolo ; alfine venutone il giorao egli il primo 
fe’ sagrifizio , e comandò che altri pure il facessero, se< 
condo le loro forze. E primieramente si valse dell’ au- 
gurio delle aquile : poi comandati de’ fuochi innanzi dei 
padiglioni , volle che il popolo ne traversasse di un 
salto le fiamme per espiarvisi. E poiché gli parve che fosse 
stato compiuto quanto era caro agl’ Iddii ; convocando 
tutti al luogo dimostrato descrisse come segnale delle 
mura da erigersi una figura quadrangolare sul colle col 
solco continuo di un aratro , tirato da una vacca e da 
un bove accoppiati. Dopo tale principio dura ancora 
tra’ PiOmani il costume di circoscrivere coll’ aratro il si- 
to , dove le città si edificano. Fatto questo , e sagrifi- 
cati que’*bovi e molte altre vittime , mise le sue genti 
in su r opera. E. Roma festeggia ancora noinmeno che 
altri giorni , il giorno anniversario della origine sua 
chiamato Parilia; ed in questo, venendo la primavera, 
agricoltori e pastori fanno sagrifizio onde rendere gra- 
zie per la fecondità degli armenti. Del resto io non so 
definire se destinassero alla fondazione di Roma questo 



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122 DELLE ANTICHITÀ* nOMANE 

giorno perchè antichissimo già per la pubblica gioja , 
o se alla pubblica gioja lo consacrassero perchè Roma 
vi fu cominciata , e stabilissero ili onorare in esso gli 
Iddii , propizj a’ pastori. 

LXXX. Tali SODO le origini romane , per quanto io 
potei risaperne , volgendo con assai diligenza numerosi 
scritti greci e latini. Pertanto, dato un lungo ‘addio a 
quelli che credono Roma un emporio di uomini bar- 
bari , o profughi , o senza patrj lari ; chiunque la dica 
pur francamente una greca città , dimostrandola socie- 
volissima ed umanissima fra tutte. Certamente chi ri- 
flette che gli Aborigeni sono un ramo di Oepotrj , e 
gli Oenotrj di Arcadi ; chi ricorda che i Pelasghi , i 
quali con loro coabitarono erano Greci anch’ essi , che 
vennero, lasciando la Tessaglia, nell’ Italia; chi sa che 
alla venuta di Evandro e di nuovo degli Arcadi , che 
presero sede nel Pallanteo , gli Aborigeni concedettero 
ad essi quel luogo ; che giugnendo i Peloponnesi con 
Ercole si domiciliarono in Saturnia , e che Gnalmente 
quelli che trasmigrarono dalla Troade si congiunsero ai 
primi ; chi sa , ricorda , e riflette tali cose , non tro- 
verà popolazione nè più antica , nè più greca di que- 
sta. Avvennero certamente ma col volgere degli anni 
le mescolanze de’ barbari per le quali Roma disimparò 
mólte delle sue primitive consuetudini. E ben farebbe 
meraviglia a molti se ne analizzassero il verisimile , co- 
m’ ella non siasi ora tutta imbarbarita , avendo ricevuto 
gli Opici , i Marsi , i Sanniti , i Tirreni , i Bruzj e 
tante miriadi ( i ) Umbri , di Liguri , di Spagnuoli , di 

(i) Decine di migliija ; o numero ìadefinilo per signifìcare grande 
moltitudine. 



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LIBRO I. : . ' ia3 

Celti , ed oltre gli anzidetti , tanta moltitudine venuta 
dall’Italia stessa e d’altronde, nè simile di lingua né 
di maniere. Certamente ben era da argomentare che 
tanti estranei rammassati non concordi nella voce , negli 
usi , nella vita , assai per tanta discordanza alterassero la 
forma primitiva della città : poiché molti convivendo coi 
barbari , dimenticarono in poco tempo ogni greca abi- 
tudine : né più la voce inflettono alla greca ; nè più re- 
spirano greci costumi , nè tengono per Iddi! , né per 
dettami di umanità quegli stessi pe’ quali principalmente la 
Grecia si distingue da’ barbari: in somma non più nulla 
ritengono con noi di comune. Assai confermano poi 
questo discorso quei che stanno in sul Ponto , i quali 
sebbene indubitatamente siano greci, o certo di greca 
discendenza ora sono barbarissimi tra gli barbari. 

LXXXI. Ma tra’ Romani né la lingua si usa de’ bar» 
bari , né quella appunto de’ Greci ; ma un tal misto di 
ambedue nel quale la Eolica predomina (i). E dal tanto 
incorporarvisi di esteri no è derivato solamente che nou 
bene vi si scolpiscano tutte le parole. Ma gli altri se- 
gni , quanti se ne hanno della origine greca , li con- 
servano , più che altri di altre colonie : né già comin- 
ciano ora a vivere umanamente , ammaestrativi dalla 
fortuna ampia e ridente ; e non già quando fatti desi- 
derosi delle cose oltremare, abbatterono Cartagine e la 
Macedonia : ma fin dall' epoca prima in cui coabitaro- 

(i) Auche Quintiliano lib. i , c. 6. Instit. dice che la lingua la- 
tina ha molto dell' eolico: eccone le parole: vocahula latina plurima 
tunt ex Grecie orla, praecipue Melica ralione , cui ett sermo no-» 
ster simillimus , declinala . 



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124 DELLE Antichità’ romane libro i. 
no , vissero alla greca : nè cercano ora più che anti^ 
camente maniere splendide di virtù. E ben avrei cose 
a migliaja su questo , e potrei far uso di argomenti in- 
finiti , e produrre testimonianze degnissime ; ma riserbo 
tutto per il libro che io scriverò su la repubblica loro. 
Ora mi volgo al resto della istoria; dandovi principio 
dall’epilogo delle cose dichiarate in questo libro. 




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DELLE 



laS 



ANTICHITÀ ROMANE 

ti. .■ * 

DI* 

DIONIGI ALICARNASSEO 



LIBRO SECONDO. 

I. Siede Roma nella parte occidentale d’Italia, quinci 
e quindi del Tevere , il quale sbocca nel mezzo quasi 
dei lidi di questa ; e cento venti sono gli stadj della di- 
stanza di lei dal mare Tirreno. I primi che siano ricor- 
dati, tra quelli che la possederono furono alcuni bar- 
bari , naturali di quelle terre , chiamati Sicoli , i quali 
possedevano ancora molte altre parli , di che sopra- 
vauzauo pur nel mio tempo non pochi monumenti nè 
oscuri , e tra questi , i nomi , tuttavia Sicoli , de’ luo- 
ghi additano che furono già domicilio di essi. Discac- 
ciatine poi, cederono la sede loro agli Aborigeni, di- 
scendenti dagli Oenotri , i quali abitavano la spiaggia , 



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ia6 DKLLE antichità’ romane 
«la Taranto a Pesto (t). Erano questi Aborigeni una 
tal massa «li giovini consecrata aglTddii secondo le leggi 
del luogo , e mandati da* genitori a cercarsi una patria, 
dovunque il buon genio a loro la concedesse. Ma gli 
Oenotri erano popoli dell’ Arcadia , di «piella , chiamata 
allora Licaonia ; e dall’ Arcadia usciti spontaneamente in 
cerca di terre migliori sotto gli auspicj di Oenotro , fi- 
glio di Licaone , donde presero il nóme. Intanto che 
gli Aborigeni aveano la sede anzidetta , unironsi ad essi 
primieramente i Pelasghi , profughi dall’ Emonia , ora 
detta Tessaglia , ove da un tempo abitavano. Vennero 
dopo i Pelasghi gli Arcadi dalla città di Pallanteo , se- 
guitando per duce della colonia, Evandro, nato da Mer- 
curio e da Temide. E questi accasarono l' uno de’ sette 
colli , quello che nel mezzo quasi di Roma , • nomi- 
nandolo Pallanteo , dalla patria loro di Arcadia. Capi- 
tato non molto dopo Ercole nell’ Italia , «piando rime- 
nava r esercito da Eritea (a) nella pairia , una parte 
della sua greca milizia , lascnatavi , si albergò presso del 
Pallanteo , sopra un altro de’ colli di Roma , detto già 
da’ tetra zzani Saturnio, ed ora Campidoglio da' Roma- 
ni. Epei erano questi Greci in gran parte , spatriati da 
Elide , perchè Elide fu da Ercole rovinata. 

II. Nella generazione sedicesima dopo la guerra di 
Troja gli Albani cinsero di fosso e di' moro , e coabi- 

(i) poesia città lu della accora Pottidonia. Rimaneva sul golfo 
di Salerno , che «uilicamenle cbiamaTasi timu Paestaimt. lùra loa— 
lana aa miglia da Salerno. 

(a) Eriiia secondo Sirabone è la slessa che Gades , o Cadice , iso- 
Iciia lanio noia delle Spagne nell* Oceano. 



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« 



LIBRO II. 127 

laroDO ambedue questi luoghi , stali per addietro rico» 
vero di pastori e bifolchi , e di altri guardiani di bovi; 
somministrando quella terra in copia i pascoli non solo 
invernali ma estivi pe’ fiumi che la scorrono , e la rin- 
frescano. Erano gli Albani un tal misto di Arcadi , di 
Pelasgbi , di Epei , di quelli venuti da Elide , e di 
Trojani finalmente , giunti nell’ Italia con Enea , figlio 
di Anchise e di Venere , dopo che Ilio fu presa. E 
verìsimile che le reliquie de’ barbari che ne erano i 
primi abitatori vi si consociassero co’ Greci. Tutti però 
spogliati del nome proprio , secondo le nazioni , furono 
in comune chiamati Latini da Latino re di que’ luoghi. 
Ora da queste genti fu edificata Roma 1 ’ anno quattro- 
cento trentadue dopo la espugnazione di Tioja , nella 
settima olimpiade (i). E quei che vi condussero la co- 
lonia , erano due gemelli di regio sangue Romolo I’ u- 
no , e Remo l’ altro di nome ; oriundi dal cauto della 
madre da Enea , e quindi da Bardano : ma da qual 
padre fossero nati non è facile sincerarlo : i Romani di* 
cono che da Marte. Non però si rimasero duci ambe- 
due della colonia , fattisi fin da principio a contenderne 
la preminenza : e morto 1 ’ uno di essi nella battaglia , 
Romolo il superstite edificò Roma, e diedele il nome 
- di sè medesimo. E di tanti , spedili già per aver parte 

(]) Meli' anno 3963, del periodo Gialiano , e , avaati Cristo 
secoodo la cronologia di Errico Dodwello su Dionigi di Alicarnasso : 
cronologia su la quale numereremo gli anni quante volte convenga il 
bisogno su Dionigi : secondo questa sono contati pur gli anni nella 
edizione di Dionigi fatta in Lipsia nel 1774» quale ei è servita di 
usto. 



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128 DELLE Antichità’ romane 

con essi nella colonia non sopravanzarono che tremila 

fanti e trecento cavalieri. 

I HI. Poiché fu compiuta la fossa e le fortiGcazioni ; e 
poiché furono le case conformi al bisogno , aveasi a di» 
scutere ornai qnal forma adotterebbero di governo : e 
Romolo convocò 1’ adunanza ammonitovi dall’ avo ma- 
terno ; ed istrutto delle cose che erano da proporvisi , 
disse : die la città tutto che nuova, avea già bastanza 
di edifizj prìvati e pubblici : riflettessero però tutti 
non esser queste le cose che più rilevano in una cit- 
tà: nè le fosse cupe , nè gli altissimi baluardi dare 
a chi vi è rinchiuso , fiducia piena di salvezza nelle 
guerre cogli esteri , se t opera non vi si aggiunga : 
ma questo solo ripromettergli, che investito da subite 
incursioni non patiscavi danno da' nemici : e parimente 
pensassero che nemmeno le proprie case , nè i pene- 
trali sono in tutto senza pericoli se le interne turbo- 
lenze si accendano. Essersi per la placida, per la cheta 
vita ritrovati questi conforti : ma non farsi per essi 
che chi insidia da vicino non danneggi , nè che f in- 
sidialo credasi mai canùnare fuori di risico : nè città 
niuna per quanto cospicua fosse in tali cose , esservi 
mai divenuta grande e felice : nè mai , peivhè in 
esse non magnifica , essere stata impedita dal dive- 
nire eccelsa e beata. Ma ben altre essere le cose , 
che salvano , e di picciole fan grandi le città : nelle 
guerre esterne la potenza militare , il coraggio , la 
industria ; ne' moti interni la concordia ; e la concor- 
dia aversi ne’ cittadini se temperante e giusta siaìie 
la vita: gli uomini intenti alla guerra i quali ai pro- 



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LIBRO II. 1 29 

prj affètti comandano fare il massimo bene della pa~ 
trio, essi renderne inespugnabili le mura , e sicuris- 
sima la sede. Aggiungeva : che gli uomini bellicosi , e 
giusti, e che sieguono le altre virtù presentano in sè 
la forma appunto dei governi buoni, quali furono 
ordinati da savj : laddove i molli , gli avari , i servi 
di vili passioni ne compiono i mali se cattivi sieno i 
governi ; aver lui udito da vecchi e da quelli che van- 
no colle istorie alle mani , che tra le molle e grandi 
colonie venute ad ottimi luoghi , quelle che fecero se- 
dizione fra loro o ben tosto perirono , o furono poco 
dopo necessitate ubbidire ai vicini mutando col male 
il bene , e serve di libere divenendo : ma che picciolc 
colonie e condotte a siti non affatto propizj furono 
da principio le arbitro di sè stesse , e dominarono in- 
fine ancora su gli altri : non altra essere la causa 
della fortuna buona dei pochi o della sciam ata dei 
molti se non la forma della repubblica. Che se una 
fosse appo tutti la maniera del vivere la quale feli- 
cita le città , non sarebbe per lui malagevole di eleg- 
gerla, Udirsi però che molte sono le reggenze tra i 
Greci e tra i barbari: ma tre fra tutte essere le ap- 
plaudite , principalmente da chi le usa : niuna essere 
sincera in tutto , ma da ciascuna proromperne mali 
irreparabili; tanto che difficile sia trasceglieme la mi- 
gliore. Intanto gli ammoni che fattone placido esame , 
rispondessero qual piu volpano , il comando di uno , o 
di alquanti , o se a tutti lo destinavano. Comunque ne 
decidiate la forma , disse , io vi sono apparecchiato : 
nè ricuso comandare nè dipendere. E già colmo sono 

DIONIGI , tomo I. o 



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l3o DELLE A^T1CIIIXA’ BOMANE 

io de vostri onori, primieramente perchè duce mi di- 
chiaraste della colonia, e poi perchè dal nome mio 
la città nominaste. E questi onori non la guerra può 
tormeli co' forestieri , non la sedizione co' cittadini , 
non il tempo che guasta ogni bel monumento , e non 
caso niuno ferocissimo : ma o io viva , o la vita io 
lasci riterrommeli in ogni durazione di secoli. 

IV. Tali cose , come io dissi , Romolo espose alla 
moltitudine per insinuazione del padre della madre. C 
la moltitudine fra sè consultatasi rispose: Noi non ab- 
biamo bisogno di nuova reggenza , nè posporremo 
quella, che abbiamo ricevuta dai nostri padri, e che 
fu riputata da essi migliore : ma tenendoci a questa 
che è pur la reggenza degli antichi , a questa che 
giudichiamo istituita già con tanta prudenza; noi 
correremo la sorte loro. Nè ci dorremo già con ra- 
gione di un governo che dava a noi sotto i re li beni 
più grandi che si abbiano , io dico la libertà , e la 
signoria su degli (diri. E così abbiamo risoluto quanto 
(dia forma di stato-, pensiamo poi che a niuno più 
che a te si convenga t onor del comando , e per la 
stirpe regia e per la virtù ; maggiormente che ci siamo 
di te veduti come duce' della colonia , ed abbiamo in 
le ravvisato sapienza e condotta non sì pe' delti , che 
per le opere. Romolo udendo ciò rispose che assai gli 
piaceva f essere stimato degno del trono : ma che mai 
prenderebbe quel primo grado se la divinità non glie 

10 additasse con auspizj favorevoli. 

V. Piaciuto questo anche al popolo , Romolo prefisse 

11 giorno nel quale consulterebbene i Numi : e quel 



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LIBBO ir. - l3l 

giorno appunto venendo ; egli levatosi di buon mattino 
usci da’ padiglioni. E stando in luogo aperto e puro , 
e sacrificandovi a norma delle leggi , fe’ voti a Giovo 
Signore e agli altri Dei j presi già da lui per direttori 
della colonia , perché gli rivelassero con propizj se- 
gni celesti , se era voler loro che egli regnasse. Com- 
piuti i voli , una luce balenò dalla sinistra verso la de« 
stra. Tengono i Romani come fausti i lampi scorrenti 
dalla mano manca alla destra, sia che ciò prendessero 
dai Tirreni , sia che dalle tradizioni de’ maggiori. Io 
credo che ciò si originasse , perchè la sede e la posi- 
tura più acconcia per chi fa divinazioni con gli uccelli 
è quella che guarda l’ oriente , donde nasce il sole e la 
luna, e le altre stelle fisse ed erranti ; e donde la rivoluzio- 
ne cominciasi dell’ universo col moto circolare, per cui tut- 
te le cose a vicenda appariscono e spariscono sopra e sotto 
la terra. Ora chi guarda l’ oriente volge la sinistra a set- 
tentrione , e la destra a mezzogiorno ; e la prima parte 
si pregia più che la seconda. Imperocché s’ innalza a 
settentrione il polo dell’asse intorno cui rivolgesi l’uni- 
verso: e tra i cinque cerchj che circondano la sfera é 
sempre colà visibile quello che artico si domanda : ma 
deprimendosi da mezzogiorno, invisibile vi rimane l’n/z- 
tartico. È poi verisimile che tra’ segni che snblimi per 
r aere si osservano , quelli sian gii ottimi che dall’ otti- 
ma parte appariscono del cielo. E poiché nell’ emisfero 
orientale piucchè nell’ occidentale ci han cose regola- 
trici ; anzi poiché nell’ emisfero orientale le parti verso 
borea stanno più alte che le altre verso 1’ austro , certo 
le boreali sono le ottime. E secondo che raccontano al- 



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i32 delle antichità’ romane 
cuni , i baleni che sfolgorano dalla sinistra , erano te^ 
nuli come propizj tra’ Romani antichissimi , prima an- 
cora che Io udissero da’ Tirreni. £ veramente quando 
Ascanio 6glio di Enea , combattuto ed assediato dai 
Tirreni, guidati dal re Mezenzio, e disperato ornai delle 
sue cose macchinò di fare un’ ultima sortita ; .dicono che 
supplicasse lamentevolmente Giove e gli altri Numi a dar 
s^ni favorevoli per la impresa, e che intanto a ciel se- 
reno un lampo sfavillasse da sinistra: e dicono che 
prendendo poi la sortita buon fine, fosse da’ posteri di 
lui ritenuto quel segno come propizio. 

VI. Poiché Romolo ebbe dagl’ Iddi! tali assicurazioni, 
convocato il popolo , e narrativi gli auspizj , fu re pro- 
clamato : e diè la norma a tutti che niuno prendesse 
da indi in poi regno o magistratura se gl’ Iddii non 
gliel confermassero. Perseverò tal regola su gli auspiz) 
lungo tempo tra i Romani non solo quando erano sotto 
i re , ma quando ne eran già liberi , nella scelta dei 
consoli , de’ pretori , e di altri capi legittimi ; ne’ miei 
giorni però fu soppressa , lasciatane una immagine ap- 
pena , per apparenza. Adunque chi è per assumere gli 
onori levasi dalla sua dimora in su l’ alba , e prega al- 
r aere aperto : alcuni degli auspici presenti , stipendiati 
dal pubblico , dicono eh’ evvi il segno , quantunque non 
siavi , del lampo da sinistra : c colui preso dal dir loro 
r augurio , partesi verso gli onori : contento che non 
siavi indizio di uccelli contrario ed esclusivo : ma tal- 
volta , in onta ancora degl’ Iddi! che si oppongono , ci 
ha pure chi violento , anzi invade che ottiene le di- 
gnità. Dond’ è che più eserciti de’ Romani furono iato- 



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LIBRO 11. 1 33 

ramenie disfalli sul campo, e più (lolle pericolarono sui 
mari colle milizie , e vennero su la cillà loro allre scia- 
gure ancora grandi ed acerbe , quali nelle guerre cogli 
esteri , e quali nelle interne sedizioni. Tra le quali gra- 
vissima e celeberrima fu quella ne’ miei giorni quando 
Licinio Crasso , capitano non secondo a ninno de’ suoi 
tempi, avanzò l’esercito sui Parti, contrariandolo i Nu- 
mi , spregiali innumerabili auspizj che dal suo disegno 
lo ritraevano. Ma ben lungo e grave sarebbe a indire , 
come alcuni nella età mia dispregino le cose divine. 

VII. Dichiarato Romolo in tal modo re da’ Numi e 
dagli uomini , si consente che terribile e rischiosissimo 
fosse nelle cose di guerra , e sagacissimo nel dare alle 
pubbliche cose la forma più buona. Io dirò di lui le 
cose militari e civili , che ricordate sarebbero da uno 
storico. E primieramente dirò su l’ordine che diede al 
governo , ordine che io reputo fra tulli bastevolissimo 
in pace ed in guerra. Esso era tale : Dividendo in tre 
parti il popolo , fe’ capo di ognuna 1’ uomo più riguar- 
devole : poi suddividendo ciascuna di queste tre parti in 
altre dieci , dìè per capi ad esse ancora i più valentuo- 
miiii. Chiamò le prime parti più grandi col nome di 
Tribù , ma Curie le minori , come pure a’ miei giorni 
si chiamano. Che se questi nomi si rendano in greco ; 

la tribù vien detta o rfvrrvt ^ o r^<i8»*ie 

o A »;(;•? la curia: Filarelli, o Trittarchi si direbbero i 

capi tra noi delle Tribù , li quali Roma chiama 2’ribu~ 

ni: e J^ochagi o Fratriarchi li prefetti delle curie che 
quella nomina Curionf. Appresso furono le Curie (i) 
(i) Dionigi qui prese abbaglio; non le Curie, ma le torme o 



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i34 DELLE Antichità’ eomane 
da lui compartite in decurìe, ed ogni decurìa era or- 
dinata da un capo chiamato nella patria lingua decu- 
rione. Distinti e disposti tutti in tribù e curie , divise la 
terra in trenta parti ; traendone a sorte una parte per 
ogni curia» e riservandone quanto ne era necessario pei 
sagriBzj > pel tempio , e per gli usi del comune. Tale 
era la partizione fatta da Romolo ne’ terreni e negli uo* 
mini diretta alla massima eguaglianza comune. 

Vili. Ora dirò della partizione degli uomini per con- 
cedere privilegi ed onori secondo la dignità di ciascu- 
no. Scevrò gli uomini cospicui per nascita, o lodati per 
virtù , o comodi secondo quel tempo per danaro , pur- 
ché avessero prole , dagl’ ignobili , dagli abietti e dai 
bisognosi. E plebei nominò quelli di sorte deteriore , 
che il greco appellerebbe dimolici ; ma intitolò padri 
quei di fortuna migliore sia che per la età maggioreg- 
giassero su gli altri , sia perchè avessero figli , sia per 
la chiarezza della prosapia, sia per tutte queste cagioni ; 
pigliando , come può congetturarsi , 1’ esempio dalla 
repubblica degli Ateniesi , quale esisteva in quel tem- 
po. Imperocché questi chiamavano Eupatridi principal- 
mente o patrizj li più distinti per nascita , e più potenti 
per danaro , a’ quali afQdavasi la cura della repubblica : 
e chiamavano agrici , o rustici gli altri che di niente 
eran arbitri sul comune: ma col volger degli anni fu- 
rono ancor essi elevati agli onori. Per tali cagioni di- 
cono gli scrittori più credibili delle cose romane che 
Padri fossero nominati que’ valentuomini , e patrizj i 

squadre de* cavalieri erano divise in decurie come i chiaro da Var- 
rooe e da Polibio. 



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LIBRO li. 



i35 

loro discendenti. Ma coloro che guardano 1’ affare con 
occhio d’ invidia , e malignano su le origini vili di Ror 
ma , non dicono che i patrizj avessero questo nome per 
tali cagioni , ma perchè soli potevano additare gli autori 
della loro generazione ; quasi gli altri non fossero che 
vagabondi, o senza liberi padri. E davano per sicuro 
argomento di ciò , che quando piaceva al re di convo> 
care i patrizj , gli araldi gl’ intimavano pel nome loro 
e per quello ancora de’ padri ; laddove pochi banditori 
invitavano alle adunanze i plebei rinfusamente col buc- 
cinare de’ corni da bove : ma nè la intimazione per 
mezzo di araldi è buon segno degl’ ingenui natali , nè 
il snon della buccina è simbolo della ignobilità de’plebei: 
ma la prima recavasi per onorificenza ; spandevasi l’altro 
per compendio ; non riuscendo invitare in poco tempo 
a nome tutta la moltitudine. 

IX. Poiché Romolo segregò li più degni dai men ri- 
guardevoli , ordinò per leggi le incombenze degli uni e 
degli altri. Adunque stabili che i patrizj intenti con esso 
alle cure pubbliche fossero i sacerdoti , i magistrati , i 
giudici , ma che li plebei , liberi da tali sollecitudini per 
la imperizia e per la penuria , lavorassero le terre , al- 
levassero i bestiami , ed esercitassero le arti mercenarie, 
perchè non sorgesse fra loro sedizione, come in altre 
città , quando gli uomini di grado spregiano gli igno- 
bili , o quando i vili c poveri invidiano la preminenza 
degli altri. Affidò , qual deposito , a’ patrizj i plebei , 
concedendo a ciascuno di questi di eleggersi liberamente 
tra quelli un patrono. Greca antica consuetudine era 
questa ritenuta lungamente da’ Tessali , e dagli Ateniesi 



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i36 DELLE Antichità’ ro3Iane 
quando ancora conoscevano il meglio : ma poi declina** 
rono al peggio, ed insolentirono su’ clienti; comandando 
loro cose non degne di uomini ingenui, minacciandoli 
di battiture se non ubbidivano, ed abusandoli con altre 
maniere , quasi schiavi comperati- Gli Ateniesi chiama- 
vano Thitas pe’ servigi che rendevano , i Clienti , ed i 
Tessali li chiamavano Ponesti (i) vituperandone fin col 
nome stesso la condizione. Ma Romolo fregiò con nome 
conveniente , chiamandola patronato , la garanzia de’ bi- 
sognosi e degl’ infimi : e date all’ uno ed all’ altro utili 
cure , ne rendè la congiunzione benevola veramente e 
cittadina. 

X. Le obbligazioni stabilite da lui sul patronato e 
conservatesi lungo tempo tra’ Romani erano queste: do- 
veano i patrizj informare i clienti della legge che igno- 
ravano , doveano prender cura di loro ugualmente, fos- 
sero o no presenti , e far su di essi come i padri su’ figli, 
quanto alla roba , ed ai contratti su la medesima ; mo- 
vendo liti pe’ clienti se altri ne era danneggialo , su 
contratti , e subendola , se altri la moveano. E per dir 
molto in poco , doveano proctware. ad essi tutta la ti'an- 
quillità della quale abbisognavano nelle cose domestiche 
e nelle pubbliche. I clienti a vicenda se i patroni scar- 
seggiavano di beni doveano coadiuvarli , maritandosene 
le figlie : doveano riscattarli da’ nemici se alcuno di essi 

(i) Diouigi qui paragona i clienii Romani, i TMti drgli Ateniesi 
ed i Penesti dei Tessali : ma i Thili erano almeno liberi , e servi- 
vano per la miseria o pe' debiti. 1 Penesù dei Tessali erano un in- 
termedio tra gli schiavi e gli uomini liberi. Non era cosi de’ c.ieuti 
Romani. Questi non di raro parteggiavano o superavano la fortuna 
dc'pauoui. 



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LIBRO ir. 187 

o de’ figli rtmaDeva prigioniero : pagare del proprio per 
loro non a titolo di prestito , ma di gratitudine le liù 
perdute , e le pubbliche multe tassate in moneta : e con- 
correre quasi ne spettassero alle famiglie , nelle spese di 
essi per le magistrature , per gli onori , e per le altre 
pubbliche dimostrazioni. Quanto ad ambedue poi non 
era lecito o giusto pe’ clienti o patroni che gli uni ac- 
cusassero gli altri ; che si dessero testimonianze e voti 
contrari ; o si lasciassero cercare gli uni per nemici degli 
altri. E se alcuno era convinto di aver fatto l’opposito, 
soggiaceva alle leggi di tradigione promulgate da Ro- 
molo : ed era per chiunque santa cosa lo ucciderlo , 
come vittima a Dite ; costumando i Romani di consa- 
grare agl’Iddj , spezialmente infernali , le persone alle 
quali volevano impunemente dare la morte, come fece 
allora anche Romolo. Adunque perseverarono per molto 
tempo tramandandosi da figlio Jn figlio le congiunzioni 
dei patroni e dei clienti, senza che niente differissero 
dai ligami strettissimi di parentela. Ed era gran lode per 
uomini d’ inclita stirpe aver clienti in più numero , cu- 
stodendo i patrocini lasciati loro dagli antenati , ed 
acquistandone altri ancora colla propria virtù. E mera- 
vigliosa era la gara di ambedue per non lasciarsi vin- 
cere gli uni dagli altri nella benevolenza ; proferendosi 
li clienti a far quanto potevano verso de’ patroni ; nè 
volendo i patrizi dar loro molestia con riceverne da- 
nari in dono. Così era tra loro il vivere condito con 
ogni diletto ; e . la virtù non la sorte era la misura della 
felicità. 

XI. Non solamente poi vivea sotto l’ ombra de’ patrizi 




i38 DELLE Antichità’ romane 
la plebe di Roma; ma quella delle colonie di lei, quella 
delle città confederate ed amiche , e quella ancora delie 
conquistate colle armi tenevasi per custode e protettore 
qual più voleva de' Romani. E più volte il senato ri- 
mettendo ai protettori le controversie di città e di na- 
zioni confermò le sentenze date da essi. Anzi era tanta 
la concordia de’ Romani cominciando dall’ ora che Ro- 
molo ne fondava i costumi , che mai per secento venti 
anni tumultuarono con stragi e sangue, sebbene nasces* 
sero intorno del comune molte e gravi dispute tra la 
plebe e li magistrati , come nascono in tutte le città , 
picciole o popolose : ma illuminandosi , e persuadendosi 
a vicenda , e parte concedendo , parte ottenendo racche- 
tavano le interne dissensioni. Dacché però Cajo Gracco, 
divenuto tribuno , sconvolse 1’ armonia della città , non 
cessano dal sopraffarsi colle stragi e con gli esilj ; nè 
risparmiano misfatto per vincersi. Ma per dir tanti mali 
avrem poi luogo più acconcio. 

XII. Ordinate tali cose , ben tosto Romolo deliberò 
di creare i consiglieri co’ quali dividere le pubbliche 
cure , e trascelse cento de’ patrizj cosi facendone la se- 
parazione. Prima nominò fra tutti il più idoneo , a cui 
si afBdasse lo stato , quando egli coll’ esercito uscireb- 
bene dai confini. Quindi prescrisse a ciascuna tribù di 
scegliersi tre uomini , savissimi per età come insigni per 
nascita. Fissati questi nove impose ancora che ciascuna 
delle curie eleggesse tre li più opportuni fra li patrizj. 
Infine unendo ai primi nove dichiarati dalle tribù li 
novanta determinati col voto delle curie , e facendo pre- 
sidente di tutti quell’unico prescelto da lui ; compiè la 



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LIBRO II. 1 39 

serie di cento consiglieri. Potrebbe il consesso di «pesti 
signiBcare tra’ Greci un senato , e con tal nome chia- 
masi appunto tra’ Romani. Nè io saprei deGnire se un 
tal nome se lo acquistasse per la età senile , o per la 
virtù dei membri che vi furono incorporati. Certo so- 
lcano gli antichi dir seniori i più maturi negli anni e 
nelle opere. Quanti ebbero luogo in senato furono chia- 
mati e si chiamano ancora Padri Coscritti. Greca isti- 
tuzione era questa : perocché quanti regnavano , sia pei^ 
chè succeduti a’ diritti paterni , sia perchè nominati capi 
dalla moltitudine, aveano un consiglio di ottimi uomini, 
come attestalo Omero , e poeti antichissimi : nè le mo- 
narchie primitive de’ principi erano, come ora , assolute, 
e Gsse agli arbitrj di un solo. 

XIII. Ordinato il consiglio de’ cento seniori, vedendo 
che egli avea bisogno di una gioventù regolata da usarla 
in guardia del corpo suo , come per incumbenze di af- 
fari pressanti , unì trecento i più robusti delle più in- 
signi famiglie. Le curie nominarono ciascuna dieci di 
questi giovani come aveano nominato li senatori ; ed 
egli tenea sempre con sè tali uomini. E tutti , panti 
erano stabiliti in quella schiera , aveano il nome di Ce- 
leri , come dai più si scrive , per la speditezza ne’ loro 
servizj ; chiamandosi Celeri dai Romani gli uomini pronti 
e spedili nell’ operare. Ma Valerio Anziate dice che lo 
derivarono dal duce loro , Celere nominato. Era un tal 
duce riguardevolissimo nel suo grado ; ed a lui ubbidi- 
vano tre centurioni , ed a’ centurioni altri capitani mi- 
nori. Questi lo accompagnavano per la città colle aste, 
pronù ai suoi cenni: ma nel campo erano propugnatori 



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i4o DELLE Antichità’ romane 
e custodi : e spesso dirigevano a buon fine ia battaglia,- 
primi a cominciarla , ed ultimi a levarsene. Combatte- 
vano, dove il luogo consenti vaio , a. cavallo; ma appiè, 
dove era aspro , nè proprio da cavalcarvi. Sembrami 
cbe un tal uso lo derivasse da’Lacedemoni coll’intendere 
die tra quelli vegliavano alla custodia dei re, e li pro- 
teggevano nelle guerre giovani generosissimi, buoni per 
militare a cavallo ed appiede. 

XIV. Composte in tal modo le cose , comparti gli 
onori ed i poteri cbe volevano in ciascuno ; presceglien- 
done tali primizie pe’ monarchi. Volle dunque cbe avesse 
il -re primieramente la presidenza de’ templi e de’ sagri- 
fizj , e che tutte per lui si compiessero le sante cose in 
verso de’ Numi : cbe fosse il custode delle leggi e dei 
patrj costumi: che avesse cura dei diritti provenienti 
dalla natura o dai patti : che esso giudicasse delle in- 
giustizie capitali ; ma rimettesse il giudizio su le altre 
ai senatori , e provvedesse che niente si peccasse ne’ tri- 
bunali: cannasse il Senato, convocasse il popolo, e pri- 
mo vi dicesse il parer suo , ma seguitasse quello dei 
più. Tali sono le prerogative che egli riservò pe’ mo- 
narchi, oltre quella di un comando indipendente nelle 
guerre. Al consesso poi de’ senatori attribuì questi onori, 
e questa autorità : cioè , che esaminassero le cose che 
il re proporrebbe , e ne votassero , ma vi prevalesse la 
sentenza dei più. Trasse quest’ uso ancora da' Lacede- 
moni : perciocché li re de’ Lacedemoni non si pre- 
ponderavano da fare a lor modo , ma l’ autorità su-t 
prema terminavasi nel senato. Lasciò da ultimo al 
popolo il potere di eleggere i magistrali , di appro- 
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LIBRO II, l4l 

Tare le leggi e discutere intorno la guerra quando al 
re ne paresse, non però deOnitivamcnte se contrario 
tosse il senato. Il popolo dava i sufTragj non tutto in 
un corpo , ma convocato per curie ; e riferivasi poscia 
al senato ciocché le più sentenziavano. Ora cangiata è 
la consuetudine ; imperocché non è il senato che ratifica 
le sentenze del popolo ; ma il popolo è 1’ arbitro delle 
sentenze, del senato. Io lascio , che chi vuole esamini 
quale di queste due consuetudini sia la migliore. Con 
tali scompartimenti le cose civili prendeano marcia savia 
e regolata , e le militari altresì la prendeano docile e 
pronta. Imperocché quando fosse piaciuto al re di muo- 
ver l’ esercito , non aveansi a creare i tribuni dalle tri- 
bù , nè li centurioni dalle centurie , nè li maestri dai 
cavalieri ; nè restava àd alcuno di essere coscritto , o 
scelto , o di ricevere il posto che gli conveniva. Ma il 
re intimava i tribuni , e li tribuni i centurioni. All’ av- 
viso di questi ciascuno dei decurioni cavava i soldati , 
subordinati a sé stesso. Così per un solo comando la 
milizia, secondo che era chiamata , in parte o del tutto, 
presentavasi colle arme al luogo destinato. 

Xy. Romolo abilitando la città pienamente per la 
pace e per la guerra con tali istituzioni , la rendè con 
esse grande e popolosa : obbligò primieramente gli abi- 
tanti ad allevare tutta la prole virile, e le primogenite 
delle femmine , con ordine che non uccidessero niun in- 
fante più recente di tre anni , se pure non era storpio, 
o mostruoso fin dalia nascita. Tali sconci bambini non 
proibì che via si esponessero , se presentatigli a cinque 
uomini dei più vicini , vi consentissero. E per chi vio- 



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i43 delle Antichità’ romane 
lasse questa legge stabili fra le altre pene la con6sca di 
una metà delle loro sostanze. Considerando poi che 
molle delle città d’ Italia erano miseramente premute 
dalla tirannide di uno o di pochi; procurò di ricevere 
e di tirare a sè li tanti che ^ne fuggivano , purché fos- 
sero liberi , senza esaminarne i pregiudizi , o la sorte , e 
tutto per ampliare la potenza romana , e diminuire quella 
de’ vicini. Adunque fe’ ciò cogliendone una bella occa- 
sione su le apparenze di onorare gl’ Iddi!. Fondatovi un 
tempio , non saprei deci ferace a quale de’ Numi , o dei 
genj , dichiarò come asilo per chi ricorrevaci il luogo 
tra ’l Campidoglio e la fortezza, ora detto nell’ idioma 
de’ Romani il basso tra le due selve , e nominato allora 
cosi , per essere quinci e quindi coperto dalle ombre 
delle piante amplissime delle terre contigue ai due colli. 
Inoltre per la riverenza de’ Numi, promise a chi rifug- 
givasi al santo luogo che non ci avrebbe molestie dai 
nemici , anzi , che se voleva albergare presso di lui , 
parteciperebbe ai diritti sociali , ed alle terre che leve- 
rebbe altrui guerreggiando. Pertanto vi si affollavano 
d’ ogn’ intorno uomini che fuggivano i mali domestici ; 
nè altrove poi si trasferivano allettati dai colloquj , e 
dalle cortesi maniere di lui. 

XVI. La terza istituzione di Romolo , degna soprat- 
tutto che i Greci la osservassero , e certo la migliore , 
come io penso di tutte , la quale fu principio della li- 
bertà stabile de’ Romani , nè poco contribuì per la for- 
mazione dell’ impero , la terza istituzione fu di non uc- 
cidere tutta la pubertà delie città debellate , nè di ri- 
durre queste come terre da pascervi , ma di mandare 



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LIBRO li: 1 43 

in esse chi se ne avesse in parte i campi , e di ren- 
derle , quando erano vinte , colonie de’ Romani, e tal- 
volta ancora di ammetterle ai diritti stessi di Roma. 
Introducendo queste e simili pratiche fe' grande la co- 
lonia sua di picciola , come la cosa stessa dichiaralo. 
Imperocché quelli che fondarono Roma con esso, erano 
non più che tremila fanti nè meno che trecento cava- 
lieri ; laddove quando egli spari dagli uomini vi lasciò 
quarantaseimila fanti , e poco meno che mille cavalieri. 
Ma se egli basò tali regole , le custodirono poscia i re 
die gli succederono , e dopo i re li magistrali che pi- 
gliavano di anno in anno il comando, aggiungendone 
altre per modo , che il popolo romano trovasi non in- 
feriore a niuno tra quanti sembrano i più numerosi. 

XVII. Ora paragonando con questi i Greci costumi , 
non so come lodare le pratiche de’ Lacedemoni , dei 
Tebani , e degli Ateniesi che tanto pregiano sé stessi 
per sapere. Essi gelosi troppo dell’ incorrotto loro li- 
gnaggio, non comunicarono se non a pochi i diritti 
della propria repubblica , per non dire che taluni ripu- 
diavano anche gli ospiti. Da tale arroganza però non 
solo non raccolsero alcun bene, ma gravissimamente ne 
scapitarono. Cosi gli Spartani battuti nella pugna di Leut- 
tra con perdervi mille settecento de’ suoi : non solo non 
poterono mai più rilevarsi da quel danno , ma deposero 
turpemente il comando : e cosi li Tebani , e gli Ate- 
niesi per la sola sconfitta riportata in Cberonea furono 
in un tempo spogliati da’ Macedoni e della preminenza 
su la Grecia , e della libertà. Ma Roma , brigata in 
guerre gravissime nella Spagna e nella Italia , brigata a 




i44 DELLE Antichità’ romane 
ricuperare la Sicilia e la Sardegna che le si erano ribel-' 
late , quando ardevano tutte in arme contro lei la Grecia 
e la Macedonia, quando Cartagine eie varasi novamente 
a disputarle il comando , quando l’ Italia , non che essere 
quasi tutta in rivolta, trae vale addosso la guerra detta 
di Annibaie ; Roma in mezzo a tanti pericoli , quasi 
contemporanei , non solo non si abbattè ; ma ne rac- 
colse forze maggiori che dianzi , proporzionandosi fino 
per contrapporle a tutti i mali. Ne consegui già questo 
per favore di sorte propizia come alcuni sospettano ; 
mentre per conto della sorte sarebbe andata in rovina 
con la sola sciagura di Canne ^ quando di sei mila suoi 
cavalieri ne rimasero appena trecentosettanta , e di ot- 
tanta mila soldati ne scamparono pochi più che tre mila. 

XVIII. Ora queste e le cose che io son per aggiun- 
gerne fanno che io prenda meraviglia su Romolo. Im- 
perocché avendo concepito che le cause dello stato flo- 
rido di una città sono quelle che tutti decantano , ma 
pochi seguitano, cioè primieramente la carità verso gli 
Iddii, colla quale tutte le cose degli uomini si risolvono 
in bene , e secondariamente la temperanza e la giustizia, 
per la quale men si offendono e più concordano fra 
loro , nè misurano la felicità co’ sozzi piaceri, ma colla 
rettitudine , e finalmente la fortezza nel combattere , la 
quale rende utili a chi le possiede anche le altre virtù ; 
ciò, dico, avendo Romolo concepito, non pensò che 
tali perfezioni provenissero per sè stesse, ma conobbe 
che le leggi provvide , e la bella emulazione nel disci- 
plinarsi, formano appunto una città pia, prudente, giu- 
sta, bellicosa. Adunque molto in ciò vigilando , comin- 



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- L 1 BI \0 II. 145 

ciò dal cullo de’ genj e de’ Numi : e seguendo le leggi 
migliori de’ Greci mise in pregio le sanie cose , io dico 
i templi , gli altari , le statue , le immagini , i simboli , 
le forze, i doni co’ quali gli Dei ci beneGcano, e le feste 
convenevoli per ogni genio o Nume; e li sacriGzj coi 
quali gradiscono essere venerati dagli uomini , e le ces- 
sazioni dalle arme, e li concorsi, e li riposi dalle fati- 
che , e quanto si addita di simile. Ripudiò le favole che 
sen divulgano , sparse di bestemmie e di accuse contro 
di loro , giudicandole ree , dannevoH , obbrobriose , in- 
degne di un uomo dabbene non che de’ Numi ; e ri- 
dusse gli uomini a dire e sentire magniGcamente su’Nu^ 
mi , non a gravarli di cure aliene da una natura beata. 

XIX. Già non si ode tra’ Romani nè Gelo castrato 
da' Agli , nè Crono che stermina i figli per timore di 
essere da loro assalito , nè Giove che scioglie il regno 
di Crono, e rinchiude il suo genitore nella prigione 
del Tartaro. Non le guerre vi si odono , non le ferite, 
e le catene e le servitù degli Dei presso gli uomini : 
non feste vi si usano atre e dolorose per gli cluiaii e 
per il lituo di femmine che piangono gli Dei levati 
loro , come in Grecia il ratto si piange di Proserpina, 
e le avventure di Bacco , e cose altrettali. E quantun- 
que ornai li costumi vi si corrompano , niuno ravvisa 
colà nè uomini invasali da’ Numi , nè furie di coribanti, 
nè baccanali , nè misteri iuelfjbili , nè veglie notturne 
di femmine e raaschj nei templi , nè osservanze consi- 
mili , ma ravvisa tutto praticarvisi e dirvisi verso gli 
Dei con tanta pietà con quanta non si pratica o dice 

BIONICI, tomo I. IO 



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l46 DELLE ANTICHITÀ.’ ROMANE 

tra’ Greci o tra’ Barbari. Eid io vi ho soprattutto ammi- 
rato, che sebbene sieno venute a Roma tante migllaja 
di esteri necessitati a venerare ciascuno i suoi Dii coi 
riti delle patrie loro ; pure mai questa , come pur troppo 
succedette ad altre città , non venne in desiderio di ri- 
ceverne pubblicamente il culto peregrino : e se per le 
risposte degli oracoli introdusse talvolta sante cose come 
quelle della madre Idea , le onorò co’ riti suoi propri! , 
escludendone quanto ci avea di superstizione e di favola. 
Quindi i pretori ogni anno apprestano alla diva Idea 
sagrifizj e giuochi secondo le leggi romane : ma un fri- 
gio , ed una donna , fHgia ancor essa , le immolano il 
sacriGzio. Questi la recano in giro per la città que- 
stuando per la dea come è loro costume, fregiati di 
immaginette ne’ petti , movendo il passo , e percotendo 
i timpani intanto che altri gli accompagnano col suono 
delle tibie , e cantano gl’ inni della gran madre : ma 
ninuo de’ Romani nativi ornato con veste di vario co- 
lore va per la città questuando o sonando di tibia , o 
venerando con frigie adorazioni la diva (i) ; e tutto è 
secondo le leggi ed il voto del senato. Tanto è cauta 
la città su gli usi forestieri interno de’ Numi ; e tanto 
ne ripudia le osservanze vane nè decorose ! 



(i) Questo (ratto su la madre Idea non è ben chiaro. Sembra 
che il culto de lei fosse ricerulo ed eseguito in una parte solamente 
colle leggi romane. Quei riti che non erano ricevati non poteano 
esercitarsi dai Romani. Dei resto Dionigi forse afferma senza verità 
che gli Dei forestieri adottati in Roma non si veneravano co' riti 
ancora de' forestieri . Arnob. lib. a e Valerio Massimo lib. primo 
possono dimostrare il contrario. 

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LIBRO II. 147 

XX. Nè credasi che io non sappia che alcune delle 
favole greche sono utili agli uomini. Certamente talune 
dimostrano allegoricamente le opere della natura : e ta- 
lune furono simboleggiate per confortarci ne’mali; altre 
levano i 'turbamenti ed i terrori dell’ animo , e lo pur- 
gano dalle opinioni non sane , ed altre ancora per altro 
buon termine furono immaginate. Ma quantunque io 
nommeno che gli altri , conosca tali cose , pure vi sono 
assai cauto , ed ammetto piuttosto la teologia de’ Roma- 
ni; considerando che tenui sono i beni derivati dalle 
favole greche e che non possono far utile se non a 
pochi , a quelli cioè che investigano le cagioni per le 
quali furono inventate. Ora ben rari possiedono questa 
fìloso6a ; ma la moltitudine ignorante suole rivolgere al 
peggio i discorsi che se ne fanno , e patirne 1’ una o 
l’altra miseria , cioè di spregiare gl’ Iddii come implicati 
in 'tanto malfare, o di non contenersi m.ii più da in- 
giustizie e da vituperi , vedendo die sono questi gli 
esercizi de’ Numi. 

XXI. Ma lascisi ciò da contemplare a quelli che que« 
sta parte sola si appropriano di filosofia. Quanto al go- 
verno istituito da Romolo io reputo degne della storia 
queste cose ancora : e primieramente il numero delle 
persone che egli deputò per le cure religiose. Certo 
niuno potrebbe additare in altra nuova città stabilitovi fin 
da’, principi .tanto sacerdozio e tanto ministero dei Numi. 
Per non dire de’ sacerdoti gentilizi, furono sotto il regno 
di lui creafi sessanta 'sacerdoti che fornissero le pubbli- 
che divine funzioni delle curie e delle tribù. Nè io qui 
ridico non le cose che descrisse nelle sue antichità 

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i48 DELLE Antichità’ romane 
Terrenzio Varrone , peritissimo tra quanti Borirono ai 
suoi tempi. Poi siccome altri per lo più fanno ineonsi- 
deratamente , e malamente la scelta de’ sacri ministri ; 
siccome altri ne mettono a prezzo le dignità per la voce 
de’ banditori; e siccome altri infine le compartono a 
sorte; egli non volle che fossero il premio dell’argento, 
o della sorte , ma decretò che si nominassero da ' ogni 
curia due uomini , maggiori di cinquanta anni -, pteemi- 
nenti di lignaggio , insigni pe’ meriti , agiati abbastanza 
di averi , nè difettosi in parte della persona. E comandò 
che questi avessero quegli onori non a tempo ma du- 
rante la vita , e che essendo per la età già liberi dalle 
cure militari , lo fossero per legge dalle politiche. 

XXII. E siccome alcuni sagrifizj si aveano a fare 
dalle femmine , ed altri da’ giovani , aventi tuttavia pa- 
dre e madre ; cosi perchè questi ancora degnamente si 
amministrassero , ordinò che le donne de’ sacerdoti fos- 
sero le compagne de’ mariti ancora nel sacerdozio ; che 
esse compiessero le sante cose che le leggi della patria 
non permettevano agli uomini, ed i figli loro prestassero 
il servigio, proprio de’ giovani: Che se non avevano 
prole scegliessero dalle altre case nella curia loro i più 
graziosi tra’ fanciulli e fanciulle, perchè ministrassero, 
quelli fino alla pubertà , queste finché erano pure senza 
le nozze (i). Io credo che Romolo derivasse questé pra- 
tiche ancora da’ Greci ; mentre ciò che ne’ Greci sacri- 



(i) Qnesii fanciulli cosi eleni anche dalle altrui case erano chia- 
mati Camillì e Camille. Plutarco nella vita di Numa accenna elio 
cosi chiamavansi que’giovinelti che ministravano «1 sacerdote di 
Giove, • 



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LIBRO II. 1 49 

ficj forniscono quelle che Canifore si domandano , lo 
compiono tra’ Romani quelle che Camille (i) son dette, 
cinte di ghirlande la testa , come da’ Greci la testa in- 
ghirlandasi delle statue di Diana Efesina. E quanto èse- 
guivano un tempo fra’ Tirreni e prima già fra’ Pelasghi 
i Cadolj nelle adorazioni dei Cnreti e degli Dei Grandi, 
lo ministravano nel modo medesimo ai sacerdoti i garzon* 
celli nominati Camilli tra’ Romani. Prescrisse inoltre che 
intervenisse da ciascuna tribù ne’ sagriGzj un indovino , 
che noi chiameremmo Jeroscopo , ed i Romani chia- 
mano aruspice , serbando in qualche tenue parte la de- 
nominazione primitiva ; e statuì , che li sacerdoti ed i 
ministri loro fossero tutti nominati dalle curie, ma con- 
fermati da quelli che interpretavano i voleri de’ Numi 
colla divinazione. 

XX [II. Ordinate tali cose intorno al servigio divino , 
divise ancora , secondo che era per cosi dire opportuno , 
alle curie le sante cose, destinando a ciascuna i Numi 
ed i genj che in perpetuo adorerebbe ; e tassò per le 
sante cose le spese che aveansi a supplire dal pubblico. 
Celebravano coi sacerdoti le curie i sagriGzj a loro as- 
segna ti. facendo per le feste il convito nelle case delle 
curie.' Perocché vi era in ciascuna curia un cenacolo , 
ed insieme vi era un’ edifizio comune , consacrato per 
tutte ; -.come i Pritanei tra’ Greci. Que’ cenacoli , quegli 
edifizj, curie si, chiamavano , e si chiamano, come le 
partizioni stesse del popolo (a). E tale istituzione sem- 

. (j) La voce Camille manca nel tetto : ma par troppo coerente 
colla totalità del senso, Canifore vai quanto portatrici de' canestri. 
(a) Varroiie uellil>. 4 della lingua latina diceche gli edirizj ciita- 



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l!)0 DELLE ANTICHITÀ.’ ROMANE 

brami che Romolo se l’ avesse dalla disciplina che fio- 
riva allora tra’ Lacedemoni ne’ riti sociali. Licurgo avea< 
cela introdotta , apprendendola , parmi , dai Cretesi a 
grande utilità della repubblica; e dirigendola nella pace 
al vivere quotidiano facile e temperato, e nella guerra 
a rendere ciascuno verecondo e cauto , perchè non ab- 
bandonasse il compagno, col quale libava, e sacrificava, 
e partecipava nemmeno le sante cose. Nè solamente Ro- 
molo merita lode per tali provvidenze ; ma pe’ facili 
sagrifizj ancora co’ quali ordinò che si onorassero le di- 
vinità. Sopravanzano questi ancora al mio tempo quan- 
tunque non tutti si compiano co’ liti primitivi. Io nei 
domestici sacrifizj ha veduto le cene apparecchiate agli 
Iddìi su tavole antiche di legno e ne’ piatti di creta , e 
ne’ canestri focacce d’orzo brustolato, e torte, e farro, 
e primizie di frutti , e cose tenui ed ovvie , scevre da 
fasto vano : ho veduto i liquori che si libano misti in 
vasi non di argento e di oro, ma 4i creta ; meravigliùM- 
domi che quegli uomini ritenessero ancora le patrie 
consuetudini niente da quelle variandole de’ sagrifiz) 
primitivi per gala di magnificenza. Sono degne ancora 
di ricordanza alquante istituzioni di Numa Pompilio , 
di quello che dominò dopo Roiùolo, gran savio, e 
grande interprete delia cose divine; ma di esse diremo 
più innanzi. Nè dee tacersi di Tulio Ostilio il terzo re 
dopo Romolo , nè degli altri che appresso regnarono : 



tnati curie erano di doe generi : etsendoTÌ quelli dova i sacerdoti 
curavano le cose divine, come le curie antiche, e quelli dove il 
seuaio curava le cose umane, come la curia Ostilia. 



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LIBRO II. I 5 1 

ma Romolo iii quegli che diè loro i germi ed i pria- 
cipj , e che diè Dorma propriamente al culto divino. 

XXIV. Sembrami che egli fondasse ancora le belle 
ed utili leggi con le quali i Romani prosperarono per 
tante generazioni la loro città. Dava egli per lo più! 
senza scriverle queste leggi ; sebbene talune le scrisse 
ancora : ma io non debbo riferire se non quelle che 
mi fecero meraviglia infra tutte; e dalle quali capii che 
• potea rendersi manifesto, quanto il senno foaie della 
legislazione in quest’ uomo , quanta 1’ austerità , quanto 
l’odio del male , e quanta la simiglianza di lui colla 
vita degli eroi. Ciocché io con pochi tratti dichiarerò ; 
solamente dirò prima, che quanti istituirono governi 
tra’ Greci o tra’ barbari , mi sembrano che ben vedes- 
sero in generale ; che ogni città composta da più fami- 
glie avanzasi verisimilmente al suo meglio , quando il 
vivere de’ privati sia buono , ma che se questo sia scon> 
ciò , fluttua quella fra le tempeste ; e che però debbe 
un uomo savio di stato , legislatore o sovrano che sia 
dar leggi che rendano i privati prudenti e giusti nei 
vivere; Ma qon tutti mi sembra che vedessero egxial- 
mente còn quali industrie e leggi si rendessero tali , e 
sembrami che alcuni assai , per non dire interamente , 
mancassero, nelle parti essenziali e primarie della legi- 
.slazione.; come subito ne’sposalizj e nel convivere colle 
femmine , donde un legislatore dee cominciare , come 
ne cominciò la natura l’ ordine armonioso di noi tutti. 
Imperciocché taluni pigliando esempio dalle bestie vol- 
lero i congiungimenti del maschio colla femmina pro- 
miscui e liberi , quasi fossero cosi per liberare la vita 



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i52 delle Antichità’ homane 
dalle furie amorose, e preservarla dalie gelosie che uc> 
cidono , e rimoverla dai tanti mali che per causa delie 
femmine invadono le intere città , non che le famiglie. 
Altri esclusero dalla città tali silvestri e ferali eoocu» 
bili accordando un uomo per una donna : in custodia 
però delle nozze , e della moderazione delle mogli , 
non tentarono più o meno far leggi , ma se ne asten- 
nero; quasi impossibile fosse il contrario. Aluri nè la- 
sciarono, come taluni de' barbari, le cose amorose senza 
leggi , nè le mogli senza premunirle come i Lacedenào- 
ni, ma vi promulgarono molte e castissime regole. E 
vi furono pur quelli che fondarono un magistrato che 
invigilasse intorno la purità femminile : ma non bastarono 
tali provvidenze alla cura. Fu quel magistrato languido 
più del dovere , nè potè ridurre a pudicizia chi mal ci 
avea contemperata la natura. 

XXV. Ma Romolo non dando azione all’uomo contro 
donna se adulterava , o se abbandonavagli la casa ; 
nè dandola alla femmina che accusava l’uomo di pes- 
sima amministrazione o d’ ingiusto ripudio ; non for- 
mando leggi sul ricevere e sul restituirsi della dote , 
nè definendo altra cosa qualunque , consimili a queste; 
ne stabilì solamente una , migliore assai ( come il fatto 
dichiarò) delle altre, colla quale fe’ le donne' savie e 
pudiche e di ogni onoralo contegno. E la legge fu: 
che la femmina maritala la quale secondo le sacre 
leggi recavasi alt uomo , divenisse partecipe de’ beni e 
delle sacre cose di lui. Gli antichi chiamavano con 
formola romana nozze sacre e legittime la confarrea- 
zioiie per l’uso conume del farro .che . noi Zea chia- 



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LIBRO II. I 53 

nilamo. E come noi Greci tenendo l’orzo per antichis- 
simo diam principio con esso a’ sagrifìzj ; ed que- 
sto. cliiamiamo: cosi li Romani giudicando cibo primi- 
tivo e pregevolissimo il farro; incomincian col farro , 
quante volte una vittima si abbruci. E ul rito persiste, 
nè si compensò con altre squisite primizie. L’ essere le 
donne fatte partecipi con gli uomini di un cibo il più 
sacro e primitivo, e della sorte di essi , qualunque fosse, 
aveva un nome dalla comunanza del farro , e ciò por- 
tava un ligame indissolubile di appropriazione, e niente 
polca disfare quel matrimonio. Questa legge necessitava 
le mogli eome prive d' altro rifugio a vivere co’ modi 
di chi aveasele maritate, e faceva agli uomini tenere 
le donne come cose proprie nè separabili. Quindi una 
moglie pudica e docile in tutto al marito, era appunto 
come r.uorao , l’ arbitra della casa. Morendo 1' uomo , 
ne era la erede , come la figlia del padre : se moriva 
senza figli e senza testamento , essa era la padrona di 
ogqi cosa lasciata da lui , ma se avea de’ figli essa era 
coerede di parte eguali con questi. Che se colei pec- 
cava , avealo giudice della delinquenza , cd arbitro della 
grandezza della .pena : se non che li parenti ancora in- 
sieme coir uomo la giudicavano fra le altre reità , se 
avea contaminato il suo corpo , o se bevuto del vino , 
mancanza certo nel parere de’ Greci tenuissima. Ambe- 
due queste colpe, come le estreme delle colpe femminili, 
ordinò Romolo che si -castigassero : la contaminazione 
qual priimipio d’ insania , e la briachezza qual principio 
della contaminazione. E lungo tempo seguirono ambe- 
due queste colpe ad avere odio implacabile tra’Romani. 



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i54 DELLE Antichità’ RoarANE 

Ora che buona fosse questa legge su le donne; lo at> 
testa la esistenza lunga di essa ; consentendosi che per 
dnquecento venti anni non si sciolse in Roma niun 
matrimonio. Solamente narrasi, che sotto il consolato di 
Marco Pomponio , e di Cajo Papinio , nella olimpiade 
centesima trentesima settima Spurio Garvilio , uomo 
non ignobile , il primo lasciasse la moglie , costretto In- 
nanzi però dai censori di giurare , che la donna sua 
non abitava in sua casa per generare con esso. Certa- 
mente la sua donna era sterile: ma egli per quest’ o- 
pera, quantunque la necessità ve lo' inducesse , ne ‘in- 
corse r odio perpetuo del popolo. • 

XXVI. Tali sono le leggi egregie di Romolo colle 
quali rendè le donne piu disposte inverso de’ -mariti. 
Assai più gravi e più convenienti di queste e molto 
diverse dalle nostre sono le leggi sul rispetto e su la 
corrispondenza de’ 6gli , perchè onorino I genitori col 
dire e col fare quanto comandano. Coloro che ordina- 
rono i governi de’ Greci, istituirono che i' figli rima- 
nessero un tempo , troppo breve , sotto la potestà dei 
loro padri: vuol dire istituirono alcuni che vi restassero 
tre anni dopo la pubertà ; altri , fin che erano celibi ; 
ed altri finché non erano scritti nelle curie pubbliche: 
e questo a norma della legislazione appresa da Soloné, 
da Pittaco, da Caronda, uomini di sapienza riconosciuta. 
Preordinarono ancora delle pene ; ma non gravi su'figli 
indocili , permettendo ai padri di espellerli e diseredarli 
e non altro. Ma le pene miti uon bastano a correggere 
la precipitanza e la caparbietà de’ gióvani , nè a ren- 
derli nel bene attenti di trascurati. Dond’ è che assai 



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LIBRO II. l55 

vlluperii si commettono da’ Ogli contro de’ padri nella 
Grecia. Ma il legislatore di Roma diede a’ padri sul 
• figlio per tutta la vita autorità compiuta di escluderlo , 
di batterlo , di vincolarlo a’ lavori campestri, e di ucci- 
derlo ancora se cosi volessero , quantunque il figlio già 
trattasse le cose pubbliche , già sedesse tra’ magistrati 
supremi , e già si avesse gli applausi per lo zelo suo 
verso del popolo. In forza di questa legge uomini rag- 
guardevoli concionando da’ rostri su cose contrarie al ' 
senato', e care al popolo e divenuti perciò famosi, fu- 
ròno di là staccati e rapiti altrove da’ padri , perchè su- 
bissero la pena che iie voleano ; e traendoseli per lo 
foro , ninno potea liberarli non il console , non il tri- 
buno , e non la plebe da essi adulata , sebbene questa 
*■ valutasse tutti men che sé stessa in potere. Ometto di 
dire quanto i padri uccidessero de’ valentuomini , spin- 
tisi per virtù e per ardore a far magnanime imprese 
ma diverse da quelle prescritte dai padri , come abbia- 
mo di Mallio Torquato e di altri, de’ qnali diremo a 
suo tempo. 

XXYII. Né il legislatore di Roma ristrinse a questo 
soltanto i padri; ma permise loro anche di vendere i 
figli , niente attendendo che altri vinto dalla sua tene- 
rezza riprendesse la concessione come dura e gravosa. 
SopratUttto, chi fu allevato colle maniere molli de’Greci 
riguarderà come a(Cerbo e tirannico, che lasciasse i pa- 
dri utilizzare su’ figli eoi venderli fino a tre volte , dando 
licenza più grande a’ padri sn’ figli che non a’ padroni 
su gli schiavi. -.Perocché il servo venduto una volta se 
riacquista poi la libertà rimane in seguito padrone di 



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1 56 DELLE Antichità’ komane 
sè : ma il figlio venduto dal padre se diviene libero ri-' 
cade di nuovo sotto il padre: e quantunque rivenduto 
e liberatosi per la seconda volta; pur trovavasi ancora 
servo del padre come in principio ; ma dopo la terza 
vendita più non era del padre. Osservavano da principio 
i re questa legge stimandola rilevantissima, scritta o non 
scritta che fosse , ciocché non posso decidere. Disciolta 
poi la monarchia , quando piacque ai Romani che si 
affiggessero nel foro, manifeste ad ogni cittadino., tutte 
le leggi e le consuetudini patrie e quelle ricevute di 
fuori , perchè il diritto comune non finisse col potere 
de’ magistrati ; i Decemviri che erano incaricati dal ' po- 
polo di compilarle, e distenderle , scrissero ancora questa 
legge colle altre: e trovasi nella quarta delle dodici ta- 
vole, che chiamano, che essi esposero nel .fòro. Che * 
poi li decemviri , eletti trecento t^nni appresso per la 
ordinazione delle leggi, non diedero essi i primi questa 
legge ai Romani , ma che ricevutala come antica molto, 
non osarono toglierla, lo deduciamo da molle fonti ,- e 
principalmente dai decreti di Numa tra’quali era scritto; 

Se un padre conceda al figlio di prender moglie la 
quale secondo le leggi sia partecipe delle cose sacre 
e de' beni , questo padre non avrà fin dt. allora più 
facoltà di vendere il figlio. Or ciò non avrebbe., cosi 
scritto, se per le leggi antecedenti non era permesso af 
padri di vendere i figli. Ma basti su 'ciò : frattanto vo- 
glio dcllneare come in compendio la . bella istituzione 
colla quale Romolo ordinò la vita de’ privati. 

XXVIII. Vedendo che le adunanze politiche, ove 
i più sono indocili , non si riJucouo con magistero di 



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LIBRO II. iSj 

parole a vivere temperantemente , a preferire il giusto 
all’ utile , a dumr la fatica , nè riputare cosa alcuna più 
onorata del retto procedere ; ma che piuttosto si dirigono 
ad ogni virtù colle consuetudini buone ; e vedendo che 
quelli ohe si disciplinano anzi di forza che spontanea- 
mente, ben presto, se niente impediscali, ritornano ai 
geiij loro; non concedette che ai servi ed a’ forestieri 
di esercitare le arti sedentarie , illiberali , fautrici dei 
turpi desideri , come quelle che guastano e profanano i 
corpi e le anime di chi vi si applica. E lungo tempo 
rimasero queste ingloriose tra’ Romani, e ninno che 
nativo fosse di que’ luoghi , vi rivolse le industrie sue. 
Lasciò solamente per gl’ ingenui le due cure della cam> 
pagna e delle armi ; perocché vide che con tali maniere 
di vivere gli uomini signoreggiano il ventre , e meno 
languiscono tra gli estri amorosi, nè sieguono quella 
voglia di arricchire che dissocia i cittadini a vicenda , 
ma quella che trae 1’ utile dalle terre o da’ nemici. Ri- 
putando imperfette , anzi litigiose queste vite se disgiunte, 
non ordinò già che una parte si desse ai lavori del 
campi , e 1’ altra andasse e derubasse i nemici come la 
legge disponeva tra’ Lacedemoni; ma prescrisse in co- 
mune li rustici e li militari travagli. Se godea pace, 
; costumavali a star tutti intenti per le campagne , salvo 
il giorno ( ed erari da lui destinato ogni nono giorno ) 
• in cui faceano mercato ; perchè allora amava che accor- 
rendo iu città vi commerciassero. Ma se prorompeva la 
guerra , addestravali a farla , e non cedere gli uni agli 
altri nel faticarvi o lucrarvi; pèrocchè divideva tra loro 
ugualmente, quanto involava al nemico, campi, schiavi, 
danari , e xciidcali con ciò volenterosi ad imprendere. 



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i58 DELLE Antichità’ romane 

XXIX. Spediva , non prolungava i giudizj su le of- 
fese scambievoli ; c quando giudicavale da sé medesimo 
e quando per mezzo di altri: e proporzionava ai delitti 
le pene. Considerando che la paura più* che tutto re- 
spinge gli uomini dalle scelleraggini , coordinò più cose 
per incuterla, come un tribunale, ove sedea giudicando , 
nel più visibile luogo del foro , imponentissimo l’ appa- 
rato de’ soldati , trecento di numero , che lo seguivano , 
e le verghe e le scuri portate da dodici uomini li quali 
nel foro stesso batteano chi avea colpe degne di batti- 
ture , o nella' pubblica luce lo decapitavano, se altri 
ne avesse più grandi. Tale fu l’ ordine del governo in- 
dotto da Romolo , e da queste cose ben si può con- 
ghietturare su le altre. 

XXX. Quanto alle altre opere civili o beUiche di un 
tal uomo , queste ne furono tramandate , degne che si 
intessano ad una storia. Siccome i popoli circonvicini a 
Roma erano molti, e grandi, e bellicosi , nè punto amici 
di essa ; deliberò conciliarseli co’ matrimoni , mezzo gii>* 
dicato dagli antichi saldissimo di procacciar le amicizie. 
Considerando però che tali genti non si unirebbero 
spontaneamente con loro, nuovi di colonia, impotenti 
per danaro , e privi d’ ogni gloria di belle operazioni , 
e che altronde cederebbero violentati , se oltraggiosa non 
fosse la violenza; risolvè, (ciocché avea NumitOre l’avo 
suo materno già suggerito) di faré, ed in copia, i 'ma- 
trimòni col ratto delle vergini. Cosi risoluto , fe’ Voti al 
Dio guidatore dei disegni reconditi , che se la prova gli 
riusciva appunto come la ideava, gli tributereUie ogni 
anno e feste e sagrifizj. Quindi riferito il .disegno in 



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LIBRO li. 1 5() 

senato , e comprovatovi , propose di celebrare giuochi 
solenni a Nettuno , e ne sparse la nuova per le città 
vicine ; invitando chiunque al concorso ed ai giuochi , 
che giuochi sarebbero moltiplici di cavalli e di uomini. 
iVenuii forestieri in copia alla festa insieme colle mogli 
e co’ figli , e compiti già li sagriCzj a Nettuno e li giuo- 
chi, infine nell’ ultimo giorno quando era per dimettere 
la moltitudine fe’ intendere ai giovini che al dare di un 
segno certo, tutti involassero quante a loro ne capita- 
vano , le vergine accorse agli spettacoli , le custodissero 
però quella notte inviolate , ed a lui le recassero nel pros- 
simo giorno. Compartitisi i giovani in truppe non si tosto 
videro elevato il segno convenuto ; si volsero a far preda 
di vergini. Sorgene un tumulto un damore de’ forestieri 
che maggiore ne sospettavano il male. Condottegli nel 
prossimo giorno le vergini , Romolo consolavale disani- 
mate , con dire che tendea quel ratto a maritarle non 
a vilipenderle. £ dichiarando che Greco , e primitivo , 
e nobilissimo era il modo tenuto da lui tra tutti i modi 
co’ quali si procurano le nozze alle femmine ; invitavale 
ad amare gli uomini che la sorte ad essi offeriva. Dopo 
ciò numerando le donzelle e trovandole secenlo ottan- 
talrè ; scelse bentosto altrettanti de’ suoi non maritati , 
e con essi congiunsele. Egli legandole colle nozze se- 
condo il rito della patria , rendeale partecipi dell’ acqua 
stessa , e del foco ; e quel rito mantienesi ancora. 

XXXI. Alquanti scrivono che avvenne un tal fatto 
nell’ anno primo del regno di Romolo : Gneo Gellio lo 
assegna nell’ anno terzo , e ciò pare più verisimile. Im- 
perocché non è- probabile che il capo di una città ua- 



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iGo DELLE Antichità’ romane 

scente si accingesse a tal opera prima clic ne avesse 
costituito il governo. Altri stimano cagione di quel ra- 
pimento la scarsità delle femmine , altri l'impulso a far 
guerra; ed altri più persuasivi, a’ quali io m’attengo, 
la necessità di aver amicizia cogli abitanti vicini. Ripe- 
tevano i Romani anche al mio tempo la festa allora 
consacrata da Romolo chiamandola Consuali (t). In essa 
un altare sotterraneo, scalzato intorno intorno di terra,, 
posto vicino al circo massimo , onorasi con sagriOzj , e 
primizie che bruciansi. Evvi corsa di cavalli sciolti , o 
congiunti ai carri. Conso chiamasi da’ Romani il Nu- 
me a cui tributano questi onori : e taluni con greca 
interpretazione dicono che sia Nettuno , scotitore della 
terra , e che si venera appunto in altari sotterranei , 
perchè questo Dio possiede la terra : ma io ne so’ pure 
altra origine perchè udii che la festa era celebrata per 
Nettuno , e per Nettuno li s giuochi equestri; ma che 
r altare sotterraneo era stato consecrato infine ad un 
genio ineffabile , guidatore e custode de’ segreti disegni. 
E certamente Nettuno in niun luogo tiene altari invi- 
sibili inalzatigli da’ Greci o da’ barbai'i. Pure è difficile 
a diffinire come stiasi la verità. 

XXXII. Come la fama del rapimento delle vergini e 
gli eventi de’ giuochi si sparsero per le città vicine; altre 
si corucciaron su 1’ opera , ed altre invesugando 1’ af- 
fetto ed il fine ond’era avvenuta, la sopporlavanu in 

(i) I giuochi isliluili da Romolo nel ratto delle Sabine furono chia- 
mali Consuali perchè fatti in onore del Dio Conso. Appresso furono 
detti Circensi quando Tarquinio Prisco fece il circo massimo. Sem- 
bra che la prima volta fossero celebrali nel campo Marso. 



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LIBRO II. l6l 

pace. In fine però ne proruppero delle guerre , alcune 
sicuriiniente ben facili ; ma grave e disastrosa fu cjuella 
co’ Sabini. Felice fu l’esito di tutte, come prima che 
si cominciassero ne aveano presagito gli oracoli, i quali 
significavano che grandi ne sarebbero i travagli , ed i 
pericoli , ina lietissimo il fine. Le città che prime si 
misero a tal guerra furono Genina, ed Ànlemna , e 
Crustumero , in apparenza pel ratto delle vergini e jicr 
vendicarsene ; ma la cagione vera che ve le spingeva 
era la fondazione , era il créscere di Roma divenuta 
grande in poco tempo , e la voglia di non trascurare 
che più si estendesse quel male , comune a tutti i vi- 
cini. Ben tosto dunque spedendo ambasciatori ai Sa- 
bini gl’ invitarono perchè fossero i capi nella guerra , 
essi che erano i più polenti di arme e di danaro , de- 
gni di comandare ai vicini , nè oltraggiali menu degli 
altri; essendo le vergini rapite per la maggior parte 
Sabine. 

XXXIII. Ma poiché niente profittavano , pere he gli 
ambasciadori di Romolo contrariavano, ed appiacevoli- 
vano con parole e con opere quella gente ; stanche al- 
fine di perdere più tempo coi Sabini i quali esitavano 
c rimettevano ognora a tempo più rinioto il consiglio 
di guerra , destinarono fra loro di combattere esse i 
Romani; pensando che avrebbono suificieiiza in sè stesse 
di forza , se univansi tutte tre , per invadere una città 
sola , nè grande. Così dunque si coiicerlarouo ; ma non 
si espedirono già per concentrarsi tutti in un esercito ; 
insorgendo innanzi gli altri i Ceuiuesl , pi'imarj già nel 
PÌ0HI6J , tamo I. 1 1 



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iGa DELLE Antichità’ romane 
volere la guerra. Ora avendo questi mossa l’ armata , 
e devastando il campo contiguo , Romolo usci colle sue 
truppe : e piombando repentinamente su' nemici che non 
seu guardavano ; ben presto ne espugnò gli alloggia- 
menti , che appena erano formati. Poi gettatosi appressa 
quelli i quali si rifuggivano nella città , dove non crasi 
udita ancora la sciagura dei suoi , non trovandovi nè 
guardate le mura , nè chiuse le porle ; la invase a pri- 
mo impeto, ed uccise, combattendo, e spogliò colle 
sue mani delle arme il re di essa venutogli incontro 
con forz^ poderosa, 

XXXIV. Cosi prendendo e* comandando la città che 
gli consegnasse le armi , e togliendosene per ostaggio , 
que’ gioviui che più volle; marciò contro gli Antemnati. 
Rendutosj colla subita incursione padrone delle milizie 
di questi , sbandate ancora a far preda , come crasi pa- 
drone renduto delle precedenti , e trattati i vinti nella 
maniera medesima; ricondusse a casa l'esercito, recando 
le spoglie degli oppressi in battaglia, e le pripiizie delle 
prede ai Numi i quali onorò con assai sagriSzj. Andava-, 
massimo della pompa egli stesso in veste di porpora , 
e coronato di alloro le tempie, ma su di una qua- 
driga (i) per serbare la dignità di monarca. Seguivano 

(i) Plutarco scrive c>;e Dipoigi uon dice bene quando afferma che 
Romolo veniva su di un carro. FwyueAer it vac piia-tt 

Aisrue-rur. Tito Livio scrive che Roipolo spo- 
lia ducis hostiunt cacti tuspensa , fabrieato ad id apté ferculo , ge- 
rent , i/t capholium asce/idit. Il Casaubono pensa che Dionigi per 
la non piena peiizia delia lingua latiua interpretasse quel ferculum 
di ^vio, dal quale derivava tali racconti, per cocchio;' quando eia 



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LIBRO ir. ' i63 

le milizie de’ fanti e de’ cavalieri, ornate secondo i loro 
gradi , magnifìcando gl’ Iddii colle patrie canzoni , ed 
il capitano con gli slanci di versi improvvisi. Quelli della 
citii recatisi loro incontro colie mogli e co’ figli, e schie- 
rai isi quinci e quindi per le vie si congraiulavano con 
essi per la vittoria, e davano ogni altro segno di ami- 
^ cizia. Entrata la truppa in città trovò crateri spumanti 
di vino e mense colme di ogni varieià di cibi appiè 
delle case più riguardev.oli pei’chè a piacere vi sì saziasse. 
Cosi andava con trofei e sagrifizj la pompa della vit- 
toria istituita la prima volta da Koniolo , e chiamata dai 
Romani trionfo : ma ora, trascendendo ogni antica sem- 
plicità , spiegasi magnifica e clamorosa come in tragico 
rito , anzi per gala di ricchezze che in prova di virtù. 
Dopo la pompa e dopo i sagrificj Romolo edificò su 
le cime del cimpidoglio un tempio a Giove detto Fé-, 
retilo da’ Romani : Non era grande il sàiito edificio ; 
apparendone ancora i primi vestigi, e vedendosene! iati 
maggiori meno lunghi <li quindici piedi. Qui dedicò le 
spoglie del re de’ Ceuinesi morto per le sue mani. Non 
declinerà |>oi dal vero chi voglia questo (jiove Feretrio 
a cui Romolo offerse le anni , chiamarlo il Dio che 
tiene i trofei , o che porge come altri dicono , le spo- 
glie de’ nemici , o il Dio preeminente , perché supera 
ed abbraccia tutta intorno la natura ed il movimento 
degli Esseri. 

piutlo.s(o come iuterprela Plulaico ciocché ni direbbe trnfeo. Lo 
stesso Plutarco ìoscgiia che Lucio Taripiaio Piiscu fu il (irinio che 
tiiuufasse sul cairu. 



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i64 DELLE Antichità’ romane 
XXXV. Poiché Romolo ebbe tributalo agl’ Iddìi le 
primizie ed i sagrifìzj di ringraziamento , deliberò, pri- 
ma di far al irò , col senato, com’erano da trattarsi le 
città debellate ; ed esso il primo ne dichiarò la sentenza 
che ottima riputava. E piaciuta questa come la più si- 
cura e la più luminosa a quanti erano in quel consesso, 
ed encomiatone pe’ vantaggi che a Roma ne risultavano 
non pur di presente , ma in ogni avvenire; comandò 
che venissero a lui le donne di Cenina e di Antemna 
cadute prigioniere con altre. Riunitesi sconsolaté^, e pro- 
stratesi , e piangendo esse la sorte della patria; accennò 
che frenassero i pianti e tacessero e poi disse: hen do- 
vrebbero i vostri padri , i vostri fratelli , e le intere 
vostre città subire ogni male , perchè scelsero anzi che 
r amicizia la guerra , e guerra non necessaria nè one- 
sta. Nondimeno abbiamo noi deliberato di essere cle- 
menti con essi per molle cagioni, e perchè appren- 
diamo la vendetta de' Numi , pronta contro i superbi, 
e perchè temiamo la indignazione degli uomini, e 
perchè giudichiamo essere la compassione compenso 
non lieve de' mali comuni , noi che già la dimanda- 
vamo dagt altri : e finalmente perchè pensiamo che 
ciò non sarà caro e grazioso poco per voi , congiunte 
finquì co' vostri mariti senza che possano querelar- 
sene. Condoniamo questo delitto , nè togliamo a’ vo- 
stri cittadini non la libertà , non i poderi , non altro 
bene qualunque. Lasciamo noi dunque ( nè già se ne 
avranno a pentire) lasciamo libera a tutti la scelta 
di rimanere in patria se il vogliono , o di traslatar- 
sene. Ala perchè niente pià faccia abberrare le vostre 



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LIBRO II. 1 65 

città, perchè niente più trovisi in esse che possa ri- 
dividerle dcdla nostra amicizia’, rìputianio espedientis- 
simo e saluberrimo per la concordia e sicurezza di 
ambedue se le rendiamo colonie di Roma , e se da 
Roma vi mandiamo abitanti che bastino. Àndcde : 
statevi di buon animo : moltiplicatevi nelt ossequio e 
nella benevolenza de’ vostri mariti; tra’l dolce senti- 
mento che liberi per voi sono i vostri figli , liberi i 
vostri fratelli, libere le patrie vostre finalmente. Ti-i- 
pudiando in udir questo le donne e lagrimando viva^ 
niente di gioja partirono dal Foro. Romolo mandò in 
ciascuna città trecento uomini e le città cederono ad 
essi , dividendolo a sorte , il terzo de’ loro terreni. 

In opposito menò in Roma quanti Antemnati e Ce- 
ninesi vollero trasferirvisi , e raeuovveli colle mogli e 
co’ figli mentre ritenevano in que’ luoghi i campi ad 
essi toccati , e portavano seco il danaro che possede- 
vano. Li descrisse il re ben tosto nelle curie e nelle 
tribù ; nè furono men di tre mila : tanto che ne’ cata-^ 
loghi romani si numerarono allora la prima volta sei 
mila fanti. Genina ed Antemna città non ignobili avean 
greco lignaggio : imperocché tolte ai Sicoli caddero in 
potere degli Aborigeni , i quali erano una parte degli 
Oeijoirj , venuti già dall’ Arcadia , come nel primo li- 
bro fu detto, ma ora finita la guerra divennero colonie 
romane. 

XXXVI. Romolo dopo ciò condusse Tesercito incon- 
tro de’ Crustumerini , apparecchiati meglio che i primi : 
e vintili, quautiinque stati fortissimi (i), nella battaglia 

(i) Qui Dionigi è contrario a Livio il qnale scrive:' Poi t’in- 



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i66 DKLLE Antichità’ romane 
\ in campo e su’ muri, non volle che patissero più oltre; 

ma fece della città , come delie altre una colonia ro- 
mana. Era Cruslumero colonia degli Albani speditavi 
mollo tempo innanzi di Roma. Divulgando la fama in 
molte città la fortezza militare del capitano e la cle- 
menza in verso de’ vinti; si congiunsero ad esso ancora 
non pochi valentuomini ; i quali con tutte le famiglie 
a lui trasferendosi, gli recarono forze non dispregevoll. 
Ed uno de’ colli di Roma ancora chiamasi Celio , da 
Celio che uno fu di que’capi venuti dalla Etruria. Anzi 
a lui si diedero Intere città, cominciando dalla città dei 
Medullini , le quali divennero colonie romane. I Sabini 
al veder ciò se ne conturbarono, accusandosi a vicenda 
che non avessero messo iiu argine alla monarchia dei 
Romani in sul nascere, o che si avessero a brigare con 
lei fatta già grande. Nondimeno parve ad essi che fosse 
da correggere il primo errore collo spedire un esercito 
rispettabile. E riunitisi a congresso In Curi la più co- 
spicua e la più imponente delle loro città , vi decisero 
co’ loro voti la guerra ; creaudone generalissimo Tito 
Tazio re dei Cureli. Deliberato ciò ripatiiaronsl e pre- 
pararono i Sabini la guerra per marciate In su la nuova 
stagione con esercito poderoso contra Roma. 

XXXVIL Intanto Romolo si apparecchiò fortlsslma- 
mente onde jìsosplugere uomini fiorentissimi in arme. 
Elevando le mura del Palatino e torrioni più alti di 



camminò contro de* Crustomenesi g i quali portavano la guerra z 
ftia qui ci ebbe men di contrasto perchè già gli animi erano abbaia 
tuli per le sconfitte degli altri» 



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LIBRO II. 1 67 

esse perché dentro vi si stessè con sicurezza , e circon- 
dando con fossi e irincere 1’ Avventino , ed il Campi- 
doglio che ora chiamano, colli ambedue dirimpetto dei 
primo, e presidiandone l’uno e l’altro con salda guar- 
nigione; ordinò che nella notte vi si riparassero e greg- 
gio e villani. Munì similmente con fossi e palizzate , e 
guardie ogni altro luogo opportuno per la loro sal- 
vezza. Intanto Lucumone , divenuto amico suo non 
molto di prima , Lucumone uomo operoso ed insigne 
nelle arme , venne a lui con buon sussidio di Toscani 
da Vetulonia ; e vennero pure da Albano in copia , 
( e mandavagli 1’ avo materno ) combattitori . commis- 
sari, arteBci di militari stromenti. Diè loro frumento ed 
arme e quanto facea di mestieri, e largamente ne diede 
per ogni vicenda. Poiché furono apparecchiati ambedue 
per r impresa , i Sabini al sorgere della primavera , 
ornai sul pnnto di cavar le milizie , deliberarono di 
spedire , e spedirono prima a’ nemici un ambasceria la 
quale esigesse le donne e la soddisfazione della rapinà 
di esse ; perchè se ’l giusto non ottenevano , apparisse 
che spinti dalla necessità davano alle arme. Romolo 
pregò in opposito che si permettesse alle donne rima- 
nersene con quelli a’ quali si erano maritate giacché re- 
stie non ci convivevano: che se abbisognavano di altra 
cosa, volessero da lui riceverla come da un amico, non 
lo investissero colla guerra. I Sabini non contentati in 
alcuna dimanda menarono in campo venticinque mila 
pedoni e quasi mille cavalli. Non molto differiva dalla 
milizia sabina la romana ; numerosa di ventimila fanti , 
e di ottocenfp cavalieri , ed accampatasi divisa in due 



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l68 DELLE antichità’ EOMANE 

parli dinanzi la città , teneva con una parte il colle 
Esquilino sotto gli auspicj di Romolo, e con l’altra il 
Quirinale ( che allora non avea questo nome ) , e Lu- 
cumone il Tin'eiio erane il capitano. 

XXXV IH. Al conoscere tali disposizioni Tazio re 
dei Sabini levandosi di notte , traversò coll’ esercito la 
campagna , non già per danneggiarla , ina per mettersi 
prima del nascer del sole in sul campo tra ’l Quirinale 
ed il Campidoglio. Ma vedendo che tutto era custodito 
dalle guardie vigili de’ nemici, e che non ci avea luogo 
sicuro per lui , cadde in gravi dubitazioni senza rinve- 
nire intanto come avea da usare quel tempo. Fra tante 
dubitazioni sorsegli una prosperità non pensata ; essen- 
dogli consegnato un de’ luoghi fortissimi con questo 
successo. Rigirandosi appiè del colle Capitolino i Sabini 
per esplorare se ci avea parte niuua , donde potesse 
espugnarsi con sorpresa , o di forza ; videli dall’ alto 
Tarpeja , una vergine cosi nominata , figlia del valente 
uomo al quale era la cura hdata di que’ luoghi : s’ in- 
vaghì la donzella , come scrive Fabio e Ciucio , dei 
braccialetti che que’ Sabini s’ aveano intorno la sinistra , 
e s’ invaghì degli anelli. Brillavano allora di oro i Sa- 
bini, molli nommen che i Tirreni nel vivere. Ma Lucio 
pisone il censore narra che la fanciulla ciò fece sul bel 
desiderio di esporre ai cittadini i nemici , nudi delle 
arme colle quali si difendevano. Ben può da quel che 
siegue raccogliersi qual sia di queste due cose la più 
verisimile. Mandando fuora una serva per una tal por- 
ticina che niun si avvide che fosse aperta, fe’ richiedere 
il monarca Sabino che venisse a lei senza compagni per 



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. LIBRO II. 169 

nn colloquio ; ed essa parlerebbegli di cosa grande e 
necessaria. Accettò Tazio l’ invito su la speranza di un 
tradimento , e recatosi al luogo additatogli , e venutavi 
( che ben lo potè ) la donzella , disse che il padre suo 
quella notte si era allontanato per un tal bisogno dalla 
fortezza , e che le chiavi delle portò erano presso di 
lei : consegnerebbele se a lei venissero quella notte , e 
se in premio della consegna le si dessero quelle fulgide 
cose che ì Sabini portavano tutti nella sinistra. Piacque 
a Tazio 11 partito, e contraccambiatasi ambedue la pro- 
messa con giuramento di non illudersi ne’ patti ; la ver- 
gine distinse la parte per la quale avrebbero a venire 
a quel fortissimo luogo , e distinse 1’ ora della notte in 
che meno s' invigila ; e poi ritornossene , nè quelli che 
eran dentro ne seppero. 

XXXIX. Concordano Gn qui ma non già nel resto 
gli storici romani. Pisone il censorino del quale abbiam 
detto di sopra scrive che Tarpeja spedì quella notte un 
messaggiero che signiGcasse a Romolo gli accordi fatti 
tra i Sabini e tra lei ; e come ella esigerebbe le arme 
difensive di essi , deludendoli coll’ ambiguità de’ trattati : 
egli dunque mandasse altra milizia nella fortezza , e vi 
sorprenderebbe i nemici col capitano spogliati di arme. 
Aggiunge però che il messaggero fuggendosi presso il 
re de’ Sabini gii accusasse i disegni di Tarpeja. Ma nè 
F abio nè Cincio dicono che ciò avvenisse , e sostengono 
che la donzella mantenesse i patti del tradimento. Dopo 
ciò continuano tutti la storia con slmiglianza. Imper- 
ciocché narrano che avvicinatosi il re dei Sabini col Gor 
dell’ esercito colei per adempiere le promesse aprisse 



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j ']0 DELLE Antichità’ romane 
a’ nemici la piccola porla concordata , e che destate le 
guardie del luogo le stimolasse a scampare sollecita- 
mente per tragitti ignoti ai Sabini che ornai possedeano 
la fortezza. Narrano inoltre che i Sabini al fuggire di 
quelli, trovatene le porte aperte, occupassero la fortezza 
abbandonata ; e che la donna avendo prestato i servigi 
pattuiti , ne chiedesse il premio secondo i giuramenti. 

XL. Dopo ciò scrive Pisene che essendo i Sabini 
pronti di dare l’oro di che riluceano ne’bracci sinistri; 
Tarpeja la donzella ue pretendesse non i fregi ma gli 
scudi : che Tazio andasse in collera per l’inganno, ma 
pur si guardasse dal violare i trattati : che era a lui 
sembrato perciò che si dessero alla vergine le arme ri- 
chieste ma per modo , che ricevutele non potesse va- 
lersene : che ben tosto dunque , comandando di essere 
imitato dagli altri , lanciasse lo scudo con quanta avea 
forza contro Tarpeja : la quale investita d’ ogn’ intorno 
e sopraffatta da tanti colpi e si gravi succumbè sotto 
delia tempesta. Ma Fabio ascrive a’ Sabini la frodolenza 
su’ trattati. Perocché dovendo secondo i patti dare a 
Tarpeja le auree cose che dimandava , rattristatine per 
la grandezza di esse , scagliarono su lei le arme colle 
quali si difendevano , quasi scagliar le medesime fosse 
un darle come aveano promesso quanto giurarono. Se 
non che sembra che i fatti consecutivi rendano più ve- 
risimile il giudizio ultimo di Pisone. Certamente fu la 
giovine, dove cadde, onorata di tomba , e la tomba sta 
nel più augusto de’ sette colli , e Roma ivi le replica 
ogni anno sacre libagioni. Io dico ciocché scrive Pisone. 
Cioè se ella fosse morta tradendo la sua patria non 



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LIBRO II. I 7 I 

avrebbe ottenuto niuno di questi due onori nè da quelli 
che ne erano traditi , nè da quelli che ne furono gli 
uccisori : anzi se avanzo mai v’ era del tuo cadavere 
sarebbe stato poi disotterralo e gittato per atternre i 
posteri , e respingerli da simili operazioni. 

XLI. Tazio e li Sabini impadronitisi di quella for- 
tezza , e pigliato senza disagi il più degli appareccbj 
de* Romani , facevano ornai la guerra da luogo sicuro. 
Cosi tenendosi dunque ambedue le armate dirimpetto 
a piccola distanza fra di loro , molti erano in molte 
occasioni li tentativi e gli attacchi senza grandi risultati 
di danno o di utile per ninna delle parti. Due furono 
le battaglie più rilevanti date con tutte le milizie , 
schierate 1’ una contro l’ altra; e grande ne fu la strage 
vicendevole. Ma tirandosi in lungo , ambedue li re con- 
corsero nel sentimento di venire a decisiva giornata. E 
recatisi nello spazio intermedio ai due accampamenti i 
capitani migliori nelle armi ed i soldati già sperimentati 
in mille cimenti fecero memorabili prove dando e ri- 
battendo gli assalti , e traendosene e rimettendovisi 
ugualmente. Coloro i quali contemplavano da luogo 
munito la equilibrata battaglia, e che d’ora in ora pie- 
gava dall’ una o dall’ altra parte , incitando , ed accla- 
mando incoraggivano chi vi si distingueva ; o con pre- 
ghiere e pianti richiamavano chi vacillava o lasciavasi 
ornai sopraffare , perchè vile sempre non rimanesse. 
Dond’ è che gli uni e gli altri erano necessitati a so- 
stenere travagli , maggiori delle forze . Cosi tenuta 
avendo la battaglia nel giorno con sorte eguale ; alfine 
essendo già notte si ravviarono lieti ai proprj alloggia- 
menti. 



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172 DELLE Antichità’ romane 
XLH. Ne’ di seguenti dando sepoltura ai morti rista- 
bilirono i feriti , e procurarono insieme altre forze. 
Poiché parve loro di farsi nuovamente alle mani , tor- 
nati jiel luogo medesimo vi combatterono fino alla 
notte. Prevalsero i Romani in ambe le ale; reggendone 
Romolo stesso la destra , e Lucumone il tirreno la si- 
nistra. Ma restando dubbia ancora nei centro la sorte 
delle armi ; Mezio , cognominato il Curzio, uomo me- 
raviglioso per le forze del corpo , magnanimo nelle 
arme , e chiaro soprattutto perchè noa turbavasi a pe- 
ricoli o terrori , impedì la disfatta totale de’ Sabini e 
portò di nuovo contro de’ vincitori le schiere che sor- 
vanzavano. Costui messo a dirigere 1’ armata del centro 
avea già vinto i nemici che gli stavano a fronte. Vo- 
lendo poi ripristinare lo stato delle ale sabine ornai 
sbattute , e presso a dar volta , esortandovi la sua mi- 
lizia si mise ad inseguire i nemici che fuggivano sban- 
dati da lui, cacciandoli fino alle porte, cosicché Romolo 
fu costretto a lasciare imperfetta la sua vittoria , e ri- 
volgersi ad accorrere contro la parte de’ nemici che era 
vincitrice. Cosi quel corpo de’Sabini il quale pericolava 
si riebbe j allontanaudosegli Romolo colla sua gente : e 
tutto il nembo si raccolse inverso di Curzio e de’ suoi 
che erano già vittoriosi, e questi tenendo fronte per un 
tempo ai Romani combatterono luminosamente. Ma poi 
rovesciandosi troppi su loro ; piegarono e rìpararousi 
negli alloggiamenti , assai contribuendo Curzio alio 
scampo col ritirarli grado a grado , non col fargli in- 
seguire in disordine. Egli flesso arrestavasi in arme , e. 
facea fi'onte a Romolo che lo investiva. E grande e 



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LIBRO II. 1^3 

bella a vedere fu la gara de’ capitani che si attaccavano. 
Alfine essendo già Cur/io ferito, già esausto di sangue, 
riucnlava poco a poco , quando eccogli addietro una 
palude profonda ; difficile da girarla intorno , perchè 
cinta da’ nemici , e dilficilissima da traversarla per lo 
fango che ammassavasene alle sponde , e per le acque , 
che altissime vi erano in mezzo. Inoltratosi dunque vi 
si lanciò con tutte le arme. E Romolo sul pensiero che 
colui quanto prima perirebbe nella palude non poten- 
dovisi perseguitare pel fango e per le molte acque ; si 
rivolse contro degli altri. Ma Curzio dopo molti e lun> 
ghi stenti emerse finalmente còlle arme dalla palude , 
e fu portato a’proprj alloggiamenti. Rimanea la palude 
nel mezzo quasi del foro romano , e lago chiamasi di 
Curzio dalia vicenda ; ma ora è tutta ricoperta dalla 
terra. 

XLIII. Romolo inseguendo gli altri avvicinasi al Cam- 
pidoglio. Spaziava nella speranza di rivendicarselo : ma 
travagliato da molte ferite, e più da un colpo di pietra 
lanciatogli dall’alto nelle tempia fu preso ornai semivivo 
da’ compagni , e riportato dentro le mura. Sbigottirono 
i Romani più non vedendo il capitano, e dicdesi l’ala 
destra alla fuga. Sostenevasi ancora la sinistra diretta da 
Lucumone , uomo chiarissimo nelle arme , e segnalatosi 
per molte e belle imprese in tal guerra. Ma nemmeno 
questa più resse alfine ; quando colpito in un fianco 
da'Sabini cadde pur Lucumone rifinito di forze. Allora 
la fuga fu universale. I Sabini imbaldanziti gl’ incalza- 
vano verso le mura: se non che giungendo alle porte 
pe furono respinti , sboccandone contro loro i giovani 



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i'^4 DELLE Antichità’ romane 
a’ quali aveva il re dato in guardia le mura. Ed a(Yrct- 
taiidosi quanto potè per soccorrerli Romolo stesso, ria- 
vutosi già dalla percossa ; la sorte assai ne variò della 
battaglia. Imperocché li fuggitivi mirando iuaspettata- 
ineute il sovrano , risorti dalla paura , si riordinarono , 
uè più s’ indugiarono a volar su’ nemici. Questi che 
aveano finora pressato i Romani e concluso non esservi 
schermo , che impedisse di prendere la loro città culla 
forza ; non si tosto videro il cambiamento inopinato e* 
repentino , pensarono come scampare sè stessi. Il ritorno 
al campo era precipitoso per essi , inseguiti dall' alto , 
e per istrada profonda. Quindi grande fu la strage loro 
in questa ritirala. Cosi pugnato avendo quel gioruo da 
pari a pari , ma involgendosi ambedue tra casi inaspet- 
tati ; alfine ornai tramontando il sole , si divisero. 

XLIV. Ne’ di seguenti consultarono i Sabini se aves- 
sono a ricondurre in patria l’esercito devastando intanto 
il più che poteano le campagne nemiche , o se di là 
ne chiamassero un altro , ivi trattenendosi cd insistendo 
fiuchè dessero buon fine alla guerra. Ben era misera 
cosa per essi partire, donde mauifeslcrebbcsi la infamia 
che niente aveano conseguilo; ed era misera cosa noni- 
meno il rimanersi non riuscendo loro disegno alcuno 
come speravano. Concepivano poi, che venire a trattali 
co’ nemici, unica maniera conveniente a levarsi di gueiv 
ra , gioverebbe anzi a’ Romani che a loro. Tuttavia uon 
meno , anzi assai più che i Sabini , erano i Romani 
caduti in gran dubbio intorno le cose da fare. Imperoc- 
ché nè volevano rendere nè riteuere le donne ; riputando 
la prima cosa un seguito di uua [lerdila mauilcsta , cd 



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LIBBO n. 175 

un preludio di aversi nccessariamenle a sottomeltere an- 
che ad altri coaiaudi : ma 1’ altra cosa presentava molli 
e gravi mali , distrutte le patrie campagne , e la gio> 
ventò più florida trucidata. Se faceansi a trattar coi 
Sabini , parca loro che questi non ser berebbero alcuna 
misura , per molte cagioni e principalmente perchè i 
superbi insolentiscono non condiscendono col nemico 
che volgesi agli ossequj. 

XLV. Mentre ambedue cosi cogitabondi , e così di- 
sanimati dal cominciare o battaglie o discorsi di ricon- 
ciliazione dispergevano il tempo ; le mogli de’ Romani , 
quelle che erano sabine di origine, quelle per le quali 
ardeva la guerra , congregatesi ed abboccatesi fra loro 
in un luogo medesimo risolverono d’ intramettersi con 
ambi per la pace. Dava tal partito alle altre Ersilia , 
non ignobile di legnaggio tra’ Sabini. Di lei dicono che 
rapita già come vergine con altre donzelle , ora fosse 
maritala. lN|a più verisimile è chi scrive che ella si fosse 
rimasa spontaneamente colla unigenita sua , 1’ una delle 
derubate. Riunitesi a tal sentimento andarono le donne 
in Senato , ed ottenutovi di parlare , ve lo diffusero , 
chiedendo di uscir per un colloquio co’ loro parenti. 
Annunziavano che aveano molte e belle speranze di 
fiduiTe unanimi le due genti e stringerle di amicizia. 
Come udirono ciò quelli i quali consultavano col mo- 
narca assai ne furono dilettati , riputando che questo 
fosse r unico spediente in tanto inviluppo di cose. 
Adunque si decretò che quante Sabine avean Agli tante 
lasciando questi co’ mariti , avessero la potestà di an- 
darne oralrici ai lor nazionali: che quelle però le quali 



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l'jS DELLE Antichità’ romane 
eran madri di più 6gli ne recassero con sè la parte 
che più volcano , e trattassero la riconciliazione de’ po- 
poli. Uscirono dopo ciò tra lugubri vesti , e talune coi 
teneri Ggliuoletti. Giunte al campo sabino mossero col 
piangere e col prostrarsi appiè di chiunque iucontravale 
tanta compassione , che ninno de’ riguardanti potea rat- 
tenere le lagrime. E Tannatosi per esse il fior del Se- 
nato, e comandate dal re che dicessero le cagioni della 
venuta; Ersilia, autrice e guida della S])edizioue, feceiie 
una lunga e patetica sposizione , implorando che do- 
nassero pace a’ mariti appunto in grazia di esse per le 
quali dicevano intimata la guerra. Si adunassero i prin- 
cipi loro; ed essi, veduto 1’ utile puliblico, discutessero 
le condizioni ,per le quali cessassero le discordie. 

XLVI. Ciò detto caddero prostese co’ teneri figli ap- 
piè del sovrano e vi si tennero, finché quelli che erano 
presenti non le rilevarono da terra con promettere che 
farebbono quanto era onesto e possibile. Fattele uscire 
dal Senato , e consultando fra loro , si decisero per la 
pace. E prima si fece la tregua : poi riunendosi i re , 
si concordò su la pace ancora. E tali ne furono le 
convenzioni che sen giurarono. Sarebbero ambedue re 
dei Romani Romolo e Tazio con eguali poteri ed 
onori. La città serbando il nome del suo fondatore 
chiamerebbesi Roma , e romano ogni suo cittadino 
come per l’addietiv- Ma tutti insieme si chiameiiano 
generalmente Quiriti desuntone il nome dalla patria 
di Tazio. Si domicilierebbero que’ Sabini che voleano, 
in Roma , ma comunicandosi le sante cose , c pren- 
dondo luogo nello tribù c nelle curie. Giurate questo 



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LIBRO II. 177 

cose , ed eretti gli altari ove far 1’ alleanza , in mezzo 
quasi della Via 1 Sacra, si mesoolarono insieme. Poi rao* 
cogliendo ogni duce li suoi , tornarono alle proprie 
magioni. Si rimasero in Roma Tazio il monarca e con 
esso tre de’ più , riguardevoli Valerio Voleso , Tallo , 
soprannominalo il Tiranno , ed in fine Mezio Curzio , 
quegli che : avea colle armi trapassato la palude , e vi 
ebbero gli onori che i discendenti loro pur vi godcronow 
Anzi con questi si rimasero amici , consanguinei , e 
clienti , non minori di numero agli altri di Roma. 

XLVIL Mentre ordinavano queste cose parve ai so» 
vrani di raddoppiare il numero de’ patrizj per essersi la 
popolazione moltissimo arnpbata. Adunque segnando in 
X catalogo colle famiglie più nobili tanti cittadini novelli , 
quanti erano i primi , chiamarono patrizj ancor’ essi. 
Poi trascelli cento di «questi col voto delle curie gli 
connumerarono ai senatori antichi. E su ciò concordano 
presso a poco tutti gli scrittori delle cose romane : dif- 
ferisce taluno sul: numero de’ sopraggiunti : dicendo che 
non cento cui cinquanta furono gl’ inseriti al Senato. 
Non consentono però gli storici romani su F onore che 
i re concederono alle donne perchè gli aveano rioou» 
dotti aUa pace. Perocché scrivono alquanti che diedero 
ad esse distintivo grande e moltiplice non pure i prin- 
dpi, ma le curie : le quali essendo trenta , come già 
dissi , presero nome ognuna da queste , giacché trenta 
furono ancora le oratrici. Ma Terrenzio Varrone si di» 
scosta da questi in tal capo, aflermando che i nomi 
erano stati imposti -alle curie anteriormente da Romolo, 

DJOMtGI . tomo X. 



1: py ; 




i-j8 DELLE Antichità’ romane 
quando divise la prima volta il suo popolo: c die quei 
nomi furono desumi da’ capi di esse , o dalle antiche 
lor patrie. Aggiunge che le femmine andate amba- 
sciadrici non furono trenta ma cinqueceutotrentatrè : 
dond’ è che noti sia verisimile che il re concedesse ad 
alcune poche di esse quell’onore, escludendone le altre. 
A me nè tali son parute queste cose da non farne pa- 
rola , nè tali da scriverne dtra il bisogno. 

XLVIII. Ora l’ordine stesso della narrazione dimanda 
che io dica quali e donde fossero i Cureti alla città 
de’ quali apparteneva Tazio , e quei eh’ eran seco. Noi 
cosi ne sappiamo. Nel tempo che gli Aborigeni posse- 
deano 1’ agro Reatino una vergine nobilissima natia di 
que’ luoghi entrò , per danzarvi , il tempio di Enialio. 
Enialio lo chiamano Quirino i Sabini , ed , ammae- 
strati da essi , i Romani , senza che sappiano dire più 
oltre s' egli sia Marte , o tal altro , eguale a Marte in 
onore. £ li primi pensano che 1’ uno e 1’ altro nome 
dicasi del Nume arbitro delle guerre ; ma gli altri che 
sia quel doppio nome non di uno, ma di due Dei bel* 
licosi. La vergine danzando già nel tempio fu dallo 
spirito investita del Nume; e lasciale le danze si ritirò 
ne’ penetrali santi di lui , dove , come a tutti sembra , 
fecondatane , diede un fanciullo , che Modio fu detto , 
ed ebbe soprannome di Fabidio (i). Or questi, adulto 

(i) Vi è chi pensa che il Modio Fabidio sia il Afe £>iuj Fidius 
de’ fìoinaui , forinola colla quale riguardavaisi il Nume tutelare 
della fede, o pure Ercole figlio di Giove. Se ciò lesse, Diouigi 
avrebbe malameuie iuierpiaato quella formula Romana di giura- 
mento. 



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LIBRO II. 179 

feuo nella persona, ebbe forma non umana, ma divina, 
e combattè con preemiuenza di tutti i valentuomini. 
Preso poi dal desiderio di abitare una città che avesse 
la origine da lui, congregando gente io copia da luoghi 
d’intorno, eresse in tempo assai breve quella che Curi 
addimandasi , denominandola , come narrano alcuni , dal 
Nume , dal quale è &ma che egli fosse generato , e 
come altri asseriscono dall’ asta , poiché Curi chiamasi 
1* asta in. Sabina. Cosi scrive Terrenzio Yarrone. 

XLIX. Ma Zenodoto Troizinio uno scrittore del- 
l’Umbria, narra che le genti di essa furono prima abi- 
tatrici de’ campi detti Rèalini : che espulse da’ Pelasghi 
se ne vennero alla terra dove ora soggiornano , e dove 
mutato nome coi luoghi , si chiamarono Sabini per 
Umbri. Porzio Catone dice imposto tal nOme ai Sabini 
da un Nume di que’ luoghi Stoino ( 1 ) Sanco , e che 
Sanco per alcuni vai quanto Dio Fidio, Dice che fii 
domicilio primitivo di essi un villaggio nominato Te- 
strina presso la città di Amiterna ; che movendosi da 
questo inondarono i Sabini 1’ Agro ReatioQ abitato al- 



(1) Silio nel libro ottavo scrive. 

Ibant et laeti pars tanctum voce canehanl, 

Auetorem genlis , pars laudes ore ferebant , 

Sahe , Uuis , qui de patrio cognomine primus 
. Dixisli poputos magna ditione Sabinos. 

Forse dunque nel testo di Dionigi dee leggersi Sabo e non Sabino. 
Festo e Yarrone additano che Sanco tra’ Sabini siguifìca Ercole. 
Ora Plutarco nel suo Noma e Servio nel libro 8 dell’ Eneide de- 
rivano i Sabiui dagli Spartani, e gli Spartani da Ercole. Quindi 
quel Sabo Sanco non sarebbe che Ercole ; tanto più che Sanco 
'«redesi il me Diut Fiditu, c questa par furatola per additare Ercole. 



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i8o DELLE Antichità’ romane 

lora dagli Aborigeni , e da Pelasghi : e che ne otten- 
nero colla forza delle armi Colina la loro città più 
cospicua : che spedendo dal contado Reatino delle co- 
lonie fondarono altre città non poche , ove , senza cin- 
gerle di mura , si viveano ; e tra queste la città che 
Curi fu nominata : che occuparono campagne lontano 
circa dugento ottanta stadj dall’ AdrìaUco , e dugento 
quaranta dal mare Tirreno: e dice che stendeasi la lun- 
ghezza di quelle poco meno che mille stadj. Secondo 
le storie paesane intorno de’ Sabini abitavano con essi 
già dei Lacedemoni quando Licurgo tutore di Eunomo, 
nipote suo , . dava a Sparta le leggi : e questo perchè 
impazientiti alcuni dalia dura legislazione di lui , stac- 
caùsi da’ compagni abbandonarono affatto la città ; e 
corso ampio tratto di mare , e desiderosi ornai di pren- 
dere terra dovunque, si legarono per voto cogl’Iddii di 
abitare quella appunto ove imprima giungerebbero. Ve- 
nuti nell’ Italia ai campi detti Pomentini nominarono , 
dal mare che aveali portati , Feronia il luogo dove 
prima approdarono , e vi eressero un tempio alia Diva 
Feronia alla quale aveano fatto i lor voti ; e la quale 
mutatane una lettera ora Faronia si chiama. Alcuni da 
indi rimovendosi ne andarono a dimorar tra’ Sabini : e 
però spartane sono molte delle loro istituzioni , spartani 
principalmente gli amori per la guerra ; la parsimonia 
e la durezza nelle opere tutte della vita. Ma ciò basti 
su la origine de’ Sabini. 

L. Ben tosto Romolo e Tazio ampliarono la città 
congiungendole altri due colli , 1’ uno chiamato Quiri- 
nale , e Celio r altro. E ponendo separatamente le case 



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LIBRO II. 1 8 1 

viveasi ognuno nelle sedi sue. Avessi Rouiolo il monte 
Palatino ed il Celio , monte contiguo col primo. ^azÌo 
avevasi il Campidoglio , occupato già ne’ principi da 
esso , ed il Quirinale. Recisa la selva la quale spande- 
vasi appiè del Campidoglio , e ricoperta in gran parte 
di terra la palude , la quale per la concavità dei sito 
rooltiplicavasi dalle acque scese da’ monti , fecero ivi il 
foro, dei quale servonsi ancora i Romani. E là tenendo 
le adunanze, consultavano nel tempio di Vulcano, cbe 
quasi al foro sovrasta. Inalzarono i tem^q , e consacra- 
rono gli altari ai Numi , a’ quali gli aveano promessi 
co’ voti nelle battaglie. Romolo ne eresse uno a Giove 
Statore presso la porta òe Muggiti la quale mena dalla 
via sacra al Palatino , perché quel Nume esaudendo i 
voti di Romolo fe’ cbe l’ esercito suo già fuggitivo si 
arrestasse,, e si volgesse a fronte dei nimico. Tazio ne 
eresse al Sole , alla Luna , a Crono , a Rea , ' come 
pure a Vesta, a Vulcano, a Diana, ad Eniàlio ed altri 
difScili a nominarsi con greca parola. Mise in tutte le 
Curie le mense per Giunone Quirizia (i) le quali esi- 
stono ancora. Dominarono cinque anni insieme senza 
dissidio, e compierono in quel tempo con impresa co- 
mune la spedizione contro de’ Camerini. Impercioccbè 
questi mandando delle masnade assai danneggiavano loro 
il paese : e tuttoché chiamativi non erano mai comparsi 
a darne ragione. Adunque schieratisi a fronte di essi , 
e vintili in campo , e poi nell’ assalto delle mura , gli 
astrinsero a cedere le arme e la terza parte della re- 

(i) Secondo Pesto vuol dire Giunone coW atta, vedi $ 4^ prc- 
oedenle. • 



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iSa PFLLE Antichità’ romane 

gione. Continuando nondimeno i Camerini ad Infestarla 
riuscirono nel terzo giorno I re coll’ armata e li fuga- 
, rono , e ne divisero ogni cosa ai proprii soldati , con- 
cedendo solamente che quelli , se volevano , si domici- 
liassero in Roma. Quattromila quasi ve ii’ ebbero , e lì 
compartirono tra le curie. E Camaria , sorta già tanto 
tempo prima di Roma , Camaria già domicìiio famoso 
degli Aborigeni , e poscia di un ramo di Albani , fu 
ridotta colonia de’ Romani. 

• LL Tornò, nei sesto anno il comando a Romolo so- 
damente , morendo Tazio per le insidie de’ primarj tra 
Laurenlini tesegli per questa cagione. Scorsi gli amici 
di Tazio a far preda nel territorio de’ Laurenlini ne 
aveano rapito danari in copia , e menato via de’ be- 
stiami t uccidendo o ferendo chiunque presentavasi a 
rivendicarseli. Spedita quindi dagli offesi una legazione 
a reclamar la giustizia , Romolo sentenziò che gli o^ 
fensori le si consegnassero. Tazio però sollecito degli 
amici , non istimava bene che si desse alcun cittadino 
perchè si portasse in giudizio tra forestieri e nemici. 
Laonde intimò che quanti si richiamavano della ingiuria 
venissero e discutesserla ne’trihunali di Roma. Cosi non 
trovando giustizia partirono indispettiti gli ambasciadori. 
Ma datisi per isdegno alcuni Sabini a seguitarli gli 
assalirono , che dormivano tra le tende lungo la via 
sorpresivi dalla notte : e spogliatili di ogni cosa , ne 
scannarono quanti giaceansi ancora ne’ letti. Si ricon- 
dussero alia loro città quauti si avvidero a tempo dei- 
r insidie e fuggirono. Dopo ciò venendo ambasciadori 
da Laurento e da molte città si dolsero su’ diritti vio- 
lati, ed intimarono la guerra, se non erano compensati. 




LITtP.O IT. l83 

LII. Sembrava a Romolo , com’ era , terribile 1’ ol- 
traggio d(^li ambasdadori e degno di una subita espia- 
zione , es:;endosi profanata una legge santa. E vedendo 
che Tazio tcneane picciolo conto , egli senza più indu- 
gio presi e legati i complici, li diede agli ambasciadori \ < 
da menarseli. Infuriò Tazio sull’ affronto ond’ era vili- 
peso dal collega nella consegna, e compassionò la sorte 
dei deportati , avendoci pure alcuno de’ parenti suoi 
tra’ complici. E volando colle sue milizie li ritolse. An- 
dato però , come dicono alcuni , dopo non molto in- 
sieme con Romolo a Laurento per fare de’sagrifìzj che 
i re doveano porgervi agl’^Mdii palrj per la loro città , 
si levarono contra lui parenti ed amici degli ambascia- 
tori uccisi ; e traGtlo con grandi coltella e gran spiedi 
cadde appiè degli altari. Ma Licinio scrive che non era 
ivi andato con Romolo , nè per sagrifìcan’i , ma egli 
solo , e per indurre gli offesi a condonare la ingiuria 
agli autori di essa : che infieritasi la moltitudine perchè 
anzi non se le abbandonavano questi nelle mani , come 
avea sentenziato Romolo ed il Senato ; e scagliatisi in 
folla su di esso gli attinenti degli uccisi , egli non po- 
tendo più ritogliersi a loro , morì sotto un nembo di 
sassi. Tale fu la fine di Tazio dopo che. aveva guer- 
reggiato tre auni contro Romolo , e ue aveva regnato 
cinque con e.sso. Ri[>ortato a Roma ebbe magnifica se- 
poltura , e la città gii rinnova ogni anno pubblici sa- 
grifizj. 

LUI, Romolo trovandosi un’ altra volta solo nel prin- 
cipato purificò la infamia commessa contro gli amba- 
sciatori pubblicandone privi dell’ ncque e del fuoco gli 



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i84 DELLE Antichità’ romane 
autori , faggitt già tutti da Roma al primo udire la 
morte di Tazio. In opposito essendogli conseguati da 
Laurento <piéi‘ che insorsero contro Tazio , egli sotto- 
messegli al suo tribunale , gli rilasciò come non colpe- 
voli , sembrandogli giustiGcati quando dicevano che 
aveaoo la violenza levato colla violenza. Fatto ciò guidò 
r esercito contia Fidene città lontana cinque miglia da 
Roma (i) e grande allora e popolosa. Imperocché por* 
taodosi in barche fluviali spedite da Crustumerini vet- 
tovaglia a Roma oppressa dalla fame : i Fidenati eleva- 
tisi in folla , avevano investito i legni , predato i viveri , 
e spenti alquanti di quelli che resisterono ; e richiesti 
di un compenso non ubbidirono. Corucciatone Romolo 
si gettò con assai mìKaie sul territorio nemico, e fattavi 
preda copiosa ' era ornai sul ritirarsene ; quando soprav- 
venendo i Fidenati vi attaccò la battaglia. Divenuta- 
questa vivissima e cadendone molti da ambe le parti ^ 
sopraffatti i Fidenati si diedero alla fuga. Romslo im- 
mantinente inseguendoli entrò co’ fuggitivi le mura. 
Prese in quell’ impeto la città , < castigativi alquanti , e 
presidiatala con trecento ; ne smembrò le campagne , e 
tra’ suoi le compartì. Divenne allora colonia de’ Romani 
andie Fidene. Era questa già colonia degli Albani t 
fondata ne’ tempi di Nomento e Crustnmei’o , essendo 
tre fratelli i capi delle colonie; Fidene ebbe il suo fon- 
datore nel primogenito. 

(I) Foori della porta Salaria : E presso del Tevere come dice nel 
$ 55 , seguente , di là dall’ Aniene , come s’ intende dal § usi del 
libro terso , propriamente dove 1’ Aniene imbocca nel Tevere come 
è chiaro dal $ 55 dello stesso libro terso. 



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Mimo II. 1 85 

LIV. Portò dopo questa la guerra a'Camarini, insorti 
su’ coloni di Ini quando Roma era premuta dalla peste. 
Inanimili da questa i Camarini , e speranzati che la genìa 
romana vi si stmggerebbe , trucidarono, o bandiremo i 
loro coloni. Accorso Romolo per vendicarsene , vinta per 
la seconda volta la città, vi uccise i colpevoli della ri- 
volta ; concedendo che i suoi vi saccheggiassero : e tol- 
tole metà del territorio , non compreso quello già dato 
in sorte ai coloni, e lasciatavi a precludervi novi tu- 
multi , sufficienza di guernigione ; ritirò l’armata dall’im- 
presa. E trionfandone per la seconda volta , offerì della 
preda una quadriga di rame a Vulcano. E presso que- 
sta collocò la statua di sé medesimo; iscrivendovi con 
greche lettere le gesta sue. Ebbe la terza guerra con la 
città, Vejo denominata, potentissima fra’Tirreni , e lon- 
tana intorno a cento stadj da Roma. Sorgea quella da 
balza altissima e straripevole , pari in grandezza a Fi- 
dene (i). Colsero que’di Vejo la occasion della guerra 
dalla presa di Fidene: e spedendo ambasciadori , inti- 
marono a’ Romani che ne ritirassero la guernigione , e 
rendessero agli antichi padroni il territorio che si ritene- 
vano , spogliatine i Fidenati. Ma non potendo indurveli, 
andati con forte milizia , accamparonsi in luogo inosser- 
vato presso Fidene. Ma saputane antecedentemente la 
spedizione , Romolo accorso con armata potentissima te- 

(i) Nel testo si lej;ge Atene per Fidene. Ma Cluverio nel i. a. c. 3 
Ital. Antiq. prova che ciò non può stare a che debba dire Fidene. 
Cluverio sembra ragionevole : ma Dionigi scrivea pe’ Greci , e che 
sapeauo i Greci di Fidene e della grandezza di essa ? Nondimeno ci 
è paruio meglio attenersi a Cluverio. 



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i86 DELLE Antichità’ romane 
nevosi pronto in Fidenr. Poiché gli uni e gli altri fu- 
rono apparecchiati per combattere uscirono in campo, 
e si cimentarono. Arse lungo tempo vivissima la batta- 
glia ; quando sopravvenendo la notte li separò, non di- 
suguali gli uni dagli altri. Cosi andò quel primo conflitto. 

LV. Occorse indi a poco la seconda battaglia , ma i 
Romani vi ebl>ero la vittoria per saviezza del capitano, 
il quale occupato di notte un monte non molto lontano 
da’ nemici teneavi in agguato il fiore de’cavalieri , e dei 
fanti , giuntigli ultimamente da Roma. Tornati in campo 
ambedue per combattervi come prima , non si tosto diè 
Romolo il segno convenuto a quelli del monte , corsero 
schiamazzando dalle insidie alle spalle de' Vejentani : e 
piombando essi , freschi ancora su uomini stanchi , non 
durarono lunga fatica a travolgerli. Pochi ne morirono 
in campo ; ma molti piò nellt; acque del Tevere , il qual 
fiume scorre presso Fidene, lanciativisi per iscampare 
nuotandovi. Perocché parte per le ferite e la stanchezza 
non resse a compiere il transito , e parte per la impe- 
rizia del nuoto e la confusione dell’ animo in vista dei 
pericoli soccombè tra’ vortici non preveduti. Se i Vejen- 
tani avessero ponderato seco stessi , quanto furono scon- 
sigliati la prima volta , e se avessero dall’ora in poi cei^ 
cato la calma , non sarebbero incorsi in disastri , più 
gravi ancora. Ma sjierando di riaversi de’ mali passati , 
e pensando che vincerebbero di leggeri , se uscissero con 
apparato maggiore ; bentosto arrolate milizie in copia dalla 
città loro , e procuratene presso de’ nazionali secondo i 
trattati di amicizia , marciarono per la seconda volta con- 
tro de’ Romani. Si combattè di nuovo ferocemente presso 



piiuii. iiy Ci( •• 




LIBBO II. ' 187 

Fidene ; e di nuovo i Bonnani vi superarono i Yejenti, 
e ve ne uccisero, e più ancora ve ne imprigionarono. 
F 11 invasa la loro trincierà piena di danari , di arme, di 
S( biavi: furono prese le barche lluviali cariche di vetto- 
vaglia copiosa e con queste per lo fiume trasportati in 
Roma li prigionieri. Fu questo il terao trionfo di Romo- 
lo ma più brillante assai de’precedcnti. Venne dopo non 
molto un' ambasceria de’ Vejenli per chetare la guerra 
e chiedere perdono de’ mancamenti , e Romolo ne se- 
condò le istanze imponendo : che cedessero i terreni 
contigui al Tevere nominati Setlepagi : che non si ac- 
costassero alle saline presso le bocche del Jiume : e 
che dessero cinquanta ostaggi in pegno , che non fa- 
rebbero innovamenti. Si rimisero i Vejeiiti alle leggi: e 
Romolo fece tregua con essi per cento anni , e ne 
scolpi su più colonne le condizioni. Rilasciò senza com- 
penso i prigionieri vogliosi di andarsene ; ma rendè cit- 
tadini di Roma quanti pregiarono di rimanersene, ed 
erano più numerosi degli altri , e li comparti fra le cu- 
rie , e diè loro in sorte le campagne di qua del Tevere. 
. LVI. Quest» furono le guerre di Romolo degne di 
stima e di ricordanza : e parmi , che se egli non sotto- 
mise ancora altri popoli vicini , ne fosse cagione la fine 
prematura di lui , quando era florido ancora per le armi. 
Di questa fine varj e molli ne sono i racconti. Coloro 
.che più ne favoleggiano dicono , che intanto che arin- 
gava le milizie , abbujatosi l’ aere sereno , e fattasi pro- 
cella terrìbile , Romolo diventasse invisibile , e che Marte 
il suo genitore in alto se lo rapisse. Ma chi scrive cose 
più vcrisimili dice che da’ suoi cittadini fu morto ; e 



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i88 DELLE Antichità’ romane 
dice elle gliene fu cagione 1’ aver egli restituito senza il 
voto del popolo , contro la consuetudine , gli osti^gi 
presi gii da' Vedenti ; il non serbare la eguaglianza tra 
i cittadini antichi e novelli , ponendo i primi in altis- 
simo onore, e trascurando gli ultimi: e Gnalmente Tin- 
crudelire nelle pene dei delitti , e lo insuperbire. Impe- 
rocché sentenziando , solo , da sé comandò che fossero 
precipitati dalla rupe non pochi nè ignobili uomini, in- 
colpati di essere scorsi a predare i vicini. Ma soprat- 
tutto ,ne fu cagione , 1’ essersi ornai renduto pesante , e 
dispotico f e tiranno , anzi che principe. Per questo , 
narrano, che i patrizj, congiuratisi, ne decisero la mor- 
te, e la eseguirono nel Senato ; e che divisone in brani 
il cadavere , perclté non se ne sapesse , uscirono occul- 
tandone sotto le vesti ognuno la parte sua , che pdi 
seppellirono , onde renderle invisibili. Altri però nar- 
rano che egli aringando fosse tolto di mezzo da’ citta- 
dini nuovi di Roma ; e che m lanciassero ad ucciderlo 
quando appunto abbuiatosi il cielo, crasi il popolo di- 
leguato , ed egli rimasto senza guardia : e però dicono 
che un tal giorno tien nome da quel dissiparsi di po- 
polo , chiamandosi tuttavia fuga della moltitudine. Sem- 
bra che gli eventi ordinati da’ Numi sui concepimento 
e sul termine di quest’ uomo diano non piccola occasione 
a coloro che fanno de’ mortali un Iddio , e che ne spin- 
gono al cielo le anime più segnalate. Perocché nella 
.compressione della madre di lui sia per uno Dio , sia 
per un nomo , affermano che il soie si ecclissasse , e 
che tenebre , totali come nella notte , coprissero la terra; 
e che il simile avvenisse por nella morte. Romolo il fun- 



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LIBRO II.' 189 

datore di Roma , il primo , assunto da lei perchè la do- 
mioasse, cosi narrasi che finisse. E tutlodiè nella età di 
cioquanlactnque anni , e già monarca da trentasette non 
lasciò rampolli di sua generazione. Novello in tutto del- 
r impero de’ popoli , se lo ebbe nell’ anno suo diciotte- 
simo come unanimi lo ripetono gli storici di queste cose. 

LVII. Nell’anno seguente non si fece alcun re dei Ro- 
mani : ma vigilava su la comune un magistrato detto 
interré, costituito in questa maniera (1). I Patrìzj ascritti 
da Romolo in Senato , dugento , come dissi , di numero 
si divisero io decadi. Poi traendo le sorti diedero la 
reggenza sovrana a que’ dieci che primi erano favoriti 
dalle sorti ; non già che i dieci reggessero tutti in un 
tempo , ma successivamente ciascuno cinque giorni, nei 
quali avea con sé li fasci , e gli altri simboli del regio 
comando. Il primo cedeva il comando ai secondo, que- 
sti al terzo e cosi fino all’ ultimo. Decorso lo spazio dei 
cinquanta giorni, fisso . pe’ dieci , primi nel comandare, 
succedea la decade seconda al governo , e poi le altre 
via via. Finalmente piacque al popolo di abolire questi 
decemvirati , essendo ornai stanco da tanto trasmutarsi 
di comandanti , varj nella natura e ne’ genj. Allora dun- 
que i Senatori convocando l’ adunanza del popolo per 
tribù e per curie renderono ad esso il potere di discutere 
la forma del governo , cioè se volevano un re ; o se an- 
nui magistrati. Ed il po[K>lo non decise già esso , ma 
fece che scegliessero i Senatori , pronto di attemperarsi 



(i) Ciò fu nell’anno 713 avanti Cristo : secondo Catone nell’ an- 
no 38 e secondo Varrone nel 4 ° di Roma. 



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190 DÈLLE Antichità’ romane 
all’ ordìae che approverebbei'o. Parve a tutti di fondare 
la regia domiuasione ; ma non tutti concordavano tra i 
quali si avesse ad eleggere il futuro monarca : e chi pen- 
sava che tra vecchi e chi volea che tra’ novi Senatori 
ossia tra gli aggiunti di poi , à dovesse trascegliere il 
|>er8onaggio che regnerebbe su Roma. 

LYIII. Procedendo la disputa, si convenne finalmente 
su questi due punti : che i Senatori antichi scegliessero il 
monarca non però del ceto loro , ma qualunque altro 
ue giudicassero idoneo; o che farebbono ciò li Senatori 
novelli. Presero essi la scelta i Senatori più antichi , e 
molto consultandone stabilirono ; di non dare , giacché 
essi ne erano esclusi , il principato a niuno degli emuli, 
ma di creare monarca un personaggio cercato ed intro> 
dotto di fuori, nè aderente ad alcuno de’ due > princi- 
palmente perchè semi non ci avessero di discordie. Ciò 
deliberato , destinarono co’ voti loro , il figlio del chia- 
rissimo nomo, Pompilio Pomone , Sabino di lignaggio , 
Numa di nome , e per età prudentissimo , come non 
mollo lontano dall’ anno quarantesimo. Regia ne em 
la dignità dell’ aspetto ; e grandissima la riputazione 
per la sapienza non pur tra’ Cureti ma tra popoli 
intorno. Pertanto riuniti in questa sentenza aduna- 
rono il popolo ; e fattosi in mezzo l’ uno di loro , in- 
terré di que’ giorni , disse : che piaceva a tutti i Se- 
natori di fondare un regio governo : e che egli inca- 
ricalo di trascegliere chi lo assumesse trasceglieva in 
Numa Pompilio il monarca di Roma. Dopo ciò de- 
putando dei Patrizj ; gli spedi perchè invitaswro il va- 
lentuomo alla Reggia. E fu questo nell’ anno terzo della 



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< - LIBRO II. I9I 

olimpiade sedicesima, qaaudo viose nello stadio Pitia- 
gora spartano (1). 

LIX. Fin qui non vi è cosa da contraddirne quei che 
scrìssero la storia di Numa. Sul resto però mal saprei 
cosa dire. Imperocché molti scrissero che Numa fu di- 
scepolo di Pittagora, e che quando fu creato monarca 
egli filosofava in Crotone. Ma il secolo di Pittagora non 
si acconcia a questo discorso: perchè egli fu posteriore, 
a Numa non già di pochi anni, ma di quattro intere 
generazioni; come abbiamo raccolto dalle pubbliche sto- 
rie. E certamente, Numa s ebbe il comando di Roma 
nel mezzo della olimpiade sedicesima j laddove Pitta- 
gora fu nella Italia dopo la cinquantesima (2). Auzi che 
nelle storie sparse di un tal uomo le epoche non con- 
sentano ; ne ho pure altro^ più grave argomento , cioè : 
che quando Numa fu chiamato al comando , Crotone 
ancora non esisteva. Ella sorse quattro interi anni dopo 
che Numa fu assunto a dominare , e Miscelo ne era il 
' fondatore nell’ anno terzo della olimpiade decimaseltima. 
Pertanto nè può Numa aver filosofato con Pittagora sa- 
mio che fióri quattro generazioni dopo lui, nè quando 
i Romani lo chiamavano al trono , può essersi trovato 
tn Crotone che non era ancora edificata. Ma se mi è 
lecito dire il parer mio , sembrami che quanti hanno 

(i) An. 713 av. Cristo; 3 g secondo Catone, e 4 * Roma 
secondo Varrone. 

(a) Forse dee leggersi sessantesima' Ferchè Pittagora come scrire 
Cellio 1 . 18, c. 31 , Tcone in Italia sotto Tarquiuio Superbo e que- 
sti prese il regno Fauno quarto della olimpiade sessantesima. Laer- 
sio ancora scrive che Pittagora fiori nella olimpiade 60. Forse Dio- 
nigi prese equivoco. 



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ipa bELLE antichità’ romane 
scritto di lui prendessero due cose per indubitate la di- 
mora di Pittagora nell’ Italia , e la sapienza di Numa , 
cdebrato da tutti come uomo filosofo : e che riunendo 
insieme queste due cose facessero di Numa un discepolo 
di Pittagora non riguardando , come Io feci , se fiori- • 
rono in tèmpi medesimi. Seppure non suppongasi un 
altro Pittagora che innanzi quello di Samo , ammaestrasse 
in filosofia, e che Numa conversasse con esso. Ma non 
vedo come possa ciò dimostrarsi non essendovi , eh’ Io 
sappia , degno scrittore , nè greco , nè latino che ce ne 
abbia tramandata la storia. Ma basti su queste cose. 

LX. Numa , giunti quelli che Io chiamavano al co- 
mando, contraddisse, e resistè lungo tempo per non pren- 
derlo. Ma stimolandolo i fratelli , e riputando il padre 
che non fosse da ripudiare l’onore profertogli, si con- 
cedè per sovrano. I Romani udendo ciò dagli ambascia- 
dori concepirono vivissimo il desiderio di lui prima che 
lo mirassero presente;’ perocché riputavano grande ar- 
gomento di sapienza , che egli spregiasse come vile nè 
degno di affetto il trono , del quale altri faceano tanta 
stima , ponendo in esso quasi beata la vita. Quindi usci- 
tigli incontro mentre era ancora tra via lo accompagna- 
rono in città con lodi , con evviva , e con altre significa- 
zioni moltissime di onore. Poi fattasi l’adunanza del po- 
polo , datovi dalle trìbò il volere su lui di curia in curia, 
ratificato dai Palrizj il voto delia moltitudine , e dichia- 
rato dagli auspici propizio ogni segno ; egli prese il co- 
mando. I Romani dicono che questo re non imprese 
alcuna spedizione militare , e che menò placidamente i 
giorni del suo principato tra la pietà e la giustizia; model- 



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LIBBO II. igi3 

landò la sua città perfettissimametite. Divulgano ' di lai 
non poche meraviglie; ascrivendone la umana sapienza 
ai consigli de’ Numi : e novelleggiano che una ninfa , 
Egeria di nome , venendo a' lui di tempo in tempo , 
gl’ insegnassè la^ ragia sapienza. Altri però dicono che 
^esta non era una ninfa ma una*^ musa, e che ciò di- 
venne a tutti . visibile ; perchè narrano , che non cre- 
dendo , come sembra, ciò gli uomini da principio, e 
pensando che favoloso fosse il racconto su la Diva , egli 
volle dare agl' increduli un se^o manifesto della santa 
sua ; conversazione , ammonitovi da 'quella: che però chia* 
mando molti buoni Romani in sua casa , e mostran- 
done tenuissimo l’ interno apparecchio e povero fin dei 
cibi per una mensa improvvisa; li congedò ma coll'in- 
vito di cenare con esso nella sera: che tornati all’ora 
disegnata , presentò loro tappezzerie bellissime , e mense 
colme di nappi numerosi e brillanti, e cena per gl’in- 
vitati ' con tanta varietà d’ ogni cibo , quanta non era fa- 
cile a ninno di prepararne in gran tempo: che sorpresi 
i Romani via via dallo spettacolo confermarono da quel- 
r ora la opinione , che la Dea ne andasse a lui vera- 
mente (i). ...... 

LXL Coloro- però che separano dalla storia ogni 
favola , dicono che Numa fingesse quel racconto su di 
Egeria perchè .quelli che temono gl’Iddii gli si prestas- 
sero piu docili , e ne ricevessero più volenterosi le leggi, 

(t) Quello raecoDlo k ben freddo: ed ora molli polrebbero dire 
che la Dea scende a loro. Pluiarco narra diversamenie. Ma Dionigi 
ai alleane ad aliri storici. 

moNXGi, tomt t. a 



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Ijj4 DELLE antichità’ ROMANE 

come divine di orìgine. E dicono che ripeleue cid 
sull’ esempio de’ Greci , emulando la prudenaa di Mi- 
nosse io Creta e di Licurgo in Sparta : de’ quali il pri- 
mo fingeva di aver consorzio con Giove, e recandosi 
a quando a quando nel monte Ditteo, dove i Cretesi 
&voleggiano allevato dai Cureti Giove , bambolo ancora, 
calava in una sacra spelonca, e riuscendone colle leggi 
che ivi formava , diceale ricevute da Giove : Licurgo poi 
conducendosi a Delfo dava a credere ch’eragii insegnata 
da Febo la legislazione. Se non che vedendo io che as- 
sai tempo bisogna a discutere le storie favolose , prin- 
cipalmente le relative agl’ Iddìi; lascio di scriverne : e 
narrerò come io ne appresi dagli autori naaonali, i beai 
che i Romani derivarono dal principato del valentuomo, 
preaccennando però le turbolenze che erano in Roma , 
prima eh’ egli venisse a regnarvi. 

' LXII. Dopo la morte di Romolo essendo il Senato 
divenuto l’arbitro della comune, e dominandovi com’io 
dicea , gii da un anno ; proruppero tra padri stessi dis- 
pareri e discordie di preminenze e diritti. Quanta parte 
d avea tra loro di Albanesi , io dico di quelli che aveano ' 
menato la colonia con Romolo, ambiva la preferenza 
ne’ pareri e negli onori, e l’ossequio come di un cor- 
teggio dagli altri: affittto però non pensavano né di lasdar- 
sene escludere né di colere, i nuovi dttadini ascritti in 
ultimo tra' senatori, prìncipaimente i Sabini di origine, 
divenuti secondo il trattato fra Romolo e Tazio, egua- 
lissimi ai primi abitatori di Roma. Col divideni del Se- 
nato anche la moltitudine de’, clienti si mise con essi in 
partito. Aveanci ancora nel popolo non pochi , venuti 



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LIBRO li. 195 

di fresco ad essere i cittadini di Roma , i quali negli> 
gemati da Romolo per non essere stati con'esso in guerra 
niuna , non godevano terre , nè utile alcuno. Questi 
senza case , e vaganti per la miseria , erano di neces- 
siti nemid ai più ricchi, e vogliosi di mutamenti. Fra 
tali agitamenti fluttuava Roma quando Numa ne prese 
le redini , e su le prime ricreò la classe de* poveri , 
compartendo loro porzione delle campagne possedute da 
Romolo , ed un tal poco ancora de’ terreni dei pubbln 
co. Non togliendo quanto godeano, ai patrizj fondatori 
di ‘Roma , e concedendo ai patrizj più recenti altri onori, 
ne chetò le discordie. Proporzionata come uno stromento 
tutta la moltitudine all’ oggetto unico del pubblicò bene; 
ed ampliato il giro della città con inchiudervi II Quiri- . 
naie, colle non ancora cinto di mura , si rivolse ad al- 
tre istituzioni. E concependo che grande e beata diver- 
rebbe la città che se ne adorna ; procurava queste due 
cose : la pietà primieramente , insegnando agli uomini , 
che gl’ Iddi! sono i datori e li custodi di ogni bene alla 
mortale natura ; e poi la giustizia, dimostrando che per 
essa i beni dispensati da’ Numi arrecano delizioso godi- 
mento a chi li possiede. 

' LXni. Non reputo però che slan tutte da scrivere le 
leggi e le pratiche per le quali consegui 1’ uno e l’altro 
intento e con tanta amplitudine; perchè temo la pro- 
lissità de’ racconti , uè la vedo necessaria ad una storia 
pe’GrecI. Solo ne dirò sommariamente le cose principai 
lissime , idonee a dimostrare la mente di un tanto uoimo, 
cominciando dalle disposizioni di lui sul culto divino. 
Lasciò nel pieno vigore lé consuetudini e le leggi die 



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196 DELLE antichità’ ROMANE 

trovò fondate da Romolo , credendole benissimo istitoite: 
ne supplì quante ne erano state da lui pretermesse ; e 
diè sacri luoghi a’ Numi , non adorati ancora , c fece al- 
tari e tempj , e compartì feste per ognnnp , e ministri 
per le sante cose. Finalmente ne ordinò colle leggi la 
illibatezza, le espiazioni , le suppliche e tante altre ono- 
ri Gcenze e tanto culto ; quanto non mai ne ebbe non- 
barbara gente, nè Greca, nemmeno delle più famose un 
tempo per la pietà. Comandò che Romolo ancora , di- 
venuto più che uomo , s’ intitolasse Quirino , e si ono- 
rasse con templi e con annui sacrifizj. Perocché non sa- 
pendosi ancora come Romolo fosse sparito, se per di- 
vina provvidenza , o se per Iraude umana ; venne in 
mezzo del F oro un tal Giulio , un agricoltore della stirpe 
di Ascanio , uomo incolpabile di costumi , nè capace di 
mentire per utile alcuno. Ora costui disse che tornan- 
dosi di campagna vide Romolo che partivasi di città 
colle arme ; e che fattoglisi più da vicino gl’ intimava : 
O Giulio va , riferisci in mio nome ai Romani ; che 
il Genio che ni ebbe in sorte per custodirmi quando 
io nacqui ; questo, ora che io compiei la mortale car- 
riera , mi solleva tra Numi , e che io sorto Quirino, ^ 
LXIV. Noma stese in iscritto tutte le ordinazioni su 
le cose divine , dividendole in otto classi, quante erano 
quelle de’ sacerdoti. Diè l’ incarico primo delle funzioni 
religiose ai trenta Curioni de’ quali io diceva che coinr 
pieano i sacrifizj comuni delle curie : diè 1’ altro si Ste- 
fanofori detti da’ Greci , e Flamini dai Romani , cosi 
nominati dai portare delle berrette e delle bende ( 1 ) le 
(i) Nel usto PUot e stemma. 0 ptimo era una specie di berretta 



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LIBRO n. 197 

quali portano ancora , e le quali Flama si chiamano : 
diede il terzo ai capitani dei Celeri , soldati come addi- 
tai, che combàttono a piedi e a cavallo in guardia dei 
monarchi; e certo que’ capitani ancora fornivano divini 
ordinati esercizj : diede il quarto a quelli che interpe- 
trano i segni mandati dal cielo , e dichiarano se con- 
ceróOno private o pubbliche cose. I Romani chiamangli 
Auguri dall’ indole dei precetti dell’ arte loro , e noi 
OionopoU li chiameremmo, uomini scenziati in ogni di- 
vinazione de’ segni del cielo , dell’ aere , e della terra. 

Il quinto alle vergini , custodi del fuoco sacro, appellate 
Vestali fra loro dal nome della Diva a cui servono. 
Noma il primo fondò il tempio di Vesta , e misevi delle 
vergini che ministrassero nel culto di lei. Su che rileva 
che io dica alcune poche còse le più necessarie ; diman- 
dandole il sobjetto ; perocché degna ne è la ricerca , e 
degna pur si stima da’ romani scrittori in questo luo< 
go; e quei che non bene vi si applicarono , ne scris- 
sero vanissimamente. 

LXV. Alcuni dunque attribuiscono il tempio di Vesta 
a Romolo , persuasi che essendo Roma edificata da lui , 
perito ne’ vaticinj , non è possibile che non vi fosse edi- 
ficata innanzi tutto la pubblica magione di Vesta; tanto 
più che quel fondatore era stato educato in Alba ove 
antico sorgeva il santuario della Diva ,' e tanto più che 
la madre di lui ne era sacerdotessa. Facendosi doppio 

o cappello che terminaTa in punta a forma di cono . Lo itemma, co- - 
ronà in greco , era un velo di lana che circondava tutto il pllen. 
Questo Telo cbiamaTaai Filum e quindi sono i FUmùà quasi FUtmi- 
nes o portanti il filum cioè velo di lana. 



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198 DELLE Antichità’ romane ' 

culto religioso , 1' uno comune «Iella cilii , 1’ altro gen- 
tilizio ; dicono che dovè Romolo necessariamente per 
ambedue queste cause venerare la Diva. Imperocché già 
non é per gli uomini altra cosa più necessaria quanto 
essere quasi membri di una comune famiglia ( 1 ) : nè 
altra ne era più acconcia per Romolo nato da proge^- 
nitori che portarono da Ilio la religione di Vesta , e da 
genitrice che ne era sacerdotessa. Quelli dunque che 
per tali cagioni ascrivono il tempio anzi a Romolo che 
a Numa , sembrano generalmente dir bene che nell’ edi- 
ficarsi della città dovè su le prime un tempio fabbricarsi 
di Vesta specialmente da un uomo perito delle sante 
cose; in particolare però non sembra che sapessero a 
punto nè del tempio quale è di presente , nè delle verv 
gini in servigio della Dea. Imperocché non consacrò gpà 
Romolo il luogo dove ora il fuoco sacro si custodisce: 
e grande argomento ne è che «piesto rimane fuora di 
Roma , detta «juadrangolare , cinta di mura da lui : lad- 
dove tutti pongono il pubblico tempio di Vesta nel più 
forte della città , e ninno fuora lo colloca. Nè già diede 
a colei ministero di veleni , memore io credo de’ casi 
della madre, trovatasi fuori di verginità servendo la Diva, 



(i) Vesta in greco trrm sigoiiìca casa o lari. Par duoqae la 
fona del discorso. Vi era colto pubblico e di famigliai Ora qual 
cosa pia iaieressanle cbe gli Domini siano come i membri di una 
comune famiglia f VI dovè dunque essere il tempio ^r questa co- 
mune bmiglia cioè il tempio di Vesta : Quindi bo creduto dare tal 
senso alle voci: ««rs ì/mf caJtt tirai 

rit MiifSt irrirns. Del resto l’eqnivoeo tra im»i Dea ed smar 
casa rende implicato il paragrafo. 



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• . LIBRO 11 . , i 199* 

e divenuto in vista de’ nuli suoi privo del coraggio, di 
punire secondo le leggi della patria , una donzella se 
viziata mai vi fosse. Peri dunque nè fece il tempio co* 
mune di ‘Vesta, nè mise in servigio di essa le vergini. 
Ma -in ogni curia eresse una magione ove que’ della 
curia porgessero sagrifizj deputando per compierli il 
capo di ciascuna di esse , ad imitazione de* costumi che 
osservausi ancora nelle città le più antiche della Grecia. 
Sono i tempi di. Vesta tra loro i Pritanei che chiamauo, 
c vi compiono il santo rito gli arbitri del comando. 

LXVl. Numa preso il regno non levò già li templi di 
Vesta propri delle curie , ma uno ne fabbricò comune 
per tutte nello spazio intermedio al Campidoglio ed al 
Palatino , essendo già que’ due colli rinchiusi entro un 
circuito stesso di mura , e tra’ colli spandendosi il foro 
ove il tempio fu cosbruito. Diede secondo le leggi pa^ 
trie de’ latini il santuario in custodia alle Vergini. Si 
dubita qual mai sia la cosa custodita nel tempio , e per* 
chè a vergini donne si affidi. Taluni dicono che la cosa 
guardatavi non altro sia che il visibile fuoco: darsene 
poi verisimilmente la cura alle vergini piuttosto che agli 
uomini perchè intemerate sono le vergini come di mac- 
chie è libero il fuoco; ed ama il più puro de’ Numi 
la più pura delie cose mortali. .E pensano che a Vesta 
convengasi il fuoco , perchè Vesta è la terra , e la terra 
tenendo il mezzo del- mondo produce da sè stessa fiam- 
me che ascendono. Altri pensano che oltre il fuoco 
stieno ne’ penetrali della Dea cose recondite al volgo, e 
note solo ai pontefici e alle vergini; e ne porgono ar- 
gomento non lieve coll’ incendio universale del tempio 



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'aOO DELLE antichità’ ROMANE 

nella prima guerra irf Cartagine e Boma per la Sia-* 
1». Imperocché ardendo la santa magione , e fuggendo 
le vergini dall’ incendio : l’ano de’ pontefici Lucio Ce- 
cilio chiamato Metello, consolare , quegli che 

recò di Sicilia lo splendido trionfo di cento trentotto 
eleiànti de’ Cartaginesi, trascurata la propria salvezza in 
vista dell’ utile pubblico , si rischiò tra le fiamme inte- 
riori , e ne campò le divine cose lasciatevi dalle vergini. 
D' allora egli n’ ebbe grande la riverenza in città come 
lo attesta la iscrizione appiè della immagine sua nel 
Campidoglio. Ora prendendo essi questo fatto per indu- 
bitato vi acconciano sopra le proprie congetture. E chi 
dice che ivi era parte delle sante cose di Samotracia , 
quelle appunto conservate da Enea ; perchè Dardano si 
recò già queste da quell’ ìsola nella nuova città da lui 
fabbricata (i); ed Enea quando si fuggi dalla Troade 
le si portò nella Italia con altre riverenze divine. In 
opposito altri dice che il santo arcano era il Palladio 
caduto da’ cieli fra’ Trojani , che Enea , ben conoscen- 
dolo , sei portò ; giacché non aveano i Greci predalo se 
non la copia di quello : e molto su ciò si discorre dai 
poeti e dagli scrittori. Io raccolgo da molti indizj che 
le vergini vi custodiscano cose , misteriose al volgo , e 
non il fuoco solamente. Ma quali siano queste cose non 
dobbiamo troppo curiosamente investigarlo nè io, nè quanti 
vogliono che la santità riveriscasi -de* misteri del Numi. 

LXYII. Quattro furono da principio le vergini, mini- 
stre delia Diva , eleggendole i re , secondo le istituzioni 

/ « ’ 

(0 Troja. , , 



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LIBRO II.' 301 

di Numa : in seguito per la moltipliciti delie sante fon* 
zioni che aveano , divennero sei come pur si rimangono 
nel mio tempo. Alloggiano tutte presso la Dea ; nè di 
giorno vietasi a persona d'introdursi fra loro ; ma niun 
maschio può trattenervisi nella notte. Le vei^inelle' deb- 
bono tenervisi per trent’anni immacolate da matrimo- 
nio, <sacrifìcando, e venerando con altre cerimonie, come 
è la legge. E qui per dieci anni apprendono , per dieci 
ministrano , e negli ultimi dieci insegnano le altre. Com- 
piuti i trent’ anni niente proibisce chi vuole , che de- 
poste le bende e le altre insegne sacre maritisi; come 
fecero alcune pochissime , non invidiabili , nè felici in 
tutto , nel termine della vita , tanto che' le altre piglian- 
done auspizio , si rimangono inviolate presso la Dea fino 
alla morte. Allora ne suppliscono i pontefici un’altra 
alla defunta. Molti e grandi sono in città gli onori delle 
celibi donzelle , pe’ quali reprimesi in esse il desiderio 
di essere spose e madri. Ma gravi sono le pene de’ lor 
mancamenti , e secondo la legge i pontefici ne sono i 
giudici e li punitori. Battono colle verghe le ree di colpe 
minori : ma condannane le non più vergini a morte spa- 
ventosissima. Imperocché , vive ancora , sono in lugubre 
pompa portate su feretri , destinati al trasporto degli 
estinti'j mentre amici e parenti fanno a loro seguito e 
pianto. Cosi scortate fino alla porta Collina (i) ma non 
fuor; delle mura sono , come chi seppelliscesi , derelitte 
in una cavità sotterranea; e non l’onore almeno le rac- 

(i) Alla porla Collina fu aostituila la porta ora della Salaria. 
Eua porta CollÌBa era più facile a superarsi che non le altre 'di Ro. 
ma. E perciò non una fu I’ aggressioue temala in questa parte. -> 




30 a DELLE ANTICHITÀ ROMANE 

consola di una tomba , non 1’ esequie , non altro rito 
niuno legittimo. Molti sono gl’ indiz) di mancanza nel 
santo ministero, e principalmente lo spegnersi del fuoco: 
accidente che i Romani temono più di tutti i mali, pi- 
gliandolo , e sia qualunque Torigine di esso , come pre- 
sagio della rovina ultima di Roma. E molto ossequiando 
e placandolo; di nuovo riconducono il fuoco nel tem- 
pio. Ma di ciò sarà detto a suo luogo. > 

LXVIIL Ben è degna che raccontisi l’assistenza ma- 
nifestata delia Dea per le vergini indegnamente accusate. 
Credesi questa da Romani , quantunque ioconcepibile , e 
molto gli scrittori ne ragionarono. Quei che vansene a ma- 
niera degli Atei filosofando, se filosofare dee dirsi mai que- 
sto , ripudiano tutte le assistenze de’ Numi avvenute tra 
Greci e tra Barbari , e molto ne deridono i racconti , 
ascrivendole a ghiattanza nmana, quasi niuno de’ celesti 
prenda cura delle cose de* mortali. Ma quelli che non 
levano agl’ Iddi! questa cura , e li giudicano propiz) 
ai buoni, e malafifetU a’malvagj, venendosene con istorie 
moltissime , non prendono per impossibili tali divine 
manifestazioni. Narrasi dunque che smorzandosi un tempo 
il fuoco per poco avvedimento di Emilia, che allora ne 
era la guardiana , perocché ne avea trasmessa la cura 
ad una compagna novella , e di fresco ammaestrata ; 
Borsene in città turbamento ben grande , e si cercò dai 
pontefici se violazione ci avesse nel ministero santo del 
fuoco. Allora, dicono, che Emilia, la incolpabile Emi- 
lia, non sapendo che farsi nell’evento stendesse io pre- 
senza de’ sacerdoti e delle vergini le mani in su l’altare 
e dicesse: o Vesta, o tu Dea, custode di Roma, se 



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LIBRO II. 2o5 

io santamente , e debitamente compiei le sacre tue 
cerimonie ornai da treni anni , se pura l anima mia, 
se immacolate ti si presentarono le membra di questo 
mio corpo , deh ! tu soccorrimi , nè volere trascurare^ 
che la tua sacerdotessa miserandamente si muoja. Ma 
se io pur commisi alcuna cosa men pia , deh ! che 
nelle pene mie la pena si dissipi di Roma. Ciò detto 
è fama che spiccando il lembo dalla veste di lino onde 
era coperta lo gittasse in so 1’ altare : e che dopo la 
preghiera , essendo la cenere già fredda , e già senza 
favilla ninna, brillasse di.su per quel lembo una damma 
copiosa , talché più non abbisognò la città né di puri'* 
ficaztoni , né di fuoco novello. 

LXIX. Più meraviglioso ancora e più somigliante ad 
una favola è ciò che io sono per dire. Narrano che un 
tale accusasse Tuzìa 1’ una delle vergini ma «>n alle» 
gazioni non vere di congetture e di testimonj ; non 
polendo affermare che fosse per lei venuto meno il 
ìkoco : e che la vergine comandata rispondere dicesse 
che smentirebbe co’ fatti le calunnie : che ciò detto in- 
vocata la Dea perché le fosse guida nelle sue vie, s’in? 
camminasse verso del Tevere concedendolo i pontefici, 
seguita dalla moltitudine: che giunta in riva del fiume, 
si ponesse a cimento impossibile, ora passato in pro- 
verbio : cioè, che prendesse acqua con un vaglio vuoto 
e ve la recasse fino al Foro, quivi ai piedi spargendola 
de* pontefici. E narrano che dopo ciò 1’ accusatore di 
lei , per quante ne fossero le ricerche , né vivo più nè 
morto si ritrovasse. Ma quantunque dell’ intramettersi 
della Dea potrei soggiungere più cose ; reputo che ba- 
stino le dette finora. 




2o4 delle Antichità’ romane 
LXX. La sesta parte delie istituzioni religiose fa 
quella intorno àe Salii che chiamansi In Roma. Numa 
stesso li nominò scegliendo dodici decentissimi giovani 
patiizj. Stansi le sacre loro cose nel palazzo ; ed essi 
ne sono chiamati Palatini. Ma gli Agonali , de’ quali 
serbansi le sacre cose nel poggio Collina , questi co- 
gnominati Salj Collini , furono istituiti dopo Noma da 
Ostilio re pel voto fatto da lui nella guerra co’ Sabini. 
Del resto i Salii tutti sono danzatori e lodatori dei 
Numi delle arme. Tornano le loro solennità arca i 
tempi delle nostre Panalenee nel mese detto di marzo : 
si celebrano a pubbliche spese per piò giorni , ed in 
questi guidano per la città cori di saltatori al Foro, al 
Campidoglio , ed altri luoghi speciali , o comuni. Va- 
riopinte ne brillano le toniche traversate con cinture di 
rame ; ed affibbiate sono le trahee loro che chiamano, 
luminose di porpora intorno. Sono le trahee in Roma 
pregiatissime, e proprie del luogo. Torreggiano loro sul 
capo tiare (i) alte con forma di cono, apici dette fra 
loro , ma cirbasie tra’ Greci. Ognuno è cinto di spada; 
stringe colla destra mano un’asta o verga, o cosa con- 
simile ; e colla sinistra uno scudo romboidale , stretto 
ne’ lati , quale è quello de’ Traci , e quale , dicesi che 
in Grecia lo portino quelli che vi celebrano le 'sacre 
cose dei Curetl. I Salj , per quanto io conosco , sareb- 
bero con greca Interpetrazione I Cureli , denominati 



(i) Nel testo sono detti piUi, ma le cirbasie erano specie di tiare 
secondo Esicbio la lesione dello scudo romboidale è del codice V a- 
ticano e par la migliore. 



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LIBRO II. 2o5 

cosi tra noi dalla età giovanile (i) ; ma tra’ Romani 
hanno quel nome dal moversi faticoso : perocché spio 
carsi e battere co’ piè la terra tra lor si chiama salire. 
Per questa ragione medesima quanti altri noi chiame- 
remmo dallo spiccarsi e battere con tal modo , 

essi gli chiamano salitorì con voce originata dai Salj (a). 
Che poi dirittamente io do questi nomi, può chi vuole, 
concluderlo dalle cose che fanno. Movonsi colle arme 
regolatamente al suono delle tibie , ora insieme , ora a 
vicenda , e danzando intuonano patrie canzoni. Ora se 
dee con antichi monumenti procedersi, i Gureti furono 
primi che insegnarono a danzare armati tripudiando e 
battendo con le spade gli scudi : nè bisogna che io ri- 
peta ciocché ha la fàvola su loro , essendo noto poco 
meno che a mtti. 

LXXI. Ben molti sono gli scudi che portano i Salj , 

0 che i loro ministri portano sospesi in su de’bastoni: 
ma tra questi uno ce ne ha che dicesi caduto dal cielo. 
È fama che fosse nella reggia ritrovato di Numa , non 
avendovelo recato ninno , anzi neppur conoscendosene 
la forma nella Italia. Argomentarono da tali due segni 

1 Romani che fosse quell’ arme celeste di origine. E 
volendo, Numa che lo scudo si onorasse , e recasse nei 
dì solenni per la città da’ giovani cospicuissimi , e ri- 
scotesse annui sagrifizj ; e temendo che i nemici in oc* 

. ^ -, 

(i) Quasi aiaao Ktft$ gioTaoi , ma forte ebbero cuti nome ^wi 
rnt cioè dalla tontora : perchè erano tosi nella parte an- 

teriore del capo. 

(a) Si saltava anche prima de’ Salj, però la voce salùores che pre- 
cede non è pptieriote al nome de’ Salj. 



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ao6 DELLE antichità’ ROMANE 
culto lo ÌDsidiassero e rapisserio; dicono che fabbricasse 
molti scudi uniformi a quello caduto dal cielo , accin- 
gendosi Mamorìo artefice a questo , che f arme divina 
per la somiglianza egualissima con altre umane non più 
potesse contrassegnarsi e riconoscersi da chiunque vi 
macchinasse un inganno. Ebbe quel rito de* Cureti ac- 
coglienza e pregio tra’ Romani , come io lo deduco da 
più seghi , e principalmente dai spettacoli nel circo e 
nei teatri. Ne’ quali spettacoli giovinetti già puberi , ac- 
conci d’ abito con cimiero , con spada , e con scudo , 
moTonsi come con le leggi di un ritmo armonioso; e £u- 
tlioni chiamansi i duci della pompa , dalla invenzione 
fattane , sembra , nella Lidia. Questi sono , a me pare , 
immagine de’ Salj ; perocché non fanno appunto come 
i Salj cosa ninna in foggia de’ Cureti sia negl’ inni sia 
ne’ salti; e prendonsi da ogni condizione; laddove i Salj 
deggiono esser liberi e naturali del luogo , e ricchi di 
padre e di madre. Ma perché mai rigirarmi più a lungd 
su queste cose ? 

LXXIL Fu la settima parte delle leggi sacre indiritta 
a dar ordine a’Feciali che chiamano. Questi con greca 
significazione giudici si direbbono della pace : scelgonsi 
tra le più illustri famiglie , e restansi per tutta la vita 
ht santo ministero. Numa anch’egli dava la prima volu 
ai Romani tal ceto venerando. Io non so definire sé 
egli ne derivasse l’esempio dagli Equicoli, come alcuni 
pensano , o se, come Gelilo scrive , da Ardea : bastami 
dir solamente che innanzi Numa non erano Feciali tra 
i Romani. Numa quando era per dar guerra a’ Fidenati, 
perchè aveano fatto scorsa e ruberia nel territorìu'dt 



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LIBRO n. 107 

lui ; Numa gl’ ioslitul , perchè vedessero se voleano pa> 
ciGcarsegli senza le arme, come vinti dalia necessità poi 
fecero. E poiché non ci ha nella Grecia tribunale di 
Feciali; giudico necessario di adombrare quante e quali 
De sieno le incombenze; perchè coloro che ignorano la 
pietà che i Romani coltivano , non si meraviglino che 
tutte ad ottimo fine riuscissero le guerre loro : certa- 
mente imprendeano queste con prìncipj e cagioni one- 
stissime, dond’è che aveano propizj gl’ Iddi! ne’ pericoli. 
Non è già fiicile , per la moltitudine , comprendere le 
cure tutte de’ Feciali. A delinearle però con tocco lieve 
son tali : debbono cioè provvedere ' che i Romani non 
movano guerre ingiuste a ninna città confederata ; che 
cominciando taluna a rompere i trattati verso loro , 
vadano ambasciatori , e ne dimandino il giusto prima 
con parole , poi v’ intimin la guerra , se non ubbidi- 
scono. Similmente se mai confederati alcuni dicendosi 
offesi da’ Romani chiedano de’ compensi , debbono i 
Feciali riconoscere, se quelli han sofferto contro dei 
patti; e se par loro che lamentinsi con diritto fan pren- 
dere e consegnare i colpevoli ai danneggiati. Giudicano 
su gli oltraggi degli ambasciadori , e vegliano per la 
Osservanza fedele dei trattati : fan le paci o le annulla- 
no , se fatte sieno contro le leggi sacre : decidono ed 
espiano , quante sono , le violazioni fatte de’ giuramenti 
e delie alleanze' da’ capitani : ma di ciò dirò ne’ suoi 
Inoghi. Quanto ali’ andarsen’ essi come araldi per esigere 
soddisfazione da città che sembrino offenditrici , ne ho 
conosciuto (peste cose , non indegne ancor esse che si 
risappiano, per la molta cura che involgono della giu- 



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ao8 DELLE ANTICHITÀ.’ BOMANE." 

sUzia e della pietà. Uno de’ Feciali eletti a voti dagli 
altri , cinto degli abiti e delle insegne sacre perchè fra 
tutti distingnasi, vassene alla città rea: ai primo toc- 
carne i conGni , attesta Giove ed altri dumi che egli' 
viene perchè Roma sia compensata : poi giurando che, 
dirigesi alla città colpevole, ed invocando s’ei mentisce, 
maledizioni terribili contro sè stesso e contro Roma , 
slanciasi olure i conGni. Quindi protestandosi ancora col 
primo che gli s’ imbatte , rustico o cittadino che sia , C; 
ripetendo l’ esecrazioni medesime, continua di andare iu 
città ; ma prima di entrarvi protestatosi nel modo ine>. 
desimo col portinajo e con qual’ altro nelle porte gli 
capita il primo, s’inoltra sino al Foro; ove giunto 
parlamenta co’ magistrati ; aggiungendo tratto .tratto giur 
ramenti , ed imprecazioni. Se danno soddisfazione con- 
segnandogli li colpevoli , egli menali seco e vassene , 
amico già , dagli amici. Che se dimandano tempo per 
consultarsi , ripresentasi dopo dieci giorni , e pazienta 
Gno alla terza dimanda. Decorsi trenta di se la città 
non siegue il dover suo , egli invocati i Numi celesti e 
grinfemali se ne parte, questo solo dicendo, che Roma 
deciderebbe , tra la sua calma , su loro. Poi recatosi 
cogli altri Feciali in Senato , dichiaravi come tutto fu 
compiuto secondo le leggi sacre, quanto convenivasi : e 
che se vogliono risolversi per la guerra niente vi si 
oppone dal canto degl’ Iddii. Senza tali pratiche nè il 
popolo , nè il Senato può conchiudere col voto suo j la 
guerra. Questo è quanto abbiamo risaputo su’ Feciali. 

LXXIIL Nelle ordinazioni di Numa intorno le,, cose 
divine v’ ebbe in ultimo la classe la . quale ottennero .• 



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LIBRO II. ^ 209 

quanti aveano in Roma sacerdozio ed autorità superiore. 
Questi con patria voce si chiamano pontefici dal rifarsi 
di un ponte di legno che è uno degl’ incarichi loro ; s 
son gli arbitri di cose grandissime. Imperocché giudi- 
cano tutte le cause sacre de' privati , de’ magistrati e 
de’ ministri de’ Numi : fissano le cose religiose non 
scritte nè solite ; scegliendo le leggi , e le consuetudini 
che stimano più acconcie : esaminano tutti i magistrati 
o tutti i sacerdoti a’ quali è fidata la cura de’sagrificj e ' 
della venerazione de’ Numi: provvedono che i loro mi- 
nistri e cooperatori non violino punto le sacre leggi : 
espongono ed interpetrano il culto de’ Numi e de’ Genj 
a’ privati che lo ignorano; e se colgono alcuno, disub- 
bidiente agli ordini loro, lo puniscono secondo i delitti: 
ma essi non soggiacciono nè a giudizio nè a multe , 
non rendendo ragione nè al Senato nè al popolo. Non 
travierà poi dal vero chiunque vuole chiamare tali sa- 
cerdoti o dottori , o dispensatori , o custodi , oppure 
interpetri delle sante cose. Mancando ad alcuno di loro 
la vita gli viene sostituito un altro , il più idoneo ripu* 
.tato tra’ cittadini ; nè già il popolo sceglielo ; ma essi 
medesimi : 1’ eletto però piglia il sacerdozio , quando 
propizj gli siano gli augurj. E tali sono , oltre alcune 
più piccole , le leggi più grandi e cospicue di Numa 
sulla pietà, compartite secondo i rami varj del culto , 
per le quali Roma ne divenne più religiosa. 

LXXIV. Moltissime poi sono le leggi che guidano 
r uomo a vita frugale e temperata , e che ingenerano 
r amore della giustizia' la quale custodisce in città la 

DIONIGI , tomo I. ■; 



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310 DELLE ANTICHITÀ.’ ROMANE 

coacordia : altre però di queste sono scritte , ed altre 
non scritte ma passate pel lungo esercizio in abitudini. 
E lungo sarebbe a dire di tutte ; ma basterà dire di 
due più degne di ricordanza , e cbe sono argomento 
delle altre. La legge su’ confini da’ poderi fu causa che 
oguuno si contentasse de’ proprj ; non gli altrui deside- 
rasse. Imperocché comandando a ciascuno di marcare 
intorno i proprj poderi , e di porvi de’ sassi per ter- 
mini , dichiarò sagri que’ sassi a Giove Terminatore , e 
volle che tutti periodicamente ogni anno recatisi in sul 
luogo vi facessero sopra de’sagrifizj, e stabili parimente 
una festa in onore degli Dei termini. I Romani chia- 
mano la festa Terminali , da que’ sassi o termòni, che 
essi con simiglianza al nostro idioma, chiamano termini ^ 
mutata una lettera soia. E se alcuno involava o traspo- 
neva que’ termini fu per legge sacro agl’ Iddii ; talché 
potesse , chiunque volevalo , uccidere qual sacrilego im- 
punemente , e senza macchia di colpa. Nè stabili tal 
diritto su’ poderi de’ privati solamente , ma su quelli del 
pubblico eziandio , circondandoli di con&ni ; perchè gii 
Dei termini tenessero distinte le terre comuni dalie in- 
dividuali , e quelle de’ Romani dalle altre de’ convicini. 
Praticano i Romani pur ne’ miei tempi un tal rito , al- 
meno per apparenza , come ricordatore de’ tempi : pe- 
rocché riguardano i termini come Numi , e sagrificano 
ad essi focacce di fior di farina , ed altre primizie di 
frutti , e non già cose animate ; essendo profanità ri- 
putata insanguinarne le pietre. E bisogna che rispettino 
la cagione medesima per la quale fecero d’ogni termine 
un Dio , contenti de’ poderi proprj , non arrogandosi 



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2 I I 



LIBRO II. 

gli altrui colla forza , o coll’ inganno. Ora però con- 
trassegnano i propri <‘veri dagli altrui non per lo me- 
glio , come gli avi insegnarono , o la legge definiva ; 
ma come suggerisce il desiderio di ognuno , cosa non 
decorosa. Ma su tpieslo lascio che altri ne mediti. 

LXXV. Con queste leggi Numa formava Roma sem- 
plice e moderata : a renderla poi giusta ne’ contratti ri- ^ 
trovò cosa non pensata innanzi dagl’ istitutori de’ popoli 
famosi. Imperocché vedendo che se li contratti sian fatti 
in pubblico e tra’ testimonj , si osservano , e rari na 
sono violati, per la riverenza in verso chi era presente; 
laddove se facciansi , come i più , lungi da’ testimonj , 
non gli assicura se non la buona fede de’ contraenti ; 
egli risolvè di avvalorare questa soprattutto , e di ren- 
derla degna di onori divini. Rifletté che abbastanza 
erano state dagli antichi divinizzate e santificate la Giu- 
stizia , e Temide , e Nemesi , e le Erinni , e cose al- 
trettali ; ma che non era venerata ancora in città né 
da’ privati né dal comune la fed»-di cui non è tra’ mor- 
tali affezione più preziosa e sacrosanta. Vinto da tali 
riflessioni egli il primo eresse un tempio alla F ede Pub- 
blica, ed istituì de’sagrifizj per lei come per altri Numi 
ci aveano , a spese del popolo. Cosi le abitudini pub- 
bliche della città divenute fedeli, e costanti verso degli 
uomini, renderebbero col volgere del tempo tali ancora , 
i costumi de’ privati fra loro. Adunque 1’ esser fido si 
reputò per tal modo cosa immacolata e veneranda ; che 
ciascuno riguardava il dare della sua fede come amplis- 
simo giuramento e superiore di ogni testimonianza. E 
se talvolta per trattali senza testimonj eccilavasi dubbio 



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aia DELLE Antichità’ romane 
tra persona e persona , 1’ autorità della fede dell' uno 
de’ dne soffocava le liti , nè permetteva che procedes- 
sero ; e li magistrati e li giudici ne terminavano la 
maggior parte facendoli su la fede loro giurare. Questi 
sono gli stimoli e questi i legami pensati allora da Nu> 
ma a propagare la giustizia e la moderazione ; e con 
questi tenne il comune di Roma ordinato più ancora 
di una famiglia. 

LXXYI. Con quello poi che ora io sono per dire 
egli fe’ Roma sollecita procnratrice delle cose necessarie 
e delle dilettevoli. Considerando il valentuomo che una 
città istituita per amar la giustizia e serbare la tempe- 
ranza non dovea penuriare delle cose necessarie ; divise 
tutta la campagna in porzioni chiamate pagi, assegnando 
per ciascuna un capo che la visitasse e curasse. Questi 
recandovisi di tempo in tempo , e notandovi i buoni o 
tristi cultori , ne riferivano poscia al sovrano ; ed il 
sovrano ricompensava i buoni con lodi e con altre gen- 
tili maniere ; e svergognava i tristi o mullavali , onde 
accenderli a cultura migliore. Quelli dunque che sciolti 
dalle core della guerra o della città sen vivevano in 
ampio ozio , pagandone col vitupero o colle multe la 
pena , diventavano tutti operosi in lor bene , e riputa- 
vano la ricchezza della terra che è la più giusta di 
tutte, essere ancora più dolce della militare, che incerta 
fluttua ognora. Segui da ciò che Numa fu amato dai 
sudditi , emulato da' vicini , e celebrato da’ posteri. Per 
opera di lui nè sedizione interna disunì la città , nè 
guerra esterna la distolse dalla disciplina sua bonissima 
e mirabilissima. E tanto i circonvicini furono alieni da 



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LIBRO II. 2i3 

prendere la calma inerme de’ Romani come occasione 
d’ invaderli; che se prorompea guerra alcuna tra quelli, 
assumevano i Romani per mediatori; e deliberavano di 
spegnere le inimicizie su le condizioni date da Numa. 
Pertanto io non prenderei vergogna di collocare questo 
uomo tra’ più famosi per sorte beata. Nato di regia 
stirpe ebbe regia presenza, e si esercitò nelle discipline 
non già di lettere vane, ma in quelle donde apprese la 
pietà verso i Numi , e la pratica di altre virtù. Giovine 
fu riputato degno di prendere il comando di Roma : 
ed invitatovi a prenderlo per la bella fama delle sue 
virtù , regnò per tutta la vita su popolo docilissimo. 
Complesso com' era di persona ^ nè danneggiatone mai 
dalla sorte , giunse a lunghissima età. Finalmente con- 
sumato dalla vecchiaja venne meno a sé stesso con 
morte placidissima. Quel medesimo genio di felicità che 
gli era toccato da principio , quello sempre lo accom- 
pagnò finch’ egli non fu tolto dall’ aspetto de’ mortali. 
Visse più di ottant’anni , regnandone quaranlatrè. Di 
lui restarono , come i più scrivono , quattro figli , ed 
una figlia , de’ quali conservasi ancora la discendenza : 
ma Gellio scrive che egli non lasciò che una figlia , 
dalla quale nacque Anco Marzo , terzo re di Roma 
dopo lui. Tutta la città si abbandonò , lui morendo 
al dolore ; facendogli nobilissima sepoltura. Egli riposa 
nel Gianicolo di là dal Tevere. E tali sono le (jose che ‘ 
abbiamo risapute su Numa. . ■ 



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DELLE 



ai4 



ANTICHITÀ ROMANE 

D I 

DIONIGI ALICARNASSEO 



LIBRO TERZO. 

I. IVEancatO Numa Pompilio, i Senatori arbitri nuo- 
vamente de’ pubblici affari deliberarono di conservare il 
governo medesimo: nè già il popolo era di altro avviso. 
Adunque deputarono un numero certo de’ Seniori i 
quali comandassero intanto nell’ interregno. Da questi , 
approvandolo tutto il popolo , fu nominato re Tulio 
, Ostilio , di cui la origine fu , come siegue. Un tale , 
Ostilio di nome , uomo nobile e facoltoso di Medullia , 
città fondata dagli Albani , presa a condizioni da Ro- 
molo e venduta colonia romana , trasportatosi , per do- 
miciliarvisi , a Roma , vi tolse in moglie una sabina , 
la figlia appunto di quella Ersilia , la quale , ardendo 
la guerra co’ Sabini , consigliò le sue nazionali di ao- 



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DELLE Antichità’ romane libro in. 2 i 5 
darne oralrici ai padri loro su de’ mariti , e la quale 
sembra la cagion principale che i due popoli si rac- 
chetassero. Compagno costui di Romolo in più guerre, 
e segnalatovisi per opere grandi ; moti finalmente , la- 
sciando un unico figlio, nel combattere co’ Sabini, e fu 
sepolto dai re (i) nella parte più insigne del Foro , 
onorato di una iscrizione , che la virtù ne ricordava. 
Cresciuto 1’ unigenito suo , e legatosi con nobile matri- 
monio, ne ebbe un figliuolo; e Tulio Ostilio fu questi, 
uomo elBcace. Dichiarato monarca dal voto , dato se- 
condo le leggi dal popolo; i Numi ne approvarono con 
augurj propizi la scelta. Quando egli prese il comando, 
volgea r anno secondo della olimpiade vigesima settima 
nella quale Euriboto ateniese vinse nello stadio essendo 
arconte Leostrato (a). E nello stringere appena lo sceu 
tro si affezionò la classe de’ mercenari e de’ poveri con 
questa liberalissima azione. Aveansi i re predecessori 
eletto ampio e bel territorio , colle rendite del quale 
fornivano i templi di sagrifiz) , e le regie case di ab- 
bondanza moltiplice. Romolo avealo tolto a’ primi pos- 
sessori colla legge delle armi : e morendosi lui senza 
figli , aveaselo goduto Numa che gli succedette nel re^ 
gno. Laonde non era allora quel podere del popolo ; 
ma perpetuamente dei re. Tulio nondimeno concedè 
che si compartisse tra’ Romani privi in tutto di campa- 
gna; dicendo essere a lui sufficienti le sostanze paterne 
per le cose de’ Numi , e della regia famiglia. Sollevò 

(i) Romolo e Tazio. 

( 3 ) Anni di Roma 84 secondo Varrone , 8 a secondo Catone , 
avanti Cristo 670. 



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2i6 delle Antichità’ homane 
Goa questa beneGcenza li cittadini bisognosi ; tanto che 
non più stentassero in servigio degli altri. E perché 
ninno fosse privo di alloggio aggiunse a Roma il monte 
Celio chiamato. Ivi quanti non aveano magione se la 
fabbricarono, pigliatovi sito che bastasse : ed egli stesso 
la sua residenza vi collocò. E tali sono le operazioni 
urbane di quest' uomo degne di ricordanza. 

II. Ma delle militari molte se ne raccontano , ed io 
mi accingo a parlarne , cominciando dalla gueiTa di 
lui con gli Albani. Gluvilio , un Albano , allora magi- 
strato supremo , fu cagione che i dne popoli consan- 
guinei si scindessero , e separassero. Punto da invidia , 
e mal più la invidia potendo rattemperare su la pro- 
sperità de’ Romani, come superbo e maligno per indole, 
risolvè d’ implicare i due popoli in guerra vicendevole. 
Non sapendo però come volgere gli Albani a commet- 
tergli che portasse 1’ esercito contro Roma ; altronde 
non avendone alcuna causa giusta e necessaria; macchinò' 
questa o simile trama. Concitò, promessane la impunità, 
li più poveri e li più baldanzosi degli Albani a far 
preda su’ campi romani: dond’ è che seguendo un gua- 
dagno senza pericolo molti che tra ’l pericolo ancora 
seguito r avrebbero , empierono le terre vicine di assalti 
e di latrocinj. E ciò fece con disegno non alieno, come 
r evento stesso lo dimostrò. Perciocché prevedea che i 
Romani non sofierendo le rapine correrebbono all’ armi , 
che egli potrebbe accusarli al suo popolo come primi a 
romper la guerra : e prevedea che moltissimi Albanesi 
invidiosi delia prosperità della colonia , riceverebbero 
C6n piacere le accuse , e farebbero la guerra contro di 



j 



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LIBRO III. 2I<J 

essa. Ora questo appunto addivenne. E certamente fa- 
cendo i malandrini dell’ una e dell’ altra parte prede a 
vicenda e portandosele , e scorso allora 1’ esercito ro- 
mano su’ campi di Alba imprigionando e spegnendo 
molti de’ masnadieri ; Cluvilio intimò 1’ adunanza del 
popolo : ed accusatovi lungamente il nemico , vi additò 
li tanti feriti , vi presentò li congiunti dei saccheggiati 
e degli uccisi ; e fintevi cose più che non erano ; de- 
cretò di spedire un ambasceria per chiedere soddisfa- 
zione da’ Romani , o per combatterli se la ricusavano. 

III. Giunti in Roma gli ambasciadori ; Tulio sospet- 
tando che venissero a chiedervi soddisfazione ; deliberò 
di far egli ciò per il primo , con disegno di dar ad 
essi la colpa dèlia violazione degli accordi. Erasi nei 
giorni di Romolo convenuto fra le due città su molte 
belle condizioni, e fra queste, che ninna mai delle due 
la prima incominciasse la guerra : ma se avea di che 
lamentarsi , ne chiedesse buon conto ne’ tribunali degli 
offensori : e se non eravi compensata , allora per la 
necessità ricorresse alle armi , essendosi già rotta 1’ al- 
leanza. Sollecito che i Romani , chiesti di riparare gli 
oltraggi, non ricusassero i primi, e divenissero con ciò 
rei dinanzi gli Albani , incaricò gli amici suoi più rag- 
guardevoli perchè ne onorassero gli ambasciadori , e 
trattenessergli con ogni amorevole ospizio nelle lor case. 
Egli intanto dando vista di essere tra cure indispensabili 
ne rendè vana 1’ anteriorità della spedizione. Ordinando 
ciò che era da fare, mandò nella prossima notte insieme 
co’ Feciali in Alba personaggi cospicui a chiedervi ra- 
gione di quanto i Romani erano danneggiati. Compiuto, 



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ai 8- DELLE Antichità’ romane 
questi , il viag^o prima del nas(»r del sole , si pre- 
sentai'oao in sul mattino a Cluvilio nel Foro, già pieno 
di popolo ; e sponendovi le ingiurie fatte da quei di 
Alba a’ Romani , dimandarono che si adempiessero i 
patti. Ma Cluvilio perchè quei di Alba aveano già spe* 
dito in Roma affinchè li rintegrasse , uè riceveano tut- 
tavia la risposta ; comandò a* Romani che partissero co- 
me violatori de’ trattati , ed esso il primo intimò loro 
la guerra. Il capo di ambasceria volle udire in partendo 
da lui, se concedeva almeno che quelli erano i violatori 
deir alleanza , che primi eran chiesti a dame ragione , 
nè data 1’ aveano. E concedendolo Cluvilio ; immanti- 
nente queir altro, io chiamo, disse, in testimonio i Nu- 
mi , i quali già tesUmonj chiamavamo delle nostre 
alleanze, che giusta sarà la guerra de’ Romani, per^ 
che i Romani i primi non furono soddisfatti dai tra- 
sgressori. Voi, (e la cosa stessa lo manifesta) voi siete 
i primi che vi esimete dal farne giustizia; e primi ne 
avete dichiaralo la guerra, rispettateci dunque , ben 
tosto colie armi a pigliarne vendetta. Tulio adendo 
ciò nel ritorno de' suoi comandò che andassero a lui gii 
ambasciadori di Alba; e dicessero le cagioni per le quali 
venivano. £ nunziandole questi secondo l’ordine di Clu- 
vilio, e minacciando la guerra se non erano soddisfatti; 
io, disse, ho faUo ciò prima di voi; nè avendomi ot- 
tenuta niuna delle cose espresse nel trattato ; ben è 
chiaro che voi li primi non lo apprezzate , anzi che 
i primi lo rompete. Io dunque , io vi dichiaro una 
guerra giusta , quanto^ necessaria , non colle regie mi- 
lizie , ma con quelle ancora de’ sudditi. 



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LIBRO III. a 19 

IV. Così stavano le cose fra loro. Apparecchiaronsi 
ambedue dopo ciò per la guerra , acconciandovi non 
solamente le regie milizie , ma invitandovi quelle dei 
sudditi. Quindi si concentrarono ed accamparono a qua- 
ranta stadj da Roma ; gli Albani presso le fosse chia- 
mate Cluvilie , che serbavano ancora il nome di chi le 
aveva scavate ; e li Romani alquanto più addentro , 
avendosi scelta sede piò idonea per trlncierarvisi. Come 
gli uni videro le milizie degli altri nè Inferiori di nu- 
mero nè volgari nell’ armamento , nè spregievoli per 
altro apparecchio qualunque ; alienaronsi dalla smania 
precipitosa di combattere , quanta ne aveano ne’ prin- 
cipi, quasi fossero per fiaccare l’inimico a prim’ Impeto. 
E solleciti di difendersi anzi che di assalire, circonda- 
ronsi di valli più alti. E li più cari nel popolo , e li 
meglio animati , proruppero a discorsi e lamenti contro 
de’ duci. Intanto consumavasi il tempo , nè facessi nulla 
di considerevole; e solo si danneggiavano colle scorrerie 
de’ soldati leggieri e con gli attacchi della cavalleria. 
Cluvilio che r autore sembrava della guerra tediato di 
tanta inoperosità deliberò di cavare le schiere , e di sfi- 
darne gl’ inimici a combattere ; e di assalirli se non Io 
udivano , fin tra’ ripari. Quindi preparatosi per la batr- 
taglia , e preparatosi , quando pur bisognassero , con 
macchine per gli assalti delle mura; diedesi tra la notte 
al sonno ne’ padiglioni militari in mezzo le guardie 
consuete: ma nella nuova luce fu ritrovato estinto senza 
che apparisse nel cadavere di lui segno di ferite , di 
strangolamento , di veleno , o , comunque , di violenza. 

V. Parve l’evento com’era, meraviglioso a tutti, e 

/ 



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aao DELLE Antichità’ romane 
se ne investigò la cagione. Già non poteasi ascrivere 
qnesto a malattia precedente; che non vi fu. Quelli che 
rimandano tutti i successi degli uomini alla provvidenza 
celeste dissero che egli era morto per indignazione dei 
Numi ; perchè avea suscitato una guerra non giusta e 
non necessaria tra la città madre , e la colonia sua. Ma 
quelli i quali concepivano la guerra come utile , e ve-^ 
deansi spogliati di una grande opportunità , ripetevano 
tal morte dalla invidia e dalle insidie degli uomini , in- 
colpandone alcuni contrarj quasi avessero levato il va- 
lentuomo col trovamento di occulti ed imperscrutabili ve- 
leni. Altri poi disse aver lui 6nito con morte volontaria 
per dolore della insufBcienza sua , riuscendogli ogni 
cosa grave e disastrosa e ninna secondo i concetti delle 
speranze sue primitive , quando si gittò nella gueiTa. 
Ma gli uomini liberi da amicizia o nimicizia inverso del 
duce , e quindi giudici migliori che tutti deffa vicenda, 
non credevano origine della morte sua nè la indigna- 
zione de’ Numi , nè la invidia de’ malevoli , nè la diffi- 
denza di lui per le sue cose , ma la necessità o debito 
della natura la quale ha consumato il suo corso , come 
è destino delle cose mortali che tutte lo compiano. Clu- 
vilio lo compiè questo corso prima di essersi segnalato 
con opere generose. A lui fu supplito Mezio FufFczio 
creato dittatore dall’ esercito , tutto che senza i talenti 
militari , e senza un genio costante per la pace. Non 
era egli ne’ principi meno ardente di alcuno degli Al- 
bani a scindere le città : e per questo , mancando Cln- 
vilio , fu assunto al comando. Come però ne fu 1’ arbi- 
tro, e contemplò le molestie e le difficoltà degli affari, 



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LIBRO III. 221 

noQ perseverò nel proposito suo; ma diedesi a difTerire 
ed indugiare ogni cosa , tanto più che non tutti gli 
Albani conservavano un eguai desiderio per la guerra , 
uè le vittime apparivano propizie , se mai sen faceano 
per dar la battaglia. Da ultimo deliberò d’ invitare i 
nemici alla pace , e diresse egli il primo ad essi un 
araldo perchè vedea che se non si riconciliavano, erano 
tanto i Romani che gli Albani minacciati da esterno 
pericolo inevitabile, che avrebbe annientato le forze di 
ambedue. 11 pericolo era tale. 

VI. I Yejenti e li Fidenati, popoli di grandi città, 
aveano, vivendo Quirino guerreggiato per la signoria 
co’ Romani; ma perdendone eserciti ri guardevoli e parte 
di territorio , vinti dalla necessità cederono alle leggi del 
vincitore , come per minuto ne dissi nel libro antecedente. 
Lieti di pace lunga a’ giorni di Numa eransi riavuti di 
popolo , di ricchezza e di ogni altro ben essere. Ani- 
mati da tali beni desiderarono la cara libertà nuova- 
mente ; e sorgendo via via co’ pensieri si apparecchia- 
vano per non più servire ai Romani. Tenutosi occulto 
per qualche tempo , si palesò finalmente quel disegno 
nella guerra contro gli Albani. Imperocché quando si 
udì che i Romani erano andati con tutte le forze con- 
tro di Alba ; i più potenti fra loro immaginando di avere 
il buon punto, deliberarono segretissimamente che gli 
idonei alle armi si recassero a Fidene, poco a poco, e 
come sotto altro intento, perchè gli oppressori noi co- 
noscessero : e che ivi aspettassero il tempo in cui gli 
Albani e Romani lascerebbero le trincee per combattere. 
F aiebbero ciò manifesto osservatori occulti , sparsi pei 



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22 2 DELLE ANTICHITÀ’ ROMANE 

monti. Essi al primo innalzarsene del segnale impugnas-i^ 
sero tatti le armi , e volassero contro di loro. Non era 
molta la via di Fidene agli accampamenti ; ma «pianta 
in due o tre ore al più si «Kimpieva. Giugnendo , come 
era verisimile , al termine della battaglia , non usassero 
amicizia , ma trucidassero Albani o Romani , chiunque 
losse tra questi vincitore. Tali erano gli ordini divisati 
dagli arbitri delle città. E se quelli di Alba, spregiando 
i Romani , si fossero lanciati baldanzosamente su loro 
per decidere tutto con una battaglia; niente avrebbe 
proibito che l’ inganno da essi macchinato restasse oc- 
culto ; e ne perisse 1’ esercito di ambedue. Ma natane , 
contro lo aspettare di tutti , inazione di guerra , e pro- 
rogatosi di sovverchio il tempo per apparecchiarsi; quei 
loro disegni emersero in Juce. Imperocché alcuni de’con- 
giurati svelarono l’inganno al nemico, sia che brigassero 
r utile proprio , sia che invidiassero i più potenti fra 
loro e capi insieme delia trama , sia che temessero di 
essere innanzi accusati da altri compagni come spesso 
avvenne in congiure lunghe e tra molli , sia finalmente 
che fossero a ciò spinti dalia coscienza la «piale ricla- 
mava che opera sì scellerata si consumasse. 

yn. Fuffezio al conoscere questo si adoperò tanto 
più perchè si facesse la pace ; ornai non restandovi altro 
partito. Anche il re de’ Romani ebbe indizio delia con- 
giura dagli amici di Fidene , e seguì senza indugio l’in- 
vito di Fuffezio. Quindi recandosi in luogo intermedio 
alle due armate , entrambi co’ proprj consiglieri , idonei 
a ponderarvi quanto dovessi , al primo incontro si salu- 
tarono come un tempo solcano , a vicenda : poi carez- 



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LIBRO HI. 2 23 

cantiosi con altre amorevolezze come di amici e con- 
ginnti parlamentarono su la pace. L’ Albanese il primo 
incominciò : Sembrami necessario di additare , innanzi 
tutto , le cagioni per le quali io ti richiesi il primo di 
un colloquio pet dar fine alla guerra. Io non era vinto, 
non mi erano le vettovaglie impedite , nè altro disa-' 
gio qualunque mi violentava. Così non dovete voi cre^ 
dere che io cercassi un termine decoroso della guerra 
perchè io diffidava delle mie forze , o perchè troppo 
io giudicava superiori le vostre. Ben mi sareste voi 
gravosissimi se così foste di me persuasi : e certo , 
quasi già vincitori, non più vorreste mansuetudine di 
condizioni. Ma perchè non immagim'ate che tali false 
cagioni sono quelle per le quali io bramo ritogliermi 
dalla guerra, ascoltatene le vere. le scelto dittatore 
dalla mia patria nelC assumere appunto il comando 
esaminai li motivi che aveano le nostre città contur- 
bato. E vedendoli piccioli, leggeri, nè degni di scio- 
gliere tanta carità di amicizia e di parentela ; giudi- 
cai che nè i Romani nè gli Albanesi avean preso otti- 
me risoluzioni. Ma tanto più fui convinto di ciò, tanto 
più compiansi la manìa di ambedue noi quando fui 
dentro gli affari, e mi posi cipresso alle eiezioni 
di ciascuno. Non vidi quei d’Alba unanimi tutti per 
la guerra ne* privali congressi ò ne’ pubblici. E dolente 
già da gran tempo per ciò che io scopriva ne’ pensieri 
degli uomini , assai più mi disanimai e mi anneghittii 
pe' segni divini che infausti sempre mi si presenta- 
vano , quante volte io le vittime investigava su lesito 
della battaglia. Con tali agitazioni nelP animo raffre- 



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aa4 delle antichità’ romane 
nm t (vdor di combatter indugiando e differendo sempre 
di venire a giornata , sul concetto che voi li primi co- 
minciereste a trattar di amicizia. E si conveniva o T'alio 
che voi ciò faceste , voi germi di una nostra colonia^ 
non che aspettaste che la città madre , essa la prima 
a ciò discendesse. Certo quanta i padri dei figli, tanta 
riverenza si meritano i fondatori delle città dalle co- 
lonie. Ma intanto che noi temporeggiamo , intcmto 
che noi badiamo chi prima di noi dia principio a be- 
nevoli ragionamerUi ; altra necessità superiore di ogni 
umano riguardo c investe , e ci ricongiunge. E seb- 
bene io udiva che questa eravi occulta ancora ; pure 
io giudicai che non più fossero da attendersi le belle 
apparenze nel pacificarsi. O Tulio / cantra noi si con- 
gegnano macchine terribili, e ci si ordisce inganno ine- 
vitabile , il quale prestamente , e senza fatica , scor- 
rendo quasi incendio o torrente sconcerà e distruggerà 
le nostre cose. I Fidenati, iFejenti, questi formido/- 
bili popoli sono gli artefici deìt ingiusto disegno. Ora 
udite qual sia 1’ ordine della trama ; e come venne 
fino a me la notizia de' segreti consigli: 

yni. Cosi dicendo diede ad uno degli astanti perchè 
le leggesse , le lettere che gli aveva un tale recato da- 
gli ospiti suoi di Fidene, anzi presentò lo stesso portatore. 
Lette le dette lettere, e ridicendo il messaggero le cose udi- 
te pur in voce ; grande ne fu la sorpresa, com’ è verisi- 
mile che avvenisse , all’ udirsi tanto male fuori di ogni 
espettazione. F u|fezio dopo breve silenzio ripigliò: Ascol- 
taste o Romani le cagioni su le quali io m indugiai 
per non fare battaglia , ed ora io per il primo volli 




LIBRO 111. 



2j5 

ragionarvi di pace. Ora ponderale voi se per pecore 
e vitelli rapiti dee tenersi guerra implacabile co' padri 
e fondatori vostri, la quale desoli i vincitori nommeno 
che i vinti ; o se levandovi dalla inimicizia co' parenti 
alìbiale a venire con noi contro a' comuni nemici. 
Questi non solo macchinarono di ribellarcisi ma per- 
fino di assalirci ; nè già sof erivano alcuna gravezza, 
nè temer la doveano. Anzi non erano già per venire 
su noi , dichiarandocelo , come il diritto porta di guer- 
ra , ma taciturnamente , perchè meno le insidie ne 
scoprissimo , e meno ce ne guardassimo. Ma che noi, 
lasciate le inimicizie , dobbiamo con tutto il potere 
fulminarci contro que' perfidi ; che sia stolidità fare 
in contrario ; non bisogna che io lo ripeta , e v in- 
sista, specialmente che voi pure avete già deliberato 
altrettanto , anzi siete per farlo. Ora f poiché questo 
ancora bramavate voi forse di udire J dichiarerò con 
qual modo possa farsi pace decorosa e proficua tra le 
due genti. Io penso che tra popoli congiunti ed amici 
quelle paci siano fortissime e bellissime nelle quali 
più non sono i risentimenti nè le ricordanze de' mali, 
ma tutto condonasi a tutti quanto si è fatto o patito. 
In opposito quelle io ne penso meno decorose nelle 
quali ■ i popoli si assolvono ; ma gli offensori si astrin- 
gono alle pene de' tribunali a norma delle leggi e della 
ragione. Ora di queste paci dobbiamo noi sceglierne 
le più onorate e più generose ; e stabilire che niuno 
più ricordi a vicenda le offese. Che se tu non t'uoì 
per tal modo corKordarmiti, ma vuoi piuttosto o Tulio 

tìIOmCI . tomm I. 1 5 




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aa6 DELLE antichità’ romane 
che i colpevoli dieno co'' giudìzj P ammenda ; sappi 
che Aìha per ispegnere gli odj comuni, anche in ciò 
condiscende. Finalmente se hai tu mezzi ài riconcilia- 
zione più accorici e legittimi , deh ! non invidiarmeli, 
ma palesali, e ne sarai quanto dei ringraziato. 

IX. Al tacer di FuiTezio prendendo la parola il re 
de’ Romani disse : Noi pure o Fuffezio stimavamo gran 
danno di esser necessitati a decidere col sangue e colle 
uccisioni una disputa tra popoli consanguinei : e quante 
volte facevamo sagri fizj per dar la battaglia , tante 
volte infausti ci vietavano questi di cominciarla. Anche 
noi le abbiamo poco fa conosciute dagli ospiti nostri di 
que' luoghi le trame occulte de’ Fidenati e de’ Fé j enti 
contro nói due. Nè già siamo in verso di queste senza 
difesa : emzi abbiamo così preordinato le cose che noi 
rimaniamo immuni da ogni danno , ed essi la pena 
V incorrano de’ tradimenti. Bramavamo non meno di 
te di por fine alla guerra anzi senza combattere che 
combattendo. Pur non piacque a noi li primi spedirvi 
per la pace-, perchè i primi non avevamo cominciata 
la guerra, ma voi che la cominciavate respingevamo. 
Ora se voi deponete le armi, di buon grado ne se- 
guiamo V invito. Nè già sottilizziamo su le condizioni, 
ma le più stabili ne abbracciamo e le più generose ; 
dimenticando dal canto di Alba ogni ingiuria ed ogni 
mancanza , se mancanze sono di tutta la città quelle 
che vi causava Cluvilio il suo capitano , il quale in 
vendetta già di ambedue ne pagò le pene meritate 
agl Iddìi. Chiudasi dunque , come a te piace o Fuf- 
fezio, ogni adito a privati e pubblici lamenti, nè più 



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LIBRO III. 227 

memoria si tenga de mali che precederono. Non ba- 
sta però che provvedasi come noi spegniamo la inimi- 
cizia presente : ma dee farsi ancora che non jfiù ri- 
producasi. Già non siamo qui venuti a sospendere ma 
sibbene a dispergere i nudi. Tu lo tralasciavi o Fuf- 
fezio : ma io tenterò divisare eziandio per quale con- 
corso di opere noi diverremo gli amici di tutti i tempi. 
Noi lo diverremo se quei .^élba cesseranno d’ invi- 
diare d Romani pè beni che si procacciarono non senza 
grandi travagli e pericoli ; imperocché non essendo 
voi punto o poco danneggiati da noi ci odiereste per- 
chè migliori vi sembriamo nell' intraprendere. Cessino 
però non meno i Romani dalT aver sospetto il popolo 
di Alba quasi intento sempre alle insidie, e datÌL osser- 
varlo come nimico ; niuno essendo costante amico a chi 
r odia. Come conseguiremo poi tana e t altra di que- 
ste cose ? Noi la conseguiremo non se ne scriviamo le 
condizioni , non se le giuriamo ne’sagrifzf ; perocché 
piccioli e fragili schermi sono questi: ma se rigiuirde- 
remo le sorti nostre come comuni. O Fuffezio l uno 
è il rimedio per la invidia umana su beni altrui, vale 
a dire che gt invidiosi non riguardino come alieni da 
sé li beni degt invidiati. Ora perchè ciò facciasi , io 
penso che i Romani debbano accomunare fin da ora 
agli Albani tutto il bene che hanno o saran per avere: 
che gli Albani di buon grado se lo accettino ; e che 
voi , se non tutti , almeno la più parte , e li migliòri, 
diveniate cittadini di Roma. Se fu decoroso ai Sabini, 
se lo fu ai Tirreni , lasciando le proprie città, venire 
e modificarsi al nostro vivere; dite , noi sarà per vo 



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aa8 DELLE Antichità’ romane 
se farete altrettanto , per voi congiuntissimi co’ Ro- 
mani fin dalla origine ? Che se non vi piace edlog-‘ 
gioivi nella sola nostra città già grande, e già in via 
per divenire più grande , ma care avete le patrie vo- 
stre abitazioni ; fate almen questo. Eleggete un Senato 
il quale provveda ai vantaggi delt una e delf altra cit- 
tà, ma date il comando alla sola città più potente e 
più idonea a beneficare la men grande. Io così pro- 
pongo : e quando avrete fatto questo , allora conchiu- 
derò che noi saremo stabili amici. Ma finché abite- 
remo due città , pari come ora di autorità ; mai non 
saremo concordi. 

X. Udito ciò, FofTezio chiese tempo per deliberarne: 
e ritiratosi da quel colloquio consultò cogli Albani pre> 
senti se fosse da accettarsi il partito. A16ne , ascoltatine 
i roti , tornò nel consesso e disse: A noi non sembra 
o Tulio che abbiamo a lasciare solitaria la nostra pa- 
tria , deserti i templi paterni, vuote le case degli an- 
tenati, e desolata infine quella sede che i nostri padri 
tennero quasi per cinquecento anni; tanto più che nè 
guerra ce ne bandisce , nè flagello niuno del cielo. 
Non però ci dispiace che formisi un Senato , e che 
una sia la città che domini, sut altra ancora. Scrivasi 
questo se così vi pare , tra le condizioni , e levisi ogni 
seme di guerra. Concordi 6n qui , difTerivano poi sa 
la città che prenderebbe il comando. E molti furono i 
discorsi quinci e quindi tenuti, giustificando ognuno che 
dorea la propria città signoreggiare su l’ altra. L’ Al- 
bano insisteva su questo diritto : Noi o Tulio siam da- 
gni di comandare anche al resto d Italia, perchè una 



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LIBRO III. 229 

gente siamo di Grecia, e la più potente che qui in» 
torno si alloggi. Crediamo giusto di precedere i La- 
tini almeno , se non altri , nè già senza cagione; ma 
per la legge comune data dalla natura a tutti gli uomi- 
ni , che 1 padri comandino ai figli : crediamo che ci 
si convenga il Comando su la vostra città, piucchè su 
le altre , che pur sono nostre colonie , delle quali non 
possiamo finora dolerci. Noi abbiamo inviato la colo- 
nia nella vostra ; nè già da tanto tempo che siane 
per t antichità svanito ogni legame di sangue ; ma 
indietro da tre generazioni. Quando la natura avrà 
capovolte le leggi umane facendo che i giovani mag- 
gioreggino su veechj , e li posteri su gli antenati; al- 
lora , e non prima , noi sottoporremo la nostra città 
madre perchè sia governata dalla colonia. Questo è 
ìuno de' titoli della nostra superiorità, nè questo mai ce- 
deremo spontaneamente. Il secondo è tale. Voi lo pren- 
dete , detto non come per calunnia o doglianza , ma 
per sola necessità. Il popolo di Alba mantienesi an- 
cora qual era sotto de' fondatori : nè può alcuno ad- 
ditarvi altro ramo di uomini , se non Greci o Latini, 
partecipi della nostra repubblica: ma voi avete con- 
traffatto la sì gran purità della vostra cittadinanza in- 
trinsicandovi Tirreni e Sabini , ed altri barbari molti, 
erranti e senza patrj lari. Tanto che poco soprawanzavi 
di quell ingenuo lignaggio che da noi vi si diramava, 
ed è questo, come un solo, tra i moltissimi, rice- 
vuti dt altronde. Se noi vi cediamo il comando; il 
». non ingenuo comanderà su l ingenuo , il barbaro al 
Greco , i estero al patriota. Nè già potreste voi dire 



i 



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2.10 DELLE Antichità’ romane 
che non permettete a peregrini di amministrare il co- 
mune , e che voi , naturali del luogo , voi presiedete 
e regnate : voi creale re forestieri , e senatori in gran 
parte di altri popoli. Dite: v'inducete a ciò di vostro 
volere? Ma chi mai di voler suo f chi se più sia va- 
leni uomo abbandonasi cd governo dei meno riguarde- 
voli ? E se apparisce , che voi siete a ciò sospinti da 
necessità , ben sarebbe grande tj pravità , grande la 
manìa nostra se volontarj a tanto c inchinassimo. Da 
ultimo così dico ; in Alba niuna parte ancora si è 
smossa della repubblica : corre già , da che vi si abita 
la decima ottava generazione ; e V ordine ancora vi si 
mantiene , e le abitudini primitive. Ma la vostra città 
senza buorì ordine e senza bel complesso , come nuo- 
va , e sorta da più genti , assai bisogna di tempo e 
di vicende , perchè inferma e scissa , com’ ella è , sì 
articoli e calmisi. Tutti poi concederanno che deono 
le cose ordinate antistare alle disordinate , le cose note 
alle ignote , e le sane alle inferme. Voi dunque chie- 
dendoci in contrario ; non bene adoperate. 

XI. A Fuffezio che cosi ragionava sottentrando Tul.> 
lo rispose , o Fuffezio , o uomini di Alba noi li ab- 
biamo uguali con voi li diritti della natura e del me- 
rito de* progenitori ; perocché vantiamo ambedue la 
origine da capi medesimi. Quindi niuno è di noi da 
meno , o da più dell’altro. Noi non istimiamo nè vero 
nè giusto che debbano le città madri , quasi per legge 
indispensabile della natura, dominare su le colonie. 
E molte sono le nazioni dove le città madri servono, 
non comandano alle colonie. Massimo , luminosissimo 



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LIBRO III. aSi 

esempio del proposito mio si è Sporta , elevatasi a 
comandare non pur gli altri Greci: ma fino i Do- 
riesi da’ quali discendeva. Sebbene e che giova dir 
su gli altri? Voi stessi , voi padri della colonia che 
fece tlioma , voi non siete che un tralcio de’ Laviniesi. 
Quindi se diritto è della natura che le città madri 
regnino su le colonie, non saranno con precedenza i 
Laviniesi li legislatori de’ nostri popoli ? E ciò sia 
detto sul primo de’ vostri titoli sì bello nelle appa- 
renze. 

Siccome tu poscia o Fuffezio ti davi a contrapporre 
r una all’ altra città, quali sono, dicendo che il puro 
lignaggio di Alba rimanesi tale ancora; laddove il 
nostro si è degenerato col tanto soprajfondervi de' fo- 
restieri , e che non sono degni i non ingenui di co- 
mandare agli ingenui , nè i forestieri agl’ interni ; 
vedi, quanto anche in ciò ti sei deviato. Tanto è lungi 
che noi vogliamo vergognarci di rendere la patria no- 
stra comune a chi vuole; che anzi ,, di ciò moltissimo 
ci gloriamo : nè già siamo noi gli autori di tale isti- 
tuzione : ma ce ne diede Atene l’esempio , Atene tra 
Greci famosissima per questo, almeno in parte se 
non in tutto. E questa pratica è sorgente a noi di 
molti beni non che ci dia rimprovero e pentimento , 
quasi per essa, mancassimo. Tra noi comanda e prov- 
vede , e tali altri onori si gode chi di essi è degno 
non chi tiene il molto oro , nè chi può la serie ad- 
ditare degli avi sempre nazionali : perciocché non po- 
niamo in altro la nobiltà che nella virtù. ; l'altra mol- 
titudine non è che il corpo della città il quale som- 



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a3i DKLLE antichità’ romane 
ministra potenza e forza a savissimi consiglieri. Con 
tale benevolenza si è la nostra città fatta grande di 
piccola , e formidabile d' ignobile tra’ popoli intorno, 
ed è cominciata tra noi la forma di signoria , che 
tu o Fuffezio condanni , e che niuna ornai de’ latini 
può disputarci'; perocché sta la potenza delle città 
nella forza delle armi ^ e la forza delle armi nella 
moltitudine delle persone. Ma le città piccole , e spo- 
polate , e però deboli non comandano le altre , anzi 
nemmeno sé stesse. Jo generalmente stabilisco che uno 
debbe esaltare il proprio governo e riprovare quello 
degli altri, quando può dimostrare che la sua città 
col metodo che le ascrive , diviene glande e felice, e 
che le altre se ne decadono e sconciansi appunto col 
non seguirlo. Ora così vanno le cose; la vostra città 
già nel fior della gloria , già ricca di molti beni , si 
è ridotta ad uno scarso abitato ; e noi movendoci da 
piccioli principi abbiamo tra non molto tempo ingran- 
dito Roma più d’ ogni altra città vicina, e colle isti- 
tuzioni che tu ne biasimi. 

Le. nostre sedizioni, poiché di queste ancora tu ne in- 
colpi o Fuffezio, non tendono alla depressione o rovina, 
ma sibbene alla salvezza ed incremento del comune. I 
giovani vi contendono co’ schiari , i nuovi con gli an- 
tichi cittadini chi più debba operare il pubblico bene. 
E per dir tutto in breve , spettano alla città che dee 
comandare le due qualità , forza nel guerreggiare , e 
saviezza nel risolvere; e queste tra noi sono ambe- 
due. Né ce ne fa testimonianza un millantarsene vano, 
ma il fatto che supera ogni dire. Imperocché non era 



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LIBKO ni. 233 

possibile che la nostra città nella terza generazione 
appena dopo la origine, fosse già divenuta sì grande 
e' potente , se non abbondavano in lei senno e valore. 
Argomentano la nostra potenza le tante città. Ialine 
le quali sebbene da voi fondate , pure voi dispregiane 
do , si concederono a noi per essere comandate anzi 
da Roma che da Alba. E questo perchè potevamo noi 
prosperare gii amici e por già gl’ inimici ; ma non 
potfiono gli Albani altrettanto. Ben altre cose e for- 
tissime o Fuff&sio potrei rispondere ai diritti che ne 
presentasti. Ma considerando che vano è il disten- 
dersi , perciocché il dir breve vale quanto il prolisso 
con voi che siete i competitori , ed i giudici; cesso 
tT insistere. Aggiungo soltanto , e finisco, che io penso 
che tunica maniera , bonissima per togliere le nostre 
controversie, della quale si valsero greci e barbari 
ne’ dissidj di principato e di territorj sia questa , cioè 
che gli uni e gli altri veniamo a battaglia con una 
parte solamente dell’esercito, vincolando la sorte della 
guerra alla vita di pochissimi , e concediamo che la 
città che co’ suoi guenneri vince i guerrieri delt emu- 
la , quella domini ancora. Ben è giusto che ove le 
parole non vogliono , i brandi decidano. 

XII. Tali furono le dispute di que’ due principi su la 
preminenza delle città : ma il seguito delle dispute non 
fu se non quello suggerito dal Romano. Imperocché 
quelli di Alba e di Roma presenti al colloquio cercando 
^ un sollecito fine alla guerra ; deliberarono di risolver la 
lite colle armi. G)ncluso ciò, si ebbe controversia intorno 
ai numero de combattenti; non sentendone ambedue li ca- 



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a34 DELLE Antichità’ bomane 

pilani in un modo. Imperocché Tulio voleva che si de- 
cidesse la gara col menomo delle persone , contrappo- 
nendo per combattere uno de’ più riguardevoli Àlbahi 
ad altro simile de’ Romani : ed egli stesso era pronto a 
spendersi per la patria, invitando TAlbano ad emularlo. 
Diceva che era pur bello che quelii che prendono il 
comando delle schiere , prendano pur la tenzone pel 
comando e pel principato o vincano de’’ valent' uomini, 
o vinti ne siano. E qui ricordava quanti capitani e quanti 
re cimentarono la vita loro per lo comune , tenendo 
essi a vii cosa di partecipare al più degli onori , ed al 
men della guerra. L’ Albano credea ben detto che do- 
vessero le due città rischiarsi con pochi: discordava però 
su la battaglia di un solo contro di un solo. Esponeva 
che bello, anzi pur necessario è il combattimento da 
solo a solo intorno la sovranità pe’ capi degli eserciti 
quando fondano la propria potenza; ma che stolido anzi 
vituperoso è ne’ suoi pericoli quando ne disputano due 
città sia che sperimentino sorte propizia sia che malva- 
gia. Adunque consigliava che tre valent’ uomini dell’una 
e tre deU’allra città pugnassero in vista di tutti gli Al- 
bani e Romani ; essendo questo numero , come avente 
principio , mezzo e fine , propriissimo alla total decisione 
della controversia. Ciò stabilito per voto de’ Romani e 
degli Albani il congresso fu sciolto ; e ciascuno ritornò 
nei proprj 'alloggiamenti. 

XIII. Poi convocando i capitani ciascuno le loro mi- 
lizie a parlamento , riferirono la disputa vicendevole , e 
le condizioni ricevute per la soluzion della guerra. Ap- 
provarono vivamente gli eserciti i patti di ambedue li 



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LIBRO III. 



235 

capitani ; e gara meravigliosa di onore comprese centu- 
rioni e soldati ; desiderando moltissimi di riportare la 
palma di quel combattimento , e studiandovisi non pur 
con parole , ma profTerendovisi con preludj di bell' ar- 
dore ; tantoché si rendette malagevole ai duci il giudi- 
zio su quelli che erano i più idonei. Se alcuno vi era 
nobile per luce di origine , o forte per gagliardia di 
corpo , o cospicuo pe’ fatti di arme , o segnalato co- 
munque per eventi ed ardire, insisteva che mettessero 
lui primo fra i U'e. Ma tali fiamme di emulazione che 
più e più si dilatavano in ambedue gli eserciti le ri- 
presse il capitano di Alba col riflettere che la provvi- 
denza celeste antivedendo già da tanto tempo la tenzone 
che sarebbe tra le due città , ne avea preordinato che 
quelli che vi si cimenterebbero fossero non ignobili di 
lignaggio , buoni in guerra , belli a vedere , nè simili 
a molti pe’ casi della nascita rara, meravigliosa , impen- 
sata. Sicinio un di Alba avea nel tempo medesimo ma- 
ritato due figlie gemelle , 1’ una ad Orazio Romano, e 
r altra a Curazio (i) un Albano di popolo. Ingravida- 
rono ancora ambedue queste donne in un tempo , ed 
ambedue diedero nel primo parto prole virile , e trige- 
mina. I genitori pigliandone buon augurio per sé , per 
le famiglie, e per le patrie allevarono e perfezionarono 
tutti que’ gemelli. Iddio , come io dicea da principio , 
diè loro beltade, robustezza, magnanimità; talché non 
cedeauo a niuno de’ben avventurati per indole. A questi 

(i) Mei testo Corazio. Sigonìo crede che vada bene e che in Tito 
Livio si debba leggere Curazio , com' egli ha trovato in un mano- 
scritto e non Cariazio come comnnemente si legge. 



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2 36 DELLE antichità’ EOMANE 

deliberò FufTezio di appropiare la battaglia sa la pre- 
minenza de’ popoli. Quindi invitando vid un colloquio 
il re di Roma gli disse: 

XIV. Un Dio , sembrcuni o Tulio che provvedendo 
le nostre città, dia loro segni manifesti di benevo- 
lenza in p ià cose; come su la tenzone imminente. Cer- 
to ben dee parere in tutto opera divina e meravigliosa 
che si rinvengano per combatterci uomini non inferiori 
a niuno di prosapia , buoni nelle armi , belli a ve- 
dere j originati da un padre , nati da una madre sola, 
e venuti', ciò che è pià singolare, in ungiamo stesso 
alla luce ; e tali sono gli Orazj fra voi , tali fra noi 
li Curazj. Che dunque non abbracciamo una tale 
provvidenza divina , e non assumiamo ambedue per 
questa gara di sovranità que trigemini ? Bisplendono 
tn essi ancora le doti sublimi, quante altre mai ne 
brameremmo in chi fosse per uscire al paragone delle 
armi; ed essi pià che tutti gli Albani e Romani han 
pure il bene che essendo fratelli non abbandoneranno, 
pericolano , i compagni nella impresa. Cesserà su- 
bitamente rimpetto a loro la emulazione difficile a 
calmarsi per altra maniera in altri giovani , de' quali 
tnolti tra voi penso che di virtà competerebbero , come 
Ji'a gli Albani competono. Noi persuaderemo questi 
di leggeri , se additeremo loro come la bontà Divina 
ba prevenuto le sollecitudini umane , dandoci con. 
egualità chi decida con le armi le contese della pa- 
tria. Nè già crederanno di essere superati dalla virtit 
dè' fratelli trigemini; ma da certa prosperità di na- 
tura ed opportunità di fortezza eguale in essi per 
competere. 



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LIBRO III. 287 

XV. Cosi disse Fuffezio , e comune ne fa I’ appro- 
vazione , quantunque presenti vi fossero i più bravi di 
Alba e di Roma. Soprappensò Tulio un poco , e se- 
guì : Ben sembra o Fuffezio che abbi tu saviamente 
concepito. Imperocché meravigliosa è la sorte che ha 
dato in questa generazione ad ambedue le città prole 
tanto simile; quanta altra volta mai non vi s’incontrò. 
Mi sembra però che non abbi tu considerato che as- 
sai rattristeremo i giovani se chiediamo che fra loro 
dontendano. Imperocché la madre degli Orazj nostri 
è sorella della madre de' vostri Curazj : e questi cre- 
sciuti giovanetti nel seno di tali due donne si carez- 
zano ed amansi come fratelli. Bada che non sia forse, 
indegna cosa dare le armi e sospingere gli uni alla 
morte degli altri, questi, congiunti per fratellanza e 
per educazione. Il sangue se vi si astringono , il san- 
gue di cui si lordano ritornerà su noi che ve li astrin- 
giamo. Replicò F ufTezio ; iVbn ignoro o Tulio , il pa- 
rentado de’ giovani ; nè io già , se li ricusano , sono 
per violentare i cugini alla battaglia. Ma non sì tosto 
mi venne in pensiero di mandare dal canto mio li 
Curazj di Alba io gli investigai se porrebbonsi vo- 
lentieri al cimento. E ricevendo essi il dir mio con 
enfasi incredibile e meravigliosa, io fui deliberato 
allora di svelare e proporre quel mio sentimento. Sug- 
geriscoti che anche tu facci altrettanto chiamando quei 
tuoi trigemini, ed esplorandone i cuori. Che se vor- 
ranno anch’ essi esponersi per la patria , tu ne ac- 
cetta la benevolenza : ma se ricusano , tu per niun 
modo non isforzarvegli. Io di loro presagiscoti cioc- 



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238 DELLE antichità’ ROMANE 
c/l’ è degli altri miei. Se come abbiamo ascoltato ( giac~ 
chè venuta è fino a noi la fama della loro virtà ) sa~ 
migliano i pochi bennati, e se bellicosi ancor sono 
per indole ; abbracceranno prontissimi , e senza che 
niuno ve li necessiti , di combattere per la patria. 

XVI. Accolse Tulio il suggerimento : e conchiusa una 
tregua di dieci giorni per consultarsi, e tentare 1’ animo 
degli Orazj, e risponderne ; si ricondusse a Roma. Deli- 
beratosi ne’ primi sei giorni co’ migliori , e vedutili per 
lo più propensi agl’ inviti di Fufiezio; chiamò li fratelli 
trigemini , e disse : Fu/fezio o uomini Orazj , abboc- 
catosi meco nell' ultimo congresso nel campo , mi 
annunziò , che crasi fatto per la provvidenza degli 
Iddii , che si cimenterebbero per V una e per V altra 
città tre bravi , de quali invano ne cercheremmo altri 
più. valorosi, o più idonei, cioè li Curazj per Alba, 
e voi pe'Jìomani. Ciò conoscendo , mi disse, che aveva 
egli primo investigato , se que vostri cugini si espor- 
rebbero volontari per la patria : e trovatili che ar- 
dentissimi correrebbono ad ogn impresa, inanimatone 
mi propose V evento , invitandomi perchè io vedessi 
di voi parimente , se voleste offerirvi per la patria , 
e rispondere in campo ai Curazj , o se lasciaste ad 
altri tanta emulazione. Ben io mi argomentava che 
voi per lo valore dell’ animo, e per la possanza delle 
mani , doti in voi non occulte , spontanei più che tutti, 
vi rischiereste per trionfare : ma temendo che la con- 
sanguinità vostra co’ tre gemelli di Alba non fosse 
un impedimento al vostro ardore , chiesi tempo a ri- 
solvermene , e feci tregua con lui di dieci giorni. Re- 



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LIBRO III. 289 

stituitomi in Roma adunai li senatori, e proposi l’qf- 
fare sicché ne discutessero. Parve al più, di loro 
che se voi spontanei vi mettereste alla impresa, bella 
e degna di voi , impresa che io già voleva , solo io 
per tutti combatterla ; allora ve n esaltassi e v ac-^ 
cettasi. Ma se voi, restii contro al sangue de vostri, 
e non già confessandovi pusillanimi, dimandereste al- 
tri fuori della vostra famiglia ; allora , parve loro , 
che io non dovessi farvene la menoma violenza. Così 
pronunziava il Senato : nè già ne avrà egli ramma- 
rico se voi riguarderete la impresa come grave: ma non 
picciola è la gratitudine che dovravvene , se voi pre- 
gierete la patria più de’ parenti. Or su ponderate col 
bene vostro , ciocché siate per farvi. 

XVII. Udendo i giovani questo ; si ritirarono , e con- 
ferirono brevemente. Tornatisi quindi a rispondere cosi 
disse il maggiore fra loro : Se noi fossimo liberi; se 
fossimo gli arbitri unici delle nostre risoluzioni; e tu 
ci avessi o Tulio incaricato di consultarci su la pu- 
gna contro i nostri cugini: già ti avremmo risposto 
de' nostri voleri. Ma perocché vive il nostro genitore 
senza cui niente vorremo dire nè fare ; preghiamoti 
che ci concedi alcuna requie a risponderti , finché ce 
ne intendiamo con esso. Encomiando Tulio la pietà 
loro , e volendo che cosi appunto facessero ; partirono 
in verso dei padre. Dichiaratogli l' invito di F uffezio, il 
colloquio di Tulio con essi , e la risposta vendutagli ; 
alfine insisterono perchè dicesse ciocch'egli ne sentisse. 
E colui sottenlrando disse : Pietosamente o figli ado- 
peraste riserbandovi al padre , nè risolvendovi senza 




a4o DELLE Antichità’ romane 
lui. Ma ò tempo ornai che voi pure vi manifestiate 
idonei a tali consigli : concepite già venuto il fine dei 
miei giorni; palesatemi ciocché scegliereste di fare , 
deliberandovi tra voi sema del padre : Allora cosi 
rispose il maggiore: Noi o padre assumeremmo a noi 
di combattere per la preminenza di Roma, e ci por- 
remmo alle vicende che a Dio si piacessero; bramosi 
anzi di morire che di vivere indegni di te e degli oìv- 
tenatì. Il ligame del sangue co’ nostri cugini non lo 
avremo noi sciolto i primi; ma come sciolto già dalla 
sorte , placidi lo mireremo : perocché se i Corcai; sti- 
mano la parentela men che il benfare ; nemmeno agli 
Orca] parrà quella più. onorevole della virtiu Come 
il padre conobbe i loro sentimenti , divenutone lietissi- 
mo, e sollevando le mani al cielo , parve che rendesse 
copiose grazie agl’Iddii, perchè gli avessero dato figli 
onesti e generosi. Quindi prendendoli uno per uno , e 
dando loro soavissimi amplessi e baci di amore , voi vi 
avete, disse, magnanimi figli , anche il mio voto. An- 
• date j rispondete a Tulio i pietosi e belli sentimenti. 
Allora giojosi quelli per le ammonizioni paterne si di- 
visero, e corsi al monarca accettarono la battaglia. E 
colui convocato il Senato , e mollo encomiativi i gio- 
vani spedisce messaggeri alPAIbano per dichiarargli che 
i Romani sieguono ,il suo volere , e pongono gli Oraz) 
per combattere sul principato. 

XVIII. Ora dimandando il subbletlo che rappresentisi 
diligentemente la forma della battaglia , nè scorrasi di 
volo su’ casi che la seguirono, simili a quelli di una 
tragedia , tenterò di pareggiare , quanto io posso , coi 



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LIBHO III. 34 I 

detti ogni cosa. Venuto il tempo di compiere le con- 
disioni , uscirono tutte in campo le milizie romane , e 
dopo le milizie , fatte prima suppliche ai Numi , usci- 
rono i giovani. Essi ne andavano compagni del re , 
mentre il popolo per tutta la città gli acclamava , e 
spargeva loro de’ fiori sui capo. Erano già uscite an- 
ch’esse le schiere albane. Collocatesi le une in vicinanza 
delle altre destinarono per teatro dell’ azione il campo 
che separa i confini di Alba e di Roma ove già s’ al- 
loggiavano entrambi gli eserciti. Quivi sagrificando giu- 
rarono anzi tutto Romani ed Albani su le vittime che 
ardevano di essere contenti della sorte la quale per 
r una e per l’altra città risulterebbe dal combattere dei 
cugini, e di osservare santamente i patti senza mescervi 
inganno , essi nè i posteri. Compiuti tali sacri riti in 
verso de’ Numi si avanzarono in arme dal proprio 
campo , spettatori gli uni e gli altri della battaglia ; la- 
sciando , tre stadj o quattro di spazio intermedio pei 
combattitori. Prescntaronsi indi a non molto il capitano 
di Alba ed il re di Roma conducendo quello i Curazj, 
e questo gli Orazj , armati splendidissimameute , e con 
apparato quale il prendono , uomini destinati alla morte. 
Giunti gli uni vicino agli altri consegnarono le loro 
spade agli scudieri ; e corsero e si abbracciarono, pian- 
gendo vicendevolmente , e chiamandosi co’ più teneri 
nomi; talché datbi tutti intorno alagrimare, accusavano 
la grande inumanità loro , e de’ capitani , perché po- 
tendo definire la lite con altri , l’ aveano ridotta al 
sangue de’ parenti ed ai contaminarsene delle famiglie. 

DIOHIGI , Uno X. „ '*» 



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242 DELLE Antichità’ romane 
Staccatisi CDalmente i giovani dagli amplessi , ripigliale 
dagli scudieri le spade , e già ritiratisi quanti s’ aveano 
intorno , si contrapposero secondo la statura , e si av- 
ventarono. . 

XIX. Stavansi Gn qui le milizie placide e senza cla- 
mori : ma poi da ambedue proruppero grida frequenti , 
esortazioni scambievoli per chi avea da combattere e 
voti e rammarichi , e continui suoni di voce , varj se- 
condo r ondeggiare vario della mischia , quali per le 
cose fatte e vedute dall’ una e dall’ altra parte , e quali 
per le cose future o pronosticale : ma più dalle imma- 
ginazioni ne derivavano che dai successi ; perocché la 
visione fatta in tanta distanza non era ben chiara ; e 
passionandosi tutù pe’loro combattenti, prendeano come 
avvenuto quanto ideavano. E gli assalti incessanù , le 
ritirate degli emuli , e li passaggi rapidi , e li rivolgi- 
menù (i) degli uni in su i luoghi degli altri levavano 
ai riguardanù la forza del distinguere. Durò tal vicenda 
gran tempo; perocché gli uni e gli altri aveano pari le 
forze del corpo , pari la generosità degli animi , e bo- 
nlssime le armi che li circondavano; nè rimaneano loro 
membra alcune indifese ; tanto che feritivi , subito ne 
morissero. In tale stato molti Romani e molti Albani 
in mezzo all’ansia di vincere e nel commovei'si pe’loro 
atleti , s’ inGammavano , elGgiandosi appunto con gli 
affetti di quelli , quasi volessero anzi star nel conflitto , 
che rimirarlo. AlGne il maggiore degli Albani serratosi 
col Romano che stavagli a fronte , e dando e ricevendo 

(1) Cioè il voiiat della taccia, molalo luogo. 



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LIBRO III. 243 

colpi su’ colpi ; immerse non so come la spada nel> 
r anguinaja dell’ emulo. Questi ingrevilo già da altre 
ferite ai riceverne l’ ultima e mortale , cadde , rilascian* 
dosi nelle membra , e spirò. Alzarono a tal vista gli 
spettatori tutti le grida ; gli Albani come già vineitori , 
e li Romani quasi già vinti ; concependo i due loro 
fàcilissimi da essere conquisi dai tre degli Albani. Frat' 
tanto il Romano che era per soccorrere il caduto com> 
pagno y vedendo quanto l’Albano rabbellivasi ai fausto 
evento , si spiccò come un lampo su lui , e menando 
e riportando ferite in copia , alfine gli cacciò la spada 
nella gola e lo uccise. Ricambiatisi in poco d’ ora i 
successi de’ combattenu , e le affezioni degli spettatori , 
elevandosi i Romani dal primo abbassamento , e per^ 
dendo gli Albani la esultazione ; un’ altra volta ancora 
la sorte spirò contraria ai Romani, e ne umiliò le spe< 
ranze , animando quelle de’ competitori. Perciocché ca- 
dendo l’ Albano , il fratello che gli era vicino si scagliò 
so r assalitore. Diè l’ un su F altro contemporanee gravi 
percosse. L’Albano cacciò la spada tra spalla e spalla 
fino alle viscere del Romano : e questi , traforandone 
lo scudo, recise all’altro l’ interno del ginocchio. 

XX. Colui che s’ avea la terribile ferita cadde , e 
mori. L* altro non poteasi piò tenere sul ginocchio mal 
> concio ; por zoppicandone , ed appoggiandosi via via su 
lo scudo , reggeva ancora , e si ritirava presso del fra- 
tello rimastogli , che starasi alle prese col Romano. Re- 
stava a questo F uno de' contrarj a fronte , venendogli 
r altro da tergo. Allora temendo che avendola a fare 
con due che da due lati lo investivano , sarcbbenc fa- 



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244 DELLE ANTICHITÀ.’ EOMANE 

cilmente rlnthiuso : e trovandosi invulnei^to ancona ; 
pensò di separare i nemici e combatterne . 1’ uno dopo 
r altro. Concepì che avrebbeli facilmente disgiunti se 
facesse vista di fuggire; non potendo ambedue segui* 
tarlo , giacché vedeane l’ uno infermo del piede. Cosi 
deliberato fuggi con quanto avea di velocità , nè gli 
vennero meno le speranze. L’ albano che non avea piaga 
mortale , tennegli immantinente appresso; ma l’ invalido 
a camminare si rimase più addietro che non dovea. Qui 
gli Albani confortavano i suoi : riprendevano i Romani 
il proprio guerriero : anzi cantavano quelli e si magui- 
fìcavano , come sul termine glorioso della impresa ; ma 
s addoloravano gli altri come non più potesse la for- 
tuna rasserenarsi verso di loro. Quando ecco il Roma- 
no, coltone il punto, si rivoltò rapidissimo ; e prima 
che r Albano potesse guardarsene , gli diè colla spada 
in un braccio , e spiccoglielo nel gomito. Fattagli . ca- 
dere la mano e colla mano la spada gli sopraggiunse 
un colpo , e con questo la morte. Quindi si lanciò su 
r ultimo albano e lui già derelitto , già semivivo scannò. 
Poi spogliati i cadaveri de’ cugini , corse in città ; volendo 
esso il primo dare al padre la nuova della vittoria. 

XXL Portavano però i destini che essendo mortale 
anch’ egli non avesse prospera ogni cosa ; ma sentisse i 
morsi ancora della invidiosa fortuna. Lo avea questa iu 
pochi momenti venduto grande di picciolo, e sollevato 
a chiarezza inaspettata e mirabile, e questa appunto nel 
medesimo giorno lo gittò dentro amara sciagura, spin- 
gendolo ad uccidere la sorella. Come egli fu vicino alle 
porte di Roma , videvi moltitudine immensa che fuori 



•A 



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LIBRO III.- 245 

se, ne versava, e vide accorsa con essa ancor la sorella.^ 
Tnrbato ài primo vederla perchè essa, donzella ornai 
nubile, ave^ lasciato la custodia materna, e si fosse 
esposta in mezzo di turba incognita ; ne formava pen- 
sieri funesti: ma si rivolse alfine ad altri più miti e be« 
nevoli , quasi ella cedendo al muliebre genio avesse ne*, 
gletto il decoro per desiderio dì salutare primieramente 
il fratello salvo , e d’ intenderne i fatti virtuosi degli' e- 
stinti. Colei però s’era ardila di mettersi alla insòlita via 
non' per desiderio del fratello ma vinta dall’ amore di 
uno de’cugini , col quale aveale il padre fuo concordate 
le. nozze. Celavano colei l’ ineffabile afletto ; ma poiché 
seppe da un tal dell’ esercito gli eventi della giornata ; 
non più lo contenne : ma lasciati i domestici lari corse 
come furiosa alle porle di Roma, nemmeno volgendosi 
alla nutrice che la seguiva , e la richiamava. Uscita dalla 
città come vide il fratello festevole colle ghiriande trion- 
fali dntegli dalle regie mani , e gli amici che portavano 
le spoglie degli estinti , e tra le spoglie ancora 1’ am- 
manto vario , che essa avea colla madre tessuto e màh- 
dato in pegno delle nozze allo sposo, giacché usano gli 
sposi futuri tra’Latini abbigliarsi di ammanto vario; come 
vide il caro suo dono macchiato di sangue ; si lacerò le 
vesti , si battè con ambe le mani il petto; ululò , richiamò 
l’ amato cugino ; tanto che grande stupore ne invase 
quanti in quel luogo si stavano. £ pianto il destino dello 
sposo folgorò col fisso sguardo sul fratello , e gridò: Tu 
esulti o sozzissimo uomo su la occisione decagoni, e 
tu , scellerato , tu privasti con ciò dello sposo la mi- 
sera sorella tua. Nè pietà senti de’ trafitti parenti che 



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2 46 DELLE Antichità’ romane 

pure chiamavi fratelli tuoi; ma f innebrj di gioja 
quasi per buonissima impresa y e vai fra tanti mali 
coronato. E qual cuore è mai il tuo ? forse di una 
fera ? ■■ anzi , colui replicò , di un cittadino che ama la 
patria ; di uno che punisce chi le vuol male , siasi 
egli un estraneo o siasi un domestico. E tra questi 
colloco te pure , te' che vedendo i beni grandissimi , 
e i grandissimi mali in un tempo awemUici, la vit- 
toria della patria che io qui ti presento , e la morte 
de tuoi fratelli ; già non esulti o malvada pe’ beni 
comuni della 'patria , nè ti addolori pe’ domestici in- 
fortuni > spregiati i fratelli , non sospiri che lo 
sposo ; e profani te stessa non fra le tenebre ; ma 
nel pubblico aspetto di tutti. A me la mia virtù, 
rimproveri , a me le mie corone ! O non vergine , 
non ‘sorella, e non degna degli avi! Poiché dun- 
que non piangi i fratelli ma lo sposo ; poiché tieni 
il corpo co’ vivi , ma V anima colf estinto ; va , ten 
corri a lui che richiami, nè più. disonorare il geni- 
' tare , e i fratelli. Cosi dicendo , più non serbò misura 
nell’ odio della scellerata ; ma le immerse con quanto 
area d* ira la spada ne’Ganchi; ed uccisala andossene al 
padre. I costumi e gli animi de’ Romani erano allora 
cosi pieni dell’odio del male, e cosi fermi in questo; 
che se alcuno li voglia paragonare co’ nostri , dirà che 
erano aspri e duri, nè diversi molto da quei delle fiere. 
Il padre udita la spaventevole uccisione non -solo non 
se ne corrucciò ; ma la tenne come debita e decorosa ; 
perciocché nè permise che fosse portata nella sua casa ; 
nè procurò che la seppellissero nelle tombe degli avi ; 



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LIBRO III. 247 

nè clic fosse con esequie e fregi, c conianque coTunebri 
riti onorata. Ma coloro che passavano dove giacevasi uc< 
elsa , le giturono sopra sassi e terra , prendendone 
enra come di un abbandonalo cadavere. Tali erano le 
d urezze di quest’ uomo , e tali pur sono le alure che 
aggiungo. Egli nello stesso giorno fece a’ Numi patemi 
come su di opere felici e belle i sagrifizj che avea loro 
promesso * e tenne a sjdendido convito i conginnti , e 
tràttOTveli come nelle amplissime feste, riputando i suoi 
mali vii cosa rimpetto al bene comune della pairia. E ri- 
cordano che molti altri , distintissimi tra’ Romani , fecero 
pur lo stesso di sagrifìcare, di coronarsi,, di trionfare in 
'vista della morte recente de’fgli quando il pubblico ne 
prosperava. Ma di ciò dirò nei loro tempi. 

XXII. Dopo la tenzone de’ trigemini i Romani i quali 
erano in campo, ergendo magniCebe tombe agli estinti 
ne’ luoghi ove, caddero, facevano agl’Iddii sagrifizj trion- 
fali in mezzo ai più dolci trasporti. Ma gli Albani 
dolendosi e rimproverandosi del capitano come di uno 
sconsigliato , durarono fino a sera per lo più digiuni e 
senz’alira cura niuna del corpo in quel giorno : nel se- 
guente il re de’ Romani chiamandoli a palpamento assai 
li racconsolò , perchè non fe’ loro vergogna , nè du- 
rezza , nè cosa disacconcia a’ parenti. Ma provvido u- 
gualmente del bene di ambedue le città lasciò ad essi 
per capo lo stesso Euffezio, c senza muovere o rifor- 
mare niuna delle istituzioni civili ricondusse in patria 
l’esercito. Ora avendo egli già trionfato secondo i de- 
creti del Senato , e ricominciato a trattare delie cose ur- 
bane , vennero a lui cittadini pon ignobili conducendó 



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248 DELLE antichità’ ROMANE 

ed accusandogli Orazro come lordo di sangue domestico 
per la uccisione deila sorella. E postosene il giudizio , 
assai vi perorarono , allegando le leggi che non pei>> 
mettono che uccidasi alcuno impunemente, e riferendo 
gli esempi dati dagl’iddi! su le, città che non vendicano 
gli scellerati. Faceva il padre le difese del giovine, ed 
incolpava la Gglia ; pretestando eh’ ella non ebbe morte, 
ma castigo : che niuno era nella domestica sciagura giu- 
dice più acconcio di lui come genitore di ambedue. Mol- 
tiplicandosi da arabe le parti i discorsi, assai fu per- 
plesso il monarca come avesse a terminare il giudizio. 
Eigli per non portare la colpa, e la maledizione nella 
magione sua da quella dell’ autore di esse credea bene 
che non si assolvesse chi dichiaravasi reo del sangue 
della sorella , sparso prima di ogni condanna, e per ca- 
gioni per le quali vietano le leggi che uccidasi : non 
ammettea però che si avesse ad immolare come un omi> 
cida chi avea scelto di cimentarsi per la patria e tanta 
signoria le avea procacciato , mentre nou tenealo per 
colpevole il padre stesso a cui la natura e la legge danntT ' 
i primi diritti di risentimento per la figlia. Incerto come 
decidersi , tenne da ultimo per lo meglio rimetterne al 
popolo la sentenza. Il popolo Romano divenuto allora 
la prima volta giudice di un omicida si attenne alle de-^ 
siinazioni del padre , ed assolvette il suo liberatore dalla 
morte. Pure non istimava il re che' bastasse a chi volea 
mantenere la pietà verso i Numi tal giudizio venduto 
dagli uomini: ma chiamati i pontefici commise loro .che 
placassero i Geni! e gl’ Iddi! , e mondassero il giovine 
colle espiazioni le quali purificano da morti involontarie. 



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# 

LIBRO III. a 49 

E quelli eressero due altari, l’uno a Giunone, Dea 
difenditrice delle sorelle , e 1’ altro ad uno Dio , chia- 
mato (i) Genio da’ nazionali , col nome appunto de’cu- 
gini Curazj uccisi dal giovane. E facendo su questi de’ 
sagrifìzj , ed usando nondimeno altre espiazioni, da ul- 
timo passarono 1’ Orazio sotto il giogo. Costumano i Ro- 
mani , quando diventano gli arbitri di nemici che ab- 
bassano le armi , di piantare due aste diritte , acconcian- 
done una terza supina su di esse ; e poi di passarvi sotto 
li prigionieri, e dimetterli alfine liberi verso le patrie loro. 
E questo è ciò che chiamasi giogo. Coloro che lustra- 
rono J1 giovane si valsero di tal ultimo rito nel puri- 
ficarlo. I Romani tutti stimano sacro il luogo della città 
dove fu praticata la cerimonia. Rimane questo nell’ an- 
gusta via che mena giù dalle Carene coloro che ven- 
gono all’angusta via Cipria. Ivi sorgono altari allora edi- 
ficati , e su gli altari stendesi 1’ asta supina confitta ai 
due muri contrapposti: pende questa sul capo di quelli 
che ne escono , e chiamasi nel parlar de’ Romani asta 
o legno della sorella. Questo luogo onorato con annui 
sagrifizj ricorda in Roma ancora la sciagura del giovane: 
ma ricorda il valor suo tra la battaglia la colonna an- 
golare che è principio del portico secondo nel Foro dalla 
quale pendevano già le spoglie de’trigemini Albani. Le 
armi vennero meno per gli anni ; ma la colonna ser- 
bane ancora la denominazione chiamandosi pilastro Ora- 
zio. Che anzi evvi in Roma una legge nata da tal fatto , 

(i) Genio Curazia: fu così detto perchè destinato a placare le 
ombre de' Coratj . Ed Orazio meritava appunto di essere espiato 
dal sangue della sorella e de’ cugini. 



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aSo DELLE Antichità’ romane 
ed osservatavi pur nel mio tempo , a riverenza e gloria 
de’ giovani immortali, la quale ordina che nascendo dei 
tiigemini si dispensino per essi a pubbliche spese i vi* 
veri Gno alla pubertà. Tal Gne ebbe la serie delle cose 
degli Oraz] iniessuta d’ inaspettate e meravigliose vi- 
cende. 

XXIII. Indugiatosi il re de’ Romani per un anno onde 
apparecchiare quanto era d’uopo alla guerra; inGne de- 
liberò di avanzar coll’ esercito contro Fidene. Preodea 
le cagioni di guerra da questo , che invitau i ciuadioi 
di essa a giustiGcarsi circa le insidie ordite su gli Al- 
bani e Romani non aveano ubbidito , anzi dando in un 
subito alle armi e chiudendo le porte e congregando le 
schiere ausiliarie de’ Yejenti , erai^si manifestamente ri- 
bellati. Aggiungevasi , che andati gli oratori per inten* 
dervi le ragioni della rivolta, i Fidenati non altro ri- 
sposero , se non che non aveano essi cosa alcuna co- 
mune co’ Romani Gn dalla morte di Romolo al quale 
si erano , giurando , congiunti di amicizia. Su tali ca- 
gioni armò le sye milizie , e fe’ richiedere le conJede- 
rate , delle quali Mezio F uffezio recava da Alba le più 
numerose in apparato bellissimo ; tantoché superava ogni 
altra forza amica. Tulio commendò Mezio, come detet^ 
minato a prendere seco lui la guerra ardentissimamente, 
in ogni miglior modo ; e Io rendè consapevole di tutti 
i disegni. Ma quest’ uomo incolpato già da’ suoi come 
rio capitano di guerra , anzi calunniato di tradimento ; 
questo dopo che si era tenuto per tre anni sotto 1’ au- 
torità suprema di Tulio , alGne sdegnando un princi- 
pato schiavo dell’ altrui principato , e di essere diretto 



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LIBRO III. s5l 

pimtosto che dirigere; macchinò cosa non degna. Im- 
perocché mandati messaggeri segreti a’ nemici de’ Ro- 
mani , irresoluti anewa per la ribellione , gl’ infiammò 
^ , che non piò dubitassero ; promettendo che in mezzo 
della battaglia investirebbe egli stesso i Romani. E tali 
cose macchinando e facendo ; potè rimanersene occulto. 
Tulio apparecchiate le milizie sue e quelle de’ com-i 
pagni le portò su’ nemici, e valicato il fiume Aniene si 
pose non lungi da Fidene : ma scoprendo innanzi di 
questa io ordinanza un gran numero di Fidenati e loro 
compagni si tenne in calma tutto quel giorno: nel se- 
guente convocando 1’ albano F nlfezio , ed altri de’ piò 
intimi amici ponderò con essi com’era da praticare la 
guerra ; e poiché parve loro che fosse da combattere spe> 
ditamente, senza indugiarvisi ; egli preaccennando i po- 
sti e r ordine che ognuno prenderebbe , e destinando 
per la zuffa il prossimo giorno , congedò l’ adunanza. 
Quindi FufFezio che ancora tenevasi occulto con molti 
degli amici sul tradimento che meditava , fatti a sé ve- 
nire i più cmpicui tra’ suoi centurioni e tribuni disse: 
XXIV. Tribuni , centurioni , io sono per comuni- 
carvi grandi , inaspettate cose , che vi tacqui finora. 
Vi raccomando se non volete distruggermi che voi 
pure le taciate : anzi che miei cooperatori vi siate , 
se utili a compiersi vi parranno. Il tempo angusto 
non consente che io distesamente vi parli di ogni cosa; 
e ristringomi alle primarie. Io per tutto V intervallo 
che fummo subordinati a' Romani fino a questo giorno ; 
io m’ ebbi una vita piena di vergogna e di ramma- 
rico j eppure fui onorato dal monoica loro della ma- 




aSa DÈtLE Antichità*' ROMANE 

gisàratitra 'suprema , oggimaì da tre anni, è lo sarò' 
nemmeno per sempre se il voglio. Ma perciocché mi 
parca t estremo de* vituperj che io' solo mi fossi felice' 
nella sciagura comune ; e vedeva intanto io bene che 
eravamo stati spogliati della sovranità contro tutti i 
diritti sacri dell’ uomo ; cosi mi diedi a considerare 
come potessimo ricuperarla , ma senza rischiarvi gran 
fatto. E discorrendola io meco moltissimo ti-ovai una 
via sola facile nè pericolosa che guiderebbe all’ in- 
tento , cioè che sorgesse loro una guerra da confinanti. 
Imperocché prevedeva io che i Romani avrebbono a 
chiamare le truppe ausiliarie , e le nostre massima- 
mente , e prevedeva dopo ciò che non avrei gran bi- 
sogno di persuadervi che più. bello , e più giusto è 
combattere per la nostra libertà , che per istahilire' 
r impero de’ Romani. Spinto da tali pensieri produssi 
a’ Romani la guerra de’ sudditi loro Fidenati e Ve- 
jenti risolvendoli alle arme con esibire che io pren- 
derei parte con essi. Fin qui si rimase occulta a’ Ro- 
mani la pratica ; ed io provvidi intanto per me la 
occasione di assalirli. Ora considerate quanto sia 
questo opportuno. Primieramente , grande in una ri- 
bellione manifesta , sarebbe il pericolo o di avventu- 
rare ogni cosa mentre siamo sprovveduti per la fret- 
ta , e contiamo unicamente su ciò che potrebbero le 
nostre forze ; o di essere sorpresi da essi già pronti 
mentre ci apparecchiamo e ci procuriamo dagli altri 
un ajuto. Noi però così non manifestandoci non cor-- 
reremo nè V uno nè V altro disastro ,• e ne avremo 
raccolto almen questo bene. Secondariamente noi non. 



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LIBRO III. a53 

ci daremo a percuotere la grande , la bellicosissima 
potenza e fortuna degli emuli con le violente manie- 
re, ma si bene colle artijiziose e scaltre, con le quali 
si prendono finalmente le cose trascendenti , e meno 
facili a battersi colla forza ; nè già saremo a far 
questo i primi , o li soli. Inoltre siccome le nostre 
milizie mal potrebbero schierarsi in campo a fronte 
di quelle de’ Romani e degli alleati ; così abbiamo 
congiunto a noi le forze sì grandi , come vedete, dei 
Veìenti e de Fidenati. Anzi si è da me provveduto 
che le ardite schiere di questi ne diano con effetto 
il soccorso che ne ho cercato. Imperocché già non 
sarà J.a pugna nelle nostre campagne; ma battendosi 
i Fidenati per le proprie , difenderanno in esse an~ 
coro le nostre. E quello che riesce dolcissimo agli 
uomini , quello che di raro occorse ne’ tempi andati ; 
questo ancora per voi si combina : noi giovati dai 
nostri alleati sembreremo di avere ad essi giovato, E 
se r affare si termina a piacer nostro, come par ve- 
risimile; i Fejenti e li Fidenati che avranno liberato 
noi da un durissimo giogo , essi noi ringrazieranno 
quasi col favor nostro ottengano un pari benefizio. 
.Questi sono i successi che da me con gran diligenza 
procurati mi sembrano bastare ad ispirarvi confiden- 
za, e viva prontezza ad insorgere. 

Ora udite in qual modo io voglia por mano alla 
impresa. Tulio mi ha destinato appiè del monte ; 
perchè io vi governi luna delle ale. Ma quando sa- 
remo per attaccarci co’ nemici ; io non attendendo 
allora tale destinazione ; mi ritirerò poco a poco sul 



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2 54 DELLE antichità’ ROMÀNE 

monte. Voi seguitemi allora ordincUamente. Giunto 
alle cime ed in salvo , udite come io continuerò. 
Quando vedrò le cose che qui dico riuscirmi come 
io le disegno ; quando vedrò infiammati di corono 
i nemici perchè noi cooperiamo con essi, umiliati e 
spaventati come traditi i Romani ; e come è verisi- 
mile, già più. intenti a pensare la fuga che le difese; 
allora io starò su loro : ed io coprirò de’ loro cada- 
veri il campo ; perocché scendendo dcdC altura destra 
a basso , mi gitterò su di essi sbigottiti e dispersi 
con esercito pieno di beW ardore e di ordine. 'Rile- 
vantissima è nelle guerre la fama sparsa di un tra- 
dimento anche falso degli alleati, o del giung.'re di 
altri nemici ; e sappiamo che grandi eserciti furono 
totalmente da tali vane apprensioni rovinati, più che 
da altri spaventosissimi casi. Il nostro adoperare 
però già non sarà fama vana , nè arcano spauri- 
mento ; ma cosa più che tutte terribile a vedersi e 
provarsi. Ma ( dicansi pur le cose consuete a pre- 
sentarsi contro la espettazione , giacché la vita ne 
involge molte, nè verisimili ) se gli eventi riusciranno 
contro i disegni ; anch’ io farò cose ben altre da 
quelle che in mente io ravvolgevami. Allora io piom- 
berò co’ Romani su nemici ; co’ Romani raccoglierò 
la vittoria , simulando di aver prese le alture per 
cingere gt inimici. Ben avran fede i miei detti con- 
cordandosi le opere colle finzioni : tanto che noi non 
comunicheremo cogP infortuni di niuno , e solo par- 
teciperemo lo belle vicende dell’ uno o delC altro. Io 
tali cose ho deliberato : e tali cose eseguirò col fa- 



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LIBBO 111. 255 

vorB degV Iddii come bonissime non solo per gli AU 
boni ma per tutti i Latini. Bisogna che voi guardiaie 
prima che tutto il silenzio : poi, che serbiate il buon 
ordine, che vi prestiate immantinente ai comandi, 
che guerrieri vi siate pieni di bell’ ardore , e che tali 
rendiate pur quelli che vi ubbidiscono ; considerando 
che il combattere nostro per la libertà non somiglia 
al combattervi degli altri, consueti ad essere coman- 
dati , e lasciati da loro padri in tale condizione. Noi 
liberi siamo naU dai liberi : anzi i nostri avi ci han 
tramandato il comando su vicini ; serbarono questa 
forma per cinquecento anni ; nè di questa si trove*- 
ranno per noi spogliati li posteri. Nè tema chi vuole 
far questo , quasi rompa i trattati , e violi i giura- 
menti fatti sopra di essi: pensi piuttosto che egli i 
diritti ripristina rotti e violati da' Romani : nè già i 
tenui diritti ma quelli che la natura ci ha dato degli 
uomini , quelli che la legge ha fondato comune ai 
Greci ed ai Barbari , vuol dire che i padri coman- 
dino j i padri dian leggi ai figli , e le città madri 
alle colonie. Questi sacri diritti che mai saranno 
cancellati dalla natura degli uomini , questi noi vo- 
lendo che siano perpetuati , nè frangiamo alleanza 
fàuna, nè genj nè Dii ci si potran corrucciate quasi 
non sante cose facciamo , se mal pià comportiamo 
servire cì nostri discendenti. Cnloro però che li hanno 
conculcato i primi , e che con opera indegna han ten- 
tato di far prevalere la umana alla le^e divina ; 
coloro , corn è giusto , e non già noi , s' avranno a 
fronte V ira de’ Numi , c su di essi non su noi soi't 



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256 DELLE Antichità’ romane 

gerà la vendetta degli uomini. Pertanto se queste vi 
sembrano le cose migliori / eseguiamole , e chiamia^ 
movi protettori gl’ Iddii. Ma se alcuno sente in con- 
trario e sente o t una o t altra delle due cose ; vuol 
dire o che più, non debba ricuperarsi t antica dignità 
della patria ; o che debbasi aspettare un tempo pià 
acconcio del presente ^ e differire; costui' non esiti, a 
dire i suoi pareri; e quello sarà fatto che a tuui 
sembri il migliore. 

XXV. Alfìae lodato nel dir suo dagli astanti, e pro- 
mettendosi questi a far tutto ; esso ne obbligò ciascuno 
col giuramento, e dimise radunanza. Nel prossimo giorno 
all’ uscire appunto del sole , uscirono da’ proprj allog- 
giamenti le milizie de’ Fidenati e degli alleati, e si schie- 
rarono per la battaglia: vennero nemmeno di fronte i 
Romani , e si ordinarono. Tulio stesso e i Romani si 
opponeano coll’ala sinistra ai Vejenti i quali formavano 
la destra nel corpo loro. Nell’ ala destra dei Romani si 
stava Mezio Fuffezio e gli Albani presso del monte in- 
contra de’ Fidenati. Rendutisi ornai vicino gli uni degli 
altri , gli Albani prima di essere a tiro si staccarono dal 
resto dell’ esercito , ascendendo ordinatamentè sul monte: 
I Fidenati ciò vedendo e cerziorandosi della realtà del 
tradimento promesso dagli Albani si portarono più bal- 
danzosi contro de’ Romani. L’ala destra de’ Romani , es- 
sendosene tolti gli alleati , erane ornai rotta e molto in 
pericolo. Combattea però bravissimamente 1’ ala sinistra 
e Tulio con essa in mezzo di scelti cavalieri. Quan- 
d’ ecco un cavaliere affrettandosi verso quelli i quali 
pugnavano presso del monarca, o Tulio, disse, la na- 



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LiBno ni. a57 

stra ala destra è sul perdersi : gli jilbani , abban- 
donatala , ascendono il monte , ed i Fidenali che li 
teneano schierati dinanzi, ora preponderando a fronte 
ilelt ala tanto indebolita j già la circondano. I Ro- 
mani ciò ndcmlu , e vedendo T accelerarsi degli Albani 
in sul monte; temerono di essere avviluppali da' nemici, 
taulu che non aveano cuore nè di combattere , nè di 
restare in quel luogo. Or qui , dicesi , che Tulio niente 
commosso all* aspetto di un male si grave e tanto ina- 
spettato facesse uso dell’ avvedutezza : e che salvasse con 
questa 1* esercito ornai nel pericolo manifesto di essere 
circondato; c disfacesse e terminasse tutto il bene degli 
inimici. ltn[>erocchè non si tosto il messaggero ebbe det- 
to; egli a gran voce sicché i nemici, la udissero, o Bo- 
mani , esclamò , li nemici son vinti. Gli Albani sul 
mio comando hanno occupato come vedete il monte 
prossimo a noi per piombare alle spalle de' nimici. 
Mirale ! gli abbiamo pin e al nostro buon punto gli 
impiegabili awersaij. Noi siamo loro dirimpetto , e 
gli Albani alle spalle : pià non possono aveutzare , 
ISO retiocedei e. Dall' uno de' lati rinserrali il fiume , 
dall’ altro il monte : ci daran pure le pene meritate. 
Andate : avventatevi intrepidamente su loro. 

XXVI. Cosi esclamando ne andava tra le milizie. E ben 
presto i Fidenati furono presi dalla paura che quel tra> 
dimenio, si rivolgesse fìnalmente su loro per frodolenza 
del capo degli Albani : perchè nè lo vedeano schierarsi 
contro i Romani , nè fulminarsi contro di essi come avea 
già promesso. Altronde avea quel parlare iniiammati di 

VIOSIGI , P>m» l. ir 



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258 DELLE Antichità’ romane 
ardire e riempiuti di confidenza i Romani. Adunque scop« 
piando in un grido e ristrettisi lanciarousi all’ inimico. 
Piegarono allora , e fuggirono i Fidenati in disordine 
alla loro città. Il re de’ Romani rilasciando la cavalleria 
su questi atterriti e turbati li perseguitò qualche tempo; 
ma vedutili poi sbandati, senza animo di raccogliersi e 
senza forza , permise che fuggissero ; e si rivolse con- 
tro r altra parte de’ nemici ancora ordinata. Ivi era bat- 
taglia viva tra’fanti; e più viva ancora tra’ cavalieri. Im- 
perocché li Yejenti quivi schierati non che sbigottirsi 
e dar volta , resistevano all’ impeto de’ cavalli romani. 
Alfine vedendo che l’ ala loro sinistra era battuta, e che- 
l’esercito de’Fidenati e degli alleati fuggiva tutto precipitosa- 
mente, anch’cssi per timore di non essere colti in mezzo 
da’ nemici che tornavano da inseguire gli altri, diedero 
volta, e si scomposero e tentarono di salvarsi a traverso 
del fiume. I più robusti , e men carichi di ferite , nè 
impotenti a nuotare passarono senza le armi il fiume e 
scamparono: ma quanti non aveano l’uno o l’altro di 
que’ requisiti , affondavano tra’ vortici ; essendo il Te- 
vere presso Fidene rapido e tortuoso. Tulio intanto 
impose a parte de’ cavalieri di uccidere i nemici che . 
accorrevano al fiume , ed egli conducendo il resto del- 
r esercito assali gli accampamenti de’ Vejenti e gl’ in- 
vase. E tali sono le operazioni che diedero, a’ Romani 
salute inaspettata. 

XXVII. Quando il re d’Alba vide manifestamente vit- 
toriose le milizie di Tulio ; egli per dare a vedere che 
faceala da alleato , calando dal monte le sue , le menò 
contro de’Fideuuti che fuggivano ; e molli in tale stalo 



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• LÌBnQ III. ... a!xg 
ne uccise. Tulio vedendo il suo fare , ed esecrando la 
nuova sua tradigione , dissimulò di presente , finché lo 
avesse nelle mani : ansi diè vista di lodare tra* molli 
come l>onissima l’ andata di lui su pel monte : e spc- 
una banda di cavalieri lo richiese che desse 
ultimi contrassegni di zelo, incaricandolo , che cercasse 
con diligenza , e trucidasse que’ Fidenati che non po- 
tendo ripararsi tra le mura , vagavano dispersi intorno • 
in tanto numero per la campagna. Colui quasi avesse, 
già conseguila Tana delle due cose che sperava, e quasi, 
fosse accetto veramente a T ullo , ne fu dilettato ; e ca- 
valcando gran tempo per que’ campi fe’ strazio, de’ prò-, 
fughi i quali sopraggiungeva. E già tramontato il sole, 
condusse i suoi squadroni da tale persecuzione al campo 
Romano , c vi festeggiò con gli altri la notte. Tulio di-, 
inoratosi nell’ accam|)amento de’ Vejenti fino alla prima 
vigilia vi esplorava da’ prigionieri più riguarderoli quali 
fossero mai stati li capi della rivolta. Come poi seppe 
che ci avea tra congiurati anche 1’ Albano Mezio Fuf- 
fezio, gli parve che i fatti di lui concordassero colle in- 
dicazioni de’ prigionieri. Adunque montato in sella si ri-, 
condusse cavalcando in città fra lo stuolo dc’suoi più fidi. 
E prima della mezza notte convocando dalle case loro i 
Senatori ; disse del tradimento degli Albani , dandone 
|)er teàlimonj li prigionieri ; e narrò gli artcGzj co’ quali 
egli avea deluso i nemici e li Fideuali. E poiché la 
guerra avea fine bonissimo ; invitò loro a discutere come 
si avessero a punire i traditori, perchè Alba si rendesse 
|>iù savia per 1’ avvciiire. Parve a tulli giusto anzi ne- 
cessario che si ['Unissero quanti si erano messi ad ojteia 




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200 DELLE antichità’ ROMANE 

tanto «cellerata. Si ondeggiò però molto intorno la ma-' 
oiera facile e sicura della esecuzione. Sembrava loro im> 
possibile che tanti cospicui Albani si potessero involare 
con morte tenebrosa e nascosta. Che se tentassero arre- 
starli e punirli palesemente , torneasi che quel popolo, 
piuttosto che ciò non curare , volasse alle armi. Non 
voleano poi combattere in nn tempo co’ Fidenati/ coi 
Tirreni , e con gli Albani loro consocj.- Ora non espe- 
dendosi essi ; diè Tulio in6ne uu suo parere cui tutti en- 
comiarono. Io ne dirò dopo un poco. 

XXVIII. Siccome non era Fidene distante da Roma 
se non cinque miglia ; ' cosi egli eccitando con tutto 
r ardore il cavallo si restituì negli alloggiamenti : e pri- 
ma che il giorno brillasse’ laminoso , chiamando Marco 
Orazio il superstite de’ trigemini , e dandogli li fanti e 
li cavalieri piò scelti , ordinò che marciasse con questi 
ad Alba , che vi s’ introducesse in sembianza di amico ; 
che , quando ne avesse in sua balia gli abitatori rovinasse 
da’ fondamenti la città, non risparmiando edifizio alcuno 
privato o pubblico, se non i tempj: non vi uccidesse però 
nè vi oltraggiasse uomo ninno, ma consentisse che ognuno 
s’avesse le sue cose. Spedito questo egli aduna tribuni 
e centurioni , palesa ad essi il decreto del senato , e 
forma di loro la guardia del corpo suo. Si presentò 
dopo non molto 1’ Albano in gaudio per la vittoria co* 
mune , e per congratularsene con Tulio t e Tulio ser- 
bando tuttavia li segreti suoi , Io encomiava , confessa- 
valo degno di gran doni, ed invitavalo a scrivere i nomi 
de’ valentuomini che si erano più distinti nel combat- 
tere e portarglieli perchè tutti partecipassero ai beni 



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LIBRO III. 261 

della villoria. Inondatone costui dal jnacere diè su di 
una tavoletu in iscritto i nomi de’ suoi più fedeli, de’ quali 
si era valuto ne’ disegni reconditi. Allora il re di Roma 
invita a radunarsi lutti , senza le arme , e radunatisi ; 
fece che il duce degli Albani, come li centurioni e tri- 
buni si collocassero presso di lui , e che gli altri Al- 
bani ordinatamente si compartissero ; ponendo dopo lo- 
ro il resto degli alleati e dietro tuui infine circolai-- 
mente i Romani , tra’ quali ce ne avea de’ magnanimi , 
co’ brandi sotto degli abiti Quando poi gli sembrò di 
avere a suo bell’ agio i nemici ; sorgendo cosi ragionò : 
XXIX. Romani , amici , compagni di arme , fi- 
nalmente abbiamo col favore degl' Iddìi portala la 
vendetta su Fidene e su quanti partigiani di lei , fu- 
rono arditi investirci con guerra manifesta. Seguirà 
da questo t una delle due , vale a dire che quanti ci 
molestavano si cheteranno ; o ne daranno pene tanto 
più spaventose. Ora venule già le prime nostre im- 
prese a buon termine , é tempo iche puniamo quei 
guerrieri che avendosi il nome di amici nostri , ed 
assunti a questa guerra da noi perchè facessero con- 
tro (i nemici comuni , abbandonarono la loro fedeltà 
verso noi , si strinsero con patti segreti a nemici , e 
macchinarono la universale nostra rovina. Ben sono 
essi peggiori de' nemici manifesti , e perciò degni di 
pena più grande. Imperocché facile cosa è deludere 
le insidiose lor trame , e ribattere si possono se ci 
assaliscono come nemici : ma né riesce di leggeri 
cautelai si da amici che la fan da nemici, né si pos- 
sono risospingere se ci prevengano. Ora tali sono i 



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262 DELLE antichità’ ROMANE 

guerrieri che Alba ci manda\>n : ingannevoli alleali ! 
eppure non danneggiati , ma beneficati grandemente , 
e in tante cose da noi. Noi , ramo già della lor 
gente , non toglievamo punto della lor signoria , ma 
'la nostra forza , la nostra potenza fondavamo qol 
domare i nostri nemici. Premunendo di mura la no- 
stra patria contro genti amplissime e bellicosissime 
abbiamo prodotto ad essi un alta sicurezza in fra le 
guerre de’ Tirreni e de’ Sabini : tantoché serbandosi 
la nostra città prosperamente , dovean essi rallegrar- 
sene principalmente ; e decadendo questa non dovean 
meno rattristarsene che per la propria città. Essi però 
si ostinarono ad invidiare non solamente il nostro 
ben • esseio , ma il proprio ancora nel nostro : e da 
ultimo non potendosi più Iodio nascondere, ci hanno 
premeditato la guerra. Ma perciocché vedeano noi 
benissimo acconci a ripeivoterli , non essendo essi 
valevoli contro di noi , c invitarono a trattati ed ami- 
cizia , e richiesero che la lite sul principato si deci- 
desse con la tenzone di tre combattenti. Acoetlammo 
t invito e vincemmo ; e ci fu la loro città sottomessa. 
Or , dite : che abbiamo noi fatto dopo questo ? Po- 
tendo noi ricevere gli ostaggi da Alba, polendo met- 
tervi guarnigiotìe , e qual’ uccidervi , qual cacciarne 
de’ principali a por dissidio tra t uno e t altro po- 
polo; potendo cambiarvi in favor nostro la forma del 
governo , smembrarne il territorio , prescrivervi de’ tri- 
buti , e torlo infine le arme ciocché era facilissimo , 
ed avrebbe tanto più noi convalidato ; polendo noi 
tutte queste cose ; non abbiamo pur voluto farvene 



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i ' LIBBO in. 263 

nemmeno una, mossi anzi dalla pietà versò loro, che 
dalla sicurezza del nostro principato. E preferendo 
cioccK era il decoio all’ utile abbiamo conceduto che 
si godesse ogni suo bene. Permettevamo che Mezio 
Fujfezio, che essi avevano elevato à primi gradi come 
il più degno , vi amministrasse ancora la repubblica. 
Ed essi ( ascoltate qual .contraccambio ce ne rende- 
rono quando più bisognavamo dell’ amicizia , e delle 
armi loro ) ! si convennero in segreto col nemico co- 
mune di assalirci insieme tra la battàglia ; e quando 
t inimico e noi eravamo già già sul combattere ; essi 
lasciando il posto della ordinanza , corsero a’ monti 
vicini onde preoccuparne le alture più forti. E se la 
cosa andava loro a seconda , niente avrebbe impedito 
che noi tutti perissimo 'circondati dagli amici e dai 
nemici ; e che tulli i combattimenti da noi sostenuti 
per la signoria della nostra città , tutti in un giorno , 
■svanissero. Ma poiché tal disegno riuscì vano primie- 
ramente per disposizione benefica degV Iddìi da quali 
ripeto quanto io fo mai di buono e di bello , e poi 
per t avvedimento mio che non poco valse a scorag- 
gir t inimico ed accendere i nostri, essendo stato mio 
stratagemma il dire che gli Albani ^ ordine' mio 
preoccupavano il monte per cingere t inimico ; poiché 
t affare si terminò coll utile nostro ; noi non sarenp- 
mo , quali essere ci conviene , se non punissimo i 
traditori ; quelli io dico i quali, doveano se non per 
altro , almeno pe' ligami di parentado serbare gli ac- 
cordi ed i giuramenti , fattici di recente , e li quali 
non temendo gl Jddii che fecero testimonj de’ loro 



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a64 DELLE Antichità’ bomane 

trattati , non riverendo la giustizia stessa , non la ri- 
provazione degli uomini, non calcolando la grandezza 
del pericolo se il tradimento sconciavasi, tentarono in 
miseranda maniera di perdere noi progenie , noi be- 
nefattori loro , essi nostri fondatori , e congiurali con 
gt implacabili nostri nemici. 

XXX. Dicendo lui queste cose prorompeano gli 
Albani in gemiti, e preghiere d’ogni modo. ÀHermava 
il popolo non aver lui saputo niente dei disegni di Me- 
zio : simulavano' i capitani non aver conosciuta la mao 
chinazione, se non che nel darsi della battaglia, quando 
più non era in poter loro d’ impedire , o non fare i 
comandi. Riferivano altri il lor fatto alla insuperabile 
necessità di congiunzione e di parentado ; quando il 
re, fatto silenzio disse: niente,. Albani, niente ignoro, 
di quanto allegate per iscusannivi. E penso che il più 
di voi noi sapesse quel tradimento, perchè dove molti 
sono i consapevoli , non si tacciono , neppur brevissi- 
mo tempo le cose : penso che de’ tribuni e de’ centu- 
rioni la parte minore fosse la complice ; ma che la 
più grande non era che aggirata , e ridotta a passi 
non volontari . Che se niente di ciò fosse vero ; se 
voi tutti Albani , quanti qui siete , e quanti si rima- 
sero in Alba, vi aveste in cuore di danneggiarci, nè 
già da ora, ma da tempo antichissimo ; pur s avrebbe 
il liomano nella sua parentela una ben forte cagione 
a pazientarne le ingiurie. Perchè però non più vi 
aduniate a consulte ingiuriose contro noi , non più 
violentati , non più sedotti vi troviate da’ capi della 
vostra città ; ito abbiamo pure sebbene unico , questo 



t 



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LIBRO III. a 65 

rimedio : vale a dire che divenendo tutti cittadini di 
una città riguardiamo - questa sola per patria , e par- 
tecipiamo ciascuno ai beni e mali di tei, coma essa 
ne incorre. Finché saranno come ora discordi i pa- 
reri , finché disputeremo su la preminenza; non sor- 
gerà mai stabile pace fra noi ; principalmente se gli 
uni i primi siano per insidiare gli altri con vista di 
dominare vincendo , o di essere come parenti impuniti 
se perdono. Imperocché quelli die sono assalili ten- 
teranno riscuotersi coll estremo de' mali , nè fuggi- 
ranno modo alcuno onde nuocere gli tdtri quali ne- 
mici, come ora addivenne. Pertanto sappiate: avendo 
io nella scorsa notte adunalo il SeruUo , i Romani 
per bocca sua emanavano, ed io firmava il decreto 
che la vostra città fosse disfalla , nè si permettesse 
che vi restasse in piedi edifizio niuno privato nè 
pubblico alf infuori de' templi : che quelli che vi abi- 
tano ritenendo ogni bene , non ispogUali di schiavi , 
non di bestiami, non di oro pongano da ora innanzi 
la sede in Roma: che gli Albani poi, che non hanno 
campo alcuno se lo abbiano , purché non sia de' po- 
deri sacri co’ quali si procacciano i sagrifizj : che io 
provveda i luoghi della città dove le abitazioni si 
fondino degli emigrati , e supplisca a chiunque di voi 
più ne ahbisogna , i mezzi onde tompierle : che tutta 
la vostra moltitudine prenda la forma del nostro po- 
.polo ; comportasi in, curie e tribù; abbia parte nel 
Senato e nelle magistrature più insigni, e si ascrivano 
alle famiglie patrizie le famiglie de'Giulj, de' Servi Ij, 



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2 66 DELLE ANTICHltA’ ROMANE 

de Geranj , de Metelj , de’ Corazj , de’ Quintìlj (i) , 
e de’ Cluvilj ; che finalmente Alezio e quanti delibe- 
rarono con esso il tradimento , se ne abbiano le pe- 
ne , e noi le stabiliremo queste , giudici sedendo di 
ogni causa ; mentre a ninno dee negarsi giustizia e 
difesa. 

XXXI. Intanto che Tulio cosi diceva i poveri tra gli 
Albani gradendo di essere fatti abitatori di Roma, e di 
parteciparne le campagne , lo acclamavano a gran voce. 
All’ opposito i più cospicui per grado o più agiati per 
sorte si affliggeano che avessero ad abbandonare la pro- 
pria città , e le case paterne , e vivere per 1’ avvenire 
in terra altrui; nè più sapean che dire in tanto orribile 
necessità. Poiché Tulio ebbe investigato i pareri della 
moltitudine , impose a Mezio , che allegasse , volendo , 
le sue giustiBcazioni r e costui non sapendo che repli- 
care alle accuse ed alle testimonianze t disse che il Se- 
nato di Alba avealo segretamente incaricato di far ciò 
quando usci per guerreggiare; e pregava gli Albani ai 
quali avea tentato di racquistare il comando , che lo 
soccorressero , nè guardassero con indifferenza la patria 
che rovinava , e tanti cittadini degnissimi che erano 
strascinati al supplizio. E già nasceane tumulto nella 
moltitudine , e volavano alcuni ad afferrare le armi ; 
quando i Romani che circondavano l’adunanza sguaina- 
rouo , datone il segno , le spade : ed essendone tutti 
aiierriti ; sorse Tulio un'altra volta e disse: Albani, 
non qui vi è dato d' insorgere, nè di trawiarvi: giac‘ 

(i) Lrsino , e Patino de Famil. Romanor. leggono Quinzf. 



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LIBRO III. ’ ^6'J 

cJtè tulli, se ariìiste commovervi, sareste trucidali da 
questi : ( E cosi dicendo additava le spade de’ suoi ). 
Prendete ciocché vi si dona , diventale fin da oggi 
Romani. È per voi necessità , domicitiaivi in Roma , 
o non avere più patria sulla terra. Marco Orazio 
andò sulC ordine mio fin dalC aurora per abbattere la 
vostra città dai fondamenti , e condurne in Roma gli 
abitanti. Ora sapendo che ornai questo è fatto , non 
vogliate correre alla morte; ubbidite. Metio Fuffezio, 
quesf occulto nostro insidiatore , che nemmen ora te- 
me d’ invitare alle armi i turbolenti e li sediziosi'; 
questo ne darà le pene , degne del perfido cuore e 
scellerato. Sbigottì ciò udeudo la parie irritata degli 
adunali , come vinta da insuperabile necessità. Fremea 
Fufiezio per l’ opposi to , e vociferava , ma solo , e re- 
clamava r alleanza , egli che era accusato di averla tra- 
dita , nè perdea la baldanza , anche in mezzo de’ mali ; 
quando i littoii per comando di Tulio afferrandolo gli 
squarciano in dosso le vesti e lo caricano di battiture. 
Poi quando parve che ornai quel supplizio bastasse ^ 
avvicinando due carri , legarono con lunghe redini le 
braccia di lui nell’ uno di questi , e li piedi nell’ altro. 
Allora spingendo gli aurighi quinci e quindi i due 
carri ; egli strascinato e tirato in parti contrarie , fu 
subitamente ridotto in brani. Tale fu il termine mise- 
rando e vergognoso di Mezio. Infine io stesso re mise 
un tribunale per gli amici e complici di lui nel tradi- 
mendo ; punendoli , come li scopriva rei , colla morte >, 
a norma delle leggi su’ disertori e su’ traditori. 

XXXII. Intanto che si laccano tali cose, Marco Ora- 



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268 DELLE AUTICHITa’ ROMANE 
zio spedilo innanzi con scelta milizia a distruggere Alba 
compiè’ ben tosto la marcia , e se ne impadroni ; tro- 
vandovi le porte non chiuse , nè difese le mura. Poi 
convocando la moltitudine le palesò quanto era acca- 
duto nella battaglia , e quanto il Senato di Roma ne 
decretava. Contrariavano quelli, e dimandavano tempo 
almeno per ispedire degli ambasciadori. Ma costui senza 
indugio spianò case , muri ; e tutti in somma i privati 
e pubblici ediGzj ; scortandone con assai diligenza a Ro- 
ma gli abitatori , che menavano e portavano ogni loro 
bene con sé. Tulio ritornato dal campo gli comparti 
ira le curie e tribù romane , li coadjuvò per fabbricare 
ne’ luoghi , che sceglievano in Roma , le case : dispensò 
porzione sufGciente de’ terreni del pubblico fra i loro 
meroenarj , e sen cattivò con altre amorevolezze la mol- 
titudine. Ma la città di Alba già fondata da Ascanio 
nato da Enea figlio di Anchise , e da Creusa figlia di 
Priamo , quella che per quattrocento ottanlasette anni 
dalla sua fondazione era tanto cresciuta di popolo, di 
ricchezze , di ogni ben essere , quella che aveva pro- 
pagato trenta colonie in trenta città del Lazio e che era 
sempre stata la capitale della nazione , quella alfine vit- 
tima ^i) dell’ ultima delle sue colonie giace squallida an- 
cora e desolata. Prese requie nell’ inverno il re Tulio ; 
ma nel sorgere della primavera cavò nuovamente l’ eser- 
cito contro Fidene. Non era venuto a’ Fidenati, nè lo 
pretendeano , pubblico soccorso ninno dalle città confe- 
derate : solamente da più luoghi erano venuti de’ mer- 

(i) Anni di Roma 88 secoodo Catone; 90 secondo Varane , e 
G 6 f aTanli Cristo. 



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LIBRO III. 369 

cenar} ; e contando su questi osarono un’ altra volta 
esporsi in campo. Schierativisi , uccisero molti de’ nemi- 
ci; ma poi furono rispinti di nuovo tra le mura. Come 
però Tulio cingendo la città di argini e fosse la ridusse 
alle ultime angustie ; vinti dalla necessità , si renderono 
a discrezione. Divenuto costui padrone della città vi 
uccise nemmeno gli autori della ribellione. Lasciò gli 
altri a sé stessi ; concedendo ebe godessero i lor beni : 
e restituendo ad essi la forma che aveano di reggenza , 
congedò 1’ armata. Restituitosi a Roma onorò gl’ Iddii 
con la pompa trionfale e co’ sagrilìzj promessi , e fu 
questa la seconda volta che trionfò. 

XXXIII. Si eccitò dopo questa a’ Romani la guerra 
de’ Sabini ; e tale ne fu la cagione. Onorasi da’ Latini 
e Sabini in comune il tempio, sacrosanto più che ogni 
altro , della Dea nominata Feronia , che taluni con 
greca interpetrazione chiamano la portatrice de’ fiori ^ 

0 r amica dei serti , o Proserpina. Essendosene an- 
nunziate le feste , erano dalle eittà d’ intorno venuti 
molti per supplicare , e sagrificare alla Dea , e molti , 
mercadanti , artefici , agricoltori per guadagnare nel 
concorso ; ivi tenendosi fiera famosissima più che in 
altri luoghi d’ Italia. Recavansi per avventura a questa 
luogo alquanti non ignobili tra’ Romani , quando alcuni 
Sabini concertatisi , li circondarono e derubarono. E 1 
quantunque si spedissero de’ messaggeri , non voleano 
su questo i Sabini rendere la giustizia : ma riteneansi 

1 danari e le persone degli arrestali ; imperocché dole- 
vansi anch’ essi de’ Romani che avessero dato ricetto ai 
fuggitivi de’ Sabini , costituendo il sacro asilo , come si 



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2'jo DELLE Antichità’ . ROMANE 
dicliiarò nel primo libro. InSammanciosi da tali queri> 
monie alla guerra uscirono con moltissime schiere in 
campo aperto. Fecesi ordinata battaglia , e pari splen- 
deavi il coraggio de’ combattenti ; tanto che separatine 
dalla notte lasciarono la vittoria indecisa. Ke’ giórni ap- 
]>res$o considerando ambedue la mohitudiue degli estinti 
c de' feriti , ricusarono ogni altro cimento ; ed abban- 
donando gli accampamenti , si ritirarono. Ma tenutisi iu 
cylma per quell’ anno uscirousi di nuovo a fronte con. 
forze più formidabili. Si appiccò la zuffa presso di 
Erelo lontana centoquaranta sladj da Roma , c molti vi 
soccombeano da ambe le parli. E pendendo questa zuffa 
ancora lungo tempo sospesa , Tulio elevò le mani al 
cielo, votandosi che se vinceva in quel giorno i Sabini 
istituirebbe delle feste a Saturno ed a Rea con pubblica 
s])esa. Celebrano ogni anno i Romani tali feste dopo 
che barino riportato tutti i frutti della terra. Egli facea 
voto insieme che raddoppierebbe il numero de’ Salj. 
Derivano questi da nobile prosapia ,, e ne’ debiti tempi 
si cingono di arme , e saltano accordando al suono 
delle tibie i salti , e cantando patrie canzoni , come ho 
spiegalo nel bbro primo. A quel volo si mise tanto ar* 
dorè ne’ Romani che questi pressando , come freschi 
soldati, gli stanchi, ne ruppero le schiere in sul man- 
care del giorno , e ridussero gli stessi capitani a dar 
principio alla fuga. E seguendo essi li fuggitivi ai pro- 
pri irincieramcnli , ne raggiunsero la maggior parte vi- 
cino alle fosse. Tuttavia nemmeno dopo ciò retrocede- 
rono : ma rimanendosi ivi nella notte imminente , e 
respingendo i uciuici che pugnavano da entro il vallo , 



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LIBBO III. 271 

invasero alRne gli accampamenti. Trasportaronsi dopo 
ciò quanta preda voleano dalle campagne sabine : e sic- 
come niuno più presenlavasi a combatterli , si ricon> 
dussero in casa. Fece il re per questa battaglia il terzo 
trionfo. Quindi per le molle ambascerie de’ nemici de- 
pose le armi , avendone da essi li suoi disertori , e li 
soldati suoi caduti prigionieri ne’ pascoli; ed esigendone 
la multa decretata contro loro dal Senato di Roma il 
quale avea calcolato in argento r danni ricevuti da’ ne- 
mici negli armenti, nelle bestie da giogo, e nelle altre 
cose tolte ai coltivatori dei cttmpi di lei. 

XXXIV. Fransi cosi scioiii dalla guerra i Sabini : e 
scrittine su colonnette i trattali, gli aveauo collocati nei 
tempj. Ma suscitatasi per le cagioni che tra poco dire- 
mo , la guerra di Roma con le città latine , congiurate 
fra loro , guerra che non parea da essere ultimata nè 
con prestezza nè con facilità ; li Sabini afferrarono di 
Lenissima voglia tale occasione , e dimenticarono quasi 
non fatti , i giuramenti e i trattati. E reputando esser 
questo il buon punto da rivendicare anche il multiplo 
del danaro sborsato a’ Romani ; uscirono su le prime , 
in pochi , ed occulti a predarne le campagne vicine. E 
succedendo in principio il disegno secondo il desiderio, 
perchè non accorreva milizia ninna in difesa de’ colti- 
vatori ; si adunarono in gran numero e palesemente : e 
spregiato l’ inimico macchinarono di recarsi fino su Ro- 
ma. Adunque congregarono le soldatesche da ogni loro 
città, brigando di congiungersi co’Laiini. Ma non venne 
lor fallo di ottenere nè amicizia uè lega ninna con 
quella gente. Imperocché Tulio veduti i loro peusieri , 



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273 DELLE Antichità’ romane 
fe tregua colle città latine , e deliberò di volgere le* 
annate contro di essi. Egli aveva in arme il doppio di 
allora , quando mosse alla presa di Alba , ed aveà rac* 
colto il più che potea di sussidj dagli alleati. Già 1’ e— 
sorcito de’ Sabini crasi concentrato. Quindi avvicinatisi- 
entrambi alla selva della dei malfaUori (i) si accam-t 
parono a picciola distanza fra loro. Nei giorno appresso 
investendosi , combatterono , ma con dubbia sorte gran 
tempo ; finché violentati al far della sera i Saliini dalla ’ 
cavalleria romana piegarono ; e molta ne fu nella ' fuga ' 
la uccisione; spogliarono i vincitori i cadaveri de’ iie-> 
mici ; invasero quanto ci avea di danaro negli alloggia- 
menti ; e conducendosi dalle campagne il fiore delie 
prede , tornaronsi a casa. Tal fine ebbe pe' Romani la 
guerra Sabina nel regno di Tulio. ' 

XXXV. Erano le città Latine divenute allora per la 
prima volta discordi da Roma , perchè essendo distnitta 
Alba , ricusavano fidare il comando di sé stesse ai Ro- 
mani che ne erano i distruttori. Tulio, volgendo l’anno 
quindicesimo dalla caduta di Alba avea spedito amba- 
seladori alle città filiali , o suddite di questa le quali 
eran trenta, per chiedere che ubbidissero ai Romani, pa- 
droni di ogni cosa degli Albani , e con ciò dell’ imperio 
ancora - su’ Latini. DIcea che due sono i titoli pe’ quali 
gli uomini diventano gli arbitri di altrui : la libera de- 
dizione e la necessaria : e che i Romani se gli aveano ' 
tutti due per dominare le città già ligie degli Albani : 
[tercliè i primi avevano vinto i secondi dichiaratisi loro 

i . 

(1) Livio la chiama tj-lva malUiom. 



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LIBRO III. 2*; 3 

nemici , e fra le arme , ed aveano poscia accomunato 
Roma ad essi che aveano perduto la patria. Ora da ciò 
seguitava che gli Albani o vinti o volontarj cedeano ai 
Romani l’imperio de’sndditi loro. Non risposero le città 
Latine una per una agli oratori : ma congregatesi pei 
deputati a Ferentino decisero co’ voti loro d^ non sotto- 
mettersi a’ Romani ; e crearono immantinente due capi- 
tani arbitri della guerra e della pace , 1’ uno Anco Pu- 
blicio della città di Cori , e 1’ altro Spurio Vecilio di 
Lavinia. Si fece per queste cagioni guerra tra* Romani 
e tra’ popoli di una gente medesima : continuò cinque 
anni ma quasi civilmente secondo 1’ antica temperanza. 
Imperocché venendo le intere milizie degli uni a batta- 
glia ordinata con le intere milizie degli altri , mai non 
si fece gran danno , nè piena occisione ; nè mai ninna 
loro città vinta in guerra , soggiacque alla distruzione , 
alla schiavitù , o ad altre insanabili disavventure. Ma 
gettandoti gli uni ne’ territori degli altri ne’ tempi della 
raccolta pascolavano e predavano e ritiravansi in casa , 
e cambiavansi lì prigionieri. Tulio solamente cinse di as- 
sedio Medullia città latina, divenuta come fu detto nel 
libro antecedente fin da’ tempi di Romolo colonia dei 
Romani , ed ora congiuratasi co’ suoi nazionali , e con 
ciò la ridusse a non più tentare innovamenti. Non oo- 
corse a ninna delle due parti alcun altro de’ mali con- 
sueti nella guerra perché le guerre de’ Romani di quei 
giorni eran subite, e per la subitezza non iochiudevano 
tanto rancore. , ; 

XXXVI. Cosi adoperava nel suo principato Tulio 

PlONIGl , tomo I, tS 



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2^4 BELLE AjX'ìICHITa’ HOMAME 

Osiiiio, r uuo de’ pochi uomini degni di lode per l’ar> 
dire felice tra le arme , e per la saviezza ne’ pericoli ; 
c più che per tali due cause, per ciò che egli non era 
precipitoso a far gueire, ma postovi si, non mirava che 
a silperare in tutto i nemici. Dopo uu regno di trenta 
due anni mori per l’ incendio della sua casa , e con lui 
pur morirono nel fuoco medesimo la moglie , i figli , i 
domestici. Vi è chi dice che la casa di lui fu messa in 
fiamme dai fulmine ; essendoglisi irritato il Nume per 
alcuna sua non curanza di sante cose , perchè si erano 
sotto lui tralasciati dei sagrifizj della patria , introdu- 
cendovisi in parte gli altrui. Ma i più raccontano che 
fu quel disastro per insidia degli uomini ; ascrivendolo 
a Marzio , re , successore di lui : perocché Marzio sde* 
guavasi , dicono , che egli nato di regio lignaggio dalia 
figlia di Numa Pompilio vivesse tra’ privati : e vedendo 
già grande la prole di Tulio , altamente ne sospettas’a , 
che' se costui periva , passasse il regno a’ figli di lui. 
Fra tali concetti insidiava da gran tempo la regia vita. 
£d essendogli molti Romani, fautori per dargli lo scet- 
tro , e Tulio essendogli amico , ed era creduto fidissi- 
mo; spiava la occasione di sorprenderlo. Era Tulio per 
fare in sua casa un sagrilizio al quale non volea pre- 
senti che i suoi più congiunti; ma divenuto per avven- 
tura quei giorno ferale per tenebre , per pioggia , per 
nembi , le guardie aveano lasciato deserti gii atrj della 
reggia. Parendo questo il buon punto s’introdusse Mar- 
zio e i compagni co’ brandi sotto degli abiti : uccisero 
il monarca , i figli e quanti vi erano : vi appiccarono il 
fuoco in più bande e poi divulgarono la novella del 



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LIBRO III. 2-j5 

fuoco. Ma io non ricevo la novella , perocché , nè vera 
la credo, nè verìsimile : e piuttosto m’ appìglio 'alla 
prima opinione , e penso che quest’ uomo per ira degli 
Iddìi corresse tal sorte. Imperocché non è facile che la 
congiura , operandola molti , si resusse occulta : nè il 
capo di essa era sicuro che egli sarebbe proclamato 
monarca da’ Romani dopo la morte di Tulio Ostilio: e 
quando fosse tutto stato sicuro per lui dal canto degli 
«omini , non potessi confidare che somiglierebbero i 
divini agli umani pensieri. Bisognava dopo il voto delle 
tribù che propizj gli augurj comprovassero il regno per 
lui. Qual genio o qual Nume avrebbe mai sopportato 
ebe un uomo cosi lordo di delitti e di sangue si acco> 
stasse agli altari suoi per compiervi de’sagrifizj, o altre 
pie cerimonie ? Per tali cagioni io riferisco quell’ evento 
agl’ Iddìi , non alle trame degli uomini. Tuttavia ne 
giudichi ognuno come più vuole. 

XXXVII. Dopo la morte di Tulio Ostilio fu creato 
secondo i patrj costumi l’ interré dal Senato ; e l’ in- 
terré dichiarò sovrano della città Marzio , che Anco 
denominavasi. E Marzio , dopo confermati i decreti del 
Senato dal popolo , dopo renduti agli Iddii quanto a 
loro si conveniva, e compiuta a norma delle leggi ogni 
cosa, assunse il comando nell’ anno secondo della ohm- 
\ piade 35 .* nella quale vinse Sfero spartano , nel tempo 
che Damasìa esercitava in Atene l’annuo magistrato (i). 
Ora osservando questo re la trascuraggìne delle pratiche 
religiose istituite da Noma , avolo suo materno , esser- 
ti ) Anni 114 secondo Catone, e 116 secondo Varroae dalla foa- 
dasione di Ruma e 638 aTanti Cristo. 



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2 '] 6 DELLE Arrt-ICHÌTA’ ROMANE 

vando die il più de’ Romani erano divenuti guèrrieri è 
dediti a vili guadagni , nè più si volgeano come prima 
ai lavori della terra; chiamati tutti a parlaménto, esortò 
che ripigliassero il culto degl’ Iddii come a’ tempi di 
Numa ; dimostrando che per tali negligenze delle sante 
cose erano venuti in città morbi e pestilenze ed alu'i 
Hagelli che ne aveano desolata parte non picciola : e 
che lo stesso re Tulio perchè non vegliavane quanto 
doveva alla custodia, travagliato per molti anni da tutti 
i generi de’ mali , nè più essendo padrone della stia 
mente , ma decadutagli questa come il corpo , incone 
in catastrofi miserande egli nemmeno che la sua stirpe." 
E lodando a’ Romani la pubblica forma indotta da Nu- 
ma come egregia e savia , e generatrice di abbondanza 
quotidiana per giustissime cause ; raccomandò che la 
ravvivassero e volgessero l’ opera loro , a coltivare le 
terre , ad allevare i bestiami , e ad altri lavori , liberi 
dalle ingiustizie della violenza e della rapina , e spre- 
giassero in fine le utilità che nascono dalla guerra. 
Con questi e simili detti risvegliava iu tutti il dolce 
trasporto per la calma , aliena dalle armi , e per la in- 
dustria sapiente. Convocando poi li pontefici , e pren- 
dendone le leggi delineate da Numa intorno le cose 
divine , le scrisse ed esposele in su tavolette nel Foro 
a chiunque volesse vederle. Ora quelle tavolette vennero 
meno: perocché non usavano ancora le colonne di me- 
tallo ; ma scriveansi in tavole di querce le leggi del 
fero e de’ templi. Dopo la cacciala dei re furono H- 
prodolte in pubblico dal pontefice Cajo Papirio, il quale 
avea la cura suprema delle cose divine. Rendendo il suo 



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LIBBO III. 277 

splendore ai ministeri negletti de’ sacerdoti , e rendendo 
ai lavori suoi la turba oziosa ; encomiò gli utili agricol- 
tori, e ne biasimò gl’improvidi, come cittadini non veri. 

XXXVIII. Lusingavasi al favore di tali istituzioni di 
vivere sempre libero da guerre e disastri come 1’ avo 
materno : tuttavia non ebbe pari ai desiderj la sorte ; 
ma in onta del cuor suo fu necessitato alle arme , e 
ravvolto in tutta la vita fra turbolenze e pericoli. Im> 
perocché nel primo ascendere al comando appena diede 
calma allo stato , i Latini ve Io dispregiarono : e pen- 
sandolo per codardia non idoneo alla guetra; tutti man- 
darono entro i confini di lui bande di rubatori , che 
' assai danneggiarono molti Romani. E spedendo il so- 
vrano degli arobasciadori a chiedere compensagioni pei 
Romani secondo i trattati, finsero ignorare in lutto quei 
latrocini , non die fossero con pubblica autorità con- 
certati. Diceano pertanto non dovere di cosa alcuna ri- 
sponderne a’Romani; tanto più che i trattati erano con 
Tulio e non co’ presenti; e Tulio mancato, erano periti 
con esso gli accordi. Necessitato da tali pretesti e cavil- 
lazioni de’ Latini Marzio portò conti'O loro l’ esercito. 
Postosi all’ assedio della città di Politorio , la prese a 
condizioni prima che i soccorsi le giugnessero de’ Latini. 
Non infierì già cogli abitanti , ma portossegli tutti a 
Roma co’ beni che avean seco, aggregandogli alle tribù. 

XXXIX. Ma siccome i Latini mandarono nell’ anno 
seguente nuovi abitanti a Politorio , e ne coltivavano i 
campi , così Marzio pigliando I’ eserdto lo ricondusse 
contro di loro. Uscirono dalle mura i Latini e combat- 
terono; ma egli li vinse, e prese la città per la seconda 



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2^5 DELLE Antichità’ romane 
volta. E peixìhè più non fosse un richiamo de’ nemici . 
nè più lavorassero i campi di lei , ne abbattè le mura , 
ne incendiò gli edi6zj, e parli. Recaronsi nell’anno ap- 
presso i Latini a Mednllia ov’ erano de’ coloni romani , 
e dandole d’ ogn’iniomo l’assalto la espugnarono. Maiv 
'zio andato di quel tempo contro la città di Tillene e 
divenuto vincitore in campo , c poi su le mura , la 
sottomise. Non tolse a’ prigionieri nulla di quanto aveano: 
ma li trasse in Roma ove. diè loro de’ luoghi perchè vi 
edi6cassero le abitazioni. Soggiacque Medullia per tre 
anni ai Latini , ma nel quarto la riconquistò con molle 
e grandi battaglie. Espugnò dopo non molto Fidene(i), 
città presa tre anni addietro per condizioni ; e ne 4ra- 
sferl tutto il popolo a Roma ; e non danneggiando la 
città più oltre , parve che si diportasse anzi con man» 
sneludine che con' prudenza. Imperocché li Latini vi 
supplirono nuovi abitanti; e sen tennero e sen goderono 
il tet^ritorio ; tanto che fu Marzio costretto di accorrervi 
per la seconda volta; e divenutone per la seconda volta 
padrone a grande fatica ; ne abbandonò le case alle 
fiamme , e ne devastò le mura. 

XL. Occorsero dopo ciò due battaglie tra’ Latini e 
Romani. Durò la prima lungo tempo : e gli uni sem- 
brandovi eguali agli altri , si distaccarono , e ritiraronsi 
a’ proprj alloggiamenti. Nella seconda i Romani vinsero 
i Latini e gl’ incalzarono fino alle trinciere. Dopo ciò 
più non vi ebbe fra loro battaglia ordinata : ma conti- 
nue furono le scorrerie degli uni su le terre vicine degli 

(i) Vi i ehi legga Ficolara per Fidrue. E verameaie più sotto si 
parla della ribtIlioBe di Fideue. 



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. LIBRO III. 279 

altri ; > e continua le scaramucce tra cavalieri e fanti che 
volteggiavano; ma per lo più colla meglio de’ Romani i 
quali teneano in campo aperto appiè di castelli oppor- 
tuni un armata sotto gli ordini di Tarquinio Toscano. 
Ribellaronsi intanto que’ di Fidene da’ Romani , nè già' 
dichiarando guerra manifesta ; ma danneggiandone a 
poco a poco con occulte incursioni le campagne. Marzio' 
però presentandosi loro con esercito ben fornito innanzi 
che si apparecchiassero alla guerra si accampò d’appresso 
alia città. Fingeano i magistrati non supere per quali 
affronti i Romani fossero venuti contro di loro : e di-- 
chiarando il re che veniva per aver soddisfazione dei 
latrocinj e danni fatti da essi nella sua terra ; si escu- 
sarono che niente era stato con pubblica autorità , e 
chiesero tempo per esaminare e discernere i complici 
delle ingiustizie. Procrastinavano intanto , non adempie- 
vano gli obblighi loro , adunando in segreto de’ sussidj , 
e travagliando all’ apparecchio delle arme. 

XLI. Marzio conosciutine i disegni scavò de' cunicoli 
dal suo campo fino alla città : e compiutone il lavoro 
suscitò le schiere, conducendole con molte scale e mac^ 
chine e stromenti proprj per gli assalti, alle mura, non' 
però dove riuscivano sotto queste le vie sotterranee, ma 
in tutt’ altra parte. Accorsi in folla i Fidenati dove era- 
r assalto, bravamente lo rispingevano, quando ì Romani 
incaricatine , dato 1’ ultimo traforo ai cunicoli , sboc- 
carono dentro la città; e trucidando chiunque capitava, 
spalancarono le porte agli assalitori. Soccomberono nella 
presa della città molti de’ Fidenati; Marzio impose agli 
altri che cedessero le armi : poi fattili per la voce dei 



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aSo DET.LE Antichità’ romane 
banditori congregare in luogo certo , ne battè con Ter- 
ghe e ne uccise alcuni pochi , autori della ribellione ; e 
concedè che i soldati saccheggiassero le case di tatti. 
ÀlSne lasciato quivi un presidio marciò coll’ esercito 
contro de’ Sabini. Nemmeno questi eransi tenuti ai patti 
conchiusi con Tulio ; ma gettandosi nelle terre de' Ro> 
mani ne aveano devastato le più vicine. Marzio , cono» 
sciato dagli esploratori e dai disertori il tempo acconcio 
ad investirli , andò con i suoi iànti , e mentre i Sabini 
spargeansi a predar le campagne prese di assalto le 
loro trincierò , fornite di pochi difensori ; ordinando 
intanto che Tarquiuio piombasse con la cavalleria su i 
nemici che divisi rubavano. Al vedere la cavalleria ro- 
mana verso loro lasciarono i Sabini la preda e quanto 
seco portavano o conducevano di proficuo , e fuggirono 
agli alloggiamenti. Ma non sì tosto mirarono questi hr 
potere de’ fanti ; dubitarono dove rivolgersi , finché si 
sparsero per le selve e per le montagne. Perseguitati 
pelò da* soldati leggeri e da' cavalieri , ne scamparono 
pochi, soccombendone la parte più numerosa. Spedirono 
dopo ciò nuovi ambasciadori a Roma ed ottennero l’a- 
micizia che voleano. Imperocché la guerra , permanente 
ancora, co’ Latini rendea necessaria la tregua o la pace 
con gli altri nemici. 

Xl.II. Intorno al quarto anno dopo questa guerra 
Marzio il re de’ Romani andò colle sue milizie e col 
più che potè delle ausiliarie contro de’ Vejenti , e de- 
vastò gran parte della loro campagna; imperocché questi 
si erano i primi gettati nell’ anno precedente sul terri- 
torio romano; e molto vi saccheggiarono, e vi uccisero. 



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I.IBRO III. 281 

Ben uscirono <la Vejo schiere copiose contro di Marzio, 
e coUocaronsi presso Fidene di là dal fiume Teverél 
Ma colui movendo con quanta potè rapidità li suoi mi- 
litari , primieramente chiuse ad essi colla cavalleria il 
ritorno a’ proprj paesi : poi le astrinse a prendere bat- 
taglia e le ruppe , invadendone gli alloggiamenti. Ter- 
minataglisi come bramava la guerra , egli tornato in 
città fece la pompa da vincitore e l’ usato trionfo in- 
verso gl’ Iddìi. Ma nel secondo anno da poi siccome i 
Yejenti aveano rottala tregua conchiusa con essi, e vo- 
leano ricuperare nemmeno le città già cedute fino dai 
tempi di Romolo; egli diè loro presso di Alla un’altra* 
battaglia, maggiore della prima ; e restò senza più con- 
troversie padrone di quelle città. Raccolse i premj di 
questa vittoria Tarquinio il duce de’ cavalieri : perocché 
Marzio lo giudicò uomo fortissimo , e lo ascrisse nel 
numero de’ patrizj e de* senatori , onorandolo costante- 
mente. Arse dopo questa la guerra co’ Volsci i quali 
uscivano dalle loro terre a far preda su’ campi romani. 
Recatosi Marzio su loro con esercito poderoso , fece 
assai preda. Quindi collocandosi innanzi di Yelletri loro 
città, e dominandone le campagne, la circondò di fossa 
e vallo , con proposito di assaltarla. Ma usciti i seniori 
per supplicarlo , e promessogli che avrebbero compen- 
sato i danni come il re medesimo ne giudicherebbe ; e 
che gli darebbono in mano i colpevoli perchè li pu- 
nisse ; Marzio concedette una tregua : indi soddisfatto 
spontaneamente da essi , concedette pace ed amicizia. 

XLIII. Ben tosto altri Sabini abitatori di città vasta 
e felice e terribile in guerra , quantunque inesperti an- 



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a8a D£LLQ xnticeita’ bomxke 
cora della potenza de’ Romani , nè cosa avessero onde 
richiamarsene ; pure vinti dalla invidia delie loro pro> 
sperità , grandi oltre il dire , su le prime si diedero in 
pochi a scorrerne e derubarne le campagne : poi lusin- 
gati dal guadagno misero palesemente in piede un eser- 
cito ; e le desolarono. Ma non riuscì loro di portarsi 
via que’ guadagni , nè di partire impuniti. Imperocché 
venuto provvidamente il re de’ Romani , e posto il stio 
presso al campo de’nemici, gli astrinse a fare giornata. 
Sorse dunque battaglia terribile , e molti perirono da 
ambe le parti : nondimeno per la sperienza , e per la 
tolleranza de’ travagli , antica fra loro , prevalsero finale 
mente di gran lunga i Romani , e fecero ampia ucci- 
sione, seguitando immantinente i Sabini che disordinati 
e disgiunti riparavansi agli alloggiamenti. Poscia inva- 
dendo pur questi pieni di ogni ricchezza, e ricuperando 
i prigionieri usurpati da’ Sabini quando predavano ; sen 
tornarono in patria. Tali si dicono le gesta guerriere 
di questo re , credute degne di ricordanza , e di stima 
da’ Romani : sono poi le politiche , quelle che mi ac- 
cingo a narrare. 

XLIV. Primieramente aggiunse alla città non piccìola 
parte rinchiudendo fra le mura 1’ Aventino. E questo 
un colle alto leggermente, con perimetro di circa stadj 
diciotto : r occupavano allora piante di ogni genere e 
più che tutto lauri bellissimi , dond’ è che una parte di 
esso chiamasi laureto da’ Romani : ora è tutto ingom- 
brato di case , e tra’ molti edi6zj , il tempio sorgevi di 
Diana. Dividevalo valle angusta e profonda dal colle 
della città ^ chiamato Palatino , dove fu Roma nel na- 



LIBRO III. 



a83 

«cer suo collocata : ma ne’ tempi appresso l’ intervallo 
tra* due colli fu riempiuto di terra : ora vedendo che 
un tal colle sarebbe un luogo forte per un* armata ne- 
mica se nini si avvicinasse, lo circondò di mura e fossi, 
e inisevi ad abitare le genti trasportate da Telline , da 
Poiilorio , e da altre città soggiogate. Celebrasi tale 
istituzione del re come utile e bella , perchè Roma ne 
divenne più ampia , e meno espugnabile per quanti 
nemici mai le soprastassero. 

XLY. Migliore del regolamento anzidetto è 1’ altro 
che la rendè più felice nel vivere, e la mise ad im- 
prese più generose. Imperocché scendendo il fiume Te- 
vere dai monti Appennini , passando appiè di Roma, e 
scaricandosi attraverso de’ lidi del mare Tirreno , dirotti 
e senza porti , rende alla città picciolo bene , e certo 
non memorabile , perchè dove si scarica non evvi un 
emporio il quale riceva e cambj a’ mercadanti le merci 
portatevi dal mare, e giù colla corrente stessa del fiume. 
Altronde essendo il Tevere navigabile fin dalle origini 
con barche fluviali mezzane , e dal mare fino a Roma 
co’ legni grossi da trasporto ; egli deliberò di fare ivi 
un luogo da ricever le navi , servendosi della imboc- 
catura come di porto ; tanto più che ivi il fiume si 
spande amplissimo , e formavi gran seni appunto come 
ne’ siti de’ porti migliori. E , ciò che porge più mera- 
viglia , il Tevere non è traversato nella sua foce da cu- 
muli di arene , come altri gran fiumi , nè dilagasi in 
stagni o paludi , nè consumasi con altre maniere prima 
che giintga nel mare : ma sempre navigabile si scarica 
per una sola bocca naturale, separando a forza le acque 



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284 DKLLE Antichità’ romane 
marine , quantun(]ue ivi spiri un vento occidentaie 
grande e malagevole. Adunque le navi lunghe per 
quanto grandi, e quelle da carico, capaci ancora di tre 
mila misure , si avanzano per la bocca del medesimo 
e giungono a Roma , sospintevi con remi e funi : ma 
le navi maggiori fermate colle ancore presso la imboc- 
catura si vuotano su barche fluviali, che succedono ai 
trasporU. Tra lo spazio cui cingono il mare ed il Gume 
con forma di cubito , il re fece erigere una città chia- 
mandola Ostia , o come noi diremmo , porta dall’ uso 
che presta , rendendo con ciò Roma mediterranea e 
marittima , talché godesse i beni ancora d’ oltremare. 

XLYI. Inoltre cinse dì muro il Gianicolo che è un 
colle alto di là dal Tevere , e posevi guarnigione che 
bastasse per difendere chi navigava in sul Game ; im- 
perocché li Tirreni tenendo lutto il tratto di là dal 
Gume infestavano e derubavano i mercadanti. E dicesi 
che egli soprapponesse al Tevere il ponte Sublicìo , il 
quale dee per legge esser tutto di legno , senza rame 
nè ferro , ed il quale , perchè sacro lo estimano , con- 
servasi ancora. E se parte alcuna ne pericola, i ponteGci 
la curano , compiendo insieme patrj sagriGzj mentre 
riparasi. Operate nel suo principato tali cose degne di 
storia. Marzio dopo un regno di ventiquattro anni moti, 
lasciando Roma non poco migliore di quello che aves- 
sela ricevuta , e lasciando due Ggli 1’ uno fanciullo an- 
cora, r altro di più anni, e già nubile. 

XLVII. Dopo la morte di Marzio , il popolo rimise 
al Senato la scelta del governo che più bramava ; ed il 
Senato Gssò di litenerne la forma consueta. Adunque 



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LIBRO III. a85 

furono gl’ interré dichiarati ; e questi riunirono pe’ coi^ 
mizj la moltitudine , e scelsero Lucio Tarquiuìo per 
monarca (i). E confermando i segni divinf la elezióne 
della moltitudine ; egli assunse il regno nella olim- 
piade nella quale Cleonida tebano vinse nello sta- 
dio, mentre era arconte in Atene il figliuolo di Enioco. 
Ora , secondo che io ne trovo negli scritti di que’ luo- 
ghi, dirò di quali parenti, e di qual patria fosse questo 
Tarquinio , per quali cagioni venisse in Roma , e per 
quali arti giugnesse al comando. Un tale di Corinto , 
( Demarato ne era il nome ) della stirpe de’ Bacchiadi , 
risolutosi di commerciare navigò per la Italia con nave 
propria e proprie merci. Vendutele nelle città tirrene 
allora le più prosperose d’ Italia , e fattovi assai guada- 
gno , non volle più rigirarsi per altri porti ; ma tenne 
continuamente lo stesso mare , portando le greche cose 
ai Tirreni , e le tirrene ai Greci ; donde ricchissimo né 
divenne. Nata però sedizione in Corinto , e postasi la 
tirannide di Cipselo attorno de’ Bacchiadi , egli ricco 
uomo , e del grado degli ottimati , più non credendo 
sicuri col tiranno i suoi 'giorni , raccolse quanto potea 
di sue robe , e fece vela per sempre da Corinto. E 
perchè stante il commercio continuato egli aveva amici 
molti Tirreni, anche riguardevoli; specialmente in Tar> 
quinia , città, grande allora e felice, quivi si domiciliò,' 
prendendovi una nobile donna per moglie. Da questa 
nacquero a lui due figli, chiamandone con tirreni nomi 
Aronle 1’ uno , e 1’ alu'O Lucumone. Diè loro greca é 

(i) Anni di Roma l3S secondo Catone, i^o secondo Varrone, e 
6i4 acanti Cristo. 



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a86 DELLE A?)TICHITA’ romane 
tirreoa istituzione, e adulti fatti , li cougìaute per ma- 
trimonio colle più insigni famiglie. 

XLVIIL Mori non molto dopo il primogenito suo, non 
avendosi ancora di lui prole distinta (i). Da indi a po- 
chi giorni si mori per l’ ambascia Demaralo ancb’ esso 
destinando erede di ogni sua cosa Lucumone il Aglio 
superstite. Investito questi de’ beni paterni , che erano 
assai grandi, desiderò di essere nom pubblico, di ma- 
neggiare il comune, e Ggurare co’ primi della città. Ma 
respinto in ogni parte da’ paesani , e non aggregato non 
dico a’ primarj ma nemmen co’ mediocri , mai sopportò 
quel dispregio. E sentendo come Roma accogliea con 
beneplacito i forestieri , e facevali cittadini , e gli onorava 
secondo i lor gradi ; risolvette di trasferirvisi. E raccolte 
per ogni modo le cose sue menò seco moglie, amici , 
e domestici quanti ne vollero ; e molti vollero con lui 
trasmigrarsi. Giunto al colle chiamato Gìanicolo , che è 
quello donde Roma presentasi in prima a chi .vien di 
Toscana , un aquila calatasi di repente , gli ghermisce il 
pileo che tieu sul capo , e sollevatasi , roteandosi a volo, 
si occolu al Aae nell’ allo delK aere : poi d’ improvviso 
rimise in capo a Lucumone il suo pileo come eravi 
quando sei portava. Riuscì tal segno inaspettato e me- 
raviglioso a tutti: e Tanaqaila (che tale ne era il nome) 
la' moglie di Lucumone , sperimentata assai nell’ arte pa- 
tema degli auguri > menatolo in disparte . lo abbracciò 
colmandolo di belle speranze , come se dalla condizione 
de’ privati a quella gingnerebbe dei re. Desse dunque 

(i) Latoiò la moglie graeiJa : e da essa aacrjua poscia Arunlc 
dopo la morie di Demaralo. Vedi § 5o. 



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LIBRO III. 



387 



opera , moitranJosene degno , di ricererc il comando dai 
Romani spontaneamente. 

XLIX. Lieto Lucumone de’ successi , ornai presso 
alle porte , supplicò gl’ Iddi! che verificassero gli augurj ; 
supplicò che gli dessero un* ingresso felice , e si mise 
dentro la città. Quindi venuto a colloquio con Marzio 
il regnante indicò primieramente chi egli fosse, poi co> 
ni’ egli era deliberato domiciliarsi in Roma ; che avea 
perciò portate seco le paterne sostanze, delle quali pos* 
sedendone piucché un privato , esibivale fin d’ allora in 
servigio de' Romani e del re. Lo accoke questi di buon 
grado , ascrivendo lui co’ Tirreni compagni in una curia 
e tribò. Cosi fabbricò Lucumone in città la sua casa , 
avutone in sorte il sito che bastasse , e ricevutane pure' 
una parte di campagna. Ciò fatto , e divenuto del nu-> 
mero de’ cittadini , osservando come ogni Romano ha un 
nome comune , ed inoltre uno patronimico e gentilizio , 
e volendo in ciò conformarsi , assunse , per suo nome 
comune quello di Lucio in luogo di Lucumone , e pel 
gentilizio quello di Tarquinio dalla città dove ebbe i 
natali e la educazione. In breve divenne 1’ amico del 
sovrano , donandogli ciocché si avvedea che più gli 
bisognava , e porgendogli danari , quanti ne erano di 
mestieri per la guerra. Combattitore benissimo a piede 
e a cavallo contavasi per sapientissimo quante volte bi« 
sognassero opportuni consigli. Nè già col divenire caro 
al monarca aveasi perduto la benevolenza de’ Romani , 
ma si vincolò molti de’ patrizj co’ beneficj , e tentò di 
affezionarsi la plebe col chiamarla , e salutarla , e con- 
versarla piacevolmente , e col porgerle danari ed altre 
significazioni di amore. 



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a88 DEtLE Antichità’ roma:he 
L. Tale era Tarqulnio , e per tali cagioni vivendo 
Marzio divenne il più cospicuo de’ Romani ; e morendo 
questo fu da tutti proclamato degno del trono. Salitovi 
fece guerra in principio con gli Apiolani , popolo non 
ignobile del Lazio. Imperocché gli Apiolani, come tatti 
del Lazio , credendosi colla mone di Marzio sciolti dai 
trattati di concordia devastavano le campagne romane 
pasturandovi , e saccheggiandovi. Di che volendo Tar- 
quinio farli pentiti usci con grande armata , e disfece 
quanto era il meglio del territorio di quelli. Ben so- 
pravvenne gran soccorso per gli Apiolani da’ popoli vi- 
cini del Lazio : ma egli attaccò due volte battaglia con 
essi , e vintala due volte , si ristrinse all’ assedio della 
città, spingendovi a mano a mano delle schiere 6n alle 
mura. In opposito dovendo quelli della città combattere 
pochi di numero e senza intermissione contro i molti e 
freschi , soccomberono alfine. Presa la città di forza , i 
più degli Apiolani morirono con le arme in pugno : e 
se taluni le cederono , furono venduti colle altre prede. 
Furono le donne e i fanciulli condotti schiavi da’ Ro- 
mani : fu la città lasciata al saccheggio , e dopo il sac- 
cheggio alle fiamme. Il re dopo' questo , e dopo rove- 
sciate le mura da’fondamenti ricondusse in casa le milizie; 
rivolgendole poi contro la città de'Crustumerini: colonia 
anch’ essa de* Latini , la quale erasi ceduta a’Romani nel 
tempo di Romolo : ma cominciava di nuovo a tenersela 
co’ Latini , dacché Tarquinio prese il comando. Nè già 
bisognarono a questo assedj e travagli per umiliarsela. 
Imperocché li Crustumerini vedendo la moltitudine ve- 
nuta contro loro, la debolezza propria, e la niuna aita 



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LIBRO III. 



389 



de’ Latini verso di essi , aprirono le porte ; ed uscitine 
i più anziani e più riveriti consegnarono a lui la citld , 
supplicandolo che usa^e moderazione e clemenza. Ben 
fu l’ evento propizio ai desiderj: perciocché andato quel 
inotutrca in città non vi uccise ninno, ma banditine per 
sempre alcuni pociù , amatori della ribellione , concedè 
che gli altri ritenessero i beni loro , e partecipassero 
come) prima alla cittadinanza romana. Ma perchè più 
non si rimovessero , lasciò de’ Romani con essi. 

LI. Egual sorte incontrarono i Nomentani datisi a 
pari consigli. Imperocché spedendo bande di ladroni 
ne’ campi de’ Romani si costituirono aperti loro nemici ; 
coutidaudu nella confederazione de’Latini. Ma giuguendo 
Tarquinio su loro, e tardando il soccorso latino, e non 
b.isiando essi contro tanti nemici, uscirono 'di città coi 
simboli di pace, e si renderono. Gli abitanti di Collazia 
111 archi narono far battaglia co’Romani ed emersero dalle 
mura di essa : ma superati in tutti gli attacchi e molto 
danneggiatine ; furono costi-etti rifuggirsi tra le mura , 
e spedirono alle città de’ Latini per chiederne truppe 
compagne. Ma indugiandosi questi, e presentando i ne< 
mici r assalto in più parti delle mura : furono successi- 
vamente costretti di cedere : noti però trovarono tanta 
clemenza quanta i Nomentani e li Crustumerini. Ma 
privatili delle arme., e multatili in danaro lasciò fra 
loro guarnigione sulBcieuie , e diedeli a governare con 
indipendenza, hndiè vivesse, ad Arunte, figlio del suo 
fratello , il quale perchè nato ‘ dopo la morte del padre 
6 dell’ avolo suo Demarato non aveva ereditata la parte 

moti tei , ama l. 



«9 




apo DELLE Antichità’ romane 
conveniente nè de’ beni paterni , nè degii aviti , tanto 
cbe ne era egli chiamato Egeria , nome consueto de’ po< 
veri e de’ mendici tra’ Romani. Daccliè però tenne il 
comando della città fu denominato Collatino , esso e i 
posteri suoi parimente. Dopo la resa di Collazia andò 
Tarquinio colle arme verso la città chiamata Cornicelo, 
anch’ essa del popolo de’ Latini. Saccheggiatene a gran- 
d’ agio le> terre, ninno resistendovi, e messo il campo 
dinanzi la città , ne invitava gli abitanti a far pace. Ma 
ricusando questi , e confidando su le fortibcaziooi dei 
ricinti , e concependo che -verrebbero per loro schiere 
confederate d’ogn’ intorno, il re ne circondò con truppe 
le mura , e le assalì. Resisterono lungo tempo i Corni- 
colani combattendo virilmente , e coprendo di ferite gli 
assalitori , ma stanchi pei dalla continuità de’ travagli , 
e piò stanchi eziandio dalla discordia, perchè non erano 
più unanimi fra loro volendo altri la resa , ed altri la 
difesa della città Gno agli estremi ; furono alGne espu- 
gnati. Li più generosi di loro perirono fra le arme nella 
presa della città : gli altri , salvatisi come ignobili , fu- 
rono venduti schiavi insieme co' fanciulli, e colle donne, 
la città fu prima abbandonata al saccheggio , e quindi 
alle Gamme. Dicchè malcontenti i Latini deliberarono 
con voto comune di uscire io campo contro a’ Romani: 
e fatto grande apparecchio di forze , si gettarono su le 
terre più buone di essi , e v’ invasero assai prigionieri, 
e vi divennero signori di amplissime prede. Volò Tar> 
quinio contr essi coll’ esercito spedito e pronto : nè po* 
tendo raggiungerli , portò su le terre loro simili cala- 
mità. Cosi per le vicendevoli incursioni ne’ campi vicini. 



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LIBRO III. 2()r 

molle lerano le perdite e gli acquisti di ambedue. Ven- 
nesi con tutte le forze a battaglia ordinata presso Fi^ 
deoc; e molti ne perirono da ambe le parti; ma vin- 
cendo inCne i Romani , costrinsero i Latini a lasciare 
il campo , e fuggirsene tra la notte alle loro città. 

LH. Dopo quel comlntti mento marciò Tarquinio colle 
milizie schierate alle città de’ Latini esibendo ad essi la 
pace. E queste non avendo né riunite le forze' comuni, 
nè ben confidando su’ proprj apparècchj , accettarono < 
l’invito , e cederono le loro città; perciocché vedeano 
che la schiantò e la rovina era il termine delle espu- 
gnate di forza ; laddove quelle che si rendevano a con- 
dizioni dovevano ubbidite a’ vincitori e non altro. Adun- 
que Fidene (i) città riguardevole gli si diede la pri- 
ma , su certe convenzioni : furono i secondi i Ca-' 
merini , seguiti poi da piccioli popoli e castelli muniti.' 
Dicché perturbati gli altri Latini , e timorosi che non 
gli soggiacesse anche il resto della nazione , vennero a 
p.-trlamento in Ferentino; e dato il voto conchiusero di 
I accogliere da ogni loro città le' milizie , e d’ invitare le 
più potenti delle nazioni vicine. Adunque spedirono ai 
Tirreni e Sabini per averli compagni di guerra. Promi- 
sero i Sabini che quando- udiiebbero esser eglino pene- 
trati nel territorio romano anch’ essi prenderebbero le 
armi e ue prederebbero i campi vicini : annunziavano i 
Tirreni che manderebbero soccorso quanto non erane 
loro dimandato ; non però concorrevano tutti in questa 
sentenza ma i soli cinque popoli Chiusini , Aretini , 
Volalerrani , Rusellani e Vetnioniani finalmente. 

(i) Sacondo Livio Ficolaea. 

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ag2 DELLE ANTICHITÀ.’ ROMANE 
LUI. ÀDÌmati da tali speranze i Latini raccolsero gran 
copia delle milizie loro, e prendendoDe par dai Tirreni 
si gettarono su le òampagne romane. Intanto le genti sa- 
bine le quali avevano promesso di consociarsi nella guerra 
davano il guasto su le terre ad essi vicine. Ma preparatosi 
ancb’ egli il re de’ Romani proruppe prontamente su 
loro con schiere buone e copiose. Non giudicando però 
sicuro abbastanza far guerra in nu tempo con Latini e 
Sabini , e dividere in due luoghi I’ esercito ; n'solvé di 
portarselo tutto contro de’Latini, e mise il campo presso 
di loro. In principio aveano a mal cuore ambedue di 
rischiarsi con tutte le milizie , temendo 1’ uno gli ap- 
parecchi dell’ altro. Solamente i sold&ii leggeri dell’ una 
e dell’altra parte scendendo da luoghi forti faceano sca- 
ramuccia per lo più con sorte uguale. Da ultimo ecci- 
tatosi in ambedue da tali preludj l'ardore di combattere, 
accorrevano in ajuto ciascuno de’ suoi prima a poco a 
poco , ma poi furono astretti ad uscire tutti dagli al- 
loggiamenti. E venuti alle mani uomini non inesperti 
delie zuffe nè scarsi a vicenda di numero lanciavansi , 
fanti e cavalieri , con impeto eguale : e giudicando am- 
bedue di correre 1’ ultima sorte combatterono memoran- 
damente, finché, scesa la notte, si divisero ardenti al 
pari. Se non che li pareri non simili degli uni e degli 
altri dopo la battaglia abbastanza dichiararono qual di 
loro avesse meglio combattuto. Quindi nei giorno ap- 
presso i Latini non uscirono dalle trinciere: ma il re di 
Rooia ricondusse in campo 1’ armata , pronto a nuovo 
conflitto , e ve la tenne gran tempo schierata. Ma non 
più venendogli incontro i nemici; esso spogliati i cada- 






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LIBRO III. 393 

veri de’ Latini e raccolti qaelli de’ saoi , rimenò con 
assai glorìazione le schiere negli accampamentL 
I LIV. Giunto nel di seguente un nuovo rinforzo di 
Tirreni a’ Latini si fece una seconda battaglia assai piò 
considerabile della prima. Raccolsene il re Tarqninio 
una luminosa vittoria ; e si consente da tutti eh’ egli 
appunto la originasse. Imperocché vacillando ornai la 
milizia romana , e rompendosene l’ ala sinistra , egli 
dalla destra ov’ era , veduto il danno de' suoi , ripiegò 
le squadre più forti de’ cavalli , e pigliò seco le schiere 
più vegete de’ fanti , e giratele a tergo dell* esercito suo 
e passato il corno sinistro le condusse più in là dell’ e< 
sercito. Quindi volgendosi in verso la mano delie aste, 
e concitando i cavalli urtò di fianco . i Tirreni. Com> 
batteano questi nell’ ala destra ed aveano già fugato gli 
emuli che eran con essi alle mani , ma l’ inaspettato 
presentarsi di lui li sorprese e sconvolse. Intanto la 
fanteria romana riavutasi dalla paura piombò su’ nemici. 
Allora grande fu la strage de’ Tirreni, e piena la rotta 
dell’ala destra. Tarquinio dato avviso ai duci della fau> 
teria di tenergli appresso in buon ordine, e passo passo, 
spinse di tutta lena i cavalli in su gli alloggiamenti ne* 
mici; e gl’ invase a prìm’ impeto, prevenendo quelli che 
vi si riparavano dalla fuga. Imperocché quelli che ne 
erano in guardia non avendo prima saputa la sciagura 
che invalse su i loro , né potuto distinguere per la ra- 
pidità del corso quali cavalli venivano , lasciarono che 
entrassero. Invasi gli alloggiamenti de’ Latini , quelli che 
dalla fuga vi accorrevano come ad asilo , vi erano sor- 
presi ed uccisi da’ cavalieri che lo aveano preoccupato : 



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394 DELLE Antichità’ bomane 

e se altri si fossero affrettati di là verso il piano s’ im- 
battevano' colla fanteria romana , e ne perivano : li più 
di loro spintisi e concnlcatisi a vicenda soccomberono 
con ignobile e miserabile fino intra i valli , e li fossi. 
Dond’ è che quanti vi sopravanzavano non avendo via 
ninna di salvezza erano costretti di rendersi ai vincitori. 
Tarquinio impadronitosi di persone , e robe in copia 
vendè le prime , e concedè le seconde in premio ai 
soldati. 

LV. F allo ciò si diresse alla città de’ Latini onde 
prendere combattendo quelle che a lui non si davano : 
non però vi fu bisogno di assalti : ma si rivolsero tutte 
alle umiliazioni ed alle preghiere ; e mandando oratori 
a nome del comune supplicarono che desse fine alla 
gtierra co’ patti che gli piacevano , e si renderono. 11 
re divenutoi cosi l’arbitro delle città fu moderatissimo 
e mitissimo verso di tutte : perocché non uccise , non 
bandì , nè multò niuno de’ Latini. Lasciò che godessero 
-le terre loro , e conservassero le leggi delia patria : ma 
comandò che rendessero ai Romani i disertori ed i pri- 
gionieri senza prezzo ninno: che restituissero ai padroni 
i servi, quanti presi ne aveano nel fare le prede , agli 
agricoltori il danaro quanto ne aveano derubato ; e 
compensassero tutti gli altri danni o guasti , se causati 
ne aveano nelle scorrerie. Fatto ciò dichiarò che sareb-- 
bero gli amici e li confederati de' Romani se pronti 
sarebbero in tutto ai loro comandi. A tal fine venne 
la guerra de’ Romani co’ Latini ; e cosi Tarquinio vinse 
e trionfò. 

LVl. L’ anno appresso prendendo 1’ esercito , lo con- 



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LIBRO III. 3^5 

dusse contro i Sabini , avvedatisi già molto innanzi dei 
disegni e de’ preparamenti suoi contro di loro. Non 
aspettarono questi che la guerra passasse in sul proprio 
territorio ; ma premunitisi di forze sufilcienti si avanza- 
rono tutti ad un luogo. Fattasi ne’ confini battaglia fino 
a sera non vinsero né gli uni uè gli altri , anzi molto 
ne furono afiaticati. Quindi ne’ giorni appresso nè il 
duce Sabino nè il re dei Romani cavarono le milizie 
dagli accampamenti: ma via via trasmutandoli , senza 
danneggiare le terre , si ricondussero in casa ; ambedue 
coi disegno di piombare nella primavera con armata 
più grande 1’ uno nel territorio dell’ altro. Poiché furono 
ambedue preparali , primi si mossero i Sabini fiancheg- 
giati da sussidio sufficiente di Tirreni , e collocarousi 
presso Fidene, dove l’ Aniene concorre col Tevere. 
Fecero questi due campi, l’uno dirimpetto, e come in 
continuazione dell’altro; avendoci tra tutti due 1’ alveo 
delle correnti riunite , e sull’ alveo un ponte di legno 
congegnato di picciole barche , il quale rendea spedito 
il transito dall’ uno all’ altro campo , anzi rendeali di 
due uno solo. Tarquinio uditane la irruzione aach’ egli 
cavò le sue genti , e si trincerò presso 1’ Aniene , al- 
quanto più sopra di loro in una munita collina. Erano 
venuti ambedue con tutto l’ardore a tal guerra ^ por 
non vi ebbe ninna battaglia ordinata , non grande nè 
picciola. Imperocché Tarquinio con iscaltrezza di capi- 
tano prevenne ed isconciò tutte le opere de’ Sabini , e 
ne distrusse l’ uno e l’ altro campo. Lo stratagemma fa 
questo. 

LVII. Preparate e riempiute piociole barche fluviali 



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àg6 DELLE Antichità’ romane 
di legna aride e di zolfo e di |>cce *ul fiame presso al 
quale esso accampava , e poi colto uii vento propizio , 
ordinò che nella vigilia mattuliiia si desse fuoco a qnei 
combustibili e si lasciassero le navi a seconda della Cor- 
rente. Queste scorrendo iu breve tempo la distanza in- 
termedia percossero il ponte, e vi comunicarono ' in 
più luoghi r incendio. Accorsi per ajuto i Sabini a 
tanta fiamma improvvisa , e datisi a far tutto , quanto 
giovasse ad estinguerla , ecco intanto gingnere su l’alba 
Tarquinio coU’eseixito in ordinanza; ed investire l’nno 
de’ campi , deserto di guardie, andate in gran parte 
contro del fuoco. Pochi dunque sorsero a resistervi ; 
talché senza fatica gl’ invase. Mei tempo di tale opera- 
zione altre milizie romane sopravvenendo espugnarono 
anche il campo Sabino posto di là dal fiume: premesse 
da Tarquinio nella prima vigilia erano su piccioli na- 
vigli valicate da sponda a spanda , laddove fattosi di 
due fiumi uno solo, rimarrebbero invisibili nel passaggio. 
Appena poi videro il ponte iu fiamme piombarono 
( che tale ne era l’ accordo ) in sul campo dei Sabini : 
ove quanti ne erano o combattendo caddero appiè dei 
Romani, o gittatisi a nuoto nella 'confluenza de’ fiumi 
nè resistendone all’ impeto , si affondaron tra’ vortici : 
peri nou picciola .parte ancora per liberarne il ponte , 
tra le fiamme. Tarquinio, preso l’uno, e l’altro cam- 
po , diede a’ soldati . le robe che vi erano percltè se le 
compartissero , ma ' condusse in Roma e guardò ’ con 
molta diligenza li prigionieri ; ben molti in tutto, Sabini 
e Tirreni. 

LYIII. Sentirono a tale sciagura i Sabini la propria 



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LIBRO III. . 397 

debolezza , e mandando gli ambasciadorì concbiusero, 
00 ’ Romani una tregua di sei anni. I Tirreni mal sop-, 
porundo che fossero tante volte vinti , e che Tarquinio 
j»er quante istanze ne facevano, non s rendesse i loro 
prigionieri , anzi li ritenesse come ostaggi ; decretarono 
di spingere tulle generalmente le città Tirrene in guerra 
contro de’ Romani e di non più riguardarla come al- 
leata , se taluna se ne ricusava. Cosi deliberati cavarono 
in campo le milizie , e tragittato il Tevere si trincie- 
rarono presso Fidene. E prima s’ impadronirono di 
questa con frodoienza , per esservi sedizione tra’ citta- 
dini: poi fatti prigionieri in buon numero, e condottesi 
via via gran prede dal territorio romano ^ tornarono in 
patria. Fidene sembrava loro una piazza bonissima d'ar* 
me in tal guerra; e vi lasciarono guernigioue quanta 
ne bastasse. Ma Tarquinio mettendo per la stagione se- 
guente in arme tutti i Romani , e congregando il più 
che poteva di alleali marciò sui giugnere della prima- 
vera contro i nemici prima che riunitisi dalle varie città 
venissero su lui come 1’ anno d’ innanzi. Dividendo in 
due parti tu'.ia 1’ armata , egli stesso ne andò colla mi- 
lizia romana contro le città de’ Tirreni : e fidate le 
truppe ausiliarie , per lo più latine , ad Egerio il suo 
consanguineo , gl’ ingiunse di marciare conU'O Fidene. 
E queste piene di disprezzo per l’ inimico , accampatesi 
in luogo non ben sicuro presso delia città ; non fiirono 
per poco tutte disfatte. Imperocché le guardie di Fideue 
procuratosi un rinforzo occulto dai Tirreni , e spiatone 
il tempo opportuno , fecero una sortita ed invasero il 
campo nemico non bene difeso , e grande fu la strage 



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apS DELLE antichità’ ROMANE 

di qaein che erano usciti per foragghtre. la opposito la 
milizia romana sotto gli ordini di Tarquinio , mano- 
metteva e depredava le terre di Vejo , e traevane molti 
vantaggi. Ben si riunirono poi grandi snssidj da tutte 
le cittA de'Tirreni in sostegno di Vejo : ma Tarqnioio 
diede ad essi battaglia, restandone non dnbbiamente 
vincitore. Poi scorrendo a bell’ agio il paese nemico lo 
devastò : Cnalmente lattivi molti prigionieri , e presevi 
assai cose come in terre felici , essendo ornai per finire 
la state , si ricondusse in casa. 

LIX. Straziati i Vejenti da quella battaglia non usci- 
vano più di città , ma dentro vi si teneano , mirando 
intanto sterminarsi le loro campagne : Perocché Tarquinio 
uscito per la terza volta , privavali per il terzo anno dei 
prodotti delle loro campagne , desolandole in gran parte : 
e non avendo poi come più danneggiarli condusse 1’ eser- 
cito alla città di Cere, sigilla chiamavasi la città quando 
i Pelasghi ne erano gli abitanti , ma soggiacendo poscia 
ai Tirreni fu Cere nominata. Era questa felice e popolata 
quanto altra mai fra’ Tirreni. Quindi ne uscì valido esercito 
a combattere per le proprie campagne , e molti vi straziò 
de’ nemici ; ma perdendovi più ancora de' suoi , rifug- 
gissene alla città- Rimasti i Romani padroni di una terra 
la quale somministrava tutto in abbondanza vi si trattenero 
molti giorni ; finché venuto il tempo di ritirarsene me- 
narono con sé quanta preda potevano , e si ridussero in 
casa. Riuscitegli come desiderava le operazioni su Vejo , 
Tarquinio ricavò l’esercito contro i nemici di Fidene 
per cacciameli , con ansia di punire quei che aveano la 
ci ttà consegnata a’ Tirreni. Vi fu batttaglia tra’Romani 



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LÌBRO III. 299 

tf tra le ihilizie ascile da Fidene , e' poi darò contrasto 
nell’ assalto delle 'mura. Fu la città pigliata di forza, e 
tatti li prigionieri Tirreni legati e custoditi. Dei Fidenaii 
giudicati autori della rivolta quale ne fu battuto pub- 
blieatnente e poi decapitato , e quale bandito per sem- 
pre. I Romani lasciativi per abitatori e custodi della città 
misero a sorte e se ne appropriarono i beui. 

■ LX. Occorse l’ ultima battaglia fra Romani e Tir- 
rani' presso di Ereto nella Sabina. Imperocché lì Tirreni 
erano venuti attraverso di questa incontro al Romano 
persuasi dai potenti di que' luoghi che i Sabini militereb- 
bero insieme con essi. E certamente già era spirata la 
tregua sessennale conchiusa da questi con Tarquinio , e 
molti ardevano dal desiderio di emendare le antiche dis- 
fatte, essendo già cresciuta nelle città gioventù numerosa. 
Non pelò succedette ciò come ideavano : perchè ben to- 
sto si presentò l’esercito Romano, nè potè farsi che ab 
cuna delle città mandasse un soccorso ai Tirreni ; e solo 
vi si congiunsero alquanti volontari , e pochi reclutali a 
gran soldo. Fu questa guerra la più grande di quante 
ne sorsero infra loro ; ed i Romani ne crebbero mera- 
vigliosamente , riportandovi una segnalata vittoria , ed il 
Senato ed il popolo decretarono a Tarquinio il trionfo, 
lu opposito lo spirito ue decadde ne’ Tirreni ; perchè 
avendo spedito da ogni loro città tutte le milizie , non 
riebbero salvi, se non pochi di tanti; gii altri o perirono 
tra la battaglia , o fuggiti in luoghi non idonei per Io 
scampo , si arresero. Colpiti da tanta sciagura i primarj 
delle città la fecero da savj ; perchè prendendo Tarquinio 
una nuova spedizione su loro , essi riunitisi a consiglio 



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3oo DELLE Antichità' romane 

deliberarono trattare della pace ; e mandarono da ogni 
città plenipotensiarj anziani e riipettabili per conciliti- 
derla (i). 

LXI. Teneano questi al re che gli udiva ragionamenti, 
induttivi a misericordia e moderazione , e ricordavano il 
parentado di lui colla lor gente; quando Tarquinio disse 
che volea sapere unicamente , se disputavano ancora 
intorno ai diritti e venivano per fare la pace con certe 
riserve ; o se confessavausi vinti , e rendevano a lui le 
proprie città. E rispondendo questi che le rendevano , e 
che desideravano la pace comunque loro si concedesse , 
egli dilettatone disse : ascoltale con quali condizioni 
sono per dare la pace , e quali benefizj vi dispenso 
con essa. Non io rn ho già nelt animo di uccidere , 
o bandire , o multare alcuno de' Tirreni. Lascio Ifs 
vostre città senza guarnigioni , senza tributi : lascio 
che vivano arbilre di sè stesse , e colla forma primi- 
Uva di governo. Ma per tante cose che io concedo a 
voi giudico che questa sola da voi mi si dia , cioè 
che io m'abbia la direzione suprema che pur ni avrei 
delle vostre città quand anche voi noi voleste , finché 
io sono il vincitore. Piacemi aver questo da voi sporta 
taneamerUe anziché di mai animo. Andate, riferitene 
alle vostre città, lo vi prometto sospendere le armi , 
finché torniate. 

LXII. Ricevute queste risposte andarono di volo gli 
ambasciadori; e dopo pochi giorni ritornarono portando 
non già parole nude, ma i fregi stessi del comando coi 

(i) Anni di Roma i 65 «ecoado Caioae, 177 secondo Varrone , 
587 avanli Cristo. 



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LIBRO III. ' 3oi 

qnali adornano i proprj monarchi , la < corona di oro , il 
trono eburneo, io scettro coll’ aquila in cima , la tunica 
di porpora con palme espressevi in oro , e la soprav- 
veste pur di porpora con varietà di ricamo , come i re 
le usavano di Lidia e di Persia , se non quanto semi- 
tonde eran queste, e non quadrangolari come in quelli 
regnanti. Non so poi donde i Romani appresero le altre 
maniere come le toghe che i Greci chiamano tibenne 
con nome che greco non sembrami. Dicesi che portassero 
a lui pur le dodici scuri , pigliandone una da ognuna 
delle città. Veramente egli sembra tirreno costume che 
dinanzi al re di ogni città ne andasse un littore’ con un 
fascio di verghe e colla scure : e che se facevasi mai 
spedizione comune • allora si rassegnassero dalle dodici 
città le dodici scure a quel solo che rivestivasi dell’ im- 
pero su tutte. Non però tutti consentono con quelli che 
cosi narrano, e dicono che prima ancor di Tarquinio 
erano le dodici scuri portate innanzi dei re. Ma niente 
impedisce che Tirrena fosse la isUiuaione , e che Ro- 
molo da essi derivandola, il primo la usasse: e che non 
pertanto si recassero a Tarquinio pur le dodici scuri 
colie altre insegne reali come i Romani ora mandano 
ai re scettri e diademi, non perchè già non gli abbiano, 
ma in segno che ad essi li confermano. 

LXIIL Non usò Tarquinio tali distintivi appena glie 
li presentarono , come narrano i più . degli scrittori ; ma 
fe’ che il Senato ed il popolo considerassero se eran da 
ammettere : e piacimi essendo , egli allora li ricevette : 
e da indi in poi se gli ebbe tutti fino alla morte ; e 
portò corona di.' ot'Q , e veste di porpora in ym-ieU di 



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3o2 delle Antichità’ bomaSe 
ricamo , e acetiro eburoeo , e i sedette in ebitmeo trono 
ngoalmentc; e dodici littori con verghe e scuri lo pre* 
cedevano se andava, o gli erano intorno • se rendeva ra- 
gione. Persistè tale onore per tutti i re che seguitaronoi 
e dopo i re pe’ consoli ancora nell’ anno loro , toltane 
però la corona di oro, e la toga di oro eziandio rieaT 
mata. De’ quali . onori furono esclusi questi due soli ^ 
perchè |>areano seguali di giogo e di esecrasione. Ma 
se acquistano in guerra una vittoria ; se il < Senato gli 
onora del trionfo ; in tal caso oro portano e toghe 
con aurei ricami. Tal 6ne ebbe' la guerra di nove anni 
accesa tra’ Tirreni e Tarquinio. ' < 

LXIV. Rimanea la sola nazione de’ Sabini la quale 
disputasse il comando a’ Romani colla potenza sua ) 
giacché bellicosi ne erano -gli uomini , ampia e buona 
la regione , nè lontana da Roma. Adunque sentendo 
Tarquinio un vivo desiderio di sottomettere questi an-< 
cura intimò ad essi la guerra ; incolpandoli , che richie- 
stene , avessero le loro città ricusato di consegnargli 
quelli che aveano promesso a’ Tirreni se ^venivano col- 
r esercito di coiigiungere ad essi le patrie loro , e di 
alienarie. da’ Romani. Presero ben volentieri la guerra i 
Sabini , fremendo che si volessero a loro togliere i prw 
m>irj di ogni città : e prima che 1’ armata de’ Romani 
venisse nelle terre loro , essi menarono la propria nelle 
campagne di quelli. Come il re Tarquinio udì che t 
Sabiui aveano passato 1’ Aniene e che devastavano per 
tutto intorno de’ loro accampamenti , prese : i giovani 
ro nani più spediti e piombò di tutta fretta su’ nemici 
sparsi a predare. Ed uccisine molli , e ritolta loro la 



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LIBRO III. 3o3 

preda che si recavano , mise il campo suo presso del 
loro. Passati cosi pochi giorni , finché gli era di città 
venuto il resto delle milizie, e le truppe ausiliarie dagli 
alleali , presentò la battaglia. 

LXV. Vedendo i Sabini i Romani venuti con ardore 
per combattere, cavarono la propria armata ancor essi, 
non inferiori nè di numero , nè di valore. Investitisi 
combatterono con tntto 1’ aadire fin eh’ ebbero a fare coi 
soli schierati di fronte : ma poi fatti accorti che mar- 
ciava loro alle spalle un altro esercito ordinato e ben 
fornito; abbandonarono le bandiere e dieronsi alla fuga. 
Era di Romani 1’ esercito che apparve alle spalle , fanti 
lutti e cavalieri scelti , disposti insidiosamente da Tar- 
quinio tra la notte in luoghi opportuni. Spaventali i 
Sabini da questi nomini inaspettati che li raggiungevano 
non fecero più ninna bella azione ; ma quasi colti dagli 
inganni de’ nemici , ornai sotto il nembo di danno irre- 
parabile , tentarono chi d’ una e chi d’ altra via salvare 
sè stessi. Allora appunto però soggiacquero a strage 
grandissima inseguiti e rinchiusi d’ ogn intorno dalla 
cavalleria de’ Romani ; tanto che pochi in lutto si ri- 
pararono nelle città vicine : gli altri , quanti non cad- 
dero combattendo , rimasero prigionieri. Imperocché que« 
gli lasciati negli alloggiamenti nè ardivano respingere 
r assalto de’ nemici , nè uscire in battaglia : ma cosier- 
pati dal male impensato renderono senza combattere sè 
stessi e quel posto. Le città de’ Sabini vinte come dai 
stratagemmi e dagl’ inganni non dalia virtù dei nemici , 
si accinsero a mandare ben tosto milizie più copiose , e 
capitano piu sperimentato, Tarqajuio vedendo il loro 



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3o4 DELLE Antichità’ romane 
dise^o , guidò soliecitameotc l’ esercito , e passò 1’ A- 
nieue prima che quelli si potessero tutti riuuire. A tal 
nuova il duce Saltino andò prestissimo quanto polea 
colla nuova armata e mise il suo presso al campo ro- 
mano su di un colle erto e dirotto : non giudicava però 
ben fatto dar battaglia se prima a lui non giungevano 
le altre milizie de’ Sabini. Solamente spedendo • delle 
bande de’ cavalieri , e postando delle coorti nelle balze 
e nelle selve contro quelli che uscivano a foraggiare , 
impedì che i Romani infestassero colle scorrerìe la 
campagna. 

LXV. Per tal sua condotta di guerra molte erano le 
scaramucce, ma di pochi fanti e cavalli , e niuna la 
battaglia universale. Adunque temporeggiandosi , e sde- 
gnandosi Tarquinio dell’ indugio , risolvè di andare col- 
r esercito alle trinciere de’ nemici , e più volte ne fece 
l’assalto: ma vedendo che non era farìle espugnarli per 
la fortezza del luogo , destinò di abbatterli colla penu- 
ria. E stabilendo delle guardie su tutte le vie che me- 
navano’ al colle , nè permettendo che i nemici andassero 
a far legna , e recassero foraggi pe’ cavalli , o prendes- 
sero altro che facea di mestieri dalla regione; li ridusse 
a gravi disagi. Tanto che furono costretti , cogliendo uoa 
notte burrascosa per vento e pioggia, lasciare vergogno* 
samenle quel luogo; abbandonandovi giumenti e tende, 
e feriti , ed ogni apparecchio militare. I Romani cono*; 
seiutane al nuovo giorno la partenza , e lattisi padroni 
del campo senza contbattete vi predarono tende, e giu- 
menti ed ogni cosa , e conducendosi i prigionieri si rav- 
viarono a Roma. Continuò questa guerra cinque anai , 



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LIBRO III. 3o5 

c gli uni (levasUnJo le campagne degli altri; .diedero 
via via delle battaglie piu o men grandi , vinte di raro 
da’ Sabini , e spessissimo da’ Romani : i ma nell’ ultimo 
cimento ebbe interamente il suo termine. Imperocché 
li Sabini non già di aumo in mano come dianzi ma 
quanti per la età ' lo poteano , erano tutti in uh tempo 
stesso marciati alla, guerra. In opposito i Romani tutti, 
raccolte le forze aosiliarìe latine , tirrene , ed in genere 
degli alleati erano venuti a fronlè del nemico. 11 duce 
Sabino dividendo le milizie ne avea fatto due campi : 
aveale il re dei Romani compartite in tre corpi in tre 
campi non molto lontani fra loro , ed egli comandava 
i Romani; dato ad Aruntc figliuolo del suo fratello il 
governo de’ Tirreni , e quel de’ Latini e degli altri ad 
un valentuomo per consiglio e per arme , ma forestiero 
e privo della patria. Servio era il nome di lui, e Tullio 
quello della sua stirpe : e fu quegli appunto cui dopo 
Tarquinio , morto senza prole virile , i Romani inalza- 
rono ai trono per amore del suo ben lare tra le arme 
e nell’ uso della repubblica. Io sporrò ma nel suo luogo 
la prosapia , la educazione , le avventure di quest’ uo- 
mo , c come gl’ Iddii per lui si manifestassero. 

LXYII. Allora dunque , poiché gli uni e gli altri vi * 
furono apparecchiati , diedero la battaglia. Avevano i 
Romani l' ala sinistra , i Tirreni la destra standosi i 
Latini schierati nel centro. Durò vivissima tutto il giorno 
la battaglia finché viuserla di gran lunga i Romani. 
Uccisero molti de’ nemici segnalatisi nell’azione; e più 
ancora ne presero prigionieri tra la fuga. Espugnatone 

INTONICI y t *»n> T, >0 



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3o6 DELLE Antichità’ bomane 
l’uao e r altro accampamento ne ammassarono ricchezze 
in copia , e signoreggiarono senza timore Hitla la cam- 
pagna: e messala a ferro e fuoco, e distruttivi gli al- 
loggiamenti sen tornarono a casa ornai tramontando la 
estate. Tarquinio a questa vittoria trionfò per la terza 
volta nel suo principato. E preparando nelf anno se- 
guente r esercito nuovamente per condurlo contro le. 
città de’ Sabini , non più concepirono questi nulla di 
magnanimò e di grande , ma deliberaronsi tutti per la 
pace prima di mettere a pericolo sè stessi dei giogo, e 
le patrie della rovina. Pertanto vennero da ogni città 
li Sabini principali a Tarquinio uscito con tutta 1' ar- 
mata , e cederongli le terre loro supplicandolo di miti 
condizioni : e colui propensissimo ricevendo , perchè senza 
pericolo , il sottomettersi di quella gente , fe’ tregua e 
pace ed amicizia co’ modi appunto co’ quali aveala in- 
nanzi fatta co’ Tirreni, e rendè loro pur senza prezzo 
li prigionieri (i). 

LXVIII. Tali sono le imprese militari di Tarquinio: 
le urbane e pacifiche son come sieguono; che già non 
voglio passarle senza ricordo. Giunto appena ai comando 
desiderando , come aveano fatto i re predecessori , di 
conciliarsi la plebe , se la conciliò con questa benefi- 
cenza. Scelti fra tutto il popolo cento nomini a’ quali 
il pubblico grido accordava virtù guerriere , o civil sa- 
pienza , li nominò patrizj aggregandoli a’ senatori : i 
quali essendo fin’ allora dugento ampliaronsi al numero 
di trecento fra’ Romani. Poi , quattro essendo le vergini 

(i) Ad. di Boom 171 secoudo Catone, 173 secondo Varronc, e. 
58 i avanti Cristo. 



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LIBRO III. 3o7 

custodi del fuoco inestinguibile egli ve ne sopraggiunse 
altre due: imperocché cresciuti i pubblici sagrifizj ai 
quali doveano intervenire le vergini Vestali ; non parve 
che quattro più ne bastassero. Seguirono la istituzion di 
Tarquinio ancor gli altri principi , e sei pur ne’ miei 
tempi si additano le vergini ministre di Vesta. Ed egli 
sembra il primo, che guidato dalla ragione, o forse; 
dalle insinuazioni de’ sogni come pensano alcuni , ideò 
li castighi co’ quali i sacerdoti puniscono quelle che la 
verginità non conservano : e gl’interpreti delle sante coso 
dicono che que’ castighi si rinvennero dopo la morte di 
lui ne’ libri delle Sibille. Certo ne’ giorni suoi fu ravvi- 
sato che Pinaria Vergine , la figliuola di Pubblio , an- 
(lavasi con membra non pure ai sacri ministeri. Ho poi 
già dichiaralo nel libro innanzi qual sia di tali castighi 
la forma. Egli abbellì circondando di officine di arte- 
fici , c di altri apparecchi il Foro ove si arringa e si 
giudica , e compionsi altre pubbliche cose : egli il primo 
deliberò di costruire con gran pietre lavorate a misura 
i muri della città, già vili e grossolani: ed egli prese 
a cavar la cloaca o canali sotterranei pe’ quali tutto , 
quanto scola dalle strade , vasseiie a scaricare nel Te- 
vere : meraviglioso è questo edifizio , e maggior di ogni 
dire. Io tengo in Roma per tre magnificentissime cose, 
c donde la potenza rilevisi dell’ impero ; gli acquedotti, 
i lastricati delle strade , e le cloache ; non già che io 
ne rifletta la utilità della quale dirò ne’suoi luoghi, ma 
si bene 1’ amplissima spesa. E ben può questa argomen- 
tarla taluno da un fatto solo del quale io nc fo mal- 
levadore Cajo Aquilio. Scrive costui che non più scor- 



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3o8 DKIXE anticfiita’ romane 

rendo , perchè negligentale , le cloache , i censori le 

diedero a spurgare e racconciarle per mille talenti. 

LXIX. F e pur Tarquiuio il circo massimo tra ’l colle 
Aventino e tra’l Palatino costruendovi il primo intorno 
intorno sedili coperti. Certamente il popolo per addietro 
starasi in piede agli spettacoli in cima a’ palchi , fon- 
dati su cavalletti di legno. Compartì similmente il luogo 
in trenta spazj assegnandone uno per ogni curia , per^ 
chè ciascuna sedesse e mirasse dal posto che le si do- 
veva. Anche questo edifìzio sarebbe col volger degli 
anni numerato tra le meraviglie bellissime della città. 
Perocché stcndesi il circo per lungo tre stadj e mezzo , 
spandendosi quattro jugeri per largo. Cinge i due lati 
maggiori ed uno de’ minori una fossa profonda e larga 
dieci piedi per raccogliere le acque , e dopo la fossa i 
portici sorgono con tre piani. I portici terreni han di 
pietra e poco elevati i sedili come ne’ teatri ; ma di le- 
gno sono ne’ portici più alti. Concorrono i due lati 
maggiori ad un tutto e congiungonsi fra di loro per 
via del minore che formato in guisa di luna li termina: 
cosicché risulta da tre ordini un sol porticato amGtea- 
trale di otto stadj capace di cento cinquantamila persone. 
L’altro de’ lati minori che restasi aperto contiene !e 
mosse donde i cavalli si rilasciano, spalancandosi tutte 
in un tempo , ad un suono. • F uori dell’ amfìteatro evvi 
pure altro portico ma di un piano solo, il quale in sè 
contiene le òfTGcine c sopra le officine le abitazioni. In 
ognuna delle officine sonovi 'ingressi e scale per chi 
viene agli spettacoli ; e con ciò' nOri siegue confusione 
tra tante migliaja che vanno e tornano. 



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LIBRO IH. V . 3o9 

LXX. Si accluse il re similineatc a iàbbricare il 
tempio di Giove , di Glaaoue, di Minerva per adem> 
plere il voto da lui fatto a quegl’ Iddìi nell’ ultima guerra 
co’ Sabini. Ma siccome il colle destinato per la santa 
magione abbisognava di radili travagli , perché non era 
questo agevole da salirlo nè eguale , ma scosceso e tutto 
' acuto in su la cima; eg^i ponendo intorno intorno altri 
ripari, e tra’ ripari e la cima assai terra lo rendè piana 
ed acconcio! pel tempio. Non però s’ebbe il tempo di 
metterne le fondamenta, Tnon essendo egli vissuto che 
quattro anni dopo il fin della guerra. Molti anui ap> 
presso , Tarquinio terzo re dopo lui, quegli che fu espulso 
dal trono , ne gitlò le fondamenta , facendo gran parte 
del sacro edilìzio : ma noi compiè nemmen' egli, e solo 
ebbe il tempio il suo termine sotto gli annui magisirati 
da’ consoli dell’ anno terzo. Ben’ è convenevole che le 
cose ricordinsi accadute prima della erezione di questo, 
come pur le ricordano quanti scrìssero la storia di quei 
luoghi. Deliberatosi Tarquinio a far qnel tempio impose 
primieramente agli auguri, convocandoli, che spiassero 
co’ divini riti quale in città ne fosse il loco più accon* 
do e più caro a que’Numi. E riferendo esser questo il 
colle che sovrasta al Foro, colle detto Tarpeo di quei 
giorni , ed ora del Campidoglio , comandò che replicati 
i riti santi additassero in qual parte principalmente del 
Campidoglio aveansene a porre le fondamenta. Non era 
ciò cosi fàcile a definirsi ; perchè sorgendo io sul colie 
a riverenza de’ genj , e de’ Numi altari in gran nume* 
ro ; doveasi trasportare questi , e lasciar libera l’ area 
pel tempio novello degl’ altri Iddìi. Parve agli auguri di 



DIOUIGI, tomo I. 



•so 



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3 IO 15ELLE antichità’ ROMANE 
fare le divinazioni loro so di ogni altare , e poi moverlo 
se il proprio Nome Io concedeva. Consentirono alquanti 
genj e Numi che i loro altari fossero altrove portati : 
ma il Dio Termine è la dea Gioventù per quanto gli 
auguri pregassero e ripregassero non gli udirono ; nè 
condiscesoro a cedere il luogo. Adunque furono gli 
altari loro inchiusi nel tempio che destinavasi: ed ora 
r uno resta nel vestibolo, e l’altro nel sacro ricinto 
stesso di Minerva presso al simulacro di lei. Presagi- 
rono da ciò gl’ indovini che ninna età mai nè li ter- 
mini moverebbe né il florido stato di Roma : ciocché 
si é già verificato fino a’ di miei per ventiquattro ge- 
nerazioni. 

LXXI. Nevio chiamavasi per nome proprio, ed Azio 
col nome della prosapia il più insigne degli auguri , 
che trasferì quegli altari, definì il tempio di Giove, ed 
altre celesti cose ridisse per la sua divinazione al po- 
polo. Si consente che carissimo egli fosse agl’ Iddii fi:a 
tutti del santo suo ministero , e che conseguito avesse 
riputazione grandissima per le prove da lui date incre- 
dibili e trascendenti nell’arte sua divinatoria. Io ne ri- 
corderò solamente una la quale mi fu meravigliosissima 
infra tutte , dicendo innanzi per quale incontro di casi, 
e per quali divine occasioni venne in tanta chiarezza 
che fe’ tutti li coetanei comparir dispregevoli. Povero fu 
il padre di lui , cultore d’ ignobile campicello. Nevio il 
suo figliuoletto porgeagli l’opera sua , quanta per la .età 
ne poteva, e guidava de’ porci, e pascevali. Caduto una 
volta nel sonno, nè più rinvenendo al riscuotersi alcuni 
di quegli animali , ne pianse per timore de’ paterni ca- 



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LIBRO III. 3ll 

stighl. Ma poJ venendo al tempietto sacro agli eroi nel 
suo campicello, pregò che a lui concedessero di trovare 
le perdute cose ; egli prometteva loro se ciò concedes- 
sero il grappolo più grande del suo poderetto. Trovò 
indi a poco gli animali, e volea recare i promessi doni 
agli eroi: ma 'grande era 1’ ambiguità sua nel decidere 
il maggiore ira’ grappoli. Adunque conturbatone suppli- 
cava gl’ Iddii che volessero col mezzo palesargli degli 
uccelli ciò che cercava. Or qui per divino favore gli 
venne in mente di dividere la vigna in parte destra e 
sinistra , e notare gli auspicj che in ognuna occoire»- 
sero. Apparsi in una delle parti gli uccelli com’esso ve 
li bramava , suddivise pur questa in due considerando 
gli uccelli che vi capitassero. Determinandosi con tale 
distinzione di luoghi, e venendo da ultimo alla vite in- 
dicala dagli uccelli: ebbe un tal grappo incredibile nella 
sua forma. Egli recavalo appiè delle immagini sante degli 
eroi , quando il padre lo vide. E meravigliato questi di 
una tal mole del frutto , e domandando d’ onde se lo 
avesse : il figlio narrò dalle origini tutto il successo. 
Concependo colui , ciocch’ era , che fossero questi na- 
turali preludi della divinazione nel figlio , lo condusse 
in città, e lo sottomise a’ maestri delie lettere. E poiché 
fu nelle comuni discipline istrutto quanto bastava , af- 
fidollo all’ augure più dotto fra’ Tirreni perchè Io eru- 
disse nel suo sapere. Nevio che avea naturali lumi per 
la divinazione , aggiungendovi pur gli altri de’ Tirreni ; 
superò di gran lunga quanti erano intesi agli anspicj. 
Quindi nelle consultazioni sul pubblico tutti gli auguri 
della città v’ invitavano lui quantunque non fosse del 



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3i2 delle Antichità’ romane 

ceto loro , per la reltitudiae sua nel pronosticare , ti« 

cosa mai vaticinavano , se non ' approvata da lui. 

LXXIL Ora volendo Tarquinio creare tre nove cen- 
turie (i) di cavalieri da lui scelti , ed intitolarle dal 
nome suo e degli amici , questo Nevio il solo magna- 
nimamente gli resisti , non permettendo che alcuna si 
alterasse delle istituzioni di Romolo. Disgustato per la 
proibizione il sovrano , e sdegnato con Nevio diedesi a 
vilipenderne 1’ arte come di nn vano nè veridico parla- 
tore. Con tale intendimento chiamò Nevio nel suo tri- 
bunale essendovi moltissimi presenti del Foro.. Egli avea 
già divisato con qnei che lo circondavano i modi onde 
convincere l’aagure di menzogna: e lacendosegli questo 
dinanzi lo accolse con degnevoli salutazioni : ed ora , 
disse , o Nevio è il tempo di mostrare il potere del- 
f arie tua divinatoria. Siccome io macchino di pormi 
ad una gran cosa ; vorrei per f arte tua risapere se 
possa riuscirmi. Or va : consultane co' riti tuoi , o 
toma il più presto per dirmene : io qui su questa 
sede ti aspetto. Esegui l’ augure i comandi , e dopo 
non molto tornò dicendo che propizj erano gli auspicj, 
e fattibile £ intento di lui. Diè Tarquinio in un riso 
a tali voci, e cavando dal seno una cote ed un rasojo 
gli disse: ora ben apparisce o Nevio che tu mi deludi, 
deluso che se’ manifestamente dagl Iddii , dacché ar- 
disci anrutnziarmi possibili , le impossibili cose : per- 

(i) Nel testo ^vXmt tribù : ma i chiaro che parlandosi di cava- 
lieri non debba pensarsi a tribù : Forse vi ò qualche sbaglio. Gli 
altri storici in questo luogo chiamano centurie quelle che Dionigi 
chiama tribù. 



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LlBnO III. 






ii3 



ciocché io meditava se potessi col rasojo fendere que- 
sta cote per mezzo : ridevano tutti d’ intorno , e Nevio 
niente commosso dalla beffa e dallo strepito : ferisci , 
disse, o Tarquinio animosamente come ideavi la cote: 
perciocché ne sarà divisa , e se no ; mi ti offero ad 
ogni pena. Sorpreso il re della confidenza dell’augure 
mena il rasojo su la cote , e l’ acume del ferro ne pe- 
netra r interno e dividela, incidendo anche in parte la 
mano che la teneva. Esclamarono per la novità quanti 
contemplavano la incredil.'ile e meravigliosissima cosa. 
Tarquinio vergognatosi del cimento dato a quell’ arte , 
c voglioso di emendare la indecenza de’ vilipendj ^ pri- 
mieramente cessò da que’ suoi tentativi su 1’ ampliar le 
centurie ; poi risoluto di onorare Nevio come il più 
caro di tutti i mortali ai celesti, obbligosselo con pegni 
vari e copiosi di benevolenza ; e perchè la memoria se 
ne perpetuasse tra’ posteri collocò la statua di lui , fab- 
bricala in rame , nel Foro : e questa , più picciola di 
nn uomo mezzano , e velata il capo , esisteva pur nel 
mio tempo dinanzi la curia , da presso del fico sacro. 
Dicesi che poco lungi del fico sia la cote sepolta ed il 
rasojo sotto di un’ ara sotterranea ; e quel luogo chia- 
masi il pozzo da’ Romani. Tali sono i ricordi che si 
hanno su questo indovino. 

LXXIII. Tarquinio ornai chetavasi dalla guerra, vec- 
chio già di ottanta anni ; quando mori tra gl’ inganni 
de’ figli di Anco Marzio. Aveano questi macchinato fin 
da principio di balzarlo dal trono , e più volte vi si 
erano adoperali su la speranza che, balzatone lui , di- 
verrebbe di loro come trono un tempo del padre , e 



I 



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3i4 DELLE Antichità’ eomane 
die (li leggieri ad essi darebbonlo i cittadini. Delusi via 
via dalla speranza gli ordirono alfine insidie insuperabili 
che gii Dei non permisero che restassero impninite. Io 
narrerò la forma delle insidie. Quel Nevio del quale io 
dissi che erasi opposto al re che volea di meno far più 
le centurie , questi (piando più per le arti sue Boriva , 
quando potea sopra tutti i Romani come augure nobi- 
lissimo , allora sia per invidia degli emuli , sia per in- 
sidie de’ nemici , sia per altra sciagura , spari di subito 
da’ mortali ; nè alcuno potè de’ congiunti indovinare il 
destino di lui , nè più trovarne il cadavere. Addolora- 
tone il popolo , e mal sopportando il suo danno , e 
molto sospettando di molti; i figli di Marzio ne ristrin- 
sero su Tarquinio l’ accasa. E non potendo allegare ar- 
gomenti e non segni della calunnia ; insisterono su 
queste due ombre di ragione. Era la prima , che volea 
Tarcpiinio far molti e gravi attentati contro le pubbliche 
norme ; e che però si era tolto d’ intorno chi sarebbe 
•per contrapporsegli come per l’addietro : la seconda era 
poi, perchè succeduto tanto infortunio non aveane fatta 
niuna ricerca , ma trasandavalo in tutto : nè avrebbe 
mai cosi praticato chi non era tra’ complici. E fattosi 
col dispensare de’ loro beni , gran seguito di patrizj e 
di plebei diedero gravissima accusa a Tarquinio , e sti- 
molarono il popolo a non trascurare un tanto scellerato 
che stendea le mani su le sante cose , e la regia auto- 
rità contaminava ; molto più che egli non era un ro- 
mano , ma un estero , anzi uno senza patria. Tali cose 
dicendo nel Foro uomini ; autorevoli nè infacondi ; con- 
citarono molti plebei perchè lo rispingessero se venivaci. 



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LIBRO III. 3l5 

come impuro da quel luogo. Ora cosi fecero , perchè 
nè poleano combattere la verità nè persuadere al popolo 
che dal trono il cacciassero. Se non che dissipando lui 
con difesa validissima le incolpaeioni , e Tullio il genero 
suo , potentissimo tra la moltitudine , risvegliando verso 
lui la tenerezza de* Romani ; furono quelli avuti per 
calunniatori e scellerati, e carichi di vergogna partirono 
dal Foro. 

LXXIV. Sconciati in tal tentativo , ma tuttavia per> 
donati per opera degli amici , perchè Tarquinio conte- 
nevasi a fronte di tanta perfidia in vista de’benefizj pa< 
temi , e perchè stimava bastare la loro penitenza all’ e< 
menda, rimasero per tre anni in finta amicizia. Ma non 
si tosto cadde loro in acconcio gli tramarono quest’ in- 
ganno. Vestiti di abito pastorale due giovani i più arditi 
tra* congiurati , e fornitili di scuri onde far legna , gli 
inviarono di mezzodì nella reggia, istruendoli di ciò che 
avessero a dire, e come assalir lo dovessero. Avvicinatisi 
questi alla reggia , e dicendosi delle contumelie , come 
per ingiustizia fattasi , nè contenendo l’ uno le mani 
dall’altro gettarono alte le grida, invocando il soccorso 
del re, mentre stavansi intorno non pochi de’ congiurati 
in forma di contadini , i quali coll’ uno o coll’ altro 
adiravansi e davansi per testimonj. Fattili a sè venire il 
monarca ordinò che dicessero ond’ erano i dispareri ; e 
quei finsero aver briga intorno le capre : e vociferando 
c scaldandosi a maniera de’ contadini nè dicendo cosa 
ninna a proposito ; movean anzi le risa di tutti. Or 
quando in tanto dispregio parve loro tempo opportuno 
d’ imprendere , diedero colle scuri sul regio capo , e 



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3i6 DELLE Antichità’ romane 
fuggirono fuori delle porfe. Ma sollevato un clamore 
allo strazio , e venuta gente in soccorso , non poterono 
più fuggire, ma furono inseguiti c presi. Poi tormentati 
c violentati a dir de’ capi della conginra , incorserò fì- 
nalmente la pena meritata. Cosi dopo un regno di tren* 
tolto anni fini Tarquinio , autore di non pochi uè pic- 
cioli beni pe’ Romani. 

Pluteo. 


•BIBLIOTECA- 
LVCCHESl -PALLI- 


BIBLIOTECA LUCCHESI • PALLI 


III.* SALA 




N.® CATENA-..: 


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I 


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COLLANA 

DEGLI 

ANTICHI STORICI GRECI 

VOLGAIUZZATI. 


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^J.ILa Porca, ed v Jo Porcelli. &emnui tra/ta dalla Irallernt 
di Firenze. 

9. La Lupa Jet Cam^ 


idopfito 


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T. E 

ANTICHITÀ ROMANE 

DI 

DIONIGI 

D’ALICARNASSO 

VOLGARIZZATE 

DALL’ AB. MARCO MASTROFINI 


già’ professore di matematica e di filosofia 
NEL seminario DI FRASCATI 


SOÌZiOM£ MOrJUKttTK RtSCOÌiTKJT.4 COL TESTO 


VAL TnAOOtTOnK 


TOMO SECONDO 


MILANO 



DALLA TIPOGRAFIA DE FRATELLI SONZOO'O 


1823. 



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DELLE 


ANTICHITÀ ROMANE 

D I 

DIONIGI ALICARNASSEO 


LIBRO QUARTO. 


I. Oosi dopo un regao di trentotto anni fini Tar- 
quiuio , autore di non pochi nè piccioli beni pe’ Roma* 
ni (i). Egli lasciò due figlie già maritate , e due teneri 
nipoti : e succedette al soglio Tullio il genero di lui 
nell’ anno quarto della Olimpiade cinquantesima , quando 
Epiielide di Lacedemonia vinse nello stadio , essendo 
Archestratide arconte di Atene. Pertanto ora è tempo 
di esporre su Tullio le cose primitive che ne abbiam 
tralascialo , vale a dire di quali parenti nascesse, e con 

(i) Nel testo si iroTt questo primo punto anche per ultimo del 
libro terzo. Ma i legami che qui gli si danno manifestano che esso 
appartiene eselusiramente al principio del qnaito libro. 


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6 DELLE Antichità’ romane 

quali opere si palesasse , privato ancora , innanzi eli gia< 
gnere al comando. Quanto alle cose che diconsi della 
sua stirpe ecco quello che più mi persuade. Un tale , 
di regia prosapia (Tullio ne era il nome) si congiunse 
in Cornicolo città de’ Latini con Ocrisia , una donzella, 
bellissima infra tutte e castissima. Ma quando Cornicolo 
soggiacque ai Romani , Tullio vi moriva combattendo : 
ed Ocrisia , allora gravida , prendeala per sè Tarquinio 
come scelta preda , e davala in dono alla sua moglie. 
La quale , risaputa ogni cosa di lei , la rendè tra non 
molto libera , amandola poscia cd onorandola sempre , 
piu che tutte. Di questa Ocrisia , serva ancora , nacque 
un fanciullo : ed essa , madre fatta , educosselo e lo 
chiamò Tullio dal nome proprio della stirpe e del pa- 
dre: e Servio in memoria de’ servili giorni suoi ne’quali 
lo partorì ; perocché Servio , se spieghisi con greca pa- 
rola , vai quanto servo. 

ir. Nei scritti nazionali porgesi della origine del va- 
imi’ uomo un tal altro racconto che sente di favola : e 
questo racconto che troviamo in molte storie Romane , 
questo se piace ai genj ed agl’Iddj che ridicasi è tale : 
Adunque dicesi che dall’ altare dei re dove i Romani 
compiono varj sacrihzj e dove santificano le primizie 
delle cene si elevasse un membro virile ; che Ocrisia la 
prima avvedutasene portasse le sacre libagioni in sui 
fuoco , e ne andasse nunzia del fatto ai sovrani : che 
Tarquinio udendo e vedendo poscia il prodigio ne me- 
ravigliasse : ma che Tanaquilla , donna altronde savia , 
nè perita meno d’ ogni Tirreno nel vaticinare, presa- 
gisse , portare il destino che di là , dal regio aliare , 


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LIBRO IV. 7 

per la donna che crasi partecipata a quella appa- 
rìgione , sorgerebbe una prole più grande che la- 
umana. Ora cosi dicendo essa e gli altri conoscitori 
de’ portenti ; parve al re di usare con Ocrisia , stata la 
prima a vedere. Dopo questo , dicesi che adornata la 
donna , come le maritate si adornano , fosse rinchiusa 
nella casa ove fu la visione : che là congiungendosele , 
e dopo la congiunzione sparendole , un qualche nume 
o genio , Vulcano forse , o il genio del luogo , ne in> 
gravidasse , e ne partorisse poi Tullio. Certamente non 
par la novella affatto credibile : pur la rende inverisi- 
mile meno un tal altro segno divino inopinato e mera- 
viglioso intorno di quest’ uomo. Imperocché sedendosi un' 
tempo egli di mezzodì nella regia camera , e presovi dal 
sonno ; una fiamma gli usci balenando dal capo. Videro 
questa la madre di esso e la regia consorte , che per 
la camera passeggiavano , e quanti erano presenti alle 
donne : e luminosa gli si tenne intorno intorno del capo 
finché accorsa la madre riscosselo. Allora insieme c<d 
sonno spari dissipatasi quella fiamma. E tali sono i rac* 
conti su la stirpe di quest’ uomo. 

III. Sono poi come sieguono le memorabili cose di 
esso avanti che regnasse, per le quali Tarquinio lo 
ammirava , e Roma lo onorava come primo dopo il 
suo re. Giovinetto , nella prima spedizione fatta da Tar- 
quinio contro de’ Tirreni egli militava tra’ cavalieri , e 
cosi ben parve che militasse j che chiarissimo divenuto- 
ne , ottenne il premio innanzi di tutti. Occorsa poscia 
un’ altra spedizione contro de’ medesimi , ed una batta- 
glia vivissima presso di Ereto ; egli dimostralovisi infra 


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8 DELLE Antichità’ romane 

tutti valorosissimo , ne fu di bel nuovo dal re suo co- 
ronato per le belle sue gesta. Giunto al ventesimo anno 
fu duce nominato delle milizie spedite dai Latini , e 
conquistò con Tarquinio la signoria su’ Tirreni. Creato 
poi nella prima guerra Sabina duce de’ cavalieri , fugò 
la cavalleria nemica e la incalzò fin sotto la città di 
Antemna , riportando il primo premio anche di questa 
battaglia. Ebbe molti altri combattimenti col popolo 
stesso , ora guidando genti appiedi ora a cavallo , e se- 
gnalatosi in tutti per gran cuore, ne fu coronato prima 
d’ ogni altro. E poiché li Sabini vennero per sottomet- 
tere e sottomisero veramente le città loro ai Romani ; 
egli parve a Tarquinio la cagion principale eziandio di 
un tanto acquisto , e ne fu contraccambiato con serti 
trionfali. Acutissimo in su i pubblici affari, nè secondo 
^ ninno in far valere parlando quanto consigliava, con- 
temperavasi pienissimamente alla sorte ed alla persona 
di ognuno. Dond’ è cbe i Romani vollero co’ loro suf- 
fragi che fosse di plebeo fatto patrizio , come già Tar- 
quinio , e come prima Numa Pompilio. Adunque il re 
sei prese per genero , sposandogli 1’ una delle sue figlie. 
E quanto non potea pe’ morbi o per la vecchiaia com- 
piere più da sé stesso ; tutto a lui rimandavalo , incari- 
candolo non pure delle domestiche ma delle pubbliche 
cose. Egli in ciò fu da tutti riputato uom giusto e fe- 
dele ; anzi con tanto bel fare aveasi obbligato la molti- 
tudine ; che pensavano non averci divario sia che Tar- 
quinio sia che Tullio amministrasse il comune. 

. IV. Dotato quest’ uomo dalla natura d’ indole bo- 
nissima pel principato , e direttovi dalia sorte con molte 


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LIBRO IV. 9 

« grandi occasioni , credette di esservi dalla congiuntura 
stessa invitato quando Tarquinio soccombè tra le insi- 
die de’ 6gli di Anco Marzio , intenti , come ho detto 
nel libro antecedente , a ricuperare il trono del padre : 
e, spertissimo che egli era, non lasciò fuggirsene la 
occasione di mano. Disponevagli il trono la moglie 
stessa dell’ estinto monarca , quella che era la origine 
di ogni suo bene ; imperocché favoriva il suo genero , 
e conoscea pe’ molti oracoli che doveva esso per volere 
dei fati dominare ai Romani. Erale non a guari morto 
il giovane 6glio , e di lui rimaneano due teneri fan- 
ciulli. Considerando un tal vuoto della sua casa , e te- 
mendo che i Ggli di Marzio invadessero il trono , ed 
uccidessero , e struggessero tutta la sua prosapia ; pri- 
mieramente chiuse le porte della reggia , e le mimi di 
guardie, con ordine che ninno entrasse o ne uscisse. 
Poi comandando che si ritirassero tutti dalla camera 
nella quale aveano posto Tarquinio semivivo , e con sè 
tenendo Ocrisia e Tullio , e la figlia sua , moglie di 
Tullio , e facendo ivi recare dalle nudrici gli orfani 
pargoletti; disse: O Tullio, il re Tarquinio dal quale 
tu auesli nudrimento e discipliìta , quegli che te pre- 
giava più che tutti gli amici e parenti ; eccolo sotto 
ingiusti colpi termirm il suo destino. Egli non che ab‘ 
bia provveduto su le dimestiche o su le comuni civili 
cose , non potè nemnteno abbracciare un di noi , nem- 
^ meno lasciarci Hultimo addio. Così questi orfani, questi 
sciaurati fanciulli che a lui soprawanzano , già cor- 
rono non picciolo rischio della vita : perocché se il 
comando devolvesi ai Marzj , a quelli che t avolo ne 


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IO DELLE Antichità’ romane 
hanno trucidato , saranno da essi miserandamente per- 
duti. E voi , <i quali Tarquinia , dispregiali essi , ma- 
ritava le sue figlie; nemmeno voi salvi sarete nelle- 
persone , se gli uccisori di Tarquinia invadano il re- 
gno : nè salvi saranno tutti gli amici , e parenti di 
lui; nè salve noi , donne infelici: ma tutti tenteranno 
distruggerci, tutti, con occulte trame, e palesi. Noi 
dunque considerando ciò , si conviene che non la- 
sciamo che quegli uccisori malvagi, que’ nemici nostri 
comuni , y impadroniscano di un tanto impero : ma 
dobbiamo contrapporci ed impedirli , ora , così por- 
tando la circostanza , colla scaltrezza e con gli arti- 
fizj : e quando le prime cose riuscite ci siano a se- 
conda ; allora direttamente colla forza e colle armi 
seppure ve ne bisognino ; ma certo non vi bisogne- 
ranno 'se vorrem fare le còse che ora si debbono. Ma 
quali 'saranno mai queste ? Primieramente nascondiamo 
la morte del re ; procuriamo che fra tutti divulghisi 
di egli non ebbe colpì mortali. Dicano i medici che 
in pochi dì lo renderanno sano. Dopo recandomi al 
pubblico io dirò al popolo , che Tarquinio to’ impone 
di palesargli che egli , finché risanisi dalle ferite , 
destina rettore e custode delle private sue e pubbli- 
che cose , r uno de* generi suoi , e che tu quello o 
Tullio ti sei. Già non udiranno i Romani a mal 
cuore il tuo nome , desiderosi che sia la città da te 
governala che già tante volte la governasti. Quando 
avremo dissipato il pericolo presente ( e certo si dis- 
siperà ; perocché non si terranno saldi i nemici in 
udire che il re vive ) ; allora tu presi i fasci e il co- 


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LIBRO IV. II 

mando delle armi , accusa al popolo quanti tramarono 
uccidere Tarquinio\ e dato principio da figli di Mar» 
sio ; citagli tutti in giudizio. Gli punirai tutti colla 
morte se vi si presentano ; e se sdegnino presentarsi^ 
ciocché io credo che piuttosto faranno , gli punirai 
colf esilio perpetuo , e colla confisca de’ beni. Cos'k 
trovandoti tu nel comando ti cattiverai Colle affabili 
maniere il popolo , curerai sollecitamente che non fac» > 
ciansi nemmeno le picciolo ingiustizie , e solleverai li 
poveri co’ benefizj , e co’ doni ; e quando ne parrà 
tempo , (diora diremo che Tarquìnio è morto ; allora 
gli daremo pubblica sepoltura. O Tullio ! tu nudrilo , 
tu educalo , tu renduto partecipe da noi di tanti beni 
quanti ne derivano i figli da padri e deUle madri, tu 
congiunto alla nostra figliuola , tu se mai divieni , o 
Tullio, re de’ Romani , è giusto che almeno in riguardo 
mio la quale tanto in ciò ti coadjuvai , presenti la 
benevolenza di un padre verso questi teneri fanciuU 
letti : e che quando siano già grandi , quando già 
bastanti a regnare , tu renda (diora al primogenito la 
corona di Roma. 

V. Così dicendo diede' 1’ uno e 1’ altro fanciullo in 
braccio alia 6glia ed a! genero : e risvegliò tenera com- 
passione verso di ambedue ; poi quando ne fu tempo , 
uscita di camera impose ai domestici che assistessero , 
come richiedeasi , per la cura , e convocassero i me- 
dici. Lasciala passare la notte , siccome nel giorno ap- 
presso accorse gran turba alia reggia ; ella si fe’ vedere 
alle finestre che rispondono alla via dinanzi dell* atrio : 
e su le prime scoperse quelli che aveano congiurata la 


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12 DELLE ANTICHITÀ* ROMANE 

morte del sovrano , e quindi presentò tra le catene i 
sicai'j mandati per compierla : e quando vide il popolo 
in pianto per la sciagura , quando videlo fremere contro 
de’ malvagi ; alfine gli disse , che pur non era la perfida 
trama riuscita , e che potuto non avevano trucidare Tar* 
quinio. Confortavansi tutti all’ annunzio ; quando ella 
mostra in Tullio il personaggio eletto dal re, finché 
guariscasi , per curare le private sue cose , e le pubbli- 
che. Adunque andossene il popolo , lieto come se il re 
non avesse niente patito di terribile, e gran tempo si 
rimase con questo concetto. Tullio cinto da’ regj littori 
marciò con valida schiera al Foro, e fece pe’ banditori 
intimare che venissero i Marzj al giudizio. E siccome 
questi non ascoltarono ; ne proclamò 1’ esilio perpetuo , 
ne confiscò li beni ; e cosi tenne sicuro lo scettro di 
Tarquinio. 

VI. Ma sospendendo alquanto la narrazione , vo’ dir 
le cause per le quali io nè con Fabio consento nè con 
quanti scrivono che i fanciulletti lasciati da Tarquinio 
eran suoi figli ; perchè se altri si avviene in quei scritti 
non creda che io improvvisi quando non figli li chiamo, 
ma nipoti. Essi divulgarono ciò su que’ garzoncelli , ma 
per' negligenza ; niente considerando gli assurdi eie im< 
possibilità che lo escludono; com’ io mi accingo a di- 
chiarar brevemente. Emigrò Tarquinio dall’ Etraria, re- 
cando con sè quanto avea j ne’ giorni più belli del saper 
suo ; perocché cel dipingono già voglioso in que’ giorni 
di farla da uom pubblico sia nelle magistrature sia nel 
trattare altre cose del comune , e partito appunto di là 
perchè a parte noi chiamavano degli onori. Alcuno 


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LIBRO IV. l3 

dunque supporrebbe che egli quando lasciava la Eiru- 
ria , avesse almeno treni’ anni , che gli anni sono per 
lo più ricercati dalle leggi per giungere a' magistrati , e 
maneggiare il comune. Nondimeno io vnglio supporlo 
più giovane ancora di cinque anni , e stabilisco che 
partisse di anni venticinque ; e che menasse con sé la 
moglie Toscana , cui prese vivendo il suo padre , come 
tutti gli Storici consentono delie cose Romane. Egli 
venne in Roma regnando Anco Màrzio nel primo anno, 
come Gelilo scrive, di quel regno , ma secondo Licinio 
nell’ ottavo. Sia pur dunque venuto come scrive Licinio, 
e non prima : già non dovette venire più tardi , se , 
come scrivono ambedue , nell’anno nono di Anco Mar- 
zio egli fu spedito dal re capitano de’ cavalieri nella 
guerra contro de’Latini. Pertanto se egli venne in Roma 
non più adulto di anni venticinque ; se divenne l’amico 
di Anco Marzio nell’anno ottavo del regno di lui ; se 
rimase con questo diciassette anni ( giacché Anco ne 
regnò ventiquattro) ; se Tarquinio poi ne regnò trentotto, 
come tutti consentono ; dunque egli era ottuagenario 
quando morì ; non risultando altra età dal calcolo degli 
anni. E se la moglie come par verislmile , era per cin- 
que anni meno attempata di lui , dunque avea settanta- 
cinque anni quando le moriva Tarquinio. Ora sia che 
ella partorisce quinquagenana 1’ ultimo figlio ; giacché 
donna non partorisce più oltre di tale età , ma questa 
le é termine di prolificare, come scrivono trattatovi dili- 
genti di tale argomento. Questo figlio dunque era almeu 
grande di venticinque anni nell’ ora della morte pater- 
na , è Lucio il primogenito eralo di ventisette. Tarqui- 


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i4 DELLE Antichità’ romane 

sto dunque non lasciò più piccioli di questa età li figli 
avuti colla sua donna. E se aveano questi età virile; nè 
sarebbe il padre rimasto vittima ; nè la madre sarebbe 
stata si misera , e tanto in ira agl’ Iddj da togliere ai 
proprj figli lo scettro ereditario del padre per felicitarne 
un estraneo nato da una serva ; nè avrebbero infine tol- 
lerato con indifferenza la ingiuria essi che gli anni avea- 
no i più idonei per dire e per fare. Non era già Tullio 
nè per nobiltà più chiaro , nè troppo per la età più ri- 
verito , ma solo più grande di tre anni su 1’ uno di loro: 
talché mai dunque non avrebbero di buon grado a lui 
ceduto il comando. 

- VII. La cosa inchiude altre sconvenienze non avver- 
tite dai Romani Scrittori , salvo che da uno , che poco 
appresso nominerò. Si consente da tutti che Tullio pi- 
gliando dopo Tarquinio lo scettro sei tenne quaranta- 
quattro anni. Pertanto se il primogenito de Tarquinj al- 
lora quando ne fu spogliato avea già ventisette anni ; 
dunque egli era più che settuagenario, nel tempo nel 
quale uccise Tullio ; eppure gl istorici lo dipingono a 
tal epoca nel fiore degli anni, giacché narrano che diede 
di piglio a Tullio nella curia , e che portatolo fuora , 
dall’ alto lo precipitò. Di più dicono che questo Tarqui- 
nio cadde dal trono nell’ anno vigesimoquinlo dopo un 
tal fatto; e che in quell’ anno guerreggiava gli Ardea- 
tini , compiendo tutto di per sé stesso. Or non è verisi- 
mile che un uomo , provetto di novanusei anni trava- 
gliasse fra le armi. Aggiungono che caduto dal trono 
fece guerra non minore di quattordici anni ai Romani , 
amministrandola egli stesso. Or ciò disconviene dal senso 


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LIBRO lY. 1 5 

comune : anzi una vha a hii si darebbe diuluraa d’oltre 
centodieci ' anni ; quando i nostri climi tanta longevità 
non comportano. Vedendo questi assurdi , tentarono al> 
cuni Storici Romani levarli con altri assurdi, e dissero 
che non era già madre de’ fanciulli Tanaquilla ma Ge- 
gania , una donna , di cui nulla additarono le istorie. 

Ma in tal caso riesce improprio il matrimonio di Tar> 
quinio nella età quasi di ottanta anni, e certo inverisi- 
mile riesce in quella età la generazione di figli. Nè già 
egli era mancante di prole ; tanto che ne languisse pei 
desiderio : ma egli avea due figliuole e queste già ma- 
ritate. In forza di tali assurdi e di tali impossibilità dico 
che que’ fanciulli non eran figli ma nipoti di Tacqui- 
nio ; nel che sieguo Lucio Pisene, uomo savio, e funi- i 

co che ciò scriva ne’ suoi annali. Ma forse eran questi , 
nipoti a Tarquinio per nascita , e figli per adozione , e 
forse fu questa la origine dell’ abbaglio di tutti gli Sto- 
rici delle cose Romane. Or dopo un tal prologo egli è 
tempo di ripigliare la narrazione. 

Vili. Poiché Tullio prese le redini del ^ornando , e 
dileguata la fazione de’ Marzj , giudicò di averselo con- 
solidato ; fe’ con magnifica pompa trasportare Tarquinio, 
come spirato alfine per le ferite ; condeoorandolo di un 
cospicuo monumento e di altri onori : e tutore essendo 
de’ regi fanciulli ; e curò e guardò fin d’ allora le pri- 
vale loro cosce le pubbliche (i). Non andavano tai fatti 
a grado de’ patrizj , ma doleansi e sdegnavansi , mal sof- 
fiando eh’ egli a sé stabilisse il regio potere senza le 

(i) Addì, di Roma sec. Catone, 179 scc. Varrooe : e 577 
avanti Cristo. 


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i6 DELLE* Antichità' romane 

forme prescritte dalle leggi. E riunendosi più volte i più 
potenti , trattavano fra loro de’ mezzi onde abbattere TiU 
legittimo governo. Ora parve ad essi , come fossero la 
prima volta adunati , per tenere il Senato , da Tallio 
di violentarlo a lasciare i littori e le altre insegne del 
comando ; e fatto ciò di nominare gl’ interré da’ quali 
si scegliesse regolarmente chi dominasse. Tallio , risa- 
puto il disegno , si diede a favorire il popolo , c soc- 
correrne i poveri , sperando coll’ opera sua di ritenere 
r impero. £ chiamata la moltitudine a concinne , pre- 
sentò dinanzi la ringhiera i fanciulli ; e poi disse : 

IX. Molle cause o cittadini ihi astrinsero a prender 
cura di questi teneri garzoncelli. Perciocché Tarquinio 
l m>olo loro accolse e curò me privo di padre e di 
patria, nè fecemi punto meno che a un figlio; ma 
diedemi la sua Jìgliuola in isposa, e mi amò finché 
visse , e mi onorò sempre , come sapete , quasi fossi 
da lui generato : e poiché fu colto dalle insidie egli 
affidatami in caso di morte la cura de' fanciullettì. 
Ora e chi mi stimerebbe pietoso verso gl Iddf , chi 
giusto verso gli uomini , se io trascurassi e tradissi 
questi oifani a quali tanto io sono debitore? Ma nè 
io tradirò la mia fede, né darò per quanto è da me, 
1 ultimo abbandono , a fanciulli già derelitti. Ben è 
giusto che ricordiate voi li benefizj che l avolo suo 
dispensava su voi quando a voi subordinava tante città 
Latine emide del vostro principato, quando vi umiliava i 
Tirreni i pià potenti tra tutti i vicini, e quando neces^ 
sitava al vostro giogo i Sabini ; procurandovi ognuna 
di tali cose in mezzo a grandi pericoli. Speltavasi a 


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LIBBO IV. 17 

voi per tanta sua beneficenza di essere grati a lui 
finché visse, e di esserlo dopo la morte in verso dei 
posteri -suoi, e non già di seppellire coi cadaveri dei 
benefattóri la memoria ancora delle opere. Pensatevi 
dunque tutti eletti custodi de’ fanciulli , reusicurate per 
essi il regnò che t avo ad essi lasciava. Già non tanto 
bene- risentiranno essi dalle cure di me che son uno, 
quanto ‘dal soccorso, comune di voi tutti. Io mi vedo 
necessitato a dir questo ; sentendo che > alcurù com- 
movonsi contro loro , e vogliono dare ad altri il co» 
mandò. Io vi. supplico o Romani, che memori ancora 
siate de' combattimenti che .io feci pel vostro princù» 
pato , i quali np pochi sono nè piccoli. Ma ben sa^ 
pendolo voi , non occorre che altro io vi dica , se non 
che rivolgiafe su questi fanciulli gli obblighi che me 
ne avete. Imperocché non io per me fabbrico il prir^ 
cipato : nè se io mel cercassi , ne era già meno degno 
degli altri; piacemi solamente amministrare il comune 
in sussidio della stirpe di Tarquinio. Io vi raccomando 
che non vogliate ahbtmdonare a sé stessi questi farin 
ciuUi ora che il regno ne pericola : sarebbero anche 
espulsi da Poma , sé fauste riuscissero le prime mosse 
ai nemici. Ma non debbo io più dilungarmi su ciò , 
mentre sapete voi quello che dee farsi , anzi siete per 
fare quanto conviene. 

. Ora udite il bene , che io a voi apparecchio , e pel qua- 
le qui vi adunai. Quanti a debiti saziacele nè potete 
levarvene per la indigenza,, tutti sarete da me soccorsi 
come cittadini, e come già tanto affaticati, in servigio 
della patria; pert;hè voi che avete fondata la libertà 

DIOntGl, //. • 


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i8 DELLE Antichità’ romane 

di lei , la vostra non perdiate : io porgerò del mio da- 
naro onde i debiti estinguiate. Inoltre quanti torranno 
ad imprestilo io non più soffrirò che sieno imprigio- 
nati per debito : ma porrò per legge che niuno dia 
de' prestiti assicurandoli su la persona di uomini li- 
beri, mentre io penso che basti agli Usuraj di riva- 
lersi su bèni de' contraenti. E perchè da 'ora in poi 
sosteniate più di leggeri il tributo pubblico , pel quale 
i poveri sono gravati, e ridotti a far debito ; coman- 
derò che si registrino tutti i beni , e che ciascuno dia 
secondo l' aver suo , come odo che si pratica rtelle 
città più grandi e meglio ordinate ; mentre ancK. io 
credo più giusto e più vantaggioso al Comune che chi 
più possiede più paghi, e meno chi meno, Piacemi 
inoltre che il terreno pubblico f quello che avete cors- 
quislato colle Urrtse > non sia come ora de* più impu- 
denti , nè che per compera ve lo abbiate , nè indarno: 
ma che quelli se lo abbiano infra voi che privi sono 
di terre : perchè voi liberi essendo non serviate , nè 
coltiviate le campagne altrui , ma le pròprie ; imperoc- 
ché già non allignano generosi pensièri' ov’è disagio 
del vitto quotidiano. Soprattutto ho deliberalo render 
pari e fàcile il governo per tutti , e dàce a tutti eguale 
azione contro chiunque; perciocché sono alcuni venuti 
in tanta baldanza che oltraggiano il popolo, nè. liberi 
stimano i poveri fra voi. Ora perchè i più grandi nem- 
meno che gl’ infimi esigano' e Soffrano il giusto;, io 
farò leggi proibitive della violenza, e lonservOtrici dei 
diritti lomuni: nè mai lascciò di provvedere a questa 
libera procedura di lutti conlto tutti. 


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LIBRO IV. 

X. Sorsero , lui cosi dicendo , grandi elogj tra la mol< 
(iludine, e chi lodavalo come ricordevole e giusto verso 
i suoi benemeriti , chi come benevolo e grandioso in- 
verso de' poveri , chi come savio e degnevole in verso 
degl’infimi, e tutti infine lo amavano ed ammiravanlo 
come .onesto e diritto nel comandare. Sciolta l’ adunanza 
ordinò ne’ giorni appresso che i debitori si registrassero 
i quali non poteano corrispondere , e quelli a’ quali dot 
veano, e quanto ciascuno dovea. Ricevute le note alzò 
de’ banchi nel foro, e soddisfece ai creditori pubblica» 
mente. Ciò fitto espose con regio editto che quanti si 
godeano come proprie le terre del pubblico le cedessero 
in tempo determinato ; e che insieme i nomi a lui « 
dessero de’ cittadini privi di campagne. Diede uua le- 
gislazione parte sua, parte rinnovando l’ antica e già tra» 
scorata di Numa o Romolo. Mal soffrivano i patrizj tal 
governo , vedendo che 1’ autorità si aboliva del Senato: 
nondimeno volgeansi a risoluzioni varie assai dalle pri- 
me. Imperocché per addietro anelavano levare quel po» 
tere illegittimo , e nominare gl’ interré li quali elegge»- 
sero chi dominasse : ora però giudicavano essere da ta- 
cere , non da brigare in contrario ; antivedendo che se 
il Senato sceglieva e poneva un altro al comando, il 
popolo non lo avrebbe approvato co’suoi voU, e che se 
al popolo rimettea la scelta del sovrano, tutte le tribù 
nominerebbero Tullio , e cosi Tullio crederebbe star 
con diritto sul trono. Parve dunque ad essi il migliore 
che Tullio il quale aveva usurpata la regia autorità, 
Tullio che aveva sorpreso anzi che persuaso il popolo 
con aperte maniere , cosi la ritenesse. Ma uon succe- 


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20 DELLE ANTICHITÀ. ROMANE 

dette loro niuna delle cose disegnate. Con tanta Bnezza 
Tullio gl’ illuse, ed ottenne, malgrado loro, il coman- 
do ! Egli facendo sparger pian piano in città che i pa- 
trizj insidiavano la vita sua venne addolorato in sordida 
veste nel foro, con Ocrisia madre di lui , con TanaquilU 
moglie già di Tarquinio , e con lutti i regj consanguinei. 
Accorsa allo spettacolo inopinato gran moltitudine, ^li 
richiamatane la udienza , ascese nella tribuna e disse : 
XI. Non più li figli soli di Tarquinio pericolano 
di padre acerbi mali da nemici ; maio, debbo anche 
io temere per me stesso di avere amarissima la mer- 
cede delia mia giustizia. 1 Pati izj minsidiatto, e mi si 
additano fra loro de congiurati ad uccidermi : non già 
che abbiano gravi o picciolo cose onde m’ incolpino ; 
ma perchè si sdegnano , perchè mal comportano che 
io su voi sparsi , e sia per ispargere de’benefizj. Sde- 
gnansi gli usuraj perchè io non permetto loro che cu- 
restino tra voi per debid e privino di libertà gT im^ 
potenti ad estinguerli. E quei che si aveano le terre 
del pubblico , le terre conquistate col vostro sangue , 
quei si sdegnano costretti a lasciarle quasi lascino le 
paterne sostanze. Si crucciano quelli che grandeggia- 
vano col£ altrui ; perchè dispensali essendo dalle spese 
della guetra , ora sono necessitati a far catastare i hr 
beni ^ e pagare secondo il lor cumulo. Finalmente 
dolgonsi tutti che debbano attemperarsi alle leggi scritte, 
e star di paro con voi ne’ diritti e non abusare più, 
come ora fanno , de’ bisognosi infra voi, quasi di per- 
sone comperate. Ora questi risentimenti disseminando, 
si sono fra loro consultati e congiurati di ricondurre 


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31 


tlBRO IV. 

a %>oi gli esuli , e di ceden’i ai figli di Marzio , a 
quelH che vi lumno ucciso Tarquinio, quel re si buono, 
e sì amico di Roma , a quelli che macchiatisi in tanta 
scelleraggine , non osando risponderne in giudizio, si 
tolsero a voi colla fuga , a quelli in fine a quaU avete 
voi t acqua interdetta ed il fuoco. E se ben tosto non 
vòlavane a me t avviso, tali patrizj eccitando una forza 
straniera, avrebbero di bel nuovo introdotto nel cuor 
della notte i fuorusciti in Roma. Ben vedete voi quan- 
tunque io le taccia , le seguile , come i Marzj favoriti 
da' patrizj sarebbonsi impadroniti senza fatica di tutto, 
atsalendo primieramente me che il custode sono della 
regia prole , me che t autore fui del giudizio contro 
di loro , e spegnendo finalmente i regj fanciulli, e tutti 
I consanguinei , e tutti gli amici , quanti ve ne resta- 
no , di Tarquinio. Misere le nostri ritogli , le nostre 
madri , le nostre figlie , e misere le femmine tra noi! 
le avrebbero que' ribaldi ( tanta lumno di brutale e di 
tirannico ! ) terwie in' conto di schiave. Ora se tanto 
o popolani piace a voi pure , che qua si riammettano, 
anzi che re si proclamino i parricidi , e che i figli se 
rie scaccino de’ vostri benefattori , e dal trotto .« tol- 
gano che V avo ad essi lasciava ; se tanto , dico , a 
voi piace ; io mi cheto su destini. Ma deh ! per gli 
Iddj , deh / pe’ genj tutti , quanti le mortali cose ri- 
guardano ( e noi colle nostre donne , noi co’ nostri 
figli supplichiamo voi pe’ tanti benefizj ancora che 
Tar quinio su voi spondeo perpetuamente , e pe’ tanti, 
eh’ io stesso vi procurava ) , deh ! coruredeteci questo 
dono ; manifestateci i vostri voleri una volta. Se voi 


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a a DELLE antichità’ romane 
credete altri più degni di noi di tale onore ; questi 
fanciulli f e tutto il parentado di Tarquinio, partiran- 
Ho, abbandoneranno la vostra città. Io poi ben altri 
più generosi consigli ho per me ! Ahbcatanza vissi alla 
virtù , abbastanza alla gloria : mancatami la vostra be^ 
nevolenza , quella che io pregiava più che tutti i beni, 
già non voglio io vivere indecorosamente presso di ab- 
tri. Prendete i vostri fasci , dateli , se così piacevi , 
ai patrizj. Io mel vedrò , -nè mi oppongo. 

XII. Cosi dicendo , e già standosi in atto di ritirarsi 
sorse un clamor vivo per tatto , nn pregare , an pian- 
gere , perchè restasse , e governasse nè temesse. Allora 
alcuni, sparsi ad arte qua e là pel Foro, gridarono che 
si creasse re , che si convocassero le curie , e sen chie- 
dessero i voti. Così preordinato T evento; ben tosto il 
popolo tutto vi propendè. Tallio ciò vedendo non tra- 
scurava la occasione: ma professandosi ad essi obbliga- 
tissimo che memori fossero de’ benefizj , e prometten- 
done più ancora se re lo creasseró ; prescrisse il gionu> 
de’ comizj ; ordinando che v’intervenissero lutti dalla cam- 
pagna. Accorso il popolo ; egli chiamando una per una 
le curie consegnava ad esse i lor voti. E giudicato da 
tutte le curie degno del trono ; vi ascese. : nè curò del 
Senato che non volle come solea ratificare la scelta del 
popolo. Cosi re divenuto fondò molte altre istituzioni, e 
fece grande e memorabile guerra co’ Tirreni. Io dirò 
prima delle istituzioni. 

XIII. Appena strinse lo scettro comparti tra’ merce- 
narj Romani le terre del comune : poi fe’ comprovare 
le leggi su i contralti e su le ingiustizie dalle curie , 


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, LIBRO IV. 2 3 

estese ^illora a cinquanta , quantunque non sia ora ciò 
da ricordare. Aggiunse a Ronia il Viminale , e l’Esqui- 
lino due colli , cosi nominati , capaci T uno e 1’ altro 
di nna città liguardevole, dispensandoli parte a parte ai 
Romani privi di case , perché ivi se le fabbricassero ; 
anzi egli stesso ivi ediCcò la sua nel sito più idoneo 
delle Elsquilie, Fu questo 1’ uhimo re che ampliò il cir- 
cuito, della città , congiungendo ai cinque gli altri due 
colli, dopo avere presi gli aiigurj e compiute le usate 
pie cerimonie inverso gl' Iddj. Non poi la citti mise mai 
più da largo le sue mura ; non avendolo, come dicono , 
permesso i destini : ma tutti intorno i sobborghi che 
pur sono molti e grandi, si resuno so>perti, non chiusi da 
mura, ed espostissimi, se nemico mai sopravvengavi. Che 
se alcuno mirando a questi , voglia la grandezza racco-r 
glierne di Roma ; egli errerà certamente : perocché noo 
avrà nino certo seguo , dal quale discernere fin dove la 
città si oontinua o dove si termina. Cosi bene que’ sob- 
borghi al fabbricato inleroo si congiungono , che pre- 
sentano a chi li contempla la immagine come di una 
città che stendesi all’ iii6nito. Ma se taluno prendendo 
regola dalle mura , certamente malagevoli a distinguersi 
per le molte case fabbricatevi intorno , ma che pur sevv 
bano via via de’ vestigj dell' aulica loro struttura voglia 
risaperne il circuito in ristretto dei circuito di Alene; 
vedrà che il ricinto di Roma non molto eccede quello 
di Atene. Ma quanto alla grandezza e bellezza che Rpma 
presenta a miei giorni ; avremo appresso luogo più ac- 
concio a discorrerne. 

XIV. Poiché Tullio comprese entro un giro solo di 


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a 4 DELLE antichità’ ROMANE 

oiura i sette coili ; divise la città in quattro parti ; - de-' 
nominandole da que’ colli , 1’ una Palatina ^ l’ altra Sii- 
burrana , la terza Collina , e 1* ultima Esquilina. Cosi 
distese a quattro le tribù che erau tre sole. Intimò poi 
che chiunque abitava 1’ una delle quattro parti , quasi 
paesano di quella nè portasse in altra il suo domicìlio , 
nè in altra desse il nome suo pe' cataloglù militari , nè 
il tributo per le spese della guerra : in somma che noi^ 
rendesse in altra i servigi che doveansi pel comune; nè 
più ordinò le milizie secondo le tre tribù disposte come 
prima per genti ( i ) ma secondo le quattro da lui create 
e compartite ne’varj luoghi ; destinando per ciascuna un 
capo qual sarebbe un tribuno o prefetto , il quale dor 
vesse conoscere il domicilio di ognuno. Quindi ordinò 
che in ogni quadrivio si facessero da’ vicini picciole sa- 
cre cappelle agli Dei lari custodi della contrada , isti- 
tuendo per legge che ogni anno si onorassero di aa- 
grifizj , e che ciascuna famiglia porgesse loro le obbla-- 
zioni sue : comandò che assistessero e ministrassero à 
chi facea tal sagri6zio non gl’ ingenui ma i sèrvi ; di- 
lettandosi quegl’ Idd) del ministero di questi. Continuano 
i Romani pur nel mio tempo pochi giorni dopo de’Sa* 
tumali tal festa , veneranda in tutto e magniBca , e detta 
compitale da’ quadrivi che compiti da .loro si chiamano. 

(i) Romolo fece ire tribù eecondo te diverse genti : erano la 
tribù , la prima Ramnentù dei Romani posti ad abitare nel Pala- 
tino , la seconda TatUnsU da Tasio , ebbe il monte Capitolluq , e 
la tersa dei Luceri a luco o dal bosco dato per asilo i era degli 
stranieri che aveano ivi cercato nn rifugio. Col progresso del tempo 
siccome la gente aggregala a Roma superara il popolo primitiro ; 
COSI Tullio fece una nuova divisione di tribù. 


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LIBRO IV. a 5 

Serbano nel* sagrifìzio 1’ anticx) rito, placaodo gl* Iddj 
Lari con intrametlervi i servi , a’ quali tolgono in quei 
giorni quanto tien forma di servile; perchè riconfortati 
da tali dolci maniere ove è misto del grande e dell’ono* 
, riGco sì affezionino più vivamente ai padroni e men sen> 
tano il peso della loro condizione. 

XV; Inoltre , come Fabio scrive , divise tntla la cam- 
pagna io ventisei parti , chiamandole tribù parimente : 
e congiunte queste alle quattro urbane se ne ebbero 
trenta inAutte : ma Yenonio dice che se ne ebbero tren- 
tuna : laddove Catone ben più autorevole di essi (,) af- 
ferma che le tribù ne’ tempi di Tullio furon tutte, non 
però distinguene il numero. Tullio dunque secondo gli 
atupizj divisa la campagna in tante parti, quante mai 
furono , apparecchiò su luoghi montuosi e fortissimi de- 
gli asih\ chiamandoli pagos con greco nome o castelii, 
onde renderne salvi i coloni. Imperocché .quivi tutti si 
rifuggivano ndle irruzioni de’ nemici , e quivi spessis- 
simo pernottavano. Ci aveano in questi de’ presidi inca- 
ricati di conoscere i nomi de’ coloni, conti*ihnenti a quel 
borgo , e li poderi su quali viveano. E se mai portava 
il bisogno di convocare que’ contadini per le arme , o 
di esigere da ciascuno le lasse ; questi li congregavano, 
o ne raccoglievano le somme. £ perchè la moltitudine 
non fosse difGcile a trovarsi , ma facile a descriversi e 
palese; fece erigere degli altari ai Numi contemplatori 
e custodi del luogo , perché quella ogni anno vi si riu- 
nisse e ve gli onorasse con pubblici sacri Gzj , istituendo 

(i) Di Fabio • di Venonio. 


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a6 DELLE Antichità’ bomane 

9 tal (ine la festa soleanissima delta dei viUagi (i)."^Anzi 
intorno a tali sagrifizj scrisse leggi che i Romani ser* 
bano ancora. Per tal sagriSzio , per tal celebrità volle 
cbe contribuissero tulli una data moneta, altra però gli 
uomini , altra le donne , ed alu'a gl’ impuberi : talché 
numerandosi queste dai, presidi delle sante cose rileva- 
vasi il totale degl’ individui secondo il sesso e la . 6tà. 
E volendo , come scrive Lucio Pisone nel primo degli 
annali , conoscere quanti erano domiciliati in Roma, 
quanti vi nasceano o vi morivano , o toccavano * la età 
virile; stabili qual moneta dovessero i parenti vergare 
per ognun che nasceva nell’ erario di Eileitia , detta dai 
Romani Giunone Lucifera , o in quello che chiamano 
di Venere Libitina , là nel bosco , per ognun che mo- 
riva , o in quello della Dea Gioventù per ognuno che 
alla virile età perveniva. Da queste monete intendeasi 
ogni anno quanti erano in tutto , e quanti aveano ido- 
neità militare. Ciò fatto diede ordine, che i Romani. re- 
gistrassero, apprezzandoli inargento, i lor beni, e giu- 
rando di apprezzarli come dee 1’ uomo candido e buo- 
no t e che insieme dichiarassero quanta era la età loro, 
quali i padri loro , le mogli, ed i figli ; aggiungendovi 
dove in città soggiornassero, o in quale de’ villaggi d^Ho 
campagna ; e chi non &cea pari stima era in pena spo- 
gliato de’ beni , flagellato e Venduto. Dorò questa legge 
lungo tempo tra Romani. 

XVI. Cosi prese da tutti 'le stime, e rilevatone il nu- 
mero di essi , e la grandezza de’ beni loro introdusse 

(l) Ciut Paganaliu. 


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LIBRO IV. 07 

una instituzione savissima che fu poi larga fonte di beat 
a’ Romani , come il fatto stesso Io dimostrò. La islit»* 
zione fu di segregare dal resto del popolo quei che 
aveano sostanze più grandi non però minori di cento 
mine , e di ordinarli in ottanta centurie (1) , le quali , 
armandosi , portassero scudo argolico , elmo di bronzo, 
corazza , stivali , asta e spada. Poi separandole tutte in 
due parti formò quaranta centurie di giovani per le spe> 
dizioni in campo aperto , e quaranta de’ più adulti , le 
quali in città si restassero per custodirla quando le altre 
uscivano per la guerra. E questa era la milizia , prima 
di ordine ; per altro i giovani aveano sempre il primo 
luogo onde proteggere tutta l’armata. Dal residuo quindi 
del popolo segiegò quelli ancora che aveano meno di 
cento mine non però più scarse di settantacinque, compar» 
lendoli in venti centurie che portassero arme , simili a 
quelle de’ primi , toltane la corazza e dato ad essi lo 
scudo lungo in luogo dell’ argolico (u). E dividendo 
quelli di oltre quarantacinque anni dagli altri che aveano 
età militare formò dieci centurie di giovani, le quali an- 

(1) Nel Cesto Xt^gn: questa roce k ambigua: può sigaificare cen- 
turia , manipolo , coorte. Il traduttore latino la interpreta per cen- 
turia : e questa pare la nozioue piti acconcia : ma deve riflettersi 
che cengia: vai quanto compagnia di cento , laddove in questo 
luogo non significa cento esattamente ; ansi ne] paragrafo iS di 
questo libro significa ben altro che cento. 

(a) Tra i Latini ci ebbe io Cfypeut e lo tculuni. Il primo era 
detto «cevrir da’* Greci , ed il secondo Bv/i»f i il primo era più 
breve e sièrico, l’altro piò lungo. La nostra lingua, come di un 
popolo che più non usa quelle armi non ba forse parole ben disliute 
o note pet indicare la doppia forma. Targa , Rotella o Broccbiero 
può forse dirsi il C/fpeus , e scudo è voce generica di ogni sorta di 
quelle armi. 


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a8 DELis Antichità’ romane 

dassero in guerra per la patria , « dieci di anziani che 
in gtiardia rimanessero delie mura. Era questa la mili- 
zia , seconda di ordine , e prendea luogo dopo de' primi 
nella battaglia. Una terza ne fece di quelli che aveano 
meno di settantacinque mine non però sotto le cinquanta; 
ma ne minorò T armatura non solo delle corazze come 
alla seconda; ma de’ stivali ancora. Descrisse pur questi 
in venti centurie dividendoli parimente secondo 1’ età , 
talché se ne avessero dieci de’ più gióvani, e dieci de’ 
più maturi. Era il luogo loro nelle battaglie appunto do- 
po quelli che seguivano i primi. 

XVII. Trasse un quart’ ordine di soldati da quelli 
che avean meno di cinquanta , e non meno mai di ven- 
ticinque mine; disponendolo in venti centurie , dieci dei 
floridi , dieci de’ provetti per anni , come avea fletto co- 
gli altri ; e dando loro per arme scudi , aste , e spade , 
e r ultimo posto nelle battaglie. Reclutò la quinta mi- 
lizia da quelli che avean meno di venticinque mine , 
non però meno di dodici e . mezzo , acconciandola k- 
condo gii anni di ognuno in trenta centurie , quindici 
de’ più avanzati , e quindici de’ più giovani. Diè loro 
strali e Sonde , ma luogo fuori deli’ esercito , Uiesso in 
battaglia. Comandò che quattro centurie allatto inermi 
accompagnassero tutte le altre : cioè due di annajuoli , 
di falegnami , e di altri per altro militare lavoro, e due 
di sonatori di trombe e timpani e di altri stromenti 
pe’ bellici segni. Ma gli arteflci seguitavano la miUzia dà 
second’ ordine : e distinti anch* essi per età , quali se . 
guitavano le bande de’ giovani , e quali degli anziani. 
I^addove i sonatori di trombe e di timpani lenean die- 
tro alla miUzia quarta di ordine ; distribuiti anch’ eglino 


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LIBRO IV. 39 

in giovani e vecchi. Erano li centurioni tmcelti fra' tutti 
li più insigni nelle arme; e reggea' ciascuno la sua cen- 
turia docilissima ai cenni. 

XYlll. Tale era il metodo onde avessi la soldatesca 
legionaria e leggera. Scelse poi la cavallerìa dai più 
facoltosi , e più cospicui di lignaggio , e formatene di- 
ciotto centurie le dié compagne alle prime ottanta cen- 
turie de’ legionarj. Erano pur di queste diciolto , chia- 
rissimi lì centnrioni. Finalmente ridusse ad una centu- 
ria gli altri tutti , ben più numerosi de’ primi che aveano 
men che dodici mine e mezzo , e gli escluse dalla mi- 
lizia e li rese immuni da ogni tributo. Cosi risuitaron 
sei ordini che i Romani dicono classi denominandoli 
con greca parola : imperocché quello che noi signifi- 
chiamo colla voce imperativa colei ( chiama ) lo signifi- 
can essi coll’altra cala (>) ed anticamente caleseis pro- 
nunziavano in vece di classi. Comprendeano queste 
classi cento novanutrè centurie. Formavano la prima 
Bovantotto centurie compresevi quelle de' cavalieri : ven- 
tidue cogli artefici la seconda : venti la terza : di nuovo 
ventidue co’ sonatori di trombe e di timpani la quarta ; 
trenta la quinta : ed era dopo queste una centuria uuica 
la classe de’ poveri (a). 

(i) Calo catas tt» antico veibo latino por chiamare j donde pur 


cbbesi la noce Calerule. 

(a) Classe prima. - 9S 

-- seconda aa 

— ' tersa. ao 

— quarta aa 

— quinta 3 o 

- — sesta 1 

193 


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3o DELLE Antichità’ romane 
XIX. Introdotto un tale sistema , iatimava i soldati 
per la guerra secondo le centurie , e li tributi secondo 
li beni. Quante volte a lui bisognassero dieci o venti- 
mila soldati ; avendo distinta la moltitndine in cento 
novantatrè centurie, imponea ebe desse ognuna la sua 
parte. Calcolando, le spese da farsi pe’ frumenti e per gli 
bisogni di guerra ; egli stesso le compartiva secondo gli 
averi di ognuna tra le centurie , ordinate in cento no- 
vantatrè. Seguitò da questo ebe i possidenti piò grandi 
essendo minori di numero ma divisi io più centurie 
fossero sensa requie astretti a più guet're , e vi contri- 
buissero danaro più ohe altri : laddove i possidenti mez- 
xani e piccioli quantunque più numerosi, ridotti in meno 
centurie , non combatteano che alternativamente e di 
raro , né pagavano se non leggeri tributi ; e quelli che 
non possedeano quanto rìchiedevasi , erano intatti da 
ogni molestia. Nè ciò facea senza causa ; ma persuaso 
che gli averi sono per 1* uomo il premio della guerra , . 
e ohe ciascuno travaglia per difenderseli ; riputò giusta 
cosa , ohe chi pericola su più beni , più ancora al pe- 
ricolo si opponga colla robba e colla persona : che men 
di molestia risenta in ambedue chi men perderebbe: e 
finalmente che chi non teme per cosa ninna non sia 
nemmeno in cosa alcuna aggravato , immune da’ tributi 
perchè bisognoso , e libero dalla guerra perchè libero 
da’ tributi. Imperocché li soldati Romani militavano al- 
lora , ciascuno a spese sue non lo stipendio riceveano 
dal pubblico ; nè pensava altronde che avesse a contri- 
buire chi non aveane i mezzi e stentava il vitto quoti- 
diano : nè che colui che non contribuiva militasse a 
spese altrui qual mercenario. , 


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LIBRO IV. 3 1 

XX. G)sl rivolse Ai più ticchi tatto il carico de’ pe« 
ricoli e delle spese : vedendo però che sen disgustavano^ 
nè raddolcì per altro modo il mal contento , e ne rat* 
temperò lo sdegno , concedendo ad ewi tal prerogativa 
per cui gli arbitri sarebbero del pubblico esclusine i 
poveri. Nè comprese il popolo di ciò che facessi le con* 
srguenze. Era la prerogativa ne’ comitj , ove dai popolo 
risolveansi. le cose le più gravi. Ho già detto di sopra 
come il popolo secondò le antiche l^gi era 1’ arbitro 
di tre cose grandissime e necessarissime : cioè di eieg> 
gere i suoi capi in città e nel campo , di ammettere o 
di abrogare le leggi , e di conchiudere la guerra o la 
pace.' E tali cose discuteva , e decidevate il popolo per 
curie , parrggiandovisi il voto del grande a quello del 
picciolo possidente. ^ E siccome pochi , come avviene , 
erano i facoltosi ; ma più assai li poveri; cosi preva» 
leano questi ne’ comlej. Tullio ciò vedendo trasferì nei 
ricchi la prepotenza de’ voti. Imperocché quando pare» 
vagli di' far creare i Magistrati o discutere le leggi , o 
Conchiudere la guerra teneva i comizj non più per ci^ 
rie , ma secondo le centurie anzidette. E prima chia» 
mava a dare il Suo volo le centurie di maggior possi» 
densa le quali èrano ottanta di fanti e diciotto di ca- 
valieri. Or' queste più numerose che le altre di Un tre (i) 
quando fossero unanimi , superavano le altre ; e la di» 
scussione avea fine. Che se non si univano queste in 
uu parere ; invitava allora le ventidue scritte nel se* 
coud’ ordine*., £ se i voti sciudcvansi ancora ; soprac» 

(i) Erauo noTanioUo, e le altre tutte novauUoinijue. 


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3 2 DELLB Antichità’ romane 

cbianuva le centarie di terz’ ordine : iodi quelle del 
quarto, e cosi via via, finché novantasette centurie si 
trovassera consentanee (i). Che se ciò non ottenessi nep- 
pure colla quinta, chiamata , ma le cento novantadue 
centurie si contrapponeano con parti eguali.; invitava 
allora 1’ ultima centuria che era de’ bisognosi , e però 
libera dai tributi e dalla milizia. E qualunque fosse la 
parte alla quale accostavasi questa centuria ; quella pre- 
ponderava. Ma ciò era ben raro a succedere , per non 
dire impossibile ; mentre il più delle discussioni termi** 
navasi col chiamar de’ primi ordini senza procedere al 
quarto. Doud’ è che l’ invito de’ quinti e degli ultimi 
superduo riusciva. 

XXI. Istituendo tal sistema e tal prerogativa inverso 
de’ ricchi , Tullio deluse , come ho detto i poveri ; né 
sei conobbero , e furono esclusi dalle cariche. Immagi- 
navano questi che essendo richiesti un per uno a dare 
il suo voto, ciascuno nella sua centuria, avessero egual 
parte nel tutto : ma s’ ingannavano : perchè uno era il 
voto della intera centuria , e qual centuria conteuea . 
men cittadini e quale più i^sai ; e perchè prime vota- 
vano le centurie più ricche, più numerose per serie, 
quantunque con men cittadini. Aggiungi che un solo 
era il voto de’ bisognosi , quantunque fossero i molti ; ed 
aggiungi che ultimi si chiamavano. Per tal metodo i ric- 
chi , quatunque assai soggiacessero a spese , né avessero 
mai requie da’ perìcoli della guerra , men sentivano il 

(i) Erano le centurie senza l’ultima 193. numero la cui metà 
è 96. Affinchè dunque vi , fusse preponderanza doveva un parlilo 
nascere almeno da 97 e I' alito da 96 ocniutia. * ... 


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LIBRO IV. 33 

peso ; perchè erano gli ariìitri divenuti di gravissime 
cose , ed aveano tolto agli altri tutto il potere. Altronde 
i poveri se non aveano che la minima parte nelle pab- 
bliche cure sei comportavano placidi e ebeti, perchè li- 
beri dai tributi e dalla guerra. Dond* è che que’ mede- 
simi i quali consigliavano ciocché era da fare ; quegli 
appunto se ne mettevano ai pericoli ed alle opere. Durò 
tal sistema per molte età tra’ Romani. Ma ne’ tempi miei 
fu variato, e renduto più popolare per forza di grandi 
necessità , non perché le centurie fossero disciotte ; ma 
perchè non più serbavasi 1* antica diligenza nel chia- 
marle; come io stesso, presente più volte ai comizj, ho 
veduto.: ma non è questo il tempo conveniente a parlar 
di ciò. 

XXII. Tullio data cosi regola al censo , comandò che 
tutti i cittadini andassero colie armi al campo più grande 
dinanzi Roma : e là , messi in squadre i cavalieri , or- 
dinati li fanti in battaglia , e ridotti i soldati leggeri , 
ciascuno nelle proprie centurie ; li espiò con un toro , 
un ariete ed un capro. Egli fatte condurre prima tre 
volte le vittime intorno dell’ esercito le sagri Beò poscia 
a Marte, Nome sovrano di quel luogo. Anche a miei 
giorni vengono i Romani purificati con egual cerimo- 
nia , che essi chiamano lustro , dopo &tto il censo , da 
que’ che n’ esercitano' il magistrato santissimo. Come ri- 
levasi da’ libri de’ censori , il , catalogo de’ Romani che 
si registrarono ascese allora ad ottantaqnattro mila set- 
tecento. Prese questo re non picciola provvidenza per 
ampliare le classi del popolo, ideandone de' mezzi sfng- 

DIOKIGI , tomo II. S 


V 


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34 DELLE ANTICHITÀ.’ ROMANE 

giti a suol predecessori. Imperocché provvidero questi a 
far moltitudine ricevendo i forestieri e consociandoseli 
senza divario di natali o di sorte. Ma Tullio concedè 
che entrassero a parte della repubblica pur gli schiavi 
Fenduti liberi , se mai non volevano ripatriare. Àdon« 
que permettendo che registrassero le loro sostanze iu- 
sieme con gii altri uomini ingenui gli ascrive fra le 
tribù urbane che erano quattro fra le quali ritrovasi aa« 
cora la discendenza dai liberti , e fece che vi godessero 
quanto gli altri vi godeano di diritti. 

XXIII. Disgustandosi di questo e mal sopportandolo 
i Patrizj ; egli convocatane la moltitudine disse : cho 
meravigUctvasi primieramente de' malcontenti se credei 
vano che t uomo libero differisse dal servo per natura 
piuttosto che per la , sorte : e secondariamente se mv~ 
stiravano gli uomini degni di onori non dai costumi 
né dalle maniere , ma dalla prosperità, vedendo quanto 
caduca , e quanto mutabile sia la prosperità , mentre 
TÙuno , nemmeno de’ più felici, può dire quanto tempo 
gli durerà. Considerassero quante città barbare e gre^ 
che erano di serve divenute libere , e di libere serve. 
E qui condannava la grande loro incongruenza mentre 
rendevano liberi uomini degni di esserlo, e poscia ad 
essi invidiavano la cittadinanza : e consigliavali piuttosto 
a non liberarli, se malvagi li riputavano: ma -se ripa* 
tavanli buoni, non li vilipendessero quantunque fore- 
stieri. Dicea , che ben era informe nè savia cosa che 
essi ammettessero alla loro cittadinanza tutti i forestieri, 
senza distinguerne la sorte , o por mente , se erano servi 
divenuii liberi ; e poi tenessero come indegni di tal gra- 


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LIBRO IV. 35 

eia ^elli stessi che erano da loro liberati : e dicea , che 
essi i quali credeano più saperne che gli altri non ve- 
deano poi le cose presenti , elementari , e piane anche 
ai più inetti': cioè che assai penserebbero i padroni a 
non rendere liberi cosi di leggeri i servi se poi do- 
veano accomunarseli alle cose più grandi fra gli uomi- 
ni : e che i 'servi assai più si studierebbero di far Fatile 
de’ padroni , se capivano che resi liberi sarebbero an- 
cora cittadini di una città grande e beata ; e che am- 
bedue questi beni Se gli avrebbero appunto dai padroni. 
Da ultimo fattosi a ragionare su F utile pubblico ricor- 
dava a chi io sapeva , ed a chi noi sapeva insegnava , 
che una città che aspiri al comando , una città che pre* 
pansi alle grandi cose, non dee niun bene cercare quanto 
F aumentò del popolo , onde aver forze contro tutte le 
guerre , e non distruggere Ferario con assoldare gli estra- 
nei , perciò dicendo che i primi re concedevano a fo- 
restieri la cittadinanza. Che se ora adottavano la sua 
legge; aggiungeva che per loro via via crescerebbe una 
gioventù numerosa , nè sarebbero mai scarsi di soldati ; 
anzi che ne avrebbero abbastanza quantunque fossero 
astretti far guerra contro di tutti. Vi sarebbero ancora 
oltre le pubbliche, altra utilità non poche pe’ ricchi se 
lasciavano che gli schiavi renduti liberi avesser parte 
nelle adunanze ; mentre ne sarebbero in queste nel mag- 
giore bisogno favoriti co’ voti o con altre decenze , e la* 
scerebbero ne’ discendenti di essi altrettanti clienti ai 
posteri loro. Consentirono a tal dire i patrizj che si am> 
mettesse un tal uso in repubblica: e vi persevera anco- 
ra, custodito come una delle leggi sacre ed inviolabili. 


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36 DELLE Antichità’ romane 
XXIV. E poiché son venuto a tal parie di narrawo— 
ue ; parmi necessario adombrare i costami de’ Romani 
in que’ tempi sopra gli schiavi ; perchè niuno riprenda 
nè il re che tentò volgere in cittadini gli schiavi già li- 
beri , né quei che la legge ne ammisero , quasi abbiano 
incautamente abolito istituzioni bellissime. Ottenevano i 
Romani dei schiavi per giustissime guise:' imperocché 
gli aveano o comperandoli dal pubblico che metteali 
qual preda all’ incanto, o concedendo un capitano che 
si appropriassero i presi in gnerra insieme con altre cosej 
o redimendoli da altri che gli aveano . con eguali mar- 
niere acquistati. Mé Tallio che lo introdusse, nè gli altri 
che lo riceverono e serbarono; tennero come vituperoso 
e nocivo al pubblico il costume pel quale si ridonasse 
la libertà e la patria da chi possedeali come schiavi, a 
quegli uomini che spogliati in guerra di patria e di li- 
bertà si erano utili dimostrati verso i primi che gii aveano 
soggiogati, o verso altri che gii avevano comperati dai 
primi. Ricuperavano moltissimi la libertà gratuitamente 
in vista deir onesto e bel procedere loro : e questo ■ era 
il più onoridco mezzo onde riaversi : pochi ne sborsa- 
vano un prezzo, accozzato con legittime e caste fatiche. 
Non è però così di presente , ma sono le cose in tanta 
confusione , e cosi belle virtù de’ Romani sono invilite 
e bruttate; che chiunque trae danaro da crassazionl^ 
da sfasci, da prostituzioni o per altre ree guise , costui 
con tal prezzo redimesi , e diviene un Romano. Otten- 
gono altri un tal dono dai loro padroni , divenutine i 
complici degli avvelenamenti , delle uccisioni , e. delle in- 
giustizie contro la : repubblica e contro gl’ Iddj : tal altri 


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:libi\o IV. 



l’ ottengono con patto che prendano e portino ai lorO* 
liberatori la rata mensuale e pubblica di frumenio é' 
quant' altro dà’ principi si dispensa su' bisognosi. Altri 
finalmente gli libera la leggerezza de’ padroni , e 1’ amore 
di una gloria vana. E certo io so che alcuni concede-^ 
rono che dopo il fin loro fossero tutti i proprj servi li-' 
bdrati per esserne buoni decantati dopo morte : e quindi 
molti fecero co’ pilei in capo un seguito ai loro cadaveri 
che trasportavansi , è spesso in tal seguito , come po- 
tessi ,udire da chi n era informato, pompeggiavano uomini 
asciti di fresco dalla prigione , rei di mille scelleraggini 
capitali. Or molti de’ Romani considerando tal feccia di 
liberti impurissimi si affliggono che ricevansi per citta- 
dini , e ne condannano il costume come indegno delU 
città metropoli , e che innalzasi a dominar l’ universo. 
E ben potrebbe alcuno riprendervi molte usanze ideate 
benissimo dagli antichi , ma viziatissime dai moderni. 
Non io penso certamente che debba una tal legge abro- 
garsi , perchè da indi non sorga male maggiore ; dico 
però che debbesi quanto si può rettificare, nè permet- 
tere che se ne spandano nella repubblica i grandi ob- 
hrobrj e le infamie inespiabili. E vorrei soprattutto che 
i censori vi provvedessero se non forse i consoli ; essen^ 
done degna la cura dei grandi magistrati. Quelli, come 
la vita esaminano de’ cavalieri e de’ senatori; cosi esami* 
nino ogni anno- quali schiavi la libertà riacquistano, per 
qual fine mai la riacquistano, e con quali maniere. Quindi 
quei che trovano degni della cittadinanza , quegli tra U 
tribù li compartano , e concedano che vivano in Roma: 
ma gli : svergognati e profani li rimovano col titolo de- 


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38 DELLE antichità’ ROMANE 

coroso d’inviare una colonia. Or queste cose, esigen-' 
dole il subjetto, emmi sembrato giusto e necessario al- 
legarle contro quelli che incolpano gli usi de’ Romani. 

XXV. Né già Tullio si dimostrò popolare pe’ stabili- 
menti co’ quali represse l’autorità del Senato, e la pre- 
minenza de’ Patrizi , ma per quelli ancora co’ quali di- 
minuì di una metà Io stesso regio potere. Imperocché 
li re precedenti vogliosi di tirare a sé tutte le cause , 
giudicavano ad arbitrio loro de’ richiami si privati , che 
pubblici ; ma egli dividendo i pubblici dai privati „ esa- 
minava da sestesso le cause toccanti il Comune ; e creò 
giudici particolari per quelle de’ particolari : e le leg- 
gi stesse che egli scrisse furono a tali giudici regola 
e confine. Poiché le cose di città presero per esso 
lui l’ordine più acconcio ; arse dal desiderio di fare 
alcuna splendida cosa onde eternare tra’ posteri il suo 
nome. E volgendo il pensiero a’ monumenti pe’ quali 
gli antichi sovrani, ed uomini di Stato erano divenuti 
famosi ; non invidiò già la donna Assira per le mura 
di Babilonia , non i re dell’ Egitto per le piramidi 
di Memfi , nè per altre opere , qualunque fossero , 
le 'quali dimostrano la pompa delle ricchezze e delle 
arti non già le doti sublimi di chi governa: ma ripu- 
tando queste opere tenui , bre vi , non degne di affetto , 
seduttrici degli occhi , non adjutrici del vivere comune, 
dalle quali appena sono contentati gli autori di esse ; e 
stimando solo degni di emulazione e di lode i fratti della 
prudenza da’ quali sono moUissimi e per lunghissimo 
tempo giovati; ammirò soprattutto il consiglio di.Amfit— 
tione figlio di Elene: il quale, visti i popoli della Gre- 


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LIBRO IV. 3g 

eia deboli, e facili ad essere oppressi da'barbari inlorno; 
li raccolse tulli ad una dieia, chiamata per esso Amfit- 
tionia , nella quale oltre le leggi già proprie di ciascuna 
città, ne diede »\\xe , Amfiuìomr. delle, comuni a tulle, 
per le qtiali vivessero amici infra loro, e, terribili e 
nesti ai barban, difendessero il corpo della nazione non 
colle parole, ma co* fatti. Da ciò prendendo esempio 
que’ lonj che trasmigrarono dail’Europa in su i lidi della 
Caria , e li Doriesi che misero la sede loro ne’ luoghi 
d’intorno , fondarono de’ tempj a spese comuni, li lonj 
in Efeso , ergendovi quello di Diana, e li Doriesi in 
Triopio (i) ediCcandovi quello di Apollo. Poi là con- 
gregandosi colle mogli e co’ figli ne’ giorni destinati li 
solennizzavano con sagrifizj , con mercati , con certami 
equestri, ginnici, musid, e con pubblici donativi agl’Iddj. 
E menure sedeano a spettacolo , mentre mercalantavano, 
mentre davansi altre significazioni di amore, intanto se 
'ci aveano offese fatte ad una città, giudici fissi per la 
dieta o decideano la guerra co’ barbari, o trattavano la 
riunione de’ Greci fra loro. Su queste e simili immagini 
senti Tullio il desiderio di conciliare e coogiuogere le 
genti latine , sicché scindendosi e guerreggiandosi fra loro 
non fossero alfine spogliate della libertà da’barbari intorno. 

XXVI. Adunque invitò li primarj di ogni città , di- 
cendo di convocarli per trattare di affari grandi e co- 
muni. E poiché furono venuti , adunando essi ed il Se- 
nato di Roma , tenne un ragionamento induttivo alla 
concordia , rilevando quanto era bella cosa che più città 

(i) Città nella Caria preno diGnido. Anii Plinio la crede Gnido 
atfMa. Erodoto nel priiao libro , parla a luogo di quatto tempio. 


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4oi DELLE Antichità’ bomank 

fossero unanimi, é quanto brutto spettacolo che i po- 
poli di una nazione discordassero. Dicea che la concor-’ 
dia era causa ai deboli di fortezza ; laddove la vicende- 
vole gelosia lo era ai fortissimi d’ infiacchimento e di 
decadenza. Inculcò dopo questo , com’ era conveniente , 
che i Latini dominassero ai popoli intorno , e che det- 
tassero leggi , essi Greci di origine ai Barbari; e come 
a’ Latini stessi doveano soprastare i Romani , per 1* am- 
piezza della città, per la sublimità delle imprese , e per- 
ché usato aveano con successo migliore la Provvidenza 
divina , per la quale erano a tanta celebrità pervenuti. 
E cosi discorrendo consigliava che fondassero a spese 
comuni in Roma un tempio di asilo inviolabile ove le 
città riunite sagrificassero ogni anno per sé stesse e per 
tutti , facèndovi concorso ne’ tempi che destinerebbero. 
Ivi se alcun urto fosse infra loro , si riconciliassero tra 
que’ sagrifizj, lasciando che le altre città giudicassero delia 
offesa. Divisando questi ed altri beni j i quali derivereb- 
bero da un pubblico consiglio, se lo stabilivano; per- 
suase quanti vi erano. Cosi contribuendovi tutte , eresse 
il tempio di Diana posto in sull' Aventino, il piò grande 
de’ colli di Roma : e scrisse le leggi per le città verso 
di loro, e divisò le maniere onde compiere il mercato 
e la festa. E perchè niun tempo mai le cancellasse , fece 
una colonna di metallo, e v’incise le risoluzioni di ’quel 
consiglio , e le città che vi consultarono. Esiste la co- 
lonna anche a miei giorni nel tempio di Diana, e pre- 
senta caratteri di greche lettere, quali l’ antica Grecia le 
usava ; ciocché vale di argomento non pjcciolo a coii- 
cfaiudere che quelli che fondarono Roma non erano Bar- 


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LIBRO IV.‘ ‘4* 

bari, non usando i barbari lettere greche. Or tali sono le 
gesta pià grandi , e più insigni che di questo re si rl« 
cordino senza comprenderne molte altre minori e meu 
chiare : sono poi le imprese guerriere quelle che fece 
contro de’ Tirreni , e le quali ora prendo a narrare. 

- XXYll. Dopo la morte di Tarquinio le città che gH 
aveano ceduto il dominio di sé stesse , ricusarono tenersi 
più oltre ne’ patti , sdegnando di obbedire Tarquinio 
come umile di lignaggio , e travedendo' una grande op^ 
portunità nell’ alienazione de’ patrizj da lui. F urono i 
Yejenti i primi a ribellarsegli , e risposero agli amba- 
sciadori spediti da Tullio , che nè aveano essi fatta a 
lui cessione alcuna del comando , nè trattalo di amici» 
zia, nè di alleanza. Si mossero dietro loro li Cerretani , 
e li Tarquiniesi , finché la Etruria tutta fu in arme. 
Durò questa guerra venti anni continui entrando vicen» 
devolmente l’ lina e 1’ altra gente con eserciti poderosi 
le terre nemiche , e procedendo di battaglia in batta» 
glia. Tullid s’ ebbe la meglio in tutte , quante se ne ac- 
cesero contro di una città, o della intera nazione; fin- 
ché nobilitatosi per tre luminosi trionfi, la necessitò da 
ultimo a ricevere il giogo che tanto sdegnava. Adunque 
nell’ anno ventesimo le dodici città rifinite ornai di da- 
nari e di nomini , fattesi a consultare , destinarono di 
cedere sé slesse ai Romani su le condizioni già prima 
decise ; e vennero co’ simboli di pace i Deputati di cia- 
scuna di esse per farne la resa , e per supplicare che 
non fossero duramente trattate. Replicò Tullio che hen 
meriterebbero molte e gravi pene per la imprudenza 
loro , e per la inverecondia inverso dei Numi che 


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4 2 DELLE antichità’ ROMANE 

o'eano rendali mallevadori dei palli violati : che tro» 
verebhero tuttavia questa volta ancora la dolcezza e . 
la moderazione di Roma, perchè riconoscevano la colpa 
loro , e perchè co' simboli di pace e colle umiliazioni 
ne disarmavano lo sdegno. Ciò detto pose Gne alla guerra; 
concedendo con cuor semplice, e senza ira per la me- 
moria de’ mali , cbe alcune delle città si regolassero a 
lor modo e godessero come per addietro le proprie cose 
a norma de’ patti che aveano con Tarquinio : ma le tre 
città de’ Cerretani , de’ Tarquinlesi > e de’ Veietiti, -già 
prime ad insorgere, e colpevoli di aver mosso le altre 
alla guerra co’ Romani , queste in pena le multa della 
campagna, coi divise in sorte tra gli ammessi di fresco 
alla cittadinanza di Roma. Compiate tali cose in guerra ' 
ed in pace, e fondati due tempj l’uno nel Foro boario, 
e l’altro in riva del Tevere alla Fortuna sembratagli 
propizia tutti i suoi giorni , e da lui chiamata Kirile 
come chiamasi ancora (i) ; alGne provetto assai per età, 
nè lontano ornai dal suo termine, morì tra le insidie 
dei genero suo e della Gglia. Io dirò di queste insidie ma 
ripigliandone il GIo alquanto da lungi. . 

XXVIIL Avea Tullio due Gglie , nategli da Tarqui- 
nia , sposata a lui dal re Tarquinio medesimo. Divenute 
nubili le donzelle, cugine dal canto materno a’ nipoti di 
Tarquinio , diedele appunto a questi per mogli , la più 
grande al più grande , e la minore al minore ; cosi pa- 
rendogli che meglio converrebbobo a chi le prendeva ; 

(i) Tullio fondò piò che due tempj. Fiutar, in quest. Rom. 74 * 
Ma la fortuna ViriU fu coosccrata da Anco e non da Serrio secondo 
lo stesso Plutarco De Fortuna Roman, 


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LIBRO IV. 43 

se non che per la diflbrmità de’ costami si trovò ì’ua 
genero e l’ altro accoppiato col sao contrario. Lucio 
il maggiore , baldanzoso , caparbio , tiranno per indole , 
ebbesi la fanciulla , savia ^ mansueta , piena di amore 
paterno: laddove Arunle il più tenero, mite molto per genio 
e tutto affabile , se ne ebbe la iniqua, e tutta ardire, e tutta 
odio contro del padre. Ora seguiva che movendosi ognuno 
a seconda del genio suo venivane ripiegato in contrae 
rio dalla sua donna. Ardea lo scellerato dal desiderio 
di balzare il suocero dalla reggia : ma intanto che a tale 
disegno applicavasi, erane dai voti contrariato e dal pianto 
della consorte. In opposito il mite sposo , fermo in cuor 
suo che non aveasi ad offender il suocero ma che do* 
veasi aspettare che la natura ne consumasse la vita , ni 
tollerando che il fratello commettesse quella ingiustizia, 
era spinto in contrario dalia ribalda sua compagna , 
che lo istigava e garrivalo , rimproverandolo come vile. 
E poiché niente poteano nè le suppliche della savia donna 
che insinuava il suo meglio al non giusto suo sposo , 
nè le istigazioni della malvagia che provocava ai delitti 
Taomo suo, che non era temperato a commetterne; 
ma ciascuno seguiva l’indole sua tenendo per molesta la 
compagna perchè non avea desiderj uniformi ; la prima 
ne piangeva , ma comportava l’acerbo suo caso , quando 
l’altra fremevane audacissima, e cercava come togliersi 
dal sno camerata. Or qui levatasi di mente la scellerata, 
considerando quanto bene a lei si confarebbe il marito 
della sua germana , sei fa eh iamare , quasi per abboc* 
carsegli di necessarie cose. 

XXIX. E poiché fu venuto; ordinando che si riti* 


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44 DELLE Antichità’ romane 

tasserò quanti eran seco per discorrere sola con solo» 
Or su, disse, o Tarquinio posso io liberamente e 
senza pericolo ridire quanto medito pel bene di am- 
bedue ? Lo celerai tu quanto sei per udire ? o vai 
meglio che io taccia , nè palesi V arcano' consiglio ?, 
£d invitandola Tarquinio à dire, e certificandola coi 
giuramenti, qualunque ne volesse, cbe-taóerebbe i di- 
scorsi ; ella non più contenuta dalla verecondia >neO‘< 
min'ciò : E fino a quandó o ‘Tarquinio^, tu spaziata 
della reggia , ai rai tu cuore di sofiferirtelo ? Set tu 
forse d’ ignobile , d^ inglorioso lignàggio -, che non ar- 
disci d’ innalzctrti ai grandi pensieri ? Eppur san tutù 
che di Grecia essendo , e generati da Ercole gli an- 
tichi l tuoi ressero il comando supremo della fortunata 
Corinto , e per molte generazioni , come ascolto. Tar- 
quinio V avolo tuo , trasmigratosi da Tirreni in Ro- 
ma , conseguì pe’ meriti suoi di dominarvi. E tu , il 
maggior de’ nipoti , tu devi ereditare non i danari 
soli , ma la reggia di lui. Forse per la debolezza , a 
pér la deformità tua non hai tu persona che baiti a 
farla da monarca ? Hai pur tu gagliardia quanto i 
piti bennati ; hai pur bellezza , quanta è degna della 
progenie dei re. Quali dunque di tali cause ti si op- 
pongono ? niuna. Te ne distoglie forse V età tua 
troppo giovane , e troppo lontana da maturi pensie- 
ri? Per questa non ardirai porti in cima della re- 
pubblica? quando sei presso già de’ cinquanta anni ? 
Eppur gli uomini principalmente di questa età sono 
fatti pe’ consigli i piti sani. Dì : ti obbliga forse a 
reprimerti la nobiltà di chi tiene il mmando , o il 


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LlBnO IV. 45 

ben essere di lui co’ cittadini , talché non facile sia 
sopraffarlo ? No : che ambedue queste cose gli son 
centra, nè egli stesso lo ignora. Spirano i tuoi co- 
stumi ardimento : spirano non curanza ne’ pericoli , 
come i cosìunii il debbono di chi sia per regnare. 
Hai tu ricchezze che bastano > amici che abbondano , 
ed altre comodità copiose e grandi per imprendere. 
Che più, dunque t’ indugj ? u4 spetti forse il tempo che 
per sé stesso venga e ti dia la corona senza che pur 
te ne brighi ? Quando ? dopo la morte di Tullio ? 
Jippunto la fortuna riguarda gl’ indugj degl’ uomini , 
appunto la natura pon fine alle vite secondo la pro- 
porzione degli anni ! Anzi oscuro , incomprensibile è 
f esito delle cose mortali. Sebbene , io lo dirò pur 
francamente , quandi anche tu me ne chiami temera- 
ria , una a me sembra , una la causa per la quale 
niente commoveti , non l’ amor degli onori non della 
gloria. Hai tu donna mal conforme a tuoi modi; e 
questa li lusinga , e t’ incanta , £ ammollisce : e da 
questa rendalo men che uomo diverrai finalmente un 
ignoto. Così pure quel marito eh’ è meco, tutto paura, 
e senza nulla di virile , quegli ha depresso me ch’era 
nata alle grandi cose , quegli ha fatto il fiore lan- 
guir di bellezza che mi avvivava. Se portava il de- 
stino che tu prendessi me per moglie ed io te per 
marito , già non saremmo tanto tempo vivati nella 
ignobilità de’ privati. Che dunque non emendiamo le 
colpe della sorte ? che non trasmutiamo il matrimo- 
nio ? che non togli tu dalla vita cotesta tua donna ? 
Io sì che apparecchio per quel mio marito /’ egual 


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46 DELLE Antichità’ romane 

trattamento. E quando , spenti questi ^ ci sarem con- 
jugcUi y allora consulteremo con 'sicurezza sul resto , 
liberi già dagli ostacoli che ci conturbavano. Che so 
altri per cUtre cause teme la ingiustizia ; già non è 
da riprendersi chi tutto ardisce per dominate. 

XXX. Mentre Tullia cosi diceva, ne ascoltava Tai> 
quinio con diletto i disegni : e dando immantinente e 
ricevendo i pegni di fede, e le primizie dell’ empie noz- 
ze , si ritirò. Non andò guari tempo ; .e perirono p^ 
eguale sventura la primogenita di Tullio, ed il minor 
de’ Tarquinj. E qui sono astretto a far parola di nuovo 
di Fabio, e riprenderne la negligenza nell’esame dei 
tempi. Imperocché fattosi alla morte di Arante non. pecca 
per questo capo solo come io dinanzi dicea, che deaeri- 
velo per figlio di Tarqninio ; ma per l’ altro ancora che 
narra , che mortosi Arunte fu sepolto dalla madre Ta- 
naquilla , la quale non potea di que’ tempi più vivere. 
Conciossiachè giù di sopra fu dimostrato che costei nu- 
merava settantacinque anni , quando mori Tarquinio. 
Ora aggiungi a questi altri quarant’ anni , giacché sap- 
piam dagli annali che Arunte mancò nell’ anno quaran- 
tesimo del regno di Tullio; e saran gli anni di Tana- 
quilla cento quindici. Tanto picciola nelle storie di que^ 
st’ uomo é la cura intorno la ricerca del vero ! Dopo 
ciò Tarquinio senza indugio riprese in Tullia una mo- 
glie , ricevendo lei da lei stessa , e senza che la madre 
approvasse , o consolidasse il padre quelle nozze. E come 
que’ due impurissimi , come que’ due micidiali si con- 
giunsero , tentarono di cacciare se noi cedea di buon 
grado, Tullio dal trono: e teneano perciò delle con- 


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LIBRO IV. • 


Al 


venticole , e raunavano que’ senatori che aveano cuore 
alieno da lui e dalie forme di un governo’ popolare, e 
comperavano i più bisognosi della città quei che non 
Bveau cura ninna della giustizia , facendo intanto tutto 
senza nasconderlo. Tullio vedendo ciò , ne fu contur» 
baio , e temette di essere sorpreso da qualche infortu- 
nio. Nè dovrebbesi meno se dovesse far guerra alla figlia 
ed ai genero , e pigliarne vendetta come di nemiri. 
Adunque invitò molte volte Tarquinio a discorso in 
mezzo degli amici ; ora redarguendolo, ora ammonendolo 
ed ora esortandolo a non far contra lui mancamento. 
Poiché però costui non lo attendeva , e pretestava che 
direbbe in Senato i suoi diritti; egli stesso adunando il 
Senato , incominciò : Tarquinio o senatori ( e ben mi 
è ciò manifesto ) Tarquinio tien dei congressi; Tar~ 
quinio m insidia lo scettro. Io da lui voglio , pre- 
senti voi, risapere, qual privata ingiuria ha da me 
sostenuta , o qual vede che io ne ho fatta sul pub- 
blico per insidiarmi. Rispondi Tarquinio, non '{infin- 
gere , di che avresti tu mai per incolparmene? È que- 
sto il Senato , ove di essere udito desideravi. 

XXXI. E Tarquinio replicò : Breve o Tullio sarà 
il dir mio , ma giusto ; e però voleva io profferirlo 
tra questi. Tarquinio V avolo mio possedè la reggia 
di Roma , e molti e grandi travagli sostenne per essa. 
£ lui morto , io , gli debbo succedere secondo le leggi 
comuni de’ Greci e de Barbari. E convenivasi , come 
si conviene a quei che succedono agli avi , che io ne 
ereditassi non pur le monete , ma la reggia : e tu mi 
davi le une, come lasciate da esso, e mi toglievi la 


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48 DELLE Antichità’ romÀn¥ 

reggia , e già da tempo la tieni , senza averla mai 
ricevuta a norma delle leggi : perocché nè gl’ interré 
vi ti scelsero , nè i senatori mai per te davano il 
voto , nè assunto vi eri dacomizj legittimi come l’avo 
mio e come tutti i re precedenti. Tu andavi al trono,- 
e comperando e subornando per ogni modo una turba 
di vagabondi e di miseri, una turba rovinata nella 
stima per le accuse e pe’ debiti , una turba infine 
niente sollecita del pubblico bene : e così andandovi 
nemmeno dicevi di stabilirlo per te , ma davi' le viste 
di custodirlo per noi orfani e pargoletti: e dichiaravi, 
udendolo tutti , che quando saremmo già adulti , lo 
renderesti a me che sono il pià grande. Se dunque 
volevi tu far la giustizia, quando mi consegnavi la 
casa , quando il danaro dell’ avo ; dovevi tu conse- 
gnarmene nommeno la reggia seguendo V esempio dei 
tutori onorati e dabbene, i quali ponendosi alla cura 
de’ regi figli, orfani de loro padi’i, rendono ad essi 
appena son grandi puntualmente e santamente la si- 
gnoria degli antenati. Che se ancora non io semhra- 
vati idoneo a pensieri convenienti , ìiè bastante pei 
giovani anni a città si popolosa , dovevi almeno re- 
stituirmene il governo quando io giunsi ai treni anni 
che son gli anni vegeti del corpo e della mente , e 
ne’ quali tu mi davi la tua figlia in isposa. Avevi 
pur tu questa età quando prendevi la cura della no- 
stra casa e del regno. 

XXXII. Ti sarebbe , cosi facendo , accaduto di 
esserne detto pietoso e giusto , di essere il partecipe 
de’ miei consigli, il partecipe degli onori, e di udir- . 


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LIBRO IV. 49 

miti chiamar padre , e benefattore « e salvatore ; e con 
ogni bel nome , quanti ne sono destinati dagli uomini 
per le assioni le pià preziose ; nè io già da quaran- 
taquattr anni sarei privo del regno , io non informe 
di corpo , io non disadatto di mente. E ciò stando y 
osi pur dimandarmi quale aggravio io ne senta, sicché 
io labbia per inimico, e te ne accusi? Anzi dX, Tullio , 
dì per qual causa non mi stimi tu degno degli onori 
delt avo ; dì , qual ne trovi , qual ten ^ngi buon ti- 
tolo di tal mia privazione ? Non pensi forse che io 
sia germe puro di quella stirpe, ma intrusovi e spu- 
rio ? Come dunque tu curavi un estraneo da quella 
famiglia ? o come , quando ei crebbe , gliene rendevi 
la casa ? O pensi che io non lontano molto dai cin- 
quant’ anni > io pur siegua ad essere un orfano ? un 
incapace ed moneti del pubblico ? Lascia dunque gli 
schemi di domande invereconde; cessa una volta di 
esser malvagio. Che se hai giuste cose a rispondere 
io, son pronto di rimetterle a questi giudici , de’ quali 
tu non potresti ih città rinvenirne altri migliori. Ma 
se di qua levandoti ricorri tu , come sempre solevi , 
a quella tua ligia moltitudine ; già non sarà che io 
mel soffra. Io qui sono appeaecchiato disputare sul 
giusto ; ma lo sono ugualmente per eseguirmelo , se 
non mi- ascolti. 

XXXIII. Al tacere di lai ripigliando Tullio il discorso, 
così disse : Quanto è vero o senatori che dee t uomo 
aspettarsi ogtd caso pià impensato nè crederne as- 
surdo rduno, se fn questo Tarquinia sta per levarmi 

DIONlGt, tomo tZ. ' 


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5o DELLE Antichità’ homank 

dal pritKÌpato : questo Tqrquinio , else io prendea , 
che io salvava fanciulletto da’ nemici che lo insidia- 
vano , che io educava e crésceva , e cresciuto, ' com- 
piaceami di avermelo a genero, ed erede infine di 
tutto se io patissi umana vicenda. Ma poiché tutto 
mi riesce in contrario , e che ne sono ami accusato 
come ingiusto ; serberommi a piangere la mia sorte , 
rispondendo ora su miei diritti a fronte di lui. O Tar- 
quinio , io presi la cura di voi lasciati fanciullini : 
nè già di voler mio , ma costrettovi dalle brighe , la 
presi. Imperocché si dicea che quelli ette aveano ma- 
nifestamente ucciso I avolo vostro onde riprendersi il 
tròno , avrebbero occultamente insidiato • anche tutto 
il parentado : e quanti a voi per sangue si riferi- 
scono , tutti confessano , che se quelli restavan gli 
arbitri del comando , non avrebbero pur seme la- 
sciato della stirpe de’ Tarquinj. Non ci avea curar 
tore , non tutore ninno di voi se non una donna , la 
madre del vostro padre , . bisognosa ancor essa di alr 
tri curatori per la cadente età siui. Rimanevate vm 
solo a me corifidati , custode unico dell orbitade vo- 
stra , a me che ora chiami un estraneo , un che niente 
a voi si appartiene. Jn tali turbolenze ponendomi al 
comando io punii gli uccisori' deU’ avolo vostro', e ’ 
voi crebbi allo stato di uomini , nè avendomi prole 
virile , io vi eleggea ^perchè à me succedeste. E que- 
sto o Tarquinio il discarico della mia ‘cura; nè già 
potresti in parte alcuna imputarmene di menzogna, . 

XXXIV. Ma quanto al regno , poiché di questo mi 
accusi, odi come io me ìo abbia^ e le Cause per le quali 


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LIBRO IV. 5l 

10 non a voi lo ceda , nè ad altri. Quando io presi 

11 governo , avvedutomi che mi si tramavano delle 
insidie , volea nelle mani riporlo del popolo. E chia- 
mando tutti a concioAe , io già faceami a cedere il 
comando per cambiare con una vita di calma e senza 
pericoli^ la vita del comcmdare , la quale è piena di 
invidia ,■ e sparsa pià di amarezze che di piaceri. Non 
comportarono i Romani che io tanto eseguissi , nè 
vollero alcun altro sul Comune , e me ritennero , ed 
a me diedero col consenso de’ voti , il régno , quel 
possesso loro, o Tarquinia , e non vostro. Così pure 
l'Oveano già dato all’ avolo vostro tuttoché forestiero, 
e niente congiunto col re precedente ; sebbene Anco 
Marzio lasciava de’ figli maschi e floridi per anni ^ 
e non de’ nipoti , e piccioli , come Tarquinio voi la- 
sciò. Se legge è comune di tutti, che chi eredita le 
sostanze e i danari dei rei che cessano , debba in- 
sieme r,iceverne il regno , dunque non fu Tarquinio 
l’ avolo vostro che al morire di Anco ottenne là co- 
tona , ma il figlio primogenito di questo. Ma il po- 
polo di Roma chiama al comando t uomo degno di 
averlo, e non il successore del p’adre. Imperciocché 
giudica che le sostanze sieno di chi le possiede, ma 
che il regno sia di quelli che il diedero ; giudica con- 
venirsi che ottengano quelle gli eredi per sangue o 
per testamento se i padroni sén muojono , e che tomi 
l’ altro a chi ’l diede se vien meno chi preselo a reg- 
gere •; se non forse hai tu da contrappormi che I avolo 
tuo ricevette il regno con tal condizione che non po- 
tesse pià tortegli, e che lo tramandasse a voi suoi 



5a DELLE antichità’ homane 

discendenti; sicché non fosse pià t arbitro esso po- 
polo, di conferirlo a m«, levandolo a voi. Ma se hai 
tu punto di simile, che noi produci? Ma non gli 
hai tu questi patti. Che se io non ebbi il regno per 
buona via come dici , non- eletto dagf interré , noti 
portato dai senatori agli cffari, né compiendo il re- 
sto a norma dette leggi; questi dunque, .questi ho 

10 vilipesi e non te : e questi e non tu , saria giusto 
che V autorità men finissero. Ma nè io violai questi, 
né cdtro chiunque. Jl tempo tn é buon testimonio’, che 

11 potere mi fu dato legittimamente, e che legittima^ 
mente mel tengo. Imperocché già ne volge I armo 
quarantesimo e niun Romano pensò mai che io com- 
mettessi , avendolo , una ingiustizia ; e non il po- 
polo, non il Senato mai si mosse a spogliarmene. 

XXXV. Ma lascisi pur tutto ità : diasi pur luogo 
alle tue ragioni. Se io te privava di un deposito del- 
t avo , se io mi ascrissi il tuo regno contro . tutti i 
diritti degli uomini, convenivasi che tu a quelli ne 
andassi che mel diedero : che con quelli ti ramari- 
cassi e garrissi che io mi tenga te cose non 'mie ; è 
che essi mi si obbligarono col dispensarmi t. altrui: 
e se tu il vero dicevi; di teneri gli [avresti persiut- 
si. Che se tu non certificavi ciò co- tuoi parlari ; e 
tuttavia pensavi , indebita cosa che io regnassi, e che 
tu sei pià acconcio al maneggio del pubblico ; potevi 
almeno , fatta ricerca diligente de miei errori , e nu- 
merate le belle tue gesta , riclamartene giuridicamente 
la precedenza. Ma tu non hai fatta, nè luna nè F al- 
tra cosa; e dopo tanto tempo , finalmente , quasi ria- 


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LIBRO rv. 53 

vendati da lunga ebbrietà , vieni per accusarmene » e 
nemmen ora dove si dee. Canciossiachè, già non con- 
viene che queste cose qui dichi ( e voi non ve ne sde- 
gnate o Padri., mentre io cosi parlo non perchè vi 
si tolga questa causa , ma per dichiararvi li costui 
vanilotfuj ) , ma conveniva che preaccennandomi tu. 
che aduneresti il popolo a conciane là mi accusassi. 
Ora ciocché hai tu schivato , lo supplirò io questo per 
te :• convocherò il popolo , lo Jarò giudice delle Mense 
che òuoi : lascerò che decida di nuovo , qual sia pià 
idoneo di nói per comandare ; e quello che là desti- 
nasi, quello adempirò. Ma basti il fin qui detto a 
risponderti : perciocché toma allo stesso dir poche o 
molte ra^ni eon emoli che non le apprezzano , men-, 
tre questi per indole nemmen soffrono ciocché li per-, 
suada ad essere umani. 

^XXXYl. Ben io mi meravigliava o senatóri che 
sdeuni di voi (se ve ne sono ) volendo depor me , co- 
spirassero con costui. F^olentieri udirei da loro per 
qual mia ingiustizia mi fan guerra, o da quale mio 
trattò inaspriti. Sanno essi forse che assai nel mio 
principato , perirono senza essere uditi, assai furono 
spogliati, di patria , assai delle sostanze, o con altro 
sciagure affitti ? o non avendo a ridire su me niun 
tirànnico modo di questi , sono essi forse conseqtevoli 
delle, mogli lóro da ma disonorate ; delle prof ansate 
loro verini figlie, o di tal altra mia incontinenza su 
ingenue persone ? Egli è giusto se in me sorto tali 
eplpe , che io sia , nonuì del regno privato , che della 
vita. O può .dire alcuno che un superbo io sono , un 


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54 DELIE Antichità’ bomane 
esoso per la mia durezza, un-iiHollerabile per la mia 
caparbietà nel governare ? Qual mai dei re predeces- ■ 
sori fu così moderato , così umano nel suo potere ,« 
o qual fu con tutti come me , quasi un tenero patire 
co’ figli? Io quel potere che voi mi deste, voi custodi 
di ciò che avete dagli avi ricevuto io non lo volli 
questo nemmen per intero : ma creai leggi, ( e voi le 
approvaste queste leggi) su cose principalissime ,• e 
le intimai perchè tutti esigeste e rendeste cots-esse i 
diritti , ed io stesso il primo mi vi sottoposi , docile 
come un privato agli ordini , che io dava per nitri. 
Che più : non io mi tenni giudice di tutte le ingiusti-‘ 
zie ; ma commisi che voi stessi giudicaste delle pri-, 
vate} ciocché ninno uvea fatto dei re precedenti. ^Laon* 
de , non vedesi in me colpa sicché altri me ne con- 
trarino. O turbano voi forse i benefizf miei verso del 
popolo ? Ma non sarebbe così pensare un offendeivi ! 
se già tante volte con voi me ne giustificai. Se non- 
ché niente bisognano discorsi tali : se a voi pare che- 
questo Tarquinio , preso il govermo, sia per ammii- 
nistrarvelo anche meglio : io non invidio a . Roma .il 
suo miglior principe. Restituendo il comandò al po-^ 
polo che mel diede, e tornandomi tra privati , farò 
che vedasi chiaramente che io sapea tanto, ben' «io» 
minare , ' quanto io posso dignitosamente servire^ .< 

‘ XXXYII. Dette queste cose ; e coperti di confusione 
quelli che contra lui congiuravano , dimise 1’ aduaan»; 
Quindi chiamati li banditori , oHinò che recatisi- io sn-, 
tutti i qnadrivj , invitassero il popolo a raccogliersi. Ed 
essendo la urbana moltitudine accorsa al Foro , egli 


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tIBRO IV. > 55 

ascese in tribuna , e tennevi un patetico e Inngo ragio- 
namento óve numerò le gesta militari eh’ egli iece men- 
tre viveva Tarquinio e dopo , e .ricordò mano a mano 
le istitnaioni donde sembrava il Cornane prosperato di, 
molte ; e grandi utilità. E venendogli dal dir di ogni fatto 
-amplissime lodi, e desiderando ornai tutti sapere perchè 
li ridicesse , palesò finalmente come Tarquinio accusa- • 
vaio di' egli tenesse a torto un regno che a lui si do- 
veva : e come apaigeva che l’avolo gli avea nel morire 
lasciato con le ricchezze anche, il regno , e che non po-, 
teva il popolo concedere ciocché suo non era. E qui 
-^Vegliatosi in tutti clamore , ed. indignazione , egli inti- 
mando silenzio, piega vali, che non impazientissero nè 
tumultuassero a quel dire : ma chiamassero Tarquimo , 
e se. forse aveva giuste cose da esporre le conoscessero: 
e se lo trovassero offeso, e se. piò idoneo a reggere , 
gli affidassero pure il comando di Roma : egli se ne al- 
lontanerebbe , e renderebbelo ad essi da’ quali lo .ebbe. 
Cosi lui dicendo e movendosi già per,i iscendere dalla 
' tribiina , , proruppe da tutti un grido , un gemito , un 
pregar vivo ebe non cederne ad alui.il comando. E ci 
avea por chi esclamava elve si avesse a tempestare Tar- 
qninio : e colui , vista in fremito la moltitudine, temendo 
che non gli desser di mano ; foggiasene cogli amici in 
casa. Allora tripudiando tutto il popolo ricondusse tra 
gli applausi e le acclamazioai Tullio alla reggia. 

■ X^XVllL Tarquinio, veuutogK meno, quel tentativo, 
fremè dal rancore, che il Senato non gli dess^ alcnn 
aiuto, quàndo egli fidava su questo principalmente; e 
teuniesi per alcun* tempo in casa non conversandolo che 


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56 DELLE Antichità’ romane 

gli amici. Quando la donna sua gli si fece a dire elle 
più non dovea star mollemente a bada , ma ebe dovea^ 
lasciate le parole , Tenire ai fatti, e primieramente cer- 
car pace per mezzo degli amici da Tnib'o , perché co- 
lui credendoselo riconciliato, meno il guardasse. E pa- 
rendogli eh’ ella ben consigliasse , finse di esser pentito, 
e più volle per .mezzo degli amici Orò caldamente Tul- 
lio affinchè lo perdonasse ; né difficilmente ve lo indusse, 
essendo placabilissimo per indole, ed alieno da nna guerra 
inestinguibile colla figlia e col genero. Ma venutogli po- 
scia il buon ponto , essendo il popolo sparso ne’ campi 
per la raccolta , egli usci cìnto di amici co’pngnali sotto ' 
d^li abiti: dati i fasci ad alcuni de’ servi, e* presa per 
se regia veste ed altri simboli del comando , si recò net 
F oro ; e standosi dinanzi la Curia , intimò che il ban- 
ditore convocasse il Senato. E siccome ci aveanO già pel 
Foro appostatàmente molti de’Patrizj consapevoli ed isti- 
gatori del delitto ; allora si concentrarono. Intanto corso 
alcuno in casa di Tullio lo informa come Tarquinio' ersi 
uscito con regie vesti , e chiamava i Padri a consiglio. 
Stupitosi Tullio dell’ ardimento andò tra piccfolo seguito 
con più velocità che saviezza: e giunto nella Curia) e 
vedutolo in sul trono , e con gli altri distintivi reali , 
chi , disse , chi , scelleratissimo uomo , ti concedè que- 
sti onori? e colui, /ìi, replicò, l’ardire tuo; fu la 
tua inverecondia o J\dlio ; perocché non essendo tu 
libero , ma servo nato da serva « e posseduto qual pri- 
gioniero dalT avolo mio, ti arrogasti il comando di 
Roma. Tullio , ciò udendo , inaspritone , à biqciò fnor 
di proposito su lui , come per isbalzaflo dal trono. Vide 


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tlBKO IV. 5'J 

TaitjaÌDio ciò con diletto ^ e sorgendo dalla regia sede 
afferra e trasportasi Ini vecchio , che grida , ed invoca 
i suoi. Giunto fuori della Curia egli florido e forte, le* 
vaio in alto > e trabalzalo giù per le scale che mettono 
al luogo de* contizj. Alzatosi appena dalla caduta il vec- 
chio , cóme vide intorno , pieno tutto de* partigiaui di 
Tarquioio , e deserto e vuoto de* cari suoi , partesene 
malconcio e mesto con pochi che lo sostengono , e ri- 
coóducoDO , mentre riga intanto la via di sangue. 

XXXIX. Narransi dopo ciò le opere dell’ empia e 
barbara figlia, tremende ad udirsi, come portentose nè 
credibili a farsi. Costei sentendo che il padre era ito in 
Senato vogliosissima di conoscerne la fine , venne in sul 
cocchio nel Foro : e conosciutavela , e veduto Tarqui- 
nio in su le scale della Curia , essa la prima a gran 
voce lo salutò monarcA , supplicando gF Iddii , che il 
regno di hii riuscisse propizio a Roma. E salutandolo 
monarca altri ancora de’ cooperatori suoi , • lo trasse in 
disparte e di^se: Le prime cose o Tarquinia te hai 
Ut faUe come àoveansL Ma finché vive TuUio non 
potrpi renderli stabile il regno. Egli se abbia picciolo 
tempo di questo giorno ; ecciterattene incontro il po- 
polo ; e tu sai’ quanto il popolo tutto è per lui. Su 
dunque' prima ih* ei torni in casa , manda chi lo uo 
cida ; te ne libera. Ciò detto , e sedutasi di nuovo in 
sul cocchio ,. parti. Tarquinio convinto che la iniquis- 
sima donna ben consigliava , spediscegli contro alquanti 
de’ suoi ■ co* brandi : e quelli trascorrendo rapidissima- 
ménte la via raggiunsero Tullio pressò la casa , e lo 
uccisero. Abbandonato palpitavane ancora il cadavere 



58 DELLE antichità’ BOMANE 

per la strage recente ; quando la figlia sopraggiunge : 
ma stretta essendo la via donde avessi à passare le 
mule a tal vista si spaventarono : e 1’ auriga stesso .che 
le guidava mosso da compassione si fermò e si volse 
a colei. La quale dimandandogli perchè mai non pro- 
cedesse : Non vedi , disse , o Tullia , che qui giace U 
morto tuo padre , nè vi è transito fuorché, sul cada-* 
vere suo ? E sdegnatasene quella , e levatosi lo scAbello 
da’ piedi e lanciatoglielo disse : ’E non le guidi o stolto 
in sul morto ? E colni gemendo anzi per la compas- 
sione elle per la percossa spinse forzosamente le mole 
so del cadavere: E la via chiamata Olbia (i) per ad- 
dietro, fu dopo il tragico e barfiAro caso, detta nélF i— 
dioma de* Romani scellerata. ' ‘ 

XL. Tale fii il termine di Tullio dopo quaranta- 
quattro anni di regno. Dicono che qnest’nomo il primo 
alterasse ì patrii costnmi e le leggi .ricevendo il prin- 
cipato non' dal Senato insieme, e dal popolo come 
tatti i re precedenti ma dal popolo . sedo , guadagnane 
dosene la classe > indige nte con' distribnzione e'donii, ^ 
altri sedncimentL E cosi sta la'veritè; perciocché' nei 

•> *- 

(l) OAjStar >0 greco saU fiUce , firtunaUn sareiiba il teina che 
la vìa ftlice fortunata fu delta scelterata pel delitto. Alcuni leggono 
»va-fi»s io luogo di tXfittf, certamente, secondo che scrive Var— 
rime nel lib. ^ , de lingua laiina, i Sabini quando tinnirono ai Ro- 
mani , chiamarono Cipria la contrada di Roma nella quale si allog- 
giarono come per buono angario, perché Cjrprwn tra’ SaiNui tigni— 
Scava il bene. E secondo ciò la contrada, detta Cipria o. buona dni 
Sabiui pel buon augurio, sarebbe appunto quella ghe fu. poi della 
scrllerata per la empietà commessavi. Ma Varrone .scrive che questa 
contrade cran prossime , e non già le. medesime. 


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LIBRO IV. 



prifni tempi quando un re moriva , il popolo dava al 
corpo del Senato la podestà di stabilire la forma che 
pià volessero di governo, ed il Senato nominava gl’in- 
terré, e gl’ interré sceglievano per sovrano 1’ uom più 
pregevole sia de’ cittadini , sia de’ nazionali, sia de’ fo- 
restieri : e se il Senato ’ne approvava la scelta, se il po- 
polo co^ voti suoi r aotorizzava , se gli anspizj la con- 
fermavano, còlui prendeva il comando. Che se mancava 
alcuna di queste condizioni, ne; nominavano nn 'secon- 
do ; e poi un terzo, se avveniva che il secondo non 
avesse propiziò quanto era d’ uopo dal cielo e dagli' 
notami. Ma Tullio, come innanzi fu detto, assumendo 
in ■principiò il carattere di regio tutore , e poi guada- 
gnandosi il popolo con gli amorevoli modi', fu -re no- 
minata solamente da quello* Poi • diportandosi come uo- 
mo temperato e clemente fe' colle opere successive ta- 
cere le accuse*, che non avesse* adempita ogni cosa a 
norma delle Ipggi ; lasciando a > molti il 'sospetto , che 
se non era presto > levata; avrebbe' ridotto- lo Stato- a 
forma di una repubblica. E (|nesta é la cagion princi- 
pale. per «ui dicesi che alenai de’ palrizj lo insidiassero^ 
Pionr potendo con altro modo hnirne il comando , ini- 
sero -TarqUinie alla impresa e gli cooperarono il regno^ 
per voglia di deprimere -il •'popolo fornài troppo potente 
pel ' governo < di Tullio , e 'di ricuperare la dignità ;Che 
essi da prima si àveano. Levatosi' per tmta- Uà* città ro- 
more e pianto per. lanùn-te di Tullio;' e temendo Tar- 
quinio che se ne fosse portata il cadavere, come- è ro- 
mana consuetudine, pel Foro con regia pompa e con 
gli altri ittóebri riti uon- sorgesse ; coatra lu) T ira po- 


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60 DELLK AICTICHITa’ ROMANE 

polare prima che si avesse consolidato il comando; non 
permise che a lui si rendessero gli asati onori. . Sola^ | 

con pochi amici , la moglie di Tullio e 6glia insieme | 

deir antico re Tarcpinio ne portò di notte fuori della I 

città le morte spoglie quasi le comuni è vili di lin pii- • 

vato ; e piangendo la sorte infelice sua , e mille fa- | 

cendo imprecazioni alla figlia ed al genero lo sep- 
pellì. Di là tornatasi in casa , e sopravvivendo alla sepol> 
tura un giorno ; nella prossima notte spirò. S’ ignorava 
però da molti la maniera del termine suo. Diceano al- 
cuni eh' ella stessa aveasi data da sé la morte , an- 
teponendola al vivere. Altri però diceano che era 
stata uccisa dalla figlia e dal genero come troppo ad- 
dolorata e benevola inverso lo sposo. Per queste ca- 
gioni il corpo di Tullio fii privo di regj funerali , e di 
magnifico monumento : conseguì però coUe opere sue 
memoria perenne in tutti, i tempi. Anzi quanto iegU | 
fosse caro agl’ Iddìi lo., fece eziandio palése nu se- 
gno celeste : dond’ è che alcuni tennero ancora per vera 
la opinione incredibile e fiivolosa intorno la nascita sua 
come dianzi fa detto. Appiccatosi il fuoco id tempio 
delia fortuna , che egli area già fabbricato, mentre tutto 
era preda delle fiamme ne rimase intatta solamente la 
statua di lui in legno dorato. . Il tempio e quanto .è' nel 
tempio rifabbricati dopo l’ incendip sul modo antico 
presentano le traccie di un’ arte recente: ma la statua , 
antica com* era nelle fattezz^. vi riscuote ancora il qulto 
dai Romani. E ciò è quanto abbiamo ricevuto sopra 
Tullio.» . , 

XLI. Dopo di lui prese la siguoria di Roma Laicìo 


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LIBRO IV. . 6l 

Tar^illnio non gi^ fecondo le log^ ma colle armi nel- 
r anno quarto dell* olimpiade sessantesima prima nella 
quale vinse nello stadio Agatarco , essendo arconte di 
Atene Tericleo (i). Cosmi spigando la popolar mol- 
titudine , spregiando i patria] da’ quali era stato con- 
dotto al trono, e confondendo e sconciando ogni co- 
stume- e legge e disciplina colla quale i re precedenti 
ave'ano dato forma a Roma; rivolse il governo in nna 
manifesta tirannide. E primieramente mise intorno a sé 
guardie di bravi , naaionali ed esteri , con spade e lan* 
ce, i quali vegliando di notte negli atrj della reggia , 
é scortandolo di giorno, ovnnqne ne andasse, lo scber» 
missero appieno dalle insidie.' Inoltre non usciva nè di 
continuo , né con periodo certo , ma di raro , e quando 
non aspettavasi. Deliberava su le cose comuni molto 
in sua casa , e poco nel F oro , in mezzo a’ parenti più 
stretti cbe lo guardavano. Non concedette che alcuno 
di quei che il volevano si presentasse a Ini se noi 
chiamava : e presentatoglisi , non era giè con esso , 
compiacevole e mite , ma grave ed aspro ' come un ti- 
ranno, e terrìbile ansi che gioviale a vedere. Definiva 
le controversie su’ contratti in conformità de’ costumi 
suoi , non delle leggi e del dritto. Per le quali cagioni 
i Romani lo denominaron superbo , ciocché nell’idioma 
nostro vuoi dire soperchiatore contrassegnando l’ avo 
col soprannome di Prisco, o come noi diremo antico 
per nascita, giacché quello aveva i nomi appunto del 
giovine. 

(i) NelP annp »e di Roma secondo Catone, a» seconde Vat- 
reus , e &3a avanti Cristo. 


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6a DELLE antichità’ ROMANE 

' XLI. Qaaado poi concepì di aver già consolidato il 
suo regno , concertandosene co’ più ribaldi de’ suoi ami> 
d, avviluppò tra accuse capitali i piò cospicui de’ cit- 
tadini ; e primieramente i contrari suoi , quei che già 
non^voleano che Tullio si levasse dal trono , e quindi 
altri li quali immaginavaseli malcontenti del cambia- 
mento , o li quali abbondassero di riccbezae. Coloro 
che in giudizio li riducevano, gli accusavano l’un dopo 
l’altro con delitti falsi, e con quello specialmente che 
tendevano insidie al re che ne era il giudice. Ed egli 
quali ne condannava alla morte , e quali all’ esilio: e 
confiscati i beni degU uccisi o banditi , dispensavane 
alcun poco tra gli accusatori , serbandone la piò gran 
parte per sè. Pertanto molli de’primar} vedendo le ca> 
gioni per le quali erano insidiati, lasciarono , prima di 
essere complicati in delitti, Roma tutta al Uranno. Vi 
furono pure alcuni sorpresi ed oppressi di furto da lui 
nelle case o ne’ campi : uomini ben degni di riguardo , 
ma non piò sen trovarono nemmeno i cadaveri. Di- 
Btrutla così la maggior parte del Senato con su*agi e 
con esilii perpetui la supplì con chiamare agli onori di 
quei che mancavano i propri amici: nè però concedette 
loro di fare o dire se non quanto egli avesse prescritto. 
Tanto che li senatori già scelti da Tullio , e superstiti 
ancora nel Senato , e contrarj fin’allora al popolo sul 
concetto che la mutazione tornerebbe in lor bene per 
le promesse avutene da Tarquinio ingannevoli e tradi- 
uici , vedendo infine che non aveano piò parte nelle 
pubbliche cose, anzi che aveano' come il popcdo per* 
dula la libertà ne sospiravano : ma temendo un avve- 


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.LIBRO IV. 63 

nire ancor più tetribile , nè potendo impedire «pianto 
faceagi , chctaronsi necessariamente a’ mali presenti. 

XLllI. Or vedendo il popolo dò , pensava che stesse 
lor bene , e godea sul «Hintraccambio , quasi là tt> 
rannida foste per essere 'grave a quelli soltanto e non 
pericolosa per lui ; quando non molto dopo ne vennero 
i mali ancora più su di esso : imperocché Tarquinio 
annullò tutte le leggi di Tallio per le quali il popolo 
rendeva ed esigeva il giusto con diritti eguali senza es> 
seme come prima sovverchiato da’ patria) ne’ contratti : 
né lasciò pur le tavole dove erano scritte , ma fattele 
levare dal Foro le distrusse. Poi tolse i daz) , propoiv 
zionevoli ai registri delle sostanze , tassandoli novamente 
sul modo antico. E se mai bisognavano a lui denari, 
Contribuivane il più ' povero quanto il più ricco. Or 
tale regolamento esaurì subito colla prima imposizione 
gran parte dei popolo; essendo astretti a pagare dieci 
dramme a testa. Intimò 'che non più si facessero quei 
concor» , quanti sen facevano per villaggi, per curie', 
o per vicinati , a Roma , o nella campagna in occasione 
di feste o sagri6zj comuni , perchè riuneudovisi molti 
non vi macchinassero occultamente fra loro di abbattere 
il principato. Ci aveano qua e là disseminati , ignoti 
osservatori e spie dei detti e de’ fatti , e questi intra< 
mettendosi a' colloquj , e talvolta malignando essi ap> 
punto contro il governo scandagliavano gli animi: e se 
scoprivano alcuno esasperato da’ mali introdotti lo in- 
(xilpavano presso del tiranno: ed aspre» irreparabili ne 
erano le pene , se restava convinto. > 

XLIY. Né gli bastò di abusate m tal modo' del po- 



64 DELLE ANTIC&ITa’ ROMANE 

polo : ma raccogliendo dal meazo di esso quanti ci area 
6di e proprj per la gnerra , astrinse gli altri a lavorare 
in città, riputando che i re moltinimo pericolano, ae 
i più scellerati e poveri stieno oziosi. E desiderando vi- 
vamente che si ultimassero nel suo regno le opere la- 
sciate imperfètte dall’ avo suo, che si continuassero; fino 
al fiume le cloache cominciate da quello e si circondasse 
di portici coperti il Circo Massimo il quale -non aveane 
che le gradinate; si applicarono a questo lavoro; e ne i 
ottennero parco frumento i poveri , altri tagliandone i 
materiali, altri guidando i carri che li trasportavano, ed 
altri portando su le spalle i pesi. Chi scavava sotterra- 
nei canali e largure : chi facea volte in essi ; e chi s<d- 
levava de’ portici. In servigio intanto di questi fabbri 
erano ferraj , falegnami, scarpellinf succati da’proprj la- 
vori, e tenuti ne* pubblicL Eserduto il popolo in tali 
travagli non prendea requie ninna; untochè li patrizj ve- ^ 
dendo que’ lor mali e quella schiavitù se ne racconsola- 
vano in parte, e scordavano i proprj mali: non. però ' 
nè gii uni nè gli altri si attentavano d’impedire quanto 
facevasi. 

XLY. Considerando Tarquinio che chi non riceve 
il comando per legittime vie, ma lo usurpa colle arme 
abbisogna di guardia interna non solo ma di estera , 
cercò di rendersi amico l’ uomo più cospicuo *e piò 
potente di tutti i Latini , nominato Ottavio Mamilio , 
congiungendoselo col matrimonio 'della figlia. Derivava 
costui la origine da Telegono figliuolo di Ulisse e di 
Circe, ed abitava nella dttà del Tnscolo. Godea la £a- 
ma di bnon politico e di buon capitano. Rendatosi 


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LIBRO IV. 65 

amico quest’ uomo , e con lui coaciliatisi i magistrati 
più grandi ogni città , si accinse allora 6nalmente a 
tentare aperte guerre , e movere le armi contro i Sa- 
bini che. non: più volevano ubbidirne i comandi , pen- 
sandosene sciolti 6n dalla morte di Tullio , col quale 
aveano firmcito gli accordi. Conosduto ciò fece inten- 
dere pe’ messaggieri agli usati di raccogliersi a consiglio 
in nome de’ Latini che si recassero alia dieta la quale 
tenevasi in Ferentino; destinando il giorno nel quale 
tratterebbe con essi di comuni gravissime cose. Fransi 
questi colà presentati ; ' nè Tarquinio che ve gli avea 
convocati , appariva. E poiché 1’ aspettarvelo ornai dive- 
niva tloppo , anzi ingiurioso pareva ai più del consiglio 
riunito ; un tale che abiùiva a Coriolo (i) uomo po- 
tènte' per amici e sostanze, valevole in guerra, né in- 
facondo nelle cose civili , chiamato Turno Erdonio , ni* 
mico a Mamilio per ambizion di governo, e sdegnato 
€»>n. Tarquinio perché aveasi scelto Mamilio per genero 
e non lui , fece uda lunga accusa di Tarquinio nmne- 
randone le op^re di orgoglio e di soperchieria , come 
il nou essere venuto in consiglio, dove eran già tutti, 
e dove gli aveva esso • stesso invitati. Difendealo Ma- 
roilio , imputando l’ indugio a cause urgenti^ime, e chie- 
dea che diiferissero ; e differirono il consiglio al prossi- 
mo giorno , indotti dai suo parlare i Latini. 

(t) Livio nel lib. i dice che era della Aiceia : Tur /mi Herdo- 
»iui ai Arida. Forte la gran vicinanta di Coriolo e dell'.tfr(cM 
Ccce prender l’nna per l’altro. Coriolo era fra i terrìtorj Amiate, 
Ardcatinp , ed Aricino , tal monte Giov». 

toJOttlQI tomo Jl. % 


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66 DELLE antichità’ ROMANE 

XLYI. Giunto nel giorno appresso Tarquinio , e con- 
gregato il consiglio , e toccato di volo l’ ittjiagio suo ^ 
fecesi a discorrere della preminenea che a lui cecnpe-* 
teva come posseduta già dall’avo per la forza delle armi; 
e presentò gli accordi delle città fatti ctm quello. Lungo 
fu il suo ragionamento intorno dei diritti -e def patti; e 
grandi le premesse di beneficare le città se amiche gli 
si tenessero , e provocavale infine a far guerra con esso 
ai Sabini. Come dié fine al dir suo. Turno recatosi in- 
nanzi accusava la tardanza di lui, nè permetteva che li 
compagni gli cedessero il principato, perchè nè dovuto 
a lui per giustizia , nè possibile a darsegli con utile dei 
Latini. E molto ragionò su l’nna e su l’altra cosa dicendo 
che i patti che avean segnati ccfll’avo suo quando gli ac- 
cordarono la sovranità finirono colla sua morte, per non 
essere scritto in quelli che il dono esienderebbesi anche 
ai posteri suoi. E qui dimostrava eh' egli chè pretendeva 
succedere ai diritti dell’avo, era il più ingiusto, e mal- 
vagio ' de’ mortali : e ne allegava le opere da lui latte 
per aversi il comando di Roma. Adunque scorrende^ i 
tremendi e molti suoi delitti , conchiuse infine che egli 
non tenea legittimamente nemmeno Roma, non aven- 
dola come i re precedenti ricevuta da’sudditi spontanei.; 
Egli t lui presa , disse , colla violenza e ' colle armi: & 
fondatavi la tirannide , uccide , esilia, confisca , e tò- 
glievi fin la libertà di parlare, non che quella del vi~ 
vere. Ben sarebbe grande la stoltezza, grande la in- 
giuria inverso gli Iddj ripwmetlersi mai tratti umani 
e benevoli da un empio e da uno scellerato , e cre- 
dere che chi non ha perdonato nemmeno agi intimi 


t 


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LIBRO IV. 67 

ruoi j nemmeno al suo sangue , risparmi poi gli altri. 
Esorlavali dunqne giacché noa eransi ancora sottoposti 
al giogo , a combatto^ per non sottoporvisi. Da ciò che 
pativano gli altri di terribile argomentassero ciocché sa* 
rdibero essi per sopportare. 

XLVII. Vaiatosi Turno di questo discorso, ed assai 
commossine i più; Tarqainio dimandò per difendersene 
il giorno seguente , e lo ebbe. E sciolto appena il con- 
siglio ; convocati i suoi più intimi , esaminò con essi 
ciocch’ era utile a farsi. £ quali suggerivano le ruposte 
di apologia , quali ragionavano fra loro de’ mezzi onde 
era da blandirsi la moltitudine. Soggiunse Tarquinio 
che niente di ciò bisognava, e disse il parer suo di le* 
vare l’accusatore , anziché di purgarsi dalle accuse. E lo« 
datone da tutti e concertatosi con essi; pigliò tali vie 
per l’intento, quali non sarebbero cadute in mente di 
uomo che macchina o si difende. Imperciocché cercati 
U servi più rei che menavano i giumenti o curavano le 
robbe di Turno , e corrottili con argento , gl’ indusse a 
prendere da sé stesso nella notte assai spade e portarle 
nell’ ospizio del padrone e nasconderle , e lasciargliele 
tra le bagaglio. Poi nel giorno appresso , riunitosi il 
consiglio, e venutovi : Breve è , disse , topologia su le 
mie colpe , e giudice ne stabilisco t accusatore mede^ 
simo. Questo Turno , o compagni , giudice stabilito 
delle reitadi che ora mi ascrive , questo da tutte as- 
solveami già, quando chiese in isposa la mia figlia. 
Ma poiché ne fu rigettato , com' era ben giusto ( im- 
perocché qual savio mai rispinto avrebbe Mamilio, un 
si nobile , un sì potente Latino , e prescelto avrebbe 


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68 DELLE antichità’ ROMANE 

per genero costui, che mal può delincar la sua stirpe, 
fino al trisavolo ? ) poiché ne fu rigettato, indispetti- 
tone mi assalisce colle accuse. Doveva , se per tale mi 
conoscea qual mi accusa, non desiderarmi per suo- 
cero : o se mi tenea per onesto quando mi chiese ‘la 
figlia, non doveami ora come un ribaldo accusare. 
E ciò basti su mei perciocché non si debbe ora più 
discutere se buono o malvagio io mi sia , quando voi, 
o compagni , voi correte il più grave de’pericoli. E. su 
me potete aruor dopo chiarirvi : ben ora dee colla sal- 
vezza vostra la libertà provvedersi della patria. 1 pri- 
marj delle città , quei che ne maneggiano il pubblico, 
tutti sono insidiati da questo bel capo-popolo, il quale 
apparecchiasi , uccidendo i più cospicui, torsi il regno 
del Lazio. E questo , questo é il fine che qua lo 
menava. Né già io parlo immaginando , ma di pienis- 
sima scienza , datami nella notte andata da uno dei 
complici della congiura. E se voi vorrete meco alt ospi- 
zio di costui venire, io ven darò documento infallibile 
del dir mio, le armi che vi occxdla. 

XLVIII. Or lui cosi parlando sciamarono tutti, e chie> 
sero , temendo per sè , che certificasse il fatto , . non gK 
illudesse. E Torno, come lui che non avea preveduto 
le insidie, disse che volentieri ricevea la inquisizione, 
e chiamò li primarj per compierla , aggiungendo che se- 
guirebbe l’una delle due, o che egli morirebbe se il 
trovassero con apparecchio di altre arme che pel viag- 
gio , o che le pene sue subirebbe chi lo calunniava. 
Cosi piacque ; ed andarono e trovarono nelf albergo cU 
liti tra le bagaglie le spade na$costevi da’ servi. ÀUora 


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LIBRO lY. 69 

Dòn lasciando nemmen che parlasse gillarono Turno in 
UDS voragine , e coprendolo , vivo ancora , di terra lo 
aterminaron sul fatto. Ed encomiando nell’adunanza Tar> 
quinio come benefattore comune delle città, perchè ne 
àvea salvalo gli ottimati , lo crearono capo della nazione 
co’ diritti appunto co’ quali ne aveano già creato Tarqui« 
nio r avolo suo , e poi Tullio. Scrissero in su colonne 
que’ patti , e datosene il giuramento per la osservanza , 
si congedarono. 

XLIX. Tarquinio divenuto capo de’ Latini spedì mes- 
saggeri alle città degli Eroici e de’ Yolsci invitandoli a 
far seco amicizia ed alleanza. Ma de’ Volaci due sole 
cittadi Echetra, ed Anzio secondarono l’ invito ; laddove 
gli Eroici si decisero tutti per 1’ alleanza. Ora curando 
Tarquinio che gli accordi colle città si conservassero in 
ogni volger di tempo ; deliberò fissare un tempio co- 
mune ai Romani , ai Latini , agli Eroici ed ai Volaci 
confederatisi, perchè riunendosi ogni anno al luogo de- 
stinato vi mercantassero , e banchettassero , partecipando 
de’sagrifizj medesimi. Ed ascolundone tutti con piacere 
la idea , scelse quanto era possibile in mezzo de’ popoli 
per luogo della riunione il monte sublime , il quale so- 
vrasta alla città di Alba : e dichiarò per legge che in 
questo fbsser le fiere, in questo fosse triegua di tutti 
in verso di tutti , e conviti si facessero e sacrifizi co- 
muni a Giove detto Laziale , prescrivendo quanta parte 
dovesse ogni città contribuire per essi , e quanta rice- 
verne. QuaranUsette furono le città compartecipi delle 
feste e de’ sacrifizj ; e tali sagrifizj e tali feste le conti* 
nuano ancoc di presente i Romani che Laiine le chia* 


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'jo DELLE Antichità’ homane 

maoo. I^e città compagne nel sagrificare portano agnelli^' 
o cacio , o latte , o tal’ altra oblazione in fratti e fari- 
ne. Immolandosi però da tutte un sol toro, ciascuna 
prendeane per sè la parte stabilitale. Il sagnfizio è per 
tutti , ma presiedono al rito santo i Romani. 

^ L. Poi cb’ ebbe rassodato il regno con tali confedera- 
zioni ; risolvè di porure Tarmata contro i Sabini. E re- 
clutando de’ Romani quei che men sospettava che fareb- 
bonsi liberi se otteuevau le armi, e conginngendo con 
essi truppe alleate, più numerose ancora delle* sue , de- 
vastò le campagne Sabine : e vintivi quei che vennero 
con esso a battaglia ; menò l’esercito contro de’ Pomen- 
tini. Abitavano questi la città di Sessa e pareano i più 
felici de’ conBnanti, anzi per la felicità molesti e gravi 
a tutti. Avendo egli già reclamato ad essi per alquante 
rapine e prede , e richiestili che dessero de’ compensi , 
non aveano dato che orgogliose risposte: e quindi po- 
stisi in arme aspettavano pronti la guerra. Adunque ve- 
nuto con essi in sul conBne alle mani , ed uccisine 
molti ; ne respinse e rinchiuse gli altri fra le mura : e 
poiché non più ne riuscivano , accampatosi dirimpetto , 
li circondò di fossa e vallo , investendo la città con as- 
salti continui. Resisterono quei che v’erano dentro, du- 
rando assai tempo fra stenti luttuosi. Ma poi venendo ad 
essi meno ogni mezzo , infiacchendo ne’ corpi , e non 
ricevendo soccorsi , nè requie mai , anzi travagliando 
di e notte ; furono sopraffatti dalia forza. Impadronitosi 
della città trucidò quanti vi stavan colle amie: lasciò 
che i soldati rapissero donne , fanciulli , quanti sop- 
portavano di cader prigionieri , e moltitudine non facile 


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LIBRO IV. 7 I 

a calcolarsi di servi : e concedè' che invadessero e si 
portassero qnant’ altro veniva loro ' alle mani sia nella 
città , sia per la campagna : ma 1’ oro e l’argento, quanto 
se ne trovò , lo fe’ tutto rammassare in un luogo , e de- 
cimatolo per la fondazione del tempio , ne divise il re- 
sto fra le milizie. Tanta poi ne fu la somma che ogni 
soldato rioevè cinque mine di argento e la decima per 
gr iddj non fu minore di quattrocento talenti di ar' 
gento. 

LI. Ancora egli stavasi a Sessa quando gli giunse un 
messaggio , eh' era uscita la gioventù horentissiroa dei 
Sabini: che gettatasi in dne corpi nelle terre de’ Ro- 
mani devastavano le campagne , l’ uno tenendosi presso 
di Ereto , e 1’ altro presso di Fidene : e che se una 
forza non le si opponesse, ben tosto tutto soccombe- 
rebbe. G>m’ ebbe ciò udito lasciò picciola parte dell’eser- 
cito in Sessa con ordine che vi guardasse le prede e 
bagaglie : e prendendo con sé il resto della milizia , 
spedita e leggera , e marciando contro quei che erano 
accampati presso di Ereto, si trincerò su le alture a pic- 
ciolo intervallo da essi. Decisero i due Sabini dar la bat- 
taglia in sul mattino; e spedirono perchè venisse l’eser- 
cito ancor di Fidene. Ma scuoprl Tarquinio il disegno 
per essere stato preso chi portava le lettere dagli uni 
agli altri. Per tal successo ei si valse di questo accorgi- 
mento. Divise r esercito in due parti , e ne mandò l’ una 
fra la notte di nascosto de’ nemici su la via che viene 
da Fidene , e schierando l’ altra in sul brillare del gior- 
no , la menò dagli alloggiamenti alla battaglia. Corag- 
giosi gli uscirono incontro i Sabini non vedendo gran 


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7 a DELLE Antichità’ romane 

serie de' nemici , e credendo non altro mancare aliare 
mata di Fidene , se non di gingnere. Coti venutisi que-> 
sti a fronte combatterono , e la pugna pendè gran tempo 
dubbiosa, quando li soldati spediti nella notte da Tar— 
quinio ripiegarono la marcia , e correvano a tergo dei 
Sabini. Sbalordirono questi al vederli , e ravvisarli dalle 
insegne e dalle armi , e gettando le proprie» tentarono 
di salvarsi : ma il tentativo rìnsd difHcilissimo , essendo 
essi circondati da’ nemici e rinchiusi dalia* cavalleria dei 
Romani postata d' ogn intorno. Pertanto pdchi ne scam- 
parono e tra duri casi : i più ne perirono , o cederono. 
Quelli eh’ erano lasciad agli alloggiamenti non li sosten- 
nero ; e quel luogo di sicurezza fu invaso al primo as- 
salto. Furono qui prese le robbe de’Sabini, e qui molti 
de* prigionieri , e qui le robbe de’ Romani quante ne 
erano intatte, e tutto fìi salvato per chi le aveva perdute; 

LIL Riuscito il primo saggio a Tarquinio secondo 
il cuor suo , prese 1’ esercito, e ne andò contro i Sabini 
accampati giù in Fidene, a’ quali non era ancor nota la 
disfatta dei loro. Usciti questi dagli steccati erano per 
avventura tra via: ma non si tosto furono più da vicino 
e videro le teste de’loro capitani confitte alle aste ( che 
ve le aveano i Romani confitte ed ostentavanle per ispa- 
ventare i nemici); conoscendo com’era l’altro lor campo 
distrutto , più non tentarono nulla di generoso , ma ri- 
voltisi alle suppliche ed alle umiliazioni si resero. Cosi 
devastati miseramente , e vituperosamente nell’ uno e 
nell’ altro esercito , e ridotti i Sabini a speranze tenuis- 
sime , anzi timorosi che fossero le loro città pigliate di 
assalto ; spedirono ambasciadori per la pace., profieren- 


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• LIBRO IV. 73 

dosi per sudditi e tributar). Pertauto lasciò la guerra, e 
ricevute appunto «>a tali coudizioni le loro città , si ri- 
condusse a Sessa ; e ritiratene le milizie lasciatevi , e le 
prede ed ogni bagaglio , tornossene a Roma coll’ eser- 
cito carico di ricchezze. Poscia fe’ molte incursioni su 
le terre de’ Yolsci, quando con tutte le forze, e quando 
con parte , ne ottenne gran prede. Ma riuscitegli per 
lo più le cose a voler suo ; gli si eccitò una guerra coi 
con&nanti* ben lunga pel tempo , giacché durò sette anni 
continui , e ben grande pe’ casi inaspettati e terribili. 
Ora io dirò brevemente le cagioni per le quali nacque, 
e qual ne fu 1’ esito , essendo stata terminata per in- 
ganni e per stratagemmi non preveduti. 

LUI. Una città , Latina di gente , e colonia già degli 
Albani, lontana cento stadj da Roma ( Gabio ne era il 
nome) sorgeva in su la via che mena a Palestrina. 
Città popolosa allora e grande qnant’ altre , ora non 
tutta si abita , ma solo presso la strada per uso degli 
alloggi. E ben può raccoglierne la grandezza e la ma- 
gnificenza , chi mira le rovine in più luoghi delle case 
ed il giro delle, mora , che in gran parte esistono an- 
cora. Eransi qua concentrati alquanti involatisi da Sessa, 
quando fu presa da Tarquinio , e molti fhggiti da Ro- 
ma. Or questi supplicavano e pressavano quei di Gabio 
a prendere vendetta di loro , promettendo gran doni se 
ai beni proprj tornassero ; e dimostrando possibile e fa- 
cile la distruzione del tiranno. Adunque ve gl’indossero 
sul riflesso che in Roma a ciò coopererebbero , e che 
lì Volsci erano ad altrettanto animati; giacché mandate 
aveano delle ambascerie, bisognosi anch’essi di ajutO’ 


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74 DELLE Antichità’ romane 
per imprendere la guerra contro di Tarquinio. Si fe^ 
cero dopo questo irruzioni con eserciti poderósi , fi 
scorrerie su 1’ altrui territorio e battaglie , com’ è Veri»» 
simile, ora di pochi con pochi, ora di tutti contro di 
tutti: e quando i Gal^, respinti fino alle porte i Ro- 
mani, ed uccidendone diedero intrepidamente il guasto 
ai lor campi ; e quando i Romani incalzando i Gabj e 
rinchiudendoli nella loro città , • sen portavano schiavi , 
e preda copiosa. . • . • 

. LIV. Or ciò facendosi di continuo, fu l’una e l’altra 
parte costretta a cinger di mura, e presidiare i luoghi 
forti delle proprie terre in ricovero de’ contadini. Di 
là prorompevano su’ predatori , e scendendo folti , stra- 
ziavano , se ne vedeano , i piccoli corpi staccati dal 
resto dell’ esercito , o li disordinati per poca apprensìon 
de’ nimici , come accade nei pascere. Similmente te- 
mendo r una parte gli assalti improvvisi dell’ altra fu 
costretta a munire dì fosse e di muri le città facili a 
scalarsi ed a prendersi. Adoperavasi in ciò principal- 
mente Tarquinio : e rassicurò con molte fortificazioni il 
tratto intorno la porta la quale menava a Gabio , sca- 
vandovi fosse più larghe , elevandone più alte le mura , 
e coronandole di torri più spesse : imperocché la città 
sembrava in tal canto men solida , quando era nel resto 
dei suo circuito sicura abbastanza, nè facile da inva- 
derla. Se non che si fece in ambedue le città penuria 
di ogni vettovaglia , e costernazione gravissima per l’av- 
venire , essendo le campagne diserte per le incursioni 
incessanti de’ nemici , né più somministrando de’ frutti 
come accade a’ popoli avvolti in guerre diuturne. 11 di- 


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i 


LIBRO IV. 7 5 

sagio però’ stringeva i Romani più che i Gabj ; tanto 
che U poveri infra quelli, angustiatine più che gli al- 
tri , giudicavano essere da venire a trattati, e far pace 
comunque coi Gabj , se la volessero. 

LV. Or dolendoti Tarquinio altamente de* successi , 
e non sofierendo di' deporre obbrobriosamente le armi^ 
nè polendo altronde resistere più inmmzi ; volgevasi a 
tutte le prove , a tutti gl’ inganni. Quando il figlio più 
grande ( Sesto ne era il nome (i) ) scoperse al padre 
un suo disegno. Egli parea mettersi ad impresa audace 
quanto pericolosa ; pur non essendo impossibile , con- 
cedettegli il padre che operasse di voler suo. Sesto dun- 
que ‘fintosi in discordia col padre per voglia di por fine 
alla guerra : ne fu battuto colle verghe nei F oro , e 
con altri modi oltraggiato ; tanto che se ne sparse in- 
torno la fama. E su le prime inviò come profughi i 
suoi più fidi perchè dicessero occultamente ai Gabj che 
egli deliberava far guerra al padre , e che ne anderebbe 
tra loro se gli desser parola di proteggerlo come gli 
altri refugiaii Romani , senza renderlo ai padre per 
isperanza di finir col suo danno le proprie nimicizie. 
Udirono con diletto quei di Gabio il discorso , e con- 
cordandosi di non offenderlo , egli venne , e con lui 
molti compagni e clienti come fuggitivi; e per meglio 

(i) Tito Lirio dà questo nome e' questa impresa al figlio minore : 
ma il disparere col padre e l’ incarico assunto pare più yerisimile 
in chi area più diritto di succedere ad un regno . direnuLo assolu- 
to, e tale era il figlio maggiore. Pertanto il racconto di Uiouigi 
sembra più naturale, qualunque fosse il nome del finto rilielle. Vedi 
S 65 di questo 'libro. 


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'jG . BTìLLE Antichità’ romane 
accreditare la ribellione sua dal padre portò seco molto 
di argento e di oro. Dopo ciò sotto velo di fuggir lar 
tirannide molti a lui confluirono ; tanto che ornai glie 
n’ era intorno un corpo ben forte. Concepivano quei 
di Gabio che avrebbono grande incremento dal giu- 
gnere di tanti ad essi , e lusingavansi che tra non molto 
.avrebbono suddita Roma, illusi ancor più dalle opere 
di quel ribelle , il quale scorrendo di continuo la cam* 
pagna , raccoglievane prede ubertose. Ed il padre ap- 
punto, risapendo prima in quai luoghi il figlio verreb- 
be , ubertose glie le apprestava , e senza guardia se noa 
di scelti cittadini che egli v’ inviava come a lui sospetti 
per farli distruggere. Su tali significazioni molti creden- 
dolo amico fido , e buon capitano , e molti arrenden- 
dosi all' oro suo ; lo inalzarono al comando supremo 
delle milizie. 

LVI. Sesto divenuto per frodi e per illusioni T ar- 
bitrò di un tanto potere spedi , senza che i Gabj se ne 
avvedessero , un tale de’ servi suoi per dichiarare al pa- 
dre r autorità che avea preso , e per udirne ciocch’era 
da fare. Tarquinio volendo che il servo non intendesse 
ciocché ordinava al figlio di fare , venne ( e conducea 
seco il messo ) al giardino , congiunto al regio palagio. 
Aveaci là de’ papaveri nati spontaneamente , già pieni 
di frutto , e maturi per la raccolta. Or tra que’ papa- 
veri aggirandosi e dando co’ bastoni in su le tòste de’ più 
alti , abbattevali. Congedò ciò fatto il messaggiCro niente 
rispondendogli , quantunque interrogato ne fosse più 
volte. Egli imitava per quanto a me sembra la prudenza 
di Trasibulo Milesio. Imperocché chiesto da Periandro, 


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LIBRO IV. 77 

allora tiranno di Corinto , per via di un messaggiero , 
con quali modi possederebbe più saldamente il coman- 
do, non rispose pur sillaba , ma fatto cenno all’ inviato 
die lo seguitasse, il. condusse in un campo di biade, 
ed ivi percosse le spiche più eminenti , le atterrò ; 
signiBcaudo che. cosi dovea pur egli troncare , e di- 
smettere i -primi delle città. Or facendo Tarquinio al- 
lora somigliantemente. Sesto ne intese le mire, e co- 
me ordinavagli di por giù li più insigni di Gabio. E 
convocò la moltitudine , e le tenne un lungo ragiona- 
mento su questo, ehe egli ricorso cogli amici alla, lor 
buona fede , rischiava ornai di esser preso da alcuni, 
e dato al padre: ma che era pronto a deporre il co^ 
mando, an^i che Lucerebbe la città prima di cadere 
in tanto infortunio ; e qui lagrimava e deplorava la 
sorte sua , come quelli che di cuore si dolgouo su’mali 
estremi. , 

Lyil. Irritatane la moltitudine, e ricercando sollecita 
quali mai fossero per , tradirlo , esso nomina Antisiio 
Petrone, il personaggio più distinto di Gabio. Egli 
erane il più insigne divenuto pe* molti belli suoi rego- 
lamenti in pace, e pe’ molti capitanati in campo eser- 
citati. Reclamando intanto quest’ uomo , ed offerendosi 
come Hbero da’ rimorsi ad ogni esame , disse 1’ altro 
che volea che se ne investigasse la casa: e che vi 
manderebbe perciò degli amici: egli intanto aspet- 
tasse TtelP adunanza finché ritornassero. Imperocché 
già era Sesto riuscito a corrompere con argento alquanti 
servi di lui perché prendessero e ponessero in sua casa 
lettere contrassegnate co’ sigilli paterni, e macchinate in 


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--8 DELLE Antichità’ romane 

rovina di Pelrone. Or come gl’ inviali alla indagine 
(che non aveala Pelrone contradetla ma concednla) vi 
rinvennero le carie occulutevi, tornarono recando al- 
l’adunanza molte lettere indicatrici , e quella scritta ad 
Anlistio; e dicendo Sesto che vi riconosceva il sigillo 
del padre la sciolse; e la diede allo scriba perchè la 
recitasse. Scriveasi in questa che gli consegnasse il fi- 
glio , vivo principalmente ; o se ciò non poteasi , almeno 
glie ne mandasse la testa recisa. Diceva, che darebbe 
ad esso ed d complici , oltre le taglie promesse già pri- 
ma , la cittadinanza di Roma : che gli ascriverebbe 
tutti frd patrizj ^ ed aggiungerebbe case e poderi e 
doni, grandi e copiosi. Arsero dallo sdegno i Gibinj ; 
dialordtva Antistio dalla sciagura impensata , mancando-* 
gli fin la voce: ma quelli co’ sassi lo tempestano e lo 
uccidono ; lasciando a Sesto la cura di far la ricerca e 
la vendetta su gli altri, compartecipi in ciò di Petrone. 
E Sesto fidando le porte agli amici suoi perchè gl’ in- 
colpali non s’ involassero mandò per le mise- più illa- 
stri , e vi uccise molli de’ valentuomini. 

LVIIL Intanto che ciò faceasi ed era in Gahio tuiv- 
bolenza pe’ sì gran mali ; Tarquinio avvertitone per 
lettere vi marciò coll’ esercito , e giunto prima della 
mezza notte ed apertegli le porte da ■ uomini posti ad 
arte per questo , ed entratele ; s’ impadronì senza stento 
della città. Come il male fu ravvisato , deploravano tutti 
sè stessi , e le stragi , e la schiavitù che patirebbono, e 
temeano insieme gli orrori , quanti ne vengono su por 
poli sorpresi da’ tiranni. Quando pur li trattasse mitis- 
simameute ; immaginavansi la perdita della libertà , e 


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> LIBRO IV. 79 

de’ beni , e cose altrettali. Pure Tarquinio sebbene scel- 
lerato, sebbene implacabile in punir gl’ inimici non fe’ 
ntilla di ciò che aspettavano e temevano ; nè uccise , 
nè liandl , nè disonorò , nè multò persona ninna di Ga- 
bio. Ma convocando la moltitudine, e prendendo regie 
maniere in luogo delle tiranniche sue , disse che re- 
stituiva la propria città ; che concedeva ad essa i lor 
beni; e che donava inoltre a tutti cittadinanza quale 
appunto r avevano i Romani : non già che ciò facesse 
per benevolenza inverso de’ Gabj ; ma per consolidare 
a sè con essi .la signoria su’ Romani; pensando che di- 
verrebbe presidio stabi^imo per sè e pe’ figli la fe- 
deltà di un popolo che fuori di ogni speranza era sal- 
vo, e ricuperava tutti i suoi beni. E perchè non più 
temessero per 1’ avvenire nè dubitassero se stabili sareb- 
.bero. tali parole ; scrisse le condizioni colle quali sareb- 
bero* amici,' e le giurò subito nell’ adunanza , e poi 
toccando gli altari e le vittime. Monumento di quest’al- 
leanza esiste in Roma nel tempio di Giove Fidio, chia- 
mato Sango da’.Ròmani , uno scudo circondato colla 
pelle del bue sagrlGcato allora appunto per compierne 
il giuramento , su la quale scritte ne sono con antichi 
caratteri le condizioni. Ciò fatto , e dichiarato Sesto re 
di Gabio, ritirò le milizie; e tal fine ebbe la guerra 
con quella città. 

LIX. Dopo ciò Tarquinio dando requie al popolo 
dalle cose militari e dalle battaglie; si mise alla ere- 
zione de’ templi, desideroso di compiere i voti dell’avo. 
Erasi questi nell’ ultima guerra co’ Sabini votato a Gio- 
ve , a Giunone , a Minerva di fondare ad essi de’ tem- 


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8o DELLE ASTICHITA’ ROMANE 

pii se vincesse. E già , come fu detto nel libro prece» 
dente , avea con grandi ripari e con terra|)ieni accori» 
data l’altura ove destinava di erigerli; ma non potè' 
poi compierne la impresa. Deliberatosi Tarcpilnio di 
ultimarla colle decime delle spoglie raccolte in Sessa 
posevi a lavorare tutti gli artefici. Or qui narrasi che. 
accadesse un meraviglioso portento sotterra , doè che 
scavandosi per le fondamenta , e che già molto essendo 
gli scavi profondati , si rinvenisse la testa di un uomo 
ucciso come di recente, con faccia simile a quella dei 
vivi , stillandone ancora dalla ferita un sangue tepido e 
fresco. In vista di tale prodigioi^arquinio comandò gli 
opera) che sospendessero lo scavo : e convocando gli 
indovini della patria dimandò che mai dir volesse quel 
segno. Ma non rispondendone , anzi dando' essi la 
scienza di tali cose ai Tirreni , ricercò da loro e seppe 
qual fosse fra’ Tirreni l’ interprete più famoso de’ por» 
tenti ; ed a questo inviò messaggieri i più pregievoli 
cittadini. 

LX. Giunti i valentuomini alia casa dell’ augure , si 
le loro incontra un giovinetto a cui dissero di essere 
ambasciatori di Roma , vogliosi di consultare il vate , 
e pregavano che a lui li presentasse. Il giovine allora : 
Colui, disse, che ricercate, è mio padre: egli è di 
presente occupato : ma presto a lui passerete. Ora 
intanto che lo aspettate , ditemi perchè mai ne venite. 
Così voi se mai per imperizia foste per ishagliar la 
dimanda; istruiti da me non errerete. E le giuste 
interrogazioni non sono già la minima cosa nell arte 
de’ vaticini . Or piacque a coloro di secondarlo, e sve- 


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LIBRO IV. 8l 

Urono a lui quel portento. Ckime il giovine gli ebbe 
ndiù , sopraslando breve tempo , ascoltate , disse o Bo- 
ntani. Il mio padre ve lo interpreterà tal prodigio , 
e senza menzogne ; che certo ad un vMe non si con- 
vengono. Ma perchè neppur voi erriate , nè mentiate 
su le cose che direte o risponderete ; apprendete da 
me questo > che assai rileva che vel sappiate. Quando 
esposta gli avrete la meraviglia ; ei soggiungendo di 
non intendere appieno ciò che vi dite , descriverà 
colla verga quanto un picciolo tratto di terra , e poi 
vi dirà : seco la svrs tarsìa qvzsta nè la partx 

CMS GUARDA l' ORISNTS , quSSTA CBS L OCCASO: QUS- 
STA È LA PARTS SOREALS , QUSSTA LA OPPOSTA. Ed 
indicandole intanto colla verga vi chiederà da qual 
canto fu tiltvenuta la testa. Or che vi esorto io che 
rispondiate ? appunto che non concediate che fosse 
trovata in alcuna delle parti eh' egli addita colla ver^ 
ga , e ve ri interroga , ma che in Eotna tra voi fu 
veduta su la rupe Tarpea. Se tali risposte serberete; 
se punto col dir suo non ve ne allontanate; allora 
egli ravvisando che il fato non può cangiarsi, vi sve- 
lerà , non vi occulterà quel prodigio che volete , che 
interpetri. 

LXL Ammaestrali in tal modo i legati , «piando il 
vate ne ebbe comodità , venne un tale che a lui li con- 
dusse , e parlarono del portento. Ora lui sofisticando , 
e descrivendo in terra circonferenze e linee rette, e 
facendo in ogni quadrante interrogazioni sul trovamento, 
non si turbarono punto di mente i legali , ma tennero 

DIONIGI , lem» II. 6 



8 2 DELLE Antichità’ bomane 

la ridata , come aveala suggerita il 6glio dell’ indo- 
Tino, nominando sempre Roma e la rupe Tarpea , e 
pregando l’interprete che non travolgesse il segno, ma 
ne dicesse a proposito , e schiettissimamente. Cosi non 
potendo il vate nè illudere gli oratori , nè imbrogliarè 
r augurio , soggiunse ; Andate , annunziate o Romàni 
a vostri concittadini , portare il destino che il luògo 
dove avete il teschio trovato sia capitale di tutta l’I- 
talia. Dall’ ora in poi capitolino fu detto il luogo del 
travamento; capi chiamando i Romani le teste. Tai>i 
quinio udendo ciò da’ legati rimise gli opera] su'lavori; 
e molto fece del tempio, ma noi compiè, cadendo 'in 
breve dal regno. Roma alfine lo perfezionò nel terzo 
consolato. Fu basato il tempio su di una altura la quale 
aveva un circuito di otto plettri , ed ogni lato di esso 
apprassimavasi ai dugento piedi col picciolo divario nem- 
meno di quindici piedi interi tra la lunghezza e la la- 
titudine. Perciocché il tempio riedificato dopo l’incendio 
a’ tempi de’ nostri padri su’ fondamenti medesimi diffe- 
risce dall’ antico per la sola preziosità della materia. 
Dalla parte della facciata che guarda il mezzogiorno 
circondalo un ordine triplice . di colonne : ma doppio 
solamente è quell’ordine nei lati. Tre sono’ in uno i 
templi , e paralleli , e divisi da mura comuni. Sacro è 
quello di mezzo a Giove , e quindi è l’ altro . di Giu- 
none , e quinci di Minerva : ed un solo tetto , di un 
comignolo solo li ricopra (i). . 

(i) Questo tempio terminara a Iriargolo : la cima del. triangolo 
in tutto il tetto ossia il colmo del letto è ciò che cbiamasi comì- 
gnolo. Uno de’ nostri lempj a tre narate sotto un tetto comune può 
foeilitare t’ intelligenza di questo luogo. 


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LIBRO IV. 83 

LXIL Dicesi che nel regno di Tarquinio occorresse 
ai Romani un’ altra propizia e meravigliosa avventura sia 
per dono di un nume sia di un genio , la quale salvò 
la città non per poco tempo ma finché visse, più volte, 
da gravi mali. Una donna , nè già nazionale , venne al 
tiranno , vogliosa di vendergli nove libri di oracoli Si- 
bilini : ma ricusando Tarquinio comperarli al prezzo cei> 
catogli ; colei partita ne spiccò tre libri e li arse. Ri- 
porundo dopo alquanto i libri superstiti gli ofierl sul 
prezzo medesimo. Riputatane stolta , e derisane perchè 
di minori volumi n’esigea la somma appunto che non 
aveane potuto ricevere quando erano più; si ritirò nuo- 
vamente e bruciò metà dello scritto che rimaneva. Tornò 
quindi co’ tre libri ancor salvi, e chiese l’oro di prima. 
Attonito Tarquinio su i disegni della donna fece cercar 
gl’ indovini , e narrò 1’ evento, e dimandò ciò ch’era da 
fare. Or questi conoscendo da alquanti segni che ripu- 
diavasi un bene mandato dal cielo , e dichiarando che 
grande era la sciagura che non avesse comperato tutti 
i volumi ; comandò che si numerasse alla donna il valor 
dimandato, e che gli astanti prendesser gli oracoli. La 
donna che avea dato que’ libri , inculcò che si custodis- 
sero con diligenza , e sparve dagli uomini. Tarquinio 
creando tra’ cittadini i duumviri o due riguardevoli per-i 
aonaggi , e subordinando ad essi due ministri pubblici ; 
diè loro la’cura de’ libri : ma poi cucitolo io una otre 
bovina gettò nel mare Marco Acilio 1’ uno de’ due ri- 
gnardevoli perchè parea sfregiare la buona fede , ed era 
accusato di pai-ricidio da uno de’pubblici ministri. Dopo 
la cacciata dei re , fattasi la repubblica a sostenere gli 


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84 DELLE Antichità’ romane 

Oracoli , nominò custodi loro, durante la vita, personaggi 
chiarissimi, liberi da ogni militare e civile incomben 2 a , 
consociando ad essi ancor altri pubblici uomini , senza 
i quali non poteano i primi consultare que’scritti. A dirla 
in breve , i Romani non guardano ninna cosa con tanto 
zelo non i poderi sacri , non i tempj , quanto le rispo- 
ste divine delle Sibille. Yalgonsi di queste i Romani 
quando il Senato sta per votare in tempo di civil sedi- 
zione , o di grave infortunio in guerra , o di portenti 
e grandi visioni , malagevoli ad intendersi , come avven- 
ne più volte. Fino alla guerra chiamata Marsica gli ora- 
coli posti in un’ ama marmorea ne’ sotterranei del tem- 
pio di Giove Capitolino furono custoditi dai decemviri. 
Ma braciandosi poi questo dopo 1’ olimpiade centesima 
settantesima terza sia per insidie , come pensano alcuni , 
sia per caso ; arsero colle votive cose del nume, anche 
i libri. C gli oracoli che ora si hanno , furono.' portati 
in Roma da più luoghi , quali dalle città d’ Italia, quali 
da Eritra dell’Asia, speditivi per decreto del Senato Com- 
missarj a trascriverli , e quali da altre città , trascrittivi 
da' privati. Ma sen trovano confusi co’ Sibillini anche 
aluri , come convincesi da que’ che acrostici si diman- 
dano. Io qui dico ciocché Terrenzio Varrone ha scritto 
nelle sue teologiche trattazioui. 

LXIII. Avea Tarquinio operate queste cose in guerra 
ed in pace ; avea fondate due colonie , l’uja Cioè Segni, 
per caso , perché svernando ivi i suoi soldati aveansi il 
campo come una città ridotto ; e la seconda Circea-per 
disegno , perché ponessi nella campagna Pomentina , la 
più grande intorno del Lazio, e contigua col mare, in 


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LIBRO IV. 85 

bel sito , alto discretamente , che sporge quasi penisola 
nel mare Tirreno ; ed abitato già com’ è fama da Circe 
la figlia del Sole : avea dato qnesle due colonie a due 
figli suoi che ne erano i fondatori, Circea ad Anmte, 
e Segni a Tito. Ma quando in niun modo temea del 
suo principato ; allora per la ingiuria fatta ad una donna 
da Sesto il suo primogenito , fu cacciato dai principato 
e da Roma. Àveano gl’ Iddj dato il segno della calamità 
futura della sua famiglia con molti augurj de’ quali qu^ 
sto, fu l’ultimo. Venute nella primavera delle aquile in 
un luogo adjacente alla reggia fecero il nido su di un’alta 
palma : mentre però teneano i figli ancor senza penne, 
volandovi in folla degli avoltoi disfecero il nido: ed uc« 
cisane la prole, e bezzicando e ferendo co’rostri e colle 
ali , respinsero dalla palma le aquile che tomavan dal 
pascolo. Vide Tarquinio l’augurio, e vegliava per istor- 
name se poteva il destino: ma non potè superarne la 
forza ; e perdette il regno , congiurando su lui li pa» 
trizj , e cooperandovi il popolo. Io tenterò dichiarar bre- 
vemente gli autori della congiura ; e come si fecero ad 
eseguirla. 

LXIV. Guerreggiava Tarquinio colla città di Ardea 
sul pretesto che ricettava i fuggitivi da Roma, e mac- 
chinava di rimetterli in patria : ma in realtà perchè ne 
aspirava le ricchezze come di una delle città più felici 
d’ Italia. Ribbattendolo però gli Ardeatini generosamente, 
e prolungandosi l’assedio loro; stanchi quei del campo 
per la diuturnità della guerra e quei di Roma impotenti 
a più contribuirvi; si disposero a ribellarglisi , appena 
ve ne fosse un principio. Intanto Sesto il primogenito 


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86 DELLE Antichità’ bomanb 
de’ figli di Tarquiaio spedito dal padre nella cittì chiamata 
Collazia per compiervi talune incombenze militari si al- 
loggiò presso il congiunto suo Lucio Tarquinio detto 
Collatino. Fabio delinea quest’uomo come figlio di Ege- 
rio, del quale ho sopra dichiarato ch’era figlio dei fra- 
tello di Tarquinio l’antico , re de’Romani. Da lui messo 
al governo di Collazia ne fu chiamato Collatino, la- 
sciandone la denominazione anche a’ posteri suoi. Io 
sono persuaso che questi era nipote ad Egerio se avea 
la eti conforme ai figli di Tarquinio , come Fabio ha 
scritto e molti con esso ; e la cronologia conferma tal 
mio concetto. In que’ giorni Collatino era nel campo. 
Adunque la moglie di esso, una Romana, figlia di Lu< 
eresio, uomo cospicuo, accolse vivida molto e. cortese 
lui ch’era il congiunto del suo marito. E Sesto che avealò 
già disegnato , quando altra volta fu 1’ ospite del suo 
parente , Sesto riputandone ora il tempo opportuno , fe- 
cesi a violare costei la più leggiadra e la più casta delle 
Romane. Andato dopo cena in letto vi si contenne gran 
parte della notte : poi quando concepì già tutti presi dal 
sonno, levatosi, venne alla camera, ove sapea che Lu> 
crezia riposava , e colla spada in mano vi penetrò, non 
sentito nemmeno da quelli che prossimi alla porta dor- 
mivano della camera. 

LXV. F attesi al letto , e svegliatasi la donna col giu- 
gnere delle insidie , e chiedendo chi fosse , colui svela 
il nome ; e comanda che taccia e resti nella camera , 
minacciando lei della vita, se tentava fuggire, o gri- 
dare. Cosi, sbalorditala, propose alla donna di scegliere 
.qual più le piacesse o lieta vita , o morte infame, ó'e 


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LIBRO IV. 87 

t’ induci , disse , a compiacermi , io te farò mia spo~ 
sa y e tu regnenù meco , ora s.u la città che mio par- 
dre mi assegna, e dopo la morie del padre sii Ro- 
'mani , sii, Latini, sii Tirreni e su quanti egli domi- 
na. Io, tu lo sai, primogenito de' suoi figli, io sarò 
t erede del regno , come à ben giusto. E quali beni 
inondano i re, de' quali' tutti sarai tu meco possedi- 
trice ; che giova che io qui ti additi, se tu ne sei pe- 
ritissima? Che se tenti resistermi per salvare la tua 
pudicizia , ucciderò te prima , poi scannando un dei 
servi porrovene a lato i cadaveri , e dirò che sorpresa 
avendoti in obbrobrio col servo, io vi punii tutti due per 
vendicare la ingiuria del mio congiunto ; tanto che 
turpe , ignominiosa sarà la tua fine, nè la morta Uia 
spoglia saià di sepolcro onorata nè di altre funebri 
cerimonie. Ora siccome assai minacciava , insisteva, giu> 
rava a^ ogni suo detto ; Lucrezia sbigottita di una morte 
infame venne nella necessità di cedere agli arbiirj amo- 
rosi di lui. 

LXVI. Fattosi giorno; costui sazio della voglia scel- 
lerata e Ainesta , tornossene al campo : Lucrezia però 
corucciata per l’evento ascese quanto potè frettolosa in 
sul carro , e venne a Roma , cinta di lugubri vesti , ed 
occultandovi sotto il pugnale; non salutando , salutata, 
negl’ incontri , né rispondendo a chi voleva intendere 
de’ suoi mali , tutta cogitabonda , e mesta , e lagrimosa. 
Giunta a casa dal padre '( e ci aveano alquanti parenti ) 
ella prostratasi e stregasi ai ginocchi del padre vi sin- 
ghiozzò , ma senza parole : e sollevandola e stimolandola 
il padre a dire ciocché solTerto avesse: Padre, disse, ecco 


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88 DELLB antichità’ ROMANE 

la supplichevole tuai se tremenda , se insanabile è tonta 
mia, padre la vendica: non trascurare Ut figlia tua, in- 
corsa in mali più gravi della morte. Stupitosi il padre, e 
con esso par gli altri , eccitavala a dire chi offesa 1’ a- 
vesse , e di qual modo. E colei ripigliava: Le udirai 
le mie ingiurie ; ma hrevissimamenle o padre: e solo 
or tu mi concedi questa grazia che prima te ne chie- 
do. Convoca gli amici , e i parenti che puoi , perché 
da me la odano, da me, non da altri la calamità che 
io patii. Quando tavrai conosciuta la terribile, la ver-, 
gognosa necessità ch’io sostenni; tu deciderai con essi 
la vendetta che dei per me fare e per te. Ma deh / 
non indugiarmi tu lungamente. 

LXYIL Corsi all’ invito sollecito 'e premurosissimo i 
più riguardevoli nella casa com’ ella dimandava , narrò 
loro , pigliandolo dalle origini , tutto l’ evento. E qui 
abbracciandosi ai padre , e molto lui supplicando, e gli 
astanti e gl’Iddj, eli patri! lari che solleciti la scioglie»* 
sero dalla vita ; trasse il pugnale che celava sotto le ve* 
sti e, portandosene una piaga sui petto , 6no al cuore 
se lo internò. Clamore intanto e gemiti e femmineo tu- 
multo turbando tutta la casa ^ il padre avviatosene al 
corpo la circondava , la richiamava, la curava quasi po- 
tesse redimerla dalia ferita : ma colei tra le sue braccia 
palpitando e spirando Gai. Parve il caso agli astanti si 
terribile e si miserando che una fu la voce di tutti che 
era mille volte meglio morire per la libertà che patire 
ingiurie siffatte dai tiranni. Era tra questi Publio Vale- 
rio , discendente da uno de’ Sabini venuti con Tazio a 
Roma , uomo intraprendente e destro. Costai fu da loro 


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LIBRO IV. 89 

spedito in campo perchè narrasse al marito di Lucrezia 
r evento , e perchè ribellassero , uniti , le milizie dal ti- 
ranno. Uscito appena dalle porte eccogli per avventura 
incontro Collatino il quale veniva dall* armata a Roma 
ignaro de’ mali che straziavano la sua casa ; e Lucio Giu- 
nio soprannominato Bnilò cioè stolido se tal nome ne 
interpetri con greche maniere. E poiché li Romani ad- 
ditano quest’ultimo come principalissimo nell’ abolir la 
tirannide; porta il pregio che preaccennisi brevemente 
chi , di qual sangue egli fosse , e come sortisse un tal 
nome . niente a lui consentaneo. 

LXVIIL Di costui fu padre Marco Giunio , prove- 
niente da uno di que’ che menarono con Enea la co- 
lonia , e distintissimo per la sua virtù tra’ Romani : fu 
la madre Tarquinia , figlia di Tarquinio 1’ antico. Egli 
ricevè la educazione , e tutta la coltura nazionale , nè la 
indole sua contrariavasi a niun de’ bei pregi. Dappoiché 
Tarquinio ebbe ucciso Tullio levò segretamente di mezzo 
con molti uomini probi anche il padre di lui non già 
pe’ delitti , ma per la ingordigia d’ invaderne le ric- 
chezze ereditate da pingue , antico patrimonio di fami- 
glia : levò similmente con esso il figlio primogenito di 
lui nel quale appariva non so che di generoso , e che 
sofferto non avrebbe invendicata la morte del padre. 
Bruto giovinetto ancora , -e privo in tutto del soccorso 
de’ parenti si rivolse al mezzo savissimo di fingersi , 
stolido divenuto. Dall’ ora in poi , finché non gli sem- 
brò di averne il buon tempo , ritenne le apparenze dello 
stolido ; e se n’ ebbe il soprannome , ma si liberò con 
questo dalle ire del tiranno , mentre tanti egregj uomini 
ne soccombetrano. 


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po DELLE Antichità’ romane 

LXIX. Tarquinio trascurandone la demenza apparente 
e non vera , spogliatolo di tutti i beni paterni , e da- 
togli un tal poco pel vitto quotidiano, lo custodi presso 
di sé, come garzoncello orfano , e bisognoso di chi lo 
qurasse , e concedè che oo’ figli suoi conversasse ; nè già 
per onorarlo qual congiunto suo , come fingea tra’ pa- 
renti , ma perchè desse da ridere a’ propj figli, dicendo 
costui le mille frivole cose , e facendone le simili agli 
stolidi veramente. Anzi quando mandò li due figli Àronte 
e Tito per interrogare 1' oracolo di Delfo su la peste 
( giacché nel regno suo proruppe una peste insolita su 
le vergini e su i fanciulli che in copia ne perivano , e 
più terribile ancora e men curabile su le gravide , che 
morte cadeano col proprio feto in su le vie ) quando io 
dico mandò questi per conoscere dal nume le cause del 
male e lo scampo, allora congiunse ancor lui co’ figli 
che gliel chiedeano perchè avessero intanto chi beffare 
e deridere. Giunti all’oracolo i giovani ed ascoltatolo 
su la causa ond’ erano inviati porsero sacri doni al nu- 
me, e lungamente risero di Bruto che avea consecrato 
ad Apollo una bacchetta di legno ; ma colui trapanatala 
tutta come una fistola aveaci offerto , senza che ninno 
ne sapesse , una verga di oro. Poi consultando essi il 
nume chi mai , portavano i destini, che divenisse re di 
Roma ;-^rispose che il primo che bacerehhe la madre. E 
non intendendo i giovani la mente dell’ oracolo concor- 
darono di baciare insieme la madre onde regnare in co- 
mune. Bruto però penetrato ciocché 1’ oracolo volea 
significare , non si tosto discese nell’ Italia , prostratosi , 


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LIBRO IV. 91 

ne baciò la terra , giudicando questa la madre di tutti. 

£ tali SODO i fatti precedenti di quest’uomo (1). 

LXX. Come Bruto udi da Valerio i successi di Lo» 
eresia e la storia della morte di lei sollevando le mani 
al cielo disse: O Giove, o Dei tutti, quanti vegliate 
su la vita de’ mortali , è dunque giunto finalmente il 
tempo per aspettare il quale io contrafeci finora me 
stesso ? Fuole dunque il destino che Roma sia da me 
liberata e per me dalla insojfribil tirannide ? E ciò 
dicendo vassene sollecito in casa insieme con Collatino e 
Valerio. Entrata la quale, appena Collatino videvi Lucrezia 
stesa nel .mezzo, col padre allato, scoppiando in copi ge« 
miti la slringea , la baciava, la chiamava , e fra tanta 
sciagura uscito di mente tenea colla estinta il discorso, 
quasi fosse ancor viva. Or essendo lui tutto in pianto, 
e con esso il padre a vicenda, e tutta rimbombando la 
casa di lamenti e di gemiti; Bruto, rimirandoli disse: 

O Lucrezio , o Collatino, o voi tutti , parenti di que^ 
sta donna, beri avrete altra volta il tempo di piangerla. 

Ora ( e ciò deesi alla ingiuria presente ) pensiamo ^ 
come vendicarla. Egli sembrava dir giusto : adunque se* 
dendo soli fra sè , sgombrata immantinente ogni turba 
dimestica , esaminarono ciò ch’era da fare. Bruto comin- 
ciando il primo a dire sopra sestesso che la sua demenza 
non fu vera , qual parve a molti , ma simulata ; e sve- 
laudo le cause per le quali diedesi a fingerla , e giu- 
dicatone savbsimo infra tutti ; alfine , allegatene molte , 
ed acconcio ragioni , animò tutti al parer suo di cac- 

(t) Plinio sul fine del libro XV. scrive che Bruto baciò la terra 
di Delia , a non dall* Italia. 


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Q2 DELLE ANTICHITÀ* ROMANE 

dare Tarquinio e li figli da Roma. E vedmili ornai tatti 
consentanei, disse Che non era pià tempo di parole e 
promesse, ma di opere; e che egli imprenderebbela 
il primo se cosa alcuna fosse da imprendere. Ciò di- 
cendo , e stringendo il pugnale con cui la donna fini 
sestessa , e venuto al cadavere di lei , che giaceva an- 
cora spettacolo compassionevole a tutti , giurò su Marte, 
e su gli altri Dei Che farebbe tutto , quanto potea , 
per abbattere la tirannide di Tarquinio , che non pià 
si riconcilierebbe co' lii'anni , nè permetterebbe che 
altri si riconciliasse con essi: ma terrebbe per nimico, 
chiunque non volesse fare altrettanto ; e perseguite-^ 
rebbe fino alla morte la tirannide e li partigiani di 
essa. Che se mancava a quel giuramento , imprecava 
per sè e pe’ figli un termine della vita , quale il ter- 
mine fu della donna. 

LXXI. Ciò detto invitò pur gli altri a simile giura- 
mento : e quelli, niente esitandone, levaronsi, e dandosi 
a mano a mano il pfignale giurarono , ed investigarono 
poi qual fosse la maniera di dar principio all’ impresa. 
Bruto cosi consigliò : Primieramente poniam le guardie 
alle porte , perchè Tarquinio non penetri niente di ciò 
che in Roma si dice o si opera contro la tirannide , 
innanzi che noi siamo ben preparati. Quindi portando 
il cadavere della donna , lordo comi è di sangue , nel 
Foro, ed esponendovelo, chiamiamovi a parlemento il 
popolo. E quando siavisi congregalo, quando ne vedremo 
già piena ( adunanza; allora Lucrezio e Collatino pre- 
sentandosi narrino H orribile caso , e deplorino la loro 
sciagura ; poi qualunque altro facciasi innanzi ed oc- 


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LIBRO IV. f)3 

ousi la ^tirannide , e provochi li cittadini a liberarsene. 
Oh! come avran caro di veder noi patrizj insorgere 
i primi perla libertà. Stanchi del Tiranno , e de’ molti 
e terribili mali che ne han sofferto , non abbisognano 
die St un primo impulso appena. Quando vedremo la 
moltitudine in furia per togliere la monarchia ; far- 
remo c^ risolva co' voti, che Tarquinio non dee più 
regnare su Roma , e solleciti ne spediremo il decreto 
in campo all' esercita- Ivi quando coloro che han tarmi 
conosceranno che tutta si è la città ribellata da Tar- 
quinio , infiammeransi per la libertà della patria , in- 
sensibili a tutti i doni del tiranno , essi che non più 
reggono agli affronti de' f gli , e degli adulatori del 
perfido. Or avendo lui cosi detto soggiunse Valerio: Tu 
mi sembri o Giunio che abbi giustamente parlato su 
le altre cose ; ma quanto ai comizj vorrei da te sor 
pere chi li potrà convocare legittimamente, e chi dare 
alle curie i voti; essendo questo offizio de' magistrati, 
e niun di noi trovandosi magistrato. Ripigliando allora 
Giunio : o Valerio, io, gridò, sono tale; imperocché sono 
il tribuno de Celeri , e per legge mi è dato d inti- 
mare quando voglio le adunanze. Tarquinio dava tal 
massimo incoi ico , a me come stolido , e che appresa 
non ne avrei la potenza , o che se appresa V avessi , 
non saprei prevalermene. Ma io mi son quegli che il 
primo arringherò contro del tiranno. 

LXXII. Detto ciò lo applaudivano tutti come lui che 
prendeva le mosse da principio legittimo e buono ; e lo 
pressavano a dirne anche il seguito ; ed egli disse : E 
poiché ci piace far questo , vediamo ancora qual ma- 


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J)4 delle antichità* romane 

gistrato , e da chi mai crealo, debba reggerci dopo Ut 
espulsione dei re : anzi vediamo qual Jorma daremo 
allo Stato f liberi dalla tirannide ; imperciocché prima 
ài accingersi ad opera siffatta vai meglio di avere de» 
liberata ogni cosa , anzi che se ne lasci alcuna non 
discussa , né premeditata. Ora dica ciascuri di voi su 
tali cose ciocché ne pensa. Dopo ciò si tennero molti 
discorsi e da molti. Chi numerando i gran beni fatti da 
tutti i re precedenti , amava che si riordinasse la regia 
dominazione; e chi ricordando le tiranniche ingiustizie di 
altri e di Tarquinio finalmente su’ proprj cittadini , non 
voleva il Comune sotto di un solo , ma che piuttosto 
arbitro se ne dichiarasse il Senato come in molte delle 
greche città : varj però non anteponeano nè 1’ uno né 
r altro , ma consigliavano che si fondasse un governo 
popolare , conne in Atene , esponendo le ingiurie , le . 
avanìe de’ pochi ^ e le sedizioni de’ miseri contro de’ po- 
tenti, e dichiarando che in città libera il comando più 
sicuro e più degno è quello delle leggi , eguali per 
tutti. 

LXXIII, Ma sembrando a tutti malagevole ed arduo 
il giudizio su la scelta pe’ mali che sieguono da ogni 
governo ; alfine Bruto , ripigliando disse : O Lucrezio, 
o Collatino , o voi tutti , quanti qui siete , uomini 
buoni , e JigU ancora di buoni-, io quanto a me non 
penso che noi dobbiam di presente dar nuova forma 
allo Stato. Troppo é picciolo il tempo a cui siamo ri- 
dotti, perché ci sia facile staBilirvela armoniosa ; lu- 
brico altronde , e pericoloso , é tentar di cambiarvela, 
quantunque benissimo su di essa avessimo risoluto. 


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LIBRO IV. ’ 95 

X)uando ci saremo levati dallà tirannide , allora po- 
trem finalmente , consultandoci con più agio e più 
feria , trascegliere il governo migliore a fronte de' menò 
buoni j seppur avvene uno migliore di guei'^ che 7?o- 
molo e Numa e gli altri re successivi stabilirono e ci 
"lasciarono , donde la città ne crebbe e ne prosperò , 
signora fin qui di più popoli. Solamente vi esorto che 
si emendino , e che provvedasi ora che più non v ab- 
biano i mali terribili solili prorompere dalle monar- 
chie , pe’ quali si mutano in tirannidi crude , e pe' quali 
tutti le abborrono. Ma quali son queste provvidenze ? 
Primieramente giacché molti attendono ai nomi , è 
secondo i nomi vanno al male o fuggono t utile ; e 
siccome è succeduto che ora molto attendasi a quello 
di monarchia; vi consiglio che il nome cangiate del 
governo , fe che da ora in poi quelli che vi comandano 
non più re li chiamiate , non più monarchi, ma con 
appellazione più discreta ed umana : poi , che non più 
rendiate un sol uomo arbitro di ogni cosa , ma fidiate 
a due la potenza dei re, come odo che i Lacedemoni 
fanno da molte generazioni, e che perciò ne hanno 
più di tutti i Greci leggi buone, e stato felice. Diviso 
il comando in due , e l’ uno potendo appunto quanto 
F altro ; meno acconci saranno a violarci , e meno ad 
opprimerci: anzi da tale egualità dee seguirne princi- 
palmente la verecondia, il ritegno vicendevole dell’uno 
per F altro , sicché noti si sfrenino , ed una viva gara 
per la fama della giustizia. 

LXXIV. E poiché molti sono li regii distintivi , io 
giudico che y impiccioliscano o tolgano quelli che àd- 


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96 DELLE Antichità’ romane 

dolorano a rimirarli o sdegnano il popolo , io dico 
gli scettri , dico le corone di oro ^ e le clamidi eli 
oro intessute e di porpora, se non forse si asswnono 
ne' giorni festivi e ne’ trionfali per magnificare g/i 
Jddj ; mentre usate di raro non offendono. In oppo- 
sito penso che si conservi a questi uomini la sedir 
curule ove siedono rendendo ragione , e la veste can- 
dida cinta intorno di porpora , e li dodici fasci che 
il venir loro precedano. Oltracciò perchè quelli che 
prendono il comando non molto ne abusino, io penso 
utilissima e principalissima cosa , che non lascinsì 
comandare tutta la vita. Imperciocché riesce a tutd 
grave un comando ind^nito , uft comando che non 
pià dia di sè ragione ; e di qua vien la tirannide. 
Ma si limiti come tra gli Ateniesi f autorità del co- 
mando ad un anno. Quel- comandare a vicenda e 
quell' essere comandato , quel deporre il pMere prima 
che il pensar vi si guasti , preoccupa le indoli vane, 
nè lascia che vi / inebbrino. Se .così stabiliamo , go- 
deremo i beni che sono il frutto di una regia domi- 
nazione , e schiveremo i mali che né conseguitano. E 
perchè il nome regio , consueto già tra' nostri avi , 
ed introdotto in questa città co t gli augurj propizj 
degl Jddj che lo favorivano , ti custodisca , almeno 
per tale riguardo ; si faccia continuamente , a vita , 
ed onorisi un re del Culto ^ un che libero dalle cure 
militari in questo solo si occupi e non in altro, cioè 
che abbia , quasi re ne fosse , l’ arbitrio sovrano 
de’ sacrifizj. 

LXXV. Ora udite come fia ciascuna di queste cose. 


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libro IV. 97 

’ Io , poiché dalle leggi mi si concede , io raccoglierò, 
come diceva, l’adunanza del popolo, e riesporrò la 
mia mente di bandire Tarquinia colla moglie e coi 
figli da Roma e suo territorio , escludendoneli per 
sempre essi e la lor discendenza. Quando avran ciò 
stabilito co’ voti , io dichiarando allora il governo che 
pensiamo fondare, eleggerò V interré, il qual nomini 
quelli che prendano le redini della repubblica. Quindi 
io deporrò la prefettura dei Celeri; e V interré da me 
creato , proporrà gl’ idonei all’ annua preminenza , 
rimettendoli al voto de’ cittadini : e se il pià delle 
centurie ne tien buona la proposta , se propizj gli 
oracoli la favoriscono , assumano i fasci e le insegne 
del potere sovrano , e provvedano che libera abitiamo 
la patria , nè pià li Tarquinj vi ritornino. Imperoc- 
ché questi , abbiatelo per certo , se non invigiliamo 
su loro , tenteranno colla persuasiva , colla forza , 
coll’ inganno , per ogni via finalmente , rimettersi 
nell impero. Queste sono le somme , le principalis- 
sime cose, che io dir posso e raccomandar di pre- 
sente. Quelli poi che avranno il comando devono , 
come io giudico , esaminare una per una , le cose 
particolari, giacché troppe, nè facili a discutersi pie- 
namente ; e noi siamo stretti dal tempo: anzi'deono, 
come usavano i re ponderarle col corpo del Senato , 
non concludendone alcuna senza noi ; e quando siano 
approvate dal Senato , rapportarle , come f accasi tra 
i nostri maggiori , al popolo non levandogli niun 
diritto di quanti s’ avea nel principio. Così le sue 
magistrature saranno sicurissime e bellissime. 

DIOSIGI, tomo ir, - 


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98 


DELLE antichità’ ROMÀNE 


LXXVI. Proferendo Giunio Bruto tal suo parere tutti 
lo commendanino ; e datisi ben tosto a consultare, de- 
cisero che si nominasse interré Spurio Lucrezio il padre 
di colei che uccise sestessa: e che da lui si scegliessero 
per avere il potere dei re Lucio Giunio Bruto , e Lu- 
cio Tarqninio Collatino. Stabiliscono che tali sopra- 
stanti nell’ idioma loro si chiamassero Consoli , vnol 
dire consiglieri o capi del ronsiglio , interpetrando in 
greco tal nome , giacché i Romani ciocché noi simbou- 
las diremmo chiaman consiglio. Coi volgere però del 
tempo i consoli furono per l’ ampiezza del potere chia- 
mati Ypati dalia Grecia , comandando essi a tutti e t^ 
neodo.il più sublime de* gradi; e chiamandosi da’ nostri 
antichi Ipaton quanto sopralzasi, e maggioreggia. Dopo 
tali consulte e tali istituzioni supplicarono co’ voti gli 
Iddj che fossero propizj ad essi .intenti ad opera si giu< 
sta e si santa, e ne andarono al Foro co’ servi che li 
segniuvano, portando su letto , coperto di funebri gra- 
maglie, la estinta , incuba e sanguinosa. E comandando 
che dinanzi la curia la collocassero elevata e visibile , 
convocarono il popolo. E conciossiaché li banditori pei 
quadrivi ve la inviuvano ; accorsevi la moltitudine dalla 
città nommeno che quanta ne era pel Foro. Allora Bruto 
asceso ove sogliono quei che aringano le adunanze, e 
circondato da’ patrizj disse : 

LXXVII. Dovendo io ragionarvi o cittadini di ot- 
time e necessarie cose voglio prima dirvene alcuna 
su me. A taluni, anzi a molti di voi, ben lo ve- 
do , parrà forse da scapestrato , che io non atto , 
io non sano di mente , io che ho bisogno di chi mi 


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LIBRO IV. 99 

governi , io mi accinga a f Orlarvi di gravissime cose. 
Ma sappiate che il concetto comune , quel che uuti 
avevate su me, come di uno stolido è falso, e cau- 
sino ad arte da me , non da altri. E quello che mi 
ridusse a vivere non come la natura , ed il decoro 
mio dimandavano , ma come per Tarquinia , come 
per t utile mio convenivami, fu la paura della morte. 
Imperocché Tarquinia , quando prese il regno , uc« 
ciso mio padre per invaderne il patrimonio , che ben 
era copioso , ed ucciso furtivamente mio fratello il 
maggiore perchè se non sei toglieva , fatte avrebbe 
del tradito padre le vendette ; è chiaro che non 
avrebbe risparmiato neppur me , ridotto già solo , e 
privo de* congiunti se non mi fossi in stolido travi- 
sato. Tal mia finzione fu creduta dal tiranno , e mi 
esimè dalle sciagure de miei , mi scampò fino al pre- 
sente. Ma ora (nè pur venuto finalmente il dì eh’ io 
chiedea , che aspettava ) ora questa mia stolidità , che 
per cinque lustri io mi custodii , sì questa, oggi, qui 
tra voi per la prima volta depongo. E ciò basti su 
me. 1 

LXXYIH. Eccovi poi le pubbliche cose per le quali 
vi convocai. Tarquinio , colui che ottenne il comando 
non secondo i patrf costumi , non secondo le leggi , 
colui che ottenutolo non lo esercitò convenientemente , 
e da re , ma superando tutti i principi andati , per 
ingiurie e per soverchierie , sì questo Tarquinio , noi 
patrizj qua congregati , abbiam risoluto degradarlo. 
Ciò che aveasi a fare in . antico , ora deliberati a 
farlo come in buon punto , vi abbiamo o popolo , 


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loo DELLE Antichità’ romane 

convocalo , perchè , manifestandòvi il proposito no- 
stro , v’ invitassimo a combattere con noi per la li- 
bertà della patria, che più. non abbiamo da che re- 
Tar(juinio , e che mai più non avremo se ora 
inviliamo. Se. io avessi. qui tempo , quanto vorrei , se 
parlassi appo quei che noi sanno , numererei tutte le 
soverchierie del tiranno per le quali non una ma più 
volte era giustissimo di sterminarlo. Ma perciocché 
breve è il tempo che mi concedon gli affari , ed in 
questo si dee dir poco e far molto ; e perocché parlo 
ai conoscitori; ricorderò tra voi poche delle opere 
sue ma enormissime e patentissime , nè capaci affatto 
di difesa, - 

LXXIX. È questo o Romani quel Tarquinio , che 
innanzi di arrogarsi il regno spense col veleno Arante 
il suo fratello , perchè ricusava esser empio , e lo 
spense, ponendo a parte' della scelleraggme la tnoglie 
appunto di Arante e sorella' insieme della sua mo- 
glie , cK egli’ avea già prima violata in ira de' Numi. 
E questi cheàn un tempo' medesimo uccise co' far - 
maci stessi la sua consorte , pudica donna, e madre 
con esso di figli comuni; questi, che poi non volle 
di ambedue li venefizj operati , quasi reo non ne 
fosse , àllontanare da sè le incolpazióni almen col- 
V aspetto dismesso e con piccola finzion di dolore ; 
ma che appena commessa f opera- portentosa, quando 
non. erano ancora venuti meno i fuochi che brucia- 
vano i corpi infelici , convitò gli amici, rinnovò le 
nozze, e condusse la sposa micidiale al talamo della 
sorella, avendone con lei già stretto l' occulto trai- 


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LIBRO IV. lOl 

tato. Così quest’ uomo il primo , il solo dava in Roma 
r esempio di empietà , di esecrazioni , non avvenute 
mai tra’ Greci , nè tra’ barbari. Ma quali , o popolo , 
quali non fece attentati , quanto notorj , e quanto 
teiTibili contro di ambedue li suoceri suoi già pros- 
simi al fine della vita ? Trucidato in pubblico Servio 
Tullio il più. mansueto dei re , colui che tanto vi 
aveva beneficato , non permise che ne fosse il cada- 
vere onorato , non col trasporto > non colla sepoltura 
a norma delle leggi : e Tarquinia la donna di que- 
sto ch’egli dovea venerare qual . madre , come sorella 
del padre, Tarquinia già tanto .sollecita in suo bene, % 

egli la strangolava , sì, questa misera , innanzi che 
prendesse il lutto , e che rendesse in su la tomba al 
marito gli ultimi onori. Così contraccambiava quelli 
da quali fa salvo , da quali fu nudrito , ed. a quali 
avrebbe pur succeduto sol che avesse un poco aspet- 
tato finché venisse loro naturalmente^ la morte. . t 
LXXX. Ma perchè più, su questo riprendolo , quan- 
do , oltre i delitti contro de’ consan^inei e de’ suo- 
ceri , ho pur da accusarne le tante prevaricazioni 
contro la patria , e contro noi tutti , se prevarica- 
zioni son queste , e non sovversioni e rovine di ogni 
costume e di ogni legge. E per comiiKiare subito ^dal 
regno , come lo prese egli questo ? forse come i re 
precedenti? ma quando mai? molto nè egli lontano. 

Imperocché quei tutti furono da voi portati al trono 
secondo i patrj costumi e le leggi , prima col decreto 
del ' Senato che è il capo di ogni pubblica delibera- 
zione , poi degl’ interré scelti ed incaricati dal Senato 


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102 DELLE Antichità’ romane 
per nominare il pià idoneo al comando f e co’ voti 
dati ne' comizj dal popolo , da cui , la legge vuole , 
che si ratifichi ogni cosa più rilevante , e finalmente 
cogli augurj f colle vittime , e con altri segni propizj 
senza i quali niente giovano i maneggi e le previ- 
denze degli uomini. Or dite , qual di voi mai vide 
una parte almeno fatta di ciò quando Tarquinio 
prese il comando ? qual vide decreto preliminare del 
Senato? quale scelta degl’ interré? quali suffiragj del 
popolo ? per non dire dov è tutto questo ? quantun- 
que se egli voleva il regno lecitamente , non dovea 
parte ninna pretermettersi di quanto chiedesi dalle 
leggi. Certo se alcuno può dimostrarmene fatta pur 
una di queste cose , più non vo’ che si brontoli su 
le altre che si tralasciarono. Come dunque egli si 
spinse al trono ? colle arme , come i tiranni , colla 
violenza , colla congiura degli scellerati, noi riprovan- 
dolo , e dolendocene, E fattosi re , comunque ciò 
fosse , la sosteneva egli V autoràà tua regalmente ? 
Emulava i suoi predecessori i quali co’ detti e co’ fatti 
costanti così ressero, che lasciarono a’ posteri la città 
più felice e più grande che presa non V avessero ? 
Chi , se pure è sano di mente , chi potrà mai dir 
ciò , vedendo quanto miseramente e scelleratamente 
siamo stati da lui malmenati ? 

LXXXI. Tacio le sciagure di noi senatori, le quali, 
pur un nemico , udendole , ne piangerebbe , e come 
siam pochi rimasi di molti , come rendati abbietti di 
granài , e come venuti a disagio e stento , cadendo 
dai tanti e sì ampj beni. Que’ grati j que’ potenti , 


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LIBRO IV. Io3 

que cospicui uomini , po' quali questa nostra città 
era un tempo magnifica , quelli perirono , o fuggono 
la patria. E le vostre cose y o popolo , come stan 
esse ? Non ha tolto . a voi le leggi ? non i concorsi 
soliti per le feste e pe’ sacrifizj ? Non ha fatto ces- 
sare i comkj , i suffragj , e le adunanze tutte su le 
pubbliche cose? Ridotti siete, quali schiavi comperati, 
ai vilipendi di tagliare , di portare pietre ed arbori , 
di logorarvi tra gli antri e i baratri senza requie 
mai, neppur tenuissima dai mali. Or quando avran 
fine mai tali strazj ? fino a quando li starem soppor- 
tando ? Quando la patria libertà vendicheremo ? .. . 
Al morir del tiranno ? Appunto ! Dite ci sarà allora 
pià facile ? E perchè non piuttosto assai meno ? se 
per un Tarquinio ne avrem tre molto pià scellerati? 
Se chi di privato è divenuto monarca, se chi tardi 
ha cominciato a nuocere, ha percorsa tutta la mal- 
vagità de’ tiranni , quali , pensate , esser debbono i 
discendenti da lui , scellerati di stirpe , scellerati di 
educazione , che mai non poterono vedere nè appren- 
dere in città misure politiche di moderazione ? E per- 
chè non per congetture , ma intimamente conosciate 
la perversità loro , e quai cani latratori alleva contro 
voi la tirannide di Tarquinio ; specchiatevi in un a- 
zione sola del primogenito. 

LXXXII. E questa la figlia di Spurio Lucrezio , 
lasciato prffetto in Roma dal Tiranno nelP andare 
alla guerra , e moglie insieme di Tarquinio Colla- 
Uno , del consanguineo de’ tiranni che pur tanto ha 
da loro sopportato. Or questa per serbarsi pudica. 


Vy 


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io4 DELLE Antichità’ romane 
e tutta agli amori del suo marito , come fanno le 
virtuose , avendo Sesto qual parente preso ospizio 
appo lei , mentre Collatino era lungi nelt armata , 
non potè schivare nella passata notte le onte. sfre- 
nate della tirannide; ma violentata come una schù^va 
sostenne ciocché libera donna non dee. Pertanto esa- 
cerbatane , e presa la ingiuria per insoffribile , dopo 
che ebbe narrato al padre e a congiunti le vicende 
ree che la desolarono , dopo che ebbe pregato e scon- 
giurato che la vendicassero per tanti mali; alfine 
traendo il pugnale che celava nel seno , profondos- 
selo, e vedendola il padre j o Romani, nelle viscere. 
O tu certo mirabile , o tu di encomj degnissima per 
la nobile ' risoluzione ! t’ involasti, moristi non reg- 
gendo agli obbrobri del tiranno , e ■■ ricusasti le dol- 
cezze tutte del vivere perchè simile calamità non ti 
avvenisse. Avrai tu dunque o Lucrezia nella tua fem- 
minil condizione K avuto il. cuore de’ valentuomini , e 
noi , uomini - nati , noi saremo in viltà men che le 
femmine ? Tu perchè predata a forza del fiore im- 
macolato della tua pudicizia , avrai tu reputato la 
morte pià dolce e pià beata della vita; e noi non 
avrem pur nell’ animo , che Tarquinio non da una 
notte , ma già da venticinque anni ci opprime , e ci 
ha colla libertà levato gli agi tutti del vivere ? No ; 
pià non dobbiamo , o Romani , noi vivere avvolgen- 
doci in tanti pericoli , noi che discendenti siamo di 
que bravi , che vollero fondare i diritti fin per gli 
altri, e lanciaronsi a tanti .pericoli per la sovranità 
e la gloria : ma V una delle due si dee scegliere o 



LIBRO IV. Io5 

libera vita, o morte onorata. È pur venuto il tempo 
che bramavamo ; perchè lungi è il tiranno dalla città, 
e perchè duci sono della impresa i patrizj , e perchè 
se con animo pronto ci facciamo ad imprendere , non 
abbisogniamo di cosa niuna non di uomini , non di 
danari , non di arme , non di capitani , non di altro 
apparecchio militare ; essendone Roma pienissima. 
Siaci pure una volta vergognà che noi che cerchiamo 
signoreggiare i Volsci , i Sabini , ed altri moltissimi^ 
noi stiamo • ad altri servendo , e che mentre tante 
guerre imprendiamo per in^andire Tarquinio , niuna 
per la nostra liberuì ne facciamo. 

LXXXIII. Ma di quali incora^menti ci varrem 
per la impresa , di quai leghe ? È questo che rima- 
nenti a dire. Primieramente c incoraggiremo su la 
speranza negl’ Iddj de’ quali Tarquinio viola le sante 
cose , i templi , gli altari , libando e sacrificando con 
mani lorde di sangue, e di ogni scelleraggine contró 
de cittadini; appresso c incoraggiremo su la speranza 
che abbiam su noi stessi che nè pochi siamo , nè 
inesperti di gierra ; e finalmente sul rinforzo di que- 
gli alleati i quali non ardiranno far novità se noi 
non ve 'gV invitiamo ; ma se vedono che noi il valor 
nostro raccendiamo , lietissimi ci si uniran per com- 
battere ; nemico essendo della tirannide chiunque 
vuole esser libero. Che se alcuno di voi teme quei 
cittadini che in campo si porran con Tarquinio per 
militare con esso contro noi ;• non bene teme costui. 
Anche ad essi è grave la tirannide , ed ingènito in 
tutti è V amore della libertà : ed ogni occasione di 


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I06 DELLE ANTICHITÀ.’ ROMANE 

mutamento basta a chi è misero necessariamente. Che 
se voi li chiamerete col voto vostro a soccorrer la pa- 
tria , non timore li riterrà co’ tiranni , non grazia , e 
non cosa ninna la quale sforzi o persuada , a mal 
fare. E se in alcuni si è per la ria natura , e la 
trista educazione abbarbicato V amor dei tiranni ; ri- 
durremo ancor essi , che molti non sono , con insu- 
perabile necessità sicché utili ci divengano i malevoli ; 
perciocché teniamo in città quali ostaggi i loro figli , 
le mogli , i parenti , pegni carissimi che ognuno pre- 
gia più che la vita. Or se noi prometteremo di ren- 
dere questi , se decreteremo per essi la impunità 
quando distacchinsi dal tìrannno ; di leggeri li per- 
suaderemo. Cosicché fatevi cuore o Romani , concepite 
belle speranze per V avvenire , uscite per una guerra, 
certo la più gloriosa di quante mai ne imprendeste. 
Si , palrj Dei , propizj curatori di questa terra , sì 
Genj , tutelari già de nostri padri, sì, città caris- 
sima infra tutte ai Celesti nella quale nascemmo e 
cresciamo , sì noi vi difenderemo co’ pensieri, colle 
parole , colle opere , colla vita ; pronti a tutto sof- 
frire , quanto la fortuna porti ed il fato. Presagi- 
scorni che alla impresa buona seguirà fine bonissinto. 
Possano quanti confidano , quanti decidonsi come noi, 
voi salvare ed essere da voi salvati parimente ! 

LXXXIY. Mentre Bruto aringava , faceansi ad ogni 
suo detto acclamazioni dal popolo in signiBcazione , che 
esso appunto cosi voleva, e comandava. Ed i più sen- 
tendo quel parlare maraviglioso ed inaspettato lagrima- 
vano per tenerezza. Inondavano passioni varie nè punto 


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LIBRO IV. 1 07 

amSi ogni petto: e dove il rancore, dove la gioja trion- 
favano , là pe’ mali già sostenuti , qua pe’ beni che si 
aspettavano. Dove era audacia , dove timidità , quella 
che incitava a non curar sicurezsa contro i subjetti , 
odiati perchè intenti a far male ; e T altra che oppo» 
neasi agl’ impeti delia prima , perchè vedea non facile 
la rovina della tirannide. Ma non sì tosto colui cessò 
dal parlare ; tutti , quasi con una bocca , ad una voce 
esclamarono, che guidassegli alle arme. E Bruto dilet- 
tatone , sì , disse , ma quando prima avrete udito , e 
confermata co’ voti vostri i decreti del Senato. E noi 
decretiamo CHS i TAsqvatj s tutta la consangvu 
HIT a' loro svogano ROMA E QUANTO È Ds' ROMAICI : 
CBS NIUNO FOSSA DIRE O BRIGARE SUL RITORNO DEI 

tiranni; e se contravviene; si" uccida. Or se 
volete che un tal parere si adotti ; compartitevi in 
curie , e datene i voti. Questo incominci per voi li 
diritti della' vostra libertà. Disse ; e cosi fu hitto : e 
poiché tutte le Curie ebbero decretato 1’ esilio del ti- 
ranno ; Bruto fattosi innanzi , ripigliò : Giacché avete 
voi ratificato quanto deesi , le prime cose ; ascoltate 
U resto che abbiam deliberata su lo Stata. Esami- 
nando noi qual magistrata esser dee V arbitro del 
comando , ci è piaciuto , non già di rinnovare il co- 
mando di un solo , ma di creare ogm anno due capi 
con regio potere , che voi stessi eleggerete ne’ comizj, 
votandovi per centurie. Or se volete anche ciò ; da- 
tene il voto. Il popolo lodò questo ugualmente; nè vi 
fu pur un voto contrario. Quindi ripresentatosi Bruto , 
nominò Spurio Lucrezio per interré , perchè secondo le 


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io8 DELLE Antichità’ romane 
patrie leggi prendesse cura de’comisj. Costui sciogliendo ' 
r adunanza , ordinò che tutti subito si recassero in arme 
al campo , dove solcano tenere i comizj. Recativisi ; 
scelse due Bruto e Gollatino che facessero quanto fa- 
cevano i re. Ed il 'popolo chiamato per centurie con» 
fermò la magistratura a que’ due. Tali sono le cose ai» 
lora fatte in città. 

LXXXV. Tarqninio come udì da messaggeri sottrat» 
tisi per avventura da Roma prima che le porte se ne 
chiudessero , che Bruto (perché narravano questo solo) 
fattosi capo-popolo , aringava i cittadini , e suscitavali a 
rendersi liberi , parti senza dirne le cause , prendendo 
se^o i figli , ed altri più fidi , e correndo a briglie 
sciolte onde prevenire la ribellione. Ma trovando chiuse 
le porte , e piene le mura di arme , tornossene , quanto 
potè , veloce nel campo affligendosi e lagrimando : se 
non che già le sue cose erano qui pure in iscompigUo. 
Imperocché li consoli antivedendo la sollecita venuta di 
lui verso Roma aveano per altra via spedito all’armata, 
invitandola a togliersi dal tiranno , ed annunziandole i 
decreti di quei della città. Or Tito Erminio e Marco 
Orazio lasciati dal tiranno nel campo prendendo quelle 
lettere le recitarono nell’ adunanza : e dimandando via 
via per centurie ciò che era da fare , e piaciuto a tutti 
che si ratificassero le deliberazioni della città ; più non 
riceverono Tarquinio che tornavasi a loro. E caduto 
pur da questa speranza fuggisseue con pochi alla città 
di Gabio f della quale , come ho detto di sopra , avea 
creato monarca , Sesto il suo primogenito. Esso già ca- 
nuto per anni avea tenuto per cinque lustri il comando. 


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LIBRO IV, 1 09 

Erminio ed Orazio , concbiusa una tregua di quindici 
anni cogli ÀrdeatinI , ricondussero in patria le milizie. 
Per tali cause e da tali uomini fu tolta in Roma la 
regia dominazione, conservatavisi per dugcnto quaranla- 
quattr’ anni dalla sua fondazione , e divenuta in fine 
tirannide sotto 1’ ultimo re. 


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Ilo 


DELLE 

ANTICHITÀ ROMANE 

O I 

DIONIGI ALICARNASSEO 


LIBRO QUINTO. 


I. OloMSERVATASl in Roma la regia dominazione per 
dugento quarantaquatlr anni e cangiatavisi poscia in ti- 
rannide sotto r ultimo re fa per le cagioni anzidette 
abolita da tali uomini (i) sul principio della olimpiade 
sessagesima ottava , nella quale Iscomaco da Crotone 
vinse allo stadio , mentre Isagora esercitava in Atene 
r aunuo magistrato. Ed istituitasi la signoria de’ pochi , 
mancando quattro mesi al compiersi di quell’anno , as- 
sunsero i primi il comando supremo , Lucio Giunio 
Bruto e Lucio Tarquioio Collatino col nome di consoli, 

(i) Anni 345 fecondo Catone e i 47 'ecjndo Varrone dalla fonda- 
ilone di Roìna , e So; avanli Cristo. 


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DELLE Antichità’ bomane libro v. ih 

cosi chiamandosi da* Romani, come già dissi, nel patrio 
idioma i capi del Senato. Poi congiungendo questi a sè 
gli altri che numerosi tornavano dal campo in città dopo 
conchiosa la tregua con gli Àrdeatini ; e pochi giorni 
appresso la espulsione del Tiranno convocando il popolo 
a parlamento , e ragionando copiosamente su la concor* 
dia ; fecero di bel nuovo decretare co’ voti , come già 
quelli che erano in Roma lo avevano decretato , bando 
perpetuo ai Tarquinj. Dopo ciò puri6cando la città , 
fattone sacrifizio ; essi i primi , stando intorno le vitti- 
me , giurarono , e ccndussero pur gli altri a giurare , 
che mai più dal bando richiamerebbero il re Tarquinio, 
nè la prole di lui , nè i figli de’ figli : anzi che non più 
iarebbono re ninno in Roma , nè tollererebbono chi far 
cel volesse. Cosi giurarono su’ Tarquinj , su* figli, e su 
la prosapia loro. E , couciossiachè pareano i re , stati 
autori di molti e gran beni inverso del pubblico, deli- 
beratisi a conservare il nome almeno di tal signoria , 
finché Roma durava, comandarono ai pontefici ed agli 
auguri di eleggere il più idoneo tra’seniori, perchè tolto 
da tutte le cure , se non dalle religiose , presedesse in 
sul culto, e Me si chiamasse non delle politiche, non 
delle militari , . ma delle sante cose. Per tanto fu delle 
sante cose nominato re per il primo Manio Papirio , 
uomo patrizio e dedito alla dolce calma (i). 

II. Stabilito ciò , temendo , io credo , che non si ge- 
nerasse negli altri sui nuovo governo la idea non vera, 
che in luogo di uno dominavano due re la città mentre 

Secondo Feslo il primo re tacriJieuUu , fa Sicinnio Beliulo , 
ed in cfò discorda da Dionigi e da Livio. 



II2 DELLE Antichità’ romane 
r uno e 1’ altro de’ consoli avca come un tempo i re le 
dodici scuri ; deliberarono preoccupar tal concetto, e sce- 
mare la invidia del comando, e fecero cbe l’uno de’con- 
soli portasse dodici scuri , e F altro dodici littori colle 
verghe coronate solamente (i) come narrano alcuni: tal- 
ché le scuri le assumesse e recasse ora l’uno ora F altro vi- 
cendevolmente per un mese intiero. Animarono con que- 
sto F umile plebe a conservar quel governo ; e con simili 
cose non poche. Imperocché rinnovarono tutte le leggi 
scritte da Tullio su’ contratti ; le quali si tenean per 
umane e popolari , e Tarquinio aveale tutte soppresse : 
e comandarono che si facessero come a’ tempi di Tullio, 
i sagriGzj che in città si faceaiio o nella campagna , riu- 
iiendovisi que’ di Roma e de’ villaggi. Concederono che 
il popolo si radunasse per le cose più rilevanti , e desse 
il voto , e ripigliasse a voler suo gli usi primitivi. Pia- 
ceano tali cose alla moltitudine ravvivatasi dal servir 
lungo a libertà non aspettata. Nondimeno ci ebbero al- 
quanti i quali desiderosi de’ mali della tirannide per de- 
menza o per avarizia congiurarono di tradire la patria 
e richiamarvi i Tarquinj , trucidandone i consoli : ed io 
dirò quali ne fossero i capi, e come im provvedutamente 
scoperti , mentre credeansi occulti a- tutti, ma riassumerò 
le cose alquanto più addietro. 

III. Caduto Tarquinio dal trono , si tenne per un 
tempo, non lungo, in Gabio, raccogliendo quanti a 

(i) Il lesto non è ben fìsso : e fotse dee leggersi verghe curve o 
grosse nella lesta. Il codice Valicano avendola voce xafvtat e noa 
xtfà/tttt favorisce la idea di verghe grosse in testa. Silburgio pro- 
pende per le verghe ricurve iu cima . 


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LIBRO V. I 1 3 

lui ne venivano amici della tirannide pià che delia li- 
bertà , e confortandovisi in su le speranze de’ Latini , 
quasi potessero questi ricondurlo alla reggia. Ma poscia 
che le città non io ascoltavano nè voleano per lui fare 
una guerra ai Romani ; disperandone alfìne il soccorso 
fuggissene a Tarquinj città Tirrena , donde era la ma- 
terna origine sua. E cattivandosi que’ cittadini co’ doni , 
e prodotto da essi in piena adunanza , rinnovò 1’ antica 
congiunzione con loro, e commemorò li benefizj deU 
r aiuolo suo con tutte le città Tirrene , e gli accordi 
che avean fatto con lui. Poi si lamentò con tutti della 
sciagura che avealo preso , e come travolto in un sol 
giorno da lietissima condizione , ora profugo con tre 
6gli e bisognoso fin del necessario , era costretto ricór- 
rere a popoli , un tempo, sudditi suoi. Scorrendo su 
tali cose pateticamente e con molte lagrime, indusse il* 
popolo a spedire il primo a Roma uomini che portas» 
sero parole di pace per lui , quasi i potenti ivi fossero 
per favorirlo, ed ajutarlo* al ritorno. Nominati quelli 
eh’ egli volle per ambasciadori , ed istruitili delie cose 
che erano da dire e da fare gli spedi con alquanto di 
oro e con lettere de’ fuorusciti con esso dirette con 
preghiere agli amici e domestici loro. 

IV. Venuti questi a Roma dissero hi Senato : che 
chiedea Tarquinia la franchigia di venire con pochi 
prima in Senato, e poi, quando ciò fossegli conce-- 
duto dal Senato , nell adunanza del popolo per darvi 
conto delle opere sue fin dai principj del regno , 
falline giudici tutti i Romani , se alcuno mai lo ac - 

DIONIGI , tomo II. S 


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1 1 4 DELLE Antichità’ romane 
cusasse. Che se appien si giustifica, se persuade che 
egli non ha colpe degne dell esilio ; allora se gUel 
concedano , regnerà novamente con que' limiti che gli 
prescriveranno : se poi decreteranno di non voler più. 
come per l’ addietro la sovranità dei re , ma di fon-^ 
darne un altra qualunque , egli uniformandovisi al 
pari degli altri reslerassene colla sua famiglia in Ro- 
ma, sua patria, libero almeno della vita degli erranti, 
e de' profughi. E ciò detto supplicavano il Senato pei 
comuni diritti che vogliono che niun si condanni senza 
discolpe e giudizj , a concedere una difesa della quale 
essi giudicherebbero. Che se ciò non volevano a lui 
concedere , fossero compiacevoli almeno in vista della 
città la quale s' intrametteva. Compiacendola , tutto- 
ché senza discapito loro , assai onorerebbero la città 
che ciò conseguiva. Uomini essendo , non si elevassero 
sopra la sorte degli uomini: nè serbassero immortali 
sdegni in cuori mortali : ma in grazia degt inter- 
cessori si sforzassero anche contro lor voglia di usare 
mansuetudine ; considerando eh' egli è da savio con- 
donare le inimicizie per le amicizie ; ma da stello e 
da barbaro volgere in nemici gli amici. 

V. Aveano ciò detto , quando Bruto sorgendo re- 
plicò : Sul ritorno de' Tarquinj in Roma cessate o 
Tirreni di più ragionarne. Imperciocché già si è qui J 
volato irreparabilmente per l'esilio loro: ed abbiamo 
tutti ^giurato agC Iddj di non restituire i tiranni, e di 
non tollerare che altri ce li restituisse. Ma se chie- 
deste con altra moderazione a cui nè le leggi nè li 
giuramenti si oppongono', manifestatevi. Or qui fai- 


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LIBRO V. 1 I 5 

tùi innanzi gli ambasciadoi’i soggiunsero : Terminale ci 
sono contro la espettazione le prime dimandet am- 
basciadori per uno che si raccomanda , per uno che 
vuole dare a voi conto di sè stesso , abbiamo chiesto 
qual grazia ciocch’ era diritto per lutti : nè potemmo 
ottenerlo. Ora poiché ve n è parato così ; non più vi 
presseremo sul tornar de' Tarquinj. J\oi facciamo 
istanza per un altro diritto di cui la patria c incari- 
cava , e su cui non legge , non giuramento impedi- 
scavi, cioè che rendiate al monarca i beni clm [ avolo 
suo possedeva senza toglierli a voi nè di forza nè in 
occulto , ma portati qui avendoli , come ereditati dal 
padre. A lui basterà , se lo ricupera, il suo, per vi- 
vere altrove Jelicemente, senza vostra molestia. Riti- 
raroDsi ciò detto gli ambasciadorì. Bruto T uno de’ con- 
soli suggeriva che si ritenesser que' beni in compenso 
delle ingiustizie sì gravi e sì numerose dei tiranni 
contra del pubblico , e per util di Stato : perchè non 
si dessero ad essi de mezzi co’ quali far guerra ; 
preammonendo, che nè si affezionerebbero ad essi 
i Tarquinj col riavere i lor beni nè sosterrebbero una 
vita privata , ma porterebbero su Romani le arme di 
altri popoli , e tenterebbero di tornare colla forza al 
comando. Collatino però consigliava il contrario , di- 
cendo che non gli averi , ma le persone dei tiranni 
noceano la città. Pertanto scongiuravali a guardarsi 
prima dalC incorrere nella rea fama di avere espulso 
i Tarquinj per invaderne i beni , e poi dal porgere 
ad essi cosi spogliandoli , giusta occasione di guerra : 
dicea che non era chiaro , che ricuperando i beni si 


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1 1 6 DELLE Antichità’ romane 
accingerebbe^ ancora ad una guerra con essi , lad- 
dove era ben manifesto , che non ricuperandoli f rion 
si cheterebbero. 

VI. Cosi dicendo i consoli ; e molti sentendola col- 
r uno e coir altro ; il Senato dubitò come avesse a ri- 
solvere. E ripigliandone per più giorni l’ esame , e pa- 
rendogli che Bruto consigliasse il più utile , ma Colla- 
tino il più giusto ; in ultimo deliberò che giudice ne 
fosse il popolo. Or qui dette essendo più cosedairnno> 
e dall’ altro de’ consoli , e venendo alBne le curie , che 
eran trenta di numero , ai voli , preponderarono le une 
alle altre con si piccini divario che quelle le quali in- 
timavano che si rendessero i beni superarono di uà 
sol voto le altre le quali voleano che si ritenessero. I 
Tirreni avuta la risposta dai consoli : e molto lodando' 
la città che anteponesse all’ utile il giusto ; spedirono a 
Tarquinio perchè mandasse chi ricevesse i beni di lui ; 
frattanto essi resiavansi a Roma sul titolo del trasporto 
de’ mobili, o di dar sesto a ciò che non potessi menar 
via j nè carreggiare : ma in realtà spiando e brigandovi, 
come il tiranno aveali incaricali. Perocché ricapitarono' 
le lettere de’ profughi agli attinenti loro ; pigliandone 
le altre di replica. E conversando , e studiando le affe- 
zioni di molti , se ne trovavano alcuni facili ad essere 
guadagnati per la poca fermezza , per la inopia , o pel 
desiderio di 'empiersi nella tirannide, davansi a subor- 
narli coir oro e con ampliarne le belle speranze. Vi 
sarebbero secondo le apparenze in città si grande e si 
popolata, alquanti non degl’ infimi solo ma de’riguar- 
devoli i quali anteporrebbono il governo men buono al 


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LIBRO V. I 1 7 

migliore 'y or furono tra questi i due Giunj Tito e Ti> 
berio , figli di Bruto il console , puberi appena, e con 
essi i due Geli] (i) Marco e Manio fratelli della moglie 
di Bruto , idonei a’ pubblici affari : Lucio e Marco 
Aquìlio, figli ambedue della sorella di Collatino, altro 
consolo , e conformi di anni al figli di Bruto , presso 
a’ quali , non più vivendo il lor padre , per lo più si 
adunavano e ctmcertavano sul ritorno de’ tiranni. 

VII. Tra le molte cose , per le quali a me sembra 
che Roma giugnesse per la provvidenza de’nnmi a stato 
si prospero , non sono le infime quelle che avvennero 
allora. Imperocché si mise in que’ sciaurati tanta de- 
.menza , e tanta cecità , che osarono fino scrivere al 
tiranno di propria mano lettere che indicavano il nu- 
mero copioso de’ congiurati ed il tempo nel quale as- 
salirebbero r uno e r altro console , lusingati dalle epi- 
stole del perfido ad essi per le quali volea sapere i 
.compensi che avrebbe a dare, tornando in trono , al 
Romani. Ebbero i consoli queste lettere per tale in- 
contro. Eransi i prlmarj de’ complici riuniti in casa, 
degli Aquilj nati dalla sorella di Collatino , invitativi 
come a sante cose e sagrifizj. Dopo il convito ordi- 
nando che quei che lo aveano ministrato uscissero e si 

• tenessero nell’ anticamera; confabulavano infra loro su 

• la rintegrazione del tiranno , e segnavano ciascuno , i 
.mezzi che glien parevano di mano propria in lettere 
che gli Aquilj doveano far giungere ai messaggeri Tir- 
reni, e questi a Tarquinio. Intanto uno schiavo (Vin- 

(i) Sigonio ne* scogtj LÌTiani pone Vitel^ in luogo di Gellj se- 
guendo le antoriià di Livio e di Plnisrco. 


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I 1 8 DELLE antichità’ BOMANE 

dicio ne era il nome ) della città di Genina , il quale 
fervito gli avea di bevanda, sospettando dalla remoaione 
de’ servi che coloro macchinassero qualche scelleraggine, 
si stette solo fuori della porta , ed applicatovisi in una 
fessura ben lucida , ne udì li discorsi , e ne vide le 
lettere che vi si scrivevan da ognuno. Quindi a notte 
avanzala uscendo come in servigio de’ padroni , non 
ardi di andare ai consoli sol timore che volessero per 
r amor de’ congiunti che il fatto si occultasse , e ' levas~ 
sero di mezzo chi porgea la dinunzia : ma recatosi a 
Pubblio Valerio l’ uno de’ quattro , primarj nel tor la 
tirannide y congiunsero a vicenda la destra , e giuratagli 
da lui sicurezza , gli svelò quanto odi , e quanto vide. 
Colui , saputo il fatto , si presentò • senza indugio su 
r alba in casa degli Aquilj con valida schiera di clienti 
e di amici , e penetrandone senza «>ntesa le porte co- 
me per tutt’aliro affare , s’impadronl delle lettere men- 
tre pur v’ eran que’ giovani , i quali menò seoo innanzi 
de’ consoli. 

Vili. Ora essendo io per dire le sublimi , e meravi- 
gliose gesta di Bruto di che tanto i Romani si magni- 
ficano , temo che sembrino austere troppo nè credibili 
ai Greci , giacché tutti sogliono per natura giudicare le 
cose che di altri si dicono dalle proprie, e secondo 
queste aversele per credibili o non credibili. Nondimeno 
io le dirò. Non si tosto fu giorno, sedutosi Bruto in 
tribunale , ed esaminando le lettere de' congiurati , ap- 
pena scopri quelle de’ figli distinguendole dai sigilli , e 
dopo rotti i sigilli , dai caratteri; ordinò primieramente 
•he lo scriba leggessene 1’ una e l’ altra , sicché tutti le 


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LIBRO V. I 19 

udissero, e quindi che i Ggli dicessero su ciò se vo- 
leano. Niuno de’ due ardiva rivolgersi impudentemente 
a negarle per sue, ma quasi avessero già condannato 
sè stessi, piangevano. Egli soprastando breve tempo 
sorse ; ed intimalo silenzio , ed aspettando tutti qual ne 
sarebbe la flne , disse , che condannavali a morte. Or 
qui alzarono tutti la voce , alienissimi , che avesse un 
tal uomo a punire sè stesso colla morte loro, e voleano 
condonare al padre la vita de’ figli. Ma egli non com- 
portando nè le voci nè i pianti comandò a’ satelliti che 
di là rimovessero i giovani che lagrimavano e supplica- 
vano e co’ nomi più teneri lo chiamavano. Riusciva 
spettacolo meraviglioso a tutti che un tal uomo niente 
piegato si fosse nè per le preghiere de’ cittadini , nè per 
la commi aerazione inverso de’ figli : assai però parve più 
portentosa 1' austerità di lui circa il supplizio. Imperoc- 
ché nè permise che si uccidessero i figli allontanati dal 
cospetto del popolo , nè egli , almeno per fuggirne la 
terribile vista , si ritirò dal Foro finché non furono pu- 
niti : nè condiscese pure , che subissero , non disonorati 
co’ flagelli almeno , la morte destinata. Ma custodendo 
tutte le consuetudini , e tutte le leggi quante ve n’ ha 
su’ malfattori , egli stesso nel Foro tra la pubblica vista 
presente a tutto , fattili prima straziar colle verghe ; 
concedette alfine che con le scurì si decapitassero. Sor- 
prendente soprattutto , inconcepibile era in quest’ uomo 
la immobilità degli sguardi senza indizio nemmeno di 
compassione. Tanto che piangendo tutti , egli solo fu 
visto non piangere sul destino de’ figli: nè sospirò per 
sè stesso , nè per la solitudine la quale facevasi nella 


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120 DELLE Antichità’ ROMANE 
sua casa , nè diè segno in tutto di debolezza: ma senza 
lagrime , senza lamenti , e come inalterabile , portò ma- 
gnanimamente la sua sciagura. Tanto era forte di ani- 
mo , tanto costante in compiere le risoluzioni , e tanto 
superiore agli affetti che turbano la ragione ! 

IX. Uccisi i &gli fe’ chiamare immantinente gli Aqui- 
Ij , 6gli della sorella dell’ altro console , presso a’ quali 
teneansi i congressi de’ congiurati. E comandando alle 
scriba che ne leggesse l’ epistole sicché tutti le udis- 
sero ; intimò ad essi che sen difendessero. Ma i giovani 
venuti dinanzi al tribunale, sia che ammoniti ne fossero 
dagli amici , sia che di per sè lo risolvessero , si gitta- 
rono a piedi dello zio per essere da lui salvati. Ma co- 
mandando Bruto ai littori che li svellessero , e li traes- 
sero se non voleano giustificarsi alla morte ; Collatino 
sopraggiunse a questi , che sospendessero alquanto fin- 
ché abboccavasi col collega , e pigliatolo da solo a solo 
orò lungamente pe’ garzoncelli ; parte escusandoli che 
fossero caduti in tale stoltezza per inesperienza e per 
compagnie triste di amici , e parte eccitandolo a con- 
donare la vita di parenti , dimandandolo in grazia lui 
che non d’altro mai più lo vesserebbe , e parte facendo 
riflettere che turberebbesi il popolo tutto se davausi ad 
uccidere chiunque sembrato fosse tenersela co’ fuoru- 
sciti perchè ritornassero ; imperocché dicea eh’ eran 
molti , e parecchi non ignobili di lignaggio. Ma non 
venendogli di persuaderlo; ne chiese almeno pena più 
mite che non la morte, dicendo: mal convenirsi che i 
complici si avesser la morte , mentre il tiranno non so- 
stenea che l’ esilio. E perciocché Bruto ripugnava da 


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LIBRO V. I 2 I 

pene più mi», nè voleva (ciocché chiedeva da ultimo 
il suo collega ) nemmeno differire il giudizio de’ colpe- 
voli , e minacciava , e giurava di darli tutti appunto iu 
quel giorno alla morte ; Coliatino sdegnatosi in fine che 
niente ottenea ; soggiunse : io , pari tuo , to scamperò 
que' giovini se tu se tanto intrattabile e duro : E Bruto 
indispettitone , no , disse, Coliatino ; non potrai finché 

10 vivo far salvi i traditori della patria : anzi tu pure 
darai tra non molto le pene che meritL 

X. Ciò detto, e messa una guardia su’ giovani chiamò 

11 popolo a parlamento : e riempiutosi il Foro, perchè 
il supplizio de’ figli suoi , già si era in città divulgato , 
egli facendosi in mezzo , cinto da’ più cospicui de’ se- 
natori disse : lo vorrei o Cittadini , che Collatino , 
questo mio compagno , fosse concorde con me su tutto, 
ed odiasse e combattesse i tiranni non pur colla voce, 
ma colle opere. Ora poiché lo trovo manifestamente 
contrario e congiunto in tutto a' Tarquinj di sangue, 
di voglie , e di brighe onde riconciliarceli , anzi col-- 
[ utile suo che del comune ; io sono risoluto di op~ 
pormegli perché non compia le ree sue macchinazioni, 
e perciò vi ho qua convocati. Io dirò primieramente 
in qitanto pericolo sia la città ; poi come t uno e 
t altro di noi siasi diportato. Biunitisi alquanti in 
casa degli Aquila nati dalla sorella di Collatino , e 
tra questi ambedue li miei figli e li fratelli della mia 
moglie , ed altri non ignobili ; stabilirono , e congiit- 
rarono la mia morte , e di restituirvi in Tarquinio il 
monarca. E già erano per mandare ei fuorusciti /efr- 
tere contrassegnate da loro caratteri e sigilli. Ma si 


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122 DELLE ANTICHITÀ* BOMANE 

fe ciò , la Dio mercede , a noi manifesto , indican- 
docelo questo uomo , che è un servo degli jiquilj , di 
quelli presso i quali si adunarono e scrissero nella 
notte precedente le lettere ; e noi , le abbiamo noi , 
queste lettere. Io già ne punii Tito e Tiberio miei 
figli : e niente , non leggi , non giuramenti , furono 
da me violati per la clemenza di un padre. Ma Col- 
latino mi ritoglica dalle mani gli Aquilj con dire che 
non soffrirebbe che partecipassero la sorte de' miei 
figli , se partecipato ne aveano i disegni. Ma se co- 
storo non soggiacìono a pena , nemmen dunque vi 
dovran soggiacere non i fratelli della mia moglie , 
non quanti sono , i traditori della patria. E qual di- 
ritto più grande avrò io contro questi, se risparmiatisi 
quelli ? Dite , qual contrassegno c mai questo , di 
amici della patria , o del tiranno , di conferma del 
giuramento che avete voi tutti prestato noi preceden- 
dovi , o di sconvolgimento e di perfidia ? Se egli ri- 
manevasi occulto , pur sarebbe in preda alle fune e 
sotto la vendetta degli Dei che spergiurava. Ora poi- 
ché vi si è palesalo a voi si spetta , a voi di punirlo. 
Vi persuadea costui pochi giorni addietro che rende- 
ste i suoi beni al tiranno , non perchè la città se gli 
avesse per usarne in guerra contro i nemici , ma per- 
chè li nemici gli avessero per usarne contro la città. 
Ed ora si arroga di esentare dalle pene i congiurati 
a restituirvi i tiranni , in favore come è chiaro di 
questi , perchè se mai tornano , sia di forza , sia per 
tradimento egli in vista di tanti servigj ne ottengcL 
come amico , quanto dimanda. Ed io che non ho per- 


S 


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LIBRO V. ia3 

donato a’ figli miei , io dovrò, o Collatino, te rispar- 
miare , che sei con noi di presenza , ma coll’ animo 
tra’ nemici ? E tu che salvi i traditori della patria , 
tu me che per essa travagiiomi , ucciderai ? Or potrà 
farsi ? Eh ! che lontani siamo di molto. E perchè 
non possi nulla di simile , ti levo dal consolato e 
cornandoti che in altra città ti conduciti. E voi o citi- 
iadini voi chiamerò ben tosto per centurie , e presi i 
voti, deciderete se dobbiam così fare. Intanto , (e 
vivissimamente avvertitelo ) voi l' una delle due mi 
dovete , escludere Collatino , o Bruto. 

XI. Or lui cosi dicendo ; Gollatino esclamando ed 
angustiandosi , cbiamavalo di cosa in cosa calunniatore 
e traditore degli amici : e purgandosi dalle incolpazioni 
contro di lui , pregava intanto pe’ fìgii della sorella: ma 
perciocché non permettea che si dispensassero i voti 
contro di lui ; inferocivane il popolo , levandosi a re- 
more in ogni suo dire. Ora essendo cosi inferocito nè 
soffrendo discolpe , nè volendo preghiere ma solo che 
si dispensassero i voti ; ed interponendosene il suocero 
Spurio Lucrezio , uom pregiatissimo , per timore che 
Collatino non perdesse ignominiosa mente ad un tempo 
il magistrato e la patria , chiese da ambi i consoli fa- 
coltà di parlare. Ed ottenutala , esso il primo , come 
dicono gli storici Romani , giacché non v* era ancor 
r uso che un privato aringasse il comune ; diedesi pub- 
blicarrtente a pregare 1’ uno e 1’ altro de’ consoli , Col- 
latino perché non si ostinasse e non ritenesse il comando 
a mal cuore de’ cittadini , che spontanei gliel diedero ; 
ma se pareva a que’ che gliel diedero di ripeterlo , vo- 


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124 delle antichità’ romane 
lontanamente lo restituisse , e levasse co’ fatti , non coi 
detti le accuse contro di lui : prendesse le sue cobbe e 
si recasse ad abiure altrove, dovunque voleva, Gnchè 

10 Stato non era in salvo ; cosi porUndo 1’ utile pub- 
blico : riflettesse come in altre ingiustizie gli uomini se 
ne sdegnano , quando sono commesse : ma che sospet- 
undosi di tradimenti stimano anzi saviezza temerne in- 
vano e guardarsene', che trascurarli e lasciarsene rovi- 
nare. Persuadeva poi Bruto , che non cacciasse dalla 
città con vergogna e con vitupero quel magistrato com> 
pagno col quale avea preso le risoluzioni più belle {>ér 
la patria : ma che desse a lui , s’ avea cuore di lasciare 

11 suo grado e di trasmigrarsi , tutto 1’ agio a raccor le 
sue robbe , e gli aggiungesse a nome del popolo un 
dono come pegno di consolazione nelle sue calamità. 

XII. Cosi consigliando quel valentuomo , inUnto che 
il popolo ne lodava i discorsi , Collatlno depose la sua 
dignità , contristato che per la pietà de’ parenti era 
astretto a lasciare e senza demeriti la patria. All’ oppo- 
sito encomiavalo Bruto perchè risolveva il migliore per 
la sua Roma e per sè , e pregavalo a non. disamorarsi 
nè verso di lui , nè della patria : trasportando al- 
trove la sede , considerasse ancor sua , la patria che 
lasciava , nè si meschiasse a’ nemici contro lei non 
colle parole , non colle opere. Considerasse in somma 
questo transito suo qual pellegrinalo , non qual 
bando, o fuga: tenesse il corpo presso quei .che lo 
ricevevano , ma V affetto suo , lo . tenesse questo , 
presso quei che lo mandavano. Or, cosi avendo am- 
monito quest’ uomo persuase il popolo a regalarlo di 


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LIBRO V.’ laS 

venti talenti , con aggiungerne egli cinque del suo. Ca» 
duto Tarquinio Cotlaiino in tale disgrazia si ritirò a 
Lavinia , antica madre de’> Latini dove carico di anni 
mori. Bmto non sopportando di essere solo al comando, 
per non dare sospetto , che levato avesse il compagno 
dalia patria per fervisi re , chiamò bentosto il popolo al 
campo dove usava eleggere i sovrani- e gli altri magi» 
strali , e creò per collega nel consolato Pubblio Yale» 
rio , uno dei discendenti , come sopra fu detto , dai 
Sabini , uom degno di ammirazione e di lode per le 
molle suo doli , e principalmente per la sobria sua 
vita. Egli trovando in sé stesso una luce naturale di 
filosofia , la fece brillare in più affari , come poco ap» 
presso diremo. 

XIII. Unanimi questi in tutto, immantinente diedero a 
morte , quanti erano , i congiurati al ritorno de’ fuom» 
sciti , e dichiararono libero e cittadino il servo . che 
aveali denunziali , colmandolo di oro. Poi fecero tre 
bellissimi ed utilissimi regolamenti , che la città con- 
temperarono a pensare tutta di un modo , sminuendo il 
favor pe' nemici. Il primo spediente fu di scegliere i 
migliori della plebe e di crearli patrizj , onde compier 
con essi un Senato di trecento. Appresso esposero al 
pubblico le suppellettili del tiranno , concedendo che 
ognuno se ne avesse , quanto toglievano ; e comparti- 
rono i terreni di esso a chi non aveane , riservandone 
unicamente il campo tra ’l fiume e tra la città , dedi- 
cato già dal voto degli antenati a Marte , come prato 
benissimo pe’ cavalli e per gli esercizj de’ giovani in 
arme. Tarquinio però , sebbene prima di lui fosse già 


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ia 6 DELLE ajitichita’ romane 
sacro a qnel nume , aveaselo appropiato , e sem inavaci : 
di che è sommo argomento la risoluzione allora presa 
da’ consoli sul ricollo che sen ebbe. Imperocché sebbene 
avessero conceduto al popolo di prendere e portarsi 
quanto era del tiranno , non però consentirono che al- 
cuno si arrogasse il grano germogliatovi , sia che fosse 
nelle spighe , sia che nell’ aja , sia che già lavorato ; 
ma decretarono che si gettasse nel fiume come esecraa* 
do , né degno che se lo avessero in casa. £ di tal giuo 
sopravvanza ancora , monumento famoso , la isoletta sa- 
cra ad Esculapio , bagnata intorno dal fiume , prodotta, 
dicono , dagli ammassi delle paglie corrotte , e dai fango 
che vi si appiccò nel correr delie acque. Rispetto a 
quelli che eransi fuggiti a Tarquinio accordarono ad 
essi generale perdono , e ritorno sicurissimo in patria 
fra venti giorni , intimando a chi venuto non fosse in 
quel termiue , 1’ esilio perpetuo e la confisca de’ beni. 
Or tali provvedimenti impegnarono ad ogni cimento 
quei che godeano le robe , quante mai fossero del ti- 
ranno, sul timore che non venisse ior meno l’utile che 
ne aveano; come impegnarono a favorire non più la 
tirannide ma la patria , que’ lutti che per le gesta loro 
sotto dei despoti , eransi esiliati da sé stessi , per timore 
di non pagarne le pene. 

XIV.- Ciò fallo , si diedero co* pensieri alia guerra te- 
nendo intanto 1’ esercito in campo presso di Roma sotto 
le insegne e li capitani per addestrarvelo ; perchè aveano 
udito che i fuornscili apparecchiavano centra loro ua 
armata dalle città dell’ Etruria , e che quelle de’ Tar- 
quinj e de’ Vejenii , potentissime ambedue, cooperavano 


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LIBRO V. 127 

manifettamente al ritorno di essi , mentre gli amici loro 
adunavano dalle altre de’ stipendiati e de’ volontarj. Ma 
non si tosto seppero che l’ inimico moveasi , delibera- 
rono di farsegli incontra ; e passando prima di esso il 
fiume , s' inoltrarono e si accamparono vicino ai Tirreni 
nel prato Giunio , presso la selva sacra ai genj di Ora- 
to (i). Trovaronsi ambedue le milizie quasi pari di nu- 
mero con ardore eguale per combattere. £ su le prime, 
surse , appena si videro , picciola mischia tra’ cavalieri , 
innanzi che le fanterie prendessero campo. Cosi gli uni 
sperimentarono gli altri , e non vincitori e non vinti si 
ritirarono ciascuno al corpo de’ suoi. Quindi messa la 
fanteria nel centro , e la cavalleria nelle ale si mossero 
da ambe le parti coll' ordine stesso fanti e cavalli gli 
uni contro degli altri. Conducea l’ala destra Valerio il 
console , contrapponendosi a’ Yejeuti : Bruto reggea la 
sinistra avendo a fronte la n^ilizia de’ Tarquiniesi co- 
mandata da’ figli del tiranno. 

XV. Erano già già per venire alle mani quando 
' avanzandosi dalle fila de’ Tarquiniesi 1’ uno de’ figli del 
tiranno , ( Aruute ne era il nome) il più vago di aspet- 
to , e più magnanimo de’ fratelli, e spinto il cavallo verso 
i Romani in parte, dove tutti ne intendesser la voce, 
coperse d’ ingiuria il duce Romano , chiamandolo fe- 
rino , selvaggio , lordo del sangue de’ figli , imbelle e 
vile , e lo sfidò per tutti a combattere solo. E colui non 


(i) Cosi nel Codice V.iticano. Alcuni peto leggono jirslo in luogo 
di Orato , perchè secondo Tilo Livio e Valerio Massimo jfrtia si 
idiiamava la selva. 


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128 DELLE Antichità’ romane 
più bastando alle ingiurie , spronò dal suo posto il ca- 
vallo senz' attendere gli amici che nel distoglievano , 
correndo fortissimamente alla morte che eragli apparec- 
chiata dai fati. Rapiti ambedue da pari ardore , intenti 
a ciò che era da fare non a ciò che ne patirebbono , 
avventano impetuosamente i cavalli uno a fronte dell’al- 
tro , e vibransi colle aste colpi vicendevoli , non repa— 
rabili cogli scudi , nè con gli usberghi , immergendone 
la punta chi nelle coste , e chi nelle viscere. Urtatisi 
per la foga del corso i cavalli nel petto , eievaronsi su 
pie’ di dietro , e girandosi colla cervice rovesciarono i 
cavalieri. Cosi caduti giaceansi versando sangue in copia 
dalle ferite , e lottando colla morte. Come le milizie 
videro caduti i duci loro , spiccaronsi tra clamori e stre- 
pito , e sorsene battaglia , quant’ altre mai ferocissima , 
di fanti e di cavalieri ; con sorte non dissimile. Impe- 
rocché li Romani dell’ ala destra comandati da Valerio 
console vinsero li Vejenti , ed incalzandoli 6no agli 
alloggiamenti , copersero il campo di stragi. Per l’ op— 
posito i Tirreni dell’ ala destra guidata da Tito e da 
Sesto figli del tiranno misero in volta i Romani dell’ala 
sinistra , e corsi presso alle loro trincierò usarono per- 
fino tentare se poteano in quell’ impeto primo espu- 
gnarle. Ma contrastati e feriti assai da quei che v’ erano 
dentro , si ripiegarono. Àveanci di guardia i Triarj , 
cosi detti , veterani peritissimi di guerra pel lungo eser- 
cizio, e soliti riservarsi pe’ cimenti più gravi , quando 
ogn’ altra speranza vien meno. 

XVI. E fattosi già il sole presso l’ occaso , tornarono 
gli uni e gli altri a’ proprj alloggiamenti non ti lieti 


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LIBRO V. I 29 

per la viuoria , che doleati per la moltitudine de’ per- 
duti compagni. E se doveasi far nuova battaglia non 
credeano bastarvi quanti erano intatti fra loro ; essendo 
i più feriti : se non che più grande era I’ abbattimento, 
e la diffidenza ne’ Romani per la morte del comandante; 
in guisa che venne a molti in pensiero che fosse il loro 
migliore di abbandonare prima del di le trìnciere. Ma 
intanto che cosi pensavano e dicevano usci circa la 
prima vigilia dal bosco presso al quale accampavano 
una voce , sia del genio tutelare del bosco medesimo , 
sia di Fauno che chiamano , la quale rimbombò su 
l’uno e l’altro esercito, sensibilissima a tutù. A Fauno 
ascriveano i Romani i panici timori , e tutte le visioni 
che varie ne’ luoghi varj presentansi spaventosamente ai 
mortali : e di questo Dio dicono che sian opera le chia* 
mate fatte dal cielo , le quali tanto perturbano chi le 
ascolta. Animava questa voce i Romani a bene operare 
quasi avessero vinto , significando come era morto uno 
di più tra’ nemici : e dicono che levatosi a tal voce 
Valerio ne andasse nel cuor della notte agli alloggia- 
menti de’ Tirreni, e che uccidendoveli per la più parte, 
o fugandoneli s’ impadronisse del campo. 

XVII. Tal fu l’esito di questa battaglia. Nel giorno 
appresso i Romani spogliarono i cadaveri de’ nemici ; • 
seppelliti quelli de’ suoi , partirono. I migliori de’ cava- 
lieri , presolo con molta onorificenza e con lagnme , 
riportavano a Roma il corpo di Bruto in mezzo ai fregi 
della propria virtù. Mossero all’ incontro di essi il Se- 
nato che avea decretato che si portasse il duce con 
pompa trionfale , ed il popolo che ricevè l’ esercito con 

BIOaiGl , torneai. 9 


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i3o DELLE Antichità’ romane 
crateri colmi di vino e con mense. Giunti nella città ; 
il console ne trionfò come i re soleano , quando solen- 
nizzavano i sagriBzj e le pompe pe’ trofei ; ed offerse 
a’ numi le spoglie , e fe' di quei giorno una festa , 
convitando i più riguardevoli de* cittadini. Pigliata nel 
giorno appresso lugubre veste , ed esposto il cadavere 
di Bruto su magnidco letto in splendido ornamento nel 
F oro , vi convocò la moltitudine , e salito in palco , ve 
ne recitò 1’ elogio funebre. Io non so ben discemere se 
Valerio il primo introdusse in Roma quel costume , o 
se dai re io desunse : ben so che ti*a* Romani antichis- 
sima é la istituzione degli elogi nella morte de’ valentuo- 
mini ; e so da’ pubblici documenti di poeti antichi , e 
di storici famosissimi che non i Greci i primi la fon- 
darono. Imperocché le vecchie storie danno a conoscere 
che ci aveano in morte di uomini insigni , combatti- 
menti equestri e ginnici , come Achille ne fe’ su Pa- 
troclo , e come Ercole , prima ancora , su Pelope : ma 
che gli encomj se ne recitassero , ninno lo scrive se 
non i tragici di Atene , i quali adulando la propria 
città , favoleggiarono che avesse ciò luogo nei sepolti da 
Teseo. Laddove tardi istituirono gli Ateniesi per legge 
le funebri laudazioni ; sia che le incominciassero su 
quelli che morirono per la patria ad Artemisio , a Sa- 
lamina , a Platea , sia che su quelli i quali caddero a 
.Maratona. E la impresa di Maratona , se in quella sì 
cominciarono gli elogj pe’ defonti , è più tarda della 
morte di Bruto per sedici anni. Che se alcuno, lasciando 
d’ investigare quali stabilissero prima i lugubri encomi , 
voglia esaminare presso chi sia la legge meglio ordi- 


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LIBRO V. 1 3 I 

nata ; la troverà tanto più savia tra questi che tra quelli, 
quanto che gli Ateniesi introdussero i pubblici elogi 
mortuali , pe’ defunti in battaglia , quasi estimassero la 
bontà del solo termine glorioso della vita , sebbene al> 
tronde indegnissima : laddove i Komani destinarono tal6 
onore non al soli estinti nel combattere , ma a tutti 
gli uomini , insigni per sublimi consigli , o per belle 
operazioni , sia che in città , sia che in guerra avessero 
comandato, ovunque morissero , giudicando che debbansi 
i valentuomini celebrare non per la sola morte luminosa , 
ma per tutte le virtù della vita. 

XVIIl. Così morì Giuoio Bruto, colui che schiantò 
la tirannia , che primo fu console dichiarato , che tardi 
rendutosi illustre 6orl sì , piccini tempo , ma fortissimo 
parve fra tutti. Non lasciò prole non di maschi non di 
femmine , come scrivono gli storici i quali esaminarono 
le cose de’ Romani , ancor le più chiare : di che ne 
allegano molti argomenti ; e questo infra gli altri non 
facile a vincersi , che egli era dell’ ordine de’ patrizj ; 
laddove quei che si dicono originati da lui li Giunj e 
li Bruti eran tutti plebei, perocché conseguivano le ca- 
riche degli edili e de’ tribuni , che son quelle che per 
legge a’ plebei si permettono , e non il consolato , cui 
niun conseguiva fuorché li Patrizj. E quando questa di- 
gnità si concedette ancora a’ plebei coloro non la otten- 
nero se non tardi. Ma lasciamo che discutano ciò quelli 
a’ quali si appartiene conoscerlo più chiaramente. 

XIX. Dopo la morte di Bruto , Valerio il collega 
suo , divenne sospetto al popolo quasi cercasse lo scet- 
tro ; primieramente perchè tenea solo il comando , do- 


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l3a DELLE ANTICHITÀ* ROMANE 

vendo far subito eleggersi un compagno , come quando 
Bruto ripudiò Gollatino ; e poi perchè aveasi fabbricato 
la casa in sito invidiato , preso nella parte alta e dirotta 
del colle , il quale chiamasi Yelio e domina il Foro. 
Convinto però da' suoi come ciò dispiaceva al popolo , 
pre&sse il giorno pe’ comizj e fe’ darsi un compagno in 
Spurio Lucrezio. E morendo costui dopo pochi giorni 
della sua magistratura , sostituì Marc' Orazio ; e trasferì 
r abitazione sua dalle cime alle radici del colle , perchè 
i Jtomani , come ei disse concionando , potessero tem- 
pestarlo co* sassi date alto se trovavano eh* ei facesse 
ingiustizia. E volendo rendere il popolo più certo della 
sua libertà levò le scuri dai fàsci , dando ai consoli sue* 
cessivi il costume , durevole pur ne’ miei giorni , di 
usare le scuri quando escono di città , ma di non por- 
tare nell’ interno di essa che i fasci soli. Fondò leggi 
piene di amicizia e di sollievo inverso del popolo; proi- 
bendo con una manifestamente che niun de’ Romani 
andasse alle magistrature se dal popolo non le prendeva; 
con pena di morte a chi contravvenisse , e licenza a 
tutti di ucciderlo. Con altra legge si decretava : Se un 
magistrato Romano voglia uccidere, o battere, o mul- 
tare alcuno in danari; possa f uomo privato appel- 
larne al popolo senza che intanto niente ne soffra 
dal magistrato finché il popolo ne sentenzii. Or sic- 
come onoravasi con tali regolamenti il popolo ; cosi ne 
diedero al console il nome di poplicola , che in greco 
appunto significa curatore del popolò. E tali sono le 
cose fatte in quell’ anno dai consoli. 


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LIBRO V. l33 

XX. Nell* anno seguente (i) fu di nuovo creato con> 
sole Valerio , e con esso Lucrezio : ma non si fece 
nulla di memorabile se non il censo de’ beni , e la tas* 
sazion dei tributi per la guerra secondo le istituzioni di 
Tullio re : cose tutte sospese nel regno di Tarquinio , 
e rinovate da essi la prima volta. Trovaronsi in Roma 
idonei alle arme cento trenta mila : e fu spedito un 
esercito per guardia a Sincerio (z) , luogo di frontiera 
contro i Latini e gli Ernie! da’ quali si aspettava la 
guerra. 

XXL Creali consoli (3) Valerio detto Poplicola per 
la terza volta e Marc’ Orazio con esso per la seconda, 
'Laro , re di Chiusi nell’ Etrurìa , quegli che Porsena si 
cognominava , promise ai Tarquinj ricorsi a lui , 1’ una 
di queste due cose , o di riconciliarli co’ Romani pel 
ritorno , e la ricuperazion del comando o che ripiglie» 
rebbe e renderebbe ad essi i beni de’ quali erano stati 
spogliati. Imperocché spediti 1’ anno precedente amba>> 
sciadori a Roma , i quali portavano preghiere miste a 
minacce , non aveaci ottenuto nè la riconciliazione , nè 
il ritorno de’ Tarquinj; pretestando il Senato le impre- 
cazioni e li giuramenti fatti contro di questi, nè aveaiie 
riavuto i beni , negando restituirli coloro che se gli 
aveano divisi , e godevanli. E non contentato in niuna 

delle domande , e chiamandosene vilipeso e conculcato , 

• 

(i) a46 secondo Catone e a4S secondo Varrone dalla fondazione 
di Roma , e 5o6 STanti Cristo. 

(a) Nel Codice Vaticano sì legge Tiiionirio. 

(3) a47 sec. Ceti e a4g see. Var. dalla fondazione di Boma , 
e 5o5 avanti Cristo. 


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i34 DELLE Antichità’ romane 
arrogante altronde , e briaco per 1’ ampiezza delle sue 
ricchezze e dominio , credette avere cagioni assai per 
abbattere la signoria de’ Romani , come già per addie- 
tro desiderava , ed intimò loro la guerra. A lui si con* 
giunse Ottavio Mnmilio il genero di Tarquinio sul di- 
segnò di mostrare tutto 1' ardore suo per la guerra. Egli 
si mosse dalla città del Tuscolo e menò seco i Carne - 
rifai , e gli Antemnati , lignaggio latino , alienali già pa- 
lesemente da’ Romani , e molti volontarj suoi fautori , 
delle altre genti Latine le quali ricusavansi ad una guerra 
manifesta contro di una città confederata , e tanto po- 
derosa. 

XXII. Saputo ciò li consoli romani ordinarono a’tml- 
tivatori di portare masserìzie , bestiami , e schiavi ai 
monti vicini , fabbricandovi -ne’ luoghi forti de’ castelli , 
opportuni a difendere chi vi si riparava. Quindi pre- 
munirono con più potenti maniere e con guarnigioni il 
Gianicolo , alto colle , cosi chiamato , nelle vicinanze di 
Roma di là dal Tevere, e provvidero con ogni diligenza 
perchè non divenisse un baluardo pe’ nemici contro la 
città, e vi depositarono gli apparecchi per la guerra. 
Quanto alle cose interne della città le disposero , ancor 
più propiziamente verso del popolo , diffondendo assai 
beneficenze su’ poveri , perchè questi non si ripiegas- 
sero in verso de’ tiranni , nè tradissero per 1’ utile 
proprio , il comune ; imperocché decretarono che fos- 
sero immani da’ tributi pubblici , quanti al tempo dei 
te ne pagavano , nè soggiacessero a spese di milizia e 
guerra , giudicandoli assai contribuirvi se la persona 
esponevano per la patria. Collocarono nel campo dinanzi 


Digitizccj^ 


LIBRO V. l35 

Roma la milizia preparata ed esercitata già da gran 
tempo. Giunto il re Porsena coll’ esercito espugnò di 
assalto il Gianicolo , spaventandovi i Romani che lo 
presidiavano, e sostituendovi guarnigione tirrena. Quindi 
marciò verso la città quasi avesse a prenderla senza fa* 
tica. Ma fattosi ornai prossimo al ponte , e visti accam- 
pati i Romani nella riva a lui più vicina del fiume - si 
apparecchiò per combattere , in guisa da sopraffarli col 
numero, e spinse assai spregiantemente innanzi la mi- 
lizia. Reggeano l’ ala sinistra Tito e Sesto figli di Tar- 
quinio , tenendo sotto gli ordini loro i fuorusciti da 
Roma , il fiore della gente di Gabio , e stranieri , e 
mercenari non pochi. Mamilio il genero di Tarqninio 
comandava la destra ov’ erano i Latini ribellatisi da’ Ro- 
mani: finalmente il re Porsena avea la fanteria schierata 
nel centro. Ma Spurio Largio , e Tito Erminio teneano 
l’ala destra de’ Romani contro ai Tarquinj: Marco Va* 
lerio, fratello del console Poplicola, e Tito Lucrezio il 
console dell’ anno precedente stavano colla sinistra a 
fronte di Mamilio e de’ Latini. Moveano tutti due i 
consoli il corpo fra le due ale. 

XXIII. Fattasi alle mani combattè virilmente l’una e 
l’altra milizia con lunga resistenza; superando i Romani 
per esperienza e fortezza i Tirreni e i Latini ; ma po- 
tendo questi assai più de’ primi col numero. Alfine ca- 
dendone quinci e quindi in gran copia s’ intimorirono 
prima i Romani dell’ aia sinistra in vedere i loro duci 
Valerio e Lucrezio feriti , e portati fuori della batta- 
glia ; e poi , quando mirarono in piega i loro compa- 
gni, sbigoltironai aneli’ essi, quei dell’ala destra sebbene 


4 


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i36 DELLE Antichità’ bomane 
ornai vincitori delle schiere de’ Tarqainj. E fuggendosi 
tutti alla città , |>recipitosi , in folla , su per un ponte 
solo ; piombavAno intanto su loro ferocissimi gl’ inimici : 
e poco mancato sarebbevi che Roma priva di mura 
dalla banda del fiume , fosse espugnata , se i vincitori 
investita 1’ avessero misti co’ fuggitivi. Se non che so- 
stennero r inimico , e salvarono tutto 1’ esercito tre uo- 
mini , due seniori , Spurio Largio , e Tito Erminio , 
appunto i duci dell’ ala destra , e Publio Orazio , un 
giovine, il più beilo, il più valoroso de’ mortali Coclite 
detto dallo strazio degli occhi , per essergliene stato di* 
velto uno in battaglia. Era questi figlio dei fratello di 
Marc’ Orazio console , e traeva la origine sua generosa 
da Marco Orazio 1' uno de’ trigemiai che vinse già li 
tre Albani ,. quando le città guerreggiando per la pre- 
minenza . accordaronsi a non cimentarsi con tutte le 
forze , ma con soli tre uomini , come fu dichiarato nei 
libri antecedenti. Questi soli fattisi alla lesta del ponte 
disputarono gran tempo il passo al nimico , fermi sul 
posto medesimo , in mezzo a nembo di strali e tra ’l 
fulminar delle spade , finché tutta l’armata ripassò di 
qua dal fiume. 

XXIV. Come però videro in salvo i suoi , Erminio 
e Largio , laceri già nell’ armatura pe’ colpi incessanti , 
si ritirarono a grado a grado. Orazio però , sebbene 
dalla città lo richiamassero i cittadini ed il console , e 
tentassero per ogni via di salvare un tal uomo ai pa- 
renti e alla patria , Orazio solo non ubbidì , ma nel 
posto suo si rimase come dianzi , raccomandando ad 
Erminio di dire in suo nome ai consoli che tagliassero 


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LIBRO V. 1 37 

verso la città, quanto prima potevano il ponte. Era di 
quel tempo il ponte uno solo e di legno , con tavole 
congiunte per sè stesse e non per ferrei grappi , quale 
custodiscesi tuttavia dai Romani : raccomandò nemmeno 
che quando avessero sconnesso il più del ponte , quando 
picciola parte resterebbe a disfarne , a lui lo dichiaras- 
sero con certi segni , o con sonora voce. Lasciassero a 
lui poi la cura del resto. Cosi ricordando a que’due si 
tenne in snl ponte, e parte col ferir della spada, parte 
col dar dello scudo, ne respinse , quanti investendolo , 
vi si avventavano. E già quelli che perseguitavano il 
romano non ardivano più venire alle mani con esso , 
come preso da furore e fermo di morire *, molto più 
che non era facile andar fino a lui , che aveva a destra 
e a sinistra il fiume , e dinanzi un monte di cadaveri e 
di armi : ma tenendosegli discosti Io bersagliavano in 
folla con lance, e dardi, e sassi quali empirebbon la 
mano ; o coi brandi e coi scudi degli estinti , se non 
aveano i primi stromenti. Resistea colui colle armi loro 
medesime : tirando su la moltitudine ; sempre , com’ è 
verisimile, colpiva alcuno. E già percosso , già carico 
egli era di ferite in più parti del corpo , già un colpo 
portatogli direttamente per la coscia alla testa del fe- 
more , lo addolorava e difficoltava nel caminare; quando, 
udendo gridarsegli addietro essere il ponte nella sua più 
gran parte disciolto, si gettò di un salto colle arme nel 
fiume. E valicatolo a stento, perchè divenuto rapido e 
molto vorticoso per le travi che già sostenevano il pon* 
te , e che ora abbattute rompevano il corso delle acque, 
fecesi a terra finalmente senza avere in quel tragitto 
perduta niuna delle armi. 


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i38 DEixK Antichità’ romane 

XXV. Tale azione produsse a lui gloria immortale : 
e li Romani coronandolo lo portarono immantinente 
per la città com’ nno degli eroi tra’ cantici trion&li. RU 
versavasi la urbana moltitudine, finché le era permesso, 
per desiderio di vederlo , almeno nell’ ultimo presentar- 
sele; sembrandole che tra non molto morirebbe per le 
ferite. Scampò tuttavia da morte; ed il popolo mise 
nella parte più cospicua del Foro la statua metallica di 
lui com’ era fra le armi ; e diedegli del terreno pub- 
blico quanto ne potrebbe in un giorno un pajo di buovi 
arare d’ intorno ; e senza contare i pubblici doni , ogni 
uomo o donna , i quali erano insieme più che trecento 
mila, gli recarono ciascuno il vitto di nn giorno men- 
tre era fra tutti terribile la peuorta. Orazio dimostrala 
in tal tempo tanu virtù parve più che tutti i Romani 
invidiabile. C quantunque, divenuto perchè zoppo, inu- 
tile ad altr’ incarichi nou potesse in vista di tale scia- 
gura conseguire nè il consolato, nè altre militari presi- 
denze ; nondimeno per le gesta meravigliose fatte da 
lui, vedendolo tutti ì Romani, in quella battaglia, me- 
rita di esserne encomiato quanto mai lo fosse ciascuno 
de’ più famosi per la fortezza. Cajo Muzio , sopranno- 
minato Cordo , sceso da chiari antenati , anch’ egli si 
mise ad una nobilissima impresa. Io ne dirò tra poco 
dopo esposti i mali che allora ingombravano Roma. 

XXYI. Dopo quella battaglia il re dei Tirreni col- 
locatosi nel monte vicino, dal quale avea discacciato il 
presidio romano , dominava tutta la campagna di là dal 
Tevere. Li figli di Tarquinio , e Mamilio il genero di 
lui tragittando le milizie loro picciole barche aU 


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LIBRO V. ' i3y 

r altra riva per cui vasai a Roma , accampamsi in 
luogo ben forte. Donde slauciandosi davano ilguasto 
alle terre , ed agli alloggi pe’ bestiami , e piomavano 
su’ bestiami stessi che uscivano dai sicuri luo^i per 
pascere. Ora essendo tutto 1* aperto in balìa el iie» 
mico, nè più di qua, nè più sopra il fiume reandoai 
in città le merci se non scarsissime; vi riuscì be tosto 
carestia gravissima ; consumandovi tante raigliaja Iprov- 
vigioni già fattevi , che non erano copiose. Allea gli 
schiavi, abbandonandoli ogni giorno, in buon nttiero, 
disertavano dai padroni , e li più malvagi del ppolo 
trasferivansi alle parti del tiranno. In vista di ciò arve 
ai consoli di supplicare i Latini i quali riverivano' le> 
gami del sangue , e sembravano fidi ancora , che ian> 
dassero come prima potean de’ rinforzi : e di spjire 
ambasciadori a Cuma nella Campania, ed alle itià 
Fomentine per ottenerne dei grani. Non sovvenneri ad 
essi i Latini ; come quelli che non credevano giusti far 
guerra con Tarquinio nè co’ Romani , avendo con m- 
bedue vincolo di amicizia : ma Erminio e Largio pe- 
diti commissari pel trasporto de’ frumenti, avendo trin- 
cate da’ campi Pomentini più barche di ogni vettva- 
glia , le introdussero in una notte senza luna dal tare 
EU pel fiume, in occulto de’ nemici. Ma venuta mno 
ben tosto pur questa provvigione, e ridottisi gli uoainì 
ai disagi di prima ; Porsena chiarito dai disertori cime , 
que’ eh’ eran dentro vi penuriavano , mandò arabi ad 
essi intimando che ricevessero Tarquinio se veleno li- 
berarsi dalla guerra e dalla fame. 

XXVII. Non comportarono i Romani il coaando , 


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i4o DELLE Antichità’ romane 
risola piuttosto di subirne ogni male. Ma prevedendo > 
Musi' che l’una delle due ne seguirebbe, o che vinti 
dal bogno non terrebbono gran tempo la parola , o 
che aendola ne perirebbono sgraziatissimamente; pregò 
li coioli che gli adunassero il Senato , come volesse 
proprgli grandi e rilevantissime cose : e radunatosegli , 
disse Io medito o senatori una impresa, donde il 
popo nostro s’involi da’ mali presenti. Ardita molto 
ella ì questa , ma facile , io penso , da compierla. 
Beri , riuscendomi , poco , ower nulla io spero su la 
mie vita. Ora essendo io per espormi a tali pericoli, 
anaaiovi da speranze sublimi, non ho voluto che , 
voitutti lo ignoraste ; perchè se mi accada di mancar 
la trova , io sitine celebrato almeno per V azione bel- 
lis.ma , e me ne abbia gloria eterna in luogo del 
capo mortale. Già non era sicuro palesar quanto 
mcchino al popolo , perchè niuno spinto dall util suo 
ne riferisse à nemici, quando è ciò da nascondersi 
cote arcano indicibile. Pertanto a voi primi e soli ma- 
niestolo, i quali , ne confido, lo tacerete: gli altri da 
vo r udiranno a suo tempo. La impresa che io medito 
è mesta : Fintomi disertore , andrommene al campo 
Treno. Se non mi ciedono e muojo , voi non avrete 
peduto che un cittadino : laddove se mi riesce intro- 
dumi in quel campo ; io vi prometto di uccidervi il 
sue re. Caduto Porsena , sarà per voi finita la guerra. 

Io pronto sono ad ogni sorte , qualunque gli Dei me 
ne òstinino : e tenendo voi per consapevoli e tesli- 
monj miei presso del popolo , e pigliando il genio 
buoni della patria per guida , portomi^ e vado. 


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LIBRO V. 1 4 1 

XXVni. Encomiatone dai senatori presenti , ed avuti 
gli augurj propizj per la impresa , passa il Tevere : e 
giunto agli alloggiamenti de’ Tirreni , ne penetra come 
nno di essi le porte , deludendone le guardie : perchè 
non portava arme visibili , e perchè parlava alla tir> 
rena , come eravi fanciullo stato istruito dalla sua na- 
trice tirrena. Approssimatosi al Foro ed alla tecda del 
principe vedevi un uomo cospicuo per grandezza e 
complessione di membra seduto in veste di porpora nel 
tribunale in mezzo a molti che armati lo circondavano. 
Or pensò , ma indarno , che costui fosse Porsena, non 
avendo altra volta mai veduto il re de’ Tirreni : ma 
egli non era che il regio scriba il quale sedea nel tri- 
bunale e numerava i soldati , e registravano i paga- 
menti. Inoltrasi a tal vista tra la moltitudine fino allo 
scriba, e salito, senza esserne impedito perchè inerme, 
snl tribunale , cava il pugnale che celava sotto l’abito , 
e daglielo in capo. Ucciso con un colpo lo scriba, egli 
è preso immantinente e portato al re già consapevole 
della strage. Il quale vedutolo appena , Ah scelleralis- 
simo ! esclama, pagherai ben presto le pene che me- 
ritasti. Dì , chi sei ? donde vieni ? e su qual confi- 
denza osasti un tanto attentato ? Destinavi la sola 
morte delio scriba, o la mia parimente ? quali com- 
pagni hai tu della perfidia? Non celarmelo, o li tor- 
menti vi ti forzeranno. 

XXIX. E Muzio non presentando pur un segno di 
paura non col variar del colore , non colla fissezza dei 
pensieri, nè con altre affezioni solite in chi dee punirsi 
(li morte gli rispose : lo sono un Romano: venni qual 


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i/ja DELLE Antichità’ romane 
diserlom ed tuo campo , nè già per causa vile , ma 
per liberare la patria dalla guerra, lo voleva uccidere 
te , qu$nUmque io non ignorava che o riuscissi o fai' 
lèssi tujl colpo io ne dovrei morire : io destinava con' 
secrard alta patria la vita , e lasciarle pel corpo che 
essa àveami dato , una gloria sempiterna. Errai : e 
causa ifelT errore furono la porpora , lo scanno , e le 
altre irfsegne del comando. Uccisi chi non voleva ! . . 
lo scriba tuo per te stesso. Pertanto io non ricuso la 
morte thè io decretava a me medesimo nell accingermi 
a rfuesta impresa. Che se tu giuri per gli Dei di ri- 
sparmiarmi li tormenti e gli ohbrobrj ; io prometto 
che ti svelerò cose , gravissime per la tua salvezza. 
Cosi Muzio diceva per deluderlo. E colui come attonito, 
e temendo pericoli non veri da molti , glie lo giurò. 
Muzio allora ideato un inganno del quale non potea 
convincersi : disse : O re , trecento Romani tutti a ma 
pari di età , tutti patrizj di condizione , abbiamo mac' 
chinata di ucciderli , dandocene vicendevoli giuramenti. 
Pavé, a noi quando ci consultavamo su le maniere 
insìiiarli , che non tutti insieme ci ponessimo a 
questa impresa , ma ciascuno da sà , tacendo perfno 
ai compagni , quando , dove , come , e con quale oc- 
casione £ investirebbe , acciocché facile ci fosse di 
occulterei. Cosi macchinando , ci demmo le sorti , ed 
io me la ebbi il primo per cominciare la impresa. 
Istruito tu dunque che tanti valentuomini hanno sete 
egiude di gloria, e che forse alcuno la sazierà con 
successo più fausto del mio ; deh ! considera se possi 
more mai guardia abbastanza che ti d fenda. 


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LIBKO V. 143 

XXX. Il re ciò udendo comanda al «atelliti che in- 
calenino costui , se lo menino , e lo custodiscano diii> 
gentissimamente : egli poi convocando i più amici , e 
facendo che Arunte il figlio suo gli sedesse da presso , 
ragionò con essi le maniere da far vane le insidie : ma 
suggerendone gli altri picciole cose ; non pareano co- 
gliere il punto : quando il figlio suo propose un consi- 
glio , superiore all’ età ; perciocché volea che non si 
pensasse a guardie onde precludere i mali, ma piuttosto 
a far quello per cui le guardie non bisognassero. E 
maravigliandosi tutti del suo consiglio , e desiderando 
sapere come lo eseguirebbe ; col farci , ei disse , amici 
i nemici , e col pregiare o padre, la salvezza tua più 
che il ritorno degli esuli. Soggiunse il re: cìut egli ben 
diceva, ma essere da consultare come consdignità si 
pacificassero. Sarebbe gran vitupero , se egli che uvea 
superato in battaglia , e tenea ristretti i Romani fra 
le mura si ritirava , senza compiere quanto avea pro- 
messo ai Tarquinj , quasi vinto dai vinti , e quasi 
fuggisse chi non ardiva nemmeno uscire dalle porte. 
Facea conoscere che l’unico mezzo da togliere le ni- 
niicizie sarebbe , se gli avversar) mandassero ambasciadori 
per trattare gli accordi. 

XXXI. Cosi disse in quel giorno agli astanti ed al 
figlio: tuttavia pochi giorni dipoi fu necessitato egli il 
primo a fare proposizioni di pace per questa cagione. 
Sbandatisi intorno i suoi militari , e datisi a predar di 
continuo quei che recavano in città le merci; i consoli 
Romani se ne misero in buon luogo alle insidie , e 
molti ue uccisero , e più ancora ne imprigionarono. Di 


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i44 DELLE Antichità’ romane 
ohè nuioontenti i Tirreni ne facean crocchio e sussurro 
iocolpaodo il monarca e i duci suoi sul tanto prolun-' 
garsi della guerra , e sfogandosi in desiderj di rendersi 
alle lor case. Or vedendo come tutti gradirebbero ma* 
nilestamente la pace spedi per trattarla i più intimi suoi. 
Scrissero alcuni che fu con essi spedito anche Muzio 
sul giuramento di tornare poscia al monarca: ma vo* 
glion altri che fosse piuttosto custodito come ostaggio 
nel campo fino alla pace : il che forse è più verisimile.' 
Questi poi furono gli ordini che il re diede a’ commise 
sarj ; non dicessero parola sul ritorno de Tarquinj ; 
ma ne raddomandassero i beni , principalmente gli 
ereditar] dal canto di Tarquinio P antico , già posse- 
duti da essi bitoncunenle : e se ciò ricusatasi; dessero 
almeno , quant’ era possibile , i compensi delle case , 
de' bestiami , de' campi ,» delle raccolte , come purea 
loro espediente , col danaro del pubblico , o de' pos- 
sessori , ed usufruttuarj atlucdi de' beni. E ciò quanto 
ad essi. Chiedessero poi > per lui che deponea le inimi- 
cizie li sette pagi , cosi detti , antico luogo dell' Etru- 
ria , invaso da Romani nella guerra e tolto a proprie- 
larj , e finalmente chiedessero de' giovani delle famiglie 
più insigni , per ostaggio , che i Romaai si terrebbono 
amici costanti de' Tirreni. > 

XXXII. Venuti i deputati a Roma , il Senato per in* 
sinuazione di Poplicoia console si risolvè di accordarne 
tutte le dimande in vista della penuria che alHigeva il 
popolo e . la classe de* poveri ; onde accettissima sarebbe 
loro una pace , giusta nelle condizioni. Il popolo ratificò 
tutti gli articoli del decreto del Senato; non soffri però 


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LIBRO V. 145 

die si vendessero i beni , o si desse a’ Tarquinj dana- 
ro , privato nè pubblico , e volle che si mandassero am- 
basciatori a Porsena perchè si contentasse degli ostaggi 
e della regione che dimandava. Quanto ai beni egli 
giudice fosse tra’ Romani e tra Tarquinio , udisse 1’ una 
e r altra parte , e ne sentenziasse non per favore nè 
per nimicizia. Partirono i Tirreni con questa risposta , 
e con essi gli ambasciadori del popolo i quali condu- 
ceano per ostaggi venti giovani delle famiglie più illu- 
stri , avendo i primi dato i consoli Marco Orazio il 
6gl lo, e Publio Valerio la figlia, idonea già per le 
nozze. Pervenuti questi nel campo , il re dilettatone , e 
molto- lodati i Romani, conchiuse una tregua per un 
numero certo di giorni, e prese a giudicare la causa. 
Baltristaronsi però li Tarquinj , caduti dalle speranze 
più lusinghiere , che avrebbegli quel monarca ricondotti 
sui trono ; e per necessità dovéttero acconciarsi alle 
circostanze, e prendere clocch’era lor conceduto. Giunti 
da Roma al tempo ordinato i più anziani de’ senatori e 
gii oratori della eausa ; il re sedutosi cogli amici nel 
tribunale, ed assunto anche il figlio per giudice ; intimò 
che parlassero. 

XXXIII. Trattavasi ancora la causa , quando un tale 
annunziò che gli ostaggi s’ eran fuggiti. Perciocché le 
donzelle tra' questi , avuta come la chiedeano , la facoltà 
di andare e di bagnarsi nel fiume , andatevi , dissero 
agli uomini che alquanto se ne discQstassero , finché la- 
vate e rivestite si fossero, sicché non le vedessero nude. 
Or questi cosi facendo ; quelle gitlatesi a nuoto ripara- 
ronsi a Roma , eccitatevi da Clelia che le precedeva. A 

DIONIGT, tomo II, io 



i46 DELLE Antichità’. ROMANE 
ul nuova Tarqutnto assai rimproverava li Romani di 
iperginro e di mala fede , e provocava il sovrano per- 
chè più non gli adisse , come divenuto il giuoco dei loro 
tradimenti. Esciisavasi il console , dicendo queir opera , 
tutta delle donzelle , senza voler del Senato: e che pre- 
sto dimostrerebbe che niente era per inganno. Persua- 
sone il re concedè che andasse e rimeuasse come prò- 
mettea le fanciulle. Andò Valerio appunto con tal fine: 
Dia Tarquinio e il genero macchinarono in onta di ogni 
diritto un opera infanóissima, e spedirono in su la strada 
una banda di cavalieri per sorprendere le fanciulle ri- 
condotte , il console , e quanti tornavano al campo , e 
ritenersene le persone pe’ beni tolti da’ Romani a’ Tar- 
qninj , senz’ aspettare il fine del giudizio. Ma non per- 
misero gl’ IJdj che succedesse loro secondo il disegno : 
perché mentre gl’ insidiatori uscivano dal .campo Latino 
per sopraffarsi a que’ che venivano , il console romano 
era già passato innanzi colle fanciulle : e già era alle 
porte degli alloggiamenti Tirreni quando fu sopraggiunte 
da’ persecutori. Si fe’ qui mischia fra loro, ma ben pre- 
sto fu nota a’ Tirreni , e ne corsero frettolosissimi in 
ajuto il figlio del re con de’ cavalieri , e la schiera dei 
fanti che stava di guardia innanzi del campo. 

XXXIV. Sdegnatosi di ciò Porsena convocò li Tir- 
reni > e narrò come essendo egli fatto giudice da’ Ro- 
mani di quello ond’ erano accusati da Tarquinio ; gli 
espulsi , e bene a ■ diritto , da loro , aveano tentato di 
violare, le persone sacre degli ambasciadori e degli ostag- 
gi , in tempo di tregua , e prima che si decidesse la 
causa. Dond’ è che i Tirreni assolvettero su di ogni 


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LIBRO V. 147 

richiamo i Romani , e togliendosi all* amicizia di Ma- 
nilio e di Tarquinio , intimarono loro cb’ entro il pros* 
rimo giorno si ritirassero. Così lì Tarquinj » pieni in 
principio di belle speranze per 1’ ajuto de* Tirreni, o di 
essere di nuovo i tiranni di Roma, o di ricuperare*! 
loro beni , perderono 1* uno e 1* altro per la offesa degli 
ostaggi e degli ambasciatori , e partirono con infamia , 
e con odio dai campo. Il re poi de* Tirreni facendosi 
condurre gli ostaggi dinanzi dei tribunale gli rendette 
al console , dicendogli che pregiava la fedeltà de' Ro- 
mani più di ogni ostaggio. R lodando Clelia , che avea 
persuaso le compagne di passare a nuoto il fiume, come 
ne* suoi pensieri maggiore del sesso e della età , e feli* 
citando Roma perchè allevava non pure de* valentuo* 
mini ma delle eroine , regalò la donzella di un cavallo 
generoso , e magniCcamente bardato. Sciolta radunanza 
fe’ cogli ambasciatori de* Romani gli accordi e li giura- 
menti di pace e di amicizia , e li onorò come ospiti , e 
restituì senza prezzo, perchè li recassero in dono alla 
loro città , tutti li prigionieri , che eran pur molti : or- 
dinò che rimanessero com* erano i padiglioni suoi, fatti 
non come per breve durata su le terre altrui , ma fre- 
giati , quasi una città, con private e pubbliche spese; 
quantunque i Tirreni dopo avervi alloggiato , usassero 
di. t noti <1> serbarli. E fu questo , se in danaro 

si .calcola , non picciolo dono pe* Romani , come lo di* 
chiarò la vendita fattane da* questori dopo la partenza 
del re. Tal fu la fine della guerra de’ Tirreni e di 
Laro Porsena la quale avea ridotto i Romani a tanti 


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i48 DELLE Antichità’ romane 
XXXV. Dopo la partenza de’ Tirreni adunatosi il 
Senato Romano decretò che si mandasse a Porsena.il 
trono di avorio, lo scettro, il diadema e la veste trion- 
fale colla quale i re si adornavano: e che Muzio , espo* 
stosi alla morte per la patria, e cagione principalissima 
del termine della guerra , si premiasse a spese del pub- 
blico ,> come già Orazio che resistè sul ponte, con tanto 
terreno; di là dal Tevere, quanto poteane in un giorno 
solcare intorno coll’ aratro : e questo è il terreno che 
pur nel mio tempo si chiama il prato di Muzio. Cosi 
fu decretato su gli uomini. Quanto a Clelia concede- 
rono che una statua di metallo se le innalzasse , ed i 
, padri 'delle donzelle glie la innalzarono nella via sacra,' 
dove mette al Foro : tifa noi non più ve l’ abbiamo tro- 
vata ; e dicesi che mancò per un incendio delle case 
d’intorno (i). Fu quest’anno compiuto il tempio di 
Giove Capitolino, dei quale partitamente abbiamo scritto 
nel libro antecedente. E Marco Orazio console lo con- 
sacrò , e lo intitolò prima che potesse tornare Valerio il 
compagno , uscito per avventura dalla città coll’ esercito , 
per difenderne la campagna : perocché Mamilio speden- 
dovi a far preda, assai vi danneggiava li coltivatori éhe 
vi si erano di fresco l'icondótti , lasciate le fortezze. -E 
questo è ne’ fasti dèi terzo consolato. ‘ 

XXXVI. Spurio Largio e Tito Erniinio consoli del- 
l’anno' quarto (2) io compierono senza guerra. Morì nel 

1 • 

; I • ■ • • 

(i| Plutarco sclibenè poslèriore a Dionigi dice che la statua di 
Clelia esisteva aucora su la via sacra là donde vasai isf e-asAttrter 
in palatiwn. Casaub. 

(3) Ad. 348 secondo Catone, e aSo secondo Vatrone dalla fuuda- 
sioue di Roma , e 5o4 avanti Cristo. 


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LIBRO V. 149 

loro consolato Aruote il 6glio di Porsena re de' Tirreni» 
Assediava già da due anni , la città della Riccia , per- 
ché conchiusa appena 1’ alleanza co’ Romani , prese dal 
padre metà dell’ esercito , e marciò contro quella città 
per sottoporsela , e dominarvi. Ma essendo ornai per 
espugnarla , sopravvennero a questa de’soccorsi da Anzio, . 
dal Tuscolo , e da Cuma della Campania. Egli schierò 
le milizie sue' minori contro le più numerose: ma dopo 
respinti , dopo incalzati gli altri 6no alla città , peri 
finalmente , vinto egli stesso dai CumanI condotti dalr 
r Aristodemo , che Malaco si chiamava. Fuggi, non 
sostennesi a tale caduta 1’ armata di lui. Molti ne ^ soc- 
comberono incalzati da’ Cumaui ; ■ ma più ancot^ : sban- 
dati ; ridotti senz' arme , nè più Idonei per le ferite a. 
fuga più lunga , ripararonsi nel territorio non lontano 
di Roma. Se li menarono i Romani dalle .campagne' in 
citté^ nelle proprie case, portandovene i più malconci a 
cavallo., o su carri, o su cocchi: e ciascuno a proprie 
spese li nudrirono, e curarono, e ristorarongll con sol-, 
lecitudine molto affettuosa. Di talché molti di loro le- 
gati da tanta benevolenza desiderarono non di tornarsene 
in patria , ma di rimanersi fra tali benefattori ; ed il 
Senato assegnò loro perclié vi si fabbricasser le case , 
la valle tra ’l Palanteo , ed il Campidoglio, lunga presso 
a quattro stadj. Chiamasi questa anch’ oggi nell’ idioma 
de' Romani la contrada Tirrena ; e vi si passa venendo 
dal Foro al circo massimo. E per tali cortesi maniere 
ebbero dal re di quella gente dono non lieve , e che 
assai li dilettava , la campagna di là dal fiume , ce- 
duta già da essi quando ne ottenner la pace. Cori 



iSó DELLE antichità’ ROMANE 
trìbuUroao agl’ Iddj li sagnfiz) magoìBci che aveano 
già promesso co’ voti se ricuperavano mai li sette 
pagi. 

XXXVn. Correa nell’ anno quinto dopo la espulsione 
dei re la Olimpiade sessantesima nona , nella quale 
Iscomaco Crotoniate vinse allo stadio, Acestoride fa 
1* arconte di Atene per la seconda volta , e furono con- 
soli Romani Marco Yalerìo , fratello di Valerio Popli- 
cola, e Publio Postumio , detto Tuberto (i). Arse nel 
loro consolato un’ altra guerra co’ vicini , la quale co- 
minciò colle prede , e procedette a numerose e grandi 
battaglie : finché cessò da indi a quattro consolati , dopo 
essersi nel tempo intermedio sempre stato fra le arme. 
Imperocché alcuni Sabini considerando Roma indebolita 
per gl’ incontri suoi co’ Tirreni , quasi non dovesse mai 
più ricuperare l’antica dignità, ne assalirono , affin di 
predarli , e certo molto ne danneggiarono , li coltiva- 
tori , i quali calavano di bel nuovo dai luoghi forti alla 
campagna. I Romani prima di prendere le armi spedi* 
rono ambasciadori a chiedere conto e soddisfazione, tal> 
ché non più molestassero chi lavorava i terreni. Ma non 
ricevendone che orgogliose risposte , intimarono ad essi 
la guerra. Valerio il console il piimo con truppe eque- 
stri e con fiore di milizie leggere scorse tu que’ ruba- 
tori de’ campi , e grande fu la uccisione de' sorpresi nri 
pascoli , sbandati , com’ è verisimile , nè provvidi del 
venir de’ nemici. E spedendo i Sabini contr’essi un 

(i) An. a49 ài Rom. ucondo Caioae, e aSi secondo Varronr, e 
&o3 «vanii Criaio, 


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LiBno V. 1 5 1 

esercito sotto un duce perito di guerra , i Romani usci* 
rono di bel nuovo con tutte le forze , dirette da ambi 
li consoli. Postumio mise il campo nelle alture prossime 
a Roma , pei'cbi uon vi si facesse una subita irruzione 
da’ fuorusciti. Ma Valerio marciò di fronte al nemico iu 
riva all’ Aniene , fiume che nella città di Tivoli casca 
da rupe altissima , e poi corre , dividendoli fra loro , i 
campi de’ Romani e de’ Sabini , finché vago in vista e 
dolce a beverne , scende nel Tevere. 

XXXVUl. Erano i Sabini dall’ altra parte del fiume 
non lungi dalla corrente su di un colle non molto forte, 
e che poco a poco degrada. In principio gli uni rispet- 
tando gli altri esitavano a passare il fiume e farsi alle 
mani. Ma poi non per calcolo e previdenza di beni, ma 
rapiti dfiir ira e dall’ ardor di combattere , furono alle 
prese. Imperocché venuti ad abbeverare i cavalli e far 
acqua , inoltraronsi molto entro il fiume , vmile allon 
nel suo corso , perché non accresciuto dalle acque in* 
vernali : e siccome bagnavali appena , poco più su delle 
ginocchia ; lo trapassarono. Attaccatisi in su le prime 
pochi con pochi , ecco accorrere altri a difenderli , 
ognuno dai proprj alloggiamenti , e via via sopraggiun- 
gerne di rinforzo , come questi o quelli erano superati. 
E quando i Romani respingevano i Sabini dal fiume, 
e quando i Sabini ne toglievano l’uso ai Romani. E 
molti uccisi e feritivi, ed eccitativisi tutti a combat- 
tere , come avviene nelle scaramucce fortuite , sorse ar- 
dore eguale di passare il fiume ne’ duci stessi degli 
eserciti. E primo passandolo il console Romano e con 
esso r armata sua , ' piombò su li Sabini. Non eransi 


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i5a DELLE Antichità’ romane 
questi ancora nè bene armati , uè schierati ; pure non 
esitarono ad accettar la battaglia , inanimiti molto è 
spregianti , perchè non arcano a farla nè con ambi li 
consoli , nè con tutte le milizie Romane , e slanciatisi , 
combatterono con furia di baldanza e di odj. 

' XXXIX. Ardea rivissi ma la battaglia ; ma se 1’ ala 
destra , or’ era Postnmio il console, superava gli avversar] 
ed avanzavasi ; la sinistra ‘era travagliata e respinta al 
fiume. Or saputo ciò 1’ altro console usci coll’ esercito 
suo : marciava egli pian piano colla fanteria , ma fe’ 
precedere in fretta colla cavalleria Spurio Largio Se- 
niore , e console dell’ anno precedente. Andato costui 
di tutta briglia passò facilmente il fiume , che non era 
guardato da alcuno , e giratosi attorno l ala destra dei 
toemici pigliò di fianco la cavalleria de’ Sabini., Or qui 
sorse battaglia diuturna e grave di cavalleria con caval- 
leria. Frattanto avvicinatosi anche Postumio co’ suoi fanti 
a queU’ ala ed investitala , molti ne uccise , e molti ne 
disordinò : di modo che se non sopravveniva la notte, 
i Sabini avviluppati da’ Romani che già prevalevano, sa- 
rebbero stati del tutto disfatti : ma le ombre occultarono 
qùei'che fuggivano dalla battaglia come inermi e radi, 
e salvi si ricondussero alle lor case. Impadronironsi i 
consoli senza combattervi de’ loro alloggiamenti, abban- 
donati dalle guardie al veder quella fuga : ed occupa- 
tevi molte suppellettili, e datele in preda all’esercito, 
*lo rimenarono in patria. Cosi riavutasi Roma , allora la 
prima volta , da’ inali suoi co’ Tirreni , senti lo spirito 
antico , ardi come prima arrogarsi 1’ impero su’ vicini , 
decretò pe’ due 'consoli insieme un trionfo , e di più 


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LIBRO V. 1 53 

che si desse a Valerio che era I’udo di questi, un sito 
nella parte- più distinta del Pallanteo , dove gli si fon- 
dasse una casa a spese del pubblico. Questa è la casa 
innanzi alla quale sta il toro di bronzo , e questa tra 
tutti i privati e pubblici ediCzj è la sola che ha le 
porte che aperte si girano in fuori (i). 

XL. Presero dopo questi il consolato Publio Valerio 
Poplicola per la quarta volta , e Tito Lucrezio, di bel 
nuovo collega suo (a). Quest’ anno le città Sabine, te- 
nuto un congresso comune, decretarono far guerra ai 
Romani , quasi fosse finita 1’ alleanza loro , per essere 
caduto dal trono. Tarquinio a cui 1’ aveano giurata. 
Aveale indotte a ciò ,1’ uno de’ figli di Tarquinio, Sesto 
di nome , il quale coll’ onorare e supplicarne i citta- 
dini primari di ognuna , metteva in tutte un animo per 
la guerra : anzi aveva a sé guadagnate, e consociate a 
queste pur le due città Camcria e Fidene , ribellatele 
da’ Romani. In contraccambio le città lo elessero gene- 
ralissimo loro con facoltà di reclutare milizia da ognuna, 
come quelle che aveano perduta la prima battaglia per 
la insufficienza delle forze , e del capitano. Ed in ciò 
si adoperavano questi : ma la fortuna volendo contrap- 
pcsare i beni al mali di Roma , le diede in luogo degli 
alleati che le si eranp tolti , un rinforzo , quale non 
1 

(■) Tra i Greci era grande onarificenia aver le porte che ai apria- 
aero au.la pubblica strada; e questa servitù della pubblica strada 
coiopcravasi a gran presso: come è chiaro da ciò che si legge d’I- 
ficrate presso di Aristotele negli Economici. 

(a|)'An. di Bom. aSo secondo Catone, e aSa secondo Varrone, e 
5oa av. Cristo.’* 


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i54 DELLE Antichità’ romane 
imperava dal canto de’ nemici. Tito Claudio , un Sid>mo 
domiciliato a Regillu , nobile e denaroso , fuggissene in 
seno di lei menando con sé gran parentado , ed amici 
e clienti in copia , i quali spatriavano con le famiglie ; 
tanto che tra, questi ce ne avea cinque mila buoni per 
le arme. E questa dicesi la cagion cbe lo spinse a tra» 
sferire in Roma la sede. I primar) delle città più cospi- 
cue alienatisi da lui -lo aveano incolpato di poca affe- 
zione verso il pubblico bene , citandolo qual traditore ; 
come r unico che mal soffriva la guerra , e che avea 
ripugnato in consiglio a quei che voleano sciolta 1’ al- 
leanza , nè permise che i suoi cittadini AtiGcassero il 
decreto degli altri. Or temendo egli un giudizio , ove 
le non sue città sentenzierebbero della sua sorte , rac- 
colse le sue robe , e gli amici , e si congiunse ai Ro- 
mani , non senza picciolo sbilancio degli affari ; talché 
parve a tutti la cagion principale dell’ esito propizio 
della guerra. Per tanto il Senato ed il popolo lo ascris- 
sero tra’ patrizj , lasciandogli in città quanto sito volle 
per fabbricarvi ; e gli donarono i terreni pubblici tra 
Fidene e Picenza perchè li • compartisse co’ suoi com- 
pagni , da’ quali risultò poi la tribù Claudia che ancora 
tiene quel nome. 

XLL Apparecchiatasi appuntp l’ una e 1’ altra parte, 
li Sabini i primi cavarono le milizie e fecero due ac- 
campamenti , r uno all’ aere aperto non lungi da F ide- 
ne, r altro in Fidene a difesa del popolo , come in ri- 
fugio dell’ esercito esterno in caso di sciagura. I consoli 
Romani al sapere la venuta de’ Sabini contra loro ,• usci- 
rono anch’ essi con floride scltiere , e presero campo , 


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LIBRO V. l55 

separati T ano dall' altro , Valerio a fronte degli allog» 

' giatnenti sabini all’ aere aperto , e Lncreaio poco più di 
sopra , in un* altura donde potea vedere l’ armata com- . 
pagna. Era disegno de’ Romani di venire quanto prima 
a giornata per decidere subitamente , e visibilmente la 
guerra. Ma' il capitano Sabino temendo di attaccare in 
pieno giorno la baldanza e la robustezza romana, sem- 
pre ferma , contro ai casi anche più duri , deliberò di 
investirla di notte. Quindi facendo preparare quanto era 
necessari a riempire le fosse , e trascendere il vailo , 
quando ebbe pronto tutto, voleva tor seco il 6or deU 
r esercito , ed assalire nel primo sonno le trincee de’Ro* 
mani. Su tal disegno avea fatto intendere all’ armata di 
Fidene che quando si avvedessero del giunger suo ve- 
nissero anch’ essi dalla città , ma con armi leggere : ed 
avea posto in luoghi opportuni gli agguati con ordine, 
che se andavano dei rinforzi a Valerio dall’altro campo, 
uscissero loro alle spalle e gli assaltassero fra strepito 
di voci e di arme. Sesto con tale risoluzione, istruitine 
e trovativi pronti li centurioni , non aspettava che la 
opporiobità. Ma un suo disertore venuto al campo ro- 
mano disse di quella trama al console. Giunsero non 
molto dopo i cavalieri con dei Sabini che usciti a far 
legna furono presi. Interrogati questi separatamente c/te 
mai preparasse il lor capo , risposero , che scale e 
ponti : ma che dove , o quando fosse per valersene , 
non lo sapeano. Valerio ciò udendo spedi Marco al- 
r altra armata per divisare a Lucrezio che vi comandava 
r animo dei nemici , e come si dovessero questi assalire. 
Poi chiamando egli stesso tribuni e centurioni, dicendo 


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1 56 DELLE Antichità’ romane 
quanto avea raccolto dal disertore , e da’ prigionieri ; 
confortandoli ad esser magnanimi , e credere cb’ era 
giunto alfine il tempo sospirato onde prendere' su’ ne» 
mici una luminosa vendetta ; prescrisse ciocché doves- 
sero fare , diede i segni , e rinviò ciascuno alla sua 
schiera., 

XLII. Non era ancora la notte a mezzo , quando il 
duce Sabino fatti levare i soldati , ne condusse il fiore 
al campo romano , imponendo, a tutti che , taciti, avan- 
zassero senza strepito di arme ; perchè i nemici non si 
avvedessero di loro prima che fossero giunti. Or come 
i primi a procedere furono vicini al campo, nè videro 
ivi lume di fuochi , nè voci vi udirono di sentinelle , 
assai riprendeano di stoltezza i Romani , quasi tralasciata 
ogni gtiardia , se la dormissero : c già riempiute le fosse 
in gran parte , le passavano senza ostacolo alcuno. I 
Romani però si teneano , non veduti si per le tenebre, 
ma schierati nello spazio tra i valli e le fosse, e quando 
chi le passava era loro alle mani, uccidevanlo. Rimase 
alcun tempo occulta la rovina di chi precedeva a quei, 
che seguivano. Ma non si tosto quei eh' erano vicini 
alle iosse videro col chiarore della luna che nasceva, i 
mucchi incontro de’ cadaveri de’ compagni , e le schiere 
valide de’ nemici che resistevano; gettarono le armi, e 
fuggirono. Allora alzato i Romani un altissimo- grido , 
perchè quel grido era segno all’ altra armata, corsero 
in folla su loro. Lucrezio a quei clamori, spediti su- 
bito 1 cavalieri per ispiare se ci aveàno insidie nemi- 
che , si mosse indi a poco egli stesso col fiore della 
fanteria. Imbattutisi i cavalieri con gli usciti da Fidene 


I 


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LIBRO V. iB'J 

per insidiare , li fugarono: ma la fanteria perseguitava) 
ed uccidevali , : ornai disordinati e sena’ arme , quelli che 
erano venuti ad assalire il campo romano^ Morirono in 
teli òombaltimenti circa tredici mila tra Sabini ed al* 
leali, rimanendone prigionieri! quattro mila dugento: ed 
il campo loro fu preso nel giorno medesimo. < 

XLIlL.Fidene assediata' per non molti gforni, princi- 
palmente nella parte che sembrava inespugnabile, fu 
presa appunto in questa , perchè poco guardata ; ma nè 
si fecero degli uomini tanti schiavi , nè rovine delia 
città ; che anzi poco fu il sangue che vi si sparse dopo 
la invasione. Imperocché parve ai consoli pena ben grave 
per le mancanze di una città nazionale il saccheggio 
delle robe « degli schiavi , e lo strazio degli uccisi in 
battaglia. Ma perchè li vinti non così tvolontieri topr 
cassero alle armi , parve doversi andar cauto e pren- 
dere su . capi della ribellione la vendetta , consueta trai 
Romani. , Pertanto convocando nei Foro i Fidenati che 
eran presi , e molto redarguendone > la stoltezza , e chia- 
mandoli degni di morte quanti ve ne erano , giacché 
nè erano grati pe’ beneGzj , nè faceano senno pe’ mali ; 
ne batterono alla vista del pubblico culle verghe, e poi 
vi uccisero i più cospicui per nobiltà. Quanto agli altri 
lasciarono che albergassero come prima , ponendo a coa- 
bitare con. essi la guarnigione che era decretata dal Se- 
nato , e dandole parte de' terreni tolti a quelli. Dopo 
ciò ritirarono le truppe dalle teiTe nemiche ,■> e trionfa- «• 
rono secondo il decreto del Senato. E tali furono le 
geste di , questo consolalo. • . 

XLIV. Creato consolo Publio Postumio Tuberto per 



N 


1 58 DELLE Antichità’ romane 
la seconda volta , e con esso Menenio Agrippa Lana- 
to (i) , fecesi ma con piu schiere la tersa Irmzione dei 
Sabini prima che i Romani se n avvedessero, e pro> 
cedette 6n presso le mura di Roma, Risultarono da 
questa molte uccisioni non solo di agricoltori romani , 
colti repentinamente da nembo che non aspettavtno 
prima di ricoverarsi ne’ castelli vicini , ma di quelli 
eziandio che in città dimoravano. Imperocché Postumio 
il console riputando insopportabile quella ingiuria; uscì 
di tutta fretta , con truppe comunque per soccorrere i 
suoi , pih animoso in vero che savio. I Sabini , visto 
con quanto dispregio , disordinati , e sbandati si avan- 
zassero verso loro , e latto disegno di ampliarne ancor 
più la negligenza , partirono con marcia più che ordir 
naria , quasi fuggissero addietro , finché giunsero ad una 
selva profonda ove il resto celavasi delle loro milizie. 
Or qui voltando faccia contrastettero a chi gl'inseguiva; 
^ come pure gli occultati nel bosco ne uscirono , vocife- 
rando. Ed essendo essi in buon ordine e molti , pro- 
stesero gli altri che combattevano disordinati , sbandati , 
ansanti per lo viaggio ; e rinchiusero in una pendice 
deserta quanti ne fuggirono , con preoccupare le vie 
che menavano a Roma. E perocché già la luce era 
mancata ; posero le arme presso di quésti invigilandoli 
tutta la notte , sicché taciti non s’ involassero. Saputosi 
in città r informnio , vi fu gran turbamento , e concorso 
* ai muri, e. timor comune, che i nemici trasportati, dal 
successo propizio , si presentassero in quella notte a 

(i) An. di Rom. aSi secoado CaioDe, a53 secondo Varrone, 
e Sol av. Crino. 


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LIBRO V. 1 5g 

Roma: e là com piange vans! i morti; qua »i commise- 
ravano li sopra vanzatt , come quelli che 'se nop erano 
immaniineote soccorsi , caderebbero prigionieri per la 
penuria. Passatasi con tanto mal' in cuore senza sonno 
la notte, Menenio , nato il giorno , armò li più floridi 
per anni , e li guidò ben forniti e con ordine a liberare 
gli assediali nel monte. I Sabini al vedere che ti avan> 
cavano non li aspettarono ; e tolto il campo si ritira- 
rono , pensando che bastassero loro i vantaggi presenti: 
e senza indugiarsi gran tempo , tornarono festeggiando 
alle patrie , ricchi di bestiami , di schiavi , di danari. 

XLV. Rattristati i Romani dal danno , e credendolo 
causato da Postumio il console ; deliberarono di mar> 
ciane sollecitamente con tutte le forze contro la Sabina, 
desiderosi di rifarsi della perdita inaspettata ' e turpe j 
molto più che assaissimo gli aveva esulcerati 1’ amba- 
sceria recente e contumeliosa e superba colla quale i 
nemici , come già vincitori , e prenditori senza contrasto 
di Roma se non erano ubbiditi , comandav.vno che ren- 
dessero ai Tarqninj la patria, cedessero ai vincitori 
r imperio , e stabilissero il goverho e le leggi , come 
sarebbero ordinate da questi. Aveano i Romani replicato 
a tali messaggi , che annunziassero alle loro comuni 
che i Romani comandavano ai Sabini , di deporre le 
armi, di sottomettere le loro città , di ubbidire ,come 
per addietro , e ciò fatto di venir supplichevoli per 
iscusarsi dalle ingiustizie e da’ mali onde gli aveano vio- 
lati nelle incursioni passate , se voleano pace ed amici- 
zia : ma se ricusa vansi a tanto, aspettassero tra non 
molto la guerra su le loro città. Cosi comandando e 


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i6o DELLE Antichità’ romane 
comandati a vicenda, quando ebbero tutto in pronto ; 
uscirono per la guerra. Conducevano i Sabini il -fiore 
de’ giovani di ogni città con arme bellissime : e li Ro- 
mani tutta la milizia urbana e le guarnigioni , conce- 
pendo che i domestici e li schiavi , e quanti superavano ^ 
la età militare, bastassero in difesa di Roma e dei ca- 
stelli della campagna. Cosi concentrati si accamparono 
ambedue con breve intervallo fra loro non lungi da 
Ereto , città de’ Sabini. 

XLVI. Come gli uni sepper degli altri o per con~ 
gettura dall’ampiezza degli alloggiamenti, o per ciò che 
ne udivano da’ prigionieri ; si eccitò ne’ Sabini confi* 
denza e disprezzo inverso la scarsezza degl' inimici ; ma 
timore ne’ Romani per la moltitudine di essi. Pur fe- 
pero cuo^e , e pigliarono qualche speranza su la vittoria 
pe’ segni mandati loro dal cielo, e per 1’ ultima visione , 
quando erano 'per ischierarsi , che fu questa : Su le 
punte dei lanciotti (sono queste le armi che i Romani 
scagliano nel farsi alle mani; bastoni grossi che ti em- 
pion le mani , e lunghi , con ferrei spuntoni nell’ uno 
e nell’ altro estremo , diritti , nè minori di tre piedi , 
tanto che le armi , compresovi il ferro , somigliano ad 
aste mezzane ) su le ferree ponte di . questi lanciotti , 
piantati tra padiglioni , brillarono delle fiamme ; talché 
per tutto il campo fu luce continua come di accesi fa- 
nali , gran tempo delia notte. Ora come gli auguri - di- 
chiaravano ( nè già era difficile intenderlo ) , concepirono 
che gli Dei con tal visione annunziassero loro una sol- 
lecita e luminosa vittoria : imperocché tutto cede al 
fuoco , nè cosa vi è che per esso non consumisi. E _ 


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LIBRO V. l6l 

percfac le fiamme brillarono su le armi loro; uscirono 
con assai fiducia dalle trinciere , e nell’ estero di tale fi* 
ducia , attaccatisi combatterono , sebbene di tanto mi- 
nori , co' Sabini. La sperienza eh’ era in essi col vivo 
amor dei travagli , elevava li a spregiare ogni pericolo. 
Postumio il primo ebe guidava 1’ ala sinistra , inteso a 
riparare la passata disfalla urtò 1’ ala destra de’ nemici , 
non curando la vita per la vittoria : e come chi rapito 
è da furore , e fermo per ogni via di morire, si lanciò 
nel mezzo di essi. Allora i soldati i quali erano nell’ al* 
tr’ ala con Menenio ornai stanchi , ornai cacciati di po* 
sto , al conoscere che que’ di Postumio prevalevano su 
gli emoli , rimbaldanzirono e turbinaronsi su gli avver- 
sar] loro. Cosi piegò 1’ una e 1’ altr’ ala de' Sabini , e 
diedesi pienamente alla fuga. E dopo la perdita delle 
ale nemmeno quelli che erano ordinati nel centro per* 
sislerono , ma forzati dalla cavalleria Romana che gli 
assaliva si misero in volta. Tutti al proprio alloggia- 
mento si riparavano , ma i Romani seguendo e inve- 
stendo , ne invasero 1’ uno e 1’ altro. C se l’esercito ne* 
mico non fu totalmente distrutto , ne fu cagione la notte 
ed il luogo della sconfitta , che era nella Sabina. Impe- 
rocché per la perizia de’ siti chi fuggiva salvavasi in casa 
più facilmente di quello che lo potesse , per la imperizia 
sua , sorprendere chi 1’ inseguiva. 

XLYII. Nel prossimo giorno i consoli , bruciati i ca- 
daveri dei loro , e raccolte le spoglie , e tra queste le 
armi abbandonate dai vivi nel fuggire, e trasportando 
seco non pochi fatti prigionieri, c le robe invase' (non 
compresevi quelle tolte da’ soldati ) colla pubblica ven- 

VlONlOT , iomo II, ii 


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i6a DKLLE Antichità’ romane 
dita delle quali cose ogaaao riebbe i prestiti , contri'* 
baiti per la spedizione ; tornarono con una luminosa 
vittoria nella patria. Quindi per decreto del Senato Tubo 
e r altro ne trionfarono ; Menenio col trionfo primario 
sedendo su regio carro, Postumio col secondario, e 
men grandioso , che chiamano della ovazione , altera'- 
tone il nome che era greco, sicché più non distin- 
guesi (i). Conciossiaché per quanto io ne concepisco o 
ne trovo in molli degli storici Romani questo trionfo 
chiamavasi nelle origini Evezione da ciò che vi si pra- 
ticava : ed il Senato , come Licinio racconta , ora per la 
prima volta ne ideò la pompa. Differisce quest’ onor 
secondario dall’ altro, primieramente perchè chi sei gode, 
entra la dttà colle schiere a piedi e non sul carro come 
in quello: e poi , perchè non porta come l’altro la toga 
contraddistinta pe’ ricami varj e per l’oro ; nè la corona 
pur di oro; ma la toga candida contornata di porpora, 
la quale è l’ abito nazionale de’ comandanti e de’ con- 
soli , e la corona di alloro (a) : e se tien le altre cose ; 
in questo cede al primo trionfante , che noU va collo 
sceturo. Postumio poi , sebbene più che altri segnalato 


(i) OTaxione tu detta originalmente evatio ; qnindi % !a voce di 
Virgilio I. 6. Ea. Evantes orgia circum ducehat Phrygias. Questo 
ovari era dal greco tva^nt il qnale esprimeva le accismasioni fotte 
con dire s«s< , » al Dio datore della vittoria ed al vincitore ; 

come acclamavasi a Bacco colla voce evoe. Per questo Dionigi dice 
che ovazione h parola derivata dal greco , ma trasmutata ; sicché la 
origine ne é divenuta oscura. 

(a) Questa corona nella Ovazione era di mirto , e non di alloro ; 
eoli Plutarco , e Plinio , e Pesto , e Geiiio. 


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MERO V. I C)?i 

si fosse nella battaglia ; ne ebbe inferiore la gloria per 
causa del primo suo fililo , inonorato e grave , quando 
nella sna scorreria , perdè tante truppe , non restando- 
vi , per poco prigioniero egli stesso , con gli altri fug- 
gitivi. 

XLVIII. Infermatosi , mori nei consolato di questi 
Publio Valerio detto Poplicola , il più insigne allora dei 
Romani per le tante sue doti. Né bisogna , avendo io 
ciò fatto in principio di questo libro , che io qui nu- 
meri le imprese che rendono un tal uomo degno di 
ammirazione e di ricordanza. Solamente non vo’ preter- 
mettere ciocché forma in quest’ uomo il più sublime 
degli encomi di cui non ancora abbiamo ragionato. Io 
penso che chi tesse una storia debba descrivere ne’ grandi 
capitani non pure le azioni militari e le civili , se ne 
idearono e fecero alcuna bella e salutevole ai popoli 
loro, ma le maniere ancora del vivere se furono ca- 
stigate e savie , e spiranti sempre t costumi ed i genj 
della patria. Or quest’ nomo che era l’ uno de’ primi 
quattro patrizi che avea tolto i monarchi , e ne avea 
compartito i beni al popolo , questo che per quattro 
volte era stato console , ed avea vinto e trionfato in due 
guerre grandissime , la prima contro i Tirreni , la se- 
conda contro i Sabini ; quest’ uomo con occasioni tali 
di arricchire, quali niuno avrebbe mai condannate co- 
me ingiuste e vituperose , non soggiacque alla passion 
del danaro , la quale tutti doma e riduce ad avvilirsi ; 
ma contenutosi tra’ piccioli averi suoi ereditar) visse una 
vita frugale , contenta , e superiore ai desiderj , educando 
col picciolo patrimonio figli degni della origine, e di- 


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l64 DELLE ANTICHITÀ.’ RODANE 
mostrando a tutti , che il ricco non è già il gran pos- 
sessore , ma t uomo de' pochi bisognL E limpido i in- 
dubitato argomento de’ tenui desiderj di quest’ uomo fu 
la povertà che in lui si conobbe dopo morte. Imperoc- 
ché non lasciò ne’ suoi beni nemmen quanto bastava al 
trasporto ed alla sepoltura che a lui conveniva ; tanto 
che li congiunti suoi lo avrebbero , certo non senza 
mancanza , fuori della città trasportato , e bruciato , 
e sepolto, come un altro qualunque. Ma risapendo 
il Senato quanta ^ fosse la tenuità delle cose loro de- 
cretò che gli si facessero a pubbliche spese i funebri 
onori : anzi destinò un luogo in città sotto Velia presso 
al F oro ove fu bruciato e sepolto , egli <, 1’ unico fino al 
mio tempo di tutti i grand’ uomini (i). E si concedette 
questo luogo come sacro anche ai posteri suoi perchè vi 
si tumulassero : onore certamente più grande di tuUe le 
ricchezze e li regni , se valutinsi i beni dall’ onestà , 
non dai vili piaceri. Cosi Valerio Poplicola che non 
avea per sé cercato se non le cose necessarie alla vita , 
fu .-dalia sua repubblica onorato, come, i re doviziosis- 
simi , con magnifici funerali. E le donne romane lo ac- 
compagnarono tutte come aveano Bruto accompagnato , 
lasciata la porpora e 1’ oro ; e gli fecero lutto per un 
anno , come per la tenera cura il farebbero de’- con- 
giunti. 

• XLXIX. Dopo quest’ anno furono a'eati consoli Spu- 
rio Cassio detto Viscelllno, ed Opitore Verginio Tri- 


(■) Cicerone I. a. de legibus , e Plutarco nelle cose Romane dice 
che quest'onore fu conceduto ancora a.Faldiriaio. 


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LIBRO V. 1 65 

costo (i). Sarse allora la guerra co’Sabiai; ma Spurio 
il console la disfece con battaglia non tenue presso 1* a- 
bitato de’ Gureti ; morendo in essa circa dieci mila tre- 
cento nemici , e restandone prigionieri poco meno di 
quattromila. Battuti da quest’ ultimo colpo i Sabini spe-- 
dirono ambasciadori al console per trattare la pace : 
rimessi da Cassio al Senato , e portatisi in Roma , a 
stento ,• dopo molte preghiere , ottennero conciliazione 
e pace , col dare all’ esercito il frumento ordinato da 
Cassio , ed un tanto a testa in argento , e dieci mila 
jugeri di culti terreni. Spurio Cassio trionfò di tal guer- 
ra : ma Virginio 1’ altro console marciò , senza dire ove 
andasse , con metà dell’ esercito contro que’ di Came- 
rina , città spiccatasi appunto in tal guerra dalla con- 
federazion dei Romani , e compiè tra la notte il viaggio 
per coglierli improvidi , nè premuniti , come addivenne. 
Imperocché sul far del giorno sen trovò da presso te 
mura occulto a tutti ; e prima che mettere il campo , 
avanzò gli arieti e le scale , e vi fece ogni maniera di 
assedio. Stupefatti li Camerinesi dalla repentina venutsi 
di lui voleano chi aprire le porte, e ricevere il console, 
e chi resistergli con tutte le forze nè permettere l’ in- 
gresso a’ nemici. Intanto però che si scindeano e tur- 
bavansi , colui spezzate le porte, e saliti colle scale i 
men alti de’ propugnacoli , si mise a forza nella città. 
Quel giorno e la notte concedè che li soldati predasser 
le robe e portasserle a’ suoi : nel giorno seguente però 

(i) An. di Roma aSa secondo Catone, a54 secondo Varrone, e 
Soo aranti Critto. 


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i66 DELLE Antichità’ romane 
fatti riunire tutti i prigionieri in un luogo , uccisevi 
quanti aveano consigliata la ribellione , vendè gli altri , 
e ne distrusse in6ne la patria. 

L. Nella olimpiade settantesima, in cui Nicia Lo- 
crese di Opunto vinse nello stadio , essendo Miro 1 ’ ar- 
conte di Atene , presero la dignità consolare Postumo 
Corainio e Tito Larzio (i). E sotto la lor presidenza 
le città de’ Latini si levarono dall’ amicizia de’ Romani , 
perchè Ottavio Mamilio il genero di Tarquinio, indusse 
i primarj di ciascuna di esse , parte colle promesse , e 
p^rte colle preghiere a cooperare il ritorno degli esuli. 
Adunaronsi e fecero congresso comune in Ferentino , 
mancandone i deputati soli di Roma , perchè rion invi- 
tatavi , come solcasi. Doveano colà decidere co’ voti la 
gnen-a , scegliere i capitani, e consultarsi per altre prov- 
videnze. Ma , perciocché di quel tempo alcuni mandati 
dai potenti , davano il guasto ai confini , assai danneg- 
giandovi gli agricoltori; Roma avea diretto Marco Va- 
lerio uom consolare , quale ambasciadore alle città li- 
mitrofe , perchè le supplicasse a non far mutamenti. Or 
come costui seppe che tenessi 1 ’ adunanza ove le città 
darebbero tutte il voto su la guerra ; vennevi, e chiesta 
da’ presidenti la parola , disse : dì egli era mandato 
dalla Patria alle città dalle quali uscitasi per le pre- 
de , a chiedere che , travedi , le si consegnassero i 
'olpevoli per castigarli , secondo gli accordi delle ed- 
leanze: del resto egli aveale a scongiurare che prowe- 

(i) Ad. di Roma a53 seconde Catone, aSS secondo Varrone , 
c 499 avanti Cristo. 




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LIBRO V. 1 67 

dessero perchè ninna mancanza sì rendesse pubblica , 
onde i vincoli non si sciogliessero fra loro delC ami- 
cizia e del sangue. Ma vedendo come tutte le cittÀ con- 
venivano su la guerra co’ Romani , di che gli erano se* 
gno molte cose , e quella principalmente , cbe non 
aveano convocati al congresso i soli Romani quando era 
scritto ne’ patti , che i presidenti stessi invitassero alle 
V adunanze comuni i popoli tutti del Lazio ; disse , che 
non sapeva concepire di che offesi , o per quale ac- 
cusa mai li capi del concilio non vi avessero ammessa 
la sola RomUf quando convenivasi che essa la prima 
V intervenisse, e vi fosse richiesta del suo voto, come 
fatta già spontaneamente da Latini sovrana della na» 
zione pe’ molli e grandi benefizj ricevutine. 

LI. Allora quei della Riccia , chiesta la parola , accu* 
sarono i Romani come avessero, sebbene parenti, con- 
citato su loro la guerra de’ Tirreni , e fatto quanto era 
in essi , perchè questi privassero di libertà tutto il La- 
zio. Il re Tarqninio rinnovando i patti di amicizia e di 
alleanza col comune delle città , insisteva perchè gli os- 
servassero e riponesserlo in trono : i profughi di Carne* 
rina e di Fidene deplorando chi la presa della patria , 
e r esilio loro , c chi la distruzione di questa , e la 
schiavitù del suo popolo , animavano all’armi. Finalmente 
sorgendo Mamilio il genero di Tarquinio , e potentis- 
simo allora infra tutti i Latini, fece una lunga lamen- 
tanza su Roma. Giustihcavala Valerio contro tutti, tal*? 
chè pareane vincitore: cosi quelli consumarono il giorno 
in accuse e discolpe , senza dare alcun fine al consiglio. 
Nel di seguente i presidenti dell’assemblea non più vi 


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1 68 DELLE antichità’ ROMANE 
amisero gli ambasciadori di Roma , e lasdarono cbe par> 
lasserò Tarquinio , Mamilio , gli Aricini , e cbiunqae 
davasi per accusatore di quella , iìuchè uditili tutti , seu- 
tenziarono essere stata l’alleanza rotta dai Romani; e 
fecero intendere a Valerio che col suo tempo discute- 
rebbero come aveano a vendicarsi di loro che aveano i 
diritti calpestati del sangue. In mezzo a tali vicende 
congiurarono molti servi d’ invadere i luoghi riguarde- 
voli di Roma , e d’ incendiarla in più parti. Se non che 
datone indizio da’ complici , ne furono ben tosto chiuse 
le porte dai consoli , e preoccupati i siti forti dai ca- 
valieri. Allora quaiiU erano denunziati partecipi della 
congiura presi immantinente tra i domestici , o portati 
dalla campagna , perirono tutti , battuti , tormentati , 
crociGssi. E tali sono le cose operate in quel con- 
solato. 

LII. Sotlentrati a tal dignità Servio ^ Sulpizio Came- 
rino , e Manio Tullio Longo (i), alcuni di Fidene con* 
vooando de’ soldati dal popolo de’ Tarquiniesi occupa- 
rono il castello di essa , e parte uccidendo , parte esi* 
liando quelli che si opponevano , ribellarono di nuovo 
Fidene ai Romani. Venutivi degli ambasciadori da Ro- 
ma, erano per malmenarli come nemici: ma contenutine 
da’ seniori , gii esclusero dalla città senza udir nè ri- 
spondere. Il Senato quando seppe tali cose' non voleva 
ancor far guerra co’ Latini , perchè aveva udito che non 
a tutti piaceano le risoluzioni del congresso , che i po- 


ti) An. di Roma 354 secondo Catone, aS 6 secondo Varrone, a 
498 STtnli Cristo. 


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LIBRO V. 1 69 

poli ia ogni città vi si ricusavano , e perchè certo di- 
ceansi più quelli che voleano mantenere 1’ alleanza , che 
gli altri i quali sciogliere la voleano. Pertanto decretò 
che Manio un de’ consoli marciasse con armata poderosa 
contro Fidene: e questi, depredatane impunissimamente 
la campagna senza che niuno gli si opponesse , ne andò 
coir esercito fin sotto le mura , e provvide che non più 
vettovaglie vi s’ introducessero , nè armi , nè soccorso 
niuno. Ridottisi i Fidenati a guardare le mura , spedi- 
rono alle città de’ Latini per implorarne solleciti ajuti. 
Convocarono i capi di quelle un congresso comune di 
tutte : e datavi di bel nuovo facoltà di parlare ai Tar- 
quinj come agli altri che venivano dagli assediati, invi- 
tarono i consiglieri , cominciando da’ seniori e più co- 
spicui , a djcbiarare il lor voto , e come aveasi a far 
guerra ai Romani. Dicendovisi molte cose , e prima su 
la guerra se dovesse ratificarsi , i più torbidi fra i con- 
siglieri insistevano perchè si riconducesse Tarquìnio al 
trono , e sì volasse in soccorso di Fidene. Essi miravano 
con questo ad ottenere cariche di comando militare , e 
mescersi ai grandi affari ; e quelli vi miravano soprat- 
tutto , i quali cercavano in patria preminenza , e tiran- 
nide , lusingati che avrebbero ad essi ciò procacciato i 
Tarquinj se ricuperavano il regno. Ma i più agiati e 
miti ( ed eran questi i più accreditati nel popolo ) chie- 
deano che si stesse ai patti , non si corresse ciecamente 
alle armi. Respinti quei che brigavansi per la guerra 
dai consiglieri di pace , persuasero all’ adunanza che 
mandasse almeno oratori a Roma perchè la pregassero, 
ed esortassero a ricevere i Tarquinj e gli altri fuoruscili 


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l'jo DELLE Antichità’ romane 
senza pena e senza memoria d’ Ingiurie : giurasse que» ' 
sto , e si governasse poi di suo modo. Ritirasse però 
r armata da Fidene ; non potendo essi guardare con 
Indifferenza che i parenti ed amici loro si spogliassero 
della patria.' Ma se ricusasse far 1’ una e l’altra di que- 
ste cose , le s’ intimasse , che deciderebbonsi per la 
guerra. Non ignoravano costoro che Roma non pieghe* 
rebbesi nè all’ una nè all’ altra dimanda : ma cercavano 
pretesti decorosi onde romperla , sperando Intanto di 
rendersi col tempo e colla buona grazia benevoli i loro 
contrarj. Concluso questo , fissarono un anno , ai Ro- 
mani per deliberarsi , come a sè per apparecchiarsi : e 
nominati gli ambasciadori come parve ai Tarquinj; sciol* 
sero r adunanza. 

LUI. Separatisi i Latini , ognuno per la sua patria , 
Mamilio e Tarquinlo vedendo che i popoli propende- 
vano alla pacej deposero le speranze che aveano su loro 
come istabili in tutto. E cangialo consiglio si rivolsero 
a mettere in Roma stessa una guerra interna , nè pre- 
veduta , svegliandovi sedizione tra’ ricchi e tra’ poveri. 
Imperocché già disunita vi si era , nè più riguardava al 
ben pubblico una gran parte del popolo, quella princi- 
palmente dei bisognosi e degli oppressi dai debiti; e ciò 
appunto per 'gli usura) che non usavano moderazione 
ne’ crediti , ma fin carceravano e malmenavano i debi- 
tori come schiavi comperati. Su tale notizia spedì Tar- 
quinio a Roma Insieme co’ messaggeri latini persone non 
sospette con oro. Intramettendosi questi co’ poveri e coi 
baldanzosi , e parte dando , e parte promettendo se ivi 
il re sen tornasse; aveano subornato moltissimi. Àdun- 


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LIBRO V. l 'y I 

que fecesi contro i3e’ potenti una congtnra de’ poveri 
ingenui , e de’ servi màlvagi , i quali stimolati dal desi- 
derio di esser liberi , e disamoratisi de’ padroni perchè 
aveano punito nell’ anno antecedente i loro conservi , 
gl’ insidiavano. Ed essendo malcreduti e sospetti , come 
se venutone il tempo essi pure gli assalirebbero ; con 
piacere si diedero a chi gl’ invitava. Il disegno poi 
della congiura era tale. Doveano i capi di essa occupare 
in una notte senza luna i luoghi eminenti e forti della 
città ; gli altri poi come intenderebbero dai gridi che 
gitteriano , aver loro già preso que’ siti opportuni , do- 
veano uccidere tra ’l sonno i proprj padroni , saccheg- 
giare le case doviziose, e spalancare ai tiranni le porte. 

LIV. Ma la providenaa celeste la quale in ogni tempo 
ha salvato , e salva tuttavia Roma y fe’ traspirare i di- 
segni al consolo Sulpizio. À lui ne diedero indizio due 
già propensi a Tarquinio, anzi principalissimi nella con> 
giura , Publio e Marco fratelli , della città di Laurento 
necessitati da impulso divino. Imperocché si presenta- 
rono loro tra’l sonno visioni spaventevoli, minacciandolt 
di pena gravissima , se non si chetavano e toglievansi 
dall’ impresa. E già parca loro che i rei genj gl’ incal- 
sassero, li battessero, e sterpassero loro gli occhi, col- 
mandoli di altri mali terribili. Dond’ è che spaventati e 
tremanti destaronsi , nè più poterono pel turbamento 
aver calma nel sonno. E su le prime per togliei'si ai 
genj rei che li conculcavano , tentarono i sagrifizj di 
propiziazione co’ quali si allontanano i mali. Non traen> 
done però niun frutto , si rivolsero alla divinazione : e 
celando lì disegni, perchè non eran da dirsi, cercarono 



172 DELLE Antichità’ romane 
solamente d’intendere se tempo fosse da compiere cioc' 
chè volevano. Ma rispondendo l’oracolo eh’ essi teneano 
via di delitto e di perdizione , e che se non mntavan 
proposito, ne perirebbero infamissimamente; investiti dal 
timore che altri non li prevenisse nel portare in luce 
l’arcano, lo indicarono essi medesimi al consolo che in 
città si trovava. Costui lodatili , con promessa grande 
ancora di beneficarli se il dir loro a’ fatti corrispondesse; 
li ritenne ambedue presso di sè y tacendone con chiun- 
que. Allora introdotti in Senato i deputali latini , tenuti 
a bada fino a quel giorno per la risposta, disse di con- 
certo co' padri : amici , compagni , andate , riferite al 
comun dei Latini che il popolo di Roma non condi- 
scese prima il ritorno al tiranno su le istanze dei 
Tdrguiniesi , nè punto appresso vi si commosse irt 
forza di tutti i Tirreni che ciò domandavano, e gui- 
dati da Porsena ci portavano la pià orribile delle 
guerre; ma che seppe vedere i suoi campi manomessi, 
ed arsivi li casolari , e perfino ridursi a difendere le 
sole sue mura per esser libero , e non comandato a 
fare ciò che non vuole. Dite , che meravigliati ci sia^ 
mo che sapendo voi ciò , siale venuti a comandarci 
che ricevessimo il tiranno, e ci levassimo dall assedio 
di Fidene , con intimarci la guerra se ricusassimo. 
Cessino di opporci ornai più tali pretesti, fiacchi, im- 
persuasibili, di nimicitia. Nondimeno se vogliono per 
questo scindersi dalla nostra alleanza e far guerra , 
più non s’ indugino. 

LV. Data tale risposta agli ambasciadori , ed accom- 
pagnatili per significazione di onore fuori della città , 


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LIBRO V. 173 

poi disse in Senato delia occulta cospirazione ciocché 
aveane appreso dai delatori : ed avutane autorità piena 
d’ investigare L complici , e trovarli , e punirli , non 
tenne già mezzi orgogliosi e tirannici , come un altro 
ridotto a tale necessità gli avrebbe tenuti, ma si rivolse 
a mezzi ragionati , salutevoli , e convenienti al governo 
d' allora. Imperocché non deliberò che i satelliti snoi 
svellessero per le case i cittadini dall’ amplesso delle 
mogli , de’ figli , e de’ padri , e li traessero a morte ; 
considerando quanta pietà ne sarebbe tra gli attinenti 
nel distacco de’ cari lor pegni , e temendo che alcuni , 
disperatisi , corressero alle arme , e si necessitassero ai 
male a costo di sangue civile. Non deliberò che si eri- 
gessero de’uribunali contro di essi; riflettendo come tutti 
negherebbero , e come non avrebbero i giudici argo- 
menti incontrastabili e saldi , ma semplici denunzie , e 
colle quali , se credeansi , dovrebbero sentwaziare la 
morte de’ cittadini. Ma per sorprendere i novatori ideò 
tal metodo , per cui li capi si adunassero prima spon- 
taneamente in un luogo , e quindi arrestati vi fossero 
per argomenti indubitabili , che non lasciavano mezzo 
a discolpe : ideò che fosse questo luogo di unione non 
una solitudine , o ritiro , dove pochi osservassero , e 
convincessero; ma il Foro, talché scoperti alla presenza 
di tutti ne fossero in proporzione puniti , nè sorgesse 
in città turbamento nè sollevazione degli altri , come 
suole ne’ castigi de’ congiurati , massimamente in tempi 
pericolosi. 

LVI. Forse un altro, quasi poco sia bisogno di pre- 
cisione in tai cose, penserà che basti dir sommarianieute 


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174 delle Antichità’ homane 
che arrestò tutti i complici de’ maneggi secreti , e gli 
uccise; ma io riputando degna che ricordisi la maniera 
onde furono presi, ho risoluto non tralasciarla; percioc- 
ché giudico che non basti all’ utile di chi legge le storie 
conoscere il termine solo de' fatti, (piando brama piut- 
tosto ognuno che gli si espongane le cagioni , le guise 
delle operaxioni , i pensieri di chi praticavate, e come 
i Numi li favorissero ; nè gli si taciano le conseguenze 
che per natura vi si congiungono. Molto più ch’io vedo 
essere tali cognizioni necessarie agli uomini di Stato , 
perchè abbiano d^lì esempj co’ (piali dirigersi ne’ varj 
casi. Or questa fu la maniera ideata dal console per 
l’arresto de’ congiurati. Chiamati i più validi de’ senatori 
ordinò che al segno convenuto occupassero in città con 
seguito di amici e di parenti i luoghi forti ne’ (piali per 
avventura abitavano : istruì poi li cavalieri a tenersi ar- 
mati nelL' case più acconcie intorno del Foro, e com- 
piere ciocché sarebbe lor comandato. E perchè nella 
presa de’ cittadini i loro fautori non si elevassero , nè 
ci avessero interne stragi nel tumulto, scrisse al console 
che assediava Fideoe , perché al far della notte mar- 
ciasse col fior dell’ esercito alla volta di Roma , e lo 
accampasse nelle alture intorno de’ muri. 

LVII. Ciò preparato; impose ai delatori che venissero 
circa la mezza notte nei Foro ai capi de’ congiurati con 
i compagni loro più fidi come a ricevervi 1’ ordine , il 
posto, ed il segno, in somma come per udirvi ciascuno 
ciocché avrebbe egli a fare. Or ciò appunto si fece. E 
poiché tutti questi si furono accolli nel Foro; imman- 
tinente al darsene di un segno arcano per essi, i luoghi 


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LIBRO V. 175 

foni farooo pieni di uomini , armatisi per la patria ; e 
r intorno del F oro fu guardato da’ cavalieri , sen.ia che 
via vi lasciassero per chi volea ritirarsene. Intanto Manio 
r altro console si presentò coll’ armata in campo Marzo. 
Nato appena il giorno i consoli , cinti da uomini di 
arme , recaronsi ai tribunali , e fecero che i banditori ~ 
invitassero pe’ quadrivi il popolo a parlamento. Concorsa 
la moltitudine , le rivelano il maneggio sul ritorno del 
tiranno, e le presentano i delatori. Quindi concedendo 
che si difendesse chiunque volea per ambigua 1’ accusa, 
nè volgendosi pur uno a respingerla ; passarono dal 
Foro in Senato per chiedervene la sentenza dai padri: 
e presa e scrittavela ; tornati al popolo gliela pubblica- 
rono, e tale ne era il tenore. Si desse ai due denun- 
ziatori la cittadinanza , e dieci mila dramme di ar- 
gento a testa, e venti jugeri de’ terreni del pubblico ^ 
e se così ne paresse al popolo si prendessero i com- 
plici della congiura , e si uccidessero. E ratificando il 
popolo quel decreto, ordinarono che uscissero dal Foro 
quanti vi erano per 1’ adunanza : e chiamati i littori 
colle arme , intimarono che dessero morte a tutti li 
congiurati : e quelli , circondandoli ; appunto ov’ eran 
già chiusi , trucidarono li colpevoli. Uccisi questi , non 
che ammettere le incolpazioni su degli altri partecipi , 
ne assolvettero qualunque era salvo ancora dal suppli- 
zio ; e ciò per togliere ogni turbolenza da Roma. Cosi 
finirono quei che aveano macchinata la congiura. Ap- 
presso il Senato ordinò che tutti si purificassero per 
essere stati ridotti a sentenziare la morte de’ conci ttadini : 
nè concedersi loro d’intervenire alle sante cose ed ai 


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* 


1^6 DELLE Antichità’ romane 
sagrifizj , prima di esserne rendati mondi e tersi colle 
espiazioni consuete. E poiché da quei che dirigono le 
cose divine , a norma delle leggi della patria fu com- 
piuto quanto ricercavasi per sanliGcarli , decretò che ia 
rendimento di grazie si facessero sagriGcj e giuochi 
agonali per tre giorni. In questi giuochi sacri e deno- 
minati di Roma Mauio Tullio 1’ uno de’ consoli caduto 
tra la pompa dal carro sacro nei circo , ne mori da 
indi a tre giorni : e perchè poco rimaneva dell’ an- 
no , Sulpizio tenne in questo tempo il consolato senza 
collega. 

LVIII. Furono designati consoli per l’anno seguente 
Publio Veturio , e Publio Ebuzio Elva (i). E di questi 
Ebuzio fu incaricato delle cose politiche le quali sem- 
bravano abbisognare di cure non tenui, perchè i poveri 
non facesservi mutamento. Veturio poi menando seco 
metà dell! esercito , devastò le campagne de’ Fidenati 
senza che ninno gli ostasse : e postosi all’ assedio della 
città, davate assalti continui. Ma non potendola espu- 
gnare con questi , la cinse di vallo intorno e di fosse 
per sottometterla colla fame. E già ne eran gli abitanti 
nelle angustie , quando venne un soccorso di Latini 
spedito da Sesto Tarquinio, e grano, ed arme, ed altre 
cose utili per ia guerra. Cosi ringagliarditi osarono 
uscire dalla città con forze non piccole , e mettersi in 
campo aperto. Allora non più giovò pe’ Romani la cir« 
convallazione ; ma parve che vi bisognasse una battaglia. 
Diedesi questa vicino alla città ; pendendone qualche 

(i) Ad. di Roma aS5 secondo Catone , 357 secondo Varrone , s 
4 o 7 av. Cristo. 


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LIBRO V. l'jj 

tempo dopo l’ esito incerto. Infine , quantunque più co- 
piosi di numero , sopraiTatti i Fidenati dalla fermezza 
Romana ne’ travagli , acquistata col molto esercizio, fu> 
rono ridotti alla foga. Non fu la strage loro copiosa , 
per essersi tra non molt^ ritornati in città mentre gli 
altri respingevano dalle mura chi gl’ incalzava. Dissipa- 
tesi dopo ciò le truppe ausiliarie sen partirono senza 
avere punto giovato gli assediati ; e la città ricadde 
ne’ mali e nella penuria di prima. Intanto Sesto Tar- 
quinio marciò con un armata Latina sopra di Segni do- 
minata da’ Romani come per occuparla a prira’ impeto^ 
Ma resistendogli da entro generosissimamente , tentò di 
stringerli ad abbandonarla almeno per la fame. Se non 
che spesovi gran tempo senza opera niuna degna di ri- 
cordanza , e giunte vettovaglie e rinforzi dal canto ? dei 
consoli ; ne perde la speranza ; e ritirandone 1’ armata , 
ne sciolse l' assedio. > • 

LIX. Nell’ anno seguente i Romani elessero consoli 
Tito Largio Flavo e Quinto delio Sicolo. delio , dolce 
per indole e popolare , fu messo dal Senato con metà 
dell’ armata su le cose politiche per vegliare contro dei 
novatori: Largio ordinate milizie e stromenti da impren- 
der gli assedj , parti per la guerra co’ Fidenati (i); E 
spossatili colla diuturnità dell’ assedio , e col disagio di 
ogni cosa , desolavali ognora più , minando i muri , ei^ 
gendo terrapieni , avvicinando macchine, nè lasciando di 
e notte di stringerli , tanto che sen prometteva in breve 

il t. I i 

(i) All. >li Roma lS6 secondo Catone, aSR eecondo Varroue , • 
/Jg6 avanti Cristo. ■' \ 

DIOJflCT, tomó,ll. Il ' 


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178 PELLE antichità’ BOMANE 

di espugnarli. Né le città Latine, su le quali contando 
ì Fidenati trovavansi in guerra , potevano ornai più sal- 
varli. Imperocché niuna città bastava sola da sé per li- 
berarli dall' assedio: nè le forze comuni di tutte si erano 
riunite ancora : ma li capi del|e città Latine a’ frequenti 
messaggi de’ Fidenati rispondeano sempre di un modo , 
cioè che presto giungerebbe loro il soccorso: non però 
mai nino fatto moveasi pronto su le promesse , né le 
speranze scintillavano più in là delie parole. Nondimeno 
i Fidenati non diffidavano in tutto de’ Latini: ma per- 
sistevano su la espettazione di essi affronte di tutti i 
mali , sopialtutto della fame , la quale facea senza com- 
battere strazio grande degli uomini. Spedirono , è vero, 
alfine come stanchi da’ mali a chiedere al console tregua 
di un numero certo di giorni per deliberare intanto 
su la pace co’ Romani , e sui modi onde riordinarla. 
In realtà però ciò non cbiedeano per deliberare , ma 
per fornirsi di compagni di arme, come alcuni diser- 
tati di fresco da essi indicarono , giaoché nella notte 
innanzi aveano spedito i cittadini loro più cospicui , e 
più validi tra’ Latini , perchè iu forma di oratori sup- 
pbcassero quel popolo. 

LX. Largio , ciò saputo , ingiunse agli ora tori che 
deponessero le armi e spalancassero le porte, e poi fa- 
vellasser di tregua : iu altro modo non pace , non armi- 
stizio , non moderazione , non umanità presumessero dai 
Romani. Frattanto provvide che gli ambasciadori deputati 
ai Latini . non rientrassero in città ; preoccupando con 
guardie rigorosissime le vie che vi conducevario. Tal 
che diffidatisi gli assediati di un ajuto qualunque degli 


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LIBRO V. l’jf) 

alleali si videro astretti a pregar veramente l’iaimico. B 
riunitisi , conohiusero di soiTrire la pace , comunque il 
vincitore la desse. Altronde il console ( tanto i costumi 
de’ capitani di que’ tempi respiravano 1’ amor della pa> 
tria , e tanto erano lontani dalle maniere tiranniche che 
pochi san fuggire de’ capitani presenti , invaniti dal C 0 i 
mando I ) il console sebbene prendesse la città niente vi 
permutò di voler suo : ma fattala deporre le armi , e 
presidiatala , conducendosi a Roma e convocando il 3^ 
nato , lasciò che esso ne deliberasse. Lieti i Padri del 
rispetto del valentuomo verso loro dichiararono che i 
più nobili dj Fidene secondo che il console li giudi» 
- casse capi della ribellione , si battessero colle verghe , e 
ei decapitassero : su gli altri poi disponesse egli stesso 
come glien parrebbe. Largio divenuto 1’ arbitro di tutti 
sparse in vista del pubblico il sangue, e confiscò li beni 
di alcuni pochi accusati dal partito contrarlo; ma con- 
cedè che gli altri ritenessero la patria e le robe loro , 
e solamente ne dimezzò le campagne , poi dispensate 
a sorte tra’ Romani lasciati in guardia della fortezza. 
Alfine dopo ciò ricondusse in casa 1’ esercito. 

LXI. Risaputasi fra’ Latini la espugnazione di Fidene, 
ogni città ne fu sospesa e tremante , e mal soddisfatta 
de' capi suoi ; come tradito avessero li confederati. C 
fattosi consiglio in Ferentino, quei che persuadevano la 
guerra , assai vi accusarono gli altri che la dissuadevano. 
Erano de’ primi Tarqulnìo , e Mamilio il genero di lui 
e li capi tra gli Aricini. Rapiti dal dir loro, quanti erano 
i Latini, vollero generalmente la guerra contro de' Ro- 
mani , e diedero scambievole giuramento , che tiiuua 



l8o DELLE ANTICHITÀ^ ROMAIfE 
città tradirebbe il comune , nè farebbe pace sema il 
consenso delie altre decretando : che qualunque non os-> 
servasse i patti decadesse dalla lega alla esecrazione e 
nimicizia di tutti. Sottoscrissero e giurarono questi patti 
i deputati degli Àrdeati , degli Aricini , dei Boiaiani , 
dei Bubentani , dei Coresi , dei Corventani , dei Gabj , 
dei Lavrentini , de' Laviniesi , dei Labiniani , de' Labi- 
cani , de' Nomentani , de' Moreani , de' Prenestini , de' 
Pedani , dei Querquetulani , de' Satricesi , de' Scap- 
tini , de’ Sezzesi , de' Teliini, de' Tiburtini , de'. Tu- 
scolani , de' Tolerini , de' Trienni , de' Veliterni (i). 
Doveansi scegliere tra gl’ idonei alle armi , tanti in ogni 
città quanti ne parrebbono ad Ottavio Mamilio e Sesto ^ 
Tarquinio , i quali erano generalissimi nominati. E per 
giustifìcare ancor più li titoli della guerra spedirono a 
Roma da ogni città li personaggi più insigni come ora- 
tori. Venuti questi in Senato dissero : che quei della 
Riccia si richiamavan di Roma , perchè ■ qucuido i Tir- 
reni mossero contro loro la guerra , essa non solo 
die a’ primi libero il passo per le sue terre , ma li 
coadjuvò su quanto era d' uopo , ricoverandoli mentre 
poi ne fuggivano e salvandoli tutti , inermi e feriti : 
eppure non ignorava che quelli portavano guerra al 
corpo tutto della nazione : e che se avessero domalo 

(i) Dioaigi nel namerare questi popoli siegue l’ordine dell’ alfa- 
beto latino e non del greco : del resto numera popoli quando nn 
tal Bruto nel lib. VI. di quest' opera § 74 dice ebe furono trenta 
i popoli latini concorsi a tal guerra. Dovrebbero dunque additarsene 
altri sei. Nel codice Vaticano si numerano ancora i Tolerini che noi 
abbiamo ugualmente allegali nel testo. La nomenclatura per quanto 
aia stata emendala non par libera ancora da ogni storpiatura. 


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LIBRO V. ' i8r 

la Riccia; niente pià gli avrebbe impediti , sicché non 
soggiogassero le altre città. Pertanto annunziavano 
che se Roma voleva darne conto a quei della Riccia 
nel tribunale comune de’ Latini , e rimettervisi al giu- 
dizio di tutti, non avrebbon essi cagioni di guerra. 
Ma se tenendosi all alterigia sua consueta ricusava 
affatto condiscendere sul giusto e su V onesto inverso 
de’ confederati ; minacciavano che i Latini tutti la 
moverebbero con tutte le forze la guerra. 

LXn. A tale invito il Senato alieno di fare cogli Ari* 
cini una causa dov’ essi giudicherebbero , e dove preve- 
deva che i nemici non sentenzierebbero di questo sola* 
mente , ma vi aggiungerebbero ordinazioni ancora più 
gravi , decise che accettava la guerra. Argomentava dal 
valore e dalla sperienza de’ suoi tra le arme che Roma 
non incorrerebbe in danno ninno: apprendendo però la 
moltitudine de’ nemici , sollecitò più volte con ambascia* 
tori le città vicine per confederarsele ; se non che spe* 
divano i Latini ancora nelle stesse città legazioni che 
accusassero a lungo Roma , e la contrariassero. Gli Err 
nici adunati a consiglio di stato diedero all’ una e al- 
r altra ambasceria risposte sospette nè salutevoli , dicendo 
che per ora non si vincolavano con alcuno; ma voleano 
posatamente discutere qual de’ popoli seguisse causa più 
giusta , e prendeansi per discuterne un anno. I Rutoli 
in contrario promisero senza arcano mandare soccorsi ai 
Latini : ma dissero che se Roma volea deporre le ini- 
micizie , essi mansuefar ebbono i Latini , e ne concilie- 
rebbono gli accordi. Risposero i Volaci che si stupivano 
della impudenza de’ Romani ; perciocché sapendo essi 


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DELLE antichità’ ROMANK 
quante volle gli avessero off< si , e come , spogliatili in 
uhitno del più bel tratto della loro campagna , sei te- 
nessero ) avean cuore in tanto argomento di odio d’ in- 
vitarli a far causa con essi: restituissero , dicevano, que- 
sta campagna ; e poi chiedessero ciocché dovevasi dagli 
amici. I Tirreni teneansi in disparte da ambedue perché, 
diceano di avere co’ Romani lega recente , e co’ Tar- 
quinj antica amicizia e parentado. Non si abbatterono 
per tali risposte i Romani , come sogliono quelli che 
presa a fare una guerra ardua , perdono ogni speranza 
negli alleati : ma contando solamente sulle forze loro si 
misero baldanzosissimi alla gara , come valentuomini 
sospinti ai pericoli dalla necessità : molto più che se 
faceano secondo il disegno e davano buon fine alla 
guerra , non avrebbero divisa con altri la gloria. Tale 
era in essi il coraggio e 1’ ardore per le tante bat- 
taglie I 

LXIII. Ma datisi ad apparecchiare la guerra e scri- 
vere le milizie , caddero in grande incertezza , non pre- 
sentando tutti la energia stessa per intraprendere. Impe- 
rocché li poveri , quelli principalmente ( ed eran tanti 
di numero ! ) che non poteano redimere i debiti , chia- 
mali alle orme nou ubbidirono , e negavano far causa 
per impresa alcuna co’ patriz}, se non rimetteasi ad essi 
con pubblico decreto ogni debito : anzi taluni protesta- 
vano di abbandonare anche Roma , e si esortavano a 
non bramar più di vivere in una città la quale non co- 
municava con essi alcun bene. Tentarono i patrlzj di 
ammonirli e distoglierli ; ma poiché per quanto ammo- 
nisserli , uieute li raddolcivano ; congregatisi , cercarono 


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e 


LIBRO Y. 1 83 

tn<>zzl conTenlftnti a «pcgnere ^elfa tnrb<JenT.n. 1 più 
dolci per indole , e pià sobbrj di possidenza cotuiglia- 
Tano cbe si condonasse a’ poveri il debito , e se ne 
comperasse a picciolo mereato la benevdenza , die otto 
h'ssima riuscirebbe ai privati ed al pubblico. 

LXIV. Soslenea tal sentenza Marco Valerio figlio dt 
Marco e fratello insieme di Publio Valerio : io dico di 
quel Publio Valerio il quale fu 1’ uno dei distruUoti 
della liranuide , e fu •oprannominato Poplieola per la 
benevolenza sua verso dei popolo. Costui cbiamavali a 
riflettere che ben suole accendersi ardore eguale £ im- 
prendere in chi dee per beni eguali combattere : ma 
che non mai sorge olle grandi idee chi non è per 
goderne alcun utile : aggiungeva che irritati i poveri 
circolavano pel Foro dicendo t E che rileva mai che 
vinciamo i nemici di fuori, se poi nelle mani ci tro- 
viamo de* creditori? E se noi che avremo fondato la 
signoria della patria , noi non saremo pur liberi delle 
persone ? Dimostrava che se il popolo inimicavasi col 
Senato , correasi rischio non solo che abbandonasse 
Roma tra’ pericoli , il che dovea precludersi da chi 
cercava la salvezza comune i ma ( ciocché era più 
terribile ) che sedotto dalle lusinghe de! tiranni im- 
pugnasse le armi contro de’patrizj , e restituisse Tar- 
quinio sul trono : ancora tutto starsi in parole e mi- 
nacce ; nè essere il popolo scorso ad opera niuna 
scellerata : gli esortava a prevenirla , riguadagnando 
con tale beneficenza il popolo per intraprendale : non 
verrebbero già essi i primi a tale determinazione , a 
ne sarebbero perciò coperti di obbrobrio , quando 



i84 DELLE Antichità’' romane 
poUano dimostrare ben altri , ridotti a ciò fare cots 
circostanze ancor pià dure , sene’ altri mezzi onde ri- 
pararvi : potere la necessità pià che gli uomini , e 
cercarsi il decoro quando già si ha la salvezza. 

LXV. E qui allegando molti esempj di molte città 
propose infine la città di Atene , famosissima allora 
per sapienza , la quale non già molto addietro , ma 
in tempo' de' loro 'padri uvea decretato per suggeri- 
mento di Solone la condonazione dei debiti a tutti i 
poieri , senza che ninno allora lei di ciò rimprove- 
rasse , o ne chiamasse malvagio il consiglierò , e adu- 
latore del popolo ; anzi con esserne riconosciuta per 
savia la città che fu docile , e per pià savio ancora , 
chi ve la indusse. Chi poi, chi -se abbia mente , ri- 
prenderà li Romani, se nel pericolo non di un pic- 
colo male ma di essere di nuovo sotto V unghie di 
un barbaro , di un tiranno pià fiero di ogni fiera , 
procurino far de’ poveri non già tanti nemici , ma 
tanti che combattano per la patria ? E qui finiti gli 
esempj forestieri si rivolse ai domestici; commemorando 
le necessità dalle quali furono essi poco innanzi premuti, 
vale a dire come essendo invasa la loro campagna 
dai Tirreni, ed essi ridotti a difender le mura, non 
la fecero già da impazzati , e da uomini intenti a 
morire , ma cederono alle circostanze imperiose , e 
presa la necessità per maestra di ciò che giovava , 
sostennero ciò che non aveano prima sostenuto , che 
si dessero al re Porsena per ostaggi i giovani pià 
cospicui ; che fossero multati in parte del territorio 
cioè de'' Settepagi , i quali eransi dati ai Tirreni , e 


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LIBRO V. I 85 

che si rimettesse al nemico il giudizio su le rimo- 
stranze del tiranno , somministrando essi intanto ar- 
me , vettovaglie e quanto bisognava per la cessazion. 
della guerra. Dimostrava con tali esempj non esser 
r opera di una prudenza medesima' condiscenderò ai 
nemici su quanto dimandano , e poi rendersi per pic- 
ciolo disparere nemici li cittadini , quelli appunto , 
che si erano segnalati in tante guerre e sì luminoso 
per il principato quando i re- comandavano , quelli 
eh’ eran' stati sì pronti per esimere , la pati'ia dai ti-, 
ranni , e che , poverissimi come sono , sarebbero an- 
cora pià pronti- se vi s’ invitassero , per altre nobilis- 
sime imprese , esponendo senza risparmio ai pericoli 
la persona , unico bene che ad essi rimane. Insisteva 
che sebbene questi non osavano per la verecondia 
dire , o vantare nulla di ciò ; doveano i patrizj stessi 
averne il giusto riguardo , e contentarli ben tosto ad 
uno ad uno o in corpo su quanto, penar iar li vede- 
vano. Rijlettessero che ben era orgogliosissima cosa 
non condonare i debiti a quelli a’ quali dimandavano 
la vita ; ed essi che si gloriano far guerra per la 
libertà , toglierla a quelli appunto che V han coope- 
rata , e senza poter .loro opporre altra cosa che la 
povertà , la qual dee compatirsi , non 'odiarsi. . . 

LXVI. Cosi dicea V alerlo , e molti ne lo encomia*' 
rono : quando invitato secondo.il posto Appio Claudio 
Sabino fecesi innanzi , e disse in contrario : che quan- 
tunque si \ abrogassero i debiti , non si terrebbe di 
città la sedizione , ma stenderebbesi anzi questa (cioc- 
ché era pià terribile ) da' poveri fino a’ ricchi. Impe- 


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i8G DELLE Antichità' romane 

rocchi Ben vedeasi da tutti , che quelli che sarebbero 
spogliati de crediti loro f se tie sdegnerebbero} essendo 
cittadini ri guar devoli , già stati in tutte le guerre di 
Boma f ed impazienti che si compartisse a pià tristi 
e pià inetti del popolo ciocché aveano ereditato dai 
padri , e colla industria vantaggiato , e colla parsi- 
monia. Ben essere stolidissima cosa favorire la classe 
men buona de' cittadini col disprezzo della migliore : 
e dispensare le altrui sostanze ai più rei col toglierle 
conte per confisca ai giusti che le possiedono. Bifiet- 
tessero , pregava , che non sono le' città distrutte dai 
poveri, da quelli che non han forza, e che la forza 
contiene, ma dea ricchi, e capaci del maneggio puh- 
blico , se trovansi oltraggiati , e defraudati del giusto. 
Ma sia, che chi gli ha prestati, e ri mansi privo de’ suoi 
danari non sen rammarichi , sia che sopporti in pace 
come senza risentimento il suo danno ; nemrrten cosi, 
dìcea che vera t utile e salvezza loro a fare a poveri 
una coTscessione , onde il viver sociale si aliena, e si 
odia , e rifiniscesi delle cose necessarie, senza le quali 
le città non si abitano ; non più gli agricoltori semi- 
nando e piantando , nè più li negozianti navigando e 
trasmutando oltremare le merci , nè più facendo i po^ 
veri lavoro alcuno : giacché per tali cose, bisognan- 
dovi , niun più de' ricchi poìgertbbe danaro ; e con 
ciò la ricchezza se ne odierebbe , e ne rovinerebbe la 
industria; e migliore ne sarebbe la condizione dei 
dissipatori , che de’ sobbrj , migliare quella degli in- 
giusti che de’ giusti , e migliore infine quella di ehi 
r altrui manomette^ che di chi serba il suo. Esser 


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T,IB1\0 V. 1 87 

fjueste le cause che producono nelle città le dwisioni, 
e le stragi implacabili , ed ogni mal vivere ; per cui 
le città stesse , a finirla benissimo , perdono la ii- 
hertà, e se no; decadono in tutto e periscono. 

LXVIL Pregava soprattutto essi che aveano fondato 
Una nuova repubblica a provvedere che non vi entrasse 
ninna rea pratica ; dicendo , essere necessitali che tal 
sia la vita de' privati quali sono le forme delle città. 
Non esservi il peggior costume sia per le città sia 
per le famiglie , quanto che ognuno vivasi a piacer 
suo j e che li maggiori concedano tutto ai minori sia 
per cattivarseli , sia per non poterli frenare : mentre 
gli stolti non calmansi colf aver ciò che bramano , 
ma scorrono senza fine in desiderj sempre maggiori, 
nel che singolarmente manca la plebe. Imperocché 
quello che ciascuno vergognasi o teme di far solo , 
quello piu prontamente fossi in comune, f uno pren~ 
dendo forza dalf altro nella somiglianza de’ voleri. 
Dicea che insaziabili, illimitati sono gli appetiti della 
moltitudine ceca : che si debbono urtare in sul na- 
scere quando sono ancor deboli, e non quando già 
validi e grandi non più si posson reprimere : impe- 
rocché gli uomini assai più s' inaspriscono se privansi 
delle cose già concedute, che se non ottengono quelle 
che sperano. E qui molto valeasi degli esempj, venendo 
a’ fatti delle città della Grecia, quante ve ne furono, 
le quali dimostratesi deboli in alcune circostanze , e 
piegatesi ad ammettere i principj di prave istituzioni , 
poi non più le poteron comprimere , nè svellere ; tanto 
che 5’ implicarono in mali turpissimi ed incurabili ; af- 


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1 88 DELLE Antichità’ romane 
fermava che un popolo somiglia ad un indivìduo', che 
r anima di questo ci esprime il Senato , ed il corpo 
la moltitudine : , che quando il Senato lascia che il 
popolo pazzo predomini ; egli tollera appunto i mali 
di chi V anima al, corpo sottomette, nè più. vive colla 
ragione, ma coll’ estro delle passioni: laddove quando 
costumalo ad essere da lui comandato e diretto , al- 
lora somiglia chi suggelta il corpo allo spirto, e vive 
al bene , non ai piaceri. Notava che non avviene mai 
gran danno ad una città se i poveri comcciati che non 
rilasciansi loro i debiti , ricusino prendere per essa le 
armi ; dicendo che pochi in tutto son quelli che non 
hanno altra cosa che la persona, e che tali uomini 
nè presenti giovano , nè lontani nuocono mai V eser- 
cito prodigiosamente. Ricordava loro come quelli che 
mena possiedono lutano posto anche minore nelle 
battaglie : che sono quasi una aggiunta de’ legionari, 
nè si schierano che per dar vista di terrore ai ne- 
mici ; e che per questo non portano altr’ arme , se 
non la fionda , pochissimo utile nei combattimenti. 

LXVIII. Quet che chiedono , dicea , che la miseria 
si compassioni de’ poveri ; e cercano che si ajutino 
gli impotenti a pagare i lor debiti, avrebbero a con- 
siderare ciò che ha rondato mai poveri , essi già 
eredi delle sostanze paterne , già confortati co’ molti 
spogli delle guerre , e poi con quanto riceverono dei 
beni confiscati del tiranno. E , se ne trovano altri 
dati al ventre ed à rei piaceri e con ciò dal ben 
essere decaduti; li guardino come vituperi e pesti , 
e concepiscano grandissimo V utile , se spontanei di 


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LIBRO V. 189 

città si allontanano ; se poi li trovan miseri per 
isciagure , li soccorrano sì ma co' beni privati : ag- 
giungeva che ciò benissimo discemevano , e farebbero 
li creditori medesimi , e ne raddolcirebbero la con- 
dizione j mossi da impulso proprio non da violenza 
altrui, perchè se ne avesse loro la obbligazione se 
non dei danari , almeno quella bellissima della gra- 
titudine. Ma far beneficenza alla quale partecipino li 
scellerati , come li buoni , farla co’ beni altrui non 
co’ propri , ® farla in guisa che nemmen restii un 
vincolo di gratitudine verso quelli che son privati ;dei 
loro danari; ciò punto non conviene colla equità dei 
Jiomani. Soprattutto ella è dura, ed intollerabile cosa 
pe’ Romani che vendicano il proprio impero , dare 
ciascuno i suoi beni che tanti stenti costarono ‘ agli 
avi , darli non per voglia o persuasione , e non per 
la circostanza di operare Ì utile o il meglio della 
patria; ma quando questa è già presa o sta per es- 
serlo , e darli in fine contro il proprio sentimento a 
quelli che poco o niente son per giovarti , anzi dai 
quali sen temono gli ultimi oltraggi. Essere per loro 
assai meglio far quanto i Latini comandano come 
più moderato , e sciogliersi da ogni guerra ; che ac- 
cordare ciocché uomini sì poco utili esigono, e togliere 
da Roma la buona fede , onoratavi per vecchia isti- 
tuzione con templi ed annui sagrifisq ; e togliervela per 
avere in campo de’ frombolieri. • 

Era il cardine di questo consiglio , che si accettassero 
per la guerra quanti voleanci aver parte colle condizioni 
comuni a tutti , ma si lasciassero a sestessi come inutili , 


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ipo bELLE Antichità’ romane. 
ancorché si ammettessero , quanti presumevano far dei 
patti , corauuque , per difender la patria. Dicea che 
quando ciò saprebbono , verrebbero ed esibirebbero sé 
stessi obbedienti a chi delibera il bene della repub- 
blica ; imperocché suole chi non ha mente, elevarsene 
se lo aduli , ma temperarsi , se lo intimorisci. 

LXIX. Tali furono le sentenze disputate, diversissime 
infra loro : ve n’ ebbero però molte ancora intermedie 
fra queste. Imperocché taluni dicevano che aveansi a 
condonare i debiti a quelli unicamente che non posse- 
devano, come soggiacessero ai creditori i beni soli, e 
non le persone. Altri consigliavano che 1’ erario ' levasse 
i debiti degl’ impotenti ; perchè la pubblica beneficenza 
mantenesse la fedeltà de’ poveri , né sen danneggiassero 
li creditori. Parve ad alu’i che chi avea perduta o già 
era sul perdere la libertà pe’ debiti , fosse liberato , con 
supplire ai creditori in lor cambio la persona di altri , 
filli schiavi nella guerra. Fra tali discussioni prevalse il 
partito che il Senato per ora, non decretasse: ma che 
dato buon fine alla guerra i consoli proponessero la 
istanza , e facesscrla discutere col voto de’ Padri. F rat- 
taulo non esazioni ci avessero per contratti, non per sen- 
tenze di giudici : tacessero tutte le altre liti ; nè li tri- 
bunali , nò li magistrati si brigassero di altro che delle 
cose spettanti alla guerra. Pubblicato questo decreto di- 
Diinuì la interna turbolenza , oou però la svelse in tutto. 
Imperocché ci aveano taluni de’mercenarj a’quali non parca 
sufficiente conforto o speranza quel decreto, ove niente 
, era chiaro e definito. Or questi chiedono l’una delle due 
cose, o la condonazione allora .allora dei ^debili, se 


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LIBRO V. 1 9 I 

voieasi che participassero i loro pericoli , o di non es- 
sere almeno illusi colle dilazioni ; giacché le idee non 
somigliano nell' uomo che ha bisogno , o che cessa di 
averlo. 

LXX. In tale situazione considerando il Senato come 
tenere il popolo dalle innoTazioni , deliberò sospenderU 
di presente l’ autorità consolare, e di creare un magi- 
strato arbitro della guerra , delia pace , degli afiari , as- 
soluto , indipendente , in quanto rolesse o facesse. Da- 
vansi sei mesi al corso delia nuova magistratura , e do- 
po i sei mesi tornerebbero i consoli a comandare. Ne- 
cessitavano il Senato a subire una tirannide volontaria 
per dare fine alla guerra col tiranno , molti riflessi , e 
principalmente la legge dei console Valerio Poplicola » 
la quale come dissi di sopra invalidava le condanne dei 
consoli, sicché nino Romano fosse punito prima che ai 
difendesse, e concedeva ai rei destinati al supplizio l’ap- 
pello al popolo, e la immunità nella persona e nei beni 
avanti che il popolo ne sentenziasse ; pena la morte a 
chi contravvenisse. Considerava il Senato che stando que- 
sta legge, i poveri non ubbidirebbero nemmen colla 
forza , spregiando come sembra le pene , le quali non 
s’incoirevan sull’ atto, ma solo quando il popolo gli 
avesse condannati; laddove tolta la medesima dovreb- 
bono irreparabilmente ■ tutti obbedire. £ perchè i poveri 
non si oppone«ero a chi facea palesemente contro tal 
legge; deliberò di mettere su gli affari un magisteate 
eguale ai tiranni, e $aperiore< a tutte le leggi: e feoe 
un decreto col quale deluse ( occultandosi ) i poveri , e 
tolse la legge che era per essi lo scudo della libertà. Por- 


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IQ3 DELLE ANTICHITÀ.’ ROMANE 

lava il decreto che Largio e delio , allora consoli , e 
quanti altri vi erano magistrati o commissarj del pub^ 
blico , sospendessero gC incarichi loro ; e che intanto 
un uomo solo , scelto dal Senato , e confermato dai 
voti del popolo riunisse in sé li poteri di \ tutti, e go- 
ves~nasse non più, che sei mesi con autorità più grande 
che ' la. consolare. , Non comprese il popolo la forza del 
decreto del ' Senato, e>lo ratiBcò; dando t principj certi 
di una tirannide a norma < delle leggi ; e concedè che i 
Padri , tenutone consiglio , nominassero il nuovo magi- 
strato. > : 

LXXI. Quindi i capi del Senato si fecero a conside- 
rare lungamente e providamente il personaggio che avreb- 
be a comandare. Paiea loro che vi fosse necessità di un 
nomo espedito negli affari , più che perito nell’ arme, e 
savio , e temperato , sicché poi non > delirasse per l’am- 
piezza del comando; insorama di uno il quale oltre le 
belle doti , quante ai buoni comandanti si convengono , 
sapesse presieder con fortezza, nè cedere mollemente alle 
istanze. Di un uomo tale appunto abbisognavasi allora. 
.Videro concorrere doti siffatte quante seu chiedeano 
in Tito Largio, uno de’ consoli ; laddove delio il colle- 
ga, uomo altronde buonissimo, non era nè attivo, nè 
bellicoso , nè imponente , nè temuto , ma edite troppo 
in punire chi non ubbidiva. Nondimeno il Senato pren- 
dea .verecondia di levare a que^o un’autorità che aveva 
secondo le leggi, e di concentrare .nell’ altro il potere 
di ambedue , anzi un poter più che. regio. .Teniea per 
qualche maniera che delio riflettendovi, non si gravasse 
della rimozione sua , come disonorato dai Padri ; e cam- 


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LIBRO V. ’ ' 193 

hiale le maniere del vivere , si ponesse alla testa del 
popolo , c turbasse dal fondo la repubblica. Esitando 
tutti , e gran tempo , per la verecondia di proporre 
ciocché ideavano, un seniore, venerabilissimo tra gli uo- 
mini consolari , diede un tal suo parere , per cui fu 
salvo l'onore di ambedue li consoli, scegliendo essi ap- 
punto il personaggio più acconcio al comando. Diceva : 
Poiché il Senato ha risoluto , ed il popolo ha ratifi- 
cato che il poter del comando si affidi ad un solo , 
restano ai Padri due cure non picciole : chi debba 
sottentrare ad una autorità pari alia monarchia , e chi 
possa legittimamente nomiruuvelo. Or egli suggeriva 
che l’uno de’ consoli sia per cessione, sia per sorte', 
eleggesse il romano più idoneo , a far 1’ utile e il bene 
della patria: giacché trovandosi allora in città magistrati 
sacrosanti , non vi abbisognavano gl’ interré come nella 
monarchia , per eleggere di accordo chi succedesse al 
comando. ' i 

LXXII. Applaudivano tutti al partito , quando leva- 
tosi un altro disse : Ali sembra o Padri che debbasi 
alia sentenza aggiungere: che reggendo di presente la 
repubblica, due valentuomini, de’ quali non trovereste 
i migliori , V uno 'debba dare la nomina , e l’ altro 
riceverla , talché scelgati essi fra loro il più idoneo ; 
e C uno e i altro se ne abbia onore e soddisfazione 
uguale, quello perchè sceglie nel collega il più degno, 
c questa perchè scelto sen trova : dolcissime e bonis- 
sime cose ambedue. Ben vedo che sebbene io non 
avessi ciò aggiunto ; pure avrebbono i consoli così 

DWaiGI , toma II. il 


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IQ4 DELLE Antichità’ romane 
praticalo ; egli è meglio^ nondimeno che il facciano 
eziandio col vostro volere. Parve a tutti ciò detto a 
proposito , e niuno più notandovi altra cosa , ne decre- 
tarono. I consoli ricevuto il potere di eleggere fra loro 
il più idoneo al comando , fecero una mirabilissima 
cosa , e ben varia dalle affezioni dell’ uomo. A vicenda 
r uno dicea 1’ altro , e non sè , degno del comando : 
così passarono tutto quel giorno , encomiando l’ un 
l’altro, e insistendo ciascuno per non comandare: tanto 
che gli astanti in Senato ne furono in grandi perples- 
sità. Sciolto il Senato , i parenti più prossimi di cia- 
scuno , e li Padri più venerabili recatisi a Largio assai 
lo stimolarono £no a notte avanzata , dichlaraùdogli 
come il Senato poneva in esso ogni speranza , e di- 
cendo che le sue ritrosie volgevansi in pubblico danno: 
egli tuttavia ricusava , ora supplicando , ed ora contra- 
dicendo. Adunatosi nel prossimo giorno il Senato , 
mentre colui ripugnava, nè levavasi ancora dal suo pa- 
rere su le istanze comuni , Clelio sorge , e lo nomina , 
come gl’interré solevano nominare, e lascia il consolato. 

LXXIII. Fu questi il primo che, solo, fu reso àr- 
bitro in Roma della guerra , della pace , d’ ogni affare, 
col nome di Dittatore (i) sia per la podestà di ordi- 
nare e dettare leggi su’ diritti e sul bene degli altri , 
come glien pareva e piaceva , chiamandosi da’ Romani 
Editti gli ordini e prescrizioni sul giusto e su l’ ingiu- 
sto : sia per essere allora un tal. uomo detto e dichia- 
rato da un solo e non dal popolo secondo i riti della 

(i) Ad. di Roma aS6 socondo Catone, a58 secondo Varrone , • 
ar. Cristo. . 



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LIBRO V. 195 

patria , perché comandasse. Guardaronsi dal dare al 
magistrato di una città libera un nome esecrabile e 
grave per rispetto di quelli che ubbidivano , sicché in 
odio del titolo non si conturbassero , e per rispetto di 
chi prendeva il comando , sicché nè fosse costui offeso 
dagli altri senza saperlo, uè gli offendesse egli co’ modi 
consueti nel grande potere. E certo il nome di dittatore 
non bene l’ ampiezza ne significa del potere ; non es- 
sendo la dittatura che un Dispotismo elettivo. Sembra 
che i Romani ne traessero pur da’ Greci la istituzione. 
Imperocché gli Esimneti che chiamavansi antichissima- 
mente tra loro erano, come dichiara Teofrasto nel libro 
intorno del regno , despoti elettivi. Li creavano le città 
non per tempO' indefinito o perpetuo , ma nella circo- 
stanza , e fin quando sembrava che giovassero loro , 
come li Mitilenei già scelsero Pittaco contro gli esuli , 
compagni di Alceo poeta. 

LXXIV. Tennero questo metodo I primi che aveano 
appreso per esperienza ciò che giovava. Imperocché 
nelle origini era ogni greca città sovraneggiata , non 
però dispoticamente come tra’ barbari , ma secondo le 
leggi e le patrie consuetudini : ed un re si avea tanto 
più per potente quanto era più giusto , e più fido alle 
leggi , e men schivo de’ patrii costumi : ciocché s’ in- 
tende per Omero il quaì nomina i sovrani, vindici del 
diritto , e de/f onesto (i). Tennesi lungo tempo la si- 
gnoria dei re come quella de’ Lacedemoni sotto fisse 

i 

(i) Mèi testo: intarrtXnt , e SiftttTttrtXuf. cioè che si rer- 
uuio sul giusto e su C onesto . 


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ig6 DELLE Antichità’ romané 

costituzioni. Ma cominciando poi taluni di questi a tra- 
scendere gli usati poteri , poco concedendo alle leggi e 
molto ai genj loro ; ne furono i popoli in tutto disgu- 
stati , e rovesciarono 1’ autorità de’ monarchi , e le loro 
maniere : e stabilendo leggi e creando magistrati , as- 
sunsero questi come custodi delle città. Ma perciocché 
non bastavano nè a proteggere il giusto le leggi poste 
da essi , nè a coadjuvare le leggi li magistrati o li co- 
missarj che avean cura di queste ; e percioccliè il tempo 
col volger suo mena tanta varietade ; furono astretti a 
fare stabilimenti non ottimi si , ma certo i più consen- 
tanei alle vicende che li sorprendevano o di sciagure 
abborrite , o di smoderate prosperità. Per le ' quali con- 
fondendosi ' lo stato della città, e bisognandovi un pronto 
riparo ed un arbitro immediato , furono necessitati a 
rialzare l’autorità dei monarchi e dei re, velandone coi 
nomi la esistenza. Cosi li Tessali denominarono Tettar' 
~ chi questi arbitri, e gli Spartani li chiamarono Armosti 
per timore d’ intitolarli tiranni o monarchi : aggiungi 
. che teneano per cosa scellerata rinovare poteri abattuti 
tra giuramenti ed esecrazioni su 1’ oracolo de’ numi. 
Quindi , come ho detto , a me sembra che i Romani 
prendessero da' Greci l’esempio: Licinio però crede che 
i Romani ideassero un dittatore a norma degli Albani ; 
scrivendo cbe questi, venuta meno la regia discendenza 
dopo la morte di Numitore e di Amulio , eleggessero 
annui presidenti col potere appunto dei re, ma con ti- 
tolo di dittatori. Io non ho voluto esaminare onde Ro- 
ma derivasse il nome, ma sibbene onde pigliasse la idea 
dell’ autorità che in tal nome si ' addita. Se uon che 


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LIBRO V. I97 

forsb non è pregio dell' opera che scrivasi di ciò più 
luDgameate. 

LXXy. Ora dirò brevemente ciocché Largio il primo 
dittatore facesse , e con quale apparato decorasse la sua 
dignità ; persuadendomi che siano più utili ai lettori le 
materie appunto che porgono in copia esempj splendidi 
ed opportuni pe’ legislatori, e capi de’ popoli, in somma 
per quanti vogliono governare e maneggiare il pubblico» 
Imperciocché non io prendo a descrivere le istituzioni > 
e li modi di una città vite e negletta , né li consigli 
e le pratiche di uomini ignobili e di niuna espettazione, 
sicché lo studio mio su tenui e volgari cose paja ad 
altri frivolezza e molestia : ma di una città legislatrice 
di tutti, e di capitani che la sollevarono a tanto potere; 
cose tutte che se un amante della sapienza giunga a 
non ignorare ; ne sarà per politico ravvisato. Investito 
Largio appena del suo potere dichiarò maestro de’ ca- 
valieri Spurio Cassio , già console nella olimpiade 70.* 
Osservavasi tal costume da’ Romani fino a’ miei giorni , 
e ninno mai , scelto per dittatore , ne tenne la dignità 
senza maestro de’ cavalieri. Quindi a rilevare la potenza 
di una tal dignità, per imporre piuttosto che per osar- 
ne , ordinò che i littori marciassero per la città con 
fasci e scuri secondo il costume ivi proprio de’ re , tra- 
lasciato poscia da’ consoli , e primieramente da Valerio 
Poplicola per diminuire la odiosità del comando. Spa- 
ventati con questo ed* altri segni di regia dominazione 
i turbolenti eà i novatori , comandò a lutti i Romani 
di adempiere la migliore delle leggi .di Servio Tullio , 
sovrano popolarissimo , cioè di assegnare per tribù li 


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198 DELLE Antichità’ . ROMANE 
loro beni, li nomi delle mogli e de’ figli , e la età loro 
e de’figli. Terminato in breve il registro per la severità 
de’ castighi , perdendosi da’ contravventori i beni e la 
cittadinanza ; si rinvennero cento cinquanta mila sette- 
cento e più Romani adulti. Poi separando gli uomini 
di età militare dai provetti , e riducendoli in centurie ; 
li divise tutti , fanti e cavalieri in quattro parti : e ri- 
tenutane una , che era la migliore , per sé , fece che 
delio già suo collega nel consolato se ne eleggesse un 
altra qualunque tra le rimanenti : che Spurio Cassio il 
prefetto de’ cavalieri avesse la terza , e Spurio Largio il 
fratello la quarta ; la quale fu comandata trattenersi e 
presidiare insieme co’ vecchi la città. 

LXXVI. Egli poi , com’ ebbe pronto quanto biso- 
gnava per la guerra, menò le milizie in campo aperto; 
appostando tre armate ne’luoghi appunto donde sospet- 
tava che i Latini uscirebbono. E considerando esser 
proprio de’ savj capitani fortificare le sue cose come 
debilitare quelle del nemico , e terminare le guerre 
senza battaglie e stenti, o certo col minimo danno delle 
milizie ; anzi considerando che sciauratissime e luttuo- 
sissime più che tutte sono le guerre tra’ popoli amici e 
congiunti ; concludeva che si aveau queste a finire con 
tratti di clemenza piuttosto, che di rigore. Adunque 
spedendo occultamente persone non sospette ai più ri- 
guardevoli de’ Latini, li persuase a rendere la pace alle 
loro città: e spedendo insieme apertamente ambasciadori 
ad ogni città , come alla rappresentanfa generale di 
tutte; ottenne senza difficoltà che non tutti avessero più 
l’antico ardore per la guerra; alienandoli principalmente 


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LIBRO V. 199 

cogli ossequiosi modi e co’ benedzj dai duci loro. In 
opposilo Mamilio e Sesto , che aveano da’ Latini rice« 
TUto il generai comando , riunite nel Tnscolo le forze , 
si apparecchiavano come per piombare su Roma ; se 
non che spesero su ciò gran tempo o che aspettassero 
le città le quali tardavano , o che non buoni apparis- 
sero loro gli auguri santi. Intanto alcuni di loro spic- 
catisi dall' esercito devastavano la campagna romana. 
Largio , risaputolo , spedi delio su loro col fiore dei 
cavalieri e de’ soldati leggieri : e costui , presentatosi 
inaspettatamente , gli assalì , e ne uccise , imprigionan- 
done la più gran parte. Largio curatine li feriti, e gua- 
dagnatiseli con altre amorevolezze li rinviò senza offesa 
o prezzo al Tuscolo ; mandando riguardevolissimi ro- 
mani ton essi per ambasciadori. Or questi operarono 
che si sciogliesse l' armata latina , e si facesse tra le 
città la tregua di un anno. 

LXXVII. Largio, ciò fatto, ricondusse l’ armata dalla 
campagna: e designando i consoli depose prima che ne 
spirasse il tempo la dittatura senz’ avere ucciso , o ban- 
dito , o ridotto comunque a gravi mali un romano. 
Cominciato T invidiabile esempio da un tal uomo si 
mantenne in quanti ottennero poi quella dignità fino 
alla terza generazione prima della mia. Imperocché la 
storia fino a quest’ epoca non presenta ninno il quale 
non esercitasse quella dignità moderatamente e qual cit- 
tadino , quantunque Roma fosse astretta più volte a 
sospendere le magistrature ordinarie, e concentrare tutto 
nelle mani di un solo. E non sarebbe gran meraviglia 
se personaggi ottimi della patria pigliando la dittatura 


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200 OKLLE Antichità’ romane 
solamente nelle guerre cogli esteri si fossero tenuti in- 
corrotti nella grandezza del potere: ma pigliandola nelle 
sedizioni interne, grandi e molte, per togliere I sospetti 
di regni e tirannidi rinascenti , o per altra sciagura , 
lutti , quanti la ottennero , conservaron sestessi iqinia- 
colati , e simili al primo dei dittatori. Tanto che tutti 
unanimemente conclusero che la dittatura era 1’ unico 
rimedio contro de’ mali intrattabili , e 1’ ultima speranza 
dii salute quando sparse sono le altre speranze . dalla 
procella. Quattrocento anni però dopo la dittatura di 
Tito Largioj a memoria de’ Padri nostri parve tal carica 
biasimevole ed esecranda per Lucio Cornelio Siila che 
primo ne abusò , vendicativo e 6ero : talché li Romani 
allora sentirono a prova , ciocché aveano prima igno- 
rato , che la signoria de' dittatori non era se,, notk liran* 
nide : imperocché costui ordinò un* Senato di uomini 
comunque , infìacchi 1’ autorità del tribunato , devastò 
città intere , distrusse e creò regni , ed altre cose fece 
e disfece dispoticamente, le quali lungo sarebbe a rac- 
contare. Oltre i cittadini uccisi in battaglia , ne trucidò 
nemmeno di quaranta mila , datisi a lui prigionieri , 
dopo averne prima tormentati alcuni. !Non è questo il 
tempo di discutere se egli fe’ ciò necessitato o per utile 
del comune : solamente ho voluto dimostrare che ne 
divenne abominato c spaventevole il nome di dittatore: 
ciocché pur succede ad altre cose ammirale e disputate 
dagli uomini, non che alle sole dominazioni: perciocché 
tulle le cose appariscono belle e giovevoli se bene si 
.adoperino , come danncvoli c turpi se mal si dirigano ; 
di (he ne è causa la natura che in lutti i beni ha 


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DELLE antichità’ BOMANE LIBBO V. 201 
sparso i germi dei male ; se noa die di tali cose di- 
remo altrove più propriamente. L’ anno prossimo a 
questo nella olimpiade 'j i ^ nella quale vinse allo stadio 
Tisicrate Croloniatej- essendo Ipparco F arconte di Ale* 
ne , presero il consolato Aulo Sempronio Atratino e 
Marco Minucio. 



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202 


DELLE 

ANTICHITÀ ROMANE 

D I 

DIONIGI ALICARNASSEO 


LIBRO SESTO. 


I. Li anno prossimo a questo nella olimpiade 71.* 
nella quale vinse allo stadio Tisicrate Crotoniate essendo 
Ipparco arconte di Atene , presero il consolato Aulo 
Sempronio Atralino e Marco Minucio (i), ma niente vi 
operarono degno di ricordanza , nè in città nè fra le 
armi : perciocché la tregua co’ Latini dava loro placida 
calma cogli esteri , e la legge decretata dal Senato di 
sospendere la esazione dei prestiti , finché la guerra 
imminente avesse buon termine , avea sopito le som- 

fi) Àn. di Roma aS7 secondo Catone, 259 secondo Vairone, • 
4<}5 ar. Cristo. 


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LIBRO VI. 2o3 

mosse interne de’ poveri, vogliosi clie il debito si estin- 
guesse dal pubblico. In que’ tempi aveva il Senato sta- 
bilito cbe le donne latine , quante erano , conjugate ai 
Romani famosi e cospicui , e le Romane conjugate ai 
Latini, rimanessero se voleano co’ mariti; e se no, ri- 
patriassero: per modo però che la prole virile si tenesse 
co’ padri, e la feminile, nou isposata ancora, seguitasse 
le madri. Or ci avea moltissime maritate vicendevol- 
mente nelle varie città sia per amicizia, sia pe’ligami del 
sangue : ma non si tosto furono per quel decreto libero 
di sestesse, manifestarono quanto fosse il trasporto loro 
di vivere In Roma. Perciocché le Romane situate nelle 
città latine abbandonarono quasi tutte gli sposi , tor- 
nando presso de’ genitori ; laddove toltene due , tutte 
le Latine congiunte ai Romani si rimasero , non cu- 
rando la patria , con essi. E questo fu bonissimo au- 
gurio che Roma prevaierebbe fra le arme. Sotto questi 
consoli è fama che si consacrasse un tempio a Saturno 
nella via che’ mena dal Foro sul Campidoglio , e che 
s’ istituissero a gloria del Dio feste , e sagrIGzi pubblici 
per ogni anno. Dicono che ivi prima stesse 1’ altare 
edificato da Ercole , e che ivi bruciassero le primizie 
de' sagrifizj ' con greca cerimonia quei che 1’ aveano da 
lui ricevuta. Narrano alcuni che Tito Largio , impren- 
desse la edificazione del tempio , altri che Tarquinio 
r espulso dai trono : come pure che Postumio Cornino 
lo dedicasse in conformità del decreto del Senato. 
Cosi, come ho detto, si ebbe sotto questi consoli pace 
profonda. ^ 

II. Presero dopo questi il consolato Aulo Postumio 


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2o4 delle Antichità’ romane 
« Tito Virginio (i). Spirata sotto di essi la tregua coi 
Latini ; faceansi dall’ una e dall’ altra parte grandi appa> 
recchi per la guerra. Il complesso de’ Romani era vo-* 
lentei'oso e propensissimo a combattere ; ma il più dei 
Latini eravi disanimato e forzato : dominando per le 
città uomini quasi tutti corrotti dai doni e dalle prò» 
messe di Tarquinio , e di Mamilio , rimossi dalle cure 
pubbliche quanti favorivano il popolo e ripudiàvan la 
guerra. Cosi non più dandosi a chi la volea la facoltà 
(li discorrere , si ridussero i più corucciati a lasciare in 
copia la patria , e fuggirsene in Roma. Nè quelli che 
dominavano ve gl’ impedivano , ma teneansi obbligatis- 
simi ai competitori , dell’ esilio spontaneo. Li riceveano 
i Romani e compartivano tra le milizie interne, e me- 
scbiavano alle coorti urbane quanti ne venivano con 
mogli e figli , ma spedivano gli altri a' castelli intorno 
e per le colonie , sopravvegliando intanto che non fa- 
cessero' mutamenti. E consentendo tutti che bisognavaci 
novamente un arbitro assoluto il qual potesse ordinare 
a suo modo ogni cosa , fu nominato dittatore Aulo 
Poslumio il console più giovine da Virginio il collega : 
e costui , come già 1’ altro dittatore scelse per suo 
maestro de’ cavalieri Tito Ebuzio Elva , e registrati in 
poco tempo tutti i Romani già puberi , ordinò la mi- 
lizia in quattro parti , reggendone egli 1’ una , dandone 
a reggere la seconda a Virginio il compagno nel con- 
solato , la terza ad Ebuzio il maestro de’ cavalieri , c 

(i) An. di Roma aSS secoado Catone, aCo secondo Varrone, • 
4<«4 avanti Cristo. 


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LIBRO VI. 3o5 

la quarta ad Aulo Sempronio al quale alGdò la cura 
di Roma. 

ni. Apparecchiate cosi da Ini tutte le cose per la 
guerra vennero degli esploratori ed annunziarono essere 
già i Latini usciti con tutte le milizie ; quando ecco 
sopragginngerne altri che diceano essere già espugnato 
da essi Corbione un luogo munito , passata a CI di 
spada la piccioia guarnigione Romana che vi era , tener 
essi tuttavia quel castello , ed averselo costituito centro ' 
di guerra : aver fatto prigionieri per le campagne uo- 
mini e greggi ma pochi , non contando i sorpresi in 
Corbione , ^ perchè li coltivatori aveano ricoverato già 
prima ai luoghi muniti più vicini quanto vi poterono 
trasportare , o condurre : aver però date alle Camme la 
case deserte , e devastate le campagne. Narravano giunta 
da Anzio , Yolsca città nobilissima , ai Latini mentre 
erano in campo , milizia nuova , ed arme , e frumento , . 
e quanto bisognava: dond’ è ch’empiutisi questi di ar- 
dore vivevano con speranza bonissima , che avendone 
Anzio dato il principio , anche gli altri Volsci si uni- 
rebbero ad essi per combattere. Postumio , ciò udendo , 
marciò di tutta fretta prima che i nemici si concentras- 
sero : e conducendo tra la notte per iscorcio di vie le 
milizie , si trovò prossimo a’ Latini accampati in sito 
forte presso dei lago chiamato Regillo : e trincieratosi 
in luogo alto, scosceso, e preminente a questi, vi aspet- 
tava il suo meglio. ’ • ' ■ 

IV. I Duci Latini , Ottavio Tuscolano , genero , o 
come alcuni scrivono , Aglio del genero , del re Tar- 
quiuio , e Sesto Tarquinio , accampati allora separata- 


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2o6 delle Antichità’ romane 
mente , ricongiunsero le armate : e convocando i tribuni 
militari e li centurioni , consultarono ciocché fosse da 
fare per la guerra ; e varj ne furono i pareri. Chi vo- 
lea che i Latini , mentre erano ancora temuti , assalis- 
sero il dittatore , e quanti teneano le alture, sul riflesso 
che le posizioni forti sono indizio di timore non di 
confidenza ; e chi volea che si tirasse intorno di essi 
una fossa e vi si limitassero con poche milizie di guar- 
dia , e si prendessero e guidassero le altre su Roma , 
facile ad espugnarsi per esserne uscito il fiore de’ gio- 
vani. In opposito altri anteponendo ai consigli più arditi 
i più cauti , suggerivaiici che si aspettassero i soccorsi 
de' Volsci , e degli altri edleati : li Romani niente pro^ 
spererebbero per quell indugio , laddov>e essi agevole- 
rebbero ossea più le cose loro. Se non che mentre de- 
liberavano ancora giunse coll’ armata sua da Roma Tito 
iVirgiuio r altro console , marciato improvvisamente nella 
notte dinanzi : e prese anch’ egli campo in altra altura 
assai forte. Di modo che i Latini rimasero intracchiusi , 
nè più idonei ad un assalto , avendo a sinistra il con- 
sole e a destra il dittatore. Adunque tanto più sen con- 
turbarono tra quelli i capitani i quali non voleano se 
non partiti sicuri , e temerono che tardando si ridu- 
cessero a consumare le loro provvigioni , le quali non 
erano molle. Postumio notando quanta fosse la impe- 
rizia loro nel comandare spedi Tito Ebuzio maestro dei 
cavalieri col nerbo de’ cavalli e de’ soldati leggeri ad 
.occupare un monte rilevantissimo in su la via , per la 
quale recavansi i viveri dalle loro terre ai Latini. Andò 
questa milizia espedita con la cavalleria , e condotta di 


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LIBRO VI. 207 

notte tra selve non frequentate ; prese il monte prima 
che i nemici se ne avvedessero. 

V. I capitani nenuci osservando invasi anche i posti 
forti che erano loro alle spalle , nè più avendo spe- 
ranze buone sul trasporto indubitato de’ viveri da’ paesi 
loro , deliberarono respingere i Romani dal monte prima 
che vi si assicurassero ancora cogli steccati. Adunque 
Sesto r un d’ essi presa la cavalleria vi si lanciò con 
impeto ; quasi la cavalleria Romana non si tenesse a 
ribatterlo : ma tenendosi questa bravissimamente contro 
gli assalitori , Sesto durò qualche tempo ora dando voi* 
ta , ora tornandole a fronte. Ma perciocché quel luogo 
riusciva opportunissimo a chi ne avea le alture , e co- 
stava assai travagli e ferite a chi vi si recava dabbasso ; 
e perciocché giungeva ai Romani un soccorso di milizia 
legionaria mandata appresso da Postumio ; egli ritirò , 
non potendo altro fare, la cavalleria negli alloggiamenti. 
I Romani impadronitisi appieno del luogo , si misero a 
fortificarlo pubblicamente. Dopo ciò parve a Sesto e 
Mamilio ndn essere più da indugiare gran tempo , ma 
doversi decidere la sorte con una pronta battaglia : e 
parve allora anche al dittatore di esporvisi, quantunque 
avesse ne’ principi ideato di dar fine alla guerra senza 
combattere , sperando giungere a ciò , specialmente per 
la imperizia de’ capitani. Imperciocché da’ cavalieri cu- 
stodi delle strade furono sorpresi de’ messaggeri che an- 
davano dai Yolsci a’ Latini con lettere di avviso che , 
indi a tre giorni al più , verrebbe milizia copiosa di 
rinforzo da loro , come altra dagli Eroici. Or ciò ri- 
dusse i duci Romani a venire , sebbene contro il pro- 


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■n 


208 DELLE Antichità’ romane 

posilo , a pronta giornata. Datosi da ambe le parti il 
segno della battaglia ; si avanzarono gli uni e gli altri 
al campo intermedio , e cosi vi ordinarono le armate. 
Sesto Tarquinio ebbe a reggere 1’ ala sinistra de’ Latini, 
ed Ottavio Mamilio la destra. Tito 1’ altro figliuolo di 
Tarquinio comandava il centro óve erano i disertori e 
fuorusciti Romani. La cavalleria divisa in tre parti fu 
dispensata alle ale ed al centro. In opposito Tito Ebuzio 
ebbe 1’ ala sinistra de’ Romani contro di Ottavio Mami- 
lio , e Tito Virginio il console si contrappose colla de* 
stra a Sesto Tarquinio; Empiva de’ genj suoi Postumio 
stesso il dittatore 1’ armata di mezzo , e moveala contro 
Tito Tarquinio ^ e gli esuli da Roma j i quali eran con 
lui. Il complesso delle milizie venute a combattere erano 
ventiquattro mila fanti e tre mila cavalieri nella parte 
Romana , e quaranu niila fanti , e tre mila cavalieri 
nella Latina. 

VI. Quando erano per andare a combattere i capitani 
Latini , aringando ognuno i suoi , diedero mille ecci- 
tamenti di coraggio , e ricordarono lungamente cioc- 
ché bisogna al soldato. Dall' altra parte il Romano ve- 
dendo cbe i suoi temeano come quelli che cimentavansi 
con gente assai più numerosa , e volendoli sollevare da 
quella paura , fe’ radunarli , e poi tra corona di sena- 
tori , onorabili per anni e per credito , cosi concionò : 
Gli Dei cogli aitgurj , colle viltime , con ogni segno 
divinatorio promettono alla nosti'a patria Li libertà , 
ed una propizia vittoria; contraccambiandoci della 
pietà verso loro , e della giustizia esercitata da noi 
verso gli altri in tutta la vita : per lo contrario , inì- 


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~ » 


LIBRO VI. ' » 209 

mici sono , come deano , de' nostri nemici , perchè 
tante volte e tanto da noi beneficali , essi parenti , 
essi amici nostri ', essi legatisi a noi di giuramento 
per avere appunto gli amici stessi ^ i nemici , ora 
spregiato ogni vincolo , ci movono una guerra ingiusta 
non per decidere qual di noi si abbia la preminenza 
e il comando , ciocché sarebbe il meno de mali ; ma 
in favor dei timnni , e per fare la patria nostra che 
è libera', schiava ai Tarquinj. Ora intendendo voi o 
centurioni e soldati , che militano con voi gli Dei , 
quelli stessi che hanno sempre difesa Roma , si con^ 
viene che rnagnanimi vi dimostriate in questa bat- 
taglia : molto più che ben sapete che gli Dei fa- 
voriscono i bravi combaltitori , quelli che quanto è 
da loro fan tutto per vincere , e non quelli che fig- 
gono i 'pericoli, md quelli che li sostengono per sal- 
vare' sè stessfi Inoltie a voi sono apparecchiati dalla 
sorte altri mezzi non pochi per la vittoria , e tre so- 
prattutto manifèstissimi. 

Vn. Il primo è la fedeltà scambievole , requisito 
principaliss'tmo in chi disegna vincere l’ inimico ; im- 
p^ciocchè non' dee già cominciar • questo giorno a 
rendervi amici fidi e costanti; ma la patria ha da 
tanto tempo preparato' a voi tutti un tal bene. V oi 
allevati in urta terra, educati di una maniera sagri- 
ficate agl’ Iddj su di altari medesimi : . e voi avete 
fin qui partecipato i tanti beni e sperimentato in- 
sieme i tanti mali, i quali rinforzano, anzi rendono 
indissolubili, le amicizie fra gli uomini , quante volte 

DIONJGt. tomo II. i . *4 


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a I o DELLE Antichità’ domane 

presentasi loro un cimento comune su gravissime cose. 

In secondo luogo , se voi soggiacerete .ai nemici , già 
non sarà che alcuni di voi restino immuni , altri su- 
biscano r estrema degl' infortunj ; ma tutti, sì, tutti 
perderete la gloria vostra , f impero , ' la libertà j noit 
più padroni delle mogli , non più de' figli , non più _ •' 

delle sostanze, non più altro bene vostro qualunque. ^ 

E li vostri capi, li vostri pubblici magistrati ‘ miseran- 
damente moriranno tra flagelli e tormenti. Se già non 
offesi da voi punto nè poco , fecero a voi tutti ogni 
maniera cT ingiurie ; e che mai potete aspeltarvene 
ora se vincano , nella memoria che hanno de’ mali ; 
che gli avete ridotti fuori della patria , che gli avete 
spogliati de’ beni , nè consentile che tornino alle case , 

paterne ? L’ ultimo de’ mezzi indicàtir, nè minore de- 
gli altri se rettamente sen giudichi,, è che noi troviamo 
le cose tra’ nemici men prospere che non pensavamo. 

E certo vedete voi da voi stessi che tolto gli Anziati, 
niuno è qui per soccorrerli nella guerra. Noi conce- 
pivamo che verrebbero per essi tutti i Eolsci ; e Sa- 
bini ed Ernici in copia , e mille altre vane paure ci i 

fingevamo. Erano questi tutti sogni de’ Latini , imma- I 

ginati su promesse vane , su speranze senza base. 
Quindi altri nel meglio ne abbandona la causa, spre- 
giando r euUorità de’ sì belli capitani:, altri li terranno ^ 
anzi a bada che li soccorreranno , temporeggiandoli 
con lusinghe ; e quelli che or si apparecchiano , come 
tardi per la battaglia , inutili diverranno. ■ I 

Vili. Che se alcuni di voi pensano che giusto sia I 

ciocché io dico , eppur temono . la quantità de' nemici, j 


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\ 


' LIBRO VI. a I I ■ 

€onoscanò per una breve iilruzione, o piuttosto ricordo, 
che essi temono non temibili cose. E prima conside\ 
tino che il pià di' loro è stato forzato alle arme con- 
tro di ìtoi , come ce lo ha con tante opere e detti 
mànìfestato ; e che gli spontanei , quelli che di lor pia- 
cere combattono pe’ tiranni sono ben pochi , e piut- 
tosto una parte insensibile rimpetto di voi. Appresso 
considerino che le guerre guidale a buon successo non 
la superiorità' nel numero , ma nella fortezza. E lun- 
ghissima opera sarebbe ricordar quanti eserciti di bar- 
bari, quanti di Greci, tuttoché preminenti di numero, 
siano stati disfatti da piccioli corpi e quasi non cre- 
dibili a dir. Ma tralascio gli esempj altrui : dite ^ 
quante guerre non avete voi ben guerreggiato con ar- 
mata minore della presente, e contro apparecchi assai 
pià potenti di questi ? Dite ; voi fin qui teiribili agli 
altri che avete combattuti e vinti, siete ora voi dispre- 
geiSbli a questi Latini, ai Folsci loro alleati, perchè 
non vi han essi mai sperimentato Jra le arme ? Sa- 
pete pure voi tutti quante volte i nostri padri gli hanno 
in campo superati ambedue. E vi par verisimile che 
la condizione da’ vinti sia dopo tante perdite migliore, 
e peggiore sia quella de' vincitori dopo tanti bellis- 
simi fatti ? E chi ,' se abbia mente , chi mai dirà 
questo ? Anzi ben io mi 'stupirei se alcuno di voi 
paventasse questa turba ove si pochi sono li bravi, e 
spregiasse la milizia nostra si forte e si numerosa ; 
che nè pai' numerosa nè pià forte mai ne abbiamo 
finora schierato in battaglia. 

IX. Che pià : deve , o cittadini ì esservi impulso 


I 


t 


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i\-> DELLE Antichità’ bomane 
grandissimo a non temere , nè ricusare i pericoli t ej- 
sere come vedete qui pronti ai pericoli, e correre con 
voi la sorte stessa delle arme i primarj de’ senatori , 
quelli che la età o la legge gli esenta dalla milizia. 
Che^sl; che egli sarebbe vituperoso che -uomini nel 
fior degli anni temessero i pericoli quando i provetti 
gli affrontano, Avran cuore i vecchi di ricevere per la 
patria la morte se dare non là possono ai nemici; e 
voi li sì . vegeti , voi che ben potete • f una e l’ altra 
cosa , o salvarvi e vincere senza danno , o certo ma- 
gnanimamente operare , e soffrire , voi non vorrete 
nè cimentare la sorte , nè la Jama .procacciarvi de’ va- 
lorosi F No , ciò di vói non è degno , o Homani , ai 
quali sopravvanzan tante mirabilissime gesta degli an- 
tenati , le quali niuno loderebbe mai quanto basta : 
e se voi vincerete questa guerra, i vostri posteri an- 
cora si gioveranno di tante vostre gloriosissime im- 
prese. Ma perchè nè sia senza frutto chi si delibera 
K alle grandi azioni ; nè si trovi col danno chi ne teme 
i rischj oltra il debito , udite prima d incorrerla, 
Indite qual sarà la sorte dell’ uno e delt altro. Chiun- 
que ìlei combattere imprende belle e magnanime gesta 
ne sarà da chi ’l vede encomiato ; ed io, quando di- 
spenserò li premj che .ciascuno' -dee raccoglierne. se- 
condo il costume della patria j quando. darò insorte 
le, terre pubbliche , io costui ne appagherv, sicché pià 
di nulla abbisogni. Al contrario chiunque nel cuor suo 
vile, offensivo de’ numi , si deciderà per la fuga , 
costui si troverà per me colla morte che fogge ; chè 
ben è meglio per esso e per altri che un tale citta- 


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LIBRO VI. 2 I 3 

dina perisca : e così perendo , non che attere i fune- 
bri onori eia tomba ^ si resterà, non emulato' nè 
pianto , in abbandono agli uccelli e alle fiere. Con 
ioli previdenze , andate : combattete alacremente ; e 
V abbiate per guida alle grandi azioni la speranza 
buona , chè dato a questo cimento un termine gene- 
roso , come tutti desideriamo , avrete ottenuto amplis- 
simi beni, avrete liberato voi dal timor dei tiranni , 
avrete , come doyeasi , corrisposto alla patria , che 
chiedea la gratitudine vostra per avervi generati e 
nudriti , avrete operato eh» i teneri vostri figli , le 
vostre mogli non sqffrano oltraggio da nemici, e che 
ì vecchi vostri genitori vivano in calma il picciolo 
avanzo di vita. Felici voi d quali riservasi tornare 
da questa guerra col trionfo, mentre li figli vostri' ve 
ne aspettano , e le spose , e li genitori. Quanto sa- 
rete celebrati , quanto ' invidiati pel coraggio di dare 
voi stessi per là patria ! Tutti deano morire valen- 
tuomini o no] ma il moribe con dignità' e CON 
GLORIA NON È PROPRIO CHE DE' VALENTUOlilNI- 
X. Ancora egli continuava tali detti magnanimi ; 
quando ecco spargersi nell’ esercito un ardore divino , 
e tutti ad una voce gridare : ardisci , e guidaci. E qui 
Postuniio encomiando la loro prontezza; e votandosi 
agl’ Iddj , se avea buon successo nella guerra , di fare 
grandi e sontupsi sagrilìzj , e ^lendidissimi giuochi da 
rinnovarsi in. Roma ogn’ anno rilasciò le milizie perchè 
si oi'dimssero. Quindi come i duci diedero il segno e 
le, trombe l’invito a ^mbattere; lanciaronsij gridando, 
quinci c quindi prima i soldati leggeri e li oavalietà , e 


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2 1 4 DEiXE Antichità.’ homane 
poi le lej^ioni le quali aveano schierameotd ed armi 
consimili. Fecesi di tutti una mischia vivissima , ^dottasi 
tutta al dar delle mani. Tennesi questa lungo tempo 
contraria alla espcttazione di ambedue, sperando gli Ubj 
e gli altri che non avrebbero nemmeno a combattere , 
ma che a prim’ impeto forarebbero , ed intimorirebbero 
rinunieo; i Latini alhdati alla cavalleria loro numerosa 
quasi i’ urto ne fosse irreparabile alla cavalleria Romana; 
e li Romani aU’andarne audaci c spregianti ai perìcoli , 
quasi cosi avessero a soprailare l’ inimico. Non ostanti 
tali primitivi concetti degli uni su gli altri , vedeano tutti 
seguire il contrario. Quindi considerando che il mezzo 
di salvarsi e di vincere era la propria fortezza non la 
paura de’ nemici ; militarono bravlssimamente anche so- 
pra le forze ; e varie ne furono le vicende e le sorti. 

XI. Primieramente li Romani del centro dov’ era il 
fiore de* cavalli con Postumio dittatore, e'dove combat- 
teva egli stesso tra’ primi , cacciano di posto i loro com- 
pettitori dopo ferito con uno strale in una spalla , cd 
inabilitato a valersene , Tito l’ uno de’ figli di Tarqur- 
nio ; sebbene Licinio c Gellio senza esaminare le cose 
verisimili e possibili, suppongano esser questo che mili- 
tando a cavallo restò ferito lo stesso re Tarquinio, uomo 
più che nonagenario (i). Caduto Tito , le sue milizie 

(i) .\nofaa Tito Lhrio i di - questo parere, quantunque avesse 
considerata la difficoltà degli anni : ^li scrìve in Postumiwn prima 
inacìesuos aiihortantem i/utruentemtfua , Tarquinius super but quam- 
quam jam alate et viribus crai graiùar equnm infestas admitil. Nà 
SODO mancsti altri re che in quella ^ fornivano tutti gl' incarichi 
del regno o còmbattevano. Massiuissa fu I’ uno di.questi, cd .àntea 
re degli 'Setti mori combattendo, vecchio pi4 (he di novant’anni 



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MBBO VI. 2 I 5 

tennero fronte alcun tempo , e sollecite ne raccolsero 
vivo il corpo , non però fecero altro più di generoso , 
ma rinculavano incalzate via via da’ Romani , 6nchè 
soccorse da Sesto l’ altro 6glio di Tarquinio co’ fuoru- 
sciti Romani , e da truppa scelta di cavalieri si arresta- 
fono , e tornarono su l’ inimico. Cosi ripigliato Corano 
combattevano questi nuovamente. Intanto negli altri coi> 
pi (i) segnalandosi più che tutti i duci Ebuzio e Ma- 
milio , fugando ovunque volgeansi chi resisteva , e rior* 
dinando i loro se scompigliavans! ; vennero a disfida in 
fra loro : lanciatisi 1’ uno su l’ altro portaronsi colpi gra- 
vissimi , ma non mortali , Ebuzio spingendo 1’ asta per 
la corazza al petto di Mamilio , c Mamilio traforando il 
braccio destro di Ebuzio: tanto che ne caddero ambedue 
da cavallo. 

XII. Portali ambedue fuori della battaglia Marco Va* 
lerio che era un’ altra volta luogotenente anzi il più 
vecchio, prese le veci di Ebuzio maestro de’ cavalieri : ma 
contrastando colla sua la cavalleria nemica , e contenen* 
dola per breve tempo , infine fu violentato e respinto assai 
lungi ; perocché gèinsero in ajuto al nemico i fuorusciti 
Romani a cavallo , o di milizia leggera: e Maiadìo stesso 
riavutosi dalla percossa era tornato in campo con caval- 

eon Filippo Macedooe. E Luciioo scrive che Tarqptinio superbo 
più che nonagenario viveva robustissimo in Coma. Forse Licinio e 
Gellio non son dà riprendere. Dee poi notarsi, che Tarquinio; 
anche secondo Dionigi , visse più di novani’anni. Vedi § ai di 
questo libro. ' 

(i) Cioù Mamilio nell’ ala destra de’ Latini ed Ebutio nella si- 
nistra de’ Romani , percbù già stavano appunto in queste aie ; uù 
Diouigi lia (inora dello che avessero cambiato posto. 


I 

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2i6 delle Antichità.’ romane 
lerla numerosa e col nerbo de’ soldati espeditì ; anai in 
questa pugna cadde trafìtto da un’ asta Io stesso luogo- 
tenente Valerio (i) quegli che il primo avea trionfato 
de’ Sabini , e rialzato lo spirito di Roma infìacchito pei 
danni ricevuti da’ Tirreni : e con lui pur caddero altri 
molti nobili e valorosi Romani. Sorse sul caduto corpo 
di esso una lotta vivissima facendosi scudo allo zio li 
due Publio e Marco , fìgli di Poplicola. Or questi con- 
segnandolo intatto colle armi sue , mentre respirava an- 
cora , ai scudieri perchè Io riportassero agli alloggia- 
menti; lanciarono sestessi in mezzo al nemico spinti 
dall’onta ricevuta e dall’ardore dell’ animo : ma piom- 
bando d’ ogn’ intorno i fuoruscili su loro , alfine carico 
r uno e r altro di ferite mori (a). Dopo tale infortunio 
r armala Romana fu cacciala di posto , ed assai mal- 
menata dalla sinistra fino al centro. Il dittatore al co- 
noscere che i suoi fuggivano , ben tosto si staccò per 
soccorrerli con i cavalieri che aveva d’ intorno : e dato 
ordine a Tito Erminio di andare coll’ ala della caval- 

(i) Intende il Valerio fratello di Valerio l’oplicola: però il pri- 
mo Valerio è detto tio de’ fìgli di -Poplicola. Il Valerio del <]ualc 
qui parliaam fa coniole npve anni addietro insieme con- P. Po- 
atomio Tuherto. Per altro qui si dice ucciso; e due anni appresso 
cioè undici dopo il consolato si dice fatto dittatore : vedi, § 49 
questo libro par questa una coutraddisione. Forse il Poplicola ebbe 
due fratelli ambedue col prenome .di Marco; 'e forse vi è sbaglio 
nel prenome. - ' ' . 

(a) Couvien dire ebe Valerio Poplicola avesse piii figli col nome 
di Publio;, perchè Dionigi qui presenta la morte di ’un.Poblio figlio 
di Poplicola , e posteriormente nel principio del . libro settimo ci 
dice mangialo in iiicilia un .Publio figlio di Poplicola. Altrimenti 
dee sospettarsi fli un qualche sbaglio nel testo. 


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LIBRO VI. 217 

lerla alle spalle de’ fuggitivi c fermarli , o di ucdderli 
se non lo udivano ; egli corse co’ più forti ove gl’ ini- 
mici erano più folti. Giunti in vicinanza di essi rilasciù 
di tutta briglia il cavallo. Divenutone l’impeto immenso 
e spaventoso, non sostennero i nemici l’urto di uomini 
efferati e maniaci: ma diedero volta e molti ne soccom* 
borono. Intanto Erminio ritraendo dalla fuga i suoi sl>i- 
gotliti , li menò contro 1’ armata di IMamilio , ed egli 
stesso avventandosi addosso di lui die era il più grande 
e più gagliardo di quanti gli erano a fronte, lo uccise; 
ma fattosene a spogliare il cadavere, egli ancora vi soc- 
combò trafitto .dal brando di un tale in un lato.* Sesto 
Tarquinio, duce dell’ala sinistra Latina, resistendo tut- 
tavia tra tanti mali , avea cacciata di posto 1’ ala destra 
de’ Romani : come però vide Postumio venire su lui col 
uei'bo de’ cavalieri , disperatosi corse in mezzo a’ nemici. 
E qui circondato da’ fanti e da’ cavalieri ed investito , 
quasi una fiera d’ ogu’ intorno , mori , ma non senza 
averne anche egli stesi molti di quelli che lo investi- 
vano. Caduti i duci , pienissima fu la fuga de’ Latini , 
e la presa de’ loro alloggiamenti , abbandonati pur dalle 
, guardie. Dicchè i Romani se n’ebbero molti e belli van- 
taggi. Gravissima fu la perdita de’ Latini , tanto che 
moltissimo ne decaddero : e la strage fu tanta , quanta 
mai più per addietro ; imperocché di quaranta mila fanti 
e tre mila cavalli , come ho detto di sopra , nemmeno 
dieci mila tornarono salvi alle case. 

XIII. È fama che in questa battaglia si rendesser vi- 
_sibili al dittatore, ed al seguito suo due cavalieri adorni 
del Gore primo di giovinezza , grandi e belli assai più 


2i8 delle antichità.’ romane 
che la condizione non sostiene dell’ uomo ; e che po- 
nendosi alla testa della cavalleria romana , peKotessero 
colle aste i Latini che le si avventavano , o' li sospin- 
gessero a rapidissima fuga. E fama è similmente che 
dopo la fuga de’ Latini , e la presa de’ loro alloggia- 
menti, presso al crepuscolo vespertino, appunto quando 
la zuffa ebbe fine, si dessero a vedere in abito militare 
nel F oro romano due giovani altissimi , e vaghissimi ', 
spirando in volto ancora 1’ ardore della battaglia , dalla 
quale venivano , e reggendo cavalli , molli di sudore. 
Dicesi che smontati l’ uno e 1’ altro da’ cavalli, lavavansi 
nell’onda, la quale sorgendo presso il tempio di Vesta 
forma una lacuna , picciola si , ni» profonda : ma che 
fattisi molli intorno di loro , e chiedendone se punto 
recassero di nuovo dall’ esercito , rilevarono ad e»i 
Ciocch’era della battaglia, e come 1’ aveano guadagnata: 
e che partiti poscia dal Foro non più furono veduti 
da alcuno , tuttoché seu facesse ricerca grandissima dal 
comandante lasciato in Roma« Come però nel giorno 
appresso riceverono i capi della città lettere dal ditta- 
tore , e conobbero 1’ assistenza dei due numi , e tutti i 
successi della battaglia ; giudicarono che i .due perso- 
naggi apparsi fossero , com’ era verisimile , gl’ Iddii 
stessi , e conchiusero che erano le immagini di Polluce 
e di Castore. Attestano la comparigione inaspettata e 
meravigliosa di questi Numi , molti segni ancora, come 
il tempio fondalo a Castore e Polluce nel Foro , ap- 
punto dove comparvero j e la fonte vicina , chiamati c 
creduta sacra finora , e li sagrifizj magnifici che il po- 
polo ne celebra ogni aqno per mezzo de’ <»ivalieri più 


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LIBRO VI. 2I() 

ilislimì nelle idi del mese detto Quintile (i), nelle quali 
acquistarono la vittoria. Segno soprattutto ne è la pompa 
che dopo il sagriGzio ^ne fanno i cavalieri , i quali or« 
dinati per tribù e per » centurie marciano a squadre , 
quasi tornino dalla battaglia , tutti coronati di verde 
ulivo , e cinti di lucide toghe con lembi di porpora , 
le quali traber si chiamano. Partendosi , da un tempio 
di Marte , posto fuori della città , traversano Roma e 
il Foro , e vengono fin dove è il tempio di Castore e 
di Polluce in numero di cinque mila , tutti co’ premj 
ricevuti per le battaglie da' capitani : spettacolo bello e 
deguo della grandezza dell’ impero. E questo è quanto 
io conobbi che fu detto e fatto dai Romani intorno la 
venuta fra loro di Castore e di Polluce : e da ciò po- 
tremo raccogliere non che altre cose molte e grandi , 
quanto gli uomini d’ allora fossero ossequiosi inverso 
de’ Numi. 

XIV. Postumio passata la notte negli alloggiamenti , 

. coronò nel giorno seguente que’ che s' erano segnalati 
in battaglia : e dispensati gli schiavi , perchè li guar- 
dassero , fece sagrifizio per la vittoria. Ancora stavasi 
coronato , e ponea su gli altari le primizie consuete a 
bruciarvisi ; quando alcuni esploratori , correndo già 
dalle alture, gli annunziano che nemica armata venivagli 
contro. Era questa il fiore de’ Volsci mandato pe’ Latini 
prima che la battaglia si terminasse. Postumio a tale 
noUzia comanda ohe tùtti dieno all’ armi, e stieno negli 
alloggiamenti, ognuno ^tto le proprie insegne, ordinati ' - 

\ • S-. 

(i) Liiglh). ■ , 

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- X • • . ' ’ 


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2 20 DELLE ANTICHITÀ’ ROMANE 

e guardinghi , finché egli dicesse ciocch’ era da fare. 
Ideavano i duci de’ Yolsci assalire d’ improvviso i Ro- 
mani : ma giunti su di un’ altura al cospetto di quelli 
vedendo seminato il campo di morti , pieno 1’ uno e 
r altro alloggiamento , nè uscirne amico , o nimico 
niuno ; attoniti , non sapeano indovinarne qual fosse lo 
stato delle cose. Appena però seppero da quelli che si 
erano salvati , fuggendo , gli eventi della giornata ; con* 
sultarono fra loro ciocché fosse da fare. Parve ai più 
animosi il migliore lo assaltare immantinente ,le trincee 
de’ Romani mentre molti vi travagliavano per le ferite 
e tutU per la stanchezza , mentre aveano i più le armi 
non buone, spuntate o rotte; .nè veniva, ad essi per 
anche nuovo rinforzo dalla patria. Imperocché l’esercito 
loro gi'ande , forte , ben armato , perito di guerra , e 
giunto fuori della espettazione, incuterebbe paura anche 
ai più baldanzosi. 

XV. Nondimeno a’ più savj non parea sicuro venire , 
senz’ aspettare i compagni , a . cimento con uomini vaio* 
rosissimi tra le arme , i quali aveano di fresco annien- 
tata tanta milizia latina , e venirvi su cose rilevantissime 
nelle tene altrui , dove in caso di sciagura non avreb- 
bono asilo. Adunque voleano questi, che provvedessero 
piuttosto sollecitamente a, salvarsi nella patria , e tenes- 
sero per sommo guet.dagno se noh' erano punto danneg- 
giati in quella spedizione. Per l’opposito altri pensavano 
che non si avesse > a fare nè 1’ una nè l’ altra di queste 
due cose: che. era bensì, da giovine iL trasporto d’ allora 
per combattere ; ma che assai più biasimevole sarebbe' 
il fuggirsene a casa : e che qualunque de’ due parliti 


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LIBRO VI. 321 

seguissero , andrebbe a genio de’ nemici. Era il parere 
di questi , cbe di presenta 'si triucierassero e preparas- 
sero quanto bisognava per la battaglia , e clic intanto 
spedissero ai Volaci per chiedere che inviassero nuove 
forze onde pareggiare quelle de’ Romani , o che richia- 
massero le altre già’inviate. La sentenza però sembrata 
più persuasiva e ratificata da’ capi fu di mandare al 
campo romano alcuni osservatori col nome di amba- 
sciadori onde preservarli , li quali , complimentandolo , 
dicessero al capitano, che il comune de' Volsci man- 
davali per ajuto de'Bomani: si doleano però che giunti 
tardi per la battaglia non troverebbero uemmen grati- 
tudine di tanto amore, vedendo come l’aveano già vinta 
a grande lor sorte , anche senza degli alleati. Con tali 
dolci maniere illudendo , c dandosi per amici , andas- 
sero , spiassero , conoscessero la moltitudine de’ nemici, 
le arme , gli appareccbj , i disegni. Conosciuto ciò , 
discuterebbesi qual fosse il migliore, lo aspettare nuove 
truppe , o menare le presenti all’ assalto. 

XVI. Poiché si riunirono tutti in questa sentenza, 
ne andarono gli oratori eletti da essi al dittatore : e 
poiché recati nell’ adunanza vi esposero gl’ insidiosi loro 
discorsi ; Postumio soprastando alcun tempo, alfine ri- 
spose: Voi siete o Volsci venuti qua con rei consigli 
sotto belle parole,: nemici nelle opere , volete presso 
noi la stima di amici. Voi foste inviati dal vostro 
comune ai Latini per combatterci. Ora. non essendo 
voi giunti a tempo per • la bat&iglia ; anzi vedendo 
questi già vinti, cercale deluderci con dirne cose con- 
trarie a quelle che eravate per Jdré. Ma nè sincera 


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22 2 DELLE ANTICHITÀ’ ' ROMANE 

è r amicìzia del parlare che assiunete in vista del 
tempo presente , nè sincero il titolo della vostra le- 
gazione ; ma pieno è di malizia e d’ inganno. Non 
voi veniste sensibili pe nostri beni , ma per investi- 
gare qual sia lo stato tra' noi di debolezza 'e di 
forza. Messaggeri ne' detti , voi non siete che esplo- 
ratori nè fatti. E negando questi, ogni cosa , soggiunse 
che presto li convincerebbe. E qui produsse le lettere 
dei Volsci intercettate da lui prima delia battaglia, e chi 
le portava ai duci dei Latini , nelle quali prometteano 
mandare a questi un soccorso. Riconosciute le lettere , 
e palesato dai prigionieri il comando che aveano ; arse 
la moltitudine di manometter que’ Volsci , quali spie 
sorprese nel delitto. Non però volle Postumio che essi, 
nomini probi , si diportassero come i malvagi ; dicendo 
esser meglio serbare < un ira magnanima contro ohi 
gl' inviava , e rilasciare gV inviati per lo nome cospi- 
cuo di ambasciadori ; che perderli per la ignobile 
arte di esploratori. E ciò perchè non dessero ai Volsci 
causa speciosa di guerra su la idea che le persóne' dei 
loro ambasciadori erano state abusale eontro ogni legge; 
e perchè agli altri nemici non dessero pretesti di mal- 
dicenza , falsa si , ma non ^inverisimile , nè incredibile. 

XVII. Contenuta l’ira della moltitudine contro qu^ì 
uomini, comandò che ^ partissero senza nemmeno rivol- 
gersi , dando loro una guardia di cavalieri , i quali gli 
accompagnarono fino al campo de’Volsci. Cacciando gli 
esploratori intimò , che le sue milizie si apparecchias- 
sero, quasi dovessero schierarsi nel giornò appresso'. Non 
però fu d’ uopo combattere; perchè i duci de’ Volsci a 


•9 



-LIBRO VI. aa3 

notte avanzata levarono 1’ esercito , e si ravviarono alla 
patria. Riuscitogli cosi tutto secondo i desiderj , data 
sepoltura ai cadaveri de’ suoi , e puriGcato 1’ esercito , 
si ricondusse a Roma , onorato di uq nobii trionfo , 
tra molti carvi di arme , e molti di suppellettili nemi- 
che , seguitandolo cinque mila cinquecento , fatti pri- 
gionieri nella battaglia. Separate la decime dalle spoglie, 
fece con quaranta talenti spettacoli e sagrifizj ai Numi, 
e pattuì con prezzo, come àveala promessa in voto , la 
fondazione de’ templi a Cerere, a Bacco, e Proserpina; 
perciocché ne’ prindpj della guerra si ebbe disagio di 
viveri , e mólto si temè che mancassero , non avendo 
la terra generato i suoi frutti , nè recandosene altronde 
pe’ tutdulti delle arme. Fra tale paura ordinando a 
quelli che ne erano ì custodi , di consultare gli oracoli 
sibillini ; come udì che voleano gli oracoli cbe si pla- 
cassero questi Numi , si votò quando era per uscir col- 
r esercito , di dar loro e templi ed annui sagrifizj , se 
in tempo del sito comando tornasse come prima in - 
Roma r abbondanza. Esaudendolo questi , fecero che la 
ferra assai fruttificasse in semi e pomi ^ e che i viveri 
trasportati in città vi ridondassero più che altra volta ; 
e Postumio a tal vista decretò la edificazione de’ tèmpli. 
Cosi li Romani e^'rpata la guerra co’ tiranni , viveaUo 
tra feste e tra’ sagrifizj. 

XV 111. Pochi giorni appresso giunsero loro amba- 
scia()ori dai Latini , quali erano stati scelti dalle varie 
città , ma portando innanzi corone e simboli di pace , 
come quelli che aveano su la guerra ben altri senti- 
menti che prima. Introdotti questi in Senato rivolgeano 


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2 24 DELT,E Antichità’ ROMANE, 
ogui qolpa della guerra su’ principi delle città, dicendo; 
c/te il popolo iion avea mancato in altro che in tener 
dietro a capi rei , dediti a proprj vantaggi : ma che 
di questo errore causato in gran parte dalla neces- 
sità , ne avea ciascun popolo dato le pene non di- 
spregevoli con perdere il fiore de giovani : tanto che 
non era facile trovarvi famiglie , sgombre da lutto. 
Supplicavano di ricevere in loro non • i competitori 
del principato nè della -eguaglianza , ma gli alleati 
spontanei , e i sudditi sempiterni , che aggiungereb- 
bero alla fortuna de' Romani quàntò i Numi' toglie- 
vano a quella de’ Latini. Da ultimo raccomandavano 
il lor parentado , ricordavano la sincerità della al- 
leanza loro passata , e deploravano le sciagure in- 
corse dai non colpevoli, certo assai più numerosi dei 
colpevoli. E piangendole ad una ad una, e prostran- 
dosi appiè di tutto il Senato , e deponendo i simboli 
di pace ai piedi di Postumio, furono tutti i padri in- 
teneriti dalle lagrime e dalle suppliche loro. 

XIX. Ritiratisi questi dal Senato, e dato il > permesso 
a quelli a’, quali solcasi , che die^fes^ i loro pareti ; 
Tito Largio, il primo de’ dittatoti create già per l’anno 
antecèdente (i) consigliò che ■usassero'*^ la sorte sobbria- 
mente. Diceva ' essere encomio grahdissimo per una 
città come per un uomo se rion lasciandosi corrom- 
pere dalle prosperità , le sostiene con regola e con 
dignità : odiarsi tutte le prosperità , quelle principal- 
mente per le quali possono ingiuriarsi , e gravarsi i 

(i) Vuol dire tre anni addietro: come fu notalo da Silburgio. 


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LIBRO VI. ’ 2 2^ 

miseri e li sottomessi. iVon confidassero su la sorte , 
essi che àveano sperimentato tante volte ne’ beni, e 
ne' mali proprj , quanto fosse mal ferma e mutabile: 
nè Kiducessero i nemici 'alla necessità di pericolo 
estremo per la qualè ipesso gli uomini s’ innalzano , 
e combattono sopra le forze. Temessero , se prèn- 
deano pene irreparabili e dure su chi avea mancato, 
di provocarsene f ira comune di ogni popolo sul quale 
aspiravano di comandare ; imperocché decaduti dalle 
maniere consuete colle quali eransi rendati chiari di 
oscuri parrèbbono aver fatto ' della sovranità una ti- 
rannide, nqn lìn governo éd un patrocinio. Dieea che 
mezzana non irremisibile è la colpa , se città già li- 
bere ,• anzi usate al comando, nOn sanno dall’ antico 
grado discendere. Se quei che anelano il meglio , 
siano sé falliscono il colpo , vendicati immedicabil- 
mente ^ niente ipipedirà, che gli uomini, generati tutti 
con intimo amore della libertà si distravano gli uni 
cogli altri. ^AggiuDgefra che assai piti nobile , assai 
piti fenho è il principato^ che amministrasi tenendo i 
sudditi colld beneficenza ' non co’ supplizf : perciocché 
dà quella' nasce la benevolenza , e dà questi il ti- 
more ■> e ciocché si teme , ^^si odia vivàmente per ne- 
cessità di natura. Da ultimo pregayali a pigliar per 
esempio le opere bellissime pqr le quali gli antenati 
loro'tajfto erano encomiati'^ ' e qui ridiceva com' èssi 
aveano niàgnificatò" Bonia ^à piccola , non diroccando 
le città prese',' nè Spopolandole nè spegnendovi al- 
meno gli adulti , ma riducendqle colonie di Bofna , 
Dionigi:’ tomo II.' ^ ' , J , • (S • 



aa6 DELLE antichità’ romane 
e concedendo la cittàdLinanza a tutti i yinti che in 
Jtoina vollero domiciliarsi. Tilo Largib mirava col dir 
sao principalmente a questo , che si riqovasse co’ Latini 
l’alleanza, com’ eravi staU,'nè più ingiuria dcun% di 
qualunque città si ricordasse. '' 

XX. Servio Sulpizio punto non contradisse intorno 
la pace e la rinovazione dell’ alleanza. Siccome < però si 
erano essi Latini levati I primi dall’ alleanza , nè allora 
per la prima volu , tanto che ne -.fossero compatibili 
per la forza delle circostanze ' è dell’ errore , ma più 
volte già per addietro, tanto che ne erano' da 'correg- 
gere ; propose che stante- il parentado si lasciassero 
tutti immuni e liberi ; ma si logliose /or'o metà dèi 
territorio e si dispensasse a Ronumi che / mandativi, 
sei godessero , e guardassero - che' non pià. vi si ecci- 
tassero movimenti. Per 1’ oppo$ito Spurio Cassio con- 
sigliava che se ne abbattessero le città dicendo r che 
stupivasi della dabbenaggine di 'chi suggeriva ché,si 
lasciassero senza pena alcuna della' offesa: Quando 
poteano vedere che per. la' invidia else ùi'eo/io innata 
ed indelebile ' contro l’ ingrandirsi 'di fionia, le avreb- 
bero fatto guerra 'su guerra, sènza requie 'mai, finché 
fosse in loro la rea malvolenza : ' e jìjuando aveano 
queste indenta di tutti' i fatti firmali alla presenza 
de JVutni , cercato Tiltimamenté ridurre là città toro 
consanguinea sotto un tiranno pià borbarp'di ogni 
fiera, non eccitate d.a’altia speranza, salvo 'thè poca 
o niunà'pena ne sósterrebbero, se V èsito della guerra 
ngn le iécondasse. Pregavali che prendessero C esèm- 
pio dalV opete dei toro antenati- i quali' in un mòrno 

•ì 


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UBIVO VI, 227 

salo spùa^a-.ono Alba dalla quale discendevano 'essi 
e tutte le cq^' del Lazio, quando videro a prova che 
questa invidiava^ai lor beni,, e che la impunità con~ 
cedutale per i primi deliui erale occasione di altii 
pià^ ff-an^. Credessero dte non punire niuno pei 
grandi ed irreparabili attentati tanto era , quanto non 
cqnmiferare niuno per le colpe lecere. Ben sarebbe 
V opera "della stoltézza e della indolenza, non della 
umanità, nè dellp móderàzione , non avere tollerato 
la invidia pereihà^parea grave ed insopportabile , 
negli • autori, della Igr gènte , e poi tollerarla in altri, 
discendenti come -hrg: avere punito fino colla distru- 
zione dellq lor patrie limici redarguiti di colpe tanto 
minori, né poi prendere vendetta niuna di quelli che 
av’eaho. tante volte verso /loro dimostrato un odio im- 
placabile. Così dicendo, e nqmerando tutte le ribellioni 
de’ Latini, e ricordapdo* quanta era, la moltitudine dei 
Romani /.'periti stalle guerre con ^i , dimandò: che si 
trattassero ^ come gid -'’ gli Albani : se ne schiantassero 
le città , e le^ terre si appropriassero ai Romani : 
que’ cittadini- che aveeufo dimostrato alcuna benevo- 
laiza per, essi ritenessero i loro beni, anzi, si arric- 
chissero : ma gli autori ddla ribellione , quelli pei 
quali la ireguQ. 'fu rotta , sL uccidessero come tradi- 
tori. JL resto del popolo misero.., .ozioso inutile , si 
ridofosse schiavo ugualmente. - ' 

XXL Tali furono' le sentente perqrate d^i primi del 
Senatq-.. Il ' ditlatòrè si ..dichiarò per la sentenza di Lar- 
gio;' e .nino piò' contraddisse. Richiamati, .lornarono gli 

ambasdadori ,ih'3cnat(j^pqir la. risposta : e Poslum'o rr- 

' * . 

V ' 


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aa8 DELLE antichità’ homane 
darguendoli della loro incorrigibi]iià : hen sarebbe, disse, 
giustissimo che incontraste i mali ultimi, quali a noi 
li preparavate se riuscivate ne' disegni che avete can- 
tra noi tante volte macchinato. J^on antepqranno però 
li Bomani il diritto sommo alla moderaziorie , corui- 
derando che voi ne siete i parenti e che nddiman- 
daste pietà delle offese: anzi a voi condonano anche 
la colpa presente in vista degl’ Iddii comuni e della 
sorte imperscrutabile , dalla’ quale ebbèro la vittoria. 
Pertanto andatene, disse, liberi pienamente. E quando 
avrete rilasciato li prigionieri, quando ci avrete ri- 
consegnato li disertori , ed avrete espulso da voi gli 
esuli; allora mandatene gli àmbasciadori che tfottino 
dell’ amicizia e della pace , e sarete in quanto è de- 
gno , appagati. Partirono a tale risposta gli oratoH , e 
sciolti li prigionieri , e conged,ati dalle loro città Tar- 
quinio e gli esuli , tornarono, tra pochi giorni , ripor- 
tando i disertori incatenati. Ritrovarono allora in Senato 
r amicizia e 1’ alleanza antica , e finovaronsi pe’ Fecrali 
i giuramenti fatti altra volta intorno di ^esse. Tal fu la - 
fine della guerra fat(a co’ tiranni per quattordici anni 
dopo la loro espulsione. Il re Tarquinio , unico avanzo 
della sua stirpe, dopo aver fatto la rovina di sè , dei 
figli e della casa del genero , ornai j^^npnagenario , in 
una veccliiaja , miseranda fin' tra’ nemici , escluso dai 
Latini, da’ Tirreni, da’ Sabini , e da. ogni vicina libera 
città, riparossi a Cuma^nella Campania presso dì Ari- 
stodemo , detto Malaco , che allora Vi .dominava. Ma 
sopravvivendovi pochi giorni giunsè al suo termiue ; e 
vi fu seppellito.. I compagni di Idi nell’ esilio parte si 


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LIBRO VI. 229 

rimàsero in Gumv, e parte in altre città si sbandarono, 
e vissero Melle ()kpitali beneficenze degli altri. 

XXII. Liberatisi, i Romani dalle guerre in campo 
aperto ; sorse di bd' nuovo la discordia fra loro. Impe- 
rocché il- Senato avea' decretato di restituire i tribunali, 
e £ac decidere secondo le leggi le liti sospese per le 
anoiJ^ ma le liti suJKOntralti erano procedute a grandi 
tnrbameàti orrori , ad indegnità e sfrontatezze. E 
nel vero: pretestava ili popolo la insufficienza sua a pa- 
gare i debiti per 'osserè le terre giaciute incolte in una 
guerra di taiHi <adui , per essere venuti meno li bestia- 
mi^ e diradati assai 'gli schiavi colle diserzioni e le fu- 
ghe; e.per essere le ' rendite urbane state assorbite dalle 
apese .dèlta milizia; 'Per 1' opposito replicavano i datori 
de’, pieliti essere staU la calamità comune a tutti, non 
a’ sieli' debitòri ; e tepeano òhe sarebbe a sé stessi du- 
rissimò. perdere' non pure quanto era stato lor tolto 
Delia: gueira* tra’, nemici , ma quanto aveano in pace 
somministrale a’citt^ini stretti dal bisogno. Non voleano 
dunque né li prestatori usar moderazione, nè li debitori 
ginstizià ; nè rilasciare gli* uni i frutti , ' nè rendere gK 
oltri nemmeno. i< capitali. Quindi , ne’ capistrada faceansi 
affollamend di nomini y ^Oati zie’ casi , e nel Foro 
scbieramenù di ' uni contro' gli altri fino a venire, talvolta 
pile mani; taoto cUe. tutto 1’’ órdine civile fre era con- 
turbato. Postumio, onorato ancorò da tutti, ciò vedendo 
riputò Ròibna cosa' di togliersi dai flutti civili ; slmili a 
guerra gravissima' e deposta ,' primu ohe ne' spirasse il 
tèmpo, là suà dittatura, ed italiinòto il- giorno de’co- 
' raizj , restituì col compagu^avo'óel .consolato , ' le mar 
gistralnre della patria. 


Digitizcd jy Coo^k 



a3o DELLE antichità’ romane 
XXIII. Presero di nuovo secondo le leggi T annuo 
comando i consoli Appio Claudio Sabino , e Publio 
Servilio Prisco (i). Videro questi benissimo in ciò stare 
l’utile sommo, die il nembo si traesse da entro le mura 
alla guerra di fuori : e si accinsero a condurre ben 
tosto un altro esercito loro contro de’ Volsci. Erane 
l’intento di punirli pel soccorso mandato, a’ Latini, con- 
tro de’ Romani , e di preóccu|i'aré gli apparecchi loro 
piccioli ancora ; imperocché dicevasi'che ascriveano con 
ogni diligenza le soldatesche , e, sollébltavano con am- 
bascerie li popoli vicini a far causa ''con essi ora che 
sapevano discordare i patrizj in Roma e li plebei , non 
essendo dilBcile invaderla inferma tra’ domèstici mali. 
Deliberati , e creduti da’ senatori che ben deliberassero, 
a cavare un esercito su questi , comandarono a tutti i 
giovani di presentarsi , datando' il tempo entro cui' sen 
farebbe la iscrizione per la milizia. Non ubbiditi però 
dalla plebe invitata piu volte a dare il giuramento mi- 
litare ; non più 1’ uno~ e'I’ altro furono di un avviso 
medesimo: ma discordatisi Gn da quell’nra proseguirono 
tutto il tempo del consolato ‘àd operare 1’ uno in con- 
trario dell’ altro. Pareva a Servilio che si avessero a 
tenere mezzi più dolci,: consentendo in ciò con Marco 
Valerio, uomo popolarissimo ,,, il quale volea che si 
curassero le^ origini del ^male , con decretare la remis- 
sione, o certo lo sceniamento dei debiti. Se no, voleva 
almeno che proibito di presente l’arresto di chi ritar- 
dava le paghe, si riducessero i poveri à dare il giura- 

(i) Aani di. Roma iSij secondo Catone, aCi secondo Varron» , 
• 493 avami Cristo*. . . 


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LIBKa VI. 23 i 

mento' miHure anzi colle arampnisioni che colla violen- 
za e discrete e miti , come in .città concorde , non 
dpire.né inesprahili fossero le pene su chi ricusavasi : 
perodchè con'evasi rischio che' astretti a militare a pro- 
prie spese' liomiai che abbisognavano del vitto quoti- 
diano si amipuiinassero ,e ^volgessero a stolti partiti. 

yXXlV. Per r oppositó . Appio fautor principalissimo 
del potere '.de’ nobili diceva , . austero ed inflessibile, ché 
non ^v^aniiìdarv al popolo segni di debolezza j ma 
^ permettere al^prestatori la esazione de’ crediti , ''cO- 
' munque- la facessero a norma delle leggi : che il 
cOnserlé il qUale restava in Jtoma dovesse rialzare i 
tribunali secondo, v costumi della patria , e compiere 
le pene 'delle ■ /eggi su delinquenti ; non essere ''da 
concedere al popolò niente- se non .‘giusto ; nè da 
coadiiivarlo ad usurparsi sin potere scelleratoi Qùé~ 
diceva , divenuti , rilasciansi ora più. del 

dwere y immuni dai’ tributi- che ^.pagavano ai re come 
dalle pmè ojid ‘erantì afflitti nella persona , se ben 
1 tosto non gU ubbidivano., .Che se -procedendo pià ol- 
ire , tèntino sommovere o - tramniutare cosa niuna ; 
'/reniamoli colla parte sàòia e, sanando’ cittadini ^ la 
'quaié*èérto appare pìli' fium&;osà ,delC àkra‘de’mal- 
vagj. Ahtdamò .forze non pòche ì*- e probità è la gio- 
ventà de’ nobili- ai nòstri- comqndL - Pià grónde di 
tutte le aMii ,, nè facile^daj cpnculcarsi 'è_ F autorità 
del' Senato:' tpri questa ^ sta' p$r te' leggi;, ‘dì leg- 
geri s'ópr.{^aremo\, umilieitimo ‘il- popolch 'Cha se ce- 
deréinp ili ciocch’ esso presutne -j primieramente-' ne 
avrem la vergógna di soltomeftere a’ plebei le ppb- 
rvv' 



aSa DELLE Antichità’ romane 
bliche cose , quando- potrehbono maneggiarsi da.’, no^ 
bili, Appresso cader^mo ..nel .rischio non piccolo, che 
se alcuno, coir anima di tiranno serva ai genj del 
popolo ne acquisti un autorità rnagg^re - delle l^gi j 
e la libertà ci ritolga. Cosi difTerivano i COB.soIi iqfra 
loro : e quaste volte adunavaasl i.^Padri , tenendola chi 
dall’uno chi dall’altro; il Senato, ne udiva i. dissid) ji 
tumulti , le contumelie colle quali si 'denigravano , raa 
scioglievasi poi senza prenderà alcuna "salutevole riso- 
luzione. < . .j . • 

« XXV. Consumato io tal guisa, 'gran -tempo, \Servilio , 
quello de’ consoli al quale era toccata per sorte la spe^ 
dizione, conciliato rii popolo coi dolci^mndi e. edile pre* 
ghiere perchè si applicasse a|la guerra , .uspl. ^er farla s 
con milizia , non forzata giè, secondo la leva , À)ia . vo- 
lontaria come i tempi dimandavano. Ancora i:,,Volaci si 
apparecchiavano, non aspettando che. .1 -Romani ..per le 
civili dissensioni e discoidie venissero .coll’ esercitò, con- 
tro loro; anzi pensando che .nemmeno verrebl^ro .alle - 
mani con chi gli assalisse, laddove li Yolsci. aveao ;fome , 
copiose da movere quando vple^erq la guerra, Ma poi- 
ché si avvidero che erano Investiti dalla guerra essi che 
doveano iportarla smarrironsk allt^a iji vista di tanta- 
spedjlezza romana: .'e li più riguardevoli delle città ne 
andarono co’ ^imboli ^di pace e si^ rimisero a. Servilio 
perchè làcesse di loro a piacer suo /"■comò >di oomini 
che aveano tr^viatot E costui pigliandone -vesti e cibi 
per r esercita, ^e . scegliendone trecento .. ostaggi, dalle 
famiglie più cospicue , _ parti come ^ avesse dissipata la 
guerra. Non però fu, questo un dissolver!^ 'ma .piuttosto 



I 


LIBRO VI. a33 

un dlHerirla , e dar causa di apparecclij ad essi, preoc- 
cupati dal giungere loro inaspettato. Ritiratosi l'esercito 
romano, si accinsero i Volaci di bel nuovo alla guerra, 
e munirono e meglio presidiarono le città , ed ogni 
luogo acconcio da rifuggirvisi. Si consociarono con essi 
per l'impresa i Sabini, e gli Ernie! svelatamente ; ma 
segretamente molti altri ancora. I Latini, essendo venuti 
ad essi a,mbasciadori per chiederne 1’ alleanza , li lega- 
rono e menarono a Roma. Fu sensibile il Senato alla 
/ 

costanza della lor fede , e più ancora alla prontezza 
colla quale > solcano spontaneamente per esso cimentarsi, 
e combattere, ^^iudi restituì loro gratuitamente, cioc- 
ché pur vedea di’ essi desideravano , ma vergognavansi 
dimandare, intorno atbeimila fatti prigionieri nelle guerre 
eoa essi : e perchè il dono, prendesse una forma degna 
de’ parenti , -li rivestì tutti con abiti proprj di uomini 
liberi. Del resto fece intendere che non abbisognavasi 
di sòccorso latino , dicendo che bastavano a Roma le 
proprie forze . per vendicarsi de’ ribelli. E cosi risposto - 
ai Latini'^ decretò la guerra contro de’Volsci. 

XXVI. Ancorò il 'Senato sedeva nella Curia, ancora 
considerava quali milizie destinasse a marciare ; quando 
fu visto nel Foro un uomo che antichissimo di anni , 
sordido ne’ vestimenti , e ha^'buto ^ capelluto ., gridava 
ed invocava soccorso dagli uomini, Accorsa la moltitu- 
dine Intorno; égli postosi in luogo donde fosse visibile 
disse: Io. generato libero y dopo. 'èssere finché n era 
la ptà., marciato in tutte le spedizioni , dopo averi' 
sostenuto vent’ otto battaglie ^ e riportato pià volte ,i 
premj militari.,' alfine quando sopravvennero i tempi 


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2 34 DELLE Antichità’, romane 

che strinsero Jìonm alle ultime angustie fui necessi- 
tato a prendere wi prestilo per supplire al tributo 
che mi si chiedeva: perchè il mio campicetlo' era 
desolato da’ nemici , e le' rendite urbane tutte. per la 
penuria de’ viveri mi si consumavano. Cosi non avendo 
come più redimere il debito , fui condotto dal pre- 
statore con due miei figliuoli a servire. Comandan- 
domi poi quel padrone non facili cose io contraddis- 
si ; e ne fui con moltissimi talpi battuto^ E così di- 
cendo squarciò la lurida veste ; ,e mostrò pieno il petto 
di ferite, e grondanti le spalle di sangue. E. qui ulu- 
lando , e piangendone la moltitudine .?■' ^1 Serrato si di- 
sciolse : e tutta la città fu percorsa da’ poveri che. de- 
ploravano la infelice lor swte , ^ cliiedeano soccorso 
da’ vicini. Uscirono allora dalle Case (i) tutti quelli che 
erari servi pe’ debiti, «abbuffati le chiome, e la maggior 
parte colle catene alle mani,,' e co’ ceppi nei piedi, 
senza che alcuno osasse reprimerli: e so altri osava pur 
toccarli, erane manomesso co’ dU'ittL della, forza. Tanta 
rabbia in quel punto invase il' popolo ! Nè molto dopo 
il popolo fu pieno di uomini che fuggivano la forza di 
chi signoreggiavali.. Appio a, come .autore non ignoto 
de’ mali , temette coutfa di sè le ffe della moltitudine , 
e s’involò, fuggendo, dal-Foro. Ma Servilio deposta la 
veste contornata di porpora , e gettatosi lagrimando ap- 
pie di ciascuno ; a stento li persnase a contenersi per 
quel giorno, e tornar; nel seguente, mentre il Serrato 
■ provvederebbe iij qualche modo su loto. Cosi dipendo , 






Ds’ creditori 



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LIBRO ‘VI. • a35 

e comandando al banditore di proclamare , die ninno 
de’ creditori potesse trar seco pe’ debiti alcun cittadino , 
finché il Senato su ciò deliberasse , e che tutti gli 
astanti 'ne andassero ove più /deano senza timore ; 
chetò la turbolenza. 

XXViL Partirono allora dal Foro: ma nel prossimo 
giorno vi' si riunì non solo la moltitudine della città , 
ma r altra ancora de’ campi vicini; tanto che sull’ alba 
già .il Foro ne ribolliva. Adunatosi il Senato per discu» 
te re ciocché era da fare , Appio chiamava il compagno 
adulatore del popolo e capo' della insolenza de’ poveri : 
e Servilio rimproverava lui come austero , caparbio , e 
fabbro de’ mali che pativano: nè ci avea niun fine alla 
disputa; Intanto latini cavalieri spronando vivissimamente 
i cavalli si apprésentarono al Foro , annunziando essere 
già usciti 1 nemici con -.esèrcito poderoso , e già sovra- 
staìre alle cime -de’ monti loro. Cosi dissero questi : e li 
cavalieri , e quanti avéano ricchezze e gloria ereditaria , 
armaronsi in fretta, come.su. pericolo estremo; laddove 
i poveri ;• sjngolarmenle gravati da’ debiti, nè toccavan 
armi, né -soccorrevano in alcun* modo a’ pubblici biso- 
gni: anzi gioivano , ed accoglievano con desiderio la 
guerra esterna , come quella che redimerebbe loro dai 
mali presenti. E se altri, gli' esortava a respingere gli 
inimici , mòstràvanò a lui le catene é. li ceppi , e lo 
confondevano addinrtandando , se Cosse mai degno com- 
battere per difendersi tanto benefizio. Anzi taluni osa- 
rono perfino dire., esser meglio servire ai -Volsci , che 
soffrire i vilipendj de’ patrizj. Infine., era tutta la città 
ripiena di ululàti ; di tumulti , e di ogni lutto di fem- ' 
mine. > 


236 DELLE antichità’ ROMANE 

XXVIII. A tale spettacolo i senatori pregarono ii 
console Servilio, come più autorevole presso del popolo, 
a soccorrer la patria. E costui convocandolo al Foro , 
dimostrò la urgenza del tempo presente , e coiùe non 
ammettesse discordie civili : pregava e supplicava che 
piombassero unanimi tutti sul nemico , non che tol- 
lerassero che rovinasse la patria , ov’ èrano le divi- 
nità paterne, e le tombe. degli antenati, cose prezio- 
sissime tutte presso i mortali. Sentissero verecondia 
pe genitori incapaci a difendersi per la vecchiezza ; 
e pietà delle donne che bentosto sarebbero astretti a 
subire gravi ed inesplicabili affronti : ioprattiitto 
commiscrassero che teneri figliuoletti , cèrto non edu- 
cati a tale speranza , avessero a finir tra' le ingiio'ie 
e i vilipendj spietati. Quando tutti al paio concordi, 
tutti al paro infiammati , avessero tolto il rischio 
presente; allora discutessero comèra da ordinare un 
governo eguale, comune, salutevole a tulli, e 'tale, 
che nè i poveri insidiassero ''agli averi , del. ricco ,, nè 
il ricco i poveri ne conculcasse ^ cose tutte in società 
dannosissime. Allora discutessero con quale pubblica 
discrezione fosse da provvèdere ai poveri, con quale 
agli altri li quali dopo - dati i prestiti per soccorrere, 
ora ne erano ingiuriati : nè dalla sola Roma si le- 
verebbe la fede do contralti, bene principalissimo tra 
gli uopiini e cuslóde dell' armouia nel corpo delle 
città. Dette queste e slmili cose , quali convenivano al 
tempo , da ultimo provò com’ era la benevolenza sua 
stala sempre costante verso del popolo^ e.pregò'che in 
contragcamblo , almeno di questa , si unissero per la 


UBRO VI. ■ 237 

spedizione j essendo a' lui data ^'.amministrazione della 
guerra, e quella di Ron^a alt compagno. Protestava che 
la sorte avÉvd così destinate a Ipro le. parti : che il 
Senato tn>evalo\ assicurato di cpncedere quanto egli 
prometteva al popolò ■; ,.'e- che egli aveva assicurato il 
Senato cìie\ il .pòpolo non tradirebbe la patria ai 
nemici. ‘ V- ' ''I 

XXIX.' Ciò detto ido^ose al banditore dì pubblicare 
che hiunof poiessé- arrogarsi le case di quelli che 
rnilitassètó. oon lui. ccfntro.^i Vblshi , nè venderle , nè 
impegnarle^ nè. rendet .sérVQ' pe' contratti alcuno della 
stirpe di èostbro, np impedire : veruno a guerreggiare : 
perwtessero pei^' Sècjondò^ i patti le 'azioni de’ pre^ 
stamri.'coutre'qaellijche -noli, prendeano le armi. Co- 
me i pòveri ódirono tiòj. decisero, e lanciaronsi tutti , 
pienirdi ardore aUa guerra'; vchi stimolato dalla ape- 
rto» dì, guadàgnare ; cbi ..dalla benevolenza pel capi- 
tano,,^ et gVan'.-p.firte' per. levarsi da ‘Appio e dai 

vilipendi; ^ersQ q^^rv<ilt,e id ..città rimanessero. Servilio 
' preso l‘''esercilO;,;nè'.àndò''sqiJlècitissiino , senza perdere 
punto, di tempo ',T per attaccar l’-inimioo innanzi che si 
gettasse in su le csi^paguo romane. ' E scontratili a pa- 
scere^ presso a’ carnai Pontini le terre ^de’ Latini perchè 
non ayevano SeMndato l’iilyqo , di combatter eoo èssi’, 
mi&e ’ verso in un colle, gli àlloggiemMÙ , lontano 
véaUii^dj dai lóro. Ma iallaSt .pdtte 'i Yolsci gli aSsal- 
.gobo' Ciredeùdoli pochi , stanchi della via Inngà.* è .senza 
cuor .jdi'-cotllbàllere pel fermato. allora 'irtviuimp de’po- 
veri intorno dèi' déj|)iti. ;. Resistè,; Serjilio^ tra^ la notte 
dalle tvinctere , ma poi visti al nàscere 'della luce i ne- 


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238 DELLE Antichità’ romane 
mici divisi , in disordine , comandò che si spalancassero 
le porte del campo , le quali erano, senz’ apparire, ben 
molte , e ne versò tutta ad un segno 1’ armata su loro. 
Alla subita , impensata,, terribile irruzione alcuni pochi 
de’ Volsci sovrastando agli steccati furono nel combat- 
tere trucidati ; gli altri fuggendo dirottissimàmente , e 
perdendo molti de’ loro , salvaronsì , feriti' per la più 
parte e seuz’armi, ne’proprj alloggiamenti. Li seguirono 
immantinente i Romani e ve li^ circondarono», ed essi 
fatta breve resistenza cederono ^dnalmente ' il campo 
pieno di schiavi , di bestiami , di arme , di apparecc hi 
militari. Caddero insieme prigionieri mollissimi liberi 
uomini de’ Volsci , o de’ confederali ; • la moneta, gli 
stromenti di oro, di argento, le vesti, mito eravi in 
copia grande , quasi fosse espugnata una' città flòridis- 
sima. Servilio non riservando niente per 1’ erario', ma 
concedendo tutto a’ soldati perchè sen gioVassero, ordinò 
che si dispe’nsasse.' Quindi^ levando l’esercito, Ip con- 
dusse a Sessa de’ Pomentipi ivi prossima. Parca questa 
per capacità di circuito , per moltitudine di abitanti , 
per dovizie i e per magnificenza , supérare mólto le al- 
tre , ed era come la capitale della nazipne. E cintala 
di assedio , nè ^ richiamandone le milizie , di "ionio e 
di notte perchè li nemicij senza requie , nè posassero 
mai le arpae-,- nè dormissero: e trayagliandòla sempre 
più colla fame, cojlà^esclusione degli alleati j colla de- 
ficienza di ogni rifugio ; la espugnò finalmente dopo 
non mollo' tempo , e vi uccise tutti gli àdiilii. E con- 
ceduto a’ soldati che prendessero c si porta s’sero quanto 
era colà di pregevole' , •marciò , coll’ esercito su le altre 


D..J.T.- -i ,y CÌOOglt 


J 


LIBRO VI. 2^g 

cillà , senza che ninno de' VoUci più potesse resistergli. 

XXX. Dopo che li'"' Romani prostrarono i Volsci ; 
Appio Claudio r altro console recando nel Foro 1 tre- 
cento loro ostaggi , fe’ bàtierlf e decapitarli al cospetto 
del pubblico' perchè quanti si ligavano a Roma temes- 
sero ‘violare la fede confermata cogli ostaggi. Anzi tor- 
nato pochi giorni appresso il collega dalla spedizione , 
e chiestone il trionfò, solito concedersi dai Senato ai 
capitani per le insidi Battaglie ; costui gli si oppose , 
chiamandolo Sedt^iòsb ed amico di un pravo governo. 
Soprattutto lo accusava 'die non avesse riportato punto 
di prède per 1’ erario ; ma (nfto avesse dispensato a chi 
più gli piaceva*, ond’ esserne grazioso. Adunque mise il 
Senato a non accordargli il triónfo : e Servilio tenen- 
dosene vilipéso , scorse dd mia licènza non consueta ai 
Romani. Imperocché convocando ' il jmpolo al Campo 
Marzo, e commemorando lè co^e 'Sfatte nella guerra, la 
invidia del * compagno , e come il Senato lo disonorava; 
disse ‘che la Qpndolta sua e deli’ esercito suo davano a 
lui di IrioofarE su belle c fasistissime ’ imprese ; e ciò 
dicendo comandò che i soldati si "Coronassero , e co- 
rouàto egli stesso entrò e scorse la città con veste 
trionfale , seguito' da tutto il popolo , finché asceso nel 
Campidoglio soddisfece ài vóti ^ ed offerse ai* Numi le 
spoglie. se per questo ne chbe òdio tanto maggiore 
de^^'patrizj ;• 'egli ♦rendette suo 11 popolo più* intima- 


mente. 

. t 


. - S. 


•* "\r 


'XXXl.’Fra tali '^edizióni' delia città pur vi ebbe al- 
cun.! rèquiè pèr compiere i pafi‘"sagrifizj ; percip'cchè 
le soléunitA che sopravvenivano splendide “e sontuose 


2 4o delle Antichità.’ romane 
contennero la moltitudine. Ma* mentre festeggiavasi piom» 
barono su loro con esercito grande i Sabini , i <juali 
già molto innanzi aspetta\^ano tale occasione. Marciarono 
sul cominciar della notte per gàugnefe in Roma prima 
che gli abitanti se né avvedessero : ed invasa T avreb- 
bero facilmente se alcuni de* soldati sblindatlsi 

dall’esercito e datisi a predàré ’i villaggi ; non' vi desta- 
van tumulto. Cosi romcfre sùbito, se ne , ricorso 
de’ contadini alle mura'; innanzi c^» i' j^triiS' se fie ap- 
prossimassero alle p§rte. C"dTnosciut&- il^giùtìger loro , i 
Romani che stavansi coronati 'agli spettacoli, ’gli‘ abba'n- 
donarono , e corsero alle, artai. Andò 'raccoltasi di per 
sè stessa una''irò!lizia stìfiiciente'^à*'Serv'iKo: e 'questi, or- 
dinatala, usci su’ nomiti stancai disagiò 'del' ^Brhio 
e del travaglio, e spepsié^^ti jh" tutto ‘d’ esserne assalili. 
Come si iuron sopra, scoppiò la bavaglia ^ ma toltone 
ogni schreramento"«d| ordine per la fi’.elta di éiitranabi. 
Si attaccò , secondo ’T incqnii;o , ' legione con legione , 
coorte con coorte, e soldato* con soldatos Aimbattendo 
misti fanti e cavalli.^ Ma perciocché non erano 'le'*respet- 
tive città moltó lontane ; ecco, '‘grungerne per 'ambedue 
quinci e quindi i soccorsi.) Li ràvvaloi^ronò questi.nf e 

fo/.orr> lllnrra et » ! màli : finché 

, vinsero no- 
Ro- 


fecero che lungo tempo si 'oppo’neàiercr ai 
sopravvenendo’ ài ^Rqmani'laVlèro cavalleria 
vamente 'i, Sabini r ’e fatta'assai' strage , ttfrnaroho a Ro- 
ma conducendo seéo'in’’cópia li prigidhl«n.''ETmpnb^oi 
cei/cati e messi nella 'carcere feSabln^éhefècaùsi a. Roina 
sul titolo, di veder gli ^spettàcoli , dóveariq’ se^rido Tac- 


cordo all’ avvicinàrsi*'aéi lóro, prebccuparne ^ T luoghi piu 
forti :* e li sagnfizj ihterrbttK per' (a guerra fiiroho per 


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LIBRO VI. 24 I 

decreto del Senato raddoppiati ; talché oc fu ^oju e 
riposo nel popolo. 

XXXII. Ancora festeggiavano 1 quand’ ecco ambascia- 
dori dagli Arunci , popolo che occupava i più be’ luo- 
ghi della Campania. Presentatisi questi in Senato diman- 
davano' il territorio tolto dai Romani ai Volsci Eccetrani 
e dispensato agli nomini mandativi per guardia della 
nazione : dimandavano insieme che tal guardia si richia- 
masse; altrimenti verrebbero quanto prima gli Arunci 
su’ Romani, e vendicherebbero tutti i mali che aveano 
causato ai loco vicini. Replicarono a ciò li Romani. 
Ambasciadori , annunziate agli Arunci che noi Tlo- 
mani teniamo per ^uslo che altri lasci a’ posteri suoi 
ciocché ha conquistato per valore su nemici : che la 
guerra degli Arunci non la temiamo ; giacché non è 
questa per noi nè la prima nè la più terribile : che 
noi costumiamo combattere con chi vuóle per t impero 
e pel bene ; e se la cosa riducasi ora all arme , in- 
trepidamente all arme verremo. Dopo ciò movendosi 
gli Arunci con esercito poderoso, e li Romani con 
quello che aveano sotto gli ordini di Servilio ; si scon- 
trarono presso la Riccia città lontana centoventi stadj (1) 
da Roma. Accamparonsi ambedue su di alture forti , e 
poco distanti fra loro: e poiché vi ebbero trincierati 
gli alloggiamenti , scesero al piano per combattere. At< 
taccatisi , lottarono dall’ alba fìno al meriggio; tanto che 
grande ne fu la uccisione da ambe le patti : perciocché 

(i) i 5 migW'a. Strabene nel libro quinto diceche era lontana i 6 a 
«ladj cioè ao miglia. ^ 

DIONIGI , torno II. iS 


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a4^ delle antichità’ romane 

gli AruDci sono bellicosi e terribili , per grandezza, per 

forza , e per aspetto Oerissimo. 

XXXIII. Narrasi che in questa guerra si distinguesse 
la cavalleria Romana governata da Postumio Albo, dit- 
tatore dell’anno precedente. Imperocché non essendo il 
luogo della battaglia buono da cavalcarvi , per ostacoli 
di valli cupe e di aspri colli, né potendo la cavalleria 
far utile alcuno per niun degli eserciti ; Postumio co- 
mandò che li suoi scendessero a terra. E fatto un corpo 
di secento si portò su’ nemici e li represse , principal- 
mente dove la legione Romana spinta giù pe’ declivi ne 
pericolava. Rintuzzali i barbari una volta ; sorse ne’ Ro- 
mani fiducia ed emulazione tra’ cavalieri e tra’ fanti. Ser- 
ratisi ambedue in forma di cuneo cacciano 1’ ala destra 
de’ nemici fin su l’altura , e chi seguendo qne’che fug- 
givano fino agli alloggiamenti , ne uccideva in copia ; e 
chi prendeva alle spalle quelli che combattevano ; met- 
tendo in volta ancor essi , incalzandoli similmente fino 
alle trincierò mentre a stento e tardi si ritiravano su 
per ardui luoghi , e tagliando loro colle spade .oblique 
i tendini de' piedi, e le piegature delle ginocchia. Giunti 
agli alloggiamenti , e forzatane la guarnigione, che non 
era molta , gl’ invasero , ' e saccheggiarono. Non però vi 
trovarono gran preda se non di arme e cavalli , e cose 
militari. £ tali furono le vicende ne’ tempi de’ consoli 
Appio e Servili©. 

XXXIV. Ebbero dopo essi la dignità consolare Aulo 
Verginio Celitnontano , e Tito Velurio Gemino intanto 
che era 'remistocle 1’ Arconte di Alene nell’ anno du- 


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LIBRO VI. a 4'^ 

genio sessanta dalia fondazione di Roma (i) , ed era 
per cominciare la olimpiade settantesima seconda nella 
quale vinse di nuovo Stesicrale da Crolona. Nell’ anno 
loro si apparecchiarono di nuovo i Sabini a portare 
esercito più grande su’ Romani. Li Medullini ribellatisi 
da’ Romani si convennero co’ Sabini per la lega. Il Se- 
nato , uditine i disegni , alleslivasi per uscire con tutte . 
le milizie. Non però secondavaio il popolo , memore 
delle promesse tante volte delusegli intorno al sollievo 
de’ poveri, oppressi da’ debiti , e come indugiavasi a 
provvedervi. Adunque riunendosi a bande a bande le- ' 
gavansi fi‘a loro con giuramento di non più tenersela 
co’ patrizj in guerra ninna , e di soccorrere ciascuno 
de’ poveri , se ne patisse violenza , contro chiunque. La 
cospirazione si rendè più volte sensibile non che per 
altri modi , co’ dissidj in parole ed in opere; soprattutto 
divenne chiarissima ai consoli ; ai quali non presenta- 
vansi gl’ invitati per la leva. Anzi ordinando essi che si 
arrestassero alcuni del popolo ; i poveri , afTollaiisi , li 
ritolsero mentr’ erano via trasportati , e percossero e 
fugarono i ministri del consolato perchè restii di rila- 
sciarli : nè si astennero dall’ avventarsi a qualunque dei 
cavalieri o de' patrizj che presente volesse impedirli. 
Talché ne fu la città ben tosto ripiena di disordine e 
di tumulto.' Or come cresceva in Roma la sedizione si 
ampliavan di fuori gli apparecchi de’ nemici per la guer* 
ra : i Volsci'C gli Equi macchinavano insorgere nuova- 
mente ; e giungeano in città messaggeri da tutti i sud- 

' (i) Anni di Roma aSo secondo Catone, a6vi secondo Vatrone , 
e 4oa avanii Cristo. 


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2 44 DELLE Antichità’ romane 
diti di lei perchè li proteggesse , esposti che erano al 
transito della guerra. I Latini diceano che gli Equi si 
erano gittati su le loro campagne , e gii vi arcano sac- 
cheggiato alcune città : diceva la guarnigione di Crustu- 
meria che i Sabini le erano prossimi , e che ardentis- 
simi la combattevano. In somma chi annunziava l’ uno , 
e chi r altro male incorso o da incorrere, e tutti chie- 
devano un pronto riparo. Anche i legati de’ Yolsci ven- 
nero al Senato perchè rendesse , il territorio del quale 
gli aveva privati , piuttosto che s’ incominciasse nuova 
guerra. 

XXXV. Adunatosi per tali cose il Senato ; Tito Lar- 
gio invitalo il primo da’conspli perchè parea superiore 
a tutti in dignità , e sufficientissimo a’ savj consigli , si 
fece in mezzo , e disse : O Padri coscritti , nè spaven- 
tevoli sono per me nè urgentissime le cose che spa- 
ventevoli sono per altri e bisognose di un .pronto ri- 
paro , vale a dire , come soccorrofffsi gH alleati, è 
come gf inimici si respingano. Quelli però che di 
presente non si estimano mali gravissirrii e propriis- 
simi , e che si trascurano come niente sieno per nuo- 
cerne ; questi sono per me li più formidabili , e tali 
che se presto non si riparano saran causa della tia- 
bolenza ultima e della rovina della repubblica, lo 
parlo della inobbedienza del popolo nel seguire i co- 
' mandi de’ consoli , parlo della durezza nostra contro 
gl indocili , ed i licenziosi. Io penso • che ora non 
dobbiamo ad altro attendere se non come si tolgano 
questi mali dalla città , e come unanimi tutti gover- 
niamo le pubbliche cose, anteponendole alle private- 


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LIBRO VI. 245 

"Imperocché se rendasi concorde , ella basta la nostra 
forza a produrre la salvezza degli amici ^ come la 
costernazione de' nemici : laddove se discorda , come 
ora , non potrà ninna di queste cose ottenerci. Anzi 
io sarò meraviglialo se non ci desola, e porge ai ne-‘ 
mici facilissima la vittoria : ciocché deve , e Giove ne 
attesto e gli altri Numi , succederci quanto primà , se 
cosi proseguiamo. 

XXXVI. Noi siamo scissi, come vedete, e delF u- 
niqa nostra città due ne son fatte , t una signoreg» 
gioia da poveri e dalla necessità , t altra dalla opu-‘ 
lenza e dal fasto ; nè più rimane in alcuna di queste 
non la verecondia , non ' f ordine , non la giustizia , 
le quali son la salute di ogni repubblica. Noi siamo 
a tal -punto , che riscoliamo i nostri diritti colla forza, 
e poniamo come le fiere la massima giustizia nella 
massima, violenza , anzi vogliosi di perdere P inimico 
colla nostra rovina che di assicurare noi stessi , ope.‘ 
rando la salvezza di quello. Ora io vi scongiuro che 
a ciò vivamente provvediate , convocandoci a bello 
studio un Senato , poiché dimesso avrete gli amha^ 
sciadori. A questi poi ecco ciò che di presente con^ 
sigliovi che si risponda- Dicasi ai Volsci che richie.^ 
dono ciocché abbiamo conquistato colle armi, e che 
ci , minacciano la guerra se non li secondiamo, che noi 
Romani crediamo possidenze bonissime e giustissime 
quelle che abbiamo ottenute colla guerra e co' trattati, 
e che mai soffriremo rendendole a chi non seppe di- 
fènderle , che il frutto periscaci della nostra virtù per 
la nostra stoltezza. Dicasi che noi combatteremo in 


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24^ DELLE Antichità’ romane 
comune per tramandarle ai posteri nostri : e che noi 
saremmo i nemici di noi medesimi se di nostro volere 
ce ne privassimo. Quanto a Latini , lodiamone la be- 
nevolenza , rialziamone lo spirito , convincendoli che 
se ci restan fedeli , mai gli abbandonerertui in qua- 
lunque sciagura si trovasser per noi : mandiamo loro 
quanto prima forze sufficienti da respingere V inimico. 
Queste sono le risposte che io reputo le pià giuste e 
le pià convenienti. Pentiti poi gli arnbasciadori ten- 
gasi domani, e non pià tardi , il Senato intorno ai 
tumulti della città. 

XXXVII. Avendo Largio cosi detto, ed essendone 
da tutti encomiato; gli arnbasciadori ne ebbero la ri- 
sposta , e partirono. Nel giorno appresso i consoli riunito 
il Senato proposero che si considerasse , come fosse da 
riparare ai torbidi interni. Ed interrogato il. primo su 
ciò Publio Virginio , uomo popolare, venne a tal mez- 
zo , e disse : Siccome il popolo nelS turno antecedente 
dimostrò prontezza pienissima, a combattere per la 
patria , opponendosi con noi ai Volsci ed tigli A- 
runci che venivano con esercito poderoso , così penso 
che tutti quelli che si unirono e guerreggiarono allora 
con noi debbano aggraziarsi ^ e che non debbano i 
creditori tenersene in niun modo le persone o le robbe. 
E penso esser giusto che ciò si pratichi verso de pa- 
dri loro fino agli avi , come verso de’ figli fino Ot 
nipoti. Cadano poi gli altri in balìa de’ prestatori 
come obbligaronsi pe’ contratti. Dopo ciò Tito Largio 
soggiunse : Ed a me sembra o Padri Coscritti savis- 
sima cosa che assolvasi dai debiti per contratto il 


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LIBRO VI. a47 

popolo tutta ; non que soli che buoni per le guerre 
ci si mostrarono. E questa V unica via da rendere 
alla città la concordia. Quindi fattosi in mezzo Appio 
Claudio j colui che tenne il consolato l’anno precedente, 
disse : 

XXXVIIl. Quatìte volte o Padri Coscritti si è intro^ 
dotto il discorso su questo , sempre io sono stata 
dell' avviso medesimo , che non appaghisi il popola 
in dimanda niuna se non è legittima e buona , e 
che non rilascisi la disciplina di Roma : nè ora mi 
correggo in cosa niuna di quelle dette fin da pria* 
àpio. Certamente il pià stolto sarei de'' mortali , se 
io che console nell’ anno scorso con un collega U 
quale brigava e provocadàtni il popolo contrario , re^ 
sistetti e perseverai nel mio parere , mai ripiegando- 
mene per paura o preghiere nè per aderenze , ora 
privato abbassassi me stesso e tradissi la libertà che 
qui abbiamo del dire. Sia che vogliate la franchila 
delt animo mio nominarla generosità , sia che pervU 
cada, non cesserò finché vivo dal tenere per bene 
ciocché bene mi parve , nè mai concederò la remis- 
sione dei debiti , anzi liberissimo contraddirò quanti 
la voglian concedere. Osservo che ogni male , ogni 
guasto , e per dirla in breve , ogni rovina della città 
comincia dal rilascio dei debiti. E sia che altri creda 
che io ciò dico per avvedimento , sia , per Dio , che 
per entusiasmo , o per altra cagione qualunque , io 
che non cerco la sicurezza propria ma la pubblica , 
lascierò che altri di me senta come vuole. Opporrommi 
però quanto posso a chi tenta introdurre mutazioni. 


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248 DELLE Antichità’ romane 
aliene dalla patria. No , non escludono questi tempi 
i debiti : ma dico che il grande , che V unico rimedio 
contro la sedizione è scegliere ben tosto un dittatore, 
che indipendente astringa il Senato ed il popolo 
a fare il suo meglio. Altro fine non veggo a tanti 
mali. , 

> . XXXIX. Avendo Appio cosi detto , ed acclamando- 
velo strepitosamente i giovani , quasi egli desse il ben 
della patria ; Servilio ed altri seniori sorsero per con- 
traddirlo : furono però sopraffatti da* giovani che erano 
venuti preparati ed insistevano con forza grande; tan- 
toché prevalse inGne la sentenza di Appio. Dopo ciò li 
consoli , sebbene i più volessero Appio per dittatore , 
come l’unico da por freno alle sedizioni, pure lo esclu- 
sero di concerto , ed elessero Marco .Valerio frateDo di 
Pubblio già primo console , uomo anriano e popolaris- 
simo di credito , persuasi che a lui basterebbe la terri- 
bilità della sua carica; e che si abbisognasse più che 
tutto di un uomo placido , perchè non si ^cessero delle 
innovazioni (i). ^ 

XL. Valerio investito della sua dignità, e scelto per 
maestro de’ cavalieri Quinto Servilio fratello d> Servi- 
lio , collega di Appio pel consolato ; ordinò che il po^ 
polo si radunasse a parlamento. E raduna tovisi albra 
la prima volta ed in gran moltitudine , da che guidato 
all’ armata erasi poi scisso manifestamente al dimettersi 
di Servilio dai magistrato ; Valerio ascese in ringhiera e 

(i) Qursto Valeria nel § 13 delMibro presente si dice ucciso in 
baiiaali* ; ed ora si desorWe colile diitaiore. Vedi la nota al S 11 
ciiaia. 


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LIBRO VI. 249 

disse : Sappiamo o cittadini che sempre di vostro buon 
grado hanno a voi comandato alcuni della stirpe dei 
p^alerj , da' quali liberati dalla dura tirannide , non 
foste mai rigettati nelle' oneste domande^ nè temeste 
violenza ; affidandovi a quelli che sembravano e sono 
popolarissimi infra tutti. Pertanto non io qui parlo y 
quasi voi abbisognate di essere illuminati che noi 
convalideremo al popolo la libertà la quale gli ab- 
biamo da principio vendicato : io parlo per ammo- 
nirvi solo brevemente affinchè siate pur certi che vi 
manterremo quanto promettiamo. Non ammette che vi 
deludiamo V età nostra venuta alla perfezione ^e men 
sostiene che vi ri^riamo , il grado supremo che ab- 
biamo , e finalmente dMbianm pur vivere V avanzo 
dei nostri giorni tra voi per iscontarvela se parremo 
di avervi abusati. Io tralascio però queste cose giac- 
ché non abbisognano di molto discorso tra voi che le 
conoscete. Ma ciò che avendo voi sopportato dagli 
altri, pormi che dobbiate ragionevolmente temerlo da 
tutti, nel vedere che sempre il console che v’invitava 
contro i nemici , prometteavi dal innato, senza man- 
tenervele mai , le cose , per voi necessarie ; questo 
io vi convincerò che non dovete di me sospettarlo , 
principalmente per tali due argomenti : prima perchè 
a deludervi in tal modo' mai sarebbesi il Senato abu- 
sato di me che amantissimo sono del popolo, aven- 
done altri più. acconci : e poi perchè non mi avrebbe 
mai condecorato della dittatura per la quale io posso 
concedervi anche senza di lui ciocché il vostro meglio 
mi sembra. 


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!ì5o delle Antichità’ romane 
XLI. Non crediate che io dia mano al Senato per 
ingannarvi f nè che io consultando con esso vinsidii. 
E se voi così giudicate ; fate ciocché pià volete di 
me, come del più, scellerato tra’ mortali. Ma liberate, 
datemi udienza , da tale sospetto gli animi vostri : 
ripiegate la collera dagli amici su vostri nemici che 
vengono per levarvi la patria , e per fare voi schiavi 
di liberi , sollecitandosi a premervi con tutti i mali y 
riputati gravissimi dagli uomini. Già non lontani si 
dicono dalle nostre campagne. Sorgete , accingetevi , 
mostrate loro che la milizia Romana in discordia , 
tissai pià vale della loro , tutta unanime. Se presi 
noi tutti da un ardore , piomberemo su loro ; o non 
ci aspetteranno , o prenderanno le pene degne del^ 
r audacia loro. Considerate che i nemici che a voi 
portano la guerra sono i Fblsci, sono i Sabini, quelli 
che tante volte avete combattuti e vinti: e che non 
ora han fatto pià grande il corpo nè pià generoso 
di prima il cuore ; ma che ben altro se lo hanno ; 
tuttoché ci disprezzino per le patrie gare. Quando 
avrete punito V inimico , io vi prometto che il Senato 
darà buon fine alle vostre contese pe’ debiti, ed alle 
oneste dimando secondo la virtù che mostrerete nella 
guerra. Intanto libere siano le sostanze , libere le 
persone , libera la fama de’ cittadini Romani dalle 
azioni de’ prestiti , e di ogni altro contratto. Per quelli 
poi che combatterai!, con impegno bellissima corona 
fia la patria ridiriaata , luminosa la gloria tra com- 
pagni , e pari la nostra ricompensa a vivificar le fa- 
miglie , c magnificarne cogli onori la stirpe. Siavi 


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LIBRO VL aSi 

esempio , ve n’ esorto , V ardor nùo verso de' pericoli : 
io stesso come imo combatterò de’ pià robusti tra 
voi. 

XLII. Udì tali detti , coDsoIandosi il popolo , e come 
quello che non più sarebbe deluso, promise di arrokrsi 
per la guerra; e sen fecero dieci corpi militari, ciascuno 
di quattromila uomini (i). Prese ogni console tre di 
questi corpi con quanta cavalleria gli fu compartita. Il 
dittatore prese gli altri quattro col resto de’ cavalli. Ed 
apparecchiatisi ben tosto, marciarono a gran fretta Tito 
Velurio contro gli Equi, Aulo Verginio contro i Vol- 
aci, ed il dotatore Valerio contro de’ Sabini; rimanendo 
a guardia della città Tito Largio co’ più vecchi , e con 
piccolo corpo di giovani. La guerra co' Volsci ebbe 
prontissima risoluzione : imperocché necessitati a com- 
battere , pensando gli antichi mali , e come aveano mi- 
lizia più numerosa , piombarono i primi , anzi pronti 
che savj , su’ Romani , appena si videro accampati , gli 
uni dirimpetto degli altri. Attaccatasi vivissima la batta- 
glia , fecero molte magnanime cose ; ma scontramdone 
ancor più terribili, fuggirono finalmente. Il loro campo 
fu preso , e Velletri loro città principale fu ridotta per 
assedio. Lo spirito poi de’ Sabini fu invilito ancor esso 
in brevissimo tempo , essendosi 1’ una e 1’ altra parte 
deliberata a campale battaglia. Dopo ciò la campagna 
fu saccheggiata , e presi alcuni villaggi , ove i soldati 
acquistarono schiavi e roba in copia. Gli Equi all’udire 
la fine de’ compagni , riflettendo la propria debolezza 

(i) An. iti Roma a 6 o secondo Catone, 363 secondo Varrone, a 
Ì93 av. Cristo. ' > 


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aSa DELLE ANTICHITÀ.’ ROMANE 

si misero su luoghi forti ; e ritirandosi alia meglio per 
le cime di monti e balze presero tempo e mantennero 
alcun poco la guerra. 'Non però poterono ricondurre 
illeso r esercito , perchè sopravvenendo i Romani ardi- 
tissimamente su pe’ dirupi ; ne espugnarono a forza il 
campo. Dond’ è che fuggirono dalle terre de’ Latini , e 
le città si ridiedero colla facilità , colla quale erano^ già 
state prese al giungere del nemico. Alcune però furono 
espugnate , non cedendone le guarnigioni ostinate il 
comando. 

- XLIII. Riuscitagli la guerra secondo il disegno , Va* 
lerio trionfò , com’ era 1’ uso, per la vittori^ e congedò 
la milizia , quantunque non paressene al Senato tempo 
ancora, afBnchè i poveri non esigessero le promesse. 
Quindi a diminuire la sedizione in Roma , scelse al- 
quanti di questi, e li mandò nelle terre acquistate colle 
arme 'e tolte ai Volsci , perchè le possedessero , e le 
presidiassero. Ciò fatto chiese ai Padri che avendo avuto 
il popolo tanto pronto a combattere , gli osservassero le 
promesse. Non però davano questi udienza , ma si op- 
ponevano come dianzi all’ intento,; perchè li giovani e 
più violenti e più numerosi tra loro , fatto partito , 
brigavano ancora in contrario, e chiamavano con alta 
voce la prosapia di-^ lui adulatrice del popolo , e con- 
duci trice alle ree leggi, tanto care ai Valer] su le adu- 
nanze e su’ tribunali; 'malignando che aveano con queste 

annientato tutto il potere de’ patrizj (i). Esacerbatone 

•« 

f 

(i) Allude alla legfi^ falla da Valerio 1’ aano 347 di Roma se- 
condo Catone , colla quale davasi ad un privato il diritto di ap- 
pellare al popolo dai magistrali che lo aveano condannalo. Vedi 
1. 5, S «9- 


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LIBRO VI. 2 53 

molto Valerio , e dolutosi come se calunniato a torto 
patisse pel popolo , compianse il vicino fin d’ essi cbe 
cosi consigliavano : e com’ è verìsimile nel suo caso , 
presagendo loro pi& cose , altre per passione , altre per 
intendimento maggiore degli altri, s’involò dalla Curia, 
« convocato il popolo disse : Cittadini , dovendovi io 
piena riconoscenza per la prontezza colla quale mi 
vi deste per In guerra ; e più. per la virtù la quale 
dimostraste in combattere ; io molto mi adoperai 
perchè foste voi ricompensati con ogni modo , princi- 
palmente col non essere delusi nelle promesse che 
io vi feci a nome de’ Padri , quando fui scelto con- 
siglierò ed arbitro di ambe le partì, onde ridurvi al- 
lora scissi, a concordia. Nondimeno ora sono impe- 
dito di soddisfarvi da uomini che non mirano il bene 
della 'comune ma solo il proprio, almen di presente. 
Questi prevalendo di numero prevagliono con una 
potenza che ad essi la gioventù concede più che la 
perizia degli affari.' Ed io , sono vecchio come -.vedete 
e vecchi pur sono i miei compagni buoni solo nel 
consigliare, ed invalidi per eseguire, e la provvidenza 
su la repubblica sembra ridotta propriamente a que- 
sto , che r una parte pregiudichi V altra. Io sembro 
al Senato un vostro fautore, e voi mi accusate come 
benevolo troppo verso del Senato. > 

XLIV. 5e il popolo innanzi carezzato da me fosse 
venuto meno alle promesse del Senato , sarebbe la 
giustif razione mia, che voi. siete i mancatori, e non 
io. Ora però non mantenendosi i patti dal Senato , 
mi è necessario dichiarare che è senza mia parte 


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a54 DELLE Antichità’ romane 
quanto patite , e che io medesimo sono come voi , 
anzi più, di voi, circonvenuto e deluso. Imperocché 
. non solo io sono offeso con ingiuria a tutti comune, 
ma in ispecie con quante mormorazioni di me vanno 
facendo. Di me si mormora che io per far f utile 
de’ privati dispensai senza il voto del Senato a’ poveri 
Va voi le spoglie prese nella guerra ; che io rendei 
del popolo ciocché era di tutti , e che per impedire 
che il Senato vi malmenasse , licenziai , ripugnandovi 
lui, la milizia che dovea tenersi ancora nelle terre 
nemiche fra le marce, e i Vavagli. Mi si rimprovera 
la spedizion de’ coloni nella regione de’ V^olsci , per- 
chè ho io comportilo una terra ampia e buona a po- 
veri Va voi , piuttosto che donarla a pcUrizj ed a ca- 
valieri. Soprattutto mi si provoca indignazione moltis- 
sima perchè io nel fare la leva ho assunto più che 
quattrocento do’ vostri tra cavalieri ; don^ è che ricchi 
ne son divenuti. Se ciò mi avveniva quando fiorivano 
gli anni , ben avrei insegnato co’ fatti a’ nemici , qual 
uomo avessero vilipeso. Ora essendo io più che set- 
tuagenario , invalido a provedere fino a me stesso , e 
reggendo che non più la vostra sedizione può da me 
racchetarsi ; rinunzio la' dittatura : e chi vuole , io 
gliel concedo , faccia di me come giudica , se crederi 
comunque da me danneggiato, 

XLY. Intenerirousi tutti a que’ detti e gli fecero se* 
gulto quando parti dal Foro. Ma questo appunto esa- 
sperò contro lui li senatori: e ben tosto ebbe tali con- 
seguenze. I poreri non più celatamente nè di notte , 
come per addietro, ma pubblicisshnamente riunÌTansi,c 


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LIBRO VI. 2 55 

trattavano di scindersi da’ patrizj. Il Senato , disegnando 
impedirneli , diede ordine ai consoli di non dimetter 
r esercito. Certamente eran questi arbitri ancora delle 
reclute , come sacre pe’ ligami de’ giuramenti militari. £ 
per questi vincoli ninno attentavasi di abbondonaroe le 
insegne ; tanto la riverenza potea de’ giuramenti ! Alle^ 
gavasi per titolo della ritenzione , che gli Equi e li Sa^ 
bini eransi convenuti per la guerra contro de’ Romani. 
Ora essendo i consoli usciti colle schiere , ed essendosi 
accampati non lontani 1' uno dall’ altro , i soldati radu* 
naronsi tutti in un luogo colle arme , e per istigazione 
di un tal Sicinio Belluto se ne ribellarono ; appropian- 
dosi le insegne , cose tra’ Romani onoratissime e sante , 
come simulacri di Numi (i). E creatisi nuovi centurioni, 
ed un capo in Sicinio Belluto; occuparono non lontano 
da Roma presso 1’ Aniene un monte che sacro si chia- 
ma 6n da queir epoca. Pregando , sospirando , prornet- 
tendo , li richiamavano i consoli ed i centurioni ; ma 
Sicinio replicò: Qual fare è il vostro o Patrizj che 
ora vogliate richiamare quelli che avete espulso dalla 
patria , e che di liberi gli avete schiavi rendati ? Con 
qual credito mai ci assicurerete le promesse, le quali 
siete rimproverati di aver tante volte tradito? Piutto- 
sto , poiché volete in città , soli , aver tutto ; andate ; 
abbialevelo : non vi angustiate pe' bisognosi, e pe mi- 
seri. Per noi sarà buona ogni terra; e qualunque ne 
terremo per patria , solchè vi si abbia la libertà. 

XLVI. Annunziatesi tali cose in Roma , tutto vi fu 

(i) .\n. dì Roma a 6 o tccoudo Catone, 263 secóndo Varrone, e 49 ^ 
«T. Cristo. 


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2 56 DELLE Antichità’ romane 

romore e pianto: e là correva il popolo, intento a la> 
sciar la città , qua li patrizj cbe voleano alienameli , 
colla forza ancora , se ricusavano. Soprattutto eravi cla- 
more e pianto alle porte ; ed ingiurie vi si facevano , 
come tra’ nemici , con parole e con opere , niun più 
riverendo nè la età , nè l’ amicizia , nè la gloiia della 
virtù. Non potendo però, come scarsi , i soldati di guar- 
dia destinativi dal Senato custodire le uscite, le abban- 
donarono , sopraffatti dalla moltitudine. Allora versando- 
sene fuora gran popolo ; parca lo spettacolo , còme la 
città fosse presa. Gemeano, si rimproveravano quelli che 
' restavano , vedendo che desolavasi. Dopo ciò si fecero 
molte consultazioni ; si accusarono gli autori delia sepa- 
razione; ed intanto correano li nemici , depredando la 
campagna , 6no a Roma. Li fuorusciti presero i viveri 
necessarj drile terre intorno , nè punto più le danneg- 
giarono. Tenendosi in campo aperto accoglievano quanti 
venivano da Roma , o da’ castelli intorno ; tanto che ne 
divennero numerosi ; perciocché vi concorrevano , non 
solamente quelli che voleano levarsi dai debiti , dai giu- 
dizj, e da altri; angustie imminenti, ma tutti eziandio 
gl’ inBngardi , gli oziosi , i malcontenti ; quelli che in 
malfar si emulavano, che Invidiavano l’ altrui ben essere, 
o che per altri mali , e cause comunque , discordavano 
dal governo. 

XLVII. Adunque si eccitò ne’ patrizj turbazione , ed 
angustia grande , e paura , come se li fuorusciti e li ne- 
mici stranieri fossero per venire quanto prima contro 
di Roma. Poi , quasi tutti ad un segno , prendendo coi 
loro clienti le armi , altri corsero alle strade donde pen- 


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rrBRo VI. 257 

savano clie giungessero gl’ inimici , altri ai castelli per 
difenderne i posti forti , ed altri ai campi innanzi la 
città per trincerarvisi , e quei che per la vecchiaja non 
poterono iàr nulla di ciò, furono distribuiti per le mura. 
Come però seppero che i fuoruscili nè si univano coi 
nemici , nè saccheggiavano la campagna , né faceano al- 
tro danno considerabile , respirarono dalla paura ; e mu- 
tato pensiero , esaminarono come si riconciliassero. Sug- 
gerirono i capi del Senato mezzi di ogni genere , di- 
versi per lo più fra loro; ma li più anziani suggerirono 
i più discreti , e più convenienti ai tempi ; facendo ri- 
flettere che il popolo twn ti era separalo da loro per 
malizia , ma in forza de proprj mali , o delle pro- 
messe non mantenutegli , e che auca così risoluto V u- 
tile suo piuttosto tra la collera che tra la calma della 
ragione , vizio consueto nella ignoranza. Aggiungevano 
che i più di questi conoscevano di avere mal delibe- 
rato , e cercavano emendarsene , se il buon punto ne 
avessero iiche già ne' ei^an le opere come di chi si 
pente ; e che volentieri tornerebbero nella patria se 
potessero, augumrvisi un avvenire felice , dando loro 
il Senato perdono , e pace decorosa. In mezzo a tali 
consigli supplicavano che essi che erano i gratuli non 
sentisser la ira più che i minori’, nè differissero stolti a 
riconciliarsi allora .quando fossero necessitati a far 
senno , e curare il male più piccolo col più grande , 
vuol dire , quando' avessero a tedere le armi, e le per- 
sone , e togliersi da sè stessi la libertà : cose tutte 
quasi impossibili a farsi. Usassero moderazione , prò- 

\ DlOtilGIp tomo II, ' • 17 


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258 DELLE Antichità,’ romane 
ponessero i primi gC ulili consigli, e la riunione , av- 
vertendo che se era proprio de' patriiù] comandare e 
dirigerò ; era propria ancora de' buoni C amicizia e la 
pace. Mostravano che la dignità del Senato non mi- 
norasi quando provede alla sicuiozza col sopportare 
pazientemente le perdite necessarie ; ma quando op- 
ponesi tanto ostinatamente alla sorte che la repub- 
blica ne rovini : gli stolli trascurare la sicurezza per 
amor del decoro : ben essere da ceivare ambedue 
queste cose : ma dove sia da cedere V una o C altra, 
doversi la salvezza riputare più necessaria. Era l’intento 
«li tali consiglieri che si mandasse a fuorusciti per trattar 
della pace non altrimente che se la colpa loro non fosse 
insanabile. s 

XLVIIL Piacque cosi appunto al Senato ; e scelti per- 
sonaggi accontissimi , li diresse a quelli che erano in 
campo con ordine d’ intenderne i bisogni e le condi- 
' zioni colle quali volessero in cittlt ritornare ; perciocché 
se fossero discrete e fattibili, jl Senato non le rigette- 
rebbe : intanto se depenessero le arme , e tornassero in 
Roma , promettea loro perdono e dimenticanza perpe* 
tua di tutto il passato : come belle ed ntili le ricom- 
pense a chi servisse valoroso , ed affrontasse ardente- 
mente i pericoli per la patria. Recarono gli oratori e 
comunicarono tali voleri al campo , aggiungendovi cose 
consentanee. Non accettarono' i fuorusciti l’ invito : anzi 
rimproverarono a’ patrizi T orgoglio , la dnrezza , le si- 
mulazioni loro perchè fingevano ignorare i bisogni del 
popolo, e quelli pe’ quali si era separato. Ci assolvono, 
diceauo, da ogni pena per la ribellione , come fossero 


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LIBRO VI. 259 

i padroni, essi che abbisognano dell’ ajulo nostro. 
Quando giunga su loro , e sarà tra non molto , con 
tutte le forze il nemico ; non potranno alzare nem- 
men lo sguardo contr esso , e pur ci voglion far cre- 
dere che non sia bene loro t esser difesi ; ma felicità 
di chi si unisce a difenderli. Aggiunsero a tal dire che 
se vedevano già le angustie di Roma ; comprendereb-* 
bero poi meglio con quali nemici avessero a guerreg- 
giare : e qui minacciarono molto e veementemente. Non 
contraddissero a ciò, ma partirono, e dichiararono i legati 
a’ patrizj le risposte dei segregati: e Roma, uditele, se 
ne turbò ; e temette più che per addietro. Il Senato 
non sapendo come espedirsi o diffenrc , si disciolse , 
dopo avere più giorni ascoltate le infamazioni e le ac> 
cose vicendevoli de’ suoi capi fra loro. Il popolo rimasto 
in Roma per benevolenza verso de’ patrizj , o per de- 
siderio della ..patria più non somigliava sestesso; dile- 
guandosene gran parte nascostamente o in pubblico > 
nè sembrandone il resto affatto più stabile. Fra tali vi- 
cende i consoli , avendo poco più tempo per coman- 
dare , fissarono il giorno pe’ comizj. 

XLXIX. Venuto il tempo nel quale aveansi a riunire 
nel campo Marzo e scegliere i proprj magistrati; ninno 
ambiva , nè sostenea di esser consolo. Adunque nella 
Olimpiade setlantesÌDa seconda nella quale Tisicrate da 
Crotone vinse allo stadio, essendo arconte in Atene 
Diogneto ; il popolo rielesse al consolato due vecchi 
consoli Postumio Gominio e 'Spurio Cassio, uomini cari 
alla moltitudine ed ar grandi , da' quali già domati i 
Sabini aveano lasciato di competere dell’ impero con 


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a6o DELLE Antichità’ romane 
Roma. Or questi riassumendo il loro grado alle calende 
di settembre, vale a dire prima del tempo consueto ai 
consoli precedenti , convocarono innanzi tutto il Senato 
per deliberarvi sul ritorno del popolo (i). CbieslO' il’ 
parere di tutti ; invitarono a dire Menenio Agrippa , 
uomo allora venerabile per età, credulo più che gliaU 
tri insigne in prudenza , e lodato principlmente' per loi 
scelta de’ suoi regolamenti, perchè teneasi^al mezzo non 
fomentando 1’ arroganza de’ nobili , nè lasciando che i| 
popolo operasse tutto a suo modo. Or questi esortando 
il Senato alla riconciliazione , disse r Se quanti qui 
siamo o Padri Coscritti fossimo tutti di un animo; e 
se niuno si opponesse a far pace col popolo , comtm- 
que la facessimo , per giuste o per ingiuste condizùy- ^ 
ni ; e se questo fosse proposto unicamente d diseu^ 
tere ; dichiarerei , con poche parole dà che ne penso. 
Ma perciocché alcuni giudicano che sia dà ponderare 
ancora se forse riesca più utile far guerra a fuoru- 
sciti ; non credo che io possa in ^ poco- insinuare dà 
che dee farsi: ma sento il bisogno tt istruir ampia- 
mente su la pace quanti tra voi ne discordano. Im- 
perocché questi conducono a cose contraddittorie ; spa- 
ventano voi , che già ne temete , su mdli da nulla o 
lievi a curarsi, e trascurano gl' immedicabili e gravi. 
Certamente cosi propongono perchè non decidono del- 
r utile colla ragione , ma col furore e coll’ impelo. E 
come si direbbe che essi provvedono le cose proficue, 
o fattibili almeno , quando stimano che Roma , una 

(i) A^oi di Roma a6t «ceoodo Catóne, o63 secondo Varrone,e 
4{)t arami Critu». 


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LIBRO VI. a6i 

città si grande , ed arbitra di tante genti ^ e già in~ 
yidiata e molestata da’ vicini , possa ritenerle e difen- 
derle facilmente senza il suo popolo , o che possa in 
luogo del suo sì scellerato introdurre altro popolo che 
per lei combatta del principato ; che con lei sia di 
buon accordo su la repubblica , e sempre moderato in 
pace ed in guerra ? Eppure non altro potrebbono 
dirvi quei che tentano dissuadervi dalla pace. 

L. Ma qual sia la più stolta di queste cose, vorrei 
che voi stessi lo decideste dalle opere. Considerate , 
che alienatisi da voi li più poveri perchè abusaste della 
loro infelicità senza modestia e senza politica , e che 
recatisi appena fuori della città senza farvi o macchi- 
narvi altro mede , col solo intento di averne una pace 
non ingloriosa , molti de’ vostri nemici abbracciarono 
con trasporto questa occasione come dono della sorte, 
e riedzan lo spirito , e credono venuto per loro fitud- 
mente il tempo felice da battere il vostro impero, di 
Equi , i Eolsci , i Sabini , gli Etnici , questi che mai 
si alienano eìal farci la guerra , esatperali ora dalle 
sconfitte recenti, già devastano le nostre campagne. 
Que’ Campani , que Tirreni die vacillavano nella no- 
stra soggezione ora parte fi abbandonano matdf està- 
mente , parte in occulto • vi si preparano. E gli stessi 
LeUirti , quantunque nostri congiunti, a me non sem- 
■hran procedere di buona fede, costanti neW amicizia; 
ma odo che guasti sono in gran numero per amore 
di un cambiamento , che tanto gli uomini alletta. Noi 
die abbiamo fin qui portato in campo aperto la guerra 
su gli altri; noi ci stiamo or qui dentro , difensori 


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aGa DELLE antichità’ romane 
delle mur^; lasciando senza seminarli i nostri terreni, 
anzi 1 vedendovi saccheggiali i villaggi , via levale le 
predo , e fuggirsene di per sestessi gli schiavi , senza 
che abbiamo rimedj a tanti mali. Non pertanto noi ' 
tutto soffriamo , perchè speriamo ancora che il popolo 
ci si riconcilj , ben sapendo che da noi dipende il 
togliere- con un solo decreto la sedizione. 

LT, Ma se pessimo è lo stato nostro in campagna;, 
non è meno funesto e terribile dentro le mura. Noi ' 
non ci siamo .apparecchiati già da gran tempo , come 
per un assedio , nè bastiamo di numero contro tanti 
nemici. La nostra gente è poca, nè da guerra, e ple- 
bea, per gran parte, merce nar f , clienti, artefici, cu- 
stodi tton affatto saldi dello stato turbato degli Otti- 
mali : e le continue loro diserzioni verso de’ fuorusciti 
ce li hanno rendati tutti sospetti. Soprattutto essendo 
le nostre campagne dominate da nemici, ed impossi- 
bilitato il trasporto de’ viveri ; abbiamo a temer di 
una fame : e quando a tal disagio saremo; tanto più 
ci spaventerà la guerra , la quale senza questo ancora 
non concede mai calma allo spirito. Quello poi che 
supera tutti i mali è vedere le donne dei segregati, 
vedere i teneri figli , i padri cadenti , che sqqallidi e 
miserandi si rigiran pel Foro e per le vie , che pian- 
gono e supplicano e stringono a ciascuno la destra e 
i ginocchi, e deplorano la solitudine loro presente e 
più ancor la futura, spettacolo in véro desolante ed 
insopportabile ! Niuno è si barbaro che non s inte- 
nerisca a mirarlo , e non si appassioni sul destino de- 
gli uomini. Che se abbiamo a diffidar su plebei ; do- 



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LIMIO VI. 263 

{fremo rimoverne gt individui, altri come inutili nel- 
r assedio , ed altri come amici non saldi. Or se questi 
rimovansi , quid forza rimane in guardia di Roma ? 
o da quale soccorso animati ardiremo star contro dei 
mali ? V unico nostro rifugio , P unica nostra buona 
speranza è la gioventù patrizia : ma poca come vedete 
ella è questa , nè bastante a darci i grandiosi disegni. 
Che dunque impazzano , quei che propongon la guer^ 
ra , o perchè mai ci deludono , e non consigliano piut~ 
tosto di cedere fin da ora senz ar^ustie , e senza 
sangue Roma ai nemici ? ' 

LII. Ma forse io ciò dicendo son cieco , e predico 
per terribili , cose che non son da temere. Roma non 
corre altro rischio che di un cambiamento , cosa certo 
non difficile ; potendovisi facilissimamente introdurre 
mercenarj e ' clienti in copia da ogni gente e luogo, 
posi van divulgando molli de* contrarj al popolo, uo- 
mini , viva . Dio y non dispregievolì. A tanta stoltezza 
vengono alcuni ; che non propongono già consigli sa- 
lutevoli , ma desideri impossibili I Ora io volentieri 
dimanderei questi uomini quode tempo mai ne si, dia 
per far tali cose , essendone tanto vicini i nemici : 
qtude condiscendenza alt indugio o al ritardo del giu- 
gnere degli alleali in mezzo à mali che non tempo- 
reggiano , nè aspettano ? Qual uomo , o qual Dio mai 
vi terrà sicuri , o congreghem da ogni luogo in gran 
calma , e qui ci porterà de’ sussidj ?. Inoltre e quali 
tuoi saran. ' quelli che lasceranno la patria per venir- 
sene a noi ? Quelli forse che haruus case e Dii Lari 
€ viveri ed onori tra proprj cittadini per la nobiltà 


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264 DELLE Antichità’ romane 
degli antenati, o quelli che per la gloria risplendono 
de' pnoprj meriti ? E chi mai sosterrebbe di abhem- 
donare i proprj commodi, e partecipare vergognosa^ 
mente i mali altrui ? Eppure a noi si verrebbe non 
per dividere con noi la pace e le delizie, ma la guerra 
e i pericoli, e questi incerti, se a bene riescano ! 
Convocheremo forse una -turba, qual fu quella riget- 
tata da noi, plebea e senza lari? Ben è chiaro che 
pe' disagi suoi , io dico pe’ debiti , per le penalità , c 
per cause altrettali prenderà volentierissima . dovunque 
una sede : ma sebbene questa plebe sia utile , c ( per 
concederle questo ancora ) sebbene sia moderata ; 
tuttavia ci riuscirà generalmente , assai, meno 'buona 
della nostra , perchè non è rutta tra nci, nè come noi 
disciplinata , e perchè ignora i nostri costumi, le no- 
stre leggi , e le nostre maniere. < ■ 

Llir. Quanto alla plebe nostra son pure qui ostaggi 
tra noi, i figli, le mogli , i genitori, e tante altre per- 
sone che le appartengono : e lamore , viva Dio , della 
terra che gli ha nudriti è ruUurale in tutti, ed inde- 
lebile. Ma una plebe sepracchiamata , ufia plebe, qui , 
ricovertUa se tra noi si domicilii , tal che non abbia 
qui niuno de beni indicati ; per qual fine mai correrà 
tra pericoli , se niuno le prometta una parte delle 
terre e della città , spogliandone chi le possiede , 
quando Twn abbiamo ■ voluto concederle a’ nostri cit- 
tadini i quali guerreggiarono tante volte per conqui- 
starle ? Che si , che forse non sarà contenta di que- 
sto solo ; ma vorrà partecipare al paro de' patrizj , 
gli onori , li magistrati , ed ogni bene. Or se in ciò 


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LiBBO VI. a65 

che chiede non la secondiamo; ne diviene i inimica; ma 
se la secondiamo ; addio patria , addio governo ! gli 
avremo colle mani nostre medesime rovesciati. A que^ 
sto aggiungo che noi di presente abbiamo bisogno di 
uomini atti alla guerra, non di coltivatori, nè di mer- 
cenari , nè di mercadanti , nè di Jalibri , oziosi tra 
le arti loro , a quali è d' uopo insegnare le cose nU- 
litari, e la sperienza di queste ; dijjicilissinta per chi 
non vi fu costumato. Eppure tali per necessità sa- 
rebbero quelli che qua da tutte le genti verrebbono 
ed unirebbonsi. Certo io non vedo che a noi si pre- 
sentino truppe confederate , nè , se a noi fuori della 
speranza si presentassero , vi esorterei che qui le ri- 
ceveste , dopo tante città soggiogate da milizie alleate, 
introdottevi per difenderle. 

LIV. Considerando voi dunque ffueste e le cose 
dette dianzi, ricordatevi ancora in grazia di chi vi 
ammonisce alla pace , che non qui la prima ed unica 
volta si è scissa la povertà dai ricchi, nè la igno- 
bilità dai nobili •, ma che la moltitudine per lo più 
tumulala contro de’ pochi in tutte per cosi dire le , città 
picclole e grandi: che in queste i capi del comune 
salvarono colla moderazione la patria, nSa colla osti- 
nazione rovinarono sestessi e tutti i buoni : che ogni 
cosa composta da piti parti sconciasi naturalmente in 
alcuna : che inoltre come non sempre ne’ corpi umani 
dee recidersi ogni parte che infermasi; perchè brutto 
diverrebbe V aspetto , nè motto durevole il complesso 
delle altre ; Così non dee troncarsi dalla repubblica 
ogni membro che le si vizia , perchè alfine manche- 
jDiomai , itmo II. ip 


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206 DELLE Antichità’ romane 
rehhe tutto il suo corpo insieme co' membri. Consi-, 
derando infine quanta sia la forza della necessità 
alla quale ìsola cedono anche gli Dei, non vi sdegnate 
colla sorte, nè vi ostinate, nè insanite quasi vadavi 
tutto a seconda : ma piegatevi e condiscendete pren- 
dendo esempio della bella risoluzione da! fatti della 
patria , non delle genti. 

LY. Si gloriino , egli è ben giusto , il cittadino , 
come la intera città per V egregie loro azioni, ma in- 
sieme provvedano come pur le future a queste corri- 
spondano. Voi tenendo nelle mani infiniti nemici che 
tanto vi aveano oltra^ioto , non voleste nè distrug- 
gerli nè cacciarli da’ loro poderi ; ma consentiste che 
avessero le case , i beni , e le patrie ove nacquero , 
anzi concedeste ad alcuni di loro che j quanto voi , 
fossero cittadini e votassero. E qui dicasi pure V al- 
tra più meravigliosa delle opere vostre , cioè che voi 
lasciaste' Senza pena molti de vostri che aveano gra- 
vissimamente mancato centra voi , sfogando V ira vo- 
stra su capi: e sono que’ cittadini , appunto quelli, 
che divennero poi li coloni di Antemna , di Crustu- 
mero , di Medullia , di Fidene , ed altri in copia. 
Che giova infine commemorare quei tutti che voi avete 
assediato ed /espugnato , e poi trattato discretamente 
■e da cittadini? Nondimeno non fu Roma danne^iata 
o vituperata , ma > celebrasi la vostra clemenza , < e 
'niente' si diminuì la vostra sicurezza. Dite , vai che 
'avete a! nemici perdonato , farete voi guerra agli 
amici? Voi che. avete lasciati, impuniti i prigionieri, 
voi punirete quelli che hanno insieme con voi con- 


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LIBRO VI. U67 

ifuistato t iihpero ? Voi che aprivate la vostra città 
come asilo sicuro a chiunque ne abhisognìiva , avrete 
il cuore di escluderne quelli che ci nacquero , quelli 
che furono con voi educati e nudriti , quelli in somma 
che furono tante volte i vostri compagni de’ beni « 
de’ mali in pace ed in guerra ? No ; se vorrete far 
ciò che è giusto , ciò che a voi si conviene , e se de- 
ciderete senza ira de’ vostri vantaggi. , 

' LVI. Ma dirà taluno : ben dee calmarsi la sedi- 
zione : noi pure il sappiamo , e caldamente lo desi- 
deriamo : or tu piuttosto ci addita come debba cal- 
marsi. Vedi pure quanta ostinazione è nel popolo > 
il quale nè manda a noi per conciliarcisi esso che à 
C offensore , nè porge risposte umane e socievoli a 
quelli che noi stessi gli abbiamo inviati : ma s’ inal- 
bera e minaccia , nè lascia conoscere quello che vo- 
glia. Udite voi dunque ciò che iò consiglio che^ fac- 
ciasi. lo nè penso il popolo irreconciliabile a noi > 
nè > ohe mai farà quanto mincucip, ; dióchà mi sono 
buon argomento le opere sue che a’ detti non somi- 
gliano. -Dond’ è che io lo credo assai piò che ■ noi 
sollecito di pacificarsi. Certamente noi abitiamo una 
patria onoratissima , e teniamo irt poter nostro le so- 
stanze di lui, le case, i genitori, a tutte le cose pià 
preziose : ed egli si trova senza patria , senza ma- 
gioni , senza i pegni suoi più, cari , e senta V abbon- 
danza ancora del .^vivere quotidiano. Che se alcuno 
mi chieda perchè mai fra tanti patimenti egli nè ac- 
cetti gl inviti nostri , nè mandi a noi per istanza 
niuna , rispondo s ciò essere manifestamente , perchè 


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2G8 delle antichità’ romane 
fin (jid mn intese dal Senato che parole senza ve- 
derne poi le opere o di benevolenza o di modera- 
zione ; e perchè crede di essere stato molte volte in- 
gannato da noi che promettevamo di provvedere su 
lui, senza avervi mai provveduto. Non ci spedisce am- 
basciadori perchè son qui tanti che ce» lo accusano , 
e perchè teme non ottenere ciò che dimanda : e forse 
così gli suggerisce un ambizione non bene conside- 
rata; nè già è meraviglia. Imperocché son pure tra 
noi non pochi , difficili , contenziosi , i quali colle 
brighe loro non vogliono che cedasi punto ai cóntrarf , 
e cercano per ogni via di sopraffarli senza mai con- 
discendere essi i primi , finché loro non sottomettasi 
chi vuole essere beneficato. Or ciò considerando io 
penso che debbansi spedire al popolo ambàsciadori , 
principalmente di stia confidenza : e consiglio che 
questi ambasciadori siano plenipotenziarj , perchè le- 
vino la sedizione coi patti che essi terranno per giu- 
sti , senza rimettersene al Senato. Questo popolo che 
ora vi pare sì spregiante e grave , questo darà loro 
utlienza , al vedere che voi cercate veramente la con- 
cordia , e ridurrassi a condizioni più mitij senza chie- 
derne alcuna vituperosa , o non fattibile. Imperocché 
tutti, e specialmente i plebei, ne’ dissidj s' irf urtano 
con chi su loro insolentisce ; ma si ammansano con 
chi li blandisce. 

LVII. Cosi disse Menenio; e levossene in Senato gran 
romore , parlandovi ciascnno alia sua volta. I fautori del 
popolo esortaVansi a vicenda a dar tutta la mano per- 
chè rlpatriasse, avendo per capo di questo consiglio il 


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MERO VI. 269 

pii riguardevole de* patrizj. Per Topposìto quegli ottimati 
die cercavano che nulla si alterasse de’ costumi della 
patria mal sapeàno ciò che avessero a fare , nò voleano 
condiscendere; nè poteano ostinarsi. Nondimeno uomini 
integerrimi né caldi per l' uno o 1’ altro partito voleano 
la pace , intenti a questo di non essere assediati tra le 
mura. Or qui fattosi da tutti silenzio il più anziano dei 
'ìonsoli encomiò Menenio della sua generosità , stimo» 
landò anche gli altri a somigliarlo nella cura della re- 
pubblica , a dir francamente ciocché ne sentissero , e 
compiere senza strepitò ciocché sen decidesse: indi nel 
modo stesso cercandolo dei suo parere , chiamò per 
nome Manio Valerio, nomo infra tutti gli ottimati ca- 
rissimo ài popolo, e fratello all’uno di quelli che aveano 
liberato Roiòa dai tiranni. 

LVIII. Costui levatosi in piede ricordò ai Padri i suoi 
provvedimenti , e come avendo egli presagito più volte 
i terribili casi avvenire , ne tennero pochissimo conto : 
poscia esortò li contrari discutere 

ornai su la moderazione , ma solo a vedere ( giacché 
non aveano permesso che si estirpasse quando era 
ancor piccola ) di racchetare ora , comunque , il pià 
presto , la sedizione , perchè , trascurata , non proce- 
desse pià oltre , e non divenisse incurabile f o presso 
che incurabile , e sorgente di mali senta fine. Di- 
chiarò che le dimande del popolo non sarebbero come 
per r avanti; e pronosticò che non si accorderebbe 
colle condizioni di prima insistendo per la sola re- 
missione dei debiti , ma che vorrebbe forse un qual- 
che difensore , onde tenersi illeso nell' avvenire : af- 


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a'jo DELLE Antichità’ romane 
fermava che dopo introdotta la dittatHra era venuta- 
meno la le^e tutelare della Uhtrià la quale non per^ 
metteva a’ patrizj di uccidere alcun cittadino non giu- 
dicato , nè di cederlo giudicato reo nelle mani de’ loro- 
contradditori , e la quale concedeva a chi volea V ap- 
pelto f di portare le cause al popolo da’ patrizj f tanto 
che quello si eseguisse che il popolo ne decidesse^ 
Poco mancarvi che non fosse statà tolta al popolo 
tutta la potenza esercitela già da esso ne' tempi ad* 
dietro , quando non potè ottenere dal Senato per le 
imprese rmlitari il trionfo a Pubblio Servilio Prisco, 
uomo infra tutti degnissimo di quest’ onore. Pertanto- 
ben essere verisimile che il popolo cosi ojfeso sconfortisi 
nè abbia se non triste speranze della sua sicurezzaj 
Non il console , non il dittatore aver potuto soccorrerà 
il popolo , quantunque il volessero,; .anzi averne par- 
tecipale le incurie e V avvilimento , perchè studia» 
vansi provvedere su lui. Essersi poi cospirati per im» 
pedirli non uomini autorevolissimi fra li patrizj , ma 
uomini oltraggiosi , avari , . acerrimi ne’ rei guadagni, 
« quali , pe’ grandi prestiti a grandi usure , aveano 
ridotto schiavi ì pià de’ cittadini ; dicea che questi 
facendo loro leggi dure , orgogliose . aveano alienata 
tutta la plebe da patrizj ; e che datosi per capo Ap- 
pio Claudio , odiatore della plebe , e propizio ai po- 
chi y rimescolavano tulli gli affari di Roma. E se la 
parte savia del Senato non si contrapponesse , la 
repubblica pericolerebbe di essere schiava o distrutta. 
Da ultimo dichiarò ben fatto valersi del parer di Me- 
nenio , e chiese che si spedisse al popolo qiumto 


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LIBRO VI. 271 

prima: procurassero i deputati quanto volessero la 
calma della sedizione : ma se il popolo non accet- 
tava le dimando loro , essi quelle accettassero del 

LIX. Sorse , invitato , dopo lai Appio Claudio , uomo 
contrario al popolo, e grande estimatore di sestesso, nè 
senza cagione. Perocché nel vivere suo quotidiano era 
moderato e santo , nobile nella scelta de' provvedimenti, 
e tale da conservare la dignità de’ patrizj. Costui pren« 
dendo occasione dell’ aringa di Valerio , disse : Certa- 
mente sarebbe Valerio men riprensibile se palesava 
unicamente il suo parere , senza condannare quello 
de’ contrarj ; giacché non avrebbe nemmen egli ascoU 
tato i suoi vizj. Siccome però non fu pago di dar 
consigli onde renderci schiavi ai cittadini pili vili, 
ma sferzò pure i suoi contrarj , cimentando anche 
me ; così vedomi necessitato assai di rispondere , e 
di respingere primieramente le calunnie a me fatte. 
Son io rimproverato di una condotta nè' sociale , nè 
decorosa , quasi io cerchi per ogni via far danari , 
quasi spogli molti de’ poveri della libertà, e quasi 
da me sia derivata in gran parte la separazione del 
popolo. Ben vi è facile però di conoscere che niente 
di ciò è vero , niente probabile. Or su , dimmi , o 
Valerio , quali sono quelli che ho io ridotti servi pei 
debiti , quali i cittadini che ora tengo nella carcere ? 
(filale dei fuorusciti si è privato della patria per la 
durezza e per V avarizia mia ? Certo non potrai tu 
dirlo. .Anzi tanto è lungi che alcuno sia da me ri- 
ilotto servo pe’ debiti che. io sparsi tra molti V aver 



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2^2 DELLE ANTICHITÀ’ ROMANE 

mio , nè mi rendei schiavo , nè disonorai niuno di 
quei che mi hanno defraudato : ma tutù ne son U- 
beri, e tutti me ne ringraziano , e stansi nel numero 
degli anici e de clienti miei pià familiari. Nè ciò 
dico per incolpare chi non opera come me, nè per 
ingiuriare chi ha faUo cose concedute dalle leggi; nta 
solo per levas'e da me le calunnie. 

LX. In ciò poi che mi accusa della durezza e del 
patrocinio mio sui scellerati, chiamandomi odUpopolo 
ed oligarca perchè favorisco il comando de’ pochi , in 
ciò son io da riprendere quanto voi che avete ricu- 
sato , come pià riguardevoU , di soggiacere ai men 
degni , e di lasciarvi togliere il comando dei vo- 
stri antenati da una democrazia , pessimo infra 
tutti i governi. Nè già perchè egli soprannomina oli- 
garchia il comando de’ pochi dovrà questo disciogliersi 
per le beffe del nome. E pià giustamente e propria- 
mente possiamo noi riprendere lui come un adulatore 
del popolo , ed un ambizioso di tiranneggiare. Per- 
ciocché niuno ignora che la tirannide nasce dalle adu- 
lazioni della plebe : e che la via speditissima a ren- 
dere le città schiave è quella che mena al comando 
col mezzo de’ cittadini peggiori. Or egli ha fin qui 
carezzato costoro , nè tuttavia cessa di carezzarli. Ben 
vedete che questi abietti , questi miseri , non avreb- 
bero . mai ardito d’ insolentire in tal modo se non 
fossero stati eccitati' da questo sì riguardevole e 
bello amatore della patria , come se l’ <q?èra non sa- 
rebbe stata per loro pericolosa ; anzi , che in luogo 
d! incorrere alcuna pena , avrebbero va/itaggiato di 


\ 


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LIBRO VI. 373 

condizione. £‘, che io dica il vero , potrete conoscerlo , 
ricordandovi , che facendoci egli paura per la guerra, 
ed inculcandoci necessaria la pace, affermava insieme, 
che i poveri , tutto che liberati dai debiti , non si ac- 
cheterebbero y ma vorrebbero una difesa maggiore , 
senza permette're di essere dominati da voi come per 
addietro. Da ultimo vi esortava di cortformarvi ai tem- 
pi , e di concedere ciocché il popolo volesse pel ri- 
torno , senza che distingueste ciò che è decoroso da 
ciò che sconviene , nè il giusto dalS ingiusto. Tanto la 
parte stolida di Roma fa riempita di pervicacia da 
questo seniore , da questo che noi abbiamo con tutti 
gli onori magnificato ! Or , di Feeder io , convenivati 
lanciar su gli . altri accuse non proprie , quando a te 
si doveano propriamente ? - 

LXU E su le' calunnie di costui basti il detto fin 
qui. Ma 'quanto alle consultazioni per le quali vi siete 
adunati pwmi giusto, degno di Roma, ed utile a voi, 
ciocche io vi suggerivatda principio, e tuttavia, co- 
stante , vi suggerisco , vale a dire , di non turbare la 
forma del goverqo , di non movere le costituzioni in^ 
violabili degli antenati, di non togliere la buona fe- 
de , santissimo vincolo deha comun sicurezza , nè di 
cedere ad un volgo ignorante , accintosi ad una im- 
presa . ingiusta e svergognata. E non solo io punto 
non mi rimavo, dal mió parere per terna de' miei con- 
trarj , i quali vogliono impaurirmi coll aizzare in Ro- 
ma la plebe contro di me , anzi più che prima mi 
ostino nella indignazione , e raddoppio la insofferenza 
mia contro le dimande del popolo. Certo arrfmìrerci o 

OIOA'iai, Uno II. ' iS 


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lì 7 4 delle antichità’ romane. 

Padri Coscritti t incoerenza vostra , se voi che non 
avete accordata t assoluzione dei debiti al popolo che 
ve la chiedeva non essendo ancora vostro apertp ne- 
mico voleste accordargliela ora che è su P armi ^ e 

cose ostili; tutto che gli vengartoi in mente ben 
altre dimando ( e gliene, verranno ) , e farà primie-t 
ramente di essere a voi pari nel competere e nel 'par- 
tecipare gli onori. Dite , ammettereste voi dunque una 
democrazia , governo , com' io diceva t il pià indisci- 
plinato di tutti , e dannosissimo a voi che espirate a 
comandare su gli altri ? No , fin che siete vai savj , 
ciik non farete. E r\on sareste voi stolidissimi , se non 
avertdo comportato di soggiacere ad un solo tiranno ^ 
ora vi sottometteste alla dominazione del popolo , la 
quale è la tirannia di molU ? nè già .per grazia che 
chiedavi; ma per necessità che imponevi , cadendo 
contro, voglia , per non sapere che farvi. E se la plebe 
insorta in luogo di esser punita sia prendala de’ suoi 
delitti , quanta non diverrà caparbia » e quanto, inso- 
lente F Nort vi lusingate che. sìa per esser moderata 
nelle dimande, quando sappia che (^^4 luJUÀ avrete dò. 
decretalo^ 

LXII. Assaissimo in questo s' inganna Menenio or- 
gomentando dalF indole sua la moderazione degli altrL 
Vi sovrasterà la plebe piit grave del dovere per la 
baldanza solita a nascere in chi prepondera , e per 
la irùprudenza propria in gran parte della moltitudine. 
E quantunque ciò rion faccia in principio ; certo col 
volger del tempo pigliando, le arine ogni volta che non 
sia secondata vi farà , cerne ora , violenza terribile. 

f . ■ • ‘ 


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LIBRO VI. 375 

Tanló che se voi , giudicandolo a proposito , le con- 
cederete una prima aosa ; ben tosto per esservi cosi 
lasciati vincere dalla paura , dovrete concederne anche 
altre , e poi altre a mano a mano più sconcio e più 
dure ; finché vi caccino di città , come succedette in 
altre , ed ultimamente in Siracusa , ove i proprietarj 
delle tèrre furono espulsi dai loro clienti. Che se sde- 
gnati per le nuove dimanda , foste' allora per contrap- 
porvéle ; e perchè nOn potete fin da ora aver libero 
cuore P Fai meglio • che èccitàti da ■ piccioli impulsi , 
spieghiate prima di essere offesi un indole generosa; 
che risentirvene dopo averne tollerate ben molte , co- 
minciare f far sénno , ma tardi , nè permettere più 
olire l insolenza. Niuno di voi tema nè i moli dei 
rivoltosi ; nè le guerre cogli esteri. Non difitdeue delle 
vostrè forte , quasi insufficienti alla difesa di Roma. 

Piccola è la milizid de" fuggitivi ; e quella, che ora 
si sta in campo tqserto non resisterà pòi lungamente. 
nelT inverno tra le spelónche quando consumati i vi- 
veri che tiene non potrà fornirsene altri predando , e 
meno potrà procurarseli altronde comperandoli , essa 
che è stretta dcdla miseria , e nuda di danari pùbblici 
o privati. E le guerre per lo più coli abbondanza dei , 

danari si mantengono. Non regna in} èssi che t anar- 
chia , e come è verisimilé , seguitando doli anarchia 
la sedizione , presta confonderà e dissiperà tutti i 
loro disegni. Già non vorranno servire ai Sabini , ai 
Tirreni, nè ad altri, sottorhettendo sestessi a quelli 
a' quali un giorno rapirono con noi la libertà. Molto 
più che quelli non si fideranno a questi ehe^pronti 


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276 DELLE Antichità’ romane 
sono a rovinare scellereUantente e vituperosamente la 
patria , affinchè non facciano altreUanto- a chi li ri» 
ceve. TtUle le genti intorno sono governate dagli et» 
tintati , né il popolo ha diritti eguali ad essi in niuna 
città. Di tal che li primarj di ognuna di queste non 
vorranno rimovere dalla patria la plebe loro per in~ 
trodurvene una estranea , e tumultuaria ; perchè essi 
stessi che ve t accomunano, rum siano col tempo spo- 
gliati dei loro diritti. Che se io *pì incannassi nel mio 
sentimento , e taluna città li rieeUasse , ci si dareb- 
bero con ciò appunto a conoscere come nemici f e 
dovrehbonsi come > tali trattare, Abhiam per ostaggi le 
loro mogli, i loro padri, e tutto il parentado , dei 
quali non potremmo ckiedtrne altri migliori dd\Numi, 
Questi , li collocheremo • nói, questi al cospetto dei loro 
congiunti , minacciando , se tentano assafirti , di uc- 
ciderli con estremi supplizj: ina, credetemi, dove ciò 
sappiano , voi li riceverete inermi', supffikhevoli, pian- 
genti , pronti ad ogni pena. Terribili sono tali neces- 
sità , e frangono , ed annientano ogni baldanza. 

LXIII. E questi sonod riflessi -^pd quali non dob- 
biamo la guerra temere degli esuli. Le mirtacce poi 
di altri popoli rum ora Ut prima volta si trovarono 
fnire in paroUf; ma 'per ^addietro ancora ci si sco- 
prirono sempre rtùnori delt apparenza quante volte i 
popoli fecero di noi paragone. M quelli che tengono 
per insufficienti le intime nostre forze, e però temono 
appunto la guerra , quelli non bene le han calcolate. 
Ai citrini da noi separati, se il vogliamo , possiamo 
contrapporre scegliendoli e liberandoli , il ' fiore de’ servi 


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LIBUO VI. 277 

Certamente vai meglio donare a questi la libertà , 
che lasciarsi torre da quelli il comando : tanto più 
che stati essendo questi tante volte presenti ne’ nostri 
campi hanno sperienza che basta di guerra. Per com- 
battere poi cogli esteri usciremo ' noi stessi pieni di 
ardore e meneremo con noi tutti i clienti, e tutto il 
resto del popolo : e perchè sia questo ' cspedito a ci- 
menti , rilasceremp ciascuno privatamente , e non max 
per legge , ad esso i suoi debiti. Se dobbiamo in 
vista de’ tempi cedere in parte e temperarci; non dee 
mai farsi questo con cittadini che ci s' inimicano , ma 
cogli amici , perché sappiasi che noi concediamo grar 
zie, eomthossi e non violentali’, che se queste non 
bastino, se bisognino altre fòrze , f arem venirne dai 
presidii e dalle colonie: e quanta sia- la moltitudine 
loro , è facile raccoglierlo dalC ultimo censo. 1 .Ro- 
mani atti (die arme son cento trenta mila, e di questi 
appena la settima tparte è fuggita ' da noi ( 1 ). Non 
commentoro qui le' trenta città de’ Latini , le quali 
come voitre alleate ^ combatteranno di bonissima vo- 
glia per voi, sol che decretiate di ammetterle alla 
vostra cittadinanza che > sempre .vi hanno domandata. 

LXlV..Ora vi aggiungo' (.e finisco ) quello che ri- 
leva fra le arme assaissimo , e che voi non avete av- 
vertito , o certo niun dice de’ Padri. Chi cerca il buon 
esito delle guerre, di niente ha tanto bisogno, quanto 
di egregi capitani. Or di questi la nostra città soprob- 

(1) Questo ceuso non par quello fatto da T. Largio primo dituiorr, 
ma l’altro fissato da Sigouio oell’ anno sGu di Roma, ov« dice eba 
furono numerati più che centodieci mila ciuaUini. 


t 


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i'jS DELLE ANTICHITÀ.’ BOMANE 

benda , ma scarsissime ne sono quelle de' nemici. Lè 
grandi milizie se ricevano duci mal atti alle arme, si 
svergognano , e rovinano di per sestesse con danno 
tanto maggiore, quanto sono più numerose: ma i buoni 
condottieri presto rendono grandi anche picciole ar- 
mate. Di qua seguita che fiiìchà avrem uomirU buoni 
al comando, mai avremo penuria di quelli che fac» 
cianci comandare. Or ciò considerati^ , e ricordando 
voi le imprese di Roma ; certo mai non porrete de- 
creti meschini , vili , indegni. Che dunque , se alcuno 
tnel chiede , ( e già forse bramate da gran tempo sa- 
perlo ) che dunque io propongo che facciasi ? Io pro-> 
pongo che nè spediscansi ambaseiadori d fuorusciti ^ 
nè sen decida < la remissione dei debiti ; nè vengasi 
ad altra cosa niuna la qual sia documento di Umore 
e di debolezza. Che se d epos le le armi tornano in 
patria ; se lasciano che deliberiate su di essi ; pro'^ 
pongo che placidi nell esmne usiate moderazione, ri- 
flettendo che ogni stolido , specialmente la moUitudinct 
iruolenUsce con cfù se le umilia , ma si uiililia con 
ehi le si ostina. 

LXV. Taciutosi Clauciio levossi in Senato clamore e 

» 

torbido grande e diuturna Que' che sembravano tenerla 
dagli ottimati , e pensavano dovem , mirare anzi al giu- 
sto che all’ ingiusto , si unirono a Claudio , e solleci- 
tarono i consoli pih che altri a mettersi nel partito dei 
poyenti con dire , eh’ essi aveano un comando anzi regio 
che popolare ; o a restarsi almeno neutrali senza avva- 
lorare niuna delle {>arti , finché raccolto il voto de’ se- 
natori SI dedicassero ai voleri dei più. Se violato 1’ uno 


LIBRO VI. 379 

e r altro di questi cousigli, faceano di lor voglia la 
pace ; protestavano che noi permetterebbero , ma vi si 
opporrebbono di tutto lor animo, colle parole finché 
dovevasi , o colle arme in ultimo se bisognava. Era que> 
sto partito J1 più forte , aderendovi quasi tutta la gio« 
ventù palriaia. In opposito piegavano al partito di Me-s 
uenio e di Valerio tutù quelli che aveano cara la pace, 
p cbe torneano soprattutto per 1’ età loro, considerando 
quanti siano .nelle città li mali delle guerre civili. Mossi 
però dai clamori e dai tumulto dei giovani , adombrati 
dall’ ambizione loro , e dall’ arroganza contro de’ consoli , 
e timorosi che indi a poco si venisse alle mani se nou 
cedevano; si volsero in ultimo a piangere, e supplii 
care , piangendo , i conirarj. 

LXVL Sopitosi coi tempo lo strepito, e tornato il 
silenzio , i consoli abboccatisi fra loro, cosi conchiusero. 
Noi vorremmQ primieramente o Padri Coscritti , che 
voi tutti foste unanimi d intelligenza e di volere in^ 
torno la salvezza del comune : se no , che i più gio^ 
vani almeno cedessero , non ripugnassero d seniori , 
considerando , che ancK essi giunti alT età di questi 
avran pari onori dai discendenti. Ora siccome vediamo 
voi caduti in una discordia , rovinosissima fra i mali 
umani , e sorgere qui mollo f arroganza de’ giovani ; 
e siccome poco ornai soprawanza del giorno, nè pos- 
sono aver fine le discussioni ; ritiratevi dal SeruUo : 
tornerete in cUtra adunanza più placidi e con sentenze 
migliori. Che se qui persevera l’ amore delle contese, 
non più ci varremo de' giovani por giudici , né per 
consiglieri su ' quello che giova : ma precluderemo il 


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I 


aSo DELLE Antichità’ romane 

disordine con una legge ; determinando la età che 
aver dee chi consiglia. Quanto a’ seniori se non si 
uniscono ne' sentimenti ; torneremo a dar loro la pa- 
rola , e ne risolveremo le dispute per una via spedi- 
tissima , la quale è meglio che voi udiate e conosciate 
precedentemente. Voi sapete che noi abbiamo fin 
dalla fondazione di Roma , che il Senato è t arbitro, 
è vero , di ogni cosa , ma non di creare- i magistrati, 
rum di fare le leggi , rum di portare ■ o cesseue la 
guerra ; le quali tre cose il popolo le difinisce in "ul- 
timo col suo voto. E siccome ora non consultiamo 
che su la guerra e la pace ; cosi debbe il popolo, li- 
berissittur ne' suoi voti ratificare indispensabilmente i 
vostri decreti. Quando voi dunque avrete dichiarato i 
vostri pareri , ru>i scguerulo questa legge , inviteremo 
la moltitudine al Foro , perchè ne sentenza. Così le' 
contese avran fine ; mentre ciò che la pluralità dei 
voti destinavi , quello abhracceremo. Senza dubbio son 
degni di quest’ onore quelli che si tennero finora he- 
naffetti alla patria , io dico i compartecipi de' nostri 
beni e de mali. 

LXVII. Sciolsero, ciò detto, radunania. Fecera nei 
giorni appresso annunziare a tutti de’ villaggi e della 
campagna che si presentassero, e similmente al Senato 
che si riunisse nel di stabilito ; e qnaudo videro la città 
riempita di popola, e gli animi de’ patrizj mossi dalle 
preghiere fatte tra le lagrime , e tra’ lamenti de’ vecchi 
genitori , e de’ teneri '6gli de’ profughi , recaronsi nel 
tempo destinato sul finir della notte al Foro , angusto 
a tutta ia moltitudine. Venuti al tempio di Vulcano 


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LIBRO VI. 281 

donde solcano aringar l' adunanza , lodarono primiera- 
mente Il popolo dello zelo e della prontezza nell* accor- 
rere in tanta frequenza: quindi lo esortarono che aspet- 
tasse in calma la risoluzione del Senato; animando in- 
tanto gli attenenti de' profughi a buone speranze, come 
quelli che riarrebbero tra non molto i loro pegni dol- 
cissimi. Dopo ciò passando in Senato vi tennero benigni 
e modesti ragionamenti , ed invitarono ancor gli altri a 
proporre consigli vantaggiosi , ed umani. Chiamarono 
innanzi tutti Menenio , il quale alzatosi in piede rivenne 
ai suggerimenti di prima stimolando il Senato alla pace : 
e riproponendo che si deputassero ai segregati bentosto 
de’ personaggi , arbitri di concordare. 

LXVin. Invitati poi secondo 1’ età sorsero a mano a 
mano gli uomini consolari: parve a tutti questi che fosse 
da seguire il parer di Menenio ; finché toccò ad Appio 
di favellare. Or questi sorgendo t'eggo , disse , o Padri 
Coscritti che piace ai consoli e poco meno che a tutti 
di rimpatriare- il popolo colle condizioni eh’ ei vuole: 
che fra tutti i contrarj della pace or io rimangomi 
solo , esposto aie odio di quello , e niente utile a voi. 
Ala non per questo rimovomi dalle mie prime deli- 
berazioni : nè ripudio da me stesso ciò che intendo 
su la repubblica. Quanto piò. restomi derelitto da 
quelli i quali come me ne sentivano ; tanto piò col 
volger degli anni ne sarò pregiato tra voi , sarò in 
vita coronato di gloria , e morto sarò benedetto dalla 
ricordanza de posteri. Sia pure o Giove Capitolino , 
o Dei presidenti della nostra città , o eroi e genj , e 
quanti in guardia avete il suolo Romano, sia pur 

Diomcj, urna IT. i** 



l 

a8a . DKLLE antichità’ romane 
hello ed utile a tutti il ritorno de fuorusciti , e de- 
lusa resti la espettazione eh’ io ni' avea su 1’ avvenire. 
Ma se pe’ consigli presenti dee venire (e fia ciò pa- 
lese tra non molto ) alcun disastro su Roma , deh ! 
rettyicateli voi prestamente , e fate la nostra salvezza. 
Deh ! siate benevoli e propizj a me che non avendo 
mai voluto dir le piacevoli per le utili cose , non 
tradirò nemmen’’ ora il comune per la mia sicurezza. Io 
così volgomi a pregare gV Iddj ; perchè non abbiso- 
gnano più, parole. Ripeto la sentenza di prima : as- 
solvasi IL POPOLO RIMASTO IN CITTa’ DAI DEBITI ; 
MA COMBATTANSI CON TUTTO L ARDORE I FUORUSCITI 
TINCBÈ STARANNO SU LE ARMI. 

LXIX. E ciò detto Gnl. Poiché le sentenze de’ seniori 
concordaronsi con quella di Menenio , e poiché venne 
il discorso ai giovani ; standosi tutti in espettazione , 
sorse Spurio Nauzio , un rampollo della prosapia nobi- 
liasima originata da quel Mauzio compagno di Enea nel 
guidar la colonia, e sacerdote di Minerva m'bana, il 
quale nel trasmigrare aveane portato seco il divin simu- 
lacro , dato poi successivamente in custodia a’ suoi di- 
scendenti (i). Ora Nauzio che parea per le sue belle 
doti più nobile ancora di tutti i giovani , nè lontano 
mollo dall’ ottenere la dignità consolare , cominciò la 
difesa comune di questi : diceva che quando nel Senato 

(i) Anche Virginio fa meniioue di questo Nauxio , che egli chia- 
ma Pfautt , nel libro 5. 

Tum senior PfaMes , unum Triionia Paìlas , 

Quaeitt docuit , muUaqus insignem reddidit arte , 

Haec responsa datai. 


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LIBRO VI. 283 

precedente avetmo pronunziato in contrco'io de' padri 
non fu già per amore di contendere o insuperbire 
con essi, ma solo mancando , se aveano pur mancato, 
per inesperienza di anni : e qui soggiunse che fareb- 
bero fede di ciò col variar sentimento : che lascia- 
vano a loro come più savj decidere co’ voti il ben 
del comune : essi non contrarierebbono , ma secon' 
darebbero i seniori. E dichiarando Io stesso ancor gli 
alni giovani , toltine pochi , legati di parentado con 
Appio ; i consoli ne lodarono la verecondia ; ed esorta» 
tili ad essere sempre tali ne' maneggi ' pubblici , elessero 
tra’ seniori piÀ cospicui dieci deputati , uomini consolari 
tutti, fuori che uno. Furono gli eletti, Manio Valerio, 
Tito Largio , Agrippa Menenio figlinolo di Gajo , Publio 
Servilio figliq di Publio, Postutnio Tuberto figlio di 
Quinto, Tito.Ebuzio Flavio figlio di Tito, Servio Sul» 
picio Camerino figliuolo di Publio, Aulo Postumio Albo < 
figliuola di Publio, Aulo Verginio Celimontano figliuolo 
di Aulo (1). Or qui sciolto il Senato i consoli vennero 
all’ adunanza , e vi lessero il Senatuscoosulto , e vi pre- 
sentarono i deputati. E chiedendo la moltitudine di sa- 
pere le istruzioni che aveano; dissero tutti manifesta- 
mente che etano queste, di riconciliare in ogni modo 
ma senza intrico ed inganno il popolo co’ patrizj , e 
di rendere guanO> prima alle tose loro quei che le 
aveano lasciate. 

LXX. Presi tali ordini, partirono i deputati nel giorno 

(1^ Nel testo si omeltoDO Maoio Valerio , Tito Largio , e si no- 
lano altre maacaaxe in questo luogo. Noi alitiamo seguita la lesione 
di Porlo . 


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a 84 DELLE Antichità’ romane 

medesimo. Precedè la fama il giunger loro, divulgando 
nel campo tutte le cose fatte in città : dond’ è che la- 
sciando tutti le fortificazioni uscirono immantinente in- 
contro a’ deputati che erano in via. Aveaci nel campo 
un uomo turbolento affatto \ e sedizioso, acuto a preve- 
der da lontano ciocché avverrebbe, nè insufficiente , 
come parlator lusinghiero , a dirne quanto ne pensava. 
Chiamavasi questi Lucio Giunio col nome appunto di 
lui che tolse i tiranni : e voglioso di assumerne il nome 
per intero , facessi intitolare Bruto ancora. Rideano i 
più su la cura vana di esso^ e Bruto il chiamavano 
quando pungere lo volevano. Or questi mise in cuore a 
Sicinio , duce dell’ esercito , che il bene del popolo non 
istava nel rendersi troppo facilmente , sicché men degno 
ne fosse il ritorno per le umili condizioni ; ma nel re- 
sistere lungamente , simulando come in tvia tragedia. E 
profferendosi egli a Sicinio di parlare in favore del po- 
polo , e suggerendogli altre cose che erano da fare o 
dire , lo persuase. Dopo ciò Sicinio , convocato il po- 
polo , impose a’ legati che dicessero le cagioni per le 
quali venivano. 

LXXL Recatosi in mezzo Manio Valerio come il più 
provetto e popolare , e contestatagli dalla moltitudine la 
sua benevolenza con grida e saluti amichevoli , alfine , 
fatto silenzio, disse: Niente, o popolo proibisce che 
vi riconduciate alle vostre case , niente che vi paci- 
fichiate co’ Patrizi . Il Settato ha per voi decretato' un 
ritorno utile e decoroso j e di non pià ricordare o 
vendicare il fatto finora. E noi che vedeva propen- 
sissimi per voi , come da voi rispettati , ha qui de- 


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LIBRO VI. 285 

putato con poteri assoluti di concordare : affinchc noi 
non opinando nè congetturando su vostri desiderj , 
ma udendo da voi stessi con quali condizioni chie- 
dete riconciliarvici , ve le accordassimo se moderate , 
se non impossibili , nè impedite da indecenza insa- 
nabile , sene’ aspettare il voto de’ Padri , e senza in- 
tristire V affare colle dilazioni , e colla invidia dei 
contrari (i). Avendo il complesso de’ Padri così per voi 
decretato ; ricevetene il dono lieti , pronti , e benevoli s 
pregiandone degnamente una sorte sì bella , e rin- 
graziando vivamente gV Iddj che Roma , la domina- 
trice di tanti popoli , che il Senato , regolatore di 
tutto il bene che è in essa , mentre V usanza della 
patria non permette che cedasi ad alcuno , cedano 
alle istanze vostre solamente , nè pretendano come i 
più. grandi su’ men grandi discutere minutamente 
quanto conviene ad ambedue , ma primi essi vi spe- 
discano per . la pace : che non piglìasser con ira le 
risposte imperiose da voi fatte ai primi ambascia- 
dori , ma pazientassero alt orgoglio e fierezza di una 
ostinazione giovanile , come il buon padre sul figlio 
non savio : che volessero indirizzarvi una seconda 
ambasceria , diminuire i loro diritti', e rimettervisi 
dove la moderazione il consente. Giunti a tanta 
felicità non esitate a dime ciocché bisognavi, e non 
esorbitate o cittadini : lasciate le sedizioni : tornatevi 
giubilando alla terra che vi ha generati e nudriti : 

(i) Allude ai scDatorì che arrebbono perorato in contrario nei 
Senato. 


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286 DELLE Antichità’ romane 
Già non le deste voi li trofei e le ricompense pià 
belle , riducendola quanto è da voi solitaria, o come 
un campo da pascolarvi. Se trascurate questa oc- 
casione , forse ne richiamerete pià volte la somi- 
gliante. 

LXXII. Taciotosi Valerio fècest innanzi Sicinio , e 
I disse , che chi ben consulta non riguarda V utile da 
una banda sola , ma lo contempla nel suo rovescio 
ancora , principalmente in affare di tanta importanza. 
Pertanto comandò che chi volea rispondesse a ciò , 
deponendo ogni verecondia e timore. Non permettere 
la natura delle cose che essi benché ridotti a tante 
angustie cedessero per paura o per vergogna : E qui, 
fatto silenzio , e gli uni riguardando su gli altri , e cer- 
cando chi perorasse pel comune; ninno si presentò. Ma 
replicando Sia aio altre volte l’ istanza venne alfine in 
mezzo secondo gii accordi quel Ludo Ginnio desideroso 
di essere cognominato Bruto : ed avuto a far dò grandi 
significazioni dalla moltitudine , tenne questo ragiona- 
mento : Il timore che avevate de’ Patrizj o compagni 
è scolpito ancora per quanto vedo , e triorfa negli 
animi vostri. Abbattuti da questo timore esitate far 
qui , udendovi tutti , i discorsi che usavate tra voi. 
Forse ciascuno confida che il vicino suo aringherà 
sul comune , e che piuttosto incorrerà tra’ perìcoli 
ogni altro e non egli : ami che egli tenendosi in sal- 
vo , goderà senza perìcoli parte del bene che possa 
mai nascere dall ardire degli altri : ma stolto è que- 
sto concetto. Imperocché se tutti aspettiamo la stessa 
cosa , la codardia di ciascuno sarà nocevole a tutti; 


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I.IBBO VI. 


287 


c dove ognuno figurasi la sua sicurezza; ivi insieme 
con tutti rovinerà la comune. Ma se non avete ap- 
preso finora che per le arme ci togliemmo la paura, 
e per le arme avete consolidata la vostra libertà ; 
conoscetelo ora almeno , ed i Patrizj , essi stessi ve 

10 insegnino. Questi orgogliosi, questi durissimi uo~ 
mini , non vengono come prima comandando e mi- 
nacciando , ma supplicandoci , ed esortandoci a tor- 
nare alle nostre case : e già cominciano a trattarci 
come liberi veramente. Che dunque or più vi anne- 
ghittite e tacetq ? Che non la Jote da liberi uomini ? 
c se avete già scosso il freno : che non dite qui ora 
pubblicamente ciocchò avete sopportato da loro ? O 
miseri ! e quali patimenti temete ? se io stesso v in- 
vito a parlar francamente ? Io dunque , io stesso mi 
rischierò di dire liberamente per voi ciocché è ffusto, 
senza niente occultare. E poiché Valerio dice che niente 
proibisce che vi rendiale alle case vostre conceden- 
dovisi dal Senato il ritorno , ed essendosi decretato 
di non perseguitarvi ; io risponderò a lui cose nem- 
meno vere che necessarie a dire. 

LXXIII. Oltre i motivi ben grandi e varj , tre ne 
sono o Valerio fortissimi e chiarissimi che c impe- 
discono di rimetterci a voi deponendo le armi. Il 
primo è che venite a noi per esortarci come traviati; 
e Radicate beneficenza vostra accordarci il ritorno : 

11 secondo è che invitando noi a pacificarvici , niente 
dichiarate le condizioni compiacevoli o giuste su le 
quali possiamo ciò fare : è poi ! ultimo che niente 
di quanto ci promettete sarà per essere stabile , giac- 


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288 DELLE ANTICHITÀ.’ ROMANE 

chè avete continuato a rigirarci e deluderci tante volte. 
Discorrerò di ciascuna di queste cose , incominciando 
dai diritti ; giacché sempre dai diritti si vuol comin- 
ciare sia che trattinsi le cose private, sia che le pub- 
bliche. Noi dunque se ve ne abbiamo mai fatte , noi 
non chiediamo nè impunità nè dimenticanza delle in- 
giurie. E non yorremo piò. rio starci a parte della 
vostra città , ma dandoci in balia della sorte e dei 
genj che ci guidino , ci fermeremo là dove .porta il 
destino. Ma se per colpa vostra noi siamo ridotti alla 
condizione in cui ci troviamo ; e percpè non confes- 
sate che voi li quali foste gli oltraggiatori , voi abbi- 
sognate anzi di perdono e di dimenticanza ? Come 
dite di accordarci voi questa ; quando avreste a di- 
mandarcela ? Come così vi magnificate quasi voi cal- 
miate lo sdegno verso di noi , quando dovreste cer- 
care che noi verso di voi lo placassimo ? Cosi con- 
fondete la natura della verità , così la dignità dei 
diritti pervertite ! Che poi non siate voi gli offesi ma 
offensori; che voi beneficati tante volte e tanto dal 
popolo per fondare la libertà e V impero, lo abbiate 
non bene contraccambiato ; uditelo , e convincetevene. 
Io non parlerò se non di cose che voi sapete , e se 
alcuna mai sarà falsa ; reclamate per gli Dei ve ne 
prego , non che stiate a bada pazientando. 

LXXIV. Il nostro governo primitivo fu monarchico, 
e lo abbiamo conservato per sette generazioni. In tutti 
que’ principati il popolo non fu mai conculcato dai 
re , specialmente dagli ultimi. Anzi lascio di dire che 
derivò da quel dominio molti e segnalati vantaggi; 


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■ LIBRO VI. a8g 

impemcchè per obbligarlo a sestessi e<l alienarlo da 
voi lo adulavano non che lo favorivano , come fanno' 
quelli che vali cangiando il comando in tirannide. 
Quindi è che espugnata con lunga guerra Sessa , 
città doviziosissima (i) , tutto che potessero , appro-^ 
piarsi la preda , e non dividerla con altri , arricchen- 
dosene più che tutti essi che dominavano , noi sep^ 
pero fare , e la recarono in mezzo , e la resero a 
tutti comune. Tanto che noi ce ne dividemmo cinque 
mine di argento iper uno senza contare gli schiavi, li. 
bestiami , e gli altri acquisti. Pur noi senza ciò ri- 
guardare , dacché si valsero del potere ^per tiranneg- 
giare voi , non il popolo , cejie incollerimmo , e la- 
sciammo la benevolenza dei re per volgerci a voi. 
Cosi noi della città e dell' armata sollevandoci in- 
sieme con voi abbiamo cacciato essi, e trasferita e 
consecrata a voi la loro potenza, E sebbene tante 
volte stesse in poter nostro di passare al partito de- 
gli espulsi col bene ancora de"' doni cospicui che ci 
prometteano , perchè lasciassimo la vostra aderenza ; 
non abbiamo mai sostenuto di farlo , anzi abbiamo 
subito per voi guerre e pericoli varj , glandi , incesi 
santi : e già volge V anno diciassettesimo che abbiorn 
guerra con tutti per la pubblica libqptà. Perciocché 
non essendo ancora ben fondato lo stato di questa , 
come accade nelle subite mutazioni ; e tentando due 
città Toscane nobilissime , quella de’ Tarquiniesi e 


(i) Fn espugnata sotto Tarquinio lupcrbo. Vedi tib. S^, § So. 
Pertanto k chiaro a quale aoetano qui si alluda. 

DlOrflGt t tomo It. 19 


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ago DELLE antichità’ romane 
de Fejenti riportarci con esercito poderoso i monar- 
chi ; noi affrontato il pericolo combattemmo , pochi 
incontro di molti ; e spiegato un ^ardOr luminoso li 
vincemmo schierati in battaglia , e respintili , conser- 
vammo il comando al console che ci restava. Non 
molto dopo volendo anche Porsena re dei Tirreni ri- 
menarci quegli esuli colle 'milizie di tutta la Etruria e 
con quelle , raccolte già da gran ^ tempo dagli esuli 
stessi, pure noi che non avevamo forze eguali da 
contrastarlo , noi che ci eravamo rinchiusi in città 
per esservi assediati, e che non sapevamo come espe- 
dirci in mezzo al disagio di tutto ^ noi col sostenere 
magnanimamente ogni pUi terribile prova , lo ridu- 
cemmo a farcisi amico , e partire. Da ultimo prepa- 
randosi i re per la terza volta di tornare col soste- 
gno de’ Latini . e col movere le wmi di trenta città 
noi nel vedervi che a noi vi rivolgevate , che geme- 
vate , che c invocavate un per uno, a ricordarci della 
compagnia, della educazione e della milizia comune, 
noi non avemmo il corono di abbandonarvi. Ripu- 
tando bellissima e nobilissima 'impresa combattere 
per voi , ci levammo insieme " contro il nembo terri- 
bile ; e rigettandone il pericolo gravis siino con rice- 
vere molte feritp, col perdere molti de’ parenti , degli 
amici, de’ compagni, vincemmo gli eserciti , truci- 
dammo i capitani , e portammo V liltimo colpo alla 
stirpe dei monarchi, 

LXXV. Tali sono le prove che per libèrann dai 
tiranni nm vi abbiam dimostrato con ardore maggior 
delle forze , guidati dalla virtà , non dalla necessità. 


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. . LIBRO VI. agl 

Ora udite quelle che abbiamo fatte perchè fotte ono- 
rati , perchè ci comandaste , perchè aveste un incero 
più grande che in principio non ideaste : e se favel- 
lando devio punto dal vero, contraditemi pure, come 
già vi richiesi. Koi , quando a voi parve di avere la 
libertà già salva e stabile , non sapeste contentarvi 
di essa : ma dativi ad imbaldanzire e sconvolgere ; 
teneste tutti i popoli intorno per nimici della vostra 
eguaglianza , e poco meno che non dichiaraste la 
guerra aU' universo. In mezzo a tanti pericoli , in 
mezzo a tante gare della vostra ambizione , giudicaste 
' che fossero da avventurare le nostre persone! E qui 
lascio di commemorare quante città vi abbiamo sog- 
gettate , V incendale in campo , o negli assalti delle 
mura , mentre una o due la volta con voi guerreggia- 
vano per la libertà. E come parlare minutamente di 
cose tanto feconde a discorrerle ? Ma t Etruria tutta 
divisa in dodici reggenze e tanto potente in terra e 
per mare , questa , dite , chi con voi cooperando la 
sotta^mise ? E li Sabini , quel popolo numeroso , e 
si acceso a contendere con voi del principato , questi 
chi mai li ridusse a non più guerreggiarvi? Che più; 
le trenta città Latini non solo animate dalla gran- 
dezza della loro potenza , ma sublimate per ciò , che 
cercavano il giusto , chi le domò queste , e le rese a 
voi supplichevoli per finire lo sterminio delle mura, 
e la schiavitù de’ suoi cittadini ? 

LXXyi. Lascio le altre imprese , quante ne ab- 
biamo cimentate con voi quando non ancora divenuti 
discordi partecipavamo anche noi per qualche maniera 


V* 



X 


Diyl'ii _*byG(«»gIc 


i 



292 DELLE Antichità’ romane 
le speranze belle del principato. E poiché manifesta- 
mente riivl^ste il comando in tirannide , e voi foste 
convinti di usare noi come schiavi\; poiché noi non 
più ci serbavamo simili ne' nostri pensieri verso di 
voi f e vi si ribellavano intanto quasi tutti li sudditi 
cominciando la insurrezione i V^olsei, e seguitandola 
gli Equi , gli Ernici , i Sabini ed altri molti ; poiché 
ci sembrò venuto il tempo quale mai prima ci era 
venuto di fare i se volevamo , V uno o t altro , o di 
abbattere V autorità vostra o di renderla più mode- 
rata ’ ('I ricordate in quale disperazione cadeste al- 
lora di poter più dominare , a quali timori in tutto 
vi abbandonaste , sia che noi non ci unissimo a voi 
per combattere , sia che portati dall' ira ci mettes- 
simo co’ vostri nemici ? Vi ricordate le preghiere , e 
le promesse che ci faceste ? E noi depressi , noi ol- 
traggiali da voi che facemmo ? Noi vinti dtdle pre- 
ghiere , noi persuasi dalle promesse , che questo buon 
Servilio allora > console porgeva al popolo, noi non 
più memori verso di voi dei mali antichi, noi pieni 
di lusinghiere speranze per f avvenire , ci dedicammo 
tutti a voi stessi; e dissipate in poco tempo tutte le 
guerre , tornammo con seguito folto di schiavi e di 
prede bellissime. E voi, ne avete voi dato ricompense 
giuste , o degne de’ pericoli ? ma quando mai ? troppo 
lungi ne siamo. Anzi ne avete tradito le promesse 
che imponevate al console di farci a nome del co- 
mune. E quest’ uomo bonissimo , del quale abusavate 
per deluderci , lo avete . questo privato del trionfo , 
quando degnissimo ne era più che tutti i mortali. Nò 


LIBRO VI. 293 

già per altra cagione così ancor lo spregiaste , se \ 

non perchè vi dimandava che adempiste le pro- 
messe , e perchè sdegnato mostravasi che ci bef- 
faste. 

LXXVII. Ultimamente ( vi aggiungo questo solo 
intorno al diritto , e finisco ) quando gli Equi , i 5a- 
bini , i Volsci insorsero di comun voto , e concitarono 
ancor gli altri, non foste ridotti, voi venerabili e 
gravi , a ricorrere a noi negletti e vili , colmandoci 
di promesse per iscamparvela ? e non volendo parer 
d’ ingannarci come altre volte , trovaste per coprir la 
impostura questo Mania Falerio , uomo amantissimo 
della plebe. E noi credendogli come a uomo dal 
quale non saremnw traditi perchè dittatore , ed ami- 
cissimo nostro f ci consociammo novamente a voi per 
questa guerra , e vincemmo i nemici con ‘ battaglie 
non poche , nè pieciole , nè ignobili Ridotta la guerra 
a bellissimo fine prima ancora delle sperante comuni, 
tanto foste alieni da renderne grazie , e ben copiose 
al popolo , else cercavate ritenerlo anche senza voglia, 
sotto le insegne e fra V armi , per trasandar le pro- 
messe , come trasandarle destinavate fin dal princi- 
pio. E non tollerando il valentuomo la beffa, nè la 
infamia delV opera , e riportando in città le bandiere, 
e rilasciando tistti per le proprie case ; voi , presone 
motivo onde non far la giustizia , ingiuriaste lui , nè 
serbaste a noi veruna delle convenzioni con tre abusi 
gravissimi , perchè profanaste la maestà del Senato, 
annientaste il credito di un tal uomo , e rendeste 
inutile cC vostri benefattori il merito delle fatiche. Omj 


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294 DELLE A.NTICHITA’ ROMANE 

potendo noi dir queste e simili cose non poche , non 
abbiamo o Patrizj voluto piegarci (die umiliazioni ed 
alle preghiere, nè accettare come i rei di gravissime 
colpe , il ritorno su la obblivion del passato. Seb- 
bene , essendoci noi qui riuniti per concordare ; non 
dobbiamo ora investigare pià sottilmente queste cose, 
ma vociamo trascurarle e dimenticarle , • e tener- 
cele. 

LXXVIII. Che non dite voi dunque palesemente a 
qual fine siete qui deputati, e qual cosa venite per 
chiederne ? Su quali speranze volete in città ricon- 
durci ? Qual sorte abbiamo a prendere per guida del 
nostro ritorno ? Qual giubilo , quale benevolenza ci 
aspetta ? Fin qui non abbiamo punto ascoltate esibi- 
zioni umane e benefiche , non onori , non magistra- 
ture , non sollevamento dalla indigenza, nè altre cose 
qualunque , sebbcn tenuissime. Quantunque non dovea 
già dùcisi ciocché siete per fare , ma ciò che fate , 
perchè sperimentandovi subito benevoli nelle opere 
vostre , vi argomentiamo ancor tali per l’ avvenire. 
Ma io penso che voi risponderete a ciò , che voi siete 
qui plenipotenziari , e che qualunque^ cosa ci persua- 
deremo a vicenda, sarà stabilita. Or_ sia ciò vero; e 
ne sieguano conformi gli effetti ; niente vi contraddico. 
Bramo però sapere le cose che da loro ci si faranno 
dopo queste. Vale a dùe , quemdo avremo noi detto 
su quali condizioni vogliamo il ritorno ; e quando ci 
saran concedute ; chi ci sarà di esse - mallevadore ? 
Su quale sicurezza deporremo le armi , e metteremo 
le nostre persone di bel nuovo nelle lor mtmi ? Su 


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LIBRO VI. 290 

quella forse dei decreti che si faran dal Senato , non 
essendovene ancora ? Ma qual cosa mai impedirà 
che annullino questi con altri decreti , quando così 
paja ad Appio e ad altri che pensan com’ egli ? Con^ 
teremo forse su la dignità dei deputati che ne por- 
gono in pegno la fede loro ? Ma prima ancora ci han 
deluso colla interposizione di tali uomini. Riposeremo 
forse ne trattati fatti innanzi agV Iddj , e confermati 
da loro co' giuraménti? Ma io temo di ogni fede 
umana consimile , vedendola da quei che comandano 
vilipesa. E so , nè già ora per la prima volta , che 
i trattati forzosi tra chi brama esser libero e chi vuol 
dominare han vigore soltanto finché la necessità così 
porta. Or quale è queir amicizia e quella fede nella 
quale siamo costretti ad ossequiarci contro voglia , 
insidiando t uno il tempo dell' altro ? Allora inces- 
santi i sospetti e le calunnie; allora le invidie e gli 
od] ed ogni maniera di mali: allora la gara di preoc- 
cuparsi a distruggere V emolo ; riuscendo ogn indugio 
a mal termine. 

LXXIX. Non vi è , come tutti sanno , guerra più. 
trista della civile : questa i vinti fa miseri, ed in- 
giusti li vincitori : e li 'vinti han dagli amici i lor 
mali, i vincitori agli amici li causano. Or voi dun- 
que o Patrizi vogliate chiamar noi a pari cir- 

costanze , a pari bisogno non desiderabile ; e noi o 
plebei non ci rendiamo loro mai più: ma come la 
sorte ci ha divisi , così teniamoci in calma. Abbian 
pur essi tutta Roma , senza noi se la godano , e ne 
raccolgano soli ogni bene , essi che han ridotto fuor 


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agO DELLE a?«ticihta’ romane 
della patria noi miseri, noi disonorati plebei. E noi 
andiamocene pure dove gt Iddj ei guidano , conside- 
rando che non la nostra ma t altrui città lasciamo. 
Niuno di noi qui lascia non campagne proprie , non 
abitazioni paterne , non sacerdozi , non ‘ magistrature 
comuni come in sua patria per t esercizio delle quali 
siavi ritenuto pur contro voglia ; anzi nemmeno la- 
sciammo qui per noi la libertà, quella che ci ave- 
vamo colle arme e con tanti travagli acquistata. Im- 
perocché parte i nemici , parte la miseria quotidiana, 
parte V alterigia degli usurieri ci han guasto e con- 
sunto e tolto ogni cosa : tanto che noi- miseri eravamo 
ridotti a coltivare le terre di questi zappando , pian- 
tando , arando , pasturando , divenuti conservi degli 
schiavi loro da noi presi colle arme; e chi di noi 
portavamo catene alle mani , chi ne piedi , chi nella 
cervice finalmente , come fere intrattabili. E qui non 
ricordo le ferite , gli avvilimenti , le battiture , le fa- 
tiche da notte a notte (i) , ed ogni altra sevizia , e 
non le ingiurie , e non C orgoglio che ne abbiam so- 
stenuto. Liberati , la Dio mercè , da tanti e sì gran 
nudi , fuggiamo ben contenti quanto possiamo e sap- 
piamo , e prendiamo per. duci della fuga la sorte e 
gl’ Jddj li quali veglian per noi, considerando come 
patria nostra la libertà , e la virtù còme nostrà ric- 
chezza. Ogni popolo nè, ammetterà, sì perchè non 
molesti, come perchè utili a chi ne riceve. 

LXXX. E ci siano in ciò' di esenqtio molti Greci, 

(i) Dal tempo prima dell’alba fiuo a aera. 


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; 


LIBKO VI. 297 

e molti barbari , e principalmente gli antenati tii 
quelli e di noi. Gli antenati nostri passando con 
Enea dal£ Asia nelC Europa fondaronsi nel Lazio 
una patria : e poi spiccandosi da Alba sotto gli au» 
spicj di Romolo che guidava la colonia , pigliarono 
sede ne' luoghi appunto abbandonati da noi. Abbiamo 
noi forze non già poco maggiori che essi, ma tripli- 
cate, e celione molto più giusta di trasmigrare. Quelli 
partivan da Ilio perseguitati da nemici, e noi di quà 
dagli amici : e ben è più misera cosa essere espulsi 
dai domestici , che dagli estranei. Quei che a Romolo 
si ligaroho per compagni trascurarono la patria per 
cercare terre migliori : ma noi lasciamo un vivere 
senza città , un vivere senza case paterne quando re- 
chiamo la colonia : e certo la rechiamo non odiosa 
agl Idàj , non molesta agli uomini , nè gravosa a 
terra niuna ; non rei' del sangue e della strage de’ cit- 
tadini che ci han discacciati , non rei del ferro o del 
fuoco messo ai campi che abbandoniamo, nè di altro 
monumento qualunque fondatovi di eterna inimicizia; 
come spinti da necessità sconsigliata rei se ne fanno 
i popoli traditi nett aUeanza. Noi chiamati in testi- 
monio i genj e gl' Iddj che guidano con giustizia le 
cose mortali, e lasciandQ'che essi prendano per noi 
la vendetta , abbiamo chiesto unicamente di riavere i 
nostri teneri figli, i (secchi Padri, che in città si ri- 
masero , e le mogli in fine , se alcune pur vogliono 
dividere con noi la nostra sorte. Contenti di ricevere 
questo, non altro dimandiamo da Roma, E voi tanto 

■ DIOKICI , tomo ZI. , ' kj * 


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298 DELLE antichità’ ROMANE 

impolitici f tanto insocievoli verso de' miseri , vivete 
felici, e come più desiderate. 

LXXXI. Appeaa Bruto ebbe ciò '' detto si tacque. 
Parve agli astanti tutto vero quanto disse intorno ai 
diritti , e quanto per accusare la superbia de’ senatori , 
principalmente quando dichiarò che la semplicità dei 
patti era tutta piena d’ intrico e d’inganni: ma quando 
infine delineò gli alTronti che aveaoo patito dagli usucierì, 
e ciascuno ricordò li suoi mali ; niup v* ebbe sì fermo di 
animo , che non si desse a piangere , e lamentare i 
danni comuni. Nè impietosirono già sol essi, ma fino 
gl’ inviati dal Senato. Non poteano que’ seniori conte- 
nere le lagrime , pensando la calamità per la separazione 
de' citudini : e rimasero gran tempo tra 1’ afflizione , e 
tra ’l pianto senza sapere ornai che più dire. Cessali gli 
alti gemiti , e tornato il silenzio nell’ adunanza , proce- 
cedelte per farvi le difese Tito Largio autorevole sopra 
tutti i citudini per anni , e per dignità , come lui che 
due volte console , e già rivestito della ditutura , avea 
con esercitarla bene più che gli altri , renduu venera- 
bile, e sanu una carica altronde odiata. £ datgsi a par- 
lare sopra i diritti , e ulvolta incolpando gli usuraj per- 
chè aveano operate cose durg , e disumàne ; talalira 
rimproverando i poveri come non giusti nel' chiedere 
che si rimettessero ad essi i debiti per forza anzi che per 
grazia, e nell’ esacerbarsi col Senato piuttosto che con 
quelli che impedivano che si'ccmcedesse loro alcuna cosa 
anche moderaU; e dippiù tentando mostrare cl^e pic- 
ciola era la parte del . popolo, .ingiuriosa suo mal grado, 
e necessiuta a dimandate per la igopia gravissima la 


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LIBRO VI. 299 

condonaeione dei debiti , ma più grande assai la parte 
la quale esigeva ciò perche viveasi scorretta , insolente , 
voluttuosa , e preparata a supplire co’ furti alle sue pas- 
sioni , talché ' doveansi ben distinguere i poveri dai ri- 
baldi, quelli che erano da compatire da quelli che erano 
da odiare ; ed aggiungendo in (ine discorsi consimili , 
veri si ma non grati generalmente; non soddisfece tutta 
la udienza. Dond’ è che sorsene strepito grande di voce, 
altri sdegnandosi . quasi rincrudisse loro gli affanni , ed 
altri confessando che dicea pur troppo il vero. Ma per- 
ciocché gli ultimi erano assai minori di numero , scom- 
parivano tra la moltitudine degli altri , e prevaleano 
soprattutto i clamori degli adirati. 

LXXXII. À queste cose ne aggiugnea Largio poche 
altre su la partenza e precipitanza loro , quando ripi- 
gliando la parola Sicinio il capo del popolo ne riaccese 
assai più lo sdegno con dire : che ben poleano da un 
tal parlare, comprendere quali onori e quali ringra- 
ziamenti ne avrebbero , se tornassero nella patria. Se 
quelli che slansi nel colmo de’ pericoli , ed abbiso- 
gnano del braccio del popolo , e per questo a lui 
vengono , non san trovare nemmen ora discorsi mo- 
derati ed umani; qual animo dee credersi che avranno 
quando siano .le cose riuscite loro secondo il disegno, 
e quando chi offendono ora colle parole , sia sotto- 
messo loto ancora nelle opere ? Da quali insolenze 
mai si conterranno ? da qual; flagelli , o da quali 
tiranniche sevizie ? Se a voi dà il cuore , ei dicea , di 
servire tutta la vita incatenati , battuti , straziati col 
ferro , col fuoco , colla fame , con ogni guisa di maU; 


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3oo delle antichità’ romane 

su , non perdete tempo , gettate le armi , seguitateli. 
Ma se V è pure in voi desiderio di libertà ; non pa- 
zientate ornai più. Ambasciadori ! o dite su quali corti- 
dizioni ci richiamate ; o partite daW adunanza ; per- 
chè non lasceremo più che vi parliate. 

LXXXIII. E qui tacendosi lui , tutti gli astanti ne 
strepitarono , acclamandolo , perchè area detto a propo- 
sito. Restituitasi quindi la calma Menenio 'Agrippa il 
quale areva interloquito in Senato sul popolo , e pro- 
posto e fatto principalmente che gli s’ inviasse un’ am- 
basceria plenipotenziaria , fe’ cenno di volere aneli’ egli 
discorrere. Riuscì la richiesta gratissima ; e parea come 
r augurio che udirebbe nsi allora Analmente condizioni 
giuste , e salutevoli ad ambe le parti. E subito escla- 
marono tutti a gran voce , che parlasse. Poi si chetaro- 
no , e si profondamente , quasi fessevi solitudine. Parve 
uu tal uomo , com’ era verisimile , assai persuasivo nei 
suoi discorsi, e tutto confacevole ai voleri della udienza: 
è' fama però che in ultimo proponesse una tal favola sul 
gusto delle Esopiane espressivissima delle circostanze, e 
che con questa principalmente li guadagnasse. Dond’ è 
che la favola fu creduta degna di ricordanza , e rap- 
portasi io tutte le storie antiche. L’, aringa di lui fu 
questa : Popolo , noi veniamo dal Senato a voi , non 
per difendere lui , nè per accusarne voi: nè già pormi 
che il tempo ciò chieda , nè che ciò sia prosperevole 
per la sorte della .repubbUca. Ma noi veniamo con 
tutto f ardore e V efficacia per 'levar le discordie , e 
rimettere la > repubblica nel 'buon ordine primitivo^ 
rivestiti per ciò fare di^ un potere assoluto. Pertanto^ 


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LIBRO VI. 3oi 

non pensiamo che ,sian ora da esaminare i diritti > 
come fece con orazione lunghissima questo Giunio ; 
pensiamo piuttosto che debbansi con gli amorevoli 
modi ricongiunger gli spiriti. Qual fede sia poi per 
garantire le nostre convenzioni , ve lo esporremo , 
appunto come ne cibiamo deliberato. Considerando 
noi else le sedizioni si curario in ogni città col to« 
gliere i semi delle discordie , abbiamo giudicato ne» 
cessarlo di conoscere e spegnere le cause produttrici 
della divisione. Or trovando noi che le esazioni dure 
de’ presuli sono la origine de’ mali presenti ; così le 
correggiamo. Decretiamo che quanti soggiacciono a 
debiti , nè possono estinguerli , ne siano del tutto as- 
soluti. Decretiamo Uberi tutti , quanti son detenuti per 
aver differite le paghe oltre i tempi legittimi , e de- 
cretiamo liberi infine quanti furono in mano conse- 
gnati dei creditori per sentenze speciali di giudici^ 
annullando noi queste totalmente. Cosi ripariamo ai 
contralti precedenti tenuti come causa della sedizione: 
ma quanto a centratti avvenire facciasi come ne or- 
dinerà la legge che sarà costituita da voi, da tutto il 
popolo , dal Senato. Dite , non erano queste le cose 
che vi alienas>ano da’ Patrizf ? Non giudicavate voi 
che sareste conienti , e che altro di più non brame- 
reste , se le impetravate Oggi vi si concedono ; an- 
date , tornatevi' gittiilando alla patria. 

LXXXIV. I riti poi- che convalideranno ed assicu- 
reranno questi trattati saran quelli appunto delle leggi, 
usati nel depórsi delle inimicizie. Il Senato appro- 
verà pur egli questi trattati ^ e darà loro forza di 


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3o2 delle Antichità’ romane 
leggi quando scritti gli avremo. Anzi schiviamoli qui 
noi come ne piace ; ed il Senato vi sarà sottomesso. 
E che questi si rimarranno indelebili ; che il Senato 
non potrà mai sopraggiungervi nulla in contrario , noi 
qui deputati , noi li primi ne facciam garanzia sul 
corpo , e vita , e stirpe nostra , e con noi pure ve ne 
fan garanzìa li senatori che firmeranno il decreto. 
Imperocché mai , ripugnandovi noi si decreterà cosa 
niuna contro del popolo ; giacché noi -siamo li primi 
del Senato , e noi li primi a dichiarare i nostri pa- 
reri’. ven farà da ultimo garanzia la fede comune a 
tutti i Greci, e a tutti i Barbari, quella che niun 
tempo mai potrà cancellare , quella che con giura- 
menti , e libagióni rende i Numi vindici degli accordi, 
e su la quale chetaronsi tante, e non picciole nimi- 
cizie de’ privati , e tante guerre di repubblica con re- 
pubblica. Or questa fede ricevetela ancora voi ; sia 
che vogliate permettere a noi, pochi si , ma capi del 
Senato , di giurarvi a nome di questo ,^sia che vo- 
gliate che tutti i Padri sottoscrivano *e giurino con 
rito santo di serbarvene i patti inviolati. E tu, o 
Bruto , non incolpare il pegno delle destre , non le 
libagioni, non la fede data invocandone i Numi, né 
togliere tali espedienti bellissinii degli uomini: e voi 
non vogliate tollerare che costui ricordi le promesse 
tradite dai scellerati e dai tiranni , da quali tanto è 
lontana la virtà de’ Romani. 

LXXXV. Or lasciate, che io soggiunga (e terminò) 
una cosa non ignorata i fiè controversa da rtiun dei/ 
mortali. Ma quale è mai questa? Essa importa >'t utit 


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LIBRO VI. 3o3 

colmine , . e saU/a le parti f una colt altra : essa è 
r unica e sola che ci raccolse già tutti in un corpo , 
e che mai farà separarci. Abbisogna , nè mai cesserà 
di abbisognare la moltitudine imperita di sas>j che la 
dirigano ; come un complesso di savj idonei a dirigere 
abbisogna di chi lascisi governare. Nè ciò per imma- 
ginazioni sappiamo , ma per esperienza. Che dunque 
ci riduciàmo a tremare brigandoci gli uni con gli al- 
tri ; o che ci logoriamo in triste ^parole ; essendoci 
facilissimo tornare alt utile nostro ? Che dunque non 
ci espandiamo , ed abbracciamo , e voliamo (dia pa- 
tria , aUe antiche delizie , agli oggetti di tanti dolcis- 
simi e soavissimi nostri desiderj ? A che cercare im- 
possibili assicw'ozioni? A che fidanze malfide^ come 
in guerra nemici fierissimi che in tutto sospettano il 
peggio ? A noi, o plebei , a noi membri del Senato, 
basta la sola vostra parola , clte non sarete se tornate 
iniqui con noi: e perchè ? perchè sappiamo il vostro 
buon allevamento , la istituzione legittima , e le altre 
virtù che avete in guerra ed in pace dimostrate. E se 
i contratti oggi ottengono a nome del comune una 
riforma , così dimandando la fedeltà , così la speranza , 
degli uni verso degli altri ; teniam certo ancora che 
siano per corrispondere in voi le altre buone doti : e 
niente da voi cerchi (uno ^i giuramenti, niente gli ostag- 
gi , nè altro pegno qualunque di sicurezza ; nè però 
mai contrarieremo le vostre dimande. Ma ciò basti su 
la fedeltà intorno • la quale Bruto c incolpava. Che se 
in voi resta aricora alcuna, invidia non degna , che vi 
àccita a pensar' pravanten^s del Senato •, io dùò pur. 


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3o4 DELLE AHTICHITA.’ ROMANE 
di questa : e voi attenti , in calma , ascoltatemi o 
plebei. 1 ' 

LXXXVI* Somiglia ad un corpo umano una repub- 
blica : perciocché l uno e t cdtra risultano da più par- 
ti ; nè ciascuna delle parti in essi ha forze eguali , 
né porge un uso medesimo. Adunque se le membra 
del corpo umano ricevessero tutte , come il senso , la 
voce , e poi nascesse discordia fra loro congiurandosi 

tutte le altre ad una ad una contro del ventre, e, li 

\ 

piè si dolessero che il corpo intero poggia- su loro , le 
mani che solo esse traltan le arti , procacciano il ne- 
cessario , combattono co’ nemici, e pongono molti t^ri 
beni in comune-, gli omeri perchè p'orVan essi ogni 
peso , la bocca perchè parla , la testa percitè vede , 
perchè ode, e perchè comprende tutti i sensi onde il 
complesso vive del corpo ; e se quindi dicessero , or 
tu buon ventre fai tu niuna di queste cose ? quale 
riconoscenza, qual utile tu ci rendi? Anzi tanto sei lon- 
tano dal cooperare e dal compiere con nei alcun utile 
comune ; che ne impedisci e conturbi, e quel che è 
più intollerabile , ci necessiti a servirti , e portarti di 
ogn intorno quanto ti sazj negli appetiti tuoi. Orsù; 
chè non ci rendiamo noi liberi, nè cessiamo dalle 
cure che .in grazia di lui sosteniamo ? Se così piacesse 
loro , se nhtna parte più fornisse le proprie funzioni-, 
or potrebbe il corpo a lungo 'sussisterne ? Anzi in 
pochi dì consumerebbesi dsdla fame , pessimo fra tutti 
i mali ; e niuno può dirne il contrario. Or concepite 
pure altrettanto di una repubblica. Compiono questa 
molti generi di persone niente, infra li>r ,sornigUanti'; 


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LIBRO VI. 3o5 

e ciaicùno le porge un uso proprio di lui t come le 
nsembra lo porgono al corpo. Chi coltiva i campi f 
chi pe' campi combatte co' nemici : chi ne reca assai 
beni tr^Jicando pe' mari ; e chi travaglia in su le 
arti necessarie. Se ciascun genere di queste persone- 
insorga contro il Senato , che è l’ ordine degli otti- 
mali , e dica ; qual cosa , o Senato , tu ci fai di be- 
ne ? e per qual causa, non avendone tu alcuna; vuoi, 
comandare su- gii altri? Non ci terremo una volta 
da questa tirànnide tua ? nè vivremo indipendenti ? 
Se con tali pensieri si levasse ognuno dalle usate 
incombente ; cosa impedirà che una tale sconcia re- 
pubblica miseramente- perisca per la fame, per la 
guerra , per ogni male ? Istruiti dunque , o voi del 
popolo , che come ne' corpi nosU'i il ventre accusata 
a torto da molti, nudrito nudrisce, conservato con- 
serva ; e quasi uim dispensa universale , porge ad 
ogmino il' suo bene , e la sussistenza in un tutto ; 
così nelle repubbliche il Senato che matteria il co- 
mune e provvede a ciascuno V utile suo , tutto salva 
e custodisce e dUrige ; cessate di lanciar contro lui 
voci ccUunniose , quasi per lui siate fuori della pa- 
tria , e ne andiate raminghi e mendici. Il Senato non 
volle mai questo, nè farawelo : anzi vi chiama, evi 
supplica, e vi stende le mani, e vi spalanca le porte, 
e raccoglievi. ' 

■ . LXXXVII. Intanto che Menpnìo concionava, sorgeano 
ad ora ad ora voci varie e molte da^i astanti. Ma pai> 
chè sul fine del suo ragionatiteoto si diede a comma» 
veri! , e 'deplorare le disgrazie e la sorte immiucnle su 

DlOUtai, lomo II. a* 


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3o6 DELLE Antichità’ romane 

di ambedue , su quelli rimasi in città e su gli altri che 
ne erano usciti ; si misero tutti a piangere , ed unanimi 
ad una voce gridarono che li riconducesse alla patria , 
né più s’ indugiasse. E poco mancò che partissero tutti 
a furia dall’ adunanza ; rimettendo ogni cosa ai deputati 
senea brigarsi più oltre della sicurezza. Se non che Bruto 
facendosi innanzi ritardò l’ impeto loro , dicendo : che 
erano pur buone per quei del popolo le promesse del 
Senato , e chiedendo che grazie appieno gli si ren- 
dessero per le cose a loro concedute. Aggiungeva an- 
cora di temere per l’ avvenire che uomini una volta 
oppressivi, si dessero, venutone il tempo, a ricor- 
dare , e punire le cose operate dal popolo. Jtimanervi 
una sicurezza sola per quelli che temono questo dagli 
Ottimati , cioè quella di rendere indubitato che , se 
vogliono , non posson piii offenderli. Finché sta in 
essi il poter danneggiare , non mancheran de mal- 
vagi che il vogliano. Pertanto se il popolo ottenga 
tal sicurezza ^ -non altro resteragli da chiedere. Ripi- 
gliando Menenio , ed invitandolo a dire qual sicurezza 
pensava che al popolo bisognasse , concedeteci , disse , 
che noi ci scegliamo ogni anno dall' ordine nostro 
alcuni magistrati i quali non siano ad altro autoriz- 
zati che a proteggere gli oltraggiati , e gli oppressi 
nel popolo , nè lascino che alcimo sia defraudato 
de' suoi diritti. Alle^ cose accordateci aggiungete in 
grazia ancor questa , ve ne preghiamo , ve ne suppli- 
chiamo , se la pace esser dee non in parole , ma in 
fatti. 

• LXXXYllI. 11 popolo udendo un tal dire lo accom- 


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LIBRO VI. 


807 


pagnò con grandi e lunghe acclamazioni , raccomaiidau* 
dosi ai deputati che gli concedessero anche questo. I 
deputati ritirandosi daU’adunanza, e conferendo alquanto 
in fra loro , vi ritornarono dopo jion molto. Taciutisi 
tutti , Menenio fattosi iunanzi disse : La dimanda è 
grande e piena o plebei di enormi sospetti. A noi 
viene timore ed ansietà che non abbinasi a fare due 
città di una sola. Quanto è da noi , nemmeno in ciò 
vi ci opporremo , or voi compiaceteci (tende anche (Que- 
sto al ben vostro ) date a tre deputati che tornino in 
Aonuif e narrino al . Senato la richiesta. Non ci arr 
roghiamo noi di risolverne > quantunque abbiamo da 
esso U potere di concordare come ne piace , arbitri 
in tutto di prafnettere.. Siccome il caso che ci occorre 
è inaspettato e nuovo ; così ce ne riportiamo ai Pa- 
dri , quasi in esso V autorità ci si limiti. Ci persua- 
diamo, pelò ‘ che essi ne sentiran come noi. Frattanto 
io qui resto >, e con me parte dei deputati. Valerio e 
gli altri onderanno. Stabilito ciò gl’ incaricati d’ infor- 
mare il - Senato spronarono i cavalli alia volta di Roma. 
Proponendo i consoli in Senato la richiesta; Valerio 
opinò che si concedesse. Appio , nimico Gn da princi- 
pio di ogni, accordo , contraddisse anche allora chiaris- 
simameute , esclamando e rilevando , chiamatine in te- 
stimonio i Numi , i germi dei mali che impiantavano 
alla repubblica. Non però convinse la pluralità , desi- 
derosa, come ho detto, di .spegnere la discordia. Adun- 
que il Senato autorizzò con suo decreto lè promesse 
dei deputati ai popolo , come pure che gii accordas- 
sero la sicurezza che dimandava. Fatto ciò tornando il 


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3o8 , OEtLE antichità’ ROMANE 

giorno ap|>resso i deputati nei vi eapoM0a4.";^HH 

Ieri del Senato. Quindi esortando ' Menenio- U'^poii^lD 
d’inviare alquanti a’ quali il Senato desse la Sull' ftdé ; 
fu spedito Lucio Giuùo Bruto, del qnale abbiÀtt'i^no 
di sopra , e Marco Decio , e Spurio Icilio con esso. 
Andò metà dei deputati compagna di Bruto in Roma. 
Agrippa , pregatone , si rimase nel campo , per istender 
la legge a norma delia quale il popolo creerebbe i suoi 
magistrati. ' ' ' , ' 

LXXXIX. Nel di seguente Bruto rìlortiò già fatti 
i patti col Senato per mezzo de’ Feciali , che cfaia> 
mano. Divisosi allora il popolo in Fratrie , * come ah 
tri qui nominerebbe quelle che essi dipono Curie , 
dichiarò suoi, magistrati dell’ anno Lucùr Gìnnio Bruto, 

« Cajo Sicinio Belluto, 6 no a > quel di loro capi, e con 
essi ancora Ca}o e Publio Licinio ì e Cap Icilio Ru- 
ga (i). Assunsero questi cinque- i primi' la^ potestà tribu- 
nizia , quattro giorni avanti le idi di ’decembre {%) , CO 7 
me pur nel mio tempo si pratica. Firttterle ’eiéEÌoni'parve 
a’ deputati del Senato, adempito l’ intento della loro mis- 
sione. Ma Bruto , convocata l’ adunanza ' del popolò, con- 
sigliò che dichiarassero i suoi magistrati Santi ed: invìo- 

. 

(1) Lìtio, Dionigi, ed altri storirn antichi non ben si accordano 
sn la nomina di questi magistrati. Livio dice che i due i primi no- 
minati furono Cajo Licinio, e L. Alhiud . e che questi poi si scef- 
aero tre colleglli tra quali fiv Sicinio V autore delia seditìone. -Ma^ 
Dionigi pone per primi Lucio. _Giunio Bru^o , e C. Sicinio Bellirto : 
a quindi C. e Fuhiio Liciuro , e C. Icilio Ruga. 

(3) Anni di Roma 361 secondo Catene , s63 aeeondo Varrona , 
a 491 avanti Cristo. \ - 


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LIBRO V|. 3o9 

labili slabilenilone la sicurezza colle leggi e co’giiiramenti. 
Piacque ciò a tutti , e si fece su lui e su collcghi la 
legge : che niuno forzaste un tribuno ) come un altro 
qualunque a far mai cantra sua voglia ; ni lo bat- 
tette , ni lo uccidesse , né ordinasse ad altri di bal- 
te rio , o di ucciderlo. Che te alcuno a dà contravvenga 
anche in parte ; itane reo capitale ; se ne diano a 
Cerere -i beni : e chiunque lo uccide , abbiasi coma 
puro dalla strage. E perchè non si potesse mai più far 
cessare questa legge , ma restasse immobile iu ogni ar« 
venire ^ si stabili che ì Romani giurassero tutti co’ riti 
santi dì osservarla ' essi , ed i posteri loro perpetuamente. 
E si aggiunse ai giuramenti la preghiera , che gli Dei 
superni , ed inferni fossero propizj a' chiunque favoriva 
la legge , ma contrarj a quanti la violavano, come coo- 
taminati di delitto gravissimo. Da indi sorse ne’ Romani 
il-cosWme che persevera pur ne’ miei giorni, di riguai^ 
dare le persone de’ tribuni come sacrosante. 

XC. Concordato dò, fecero un aitare su le dme 
della montagna ovo s’^erano accampati, e lo denomina» 
rono nell’ idioma, loro , l’altare di Giove < terribile , dal 
lerrore che allora. tutti comprese, E fatti a questo Dio 
de’ sagribc^ , e reuduto sacro il luogo che aveali accolti , 
ritornarono coi deputati alia patria. Quivi offerti sacn» 
fizj di ringraziamento a* Numi di Roma persuasi i pa» 
trisy a confermare co’ vóti proprj i loro magistrati, e 
contentatine ; pregarono * ancora il Senato a concedere 
loro dì nominare t^i anno due plebei, li quali* mini» 
strassero ai'- tribuni in ciò che aveano «di bisogno , giu- 
dicasser le cause erano questi incaricati , e tenessero 


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3lO DELLE AKJ'ICHITa’ ROMANE 
cura de’ templi , de' pubblici luoghi , e deil' abbondanM.' 
Compiaciuti in questo ancora dal Senato crearono i tni< 
nistri dei tribuni , chiamandoli colleghi , e giudici. Ora 
però con patrio vocabol dall’ una delle incombenze eh» 
adempiono , si chiamano curatori de’ templi , e di altri 
luoghi (i); nè hau più come prima un potere comiàia* 
sario di altri; ma vegliano in cure varie, e gravi, » 
somigliano' in gran parte agli abboudanzieri de’ GrecL 
XCI. Poiché furono i ricomposte le cose, e Roma vi« 
desi nuovamente coll’ ordine antico ; i capitani ank>la<« 
rono un eserrito contro i nemici di fuori , mostrando* 
visi prontissimo il popolo , tanto che in picciolissimo 
tempo si apparecchiò per la gnerra.,,1 consoli , come è 
loro costume , decisero «olle sorti sul comando; Spuri0 
Cassio ehbe in sorte la cura di Jloma , e vi rimase cmi 
parte sufSeiente di truppe scelte. Postunùo Cominio 
mise in campo le altre composte di Romani d^ui , e 
di alleati Latini non pochi. Deliberato di attaccare, i 
Vobei innanzi tntti , prese a . prim’ impeto Lo^gola , 
una loro città. Ben cercarono cohtro che vi erano ilio* 
strarvisi con qualche valore;. e spedirono fuora un eser> 
cito su la fiducia di respingere i nemici che si avan* 
zavano ; ma costretti bruttamente a fuggire^ prima di 
dare alcuna nobile prova , nemmen fecero punto di ger 
nevoso combattendo poi su le mura. Adunque i Ro> 
mani in un sol gioruo s’ impadronirono sehzà 
tere dei lor territorio , e , ne presero a forza la citti , 
nè con molto travaglio. Il comandante Romano concedè 
' . .. 'V 

(t) Vuoi' (lire Edile. Era qacsto vócaboìo proprio d«’ RoroasK' 


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LIBRO VI. 3 I I 

che le miline si approp lasserò le robe invase; e presi» 
diala la città , ne andò col resto deli’ esercito contro 
l'altra città de’ Volsci , chiamata Polusca, non molto 
lontana da Longola. Nè osando alcuno di uscirgli in- 
contro , percorse facilissimamente U campagna , e ne 
investi le maia. E datisi i soldati , chi a spezzare le 
porte, chi a scalare le mura ed ascenderle; Polusca 
anch’essa fu presa nel giorno medesimo. Il console scel- , 
tivi alcuni pochi, autori della ribellione, li fe’ morire : 
e multati gli, altri in danari, e spogliatili delle arme; 
gli astrinse a dipendere in avvenire dai Romani. 

XCII. Lasciato anche in guardia di <|uesta un ' pio 
eiolo presidio , andò nei prossimo giorno coll' esercito 
su Coriola , città molto considerabile; come antica ma» 
dre de’ Volsci. Stava quivi raccolta milizia potente : nè 
le mura eran facili ad espugnarsi , avendovi i cittadini 
apparecchiata da gran tempo la guerra. Pertanto dan» 
dovi l’ assalto fino alla sera ; ne fu respinto con per» 
dervi molti de’ suoi. Ma nel prossimo giorno tenendo 
io pronto arieti , vinee , e scale ; preparavasi di violen- 
tarla con tutte quasi le forze. Ascoltando però che gli 
Anziati come congiunti di lei verrebbero, anzi già erano 
in via con armata copiosa per soccon*erla ; divise le 
schiere deliberato di combattere con metà sa le mura 
lasciatovi Tito Largio per capitano, e di traversare col- 
r altra'^i sussidj ohe si avanzavano. Perciò si fecero in 
tin giorno due combaltimeotl. La vittoria si derise in 
ambedue pe’ Romani adoperandovisi tutti ardentemente; 
ma uno infra gli altri fecevi prove di valore maggiori 
di ogni dire , e di ogni credere. Discendeva costui da 


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3ia DELLB antichità’ ROMANE 
siirps patrizia, non ingloriosa per antenati; e Cajo Mar- 
zio erane il nome. Sobbrio nel vivere suo quotidiano 
lampeggiava tulio di liberi genj. L’ ordiue della battaglia 
fu tale in ambe le parti: Largio insieme col di cavando 
1’ armata la recò fin sotto Coriola , investendone in più 
luoghi le mura. Ringrandivansi i Corioicsi pel sqtx:orso 
degli Anziati , confidando che giungerebbe loro indi a 
non molto : e spalancate tutte le porte piombarono in 
lòlla contro ai nemici. Ne sostennero i Romani il primo 
impeto, empiendoli di ferite : ma forzati poi pel cre- 
scere continuo degli assalitori si ripiegarono giù per 
luoghi declivi. Marzio 1’ anzidetto , veduto questo , si 
fermò con pochi , e ricevè lo scontro di un corpo ne- 
mico. Prostratine molti ; gli altri rinculavano e fug- 
givansi alla città. Non pertanto costui volava su le 
orme loro , e nc uccideva , invitando via via li Ro- 
mani dispersi a rivolgersi , e confidare, e seguirlo. Ver- 
gognatisi questi di sestessi e rivoltisi finalmente , si 
gettarono su gli avversar) ferendo , e incalzando : tanto 
che tra poco tempo fugarono lutti il loro competitore', 
e furono sotto le mura. Marzio , baldanzosissimo già nel 
pericolo , si spinse anche più oltre. Giunto alle porte 
cacciovvisi insieme co' fuggitivi. Penetrativi con esso 
molti altri , faceansi in più parli della città vicendevoli 
e grandi uccisioni ; altri combattendo in su lo stretto 
delle strade , altri nelle case che s’ invadevano. Coope- 
ravano ai lor cittadini le femmine, lanciando- da’ tetti le 
tegole su’ nemici. E talli fin dove avean forza e potenza, 
soccorrevano pieni di ardore la patria. Non resisterono 


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LIBRO VI. 3 1 3 

però lungo tempo ; violentati a rimettersi alfine ai vin- 
citori. Presa in tal modo Coriola, gli altri Romani si 
diedero e per gran tempo a predare una città espu- 
gnata , intenti a profittarne , essendovi roba in copia e 
schiavi. 

xeni. Marzio il primo che avea tenuto fronte ai 
nemici , Marzio che crasi nobilitato più che tutti i Ro- 
mani nell’ assalto , e dentro le mura ; brillò più ancora 
nell’ altra battaglia con gli Anziati. Mon reputò già egli 
che fosse da non meschiarvisi : ma vinta appena la città, 
menando con sè pochi idonei a seguirlo vi accorse. Tro- 
vate le milizie già schierate e pronte per venire alle 
mani , egli primo annunziò tra suoi la presa della città, 
dandone per segno il fumo che alzavasi in copia dalle 
case incendiate ; e ben tosto , pregatone il console , n 
mise contro a’ nemici più formidabili. Alfine, dati i 
segni della battaglia , primo si lanciò su’ nemici che gli 
erano incontro ; ed uccisine molti di quelli che veni- 
vano seco alle mani , si cacciò nel mezzo dell’ armata. 
Non reggevano gli Anziati a combattere di piè fermo 
con lui ; ma dove si presentava , levavansi di ordinanza, 
e folti gli si giravano intorno e lo saettavano, ritiran- 
dosi o seguendolo secondo che si moveva. Postumio 
avvedutosi di ciò , temendo che il valentuomo lasciato 
solo non patisse disastro , spedi per soccorrerlo giovani 
sceltissimi e fortissimi. Ristrettisi, piombarono questi sui 
nemici che non tennero fronte , ma fuggirono. Inoltratisi 
trovarono Marzio pieno di ferite , e molti intorno di lui 
morti 0 semivivi. Allora preso Marzio per duce ne an- 
darono tutti contra quelli ghe serbavano un ordine an- 

piONiar, tomo fi. w* 


X 


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3i4 DELLE Antichità’ iioMANE. 
cora , uccidendo chi resisteva , e malmenandoli come 
schiavi. Furono per tale battaglia degni di ricordanza 
anche altri romani , e principalmente i difensori di Mar- 
zio : a tutti però Marzio precede come autore incon- 
trastabile della vittoria. Fattasi notte i Romani superbi 
di sé stessi per la vittoria , tornarono alle trinclere cou- 
duccndovi molti prigionieri dopo avere ucciso pur molti 
degli Anziati. 

XCIV. Nel giorno seguente Postumio convocando l’e- 
aercito vi espose tra le lodi le belle azioni di Marzio , 
e lo condecorò di una corona in premio dei valor suo 
e segno di riconoscenza per l’ una c 1’ altra battaglia. 
Lo regalò di un cavallo marziale , fregiato come quello 
di un capitano; di dieci schiavi a scelta sua, di argento, 
quanto potesse portarne egli stesso , e di molte altre 
vaghe primizie della preda. Acclamando intanto tutti 
oon voci di encomj e di riconoscenza j Marzio fecesi in- 
nanzi e disse che rendea grazie vivissime al console e 
agli altri per gli onori che gli compartivano: che lorv- 
tono però dall’ abusarne teneasi pago del solo ca- 
vallo j per la. beltà de’ suoi fregi , e di un prigio- 
niero solo , già ospite suo. Le milizie che lo avevano 
prima ammirato per la sua maguanimità , molto più lo 
ammirarono ora pel disprezzo delle ricchezze , e per la 
moderazione del cuore in tanta sua buona sorte. Fu 
perciò cognominato il Coriolano , divenendone insignis- 
simo infra tutti del suo tempo. Terminatasi cosi la bat- 
taglia cogli Anziati , le altre città de’ Volsci , e quanti 
pensavano come queste deposero la nimicizia pe’ Romani. 
E chi già era su 1’ arme , e chi vi si apparecchiava , 


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LIBRO VI. 


3i5 

tutti si racchetarono. Postumio dimostratosi benigno con 
tutti , si ricondusse in patria , e disciolse 1' esercito. 
Cassio r altro de’ consoli rimasto in Roma oonsagrava 
intanto il tempio di Cerere , di Bacco , e di Pi'oserpina 
situato a’ confini del circo massimo , appunto sopra le 
mosse. Promesso questo pel bene della repubblica in 
voto a que’ Numi da Aulo Postumio il dittatore quando 
era per combattere co’ Latini , e dopo la vittoria facen- 
dosi per decreto del Senato erigere tutto colle prede } 
pigliava allora finalmente il suo termine. 

XCV. Si fecero nel tempo stesso nuovi accordi e giu- 
ramenti con tutte le città Latine per la pace e per l'a- 
tnicizia ; perchè non si erano punto sommosse ne’ le#ipi 
della sedizione , perchè notoriamente si rallegravano del 
ritorno della plebe , e perchè si erano vivissìmamente 
prestate per la guerra contro de’ popoli ribellatisi. Fu 
segnato ne' patti : tra Romani e tutte le città de’ La^ 
tini sarà pace vicendevole finché il cielo e la terra 
avrà lo stato medesimo: nè faranno guerra fra loro; 
nè la chiameranno gli uni su gli altri da altre re- 
gioni , nè le daranno Ubero il passo : gli uni soccor- 
reranno gli altri con tutte le forze nelle guerre , e 
divideranno ugualmente le spoglie e le prede delle 
guerre comuni. I giudizj de’ contratti privati si com- 
piano tra dieci giorni ne’ ùibunali della gente ove 
accadde il contratto : e niuho possa aggiungere o. to- 
gliere a questi trattati senza il voto dei Romani , e di 
tutti i Latini. Stabilite tali condizioni fra loro , i La- 
tini ed i Romani le giurarono su le sante cose ad una 
ad una. Il Senato decretando che si porgessero sagrifizj 


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3i6 DELLE Antichità’ romàne 
di ringraziamento agl’ Iddj per la riconciliazione col 
popolo , aggiunse la terza alle ferie chiamate Latine che 
erano dne. Istituitane la prima da Tarquinio re quando 
vinse i Tirreni , il popolo vi uni la seconda , quando 
rendè libera la sua patria cacciando i tiranni ; ed ora 
vi si appose la terza per lo ritorno del popolo segre- 
gato. Pigliarono la presidenza e la cura de’ sagrifìzj e 
de* spettacoli soliti di farsi in esse i ministri de’ tribuni; 
quelli che avendo ora come ho detto il poter degli 
edili , sono dal Senato privilegiati della pretesta , della 
sedia curule , e di altri regj ornamenti. 

XCVI. Non molto dopo tal festeggiamento cessò di 
vivere Menenio Agrippa 1* uno de’ consoli , quegli che 
avea vinti i Sabini , menandone un trionfo nobilissimo , 
e pe’ suggerimenti del quale il Senato concedette a’ se- 
gregati il ritorno , ed i segregati deposer le armi. Roma 
ne fece a pubbliche spese gli onori estremi , dandogli 
bellissima e splendentissima sepoltura : imperocché un 
tanto valentuomo non avea sufficienza per un trasporto 
e per una sepoltura magnifica , tantoché tenutone fra 
loro consiglio , pareane ai tutori de’ figli di lui che do- 
vessero esportarlo e tumolarlo umilmente , come un al- 
tro qualunque della moltitudine. Non però lo permise 
il popolo : imperocché li tribuni convocandolo a parla- 
mento , e ripetendo le tante belle virtù guerriere e po- 
litiche dell’estinto, e la frugalità, e la semplicità sua 
nel vivere , e soprattutto celebrandone con lungo elogio 
la superiorità sua contro le ricchezze ; rilevarono come 
saria bruttissima cosa che un tal uomo avesse per la 
povertà non distinti ma tenui gli ultimi ossequj. Pertanto 


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I.TBBO VI. 317 

esortavano il popolo a sobirae la spesa , e contribuirvi 
come ordinassero. Piacque all’ adunanza il consiglio ; e 
recate ben tosto da tutti le tasse prescritte , se ne rac* 
colse somma copiosa. Il Senato, risapendolo, tenne ciò 
come infamia. Giudicò non essere da tollerare ebe il 

è 

piò insigne de’ Romani mendicasse gli ultimi onori dai 
privati : e decretò che si facessero col pubblico erario ; 
imponendone ai questori la cura. E questi pattuendo 
tutto a gran somme , ne fecero trasportare con ricchis- 
sima gala il cadavere ; e dispensando quant’ altro esige- 
vasi a magnificarne le glorie, io seppellirono in fine 
come i meriti dimandavano dei valentuomo. Il popolo , 
emulo del Senato per onorarlo, non sostenne di ripren- 
dere il denaro contribuito , sebbene si volesse a lui ren- 
dere : ma diedelo in dono ai figli dell’estinto per pietà 
su la indigenza loro, affinchè non si umiliassero ad arti 
indegne della virtù del padre. In quel tempo si fece 
da' consoli il censo ; e le persone numerate si trovarono 
più che cento dieci mila. E tali sono le cose operate 
da’ Romani in questo consolato. 


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3i8 


DELLE 


ANTICHITÀ ROMANE 

D 1 

DIONIGI ALIGARNASSEO 


LIBRO SETTIMO. 


I. X RENDENDO la consolar dignità Ceganio Macerino, 
e Publio Minucio (i) fecesi in Roma penuria somma 
di grano , come un seguito della sedizione. Imperocché 
il popolo si era segregato dai Patrizj circa 1’ equinozio 
autunnale , appunto cominciandosi la stagione del semi- 
nare: dond’è che i cultori, abbandonate le campagne, 
eransi concentrati , i più agiati co’ Patrizj , e li merce- 
narj colla plebe , tenendosi gli uni lungi dagli altri Gn- 
chè la città si riunì, paciGcatasi non molto prima del 

(l) Anni di Roma a6j secondo Catone, a64 secondo Varrone, 
4 qo avanti Cristo. 


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DELLE Antichità’ romane libro vii. 3 19 

solstizio ioveroale. In tutto quell’ intervallo consuman- 
dosi la stagione delle sementi , la campagna si restò 
senza chi la curasse ; male che durò tuttavia molto tem- 
po ; non essendo facile ripigliarne i lavori ai villani che 
vi tornavano , danneggiati pe’schiavi dissipatisi , e pe’be- 
stiami distrutti co’ quali la coltivavano, né fomiti mollo 
di semi , nè di alimenti per l’ anno appresso. Il Senato 
ciò conoscendo spedi de’ commissari nell’ Etruria , nella 
Campania , e nell’ agro detto Fomentino , affinchè vi 
comperassero il più che poteano di frumento. Furono 
spedili in Sicilia Publio Valerio e Lucio Geganio , Va- 
lerio il figlio di Poplicola , e Geganio il fratello del- 
r uno de’ consoli. Stavano ivi allora de’ tiranni per le 
città , e di essi era il più cospicuo Gelone , figlio di 
Dinomeno , fresco successore d'Ippocrate fratello suo (i), 

(i) I critici lian già notato che qui Dionigi prencle un equivoco. 
Gelone non era fratello d‘ Ippocrate , e questi non regnava in Si- 
racusa ma in Gela. Ansi propriamente Gelone fu 1’ usurpatore più 
che il successore ilei regno d’ Ippocrate. Motto questo , ricusando 
i Gelesi di ubbidire ai figli di lui ; Gelone datosi a difendere i se- 
condi , vinse i primi ed invase il trono di Gela ; ma egli vi presentò 
le virtù più desiderate ne’ monarchi. Non molli anni dopo, nata se- 
ditione in Siracusa , e cacciatine i Gamori ; Gelone rimise questi in 
patria e si attribuì lo scettro ancora di Siracusa. Egli diede una 
disfatta famosa in Sicilia ai Cartaginesi nel giorno stesso che Leo- 
nida si segualo contro i Persiani alle Termopile. A lui succedette 
Jerone tanto lodato da Pindaro : a Jerone succedè Trasibulo che 
perdette, il regno, fuggendo in Locri. Siracusa tornò libera ; ma dopo 
circa 6 o anni vi si riprodusse la tirannia dei Oionisii e quindi l'altra 
di Agalocle. Finalmente un altro Jerone disceso dalla stirpe di Ge- 
lone ricuperò il trono. E questo secondo h quel Jerone insigne per 
I' amicixia de' Romani t su l’uno e su 1’ altro Jerone può consultarsi 
Pausania HAirscà'r hb. a. 


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320 DELLE Antichità’ romane 
e non D!oDÌgi Siracusano , come narra Licinio c Gellio 
e molti altri autori Romani , non solleciti già , come 
la cosa stessa dimostralo, dell’ esame diligente dei tem- 
pi , ma inconsiderati nello scriverne ciocché alla pri- 
ma ne seppero. Imperocché la legazione deputatavi fece 
vela per la Sicilia nell’ anno secondo della olimpiade 
settantesima seconda , essendo Ibrilide arconte di Ale- 
ne t diciassette anni dopo la espulsione dei re , come 
si conviene tra questi e quasi tutti gii altri scrittori. Al* 
tronde Dionisio il Seniore investendo oltantacinque anni 
dopo quest’ epoca li Siracusani , sen fece tiranno Tanno 
terzo della olimpiade novantesima terza , essendo ar- 
conte in Atene Callia successore di Antigene. Si con- 
donerà forse agli storici se sbagliano di alcuni pochi 
anni , dbpoiiendo memorie antiche e diuturne ; non però 
mai si permetterà che deviino dalla verità per due o 
tre generazioni intere. Sembra che il primo il quale 
cosi peccò nella sua cronologia , seguito poi da tutti gli 
altri , trovasse ue’ vecchi annali solamente , che sotto 
questi consoli furono spediti deputati in Sicilia per com- 
perarvi de’ grani , e che ne tornarono con portarne 
quanto piacque al tiranno concederne ; e che poi non 
cercando più oltre ne’ greci monumenti chi fosse questo 
tiranno lo supponesse , come vennegli a melate , Dionigi, 
senza considerazione ninna. 

II. I deputati navigando verso la Sicilia, colti nel 
mare dalla tempesta , e girati a forza intorno dell’ iso- 
la , non giunsero che tardi dove era il tiranno : e sop- 
portato ^quivi l’inverno, ripassarono a primavera nell’Ita- 
lia con viveri copiosi. I commissarj spedili a’campi Po- 


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LIBRO VII. 32 1 

raentioi per poco non fnronO uccisi da’ Vobci, come spie, 
per calunnia degli esuli da Roma : e salvatisi , la buona ’ 
mercè degli ospiti loro , quantunque a gran stento , tor- ’ 
narono a Roma senza danari e senza l’intento. Occorse' 
pri infortunio anche agli altri mandati a Cuma d’ lu- 
iia ; imperocché vivendo ivi molti Romani, scampati,* 
perchè fuggiti con Tarqninio dall’ ultima battaglia ; que-' 
sti si fecero su le prime a chiedere dal re del luogo , 
pr ucciderli , qne’ deputati : e respintine , dimandarono 
di ritenerli almeno con» ostaggi , finché riavessero i loro 
beni dalla città -che gli aveva deputati. Diceano che erano 
que' beni confiscati ingiustamente, e pensavano che il 
re stesso del luogo dovesse giudicar di tal causa. In quel 
tempo era tiranno di Cuma Aristodemo figlio di 'Ari- 
slocrate , uomo non ignobile di lignaggio. Chiamato 
da’ cittadini il Molle , fu col volger degli anni noto prin- 
cipalmente pel soprannome , sia che si ammorbidisse fin 
dalla fanciullezza , sia che prgesse in sé gli usi di una 
femmina come narrano alcuni , sia che mite fosse pr 
indole e dolce nell’ira, come altri pur notano (i). Ed 
io non credo fuor di proposito sospendere alquanto le 
cose Romane, e dire di lui brevemente come si accinse 
alla tirannide , per quali vie vi pervenne , e ne resse il 
comando , e come vi peri finalmente. 

(t) Plolarco riprende chiunque allude a questi siguilìcali ; e dice 
che fu chiamato Malaco perchè giovinetto ancora ebbe gran pregio 
di fortexxa ua barbari, cioè quasi fosse adulto ansi tempo. Cataub. 
Questa interpretaxione è ben diversa da quella di Molle. Forse colla 
voce Malato si alludeva ad ambedue li sigailìcati. Qui par che sL 
alluda a quello di Molle. 

•uiomer , tomo it. ' a> 

I 

I 


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3aa Delle antichità’ romane 
ni. Volgendo la olimpiade sessantesima quarta , in-' 
tanto che Milziade 'era arconte di Atene, i Tirreni dei 
contorni del golfo Jonio , cacciati poscia di là dai Galli, 
e gli Umbri con essi , e li Dauuj , ed altri barbari in 
copia tentarono distruggere Cuma , Greca città tra gli 
Opici fondata dagli Eretrj e da’ Calcidesi (i) , senz’ al- 
tra vera cagione, se non che ne odiavano la prosperità. 
Imperocché Cuma famosissima di quei tempi in tutta 
r Italia per la ricchezza , per la potenza , e per molti 
altri beni , avea le terre le più fruttuose della Campa- 
nia , con porti utilissimi presso al Miseno. Invidiandone 
i barbari il si gran bene, le mossero incontro con di- 
ciotto mila cavalli e con cinquecento mila fanti (a), e 
non meno. Accampatisi questi non lungi dalla città surse 
un portento meraviglioso, quale non ricordasi accaduto 
mai nè tra’ Greci dovunque, nè tra’ barbari. I fiumi 
che scorreano presso gli alloggiamenti ( Volturno no- 
minavasi 1’ uno , e l' altro il Ciani (3) ) lasciando lo 

(i) Gli Eretrj ed i Calcidesi erano popoli dell’ Eukea o Ne^o* 
ponte. Elrelrìa era distante venti miglia da Calcide. Vi erano dus 
altre Eretrie. Vedi tom. i , la not. al S 4^» parla della 

prima. 

(a) Par troppo torrente contro di una città : forse vi à d>aglio nei 
numeri . 

(3) Vi sono altri lìami di pari nome. Questo à quello additato 
da Virgilio 1. a, Georg. , 

Vicina Veitvo 

Ora jugo ,el vaeutt Ctanius non aeqmt acervis. 

Antonio Boudrand: (vedi novum Lexicon Geographic.) chiama que- 
sto fiume Agno ; e dice che passa presso di Acerra , di Aversa e 
Mintomo. Forse il Ciani h quello stesso fiume che ora chiamasi 
JPatria nelle catte geografiche. 


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MBKO VII. 32.3 

scendere lor natarale » si ripiegarono , rifluendo gran 
tempo dall’ imboccatura alle fonti. Vista la meraviglia , 
fecero core i Cnmani di piombare su’ barbari , come se 
i Numi fossero per deprimere l’altezza di quelli , e per 
sublimare loro che depressi ornai ne pareano. Pertanto 
dividendo in tre corpi la gente militare , con uno guaiw 
darono la città , con altro le navi , e coi terzo , «:hie- 
ratoio avanti le mura , aspettarono l’ inimico che inoU 
travasi. Seicento erano i cavalli Cumani, e quattro mila 
cinquecento i fanti : pure si pochi di numero tennero 
fronte a tante migliaja I 

IV. Ck>me i barbari seppero che eransi appareo:hiati 
per combattere , dato un grido , coi*sero in barbara for> 
ma , disordinati e misti , cavalli e fanfl , appunto per 
annientarli tutti in un colpo. Il luogo, dove innanzi la 
città si affrontarono, era una valle angusta , rinchiusa da 
lagune , e da’ monti , propizia al valor de’ Cumani , ma 
nemica alla fdUa de’ barbari. Dond’ è che, travolgendosi 
e calcandosi questi , gli uni gli altri in più luoghi , e 
principalmente su pel fango intorno la palude , si di- 
strussero in gran parte fra loro , senza pur venire aUe 
mani colia Greca milizia di Cuma : e quell’ esercito ap- 
piedi si numeroso , e disfatto , e sbaragliato da sestesso, 
fini qua e là fuggitivo , senz’ avere operato nulla di 
generoso. Li cavalieri però si avventarono , e molto tra- 
vagliarono i Greci : ma non potendo circondar l’ inimico 
per r angustia del loco , e temendo i destini che com- 
batteano per Cuma colle piogge, co’ tuoni, co’ fulmini , 
si diedero anch’ essi alla fuga. In questa battaglia i ca- 
valieri Cumani militarono tutti luminosamente, ricono- 


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3a4 delle Antichità’ bomane 
sciutine quindi come autori della vittoria. Si distinse so»' 
pra tutti Aristodemo cTiiamato Màlaco ; imperocché solo 
opponendosi , uccise il capitano nemico , e molti valo- 
rosi. Finita la guerra porgeansi sagriGzj di ringrazia- 
mento ai numi , e davasi magnifica sepoltura agli estinti 
in battaglia : ma quando si ebbe a decidere a chi si 
dovesse la corona , come al più forte ; assai se ne di- 
sputò. Li giudici più ingenui , e con essi anche il po- 
polo , voleano che ad Aristodemo si concedesse ; ma i 
più potenti , e con loro tutto il Senato , ad Ippo'me- 
donte , duce de’ cavalieri. Di que’ tempi era in Guma 
il governo degli ottimati , nè molto il popolo vi potea : 
ma natavi sedizione appunto per tal controversia , i se- 
niori temendo che tanta ambizione finisse colle armi e 
colle stragi , persuasero ambedue li partiti di dar "pari 
onore all' uno e all’ altro di que’ valorosi. Da quell’ ora 
divenne Aristodemo Malaco il protettore del popolo : e 
poiché ‘si avea procacciato una persuasiva nei discorsi 
di Stato , commovea con questa la moltitudine , allet- 
tando lei con stabilimenti gradevoli , beneficando coll’aver 
suo molti ' de' poveri , e rimproverando i potenti che si 
appropiavano ciocché era del comune. Dond’ é che ne 
divenne ai primi degli ottimati molesto e terribile. 

, V. Venti anni dopo la battaglia co’ barbari vennero 
ambasciadori dalla Riccia co’ simboli di pace al Cumani 
per supplicare che li soccorressero nella guerra contro 
i Tirreni. Imperocché Porsena re di questi dopo la pace 
con Roma dando metà dell’ esercito , come esposi ne’li- 
bri antecedenti, ad Arunte suo figlio, lo aveva inviato, 
voglioso che n’era, ad acquistarsi un dominio : e costui 


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LIBRO VII. 3a5 

di quel tempo appunto assediava gli Arieini rifugiatisi 
tra le ;nura , sulla idea di prenderne tra non molto la 
città colla fame. A tale ambasceria li primi degli otti- 
mati odiando Aristodemo e temendo che non causasse 
alcun male al governo ; concepirono di avere il buon 
punto di levarsel d’ intorno con delicate maniere.v Per- 
suadendo il popolo a spedire due mila per soccorso de- 
gli Aricini , e nominandone capitano Aristodemo come 
il più insigne nelle armi, fecero poi tal maneggio , <>nde 
iusingarsi che colui perirebbe o per le battaglie co’ ne- 
mici , o per le fortune di mare. Imperocché resi dal 
Senato arbitri di scegliere quei che dovrebbero andare 
di rinforzo , non v’ inchiusero alcuno de’ più famosi e 
più riguardevoli ; ma reclutando i più poveri e più scel- 
lerati .da’ quali aveano sospettato sempre delle sommosse, 
ordinarono con questi l’ armata , e riducendo in mare 
dieci navi antiche , pessime a correr le acque , e dan- 
done il comando a Cumani poverissimi , ve la soprap- 
posero , con minacciare di morte chiunque ne disertasse. 

VI. Aristodemo , dicendo unicamente che non igno- 
rava le mire degli avversar) che in apparenza Io man- 
davano per soccorrere , ma in realtà per farlo soccom- 
bere ; assunse il comando dell’ esercito. E facendo ben 
tosto vela co’ deputati Aricini , e superando a stento 
e con pericolo il tratto interposte, di mare , approdò sui 
lidi più prossimi dell’ Aricia. E lasciata guarnigione 
sufBciente alle navi , e fatto nella prima notte il cam- 
mino il quale vi restava , che certo non era lungo , si 
presentò su 1’ alba inaspettato agli Aricini. Accampatosi 
presso di loro , e persuasi gli assediati di uscire all’ a- 


\ 


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3a6 DELLE Antichità’ romane 
perto sfidò ben tosto i Tirreni a battaglia. Schieratisi 
ed attaccatisi , gli Aricini resisterono piòciolo' teinpo , e 
piegarono e rifuggironsi in folla tra le mura. Aristodemo 
però coi pochi scelti Gumani che avea d’ intorno , so~ 
Bienne tutto il forte della battaglia , ed uccisone di sua 
Diano il duce , mise in fuga i Tirreni , riportandone una 
vittoria nobilissima. Ciò fatto , e magnificato dagli Aricini 
con doni copiosi rinavigò speditamente verso Cuma per 
essere egli stesso nunzio della vittoria. Teneano dietro a 
lui molte barche Aricine colle spoglie e coi schiavi presi 
ai Tirreni. Avvicinatosi a Cuma e messe a proda le 
navi , concionò tra 1’ armata. E molto accusando i capi 
della città , e molto encomiando quelli che si erano se- 
gnalati nella battaglia, e dispensando argento e parteci» 
pando a ciascuno i doni degli Aricini; pregò che di 
tali beneficenze si ricordassero , quando sbarcherebbero 
nella patria , e lo fiancheggiassero se mai gli ottimati 
gli creavan pericolo. Confessandosi tutti obbligatissimi 
per la salvezza insperata che aveano da lui ricevuta , 
come perchè tornavano colle mani non vuote in fami- 
glia ; e protestando che darebbero a' nemici anzi sestessi 
che lui ; Aristodemo , rirtgrazionneli , e sciolse 1’ adu- 
nanza. Quindi chiamandone al suo padiglione i più ma* 
liziosi e prodi , e guadagnandoli tutti co' doni , co' bei 
discorsi, e colle spc>anze lusinghiere, li fé* pronti a 
mutare il governo che vi era. 

VII. Presi questi per ministri e per combattitori , 
istruitili parte a parte su ciò che avessero a fare , e 
messi in libertà gli schiavi che conduceva per obbligarsi 


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LIBRO VII. 


327 


ancor essi, viaggiò piò oltre colle navi coronate (i) 6no 
ai porti di Cuma. I padri e le madri de’militari , tutto 
il parentado, i Ogli insieme e le mogli, venutili ad in- 
contrare mentre scendevano a terra , lagrimavano , gli 
abbracciavano ,. li baciavano , li chiamavano con teneris- 
simi nomi. Tutto il resto della moltitudine urbana rice- 
vette fra tripudj ed acclamazioni il capitano , accompa- 
gnandolo fino alla casa. Di che dolenti i capi della cittò, 
quelli principalmente che gli aveano affidato 1’ armata e 
ne aveano con altri modi tramato la rovina, facean 
tristi colloqui su T avvenire. Aristodemo lasciati decor- 
rere alquanti giorni onde rendere agi’ Iddj li suoi voti ^ 
e ricevute intanto le sue navi da carico rimaste indietro, 
alfine venutone il tempo , disse voler esporre in Senato 
le cose operate nella guerra e mostrargli le prede ripor- 
tatene. Riunitisi in numero i primarj , ed i magistrati 
nel Senato, egli fattosi innanzi prese a dire e narrare 
tutte le cose operate nella battaglia : quando gli uomini 
apparecchiati da lui per 1* impresa , accorsi in folla nel 
Senato co' pugnali sotto gli ‘ abiti , vi uccisero tutti gli 
ottimati. Si diedero allora a fuggire e correre , chi alle 
proprie case, chi fuori delia città, quanti erano al Foro, 
eccetto i complici del disegno , i qnali avevano occupato 
la fortezza , il porto , ed ogni luogo monito delia città. 
Nella notte seguente sprigionando quanti vi erano ( e 
molti ve ne erano ) dalle pubbliche carceri , destinati 
alla morte, ed armandoli con altri suoi amici, tra* quali 


0 

(t) In segno della -riltoria riportala. G>si ae’trionfì ai coronavano 
ancora li fasci. 


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3a8 DELLE antichità’ romane 
erano gli Schiavi Tirreni , ne fece un corpo di guardia 
per la sua persona. Fatto giorno, convocato il popolo 
a parlamento , ed accusativi a lungo gli uccisi , disse 
che erano stati meritamente % puniti ; avendo per tante 
volte insidiata a lui la vita : ma che , quanto agli altri 
.cittadini , egli darebbe loro la libertà , la eguaglianza 
.dei diritti , ed altri beni copiosi 

Vili. Ciò dicendo , ed elevando tutto il popolo a 
speranze meravigliose , stabili due regolamenti , pessimi 
tra tutti i regolamenti ^ ed iniziativi di ogni tirannide , io 
dico la nuova division delle terre e la remissione dei debiti. 
Figli promettea provvedere su l’una e l’altra cosa, purché 
fosse eletto comandante assoluto , finché il comune fosse 
in salvo, e v’ordinassero uno stato popolare. Con piacere 
ud) la plebe e tutti i peggiori che avrebbonsi a ghermire 
i beni degli altri: ed egli, avutone un potere indipen- 
dente , aggiunse un nuovo decreto col quale deludendo 
ancor essi , alfine tolse a tutti la libertà. Imperocché 
fingendo temere torbidi e sedizioni de’ nobili contro dei 
.plebei per le assoluzioni dai debiti e per le divisioni 
nuove de’ terreni , disse che a precludere una guerra 
ed un eccidio civile , trovava un solo rimedio, cioè che 
, tutti prima di ridursi a tal male , recassero dalle loro 
case le arme , e le consacrassero agl’ Iddj per averle nel 
bisogno pronte contro i nemici esterni se ne venivano , 
e non contro sestessi: pertanto esser bonissima cosa che 
stessero quelle presso de' Numi. Persuasi di tanto i Cu> 
mani ; egli nel giorno stesso ebbe le armi di tutti , e 
negli altri appresso fe’ cercare le case di • ognuno , \ic- 
cldendovi molti buoni , sul pretesto che non avessero 


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LIBRO VII. 


3‘29 


portate ai Numi tutte le armi. Dopo ciò fortificò la ti- 
rannide sua con tre generi di guardie : il primo fu di 
que’ vilissimi e reissimi cittadini co’ quali tolse 1’ auto- 
rità degli ottimati : il secondo fu de’ servi indegnissimi 
renduti liberi da esso perchè aveano trucidati i loro pa> 
droni : ed il terzo furono i militari assoldati da’ barbari 
più inumani. Erano questi nommen di due mila , e va- 
lidissimi più che gli altri nelle arme. Tolse le immagini 
degli uccisi da ogni luogo sacro e profano supplendovi 
in vece loro le sue. Le case , i campi , ogni avere di 
questi lo donò tutto ai complici suoi nel preparargli la 
corona , riservando per sè l’ oro e 1’ argento , e quanto 
altro è base della tirannide. Ma li doni più numerosi e 
più grandi li profuse tra gli assassini dei loro padroni ; 
i quali chiesero perfino in moglie le donne e le figlie 
de’ padroni medesimi. 

IX. Quantunque però niente avesse in principio cu- 
rata la stirpe virile degli uccisi , alfine si accinse a ster- 
minarla tutta in un giorno , sia che per un qualche 
oracolo , sia che per computi verisimili concludesse che 
perpetuava con questa a sestesso uno spavento non pic- 
colo. Ma perciocché vivamente nel distoglievano quelli (i) 
presso a’, quali dimoravano i figli e le madri , egli vo- 
lando concedere loro* un tal dono, gli assolvè, sebbene 
contro sua voglia , dalla morte. Per cautelarsi però da 
loro sicché congiurandosi non .insorgessero contro il suo 
regno ; comandò che uscissero tutti dalla città chi verso 
r uno e chi verso l’ altro luogo : e vivessero per le 


(i) I Saidliti del tiraoDu alli quali egli stesso le area mariiate. 


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33o DELLE Antichità’ romane 

campagne senza istruzione e coltura , propria di liberi 
giovinetti , con pascer le greggi o con altri campestri 
esercizi , minacciando di morte chiunque di loro in città 
fosse preso. Cosi quelli , abbandonati I patri > so- 
steneansi come schiavi per le campagne, servendo agli 
uccisori medesimi de’ padri loro. E perchè niente) pi& 
ci avesse di virile o di generoso prese ad effeminare 
colle Istituzioni sue tutta la gioventù Cumana , toglien- 
dole I ginnasi e gli esercizi militai , e variandone le 
maniere già consuete del vivere. Volle che I giovani 
come le donzelle nudrisser la chioma , e bionda la ri- 
ducessero e ricciasserla , e ricciata di reti lievi la cii^ 
condassero ; e portassero toghe talari e ricamate , e 
clamidi sottili e molli , vivendosi all’ ombra. Donne , 
educatrici loro , li accompagnavano, recando parasoli e 
ventagli ai spettacoli di suono e danza e simiglianti 
musiche dissolutezze: ed esse li lavavano , esse porta- 
vano ai bagni i pettini , e gli alabastri con gli unguenti, 
e gli specchj. Con tal modo ammorbidiva i giovani fino 
ai venti anni, concedendo allora che passasser tra gli 
uomini. Ma egli che avea cosi vituperato e danneggiato 
i Cumani , egli che non avea risparmiato loro nè im- 
pudenze , nè sevizie , egli alfine già vecchio , quando 
si credea sicuro nella tirannide , Sterminato con tutti, i 
suoi , ne pagò le giustissime pene ai Numi ed agli uo- 
mini. 

X. I prodi che insorgendo liberarono la patria dalla 
tirannia di lui furono i figli de’ cittadini uccisi : quelli 
che egli avea risoluto in principio di trucidare tutti in 
nn giorno, ma che poi risparmiò, come ho detto, vinto 


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LIBRO VII. 33 1 

dalle istanze de’ satelliti suoi , maritati da lui colle ma- 
dri loro, comandando che abitassero per le campagne. 
Pochi anni appresso viaggiando egli pel contado e ve- 
dendoli già adulti e molti e floridi ; temè che non n 
congiurassero ed assalisserlo : e macchinò di prevenirli 
ed ucciderli tutti prima che niuno se ne avvedesse. 
Adunque consultandosene • cogli amici , deliberava con 
essi le maniere sollecite e piane ma occultamente, onde 
spegnerli. Sepperlo que’ giovinetti per indizio forse di 
alcuno che ne era consapevole, e, forse mossi da con» 
getture probabili , fuggironsi ai monti , dando di piglio 
ai fèrri degli agricoltori. Corsero ben presto in ajuto 
loro i fuorusciti Cumani rifugiati in Capua , tra’ quali 
erano i più cospicui , e seguiti in gran parte dagli ospiti 
loro Campani , i figli d’ Ippomedonte , di quello che 
nella guerra Tirrena avea comandato la cavalleria. Essi 
armati recavano a’ compagni le armi con una truppa 
non picciola di amici e di mercenarj della Campania. 
Alfine riunitisi scorrevano e turbavano predando i campi 
nemici , ritoglievano gli schiavi dai padroni , ed ogni 
altro qualunque dalle carceri , e gli armavano , e quanto 
, non poteano trasportare o menar seco lo davano alle 
fiamme , o alla mòrte. Ansio dubitava il tiranno come 
avesse a combatterli , perchè nè sapeasi quando impren» 
derebbero , nè teneansi fermi sempre in luoghi mede- 
simi , ma regolavano le loro incursioni o colla notte fino 
all’ aurora , o col giorno fino alla notte. Avendo più 
volte spedito milizie ma' indarno a guardia delle cani» 
pagne , a lui ne venne un tale degli esuli malconcio di 
battiture , spedito ad arte da essi quasi un disertore. 


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33a DELLE antichità’ romane 
Costui chiedendo la impunità promise al tiranno di 
guidare 1’ armata che manderebbe con lui , nel luogo 
appunto ove quelli sarebbero nella notte imminente. In- 
dotto il tiranno a credergli perchè non chiedea verun 
premio , e porgea sestesso in ostaggio , spedi li suoi 
duci più fidi , seguiti da molli cavalieri e da’ mercenari , 
con ordine di conduire a lui , legati almeno , i più , 
se non tutti quegli esuli. Il disertore eh’ erasi a ciò 
posto menò tutta la notte 1’ armata a disagi gravissimi 
per vie non trite e per boschi , in parti le più lontane 
dalla città. 

XL Come i ribelli e l profughi posti per le insidie 
intorno all’ Averno , monte vicino alla città , conobbero 
pe’segnali dati dagli esploratori che l’armata del tiranno 
era uscita, mandarono circa sessanta i più arditi di loro che 
cinti da irte pelli portavano fi)sci di sarmehti. Or que- 
sti nell’ ora , quando accendonsi i lumi , chi per l’ una 
e chi per 1’ altra parte entrarono, quasi opera) , la città 
senza essere conosciuti; ed entrali cavarono da’ sarmenti 
le spade che vi occultavano , e si raccolsero tulli ad un 
luogo. Donde marciando in schiera alle porte che me- 
nano all’Averuo, ne uccisero i custodi che dormivano, 
e spalancatele , v’ introdussero tutti i loro che v’ eran 
già prossimi, nè per tanto il fatto ^ ravvisa vasi ancora. 
Scontravasi per sorte in quella notte una pubblica festa, 
ond’ è che tutti oziavano per tutto in città tra le be- 
vande ed altri diletti. Or ciò diè loro gran sicurezza di 
trascorrere tutte le vie che guidavano alla casa del ti- 
ranno : e nemineu qui trovando nelle entrate molti , nè 
.vigilanti , ve gli uccisero senza stento , oppressi dal sonno 


I 


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LIBRO VII. 333 

o dai vino : ed internatisi in folla trucidarono nell’ abi- 
tazione , quasi una greggia, tutti gli altri, ornai pei vino 
non più arbitri de’ corpi nè degli animi loro. Or qni 
preso Aristodemo , i figli , e tutti i parenti , e battutili 
gran parte della notte , e torturatili , e devastatili con 
ogni male , gli uccisero finalmente. Cosi sterminando 
dalle radici quella stirpe di tiranni fino a non lasciarvi 
non fanciulli , non donne , non consanguineo ninno ; e 
rintracciati tutta la notte tutti li cooperatori a fondar la 
tirannide ; andarono , nato il giorno , nel F oro , e con* 
Tocatovi il popolo , e depostevi le arme , renderono la 
patria a scstessa. 

XII. Or questo Aristodemo nel quartodecimo anno 
della sua tirannide in Cuma , questo vulcano gii esuli 
compagni di Tarquinio cbe giudicasse tra loro e la pa- 
tria. Ripugnarono alcun tempo i deputati de’ Romani , 
come quelli cbe nè erano a tal fine venuti, nè avevano 
dal Senato i poteri per difendere ivi Roma. Non pro- 
fittando però niente , anzi vedendo quel despota pro- 
pendere in contrario per le brighe , e per le istanze 
degli esuli ; chiesero un tempo per le difese , e deposi- 
tarono una somma per garanzia di eseguirle essi stessi. 
Ma poi nel correre di questo tempo, quando niuno più 
vegliava su loro , fuggirono , ritenendosi il tiranno gli 
schiavi , li giumenti , e li danari che aveano portalo per 
comperare de’ viveri. Tali furono gl’ incontri di queste 
legazioni , e così riuscì loro di tornarsene in patria seb- 
bene senza l’ intento. Ma la legazione spedita neU’Etru- 
ria comperatovi miglio e farro lo trasportò su barche 
fluviali a Roma , e Roma ne fu nudrita sebbene per 

I 


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t' 

334 bELLE Antichità’ romane 
poco ; fiocbè consumatili , ricadde ne’ disagi medesimi. 
Non erari genere di alimenti a cui non si rivolgesse. 
Dond’è che non pochi tra la scarsezza, e la inconve- ' 
nienza de’ cibi non soliti , s’ avean male nella persona , 
o diventavano a tutto impotenti , non soccorsi nella pcv- 
vertà. Come ciò seppero i Yolsci domati di fresco, s’ isti- 
garono con vicendevoli occulti messaggi a riprender le 
armi , quasi fosse impossibile che i Eomaui resistessero 
bersagliali dalla guerra e dalla fame. Ma i numi propiz) 
che vegliavano perchè non rimanessero in preda a’ ne- 
mici , ne dimostrarono allora più chiaramente la prote- 
zione. Di repente si mise tra^Volsci una tal pestilenza, 
quanta non leggesi mai stata in Greche o barbare terre, 
disfacendoli promiscuamente di ogni età, di ogni fortu- 
na , di ogni temperamento , validi o invalidi. Mostrò 
soprattutto gli eccessi del, male Yelletri, città insigne, 
de’ Yolsci, e grande allora e popolosa. La peste appena 
ne rispailniò la decima parte , investendovi e consu- 
mandovene le altre. Ond’ è che i superstiti a tanto in- 
fortunio , mandati ambasciadori , e dichiarata a' Romani 
la loro solitudine , sottomisero fa città. E siccome aveano 
prima ricevuto de’ coloni da essi ; ne chiedeano di pre- 
sente ancor altri. 

XIII. Impietoùrono, sapendoli , ai loro mali i Ro- 
mani ; nè pensarono che si avessero a premere come 
nemici fra tanta sciagura , dacché pagavano agl’ Iddj le 
pene per ciò che voleano fare su Roma. Piacque loro 
, di riammetter Yelletri, e spedirvi numero non picciolo 
di coloni presagendone sommi vantaggi. Parea che il 
posto , se presidiavasi acconciamente , sarebbe ostacolo 


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LIBRO VII. 335 

grande e ritardo a chiunqae si voleva rimescolare e 
sommoversi. E concepivasi che la penuria di Roma non 
poco si scemerebbe se una parte notabile di popolo al- 
trove si trasferisse. Inducevali soprattutto a spedire una 
colonia la sedizione che vi si riproduceva , non essen- 
dovi ancora sopita in tutto la prima. Imperocché il po- 
polo discordava un altra volta come per addietro , e ne 
odiava i Patrizj : e molta era 1’ amarezza dei discorsi 
co' quali accusavano la poca cura, e la scioperatezza di 
essi perchè non aveano a tempo preveduta nè riparata 
la penuria futura , dicendo alcuni perfino che ad arte 
aveano procurato la caresua per astio e desiderio di af- 
fliggerne il popolo in memoria della ribellione. Per tali 
riguardi sollecitissima fu la spedizione della colonia , de* 
slinativi dal Senato tre condottieri. Da principio udiva 
il popolo con diletto che trarrebbonsi a sorte i coloni, 
perchè sarebbe cosi levato dalla fame , e perchè vive- 
rebbe in terra felice : ma poiché rifletté che la peste ge* 
aeratasi nella città che gli avrebbe a ricevere aveva di- 
strutto i suoi cittadini , e temè che in tal modo ancora 
maltratterebbe i coloni, variò poco a poco di sentimento. 
Tantoché non molò , anzi meno assai che il Senato ne 
permetteva , esibironsi per la colonia : e questi bentosto 
ne furon pentiti come sconsigliati, e scansavano di usci- 
re. Da tale vincolo erano trattenuti questi e quanti al- 
tri non più si acconciavano ad andare. Ma dertretato 
avendo il Senato che la colonia si ricavasse dal com- 
plesso di tutti i Romani secondo le sorti , e stabilendo 
dure ed irreparabili pene per chi ricusava ; alfine fu per 
tale necessità condotto il numero conveniente in iVelle- 


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336 DELLE antichità’ ROMANE 

tri. Noo raoUi giorni appresso un’ altra colonia fu tra> 

sferita in Norba, città non ignobile dei Latini -(i). 

XrV. Non però segui da ciò ninna delle cose con~ 
gbietturate da’ patrizj secondo la speranza di spegnere- 
le discordie. Imperocché la plebe rimasta intrisi più an- 
cora, vociferando con assai clamore contro de’ padri 
nelle adunanze prima di pochi , indi di molti , per la 
fame divenuta gravissima; e concorrendo al Foro vol- 
geasi lamentosa ai tribuni suoi perchè 1’ aiutassero. Or 
tenendo questi adunanza , fattosi innanzi Spurio Icilio 
allora capo di essi perorò lungamente contro de’ padri 
aumentandone quanto potè la malvolenza. Egli istigò 
pur altri a dire pubblicamente ciocché sentivano , e prin- 
cipalmente Siccinio e Bruto allora edili , invitandoveli a 
nome, appunto come capi già del popolo nella prima 
sedizione , ed inventori , anzi magistrati la prima volta 
della podestà tribunizia. Presentatisi dissero anch’essi, 
udendoli il popolo vogliosissimamente , malignissime cose 
già da molto tempo premeditate , come se la carestia 
fosse procurata per malizia de’ ricchi , perchè il popolo- 
avea loro malgrado , ricuperata colla sedizione la libertà. 
Dissero che i ricchi non aveano pur la miaima parte 
del disagio dei poveri : molta essere la loro non curanza 
de’ mali , perchè aveano cibi occulti e danari onde com- 
perarli se introducevansi , laddove i plebei mancavano di 
ognuna di queste due cose: protestarono che mandare 
i coloni a’ luoghi contagiosi , era un avviarli a rovina 
visibile e funestissima, aggravando quanto più poteana 

(i) A tempo di Plinio era nn ammasso di rovine. Restava circa 
sei miglia lontana da Segni a- measogiomo. 


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LIBRO VII. 


337 


con parole il male. Chiedeano qual sarebbe il fine a 
tante sciagure , e richiamavano loro in memoria gli an> 
tichi Hagelli , ond’ erano stati malmenati da’ ricchi ; ag> 
giungendo ancora iinpuuissimamenie cose consimili. Da 
ultimo Bruto la Gni minacciando , dicendo cioè , che se 
secondavano , egli necessiterebbe quanto prima a spe- 
gner r incendio quelli stessi che eccitato Taveano. E così 
r adunanza fu sciolta. 

XV. Intimoriti i consoli su tali innovazioni , e solle- 
citi che le adulazioni di Bruto verso del popolo iiou 
terminassero in grandi sciagure , intimarono nel prossi- 
mo giorno il Senato. Ivi si fecero discorsi molti e varj 
da essi , come dagli altri seniori. Pensavano alcuni che 
si dovesse blaudire i plebei con ogni dolcezza di parole 
e promessa di opere , e renderne i capi più moderali 
con esporre lo stato delle cose , e convocarli e consul- 
tare insieme il bene comune : io opposito altri consiglia- 
vano che non cedessero , uè si abbassassero verso del 
popolo : essere la moltitudine, imperita , e caparbia : in- 
solente , incredibile 1’ ardore dei capi che 1’ adulano : 
facessero piuttosto costare che non ci avea ne’ patrizj 
colpa ninna , c promettessero ovviare , quanto potè vasi , 
al male. Redarguissero e miuacciassero di pene conde- 
gne i sommovitori dei [K>polo , se nou si chetavano. .\p- 
pio era il primo in tal sentimento , e prevalse in mezzo 
alle grandi opposizioni de’ padri. Tanto che il popolo 
turbalo all’ udirne tanto da lungi i clamori accorse alla 
curia , e tutta la città fu sospesa nella espeltazione. Dopo 
ciò li consoli usciti adunarono il popolo , restandovi breve 


DlOXlGi t Zumo 21. 


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338 DELLE ANTICHITÀ.’ ROMANE 

parte del giorno , e tentarono di esporgli i voleri del 
Senato. Contraddissero i tribuni , nè già fu vicendevole 
nè ordinato il colloquio. Gridavano, interrompevansi ; 
tanto che non era facile agli astanti distinguere i loro 
pensieri , e ciò che volessero. 

XVI. Diceano i consoli cb’essi come di autorità pre- 
mineute doveano comandare in tutto alla città ; laddove 
i tribuni replicavano che i consoli avean dritto in Se- 
nato , ma su le adunanze del popolo i tribuni : questi 
aver tutto il potere su quanto si dee discutere e sen- 
tenziare da’ voti del popolo. Prendea parte , vociferava 
per essi la moltitudine , pronta ad assalire se bisognava, 
chiunque ostasse loro. Altronde i patrizj acclamavano , e 
davan animo ai consoli , circondandoli. Vivissima era la 
contesa per non cedere gli uni agli altri ; quasi allora 
appunto si cedessero i diritti una volta per sempre. Già 
il sole era per tramontare , e tuttavia concorrea dalle 
case nuovo popolo al Foro: e se la notte non li tron- 
cava, forse i dissidj* finivano a colpi , ancora di pietre. 
Bruto perchè ciò non seguisse , fecesi innanzi , e chiese 
ai consoli di parlare ; promettendo di sedare il tumulto. 
Concederono questi che parlasse , parendo loro che si 
deferisse ai consoli mentre quel capipopolo ciò chiedeva 
da essi , presenti i trihuui. Fatto silenzio , Bruto senza 
dir altro interrogò li consoli di tal modo: Ki ricordale 
voi che lasciando noi le divisioni, ci accordavate per^ 
diritto che quando i tribuni adunassero sotto qualun- 
que fine il popolo , i patrizj nè intervenissero all’ a- 
dunanza , nè la turbassero ? Ce ne ricordiamo , disse 
Geganio. E Bruto ripigliò : qual male aveste voi dun- 


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LIBRO VII. 



'qué da noi che c impedite , nè permettete che i tri- 
buni dicano ciocché vogliono? E Geganio rispose: per- 
chè non voi , ma noi consoli avevamo chiamato il 
popolo a parlamento. Se fosse stalo invitalo da voi, 
non V impediremmo ; anzi nemmeno curiosi ci brighe- 
remmo in ciò che si tratta : ora essendo da noi con- 
vocalo , non v' impediamo che Jdvelliale ; ma che noi 
ne siamo impediti , ciò non è giusto. Allora Bruto , 
abbiamo vinto , disse, o popolo: concedesi a noi dagli 
awersarj q> anlo chiedes’amo : ora desistete , chetatevi, 
ritiratevi : domani promettevi dichiarare quanta forza 
V abbiale. E voi tribuni cedete ad essi di presente 
nel Foro : non sempre già qui cederete qiumdo ab- 
biate compreso ( e presto lo comprenderete , io pro- 
metto chiarirvene ) il potere del vostro magislialo. 
Abbasserete cotanta loro preminenza : e se troverete 
che io V abbia deluso , fate ciocché vi piace di me. 

XVII. E uiuno più contraddicendo, ritiravausi tutti 
dall’ adunanza : non però gli uni e gli altri con pari 
divisaniento. Credeano i poveri che avesse Bruto ideato 
qualche nobile impresa , e che non indarno la promet' 
lesse : ma i patrizj trascuravano la leggerezza di lui , 
pensando che T audacia delle promesse non andasse più 
in lò delle parole; non essendo conceduta dal Senato 
ai tribuni altra autorità che di proteggere il popolo , se 
non facevasi ad esso ragione. Non però la cosa parca 
spregevole a tutti , specialmente ai seniori , ma che do- 
vesse attendersi che la manìa di un tal uomo non ge- 
nerasse mali insanabili. Bruto la notte appresso svelato il 
parer suo fra i tribuni , e raccolta una massa non tenue 


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34 o DELLE Antichità’ romane 

di popolo , ne andò di conserva nel Foro : e prima clie 
si facesse di chiaro, occupato il tempio di Vulcano 
donde eglino soleano concionare , invitarono il popolo 
a parlamento. Empiutosi il Foro di un concorso, quale 
mai più V* era stato , presentasi Icilio il tribuno, e par- 
lavi luughissimamente contro de’padri. Egli commemora 
quanto han latto in danno del popolo , e come nel 
giorno addietro aveano impedito lui fin di parlare con- 
tro i poteri ancora della sua dignità. E qui disse : e di 
che altro tarem più padroni se noi siam di parlare ? 
Come potremo soccorrere voi se ojffesi , quando ci si 
toglie la libertà di adunarvi ? Son le parole i preludj 
delle operazioni : nè ignorasi che quelli che non pos- 
sono dir ciocché pensano , nemmen possono far cioc- 
ché vogliono. Pertanto o ripigliatevi, disse, la potestà 
che ci deste , se non volete mantenercela inviolabile; 
o proibite con legge che alcuno più ci si opponga. A 
tal dire provocavalo il popolo che egli stendesse la leg- 
ge : e siccome teneala già scritta , la lesse. £ , dispen- 
sati i voti , fe’ che il popolo immantinente ne decidesse ; 
parendogli non esser questo un affare da esitarne , o 
differirlo , perchè non avesse altri inciampi dai consoli. 
La legge era questa : Concionando un tribuno al po- 
polo , niuno aringhi in contrario , nè interrompalo : e 
se alcwio contravvenga , dia mallevadori ai tribuni di 
pagare , chiamatone in giudizio , la multa che gl im- 
porranno : e non dandoli, egli sia punito di morte, 
li beni di lui sien sacri , e tutte le controversie su 
tali multe spettino al popolo. I tribuni confermata coi 
voli la legge dimisero 1’ adunanza : ed il popolo si ri- 


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LIBRO VII, 341 

tì rò , tatto di bu on anirno , e pieno di riconoscenza per 
Bruto , come per 1’ autore della legge. 

XVIII. Dopo ciò li tribuni ripugnavano ai consoli 
molto , e su molte cose : nè il popolo ratificava i de- 
creti del Senato , nè il Senato approvava decisione niuna 
della plebe. Cosi teneansi contrapposti e sospetti. Non 
però r odio loro , come avviene in simili turbolenze , 
procedette a danni irreparabili. Imperoccbè nè i poveri 
investirono mai le case de’ ricchi ove concepivano che 
troverebhon de’ cibi riservali ; nè mai si lanciarono su pa- 
lesi merci per involarle : ma pazienti comperavano a gran 
costo il poco , e sostcneansi di radici e di erbe se pe- 
nuriavan di argento. Nè mai li ricchi per dominare soli 
nella città violentarono colla forza propria, o de’ clienti, 
(eh’ era pur molta) la classe indigente, esiliandone o 
trucidandone ; ma conduceansi come padri savissimi in- 
verso de’ figli , con cuore sempre benevolo e premuroso 
tra le lor delinquenze. Or tale essendo lo stato di Roma, 
le città vicine invitavano qual più volealo de’ Romani tt 
traslatarsi nel seno di esse , allettandoli con dar loro la 
cittadinanza , ed altre propizie speranze : ma le une in- 
vitavano mosse dai bei genj per benevolenza e pietà nei 
mali altrui , le altre (ed eran le più !) per invidia della 
prosperità passata della repubblica. E furono ben molli 
quei che partirono con tutte le famiglie, e posero al- 
trove il soggiorno : ma taluni di questi , riordinato lo 
stato , ripatrìarono , e tal’ altri mai più. 

XIX. Or ciò vedendo i consoli parve loro , per voler 
del Senato, che avesse a farsi una iscrizione di soldati, 
e porre in campo un esercito. Prendeano occasione spe- 


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342 DELLE antichità’ ROMANE 

ciosa a tanto dall’ essere la campagna tante volte dan- 
neggiata dalle scorrerie , e saccheggi de’ nemici ; calco- 
lando ancora i beni che nascerebbero dall’ inviare un 
esercito di là da’ confìni : mentre quei che restavano 
avrebbero , come diminuiti , le vettovaglie in più copia: 
e gli altri colle arme vivrebbero io siti più abbondanti 
a spese dell’ inimico , e la sedizion tacerebbe , almen 
quanto si tenesse in piedi l’armata. Tanto più poi sem- 
brava che resùiuirebbcsi la calma tra patrizj e plebei , 
quanto che dovrebbei'o militare insieme , e partecipare 
i beni e i mali a fronte de’ pericoli. Non però la mol- 
titudine ubbidiva , nè si presentava spontanea , come al- 
tre volte , per essere iscritta. Non vollero i consoli foi^ 
zare secondo le leggi i renitenti : ma alcuni patrizj s’iscris- 
sero volontarj co' loro clienti , congiungendosi ad essi 
che uscivano , anche picciola parte di popolo per mili- 
tare. Era duce di quest’ esercito quel Caio Marcio , il 
quale espugnò la città de’ Coriolani , e riportò la co- 
rona dei forti nella pugna cogli Anziati. Or vedendo 
lui per capitano , i più de’ plebei che aveano piglialo 
le anni vi si confermarono , altri per benevolenza , 
altri per la speranza di esserne diretti a buon fine. 
Imperocché famosissimo egli era quest’ uomo , e gran- 
de il terrore sparso di lui fra nemici. Si avvanzò 
tal esercito fino ad Anzio ; impadronendosi di schiavi ^ 
e di bestiami in copia , senza dirne il mollo grano che 
era ne’ campi ; tornandone indi a non molto ricchissimo 
fatto di viveri : tanto che quei che s’ eran rimasti, eran 
mesti e dolenti verso de’ tribuni, pe’ quali sembravano 
privi di un tanto bene : cosi Geganio e Miuucio consoli 


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LIBRO VII. 343 

di queir anno trovatisi in tempeste varie e grandi , e 
più volte in pericolo di rovinar la cilli, non operarono 
nulla con troppa efficacia : pur salvarono la repubblica 
più savj che prosperi nell* uso delle circostanze. 

XX. Marco Minucio Augurino, ed Aulo Sempronio 
Atraiino eletti consoli dopo loro , presero per la se- 
conda volta quel grado (i). Non imperiti nell’arme, e 
nel dire , empierono con assai provvidenza la città di 
grano e di ogni maniera di viveri , come si ristringesse 
all’ abbondanza la concordia del popolo. Non però po- 
terono ottenere 1' uno e 1’ altro bene ; ma venne colla 
sazietà pur l’orgoglio in quelli eh’ eran saziati. E quando 
meno pareva , allora fu su Roma il pericolo maggiore 
che mai per addietro. I commìssarj spediti pe’ grani , 
comperatone negli emporj entro terra o sul mare , lo 
aveano già trasportato a' pubblici serbato)'. Quand’ ecco 
i negozianti pure di viveri ne condussero d’ ogn’ intorno 
in Roma : e Roma comperando a pubbliche spese i lor 
carichi , li custodiva. Vennero i primi i commissarj spe- 
diti in Sicilia , Geganio e Valerio con piene assai bar- 
che ; portavano in esse cinquanta mila moggia siciliane 
di grano , metà procacciato a lievissimo costo , e metà 
regalato e mandato a spese sue dal tiranno. Nunziatosi 
in città 1’ arrivo delle navi portatrici de’ grani siciliani ; 
discussero i patrizj longamente come avesse a dispor- 
sene. I più moderati e popolari fra loro , considerata la 
pubblica calamità , consigliavano che il grano donato dal 
re si donasse ancora a tutti del popolo , e che 1’ altro 

(i) Anni iti Roma 263 seconda Catone , 265 secondo Varone , e 
469 avanti Cristo. 


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344 tìet.le Antichità’ hotmane 
comperato coll’ erario , si vendesse loro a picciol mer- 
cato , ricordando clie per tali beneficenze principalmente 
si ammansano gli onimi de’ poveri verso de’ ricchi. Per 
r opposito i più arroganti fra loro , ed amici del co- 
mando dei pochi , sentenziavano che aveasi con tutto 
r ardore e l’ ingegno a deprimere il popolo, ed eccita- 
vano a non fargliene se non carissima la vendita , per- 
chè la necessità li rendesse per innanzi più savj e più 
conformi alle leggi. 

XXL Fra questi amici del comando de’ pochi era pur 
quel Marcio , chiamato Coriolano , uè già dicea come 
gli altri in occulto e con riguardo i proprj sentimenti , 
ma di proposito , e con ardore , sicché molti del popolo 
lo udirono. Avea costui non che le cause comuni con- 
tro del popolo, motivi privati e recenti onde parer di 
odiarlo meritamente. Cercando esso ne’ comizj ultimi il 
consolato , il popolo se. gli oppose, ad onta de’ padri 
che lo sostenevano , nè permise che lo conseguisse ; per- 
chè sospettava che un tal uomo colla chiarezza ed ar- 
dire suo prendesse ad abbattere il tribunato ; e tanto più 
ne temea che vedeva che tutti i patrizj aderivansi a lui , 
come a niun altro mai per addietro. Inbammato costui 
dalla ingiuria , e macchinando riordinar la repubblica su 
le antiche maniere , adoperavasi , come ho detto , pale- 
semente , incitandovi pur gli altri, aU’annientamento del 
popolo. Lui cingeva un seguito di molti nobili e ric- 
chissimi giovani , e per lui stavano molti clienti , pro- 
speratine già nella guerra. Esaltato da questi , andavano 
fastoso, e minaccievole , e fra tutti chiarissimo; non 
però ne ebbe termine fortunato. Adunatosi pe’ casi pre-; 


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LIBT \0 VII. 345 

senti il Senato e proponendo , com’ è costume , il pro- 
prio parere prima li seniori , tra quali non molti con* 
trariarono manifestamente la plebe ; alfine ridottasi la 
disputa ai giovani , egli chiese da’ consoli il poter dire 
ciocché voleva : e tra ’l favor grande , e la grande atten- 
zione di tutti cosi contro del popolo ragionò. 

XXII. Che U popolo non siasi ribellato per neces- 
sitA e per disagi , ma sollevalo dalla rea speranza di 
abbattere il comando de' pochi , e farsi egli stesso 
l’ arbitro del comune ; credo ornai che lo abbiate o 
padri compreso voi tutti , considerando la inconten- 
tabilità sua nel pacificarcisi. Non era il solo disegno 
suo di violare la fede de' contratti, e di abolire le leggi 
che la garantivano , senza passare più oltre. Esso per 
levare il magistrato de' consoli , ne fondava un altro 
nuovo , c lo rendeva sacrosanto ed immune per legge, 
ed ora, e voi non vel conoscete, lo ha con un ple- 
biscito recente immedesimato al poter dei tiranni. E 
per certo , quando gC incaricati di un tal magistrato 
col pretestare i bei titoli di proteggci'e i plebei mal- 
menati opereranno con esso e disporranno come a lor 
piace , quando niuno , non uomo privato , non pub- 
blico , potrà impedirne gli abusi per timor della legge 
la qual toglie anche il dire non che il fare , minac- 
ciando la morte a chi pur lascia fuggirsi una libera 
voce in contrario ; dite , e qual altro nome dee met- 
tere allora chi ha senno a tal magistrato se non quello 
di ciò che è veramente , e che voi tutti confesserete , 
quello cioè di una tirannide ? Siasi un solo che tiran- 
tt^ggia , siasi il popolo tutto , e qual divario ? quando 


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346 DELLE Antichità’ romane 
uno appunto è l’operar di ambedue? Era ottimissima 
cosa non lasciare mai che il seme s’ introducesse di 
un simil potere y e soffrir prima tutto, come il valo- 
rosissimo jéppio voleva, antivedendone da lauto tempo 
le ree conseguenze. Ma giacché ciò non si fece , ora 
almeno sradichiamolo , gettiamolo dalla città mentre 
è debole ancora, e facile da superarlo. Certo voi non 
siete , o padri coscritti , nè i primi , nè i soli a’ quali 
tocchi ciò fare ; quando molti già tante volte deviando 
dalle buone risoluzioni su di affari gravissimi ; e rav- 
voltisi in necessità sconsigliate , tentarono estinguere 
il mal già cresciuto , se impedito nel nascere non lo 
avcano. E quantunque la penitenza di chi lardi fa 
senno sia da meno della previdenza ; tuttavia sott’ al- 
tro rispetto apparisce non inferiore , rmnullando V er- 
rar già commesso coll’ impedir che si termini. 

XXIII. Se alcuni di voi han per gravi le opera- 
zioni del popolo , se pensano doversi lui prevenire 
sicché più non esorbiti, ma vien loro la verecondia di 
parere i primi a rompere i patti e li giuramenti; sap- 
piano , che se fan ciò, saranno incolpabili innanzi 
gl’ Iddj , e compiran la giustizia col? utile proprio ; 
giacché non eomincian essi /’ oltraggio ma lo respin- 
gono , non tolgon essi i patti , ma chi prima li tolse 
puniscono. E grandissimo argomento siavi che non 
voi cominciate a rompere i patti, non voi l’alleanza, 
ma il popolo il quale non più soffre le leggi colle 
quali ottenne il ritorno. Non chiese già egli i tribuni 
per danneggiare il Senato ; ma per non essere dan- 
neggiato. Eppure or ne usa non per ciò che lo dee^ 


t 


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LIBnO VII. 347 

nè per ciò che fu crealo , ma per turbare e confon- 
dere lo stalo della repubblica. Ben vi ricorda dell ul- 
tima adunanza , e delle cose dettevi dot tribuni , e 
quanta euroganza e quale disordine vi dimostrassero. 
Ed ora , niente più savj , quanto fasto non menano 
al vedere , che tutta la forza della città sta ne’ voti , 
e ne’ voti ci vincon essi , tanto maggiori di numero ? 
Se dunque han essi incomincialo a frangere i patti e 
le leggi; che dobbiamo noi fare se non rispinger la 
ingiuria p se non ripigliarci giustamente ciocché ingiu- 
stamente ci han tolto ? e frena' tante lor pretensioni 
ognora più grandi? e ringraziare gl Iddj che non han 
permesso che essi coll acquisto del primo potere di- 
venissero savj per t avvenire ; ma gli han ridotti a tal 
vituperio e briga per la quale voi di necessità tentaste ri- 
cuperare il perduto, e custodir ciocché resta, come si dee? 

XXIV. Se volete riavervi; non altra occasione mai 
fia così buona, quanto la presente. Ora la più parte 
di essi è vinta dalla fame , e /’ altra non potrà resi- 
stere lungamente per l indigenza , se abbia i viveri 
scarsi e cari. Li più rei , quelli non mai propensi al 
comando de’ pochi , ridurransi a lasciarci, ma gli altri 
più miti diverranno ancora più docili , nè mai più vi 
turberanno. Custodite dunque , non iscemate di prezzo 
i viveri, e fate che vendansi il più caro che mai. Voi 
ne avete oneste occasioni, e pretesti lodevoli nella 
ingratitudine di un popolo che mormora , quasi ab- 
biate voi prodotta la carestia , nata dalla ribellione 
loro , e dal guasto che diedero alle campagne, levan- 
done e trasportandone ciocché vollero come da terre 


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348 niìLLE antichità’ romane 
nemiclie , e nelle spese dell’ erario per la spedizione 
de’ commissarj in cerca di viveri , e nelle tante altre 
ingiurie , onde foste oltraggiali. Conoscansi fin da ora 
quali sono i mali co’ quali ci afliggeranno , se non 
facciamo tutto a piacere del popolo, come i capi loro 
dicono per atterrirci. Se vi lasciate fuggir di mano 
questa occasione ; ne sospirerete le mille volte una 
simile. E se il popolo sappia una volta che voi mac- 
chinavate di abbattere tanta sua forza , ma ne desi-, 
steste ; tanto più vi si renderà gravoso , tenendovi nei 
vostri voleri come nemici, e come impotenti ne’vostri 
timori. 

XXV. Si divisero a tal dire di Marcio i pareri , e 
molto si romoreggiò nel Senato. Imperocché quelli che 
da principio contrariavan la plebe , e ne ammisero mal- 
grado loro la pace , tra quali erano i giovani , quasi 
tutti , e li più ricchi e più riguardevoli de’ seniori ; 
esasperandosi della impudenza di essa , encomiavan que- 
st’ uomo come generoso , come amico della patria , e 
che parlava il ben del comune. Ma quelli che propen- 
deano , come prima , verso del popolo , nè stimavano 
le ricchezze oltre il dovere , nè credevano cosa alcuna 
necessaria quanto la pace, eransi corucciati a tal dire, 
non che vi aderissero. Volevano che si vincessero i po- 
veri colle dolci , non colla violenza : essere la dolcezza 
una cosa non solo conveniente ma necessaria ; prin- 
cipalmente per la benevolenza verso de’ eittadini : e 
chiamavano que’suoi consigli non libertà di detti, e di 
opere ; ma delirj : nondimeno questo partito , come pic- 
ciolo e debole , era sopraffatto dall’ altro più forte. Oi! 


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LIBRO VII. 349 

dò vedendo i tribuni ( eran questi presenti , invitati in 
Sonato da’ consoli ) gridarono e fremerono , chiamando 
Marcio peste e rovina della città ; come lui cbe usciva 
in discorsi si rei contro del popolo. E se i patrizj non 
lo frenavano coll’ esilio o con la morte , mentre svegliava 
in Roma una guerra civile , essi , diceano , che lo pu- 
nirebbero. Or qui nato un tumulto ancora più vivo pei 
discorsi dei tribuni , principalmente dal cauto dei gio- 
vani cbe mal sopportavano quelle minacce ; Marcio ani- 
matone parlò più veemente ancora e più risoluto. Io , 
diceva, io se voi non la finite di far qui turbolenza, e 
di sommovere i poveri; io da ora innanzi mi farò can- 
tra voi non colle parole , ma colle opere. 

XXYI. Or qui riscaldatosi più ancora il Senato, i tri- 
buni vedendo che più erano quelli che volevano richia- 
mare , che serbare i poteri conceduti alla plebe , fug- 
girono dal Senato gridando , e protestando gl’ Iddj , vin< 
dici de’ giuramenU. E convocata immantinente l’ adu- 
nanza del popolo esposero i discorsi di Marcio tra’ se- 
natori , citandolo a giusti Bearsene. Non attese costui li 
messi di quelli che lo citavano , ma li vituperò , e re- 
spinse. Dond’è che i tribuni esasperatine preser seco gli 
edili e molti altri ; e volaron su lui. Starasi ancor egli 
dinanzi la curia tra seguito di patrizj e di altri compa- 
gni. Come i tribuni lo videro , ordinarono agli edili di 
invaderlo , e di portarlo a forza , se ricusava di andare. 
Erano allora gli edili Tito Giunio Bruto , ed Icilio Ruga; 
e questi si avvanzarono come per arrestarlo. I patrizj 
riputando terribilissima cosa che un di loro fosse por- 
,talo via colla forza, prima di ogni condanna, fm'ono 


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35o DELLE antichità’ ROMANE 
alle difese di Marcio : e percotendo qaanti gli si avven- 
tavauo, li rispinsero. Divulgatosi l’ incontro, ovunque 
pef la città ; sboccavano fuori delle case i cittadini ; i 
più graduati e ricchi per difendere Marcio co’ patrizj , 
restituire la forma antica della repubblica : ma li più 
abietti e poveri per sostenere i tribuni , e far quanto im- 
ponessero. Così fu tolta la verecondia che avea fin 11 
contenuti gli uni e gli altri , senz’ ardire di offendersi. 
Tuttavia per quel giorno non commisero nulla di gra- 
ve : ma vinti dai voleri , e dalle ammonizioni de’ con- 
soli , differirono tutto al giorno seguente. 

XXVII. Primi nel prossimo giorno scesero al Foro i 
tribuni , e vi chiamarono il popolo a parlamento. Poi 
gli uni dopo gli altri accusarono ampiamente i patrizj 
come avessero traditi i patti e rotti i giuramenti fatti al 
popolo , di scordare il passato ; dando per argomento 
che non s’ eran essi riconciliati davvero , e la carestia 
da loro voluta de’ grani , e la spedizione delle due co- 
lonie , ed altre cose dirette a scemare la moltitudine. 
Inveirono soprattutto contro di Marcio , narrando i di- 
scorsi tenuti da lui nel Senato , e come chiamato a di- 
fendersi non solo avea ricusato , anzi avea rispinto colle 
percosse gli edili che lo arrestavano. Allegavano per 
testimoni dell’ avvenuto àn Senato tutti i più riguarde- 
voli di quell’ ordine : come per 1’ affronto degli edili 
allegavano tutti i plebei , quanti ne erano presenti in 
quel punto nel Foro. Ciò detto concederono ai patrizj, 
se voleano , di giustificarsi ; giacché essi terrebbero il 
popolo in adunanza finché il Senato si discioglicsse. 
Consultandosi anch’ essi appunto allora i senatori su lo 


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LIBRO VII. 3 5 I 

vicende , dubitavano se avessero a purgarsi dalle calun-r 
iiie presso del popolo , o se guardassero la calma. Ma 
poiché li voti dei più preferirono i consigli della bene- 
volenza a quelli del risentimento; I consoli, sciolto il 
St’oaio , vennero al Foro per togliervi le accuse comuni 
e perorare su Alarcio ; sicché il popolo non prendesse 
aspre risoluzioni su lui. Adunque presentatosi Minuclo 
il più anziano dei due disse : 

XXV III. Breue o popolo è P apologia su la scar- 
sezza de' viveri ; nè offeto altri teslimonj che voi su 
quanto sono per dire. Ben sapete voi che ne mancò 
la raccolta dei grani , perchè tralasciata ne fu la se- 
menta. Non dovete poi conoscere da altri che da voi, 
donde sia nato t altro guasto de' campi , e come in- 
fine la terra più ampia e buona sia quasi restata 
senza fruiti , senza schiavi, senza bestiami. Ciò nacque 
parte per le ruberie de' nemici, e parte perchè insuf- 
ficiente a nudrire tutti voi , tanti di numero , nè for- 
niti di viveri da altra parte ninna. Se dunque è ri- 
sultata la fame non donde i tribuni dicono , ma donde 
voi ben sapete ; cessale ót imputare a nostri arlifizj 
un ud male , e dt irritarvi contro noi che ne siamo 
innocenti. Le spedizioni delle colonie si fecero di ne- 
cessità , giudicando voi tutti pubblicamente che si do- 
vessero guardare de' luoghi opportuni per la guerra: 
e queste , fatte in tempi durissimi , assai giovarono 
chi andava e chi si rimase : perocché gli uni trovano 
là viveri abbondantissimi , e gli altri qui scemati di 
numero ne sentono minore il disagio. Nè già potrà 
mai rimproverarsi P eguaglianza la quale noi patrizj 


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352 DELLE Antichità’ romane 
abbiamo con voi plebei participato con far uscire , se- 
condo le sorti , per la colonia. 

XXIX. Di che dunque son óffesi in ciò li tribuni che 
cen riprendono , se noi tutti in comune ne abbiamo 
deliberato e partecipato , sia che triste , coni essi di- 
cono , ne fossero le conseguenze , sia che giovevoli 
come noi crediamo ? Ciò poi che essi c imputano circa 
il Senato ultimo , vale a dire che noi rum vogliamo 
in memoria ed astio della ribellione , mitigare i prezzi 
de' viveri , mirando sempre ad abbattere il tribunato , 
e deprimere per ogni guisa il popolo e far ingiurie 
consimili; questo noi lo escludiamo ben tosto intera~ 
mente colle opere. È tanto lungi che noi siatruì per 
causarvi alcun danno ; che la potestà tribunizia ve la 
confermiamo appunto come ve f abbiam conceduta. 
E questo grano , venderavvisi questo come voi fisse- 
rete. .rispettale dunque , e se ciò non facciamo , allora 
sì ci accusate. Che se vorrete esaminar più dappresso 
ciocche ci divide ; forse noi palrizj abbiam più diritto 
a richiamarci del popolo , che il popolo ne abbia a 
richiamarsi del Senato. Voi ci fate ingiuria o plebei 
( non vi offendete ciò udendo ) se volete accusarci 
su le nostre risoluzioni senz' aspettare che siansi ulti- 
mate. Or chi non vede quanto è facile a chi lo vuole., 
confondere con tali accuse una città , e levarvene la 
concordia ? Una risoluzione non dichiarata ancora 
co’ voti, se credesi che esser lo possa, non esime più 
noi (ledi incorrer nell’odio ; ed è per gli oppositori un 
pretesto per sembrare di non offenderci. Se non che 
non sariano da riprendere solamente i vostri capi per. 


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LiBEo vir. 353 

le calunnie che c impongono ; ma voi nommeno che 
prestate lor fedo , e con noi vi sdegnale innanzi de- 
gli eventi. Voi se temevate d' ingiustizie future , do- 
vevate riservar F ira vostra appunto per quel tempo. 
Ma ora vi deste a divedere anzi precipitosi che savj; 
e che tanto vi tenete più sicuri , quanto più malignate. 

XXX. Ma su pubblici aggravj , su qufUi i tribuni 
accusano tutto il Senato , aedo che basti il detto fin 
qui: voglio ora soggiungere quanto io giusto ne ere- ' 
do , intorno il malignare che fanno su ciò che ciascuno 
di noi ha detto in Senato , e F incolparcene quasi db- 
suniamo la città , ed intorno il chiedere finalmente 
la morte o F esilio di Caio Marcio , uomo amantis- 
simo della patria e che liberissimamente per la patria 
lui parlato. E voi , o plebei , voi giudicherete , se io 
parli con moderazione, e con verità. Quando voi vi 
pacificaste col Senato , pensavate che vi bastasse F as- 
soluzione dai debiti: e solo dimandaste de magistrati 
tra voi , perchè difendessero i poveri che fossero vio- 
lentati. Otteneste , assai ringraziandocene , F una e 
F altra dimanda. Ma nè chiedeste , né pensaste voi 
mai di chiedere che si togliesse il magistrato de' con- 
soli , che non più valesse il Senato nella pubblica pre- 
sidenza , e tutto si sconvolgesse F ordine dello stato. 
Ora e che ne avete dippìù patito che vi accingete a 
confondere tutte insieme queste cose ? Su quali diritti 
mai cercate spogliarci de’ nostri onori ? Se volete che 
i membri del Senato tremino h dir liberamente cio- 
chè pensano ; e quando sarà più moderazione ne'capi 

DlONiCI , toma XJ. , aJ 


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35 4 DELLE A-NTICHITa’ ROMANE 

vostri ? Con quali leggi cercheranno la morte o l’esilio 
di alcuno de’ patrizj ; quando nè gli antichi diritti ciò 
concedono , nè gli ultimi accordi vostri col Senato ? 
Passare i confini delle leggi, preferire alla giustizia 
la violenta ; già non è questo un comandare alla po- 
polare , ma un darsi piuttosto per tiranno. Io per me 
vi esorterei a tenervi i benefizj che già trovaste dal 
Senato , senza pretendere ciocché nemmeno (diora pre^ 
tendevate, quando le inimicizie si deposero. 

XXXI. Ala perchè meglio conoscasi che i tribuni 
non domandano nè l’ onesto nè il giusto , ma /’ in- 
giuste e F impossibile , trasferite e considerate la vi- 
cenda in voi stessi. Fate il caso che i senatori accu- 
sino i vostri magistrati, perchè van seminando rei 
discorsi contro del Senato , e l’ autorità ne dissol- 
vono , che era F autorità della patria , e mettono in 
città la sedizione ; ( cose tutte vere e di fiuto ), e 
che si arrogano ( ciocché è più, duro ancora ) un po- 
tere più grande di quello che a lor si concede , pre- 
tetulendo di far morire senza previo giudizio , chi più 
voglion di noi; e fate il caso che il Senato decida 
che debbasi a tali uomini impunemente la morte ; 
con qual animo soffrireste voi la baldanza del no- 
stro consesso ì che ne direste ? non vi sdegnereste , 
non vi dimostrereste oltraggiati , se alcuno vi togliesse 
questa franchigia di parlare , qmsta libertà , ridu- 
cendo a pericoli estremi chi osasse pur fiatare con 
liberi accenti verso del popolo ? Certo che sì. E se 
voi non sapreste patir ciò, reputerete poi giusto che 
altri lo sopportino ? Son questi o popolo i moderali , 


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LIBRO VII. 355 

I socievoli vóstrì proweditnbnti ? Così volendo > non 
fate voi parer vere le calunnie che di voi si spar^ 
gono ? e che savj sono pel pubblico , quanti consi- 
gliano che non pià crescer si lasci questa vostra po- 
tenza violatrice delle leggi ? A me così par certa- 
mente. Afa se vorrete far cose , contrarie a quelle 
delle quali vi accusano , moderatevi , ve ne consiglio : 
ricevete a cor placido , e non con ira , i discorsi dai 
quali siete investiti. F’oi se così fate, ne parrete uo- 
mini dabbene , e coloro che vi odiano , ne saran/w 
pentiti. 

XXXII^ Avendovi cojè noi fatto ragione amplis- 
sima come pensiamo , non siate , ve n esortiamo , 
indegni di voi. Folendovi noi implacidire non esa- 
sperare ; miti , umane furono le opere colle quali vi 
abbiamo trottato : io dico , per tacere le antiche , 
quelle fattevi di recente pel vostro ritorno. Certa- 
mente sarebbe pur giusto che voi vi ricordaste di 
queste ; mentre noi vorremmo dimenticarcene. Tuttavia 
la necessità ci stringe a ricordarvele per chiedervi in 
contraccambio di tanti e grandi benefizj che noi già 
concedevamo alle istanze vostre , che nè si uccida , 
nè bandiscasi Un uomo amantissimo della patria , e 
nobilissimo infra tutti nella guerra. Non poca sarebbe 
la perdita , voi lo vedete , se Roma fosse privata di 
tanta virtà. Egli è giusto che mitighiate lo sdegno 
verso lui , risgiiardando almeno quanti ne salvò di 
voi nella guerra , e ripetendone le belle sue gesta , 
non perseguitandone lé vane parole. Niente vi hanno 
i detti nociuto di lui, ma moltissimo i fatti vi gio- 


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356 DELLE Antichità’ r ROMANE 

varvno. ' Che se pur siete inflessibili in suo riguarda, 
donatelo almeno a noi, donatelo al Senato che vel 
chiede : rendete una volta la stabile calma, e la sua 
unità primitiva alla patria. E se voi non vi piegherete 
alle nostre persuasive ; riflettete che neppur noi ce- 
deremo alle vostre violenze. Così il popolo messone 
a prova o sarà cagione a tutti di amicizia sincera e 
di beni maggiori; o nuovo principio di una guerra 
civile , e di gravissimi mali. 

XXXIII. I tribaoi , avendo Minuzio cosi perorato , 
consideratane la moderazion del dire , e come la plebe 
era mossa dalia dolcezza delle sue promesse , ne furono 
sdegnati e dolenti , e soprattutti Cajo Sicinio Belluto , 
quegli che avea suscitato i poveri a ribellarsi da’ patrizj 
ed erane stato nominato capitano , 6nchè fìiron su Tar- 
mi. Nemicissimo degli ottimati, era perciò stato portato 
a grande chiarezza da’ cittadini. Ora creato per la se- 
conda volta tribuno giudicava che a ninno giovasse 
men che a lui che la città fosse appieno concorde, e 
ripigliasse la forma antica. Imperocché vedeva che se 
governavano gli ottimati, egli nato e cresciuto ignobile , 
senza luce alcuna d’ imprese in pace o in guerra , non 
avrebbe più gli onori , nè la influenza medesima ; anzi 
che correrebbe pericoli estremi , come sommovitore dei 
popolo , ed autore di tanti suoi mali. Fissato adunque 
ciocché avrebbe a dire e fare , e consultatosene co’ tri- 
buni compagni , poiché li ebbe unanimi , sorse , e la- 
mentata brevemente la disgrazia del popolo, lodò li 
consoli perchè degnati si fossero di rendere ragione ai 
plebei , senza spregiarne la loro bassezza : e d'sse che 


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LIBRO VII. 



rìngraziava i patrizj ancora , perchè nasceva finaluaente 
in' essi la cura della salate de' poveri ; e che molto più 
egli ciò contesterebbe 'a nome di tutti i colleghi, quando 
darebbero pur le operc> simili ai hitti. 

XXXIV. Cosi proemiando , e parendone anzi sedato, 
e propenso alla pace , si volse a Marcio presente ai con- 
soli V e disse i E tu o valentuomo niente ti difendi coi 
tuoi cittadini su quanto hai detto in Senato ? Chè 
non supplichi piuttosto , e ne plachi lo sdegno , sic*’ 
chò miti sieno nel sentenziartene ? Già non 'vorrei 
che tu negassi un tale tuo fallo , avendolo tarili ve* 
dolo ; nè che , tu Marcio , tu pià altero in cor tuo 
che un privato , ti volgessi ad invereconde difese. 
Sarà parato non indegno ai consoli ed ai patrizj di 
aringare essi in tuo bene , nè parrà per te degno 
che tu lo facci su te stesso? Or ■cosi parlava -costui ; 
ben conoscendo che quel generoso non soffrirebbe mai 
di essere T accusator di sestesso , e chiedere come col- 
pevole la esenzion della pena , nè mai contro l’ indole 
sua ricorrerebbe alle umiliazioni ed alle suppliche: ma 
che o ricuserebbe fare ogni difesa ; o facendola coll’ in- 
nato ardimento suo , niente tempererebbe nè il popolo , 
nè il dire. E cosi fu ; perchè taciutisi , e presi i plebei, 
quasi tutti , da bel desiderio di liberarlo , purché- egli 
ne &vorisse la occasione , manifestò tanta insolenza e 
dispregio per essi ; che nè , presentatosi, negò le parole 
da lui dette in Senato , nè come pentitone , si diede ad 
impietosirli e placarli: ma fin sul principio non li volle, 
come privi di autorità competente per giudici di cosa 
ninna , pronto per altro a sottomettersi , com* era la 


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358 DELLE antichità’ ROMANE 
legge , al tribunolc de’ consoli , se alcuno volesse ac> 
cusarvelo , e cbiederoe soddisfazione pe’deui, o per le, 
opere. Diceva eh’ egli era, colà venuto , giacché vel chia- 
marono , parte per riprendere le loro prevaricazioni , e 
la incoutentabiUlà j manifeslala aemprepiù nella separa- 
zione y e dopo il riiomo ; e parte per consigliarli, per< 
chè frenassero una volta, e reatrÌDgessero gfinginsti de* 
sidetj. Dopo ciò sferzava con assai. amarezza e coufideuza 
tutti quanti , e più che tutti ^ i tribuni. Non era nel 
dir suo la bella verecondia di un cittadino ohe ammae- 
stra il suo popolo , né il savio cooiegno di un prjvato 
odiato dalla mokiiudinc il quale parli dinanzi ai potenti 
sdegnati f ma k rabbia sfrenata di un nimico che di- 
sonora I vinti , li quali tien prigionieri , e 1’ orgoglio 
6ero di cbi é stato gravemente oltraggiato. 

, XXXV. Adunque, lui perorando, destavasi ora quinci 
ora quindi , come tra moliitndioi scisse né unanimi 
ne’ voleri , un romor grande c frequente , compiacendosi 
gli uni , e fremendo g|i altri , e passionandosi varia- 
mente a quel dire. Ma più ancora crebbero i ckmori e 
il tumulto , quando egli tacque. Imperocché li patriz) 
cbiaoiaudolo fortissimo uomo , lo encomiavano del (ranco 
suo dire , e lo additavano come l’ unico libero infra 
tutti , il quale né temeva gli assalti de’ nemici fra le 
armi , né guadagnava , adulandoli , i cnort de’ cittadiui , 
capai bi contro le leggi. Per 1’ opposito i pleltei , esa- 
cerbati dalle ingiurie , Io chiamavano uomo gravoso , 
smuro., e nemico più che tutti i nemicL E già molti 
( e grande ne era la facilità ) mostravano un ardor vivo 
di assalirlo co’ diritti della fqi za , e di ucciderlo ; con- 


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LIBRO VII. 359 

sentendo e cooperando con essi i tribuni , e Sicinio 
principalmente il qaal dava liberissimo il freno ai lor 
desiderj. Infine dopo avere molto inveito , e molto in> 
fiammata , soffiandovi , 1’ ira del popolo , concluse l’ao 
cosa , che il tribunato ne sentenziava la morte , per 
r oltraggio fìtto agli edili , che egli percosse e respinse, 
mentre per ordin suo lo arrestavano il di precedente: 
non finire che su chi gC incarica, gli oltraggi de’ mi- 
nistri, E così dicendo ordinò che portassero Marcio al* 
l’altura che sovrasta sul Foro. È questa un dirupo ro> 
vinoso e vasto donde solcano precipitare i rei condan* 
nati alla morte. Corsero gli edili per prenderlo: ma 
dato un altissimo strido , si levarono conira loro in 
folla i patrizj , e quindi contro de’ patrizj il popolo : e 
molto era in arabe le parti il disordine , molto lo in* 
giuriarsi. Io spingersi, Tassalirsi. Se non che gli autori 
di un tanto moto furouo rattenuti e necessitati a mo- 
derarsi dai consoli i quali , cacciatisi in mezzo, coman* 
darono ai littori di rimover la turba. Tanta era allora 
negli uomini la riverenza per quel magistrato, e tanto 
il pregio deir autorità suprema ! Intanto Sicinio non piò 
saldo , ma perturbato , e timoroso di ridurre i partiti a 
respingere forza con forza , non volendo lasciare , nè 
potendo continuare la impresa una volta tentata , era 
pensierosissimo su >ciò che fosse da fare. 

XXX VL Or lui vedendo in tanti dubbj Lucio Gin* 
nio Bruto , quel capipopolo che ideò le condizioni della 
concordia , uomo acuto specialmente in trovare , ove 
mancano, gli espedienti, venne, e solo con solo, sug- 
gerì che non si ostinasse in una disputa ardente , 


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3Go DELLE Antichità’ romane 

nè legittima : mirasse tutti i patrizj irritati , e tutti 
pronti alle armi se vi fossero invitati dai consoli , 
ma dubbiosa la parte migliore del popolo , nè ben 
animata a permettere senza previo giudizio la morte 
dell' uomo più. insigne di Roma : cedesse per allora , 
egli così consigliava; badasse a non combattere i 
consoli per non eccitare mali manieri : piuttosto in- 
dicesse a un tal uomo , fissandone un tempo qua- 
lunque , di perorar la sua causa , i cittadini votas- 
sero per tribù su lui: e ciò sen facesse che la plu- 
ralità de’ voti dichiarerebbe. Non competere che ai 
tiranni la violenza che ora minacciavasi , facendosi 
il tribuno accusatore in un tempo e giudice ed arbi- 
tro della pena : ma in una repubblica doversi agli 
accusati le difese come voglion le leggi , ed il gastigo 
secondo il voto dei più. Cedette Sicioio a tale consi- 
glio non trovandone altri migliori , e fattosi innanzi 
disse : Foi vedete o plebei V entusiasmo de’ patrizj 
per la violenza e le stragi : vedete come tengon voi 
tutti da meno che un solo caparbio che oltra^a una 
intera repubblica. Non conviene che noi li somigliamo 
e corriamo alla nostra rovina, cominciando o respin- 
gendo una guerra. Ma perciocché alcuni di loto al- 
legano , come onorevol pretesto , la legge la qual non 
permette che uccidasi un cittadino ' senza previo giu- 
dizio , ed allegandola ci tolgono d infliger le pene ; 
diasi pur luogo alla legge ; quantunque ne’ nostri di- 
sagi abbiamo noi mai sofferto nè cose giuste , 
nè secondo le leggi da essi. Dimostriamoci anzi probi 
colle clementi maniere , che del numero de’ vostri of- 


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Linno VII. 


36 1 

Jénsori colla violenza. Ritiratevi ; aspettate , nè già 
sarà molto , il tempo avvenire. Noi preparando in^ 
tanto le cose che importano , fisseremo a codest’ uomo 
un tempo perchè si difenda , e non eseguiremo se 
non la vostra sentenza. Quando v' avrete in mano i 
suffragi secondo la legge , votatene allora la pena 
che merita. E ciò basti su questo proposito : Che poi 
giustissima facciasi la compra e la distribuzione dèi 
grani , noi vi provvederemo , se questi (\) ed il Se- 
nato non vi provvedono. E ciò detto disciolse i' adu- 
nanza. 

XXXVII. Dopo questo evento i consoli convocando 
il Senato considerarono posatamente come dar fine alla 
discordia presente. Sembrò loro primieramente che do- 
vessero cattivarsi il popolo con vendergli i viveri a pic- 
ciolo e fàcil mercato , e poi persuadere i lor capi a che- 
tarsi in grazia dei Senato , nè astringere più Marcio al 
giudizio , e temporeggiare in fine lunghissimamente , se 
non lasciassero persuadersi , finché l’ ira del popolo si 
diminnissc. Ciò decretato portarono e proclamarono al 
popolo tra pubblici applausi l’ editto su i viveri cosi 
concepito che : sarebbero i prezzi de' generi necessari 
al vitto quotidiano , tenuissimi come innanzi la sedi- 
zione. Poi col molto insistere presso de’ tribuni ebbero 
per Marcio dilazion quanta vollero, se non piena asso- 
luzione. Anzi essi stessi gli procacciarono altro indugio , 
valendosi di questa occasione. Gli anziati , spedita una 
banda di pirati , aveano predato non lu ngi dal lido , 

(i) I CoDsvii. 


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36a DELLE antichità’ romane 
mentre tornavano in casa , le navi e i deputati del re 
di Sicilia , che aveano recalo i grani in dono ai Ro- 
mani , e volgendone ogni cosa come di nemici ad olile 
proprio , ne teneano in carcere le persone. I consoli , 
ciò saputo , spedirono agli Anziati : ma non potendone 
per ambasciadori ottener la giustizia , decisero marciare 
colle armi su loro. Adunque fatto il ruolo di tutti gl’i< 
donei a combattere, uscirono ambedue; promulgato in- 
nanzi il decreto che sospendeva , durante la guerra , 
tutte le controversie sia private , sia pubbliche. E cosi 
fu ; non però quanto tempo essi ideavano , ma per 
molto minore! Imperocché gli Aoziati vedendo i «Ro- 
mani usciti con' tutte le forze , nemmeno si opposero 
loro : ma pregando , ed istando , e restituendo le per- 
sone e le robe de’ commissarj predati , fecero che i Ro- 
mani retrocedessero verso la patria. ( .. • 

XXXYIII. Disciolta l’armata, Sicinio il tribuno convo- 
cato il popolo, gli prescrisse il giorno, nel quale ultimerebbe 
il giudizio su Marcio. Egli esortò quanti erano in Roma 
ad accorrere in folla per ascoltare e decidervi, e quanti 
abitavano per le campagne a sospendere per quel giorno 
i lavori , e presentarsi come per volare della libertà e 
delU salute della repubblica. lotimò similmente a Mar- 
cio di comparire a difendersi perchè non manehereld>e- 
gli ninna delle cose ordinate dalle leggi su de’ giudizj. 
Pareva ai consoli , deliberatisi col Senato, che non fosse 
da permettere che il popolo s’ impadronisse di un tanto 
potere. Or si diè loro un titolo giusto e legittimo d’im- 
pedirneli ; e credeano, usandolo, di renderne vani lutti 
i disegni ; tanto che invitarono a colloquio tutti i capi 


« 


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LIBRO VII. 363 

del popolo. Congregitisi cou quanti erauo gli opportuni 
per essi , Minucio disse : Tribuni , ci è piaciuto decre- 
tare che bandiscasi la sedizione da Jloma con tutte 
le forze , nè più nudrasi contesa ninna col popqlo ; 
vedendo voi principalmente che tornavate dalla vio- 
lenza alla giustizia ed alla ragione. Or noi lodando 
voi di questo proposito , abbiamo reputato che il Se- 
nato , come è patria usanza, vi precedesse co’ suoi 
decreti. E potete contestare voi stessi che dalP ora 
che i nosU'i avi fondarono Roma , il Senato che la 
ebbe , ritenne sempre questa precedenza : e che il 
popolo senza la previa risoluzione idi lui mai nò giu- 
dicò , nè votò non solo in questi tempi, ma nemmeno 
in quelli dei re. Tanto che li re non rimettevano al 
popolo , se non le cose decise in Senato , e così le 
confermavano. Non vogliate dunque levarci questo di- 
ritto , nè abolire tal bella istituzione primitiva. Preanv- 
monile il Senato, se avete il bisogtto di cose mode- 
rate e giuste , e quello che il Senato ne avrà giudi- 
cato , quello notificate al popolo , e ne decida. 

XXXIX. Cosi discorrendola i consoli , Sicinio mal 
sopportavali , nò volea render aibitro di cosa ninna il 
Senato. Ma gli altri , eguali a lui di potere , seguendo 
i suggerimenti di Lucio (i) consentirono che si facesse 
questo previo decreto. Imperoccbé ancor essi avevano 


(i)- Lucio Bruto: forte come pensa il Ccleoio , dee leggersi Decia 
in luogo di Imcìo, .Certamente in questi affari elibe parte anche De- 
ciò nominato prima e poi da Dionigi: vedi I. fi, § 8S. Bruto aveva, 
tt vero il pronome di Lucio ; Ma Dion'gi nou lo ha mai contratte* 
guato ancora col solo pronome. 


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364 r)ELLr* antichità’ romane 
falla ( nè i consoli la esclusero ) la istanza ragionevole ; 
Che il Senato desse la parola anche ai tribuni, che 
sono i procuratori del popolo , come agli altri che 
volevano aringare favorendo, o contrariando; e che 
infine , dopo udite le discussioni di tutti , -allóra cia- 
scun padre porgesse il suo voto , premesso il giura- 
mento legittimo , come ne’ giudizj , e dichiarasse cioc- 
ché gli paresse il giusto e V utile della repubblica : 
e quello si tenesse per valido che i più. preferissero. 
Concedendo i tribuni che si decretasse come i consoli 
dimandavano ; si divisero. Raccoltisi nel giorno appresso 
i padri in Senato , i consoli vi esposero le convenzioni: 
e quindi chiamando i tribuni gl’ invitarono a dire le 
cause per le quali venivano. £ qui fattosi innanzi Lu- 
cio , colui che avea condisceso che si facesse il previo 
decreto , disse : 

XL. Potete ravvisare o padri ciocché sia per suc- 
cedere , vuol dire che noi saremo accusati appresso 
il popolo dell’ essere qui venuti, e che V accusatore 
sarà quel nostro collega , per quel previo decreto che 
V abbiam conceduto. Pensava costui che -non doves- 
simo noi chiedere da voi quello che ci attribuiscon le 
leggi , nè prendere per benefizio quanto avevamo per 
diritto. Chiamali in giudizio correremo in rischio non 
tenue , che condannati , abbiamo a soffrire bruttissi- 
mamente come chi diserta , e tradisce. Ma quantun- 
que ciò sapessimo ; noi siamo qui venuti , superiori 
a noi stessi j confidando su la rettitudine della cau- 
sa , e mirando ai giuramenti secondo i quali voi do- ' 
'vete dirigere le vostre sentenze. Noi tenui siamo , e 


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LIBRO VII. 365 

disacconci pià assai che non conviene , a parlar di 
tali cose, che piccole certamente non sono. Porgeteci 
non pertanto udienza y e se queste vi parranno giuste 
ed utili , e vi a^iungo , necessarie ancora pel conw 
ne , vogliate spontaneamente concedercele. 

> XLI. Primieramente dirò sul diritto. Quando o se- 
natori cacciaste i monarchi avendo noi compagni nel- 
r opera, e fondaste il governo nel quale ora siamo, 
ed il quale noi non riproviamo , voi vedendo i plebei 
aggravati ne’ giudizj se mai li facevano ( e molti scn 
facevano ) co’ patrizj , emanaste per suggerimento di 
Publio Valerio consolo una le^e per la quale per- 
mettevasi a tutti i plebei sowerchiati da quelli di ap- 
pellare al popolo : e per niun altra, quanto per que- 
sta legge , procacciaste la concordia di Soma , e re- 
spingeste i re che vi tornavano in seno. Jn forza di 
questa l^ge citiamo codesto Caio Marcio dinanzi al 
popolo , e gli prescriviamo che risponda su cose nelle 
quali tutti ci diciamo da lui sowerchiati ed offesi. 
Nè su questo abbisognavi previo decreto del Senato. 
Imperocché voi siete gli arbitri di deliberare i primi, 
ed il popolo di confermare co’ voti quello su cui le 
le^i non pollano ; ma dove ci han le leggi , sono 
immobili , e debbono osservarsi , quantunque niente 
ora voi , perchè si osservino , decretaste. Già non 
dirà ninno che in caso di aggravio ne’ giudizj un 
privato appelli validamente al popolo , nè valida- 
mente v’ appellino i tribuni. E forti per tale conces- 
sion della legge , veniamo qui , non senza pericolo , 
ad esser sotto voi giudici. Pel diritto della natura , 


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366 DELLE ANTICHITÀ.’ ROMANE 
diritto che non è scritto , nè introdotto come le altra 
leggi , noi vogliamo che il popolo non sia nè da pià 
nè da meno di voi : mentre con questo diritto ha con 
voi sostenute molte e grandissime guerre, e mostrato 
ardore vivissimo per compierle , contribuendo non 
poco perchè Roma le desse , non ricevesse da alwi 
le leggi. Or voi farete che noi non siamo da meno 
che voi se frenerete col terror di un giudizio chiun- 
que attenta contro le nostre persone e la libertà. Pen- 
siamo che i magistrati , le precedenze , gli onori deb- 
bansi compartire ai primi e pià virtuosi tra voi : ma 
pensiamo pure ben giusto che essendo tutti sotto un 
governo , tutti dobbiamo ugualmente e senza riserva 
o non essere offesi ^ o riceverne pari soddisfazione. 
Come dunque a voi concediamo que’ gradi sublimi e 
luminosi, così non vogliamo esser privi dei diritti 
eguali e comuni. Ma sebbene potrebbero aggiungersi 
le mille cose , bastino le dette fin qui sul diritto. 

XLII. Or quanto sian utili queste cose, quanto il 
popolo le apprezzi se faccianst , lasciate che io bre- 
vemente ve lo esponga. Su dunque : se alcuno vi di- 
mandi qual pensiate il pià grande de’ mali, quale la 
cagioH pià pìonta della roiàna delle città ; non di~ 
reste che sia questa la dissensione? certo che sì. Or 
chi è si stolido , chi sì fatto a rovescio , chi ■ sì ne“ 
mico della eguaglianza , il qual non veda, che se 
concedasi al popola di giudicare le cause che gli 
spettano , avrem la concordia ; ma se gli si neghi , 
leverete a noi per fino la libertà ( chè la libertà si 
toglie , a chi le leggi si tolgono e li giudizj ), e ci 


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l 


LIBRO VII. 


367 


ridurrete ad insorgere nuovamente , e combattervi ? 
Certo che nelle città dalle quali si escludono i giu- 
dizj e le leggi , la discordia soUentra e la guerra. 
Chi non si è trovato in guerre civili non è meraviglia 
che per la inesperienza non senta ribrezzo de mah 
antecedenti , nò precluda i futuri. Ma quelli , che 
caduti come voi tra pericoli estremi , felicemente se 
ne liberarono , sgombrando i mali come permetlevasi 
dalle circostanze ; quelli , io dico , se vi ricadono , 
qual mai scusa aver possono sufficiente e decorosa ? 
Chi non condannerebbe la stoltezza e delirio vostro 
grandissimo , considerando che voi li quali per non 
avere la plebe discorde vi piegaste , non ha gìiari t 
a tante concessioni , forse non tutte convenevoli ed 
utili , ora vogliate in discordia tornarvela , tutto che 
non siate offesi negli averi , nelf onore , o in altre 
pubbliche cose , e solo per favorir chi la odia ? Se 
non che voi ciò non farete se savj. Con piacere io 
V interrogherei quali concetti erano i vostri quando 
ci concedevate il ritorno colle condizioni che chietle- 
vamo. Ne apprendevate voi forse ragionando un be- 
ne ? o fu necessità che vi ridusse a cedere ? Se ne 
apprendevate il bene di Roma , e perchè ora non vi 
ci attenete ? se fu necessità , se impossibilità di es- 
sere diversamente , or che vi dolete del fatto ? Biso- 
gnava , se pur tanto potevate , non cedere forse da 
principio ; ma ceduto avendo una volta , non dovete 
più rimproverarvene. 

XLIIL A me sembra o padri che voi seguiste il 
vostro migliore nel paci/icarvici : ma se fu necessità 


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368 DELLE ANTICHTTa’ ROMANE 
di scendere a condizioni; ella è pure necessità man- 
tenercele. Voi gV Iddj chiamaste vindici degli accor- 
di , imprecando molte e terribili pene a chiunque li 
violava di voi o de nipoti in perpetuo. Ora io non 
Pedo perchè dobbiamo tediare pih a lungo voi che 
tanto bene il sapete , con dire che giuste ed utili 
sono le nostre dimande , e molta la necessità che vi 
astringe a corrisponderle , se memori siete de Mura- 
menti. Voi capite , o piuttosto ( giacché io non dico 
cosa che voi non sappiate ) voi tenete presente che 
rileva per noi non poco il non desistere dalla impresa 
per violenza o per inganno, e che un fortissimo sti- 
molo ci ha qui condotti , offesi gravemente , e pià 
che gravemente , da quest’ uomo. Date dunque su 
quanto ho detto il vostro voto , ma, dandolo , consi- 
derate qual sarebbe il vostro animo verso quel ple- 
beo , se alcuno pur ve ne fosse , il quale tentasse 
dire o fare centra voi nelle adunanze , ciò che qui 
codesto Marcio ha pur tentato di dire. 

XLIV. Le convenzioni della pace sacrosante al 
Senato , quelle che munite più -che con vincoli ada- 
mantini j ninno di voi , per averle giureUe , nè de’ vo- 
stri discendenti può sciogliere , finché Roma fia Ro- 
ma ; quelle ha il primo codesto Marcio tentato di 
rovesciarle , non essendo nemmen quattro anni che si 
conclusero , e tentato ha di rovesciarle non col silen- 
zio , non da oscurissimo luogo , ma qui , pubblicissi- 
mamente , al cospetto di voi tutti', sentenziando, che 
non dovea più lasciarsi , ma ritogliersi a noi la po- 
destà tribunizia, che è la primaria ed unica difesa 


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LIBRO VII. 369 

della libertà , e col mezzo della quale potemmo ri^ 
congiungersi. Nè qui C ardinsento finì del suo dire , 
ina vi consigliava a ritorcela ; divulgando come una 
ingiuria la libertà dei poveri , e tirannide nominando 
r uguaglianza. Risovvengavi ( era questa la più infame 
delle istanze sue ) com’ egli disse allora , che era pur 
venuto il tempo di ricordar tutte le ingiurie del po- 
polo nella prima discordia , e come esortava quindi 
a mantenere la stessa penuria di viveri , giacché il 
popolo , logoro dai disagf diuturni si ridurrebbe a 
cedere in tutto ai patrizj. Non resisterebbero i poveri 
gran tempo comperando a carissimo prezzo cibi scar-^ 
sissimi ma parte se ne andrebbero lasciando la cUtà, 
e parte rimanendovi, perirebbero infelicissimamerUe, 
E così delirava , così era in ira ogF Iddj ciò persua~ 
dandovi; che non discerneva che oltre i tanti mali 
co* quali travagliavasi per annientare i trattati del Se- 
nato , quando avrebbe ridotto i poveri i quali eran 
pur tanti , alle angustie de* viveri , questi poveri ap- 
punto farebbonsi addosso agli autori delle angustie, 
non più tenendoli per amici. Tanto che se voi pur 
delirando approvavate il suo parere; non restava più 
mezzo : ma ne andava la rovina intera del popolo , 
o de* patrizj. Imperocché non ci saremmo già dati 
quasi schiavi a spatriare o morire : ma chiamando i 
genj ed i numi in testimonio de' mòli che soffriva- 
mo ; avremmo riempiute , ben lo intendete , le piazze, 
e le vie di ukd<ìveri , e fatto un mare di sangue ci- 
vile ; avremmo così ricevuta la sorte che ci si doveva. 

DlQNIGlt tomo //• ' v a4 


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3^0 DELLE Antichità’ romane 
» Sono queste o pculri i empietà che t'i proponeva , 
queste le aringhe le quali credea dover fare. 

• XLV. -iVè già tentò Marcio dire, senza fare mai 
cose che scindevano la città ; ma tenendo anzi a fianco 
una banda di uomini prontissima a tutti i suoi cenni, 
citato dal nostro magistrato non si presentò , e re- 
spinse a furia di colpi i nostri esecutori accintisi per 
ordin nostro ad arrestarlo , non contenendo le mani , 
nemmeno dalle nostre persone. Tanto che , quanto e 
da lui i restava a noi un bel nome , ma vilipeso , di 
un magistrato inviolabile , o sema poter eseguire nep- 
pur una delle operazioni attribuitegli. Come avremmo 
soccorso ad altri che chiamavansi offesi, quando non 
V era nemmeno per noi la sLurezza? ' Malmenati cosi 
ftoi poveri da un tal uomo , che non era ancora un 
tiranno , ma cJut a/frettavasi ad esserlo , avutine già 
tali oltraggi , eravamo ornai vicini a riceverne ancor 
pili , se voi non vi opponevate , o padri , colla vostra 
pluralità. Non dobbiamo noi dunque a ragion corruc^ 
piarcene? E sì; che noi pensiamo non senza esserne 
pur da voi compassionati , doverci da lui premunire 
chiamandolo a giudizio comune e legittimo ove tutto 
il popolo diviso per tribù conceda di parlare a chi 
lo chiede , e dia il suo giuramento ed il volo. Vanne 
ivi dunque o Marcio , ivi di per tua difesa nell’ adu- 
nanza-di lutti quello che qui diresti. E sia che qui 
consigliasti il bene a buon fine , e giovasse a Roma 
che fosse fatto, nè debbansi giustificare altrove le 
cose qui disputate ; sia che non ad arte e premedila- 
tanionte , ma cedendo all’ ira , scorresti a suggerire 


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Lisr.o vit. 37 1 

tali \>ergogne ; sin che tu abbi un altra difesa qua^ 
Itlnque; scendi da quel tuo enlusiatmo orgoglioso e 
tirannico , toma , o sciaurato , ai concetti del popolo : 
renditi simile agli altri', prendi come chi ha peccato 
e raccomandasi , un abito dismesso , addolorcvole * 
conforme ai disastri , e cerca il tuo scampo ; umilian- 
doti, non insolentendo dinanzi gli oltraggiali da te. 
Sianti esempio di bella moderazione^ le opere , le 
quali se tu avessi ùnitalo , non saresti ora ripreso dai 
tuoi cittadini , io dico, quelle di tanti buoni , quanti 
qui ne vedi, segnalati per tante virtù militari e ci- 
vili, quante non sarebbe facile nemmeno in grati 
tempo pen.orrere. Li quali quantunque grandi e ris- 
spettabili ; niente mai fecero di duro , niente di or^ 
goglioso contro noi si tenui e bassi , e primi intromiì- 
sero discorsi di pace , primi la pace offerirono , quando 
la sorte ci avea separati, e concedcron la pace non 
su le condizioni che essi riputavan migliori, ma su 
quelle che noi chiedevamo ; dandosi infine premura 
grandissima di levcu'e i disgusti recenti su la dispenstt 
de' grani per la quale noi gli accusavamo. 

XLVI. Ma tralasciando le altre cose , quali ptc*- 
ghiere non fecero per te , nel tuo superno acceca- 
mento , presso tutti , e presso ciascuno del popolo per 
involarti alla pena? Appresso i consoli ed il Settato, 
i> quali invigilano su questa , tanto grande città , cre- 
deron bene che al giudizio ti sottomettessi del pò- 
polo , nè tu o Marcio a bene lo tieni ? Questi tutti 
non han per un biasimo il pregare per tuo scampo 
il popolo , e tu per biasimo tei prenderai? JVè ciò li 



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372 DELLE ANTICHITÀ* ROMANE 

bastava , o magnanimo ; ma quasi fatta una belV o» 
pera , ne vai con fronte altera e magmfìcandoti , e 
niente adoperandoti a mansuefarli? per non dire che 
insulti , che rimproveri , che minacci la plebe. E pre- 
tendendo lui quanto niuno di voi ; non vi sdegnerete , 
o Padri , a tanto orgoglio ? Se voi tutti risolveste di 
accingervi ad una guerra per esso ; egli dovrebbe 
amarvene , e tenersi tutto pronto per voi, non accet- 
tar però mai un tal bene privato col danno comune, 
ma sottomettersi alle difese , alla sentenza , a tutte 
infine le pene , se bisognasse. Questo- sarebbe l’ ob- 
bligo di un vero cittadino , di uno che vuole il bene 
colle opere , non colle parole. Ma le violenze pre- 
senti qual ne additano mai C indole sua , quale la 
inclinazione ? quella appunto di violare i giuramenti , 
di tradire la fede, di rescinder gli accordi, di far 
guerra al popolo , di oltraggiare le persone dei ma- 
gistrati , di non sottometter la propria per niuna mai 
di queste cause , e di girarsela franchissimamente, non 
come un eguale di tanti cittadini, ma come uno che 
niun teme , e di niuno abbisogna , immunissimo in 
tutto da tribunali e discolpe. Or non è questo un vi- 
vere alla tirannica? certo che jì / Eppure a conforto 
di quest’ uomo spargono aure lievi e suoni dolci, al- 
cuni tra voi che pieni di odio implacabile verso del 
popolo non san vedere che questo male si termina 
anzi contro de’ nobili che degl’ ignobili , e credonsi 
affatto sicuri, sol che deprimano il partito che è loro 
contrario per natura. Ma non così sta il vero , ingan- 
nati che siete. Prendete a maestra la esperienza che 


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LIBRO VII, 373 

Marcio stesso vi somministra , prendetene il corso dei 
tempi: illuminatevi per gli esempj stranieri insieme 
e domestici.^ e ravvisale , che la tirannia la qual nu- 
dtesi contro i plebei , contro tutta la città si alimene 
ta: e che la tirannia che ora contea noi s’ incornine 
eia , fortificatasi , contea tutti ruggirà. 

XLVII. Ragionate queste cose da Oecio , e supplite 
da’ triboni compagni quelle che mancar vi sembravano , 
quando il Senato nè dovè sentenziare , levaronsi i primi 
in piedi i seniori tra gii uomini consolari , inviati se- 
condo r ordjne consueto dai consoli , e quindi via via 
gli altri men riguardevoli per queste qualità : seguirono 
ultimi i giovani , ma non disser parola ; perocché ci 
avea di que’ giorni ancora tra’ Romani la verecondia , 
che niun giovane si arrogava saperne più degli anziani. 
Pertanto accostaronsi essi alle sentenze de’consolarì. Erasi 
preordinato che i senatori presenti giurassero prima , 
come ne’ tribunali , e poi dessero il voto. Appio Clau- 
dio il patrizio , come ho detto , più acerbo col popolo, 
e che mai non aveva approvato che si concordasse con 
esso, mal soffriva che ora si facesse un pari decreto, 
e disse : 

XLVIII. Avi'ei veramente voluto , e più voltf ne 
ho supplicato i numi , essermi sbagliato io circa il 
sentimento su la pace col popolo , vede a dire che il 
ritorno de’ fi frusciti non era nè giusto , nè decoroso , 
nè utile; tanto che quante volte sen prese a trattare^ 
tante io primo ed ultimo mi vi opposi , anche abbona 
donalo da tutti. Anzi avrei voluto o padri , che voi 
li quali per le speranze concepute del meglio , cora-^ 


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3-y4 delle Antichità.* boriane 
(UscendesCe ed popolo sul giusto e su t ingiusto , He 
compariste ora più savi di me. Hiuscitevi però le cose, 
non come io desiderava , anche pregando_ne i numi , 
ma come io prevedeva , e cangialevisi le beneficente 
in vilipendio ed odio ; io lascerò , come estraneo a 
ciò che dee farsi , di riprendervi e di contristarvi in 
vano per le vostre mancanze , quantunque sarebbe 
pur facile , ed è pur questo f uso dei più. Dirò piut- 
tosto ciò che può rettificare le cose passate , quelle 
almeno che non sono in tutto insanabili, e renderci 
più savj circa le presenti. Quantunque non ignoro , 
che dicendo io liberamente i miei sentimenti , parrò 
farneticare e sagrifìearmi , ad alcuni di voi , li quali 
considerino quanto sia disastroso il parlar francamente, 
e riflettano la calamità di Mcuxio, il quale non per 
altra cagione ora corre perìcolo della vita. Ma io non 
penso che la cura della propria salvezza sia da pre- 
giarsi più che il pubblico bene. Già questa mia per- 
sona è tutta pe’ vostri pericoli , tutta pe' cimenti della 
patria ; tanto che gl’ incontrerò generosissimamenle , 
come piace agl’ Iddj , con tutti voi , o con pochi ^ e 
solo ancora , se bisogna. Nè finché io vivo , mai mi 
terrà la paura dal dire quello che io penso. 

XLIX. E primieramente io voglio elte vi persua- 
diate una volta senza eccezioni che il popolo è ma- 
laffetto , e nemico al governo presente f e che qua- 
lunque cosa gli avete , coma deboli , corueduta , £ avete 
spesa vanissimamente , e vi è stala cagione di vilipen- 
dio , quasi conceduta £ abbiate per forza , non a ra- 
gion veduta , c per beneplacito. Considerate come il 


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LIBRO VII. 3^5 

popolo si appartò da voi , pigliando le armi , e come 
ardi mostrarvìsi palesissimamente per inimico , non 
o^eso da voi realmente , ma fingendosi offeso : per- 
chè non polca corrispondere a suoi creditori, e di- 
cendo , che se decreten ate la remissione dei debiti, e 
la condonazione delle colpe commesse per la sedi- 
zione , non desidererebbe più oltre. 1 più di voi, non 
però tutti , sedotti da vani consiglieri ( cosi /atto mai 
non lo avessero ! ) deliberarono di anntdUire le leggi, 
mallevadrici della fede pubblica , nè più ricordane , 
nè perseguitare l’ esorbitanze passate. Egli però non 
si tenne già contento di questa concessione , pel solo 
bisogno della quale diceva di essersi ribellato ; ma 
ben tosto pretese altra prerogativa più grande, e meno 
legittima : io dico quella di eleggersi ogni anno dal- 
t ordin suo i tribuni , pretestando il troppo nostro 
potere, peichè fossero scudo e rf i^io d poveri oltrag- 
giati ed oppressi, ma in realtà tendendo insidie alio 
stato delta repubblica , e volendola ridurre democra- 
tica. Adunque vi persuasero questi consiglieri a la- 
sciare che entrasse in repubblica il tr ibunato ; come 
in fatti vi entrò per isciagura comune , e princìfxd- 
mente in onta del Senato , mentre io , se bene ve 
ne ricorda , tanto ne schiamazzava , protestando ai 
numi ed agli uomini , che introdurreste tra voi una 
guerra interna ed implacabile , e presagendovi tutti i 
mali, quanti ve ne avvengono. 

L. E questo buon popolo che vi ha egli fatto dopo 
che gli avole conceduto il tribunato? Non ha già va- 
luta’o degnamente tanto dono , anzi nemmeno da voi 


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DELLE Antichità.’ romane 


10 prese con prudenza , e con verecondia , come so 
glie lo abbiate accordato , premuti e costernali dalle 
forze di lui. Ha detto che aveasi a rendere sacro , 
inviolabile, sicuro pe giuramenti , ed ha pretesa un 
autorità migliore che rwn quella da voi destinata pei 
consoli. E voi avete tollerato ancor questo, e là tra 
le vittime giuravate la roidna di voi e de’ vostri di-- 
scendenti. E dopo questo ancora che vi ha fatto egli 
mai questo popolo ? In luogo di riconoscervene , < in 
luogo di custodire il governo degli avi, pigliata ori- 
gine da queste prerogative, e volutosi di esse come 
di mezzi indegni per ottenerne ancor altre , propose 
leggi non discusse prima dal Senato , e le autorizzò 
col suo voto , senza del vostro. Niente bada agli sta- 
bilimenti da voi fatti, ed accusai consoli, quasi non 
bene governino , e fin per cose che avvengono fuori 
del vostro consenso , a caso , e molte ne avvengono 
che r intelletto umano non può prevedere , eppure non 

11 caso , come ho detto , ne incolpa , ma i vostri di- 
segni. Fingendo di essere insidiato da voi, e temere 
che lo priviate della libertà , e lo escludiate dalla pa- 
tria , egli stesso va tramando contro voi queste cose. 
E ben è chiaro eh' egli difendesi dall' incorrerli , col 
fare a voi previamente i mali che dice temere. Egli 
ha ciò dimostrato già prima eorf molti documenti, che 
il tempo ora logliemi di ricordare ; ma soprattutto 
col tentare di uccidere anche senza condanna questo 
Marcio , uomo tanto bellicoso , non oscuro di natali , 
nè minore ad altri per virtù , sul pretesto che lo ab- 
bia insidiato , e ne abbia qui detto i mille mali. E 


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LIBRO VII. 


377 


se t vista tanta sccllcraggine , voi consoli , ed altri i 
più savj non vi riunivate , e li contenevate ; sareste 
in un sol giorno stati privati degli onori , del co- 
mando , della libertà : vuol dire di tutto quello che 
i vostri padri vi hanno lasciato come frutto di tanti 
loro stenti , e che voi con altri non minori conser- 
vavate. Afa voi generosi , voi che non amavate più 
nulla senza que’ beni , avreste voi perduto qual pri- 
ma , qual poi , piuttosto la vita che quelli. E se 
questo Marcio era così turpemente e scelleratamente 
manomesso , come in una solitudine ; qual cosa im- 
pedirebbe più che pur io soccombessi tra le mani di 
questi nemici , e ne soccombessero , quanti si oppo- 
sero j o fossero mai per opporsene ai temerarj ca- 
pricci? Se dobbiamo dalle cose passate argomentar 
le future, non sarebbesi il popolo appagato della 
strage di noi due , nè proceduto fin qua , sarebbesi 
contenuto : ma fatto da noi principio , avrebbe qual 
rovinoso torrente rapito e trasportato seco chiunque 
si opponeva o non cedeva , senza guardare nè età , 
nè stirpe , nè virtù. 

LI. Ecco , o padri , le belle ricompense che pei 
tanti e grandi vostri benefizj la plebe vi ha fin qui 
dimostrate , e che era per dimostrarvi , se voi non 
la frenavate. Or su considerate ancora ciò eh' ella 
fece dopo quella savia e maschia vostra risoluzione, 
perchè raccogliate in qual triodo avete a condurvi 
con essa. Come seppe che voi non eravate per sof- 
ferirla più oltre ; ma che vi apparecchiavate a resi- 
sterle , ne sbalordì : ma rivenendo alcun poco a sè 


DIONIGI , tomo II., 


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3^8 DELLE a:«tichita’ romane. 
stessa, come da delirio o da crapola ; si rivolse dal 
far violenza al chiedere un giudizio : e prescrìttone 
il giorno , citò Marcio a subire un esame ov ella 
sarebbe accusatrice , testimonio , giudice , ed arbitra 
del grado della pena. E poiché vi opponeste anche 
a ciò , conghietturando che un tal uomo chiamavasi 
al castigo, non al giudizio; ella al vedere che niente 
potea di per sest^sa , ma che solo era l’ arbitra di 
ratificai'e le cose che avreste voi decretate , scése 
dalla tanta superbia che respirava , e viene a chie- 
dervi che ciò per grazia le concediate. Considerato 
ciò, capite, 0 convincetevi una volta , che quanto le 
avete fin qui conceduto pià semplici che savj ne’ vostri 
consigli , tutto vi ha recato danni ed offese : e che 
quanto le avete virilmente negato opponendocene alle 
violenze ed ai capricci ; tutto a bene vi si è termi- 
nato. E ciò toccato da voi con mano ; che debbo io 
consigliarvi f che suggerirvi su la discussione pre- 
sente ? lo vi consiglio che le cose che voi date e 
concedute per finir le discordie , le osserviate co- 
munque , senza violarne ninna ; non perchè sieno 
oneste e degne di Roma ( giacché e come lo sareb- 
bero mai? ) ma perchè necessarie , nè pià capaci di 
emenda : vi consiglio insieme però , che quante cose 
pretende per violenza, contro la legge, e vostro med 
grado , tutte le neghiate , nè le permettiate , opponert- 
dovete ad uno ad uno e tutti co' detti e colle opere. 
Imperocché non se alcuno vinto dalla seduzione o 
dalla forza , ha mancato una volta , dee pur fare il 
simile per V avvenire; ma memore delle cose passate 


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LIBRO VII. 379 

dee vedere di non imitare più oltre sestesso. Queste 
sono le cose che io giudico che dobbiate voi tutti 
conoscere , e che vi esorto che adempiansi contro le 
pretensioni ingiuste della moltitudine. 

Lll. Che poi V affare ora posto ad esame non sia 
equo e giusto come il tribuìio , illudendovi , cerca 
persuadervi , ma somigli li altri tentativi iniqui ed 
ingiusti del popolo ; conoscetelo a prova quanti non 
bene ancor l’ apprendete. La legge de’ giudizj popo- 
lari alla quale Dodo principalmente si appoggia , 
non fu già formata in danno di voi patrizj , ma per 
garatizia de’ plebei sovverchiati , come ella stessa di- 
mostra; essendone non equivoca la scrittura, e come 
voi tutti , che ne siete appieno istruiti , andate con- 
tinuamente dicendo. E gràn segno è di questo il 
tempo , ( bollissimo in o^i controversia a far di- 
scernere il dritto ) il tempo io dico di diciannove 
anni già decorso dalla introduzion della le^e. Ora 
in tutto questo tempo non può Decio dimostrare 
ninna causa nè privata nè pubblica giudicata Li forza 
di questa legge contro alcuno de patrizj. E se pur 
dica di averla ; dimostrila , nè più avran luogo la 
/ dispute. I trattati ultimi pe’ quali vi riconciliaste col 
popolo, questi trattati che il tribuno interpreta, tra- 
volgendoli , e che però vi si debbono espor netta- 
mente , questi comprendono due concessioni : vuol 
dire che si assolvesse la plebe dai debiti , e si nomi- 
nasse ogni anno il magistrato per difender gli oppressi, 
e non altro. Ed argomento grandissimo che nè la 
legge , nè i trattati concedono al popolo il potere di 


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t 


38o DELLE Antichità’ bomàne 
giudicare un patrizio è la inchiesta appunto che oggi 
egli fa. Oggi egli chiede da voi una facoltà che 
prima non aveva ; niun cercando dagli altri ciocché 
già tiene per legge. Come dunque , o padri coscritti 
( che così pure volea Decio che la pensassimo ), come 
sarà un dritto di natura non scritto quello cioè che 
il popolo sia giudice delle cause che i plebei sosten- 
gono da’ patrizj o le intentano ; nè poi li patrizj 
giudichino quelle de’ patrizj sia che questi le inten- 
tino a p lebei , sia che vi pericolino ? che i plebei 
s’ abbiano in ogni caso il vantalo , e noi non pos- 
siam pareggiarli ? Se Marcio, se un altro qualunque 
de’ patrizj conculchi il popolo , e sia giusto che ne 
abbia la morte , o V esilio ; non da lui , ma qui sia 
giudicato e condannato secondo le leggi. È forse j o 
Decio, il popolo un giudice equabile, un giudice che 
niente condiscende a sestesso , dando il voto contro 
di un nemico? E li patrizj se diati essi questo voto, 
pregieranno più. un reo clie la patria offesa per su- 
birne dagli uomini la esecrazione e /’ odio di sper- 
giuri , e dagli Dei la pena della giustizia tradita , e 
per vivere sempre tra lugubri speranze ? Non così 
penso , o plebei , di un Senato , al quale consentite 
che si dispensino per la sua virtù gli onori , i ma- 
gistrati, e tutti gV incarichi più belli di Roma , chia- 
mandovi ad esso obbligatissimi per la propension 
dimostrata sul vostro ritorno. Or le cose ripugnan 
frh lor/} : come va mai che quelli che encomiate , 
temete ? clù^d essi vi rimettete in cose gravissime , 
e ve ne sottraete nelle altre ? Che non siete sempre 


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LIBRO VII. 38 1 

coerenti a voi stessi , che non vi fidate in tutto , o 
in tutto vi diffidate di loro. Li reputate bomssimi 
perchè deliberino essi i primi le cose , nè poi bonis- 
simi li reputate , perchè ne sentenzino ? Avrei da 
aggiungere o padri , più cose intorno ai diritti ; ma 
il fin qui detto ne basti. 

LUI. E poiché Decio ragionando sull' utile, si fece 
a dire , quanto bene sia la concordia , e quanto di- 
sastro la discordia , e come avrem la concordia nel 
popolo se lo contentiamo , ma la discordia se gli 
proibiamo di bandire o di uccidere chi vuol de' pa- 
trizj ; io gli farò breve risposta , quantunque pur 
lunga me P abbia. E primieramente io mi stupisco 
della dissimulazione di Decio , per non dire- della 
stolidilà , quando egli che si è messo non è molto 
a’ pubblici affari, pensa vedere F utìl comune meglio 
che noi che abbiamo invecchiato tra questi, e ren- 
duta grande di picchia la repubblica : e mi stupisco 
in secondo luogo che egli mai si lusingasse di per- 
suadervi che v’ era d" uopo di consegnare ad essi che 
ne sono nemici , pel castigo un cittadino collega vo- 
stro non ignobile , nè dappoco , ma da voi riputato 
insignissimo in guerra , sobbrissimo di costumi . nè 
inferiore a ninno nel maneggio del pubblico. Eppure 
egli ha osato dir questo , tuttoché vedo che voi avete 
gran rispetto pe supplichevoli , e che lo avreste , be- 
nevoli ugualmente , anche pe' nemici di arme, se mai 
qui ricorressero. Che se ci avessi tu o Decio cono- 
sciuto dediti a cose contrarie , pensar malamente dei 
numi, ed operare ingiustamente cogli uomini ; e qual 


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38 DELLTÌ ANTICHITÀ’ ROMANE 

cosa pià. indegna avresti mai suggerito che sostenete 
simo , perchè sradicati , dismessi in tutto , perissimo 
tra r odio degli uomini , e degl’ Iddj ? Non ci ahhi- 
sognano , o Decio , i tuoi consigli non su la conse- 
gna de'’ cittadini, nè su di altra cosa niuna che deb- 
basi da noi fare. Nè pensiamo che noi giunti fino a 
questa età tra tanta esperienza di beni e di mali , 
dobbiamo ora decidere C util nostro colla inespe- 
rienza di un giovine , e di un giovine estraneo da 
noi. Le minacce di guerra le quali usate per atter- 
rirci , non le abbiamo ora la prima volta da voi ; 
ma essendoci già state fatte tante volte e da tanti, 
le sosterremo imperturbabilmente, reggendoci coir an- 
tica nostra mansuetudine. Che se a detti conforme- 
rete pur le opere , vi rispingeremo ; giacché stanno 
per noi gl’ Iddìi , li quali non favoriscono le guerre 
ingiuste , ed è per noi pronto non poco di truppe 
ausiliarie. Saran per noi tutti i Latini ai quali ab- 
biamo di fresco conceduta la cittadinanza , e com- 
batteranno per questa città come per la patria loro. 
E le colonie di qui partile , le quali ora formano 
tante e buone città , soccorreranno ancor esse con 
tutto r impegno la città loro madre. Che se vorrete 
ridurci alla necessità di raccoglier sussidj da ogni 
parte ; vi si ridurremo o Decio : ed invitati i servi 
ad esser liberi , i nemici di arme ad avere la pace , 
e tutti a partecipare la speranza della vittoria ; vi 
faremo insieme la guerra. Ma deh ! che non slanci 
mai questi bisogni , o Giove , o Dei tutti difensori 
di Roma! non scorrano i terrori oltre le parole; nè 
mai sieguane opera disgustosa. 


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LIBRO VII. 383 

LTV. -Appio cosi disse: Marco però Valerio il più 
popolare di lutto il consesso , quegli che avea dima- 
girata la propension più grande per la pace , propizio 
anche allora manifestamente verso del popolo , tenne 
un assai studiato discorso ; riprendendo quelli che non 
permettevano che la città fosse unita, ma vi scindevano 
la plebe da patrizj, e vi risuscitavano per tenui cagioni 
una guerra intestina ; encomiando , quelli che seguivano 
il bene comune , e pregiavano la conconlia più che 
ogni cosa ; e facendo riflettere che se il popolo dive- 
nisse r arbitro , come chiedeva , di quel giudizio , e ne 
avesse la concessione dal Senato , forse non procede- 
rebbe fino agli estremi , ma contento di aver 1’ accu- 
sato , ne disporrebbe piuttosto con mansuetudine , che 
con durezza. Che se i tribuni ad ogni modo volessero' 
compiere secondo le forme tutto il giudizio , il popolo 
arbitro de’ voti assolverebbe colui da ogni colpa , parte 
per verecondia di vedere in pericolo un uomo del 
quale dovea ricordare tante e si splendide imprese , e 
parte per gratitudine al Senato che gli avesse concedato 
quel potere senza contrapporsegli nella onesta dimanda. 
Pertanto consigliava i consoli, tutti i membri del Senato 
ivi presenti , e tutti gli altri patrizj di andare in folla 
e trovarsi a quel giudizio, di difendervi insieme il reo, 
e di supplicare il popolo a non sentenziare con rigore 
su lui ; mentre conferirebbe ciò non poco , nè di lieve 
momento sarebbe per la saviezza di Marcio in pericolo. 
Consigliava che non solamente essi fossero cosi animati, 
ma che v’ Invitassero ciascuno I proprj clienti , vi con- 
gregasser gli amici , e vi assumessero , se ne aveano , 


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384 DELLK Antichità’ bomane 
quanti erano i loro beneficati , dal popolo , e nc chie- 
dessero allora nel dar di quel voto la riconoscenza già 
prima dovuta. Diceva che non poco lo gioverebbe la 
parte di popolo che amava la patria, e detestava gli scel*. 
lerati , e la parte ancora più numerosa, la quale si ad> 
dolora per le altrui sciagure, e sa compatire gli uomini 
costituiti in dignità, se la sorte loro travolgasi. Tuttavia 
diresse a Marcio la maggior parte del discorso mista di 
ammonimenti , di esortazioni , e di preghiere che face- 
vano violenza. E giacché egli era la causa . della discor- 
danza del popolo dal Senato , e calunniavasi come ti- 
rannica la esuberanza delle sue maniere, e temeasi che 
per lui si desse principio alle sedizioni e ai mali gra- 
vissimi, quanti ne sorgono dalle guerre civili; pregavalo 
a non verificare , o non confermare almeno le incolpa- 
zioni e le paure con quel suo nou gradito contegno : 
assumesse un abito più umiliato : sottomettesse la sua 
persona per dar conto a quelli che chiamavausi oltrag- 
giati da lui : si presentasse alle difese contro di un ac- 
cusa ingiusta si , ma che in giudizio appunto si annul- 
lerebbe. Sarebbe un tal fare più sicuro per la salvezza, 
più splendido per la fama che desiderava , e più con- 
sentaneo colie opere antecedenti. Dichiarava che se 
ostinavasi anziché raddolcirsi , e se riduceva , persua- 
dendoli , i padri a subire ogni pericolo per òsso , mi- 
sera sarebbe per loro se vinti la perdita, ma turpissima 
se vincitori , la vittoria. E qui tutto davasi al pianto , 
riepilogando i mali gravi e non dubbj che straziano 
nelle discordie le città. 

LY. Tali cose esponendo con molte lagrime non 


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LIBBO VII. 385 

artificiose 'e noa finte , ina vere , egli venerabillstima 
per anni e per meriti , come videne commosso tutto il 
Senato , cosi con più confidenza seguitò , dicendo : Se 
alcuno di voi conturbasi , o padri , pensando che in- 
troducesi un tristo costume nel concedere al popolo 
di votar su patrizj , e che non produrrà niun bene 
f autorità de' tribuni che tanto si fortifica , sappiate 
che voi siete errici , e v ideate il contrario di quel 
che conviene Imperocché se mai vi sarà metodo sa- 
lutare , metodo per cui non si tolga né la libertà nè 
le forze a Romec, e per cui le si conservi in perpetuo 
la concordia ; senza dubbio il metodo principalissimo 
sarà quello che assumasi anche il popolo al goverrto, 
talché non sìa questo nè pretta oligarchia , nè demo- 
crazia, ma un tal misto di tutti. E questa la forma 
che più che tutte ne giovi ; perchè ciascuna delle al- 
tre , applicata sola , com* è per sestessa , scorre faci- 
lissimamente alle insolenze ed alle ingiustizie; laddove 
quando una forma si abbia ben contemperata da 
tutte , allora se una parte commovesi ed esce dal- 
r orditi suo , vien contenuta sempre dall altra, che è 
savia, e tiensi al dovere. La monarchia divenuta dura^ 
superba , tirannica , suole abbattersi da pochi valenti 
uomini : la oligarchia , qual voi t avete al presente , 
se troppo s' innalza per le ricchezze e per le ade- 
renze, nè più tien conto della giustizia e della virtùf 
si annienta da un popolo savio : un popolo savio e 
che vive secondo le leggi , se poi volgesi ai disordini 
ed alle ingiustizie; è sopraffatto dalle arme, e rimesso 
piomat , tamo II. ' . j5 


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386 DELLE antichità’ ROMANE 
in dovere dal pià forte. Voi trovaste, o padri, rimedj 
efficaci perchè il potere di un solo non si mutasse i n 
tirannide. Voi scegliendo in luogo di un solo due 
capi della repubblica , e dando loro il comando non 
per un tempo illimitato, ma per un anno; destinaste 
oltracciò per invigilarli i trecento patrizf, i più anziani 
e più grandi , da' quali è composto il Senato. Ma 
voi , per quanto si vede , non avete fin qui messo 
per voi niun che vi osservi , e tenga in dovere. CeT’~ 
tornente io finora non temei che vi corrompeste ancor 
voi tra t abbondanza , e la grandezza dei beni, per-- 
chè non è molto che avete liberato Roma da una 
vecchia tirannide ; nè aveste mai comodo di scapric- 
ciarvi e cC insolentire per le guerre continue e lunghe. 
Ma riflettendo io ciocché può succedere dopo voi , e 
quante mutazioni suol produrre la diuturnità dei 
tempi ; temo che i potenti del Senato si rimescolino, 
e riducano per occulte vie finalmente il governo in 
tirannide. 

LVI. Ma se comunicherete il comando col popolo, 
non sorgerà quindi alcun male. E se altri ( giacché 
tutto dee prevedersi da chi consulta su la repubblica) 
se altri tenti elevarsi più de’ colleghi e del Senato , 
procacciandosi un seguito di uomini pronti a congiu- 
rare e ad offendere ; costui citato dai tribuni al po- 
polo, per quanto egli sia grande e magnifico, renderà 
conto ai negletti ed ai poveri : e trovatosi reo , ne 
subirà le pene che merita. Ma perchè il popolo con 
tal potere non insolentisca nemmen esso , nè guidato 
da capi rei s’ inalberi contro de' buoni, tiranneggiando 


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•• ^ 



LIBRO VII. 


38 ^ 


( che nasce tmcìie nel popolo la tirannide ) ; lo invi- 
gilerà , nè pennellerà che ne abusi un uomo distin- 
tissimo per saviezza. Un dittatore eletto da voi con 
potere assoluto, inappellabile , separerà dalla città la 
parte infetta di popolo, nè lascerà che la sana se ne 
corrompa. Egli , riordinati i costumi e le preclare 
maniere del vivere, nominati i magistrali, che giudica 
savissimi per la cura del pubblico , ed eseguili tali 
cose in sei mesi , rientri di bel nuovo nella classe 
de’ privati , conservando per sè t onore , e non più. 
Pertanto considercutdo vqì questo , e giudicando bo- 
nissima tal forma di repubblica , non vogliate da ciò 
che chiede escludere il popolo. Ala come avete attri- 
buito al popolo che scelga ogni anno i magistrali che 
regolino , che ratifichi o annulli le leggi , e decida 
della guerra e della pace, cose tutte rilevantissime e 
principali tra quante in uno stato sen facciano ; nè 
avete di niuna di esse lasciato cubitro indipendente 
il Senato ; cosi chiamale anche il popolo a parte dei 
giudizj , massimamente se alcuno sia accusato di of- 
fendere la stessa repubblica, eccitando sedizioni, pre- 
parando la tirannide, convenendosi co’ nemici di tra- 
dirci, e macchinando mali consimili. Imperocché quanto 
più renderete terribile agl indocili ed ai superbi la 
trasgression delle leggi , e le innovazioni di Stato , 
mostrando intenti su loro più occhi e più guardie ; 
tanto più la repubblica starà nel suo fiore. 

LVII, Dette queste e cose consimili , tacque. Con- 
vennero nel parere medesimo gli altri senatori sorti 
dopo lui , eccettuatine pochi. E standosene ornai per 


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388 DELLE Antichità’ romane 

formare il decreto ; chiese Marcio la parola e disse : 
Quale, o padri coscritti , io sia stato verso la repub^ 
blica , come io sia venuto in tanto pericolo per la 
benevolenza mia verso di voi , e come ora io ne sia 
da voi contraccambiato fuori della mia espettazione , 
voi tutti il vedete , e meglio lo intenderete ancora 
dopo dato un fine alle mie cose. Ed oh ! se come 
la sentenza di Valerio prevale ; così vi giovasse , ed 
io mi sbagliassi nelle mie congetture sul futuro. Al- 
meno però perchè voi che siete per emanare il de- 
creto , conosciate le cause p^r le quali mi consegniate 
al popolo , nè io ignori su che sarà combattuto nel- 
t adunanza di esso ; intimale ai tribuni che dicano 
alla presenza vostra la ingiustizia su la quale mi ac- 
cuseranno , e qual titolo diasi a questo giudizio. 

LVin. Egli cosi diceva , perchè congetturava che a* 
vrebbe a difendersi appunto pe’ discorsi fatti in Senato, 
e perchè voleva che i tribuni convenissero che su que» 
sto appunto verserebbe l’azione. Ma i tribuni consulta- 
tisi lo accusarono che brigato avesse la tirannide, e su. 
questa accusa chiedevano che venisse a difendersi. (Schivi 
di restringere 1’ accusa ad una sola causa , e questa nè 
valida nè cara ai Senato ; riserbavansi il potere di ac- 
cusarlo su quanto volevano > pensando che resterebbe 
così Marcio spogliato di tutto il soccorso del Senato ). 
Marcio dunque replicò: se io debbo essere giudicato 
su questa calunnia , mi sottometto ed giudizio del 
popolo , nò mi oppongo che ne stenda il Senato 'il 
decreto. Piaceva al più de’ padri che su ciò si rigi- 
rasse l’accusa e per due fini: perchè da indi in poi 


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LIBRO VII. 38q 

non più sarebbe un senatore incolpato per dire cioc> 
chè pensava nelle consultazioni ; e perché di leggieri 
quel valentuomo se ne purgherebbe, sobbriissimo altron« 
de , ed irreprensibile nella vita. F u dunque , secoudo 
ciò , steso il decreto pel giudizio : e dato a Marcio tem* 
po per preparar le difese da indi al terzo mercato. Te- 
nevasi allora , e tuttavia si tiene da’ Romani il mercato 
in ogni nono giorno. In questi adunandosi i plebei dalle 
campagne in città ; vi cambiavan le merci, e vi discu- 
tevano le liti private : e ricevendo i voti ; sentenziavano 
su le cause pubbliche , riservate loro dalle leggi , o dal 
Senato. Negli otto giorni intermedj a’ mercati viveansi 
nelle campagne , essendone i più di loro lavoratori e 
poveri. I tribuni preso il decreto, e recatisi al Foro, 
v’adunàrono il popolo : e lodatovi con ampj encomj il 
Senato , e lettavene la sentenza ; intimarono il giorno 
nel quale si finirebbe quella causa ; raccomandando a 
tutti d’ intervenire , perchè discuterebbono importantis- 
sime cose. 

LIX. Divulgato ciò ; vivissime furono le cure e i ma* 
neggi de’ plebei e de’ patrizj ; di quelli come per punire 
un arrogante , e di questi perchè non restasse all’ arbi- 
trio de’ loro avversar] il difensore del comando de’ po- 
chi. Pareva ad ambi che si mettessero in quella causa a 
pericolo i diritti tutti della vita e della libertà. Giunto 
il terzo mercato , si ridusse dalle campagne in città 
tanta moltitudine , quanta mai più per addietro , occu- 
pando infino dall’ alba il Foro. I tribuni la invitarono 
a riunirsi per tribù , separando con funi il sito dove 
ciascuna si alluogherebbe. L’ adunanza su quest’ uomo 


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3go DELLE Antichità’ komane 

fu la prima la quale votasse per tribù ( i ) , sebbene as- 
sai si opponessero i palrizj perchè ciò si facesse ; chie- 
dendo che si tenessero, com’era l’uso della patria, i 
comizj per centurie. Imperocché ne’ primi ten>pi se il 
popolo dovea votare su di una causa qualunque rimes- 
sagli dal Senato ; i consoli adunavano i comizj per cen- 
turie, compiendo prima i sagrifìzj legittimi , che in 
parte si compiono ancora. Il popolo ordinato come nei 
tempi di guerra sotto i centurioni e le insegne , adu- 
navasi nel campo di Marte posto innanzi della città. 
Quivi non prendevano e davano tatti insieme il lor 
voto ; ma ciascuno nella propria centuria , secondo che 
eran chiamate dai consoli. Ed essendo le centurie cento 
novanta tre , e dividendosi queste in sci classi , chiama- 
vasi innanzi tutte , e dava il suo voto la prima classe , 
la quale formata dei più riguardevoli per sostanze , e 
primi negli ordini militari , comprendeva diciotto cen- 
turie equestri , ed ottanta appiedi. Appressò votava 1’ al- 
tra classe la quale men comoda per sostanze , seconda 
nell’ ordine della battaglia , e men cospicua de' primi per 
armatura , formava venti centurie; aggiuntene ancor due 
di artefici , i quali apprestano legni e ierro , ed ogni 
altra macchina militare. Costituivano i chiamati nella 
terza classe venti centurie , inferiori tutte nell’ onore , 
nell’ ordine della battaglia , e nelle armi , non simili a 
quelle de’ precedenti. Gli altri chiamati appresso , rispet- 
tabili anche meno in pregio di sostanze e di armi , ma 
più sicuri di posto nella battaglia , divideausi ugualmente 

(i) Anni di Roma a63 secoado Catone, aR5 secondo Varrone , 
a 4^ ae- Cristo. 


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I 


LIBRO VII- 391 

ia venti centurie ; alle quali se ne univano altre due y 
di suonatori di corni e di trombe. Qiiamavasi per quIn-< 
ta , la classe tenuissima per averi e per armi eh’ erano 
strali e Sonde. Non aveano questi luogo nella legione» 
ma spedili e leggeri , e divisi In trenta centurie , com- 
battevano insieme con quelli di grave armatura. Final- 
mente i dttadini più poveri , tuttoché non minori agli 
altri di numero , ristretti tutti in una centuria , pren- 
deano gli nltiml il voto. Immuni essi per sestessi dai ca- 
taloghi militari e. dai tributi ordinati secondo gli; ave- 
ri» erano appunto per queste, due cause inferiori a tutti 
nella collazione de’ voti (1). Se le centurie della prima 
classe , vuol dire le novantotto tra le equestri e pedestri 
e che aveano il primo' posto in battaglia, si trovavano 
tutte di accordo ; la collazione de’ voti era finita , nè 
lasctavasi alle altre , che. erano sole novantacinque , di 
votare (a) ; e se ciò non succedeva , chiamavasi la se-* 
conda delle ventidùe centurie , e quindi la terza : e cosi 
procedevasi finché unanimi si trovassero novanta sette 
centurie. £ per lo più le discussioni ultimavansi col 
chiamare la prima classe; non bisognandovi punto le 
altre. E di raro mai sconlravasi un tal fatto con dub- 

(1) Questa numeraiioae è forse superflua. fM l>i>. 4 t S'So j ù 
tratta la materia medesima. I soldati che qui si dicoDo immuni dai 
cataloghi militari, erano certameule liberi dalle coscrizioni: peral- 
tro potevano militare se volevano. 

(a) Nella prima classe ci aveano ottanta centnrie appiedi a diciotto a 
cavallo, ìu lutto novanlollo vedi loco citato. Le altre classi in tutto 
costituivano novantacinque centurie : perchè la seconda classe com- 
prendeva venlidua centurie: la terza venti: la quarta di nuovo ven* 
lidne : e la quinta trenta; risultaudo la sesta da una sola. 


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3q2 delle antichità’ romane 
bio da ricorrere al voto fioale de’ poveri. Era questo 
il refìigio estreirio , se mai le cento novantadue centu- 
rie scindeansi in parti eguali ; e ne preponderava la 
parte alla quale quell’ ultimo voto si volgeva. Chiedeano 
i difensori di Marcio che si adunassero i comizj ordinati 
secondo gli averi, immaginandosi forse che il valentuomo 
sarebbe liberato dalle novantotto centurie' della prima 
classe quando le chiamavano, o dalie altre almeno della 
seconda o della terza. Ma sospettando eziandio ciò li 
tribuni , conclusero che si avesse a riunire il popolo per 
tribù , e così renderlo giudice della contesa ; perchè nè 
i poveri ci avessero men potere dei ricchi , nè i soldati 
leggeri men di quelli di grave armatura , nè la molti- 
tudine , differita per 1’ ultima chiamata , fosse impedita 
a dare egnal voto. Divenuti tutti pari nell’ onore . e nel 
voto , avrebbero ad una sola chiamata dato i loro suf- 
fragi tribù. Or pareano i tribuni più giusti che gli 
altri , col pensare che il giudizio del popolo fosse ve- 
ramente del popolo , non della parte fautrice degli ot- 
timati ; e che su le offese di tutti , tutti dovessero sen- 
tenziare. 

LX. Conceduto ciò con stento da’ patrizj , essendosi 
ornai per disputare la causa , Minucio 1’ altro de' con- 
soli ascese il primo in ringhiera , e disse quanto eragli 
stato commesso dal Senato. E prima ricordò tutte le be- 
neficenze , quante il popolo ne avea ricevute da’ patri- 
zi : e poi chiese in contraccambio di queste , eh’ eran 
pur tante, che il popob concedesse una grazia, neces- 
saria ad essi che la domandavano , pel pubblico bene : 
quindi lodò la concordia e la pace e rilevò di quanti 


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LIBKO VII. 39.3 

beni Sten causa I’ una e T altra nelle citUi: condannò le 
sedizioni e le guerre intestine; e mostrò, che ne erano 
stale distrutte le città con gli abitanti , anzi le • intere 
nazioni : raccomandò che secondando l’ira non isceglies* 
sero il peggio per lo migliore: che provredessero il fu- 
turo con saviezza , non si valessero in consultazioni gra» 
vissime dèi consiglio de* cittadini più tristi , ma di quelli 
che tenean per bonissimi , da’ quali sapeano «sere stata 
tanto giovata in guerra ed in pace la patria , e de’ quali 
non era giusto che diffidassero, quasi avessero già mu- 
tato > natura. Era 1’ intento di tanti discorsi , che non 
dessero niun voto contro di Marcio , ma in vista prin- 
dpal mente di essi assolvessero quel valentuomo ; ricoi> 
dandosi quale egli era stato per la repubblica, quante 
guerre avea portato a buon termine per. la libertà e per 
r impèro di Roma , e come non farebbero cosa nè pia; 
nè giusta, nè degna di . loro, se ingrati alle opere segna- 
late di lui ne punissero le vane parole. Esservi bellis- 
sima la opportunità di dimetterlo ; giacché egli presen* 
tava la sua pmeona ai nemici , per subirne in pace il 
giudizio che di lùi formerebbero. E se non che ricon- 
ciliarsegli , persistevano duri , implacabili con esso , al- 
meno giacché il Senato trecento i: più insigni della città, 
facevasi a supplioudì , s’ impietosissero e mansuefacessero, 
ciò considerando ; nè per punire un nemico ributtassero 
le {««ghiere di tanti amici , ma in grazia di tanti va- 
lealuomini condonassero la pena di un solo. Dette que- 
ste consimili cose , aggiunse in ultimo , che se assol- 
vesserò dopo dati i voti un tal uomo , parrebbouo ril.i- 
aciarlo per non esser stato un ofTeusore del popolo : ma 


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394 DELLE Antichità’ bomane 
se proibivano di prosegniroe il giudieio , mostrerebbero 
di donarlo a tanti che per lui supplicavano. 

LXI. E qui taciutosi Minucio, fecesi innanzi Sicinio il 
tribuno, e disse: che. uè egli tradirebbe la libertà del 
popolo , nè permetterebbe di buon grado che altri la 
tradissero. Pertanto se i patiizj sottomettevano realmente 
un tal uomo al giudizio del pòpolo , iàrebbe che su lui 
si votasse, nè punto da ciò i si scosterebbe. ^ E; qui su- 
bentrando Minucio replicava : Poiché- siete o tribuni 
fermi in tutto eli dare il voto su quest’uomo; almeno 
non lo accusale di altro che della offesa imputatagli. 
K poiché lo dinunziaste reo di ambita tirannide di* 
chiarate e convincete, ciò con gli argomenti t ma' non 
vogliate .nè ricordare nè accusare le parole , le quali 

10 incolpavate, di^ carer . detto in Senato.^ Imperocché 

11 Senato lo dichiarava immune da que'sta colpa j e 
sentenziò phe al popolo si. presentasse '..per le cause 
convenute. E qui lesse la seuteoBa. E <^tte e protestate 
queste : cose , discese. AUora^’ 'Skiàio primo &a’ tri- 
buoi espose l’ accusa con cura ed appareccbio grande^ 
riferendo’ tutte 'le cose detfe o; fatte dà quest’ uomo ai 
disegni di 'fondar’ la tjran nide."' Parlarono • 4t>pò ,bn gli 

altri più potati de’ tfibutii. .. . i. , . 

. LXII. Ma- non eà' tosto' tocoù atMarciu-di perórare , 
combaciando da capo , numttò quante spedizioni mili- 
tari avea sostenuto dalla prima età sua>per.<Ia 'repub>^ 
blica , quante corone trionfali avea' riportate da saoi cc.^^ 
mandanti , quanti erano i nemici presi da lui prigionie- 
ri , quanti li Cittadini salvati nelle battaglie. E ad ogni 
dir suo mostrava i premj dati al suo valore, e ne prof* 


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I 


LIBRO VII. 395 

feriva io testimonio I capitani , e ne chiamava a nome 
i cittadini liberati. E questi si presentavano sospirando e 
supplicando i cittadini a non uccidere , nè distruggere 
come nemico chi era la causa della loro salvezza ; chie- 
dendo la vita di un solo per quella di tanti , ed esi- 
bendo in luogo di lui sestessi , perchè come più vo- 
leano ne disponessero. Erano i più di loro del popolo » 
anzi al popolo utilissimi. E preso il popolo da verecon- 
dia all’ aspetto ed alle lagrime di tanti ne impietosi , e 
ne pianse. Quando Marcio squarciandosi 1’ abito , mo- 
strò pieno il petto , piene le altre membra di cicatrici , 
e dimandò se credeano poter esser le opere di un 
uomo stesso salvare il popolo in guerra dà nemici, e 
saU alo opprimerlo nella pace : e se chi fonda una 
rannlde , caccia dalla città una porle del popolo, dal 
(filale principalmente la tirannide si alimenta e cor- 
rohora. E lui parlando ancora , tutti i più mansueti , 
e più umani del popolo esclamavano, che si rilasciasse: 
e vergognavansi che stesse fio dal principio in giudizio 
per simil cagione un uomo che avea tante volte spre- 
giata la propria salvezza per quella di tutti. Ma tutti i 
più invidiosi , tutti i più malevoli ai buoni , e più pronti 
alle sedizioni , soffrivano di mai in cuore di avere a li- 
berare un tal uomo : tuttavia non sapeano che più fare, 
non apparendo in esso indizj nè di tirannide , nè di 
ambizion di tirannide , e su ciò dovessi giudicare. 

LXIII. Or ciò vedendo quel Decio che avea ragio- 
nato in Senato , e procurato che si stendesse il decreto 
per la causa , levatosi in piede fece silenzio e disse : 
Poiché , o popolo , i patrizj hanno assoluto Marcio 


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396 


DELLE Antichità’ romane 


dalle parole dette in Senato , e da fatti violenti e 
superbi che le seguirono: nè vi hanno lasciato mezzi 
onde accusarlo ; udite , non le parole , no , ma la 
egregia cosa che questo valentuomo vi apparecchiava ; 
uditene £ orgoglio , la sovverchieria , e conoscete qual 
vostra legge , egli privatissimo uomo , violasse. Koi 
tutti sapete che quante spoglie nemiche ci riesce di 
acquistar col valore , tutte per legge son del comune, e 
che niuno, nemmeno lo stesso capitano , non che un 
privato , ne è £ arbitro ; sapete che il questore le 
prende , le vende , e , fattone danaro , lo versa nel 
pubblico erario. Or questa legge che niuno da che 
Roma è Roma non solo non ha mai violato , ma 
nemmeno ha ripreso come non buona ; questa già 
firmala , invalsa , questa ha £ unico Marcio con- 
culcata, appropriando le prede che erano del comune, 
£ anno scaduto , e non prima. Imperocché essendo 
noi scorsi su le terre degli Anziati , e pigliato aven- 
dovi prigionieri , e bestiami , e frumenti , ed altro in 
copia ; egli non depositò già tutto' nelle mani del 
questore: e nemmeno, alienandolo, ne mise il prezzo 
nel£ erario : ma divise in dono agli amici suoi per 
cattivarseli, tutta la preda ; or questo io dico eh’ egli 
è argomento certissimo di tirannide. E come no ? 
Costui beneficava col tesoro pubblico li suoi adulatori, 
li custodi della sua persona , li cooperatori della ti- 
rannide. E vi affermo che questo fu come un abro- 
gare manifestamente la legge. Or su, facciasi pure 
innanzi Marcio , e dimostri £ una o £ altra delle 
due; omelie egli non compartì le belliche prede a’ suoi 


% 


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LIBBO VII. 


%7 


amici ; o che se bene ciò fece , non ruppe la legge. 
Ma egli non potrà dire ninna di queste due cose. 
Imperocché voi sapete ( una e V altra , la legge e 
t opera : Nè mai potrete coll assolverlo , dar vista di 
conoscere i diritti ed i giuramenti. Lascia o Marcio 
le corone ed i premj , lascia le ferite ed ogni osten- 
tazione , e rispondi a questo , su che li concedo ornai 
che tu parli. 

LXiy. Cagionò tale accusa grande mutazione; e li 
più dolci, e più premurosi per I’ assoluzione di questo 
uomo si rallentaron ciò udendo. E li più perfidi , quali 
erano i più della plebe , deliberati allatto di perderlo , 
vi si ostinarono ancor più , per una occasione si gran- 
de , e si- manifesta. EU’ era ben vera la distribuzion 
della preda , non era però fatta per mal genio , nè in 
vista di una tirannide , come Decio calunniava, ma solo 
con fine benissimo , con quello cioè di riparare ai mali 
della repubblica : perchè essendo allora il popolo di- 
scorde ed alienato da’patrizj , i nemici dispregiandoli, 
ne scorrevano e ne predavano di continuo le campagne. 
E quante volle parve al Senato di spedire una forza che 
li reprimesse , ninno usciva del popolo , anzi giubbilava 
contemplando i casi d’ intorno , nè le forze dei patrizj ba- 
stavano a contrapporsi. Or ciò vedendo Marcio promise ai 
consoli, se lo creavano capitano, di portar su' nemici un’ar- 
mata spontanea, e di pigliarne ben tosto vendetta. Ottenuto 
Marcio il potere , congregò li clienti, gli amici , e quanti 
voleano partecipare le sue fortune , e la sua gloria nelle 
armi. E quando parvegli che si fosse raccolta milizia suf- 
ficiente ; la menò su’ nemici che niente ne prevedeano. 


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3 gS DELLE Antichità’ romane 

Scorso in region doviziosissima , ed arbitro divenuto di 
amplissima preda , permise alle sue milizie che tutta se 
la dividessero , afUnchè li compagni dell’ impresa , rac- 
coltone il frutto , andassero pronti anche agli altri ci- 
menti : e quelli , che impigrivano in casa, considerando 
da quanti beni , a’ quali poteano partecipare , gli allon- 
tanasse la sedizione; divenissero più savj per le spedi- 
zioni seguenti. Tale era su ciò la idea del valentuomo. 
Ma la turba invida e tenebrosa , considerandone con 
malvolere le operazioni, credette vedere in esse un pre- 
dominio , nna largizione tirannica. Dond’ è che il Foro 
si riempié di clamori e di tumulto : nè più Marcio , nè 
il consolo , nè alcun altro sapeano che rispondere , riu- 
scendo la incolpazione inaspettata ed improvvisa. Poi- 
ché dunque ninno più faceane le difese; i tribuni di- 
spensarono alle tribù li suffragi , proponendo per pena 
del delitto Y' esilio perpetuo , io credo perchè temevano, 
che se proponevano la morte, non sarebbevi stato con- 
dannato. Dato da tutti il voto , e numeratili , non vi fu 
gran divario. Imperocché essendo allora ventuna le tribù 
le quali ottennero il voto , nove si decisero per la li- 
berazione di Marcio , tanto che se altre due vi si ag- 
giungevano , sarebbe stato , còme ordina la legge , libe- 
rato per la uguaglianza (i). 

(i) Se le trìbCk erano at , e nove si dichiararono per Marcio: 
dunque dodici lo condannarono; e però ire o non due altre trilnt 
ci Toleano per uguagliare i Voli della condanna e dell’ assoluzione. 
Forse Dionigi Tuoi dire che se la tribù condaunaTauo cd undici 
assolvevano, l’efHcacia de’ voli era la stessa in guisa, che per uu 
voto di più non cnndannavasi il reo, ma si rilasciava. Se ciò è, 
nel lesto non vi è discordia , ma la voce dovrà tradursi 


I 


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LIBBO VII./ 3q9 

I LXV. Fu questa la prima oitasione di un patrizio 
al popolo per esserne giudicato : e d’ allora in poi fu 
stabilito il costume che i tribuni chiamano chi lor piace 
de’ cittadini a subire il giudizio del popolo. £ dopo tal 
fatto ancora assai il popolo si elevò , decadendo nom- 
tneno il potere de’ pochi , perché ne furono ridotti ad 
ammettere > plebei nel Senato , a concedere che aspi- 
rassero agli onori , a non vietare che prendessero i sa- 
cerdozi , e a dividere con essi per forza e loro malgra- 
do , o per provvidenza e saviezza , i tanti bei pregi , 
un tempo proprj solo de’ patrizj , come ne’ luoghi op- 
portuni diremo. Del resto l’ uso di citare i cittadini pri- 
mai'j al giudizio della moltitudine può somministrare ma- 
teria ben ampia di discorso a chi vuol biasimarlo o lo- 
darlo ; perciocché molli uomini probi ed egregj ne so- 
stennero cose non degne della loro virtù , fatti inglòrio- 
sameute uccidere e malvagiamente pe’ tribuni : e per 
r opposito ne pagarono pnre la debita pena molti uomini 
aiToganti e tirannici , astretti a dar conto del vivere e 
procedere loro. Quando dunque vi si faceano con cor 
buono le discussioni , e vi si reprimevano le esorbitanze 
dei graudi , quella sembrava mirabilissima cosa, ed erano 
da tulli lodata : ma quando a torto il merito vi si pro- 
strava de’ valentuomini egregj nel governo del comune ; 
sembrava orribilissima , e gli autori se he accusavano 

non per la uguaglianza de' voti come abbiamo (allo ma per la effi- 
cacia de’ voti. Sappiasi in fioe che talono de’ critici afferma che le 
tribù allora erano 3i, e non 3i ; ma il Sigonio de civiiate Rom. 
G. 3, ed Onofrio Vanvlno al c. 8 , sostengono che erano realmente 
Tcntuna. 


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4oo .DELLE Antichità’ romane 

della coDsnetudtne. Esaminarono , evvero , più volte i 
Romani se la dovessero annullare , o custodire come 
r aveano ricevuta dagli antenati ; ma non diedero mai 
fine all’ esame. E se pur io debbo dirne ciocché ne pen- 
so, a me ne sembra la istituzione, se per sé si consi- 
deri , vantaggiosa , anzi necessariissima a Roma ; esservi 
però più o mcn bene riuscita , secondo il carattere dei 
tribuni. Imperocché se scontravansi savj , giusti , e sol- 
leciti del pubblico , più che del proprio lor bene , e se 
chi offendeva la patria ne era , come dovea , castigato; 
in tal caso un timor vivo frenava ancor gli altri dai fare 
altrettanto. E 1’ uomo buono , 1’ uomo avvanzatosi eoo 
cuore puro ai maneggi pubblici né subiva pene vergo- 
gnose , né gìudizj , alieni dal procedere suo. Ma quando 
aveansi il poter tribunizio nomini scellerati , intempe- 
ranti , avari , succedeane tutto l’opposito. Tantoché non 
dovessi rettificar come erronea la consuetudine , ma curar 
piuttosto come si avesser tribuni probi ed onesti, senza 
che tanta autorità temerariamente si conferisse. 

LXVI. Tali furono le cagioni , e tale il termine della 
prima sedizione de* Romani dopo la espulsione dei re. 
Io ne parlai lungamente , perché ninno si meravigli come 
i patrizj permisero che il popolo si attribuisse tanto po- 
tere , nè succedessero intanto come in alure città , gli 
eccidj e le fughe degli ottimati.' Ciascuno brama cono- 
scere delle insolite cose la cagione ; proporzionandosene 
a questa la credibilità. Dond’è che io conclusi che non 
sarei stato creduto in gran parte o in tutto , se io di- 
ceva nudamente , e senza allegarne le cause* , che i pa- 
trizj aveano ceduto ai plebei la primazia ; e che po- 


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LIBRO VII. 4® * 

lendo dominare come nei comando dei pochi, aveano 
fenduto il popolo arbitro di affari gravissimi: e cosi 
concludendo ; volli esprimerle tutte. E poiché ira loro 
non si violentarono e necessitarono colle armi, ma coo- 
cordaronsi colla persuasiva , giudicai portare il pregio 
dell’ opera , che si esponessero soprattutto i discorsi te- 
nuti allor dai primari ciascun dei partiti. E ben io 
mi stupirei che taluni pensassero doversi i falli della 
guerra descrivere minutissimamente , e taivoha consu- 
massero tante parole intorno di una sola battaglia di- 
cendo la natura de’ luoghi , la proprietà delle armi , la 
forma delle ordinanae , le ammonizioni del capitano , e 
tatti i motivi , quanti coadiuvarono la vittoria ; nè poi 
credessero che narrando i movimenti, e le sedizioni ci- 
vili sen dovessero insieme riferire i discorsi pe* quali si 
operarono impensate e maravigliosissime imprese. Certa-' 
mente se nel governo de’ Romani vi fu portento degno 
di encomi, e della emulazione di tutti, fu questo a 
parer mio , famosissimo più che i tanti , che pur vi fu- 
rono stupendissimi , vuol dire che i plebei spregiando 
i patrizi non si avventa sser su loro, uccidendone in co- 
pia i più insigni , ed usurpandone i beni , e che quelli 
che esercitavan le cariche non conquidessero di per 
sestessi o co’ soccorsi di fuori tutto il popolo , rimanen- 
dosene poi liberi da paure in città ; ma che a guisa di 
fratelli co’ fratelli , e di figli co' padri in una savia fa- 
miglia , la discorresser fra loro su’ diritti comuni , e finis- 
sero le controversie col dialogo e colia persuasione, senza 
permettersi gli nni contro degli altri azione alcuna inir 

DtOSttGl, tomo //• iG 


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4o2 delle Antichità’ romane 
qua ed insanabile , come nelle loro sedizioni ne fecero 
i Corciresi , come gli Argivi , i Milesj , e la Sicilia in- 
tera , e tant’aliri. E jier queste cause io volli anzi esten- 
derne che ristringerne la narrazione ; e ciascuno ne pensi 
come glien pare. 

. LXYII. Avuto allora il giudizio un tal esito , il po- 
polo si parti con una vana ghiattauza; concependo aver 
tolto il comando dei pochi. Altronde i patrizj ne an- 
davano umiliati e mesti , ed incolpavano Valerio per 
suggerimento del quale avevano rimessa al popolo la 
sentenza. E quelli che riconducevano Marcio , impieto- 
siti , ne sospiravano e ne lagrimavano : non però ve- 
deasi Marcio né piangere , nè lamentare la sorte sua , 
nè dire o fare cosa qualunque , non degna de’ sublimi 
suoi genj : anzi dimostrò più ancora la generosità e for- 
tezza deir animo suo , quando giunto in casa ridevi la 
moglie e la madre che aveansi squarciata la veste , e 
pesto il petto , e gridavano , come sogliono in simili casi, 
donne separate dai loro più cari per 1’ esilio , o per la 
morte : niente invili tra le lagrime , niente tra’ clamori 
delle donne. Ma dato loro un amplesso , le animava 
a tollerar virilmente la disgrazia , raccomandando ad 
esse i suoi figli. Grande era 1’ uno di dieci anni , ma 
sosteneano l’ altro colle braccia ancora. E senza dare al- 
tri pegni della sua benevolenza , e senza tor seco cioc- 
ché bisognavagli per 1’ esilio , usci sollecitamente dalle 
porte , non indicando a ninno , dove si trasferiva. 

, LXVII. Venuto pochi giorni appresso il tempo de’co- 
mizj , furono dal popolo scelti consoli Quinto Sulpicio 
Camerino e Spurio Largio Flayo per la seconda vol- 


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LIBRO VII. 4^3 

ta (i). Turbarono quest’anno la città molti segni di ce- 
lesti terrori. Imperocché apparvero a molti visioni inso- 
lite , e voci si udirono senza niun che parlasse ; le ge- 
nerazioni degli uomini e delle bestie assai scostandosi 
dal naturale tendevano al mostruoso ed all’ incredibile: 
e si udivano m più luoghi risonare gli oracoli , e donne 
da divino furor sorprese annunziavano alla città lamen- 
tevoli e terribili sorti. Si aggiunse a tanto un tal contagio 
nella- moltitudine. Fece questo assai strage di bestiame , 
ma non molta fu la mortalità degli uomini , non esten- 
dendosi il morbo più in là che a far dei malati. E chi 
diceva succedere l’ infortunio per disegno de’ numi i quali 
si vendicavano dell’essere espulso dalla patria il migliore 
de’ cittadini ; e chi dicea che gli eventi non erano opera 
divina , ma fortuiti , come tutte le vicende degli uomi- 
ni. Poi si presentò , portatovi in una lettiga , un infer- 
mo , chiamato Tito Latino di nome , vecchissimo d’anni, 
fornito a sufficienza di beni , e che avea per lo più vi- 
vuto nella campagna, lavorandola colie sue mani. Co- 
stui venuto in Senato rivelò che avea tra il sonno ve- 
duto Giove Capitolino che standogli a fronte, ua , 
disse ; fa intendere d tuoi cittadini che nelT ultima 
pompa che mi celebrarono, non mi diedero un buon 
capo per la danza. Pertanto mi ripetano , e compiano 
un altra festa di nuovo , non avendo io accett ata la pri- 
ma. Dicea costui che risvegliatosi non faeea verun caso 
delia visione , ma teneala come una delle comuni ed il- 
lusorie. Quando ecco infine gli si presentò nel sonno 

(i) Anni di Roma a64 secondo Catone, *66 secondo Varrone, e 
48iS av. Cristo. 


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4o4 DELLE antichità’ ROMANE 

la immagiue stessa , e bieca e sdegnata , che non avesse 
annunziato i comandi al Senato , e minacciandolo , se 
non gli annunziava immantinente che apprenderebbe 
con grave suo danno a non trascurare gt IddJ. Que- 
sta seconda visione, egli disse , che la riguardò come 
la prima , vergognandosi di assumer rincarico , egli vec- 
chio e lavoratore , di portare al Senato i sogni suoi , 
pieni di augnrio e di terrore , perchè non vi fosse de- 
riso. Or pochi giorni appresso il vago e giovine suo 
figlio , senza malattia , e senza niuna causa sensibile fu 
rapito da morte improvvisa. E ben tosto il simulacro 
stesso del nome apparendogli nel sonno gli dichiarò che 
egli area già colla perdita del figlio subita la pena 
della sua trascuraggine , e del dispregio delle celesti 
voci , ma che ben tosto ne subirebbe ancor altre. Udendo 
tali cose disse che contentissimo ne accettava Uannun- 
tio , Se avesse a morirsi , non più curando la vita: che 
non gli diede il nume però questa pena , ma che gl'in- 
ternò per tutto il corpo dolori acutissimi ed insoffri-^ 
bili , non potendone movere parte alcuna senza tor- 
mento estremo. E che allora infine comunicato ^evento 
agli amici , venivane per consiglio loro al Senato. Pa- 
t^a , ciò dicendo , che poco a poco si riavesse dal do- 
lore. Alfine compiuto il discorso , usci di lettiga , ed in- 
vocato il nume , ne andò per la città libero e sano in 
sua casa. 

LXIX. Il Senato ne fu spaventato ed attonito (i) , 

(i) Questo fatto è riportato aoclie da Livio. Cicerone Io allega 
nel lib. I de Dininalione. Quanto è facile sognare con chi sogna l 
Ma il Senato avea bisoguo d’ illudere un popolo superstiiiuso , e ne 
secoudò li delirj . Per tali vie la verità si confonde , e si allouuna! 


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LIBRO VII. 

nè sapeva inf]ovinare ciocché il nume signifìcasse , e 
qual fosse nella festa antecedente il duce, de’ salti che 
buono a lui non paresse. Àlfìne un tale , memore del- 
r evento , lo disse ; e tutti se gli accordarono. Qr fu 
r evento cosi : Un Romano non ignobile consegnando 
un suo schiavo agli altri conservi perchè lo menassero 
alla morte , ordinò per renderne più romorosa la pena, 
che lo traessero , flagellandolo , pel Foro , e per tutti , 
quanti erano , i luoghi più insigni della città. Precedè 
costui la festa che la città avea prescritto che si facesse 
in quei tempi a tal nume. Coloro che lo spingevano al 
supplizio slargandogli e legandogli ambedue le mani ad 
un legno, postogli dietro il petto e diretto per le spalle 
fino agli estremi delle braccia , lo seguivano , e lo bat- 
tevano nudo co’ flagelli. Stretto costui da tale necessità 
gridava e con sconce voci , quali il dolore gliele sug- 
geriva, e tra salti indecenti, per le battiture. Or questo 
giudicarono tutti che fosse il saltatore non buono indi- 
cato dai nume. 

LXX. E giacché sono a tal parte d’ istoria penso 
non dover tralasciare i riti che nella festa si tengono 
dai Romani: non perchè più bella ne sia la narrazione 
per giunte teatrali e per fioriti discorsi , ma perchè sia 
più credibile il proposito rilevantissimo , vuol dire , che 
greche furono le colonie fondatrici di Roma , e venute 
da famosissimi luoghi , e non barbare e non prive di 
case , come alcuni hanno esposto. Imperocché nel fine 
del primo libro, tessuto da me su la origine sua , pro- 
misi convalidarla con mille forti argomenti di leggi, di 
costumi , d' industrie che vi persistono ancora , quali si 


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4o6 DELLE AWTICHITA’ ROMANE 

ricevette dagli avi ; nè giudico che basti a chi scrive le 
storie antiche de’ luoghi delioearle come degne di fede 
perchè tali si odono da’ paesani , ma per l’ opposito 
giudico che a renderle credibili abbisognino queste di 
altri documenti invincibili , quali 'sono principalissima* 
mente le cerimonie , ed il cullo usato in ognr città 
verso i numi e i genj patrj. Certamente li Greci e li 
barbari custodiscono queste gelosamente per lunghissimo 
tempo frenati dalla riverenza de’ numi vendicatori. E 
ciò fanno i barbari soprattutto per molte cagioni da 
non essere qni ricordate. E ninno ha mai persuaso a 
dimenticare o corrómpere alcuna delle divine cose gii 
Egizj , i Lìbj , li Celti j gli Sciti , gl’ Indi # e general- 
mente tutti i barbari , seppure caduti sotto il comando 
di altri non furono necessitati ancora di volgersi ai riti 
loro. Roma però non fu mai ridotta a tal sorte , anzi 
essa diede agli altri le leggi perpetuamente. Se traeva 
da’ barbari l’origin sua, dovette pur da’barbari derivare s 
le istituzioni nazionali, per le quali g[iunse a tanta for- 
tuna : e quindi dovette astringere tutti i sudditi a ve- 
nerare gl' Iddj con le forme Romane come niigliori. Se 
dunque i Romani eran barbari , niente poteva ritardare 
che barbara si rendesse tutta la Grecia che ornai da 
sette generazioni ne porta il giogo. 

LXXI. Alcuno forse crederà che bastino per segno 
non piccolo delle pratiche antiche, quelle che ancor vi 
si usano. Ma perchè altri noi prenda come insufhciente 
per la opinione non giusta , che i Romani quando 
vinser la Grecia , con piacere ne assunsero i costumi 
come migliori , ripudiando i proprj ; ho deliberato aiv 

_ 4 


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LIBRO VII. .407 

gomentar dal tempo quando essi non ci dominavano 
ancora , nè avevano olire mare 1’ impero , valendomi 
deir autorità di Quinto Fabio senza che altra me ne 
bisogni. Imperocché antichissimo tra quanti scrissero le 
cose ror.. .u. , ce le accredita -non solo perciò che ne 
ha udito , ma perciò che ne ha veduto ancora. Il Se- 
nato , come ho detto di sopra , aveva decretato quella 
lesta , per adempiere il voto fattone da Aulo Postumio 
dittatore , quando fu per combattere le città ribellatesi 
de’Latini, che tentavano rimettere Tarquinio sul trono: 
ed aveva decretato che si applicassero ogni anno pt*r li 
sagriGcj e pe’ giuochi cinquecento mine di argento ; e 
puntualmente ve le applicarono fino alla guerra con i 
Cartaginesi. In questi sacri giorni si faceano molte cose 
conformi alle greche usanze circa il concorso , 1’ acco- 
glienza de’ forestieri , e le immunità, cose tutte > ben 
difficili a descriversi. Le cose poi , che concernono la 
pompa , i sagrifizj , ed i certami, erano come sieguono, 
e ben da queste si possono argomentare , quali fossero 
ancora , le tante cbe sen taciono. 

LXXII. Prima cbe si desse principio ai giuochi , le 
persone che aveano il potere più graude, avviavano dal 
Campidoglio la pompa, conducendola pel Foro al Circo 
Massimo : e nella pompa eran primi i lor figli prossimi 
alla pubertà : ma que’ garzoncelli che poteano per 1’ età 
far parte della pompa ne andavano a cavallo se fossero 
di equestre famiglia , o a piedi , se a piedi dovessero 
mili^'U'e; e .quali nc andavano ad ale e caterve, e quali 
a corpi ed ordinanze maggiori come per essere istruiti: 
e ciò ptrcliò fosse visibile ai forestieri la gioventù Ro- 


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4o8 DELLE Antichità’ romane 

mana che era per giungere alla età militare , e quanto 
ne fosse il numero^ e quanta la bellezza. Venivano ap- 
presso loro i guidatori di quadrighe , di bighe, ed altri 
che pompeggiavano su cavalli non aggiogati. Seguivano 
quindi i combattitori di certami leggeri o gravi; e nudi 
si vedevano, se non quanto velavano le parti del sesso. 
E tal costume conservasi ancor tra' Romani come nei 
prìncipi aveasi pure tra’ Greci , finché tra’ Greci vi fu 
tolto dai Spartani: Perchè il primo che prese a nudarsi 
il corpo e nudo corse ne’ giuochi Olimpici nella olim- 
piade decimaquinta fu Acanto di Lacedemonia; laddove 
innanzi lui vergognavansi i Gi'eci di avere tolto nudo 
il corpo ne’ spettacoli , come certifica Omero scrittore 
antichissimo e degnissimo più che tutti di fede, il quale 
introduce gli eroi cinti da una zona. Quindi descrìvendo 
il certame di Ajace e di Ulisse ne’ funebri onori di Pa- 
troclo disse : 

Sceser cimi di zona ambi alla pugna. 

E ciò dichiara ancor più nell’ Odissea , narrando il pu- 
gilato di Irò e di Ulisse in tal modo : 

SI disse ; e tulli encomiaro Ulisse , 

E di una zona circondàndo i lombi , 

Gli ampi e voghi suoi femori scopria , 

' E nude Sen vedean le vaste spalle , 

, Nudo il petto t e le braccia. 

Ed introducendo quel misero che non volea combattere, 
ma ne temea ; scrive : 

Cosi diceano : ad Irò il cor si scosse .• . 

Cinserlo i proci di una zona , e tutto 
Tremante lo sospinsero alla pugna. 


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LIBRO VII. 


409 


Tal costume primitivo de’ Gred serbato fino ali’ ultimo 
tempo dai Romani dimostra che questi non lo appresero 
ultimamente da noi , anzi che non lo mutaron col 
• tempo , come abbiamo noi fatto. Teneau dietro agli 
atleti , cori di saltatori divisi in tre bande : erano i 
primi adulti , imberbi gli altri , e giovani gli ultimi ; 
venivano quindi sonatori che davan fiato a tibie di an- 
tica forma , e picciole , come costumasi ancora , e cita- 
redi che toccavan col plettro lire eburnee di sette corde, 
ed altre ancora di più , barbiti nominati. DI questi era 
mancato l’uso ne’ miei tempi tra’ Greci quantunque fosse 
lor proprio : ma tra’ Romani conservasi In tutti i sagri- 
fizj 'di antico rito. Erano 1’ apparato de’ saltatori pur- 
puree toniche , cinte con metalliche fasce , e spade che 
ne pendeano , ed aste anzi corte che giuste : vedeasi 
negli altri uomini elmo di bronzo con cimieri vaghi , e 
pcnnacchj che P adornavano. Era di ogni coro il duce 
un uomo il qual dava agli altri la forma del ballo ; 
rappresentando moti marziali e vivi , con ritmo per lo 
più proceleusmatico ( 1 ). Era greca antichissima pratica 
anche quella di saltare colle armi e Pirrica si chiamava, 
sia che Minerva cominciasse la prima dopo la disfatta 
de’ Titani a danzare e saltare colle arme tra cantici 
trionfali per la vittoria ; sia che prima ancora fosse il 


(i) Proceleusmatico cbiamaTasi no piè metrico di quattro sillabe 
brevi : e quiudi si diceauo fttrfi i versi che 

conteueano que' piedi. Forse furono cosi detti perché soleano pre- 
mettersi, caulandoli , r»7r rttXtvrfitiTt vuol dire alle esortazioni 
o comandi. Quindi il ritmo proceleusmatico ne’ balli dovrebbe 
avere allusione a tali piedi o versi , ed esortazioni. 


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4lÒ DELLE ANTICHITÀ* ROMANE 

rito Introdotto da’ Cureti , quando educando Giova vo- 
leano carezzarlo col suono delle arme, e con lièti moti 
e cadenze , come la favola narra. Omero più volte , e 
principalmente nella foiDiazione dello' scudo che dice * 
donato da Vulcano ad Achille, mostra l’ antichità • di 
questo rito, e la nascita sua tra’ Greci. Imperocché rap- 
presentando in esso due città , l' una ornata di pace 
bella, e l’ altra straziata dalla guerra, delinea, com’era 
naturale, la felicità di quella con feste, con matrimonj, 
e conviti , e dice : 

Faeton la danza i (Rovani , e frattanto 
Vdiati il suon di tibie , e cetre ; e tutte , 
Meravigliando ai limitar di casa , 

Stavan le donne. 

E di nuovo elogiando con vago ornamento nello scudo 
un altro coro di giovani e di vergini Cretesi dice : 
Aveaci espresso V inclito Vulcano 
Un vario coro somigliante a quello 
. Che Dedalo formò per Arianna , 

Che in si bei ricci avea la chioma attorta : 

Qui giovinetti e ver^nelle vaghe. 

Tenendosi per man , facean lor dama. 

Ed esponendo 1’ ornamento di questo coro per dichia- 
rare che i giovani saltavano colle arme , scrive ' 

E quelle 'avean vaghe ghirlande, e questi 
Aurate spade a cinti argentei appese. 

E parlando dei duci del salto loro , di quelli che da- 
vano agli altri le prime mosse , dice : 

. Il popolo prendea dolce diletto 

Intorno al coro; e due de' saltatori 

Clan cantando e danzando a tutti in mezzo , 


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• LIBRO VII. 4 * * 

Nè solo potrem yedere la somiglianza co’ greci riti da 
qnf*sie danze marziali ed ordinale , usate da' Romani 
ne’sagrifìcj e nelle pompe, ma dalle danze ancora sati* 
ricFie e derisorie. Dopo i cori armati vedeansi in mostra 
cori imitatori de’ satiri , non dissimili dalla greca Sicin- 
ne (i). L’abito in chi Vappresentava un Sileno erano 
ispide vesti , chiamale da alcuni Cortee (2) ; e manti 
con ogni varietà di fiori: in quelli poi che somigliavano 
un satiro erano perizomi e pelli caprine, e sui capo 
criniere irte di lioni , e cose altrettali. Or questi beffa- 
vano e contraffaceano serj moti , spargendovi del ridi- 
colo : e gli andamenti de’ trionfi assai palesano che era 
antico e proprio de’ Romani il motteggio e la satira. 
Imperocché permettevasi u quelli che segui van la pompa 
lanciar beffe e giambi so gli uomini più riguardevoli , 
c fino su’ comandanti ; siccome un tempo in Alene era^ 
permesso che nè lanciasser quelli che sul carro se^i- 
tavau la pompa , e che ora cantan versi improvvisi. Eid 
io ne’ funerali di personaggi cospicui , specialmente se 
già fortunati , vidi tra le altre pompe cori in forma di 
satiri che precedevano il feretro, e saltavano come nella 
Sicinne. Che poi il gioco e la danza alla guisa de’ satiri 
non fu ritrovamento de’ Liguri nè degli Umbri nè di 
altri barbari , abitanti dell’ Italia , ma de’ Greci ; temo 
di sembrare molesto , volendo a lungo convincere una 
cosa della quale già si conviene. Dopo questi cori pas- 

A 

(1) Vossio scrive più cose intorno a qeeslo genere di saltasione 
nel I. a c. 19. lusiiiul. Poei. 

(a) Cortee proviene questa voce da ^cfTts r:hc siguitica Jìeno, er- 
ba CC. ’ 


» 


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4i2 delle Antichità’ roma??e 
savano molti sonatori di tìbie e di cetere : e poi quelli 
che portavano profumi di aromi e d’ Incensi , e quelli 
che portavano lavori meravigliosi di oro e di argento 
sia de’templi, sia del comune. Venivano In ukimo della 
pompa recati su le spalle di nomini I simulacri divini 
foggiati come quelli de’ Greci quanto alla forma , agli , 
abiti , al simboli ed al doni, secondo che que’ numi es-‘ 
sendooe stati I trovatori , gli aveano , ciascuno. , donati 
ai mortali , nè solo v’ erano I simulacri di Giove , di 
Giunone , di Minerva , di Nettuno , e degli altri che li 
Greci contano tra I dodici numi (i); ma di altri più 
antichi da’ quali la favola origina i dodici ; io dico i 
simulacri di Saturno , di Rea , di Temide , di Làlona , 
delle Parche, di Miiemosine , in somma di lotti, quanti 
hao templi , ed are fra i Greci , come quelli de’ numi 
che favoleggiansi nati dopo che Giove ottenne l’impero, 
vuol dire quelli di Proserpina , di Lucina, delle Ninfe, 
delle Muse, delle Ore, delle Grazie, di Bacco, e quelli 
de’ semidei, l’ anime de' quali spogliate de.l corporeo frale 
diceansi andate in cielo, e goilervi onori simili ai divini, 
cioè quelli di Ercole , di Esculapio, di Castore e Poi* 
luce , di Elena , di Pane , e di altri mille. Se dunque 
i fondatori di Roma eran barbari, e se v’istituiron tal 
festa; com’era possibile mai che adorassero tutti I numi 
e genj della Grecia , negligentando I propr) ? Almeno 
mi si dimostri un altra gente non greca, la quale avesse 

(i) Erodoto narra nel libro seconda che: i Greci derivarono que- 
sti dodici Numi dagli Egiij. L’interprete di Apollonio scrive die 
questi erano : Giove , Apollo , Mercurio , Nettuno , Marte, Vulcano, 
Giunone, Diana, Pallade, Cerere, Venere, e Vesta. 


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LIBRO VII.' 4*3 

tali sante cose come nazionali ; ed allora si condanni la 
mia dimostrazione come non buona. Terminata la pompa 
facean sagri Gzio i consoli e que’ sacerdoti a’ quali spet- 
tavasi, e la forma del santo rito era quale appunto tra 
noi. Lavatesi le mani , lustrate le vittime con acqua 
pura , sparsi i frutti di Cerere sul capo di esse , e poi 
fatti de’ voti, comandavano infine ai loro ministri d’ im- 
molarle. E quale di questi mentre la vittima era in 
piede ancora ne percotea le tempia colla mazza , e 
quale nel cadere la trafiggeva colle coltella. E poi scor- 
ticandola c squartandola prendean le primizie di cia- 
scuno de’ visceri e di ogni membro : e sparsele con fa- 
rina di fiiTo , le portavano ne’ bacini a quelli che sa- 
grilìcavano : e questi soprappostele all’ altare , le arde-^ 
vano, e spruzzavano intanto di vino. E poi facile in- 
tendere dalle poesie di Omero essersi ciascuna di queste 
cose fatta secondo le leggi istituite da’ Greci pe’sagrifizj: 
perciocché descrive gli eroi che si lavan le mani ed 
usano farina di farro con sale dicendo : 

E lavaron le mani, e sparser farro : 

E che ne tagliano i capelli e li gittano al foco in quei 
detti : 

Ma cominciando il santo rito getta 
1 capelli sul foco ; 

E li descrive che colpiscono colle mazze in fronte le 
vittime , e che cadute le immolano come fa nel sagri- 
fizio di Emeo. 

Percotela , di quercia alzando un tronco , 

Cui rapido poi lascia ; e lascia insieme 
Lo spirito la vittima , e qui gli altri 
Miseria in inani , e ne arrostino . . . 


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4l4 delle antichità’ romane 
E descriveli che pigliano le primizie delle viscere , e 
di altri membri , e le infarinano , e le bruciano su gli 
altari: come fa nel sagri fì ciò medesimo. 

E da ogni parie le primìzie piglia 

Be’ membri tutù, e crudi ancor li copre 

Di grasso , e di farina ; e dagli al foco . 

Ora io so per averlo veduto , che i Romani osservano 
ancora tali riti ne' loro sagrificj : e su questo argomento, 
anche solo , mi rendei certo, clie i fondatori di Roma 
non furono barbari , ma greci venuti da tutte le parti. 
Ben può essere che alcuni baiiiari somiglino in pane 
ai Greci nelle istituzioni de’ sagriliz) , e delle feste ; ma 
che in tutto somiglino loro , ciò non è verisimile. 

LXXIll. Mi resta ora di dir brevemente de’ giuochi 
che faceano dopo la pompa. Era prima la corsa delie 
quadrighe , delle bighe , e dei cavalli sciolti, come nei 
giuochi Olimpiaci e Pitiaci de’ Greci in antico , e fiu 
di presente. Ne’ certami equestri si conservano ancora 
tra’ Romani due istituzioni antiche , come furono fon- 
date in principio , quella cioè de’ carri a tre cavalli , 
la quale ora in Grecia è cessata ; sebben vi fosse an- 
ticbissima e già ne’ tempi eroici ; introducendo Omero 
de’ Greci che ne usarono nelle battaglie. Imperocché 
essendo due cavalli congiunti come nelle bighe un terzo 
accompagnavali contenuto e tratto colle redini , e chia- 
mato parioron appunto dall’ esser più libero ; e non 
come gli altri in biga. L’ altra cosa di cui restano an- 
cor le vesiigie ne’ riti aniichi di alcune poche città di 
Grecia è la corsa di quelli che anduvau su’ Carri ; pe- 


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LIBRO VII. 

roccliè finite le gare a cavallo , smontati dal carro quelli 
clt<! vi sedcano presso de’ guidatori , e che li poeti chia- 
mano parabati , e li Ateniesi chiamano apobati (t) 
conteiideano infra loro correndo nello stadio. Adunque 
dopo le gare equestri entravano in campo quelli che 
de' corpi loro facean prova , cursori , atleti , lottatori ; 
giacché questi erano i tre certami , antichi presso dei 
greci , come Omero ci fa intendere ne’ funerali di Pa- 
troclo. Ne’ tempi intermedj a queste contese presenta- 
vansi uomini che faceano sul costume bonissinio , e 
propriissimo de’ Greci, coronazioni ed onoriGcenze colle 
quali condecoravano i loro benefattori , come usavasi 
in Atene nelle feste di Bacco: e quindi poneansi in 
vista le spoglie che prendeansi nella guerra. Ora tali 
cose non era bene tacerle : noi volendo il subjelto , nè 
bene sarebbe prolungarle oltra il dovere. E già è tempo 
che io riprenda la narrazione interrotta. Appena il Se- 
nato riseppe da chi glie ne ravvivava la memoria , le 
vicende del servo spinto al supplizio , e come egli era 
r antesignano della pompa , concependo che questo fosse 
il previo saltatore non buono , significato , come ho 
detto , dal nume , ricercato quel si offensivo padrone , 
ed impostagli la pena che meritava , decretò nuova 
pompa alio Dio , e nuovi spettacoli , sontuosi il doppio 
de’ primi. E tali sono gli eventi di quel consolato. 

(i) As-<j3«r<(« ciò* smontali. BIBLIOTECA  LUCCHESI  • PALLI 
III.*  SALA 


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COLLANA 

DEGLI 

ANTICHI  STORICI  GRECI 

VOLGARIZZATI. 


\ 


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i f" 


ANTICHITÀ  ROMANE 

1)1 

DIONIGI 

D’ALICARNASSO 


VOLGARIZZATE 

DALL’ AB.  MARCO  MASTROFINI 

cu’  PROFESSORE  DI  MiTEMATICA  E DI  FILOSOFIA 
NEL  SEMINARIO  DI  FRASCATI 


KOUtOKE  HOrAitEMTE  EISCOMTR4TA  COL  TESTO 
DAL  XEAPVTTOHK 


TOMO  TERZO 


MILANO 

DALLA  TIPOGRAFIA  De’  FRATELLI  SONZOGNO 

1 8 2 


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t 


5 

DELLE 

ANTICHITÀ  ROMANE 

D I 


DIONIGI  ALICARNASSEO 


LIBRO  OTTAVO. 


I.  JLr  opo  qnesli , furono  creati  consoli  Cajo  Giulio 
Julo , e Publio  Pinario  Rufo,  correndo  la  olimpiade 
sessantesima  terza  nella  quale  Astilo  Crotoniate  vinse 
elio  stadio,  mentre  Anchise  era  l’arconte  di  Atene  (i). 


(i)  Lapo  nella  eoa  veraione  latina  premetta  a questo  libro  un  tal 
argomento  dal  quale  a’  intende  che  tì  si  tratta  principalmente  la 
guerra  di  Coriolano , e la  morte,  come  la  guerra  cogli  Ernioi  , cogli 
Equi , e Coi  Volaci  ; la  propotìaione  della  legge  Agraria  fatta  da 
Spurio  Cassio  ^ 1’  accusa  e la  condanna  di  esso  ; e finalmente  la  nuora 
guerra  co’  Volaci  e co'Vejenti  ; e che  tali  cose  non  comprendono  sa 
non  lo  spailo  di  due  olimpiadi^  cioè  di  atto  anni. 


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6 DELLE  \NTICHITA’  ROMANE 

Eletti  questi  dal  popolo  (i)  appunto  perchè  d’indole 
non  bellicosa , ne  incorsero  in  molli  e grandi  pericoli , 
scoppiando  nel  lor  consolato  una  guerra  dalla  quale 
per  poco  non  fu  Roma  disUiitta.  Imperocché  quel  Mar- 
cio Coriolano  accusato  già  di  brigar  la  tirannide  , ed 
espulso  con  fuga  perpetua , indispettito  della  ingiuria  , 
e voglioso  di  vendicarsene  , considerando  come , e con 
quali  forze  ciò  conseguisse , vide  i competitori  de’  Ro- 
mani nei  Yolsci , se  concordandosi  e scegliendosi  un 
buon  capitano , movessero  ad  essi  la  guerra.  Ne  argo- 
mentava dunque  , che  se  persuadeva  li  Volsci  a rice- 
verlo , e con6dargli  la  cura  delle  armate  ; di  leggeri 
farebbe  il  suo  intento:  ma  non  poco  turbavaio  il  ri- 
flettere che  egli  avea  dato  colpi  terribili , e tolto  loro 
città , compagne  di  guerra.  Non  desistè  però  dal  ten- 
tarlo , per  la  gravezza  del  pericolo , anzi  deliberò  di 
fervisi  incontro , e prenderne  ciocché  mai  ne  seguisse. 
Aspettata  una  notte  ben  tenebrosa  venne  su  I’  ora  ap- 
punto della  cena  , ad  Anzio,  città  nobilissima  fra  quelle 
de’Yolsci:  e recatosi  in  casa  di  Azio  Tulio,  uno  dei 
principali  per  lignaggio  e ricchezza  , nomo  altronde  che 
sentiva  magnificamente  di  sé  stesso  per  le  azioni  mili- 
tari , e per  lo  più  capo  delia  sua  gente  , sedette  sup- 
plichevole suo  presso  del  focolare  (z).  E qui  narrando 

(i)  Anni  di  Roma  a65  secondo  Catone  , a6j  secondo  Varrone , e 
487  avanti  Ciitto. 

(a)  Andare  in  casa  > e sedere  presso  del  focolare  in  silensio  era 
un  aulichissioia  maniera  di  supplicare.  Addita  anche  ciò  Tucidide 
nel  t libro,  discorrendo  di  Temistocle:  e si  vede  un  tal  rito  piò 
chiaramente  io  Plutarco  nella  vita  di  Coriolano,  appunto  iu  questo 
luogo. 


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LIBRO  Vili.  7 

le  calamità  che  lo  (lageilavaDO , e lo  ìnchinaTano  a ri- 
correre perfino  ai  nemici , pregavalo  ad  avere  idee  miti 
e benevole  verso  chi  rivolgevasi  a lui , non  a tenerlo , 
mentre  davaglisi  nelle  mani , come  avvemrio , nè  a 
mostrar  la  sua  forza  contro  gl'  infelici  e depressi , e ri* 
flettere  piuttosto  quanto  istabili  fossero  le  sorti  degli 
uomini.  £ ciò  puoi  , disse  , apprendere  principidmente 
da  me , che  già  potentissimo  fra  tutti  in  città  grandis- 
sima, ora  derelitto,  infelice  , bandito  , senza  patria, 
debbo  correr  la  sorte  che  vuoi  tu  destinarmi.  Io , se 
tu  amico  me  ne  rendi , io  ti  prometto  far  tanto  bene 
ai  Volsci , quanto  male  ad  essi  cagionai , mentre  ne 
era  nemico.  Ala  se  prevedi  tuU'  altro  di  me , siegui 
r ira  tua , dammi  in  sulC  atto  la  morte , immolando 
colle  stesse  tue  mani  il  supplichevole  tuo , presso  a’ 
tuoi  focolari. 

IL  Or  lui  cosi  dicendo  , Tulio  gli  stese  la  destra , e 
sollevandolo , animavaio  a confidare  ; perocché  non  sof^ 
frirebbe  cose  indegne  della  sua  virtù  : professavasi  in- 
sieme obbligatissimo  che  avesse  ricorso  a lui,  per  essere 
questa  non  picciola  significazione  di  onore  : promise 
che  renderebbegli  amici  tutti  i Volsci  , cominciando 
dalla  patria  sua  , nè  mentite  ne  furono  le  parole.  Dopo 
non  molto  tempo  deliberandone  da  solo  a solo,  Marcio 
e Tulio,  conchiuscro  di  movere  la  guerra,  Tulio,  con- 
centrando tutte  le  forze  de' Volsci,  voleva  marciare  im- 
mantinente su  Roma,  mentre  era  agitata  ancora  dalla 
sedizione , e sotto  consoli  imbelli.  Marcio  in  opposito 
pensava  che  vi  abbisognasse  prima  un  titolo  onesto  e 
giusto  di  guerra  ; dicendo  che  gl’  Iddj  mcschiavansi  a 


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8 DELLE  antichità’  ROMANE 

tulle  le  cose  , e panico  Urmenle  a quelle  della  guerra 
quanto  sono  più  rilevanti , ed  oscure  nell’  esito.  Aveaci 
allora  tra’ Volsci  e tra' Romani  sospension  d’arme,  e 
tregua  ed  amicizia , conchiusa  poco  innanzi  per  due 
anni.  Se  tnovi , disse , inconsideratamente  e precipito- 
samente la  guerra , tu  sarai  colpevole  di  aver  rotti  gli 
accordi,  nè  te  ne  avrai  propizj  gVIddj  ; ma  se  aspetti 
che  i Eomani  ciò  facciano  ; si  giudicherà  che  tu  ri- 
sospingali, e protegga  la  confederazione  che  violano. 
Ben  ho  io  con  assai  provvidenza  trovato  come  ciò  fac- 
ciasi , e come  essi  i primi  volgansi  alle  arme , e noi 
siam  giudicati  et  imprendere  una  guerra  giusta  e san- 
ta. Bisogna  che  per  maneggio  nostro  essi  i primi  of- 
fendano il  giusto  : e tale  è questo  maneggio  che  io 
finora  ho  celato  profondamente , aspettandone  il  tem- 
po , e che  ora  di  necessità  , sollecitissimo , ti  svelo  , 
procurandone  tu  la  esecuzione.  Debbono  i Romani 
far  sagrifizj  e giuochi  assai  sontuosi  e magnifici,  e 
molti  accorreranno  di  fuori  agli  spettacoli.  Attendi  la 
occasione,  ed  accorri  tu  pure  a tanto  apparato , dando 
opera  insieme,  che  vi  accorra , il  più  che  per  te  si  possa 
de’  Volsci.  Come  tu  sia  in  città , fa  che  alcuno  degli 
intimi  tuoi  vadane  ai  consoli , e dica  loro  secretissi- 
mamente , che  i Volsci  tra  la  notte  assaliranno  Ro- 
ma , e che  perciò  vengono  in  tanta  moltitudine.  Tu 
ben  sai  quanto  apprezzeranno  la  nuova  : vi  cacceran 
senza  indugio  da  Roma  , e vi  porgeranno  un  titolo 
giusto  di  risentimento. 

HI.  Esultò  Tulio  meravigliosamente  , ciò  udendo  : e 
differito  il  tempo  d’ imprendere  ; diedesi  ad  apparec- 


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I 

LIBRO  Vili.  g 

chiare  la  gnerra.  Approssimatisi  poi  gli  spettacoli,  ed 
essendo  già  consoli  Giulio  e'  Pinario  ; am>rsevi  da  tutte 
le  città  la  gioventà  più  florida  dei  Yolsei , come  Tulio 
bramava.  La  maggior  parte  non  avendo  ricetto  ndle 
case  e pre»o  degli  ospiti , presero  alloggio  in  sacri  e 
pubblici  luoghi;  e quando  giravansi  per  le  strade,  ne 
andavano  a crocchi  e moltitudini  : tantoché  già  su  loro 
in  città  si  faceauo  discorsi  e sospetti  non  buoni.  In  que- 
sto mezzo  venne  ai  consoli  un  delatore  apparecchiato 
da  Tulio , come  avea  Marcio  suggerito  : e quasi  avesse 
a svelare  a'  nemici  una  pratirà  arcana  in  danno  degli 
amici  suoi , strinse  ’i  consoli  a giurare  di  salvar  lui , 
né  mai  dire  ad  alcuno  de’ Yolsei  chi  avesse  ciò  pale- 
sato, e poi  dinuneiò  gli  assalti  mentiti.  Parve  ai  con- 
soli vero  il  racconto , e ben  tosto  invitati  i senatori  ad 
uno  ad  uno , si  congregarono.  Presentatovi  il  delatore , 
ed  avutene  le  eguali  promesse , replicò  la  dinunzia  me- 
desima. Coloro  a’  quali  parea  già  cosa  piena  di  sospetto 
che  venuta  fosse  agii  spettacoli  tanta  gioventù  di  una 
sola  nazione  nemica , assai  più  ne  temerono , aggiun- 
gendovisi  ora  una  dinunzia  della  quale  ignoravano  la 
frodolenza.  Parve  a tutti  che  si  cacciasser  di  città  quei 
forestieri  prima  che  il  di  tramontasse  con  bando  di 
morte  a chi  non  ubbidisse;  e che  li  consoli  invigilas- 
sero sicché  tranquilla  ne  fosse  la  uscita , e senza  offese. 

lY.  Decretato  ciò  dal  Senato  , altri  scorrendo  le  strade 
intimavano  ai  Yolsei  di  partire  immantinente  tutti  per 
la  porta  detta  Capena  , ed  altri  con  i consoli  li  scor- 
tavano , mentre  partivano.  Or  qui  più  che  altrove  si 
conobbe  quanta  mai  fosse , e quanta  vigorosa  quella 


I 


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IO  DELLE  AJ^TICHITA’  ROMANE 

moltiiadine  ; uscendo  In  un  tempo  tutu  per  una  porU. 
Usci  sollecitissimo  Tulio  prima  che  tutti , e prese  non 
lungi  da  Roma  un  tal  posto  , dove  raccogliere  gli  altri 
che  seguitavano.  E quando  tutti  furono  giunti , convo> 
catane  l' adunanza , assai  v’  incolpò  li  Romani  , dichia> 
rando  grave  ed  indicibile  1’  affronto  de*  Volsci , unici  ad 
essere  espulsi  fra  tanti  forestieri  : ed  eccitandoli  tulli 
perchè  ciascuno  lo  raccontasse  in  sua  patria , e vi  trat- 
tassero le  maniere  di  vendicarsene  e reprimere  per  l’av- 
venire tanta  insolenza  ne’  Romani.  Cosi  dicendo  ed  in- 
fiammandoli , dolenti  già  per  1’  oltraggio , sciolse  1’  u- 
dienza.  Ricondottisi  in  patria , ridissero  ciascuno  ai 
compagni  la  ingiuria  , esaggerandola , unto  che  ne  fu- 
rono tutti  esacerbali  , nè  poleano  rattemperarne  lo  sde- 
gno. E spedendo  una  città  all’  altra  degli  ambasciadori , 
chiesero  un  congresso  generale , per  concordarvisi  in- 
torno la  guerra.  Succedeva  tutto  ciò  per  briga  di  Tulio 
principalmente.  Cosi  li  magistrati  di  tutte  le  città , e 
moltitudine  grande  ancora  di  altri  adunaronsi  nella  città 
di  Eccetra  , ripuUU  la  più  acconcia  per  congregarvisi. 
Dettevi  assai  cose  dai  capi  di  ogni  città , si  dispensa- 
rono i voli  finalmente , e prevalse  il  partito  di  mover 
la  guerra  , avendo  primi  i Romani  conculcato  gli  ac- 
cordi. 

Y.  E qui  proponendo  i magistrati  varj  che  si  discu- 
tesse la  maniera  di  fare  la  guerra,  presentatosi  Tulio 
consigliò  che  si  chiamasse  Marcio , e da  lui  si  udissero 
i metodi  di  abbattere  la  potenza  Romana  ; giacché  ninno 
più  di  lui  conoscea  da  qual  lato  questa  fosse  inferma , 
e da  quale  vigorosa.  Il  consiglio  piacque  e tutti  cscla- 


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LIBRO  Vili.  I I 

tnarono  che  si  chiamasse  immantinente  il  valentuomo. 
Marcio  ottenuta  l’ occasion  che  volea  , presentatosi  mesto 
e piangente  (i)  soprastette  alcun  tempo  e poi  disse:  Se 

10  vedessi  che  tutti  pensaste  ad  un  modo  su  la  mia 
disgrazia , giudicherei  non  essere  necessario  difender- 
mene. Ma  considerando  che  Ira  indoli  tante  e varie  ev- 
vene  forse  alcuna  che  forma  concetti  né  veri  nè  degni 
sopra  di  me  , quasi  il  popolo  m'  abbia  per  cagioni  so- 
lide e giuste  espulso  di  patria  ; debbo  innanzi  tutto 
dir  qui  tra  voi  circa  il  mio  esigilo.  E voi  che  ben 
sapete  P infortunio  che  io  m’  ho  da'  nemici , e come 
indegnamente  io  sia  perseguitalo  dalla  sorte,  voi, 
mentre  qui  lo  espongo,  contenetevi,  prego,  nè  vogliate 
desiderare  d intendere  ciocché  dee  farsi , prima  che  ne 
abbiate  compreso  chi  sia  che  i^i  consiglia.  Breve  ne 
sarà  il  discorso  quantunque  pigliato  dalle  origini.  Era 

11  governo  Romano  da  principio  un  tal  misto  del  co- 
mando di  un  solo  e dei  pochi  ; fnchè  Tarquinio  , 
r ultimo  de'  monarchi , tentò  volgerlo  tutto  in  tiran- 
nide. Adunque  i capi  nel  comando  de’  pochi  insorgen- 
done , lo  espulsero  : e subentrando  essi  al  maneggio 
del  pubblico  , basai  orto  una  reggenza  più  savia  per 
confessione  di  tutti , e più  buona.  Ma  da  ora  in  die- 
tro non  più  che  Ire  o quattf  anni , i più  miseri , e li 
più  oziosi  de'  cittadini , dandosi  capi  scelerati,  ne  co- 
perser  d ingiurie  ; tentando  infine  di  abbattere  l'  au- 
lì] Queste  lagrime  forse  le  TÌile  più  Io  storico  che  Marcio.  It 

contegno  Ji  >{uesto  valoroso  era  stalo  hen  altro  coi  tribuni  e col 
popolo  «li  Roma  come  apparisce  dal  libro  antecclcnte  j e 'come  può 
coucloJersi  dal  $ del  presente. 


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12  DELLE  Antichità’  romane 

/oriUÌ  de  pochi.  I capi  del  Senato  ne  incollerirono 
tutti  , e cercarono  come  reprimere  la  insolenza  de'  ri- 
voltosi. Di  mezzo  a c/uegli  ottimati  udppio  C uno  dei 
seniori , degnissimo  di  lode  per  tanti  titoli , ed  io 
V uno  de’  giovani , parlammo  sempre  liberissimamente 
non  per  combattere  il  popolo  , ma  perchè  sospetta  ci 
era  la  prepotenza  de'  ribaldi;  non  per  rendere  schiavo 
niuno , ma  per  garantire  a tutti  la  libertà  , come  ai 
migliori  il  comando  sul  pubblico. 

VI.  Or  ciò  vedendo  que’  tristissimi  capipopolo  vol- 
lero in  priruipio  tor  di  mezzo  noi  franchissimi  oppo- 
sitori : e gittarono  le  mani , non  già  su  tutti  due  in 
un  tempo  perchè  il  fatto  non  fosse  grave  troppo  ed 
esoso , ma  su  me  primieramente  che  era  il  più  gio- 
vane , e men  dijfcile  da  opprimere.  Cosi  tentarono  di 
perdere  me  prima  senz'  (uUorità  di  giudizio , e poi 
mi  chiesero  dal  Senato  per  la  morte.  Ala  venuti  lor 
meno  ambedue  que  tentativi  ; mi  citarono  ad  un  giu- 
dizio ( ed  essi  aveano  ad  esserne  i giudici ) per  in- 
colpazioni di  bramala  tirannide  ; nè  videro  che  rùun 
tiranno  tenendosela  co’  pochi  combatte  il  popolo  , e 
che  piuttosto  egli  col  popolo  conquide  il  partito  più 
valido  nella  città.  Un  giudizio  mi  destinarono  non 
per  centurie  , com’  era  C uso  della  patria,  ma  un  giu- 
dizio come  tutti  consentono  , iniquissimo , e,  la  prima 
e f unica  volta , su  me  praticato  , un  giudizio  dove  i 
merccnarj  , li  vagabondi , e quanti  insidiano  gli  averi 
altrui , preponderavano  su'  boni  che  voleano  salvi  i 
diritti  ed  il  pubblico.  E tante  erano  in  me  le  ragioni 
per  non  esserne  condannato  , che  sottomesso  ai  giu- 


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LIBRO  Vili.  1.3 

ditj  di  una  turba  , odiatrice  in  gran  parte  de' buoni , 
e però  mia  nemica^  non  fui  sopraffatto  che  per  due 
voti:  sebbene  i tribuni  divulgassero  che  assai  sareb- 
bero disonorali  nel  loro  comando  , e patirebbono  da 
me  l estremo  de  mali  se  io  fossi  assoluto  , ed  insi^ 
stessero  intanto  contro  me  con  tutto  F ardore  e la 
sollecitudine  nella  causa.  Così  malmenato  damici  cit^ 
ladini , reputai  che  più  non  sarebbe  vita  la  mia  , se 
non  prendessi  di  loro  vendetta.  Quindi  sebbene  il 
potessi,  ricusai  vivere  senza  cure,  o tra’ parenti  nelle 
città  de’  Latini , o nelle  colonie  fondale  di  recente 
dà  miei  maggiori  : e tra  voi  mi  ricorsi  , che  io  ben 
sapeva  essere  tanto -offesi  da’  Romani  e nemicissimi 
loro , per  farne  con  voi  quanto  -potessi  le  vendette 
colle  parole,  se  le  parole  vi  bisognavano  ; o colle 
opere,  se  le  opere.  Intanto  io  vi  rendo  amplissime 
grazie  ; perchè  mi  avete  voi  ricevuto  , e perchè  mi  date 
tali  significazioni  di  onore , niente  ricordando , nò 
contando  i mali  che  un  tempo  voi  rtemici  miei,  avete 
da  me  sostenuto  fra  le  arme. 

VU.  Or  dite , e qual  genio  sarei  io  mai  se  spo- 
gliato da  uomini  per  me  beneficati , della  riputazione 
e degli  onori  quali  tra  miei  mi  si  competevano,  e 
privato  della  patria , della  famiglia , degli  amici , dei 
numi  patemi , delle  tombe  avite  e di  ogni  altro  bene; 
se  ritrovate  tra  voi  tutte  queste  cose  per  le  quali  già 
in  grazia  ài  essi  v infestai  colia  guerra  ; ora  terribile 
non  mi  dimostrassi  con  quelli  che  nemici  mi  furono 
in  luogo  di  cittadini,  e propizio  agli  altri  che  amici 
mi  si  rerìdono  di  nemici  ? Io  sicuramente  non  terrei 


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i4  nF.LLE  Antichità’  romanf 

nemmeno  per  uomo  chiunque  nè  ax>esse  nitnicizia  per 
chicli  fa  guerra,  nè  benevolenza  per  chi  lo  ha  salitilo  :■ 
non  iilitno  mia  patria  una  città  che  mi  ha  ripntliato, 
ma  quella , dove  sehben  forestiero  divengovi  cittadino  : 
nè  già  reputo  amica  la  terra  ove  sono  oltraggiato  , ma 
quella  ove  trovo  la  sicurezza.  E se  Dio  ne  porga  il 
favor  suo  , e voi  pronta  , com’  è giusto , C opera  vo- 
stra ; seguiranno  , spero  , grandi  e subiti  cambiamenti, 
foi  ben  sapete  che  i Romani  cimentatisi  con  tanti 
nemici  non  han  temuto  niun  più  che  voi  ; e che  niente 
cercati  più  attenti  quanto  indebolire  Ya  vostra  nazione. 
E pigliandole  colle  arme , e devUmdovele  colle  spe- 
ranze di  amicizia , ritengonsi  le  vostre  città  per  que- 
sto, appunto , perchè  unendovi  tutti  in  un  corpo  non 
portiate  su  loro  la  guerra.  Se  voi  dunque  a vicenda 
persevererete  procurando  il  contrario  ; e se  avrete  co- 
me ora , tutti  un  animo  per  la  guerra  ; Jacìlmente 
abbcUterete  la  loro  potenza. 

Vili.  E poiché  ricercale  il  parer  mio  sul  modo  di 
entrate  in  campo  e dirigervi,  sia  per  attestato  della 
esperienza  mia , sia  della  vostra  benevolenza , sia  per 
[ uno  e { altro  ; io  dirò  tutto , e senza  velo.  Primie- 
ramente vi  esorto  a vedere  che  vi  abbiate  una  causa 
religiosa  e giusta  di  guerra.  E come  religiosa,  come 
giusta , come  utile  insieme  ve  l’ abbiate  ( in  udite.  Pic- 
ciolo , sterile , aveano  da  principio  i Romani  il  lor 
territorio , ma  vasto  , e buono  è quel  che  vi  aggiun- 
seio  , togliendolo  a’  vicini  ; e se  ciascuno  dei  derubati 
tipela  il  suo,  tiiutia  città  diverrà  quanto  Roma  pic- 
ciola , debole  , bisognosa.  Or  io  penso  che  voi  doi- 


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LIBRO  Vili.  1 5 

Hate  i primi  cominciare.  Spedite  ambasciadori  che 
richiedano  le  vostre  città , quante  ne  tengono , e che 
intimino  loro  di  abbandonare , quanto  han  fabbricato 
per  le  vostre  campagne  , e li  premano  a rendervi , 
quanto  si  hanno  di  vostro  appropriato  colle  armi:  nè 
vogliate  prima  che  vi  rispondano , romper  la  guerra. 
Cosi  facendo  otterrete  V una  o t altra  delle  cose  che 
più  bramate.  Vuol  dire , o ricupererete  le  cose  vostre, 
senza  pericoli  e spese  ; o rinvenuto  avrete  il  titolo 
onesto  e giusto  di  prender  le  arme  : giacché  tutti 
confesseran  per  bellissima  la  condotta  di  non  chieder 
r altrui , ma  il  proprio;  e di  combattere  in  fine  se 
non  ottengasi.  Or  su , qual  cosa  pensate , faranno  i 
Eomani  a tali  vostre  proposte  ? che  renderanno  forse 
le  vosUe  regioni  ? ma  qual  cosa  impedirebbe  più  mai 
che  lasciasser  tutto  t altrui?  se  verrebbero  poi  gli 
Equi  e gli  Albani  , se  i Tirreni  e tanti  altri  a ripe- 
tere ognun  le  sue  terre.  O pensate  che  riterranno  le 
vostre  cose , nè  vorranno  affatto  la  giustizia  ? Così 
appunto  io  ne  penso.  Voi  dunque  protestandovi , i 
primi , offesi  da  loro;  e volgervi  per  sola  necessità 
alla  guerra  ; avrete  compagni , quanti  spogliati  de’ beni 
hanno  fin  qui  disperalo  ricuperarli  altrimenti , che 
per  le  arme.  Bellissima  è poi  la  occasione,  e di  cui 
non  avrete  mai  più  la  simile  per  andar  su  Bomani , 
preparata  fuori  di  ogni  speranza  dalla  sorte  propizia 
agli  offesi;  perciocché  li  Romani,  discordi  e sospetti 
fra  loro  a vicenda,  nemmeno  luin  capi  idonei  per  la 
guerra.  E questo  è quanto  io  poteva  suggerire  e rac- 
comandar con  parole  agli  amici,  detto  lutto  con  cuor 


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l6  DELLE  ANTICUITa’  ROMANE 

sincero  e benevolo  : quanto  poi  si  dovrà  provvedere  e 
compier  colle  opere,  lasciate  che  i duci  deli  armata 
lo  curino.  RispeUo  a me  son  per  voi , comunque  di 
me  disponiate;  e mi  sforzerò  di  non  riuscirvi  U pm 
ignobile  sia  de’  soldati  sia  de’  centurioni  , sia  de'  ca- 
pitani. Spendetemi  dove  pià  vi  son  uUle  , e tenetevi 
cerio,  che  io,  che  già  contro  voi  guerreggiando,  tanto 
vi  ho  danneggiato;  ora,  per  voi  combattendo altret- 
tanto vi  gioverò. 

IX.  Marcio  cosi  disse  , e U Volsci , menlre  parlata 
ancora , davan  segno  di  gradirne  i discorsi  : ma  poi  che 
ucque , miti  a gran  voce  allesUrono  che  benissimo 
consigliava  ; e senza  concedere  che  altri  più  disputasse, 
ratificarono  il  parer  suo.  Quindi  stesone  il  decreto,  e 
scelti  immantinente  i personaggi  più  riguardevoli  di  ogni 
cillA  , gl’  inviarono  ambasciadori  a Roma  : dichiararono 
Marcio  membro  de’ consigli  in  ogni  città,  e lo  auumz- 
zarono  a conseguire  in  ciascuna  le  magistrature  e gli 
onori  più  grandi  che  vi  erano.  Per  altro  anche  innanzi 
le  risposte  de’  Romani , si  diedero  agli  apparecchi  di 
guerra.  E quanti  erano  ancora  disaaimali  per  le  perdite 
nelle  battaglie  antecedenti , tutù  si  rincorarono  quasi 
fossero  per  abbattere  la  potenza  Romana.  Gli  oratori 
spediti  a Roma , presentali  al  Senato , dissero , che  sa- 
rebbe a’  FoLsci  carissimo  cessare  le  controversie  coi 
Romani  , e viverne  da  ora  innanzi  alleati  ed  amici 
senz  artifici  ed  inganni  : e dichiarano  che  stabile  sarà 
questa  fede  e quest'  amicizia , se  riabbiano  le  terre  e 
le  città  che  furono  tolta  loro  da’  Romani  : laddove  in 
altro  modo  nò  pace  mai  vi  sarà , né  amicizia  coslan- 


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LIBRO  Vili.  1-j 

te  ; giacché  V offeso  è naturalmente  in  guerra  perpe- 
tua colf  offensore.  Cliiecleaao  pertanto  di  non  essere 
colla  esclusione  delle  giuste  dimcuide  necessitati  alla 
guerra. 

X.  Detto  dò , fecero  i padri  ritirar  gli  oratori , e 
consullaron  fra  loro.  E cónchiusa  la  risposta  ^ li  riobia> 
maroQO  in  Senato , e dissero  : Conosciamo  o Fólsci 
che  voi  non  f amicizia  cercate  ; ma  pretesti  splendidi 
di  guerra  : perocché  ben  vedete  che  mai  vi  saran 
concedute  le  dimande , per  le  quali  venite , indegne , 
inammissibili.  Se  voi  date  ci  aveste  da  voi  stessi  e 
pentitine'  poi  ci  raddomandaste  le  vostre  terre  ; non 
sareste  affatto  oltraggiati , non  riavendole.  Ora  però 
voi  oltraggiate  noi , pretendendo  ciocché  è degli  altri: 
giacché  non  eravate  voi  gli  arbitri  delle  terre  , se  la 
légge  delle  armi  ve  le  toglieva.  ^ noi  teniam  per 
giustissimo  quanto  possediamo . per  le  vittorie  : nè 
primi  noi  abbiamo  fondata  questa  legge  , nè  la  cre- 
diamo degli  uomini  , anziché  degli  Dei.  E se  i Greci, 
se  i barbari  tutti  se  ne  valgono  ; noi  non  tlaremo  già 
in  ciò  segrà  di  debolezza , nè  renderemo  punto  delle 
nostre  conquiste.  Imperocché  ben  sarebbe  vituperosis- 
sima cosa  lasciarsi  per  timore  e per  stoltezza  rito- 
gliere ciò  che  per  senno  e per  nuignanimità  si  pos- 
siede. Noi  nè  a combattere  vi  necessitiamo , se  non 
volete  ; nè  se  volete , ve  ne  ritiriamo.  La  rispingere- 
mo , se  ce  la  incominciate , la  guerra.  Riportate  ai 
Folsci  queste  risposte,  e dite,  che  se  pigliano  essi 
i primi  le  arme , noi  gli  ultimi  lo  deporremo, 
Diomai , tomo  ut.  * 


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l8  DELLE  Antichità’  romane 

XI.  Prese  qpeste  risposle  Je  riferirono  gli  tmibascia* 
dori  al  Comune  de*  Volaci.  E convocato  di  bel  nuovo 
U Consiglio,  si  concbiuse  in  fine  d’ intimare  a nome  di 
tutta  la  nazione  la  guerra  ai  Romani.  Quindi  scelsero 
Tulio  e Marcio  con  assoluto  potere  capitani  di  tutta  1’  ar- 
mata, e decretarono  che  si  ascrivesser  milizie  , si  con- 
tribuisser  danari,  c si  facessero  altri  apparecchi,  quanti 
ne  vedean  necessarj  per  la  impresa. 'E  già  essendo  per 
isciogliersi  l’ adunanza  ; Mar*.io  levatosi  in  piè  disse  e 
Bonissimo  è quanto  si  è qui  decretato  dal  vostro  Co- 
mune ; e facciasi  pur  tutto  a suo  tempo.  Intanto  però 
che  qui  scrivonsi  le  milizie , e preparansi  le  altre  cose 
che  dimandano  cura  e tempo  ; io  e Tulio  ci  porremo 
in  su  r opera..  Seguite  noi,  quanti  volete  , saccheg- 
giando le  campagne  nemiche , partecipare  a gran  prede. 
Io  vi  prometto  , se  il  del  ne  ajuta , molti  e grandi 
vantaggi.  Li  Romani  non  sonasi  ancora  apparecchiati, 
vedendo  che  noi  non  abbiamo  riunito  le  forze;  sicché 
potremo  senza  paura  scorrere  a nostro  bell  agio  tutte 
le  loro  campagne,^ 

XII.  Accettato  da’ Volsci  anche  questo  partito,  j duci 
uscirono  immantinente , e prima  che  in  Roma  se-  ne 
sapesse , con  molta  soldatesca  volontaria.  Tulio  si  gettò 
con  parte  di  essa  nel  territorio  latino  per  impedire  i 
soccorsi  che  di  là  ne  andrebbero  al  nemici , e Marcio 
guidò  le  altre  aUe  campagne  di  Roma.  11  male  giunse 
improvviso  a quelli  che  vi  erano  ; e . caddero  in  poter 
de' nemici  molti  ingenui  Romani  e molti  schiavi;  e 
bovi  e giumenti’,  ed  altro  bestiame  non  poco.  Quanto 
era  derelitto  di  grano  , di  ferramenti , o di  altro  onde 


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V 


LIBRO  Vili.  1 9 

la  terra  cohirasi , tutto  fu  predato  , o disfatto.  Dii  uU 
timo  recando  'fino  il  fuoco  , lo  gettarono  i Volscl  pe’ca» 
sali  ; tanto  che  quelli  che  ne  furono  spogliati , non  po< 
temono  ripaparii'  se  non  dopo  gran  tempo.  Soggiacquero 
a tanto  infortunio  i poderi  de’  plebei  principalmente , 
lasciandosi  inviolati  quelli  de’patrizf.  E se  taluni  di 
questi  ebber  danno,  parve  che  Io  avessero  ne’ bestiami 
e nei  schiavi  soltanto.  Avea  cosi  Marcio  ordinato  a’ Voi- 
sci,  perchè  i patriz).  divenissero  più  sospetti  a’ plebei, 
nè  cessasse  in  Roma  la  sedizione  ; come  appunto  suc- 
cesse. Imperocché  nunziatasi  in  Roma  la  incursioné , e 
saputosi  che  il  ' danno  non  era  eguale  per  tutti  ; i po- 
veri vociferarono  contro  de’  ricchi , quasi  tirassero  Mar- 
cio su  loro.  Se  ne  scusarono  i patrizj,  scoprendo  1’  arte 
del  capitano  : ma  pe’  sospetti  e pe’  timori  vicendevoli  di 
tradimento , ninno  voleva  accorrere  a riparare  le  cose 
che  perivano  ; o preservare  le  altre  , intatte  ancora.  Cosi 
che  Marcio  ritirò  tranquillissimamente  1’  esercito , e ri- 
dusse tutti  alle  proprie  magioni,  senza'  che  avessero  patito 
nulla  di  grave , sebbene  avvessero  fatto  quanto  volevano, 
e tornassero  pieni  di  preda.  Tornò  poco  appresso  anche 
Tulio  con  grande  utilità  dalle  campagne  dè’  Latini  : pe- 
rocché non  ci  aveano  nemmen  ivi  soldatesche  da  ribat- 
tere r inimico  ; essendo  improvveduti  ancor  essi  contea  i 
colpi  del  neinbo  impensato.  Animaronsi  I Volsci  a tanto 
per  belle  speranze:  e più- presto  che  altri  non  erede, 
s’ iscrisse  la  milizia  , c si  forni  quanto  vollero  i duci. 

XIII.  Riunite  tutte  le  forze  , Marcio  si  concertò  col 
suo  collega  sul  resto  delle  operazioni.  A me  sembra, 
disse,  o Tallo  il  migliore  che  dividiamo  in  due  V ar- 


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ao  DELLE  Antichità’  romane 

mata  ; e che  poi  C uno  di  noi  col  fiore  de  pià  ar- 
denti e pià  bravi  niarci  a’  nem  ic  i per  combatterli  ; e 
decidere  con  una  battaglia  la  sorte  , se  ha  n cuore  di 
venire  alle  mani;  e se,  come  io  penso  . paventano 
rischiare  il  tutto  con  reclute  nuove  e'  duci  inesperti  di 
guerra , scorra  allora  e devasti  tutta  la  campagna , 
separi  i loro  alleati , strusa  le  colonie , e faccia 
infine  , guanto  può , loro  di  male.  JL  ’ altro  duce  poi 
qui  resti,  e curi  il  territorio  e le  città  , 'perchè  stati- 
dovisi  improvveduti , non  giungano  inosservati  i ne- 
mici , e ne  abbiamo  danno  bruttissimo  , spogliati  delle 
cose  presenti,  mentre  aspiriam  le  lontane.  Dee  simil- 
mente dii  resta  rialzare  le  mura , in , quanto  sono 
cadute  ; purgar  le  fosse ^ munire  i castelli  perchè  i 
cultoH  delle  terre  possano  ripar  arvisi  ; descrivere 
una  nuova  annata,  supplire  i viveri  a quei  che  son 
fuori , fabbricare  le  armi , e fornire-  speditamente 
quant’  altro  bisogna.  Io  te  ne  lascio  V arbitrio  : eleg- 
gi ; sia  che  tu  vagli  condurre  un  esercito  di  là.  dai 
confini  j sia  che  qui  comandarlo . Assai  compiacquesi 
Tulio  del  suggerimcQto  , e conoscendo  la  efBcacia  e 
la  buona  sorte  del  valentuomo , lasciò  che  regolasse 
la  spedizione  di  fuori. 

XIY.  Marcio  senza  più  indugio  mosse  coll’  armata 
verso  la  città  Circea  tenuta  da’coloni  Romani  {i}  e dai 
paesani,  e,  camtnin  facendo,,  la  prese.  Imperocché 
quando  i Circei  seppero  che  il  proprio  territorio  era 
in  poter  de’  nemici , e che  ornai  1’  esercito  si  approssi- 

(i)  Fa  Tarqoinio  Snperbo  che  se  ne  impradron'i,  e vi  mandò 
una  calonia  di  Romaoij  come  si  legge  nel  lib,  4 di  qoesia  istoria  J 63. 


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libro  ' vili.  21 

biava  alle  mura , apalancarona  le  porte  : ed  ascendo 
inermi  incontro  agli  armati , pregarono  che  accettassero 
la  loro  dedizione.  E ciò  (a  cagione  che  non  subissero 
sciagure  gravissime  ; tantoché  il  duce  né  bandi  , né  uc- 
cise ninno  di'  loro  : ma  tassandoli  de*  viveri  di  un  mese 
pe’ soldati  come  pure  di  vesti  e di  somme  discrete  di 
ai^nto  , ritirò  T esercito , lasciatane  picc'^ola  parte  in 
città  per  difesa  degli  abitanti , affinché  non  fossero  df- 
fesi  dai  Romani  né  vi  si  facessero  poscia  de’mntamenti. 
Nunziatisi  in  Roma  gH  eventi  ; destovvisi  turbazione  , e 
tumulto  molto  più  grande.  I paUnzj  incolpavano  il  popolo 
di  avere  espulso  per  mentite  cagioni  da  Roma  un  uomo 
bellicoso  , intraprendente , pieno  di  sublimi  pensieri , e 
di  averne  preparato  il  comandamte  pe*. Volaci.  Per  Top- 
posito  i tribuni  uè  fàceano  1’  accn$a  del  Senato  t di« 
oendo , esser  tutto  un  maneggio  insidioso  di  tpiesto , e 
dando  a credere  che  la  guerra  non  era  cóntro  di  tutti» 
ma  de'  plebei  solamente  : e co’  tribuni  univansi  di  sen- 
timento i più  ribaldi  dei  popolo.  Adunque  per  gli  odj 
e le  incolpazioni  .vicendevoli  nelle  adunanze  nemmen 
pensavanò  ad  ascriver  milizie , intimar  gii  alleati , e prer 
parare  quanto  Iacea  più  di  bisogno. 

XV.  In  vista  di  ciò  concertatisi  fra  loro  i più  pro- 
vetti tra’  Romani  persuasero  in  privato  ed'  in  pubblico 
i plebei  più  sediziosi  a finire  uua  volta  i sospetti , e le 
accuse  contro  de’,  patrizj  ; facendo  riflettere  che  se  per 
r esilio  di  uif  sol’  uomo  cospicuo  erano  incorsi  in  tanto 
pericolo , assai  più  dovrebbero  ' paventare  se  molli  di 
questi  fossero  astretti  a pensar  come  lui , sazj  degli  ob- 
brobrj  del  popolo.  Chetarono  per  tal  modo  il  disordine 


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« . 


a 2 DELLE  Antichità’  romane 

(Iella  nvoltiludine  , c chetatolo , si  tenne  ih  Senato  , e 
rispose  a’  ];.^ali  Latini  venati  per  chieder  soccorso  , che 
non  potessi  questo  allora  concedere  : che  permetteasi 
però  che  i Latini  formassero  milizie^  proprie  con  proprj 
capitani,  e mettessero  in  campo  un  esercito  , grande 
quanto  i Romani  per  vessi  ve  lo  metterebbero  : cose 
proibite  ambedue  ne’  trattati  di  alleanza  tra  i due  po- 
poli. Commise  a’  consoli  di  reclutare  secondo  i cataloghi 
un  annata  , di  presidiar  la  città  , e di  convocar  gli  al- 
leati ; ma  di  non  uscire  in  campo  finché  non  fosse  tutto 
ben  ordinati?.  Il  popolo  ratificò  tutte  queste  cose  , ma 
picciolo  era  il  tempo  che  rimaneva  ai  consoli  per  co- 
mandare. Tantoché  non  poterono  ultimare  niuna  delle 
cose  decretate,  ma  lasciaronle  tulle  imperfÈltc  pe’^ suc- 
cessori. 

XVI.  Venuti  dopo  loro  al  (dimando  Spurio  Nauzio  e 
Sesto  Furio  (i)  ricavarono  dai  registri  civili  un  armata, 
grande  quanto  poterono  : stabilirono  osservatori  e segnali 
di  fuoco  in  luoghi  munitissimi , perché  niente  s’ igno- 
rasse'di  quanto  facessi  per  la  campagna  : ed  in  piccolo 
tempo  apparecchiarono  in  copia  danari,  frumento,  ed 
armi.  Pertanto  ordinarono  questi  le  cose  proprie , sic- 
ché pareva  che  nulla  più  vi  mancasse.  Non  obbidirono 
però  gli  alleati  con  prontezza  ; esscndovene  alcuni  alleni 
di  concorrere  alla  guerra.  Nondimeno  non  vollero  astrin- 
gerli i temendo  di  esserne  in  fine  traditi.  F già  taluni 
ribellavansr  manifestamente  da  essi  , e secondavano  i 
Volsci.  Gli  Equi  cominciarono  i primi  la  rivolta  , im- 

(i)  Anui  di  Roma  aCC  secondo  Catone,  a<>3  secondo  Varrone  c 
486  aranii  Cristo. 


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LIBRO  Vili.  3 3 

perocché  ne  andarono  ai  Volsci  appena  si  ebbe  la  guep. 
ra  , e concordarono , e giurarono  T alleanza.  Or  questi 
spedirono  a Marcio  la  milizia  più  numerosa  e più  riso- 
lutai.  Dato  da  questi  un  principio  , molti  altri  ancora 
favorivano  occultamente  i Volsci  ; mandando  loro  dei 
sussidi  non  però  per  decreto  o pubblica  approvazione. 
E se  taluno  de’  loro  voleva  a quelli  coogiungersi',  've 
gl’  incitavano  , non  che  gl’  impedissero.  Dond’  è che  i 
Volsci  accozzarono  in  breve  tempo  tanta  milizia,  quanta 
mai  più  per  addietro , nemmen  quando  le  loro  città  più 
6orìvano.  Marcio  che  ne  era  il  duce  la  gittò  di  bel  nuovo 
su  le  campagne  di  Roma  ; e tenendovisi  molti  giorni  , 
devastò  quanto  crasi  lasciato  nella  prima  incursione.  Non 
prése  però  questa  volta  prigionieri  molti  ingenui  uo- 
mini , giacché,  raccolte  le  cose  più  pregévoli,  «ransl 
questi  ritirati^  in  Roma o ne’  castelli  più  vicini , e me- 
glio fortiGcalj.  Ma  depredò  il  bestiame  che  non  arcano 
potpto  ridurre  altrove , e gli  uomini  che  lo  pasturavano, 
come  il  grano  tenuto  ancora  nelle  aje  ed  altri  prodotti 
che  raccoglie vanSi o che  erano  già  pe’ grana).  Cosi  de- 
rubata 6'  guastata  ogni  cosa , non  osando  alcuno  di 
conlrapporglisi,  riportò  nuovamente  in  patria  1’  esercito  , 
carico  di  grandi  acquisti,  e quindi  lento  in  sua  marcia. 

XVII.  I Volsci  veduto'!’ ampio  guadagno,  e convin- 
tisi dell’  abbattimento  de’  Romani , che  predatori  già 
delle  robbe  altrui  , miravano  ora  devastarsi  impunemente 
le  proprie;  ne  imbaldanzirono  soprammodo,  e conce- 
pirono pur  la  speranza  di  dominare  , quasi  fosse  per 
loro  facilissima  e vicinissima  cosa  annientare  il  potere 
degli  avversar].  Adunque  facaano  agl’  Iddj  sacriBzj  di 


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a 4 DELLE  Antichità’  romane 
nngrauamento , oraavapo  i templi  ed  i pubblici  fori 
di  spoglie  che  dedicavano.  E tutti  iu  feste,  in  sollazzi, 
ammiravano  e celebravano  Marcio , qual  uomo  ipsignit- 
■ aimo  fra  gli  altri  nella  guerra , e qual  duce  cui  ntun 
pareggiava  non  Romano,  non  Greco,  non  barbaro  cajii- 
tano. . Soprattutto  lo  felicitavano  della  sua  prosperità  ; 
vedendo  che  quanto  intraprendeva , riuscivagji  tutto 
speditissimamenle , secondo  i disegni.  Tanto  che  ninn 
v’era  di  età  militare  il  qual, volesse  non  esser  con  lui; 
ma  spiccavansi,  e venivano  da  tutte  le  città  per  aver 
parte  nelle  sue  gesta . Il  duce , corroborato  ]’  ardore  dei 
Volici , e depresso  il  coor  de’  nemici , e ridottolo  ad 
irrisolutezza  indegna  de’  valentuomini , marciò  coll’  e- 
sereito  contro  le  città  che  alleate  di  essi  teneansi  ajncora 
fedeli:. ed  avendo  ben  tosto  apparecchiato  quanto  ricer- 
cavasi  per  gli  assedj  , piombò  su’  Tolerini  , gente  del 
, Lazio.  I Tolerini , preparatisi  molto  prima  per  la  gueiv 
ra , e portalo  in  dllà  , quanto^  bisognavacl  della  cam- 
pagna , ne  scontraron  l’ assalto.  Ben  resisterono  alcup 
tempo  , combattendo  e ferendo  ip  copia  i nemici,  dalle 
mura  , ma  risospinti  è travagliati  poi  fino  a sera  dai 
feombolierì  , le  abbandonarono  in  gran  parte.  Marcio , 
compreso  ciò , diede  ordine  ad  altri  che  applicasser  le 
scalchila  parte  derelitta  del  ricinto:  ed  egli  ne  àndò 
col  fior  de’  bravi  alle  porte  ; sebbene  infestato  cogli 
strali  dalle  torri  : e là  ^^zzali  *i  serragli , il  primo  si 
mise  in  città:  ma  perciocché  si  era  disposta  alle  porte 
una  schiera  folla  e poderosa  di  nemici;  questi  lo  rice- 
verono virilmente  ; disputandogli  lungo  tempo  intrepidi 
r intento , finché  perdutine  molti , dieder  volta , e sban- 


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LIBRO  Vili.  2 5 

duiì  fuj^ronsi  jier  le  vie.  Gl*  insegoi  Marno , acciden- 
(Ione  c|uanli  ne  sopraggiangeva  ; se  'gettate  le  anni  non 
volgeansi  alle  preghiera.  lolanto  gli  asc^i  per  le  scale 
impadronironsi  delle  mura.  Cosi  la  città  fu  presa , e Mar- 
cio separò  dalle  prede  quanto  era  donativo  pe'  numi , o 
decorazione  per  le  città  de’  Yolsci , abbandonando  il  re- 
sto a’  soldati,  Aveanci  nell’acquisto  uomini , danari , grani; 
tanto  cUe  non  riuKl  facil  cosa  a vincitori  tor  via  tutto 
in  un  giorno.  Adunque  menandoselo , o trasportandolo 
successivamente  di  per  seslessi , <»’giumepti,  furono  astretti 
a consumarvi  gran . tempo.  ^ 

XVIII.  Il  duce  levatine  i prigionieri  e tua’  alti»  , e 
lasciata  la  città  diserta  , marciò  coll’ esercito  *sn\  Bolani, 
altra  città  de’ Latini.  Prevedutone  quegli  l’arrivo  aveano 
preparato  tutto  per  contrapporsegli.  Marcio , quasi  'per 
espugnarla  4>  assalto  , prese  ad  investirne  in  gran  parte 
le  mura.  I Bolani , aspettatane  1’  ora  conveniente , spa- 
lancano le  mura  ; e sboccandone  in  numero , a schiera, 
e con  ordine  ; si  avventano  su  quelli  che  stavano  a fronte: 
ed  uccisone  molti , e più  antera  feritine , e ridotti  gli 
altri  a turpissima  fuga , cioulraron  le  mura.  Marcio  , che 
non  era  presente  al  sito  dell’  inforinnio  , conosciuta  la  fuga 
de  Volsci  accorse  di  tutta  fretta  con  pochi  : e raccogliendo 
quei  che  vagavan  dispersi , li  ticongiun^  e rìaoimò  : poi 
riordinatili,  e- dimostrato  ciocch’ era  da  fare;  comandò 
loro  di  attaccar  la  città  verso  le  porte  appunto.  Ricor- 
sero i Bedani  a’  tentativi  medesimi , emergendo  in  gran 
mollitudine  dalie  porte.  Non  gli  aspettarono  i Volsci, 
ma  ripiegandosi  fuggirono  giù  pel  declivio  come  il  duce 
avea  già  suggerito.  Non  videro  i Bolani  l’ inganno , e 


26  DELLE  Antichità’  romane 

tnoltissime  li  seguitarono  : quando  slontanatisi  già  dalle 
mura  ; Marcio  che  avea  seco  il  fiore  de’  giovani , diede 
su  loro  : e qui  molta  ne  fu  la  uccisione  ; fuggissero  o 
resistessero.  Seguitando  poi  li  respinti  fino  alle  porte , li 
prevenne;  internandovisi  a 'forza,  prima  che  si  richiu- 
dessero. Impadronito^si  il  duce  appeua  delle  porte  ; ecco 
giugnere  altra  moltitudine  di  Volaci.  Li  Bolani  abban- 
donate le  mura , rìpararonsi  nelle  case.  Divenuto  in  tal 
modo  r arbitro  anche  di  questa  città , concedette  a’  sol- 
dati di  farne  schiavi  gli  uomini , e di  porne  a sacco  le 
robe.  E trasportatane , come  altre  volte  , successivamen- 
te, a grand’  agio  , tutta  la  preda  , abbandonò  la  città 
finalmente  alle  fiamme. 

XIX.  Pigliando  quindi  1’  esercite , ne  andò  su’  Labi- 
càni.  Eran  questi,  come  altri , 'Colonia  già  degli  Albani, 
ma  popolo  allora  ancb’  esso  dei  Latini.  Or  egli  per  at- 
terrirli fin  denti*o  le  mura , sparse , giuntovi  appena  , 
su’Joro  campi  il  fuoco,  principalmente  in  quelli  donde 
era  .per  essere  più  visibile.  Ma  i Labicani , avendo  ben 
fortificate  le  mora  nè  sbigottirono  p?r  1’  arrivo  di  lui , 
nè  diedero  segno  alcuno  di  debolezza  : ma  si  opposero 
e pugnarono  generosamente;  trabalzandoli  piùjvolte  fin 
da  sopra  le  mura.  Non  però  resisterono ' con  successo; 
combattendo  pochi  contro  di  molli , e senza  requie  mai, 
nemmen  picciolissima  i giacché 'frequenti  erano  intorno 
la  città  gli  assalti  successivi  de’  Volsci  ; ritirandosene  via 
via  gli  stanchi , e cimentandosi  altri  l'ecpnti.  Adunque 
data  per  un  intero  giorno  battaglia,  nè  fattasi  pausa 
«emmen  su  la  notte-,  furono  dalla  stanchezza  astretti  a 
lasciare  in  fine  le  mura.  Marcio,  espugnatele,  ne  rendè 


é 


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Lir.RO  vili.  27 

schiavi  li  cittadini  , e dté  tutto  in  preda  a’  soldati.  Di  là 
trasferendo  1’  esèrcito  io  ordinanza  contro  la  città'  de’  Pe- 
dani , Latina  anch’  essa  di  popolo  , la  pigliò  di  forza , 
giuntovi  appena.  E trattatala  come  le'  altre  già  prese  , 
levandone  in  su  1’  alba  le  truppe  , le  menò  béntotfto  sa 
Corbione.  Ma  nell'  approssirharvisi  gli  abitanti  1’  apersero, 
ed  uscirongli  incontro  , presentando  simboli  di  pace , e 
la  ' resa  loro  senza  combattcrè.  Ed  egli , encomiatili  come 
savj  nel  provvedere  a séslessi , comandò  che  gli  portas- 
sero grano  ed  argento , come  l’ esercito  ne  bisognava  ; e 
ricevuto  tutto  secondo  i comandi , marciò  co*  snoi  con- 
tro Coriolo.  Gederonò  gli  abitanti  pur  questa  senza  re- 
sistenza ; ma  perciocché  con  pienissima  propensione  sup- 
plirono viveri,  danari,  e quanto  Kn  chiese  , nè  ritirò 
1*  armata  ; come  su  territorio  àmico.  E per  fermo  ; egli 
procurava!  con  ogni  sollecitudine  che  quelli  che  si  ren- 
devano non  subissero  i mali  causati  dalla  guerra  ; ma 
riacquistassero,  intatte  le  loro  terre , e li  bestiami , e gli 
schiavi  che  aveano  lasciati  ne’  loro  poderi  : nè  permet- 
teva che  le  truppe  alloggiassero  belle  città  di  essi  ; per- 
chè non  fossevi  danno  di  furti  o prede , ma  le  accam- 
pava presso'  le  mura. 

XX.  Di 'qua  mosse  l’esercito  verso  Bovilla  (1)  città 
cospicua  allora  è contata  tra  le  primarie  de’ Ladini,  che 

(1)  Nel  lesto  dice  Boia:  ma  forse  dee  leggersi  Bovilta  \ percbl;' Co- 
riolgoo  già  era  stato  ai  Toleriai , a Bota , a Labico  , a Pedo,  a Cor- 
bipne , ed  a Coriolo. -Potrebbe  dubiigrsi  se  sia  scritto  Bovilla  nel 
$180  nel  presente  di  questo  libro  : Si  descrivono  tulle  due  come 
so  r alture  ; parlandovisi  di  declivj  ; e Boriila  eia  nella  via  Appia 
in  piano  , secondo  Cloretio. 


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a8  DELLE  Antichità’  romane 

erair  pochissime.  Nod  Io  accolsero  già  quei  che  v’  erano 
dentro,'  confidati  nelle  fortificazioni 'assai  vàlide,  e nel 
numero  dei  difensori.  Adunque  egli  eccitando  le  trupper 
a combattere  generosanaente , e proponendo  amplissimi 
premj . a’ primi  che  ne  salisser  le  mura;  si  accinse  all’as^ 
salto.  Or  qui  vivissima  < fu  la  - battaglia , perchè  li  Bovil- 
lani  noh  solo  travagliavano  dalle  mura  chi  vi  si  appres> 
sava  ; n^i  perchè  , spalancate  le  porte ne  uscirono  in 
furia  ed  in  copia , e ne  incalzarono'  abbasso  quanti  ne 
erano  a fronte.  Assai  perirono  di  Voisci  in  quella  sorti- 
ta , e diuturna  fu  la  zuffa  sopra  le  mura  ; sicché  mai 
più  speravano  d’ invaderle.  Ma  il  duce  supplendo  nuovi 
soldati  non  fe’ conoscere  la  perdita  degli  altri:  e raccese 
l’ardore  dei  vacillanti;  portandosi  egli ‘stesso  alla  parte 
di  esercito  che  pericolava  : Nè  spiravano  coraggio  i delti 
soli , ma  i fatti  ancora  'di  lui  : corse  a tutti  I pericoli , 
nè  lasciò  tebtativo , finché  non  si  preser  le  mura.  Iril- 
padronitosi  poi  della  città,  messa  parte  dei  vinti  a 61  di 
spada  per.  le  leggi  dei  forti , e parte  rendulala  schiava , 
ricotadusse  f esercito.  E^Ii  rimenavalo  dopo  una  segnalala 
vittoria  c^'co  di  spoglie  bellissime,  e ricco  de’  tanti  da- 
nari , ivi  presi , quanti  in  ninna  delle  città  coqquistate. 

XXL  Dopo  ciò  tutta  la  regione  percorsa  'Era  in  po* 
ter  sùo , nè  più  gli  resisteva  ninna  'città  se  non  Lavinia, 
la -prima  delle  città  fondate  da’ Trojani  approdati  con 
Enea  nell’  Italia , dalla  quale  dm  vano  i Romani  come 
di  sopra  fu  dichiarato.  Gli  abitanti  pensavano  dover  pri- 
ma incontrare  ogni  male,  che  'mancar  di  fede  ai  discen- 
denti loro.  Adunque  vi  ebbero  attacchi  terribili  su  le 
mura,  e battaglie  veementi  per  le  forltficazioiu:^non  però 


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LIBJIO  vni.  39 

sì  espugnarono  a prini*  impeto  ; ma  parve  abbisògnarvt 
assedio , e tempo.  Postosene  Marcio  all’  assedio  cinse 
intorno  la  dtià  di  vailo  e fossa , e guardò  le  strade  , 
perché  non  le  si  recassero  esterni  soccorsi  e viveri.  I 
Romani  udita  la  rovina  delle  città  vinte , compresa  la 
necessità  delle  Fendutesi  a Marcio , pressati  da’  messaggi 
quoiidiaid  delle  altre , fedeli  ancora  , che  imploravano 
ajulo,,  spaventati  insieme  dalla  circonvallazione  che  tira- 
vasi  intorno  Lavinia , e convinti  che  se  cadea  questo 
iurte  > la  guerra  verrebbe  addirittura  su  loro , crederono 
uno  solo  il  rimedio  a tanti  mali , decretare  il  ritorno  di 
Marcio.  Tutto  il  popolo,  gridava  questo  , e li  tribuni 
voleano  lare . una  legge  per  annullarne  la  condanna  : ma^ 
li  patrizj  si  opposero,  ricusando  che  si ' annullassé  al- 
cuna sentenza  enianàta.  E<  non  essendone  fatto  decreto 
antecedente  dal  Senato , non  istimarono  i tribuni  di  prò- 
poiTe  r affare  al  popolo.  Egli  è certo  da  meravigliarsi 
come  il  Senato  già  si  zelante  per  Marcio,  ora  «'oppo- 
nesse al  popolo  deliberato  di  richiamarlo.  Voleva  espio* 
rame . 1’  animo  ? voleva  infiammarlo  ancor  più  col  tardo 
concedere  ? o volea  dissipar  le  calunnie  contro  sé  con- 
cepnte  di  non  essere  autore  , nè  cooperatore  di  quanto 
iacean  dal  valentuomo  ? £ difficile  indoviuarne  i secreti 
disegnL 

XXII.  Marcio,  udito  ciò  dai  disertori,  'sdegnato  co- 
m’ era  < immantinente  .lasciato  un  presidio  a Lavinia 
mosse  r esercito , addirittura  incontro  di  Roma  : e fer- 
matosene cinqne  miglia  lontano  si  accampò  presso  le 
fòsse  chiamate  Cluvilie.  Saputosi  in  città  l’ arrivo  di  Ini, 
vi  si  generò-  tanto  tumulto,  quasi  allora  allora  giugnesse 


3o  DELLE  Antichità’  romane 

Li  guerra  alle  mura.  Tanto  che  chi  pigliando  le  arme 
correva  senza  esserne  comandato  alle  mora  , e chi  reca- 
vasi in  folla  senza  duce  alle  porte:  chi  date  le  armi  ai 
servi , collocavali  su’  tetti  delle  case  , e chi  prendea  la 
guardia  della  fortezza  e del  Campidoglio , e di  altri  siti 
'di  difesa.  Le  donne  a chiome  sparse  ne  andavano  pian- 
gendo ai  santuari  e a’  templi , e supplicavano  i numi  a 
declinare  altrove  il  nembo  che  si  avanzava.  Ma  poiché 
trascorse  la  notte  e gran  parte  del  giorno  appresso,  nè 
segui  niuna  delle  cose  che  temeàno , standosi  Marcio  in 
oalma  ; i plebei  concorsero  al  F orO  , e vi  convocarono 
a consiglio  i patrizj , e dissero  : che  se  non  decretava  il 
Senato  il  ritorno  di  colui  , prowederebbon  essi , come 
traditi , a se$tessi.  Allora  i patrizj , fatto  congresso , de- 
cretarono che  si  spedissero  oratori  a,  Marcio  cinque  se-, 
uiori , cari  principalmente  a lui  per  trattarne  la  pace  e 
r amicizia.  F urono  i nominati  da  essi  Marco  Minucto  , 
Postumio  Cominio , Spurio  Largio , Publio  Pina'rio  , e 
Quinto  Sulpicio , tutti  uomini  consolari.  Come  giunsero 
in  campo , e Marcio  ne  seppe  l’ arrivo , sedutosi  coi 
Volsci.é  con  gli  alleati  più  riguardevoli  in  parte,  donde 
i più  seniirebbono  ciocché  dicevasi,  comàndò  che  fosser 
chiamati.  Entrati,  Minneio  che  nel  suo  consolato  eiiasi 
adoperato  più  che  tutti  per  lui  contrariandone  vivissima- 
mente il  popolo , fecesi  a parlare , e disse  : 

XXIII.  Che  tu  abbi  sofferto  non  giuste  cose  dal 
popolo  , e che  tu  sii  stato  indegnissimamente  espulso 
dalla  patria  , noi  tutti  o Marcio  lo  conosciamo  : nè 
crediamo  un  portento  che  tu  ti  eontristi  e ti  adiri  sul 
tuo  trattamento  ; comune  essendo  per  natura  a tutti f 


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LIBRO  Vili.  3r 

che  chi  mal*  ha , ne  ahhorra  chi  glie  lo  fece.  Che  poi 
tu  non  distingua  con  savia  ricerca  quali  tt  conviene 
ribattere  e castigare,  nè  regoli  con  niuna'riserva  la 
vendetta  , ma  ponghi  tutti  in  un  cumulo  colpevoli  e ' 
non  colpevoli , amici  e nemici , e violi  le  leggi  invio- 
labili della  natura,  e confonda  i rispetti  santissinU 
per  gC  Jddj , nè  pià  ricordi  chi  tu  sii , nè  da’  quali 
sii  nato  ; questo  sì  ne  fa  meraviglia.  Spediti  perciò' 
dalla  patria  veniamo  ambasciadori  tuoi,  noi  per  età 
li  pià  provetti  de*  patrizj  , e pià  propensi  per  affètto 
verso  di  te  : noi  portiamo  giustifibazioni  e preghiere  : 
jtoi  per  incarico  chiediamo  con  quali  condizioni  tu 
vogli  riconciliarti  col  popolo  : e noi  ti  conforteremo 
in  quanto  è per  te  pià  proficuo  e più  decoroso.  • 
XXIV.  E prima  discorrasi  del  diritto  : Cospirarono  ' 
contro  di  te  li  plebei , ma  concitati  da  tribuni  ; i 
quali , esssendo  tu  loro  terribile , yoleano  fino  ucci- 
derti , senza  condanna.  Noi  del  Senato  gl'  impediva- 
mo , e facemmo  che  tu  non  soffrissi  allora  cosa  non 
giusta.  Impediti  così , ti  citarono  in  giudizio  , incol- 
pandoti di  discorsi  rei  , tenuti  in  Senato.  Resistem- 
mo , come  sai , pur  su  questo , nè  perméttemmo  che 
tu  subissi  le  pene  ptf  tuoi  pareri  e discorsi.  Riso- 
spinti  anche  in  ciò , da  ultinfo  vennero  a noi  per  in- 
colparti di  aspirata  tirannide  : Tu  stesso  ti  arrendevi 
a difeiXderti  su  tal  colpa  dalla  quale  eri  tanto  lon- 
tano, e ti  assoggettavi  al  popolo  perchè  su  te  votasse. 

Il  Senqto  ti  assisteva  anche  allora;  e moltissimo  per 
te  supplicò.  E ciò  stando , e di  qual  tua  sciagura 
siamo  rei  noi  del  Senato  ? E perché  guerreggi  noi 


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3a  DELLE  Antichità’  romane 

che  sì  benevoli  già  nel  caso  tuo  ti  ci  dimostrammo  ? 
Che  pià  : ben  rilevasi  ancora  che  nemmcn  tutto  il 
popolo  voieati  discacciare  j se  per  due  voti  soli  tu 
fosti  condannato.  Sicché  non  guerreggi  tu  con  giusti- 
zia nemmen  qàelli  che  ti  assolverono  come  innocente. 
Ma  poniamo  , se  così  vuoi , che  tu  cadessi  ttella  tua 
sciagura' perchè  così  ne  parve  a tutti  del  popolo  , e 
del  Senato  : poniamo  che  giustissimo  sia  l'  odio  tuo 
contro  di  essi.  Le  donne  o Marcio  in  che  ti  offesero 
mai  queste  ; sì  che  tu  le  combatta  ? qual  voto  mai 
diedero  per  /’  esilio  tuo  ? o di  quali  indegni  discorsi 
sono  mai  ree  ? Che  fecero  , che  pensarono  mai  tT  il- 
legittimo i nostri  fanciulli  che  pericolano  d'  incorrere 
il  giogo  , e gli  altri  mali  compagni , se  Roma  soc- 
combe ? Tu  non  adoperi  o Marcio  rettamente , 'nè 
pensi , come  a'  virtuosi  conviene  , se  credi  che  cosi 
debbi  odiare  gli  < offenson  e nemici  ; che  non  abbi  a 
perdonare  nemmeno  gt  innocenti  e gli  amici.  Ma  per 
lasciar  tutto  ciò , che  diresti  tu  mai , viva  Dio , se 
alcuno  ti  chiedesse  che  abbi  sofferto  tu  mai  dagli 
antenati  che  ne  scoperchi  le  tombe  , e li  privi  degli 
onori  che  otteneano  da  mortali  ì E le  are  e le  cap- 
pelle e i templi  degl’  Iddii  per  vendetta  di  quali  colpe 
li  spogli , e li  abbruci , e devasti  , e defraudi,  de’  le- 
gittimi onori?  Che  risponderesti  tarmai?  certo  io  noi 
vedo.  E ciò  sia  detto  o Marcio  sul  diritto  per  noi , 
pel  Senato , per  gli  altri  cittadini  che  tu  vuoi  , non 
offeso  f distruggere  , e per  le  tombe  , pè  templi  e 
per  la  patria , che  ti  ha  generato  e nadrito. 

XXV.  Si  conveniva  forse  che  pagassero  a te  lo 


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» LIBRO  Vili.  33 

pene  con  essere  sterminati , tanti  uomini  che  non  ti 
hanno  offeso , tante  femmine , tanti  giovinetti  ? Si 
conveniva  che  sentissero  il  frutto  della  stoltezza  dei 
tribuni , tanti  numi , tanti  eroi , tanti  genj  , e che 
niente  fosse  preservato  , niente  impunito  da  te?  Non 
avevi  riscosso  farse  vendetta  che  ti  bastasse  coll'  ec- 
cidio di  tanti  uomini , col  guasto  di  tante  campagne 
tra  ’l  fuoco  e tra  ’l  ferro , collo  strazio  di  tante  città 
per  fno  da'  fondamenti , con  tor  feste  e sagrifizj  e 
culto  a tanti  numi  e genj , quali  in  pià  luoghi  li  hai 
già  ridotti  senza  celebrità , senza  vittime , senza  ono- 
ri ? Certamente  io  non  reputo  degno  di  un  uomo  che 
tien  cura  anche  minima  della  virtù, , confondere  gli 
amici  co’  nemici , e serbar  odio  , duro  , implacabile  , 
su  chi  ne  ha  offesi specialmente  se  piU  volte  già  ne 
ha  subito  segnalati  castighi  : E tali  sono  le  difese 
nostre , tali  le  preghiere  che  pel  popolo  ti  por- 
tiamo. Tali  sono  poi  le  cose  , che  i pià  riguardevoli 
degli  amici  tuoi  vengono  per  benevolenza  a dichia- 
rarti e promettere  , se  colla  patria  ti  riconcilii.  Fogli 
( e qui  stia,  principalmente  la  tua  potenza , e gU  Id- 
dìi vi  ti  ajutino  ) vogli  moderare  e dispensar  savia- 
mente  cotesta  tua  sorte  ; riflettendo  che  tutto  varia 
quaggià,  nè  cosa  mai  si  rimate,  la  stessa.  Non  figge 
quanto  soprainnalzasi , la  indignazione  de’  numi , e 
giunto  al  massimo  della  grandezza  è rispinto  in  nien- 
te : e ciò  soffrono  principalmente  le  aspre , le  orgo- 
gliose procedure , che  la  umana  sorpassano.  Tu  puoi 
nobilissimamente  da  fine  alla  guerra  ora  che  il  Se- 

OlOtriat.  tvma  III.  ' • • i 


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34  DELLE  antichità’  ROMANE 

nato  (Usidera  decretare  il  tuo  ritorno , e pronto  è il 
popolo  ad  annullar  col  suo  voto  il  tuo  bando  per-> 
petuo.  Che  dunque  impedisce  che  rivenghi  alla  dolce, 
alla  carissima  vista  de' tuoi  pià  congiunti,  e ricuperi 
t amatissima  patria , e comandi,  come  ti  si  conviene, 
a chi  comanda,  e sii  duce  de' duci,  e ne  lasci  C am- 
plissima gloria  a'  tuoi  figli  e nipoti  ? E che  tali  e 
tante  promesse  avran  prontissimo  effetto,  noi,  quanti 
qui  vedi , noi  tutti  ne  siamo  i mallevadori.  Finché  nè 
stai  di  fronte  col  campo  e colla  guerra , non  parve 
al  Senato  nè  al  popolo  far  su  te  decisione  ninna  di 
clemenza  e di  moderazione  ; ma  se  ti  levi  dalle  ar- 
me , avrai , né  tardi , e noi  lo  porteremo , il  decreto 
del  tuo  ritorno. 

XXVI.  Tali  sono  i beni  se  alla  patria  ti  riconcilii: 
ma  se  ti  ostini , se  t odio  non  deponi  verso  noi  ; 
dure  e molte  ne  saranno  le  conseguenze  : ed  io  due 
le  pià  manifeste  te  ne  addito  ; vuol  dire  : la  prima 
che  avresti  il  barbaro  amore  di  un'ardua  anzi  im- 
possibile cosa , di  abbattere  cioè  la  potenza  di  Ro- 
ma , e colle  arme  de'  Volsci  : C altra  che  quando 
pure  tu  ben  ^ indirizzi  e riesca  alf  intento  , ne  sa- 
rai creduto  il  pià  sciaurato  de'  mortali.  E perchè  io 
così  congetturi  su  te  ; lo  ascolta  o Marcio , nè  t’  ina- 
cerbare  sul  franco  mio  dire.  E prima  ne  intendi  la 
impossibilità.  Molta  è in  Roma , e tu  U>  sai,  la  gio- 
ventìi  paesana  : e se  le  si  tolga  ( e torrassele  per  la 
necessità  presente  in  tal  guerra  ) la  sedizione , rac- 
chetando il  timore  comune  tutti  i dissidj , non  pià  li 
V jIscì  , ma  niuna  gente  d’ Italia  ci  abbatterrà.  Molte 


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LIBRO  Vili.  35 

sono  le  milizie  de*  Latirù , molte  quelle  degli  alleati, 
coloni  di  Roma , le  quali  aspettati  che  in  breve  giun- 
gano per  soccorrerci.  1 capitani , come  te , seniori  o 
giovani , tand  sono  di  moltitudine , quanti  in  tutte  lo 
altre  città  non  sono.  Ma  t ajuto  pià  grande  di  tutti, 
quello  che  non  ei  ha  mai  deluso  ne’ grandi  accidenti, 
e che  pili  vale  di  tutte  le  forze  degli  uomini,  è la 
beneifolenza  de’  numi , per  la  quale  teniamo  questa 
città  già  da  otto  generazioni  non  pur  libera,  ma  fe- 
lice , ed  arbitra  di  tante  nazioni,  JVon  pareggiarci  ai 
Pedani  , ai  Tollerim  , agli  altri  popoletti , de’  quali 
sormontasti  le  cittadelle.  Anche  un  altro  duce  minore 
di  te , e con  esercita  minore  che  questa  tuo  , violen- 
tato avrebbe  tali  fiacche  e poco  presidiate  munizioni. 
Ma  considera  la  grandezza  della  nostra  città  , la 
luce  sua  per  tante  imprese  guerriere , e C ajuto  di- 
vino pel  quale , già  picchia , tanto  s’  inff-andì  : nè 
concepire  che  si  diversifichi  codesta  tua  forza  colla 
quale  vieni  a tanta  cimenta  : anzi  ricordati  che  un 
esercita  meni  di  Folsci  e di  Equi  che  noi  stessi  ab- 
biam  vinta  in  tanto  battaglie  in  quante  osarono  di 
affrontarci  : Talché  ben  vedi  che  porti  a combattere 
i men  forti  contro  i pià  valorosi,  e chi  sempre  per- 
dette contro  vincitori  costanti,  E quand’  anche  fosse 
il  contrario  ; pur  sarebbe  da  meravigliare  , che  tu 
perita  di  guerra  non  sappi , che  ne'  pericoli  non  è 
pari  r artlire  in  ehi  difende  i suoi  beni , ed  in  chi 
cerca  gli  altrui  ; che  questi  se  non  vincono , niente  vi 
scapitano;  ma  niente  agli  altri  pià  resta,  se  perdono- 
E questa  principalmente  è la  causa  che  le  grandi 


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36  DELLE  ANTICniTA’  ROMANE 

armate  svaniscono  contro  le  piccole,  e le  migliori 
. contro  le  men  buone.  Chè  può  la  terribile  necessità , 
ponno  i pericoli  estremi  spirare'  corono  anche  ad 
indoli  che  non  ne  abbiano.  E quanto  alC arduità  deb 
r impresa  potrei  dire  piò  cose , ma  bastino  queste. 

XXVII.  Mi  resta  a fare  un  solo  discorso,  cui  se 
accompagnerai  colla  ragione  non  colf  ira , vedrai  che 
esso  è giusto , e ti  verrà  pentimento  del  procedere 
tuo  : ma  quat  è mai  questo  discorso  ? Gli  Dei  non 
concessero  a niuno  che  nasce  mortale  solida  scienza 
delt  avvenire  : nè  troverai  da  tutti  i secoli  alcuno  cui 
tutto  riuscisse  propizio  senza  mai  contrarietà  della 
sorte.  Perciò  li  piò  awanzati  in  prudenza , quale  il 
vivere  lungo  e la  molta  esperienza  la  recano , deano 
prima  di  accingersi  ad  una  impresa  considerarne  il 
termine,  non  solo  se  riesca  come  pur  lo  vorrebbono, 
ma  nel  caso  ancora  che  devii  dai  disegni:  e ciò  deano 
i comandanti  principalmente  delle  ‘ guerre , a'  quali , 
quanto  piò  essi  dispongono  gravissimi  affari,  tanto 
piò  tutti  ascrivon  la  origine  de'  buoni  o tristi  suc- 
cessi ; tal  che  se  vedono  esser  niuno , o ristretto  e 
piccolo  il  danno  dell'  azione  se  la  sbagliano , allora 
la  intraprendono  , ma  se  vario  e grande  lo  vedono , 
la  tralasciano.  Or  fa  tu  similmente  ; prevedi  avanti 
di  operare  ciocché  sia  per  incontrarti , se  manchi , o 
se  tutto  non  ti  viene  a seconda  nella  guerra.  Tu  sa- 
rai colpevole  presso  gli  ospiti  tuoi  di  aver  tentato  im- 
prese , grandi  piò  che  eseguibili.  Concepisci  ( nè  già 
lasceremo  impuniti  quelli  che  han  preso  ad  offen- 
derci ) che  r esercito  nostro  vengavi  novamente  ^ e 


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LIBRO  Vili. 


37 


devasti  le  loro  campagne  : non  potrai  evitare , 0 di 
essere  obbrobriosamente  trucidato  da  quelli  a’  quali 
sei  causa  di  mali  sì  grandi , o da  noi  che  ora  vieni 
per  uccidere  e per  soggiogare.  Forse  essi  stessi  in- 
nanzi di  patirne  alcun  male  , tentando  far  pace  con 
noi  dovran  consegnarti  alla  patria  che  ti  punisca  : e 
già  Greci  e barbari  assai,  ridotti  a pari  vicende  , 
dm'ettero  ciò  sopportare.  Or  ti  pajono  queste  picciolo 
cose  , non  degne  a discorrerle , o tali  che  debbansi 
trascurare , o non  piuttosto  mali  estremi  a patirsi  ^ 
fra  tutti  i mali? 

XXVni.  Ma  via;  n abbi  tu  pure  il  buon  termine; 
e qual  frutto  allora  ne  avrai  così  desiderabile , così 
meraviglioso  ? qual  mai  gloria  ne  avrai  ? Deh  ! con- 
sidera questo  ancora.  Ti  succederà  primieramente  di 
esser  privo  degli  obbietti  che  piò,  ami , e piò  ti  ap- 
partengono ; io  dico  della  madre  alla  quale  porgi 
amara  la  ricompensa  di  averti  generato  e nudrito,  e 
de'  tanti  travagli  che  sostenne  per  te  : dico  della  sa- 
via consorte  la  qual  vedova  e solitaria  sta  desideran- 
doti , e deplorando  dì  e notte  il  tuo  esilio  : e final- 
mente de'  due  tuoi  figli  a quali  aspettavasi , come  ai 
posteri  di  egregj  progenitori , che  ne  percepissero 
pieni  di  fama  buona  gli  onori  se  la  patria  fosse  fe- 
lice. Di  questi  tutti  sarai  costretto  a vedere  le  dolo- 
rose e sfortunate  catastrofi , se  ardirai  sospingere  fino 
alle  mura  la  guerra  ; giacché  a ninno  de'  tuoi  perdo- 
neranno gli  altri  che  temono  pe'  ctai  loro , e che  pa- 
tiscono disastri  eguali  da  te.  Concitati  dalla  propria 
calamità  doranti  terribilmente  e spietatamente  a bal- 


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38  DELLE  Antichità’  bomane 

terli,  ad  ingiuriarli,  e far  loro  ogni  specie  di  vili- 
pendj  : e di  ciò  non  questi  che  il  fanno  ma  tu  ne 
sei  r autore , che  ve  gli  astringi.  Tali  i frutti  sono 
che  gusterai , se  ti  giunge  V intento.  Or  su  contempla 
la  lode  che  te  ne  avrai , la  emulazione,  gli  onori,  cose 
tutte  desiderevoli  a buoni:  Z’  uccisore  sarai  nominato 
della  madre , C uccisore  de'  figli , il  traditore  della 
consorte  y la  rovina  della  patria.  £ ninno  buono  , 
niun  giusto  vorrà  , dovunque  tu  capiti,  partecipare  ai 
tuoi  sagrifizj , alle  tue  libagiorU , al  tuo  consorzio  : 
nè  sarai  caro  a quelli  nemmeno  per  la  benevolenza 
de’  quali  ciò  fai  : ma  godendo  dascun  d'essi  il  frutto 
della  tua  empietà  , detesteranno  la  ostinazion  del  tuo 
cuore.  Lascio  di  dire  come  senza  /’  odio  che  avrai  fin 
da  piò  miti , ti  sarà  intorno  la  invidia  [non  piccola 
degli  eguali , il  sospetto  degl’  inferiori  , e per  queste 
due  emise  , le  insidie  , c ta/ui  altri  infortunj , quanti 
è verisimile  che  sopravvengano  ad  un  uomo,  privo  di 
amici  in  terra  di  estranei.  Lascio  di  dire  le  furie  che 
ispiransi  da’  numi  e da’  genj  negli  empj  e ne’  faci- 
norosi, dalle  quali,  straziati  ne’  corpi  e nelC  anima, 
vivono  sciaurata  la  vita  , aspettandone  misera  ancora 
la  fine.  Tali  cose  considerando  o Marcio  ' correggiti  ; 
e cessa  d’ inseguir  la  tua  patria.  Riguardando  la 
sorte  come  autrice  de’  mali  che  hai  da  noi  tollerato , 

■ o fatto  a noi  , toma  felicissimo  a'  tuoi  , ricevi  gli 
empiessi  carissimi  della  tua  madre  , le  amorevolezze 
soavissime  della  tua  sposa , ed  i baci  dolcissimi  dei 

• tuoi  figli  : <y  rendi  te  stesso  , fregio  bellissimo  , cdla 

■ patria  che  li  ha  generato  , c ridotto  sì  valorosq  e sì 
gratide. 


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LIBRO  Vili. 


39 


XXIX.  Avendo  Minucio  discorse  tali  cose  ; Marcio 
soprastette  alquanto , e poi  disse  : O Minueio , o voi 
qui  mandati  con  Minucio  dal  Senato  , voi  vedete  un 
amico  y uno  che  è propensissimo  a voi , dovunque  io 
possa  giovarvi,  perchè  voi  già  mi  foste  propizj  in 
molte  e gravissime  occasioni,  quando  io  era  vòstro 
concittadino  e maneggiava  il  comune , e perchè  poscia 
non  vi  alienaste  da  me  nella  mia  fuga  in  dispregio 
della  mia  sorte , quasi  non  pià  potessi  beneficare'  o 
nuocere  , ma  vi  serbaste  amici  buoni  e costanti , sol- 
leciti della  madre  mia,  della  moglie^  e de’  figli , fino 
a raddolcirne  collo  zelo  vostro  la  calamità.  Ho  in 
orrore  gli  altri  Romani  e guerreggioU  quanto  pià 
posso  r nè  mai  dall’odio  loro  desisterò.' Questi  per 
le  tante  e belle  mie  gesta , per  le  quali  si  conveniva 
'che  mi  onorassero  , mi  hanno  , quasi  offensore  gra- 
vissimo del  comune  , bandito  dalla  patria  ; senza  ve- 
recondia per  la  mia  madre , senza  pietà  pe'  miei  fi- 
gli , e senza  sensibilità  niuna  per  la  mia  sorte.  Co- 
nosciuto ciò , se  voi  abbisognate  per  voi  stessi  di  me; 
non' v’ indugiate'  a proporlo,  chè  non  sarete  inquanto 
io  posso  , respinti  : ma  dispensatevi  di  pià  parlare 
di  amicizia  e di  accordi , quali  me  li  chiedete  in  verso 
del  popolo  ; speranzattdomi  di  un  ritorno.  Potrei  forse 
io  rivenire  di  buon  grado  ad  una  città  dove  il  vizio 
s’  ha  i premj  della  virtà  ? dove  chi  non  ha  delitti  , 
V ha  la  fine  dei  delinquenti  ? E poi , su  , dimmi  per 
Dio  , per  quale  ingiustizia  mai  provo  tal  sorte  ? Che 
feci  mai  non  degno  de’ miei  progenitori?  Uscii  la  prima 
volta , giovinetto  ancora  coll’  armata  , quando  com- 


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' 4®  DELLE  Antichità’  romane 

haUemmo  coi  re  che  volevano  a forza  ritornare.  In 
que'  cimenti  fui  premiato  dal  capitano  colla  corona 
de  bravi , perchè  difesi  un  cittadino  , e spensi  un 
nemico.  Poi  quante  altre  azioni  io  feci  equestri  e pe- 
destri , in  tutte  me  ne  asegnali , riportandone  un  pre- 
mio : nè  città  si  prese  di  assalto  che  io  non  la  sa- 
lissi o primo,  o coi  pochi;  nè  si  causò  nelle  batta- 
glie fuga  al  nemico , della  quale  non  riconoscessero 
tutti  da  me  la  cagion  principale:  nè  pià  v'' ebbero  in 
guerra  splendide  e nobili  gesta  senza  il  mio  vivido 
ardire  , e la  propizia  mia  sorte. 

XXX.  Forse  altri  valentuomini  potran  dire,  se  non 
tante  > almen  simili  cose  di  sè.  Ma  qual  altro  può 
gloriarsi  o centurione , o comandante  d aver  presa 
come  io  la  città  de’  Coriolani  (i)f  O qual  altro  in 
un  giorno  stesso  ruppe  f annetta  nemica  come  io  ruppi 
quella  degli  .daziati,  che  veniva  per  soccorrere  gli 
assediati  7 Lascio  di  ricordare  che  dopo  tesi  pegni  di 
tnrtà  potendo  io  prendere  in  copia  dalle  prede  oro  , 
argettto , schiavi,  giumenti,  gceggie , e terre  vaste,  e 
feconde  , non  volli  : ma  intento  a serbarmi  principal- 
mente senza  invidia,  pigliai  per  me  solamente  dalle 
prede  un  cavallo  militare  , e da  prigionieri  t ospite 
mio , ponendo  tutto  il  resto  ad  util  comune.  Dite  : 
era  io  per  tanto  degno  di  premj  o di  pene  ? Dovea 
subire  la  legge  da’  vilissimi  cittadini , o darla  io  lo- 
ro ? O non  mi  espulse  il  popolo  pcf  questo , ma  per- 

(i)  La  lode  h,  perebt  Coriolano  prese  con  pochi  la  città,  sema 
essere  ni  ooniaodanle,  nà  tribuno,  a' qMii  sarebbe  alato  unto  piti 
facile  invaderla  colle  milisie  dipendenti.  Vedi  lib.  Ti , § ga. 


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LIBRO  Vili.  4 1 

chè  io  era  nel  retto  della  vita,  un  intemperante , un 
suntuoso,  un  senza  leggi?  Ma  chi  potrà  dimostrarmi 
un  solo,  pe*  miei  piacer  non  legittimi  esule  dalla  pa^ 
trio,  spogliato  dalla  libertà,  privato  degli  averi,  o 
ridotto  ad  altra  sciagura  qualunque  ? se  nemmeno  i 
nemici  mai  di  tali  cose  m’  incolparono  o calunniaro- 
no, contestando  anzi  tutti  come  irreprensibile  la  vita 
mia  quotidiana?  La  scelta,  dirà  taluno,  abbonila 
de  tuoi  governamenti  ti  procacciò  questo  male  ; Ut 
polendo  eleggere  il  meglio  ti  appigliavi  al  peggiore  : 
e dicesti  e facesti  tutto  perchè  in  patria  cadesse  il 
comando  degli  Ottimati,  e s' impadronisse  del  comune 
la  moltitudine  imperita , e scellerata,  O Minucio  ! 
Ben  io  mi  adoperava  in  contrario  , e provvedeva  che 
il  Senato,  maneggiasse  in  perpetuo  il  comune  , e re- 
stasse la  patria  forma  di  governo.  Per  tali  belli  sta- 
bilimenti , creduti  sì  pregievoli  da’  nostri  antenati , io 
me  n ebbi  dalla  patria  la  si  fausta  e beata  ricom- 
pensa , cacciatone  non  solo  dal  popolo  , o Minucio , 
ma  molto  innanzi  pur  dal  Senato  , il  quale,  quando 
io  mi  opposi  a'  tribuni  che  m incolpavano  di  tiran- 
nide, mi  animò  da  principio  con  vane  speranze,  quasi 
osso  fosse  per  operare  la  mia  sicurezza  , ma  poi  te- 
mendo de’  plebei  mi  si  distolse  , e mi  cedette  a’  ne- 
mici. O Minucio  ! tu  eri  console  quando  faceveui  il 
previo  decreto  pel  giudizio,  e quando  Falerio,  cita 
tanto  ne  fu  lodato  , esortava  col  dir  suo , che  io 
fossi  al  popolo  consegnato.  Ed  io  temendo  dal  Se- 
nato un  decreto  che  mi  consegnasse  ; condiscesi , e 

OlOXtQl  f toma  ///.  S* 


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4 2 DELLE  Antichità’  romane 

promisi  di  andare  f e presentarmi  io  stesso  in  giudizio. 

XXXI.  Ma  dP  Minucio , rispondi  : parvi  al  po- 
polo solo , o pure  al  Senato  ancora  io  parvi  degno 
di  castigo  per  lo  buon  inaneggio  e condotta  mia  pub- 
blica ? Se  così  edlora  a tutti  ne  parve  ; e tutti  mi 
scacciavate;  egli  è chiaro  che  quanti  così  deliberavate, 
odiavate  allora  la  giustizia,  nò  restava  in  Roma  al- 
cun luogo  che  sostenesse  il  bene.  Che  se  il  Senato  , 
violentato  , si  rendette  al  popolo  , e quella  fu  /’  o- 
pera  della  necessità  non  del  cuore  ; confessate  che  siete 
il  gioco  degli  scellerati,  nè  resta  al  Senato  podestà 
niuna  su  qurmto  mai  scelga,  E ciò  stando  , mi  chie- 
derete che  io  men  venga  ad  una  città  dove  i buoni 
son  vittima  dei  ribaldi?  Troppo  di  stolidità  mi  con- 
dannate ! Or  su:  diamo  che  io  persuadami,  e che 
deposta , come  chiedete  , la  guerra  , ne  andiamo  ; 
qual  sarà  dopo  ciò  f animo  mio  ? quale  la  vita  ? 
Sebbene  eletto  il  partito  piò  sicuro  e meno  pericolo- 
so t cercando  io  poi  li  magistrati,  gli  onori,  ed  al- 
tro che  io  credo  competermi  , soffrirò  di  adulare  la 
turba  che  li  dispensa?  vilissimo  diventerei  di  magna- 
nimo , e niente  più  V antica  virtù  mi  gioverebbe.  O 
restando  ne’  miei  costumi , e serbando  le  istituzioni 
mie  del  viver  civile  mi  opporrò  a quelli  che  diverse 
ne  sieguono  ? Or  non  è manifesto  che  il  popolo  di 
nuovo  mi  combatterebbe  , che  a nuove  pene  mi  cite- 
rebbe, cominciando  l'accusa  da  questo,  che  io  rido- 
nato da  esso  alla  patria  , pure  ai  piaceri  di  lui  non 
mi  conformo  ? Certo  non  dee  dirsi  cdtrimente.  E qui 
sorgerà  tal  altro  insolente  tribuno  che  simile  agl'Icilj 


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LIBUO  Vili.  43 

ed  ai  Decj  m incolpi  di  scindere  i cittadini  fra  lorOf 
d insidiare  il  popolo , di  tradire  la  patria  a'  nemici , 
di  tentare  , come  Decio  me  ne  imputava , la  tiran- 
nide, o taC  altra  ingiustizia  , come  ad  esso  ne  paja; 
giacché  non  mancano  a chi  ti  odia  i pretesti.  Pro» 
durransi  dopo  queste  , nè  già  tardi , le  imputazioni 
ancora  su  le  cose  da  me  fatte  in  tal  guerra,  che  io 
percossi  la  vostra  regione,  che  rapii  prede,  che  espu- 
gnai città,  che  di  quelli  che  le  difendevano  parte  ne 
uccisi,  e parte  a’  nemici  li  consegnai.  E se  gli  accu- 
satori allegheran  tali  cause  ; che  dirò  io  per  ispedir- 
mene  ? o con  quale  soccorso  sosterrommi  ? 

XXXIL  Non  è dunque  chiaro  o.  Minucio  che  belle 
v'  avete , ma  pur  finte  le  parole , e che  un  bel  velo 
date  ad  un  impuro  disegno  ? Non  a me  concedete  il 
ritorno  ; ma  vittima  al  popolo  me  portate  ; e forse 
( giacché  buone  idee  su  voi  non  mi  vengono  ) vi  siete 
concertali  a ciò  fare , seppure  ciò  non  voleste,  senza 
prevedere  ( e vi  si  accordi  ) i mali  che  ne  avrei  da 
soffrire.  Or  che  varrebbemi  la  vostra  ignoranza  ? 
che  la  vostra  stoltezza  ? se  non  potreste  , anche  vo- 
lendo , niente  impedire  , necessitati  di  concedere  an- 
che questa  colle  altre  cose  alla  plebe.  Se  non  che 
non  piti  bisognan  parole  a mostrare  che  questa,  che 
io  chiamo  via  prontissima  di  rovina  : niente  , sebben 
voi  la  chiamate  ritorno , gioverammi  per  la  salvezza. 
Che  poi  ( giacche  m'  invitavi  a riguardare  ancor  que- 
sto ) niente  o Minucio  mi  giovi  per  la  buona  fama , 
niente  per  P onore , niente  per  la  pietade  , anzi  che 
io  opererei  turpissimamente  ed  empiiss imamente  se  a 


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44  DELLE  Antichità’,  romane 

voi  mi  rendessi;  ascoltalo  dalla  mia  parte.  Io  mili- 
tai già  contro  questi  Folsci , e molto  nel  militare  li 
danneggiai  ; procacciando  alla  patria  impero  , forza  , 
chiarezza.  Non  convenivasi  thè  io  fossi  onorato  dai 
beneficati , ed  abborrito  dagli  offesi  ? jdppunto  ; se 
a ragion  si  operava.  Ma  la  sorte  perverti  tutto , e 
rivolse  ciocché  t uno  e C altro  mi  doveano  in  con- 
trario. Voi  per  le  cose  onde  io  era  a questi  nemico , 
mi  spogliaste  di  tutto  il  mio,  e , quasi  ciò  fosse  nul- 
la , mi  bandiste  : laddove , questi  che  avean  tanto 
infortunio  da  me , mi  raccolsero  questi  nelle  proprie 
città  povero  , abbietto , senta  casa  e senza  patria- 
Nè  bastando  loro  questo  splendido  , questo  genero- 
sissimo tratto  ; mi  han  conceduto  cittadinanza , ma- 
gistrature y onori , quanti  ven  sono  piti  grandi  in  tutte 
le  loro  città.  Ma  lasciamo  questo  : ora  mi  han  fatto 
comandante  assoluto  delV  esercito  posto  oltra  i<  con- 
fai , e regolano  sul  voler  mio  tutti  i pubblici  moti. 
Or  su,  con  qual  cuore  tradirei  tutti  questi,  che  tanto 
mi  hanno  onorato  , io  non  offeso  mai  nè  molto , nò 
poco  da  loro  ? Sono  forse  le  beneficenze  loro  V ol- 
traggio mio , come  le  benefeenze  mie  furono  il  vo- 
stro ? Questo  nuovo  mio  tradimento , risapendosi , 
certo  un  bel  nome  me  ne  darebbe  tra  gli  uomini!  E 
chi  non  mi  spregierebbe,  ascoltando  che  io  trovati 
avversari  miei  gli  amici  i quali  doveano  beneficarmi  t 
e trovati  amici  gli  avversar]  d quali  era  d uopo  di 
sterminarmi  ; io  in  luogo  di  odiar  chi  m’  odiava  , e 
di  amar  chi  mi  amava,  ho  fatto  tutto  il  contrario  ? 

XXXllI.  Ma  su  , considera  , o Minucio , quali  mi 


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LIBPO  Vili.  45 

sarebbero  ora , quali  in  tutto  il  resto  della  vita  gli 
Jddj , se  rendendomi  a voi , tradissi  questo  popolo. 
Ora  mi  sono  propitj  a quanto  io  /accia  contro  di 
voi,  nè  impresa  niuna  /altiscemi.  E questo,  quale  il 
pensate  voi  segno  della  pietà  mia  ? Se  io  portassi 
una  guerra  non  giusta  sulla  patria;  gli  Dei  dovreb- 
bono  contrariarmene  ogni  mossa.  Ma  dacché  la  sorte 
mi  spira  propisia , e quanto  imprendo , tutto  mi  t'iene 
a seconda  ; egli  è chiaro  che  io  sono  pietoso  , e che 
bella  è F opera  mia.  Che  dunque  me  ne  avverrebbe , 
se  io , cangiato  proposito , ampliassi  le  cose  vostre  , 
e deprimessi  quelle  degli  ospiti?  Come  non  avrei 
tutto  il  contrario , e sosto  il  destino  da’  numi , vinn 
dici  del  mio,  malfare  ? Come  io  di  piccolo  divenuto 
grande  non  sarei  bentosto  di  grande  ridotto  piccolo? 
come  le  vicende  mie  non  sarebbero  agli  altri  cT  in- 
segnamento? Tali  idee  mi  van  per  la  mente  rispetto 
de’  numi  : e penso  che  le  furie  tremende , ed  inevi- 
tabili da  chi  pecca , quelle  che  tu  pure  o Minucio 
commemoravi,  m'  inseguirebbero  , flagellandomi  lo 
spirito  e il  corpo  , se  abbandonassi  e tradissi  questi 
li  quali  mi  salvavano  da  voi , che  mi  rovinavate  , li 
quali  dopo  avermi  salvato  mi  colmarono  di  tanti  e 
sì  egregi  bcnejicj , e li  quali  io  rassicurai  su  l’ auto- 
rità degp  Iddj  che  io  nò  a malfare  veniva , nè  a con- 
taminar la  mia  fede  , pura  finora  ed  immacolata. 

XXXIV.  Ma  quando  j o Minucio,  tu  chiami  an- 
cora amici  miei  quelli  che  mi  han  segregato  , amica  la 
patria  che  mi  ha  ripudiato  , e te  ne  appelli  alle  leggi 
della  natura  , e me  ne  disputi  li  diritti  santi  ; tu  l'u- 


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46  DELLE  ANTICHIT4*  ROMANE 

nico-  mi  sembri  ignorare  comunissime  cose  , nè  da  al' 
Cimo  ignorate  : vuol  dire  che  non  le  forme  de  sem' 
bianti , non  lo  imponer  de’  nomi  ; ma  t uso  e le 
opere  contrassegnano  Vomico  dal  nemico.  Tutti  amiam 
l'utile  , tutti  il  nocevole  fuggiamo  : nè  questa  /egge  fu 
mai  posta  da  alcuni  de'  mortali , nè  da  alcuni  mai 
sarà  tolta  , sebbene  il  contrario  volessero  ; ma  la  na- 
tura , comune  da  tutti  i tempi , V ha  data , e stabile 
per  lutti  i tempi  f han  ricevuta  i viventi  sensibili.  Per- 
ciò disconosciamo  gli  amici  se  ci  offendono  , ed  amiam 
V inimico  se  ci  benefica  : ci  teniamo  nella  città  che 
ci  ha  generati  se  ne  giova , ma  la  lasciamo  se  ci 
nuoce , amandola  non  pel  sito  , ma  in  quanto  ne  è 
utile.  Nè  già  nascono  questi  pensieri  ne’  soli  privatif 
ma  nelle  città,  e nelle  nazioni  intere.  Tanto  che  chi 
va  coà  queste  regole  nè  chiede  cose  aliene  dalle  leggi 
de'  numi , nè  le  fa  centra  tjuelle  degli.  uominL  Ed 
io  così  praticando  credo  seguire  il  buon  dritto  , pro- 
ficuo insieme  ed  onesto  e santo  innanzi  agV  Iddii. 
Pertanto  facendo  io  cose  grate  agl’  Iddj  non  cerco 
averne  giudici  gli  uomini , che  conghietturando  e opi-' 
nando  argomentano  il  vero.  E se  guida  me  ne  sono 
i numi  ; per  certo  io  non  tento  impossibili  cose  ; e 
ben  le  passate  additano  le  future. 

XXXV.  Quanto  alla  moderazione  per  la  quale  mi 
esortate  a non  isbarbicare  la  stirpe  Jiomana , nè 
mandarne  tutta  la  città  sos sopra  dd  fondamenti , po- 
trei dire , o Minucio  , che  io  non  sono  in  ciò  V ar- 
bitro ; e che  non  vuole  a me  farsi  tale  discorso  : 
che  io  sono  il  duce  dell’  armata  , ma  questi  gli  ar- 


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LIBRO  Vili. 


47 


bàri  della  guerra  e della  pace  ; tanto  che  da  questi 
as>ete  a chiedere  , e non  4^  me , la  pace  o la  tregua. 
Tuttavìa  non  vi  do  questa  risposta  : ma  venerando 
gl’  Jddj  patenti , rispettando  le  tombe  avite  , commi- 
serando la  terra  ove  nacqui , le  femmine , i fanciulli 
non  degni  che  su  di  essi  ricadano  le  colpe  de’  geni- 
tori e degli  altri  ; e j nommen  che  per  questo  o Mi- 
nucio , in  grazia  di  voi  che  foste  qua  deputati  dalla 
città  ; vi  rispondo , che  se  i Romani  rendono  ai  fol- 
sci  le  terre  tolte  loro  , e le  città  che  ne  tengono  , ri- 
chiamandone i proprj  coloni;  se  fanno  pace  con  essi 
« comunanza  perpetua  di  diritti , come  co’  Latini , e 
giuramenti  ed  esecrazioni  contro  de’  violatori  de’  patti; 
io  do  fine  alla  guerra.  Annunziate  primieramente  ad 
essi  questo , poi , come  avete  presso  me  perorato  , 
aringate  presso  loro  sul  giusto  : e quanto  è bella 
cosa  che  ognun  s’ abbia  il  suo , e vivasi  in  pace  : 
quanto  pregevole  che  niun  tema  nè  i nemici , nè  i 
tempi  : e come  è biasimevole  che  chi  ritiene  l’  altrui 
si  esponga  senza  necessità  alla  guerra  con  pericolo 
delle  cose  anche  proprie.  Dimostrale  loro  che  non 
eguali  sono  i premj  vincendo  o perdendo  per  chi  ap- 
petisce r altrui  : e se  vi  piace  aggiungete  , che  quelli 
che  han  voluto  prendere  le  città  degli  oltraggixti , se 
infine  poi  non  prevalgono , perdono  pur  la  terra , e 
la  città  loro  , e vedono  malmenate  obbrobriosamente 
le  mogli,  portati  i figli  agli  affronti,  e li  padri  lorOj 
fatti  schiavi  di  liberi  , nelC  estrema  vecchiezza  ; Per- 
suadete insieme  il  Senato  che  dovrà  tanti  mali  alla 
stoltezza  sua  non  a Marcio.  Terocchè  potendo  fcàre  il 


48  DELLE  Antichità’  romane 

giusto  ; potendo  non  incorrer  ne’  mali  ; corrono  agli 
ultimi  rischi , aspirando  sentpre  alC  altrui.  Questa  è 
la  risposta;  nè  potreste  altra  averne  dame:  andate, 
ponderate  ciocché  a fare  v abbiate  : io  vi  do  trenta 
giorni  per  decidervi.  In  questo  tempo  ritiro  o Minw- 
ciò  in  riguardo  tuo  e degli  altri  t esercito  da  questi 
campi,  che  asscù  se  vi  rinuuiesse,  ne  sarebbero  dan- 
neggiati, Al  ventesimo  giorno  mi  ci  aspettate  a pi- 
gliarne la  risposta. 

XXXVI.  Ciò  detto  sorse  , e sciolse  1’  adunanza  : e 
nella  notte  seguente  presso  1’  ultima  vigilia  levò  l' eser- 
cito , e lo  condusse  OMilro  le  altre  città  Latine , sia  ebe 
realmente  fosse  persuaso  che  di  là  verrebbono  de’  sussid) 
a’  Romani , come  1’  ambasciadore  avea  detto , sia  che 
egli  ne  spargesse  la  voce  per  non  sembrare  d*  interrom- 
per la  guerra  in  grazia  de’  nemici.  E piombando  sopra 
Longola , ed  impadronitosene  senza  fatica , e fattovi 
come  nelle  altre,  dei  schiavi , e delle  prede;  venne  alla 
città  de’  Satrìcani.  Presala  , e tenutovisi  pitxiolo  tempo , 
ordinò  che  parte  dell’  esercito  recasse  le  spoglie  raccolte 
da  ambedue  queste  città  in  Eccetra , ed  egli  marciando 
coir  altra  parte  venne  a Ceda  (i),  che  chiamano.  Otte* 
nutala  , e derubatala  -,  si  gittò  nel  teiritono  de’  Polu« 
scani  (1).  Non  valsero  nemmen  questi  a resistere  ; ed 
espugnatili , si  avanzò  verso  le  altre  città  : prese  di  as- 


(i)  Questa  Toce  è aiqbigaa.  Lirio  nooiioa  Tiebbia  ; ed  altri  ia 
questo  luogo  di  Oiooigi  vorrebbe  por  Silia  Seste  : ma  questa  par 
troppo  lootaaa  pel  viaggio  di  Marcio. 

(ij  Lapo  parve  leggere  Ttuelarù. 


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LIBRO  Vili.  49 

salto  gli  Albieti  ed  i MugiUaui  (i)  ; e ricevette  a patti 
i Corani.  Divenuto  in  trenta  giorni  padrone  di  sette 
citti  ; si  rivolse  a Roma  con  più  milizie  che  prima  : e 
fermandosene  lontano  poco  più  che  trenta  stadj , si  ac- 
campò presso  la  via  Tuscoiana.  Intanto  che  prendeva  ed 
univa  a sé  le  città  de’  Latini , parve  ai  Romani , con- 
sultale lungamente  le  proposte  di  lai  , di  non  far  cosa 
indegna  della  repubblica.  Pertanto  , se  i Yolsci  partis- 
sero dal  territorio  loro , degli  alleati  e de’  sudditi , e 
lasciasser  la  guerra  e spedissero  ambasciadori  per  trattare 
la  pace  ; il  Senato  decidesse  allora  e ne  riferisse  al  po- 
polo le  condizioni  : non  decidesse  però  mai  nulla  di 
umauo  su  loro , finché  stavano  con  ostili  maniere  su  le 
campagne  di  Roma  e degli  alleati.  Couciossiachè  li  Ro- 
mani (Muervarono  sempre  altamente  di  non  far  mai  nulla 
pe*  comandi , nè  pel  terror  de’  nemici  ; ma  di  compia- 
cere, e contentare  gli  avversar]  pacificatisi,  e rendutisi, 
nelle  dimande  se  fosser  discrete.  E Roma  ha  mantenuto 
tale  sublimità  di  carattere  in  molti  e grandi  pericoli , 
nelle  guerre  co*  cittadini  e cogli  esteri  , e tuttavia  lo 
mantiene. 

XXXyiI.  Deliberate  tali  cose , il  Senato  scelse  am- 
)>asciadori  altri  dieci  tra’  consolari , perchè  dimandassero 
a Marcio  che  non  desse  ordini  duri  nè  indegni  di  Ro- 

(i)  Silbnrgio  sospetta  ebe  io  luogo  di  Albiètì  debba  leggersi  La- 
hitiiati  ciot  Laviniaui  di  Lauinio , la  presa  del  quale  era  stata  tra- 
lasciata , come  si  t veduto  di  sopra.  Il  cognome  di  Lucio  l'apirio 
Mugillaoo  prova  che  vi  ebbe  una  città  Multila  di  nome  , donde 
tono  i MugiUani. 

montai . ama  Ili.  t 


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5o  DELLE  Antichità’  romane 
ma , ma  deponessc  le  nimicizie , ritirasse  le  truppe  dal 
territorio  , e cercasse  di  trattare  con  modi  persuasivi  e 
conciliativi , se  voleva  che  gli  accordi  tra  due  popoli 
fossero  permanenti  ed  eterni  ; giacché  gli  accordi  sia 
privati , sia  pubblici , conceduti  per  la  necessità  e pei 
tempi,  finiscono  appunto  co’ tempi  e colla  necessità.  Or 
questi , eletti  ambasciadori , non  si  tosto . udirono  l’ ar- 
rivo di  Marcio , andatine  a lui , dissero  assai  cose  atte 
a guadagnarlo , badando  di  non  offendere  co'  discorsi  la 
maestà  della  repubblica.  Marcio  però  non  rispose  altro 
se  non  che  consigliavali  ( e questa  era  1’  unica  tregua 
che  dava  ) a tornar  fra  tre  giorni  con  deliberazioni  mi- 
gliori. E volendo  essi  replicare  ; non  lo  permise  : ma 
impose  che  partissero  immantinente  dal  campo.  E mi- 
nacciando che  li  tratterebbe  come  spie  se  non  ubbidi- 
vano ; quelli  ammutoliti  partirono  incontanente.  I sena- 
tori quantunque  udite  le  risposte  ostinate  e le  minacce 
di  Marcio , pnre  non  decretarono  di  portare  1’  esercito 
di  là  dai  confini , sia  che  ne  temessero  , come  raccolto 
in  gran  parte  di  fresco  , la  inesperienza  , sia  che  1’  ab- 
battimento temessero  dei  consoli  , poco  intraprendenti 
per  sestessi  , e giudicassero  pericoloso  il  cimento  ; sia 
che  i segni  celesti  interdicessero  loro  quella  uscita  per 
mezzo  degli  uccelli , degli  oracoli  Sibillini  , o di  altra 
visione  : cose  che  non  sapeano  gli  uomini  di  allora  , 
come  i presenti  , trascendere.  Adunque  deliberarono  di 
guardare  la  città  con  vigilantissima  cura,  e di  respingere 
dalle  fortificazioni  gli  aggressori. 

XXXYIII.  Ciò  fatto  e preparato  ; nè  tuttavia  dispe- 
rando di  piegar  Marcio  , se  lo  pressassero  con  deputa- 


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LIBRO  Vili.  5i 

zione  più  augusta  e più  grande , decretarono  che  pon- 
tefici ed  auguri,  e quanti  arcano  sacri  onori  e ministeri 
nelle  pubbliche  divine  cose  ( e molti  sono  fra  loro  e 
sacerdoti  e santi  ministri , e questi  i più  cospicui  pel 
sangue  paterno,  o pel  merito  proprio)  andassero  in  copia 
co’ simboli  delle  divinità  riverite  e festeggiate  in  Roma, 
e cinti  di  sacre  vesti , al  campo  nemico , e vi  replicas- 
sero gli  stessi  discorsi.  Giunti  questi , e dettovi  quanto 
aveano  dal  Senato , Marcio  non  rispose  nemmeno  ad 
essi  per  ciò  che  chiedevano;  ma  consigliò  che  partendo 
adempissero  gli  ordini  se  volevan  la  pace;  o la  guerra 
in  città  si  aspettassero  : del  resto  intimò  che  non  più 
ritornassero  a lui  per  far  parlamento.  Caduti  ancora  di 
questo  tentativo , e deposta  ogni  speranza  di  pace , si 
apparecchiavano  i Romani  per  1’  assedio  ; , collocando  i 
giovani  più  vigorosi  alle  fosse  ed  alle  porte  , e li  ve- 
terani già  licenziati  ma  pur  buoni  ancor  per  le  armi , 
alle  murai 

XXXIX.  Le  mogli  loro , quasi  approssimatasi  già  la 
tempesta , lasciato  il  decoro  col  quale  si  tenevano  in 
casa , correano  ai  templi  piangendo  ed  abbracciandosi 
a’  simulacri  de’  numi.  Ed  ogni  sacra  magione  , special- 
mente  quella  di  Giove  in  Campidoglio,  risonava  di  ie* 
minei  ululati  e di  suppliche  : in  questa  una  matrona 
preminente  per  lignaggio  e per  dignità  trovandosi  allora 
nei  meglio  degli  anni  , attissima  a provveder  ciocché 
deesi  (Valeria  ne  era  il  nome)  sorella  di  quel  Popli- 
cola  il  quale  aveali  già  liberati  dai  tiranni',  eccitata  da 
istinto  divino , si  fermò  nel  grado  più  alto  del  tempio  , 
convocate  le  donne  compagne  , primieramente  le  con- 


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52  DELLE  AlfTICHITA*  ROMANE 

solò  ed  animò  a non  smarrini  ne’  mali , poi  diede  a 
vedere  che  restavaci  una  speranza  di  scampo,  riposta 
in  loro  nniramente , se  faceano  quanto  era  d'uopo.  Al- 
lora r una  di  esse  ripigliò  : Con  quale  opera  nostra 
mai  potremo  noi  donne  salvcwe  la  patria , non  sa- 
pendo  più  fare  ciò  gli  uomini  ? E qual  forza  ah- 
hiam  noi,  deboli,  sciaurate F E Valeria,  non  le  arme, 
disse  , abbisognano , non  le  mani  ; dispensandoci  da 
ciò  la  natura,  ma  le  arnorevolezze  e la  persuasiva. 
Or  qui  , fàltusi  clamore  , e pregandola  tutte  a svelarlo 
se  pur  ci  avea  rimedio  alcuno , disse  : In  questo  lutto , 
in  questo  disordine  di  vestimenti  prendete  compagne 
anche  altre  donne,  e menando  con  voi  li  vostri  figli, 
ne  andiamo  in  casa  di  Veturia  la  madre  di  Marcio. 
E ponendo  i nostri  figli  dinanzi  le  ginocchia  di  essa, 
e lagrimando  ; scongiuriamola  che  impietosita  di  noi 
non  colpevoli  di  male  ninno,  e della  patria  ridotta  in 
pericolo  estremo , vada  al  campo  nemico  ; e vi  meni 
i suoi  nipoti,  la  madre  loro  e noi  tutte,  le  quali  la 
seguiremo  co'  nostri  figlioletti  : e che  interceditrice 
presso  del  figlio,  lo  dimandi,  lo  supplichi  a non  fare 
la  calamità  della  patria.  Lei  piangendo  e rimovendo- 
lo; nascerà  forse  alcuna  compassione  o mite  pensiero 
in  quesF  uomo , che  già  non  ha  si  duro  ed  impene- 
trabile il  cuore  da  respingere  fin  la  madre  che  ab- 
braccigli le  giruscchia. 

XL.  Poiché  le  astanti  ne  approvarono  il  dire;  ella 
supplicando  i numi  di  dare  persuasiva  e grazia  alle  istanze, 
loro  pari)  dal  tempio.  La  seguitarono  le  altre  ; e prese 
dopo  ciò  per  comp-igne  alti’e  donne  , ne  andarono  in 


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LIBRO  Vili.  53 

fòlla  alla  casa  della  madre  di  Marcio.  Volannia  la  mo» 
glie  di  Marcio  seduta  presso  la  suocera  si  meravigliò 
nel  vederle  , e disse  : E che  possiamo  noi  farvi , o 
donne , cito  in  tanta  moltitudine  venite  ad  una  casa 
di  sciagura  e di  aflizione?  E Valeria  soggiunse:  i?t- 
doUe  a pericoli  estremi  noi,  con  questi  fanciullelli , 
veniamo  a te  supplichevoli,  o Feturia,  per  implorare^ 
tonico  e solo  ajulo,  e primieramente  che  abbi  pietà 
della  patria  non  mai  fin  qui  stata  in  man  de'  nemici, 
eicchè  non  vegli  soffrire  che  ora  la  libertà  le  si  tolga 
dai  Folsci;  seppur  conquistando  la  patria  la  rispar~ 
mieranno,  non  la  struggeranno  dai  Jondamenti.  Dipoi 
per  noi  preghiamo  e per  questi  miseri  fgU,  sicché 
non  veniamo  tra  gli  strazj  degf  inimici,  noi  niente 
ree  de  mali  accaduti.  Se  un  cuor  ti  resta  in  parte  al- 
meno, clemente  ed  umano;  deh!  tu  ne  compassiona, 
o F fluria , tu  donna , e tu  partecipe  de'  diritti  sacri , 
inviolati  delle  donne  (i):  prendi  teco  Folunnia,  que- 
sta ottima  donna,  e con  essa  i suoi  figli,  prendi  coi 
figli  nostri  pur  noi  supplichevoli  a un  tempo  e ma- 
gnanime , e vieni  al  tuo  figlio , persuadi , insisti , ni 
dar  fine  alle  suppliche  , finché  pe'  tanti  benefizj  tuoi 
non  ottieni  da  lui  che  si  rappacifichi  co’  suoi  citta- 
dini, e rendasi  alla  patria  che  lo  ridomanda'.  Ut,  ben 

10  sai,  trionferai  di  lui,  che  pietoso,  certo  te  non 
dispregierà  prostrata  a’  suoi  piedi.  E tu  riconducendo 

11  figlio  tuo  alta  patria,  ne  avrai,  corni  è giusto, 
splendore  sempiterno  , perchè  C avrai  liberala  da  tale 

())  Meli’  uso  della  Religione  comune. 


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54  DELLE  Antichità’  romana 

rischio  e terrore:  e sarai  cagione  a noi  di  essere  oHo~ 
rate  presso  degli  uomini  ; perchè  avremo  sciolta  la 
guerra  che  non  potè  da  essi  dissiparsi.  Parremo  cojI 
le  discendenti  veramente  delle  femmine  che  mediatrici 
terminarono  la  guerra  di  Romolo  co’  Sabini  ; e conm 
giunsero  duci  e nazioni,  e grande  renderono  di  pie— 
dola  la  città  (i).  Magnìfica  sarà  t impresa,  o Fetu- 
ria , d' aver  seco  riportato  il  figlio  , d’aver  liberata  la 
patria  > salvate  le  sue  concittadine  ; e di  lasciare  ai 
posteri  suoi  luce  indelebile  di  virtù.  Dacci,  o Fetum 
ria , con  cuore  spontaneo  e vivido  questa  grazia  ; 
vieni  , ti  accelera  ; poiché  grande , imminente  il  pe- 
ricolo non  ammette  più  indugio , o consiglio. 

XLI.  Giù  detto  , tutta  in  pianto  , si  tacque.  E pian- 
gendo pur  esse,  e pregando  vivamente  le  compagne; 
iVeturia,  vinta  dalle  lagrime,  dopo  breve  silenzio,  disse: 
Foi  seguite  , o Falena , leggera  e fiacca  speranza  ; 
promettendovi  un  ajulo  da  noi  ; donne  infelici.  Ben 
abbiamo  tenerezza  per  la  patria , e volontà  di  saL'ore 
I cittadini,  qualunque  mai  siano;  ma  la  potenza  e la 
efficacia  ne  mancano  per  compiere  ciocché  vogliamo. 
Marcio  , o F ileria , ne  rifugge  da  che  il  popolo  fe’ 
di  lui  r amara  condanna  , ed  odia  tutta  la  casa  in- 
sieme colla  patria.  E ciò  diciamo , sapendolo  da  Mar- 
cio stesso',  non  da  altri;  perocché  quando  soggiaciuto 
alla  condanna  venne  in  casa  in  mezzo  agli  amici , 
trovando  noi  addolorate  , abbattute  , co’  figli  suoi  su 
le  ginocchia , e che  piangevamo  , corri  era  giusto , e 

(i)  Vedi  1.  a,  $ 4^  » espone  disicsantenle  tale  storia. 


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LIBRO  Vili.  55 

deploravamo  la  sorte  che  ci  soprastava  nel  perderlo  ; 
egli  fermatosi  alquanto  da  noi  lontano,  insensibile  come 
una  pietra,  e co’  sguardi  fissi,  partesi,  disse  ^ Marcio  da 
voi,  o madre,  o Volunnia  donna  bonissima,  cacciato  dai 
suoi  cittadini  perchè  prode,  perchè  amico  della  repubblica, 
e perchè  subito  ha  tanti  travagli  per  la  patria.  Voi  so- 
stenete , come  si  conviene  a femmine  virtuose , tanta 
calamità  , non  facendo  mai  nulla  d’ indegno , mai  nulla 
di  vile:  consolandovi  in  questi  fanciulli  sulla  mia  priva- 
zione , educateli  degni  di  noi  , e della  stirpe.  Gli  Dei 
concedano  ad  essi , uomini  divenuti , sorte  più  buona  ; 
ma  virtù  non  minore.  Addio.  Io  vado , e lascio  questa 
città  che  più  non  cape  gli  onesti  uomini.  Addio  numi 
tutelari,  e tu  Vesta,  paterna  divinità,  e voi  quanti  siete 
Dei  di  questo  luogo.  Appena  ciò  disse , noi  misere  , 
noi  dal  dolore  impedite,  scoppiando  in  gemiti,  e per^ 
cotendoci  il  petto  portai'amo  a lui,  per  riceverli  an~ 
cara , gli  amplessi  estremi  : ed  io  menava  meco  il 
maggiore  de’  figli , e la  madre  avevasi  in  braccio  il 
minore.  Quando  egli,  ritirandosi  e rispingendoci,  disse: 
Da  ora  innanzi  Marcio  non  più  sarà  tuo  figlio , o ma- 
dre, togliendoti  la  patria  in  esso  il  sostenitore  della  tua 
cadente  età  , nè  più  sarà  da  questo  giorno  il  tuo  spo- 
so, o Volunnia:  ma  sii  pur  felice,  un  altro  cercan- 
dotene più  di  me  fortunato  : nè  più  sarà  padre  vostro 
o figli  carissimi:  ma  orfani  e solitarj  presso  queste  cre- 
scete fino  agli  anni  virili.  Ciò  detto  , nè  soggiungendo 
altro,  nè  comandando,  e non  significando  nemmeno 
ove  andasse , uscì  di  casa , o donne  , solo , senza 
servi , in  disagio  , senza  portare  seco  delC  aver  suo 


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56  ■ DELLE  Antichità’  homase 

neppure  il  vitto  di  un  giorno.  E già  volge  t anno 
quarto  eh’  egli  fuggì  dalla  patria,  e riguarda  noi  tutto 
come  straniere , niente  scrivendo  , niente  mandandoci 
a dire,  e niente  volendo  di  noi  risapere.  Or  presso 
un  cuore  si  duro , si  impenetrabile  , o Troieria , qual 
forza  avranno  le  preghiere  di  noi  alle  quali  non  dava, 
partendo  £ ultima  volta , non  un  amplesso , non  un 
bacio , non  significazione  niuna  dì  affetto  ? 

XLIL  Che  se  tuttavia  domandate  voi  questo , e vo- 
lete in  tutto  vederne  wniliate  ; concepite  , che  io  e 
Volunnia  a lui  ci  presentiamo  co’  figli.  Quali  discorsi 
io  madre , dirìgo  la  prima , quali  preghiere  porgo  al 
mio  figlio  ? Dite  , ammaestratemi.  Chiederò  che  per^ 
doni  a suoi  cittadini  da  quali  ( e senza  che  offesi  gli 
Oi’esse  ) fu  privato  della  patria  F Chiederò  che  inte- 
neriscasi o compassioni  la  plebe,  che  su  lui  non  seppe 
intenerirsi , tré  compassionarlo?  Che  abbandoni  e tra- 
disca quelli  che  esule  lo  hanno  raccolto , i quali  seb- 
bene malmenati  già  un  tempo  da  lui  tanto  e sì  fe- 
ralmente , pur  non  £ odio  gli  mostrarono  di  nemici , 
ma  la  benevolenza  di  amici  e di  congiunti  ? E con 
qual  cuore  pregherei  io  mai  questo  mio  figlio  che 
amasse  chi  lo  sterminava,  ed  oltraggiasse  chi  lo  sal- 
vava ? Non  sono  questi  i discorsi  di  una  madre  savia 
al  suo  figlio  , non  di  una  moglie  al  marito  : nè  voi 
ci  astringete , o donne , che  imploriamo  da  lui  cose 
non  giuste  presso  degli  uomini,  nè  pietose  presso  gli 
Iddii:  piuttosto  lasciate  noi  misere  nella  umiliamone 
ove  siamo  per  la  sorte  , senza  che  noi  pure  svergfs- 
gniamo  piu  ancora  noi  stesse. 


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LIBRO  Vili. 


5? 


XLIII.  Taciutasi  lei,  surse  un  tanto  lamentarsi  di 
femmine,  e tale  un  pianto  ne  riinbotnbò,  che  udendo- 
sene i • clamori  per  gran  parte  della  cUlà , si  empierono 
di  popolo  le  vie  d’ intorno  la  casa.  Poi  rinovando  Va- 
leria più  lunghe  e più  commoventi  preghiere , le  altre 
donne , com’  erano  congiunte  di  amicizia  o di  sangue 
con  r una  o l’ altra  di  loro , supplicavano  ancora  in 
atto  di  stringerne  le  ginocchia.  Tantoché  non  più  re«- 
stendo  per  l’ afflizione  fra  tanto  piangere  e supplicare; 
cedette  infine  Vetutla  , e promise  di  andarne  oratrice 
per  la  patria  co'  figli  e colla  moglie  di  Marcio , 'e^  con 
quante  cittadine  voleano.  Racconsolatesi  allora  vivaiùeuté, 
ed  invocati  i numi  a favorire  le  loro  speranze  , parti- 
rono dàlia  casa , e nunziarono  ai  consoli  il  fatto.  E 
questi,  lodandone  là  buona  volontà,  convocarono  ed 
interrogarono  i padri , se  fosse  da  concedere  che  le 
femmine  ^uscissero.  Or  molto,  e da  molti  se  ue  disputò; 
tanto  che  giunti  a sera  dubitavano  ancora  ciocché  fosse 
da  fare.  Dicevano  molti  non  essere  piccolo  cimento  per- 
mettere che  le  donne  andassero  co’  figli  al  campo  dei 
nemici;  imperocché  se  questi,  spregiando  le  leggi  sacre 
degli  ambasciadori  e de’  supplichevoli , volessero  che  le 
femmine  non  più  'rìtornassero , prenderebbono  Roma 
senza  combattere.  Pertanto  consigliavano  che  si  lascias- 
sero andare  a Marcio  solamente  le  donne  che  a lui  si 
appartenevano  insieme  cu’  figli.  Altri  però  giudicavano 
che  non  si  concedesse  che  andassero  nemmeno  rpieste; 
anzi  esortavano  di  custodirle  gelosamente  , e di  consi- 
derai le  come  ostaggi  sicuiissimi,  perchè  la  città  nou  su- 


■ DJOXJGI , IB«o  III. 


f ' 


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58  DEfXE  Antichità’  roisaane 

buse  grave  disastro.  Per  l’ opposito  altri  proponevano 
che  si  accordasse  a quante  donne  volevano  , di  uscire  , 
perchè^  le  donne  congiunte  a Marcio  , fornissero  con  ' 
più  dignità  la  mediazion  per  la  patria.  Dicevano  che 
non  succederebbe  ad  esse  niente  di  sinistro;  giacché  ne 
sarebbero  mallevadori  primieramente  i numi  col  favore 
santo  de’  quali  si  moveàno  ad  intercedere  ; e poscia  il 
duce  stesso  al  quale  ne  andavano , come  uomo  puro 
ed  inviolato  in  sua  vita  da  ogni  ingiusto  ed  empio  at- 
tentato. Vinse  finalmente  il  partito  che  accordava  alle 
dònne  di  andare,  e còn  decoro  amplissimo  di  ambedue; 
del  Senato  come  savio , perchè  vide  ciocché  era  a farsi 
il  migliore , senza  punto  turbarsi  al  grande  perìcolo  ; e 
di  Marcio  finalmente  per  la  sua  pietà,  perché  fh  confi- 
dato, che  niènte  oliraggerebbe  tal  parte  imbelle,  espostasi 
a lui  quantunque  egli  fosse  nemico.  Steso  il  decreto , e 
recausi  l consoli  al  Foro,  e raccoltovi  il  popolo,  essendo 
già  notte , vi  palesarouò  il  voler  del  Senato  , e preor- 
dinarono , che  tutti  al  nuovo  giorno  accorresserò  alle 
porte  per  accompagnarvi  le  donne  che  uscireld)ero.  Busi 
frattanto,  diceano,  che  curerebbero  quanto  era  d'uopo. 

,XLIV.  Era  ornai  l’alba  vicina;,  quando  le  donne  por- 
tando i figli  loro , andarono  colle  faci , e presa  in  sua 
casa  Vcinrìa  , la  condussero  alle  porte.  I consoli  idle- 
sUte  mule  da  tiro,  e carri , ed  altri  trasporti  moltissi- 
mi, ve  le  acconciarono,  e seguironle  per, lungo  tratto: 
le  accommiatavano  intanto  i senatori  ed  altri  in  buon 
numero  con  auguri,  con  preghiere,  con  eocomj , ren- 
dendone cosi  più  dignitoso  il  viaggio.  Come  si  potè 
dal  campo  distinguere , che  donne , lontane  ancora , si 


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LiBBO  vm.  5g 

àvanzavano  , Marcio  spedi  de’  cavalieri  per  apprendere 
che  fosse  quella  moltitudine , e perehé  dalla  catti  ne 
veoisse.  E risapendo  da  loro  che  venivano  le  donne 
Romane  oo*  6gli , e che  innanzi  -di  tutte  era  la  madre 
di  lui,  e la  moglie  co’  figli  suoi;  stupì  da  principio  che 
femmine  potessero  aver  cuore  di  avanzarsi  co’  Ggli  senza 
guardie  al  campo  nemico , e darsi  a vederè  ad  uomini 
insoliti , lasciata  la  verecondia  conveniente  * a matrone 
ingenue  e pudiche , e la  paura  del  pericolo  nel  quale 
incorrerebbero , se  questi  volgendosi  airutile  più  che  al 
giusto  , volessero  acquistarle , . e giovarsene.  Ma  poscia- 
cbè  furono  vicine , deliberò  di  uscire*  dal  campo  con 
alquanti  ' verso  la  madre , comandando  ai  littori  che 
quapdo  le  fossero  dappresso  deponessero  le  scuri , e le 
abbassassero  i fasci.  Usavano  i Romani  questo  rito  quando 
i magistrati  minori  s’  incontravano  co’  maggiori  ; ed  il 
rito  persevera  ancora.  Osservò  Marcio  allora  tal  pratica, 
e rimosse  tutti  i segnali  dell’  autorità  sua  ; quasi  egli 
dovesse  presentarsi  ad  una  autorità  maggiore  : tanta  fa 
la  riverenza , tanta'  la  sollecitudine  sua  per  la  pietà 
verso  la  madre.' 

XLV.  Fattisi  ornai  vicini  , si  avanzò  la  prima  per 
riceverlo  la  madre , ahi  ! quanto  miseranda  , squallida 
vestunenti , e logora  gli  occhi  dal  piatito.  Come  la 
vide , Marcio , duro , imperturbabile  fin’  allóra  contro 
tutti  gli  assalti , non  più  valse  a persistere  nel  propo- 
sito suo:  ma  vinto  dagli  affetti  del  cuore  umano  corse, 
la  strinse , la  baciò , la  chiamò  con  tenerissimi  nomi:  e 
molto  lagrimandone , e curandone  ; la  sostenne,  mentre 
venuta  meno  abbandonavasi  a terra.  Soddisfiitta  la  tene- 


6o  PELLE  Antichità’  romanè 

rezza  sna  verso  la  madre , ricevendo  la  donna  sna  che 
sea  veniva  co’  figli  disse  ^ Fornisti  o Koluimia  gli  of- 
fizj  di  ottima  donna , > uh’endoli  presso  la  mia  geni- 
trice: ed  io  godo  come  su  dono  dolcissimo  infia 
tutti,  che  non  t qhbandonasli  nella  sua  solitudine. 
Dopo  ciò  chiamato  a sé  1’  uno  e l’altro  de’  figli  , e ca- 
rezzatili come  si  conveniva  ; si  rivolse  noVamente  alla 
madre,  invitandola  a dire  per  qual  fine  veniva:  ed  ella 
soggiunse  che  il  direbbe , udendola  tutti  ; giacché  non 
chiederebbe  se  non  giustissime  cose.  Lo  esortava  dunque 
che  sedesse  nel  luogo  appunto  dal  quale  solea  far  giu- 
stizia a’  suoi  militari.  Con  piacere  udì  Marcio  la  propo- 
sta , pen  hé  varrebbesi  di  assai  più  regioni  per  rispon- 
dere alle  istanze  .di  essa  , e darebbe  dv  opportunissimo 
luogo  fra  la  turba  la  risposta  (i).  Adunque  recatosi  al 
tribunal  militare  fe*  da  indi  rimovere  e calarne  al  pian- 
teiTeno  la  sedia  , giudicando  non  dover  lui  tenersi  p’ù 
alto  che  la  madre , nè  còn  maestà  niuna  contro  di  lei. 
Poi  fatti  sedere  presso  di  sé  li  più  cospicui  de’  capitani 
e dei  centurioni , e lasciando  che  intervenissero  quanti 
volevano  ; significò  alla  madre  che  incominciasse  (a). 

XLYI.  Veluria  , poste  innanzi  del  tribunale  la  donna 
di  Marcio  co’  figli  e le  altre  più  ragguardevoli  tra  le 
Romane , ' pHmieramente  rivolti  gli  occhi  alla  terra  , 
pianse  lungamente , p mosse  tenera  compassione  negli 
astanti  : poi  raccogliendo  sé  stessa  disse  : Le  donne  , o 

(i)  Perché  sarebbe  siala  risposta  pubblica;  udendolo  cbi  Tclcea  ; 
e perché  cjuel  luogo  stesso,  di  dignità  e di  comando  aerebbé  ricor- 
dalo «Ila  madre  le  ubbligaiionf  Che  egli  arcTa  co'  Votaci. 

(a)  Anni  di  Roma  a06  sccoodu  Calorie,  a63  secondo  Varoue, 
e 4^  arami  Criaio.  ^ 


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• ' ' LIBRO  VITI.  6l 

‘Marcio  figlio,  considerando  gC  info rtunj  che  su  di 
esse  piomberebbero  se  la  città  divenisse  de  nemici , 
diffidatesi  di  ogn  altro  soccorso  , poiché  tu  davi  le  sì 
dure,  le  jì  ostinate  risposte  agU  uomini  che  chiedeano 
un  fine  alla  guerra  ; queste  donne  , o Marcio ^co’  /?- 
glioletti , in  questo  lugubre  apparato  ricorsero  a me 
tuà  madre , ed  a V olunnia  tua  sposa  per  supplicarci 
'a  non  permettere  che  avessero  tanto  male  ‘da  te,  più 
che  da  ogn  altro , esse  cfie  non  ci  aveano  offeso 
punto  nè  pocO',  e che  grande  ci  aveano  dimostrata 
la  benevolenza  nella  nostra  sorte  felice,  e viva  nom- 
meno  la  compassione  quando  ne  dec'ademmo.  Noi  ben 
possiamo  testificarti  che  dalf  ora  che  tu  lasciavi  la 
patria , daW  ora  che  noi  restavamo  derelitte  nella  so- 
litudine , e nel  nulla  , esse  di  continuo  ci  visitarono , 
ci  consoletrono  , e piansero  al  pianto  nostro.  Memori 
di  tanto  io  e questa  tua  donna , coabilatHce  mia , 
non  abbiamo  già  ripudiato  le  loro  preghiere , ma 
preso  abbiam  cuore  di  cercarti  ; e pregarti  , corno  ci 
atìdimandavano  , per  la  patria. 

XLVII.  E lei  parlan(h>  ancord  , Marcio  ripigliava  : 
rnadre  ! se'  tu  venuta  per  un  impossibile  , venendomi 
a chiedere , che  io  Iralisca  quelli  che  mi  hanno  ri- 
cettato a quelli  che  mi  bandivano , quelli  che  mi  do- 
navann  i beni,  più  grandi  fra  gli  uomini  a quelli  che 
tutto  il  mio  rn  involavano.  Io  pigliando  questo  cofnan- 
do,  dos  a malle\'adori  i genj  ed  i numi,,  che  non  avrei 
tiadito  gU  ospiti  miei,  nè  finita  la  guerra  se  cosi  non 
fosse  piaciuto  a tutti  i Volsci.  Pertanto  adorando 
gt  Iddìi  su  quali  giurai,  riverendò  gli  uomini  a quali 


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6a  DELLE  Antichità’  romane 

vincolai  la  mia  fede,  guerreggieiò  fino  alla  decisione 
co'  Romani.  Se  renderanno  mì  f^olsci  le  terre  che"  ne 
possiedono  colla  forza  ; e se  amici  se  ne  fwanno  , 
accomunando  ad  essi  tutto , come  co'  Latini  ; deporrò 
' le  armi  : altrimente  mai  contro  di  essi  le  deporrò  / 
Voi  dunque  andatene.,  o donne,  riferite  ai  vostri  un 
tal  dire  , e persuadeteli  a non  pretendere  ingiusta- 
mente [ altrui,  ma  contentarsi  del  prpprio  , quando 
altri  lascia  che  lo  abbiano.  Non  aspettino  che  si  ri- 
tolga loro  colla  guerra  , quanto  colla  guerra  usurpa- 
rono ai.  Volsci;  perocché  li  vincitori  non  saranno  già 
paghi  di  ricuperate  i lor  beni,  ma  vorranno  quelli 
ancora  de’,  vinti.  Se  ritenendosi,  e difendendo  ostina- 
tamente ciocché  lor  uon  si  spetta,  vanno  incontro  m 
pericoli,  accusino  sestessi,  e non  Marcio,  e non  altri 
de'  mali  che  piomberanno  su  loro.  E tu  -daW  altra 
parte',  o madre , io  figlio  tuo  le  ne  prego  , non  mi 
sollecitare  a cose  non  degne,  nè  giuste;  nè,  unendoti 
d miei  e tuoi  malevolissimi , volete  credere  a te  con- 
trarj  quelli  che  ■'ti  sono  per  natura  amicissimi  : ma 
standoti , coni  è ragìc^nevole , presso  me , vegli  riguar- 
dare per  patria  quella  che  io  riguardo',  e possedere 
per'  casa  quella  che  io  possiedo,  e godere  con  me  gli 
onori  miei , e la  mia  riputazióne , presi  per  parenti , 
per  amici  e nemici  tuoi,,  quelli  appunto  cK  io  pren- 
dami. Bandisci,  o misera , f afiìanno  sostenuto  finora 
per  la  mia  fuga,  e pesfa  in  tale  tua  forma  .di aflig- 
germi.  Gli  altri  beni , o madre  , più  belli  della  spe- 
ranza, più  grandi  del  desiderio  mi  son  dati  da  mimi, 
e dagli  ùomini.  L’affanno  che  io  prendea  su  te,  non 


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LIBRO  Vili.  63 

contraccambiandoti  col  nudrirli  ne'  senili  tuoi  giorni, 
diffuso  per  le  mie  viscere,  amareggiava  e levava  la 
mia  vita  da  ogni  bene.  Se  meco  ti  rimani,  se  parte- 
cipe ti  fai  di  ogni  mia  cosa;  più  non  mi  mancherà 
alcuno -tra  L mortali. 

XLVIII.  E qui  taciutosi  lui  , Veturia  sopraslando 
breve  tempo  &nchè  , cessassero  le  lodi  cbe  molte  e grandi 
gli  si  fecero  da’ circostanti,  soggiunse:  Non  io.  Marcio 
figlio  , ti  voglio  il  traditore  de'  Volsci , che  ricevitori 
tuoi  nelC  esìlio  , ti  onorarono  in  iMtte  guise  , e ti 
affidarono  il  comando  di  ses tessi  ; nè  voglio  che.  tu 
da  te  solo  finisca  senza  il  voto  comune,  la  guerra 
contro  i patti  e i giuramenti,  chè  facevi  loro,  quando 
prendevi  armata  : nè  temere  che  la  madre  tua  siasi 
di  tanta  malvagità  riempiuta  ; ‘ che  inviti  C unigenito 
e carissimo  figlio  a cose  vituperose  e non  giuste:  ma 
cJtiedo  che  tu  levi  col  pubblico  voto  la  guerra , ridu^ 
cendo  i V ytsci  a temperanza , e ponendo  tra  le  due 
genti  pace  ì>ella  e decorosa.  E ciò  sarà  fatto  , se  al 
presente  movi  t armata  e la  ritiri,  e fai  tregua  per 
un  anno  ; perocché  spedendo  e ricevendo  in  questo 
tempo  ambasciadori , procaccerai  pace  stabile  , e vera 
amicizia.  Tu  ben  -sai  che  f Romani  , se  il  disonore , 
o la  impossibilità  non  lo  vieta  ; faranno  vinti  dalle 
persuasive  ogni  cpsa  : laddove  violentali , come  ora 
vuoi  tu  violentarli  , non  concederanno  mai  cosa  pic- 
ciola  o grande , come  puoi  tu  conviruertene  da  tanti 
esempj  , ed  ultimamente  dalle  cose  concedute  ai  La- 
tini che  deposeco  le  ormL  1 Volsci,  dirai,  sono  assai  ' 
più  pertinaci,  come  avviene  ai  gran  fortunati.  Ma  se 


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J 

64  PELLE  ANTICHITÀ.’  ROMANE 

ricordi  loro  che  ogni  pace  vai  più  della  guerra:  e che 
più  stabile  è quella  che  si  fa  per  amicizia  la  quale 
rende  i cuori  propizj  , che  non,  f altra  la  quila  per 
necessità  si  riceve:  esser  proprio  de’ sa>’i  moderare  la 
sorte,  quando  stimano  averla;  non  però  mai  ft^  cosa 
indegna  nelle  vicende  infelici  e meste  ; se  dirai  loro 
gli  altri  documenti  quanti  sen  trovano  ( notissimi  a voi 
che  il  pubblico  maneggiate ) per  indurre  a dolcezza  a 
mansuetudine  ; scenderanno  dalt  eUterigia  ove  sono  , 
e concederanno  che  facci  quanto  credi  a loro  giove- 
vole, Ma  se  resister^anno  , se  non  ammetteranno  il 
dir  tuo  , sollevati  dalle  belle  Jbrluna  provenute  da  te 
e dal  tuo  comandare , cqme  siati  quéste  immutabili  ; 
rendi  loro  palesemente  co  lesto  tuo  capitanato  , nè  il 
traditore  sii  di  chi  te  lo  afJidcR>a  , nè  il  combattitore 
de’  congiuntissimi  tuoi  ; cose  , T una  e t altra  inde- 
gnissimo. Queste  soao , o Marcio  figlio , le  cose  che 
io  vengo  a supplicarti  che  sian  fatte  da  te  , non  im- 
possibili come  tu  dici,  ma  pure  da  ogni '' rimorso  di 
ingiustizia  , e di  malvagità  . 

XLIX.  Tu  temi  '(  sono  questi  i titoli  che  vai  ma- 
gn'ficanio  col  discorso  ) tu  temi  d’  incorrere  sé  fai 
quanto  consiglioU,  la  taccia  rea  come  d’ ingrato  versa 
i tuoi  benefaUori , i quali  ti  accolser  nimico  , e ti 
a nmisero  a tutti  i-loro  beni , quali  se  gli  hanno  co^ 
loro  che  nacquero  cittadini.  Ma  dì  j non  hai  tu  len- 
dulo  toro  il  molliplice  e bel  contraccambio  ? non  hai 
suj'ferato  i benefizj  loro  colt amplitudine  immensa  dei 
tuoi?  Costoro  che  leneano  pel  sommo  e pel  più  ama- 
bil  de  beni  viversi  liberi  usila  patria  ; gli  hai  tu  ri- 


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LIBRO  Vili.  65 

dutU  (fuesti  non  solo  arbitri  stabilmente  di  sestessi , 
ma  tali  infine  da  bilanciare  , se  tornasse  lor  megliò, 
di  abbattere  la  potenza  de' Romani,  o di  partecipare, 
ugualmente  alla  repubblica  che  Roma  ha  fondato. 
Lascio'  di  dire  con  quante  spoglie  abbi  ornalo  le  loro 
città  per  la  guerra,  e con  quanta  ricchezza  premiato 
quelli  che  vi  militav<tno.  E questi,  tali  per  te  dive- 
nuti,, questi  giunti  a tanta  prosperità,  credi  chenion 
ehetevansi  ai  beni  che  conseguirono  j 'ma  che  ti  si 
adireranno , ed  'inimicheremmo  , . se  non  spargi  per  le 
mani  loro  il  sangue  della  pàtria  F C^rto  io  nói' credo. 
Soprayvanzami  ancora  un  altro  discorso-,  validissimo 
se, colla  ra^n  li)  discuti, ^ ma  fiacchissimo  se’col- 
l’  ira  ; ed  è , che  non  - giustamente  da  te  si  odia  la 
patria.  Jmptrocchè  quando  diede  su  te  la  non  giusta 
sentenza,  nò  la  patria  eia  sana,  nè  lunmifiistrata  col 
proprio  - governo f ma  élla  era  inferma,  e sbattuta  da 
turbine  tempestoso  ; né  tutti  allora  ne  ebbero  il  voler» 
medesimo , ma  solo  i più  tristi , eccitati  da  scellerati 
motori.  E quandb  pure  fosse  casi  piaciàto  a tutti  , 
non  che  ai  pili  Scellerati,  e tu  fossi  stato  espulso  , 
come  chi  non  bene-  amministra  le  pubbliche  cose  } 
nemmeho  in  tal  caso  ti  si  converrebbe  perseguitar  la 
tua  patria.  Ad  altri  occorse,  e non  pochi ^ lutto  cho 
governassero  per  lo  meglio  , di  subire  le  uguali  vi- 
cende : e rari  sono  y contro  ' la  viriti  manifesta  dei 
quali  non  soffiasse  la  invidia  ingiusta  degli  emoli  : 
ma  tutti  i valentuomini , o Marcio  , sostennero  la 
sciagura  con  mansuetudine  e con  modenaziene,  e tra* 

UlQ.StGf , tomo  i;i.  . ■ . , 5 ' 


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66  DELLK  antichità’  ROMANE 

smutaron  città , dìmorofidovi , non  infestalo  la  pa- 
tria. Così  pur  fece  Tarquinio  ( è questo  un  domestico 
esempio , e dee  bastarti  ) quel  Tarquinio  io  dico  y 
che  chiamavasi  CoUatino.  Jl  quale  dopo  avere  libe- 
rato i suoi  da  tiranni , calunniato  di  brigarfte  il  ri- 
torno, ed  espulso  ancor  esso,  iiè  visse'  odiando  quelli 
che  espulso  lo  aveano,  nè  portò  guerra  al  suol  natio 
rimenahdovi  i suoi  tiranni , nè  rendè  U opere  sue 
prova  innegabile  delle  accuse}  ma  ritiratosi  a Lavi- 
nia, città  madre  di ^ Toma,  vi  passò  la  età  che  re- 
stavagli  j benevole  semj^fe  ed  amico  della  patria: 

Xi.  Ma  poniamo  pure  , ' e concediamo  , che  gli  ol-., 
tramati  non  distinguano  , se  chi  fece  il  male  siasi 
amico  o nimico  y e sdegniasi  con  tutti  ugualmente. 
Non  hai  tu  riscosso  pene  che  bastino  dagli  offensori, 
volgendo  in  pascoli  le  fecondissime  loro  caiApOgne^, 
saccheggiandone  le^città  confesUrate  'che  possedeansi 
a costo  di  tsmti  travagli , e tenendoci  ornai  da  tn 
anni  in  tanto  disagio  di  viveri  ? che  spingi  V aspra 
e farnetica  ira  tua  fino  a rendere  schiava  , o stermi- 
nar la  tua  patria  ? perchè  niente  hai  riverito  i se- 
niori che^  t\  inviava  il  Senato  per  offerirti  t assolu- 
tone dalle  imputazioni,  ed  il  ritorno  in  patria,  uo- 
mini tutti  amici  e da  bene'  qhe  a te  venivano  je 
niente  i sacerdoti  che  in  ultimo  ti  spedì  Toma , ve- 
nerabili tutti  per  età,  li  quali  portavano  e,  sporgeana 
i divini  simboli  di  pace',''  e gli  hai  rigettati  ; dando 
loro  , come  ai  vinti , disposte  dispotiche  ed  inaltera- 
bili ? Certo  io  non  so  come  lodare  tali  dure  , tali 
superbe  maniere  , le  quafi  sj  discostano  dalla  còndi- 


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LIBBO  Vili. 


zìort  dei  mortali  ^ redertdo  fra  tutti  gli  uomini  per  bs 
ntancanzc  vicendevoli  le  nlediazioai  / e le  ''discolpe  , i 
simboli  di  pace,  e le  preghiere;  e gli  ojfensqri  stessi 
andarne  supplichevoli  alV  offeso,  E gC  Iddìi  ne  die^ 
dero  questo  costume  onde  un  cuore  sdegntuo  si  am- 
mansa ; ed  in  luogo  di  odiar  f inimico , ne  impioto-  ' 
sisce.  In  apposito  io  > vedo  che^  gU  orgogliosi  che 
quei  che'  spregiano  le  preghiere  -de  supplichevoli,  cor- 
rono all  ira  de'  numi  ed  alia  sciagura  finalmente. 
Certo  gl'  Jddii  • istituirono  e ne  dierono  tale  costume  ,- 
essi  i pruni  ptrdanano  s e fqcili  si  rappaciane';,  e 
molti  si. placarono  già  pe’  voti  j e'  pe'  sagrifizj  verso 
di  uomini,  lontani  per  grandi  reità  da  loro".  Quando 
o A/arcio  tu  tioti  vagli  che.  l’  irà  de’  celesti  sia  mor-^ 
tale , ma  immortale  quella  , degli  'uoniini  ; • forai  con 
rettitudine  f e con  dignità  tua  o della  patria , se  ne 
condoni  gli  errori , essa  già  correggendosene , e pla- 
candotisi , e rendendoti  quanto  prima  ti  levava. 

LI.  Che  se  implacabile  ti  rimani  , rendimi  questo 
deposito,  questo  benefizio y i quali  niun  altro  può  ri- 
peterti i e pe’  quùli  hai  tu  non  le  minime  , ma*  le 
auiplissinte  è pregiatissime  doti ,' onde  tutto  ottenesti,, 
rendimi  il  corpo  tuò  e l’ànima.  Derivate  le  hai  que- 
ste da  ma;  ; nè  luogo  o tempo  , nè  beneficenze  , nè  • 
grazie  di  Fblsci  o di  altri  mai  tanto  ' eccederanno  e 
saliran  fino^  ai  cieli  ;.  che  tu  possi»  csmcellar  la  natu- 
ra, ,nò  pù't  udirne  i diritti.  Mio  sarai  pur  tu  semproj 
e sempre  il  bene  del  vivere  a me  dovrai  per- la  pri- 
ma, e 'farai  senza  scusartend  quanto  ti  additnando- 
Ciò  prescrive  la  natura  ai  viventi  che  sentono  e che 


68  DELLE  a:»tichita’  romane 

ragionano  { >e  di  ciò  confidata  puf  io  , ti  supplico  o 
Marcio  figlio  a non  portaré  guerra  alla  patria;,  o 
qui  sto  per  oppormiti  se  le  fai  violenza.  O me  tua 
madre  che  mi  ti  oppongo  sagrijicherai  prjma  di  tua 
mano  alle  furie , e cosi  darai  principio  alla  guerra; 
o,  se  temi  la  infamia  di  matricida,  cedi  o figlio  alla 
madrfi  tua  ; dammi  , flie  il  puoi , questa  grazia.  Se 
questa  leg^e  che  niun  tempo  ha  mai  tolto,  mi  assiste, 
mi  protegge  > non  è giusto  o Marcio  che  io  sola  sia 
da  te  priva  degli  onori  che  essà  mi  concede.  Ma  Ics- 
sciando  questa  legge  , ricordati  la  tanta  e gran  sc^ie 
de'miei  benefizj.  Io  prendendo  a curar  te  fanciulletto, 
orfano  del  padre  tuo védova  me  ne  rimasi , e gli 
stenti  tutti  soffersi  onde  allevasi,  madre  tua  non 
solo , ma  padre  in  ur[  tempo  , educatore  é sorella 
dimoetrandomiti  , ed  ogni  altra  spficie  . di  teneri  .og- 
getti. Divenuto  tu  grande,  potendo  io  liberarmi  dalle 
• cure  , nutritandomi  ad  •altri , e darmi  nuovi  figli  e 
nuove  speranze  sostenitrici  della  vecchiezza;  non  volli, 
hià  restài  ne'  tuoi  lari  'domestici , contenta  della  vita 
medésima,  e ristringendo  a 'te  sólo  ogni  mia  conso- 
lazione, ogni  bene.  Di  questi  ine. ne  privasti-  tu,  parte 
di  voler  tuo , parte  senza  volerlo  , rendendomi  infe- 
licissima tra  le  madri.  ^ qual  tempo,  da  che  toccasti 
l' età  •virile , qual  tempo  io  pissr  mai  sene’  agitazioni 
e terrori?  e quando  ebbi, mai  l'  anintà  tranquilla  so- 
' pra  di  te  , vedendo  che  acciimolavi  guerra  a guerra  , 
che  passavi  da  battaglia  a battaglia,  e ricevevi  ferite 
su  ferite  ? . . 

Lll.  E quando  ti  desti  alla  repubblica  cd  al  ma- 


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’ - Lifino  vm.  69 

ncggìo  de'  pubblici  affari , gustai  forse  io  tua  madre 
diletto  alcuno  ? Eh  ! Che  ne  divenni  allora  più  mi- 
sera , mirandoti  in  mezzo  alla  civil  sedizione.  Impe- 
rocché le  uìe  provvidenze  pér  le  quali  più  sembravi 
valere , e per  le  quali  sostenendo  i patrizj , spiravi 
indignazione  contro  del  popolo , queste  mi  spaventa- 
vano tutta , considerando  , per  quanto  tenui  motivi 
tramutasi  la  sorte  degli  uomini:  e sapendo  dai  tanti 
casi  uditi  che  qualche  ira,  divina  traversa  i valentuo- 
mini , e la  invidia  umana  li  perseguita.  E_  così  non 
fossi  stata  , come  io  ' m'  era  troppo  vera  indovina 
degli  eventi!  fa  civile, invidia  t' assalì,  ti  sopraf/kee, 
ti  sifclse  dalla  patria,.  Il  refto  della  vita  mia,  se  vita 
può  dirsi  da  che  partendoti  ' mi  lasciasti  co'  figli  tui , 
passò  tra  questa  desolazione.,  Va  questo  apparato  di 
lutto.  Per  tutto  questo  io  che  molèsta  mai  non  ti  fui, 
nè  ti  sarò  finché  vivo  , ti  prego  che  vagli  serenarti 
una  volta  co' tuoi  cittadini  f' c finir  C Ira  acerbissima 
che  nudri  contro  la  paù'kt.  E con  ciò  di  cosa  io  ti 
prego  non  buona  per  me  solq,  ma  per  ambedue.  Per 
le  Se  tea  persuadi  , nè  scorri  ad  azioni  non  degne  ; 
perchè  avrai  C anima  immacolata  e libera  da  ogn’  ira, 
da  ogni^  terrore  di  furie  persecutrici , e p6r  me  poi  , 
perchè  la  fama  che  men  yetrà  , mentre  vivo,  dai 
cittadini,  e dalle  cittadine.  Tenderà  beati  i miei  .gior- 
ni f e quella  che  mi  sarà  dispensata  come  io  presa- 
gisco , dopo^  morte  , renderà  sempiterno  il  mio  nome. 
E se  'dopo  morte  riceve  alcun  luogo  le  anime  sciolte 
da  corpi;  riOn  riceverà  già  la  mia  quel  sotterràneo rp 
tenebroso  ove  dicono  che  i detnoni  soggiornano  ; nq 

1 


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'JO  DELLE  antichità’  EOMANE 

il  ampo  che  chianìdn  di  Lete;  ma  C etere  sublime  e 
puro,  ove  dicono  che  albergano  con  prospera  e beata 
sorte  i JigUifoli  de’  numi.  JB’ià  divulgando  anima 
min  la  pietà  e le  grazie  onde  m’hai  riverita,  ten  chie- 
derà per  sempre  dagt  Iddii  la  degna-  ricompensa. 

LUI.  Ma  se  dispregi  la  madre  tua  , se  inonorata 
la'  rimandi  <,  io  non  so  già  dirti , ciocche  jarai  per 
soffrirne  , ma  ceftp  niente  ti  auguro  di  propizio.  E 
sia  che  tutto  il  resto  vadati  a seconda;  beri  vedo  che 
il  dolore  che  seguirà  nè  mai  pià  Lucerà  il  cuor  tuo 
per  me  e pe’ mali  miei,  renderà  la  tua  vita  inutile  fi 
ttiUi  i beni:  perocché  Keturid- spregiata  sì  gravemente 
e inconsolabilmente  in  mezzo  a land  testimoni  , 'non 
sosterrà  nemmen  per  pòco  di  sopravvivere  ; [ ma  nel 
cospetto  di  tutti  voi  optici , e nemici , mi  ucciderò  y 
lasciandoti  vendicatrice  mia',  L- orrida  esecrazione  e 
le  furie  implacabili.  Deh!  che  tale  necessità  mai  non 
sia , numi  custodi  dell’  vnperio  di  Roma  , ma  inspi- 
rate a Marcio  pietosi  e degni  sentùnend.  E pome^  al 
giugner  mio  rimorse  le  scuri , sottomise  i fasci,  calò 
la  sèdia  sua  dal  tribunale  al  pian  terreno  , e parte 
diminuì,  parte  tolse  affatto  i distindvi  fhe  per  le^ge 
adornano  i tpagistrali  supremi,  volendo  a tutti  far 
chiaro,  che  s^  esso ^a^i  altri  soprastava,  óonvenivasi 
che  a lai  sóprastasse  la  'madre  ; cosi  onorimi  ora  e 
nuigiiifichi,  e benficando  la  patria  comune,  mi  renda 
,d infelicissima,  felicissima  fra  le  donne.  Che  se  non 
indegna;  se  legittima  cosa  ella. è mai  che  abbando- 
nisi una  madre  ai  piè  del  figlio  ; prenderò  questa  ed 
altre  forme  ancora  di  umiliazione  , per"  salvare  la 
patria. 


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LIBRO  Vili.  •J  I 

Liy.  R cosi  dicendo,  prosirauu  ed  abbracciatasi  eoo 
ambedue  le  mani  ai  piedi  di  Marcio,  li  baciò,.  Lerarono 
al  cader  suo  tutte, intorno  le  donne  acuti  e langbi  ge» 
miti.  Non  sostennero  i rVolsci  presenti  lo  spettacolo  in» 
solito  , e si  rivolsero  altrove.  E Marcio  alzatosi  in  un 
bmpo  da  sedere,  e chinatosi  alla  madre,  la  sollevò  che 
respirava  appena  dalla  terra.  ; e tenendola , in  nn  aini* 
plesso  , e di'  lagrimé  inondandola  , disse Vincesti  o 
madre  ! ma  con  ufia  vittoria  nì>n  per  me  fortunata 
nò  per  le,  la  quale  hai  salvato  la  patria,  e perduto 
insieme  il  pietoso  ed  amantissimo  tuo  figliuolo.  Cosi 
detto , si  ritirò  ne'  siioi  padiglioni  ; comandando  che  lo 
seguitassero  la  inoglie;  la  madre  -,,  i fi^i  : é vi  si.  tenne 
tutto  il  resto  dei  giorno , eonsultaudo , con  esse  ciocché 
era  da  fare.  Enrono  le  risoluzioni  : che  nè  il  Senato 
proponetse  al  popolo  , nè  il  popolo  decretasse  nulla 
del  suo  ritorno  , prima  che  .si  persuadesse  aWolsci 
r amicizia  e la  cessaziofs  della  guèrra.  Egli  leverebbe 
e ritirerebbe  /'  esercito , marciando  cofne  tu  terre  di 
amici:  Dato  conto  del  suo  capitanato,  e dimostratina  - 
i beni;  pregherebbe  quelli. che  glie  lo  aveano  càtfi» 
flato,  a’  volersi  ricongiungere  per  giuste  condizioni  ai 
nemici ,.  ed  incarieore  lui  pefchè  vi  fosse  ne  patti  t o- 
fpùtà  , senza  niuna  fmdolenza.  Che  - se  protervi  pei 
successi  filici  non  aecettósser  la. pace;  egli  si  spoglie* 
rebì>e  del  comando.  In.  tal  caso  o non  sosterrebbero 
essi  di  ^leggete  un  altro  per  ^mancanza  di  buoni  capi* 
ioni  ; o cimentandosi  di  'affidare  le  forze  ad  un  altro 
qualunque,  imparerebbero  a grande  lor  danno,  ciocchi 
era  V utile  a Jare.  Tali  sono  le  deliberazioni  ira  loro 


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72  DIELLE,  antichità’  DOMANE 

tenute,  e riconosciute  per  eque  e giuste,  e capaci  presso 
tutti  di  buona  faina,  oggetto  principalissimo  delle  cure  del 
valenluomo.  Ben  erano  essi  agitati  da-  un  timido  sospetto 
che  la  turba  irragionevole  speraozala  di  debellar  riiiinii* 
co,  delusane,  alfìne  infuriasse;  e setiz’amihctter  discorso 
trucidasse  come  traditore' quel  suo  capitarlo;  tuttavia  deli- 
berarono d’inedutrere  non  pur  questo  ma  ogn^allro  più 
tetro  pericolo,  e serbare  vh-tuosameule  la  fede.  E poiché 
il  giorno  piegava  a sera;  datesi  vicendevoli  signiflcaziout 
di  affetto , uscirono  da'  padiglioni , e quindi  le  donne 
tornarono  a Rema.  Esitose  Marcio  agli  astanti  le  cause 
che  lo  inducevano  a scioglier  là  ,guerra  , e pregò  lun- 
gamente t sòldan  che'gb'el  condqnassero , e che  tornati 
in  patria  , ricordevoli  de’  suoi  beneQzj ,.  non''  permettes- 
sero essi  compagni  suoi , che  subisse  alcun  reo  tratta- 
mento dagli  altri.  Ej  ragionate  altre  cose , tutte  persua- 
sive , t:omandò  che  iaces^erq  le  b^gagHe , oude  partire 
la  notte  'seguentPi 

LVi  Coinè  seppero  dalla  fama  ,' percorsa  alle, donne, 
die  Icvavasi  il  pericolo  loro , uscirono  lietissimi  i Ro- 
mani dalia  dtlà  per  incohlcarle;  dicendo  e fàcendo  ora 
a cori,  ora  ad  uno  ad  uno,  salutazioni  e' cantici  e tri- 
pudj , quali  gli  latino  e li  dicono  quelli  che'  da  rischio 
terribile  passano  » prosperità  non  pensata.  Si  menò  poi 
Ja  notte  tutta'  In  feste  e conviti  : nel  giórno  appresso  il 
Senato  adunato  da  consoli  su  Marcio  dichiarò  che  si 
differisse  in  tempo  più  acconcio  a risolver  gli  onori  da 
farseglt  : ma.  che  per  lo  zelo  ditnostrato  sì  desse  alle 
donne  nc’ pubblici  antichi  registri  un  elogio  che  ne'por- 
tasse  eterna  la  memoria  , tra’  posteri , ed  un  donativo  , 


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/ 


LIBRO  Vili,  , -)3 

qual  sarebbe  il  pti\  car<r  e prezioso  per  esse  dio  lo  ri<- 
ceveano.  Il  popolò  ratificò  li  decreti.  Consultatesi  ' le 
doline  fra  loro  piacque  ad  esse  di  chiedere  Dòn  doni 
invidiabili,  ma  .che  il  Senato  concedesse  loro  di  fondare 
un  tempio  alla, Fonuna' Muliebre  , ove  porgessero' pr^ 
ghiere  pel  popolo,  e riunendosi  facessero  ogni  anno  59- 
griftzj'  nel  gioriro  appunto  in  cui  precluser  la  guerra.  Il 
Senato  ed  il  popóto  decretò  che  se  ne  comperasse  col 
pubblico  argento  e se  ne  consecrasse  il  luogo  alla  diva, 
e.  tempio  quivi  ed  ara  le  si  ergesse  giusta . il  voto  dei 
pontefici , e sagrificj  a pubbliche'  spese  vi  si  facessero  , 
a*, quali'dcsse  principio  una  donna,  che  esse  per  la  ^anta 
funzione  scegllerèbbono  fi).'  Dopo  tale  decreto  del  Se» 
nato  fa  la  prima  ^olta  eletta  dalle  donne  sacerdotessa , 
Valeria,  quella  che  propose  la  deputazione,  e che  per- 
suase la  madre*  di  Marcio  ad  essere  adjiitrice  loro  nella 
impresa.  Onerscro  le  donne,  dandovi  .coniinciamento 
Valeria,  il  primo  sagrifizio  sull’ara  fabbricata  nel  luògo 
santificato,  prima  che  il  tempio  si  ergesse,  e la  statua, 
uel  mese  di  dicembre-  dell’  anno  seguentety'^  a)  primo 
giorno  della  luna,  che  i Greci -chiamano' now7un/o> ed  ' ' 
i Romani  -colende  ; giorno  appunto  che  disciolse  la 

1 “ ^ , 

(i)  Cotiolano  si  approssioiò.due  volte  a Roma  j 'la  prima  volU 
ai  accampò  preaso  le  fosse  delle  Cluvìlie.-io  distaosa  di  ciitipie  mi- 
glia, e la  seconda  io  luogo  anche  piò  vicino  a Roma,  iiitburgio 
scrive,  che  io  questo  secondò  luogo  appunlo  fu  eretto  il  tempio  delta 
Fortiuia  Mulirhrc.  A questa  sci\tei]sa  sembra  corritpondero  <|uaalo 
leggiamo  uyl  I.  1,0.  .6  di  Valerio  Alassimo  il  quale  sciive  : /■'urrà- 
nae  etiam  muliebrit  timulacrum  tjitod  est  via  Latina  ad  qttartunv 
Ali lUa  riunì , eri  itmpore  cum  arde  ma'  comecralwn  quo  Cprìolaniun 
ab  cxtidto  urbis,  maternae  prttes  rrpulerunt. 


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<^4  DELLE  Antichità’  romane 

guerra.  Nell' altro  anno  appresso  al  primo  sagriGzio  il 
tempio  eretto  a spesp  dell'erario  fa  compiuto,  e consci^ 
orato  t^el  mese  di  luglio il  giorno  seltimo  della  luna , 
‘ giorno  che  chiamasi  (ra'  Romani  le  no(te  di  luglio  ; e 
Virginio  Proclo  l’uoo  de'  cònsoli  fu  <|uegli  che  lo  consecrò. 

LVl.  Ben  sarà  consentaneo  all'  indole  .di  una  storia 
ed  a rettificare  ^quelli  che  pensano  che  gl'  Iddi!  nè  si 
dilettano  di  essere  onorati  dagli  -nomini , nè  sen  di^- 
stano  per  le  opere  empie  ed  ingiuste  , dichiarare  le  si- 
gnificazioni , latte  in  quel  tempo  dallo  Dea  non  una  , 
me  dite  volte,  come'  i libri  narrano  de'  pontefici:  e ciò 
perché  quelli  che  riveriscono  circa  la  divinità  le  massi- 
me degli  antenati  le  custodiscano  {con  diligepza  e co- 
steaza;  e quelli  che  le  disprezzanp,  nè  credono  i'  numi 
arbitri  alTatto  dello  cose  umane,  depongano,  principal- 
mente questa  massima  su  |orò  : è se  incurabili  non  la 
depongono,  tanto  più  ne  sentan  l’ira  ed.il  peso  della 
miseria.  Seri  vosi  dunque:  clie  avendo  il  Senato  decre- 
tato che  si  formasse  la  santa  magione  e la  statua  a Spese 
del  pùbblico  , le  dpnne.,UQ’ altra,  ne  .fecero  più  grande 
ancgrà'cò’ danari  da  lor  contribuiti:  e che  essendo -am- 
bedue que’  simulacri  dedicati  n^'  primo  . giorno  delia 
cOnsagrazione , l’uno  di  essi,  queilo'appitnto  apprestato 
dalle  donne , proruppe  alia  presenza  .di  mofte  con  voce 
ben  intelligibile  e chiara  in  alquante*  parole  latine  che 
intcrpAtale  in  greco  significano:  Fvi  mi  O'ele  dolo  o 
matrone  or,  riti  santi  di  Roma. . Or  come  suole  acca- 
dere circa  le  voci  e le  visioni  Impensate,,  grande  'fu 
tra  le  astanti  il  sospetto , se  umana  fosse , o t^l  simu- 
lacro la  voce.  Specialmente  quellè,  che  intente  ad  ^tro 


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LIBBO  Vili.  -J  5 

non  aveana  vedalo'  eh»  avesse  allora  parlato,  se  ne  mo- 
stravano incredule  all’  altre  che  vediuo  lo  aveVano. 
Quand’  ecco,  rieinpiutosi  di  bel  nuo^o  il  tempio , e fat- 
tovisi  per  opera  della  Dea  silenzio  altissitno , disse  ^el 
simulacro  in  mon  pià  forte' le  parole  medesime;  tal- 
ché pi^  dubbio  non  vi  rimase.  Il  Senato , ciò  udendo , 
decretò  che  vi  si  facessero  ogni  annb  sagrifizj  più  so- 
lenni ancora  e santo  culto , come,  i pontefid  prescrive- 
rebbone.  Le  donne-  sul  voto  dtdla  loro  sjjicerdot^ssa,  kli- 
tairoDO,che  mai  «è  le  vedove  oiTeris^ro,  né  le  bigame 
sovrapponessero  corone  a quei  simulaci^,  ma  che 'le 
sole  spo;e  novelle  tutto  ne  avessero  il  servi'^o  e l’onore. 
Or  tale  istoria  de’  paesani  né  convemvasi  lasciarla  in 
tutto  ; nè  raccontarla  più  a Inngo  si  converrebbe.  Ma 
ritorno  colà  donde  è qui  sceso  il  discorso. 

LVIL  Dopo  la  partenza  delle,  donne  dal  campo. 
Marcio,  soli’ alba  levalo  F esercito,  lo  ritirò,  viaggiando 
come  sa  terre  amiche.  Giunto  a’- campi  de’Voisci , di- 
spensò', non  riservandone  punto  ,per  sé,  tutta  |a  preda 
a’  soldati , e li  dln^'sé , ognuno  verso  la  sqa  casa.  La 
milizia,  già  compagna  .di  lui  ne’  cimenti,  congedata  ca- 
rica -d>  ricchezze , noh  ricéVò  con  dispiacere  la  iùtérro* 
zvon  della  guerra , e^  favorendo  il  valentuomo , escu- 
savàlo  se  non  la  dltlmava,  mosso  daUe  prègbieve  e dalla 
compassion  della  madre.  Ma  la  gioveUtù  rimaka  nelle 
città,,  tocca  da  invidia  per.  le  grandi  prede  fatte  dalFe» 
scrci'to,  e’  delusa  delle  speranze  che  aveva,  se  prendei»^ 
dosi  Roma  ne  era  Oaccàto  l’orgoglio;  ne  fremette , e 
fi  esulcerò  contrd'del  capitano.  £ finalmente  assunti,  per 
ca|)i  della  scellcrsgginc  uomini-  .potentissimi  tra  quelle 


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DELLE  A^ITICHITA’  BOMANE 
genti , imbarbarì  , e commise  nn  indégnissimo  fatto.  Isti- 
gavala  aoprattattO  Azzio  Tulio  circondato  da  non  pochi 
di  ogni  città.  Costui  non  polendo  più  la  invidia  sua 
contro ‘Marcio*;  aveva  già  da  uii  tempo  risolato  di  uc- 
ciderlo occultamente  e frt^dolentemeote , se  quel  duce 
xiuscendo  ne’  disegni e 6accando  Roma  tort^Va  - dal 
sottometterla  ai  Volsci  , o di  darlo  manifestamente  ai 
suoi  partigiani  ^d  ucciderlo  come  traditore,  se  falliva 
nella  impresa , è tornavane  senza  l’ intento.  Ora  ciò  fece 
appunto.  Imperocché ' convocando  gente  non  poca;  le 
accusò  quel  .valentuomo  argomentando  dal  vero  il  falso, 
e conghietturando  dalle  cose  già' state,  quelle -che  non 
sarebbero  mai  t poi  comandò  che  deponesse  il  comando, 
e desse  conto  del  suo  capitanato.  Once  costui  delle 
truppe  rimaste  nelle  città , come  ho  detto  di  sopra,  ‘era 
l’arbitro  di  raccogliere  le  adunanze,  e di  chiaipare  chi 
voleva  in  giudizio.  ' ' ■ [ . ' . ■ • ‘ 

' LYilI.  Marcio  giudicava  non*  dover  contrapporsi  a 
ninna  delle  dué  intimazio.ni  ; solamente  discordava  nel 
metodo  di  soddisfarvi  ; 'credendo  che  égli  dovesse  prima 
dar  conto  de’  fatti  della  ' guerra , e pqi  deporre , se 
così  paresse  a tutti  i 'Volséi , il  comando.  Affermava 
che  non  dovesse  di  tanto  esser  arbitra  una  sola  città 
corrotta  in  gran,  parte 'da  Tulio;  ma  tutta  la  nazione, 
raccolta  in  comizj  legittimi , ove  fossero  spediti  deputati 
da  'ogni  . città,  come  portava  il  'costucrie,  quando  aveansi 
a discutere  i grandi  jeffari.  Opponevasi  a ciò  Tulio,' ben 
vedendo  cbe  se  Marcio , ahroòde  parlatore , facciasi  tra 
la  pompa  di  capitano  a dar  conto  delle 'tante  e belle 
sue  gesta  trionferebbe^ della  moltitudine  ; c non' cbe  su- 


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• LIBRO  VITI.  ■ 77 

hire  le  pene  • de’ traditori , ne  diverrebbe  più  onorato  e 
)>iù  grande.  Impe^occbé  ’ sarebbero  per  concedergli  tutti 
che  solo  finisse  a piacer  suo  la  guerra  , ed  arbitro  re» 
stereljbe  di  ogni  cosa.  Adunque  per  molto  tetnpo  se  no 
suscitarono  ogni  giorno  dicerie  vicendevoli , e reclami 
in  Senato,  éd  altercazioni  vive  nel  Foro  ; uou  essendo 
lecito  a niun  di  essi 'far  violenza  all’ altro  , garautito 
dalla  dignità  pari  della  magistratura,.  Or  poiché  non 
dovasi  fine,  alla  disputa  ; Tulio  comandò  a Marcio  di 
venire  in  dato  giorno  a deporre  il  suo  gradò,  e sotto- 
mettersi ai  proressi  di  tradimento,  E sollevati  eon  lu- 
singhe' di  benefizi  > uomini  audacissimi , e messili  per 
capi  della  scellcraggiuc  indegna;  si  portò  nel  Foro  de- 
stinato. 'Asceso  ' nel  tribunale  accusò  Marcio  con  tòòlte 
incolpazioni  ; ed  istigò  la  moltitudine  a'  degradarlo  a 
fo4'za , se  spontaneo  non  lasciava  il  comando. 

' LIX,  Accese  Marcio  anch’  esso  per;,  far  le  difese  ; ma 
ì grandi  clamori  de’ seguaci  di  Tulio  gli  tolsero  di  par- 
lare. Dopo  ciò  gridandosi:  {ira , ferisci , lo  efreonJa- ' 
rouo , e con  .nembo  di  sassi  lo,  uccisero  uomini  inso-, 
lentissimi.  Ed  essendo  lui  strascinato  Foro  , quelli 
che  erano  presenti  allo  spettacolo,  e quelli  che  Vi  so- 
pravvennero dopo  eh’  egli  erst  spirato  , deplorarono  il 
valeniaoiiio  ; perchè'  non  degna  avea  da  loro  la  ricatu- 
pensa.  E Hdiceano  quanto  bene  avea  fatto  al  comune, 
e r arresto' .voleanO  degli  uccisoci,  perchè  dato.aveano 
esempio  di  opèra.  ingiusta,  e lesiva  delle  '.città,  spe- 
gnendo senz’iimmelterne  le  difese  violentemente  un  di 
loro , c questo , , comaudante.  Ne  fremeauo  soprattutto 
i compagni  di  lui  uclle  spedizioni.  E poiché  non  erano 


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^8  DELLE  Antichità’  romane 

stati  da  tanto  d’ impedirne  i mali-  mentre  viveva  ; delU 
berarono  riconoscerlo  de’benefizj,  almeno  dopo  la  mor- 
te; recando  al  Foro  quanto  alla  deliha  onorificenza  ri- 
cluedesT  de’'valentoomini.  Quando  lutto  fu  pronto  > col- 
locarono lui  con  veste  di  capitano, su  letto  vaghissima- 
mente ornato  : poi  facendo  precedere  quelli  che  reca- 
vano le  prede,  le  spoglie,  le  cotone,  le  immagini  delle 
citli  prese  da  lui  ; ne  sollevarono  il  feretro  i giovani 
più  segnalati  fra  le  armi.  Lo  portarono  al  sobborgo  più 
ragguardevole  , accompagnandone  il  cadavere  i 'cittadini 
tutti  con  gemiti  e la^inDe<:  e lo  sovrapposero  al  rogo 
gijt  preparalo.  Immolarono  poscia  le  vittime,  e misero 
al  ro^'  le  primizie,  quante  'in  morte  se  ne  mttuono 
de’  monarchi  e de’ comandanti.  Li  piu  affettuosi  ycrso 
del  valeutoomo  si  rimasero  colà  fioche  la  fiamma  fu 
consumata.  Raccoltene  allora  le  reliijuie  le  seppellirono 
appunto  in  quel  • luogo  , ergendovi  sopra  coll’  opera,  di 
molti  un  alto  é cospicuo  monumento. 

LX.  QuesU  fine  ebbe  Marcio  r >.  uomo  il.  più  grande 
di  tutti  'al  suo  tgmpo'  nelle  armi.  Continente  da  lutti  i 
pacetri  che  traspòrUmo  i giovani  , seguiva 'la  giustizia 
ifon  involontario  per  le  leggi  che  forzano  col  timore 
de’ supplizi',  ma  spontaneo,  come  per  inclinazione  d’in- 
dole bennata.  Non  tenea  per  virtù  non  offendere  ; e 
bramava  non  solo  di  esser  puro  egli  stestd  da  ogni 
malfare,  ma  credea  giusto  di  astringervi -anche  gli '^allri. 
Magnanimo' , liberale , intentissimo  a soccorrere  quando 
cpnoscevalo , il  bisogno  degli  amici , npn  era  inferiore 
a ninno  de’  patrizj  nel  roaneggio.del-  pnbblico.  C se  fa 
sedizione  della  città  non  lo  avesse  impedito  da'  pubblici 


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LIBRO  Vili. 

•(Tari , forse'  Roma  preso  avrebbe  da'  regolamenti  suoi 
grande  aògumeolo  d’iiQpero.  Ma'già.  non  può  farsi  cbe 
tuKe  le  virtù  si  uniscanó  nella  natura  di  un  nomò  ; nè 
da  seme  mortala  e caduco  sorgerà  mai  niutlo  per  ogni 
parte  peidetto. 

LXI.  Il  ‘destino  che  ' propizio  area  sparso  in  esso  i 
germi  di  tali  virtù«^  vé  ne  mise  alfiri  ancora  di  sciagure 
e dì  mali.  Non  era  dolcezza  nè  illarità  ne’ suoi  modi, 
non  degnevolezza  ne*  salmi  e ne’  colloqui , ..  non'  facilità 
di  placarsi , non  moderazione  nell’  ira  se  contro  alcnno 
la  concepisse , grazia  in6ne,  quella  «die  adorna  tmte 
le  nmane  cose.  ¥élnto  lo  avresti  sempre  difficile,  e 
sempre  acerbo,  f^ocquero  a lui  mólto  tali  maniere,  e 
soprattutto  la  severità  sua  ^moderata,' incredibile,  e senza 
scintilla  mai  di  chnuenza  ne|)ar  custodia  dei  giusto  e delle 
leggi.  Ma  ben  sembra  vero  il  detto^d^  filosofi  antichi , 
che  le  virtù  specialmente  quelle  delia  giustizia , . sono 
moderàzioni , e non  estremità  de  costumi  : perocché 
sia  che  la  ginstizia  manchi  dal  mezzo  , sia  'che  lo  ec- 
ceda ; non  più  giova  i mortali , cagionando  talvolta  gran 
danni , e ridùcendo  a stragi  > miserande , ed  immedica- 
bili inali.  Nè  fu  cbe  la  troppo  sollecita  e troppo  austera 
esigenza  del  giusto  la  quale  ridusse  Marcio  fuori  della 
patria,  e senza  il  frutto  delle  altre  belle  sue  doti.  Po- 
tendo- piegarsi  per  atòunà  maniera  al  popolo,  e lasciare 
qualche  cosa  af  loro  desiderj  e divenire  il  primo  fra 
loro  ; non  volle  : ma  contrariandoli  in  qualunque  cosà  ' 
la  quale  ad  essi  non  si  dovea,  se  ne  concilò  l’ odio , c 
fu  cacciato  dalla -patria.  Potendo,  appena ^ sciolse  la 
guerra,  lasciare  il  comando  deifarmata,  e trasferire  al- 


& 

8o  ì)Et,LE  antichità’  ROMANE 

trove  la  sua  dirnora  , Gncbè  gli  fossi!  conceduto  il  ri« 
torno  alU  patria,  anzi 'che  esporre  ^ stesso  à nemici, 
ed  alle  stoltezze  della  moltitudine  ; ne  vide  la  necessità 
di ‘farlo  , e non  volle.  Ma  giudicando 'dovere  affidare 
sè  stesso  a chi  gli  aveva  affidata  T armata , .c  conto 
del  suo  capitanalo,  e se  irovavasi.  reo  di  co.sa  alcuna 
subirne  le  pene  secondo  le  leggi;  raccolse  amaro  U 
frano  di  tanta  giustizia.  • i 

LXII.  Pertanto  sé  col  disciogìiersi  de’  corpi  aiicUo 
l’anima,  qualunque' cosa  ella  sia,  si  discioglic,  né  punto 
ne  so^ravvanza;  io  non  vedo  come.- chiamare  beati 
quelli  elle  non  goderono  della  loro  virtù  niun  frutto, 
anzi  pci*^  essa  perirono.  M.i  se  le  anime  nostre  ’Soprav-* 
vivono  Immortali  affatto  come  pensano  alcuni  ;'0  qùal- 
ebe  tempo  almeno  dopo  la  .-partenza'  loro  dal  corpo,  il 
più  lungo  quelle  do’,  buon;  , ed  .il  più  breye  quelle  dei 
malvagi  (it;  certo  parrà  beq  grande  ai.  virtuosi  l’ onore 
che  li  seguita,  loipérocclié  sebbene  la  fortuo»' stasi  loro 
contrapposta;  avranno  buona  fama  e langbissima  la  ri« 
cordanza  tra’ vi vanti,  come  appunto  ' accadde  a questo 
uomo.  Perocché  non  solaincute  ’mofto  io  piansero  e Io 
onorarono,  i Yolsci  come  virtuosissimo;  ma  li  Romaui , 
conosciutone  appena  il  caso , riputandolo  sciagura  altis- 
sima di  Roma , ne  fecero  pnvalo  e pultbJ/co  lutto.  Le 
donne  come  usano  in  morie  dei  domestici  loro  amaiis- 
s.ifni , lasciarono  da  un  canto  l’ oro , la  porpora  , ei 

• V . 

(i)  [1  Vossio  nel  lil>*  i ^ de  IJoloturia  dctltice  d»  f|iicslo  passo 
ch^  Diouigi  crcdctle  che  le  auhne  esùtono  J«pu  !a  tnofie  del  colpo 
ma  solo  -per  un  tempo  limitalo  ; e per  ciò  lo  ridice  nella  classe  dt 
(|iicl!i  che  pensavano  quaulu  alla  durazioue  delle  anime  come  gU  Stoici» 

\ 


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LIBRO  Vili.  8 I 

<^ni  altro  ornamento , e copertesi  di  negre  vesti , me- 
narono lutto  per  un  anno.  E volgendo  ornai  l’ anno 
rinquecentesimo  da  quell’  infortunio  non  è caduta  an- 
cora la  memoria  di  colui , ma  si  festeggia  e si  celebra 
come  quella  di  un  nomo  giusto  e pietoso.  Tal  fine  ebbe 
il  pericolo  che  minacciava  i Romani  dalla  parte  dei 
Volsci  e degli  Equi  sotto  gli  auspicj  di  Marcio,  peri- 
colo il  più  grande  di  tutti  i precedenti,  e che  per  poco 
non  mandò  sossopra  Roma  dai  fondamenti. 

LXIII.  Pochi  giorni  appresso  i Romani  uscirono  al- 
r aperto  con  molta  milizia  guidata  dai  due  consoli , e 
proceduti  fino  ai  confini  misero  il  campo  su  due  colli , 
assicurando  ciascuno  de’ consoli  il  suo  so  luoghi  muni- 
lissimi  (i).  Tornarono  però  senza  fare  nulla  di  grande, 
quantunque  i nemici  ne  dessero  loro  belle  occasioni. 
Perciocché  li  Vosci  i primi  e gli  Equi  condussero  l’e- 
sercito sul  territorio  Romano,  risoluti  di  non  lasciare  la 
occasione  , e di  piombar  su’  nemici  mentre  sembravano 
ancora  oppressi  dalla  paura,  quasi  fossero  per  sottomet- 
tersi volontarj.  Ma  nata  disputa  quale  dei  due  popoli 
dovesse  presedere  nella  spedizione;  impugnarono  le  ar- 
mi, e si  attaccarono  e conil>atterono  fra  loro  senza  re- 
gola, senza  comando,  misti  e confusi:  tanto  che  grande 
ne  fu  la  strage  in  ambe  le  parti  ; e forse  totale  ne  sa- 
rebbe stata  la  rovina , se  il  sole  non  tramontava.  Ma 
cedendo  , loro  malgrado , alla  notte , che  inipedivali  di 
contendere  , separaronsi , ed  alloggiaronsi  ciascuno  nel 

(i)  Aa.  di  Ruma  aGG  secondu  Catoue,  aGS  secoudu  V'arrooe , e 
48G  8T.  Cristo. 

DJONICI  . tomo  Iti.  fi 


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8a  DELLE  antichità’  ROMANE 

proprio  campo.  La  maltina  i duci  lerando  le  truppe  si 
ricondussero  alle  loro  case.  Udirono  i consoli  dai  diser.- 
tori  e da  altri  divenuti  prigionieri  col  fuggire  dalla  bat- 
taglia , qual  furia  e quale  flagello  divino  fosse  nell’eser- 
cito; non  però  colsero  la  occasione  tanto  a proposito 
per  essi  non  lontani  più  di  trenta  stadi,  nè  gl’  incalza- 
rono nella  ritirata  : nel  qual  tempo  se  essi  freschi , in 
buon  ordine , avessero  perseguitato  gli  emoli  stanchi , 
feriti,  confusi,  e già  pochi  di  molti,  di  leggieri  gli 
avrebbero  totalmente  distmtu.  Sciogliendo  aneli’  essi  il 
campo,  tornarono  in  patria  sia  che  fossero  paghi  del 
bene  dato  loro  dalla  fortuna , sia  che  non  fidassero  su 
r annata  loro  non  disciplinata , sia  che  assai  valutassero 
il  perdere  anche  pochi  soldati.  Ma  giunti  in  città  vi 
furono  vituperati , riportandovi  fama  di  pusillanimi  per 
tale  condotta.  Mè  facendo  altra  spedizione , rassegnarono 
il  poter  loro  a’  consoli  susseguenti. 

LXIV.  Presero  l’ anno  appresso  il  consolato  Cajo 
i^quilio  e Tito  Siccio  , uomini  periti  di  guerra  (i).  E 
facendo  questi  proposizioni  di  guerra;  il  Senato  decretò 
che  si  spedisse  un’  ambasceria  per  chiedere  soddisfazione 
secondo  le  leggi  dagli  Ernici,  popolo  amico  e confede- 
rato, il  quale  aveva  offesa  Roma  nel  tempo  della  guerra 
de’  Volsci  e degli  Equi  con  prede  e scorrerie  su  le 
terre  contigue  : e decretò  che  intanto  che  ne  avessero 
la  risposta  i consoli  iscrivessero  milizie  quante  ne  pote- 
vano , convocassero  con  messaggi  gli  alleati  , ed  appa- 
recchiassero sollecitamente  col  mezzo  di  molti  ministri 

(■)  Ao.  di  Roma  a07  secondo  Catone,  369  secondo  Varrooe, 
e 485  av.  Cristo. 


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LiDno  vili.  83 

armi  , grano , (lanari , e quanto  è necessario  ()cr  la 
guerra.  Tornali , cspcKero  gli  ambasciadori  le  risposte 
degli  Ernia,  i quali  diceano  non  esservi  pubbliche  con- 
venzioni tra  loro  e tra’  Romani  , e che  pensavano  già 
sciolte  quelle  che  vi  furono  tra  loro  e tra  Tarquinio  , 
come  detronizzato  , e morto  in  terra  straniera  : che  le 
prede  e le  incursioni  non  furono  ingiustizie  del  pub- 
blico, ma  di  privati  intesi  al  guadagno:  e che  non  do- 
veano  però  nemmeno  gii  autori  di  quelle  consegnarsi  al 
supplizio:  e lamentandosi  che  avessero  anche  gli  Eroici 
patito  altrettanto  ; signiQcavano  che  volentieri  accette- 
rebbero la  guerra.  Il  Senato , ciò  udendo , decretò  che 
si  dividessero  in  tre  parti  le  nuove  reclute  descritte:  che 
il  console  Cajo  Aquilio  marciasse  coll’  una  sugli  Eruict 
già  in  arme  aneli’ essi:  che  Tito  Siccio,  l’altro  console, 
ne  andasse  coll’ altra  su  i Volsci  : che  Spurio  Largio  , 
nominato  da’  consoli  comandante  della  città  , prend<»se 
la  terza  parte,  e guardasse  le  vicinanze  di  Roma:  die 
tutti  gii  altri  esenti  già  da’  registri  militari  , ma  buoni 
ancora  a portare  le  armi , si  ordinassero  sotto  le  ban- 
diere , e presidiassero  i luoghi  foni  e le  mura  di  Ro- 
ma , onde  non  succedessevi  assalto  improvviso  di  ne- 
mici, standosi  in  campo  tanta  gioventù:  fìnalmente  che 
fosse  duce  di  questa  milizia  Aulo  Sempronio  Atratino, 
uomo  consolare.  E tutte  queste  cose  furono  adempiute , 
nè  già  tra  molto  tempo. 

LXV.  Aquilio  l’uno  de’ consoli  trovando  l’esercito 
degli  Eruici  che  lo  aspettava  nel  suolo  Prenestino  , si 
accampò  dirimpetto  di  essi,  quanto  piu  pov  da  vicino, 
in  distanza  di  stadj  dugento  in  circa  da  Roma.  Nel 


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84  DELLE  ANTICHITÀ.’  ROMANE 

terzo  giorno  da  che  si  era  accampato  uscendo  gli  Er- 
nie! in  oHinanza  dagli  alloggiamenti  all’aperto,  e dando 
i segni  della  battaglia;  anch’egli  cavò  le  milizie  a schiera 
a schiera,,  e con  ordine  contro  di  essi.  Approssimatisi 
alzarono  il  grido  della  battaglia , e corsero  e pugna- 
rono prima  i soldati  leggieri  col  trar  degli  archi  e delle 
fìonde , restandone  molli  feriti  in  ambe  le  parti , e poi 
li  cavalieri  piombarono  a sc^uadroni  su’  cavalieri , e com- 
batterono fanti  con  fanti  per  coorti.  Era  1’  azione  vivis- 
sima , sostenendola  gli  uni  e gli  altri  con  ardore  ; e 
gran  tempo  si  restarono  nel  luogo  dove  si  erano  schie- 
rati senza  che  gli  uni  cedessero  agli  altri.  Se  non  che 
cominciò  poi  la  legione  Romana  ad  abbandonarsi  come 
astretta  , allora  dopo  molto  tempo,  a combattere.  Aqui- 
lio  ciò  vedendo  comandò  che  fresche  milizie , a ciò  ri- 
servate , sottentrassero  ove  la  legione  pericolava  , e che 
i feriti  e spossati  si  ritirassero  dietro  di  essa.  Gii  Ernie! 
osservando  un  tal  moto  ne’  Romani  io  crederono  un 
principio  di  fuga  : ed  animandosene  a vicenda  scaglia- 
ronsi  con  schiere  dense  alla  parte  che  vacillava  dei 
nemici.  Li  riceverono  i Romani  freschi  delle  riserve,  e 
ritornò  forte,  come  in  principio  la  battaglia,  accaloran- 
dovisi  animosamente  ambedue  j tanto  più  che  gii  Ernie! 
ancora  erano  rintegrati  da’  capitani  con  schiere  fresche 
da  supplire  le  affaticate.  Era  il  giorno  ornai  verso  la 
sera  quando  il  console  eccitando  i cavalieri  a portarsi 
appunto  allora  da  valentuomini,  ne  prende  il  comando 
egli  stesso,  e gli  avventa  contro  l’ala  destra  de’ nemici. 
Questi  tengono  fronte  alcun  tempo , ma  poi  piegano  ; 
e grande  si  fa  quivi  la  strage.  Pertanto  il  corno  destro 


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LIBRO  Vili.  85 

dclli  Eraici  abbandonasi,  e lascia  la  battaglia.  Oppone- 
vasi  il  sinistro  ancora  e pressava  il  corno  destro  de’  Ro« 
mani:  ma  tra  poco  cedette  anch'esso;  perocché  Aquiiio 
accorse  ancor  ivi  col  fiore  de’ giovani  aniniandoveli  ed 
eccitandoveli  a nome , essi  già  soliti  a segnalarsi  ne’  con» 
flitii.  E dove  le  coorti  non  pareano  combattere  con  ar- 
dore egli  levando  agli  alfieri  i vessilli , gittavali  in  mezzo 
al  nemico , perchè  la  paura , se  non  li  salvavano,  della 
pena  della  legge , le  necessitasse  al  coraggio.  Egli  assi- 
stè sempre  dovunque  la  parte  sua  pericolava  finché  cac- 
ciò di  posto  anche  1’  altro  corno.  Scoperti  i fianchi  ; 
nemmeno  il  centro  più  resse.  Gittarousi  allora  gli  Er- 
nie! a fuga  turbata  e disordinata  verso  gli  alloggiamenti. 
GF  inseguirono  i Romani  uccidendo  ; e tanto  per  tale 
conflitto  si  accesero,  che  alcuni  tentarono  infino  di 
ascendere  il  vailo  nemico  quasi  per  espugnarlo  a primo 
impeto  : ma  il  console  vistone  l’ impegno  né  sicuro  nè 
utile , e fatta  intimare,  la  ritirata  , staccò  gli  assalitori 
sebbene  involontarj  dalle-  trincee  ; temendo  che  se  fos- 
sero investiti  di  sopra  dovessero  alfine  levarsene  con  in- 
famia e danno  grande,  e perdervi  la  gloria  della  vitto- 
ria già  riportata.  Allora  dunque  i Romani,  essendo  già 
il  sole  per  tramontare , tornarono  esultando  e cantando 
agli  alloggiamenti. 

LXVl.  Si  udì  nella  notte  seguente  dal  campo  degli 
Eroici  strepito  grande  e voci,  vedendovisi  insieme  assai 
lumi.  Disperando  essi  di  resistere  tra  nuova  battaglia 
aveano  risoluto  di  ri  tirarsene  anche  senza  comando  ; e 
questa  era  la  causa  del  clamore  e disordine.  Tutti , se- 
condo che  aveano  potere  e velocità,  fuggivano,  chia- 


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86  DELLE  ATCTICIIITA’  HOMANE 

mando  e chiamati  senza  attendere  punto  i pianti  c le 
suppliche  di  quelli  che  abbandonavano  per  le  ferite  e 
pc’  morbi.  I Romani  ignari  di  ciò , sentito  avendo  innanzi 
da’  prigionieri  che  verrebbe  un  altro  corpo  a soccorrere 
gii  Eroici,  e pensando  eccitate  le  voci  e io  strepito  ap- 
punto dall’  arrivo  di  esso , diedero  di  piglio  alle  arme  ; 
e cingendo  gli  alloggiamenti  perché  tra  la  notte  non  se 
ne  tentasse  I’  assalto , ora  destavano  fragore  arme,  ed 
ora  come  si  attaccassero  , alzavano  il  grido  cupo  della 
battaglia.  Ciò  raddoppiava  il  terrore  negli  Eroici,  e 
qnasi  fossero  insegnili  da’nemici , correano  sparsi  chi 
per  una  e chi  per  altra  via.  Sorta  l’alba , quando  i ca- 
valieri spediti  ad  esplorare  annnnziarouo,  che  non  solo  non 
era  giorno  sussidio  alcuno  agli  avversar) , che  anzi  quelli 
stessi  che  aveano  combattuto  nel  giorno  antecedente  fug- 
givano ; Aquilio  cavò  l’armata  ed  inva%  gli  alloggiamenti 
nemici , pieni  di  giumenti , di  vettovaglie  e di  arme;  im- 
padronendosi insieme  de’  feriti  , numerosi  nemmeno  dei 
fuggitivi.  Quindi  spedendo  la  cavalleria  su  quelli  eh’  er^ 
ravano  sbandali  per  le  strade  e per  le  selve  , fecene  molti 
prigionieri  : e poi  scorse  depredando  impunemente  le 
terre  degli  Ernici , senza  che  alcuno  osasse  più  di  con- 
trapporsegli.  Or  ciò  é quanto  fu  operato  da  Aquilio. 

LXVII.  Tito  Siedo  l’altro  console  spedito  contro  dei 
Volsci  scaricò  sul  territorio  Ycliterno  la  parte  più  po- 
derosa dell’  esercito  ; perchè  ivi  si  stava  con  fiorentissime 
schiere  Azzio  Tulio  il  duce  de’Volsci  deliberato , come 
fe’ Marcio  quando  ruppe  la  guerra  , d’ infesure  prima  le 
terre  degli  alleati  de’ Romani , sul  concetto  che  sentissero 
anche  in  Roma  l’istessa  paura  , nè  fossero  per  mandare 


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LIBRO  Vili. 


87 


alcun  soccorso  a chi  pericolava  per  essi.  Apparse , e ve- 
dutesi ; attaccaronsi  le  armate  immantioente.  Era  il  luogo 
ÌDtermedio  agli  eserciti,  ov 'essere  dovea  la  battaglia,  elevato, 
sassoso , e dirotto  in  più  parti  ; tanto  che  niente  varreb- 
bevi  la  cavalleria  dell’  uno  o dell'  altro.  Or  ciò  vedendo 
i cavalieri  Romani  e credendosi  vituperevoli  se  presenti 
alla  zuffa  nulla  vi  conferissero,  andatine  in  buon  nu- 
mero al  console  , chiesero , se  bene  glie  ne  parea , che 
si  concedesse  loro  di  scendere  da'  cavalli , e combattere  a 
piede  : ed  il  console , lodatili  ampiamente,  fe'  che  smon- 
tassero e stessero  schierati  con  esso  per  esplorare  , e soc- 
correre quelli  che  pericolavano.  E questi  Romani  furono 
la  cagione  della  vittoria  tanto  luminosa  che  si  riportò. 
Perocché  la  fanterìa  dell’uno  e dell'altro  somigliava  mol- 
tissimo per  numero,  per  arme , per  ordinanza , e peri- 
zi a di  uomini  nel  combattere,  avanzandosi  o ritirandosi, 
feren  do  o difendendosi  ; per  esSore  i Volsci , quando 
ebbero  Marcio  per  capitano , passati  dalle  arti  proprie 
di  guerra  a quelle  de’  Romani.  Per  tanto  le  due  solda- 
tesche rimasero  gran  tratto  della  giornata  senza  vincersi, 
quantunque  il  luogo  ineguale  offeriva  per  sua  natura 
molte  opportunità  per  le  quali  gli  uni  prevalessero  agli 
altri.  Quando  i cavalieri  Romani  bipartendosi  gli  uni  pre- 
sero a fianco  i nemici  dal  corno  destro , e gli  altri  alle 
spalle  col  girarsi  intorno  del  colle.  Allora  chi  scagliò 
lance  su’  nemici  uniti , chi  colle  spade  equestri  assai 
lunghe  li  feri  nelle  braccia  e ne’  cubili , troncando  a 
molti  le  mani  cinte  delle  arme  stesse  di  resistenza  o di- 
fesa, e chi  molti,  fermissimi  ne’ loro  posti,  ne  rovesciò 
semivivi  con  colpi  profondi  ne’ ginocchj  e ne’ piedi. 


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88  DKU.n  atsticotta’  romane 

Suprastava  d’ ogn’ intorno  il  pericolo  su’ Volaci;  peroc- 
ché s’aveano  li  pedoni  di  fronte , e li  cavalieri  a’  fianchi 
ed  a tergo.  Ben  presero  cuore  sopra  le  forze , e die- 
dero molte  prove  di  sperienza  e di  ardire;  nondimeno 
nell’ala  destra  quasi  tulli  furono  trucidati.  Quei  del  cen- 
tro e deli’ altr’ ala  vedendo  il  destro  corno  già  rotto,  c 
vem’re  al  modo  stesso  i cavalieri  Romani  su  loro  , riti- 
raronsi  poco  a poco  in  larghe  fila  verso  gli  alloggia- 
menti. Ma  seguendoli  i cavalieri  Romani , e giugnendo 
alle  trincere  ; sorse  un’  altra  battaglia  ardente  e varia  , 
perocché  tentavano  questi  di  ascendere  in  più  parti  ^li 
steccati.  Ora  essendone  i Roitiani  in  travaglio  , il  con- 
sole comanda  ai  fanti  che  portino  materie  ed  empian  le 
fosse , ed  egli  s’  avanzò , dov’  erane  il  passo , con  i ca- 
valieri più  gravi  fino  alle  porte  degli  alloggiamenti , le 
quali  erano  munitissime.  E respinti  quelli  che  gli  com- 
battevano a fronte , e spezzati  i ripari  delle  porte  ; eb- 
trò  la  trincierà  e vi  ricevette  i iànii  suoi  che  lo  segui- 
tavano. Lo  attaccò  co’  Volsci  più  robusti  e più  arditi 
Azzio  Tulio , e fece  assai  cose  magnanime , benissimo 
combattitore  ch’egli  era,  quantunque  non  idoneo  al  co- 
mando , ma  in  fine  vinto  dalla  stanchezza  e dalle  fe- 
rite, mori.  Gli  altri  Volsci,  espugnatone  il  campo,  o 
resisterono  e perirono  ; o gittarono  le  armi , e ricorsero 
alla  pietà  del  vincitore  ; giacché  pochi  soltanto  si  erano 
salvati  fuggendo  alle  case.  Giunta  in  Roma  la  nuova 
pe'  niessaggieri  spediti  da’  consoli  inondò  gioja  vivissima 
il  popolo,  e ben  tosto  decretò  sagrifizj  di  ringraziamento 
agl’ Iddii , c la  gloria  del  .trionfo  ai  consoli;  non  già 
eguale  per  ambedue  , ma  la  più  grande  a Siedo,  il 


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LIBRO  Vili.  89 

quale  sembrava  di  aver  liberato  la  città  da  pericolo  mag- 
giore , annientando  l’ esercito  insolente  dei  Volsd  , ed 
uccidendone  il  comandante.  Adunque  entrò  costui  la 
città  con  le  prede,  co’  prigionieri , colle  milizie'  compa- 
gne , cinto  di  regia  clamide , com*  usa  ne’  trionfi  più 
insigni , e sedato  su  carro  tirato  da*  cavalli  adorni  di 
freni  di  oro.  Aqnilio  ebbe  il  trionfo  minore  cbe  chia- 
masi ovazione',  ed  io  ho  già  di  sopra  dichiarata  la  di& 
ferenza  tra  questa  ed  il  trionfo  maggiore  (1).  Egli  en- 
trò a piedi  la  città  'conducendo  il  resto  della  sua  pompa. 
E cosi  finì  questo  anno. 

LXYIII.  Succederono  dopo  loro  al  consolato  (st)  Pu- 
blio Verginio  e Spurio  Cassio  che  per  la  terza  volta  fu 
console.  Or  pigliando  essi  il  comando  militare  e politico 
uscirono  in  campo:  Verginio  contro  le  città  degli  Equi 
e Cassio  contro  quelle  de’  Volsci  e degli  Eroici , dopo 
decise  le  spedizioni  colla  sorte.  Gli  Equi , fortificate  le 
città,  e ritirato  tutto  il  più  prezioso  dalle  campagne,  tra- 
scuravano che  loro  si  devastasse  il  territorio  e vi  dessero 
i casolari  alle  fiamme.  Dond’  è che  a suo  grandissimo, 
agio  Verginio  lo  percorse  e lo  danneggiò,  nè  compa- 
rendo alcuno  a combattere  ne  ritirò  1’  esercito.  Gli  Er- 
nie! e i Volsci  contro  i quali  avea  marciato  Cassio,  di- 
segnando ancor  essi  di  non  curare  il  guasto  delle  cam- 
pagne, eransi  rifuggiti  nelle  città.  Non  persisterono  però 
ne’  disegni  : perocché  vinti  dalla  compassione  al  mano- 
mettersi delle  terre  loro  bonissime,  le  quali  non  cosi  di 

(i)  Vedi  lib.  qnÌDto  J 4?* 

(7)  Anni  di  Roma  a68  secondo  Catone,  l’jo  secondo  Varrone,  c 
484  avanti  Cristo. 


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go  DFXLE  antichità’  romane 

leggeri  speravano  di  rivendicare,  nè  fidando  abbastanza 
a'  luoghi  forti  nei  quali  si  erano  ricoverati  ; spedirono 
ambasciadori  per  supplicare  il  consolo  della  pace.  Fe> 
cero  ciò  primi  li  Volsci  ; e ben  tosto  la  ottennero  ; 
dando  l' argento  multato  dal  console , e somministrando 
quani’  altro  bisognava  all’  esercito  ; dopo  avere  promesso 
che  sarebbero  ì sudditi  de’  Romani,  né  più  da  tali  ao> 
cordi  si  leverebbono.  In  ultimo  gli  Eroici  vedutisi  rima- 
sti soli , trattarono  coi  console  di  amicizia  e di  pace. 
Ma  Cassio  assai  richiamandosi  di  essi  con  gli  ambascia- 
dori  , disse  , che  prima  doyeano  far  quanto  conviene 
ai  vinti  ed  ai  sudditi,  e poi  discorrer  di  pace;  e 
soggiungendo  gli  ambasciadori  che  lo  farehhono  se 
moderata  e possibile  ne  fosse  la  esecuzione , co- 
mandò loro  che  gli  portassero  in  grasce  i viveri  di  un 
mese,  ed  in  argento  la  somma  onde  stipeudiarue  t sol- 
dati secondo  il  solito  per  sei  mesi:  e definendo  un  nu- 
mero di  giorni  entro  cui  potessero  tutto  apprestatali  ; 
concedette  intanto  ad  essi  una  tregua.  Presentarono  gli 
Ernici  ogni  cosa  con  prestezza  ed  impegno,  e spedirono 
di  bel  nuovo  i parlamentar]  di  pace.  Li  lodò  Cassio  c 
li  rimise  al  Senato.  Ne  deliberarono  i padri  a lungo;  e 
piacque  loro  che  si  ammettessero  questi  all’ amicizia,  c 
Cassio  il  console  esaminasse  , e decidesse  le  condizioni 
de’  trattati  da  conchiudersi.  Approverebbero  i padri  cioo- 
ch’  egli  ne  stabiliva. 

LXIX.  Prescritto  ciò  dal  Senato;  Cassio  tornando  in 
città  chiedeva  un  secondo  trionfo  per  aver  sottomesso 
i popoli  più  riguardevoli  : ant>gavasi  però  quest’  onore 
per  le  aderenze , piuttosto  che  di  giustizia  lo  ricevesse. 


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LIBRO  Vili.  91 

tinperocchc  non  avendo  nè  prese  città  per  assalto,  nè 
disfatti  eserciti  in  campo  aperto  ; non  potca  menar  seco 
in  spettacolo  i prigionieri  e le  spoglie  che  sono  gli  or- 
namenti dei  trionfi.  Ma  lo  amare  il  piacer  suo  ; non  le 
risoluzioni  simili  a quelle  degli  altri , gli  concitò  subi- 
tissima invidia.  Impetrato  il  trionfo  pubblicò  la  concor- 
dia , com’  aveala  firmala  con  gli  Eroici.  Erano  le  con- 
dizioni trascritte  da  quella  conchiusa  già  co’  Latini. 
Dicchè  mollo  si  dolsero  i più  provetti  ed  autorevoli , e 
tennero  lui  per  sospetto , sdegnati  che  gli  Eroici , estra- 
neo popolo , fossero  pareggiati  di  onore  ai  Latini  loro 
congiunti  ; e quelli  che  dato  non  aveano  neppur  minimo 
segno  di  benevolenza  partecipassero  le  cortesi  retribu- 
zioni di  chi  tanti  dati  ne  avea.  Soffrivano  ancora  di 
mal'  animo  la  superbia  di  quest’  uomo , perché  onorato 
dal  Senato  non  aveali  a vicenda  onorati , fissando  e 
pultblicando  i patti  come  glie  ne  parve  ; non  di  concerto 
comune  coi  padri.  Così  la  troppa  felicità  nuoce , non 
giova  ; divenendo  insensiòilmente  per  molli  cagione  di 
orgoglio  incredibile,  e stimolo  di  desiderj  superiori 
alla  natura;  come  avvenne  a costui.  Condecorato  al- 
lora dalla  città  egli  solo  fra  tutti  con  tre  consolati  e due 
trionfi  ampliava  l’ onorificenza  sua , ambizioso  del  regio 
potere.  Considerando  però  che  la  via  più  sicura  per  chi 
ambisce  il  regno  e la  tirannide  è quella  di  guadagnare 
il  popolo  co’benefizj,  e di  costumarlo  ad  essere  alinien» 
tato  da  chi  dispensa  le  pubbliche  cose  ; a questa  si  ri- 
volse , e senza  manifestarsene  ad  alcuno.  E perocché  ci 
aveva  un  terreno  amplissimo  del  comune  ma  trascurato 
e goduto  da^  ricchi  ; deliberò  di  compartire  questo  tra’l 


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92  DELLE  Antichità’  romane 

popolo.  E se  contentato  si  fosse  di  procedere  fin  qui  ; 
forse  riuscito  sarebbe  ue’ disegni.  Ma  trasportatosi  a trop- 
po ; cagionò  sedizione  nou  picciola , e fine  sciaurato  a 
sestesso.  Imperocché  presunse  congiungere  alla  divisioa 
del  terreno  non  pure  i Latini  ; ma  gli  Ernici , ricevuti 
ultimamente  per  cittadini. 

LXX.  Tali  cose  ideando  a conciliarsi  quelle  nazioni, 
convocò  nel  glotoo  dopo  il  trionfo  il  popolo  a parla- 
mento. Quindi  asceso  in  tribuna  com’  è 1’  uso  de’  trion- 
fatori , prima  dié  conto  delle  opere  sue,  delle  quali  era 
la  sostanza  : che  fatto  console  Ut  prima  %>oUa  vinse  i 
Sabini,  e li  rendè  sudditi  a Roma  alla  quale  dispu- 
tavano il  comando  : che  fatto  console  per  la  seconda, 
racchetò  la  civil  sedizione , e restituì  la  plebe  alla  pa- 
tria : e ridusse  amici  e (compartecipi  della  cittadinanza 
di  Roma,  i Latini  che  erano  consanguinei,  ed  emoli 
eterni  delt  impero  e della  gloria  di  lei;  tantoché  non 
più  la  contrariarono , ma  riguardarono  Roma  come 
patria  loro.  Chiamato  la  terza  volta  al  consolato  ne- 
cessitò li  V ilsci  ad  essere  amici , di  nemici  che  erano, 
colle  armi,  e sottomise  spontanei  gli  Ernici,  popolo 
vicino,  grande,  potente,  ed  attissimo  a nuocer  molto, 
o giovare.  Eisponendo  queste  e simili  cose  chiedeva  al 
popolo  che  attendesse  a lui , provido  soprattutti  ora  e 
per  sempre  della  repubblica , e chiudendo  il  discorso 
disse  che  farebbe  e tra  non  molto  tali  e tante  benefi- 
cenze che  supererebbe  quanti  erano  encomiati  di  aver 
amato  e salvato  il  popolo.  Oisciolta  1'  adunanza  invitò 
nel  giorno  appresso  a raccogliersi  il  Senato  sospeso  e 
timoroso  pe’ delti  antecedenti  di  lui.  Prima  di  ogni  altra 


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LIBRO  Vili. 


93 


cosa  propose  un  tal  suo  sentimento  tenuto  occulto  alla 
plebe  , e chiese  ai  padri  che  giacché  questa  era  stata  si 
utile  per  la  libertà  dando  mano  a farli  dominare  su  gli 
altri , prendessero  cura  di  lei  e le  dispensassero  il  ter- 
reno , pubblico  in  sestesso  per  essere  acquistalo  colle 
armi , ma  goduto  in  fatti  senza  niun  dritto  da  patrizj 
impudentissimi  : e poi  chiese  che  si  rendesse  dal  pub<i^ 
blico  tesoro  a quelli  che  ne  avevano  éomperalo,  il  prezzo 
del  grano , che  spedito  da  Gelone  tiranno  di  Siracusa 
in  dono,  doveva  anche  in  dono  dispensarsi  tra’ cittadini. 

LXXI.  Fecesi , mentr  egli  parlava  ancora  , strepito 
grande,  odiando  e ripudiando  tutti  quel  discorso:  e poi 
che  tacque  ne  fecero  moltissime  accuse  come  se  richia- 
masse la  sedizione  , Verginio  il  collega  suo  nel  conso- 
lato , li  senatori  più  provetti  e venerandi , e più  che 
tutti  Appio  Claudio  ; continuando  molte  ore  ad  esaspe- 
rarsi ed  ingiuriarsi  veementissimamenie  fra  loro.  Ne' giorni 
dipoi  Cassio  tenne  concioni  consecutive,  e caltivavasi  il 
popolo,  e parlavagli  della  partizion  dei  terreni,  e molto 
accusava  presso  lui  chi  vi  si  opponeva.  Ma  Verginio 
adunandolo  ogni  giorno , apparecchiava  co’  voti  comuni 
del  Senato  guardie  ed  ostacoli  a forma  delle  leggi.  Avea 
ciascuno  gran  folla  che  seguivali  e difendeane  le  per- 
sone: era  con  Cassio  la  parte  indigente,  svergognata, 
audacissima  : ma  gl’  ingenui  e puri  teneansi  con  Vergi- 
uio  : dond’  è che  la  parte  men  buona  come  più  estesa 
di  numero  prevalse  talvolta  su  1’  altra  nelle  adunanze  : 
ma  poi  le  si  ridusse  eguale  ; accostandosi  i tribuni  al 
pantitu  migliore  ; sia  perchè  non  riputassero  spedicnte 
rendere  la  moltitudine  corrotta,  scioperala,  malvagia  con 


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c)4  DELLE  Antichità’  romane 

largiuoni  di  argento , o partizioni  di  pubblici  beni , sia 
per  invidia , giacché  un  altro  proponeva  la  beneficenza 
e non  essi , capi  del  popolo,  sia  per  paura  (e  niente 
vieta  pensarlo  ) che  T ingrandimento  di  quest’  uomo  cre- 
scesse più  assai  di  quello  che  giovasse  alla  patria.  Co- 
storo dunque  si  opposero  validissimamente  nelle  adu- 
nanze alle  leggi  di  Cassio  ; convincendo  il  popolo  che 
era  ingiusto  che  i beni  da  esso  acquistati  con  tante 
guerre  fossero  non  de’  Romani  soli , ma  de'  Latini  in- 
sieme che  niente  vi  aveano  combattuto , e degli  Ernid, 
recentissimi  amici , pe’  quali  ben  era  assai  che  vinti 
non  fossero  spogliati  de’  propr)  terreni.  Il  popolo  che 
ascoltava,  ora  aderivasi  ai  tribuni  considerando  che  pio 
ciola  i:è  degna  di  considerazione  sarebbe  la  parte  di  cia- 
scuno , se  divideansi  le  terre  co’  Latini  c cogli  Ernicl  , 
ed  ora  secondava  di  bel  nuovo  le  aringhe  di  Cassio  , 
quasi  i tribuni  tradissero  la  moltitudine  ai  patrizj.  Im- 
perocché se  coloro  davano  per  titolo  specioso  della  op- 
]K)sizione  la  partizione  eguale  co’  Latini  e cogli  Eroici  ; 
Cassio  dieea  comprenderli  nella  legge  per  convalidare 
appunto  la  causa  de’  poveri , ed  escludere  che  potesse 
alcuno  mai  rivendicare  i beni  disjrensatl  ; e giudicava 
partito  piò  sicuro  e migliore  per  essi  aver  picciola  parte 
ed  eguale  , che  sperar  molto  e perilere  tutto. 

LXXIL  Con  tali  discorsi  aringando  e decidendo  Cas- 
sio più  e più  volte  la  plebe  in  contrario,  fecesi  Innanzi 
Cajo  Rebulio , 1*  uno  de’  tribuni  ; uomo  non  privo  già 
di  senno , e promise  calmare  ben  tosto  le  discordie  dei 
consoli,  e chiarire  la  moltitudine  su  quanto  dovesse  ella 
fare.  E qui  date  a lui  grandi  acclamizioni , c poi  fatto 


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LIBRO  Vili.  g5 

silenzio  , disse  : o Cassio  , o f' ergtrùo , non  sono  i 
capi  della  legge  controi’ersa , primieramente  se  deh- 
hansi  le  terre  del  pubblico  dispensare  ai  uno  ai  uno 
ai  privati,  e secondariamente  se  debbano  parteciparvi 
anche  i Latini  e gli  Ernici?  E quelli:  appunto,  sog- 
giunsero. E Rebulio  ripigliò:  Tu  cerchi,  o Catsio,  che 
il  popolo  approvi  col  voto  suo  Puna  e Poltra  cosa.  E 
tu , per  Dio , dì , F^crginio  , di  qual  di  queste  non 
ammetti  nel  progetto  di  Cassio  : quella  forse  su  gli 
alleati , pensando  che  gli  Ernici  e i Lalini  non  deb- 
bano a noi  pareggiarsi  nella  divisione?  o Poltra  forse, 
giudicando  che  non  si  debbano  nemmeno  tra  noi  ri- 
partire i beni  pubblici?  rispondi,  e nulla  occultarmi, 
E replicando  Verginio  che  egli  contrariava  alla  divisione 
eguale  co'  Latini  c cogli  Ernici , ma  che  ammetterebbe 
la  partizione  tra’  cittadini , se  cosi  a tutti  ne  paresse  ; il 
tribuno  volgendosi  alla  moltitudine  disse:  poiché  li  due 
consoli  convengono  su  P una  delle  cose , ma  discordan 
su  f altra  ; e poiché  sono  degni  ambedue  di  riverenza 
eguale,  nè  può  P uno  fare  alP altro  violenza;  facciamo 
per  ora  ciocché  da  ambedue  ci  si  concede,  e diffe- 
riamo ad  altro  tempo  ciocché  testa  ancora  indeciso. 
Ed  acclamando  la  raolliindine  come  benissimo  fosse  il 
suggerimento , e chiedendo  insieme  che  si  levasse  dalla 
legge  il  punto  il  quale  manteneva  le  dispute  ; Cassio 
incerto  che  fare  ; non  volendo  cangiar  parere  né  po- 
tendo ostinarvisi  a fronte  de’  tribuni  che  lo  contraria- 
vano dimise  allora  l’ adunanza.  Ne’  giorni  appresso  Gii- 
tosi  infermo  non  apparve  nel  Foro:  ma  tenendosi  in 
casa  adopcravasi  di  far  valere  colle  mani  e colla  forza 


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DELLE  AJ«T1CHITa’  ROMAKE 


la  legge.  Pertanto  convocò  Latini  ed  Eroici  più  che 
potè  perchè  dessero  il  voto.  Accorsero  questi  in  folla  ; 
tanto  che  tra  poco  la  città  fu  piena  di  forestieri.  Av- 
vedutosene Vergiiiio  fe’  per  le  vie  proclamare  che  chiun- 
que non  aveva  il  soggiorno  in  città  ne  partisse  in  tempo 
dato  e non  lungo.  Cassio  in  contrario  ie’  bandire  che 
restassero  finché  fosse  ultimata  la  legge  quanti  erano 
partecipi  ugualmente  della  cittadinanza. 

LXXUI.  Ma  perciocché  la  disputa  non  piegava  a niun 
termine  ; i patriz)  temendo  che  si  venisse  alle  armi , 
alle  mani  , ed  a quanto  suole  accadere  qtundo  ne'  co- 
mizj  si  discorda  su  di  una  legge  proposta , tennero  Se- 
nato per  deliberare  in  una  volta  su  tutto.  Appio  ri- 
chiesto il  primo  del  parer  suo  non  accordava  la  parti- 
zion  delle  terre  tra  ’l  popolo , dando  a vedere  come  il 
volgo  ozioso  che  abitava  in  Roma , costumato  a divo- 
rare i pubblici  beni  , ne  diverrebbe  molesto  ed  inutile, 
né  più  lascerebbe  al  comune  pubblici  poderi  o danari  : 
dicea  che  ben  era  cosa  da  far  vergogna  sè  essi  che 
aveano  accusalo  Cassio  di  progetti  scellerati , dannosi, 
corraltivi , approvassero  poi  questi  come  utUi,  e giusti 
co’  voli  comuni.  Considerassero  che  i poveri  divisesi 
le  terre  pubbliche  , non  sarebbero  già  grati  a loro  se 
ciò  concedevano,  e decretavano,  ma  solamente  a Cas- 
sio che  ne  avea  fatto  il' progetto  , e che  sembrava 
necessitare  i padri , anche  loro  malgrado , ad  ammet- 
terlo. E dette  prima  queste  e simili  Cose , in  ultimo 
consigliò , che  scelti  i più  onorabili  de’ senatori  andas- 
sero questi  e definissero  la  terra  che  era  pubblica,  e 
riconoscessero  , e ne  restituissero  al  comune  ogni  parto 


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LIBRO  Vili.  9^ 

che  sottraila  di  furto  o per  forza,  serbatasi  dai  pri- 
vali m pascoli  o per  la  coltura.  Dividessero  poi  la 
terra  fissala  da  essi  in  lami  fondi  quanti  poleasi , e 
la  distinguessero  con  termini  convenienti  : esortava  che 
ne  vendessero  principalmente  la  parte  controversa  dai 
privali , con  condizione , che  se  questi  la  ripetevano , 
i compratori  non  dovessero  litigarne  a lor  conto:  che 
parte  t affittassero  per  cinque  anni  : e che  il  prezzo 
proveniente  dagli  affitti  si  spendesse  pe'  viveri  delle 
milizie , e per  gli  apparecchj  necessarj  alla  guerra  : 
diceva  : ora  è giusta  la  invidia  de'  poveri  verso  dei 
ricchi,  perchè  questi  appropriatisi  i beni  del  comune 
se  li  tengono.  Nè  fa  meraviglia  che  tutti  vogliano  che 
i beni  pubblici  si  dividano  piuttosto , che  solo  pochi 
senza  verecondia  li  possiedano.  Quando  ne  vedranno 
esclusi  quelli  che  ora  se  li  godono , e le  pubbliche 
cose  al  pubblico  ritornate  ; cesseranno  ^invidiarci , e 
languirà  la  insistenza  per  la  divisione  individuale  dei 
terreni;  perocché  ben  vedranno  che  più  utile  è la 
possidenza  pubblica  di  tutto  ciò  , che  non  la  privata 
por  picciole  particelle.  Noi  mostreremo  loro  quanto 
sia  questo  divario  ; e come  un  povero  che  abbia  un 
campo  non  grande , ma  tristi  vicini  non  potrà  colti- 
varlo di  per  ,sè  stesso  per  la  inopia , nè  troverà  chi 
lo  prenda  in  affjUlo  se  non  il  vicino  : laddove  le 
grandi  possessioni  capaci  di  lavoro  màltiplice  e degno 
di  un  agricoltore , se  affittinsi  dal  comune , porge- 
ranno gran  rendita.  E mostreremo  quanto  sia  meglio 
ai  poveri  che  reeansi  in  guerra  aver  stipendj  o viveri 

mOSlGt , tomo  ITT.  j 


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g8  DELLE  Antichità’  romane 

dal  pubblico  erario,  che  al  pubblico  erario  portarne 
dalle  lor  case.  Non  di  raro  stenterebbero  dalla  pe- 
nuria , e specialmente  quando  s sarebbero  gravali  dot 
soddisfare  ai  tributi. 

LXXIV.  Avendo  Appio  dichiarato  tali  sentimenti  con 
approvazione  manifesta  e grande  , interrogato  il  secondo 
Aulo  Sempronio  Atratino  disse:  Non  prendo  ora  io 
per  la  prima  volta  a lodar  Appio  idoneissimo  a cal- 
colare da  lontano  il  futuro,  e dar  consigli  sanissimi 
e bellissimi , uomo  costante , ed  immobile  ne' suoi  giu- 
dizj  , che  nè  per  paura  cede  nè  piegasi  per  favore  : 
ma  sempre  ne  loderò,  e ne  ammirerò'  la  prudenza  , 
e la  magnanimità  sua  contro  de’  pericoli.  Quindi  io 
per  me  non  propongo  altro  parere  che  il  suo , ag- 
giungendovi alcune  picciole  cose  che  a me  sembrano 
da  Appio  pretermesse.  Nemmen  io  penso  che  abbiansi 
le  nostre  terre  a dividere  cogli  Emici  e co'  Latini 
ammessi  di  recente  alla  cittadinanza.  Imperocché  non 
possediam  queste  terre  dappoiché  ne  son  essi  amici 
divenuti , ma  da  tempo  più  antico , toUe  avendole 
senza  che  niuno  di  essi  ce  ne  ajutasse , con  solo  pe- 
ricolo nostro  ai  nemici.  Rispondiamo  dunque  loro  elèe 
le  possidenze  nostre,  quante  ogrumo  ne  avevamo 
quando  stringemmo  t alleanza , debbono  ad  ognuno 
rimanere  inviolabili.  Ma  quante  ne  guadagniamo  dopo 
r epoca  dell  alleanza  guerreggiando  in  comune;  tante 
saran  per  sorte  ripartile  fra  tutti.  Or  ciò  non  dee 
porgere  cagione  legittima  d ira  agli  alleati  perchè  non 
oltraggiati  ; nò  paura  al  popolo  di  sembrare  di  ante- 
porre t utile  aie  onesto.  Consento  pienamente  alla  no~ 


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LIBRO  Vili.  99 

mina  dei  deputati  che  Appio  vuole  che  definiscano 
le  terre  del  pubblico  : perocché  tal  cosa  ci  renderti 
più  liberi  sopra  de  cittadini , li  quali  di  presente  rat- 
tristansi  per  ambe  le  cose  ; vuol  dire  perché  essi  non 
godono  niente  delle  terre  pubbliche,  e perchè  intanto 
se  le  godono  altri  ingiusìamente.  Ma  se  le  vedranno 
restituite  al  comune  , ed  applicate  le  rendite  loro  atl 
usi  pubblici  e necessarj , concepiranno  che  niente  ri- 
levi per  essi  aver  parte  nelle  terre  o nelt  utile  che 
ne  proviene.  Tralascio  di  dire  che  alcuni  poveri  com- 
piaccionsi  delle  perdite  altrui  più  che  delC  utile  loro. 
Afa  non  basta , io  penso , che  alleghisi  t uno  e f altro 
titolo  nel  decreto  : penso  che  dobbiamo  noi  affezio- 
narsi e ristorare  il  popolo  per  altra  onesta  condiscen- 
denza , la  quale  indicherò  poco  appresso , quando 
avrò  dimostrato  la  causa  anzi  la  necessità  per  cui  dee 
cosi  farsi. 

LXXV.  yoi  ben  sapete  i discorsi  tenuti  dal  tribuno 
nelf  adunanza , quando  interrogò  fergimo  il  console, 
qual  cosa  pensasse  della  divisione  delle  terre  pubbli- 
che , se  ammettesse  che  si  dispensassero  ai  cittadini 
bensì  non  agli  alleati , o se  riprovasse  che  noi  pure 
a sorte  ci  ripartissimo  i beni  del  comune  : sapete 
com'  egli  accordò  che  si  dividessero  tra’  cittadini  se 
paresse  a tutti  ben  fatto  ; e come  tale  concessione 
rendè  favorevoli  a noi  li  tribuni , e mansuefece  la 
plebe.  Perchè  dunque  leveremo  ora  ciò  che  abbiamo 
già  conceduto  ? E che  gioveranno  i belli , i generosi 
stabilimenti , e sieno  pur  degni  del  governo  , se  non 
persuadiamo  su  di  essi  il  popolo  che  debba  osservarli? 


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loo  DELi.E  Antichità’  romane 
ora  noi  mai  noi  persuaderemo  questo  popolo  ; e niuno 
di  voi  se  lo  ignora  ; imperocché  deluso  nella  speranza 
non  riportando  ciocché  a lui  fu  promesso  , assai  più 
ci  si  opporrà  che  se  avuta  non  avesse  alcuna  pro^ 
messa  (i).  Verrà  di  bel  nuovo  chi  gli  lusinghi,  e 
trasporti  ; nè  più  niun  de’  tribuni  con  noi  si  terrà, 
Udite  dunque  ciocché  io  vi  esorto  a fare,  e ciò  che 
aggiungo  ai  pareri  di  j^ppio  : ma  non  vi  movete , 
non  vi  turbate  prima  di  udir  pienamente  , quanto  io 
sono  per  dire.  Jncaricate  quelli  che  saran  deputali  per 
la  ricognizione  e limitazione  delle  terre,'  sian  essi 
dieci  o quanti  ne  volete , a determinare  quale  e quanta 
sia  la  terra  pubblica , la  quale  aumenti  le  rendite  del 
comune  con  gli  affitti  quinquennali  ; e quale  e quanta 
sen  dee  compartire  tra  ’l  popolo.  E la  terra  che  diran 
divisibile , quella  , voi  stessi  pigliandone  cura , divi- 
detela tra  tutti , o tra  quelli  che  non  hanno  campagna 
o poca  solamente , o comunque  meglio  ve  ne  sembri. 
E perchè  breve  è il  tempo  che  resta  pe'  consoli  pre- 
senti , lasciate  che  li  consoli  nuovi  abbiano  cura  di 
quelli  che  riconosceranno  e divideranno  le  terre,  e 
del  decreto  che  voi  dovrete  Jare  per  la  divisione , e 
di  simili  cose.  Imperocché  non  esigono  queste  pic- 
ciolo tempo:  nè  li  consoli  che  ora  sono  discordi  prc^ 
vederebbero  più  saviamente  degli  altri  che  saran  de- 
stinati , se  conto  speriamo , avran  pace  fra  loro  : utile 

(i)  Cbi  ha  ricevuto  una  promeiaa  di  avere  una  qualche  cosa  e 
poi  uoD  la  ouicne  9 assai  più  si  duole  di  chi  subito  ne  ha  la  ri* 
pulsa.  Perché  ucl  primo  caso  vi  è una  ripulsa  di  fallo  ed  un  ira- 
dimenio.  Dionigi 'allude  a questa  verità. 


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LIBRO  Vili.  lOl 

per  molti  capi  è la  dilazione  e meno  pericolosa; 
ducendo  il  tempo  in  un  sol  giorno  grandi  mutazionù 
E la  concordia  de’  capi  del  governo  è la  sorgente  di 
ogni  bene  per  le  città.  Tale  è il  mio  sentimento , e 
se  altri  ne  vede  un  migliore , lo  esponga. 

LXXVI.  Al  tacere  di  lui  molti  furono  gli  elogi  degli 
astanti , e uiuno  degl’  interrogali  dipoi , si  decise  per 
altro  parere.  Quindi  il  Senato  decretò  per  iscritto  che 
si  nominassero  dieci  de’  consolari  seniori  i quali  deter- 
minassero la  terra  pubblica  , e dichiarassero  quanta  se 
ne*  dovesse  affìture , e quanta  compartire  tra  ’l  popolo  , 
che  d’ allora  in  poi  se  gli  alleati  e gli  ammessi  alla  cit- 
tadinanza militando  con  loro  acquisussero  nuove  cam- 
pagne ne  avessero  ancor  essi  una  parte  secondo  i trat- 
tati : e Bnalmente  che  i consoli  venturi  eleggessero  i 
dieci , ultimassero  la  division  delle  terre  e quant'  altro 
era  da  fare.  Portato  questo  decreto  al  popolo  fe’  tacervi 
le  istigazioni  di  Cassio,  nè  permise  che  la  sedizione  ac- 
cesa tra’  poveri  procedesse  più  oltre. 

LXXVII.  L’  anno  seguente  cominciando  1’  olimpiade 
settantesima  quarta  nella  quale  Astillo  siracusano  vinse 
allo  stadio  essendo  Leostrato  arconte  di  Atene  , pren- 
dendo il  consolato  Quinto  Fabio  e Servio  Cornelio  (i) 
intanto  Fabio  Cesone  fratello  del  console,  e Lucio  Va- 
lerio Poplicola  (a)  nipote  dell’  espulsore  dei  re , freschi 
per  età,  ma  nobilissimi  per  lo  splendore  degli  antenati, 

(i)  Anno  di  Rom.  369  secondo  Catone,  371  secondo^  Vairone  , « 
485  nr.  Cristo.  ''  "‘■ 

(a)  figlio  di  Marco  Valerio  fratello  di  Pubblio  Valerio  il 
>iuale  fu  sopraimominaiu  Poplicola. 


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102  DELLE  antichità’  ROMANE 

potenti  per  aderenze  e ricchezze  , e tutto  che  giovani  , 
non  inferiori  a niun  pari  loro  nei  trattare  le  pubbliche 
cose  esercitavano  la  questura.  Ed  arbitri  per  questo -di 
intimar  le  adunanze  accusarono  al  popolo  con  incolpa» 
zioni  di  tirannide  Spurio  Cassio  il  console  dell’  anno 
precedente,  che  osò  d’introdurre  le  leggi  su  la  partizione 
delle  campagne  ; e • preGggendogli  il  giorno,  lo  citarono 
a giustiCcarsene  presso  del  popolo.  Adunatasi  nei  giorno 
prescritto  gran  gente  essi  invitandola  ad  ascoltare  di- 
mostrarono che  le  opere  manifeste  di  quest’  uomo  non 
comprendeano  nulla  di  buono  : primieramente  perchè 
mentre  i Latini  appagavansi  di  essere  ammessi  alla  cit- 
tadinanza , e riputavano  sommo  il  favore  se  la  ottene- 
vano; egli  console  non  solamente  concedè  la  cittadinanza 
che  dimandavano,  ma  decretò  che  si  desse  loco  il  terzo 
delie  spoglie  della  guerra,  se  in  comune  la  sostenessero: 
secondariamente  perché  rendette  amici  in  luogo  di  sud- 
diti , concittadini  in  luogo  di  tributar)  gli  Eroici  che , 
vinti , doveano  ben  esser  contenti  se  non  erano  dan- 
neggiati  collo  smembramento  delle  lor  terre;  anzi  ordinò 
che  si  desse  loro  pur  la  terza  parte  delle  prede  e 'Tlelle 
campagne  che  fossero  mai  per  conquisure.  Tanto  che 
divisa  la  preda  in  tre  parti  doveano  i sudditi  e foresuerì 
pigliarne  due  parli  , ed  i paesani  e padroni  una  sola. 
Dimostravano  che  da  questi  due  assurdi  ne  segnirebbe 
r uno  o altro , se  volessero  pe’  molti  e segnalati  servigi 
condecorare  un  altro  popolo  come  i Latini,  o come  gli 
Eroici  che  ninno  prestato  ne  aveano,  vuol  dire:  o che 
non  avrebbero  che  dar  loro  (i)  , o se  volessero  pareg- 

(i)  Il  lesto  di  Rciske  <jui  maoca  delle  toc!  «v;^  i|i(r  • r< 
iÌT»vnt  tKtittit  ft'tftf  che  abbiamo  Tediile  uel  testo  di  Silburgio. 


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LIBRO  Vili.  I o3 

giarli  con  eguale  decreto  ; non  estendo  lasciata  per  essi 
più  di  una  parte , resterebbero  senza  ninna. 

LXXVIII.  Aggiungevano  a tanto  che  egli  accintosi  a 
dividere  i beni  del  comune  , siccome  nè  il  Senato  ciò 
decretava,  nè  il  console  compagno  glielo  approvava, 
tentò  cT  inurodurre  colla  forza  la  legge , lesiva  ed  in- 
giusta non  solamente  per  questo  che  egli  rendeva  be- 
nedceoza  di  un  solo  quella  che  sarebbe  stata  beneficenza 
di  tutti  i magistrati , se  il  Senato  che  doveala  decretare 
prima  la  decretava;  ma  per  quello  ancora,  che  certo  è 
il  più  grave , cioè  perchè  il  dividere  le  terre  , era  in 
parole  un  darle , ma  in  fatti  era  un  toglierle  ai  citta- 
dini: imperocché  se  ne  lasciava  ai  Romani  che  tutte  le 
possederano  una  parte  sola,  mentre  due  se  ne  davano  agli 
Emici  ed  ai  Latini , a’  quali  non  appartenevano.  Rile- 
vavano ancora  che  non  solamente  egli  non  si  arrese  ai 
tribuni  che  voleano  esclusa  la  legge  quanto  alla  parte 
della  divisione  eguale  con  gli  esteri  ; ma  persistette  a 
brigare  il  contrario  in  onta  dei  tribuni , del  Senato , 
dell’  altro  console , e di  tutti  in  fine  i meglio  animati 
p€4'  la  repubblica.  Esposte  tali  cose,  e datine  per  testi- 
-snonj  tutti  i cittadini , produssero  argomenti  reconditi 
ancora  della  tirannide,  cioè  che  Latini  ed  Emici  arcano 
a lui  portato  danari , e supplito  delle  arme  ; che  a lui 
ne  andavano,  a lui  taciti  si  consultavano  o ministravano 
in  moltè  e molle  cose  i giovani  più  audaci  delle  cittè  : 
e di  questo  allegavano  in  testimonio  molti  non  pur  dei 
Romani  ma  degli  alleati,  uomini  nè  spregevoli  nè  ignoti. 
Diede  ad  essi  udienza  il  popolo  : anzi  non  mosso  più 
uè  dai  discorsi  studiatissimi  tenuti  da  quest’  uomo  , né 


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Io4  DELLE  antichità’  HOMANE 

intenerendosi  in  vista  almeno  de’  tre  suoi  fìglioletti,  spet- 
tacolo potentissimo  per  impietosire , o di  altri  parenti 
ed  amici  che  ne  gémevano  ; nè  condonandogli  cosa  al- 
cuna in  grazia  delle  belliche  gesu  di  lui  per  le  quali 
era  salito  a tanta  riputazione;  ne  sentenziò  la  condanna. 
Anzi  era  il  popolo  tanto  irreconciliabile  al  nome  di  ti- 
rannide , che  non  frenando  l’ira  nemmeno  su  la  inten- 
sità della  pena,  lo  condannò  alla  morte.  Imperocché  te- 
meva che  bandito  costui  dalla  città,  prestantissimo  come 
era  fra  tutti  allora  nelle  arme , la  facesse  in  fine  a si- 
miglianza  di  Marcio;  e detestando  le  genti  amiche,  e 
conciliandosi  le  inimicbe;  portasse  guerra  inestinguibile 
alla  patria.  Dato  tal  fine  al  giudizio  , i questori  mena- 
rono Cassio  alla  rupe  soprapposta  al  foro , ed  in  vista  . 
di  tutti  ne  lo  trabalzarono.  Questa  era  allora  la  puni- 
zione consueta  tra’  Romani  pe’  condannati  alia  morte. 

LXXIX.  Ecco  la  storia  la  più  verisimile  tra  quante 
se  ne  abbiano  su  quest’  uomo  : non  si  dee  però  trala- 
sciare neppure  la  men  verisimile , giacché  vien  creduta 
da  molti , e ricordasi  in  scritti  degni  di  stima.  Narrano 
alcuni  eh’ essendo  occulte  ancora  le  brighe  di  Cassio  per 
la  tirannide , il  padre  di  lui  per  il  primo  ne  sospettas- 
se; e presone  esame  diligentissimo  ne  andasse  al  Se- 
nato: che  fatto  venirvi  anche  il' figlio  ve  ne  desse  l’in- 
dizio e r accusa  : e che  avendolo  in  fine  condannato  il 
Senato  ; lo  rimenasse  in  casa  e ve  l’ uccidesse.  La  du- 
rezza , e la  inesorabilità  de’  padri  Romani  , principal- 
mente in  quel  secolo , contro  de’  figli , offensori  della 
repubblica , non  esclude  nemmeno  uli  racconti.  Impe-' 
rocchè  Bruto , 1’  espulsore  dei  Tarquinj  , condannò  per 


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LIBRO  Vili.  1 o5 

M primo  ambedue  li  suoi  figli  alia  morte  per  la  legge' 
su’  malfìiuori  ; e furouo  colla  scure  decapitati , percliè 
convinti  di  cooperare  il  ritorno  dei  tiranni.  Dopo  lui 
Manlio  duce  nella  guerra  co'  Galli  sebbene  avesse  coro- 
nato col  premio  de’  bravi  il  figlio  cbe  vi  si  era  segna- 
lato , poi  rimproverandone  la  disubbidienza  lo  uccise 
come  disertore  ; perchè  non  erasi  tenuto  ai  posto  pre- 
scritto, ma  contro  gli  ordini  del  duce  era  uscito  a com< 
liattere  (i).  E molti  altri  padri,  chi  per  cause  maggiori 
chi  per  minori,  non  perdonarono  né  commiserarono  i 
figli.  E su  tale  riflesso  non  saprei  come  ho  detto  ri- 
gettar quei  racconto  come  improbabile.  Nondimeno  a 
contrario  parere  mi  spronano  e forzano  quest’  indizj  ; 
cioè  che  dopo  la  morte  di  lui  ne  furono  confiscati  i 
beni  e sterminata  la  casa  ; rimanendone  ancora  scoperto 
il  sito  se  non  quanto  ne  occupa  il  tempio  della  Dea 
Teliure  fondatovi  negli  ultimi  tempi  dalla  repubblica , 
luogo  la  via  che  mena  alle  Carine  (a).  Roma  consacrò 

(i)  Anche  Satlastio  scrive  che  Manlio  fece  Decidere  il  figlio  nella 
guerra  Gallica  , parchi  questo  avea  combattalo  contea  gii  ordini  col 
nemico,  nondimeno  i certo  per  I’  autorità  degli  altri  scrittori  che 
ciò  succedette  nella  guerra  co' Latini. 

(a)  Air  argomento  di  Dionigi  può  rispondersi  ciocchò  trovasi  in 
Livio;  vuol  dire  che  il  padre  stesso  esaminò  la  causa  del  figlio,  e 
io  ballò,  e lo  uccise,  cousecrandone  i beni  a Cerere  : Patrem, 
eum,  cognita  domi  causa , verbcrasse  ac  necaite  , pecuUumque  JUìi 
Cereri  eonsecravitse  : signum  inde  factum  esse , et  inseriptum  , ex 
Cassia  famitia  dalum.  Del  resto  Livio  non  esclude  l’altro  racconto 
della  condanna  pubblica  , ansi  la  reputa  più  verisimile.  E questo 
secondo  racconto  concorda  con  ciò  che  ne  scrive  Cicerone  nella 
orazione  prò  domo  sua  e Valerio  Massimo  nel  lib.  fi,  c.  3 il  quale 
siggiunge  : cbe  Roma  sterminò  la  casa  di  Spurio  Cassio;  e che  nel 
silo  di  essa  domum  superiecit  ut  penatìum  quoque  strage  puniretur. 


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io6  DELLE  Antichità’  bomane 
le  primizie  de’  beni  di  esso  in  altri  tempj , e Cerere  ne 
ebbe  statue  di  bronzo , la  iscrizione  delle  quali  manife- 
sta di  quali  beni  fossero  Je  primizie.  Ora  se  il  padre 
stato  fosse  indicatore  , accusatore , e punitore  di  lui  ; 
né  la  casa  ne  sarebbe  stata  abbattuta , nè  invasi  i beni 
dal  comuue.  Imperocché  tra’  Romani  finché  vivono  i 
padri  niente  è proprio  de’  figli;  potendo  i padri  disporre 
come  più  vogliono  de’  beni  non  meno  che  delle  per- 
sone de’  figli.  Dond’  è che  Roma  non  avrebbe  mai  tol- 
lerato che  per  le  delinquenze  del  figlio  > si  togUmero 
e confiscassero  i beni  del  padre  che  ne  avea  svelato  le 
brighe  per  la  tirannide  ; e per  questo  io  decidomi  piut- 
tosto per  la  prima  narrazione.  Le  ho  nondimeno  riferite 
ambedue,  perchè  coloro  che  leggono  aderiscano  a quale 
più  vogliono. 

LXXX.  Insistendo  poscia  alcuni  perché  si  uccides- 
sero i figli  ancora  di  Cassio;  parve  al  Senato  aspra  la 
inchiesta  nè  utile.  E congregatosi  decretò  che  si  rila- 
sciassero , c vivessero  sicurissimi  da  esilj  , da  infamie  , 
da  ogni  sciagura.  Da  quel  fatto  si  stabili  tra’  Romani 
r uso  , custoditovi  fino  a’  miei  giorni , che  vadano  im- 
muni da  ogni  pena  i figli  di  padri  delinquenti , sian 
essi  figli  di  tiranni , di  parricidi  o di  traditori , che  tra 
loro  è il  massimo  dei  delitti.  E quelli  che  vicini  al  no- 
stro tempo , circa  il  fine  della  guerra  Marsia  , e della 
guerra  civile  dandosi  ad  abolire  quest’  uso , impedirono 
finché  dominarono  che  i figli  dei  proscritti  da  Siila 
giungessero  agli  onori  paterni  e prendessero  posto  in 
Senato  , sembrarono  far  opera  degna  della  esecrazione 
degli  uomini , e della  vendetta  de’  numi.  Perocché  col 


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LIBRO  vin.  107 

volger  degli  anni  raggiunse  loro  la  giustizia , vendica- 
trice non  riprovata , per  la  quale  furono  dal  colmo  della 
gloria  precipitati  ai  fondo  delia  miseria;  non  lasciandosi 
del  lignaggio  loro  se  non  la  prole  nata  di  femmine.  E 
colui  (i)  che  li  distrusse  riordinò  quei  costume  com’era 
ne’ prìncipi.  Pfeaso  di  alquanti  greci  però  non  è così 
mite  il  costume;  perchè  alcuni  credono  giusto  che  i 
gli  de’  tiranni  co’  tiranni  finiscano;  ed  altri  con  perpetuo 
esilio  li  punistxtno;  quasi  non  consenta  la  natura  che 
sorgano  figli  buoni  da’  padri  rei  ; nè  figli  rei  da  buoni 
padri.  Ma  su  ciò  lascio  che  altri  discuta,  se  migliore  è 
l’uso;  de’  Greci  o migliore  quel  de’  Romani  : ed  io  pro- 
sieguo la  storia. 

LXXXI.  Dopo  la  morte  di  Cassio  i fautori  del  co- 
mando de’ pochi  divennero  più  baldanzosi,  e spregiatori 
del  popolo.  Laonde  gl’  ignobili  per  nome  e sostanze  se 
ne  abbatterono  ; accusando  molto  sestessi  di  stoltezza  , 
perchè  aveano  colla  condanna'  di  lui  distmito  il  custode 
fidissimo  della  fazion  popolare.  Era  questa  la  causa  per 
la  quale  i consoli  non  eseguivano  il  decreto  de’ senatori 
pel  quale  doveano  eleggere  i dieci  che  determinassero 
la  terra  pubblica  , e riferire  in  Senato  quanta  parte  ne 
fosse  da  dividere , ed  a quali  persone.  Adunque  si  te- 
nean  de’  crocchi  mormorandovisi  in  ciascuno  so  l’ in- 
ganno , ed  incolpandovisi  più  che  tutti  i tribuni  pre- 
cedenti come  traditori  del  comune  ; slmilmente  faceansi 
dai  tribuni  d’  allora  continue  le  adunanze  e le  richieste 
della  promessa.  Or  ciò  vedendo  i consoli  deliberarono 
rimovere  col  pretesto  di  guerra  la  parte  sediziosa  della 
(1)  Aagatto. 


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Io8  DELLE  .antichità’  ROMANE 

città  ; percccbé  di  qae*  tempi  il  territorio  era  iofesiato 
da’  ladronecci , e dalle  scorrerie  de*  popoli  circonvicini. 
Adunque  per  far  la  vendetta  degli  aggressori  aveano 
inalberato  i segnali  di  guerra , ed  iscriveano  le  milizie 
della  città.  Ma , non  dando  i poveri  il  nome  loro,  non  • 
potevano  astringervi  a nonna  delle  leggi  gl*  indocili  , 
{jerocchè  li  tribuni  proteggevano  la  moltitudine , e lo 
avrebbero  impedito,  se  altri  tentava  portar  la  violenza 
su  le  persone  , o le  robe  di  chi  ricusava.  Adunque 
lanciarono  i consoli  molte  minacce , che  non  permette» 
rebbero  che  alcuno  rivoltasse  la  moltitudine  ; e sveglia- 
rono ne’  cuori  un  secreto  sospetto  che  nominerebbero 
un  dittatore  il  quale  sospendesse  tutti  gli  altri  magistrati, 
ed  avesse  egli  solo  un  potere  supremo  ed  irrefragabile. 
In  tale  apprensione  i plebei  temendo  che  il  dittatore 
fosse  Appio , uomo  duro  e dlflìcile , piegaronsi  a sof- 
frire ogni  cosa , piuttosto  che  questa. 

LXXXII.  Descrittone  il  molo , i consoli  presero  le 
milizie , e marciarono  su  l’ inimico.  Gettatosi  Cornelio 
nel  territorio  de’Vejenti  ne  portò  via  la  preda  sorpre- 
savi. Allora  i Yejenti  spedirono  ambasciadori , ed  egli 
rilasciò  loro  i prigionieri  per  date  somme,  e concedè 
la  tregua  di  un  anno.  Fabio  coU’altr  armata  piombò  su 
la  terra  degli  Equi  , e quindi  su  quella  de’  Volsci.  Pa- 
zientarouo  i Yolsci  alcun  tempo,  ma  non  molto,  che 
fossero  i campi  loro  predati  e devastati:  poi  spregiando 
i Romani  come  venuti  con  armata  non  grande  impu- 
gnarono in  buon  numero  le  armi , ed  uscirono  su  le 
terre  degli  Anziati  per  Incontrarli  : se  non  che  ne  an- 
darono anzi  precipitosi  che  savj  : perocché  se  giunge- 


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LIBRO  Vili.  109 

vano  inaspettati,  e K>rprendeano  i Romani  mentre  erano 
qua  e là  dispersi;  ne  avrebbero  assai  variato  le  vicende; 
ma  il  console  istruito  del  giunger  loro  dagli  esploratori, 
richiamò  bentosto  i suoi , sbandati  com’  erano , da’  fo- 
raggi , e dié  loro  la  ordinanza  conveniente  alla  guerra. 
Come  i Volaci  che  .-venivano  confidando  e spregiando, 
videro  fuori  dell’  imaginazione  tutte  le  forze  nemiche 
ordinate  e raccolte , sbalordirono  alio  spettacolo  inopi- 
nato : nè  più  curando  la  salvezza  comune , provvide 
ognuno  alla  sua,  e dando  volta,  con  quanto  aveàno  di 
velocità,  fuggirono  tutti  chi  per  una  e chi  per  altra  via; 
salvandosene  la  maggior  parte  nella  città  (i).  Solamente 
nu  picciolo  corpo  il  quale  era  più  che  gli  altri  ordinato 
ritirandosi  alla  cima  di  un  monte  , quivi  pose  le  armi 
e vi  pernottò.  Ma  ne’  giorni  seguenti  essendo  dal  con- 
sole circondala  1’  altura  e chiusene  tutte  le  uscite , ne- 
cessitato dalla  fame  si  sottomise  , e cedette  le  arme.  11 
I console  fe’  vendere  pe’  questori  quanto  vi  era  , prede  , 
spoglie,  prigionieri,  onde  riportarne  danaro  alla  patria. 
Non  molto  dopo  levò  1’  esercito  dalle  terre  nemiche  e 
a suoi  lo  ricondusse  , ornai  standosi  1’  anno  per  termi- 
nare. Giunto  il  tempo  da  creare  i magistrati , i patrizj 
che  vedevano  il  popolo  irritato  e pentito  della  condanna 
di  Cassio  , deliberarono  di  sopravvegliare  perchè  non 
facesse  movimenti  elevato  di  nuovo  a speranze  di  do- 
nativi e di  divisioni  di  terre  da  taluno  che  prendesse 
gli  onori  consolari  pieno  della  facondia  per  aringarlo 
e travolgerlo.  Parve  loro  che  se  il  popolo  desiderasse 
ponto  di  ciò,  potesse  impedirsegli  con  eleggere  un  con- 
(1)  Adiìo. 


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110  DELLE  antichità’  ROMANE 

sole  ad  esso  non  £tvorevole.  Ck>nchiuso  ciò  confortano 
perchè  aspirino  al  consolato  Fabio  Cesone  1’  uno  degli 
accusatori  di  Cassio»  fratello  di  Quinto,  console  attuale^ 
e Lucio  Emilio  » altro  patrizio  propensi^mo  agli  Otti» 
mali.  Non  potendo  il  popolo  impedir  questi  due  che 
aspirassero  al  consolato , usci  dal  campo  e si  levò  dai 
comizj.  Perciocché  ne’comizj  centuriati  tutto  il  poter 
de’snfiragj  assorbivasi  da’ cittadini  più  illustri  e primi  di 
ordine  ; e di  raro  cosa  alcuna  si  decideva  col  voto  an- 
cora delle  centurie  intermedie  di  ordine:  la  classe  estre- 
ma poi  nrila  quale  votava  la  parte  più  misera  e più 
numerosa  non  avea , come  innanzi  fii  detto,  se  non  un 
voto  solo  , il  quale  era  1’  ultimo. 

LXXXIII.  Adunque  negli  anni  dugento  settanta  dalla 
fondazione  di  Roma  (i)  essendo  Nicodemo  1’  arconte  di 
Atene  divennero  consoli  Lucio  Emilio  figliuolo  di  Ma- 
merco,  e Fabio  Cesone  figliuolo 'di  Cesone.  Ora  suc- 
cedette loro  secondo  il  desiderio  di  non  essere  pertui> 
bati  da  sedizioni  civili;  per  essere  la  repubblica  investita 
di  fuori.  E le  cessazioni  delle  guerre  esterne  sogliono 
rieccitare  le  nazionali , e dimestiche  tra’  Greci , tra’  bar* 
bari,  e dovunque,  principalmente  tra’ popoli  che  vivono 
Ira  le  armi  e i travagli  per  amore  della  bbertà  e del 
comando  ; perchè  gli  animi  avvezzi  a bramare  ognora 
più , ridotti  senza  gli  esercizj  consueti  difficilmente  si 
contengono.  Su  tal  vista  comandanti  savissimi  fomentano 
sempre  alcuna  discordia  cogli  esteri;  giudicando  migliori 
le  guerre  nelle  regioni  altrui  che  nella  propria.  Allora 

(i)  Anni  di  Roma  ^70  secondo  Giatonc,  373  secondo  Varrone, 
e Cristo. 


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LIBRO  Vili.  I 1 I 

fecondo  il  genio  appunto  de’  consoli , occorsero  come 
bo  detto,  le  insurrezioni  de’ sudditi.  Imperocché  li  Volsci 
sia  che  hdassero  ne’juoti  interni  di  Roma,  contendendo 
il  popolo  co’  magistrati  ; sia  che  fremessero  per  la  infa- 
mia della  precedente  disfatta,  ricevuta  senza  combattere; 
sia  che  insuperbissero  per  le  forze  loro  che  eran  gran- 
dissime;* sia  che  seguissero  tutte  insieme  queste  cagioni; 
aveano  deliberato  ikr  guerra  ai  Romani.  E raccogliendo 
i giovani  da  tutte  le  dtté  marciarono  con  parte  dell’e- 
sercito contro  le  città  de’  Latini  e degli  Ernici , e col- 
l’ altra  che  era  la  più  numerosa  e più  forte  teneansi 
pronti  a ribattere  chiunque  si  avanzasse  contro  le  loro. 
1 Romani  ciò  saputo  deliberarono  dividere  1’  armata  in 
due  corpi,  e guardare  con  uno  le  terre  degli  Ernici  e 
de’  Latini  , e correre  coll’  altro  a depredare  quelle  dei 
iVolsd. 

LXXXIV.  Avendo  i consoli , com’  è loro  costume  , 
tirato  a sorte  le  milizie  ; Fabio  Cesone  assunse  il  co- 
mando di  quelle  che  andavano  a soccorrere  gli  alleati  , 
e Lucio  marciò  colle  altre  contro  la  città  degli  Anxiati. 
Avvicinatosene  ai  confini , e vedutevi  le  armi  nemiche, 
si  accampò  su  di  un  colle  a fronte  di  ^e.  Ma  uscendo 
i nemici  ne’  giorni  consecutivi  più  volte  in  campo  , e 
sfidando  alia  battaglia;  egli  credette  avere  il  buon  pun- 
to, e cavò  le  sue  schiere.  Ed  ammonitele , e riammo- 
nitele prima  del  cimento  ; alfine  diedene  il^egno  e le 
avventò.  Bentosto  i soldati  alzato  il  grido  consueto  della 
battaglia  pugnarono  folli  , a schiere  e coorti.  Esaurite 
poi  le  lance  , i dac;di  cd  ogni  arme  da  tiro  si  scaglia- 
rono, rotando  le  spade,  gli  uni  su  gli  altri  con  ardire 


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II2  DELLE  Antichità’  romane 
e desiderio  eguale  di  misurarsi.  Era  iu  ambedue  simi« 
lissima  la  maniera  di  combattere  : nè  maggiore  tra*  Ro* 
mani  la  saviezza  e la  sperieuza  che  gli  aveva  rendati 
già  più  volte  vincitori , nè  maggiore  la  costanza  e la 
sofferenza  per  1*  esercizio  di  tante  battaglie  ; ma  le  doti 
stessissime  brillavano  pur  tra’  nemici  6n  dall’  ora , che 
fu  duce  loro  Marcio,  famosissimo  duce  romano.  Adun- 
(jne  gii  uni  resistevano  agli  altri  senza  cedere  il  posto 
preso  in  principio.  Ma  dopo  alquanto  i Volaci  a poco 
a poco  si  ritirano , schierati , e con  ordine , tenendo 
fronte  ai  Romani.  Tendea  quel  movimento  a dividere 
le  milizie  di  questi  e combatterle  da  lut^o  elevato. 

LXXXV.  In  opposito  i Romani  credendo  che  questi 
principiasser  la  fuga  tennero  anch’  essi  a passo  a passo 
in  buon  ordine  dietro  loro  che  si  ritiravano.  Ma  poiché 
videro  che  a rilancio  conevano  agli  alloggiamenti  an- 
ch’ essi  rapidissimi , in  disordine  li  seguitarono.  Intanto 
le  centurie  estreme  e la  retroguardia  , quasi  già  vinci- 
trici , spogliavano  i morti , e davansi  a predare  la  re- 
gione. Vedendo  ciò  li  Voisci  che  facean  credere  di 
fuggire , giunti  appena  alle  Urincee , voltata  faccia  , si 
contrapposero  : e quelli  che  erano  negli  alloggiamenti , 
spalancate  le  porle  , accorsero  numerosi  da  più  parti. 
Or  qui  cambiarono  le  vicende  della  battaglia  : chi  per- 
seguitava fugge , e chi  fuggiva  perseguita.  Perirono , 
com’  è naturale , molti  bravi  Romani  incalzati  giù  pel 
declivio  , e circondati  ; essi  pochi , dai  molti.  Non  dis- 
simile sorte  incontrarono  quanti  eransi  dati  a spogliare 
e predare  , impediti  di  retrocedere  schierati  e con  oi^ 
dine  ; imperocché  sopraHatti  ancor  essi  da'  nemici  resta- 


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LIBRO  Vili.  Il3 

vano  iracidali  o prìgiooierì.  Quanti  però  di  questi  o di 
quelli  respinti  giù  pel  monte  fuggivano  in  salvo  ; soc- 
corsi , benché  tardi,  dalia  cavalleria,  tornavano  al6ne 
a’  proprj  alloggiamenti  : e parve  che  a non  essere  intc- 
ramenie  distratti  giovasse  loro  un’acqua  dirottissima  dal 
cielo , ed  un  bujo  qual  formasi  per  nebbia  profondissi- 
ma ; perocché  non  potendo  i nemici  vedere  più  di  lon« 
tano  , infkslidirottsi  a seguitarli  più  oltre.  La  noue  ap- 
presso il  console  movendo  l’ armata  la  ritirò  cheta , in 
buon  ordine  , sicché  1’  inimico  noi  comprendesse.  Al 
tornar  della  sera  mise  il  campo  presso  la  ciué  di  Lon- 
gòla  t scegliendo  un’altura  idonea,  onde. respingerne  gli 
assalitori.  E qui  fermatosi  curava  gli  egri  .dalle  ferite, 
e rianimava  gli  aiHitti  dalla  vergogna  delia  disfatta  im- 
pensata. t 

LXXXVi.  Tale  er^  lo  stato  de’  Romani.  Li  Volaci 
poi  come  al  nascere  dei  giorno  conobbero  che  quelli 
eransi  di  loggiati;  portarono  più  da  vicino  il  campo  loro. 
Quindi  spogliato  avendo  i cadaveri  de’  nemici , raccolto 
i semivivi  che  davano  speransa  di  guarigione , e seppel- 
lito gli  estinti  loro  compagni  , rientrarono  la  città  di 
Anzio  che  prossima  rimaneva.  Qui  cantando  inni  e por- 
gendo in  ogni  tempio  sagrifìzi  per  la  vittoria , si  diedero 
ne’ giorni  seguenti  ai  conviti  e piaceri.  E se  teneansi  a 
quella  vittoria,  né  intraprendevano  altra  cosa;  la  guerra 
avrebbe  avuto  per  essi  nn  esito  fortunato.  Imperocché 
li  Romani  non  aveano  cuore  di  uscire  dagli  alloggiamenti 
per  combattere  ; anzi  desideravano  di  lasciare  le  terre 
nemiche , anteponendo  nna  fuga  ingloriosa  ad  una  morte 

DIOIfJGI , tomo  ut.  . . . 8 


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1 1 4 DELLE  Antichità’  romane 
manifesu.  Infiammati  però  da  speranae  maggiori , per- 
deroDO  la  gloria  ancora  della  prima  vittoria.  Udendo  da- 
gli eipioratori  e dai  disertori  che  i Rbmani  andati  salvi 
eran  pochi , e per  lo  più  feriti  ; ne  concepirono  disprezzo 
grandissimo , ed  impugnate  le  armi  marciaron  sa  loroi 
Li  seguitarono  senza  1’  armi  moiri  della  città  per  vedor 
la  batuglia , e per  fare  insieme  prede  e guadagni.  Ma 
quando  giunti  all*  altura  circondarono  gli  alloggiamenti , 
e presero  a svellerne  gli  steccati  ; proruppero  prima  su 
di  essi  i oivalieri  Romani , postiti  a piede  per  la  con- 
dizione del  luogo,  e poi  li  triarj , schieratisi  strettissimi. 
Sono  questi  i veterani  a’  quali  si  dà  la  guardia  degli  al- 
loggiamenti , se  le  milizie  escono  per  combattere  , ed 
a’  quali  per  mancanza  di  altri  ripari  si  ha  restrerao  in- 
dispensahil  ricorso  quando  avviene  strage  funesta  de’  gio- 
vani. Ne  sostennero  i iVolsci  la  irruzione  e pugnarono 
gran  tempo  pieni  di  valore.  Ma  non  favoriti  poi  dalla 
natura  del  aito  se  ne  rimossero  : e fatto  a’  nemici  danno 
tenue,  nè  degno  di  memoria,  e ricevutolo  essi  più 
grande  ancora;  calarono  alia  pianura.  Messi  quivi  gli 
alloggiamenti , schierarono  ne’  giorni  appresso  1’  armata, 
e provocarono  i Romani  alla  battaglia  : nè  pertanto  usci- 
rono questi  al  paragone.  1 Volsci  vedendo  ciò  li  spre- 
giarono : e convocate  le  milizie  dalle  loro  città  ; si  ap* 
pareccbiarono  per  espugnarne  le  trincee  colla  moltitu- 
dine. E ben  erano  per  fare  alcuna  cosa  di  grande  ri- 
ducendo per  patri  e colla  forza  il  console  e i suoi  che 
già  penuriavano  ; ma  giunse  prima  di  loro  il  soccorso 
Romano  , e furono  traversati  da  compiere  con  bellissimo 
(ìpe  la  guerra.  Imperocché  Fabio  Cesoue  l’altro  console, 


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LIBBO  Vili.  I I 5 

Mpen<lo  a quali  terniini  fosse  Tarmala  cUe  avea  couibat- 
tuto  co'  Volsct  deliberò  di  marciare  eoa  quanto  avea  di 
prestezza  contro  quelli  che  Tassedtavano.  Ma  perdocebè 
non  erano  a lui  propizj  i segni  degU  augurj  e de’  sa- 
grifizj  e gT  Iddj  lo  ritraevano  dall’  andare  ; egli  nou 
andò  , ma  scelse  e spedi  le  migliori  sue  schiere  al  com- 
pagno. Le  quali  per  strade  occulte  con  viaggio  in  gran 
parte  notturno  s’ intromisero  taciti  agli  alloggiamenti , 
senza  saputa  de’  nemici  • ma  con  incoraggimenlo  grande 
di  Emilio.  ConBdati  i Yolsci  nella  moltitudine  ivi  ac- 
corsa dei  loro , ed  imbaldanziti  dal  non  uscire  dei  Ro- 
mani a combattere  , ascesero  strettissimi  sul  monte.  La- 
sciarono i Romani  che  ascendessero  in  calma  grande, 
e che  a lungo  si  faticassero  intorno  degli  steccati:  ma 
non  si  tosto  fìi  dato  il  seguo  della  battaglia  , atterrato' 
in  piò  parti  il  vallo,  sboccaron  su  loro.  Usavauo  quei 
che  vennero  alle  mani , la  spada  : ma  gli  altri  dalle  trin- 
cee tempestavano  gli  assalitori  con  sassi , e strali , e 
lance  : né  colpo  alcuno  cadeva  in  fallo  ; affollatisi  tanti 
in  tanto  picciolo  luogo.  Rispinti  da  quell’  altura , e per- 
dutivi molti  de’  loro,  si  abbandonarono  i Yolsci  alla  foga; 
salvandosi  a stento  nei  proprj  alloggiamenti.  1 Romani 
come  già  rassicurati  scesero  nelle  campagne  di  essi , e 
ne  ebbero  frumento  ed  ogni  cosa  di  cui  penuriavasi  nella 
trincee. 

LXXXYH.  Giunto  il  tempo  de’  comizj  Emilio  si  ri- 
mase nel  campo  vergognandosi  di  entrare  in  città  per  la 
disfatta  vile  onde  avea  desolato  il  fior  dell’esercito.  Scorse 
per  altro  a Roma  il  collega  di  lui , lasciando  i suoi  luo- 
gotenenti nel  campo.  Costui  convocata  la  moltitudine 


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I 1 6 DELLE  antichità’  ROMANE 

pe’  comizj  nemmeno  vi  propose  gli  uomini  consolari  cer- 
cati dalla ’ moliitudine  pel  consolato,  perché  non  lo  bra- 
mavano i ma  chiamò  le  centurie  e fece  che  votassero  per 
altri , ambùiosi  di  quel  grado.  Erano  questi  preeletti  già 
dal  Senato  ed  istruiti  a concorrervi  quantunque  non 
molto  graditi  tra'l  popolo.  Or  furono  nominati  consoli 
per  r anno  venturo  il  fratello  minore  del  console  pre- 
sidente ai  comizj  Marco  Fabio  6glioolo  di  Cesone  e 
Lucio  Valerio  Sgliuolo  di  Marco  (i),  quel  Lucio  ap- 
. punto  che  avea  fatto  giudicare  e condannar  di  tirannide 
Cassio , autorevole  già  per  tre  consolati  Venuti  questi 
al  comando  (a)  cercarono  altri  coscritti  per  supplire  nelle 
coorti  gli  estinti  nella  gueiva  contro  gli  Anziati  : ed  avu- 
tone il  decreto  del  Senato;  intimarono  il  giorno  in  cui 
dovessero  presentarsi  quanti  aveano  età  militare.  Sorse 
a ciò  romor  grande , e dicerie  sediziose  de’  poveri  che 
sdegnavano  di  prestarsi  al  decreto  de’  padri  e s^nire 
V autorità  de’  consoli  perché  aveano  tradite  le  promesse 
intorno  la  division  delle  terre.  Accorsi  dunque  in  folla 
presso  de’  tribuni  rimproveravano  le  deluse  speranze , e 
reclamavano  altamente  il  loro  patrocinio.  Non  parve  ad 
alcuni  tempo  opportuno  da  ravvivare  civili  discordie,  es- 
sendovi guerra  di  là  da’  confini  : ma  Cajo  Manio  l’uno 
di  loro  disse  : che  non  trailirfhhe  quei  del  popolo  , e 
non  permetterebbe  ai  consoli  di  arrolare  milizia,  se 

(i)  Questo  Marco  era  fratello  di  Poplicola  e Lucio  ne  sarebbe 
il  nipote.  Marco  era  stalo  console  l'anoo  quinto  dopo  la  capul- 
aione  dei  re:  vedi  $ 77  di  questo  libro. 

(1)  Anuo  di  Roma  371  secondo  Catone  , 37$  secondo  Varrone  a 
481  BT.  Cristo. 


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LIBRO  Vili.  I I 7 

piima  non  nominassero  i definitori  della  terra  pubblica 
e divulgassero  scritto  il  decreto  su  la  partizione  di  essai 
Ripugnarono  a tanto  i consoli;  pretestando  la  guerra 
attuale  per  non  concedere  alcuna  delle  cose  che  diman» 
dava  : ma  colui  replicò  che  non  darebbe  loro  udienzOi 
ed  impedirebbe  il  catalogo  nuovo  con  tutta  la  forzat 
e r impedì  ; non  però  con  effetto.  Imperocché  li  consoli 
usciti  dalla  città  misero  nel  prossimo  campo  il  lor  tri- 
bunale , e là  fecero  la  iscrizion  militare  , multando  nella 
roba  gl’  indocili  giacché  non  poteano  menarsene  le  per- 
sone. Se  altri  area  poderi , li  desolavano , abbattendone 
per  fino  le  abitazioni  : o se  viveva  ne’poderi  altrui , coh 
tirandoli  ; ne  rapivano  e rimoveano  quanto  eravi  per 
uso  della  cultura , gioghi  di  buoi , greggi , bestie  da 
soma  , ed  ogni  stromento  onde  la  terra  lavorasi  o il  frutto 
se  ne  trasporta.  Or  contra  ciò  niente  potea  fare  il  tri- 
buno , proibitor  del  catalogo  : perchè  li  tribuni  non  aveano 
fuori  della  città  diritto  alcuno  ; limitando  le  mura  di 
questa  il  poter  loro.  Dond'  è che  non  è lecito  ad  essi 
pernottarne  di  fuori  , eccettualò  il  tempo  in  cui  tutti  t 
magistrati  di  Roma  ascendono  al  monte  Albano  per  farvi 
sagrifizio  comune  a Giove  su  la  gente  latina.  Ed  il  co- 
stume , che  r autorità  de’  tribuni  niente  possa  fuori  di 
Roma , conservasi  pur  ne’  miei  giorni.  Anzi  tra  i motti 
motivi  della  guerra  civile  de’  miei  tempi , grandissima 
fra  tutte  le  antecedenti , quello  che  solo  parve  bastare  a 
sdndere  la  città  fu  questo  , eh’  essendo  alcuni  tribuni 
perchè  non  fosser  di  nulla  più  arbitri , cacciati  di  Roma 
dal  duce  che  reggeva  allora  l’Iialia  (i) , essi  non  avendo 
(i)  Pompeo. 


1 1 8 DELLE  Antichità’  romane 
dove  più  volgersi,  ricorsero  al  dace  che  tenea  nelle 
Gailie  rannata  (i).  Ed  egli  vaiatosi  di  tale  occasione  in 
vista  di  soccorrere  piamente  e giustamente  un  magistrato 
santissimo  (a)  spogliato  dell’  aatorilà  sua  in  onta  de’  giu- 
ramenti aviti , venne  di  per  sestesso  colle  armi  sa  la  pa- 
tria, e restituì  gli  esuli  ai  gradi  loro. 

LXXXYIU.  I plebei  dunque  niente  valendo  loro  il 
poter  de’  tribuni , si  mansuefecero,  e presentatisi  agl’  in* 
caricati  della  coscrizione  diedero  il  giuramento , e fn> 
rono  compartiti  pe’  corpi  varj.  I consoli  dopo  avere  sup> 
plite  le  coorti  mancanti , tirarono  a sorte  il  comando 
degli  eserciti.  Prese  F abio  l’ esercito  sostenitore  degli 
alleati , e Valerio  1’  altro  che  * accampava  tra’Yolsci  ; re- 
candovi le  nuove  reclute.  I nemici  saputo  il  giugner  di 
lui , deliberarono  far  venir  nuove  troppe , trinderarsi  in 
luogo  più  forte,  nè  coìrere,  come  prima  , per  lo  di- 
spregio rovinose  vicende.  F orqirono  i duci  tutto  ciò  spe- 
ditissimàmente  , intenti  l’ uno , e l’ altro  a guardare  le 
trincere  sue  dagli  assalti  , non  ad  assalir  le  inimiche , 
per  espugnarle.  Cosi  decorse  non  poco  tempo  fra  ter- 
ror  vicendevole  che  1’  ano  1’  altro  investisse.  Non  pote- 
rono però  l’uno  e l’altro  osservare  sino  al  fine  il  pro- 
posito. Imperocché  quante  volte  spedivasi  alcuna  parte 
di  esercito  pe’  frumenti  o per  altro  bisogno  ; davansi  at- 
tacchi e percosse,  con  esito  non  sempre  vittorioso  per 

' (i)  Cesare 

(a)  Altenlare  so’  Iribaoi  era  delitto  graTÌssimo , perchè  le  per- 
sone loro  si  riguardavano  come  sacre  ed  inviolabili  : Quindi  Cice- 
rone nel  lib.  3 de  legibns  scrive:  quodque  ii  prohibessint , quod- 
que  plcbem  rogaisint  ralitm  està  ^ taneiique  turno. 


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LIBRO  vin.  I ig 

UD  de'  partiti.  Ne  perirono  in  tante  scaramacce  non  po- 
chi ; restandone  feriti  ancor  più.  Non  riparava  le  perdite 
Romane  alcun  nuovo  rinforzo  venuto  altronde  ; mentre 
i Volsci , sopravvenendo  ad  essi  schiere  su  schiere , si 
erano  moltissimo  ampliati.  Dond’è  che  animatine  i duci 
loro , cavarono  dalle  trincee  1’  esercito  per  la  battaglia. 

LXXXIX.  Usciti  i Romani  nommeno  e schieratisi  a 
fronte,  insorse  una  mischia  grandissima  di  cavalli,  di  fanti, 
di  soldati  leggeri  , pieni  tutti  di  ardore  e di  > sperienza 
e ciascuno  col  disegno  che  dipendesse  da  lui  solamente 
la  vittoria.  Cadutine  dall’  una  e dall’  altra  parte  molti 
estinti , e piò  ancor  semivivi  ; si  ridussero  a pochi  quelli 
che  tuttavia  rimanevano  tra  la  mischia  e il  pericolo.  Or 
non  potendo  questi  fare  le  azioni  di  guerra  perchè  gli 
scodi  destinati  a difendere , pieni  di  dardi  conGccativi  ^ 
aggravavano  la  sinistra  , né  permettevano  che  si  tenesse 
ferma  in  atto  di  ripercotere  i colpi , e perchè  le  spade 
erano  ornai  spuntate,  rotte  , - inutili  ; tanto  più  che  il 
combattere  di  tutto  il  giorno  gli  aveva  stancati,  mer^ 
vati  , illanguiditi  a ferire , e la  sete,  il  sudore , l’aiTanno 
travagliavali  come  chi  combatte  a lungo  nelle  ardentis- 
sime ore  di  estate;  la  battaglia  non  prese  termine  me* 
morando  , ma  1’  nnò  e l’ altro  duce  ritirarono  ben  vo* 
lentieri  le  armate  : e tornarono  a’  proprj  alloggiamenti^ 
Non  uscivano  più  gli  uni  o gli  altri  a combattere,  ma 
standosi  dirimpetto  spiavano  a vicenda  le  sortite  degli 
emoli  pe’  bisogni  ■ di  guerra.  Parve  nondimeno , e molto 
in  Roma  se  ne  discorse  , che  la  milizia  Romana  , po- 
tendolo , non  facesse  nulla  di  luminoso  per  odio  contro 
del  console  , e per  indignazione  su’  patrizj  , mentitori 


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lao  DELLK  Antichità’  romane 

nella  dÌTÌsione  delle  terre.  In  opposito  i soldati  acctisa» 
vano  il  console  come  insulficiente  ; scrìvendone  ognuno 
lettere  ai  suoi.  Tali  furono  gli  eventi  nel  campo  in  Roma 
intanto  molti  segni  celesti  annunziarono  l’ira  divina  con 
voci , e viste  inusitate.  E tutti  i segni  concorrevano  a 
questo , come  i vati  e gli  spositorì  delle  sante  cose , te» 
nutone  consiglio  , interpretavano  , che  alcuni  de’  numi 
erano  esacerbati , perché  non  riceveano  gli  onori  legit* 
timi,  o riceveano  sagrifizj  non  puri,  nè  pii.  Faceasi 
dunque  grande  ricerca,  6nchè  diedesi  indizio  a’  sacerdoti 
che  l’ una  delie  vergini , custodi  del  fuoco  sacro  ( Opi- 
mia  n’ era  il  nome)  avea  la  verginità  contaminato,  e 
con  la  virginità  le  sante  cose.  Or  questi  con  indagini 
e discussioni  chiarìtlsi  .esser  vero  pur  troppo  il  fello  in- 
dicato , spogliarono  quella  delie  sacre  bende,  e condot- 
tala di  su  |»1  foro,  la  seppellirono  viva  tra  sotterranee 
pareti.  Flagellarono  poi  nella  pubblica  luce  ed  uccisero 
due  convinti  del  fello  con  essa.  E ben  tosto  favorevoli 
le  sante  cose , e favorevoli  si  ebbero  le  risposte  degl’in- 
dovini , come  per  la  pace  venduta  da’  numi. 

- XC;  Giunto  il  tempo  de’comizj , e venutivi  i consoli, 
ebberì  briga  e contenzione  assai  viva  tra’  patrìzj  e tra  ’l 
popolo  su’  personaggi  che  avrebbero  da  pigiare  il  co- 
mando. Voleano  quelli  promovere  al  consolalo  giovani 
intraprendenti  né  amici  della  plebe  ; e per  insinuazione 
loro  chiedevalo  il  figlio  di  Appio  Claudio , di  quello  ri- 
putato già  si  contrario  al  popolo  ; ed  era  questo  figlio 
pieno  di  orgoglio  e di  audacia  , e potente  per  amicizie 
e clientele  più  che  lutti  dell’  età  sua.  Per  l’ opposito  il 
popolo  nominava  a far  l’ utile  pubblico  e volea  per  con- 


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LIBRO  vm:  1 3 1 

soli  personaggi  anziani , notissimi  per  le  d^ci  maniete< 
I magistrati  discordavano  , e rendeano  con  ciò  vana  la 
loro  autonti . Se  i consoli  convocavano  la  moltitudine 
per  indicarle  i concorrenti  al  consolato,  i tribuni  scio* 
glieva  no , arbitri  cbe  n’  erano  , i comizj.  Airincontro  se 
intimavano  questi  il  popolo  pe’  comizj  ; non  lo  permet- 
tevano i consoli  che  aveauo  il  diritto  di  chiamar  le  cen- 
turie, e dispensate  i voti.  Dond’é  che  vicendevoli  erano 
le  accuse,  e continue  le  altercazioni  degli  nni  con  gli 
altri  circondati  dal  seguito  loro  ; tantoché  alcuni  si  per* 
cossero  fra  loro  per  la  rabbia,  e per  poco  non  si  venne 
alle  armi.  Or  ciò  vedendo  il  Senato , ponderò  lunga- 
mente come  dovesse  espedirsi,  non  potendo  far  violen- 
za, nè  volendo  cedere  al  popolo.  Chiedeavi  la  parte 
meno  pieghevole  che  pe’  comizj  si  eleggesse  dittatore 
r uomo  riputato  il  migliore  : che  costui  preso  il  coman- 
do , cacciasse  di  città  gli  autori  d.el  male  : che  se  ci  avea 
difetti  nelle  magistrature  quali  erano,  le  retti  beasse  , or- 
dinandovi come  più  voleva  il  governo;  e che  desse  ad 
uomini  degni  le  cariche.  Ma  la  parte  più  mite  voleva 
che  si  eleggessero  interré  gli  uomini  più  provetti  e più 
venerabili  ; i quali  provvedessero  che  si  facessero  reltissi* 
mamente  i magistrati,  come  subito  dopo  i re  si  facevano. 
Accostatisi  i più  di  loro  a*tal  sentimento,  fu  nominato  in- 
terré Aulo  Sempronio  Atratino  , e le  altre  magistrature 
cessarono.  Costui  diretta  ne’  giorni  a lui  concedati  la 
città  senza  sedizione  , nominò  , com’  è l’ uso , per  nuovo 
interré  Spurio  Largio.  Or  avendo  questo  convocato  i 
comizj  centuriati,  e fattovi  dispensare  secondo  le  classi 
il  voto  ; furono  con  beneplacito  di  ambe  le  parti  eletti 


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laa  DELLE  antichità’  romane  , 

coùsoii  Cajo  Giulio  uomo  popolarìuimo  per  la  prima 
volta,  e per  la  seconda  Quinto  Fabio  il  figlio  di  Ce- 
sone  , uomo  patrizio  di  anima  (i).  Il  popolo  nÒn  avendo 
niente  sofierto  dal  primo  suo  consolato  ; permise  cbe  ri- 
pigliasse quel  grado  per  odio  contro  di  Appio  , e per- 
chè assai  dilettavasi  che  costui  si  restasse  sfregiato  (a). 
I pnmi  magistrali  poi  credeaoo  che  la  discordia  finisse  a 
lor  modo  ; giugnendo  pe’  maneggi  al  consolato  un  uomo 
intraprendente,  e che  non  sarebbe  per  concedere  vil- 
mente ninna  cosa  alla  plebe. 

XCI.  Al  tempo  di  questi  consoli  gli  Equi  prorom- 
pendo sul  territorio  de’ Latini  ne  trasportarono  con  la- 
trocinio repentino  schiavi  e bestiame  numeroso.  Pari- 
mente i Tirreni  detti  Veienti  danneggiavano  colle  scor- 
rerie molli  de’ campi  Romani.  Deliberato  il  Senato  di 
chiedere  ragione  da’  Ycjenti  j differiva  intanto  la  guerra 
contro  degli  Equi.  Questi  dunque  raccolto  buon  frutto 
della  prima  incursione , nè  comparendo  chi  vietasse  loro 
le  altre  ; invasi  da  ardore  non  ragionevole  risolverono 
di  fare  una  spedizione  non  in  forma  però  di  ladroni. 
Adunque  con  esercito  poderoso  investirono  ed  espugna- 
rono il  popolo  di  Ortona  ; e saccheggiatine  i campi  e 
la  città  partirono  con  preda  copiosa.  Li  Yejenti  rispon- 
dendo ai  deputati  venuti  da  R^ma  che  i predatori  delle 
campagne  non  erano  spedili  da  essi  ma  da  altri  Tirmii; 
li  congedarono  senza  rendere  loro  giustizia.  Oc  s’  im- 
batterono i deputali  appunto  in  Yejenti  cbe  tsasporta- 

(i)  Anno  di  Roma  373  «econdo  Catone,  374  secondo  Varrone , « 
4S0  av.  Cristo. 

(3)  Colla  ripulsa  del  figlio. 


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LIBRO  Vili.  I a3 

vano  dalle  terre  de’Romani  la  preda.  Il  Senato  ciò  udendo 
decretò  la  guerra  su’  Vejenti , e che  1’  uno  e l’altro  con> 
sole  vi  marciasse  colle  armate.  Fu  tal  decreto  un  sub> 
bjetto  di  contraddizioni  : perocché  molti  non  lasciavano 
che  la  guerra  uscisse , ricordando  a’  plebei  la  partizion 
delle  terre  decisa  già  da  cinque  anni  dal  Senato , e come 
tra  le  belle  speranze  furono  defraudati , e protestando 
che  non  particolare  ma  comune  sarebbe  quella  guerra , 
se  la  Etruria  tutta  levavasi  unanime  a soccorrere  ì suoi 
nazionali.  Non  poterono  però  nulla  tali  sediziosi  discorsi; 
imperocché  per  le  insinuazioni  di  Spurio  Largio  anche 
il  popolo  ratiScò  la  sentenza  de’  padri  : pertanto  i con- 
soh*  cavarono  gli  eserciti , e gli  accamparono  separati 
r uno  dall’  altro , non  lungi  da  Yejo.  Si  tennero  in  tal 
modo  più  giorni:  non  uscendone  però  l’inimico  coll’ar- 
mata  ; datisi  a saccheggiarne  i campi , sen  tornarono  con 
quanta  poteano  più  preda  in  patria.  Or  ciò  e non  altro 
vi  ebbe  di  memorabile  sotto  questi  consoli. 


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124 

DELLE 

ANTICHITÀ  ROMANE 

n I 


DIONIGI  ALICARNASSEO 


LIBRO  NONO. 


L JLj  anno  appresso  nacque  disparere  tra  ’l  popolo  e 
tra  i senatori  su  la  scelta  de'  consoli  : imperocché  que- 
sti voleano  promovere  al  consolato  due  di  cuore  patri- 
zio , laddove  la  moltitudine  due  ne  volea  popolareschi. 
Arse  la  disputa  finché  tra  loro  si  persuasero,  che  am- 
bedue le  parti  dovessero  nominare , ciascuna  , un  console. 
Pertanto  il  Senato  elesse  Fabio  Cesene  per  la  seconda 
volta , quello  appunto  che  aveva  accusato  Cassio  come 
reo  di  tirannide,  ed  il  popolo  creò  Spurio  Furio  (i) 

(i)  Anno  di  Roma  s;3  tecoado  Catone,  375  Mcoodo  Vairone,  c 
479  av.  Cristo. 


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DELLE  Antichità’  romane  lib.  ix.  laS 
nella  olimpiade  settantesima  quinta  ; essendo  Calliade 
Arconte  in  Atene , al  tempo  appunto  che  Serse  fece  la 
sua  spedizione  contro  della  Grecia.  Or  avendo  questi 
preso  appena  il  comando  , yennero  in  Senato  gli  am- 
basciadori  Latini  per  supplicarvi,  che  si  mandasse  loro 
coir  esercito  l’ uno  de’  consoli , il  quale  non  permettesse 
che  la  insolenza  degli  Equi  procedesse  più  oltre.  An- 
nunziavasì  insieme  che  la  Etruria  tutta  era  in  moto , e 
che  tra  non  molto  uscirebbe  colle  armi  per  essersi  già 
riunita  in  (x>mizj  generali  : come  pure  che  avendo  i 
Vejenti  insistito  per  congiungersele  contro  i Romani, 
ne  aveano  Gnalmente  ottenuto , che  potesse  ogni  Tirreno 
parucipare  alla  impresa:  dond’ è che  fatto,  si  era  un 
corpo  riguardevole  di  Vejenti  volontari , per  militarvi. 
Or  ciò  vedendo  i magistrati  Romani  deliberarono  che  si 
recintasser  le  armate , e che  li  consoli  uscissero  con  esse 
r uno  per  combattere  gli  Equi , ed  esser  il  vindice  dei 
Latini  ; e l' altro  per  marciare  contro  l’ Etruria.  Oppo- 
nessi a ciò  Spurio  Sidnio  (i)  l’uno  de’tribnoi,  è con* 
gregando  ogni  giorno  il  popolo  a conclone  raddoman- 
dava  le  promesse  dal  Senato , e protestava  che  non  pen> 
metterebbe , che  si  eseguisse  niuna  delle  cose  decretate 
da’  padri  su’  nemid  o su  la  dttà,  se  prima  non  creavano 
i Died  , per  deBnire  le  terre  del  pubblico  , e non  le 
compartivano  , come  eransi  obbligati  in  verso  dd  popolo. 
Implicavasi , nè  sapeva  che  fare  il  Senato  ; quando  Ap> 

(i)  In  atconì  codici  ti  legge  Icilio:  e Lirio  stesso  nel  lib.  4, 
dice  : auetoret  fuitte  tam  Uberi  popolo  mffrayì  leitios  accipio  , 
ex  famitia  i/ifeetUtima  patribue  Irei  in  eam  antuun  Uibunot  plebù 
ereaioi. 


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156  DELLK  Antichità’  romane 
pio  Claudio  suggerì  che  si  procurasse  la  dissensione  tra 
questo  e gli  altri  Tribuni  ; perciocché  vedea , eh'  essendo 
r oppositore  inviolabile,  ed  impedendo  col  poter  dei^ 
leggi  i decreti  de’ padri,  non  rimaneva  altra  via  da  rin- 
tuzuraelo,  se  non  quella  che  un  altro  di  eguale  onore 
e potenza  operasse  in  conurario , e proibisse  ciocch’  egli 
proibiva:  consigliava  inoltre  che  quanti  prenderebbero 
successivamente  il  consolato  si  adoperassero , e mirassero 
sempre  ad  avere  iàmigliari  ed  amici  de’' tribuni , ripe» 
tendo  non  esservi  altr’  arte  da  iuvalidame  il  potere , se 
non  quella  di  ridurli  discordi. 

II.  Parve  ai  consoli  che  Appio  ben  consigliasse,  ed 
essi , e gii  altri  de’più  potenti  si  afiàticarono  vivamente, 
perchè  quattro  de’  tribuni  si  dessero  ai  voleri  del  Se> 
nato.  Or  questi  cercarono  alcun  tempo  persuadere  colle 
parole  Sicinio  a desistere  dalla  mira  che  i terreni  si' di- 
videssero innanzi  la  fin  della  guerra.  Ripugnando  e giu- 
rando , e dicendo  però  costui  protervissimamente , che 
vorrebbe  piuttosto  vedere  la  città  caduta  in  poter  dei 
Tirreni  e di  altri  nemici , che  lasciare  placidi  a sestessi 
que’  che  godeansi  le  terre  del  pubblico , pensarono  di 
prender  quindi  la  bella  occasione  di  parlare  , e di  ope- 
rare contro  tanta  arroganza , non  udita  con  piacere , 
nemmeno  dal  popolo.  Adunque  dichiararono  che  gliel 
proibivano  ; e fecero  svelatamente , quanto  piacque  al 
Senato , ed  ai  consoli.  Dond’  é che  Sicinio  rimasto  solo 
non  era  più  1’  arbitro  di  cosa  niuna.  Fecesi  dopo  ciò 
la  iscrizion  dell’  annata , e si  apparecchiarono  dai  pri- 
vati , e dal  pubblico  con  ogni  diligenza  le  cose  tutte 
necessarie  per  la  guerra.  I consoli , tirata  a sorte  la  spe- 


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LIBRO  Vili.  127 

dÌEioQ  loro,  uscirono  ben  (osto  all'aperto,  Spurio  Furio 
contro  le  città  degli  Equi , e Fabio  Casone  contro  i 
Tirreni.  Corrispondevano  i successi  appunto  ai  disegni  di 
Spurio  ; non  avendo  i nemici  nemmen  cuore  di  venire 
alle  mani  : e potè  di  quella  spedizione  raccogliere  da- 
nari e prigionieri  in  buon  numero  ; imperocché  per  poco 
non  scorse  tutto  il  territorio  nemico  , menando  o por- 
tando via.  Concedè  tutte  le  prede  in  dono  ai  soldati  : 
e se  parea  già  da  gran  tempo  l’amico  del  popolo;  più 
che  mai  se  lo  accarezzò  con  tal  suo  capitanato.  Del 
quale , finito  il  tempo , ricondusse  l’ esercito  intero,  in- 
violato , ricchissimo  divenuto , alla  patria. 

IIL  Fabio  Cesone  diresse  nemmeno  bene  il  comando 
deir  armata  , por  andò  privo  delle  lodi  delle  opere , non 
per  colpa  sua , ma  perchè  fin  d’ allora  che  fe’  giudicare, 
e dare  a morte  Cassio  il  console,  come  intento  alla  ti- 
rannide , non  avea  più  lafiètto  del  popolo.  Donde  che 
li  soldati  suoi  non  erano  disposti  nè  ad  ubbidire  colla 
prestezza  la  quale  abbisogna  al  duce , che  ordina , nè 
ad  espugnare  con  ardore  quantunque  muniti  di  fòrze 
convenienti  , nè  a guadagnare  colle  insidie  i posti  op- 
portuni al  buon  successo  , nè  a fare  cosa  niuna  dalla 
quale  raccogliesse  onore  e fama  buona  pe’  comandi  che 
dava.  Le  altre  iocongruenze  poi  colle  quali  spregiavano 
esso  capitano  erano  per  lui  meno  gravi , nè  di  tanta  ro- 
vina per  la  patria.  Se  non  che  quel  che  fecero  in  ultimo 
creò  pericolo  non  lieve,  e grande  ignominia  per  ambe> 
due.  Imperocché  scesi  a battaglia  campale  fra  i due  colli 
su  quali  alloggiavano  diedero  molte  e splendide  prove 
di  valore , fin  a scingere  i nemici  a dar  volta  ; non 


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ia8  DELLE  Antichità’  romane 
però  gl'  inseguirono  nella  fuga , sebbene  il  capitano  ve 
gli  scongiurasse , né  vollero  con  fermezza  asserliame 
gli  alloggiamenli  ; ma  lasciata  la  bell*  opera  imperfetta , 
si  ritirarono  alle  proprie  trincee.  Anzi  tentando  il  con- 
sole capitano  dire  alcune  cose  (i):  molti  a gran  voce 
ne  lo  beffarono,  e redarguironlo  che  avesse  per  la  im> 
perizia  sua  nei  comandare,  fatto  tra  lor  la  rovina  di 
tanti  valentuommi:  ed  aggiungendo  altre  maldicenze  e 
querele , esigerono  che  sciogliesse  il  campo , e li  ricon- 
ducesse a Roma , come  insufficienti  ad  una  seconda  bat- 
taglia , se  il  nemico  su  loro  tornasse.  Nè  puntò  si  pie* 
garouo  per  le  ammonizioni , nè  si  commossero  pe’  g»> 
miti , e per  le  suppliche  di  lui , nè  le  grandi  minaccie 
ne  riverirono  { ma  sd^nandosene  ognora  più  si  osti- 
narono. Per  le  quali  cose  tanta  , e tanto  universale  fu 
la  insubordinazione , e il  dispregio  pel  capitano;  che  le- 
vatisi intorno  la  mezza  notte , dismisero  le  tende , e rac- 
colsero le  armi  ; trasportandone  li  feriti  , senza  comando 
ninno. 

ly.  Il  duce  vedendo  ciò  fu  costretto  dare  il  segno 
per  tutti  della  partenza  ; temendo  1*  audacia  e l’ anarchia 
loro  : ed  essi  come  salvatisi  colla  fuga , pervennero  in 
gran  fretta  su  1’  alba  presso  di  Roma.  Le  guardie  delle 
mura  ignorando  che  fossero  amici , brandirono  le  armi , 
e chiamaronsi  a vicenda  ; e tutto  il  resto  della  ciltè  si 
empiè  di  confusione  e tumulto , come  per  grande  scia- 
gura : nè  si  aprirono  le  porte , se  non  a di  luminoso , 
quando  si  ravvisò  eh’  era  1’  esercito  loro.  Questo  poi  , 

(i)  Secondo  ua’ altra  leiione  il  teaio  Mrebbe  : ami  tentando  ai- 
euni  dare  ai  cotuoU  nome  d' Imptradore  ec. 


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LIBRO  IX.  I 29 

per  tacere  la  infamia  deli' abbandono  del  campo,  corse 
a riscbio  non  lieve , traversando  disordinatamente  di 
notte  le  terre  nemiche.  Imperocché  se  gli  emoli  se  ne 
avvedevano , e lo  inseguivano  , niente  impediva  che  lo 
sterminassero.  Cagione , come  ho  detto , di  questa  irra- 
gionevol  partenza , o fuga  , fu  l’odio  del  popolo  contr» 
dei  capitano,  e la  invidia  su  la  onoriBcenza  di  lui,  af> 
finché  più  autorevole  non  divenisse  per  la  gloria  del 
trionfo.  I Tirreni  conosciutane  al  quovo  di  la  rimozione, 
spogliarono  i cadaveri  de’  Romani , presero  e trasporta- 
rono i feriti , e saccheggiarono  nelle  trincee  tutti  gli 
apparecchi , certamente  ben  grandi , come  per  guerra 
diuturna . Alfine  dopo  avere , quasi  vincitori,  depredate 
le  terre  nemiche  più  prossime , ricondussero  in  patria 
1’  armata . 

V.  Creati  consoli  dopo  questi  Cajo  Malllo , e Marco 
F abio  per  la  seconda  volta  , siccome  il  Senato  decretò, 
che  marciassero  (i)  contro  Vejo  con  armata  quanta  po> 
teano  numerosa , intimarono  il  giorno  per  la  iscrizioa 
dei  soldati.  Ben  pose  loro  Impedimento  per  questa  Ti- 
l>erio  Pontificio  T uno  dei  tribuni  con  reclamare  il  de- 
creto su  la  partizione  delle  terre  : ma  essi,  come  aveano 
fatto  i consoli  antecedenti , guadagnando  altri  de’  tribu- 
ni , disunirono  que'  magistrati , e cosi  diedero  esecnzlone 
pienissima  ai  voleri  del  Senato.  Finita  in  pochi  di  la 
coscrizion  militare , uscirono  contro  de’  nemici  ; condu- 
cendo ciascuno  due  legioni , reclutate  dalf  interno  di 

( I ) Anno  di  Roma  a^4  secondo  Catone , 376^  tecoado  Varrons 
■ av.  Cristo. 

VIOmGT  , temo  III.  9 


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i3o  DELLE  Antichità’  romane 
Roma , e milizia  non  minore  ; spedita  dalle  colonie  e 
da’  sudditi.  Giunse  dai  Latini  e dagli  Emici  il  doppio 
del  soccorso  intimato , non  però  li  consoli  lo  usarono 
tutto , ma  rimandandone  la  metà , li  ringraziarono  am- 
plissimamente di  tanto  buon  animo.  Accamparono  in- 
nanzi di  Roma  una  terza  armata  floridissima  di  due  le- 
gioni , per  guardia  del  territorio  , se  mai  vi  si  presen- 
tasse altro  esercito  nemico  improvviso  ; e lasciarono  a 
difenderne  le  fortezze  e le  mura  gli  altri  non  più  com- 
presi nella  iscrizion  militare,  ma  validi  ancora  per  le 
armi.  Quindi  guidando  gli  eserciti  fin  presso  di  Vejo 
ne  misero  il  campo  su  due  colli  non  molto  lontani  fra 
loro.  Accampavasi  davanti  la  città  l’armata  nemica , nu- 
merosa e buona  pur  essa  ; anzi  maggiore  non  poco  della 
Romana  per  esservi  accorsi  i primarj  di  tutta  la  Etmria 
co'lor  dipendenti.  All’aspetto  di  tanta  moltitudine,  allo 
splendore  delle  armi , assai  temerono  i consoli  di  non 
listare  a vincere  , se  metteano  l’ esercito  loro  non  bene 
concorde  a fronte  dell’ esercito  unanime  de’ nemici.  Adun- 
que deliberarono  i consoli  fortificare  il  campo  , e pren- 
der tempo , finché  l’ audacia  nemica , elevata  da  un  ir- 
ragionevol  disprezzo , desse  loro  la  opportunità  di  ben 
fare.  Seguivano  dopo  ciò  preludj  continui  di  battaglie, 
e brevi  scaramucce  di  soldati  leggeri  ; non  però  mai 
nulla  di  grande  o di  lumino»). 

VI.  Mal  soffrendo  t Tirreni  la  dilazion  della  guerra 
accusavano  i Romani  di  viltà  perchè  non  uscivano  a bat- 
taglia , e magnifica vansi , quasi  avessero  questi  ceduta 
loro  r aperta  campagna.  Anzi  tanto  più  si  elevavano  a 
spregiare  le  milizie  nemiche  e vilipenderne  i consoli  ; 


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LIBRO  IX.  1 3 I 

quanto  che  credeano  gl’  Iddj  combattere  pc’  Tirreni.  E 
certo  caduto  un  fulmine  nel  quartiere  di  Cajo  Mallio 
]'  uno  de’  consoli,  ne  abbattè  la  tenda , ne  mandò  sosso* 
pra  i focolari , ne  macchiò  le  arme  , le  bruciò  d’  intor* 
no , o in  tutto  glie  le  distrusse  ; e ne  uccise  il  più  co» 
spicuo  de’  cavalli  dei  quali  valessi  nel  combattere , ed 
alquanti  de’  servi.  E condossiacbè  gl’  indovini  diceano 
che  i numi  annunziavano  la  presa  del  suo  campo,  e la 
rovina  de’  personaggi  più  riguardevoli  ; Mallio  levò  l’ e* 
sercito  , e trasferendovelo  su  la  mezza  notte  , lo  con- 
centrò nel  campo  stesso  del  compagno.  I Tirreni  co- 
nosciuta la  traslazione , ed  uditane  la  causa  da’  prigio- 
nieri , s’ ingrandirono  tanto  più  nel  cuor  loro,  quasi  il 
c*ielo  ancora  guerreggiasse  i Romani;  e moltissimo  con- 
fidarono di  vincerli.  E gl’indovini  loro  i quali  sembrano 
aver  meglio  che  quelli  di  altri  popoli  esaminato  i segni 
superni,  e d’onde  scoppino  i fulmini,  e dove  finiscano 
dopo  il  colpo,  da  qual  Dio  vengano , e con  quale  pre- 
sagio di  bene  o dì  male;  esortavano  che  si  andasse  al 
nemico  , inlerpetrando  il  segno  avvenuto  a’  Romani  in 
tal  modo  : poiché  il  fulmine  cadde  nella  tenda  con- 
solare ov'  è il  centro  del  comando  , e disfecevi  tutto 
insino  ai  focolari  ; egli  è indizio  divino  a tutto  l’  e- 
sercilo  deir  abbandono  del  campo  espugnato  a forza, 
e della  rovina  de'  più  riguardevoli.  Se  dunque  , di- 
ceano , coloro  che  ebbero  U fulmine  restavansi  nel 
luogo  fulminato,  nè  trasportavano  ciocci*  erano  signi- 
ficato infra  gli  altri  ; la  presa  di  un  campo  , e la 
distruzione  di  un’armata  sola  avrebbe  appagato  lo 
sdegno  del  nume  cite  U contrariava.  Ma  perciocché 


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i3a  DELLE  Antichità’  romane 
cercando  precedere  col  senno  gli  Dei  si  trassero  aiì 
aluo  campo,  lasciato  deserto  il  proprio,  quasi  il  segno 
celeste  fosse  pel  luogo  non  per  gli  uomini  ; quindi 
è che  [ ira  ' dà' ina  fulminerà  lutti  e chi  trasmutatasi , 
e chi  li  raccolse.  E siccome  mentre  la  necessità  divina 
prenunziava  la  presa  del  campo  essi  non  aspettarono, 
ma  lo  cederono  di  per  sestessi  a nemici , così  non  il 
campo  abbandonato  sarà  preso  di  forza , ma  quello 
che  ricettò  chi  lo  abbandonava. 

VII.  I Tirreni,  udite  tali  cose  dagl’indovini,  invasero 
con  parte  dell’  esercito  il  campo  derelitto  da’  Romani  , 
per  valersene , contro  dell’  altro.  Erane  il  luogo  ben 
forte,  e mollo  accomodato  per  impedire  chi  da  Roma 
andava  all’  esercito.  Fatte  poi  diligentemente  altre  cose 
colle  quali  superar  l’ inimico  , recarono  in  campo  1’  ar- 
mata. Ma  standosene  i Romani  in  calma , i più  audaci 
fra  loro  scorsi  e fermatisi  a cavallo  presso  le  trincee  , 
rampognarono  tutti , quasi  femmine  : e dicendo  simili  i 
duci  loro  agli  animali  più  timidi , gli  sbeffavano , e 
chiedeano  l’ una  delle  due , vuol  dire  ; che  se  disputa- 
vano altrui  la  gloria  delle  armi  ; scendessero  in  campo, 
e ne  decidessero  con  una  sola  battaglia  : ma  se  ricono- 
sceansi  per  codardi  ; cedessero  le  arme  ai  più  forti  , 
subissero  la  pena  delle  opere,  nè  più  aspirassero  a nulla 
di  grande.  Replicavano  altrettanto  ogni  giorno:  ma  per* 
ciocché  niente  ne  proGttavano  ; deliberarono  rinserrarli 
intorno  intorno  con  muro,  per  astringerli,  almeno  colla 
fame,  alla  resa.  consoli  lungo  tempo  guardarono  so- 
lamente ciocché  facevasi  non  per  codardia  nè  per  mol- 
Icsza,  essendo  Tuno  e l’ altro  animoso  e guerriero;  ma 


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LIBRO  IX.  l33 

perchè  temevano  il  mal  talento,  e la  ritrosia  nata  e 
perpetuatasi  ne’  soldati  plebei  fin  d’ allora  che  il  popolo 
tumultuò  per  la  division  delle  terre.  Ancora  stavano 
loro  su  gli  orecchi , e su  gli  occhi  le  cose  che  avea 
fatte  nell’  anno  precedente  per  astio  sul  console , vitu- 
perose né  degne  di  Roma,  cedendo  la  vittoria  ai  vinti, 
e sostenendo  fin  gli  obbrobrj  di  una  fuga  non  vera  , 
affinchè  colui  non  trionfasse. 

Vili.  Volendo  tor  vii»  finalmente  dall’  esercito  la  se- 
dizione e richiamare  alla  concordia  primitiva  la  molti- 
tudine ; e dirigendo  a ciò  tutti  i disegni  e le  providen- 
Ee  ; poiché  non  poteano  ravvederla  uè  co’  supplizj  par- 
EÌali  come  protervissima  ed  armata,  nè  co’ discorsi  come 
insofferente  di  essere  persuasa , concepirono  che  due 
vie  rimarrebbero  per  la  riconciliazione;  vuol  dire;  la 
infamia  di  essere  vilipeso  da’ nemici  per  gli  uomini  (che 
pur  ce  ne  avea  ) d’  indole  moderata , e la  necessitò , 
coi  tutti  paventano , per  gl’  indocili  al  bene.  Adunque 
per  effettuare  ambedue  queste  cose,  lasciarono  che  i 
nemici  li  disonorassero  colle  parole , biasimando  la  cal- 
ma loro  come  la  calma  de’  vili  ; e li  necessitassero  coi 
fatti  pieni  di  arroganza  e disprezzo  a tornar  valentuo- 
mini , se  tali  non  dimostravansi  per  sestessi.  Speravano, 
se  ciò  faceasi , grandemente  che  accorrerebbero  tutti  al 
quarlier  generale  fremendo  , gridando  , ed  istando  di 
esser  condotti  al  nemico.  Or  ciò  appunto  addivenne  ; 
imperocché  non  si  tosto  prese  il  nemico  a rinchiudere 
con  fossa  e steccalo  le  uscite  dal  campo , i Romani 
considerata  la  indegnità  dell’  opera  , ne  andarono  prima 
in  pochi  , indi  in  folla  alle  tende  dui  consoli  , c vi 


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i34  DELLE  Antichità’  romane 
schiamazzarono,  e come  di  tradimento  li  redarguirono; 
protestando  infine  die  se  niun  de’  due  li  guidava , essi 
di  per  sestessi  volerebbero  colle  armi  alla  roano  su  gli 
avversar).  Ciò  fatto  da  tutti,  giudicando  i consoli  venuta 
alfine  la  opportunità  che  aspettavano , imposero  agli 
araldi  di  chiamarli  a parlamento.  Allora  Fabio  recatosi 
innanzi  disse  : 

IX.  Sohìati , capitani,  tarda  è la  vostra  indigna- 
zione su  vilipendj  che  vi  si  Jan  da’  nemici  ; nè  più 
in  tempo  è la  volontà  che  at'ete  di  combatterli,  pei'- 
che  m annestatasi  troppo  dopo  il  bisogno.  Allora  do- 
veasi  ciò  fare  quaruìo  li  vedeste  la  prima  volta  scen- 
dete dalle  trincee , e cercar  la  batiaglia:  jdllora  bello 
era  il  combattere  pel  comando , e degno  della  subli- 
mità de’  Romani.  Ora  necessario  ne  si  è reso,  e certo 
non  di  egtuile  decoro , quatulo  ancora  vincessimo. 
Nondimeno  sta  pur  bene  che  vogliate  una  volta  ri- 
' scuotervi,  e riavervi  delle  occasioni  tralasciate,  E molto 
siete  lodevoli  per  tale  ardore  verso  le  nobili  gesta  ; 
imperocché  procede  da  virtù , e vai  meglio  cominciar 
ciocché  deesi  aruhe  tardi,  che  mai.  Ed  oh!  cosi  tutti 
V abbiate  sentimenti  consimili  per  t util  vostro  , e vi 
animi  tutti  uno  zelo  medesimo  per  combattere.  Pa- 
ventiamo noi  però  che  i trasporti  de’  plebei  contro 
de’  magist  rati  per  la  division  delle  terre,  siano  cagione 
al  pubblico  di  sciagure,  E ciò  noi  paventiamo,  perché 
i clamori , e le  istanze , e la  insofferenza  per  uscire, 
non  è forse  in  tutti  t ejffctto  di  un  disegno  medesimo. 
Ma  quali  di  voi  anelale  uscir  dai  campo  per  punir 
f inimico  ; e quali  per  fuggirvenc.  E cagione  del  ti- 


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LIBRO  IX.  l35 

ntor  nostro  non  sono  già  gl’indovini,  non  le  conget- 
ture; ma  fetui  più  che  notorj  e non  antichi,  anzi  fre- 
schi delt  anno  precedente,  come  tutti  sapete,  quando 
uscendo  contro  questi  nemici  medesimi  un  esercito 
nostro  numeroso  e forte  , e pigliando  fn  la  prima 
battaglia  un  esito  propizio  per  noi  , mentre  Cesane 
mio  fratello,  console  condottiero  poteva  espugnare  gli 
alloggiamenti  loro  e riportare  alla  patria  una  vittoria 
luminosa,  alquanti  presi  da  invidia  della  gloria  di  lui 
perchè  nè  era  popolare  nè  mirava  nel  suo  governo  a 
far  le  voglie  de’  poveri , levarono  le  tende  la  notte 
stessa  dopo  la  battaglia , e fuggirono  fuori  di  ogni 
comando,  senza  valutare  il  pericolo  che  comprendevali 
nelf  andare  privi  di  ordine  e di  capitano  per  le  terre 
nemiche  , e fra  la  notte  , e senza  riguardare  quanta 
vergogna  ri  avrebbero  , perchè  quanto  era  in  loro , 
cedevano  C impero  a nemici,  essi  già  vincitori  ai  viziti. 
Tribuni , centurioni , soldati  ! in  vista  di  tali  uomini, 
non  buoni  nè  per  dominare , nè  per  farsi  dominare , 
che  pur  sono  molti  e caparbii , e colle  armi  , non 
abbiamo  noi  fin  qui  voluto  la  battaglia  , nè  osiamo 
ancora  per  tali  compagni  decidere  in  campo  la  somma 
delle  cose  , perchè  non  sian  essi  tT  impedimento  e di 
danno  a chi  presenta  tutto  il  buon  animo.  Ma  se  la 
divinità  richiami  ancor  essi  a buon  senno,  se,  lasciate 
da  parte  le  discordie  per  le  quali  ha  il  nostro  comune 
tanti  mali  e sì  gravi , e differitele  ai  tempi  di  pace  , 
vorranno  redimere  ora  col  valore  { obbmbrio  passalo: 
niente  impedisce  che  ne  andiamo  caldi  di  belle  spe- 
ranze al  nemico.  Oltre  le  tante  opportunità  di  vin- 


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t3f>  DELLE  Antichità’  romane 

rere  , le  più.  grandi  e più  solide  ce  le  porge  la  stoli^ 
dità  degli  avversar]  medesimi.  Costoro  superiori  a noi 
di  molto  nel  n limerò,  ed  atti  con  ciò  solo  a contrah- 
hilanciare  t animosità  e perizia  nostra , han  privato 
sestessi  fin  di  quest’  unico  vantaggio , consumando  il 
più  delle  milizie  in  guardia  delle  loro  fortezze.  Ap- 
presso , quantunque  dovrebbero  fare  ogni  cosa  con 
diligenza  e saviezza  considerando  con  quali  e quanti 
grand  uomini  abbiano  a misurarsi,  pur  vanno  con 
arroganza  ed  incuria  al  cimento  , come  sian  essi  in- 
vincibili, e noi  sopraffatti  dal  terrore  di  essi.  E le 
fosse  con  che  ci  cingevano  , e le  corse  a cavallo  fin 
sotto  ai  nostri  alloggiamenti , e tan^  altre  ingiurie 
colle  parole  e colle  opere,  questo  appunto  dimostrano. 
Or  via  dunque,  ciò  riguardando  e le  tante  e sì  belle 
antiche  battaglie  nelle  quali  gli  avete  vinti  : andatene 
con  ardore  a questa  ancora.  E quel  luogo  dove  cia- 
scuno sarà  collocato , quello  concepisca  essere  la  casa, 
i poderi , la  patria  sua  : concepisca  che  chi  salva  il 
vicino  in  battaglia  salva  sè  ancora:  e che  abbandona 
sestesso  a nemici  chi  abbandona  il  compagno.  Ilam- 
mentatevi  soprattutto  che  di  quelli  che  persistono  va- 
lorosi e combattono  , pochi  no  soccombono  ; laddove 
pochi  ne  scampano,  e a stento,  di  quelli  che  piegano, 
e figgano. 

X.  Egli  seguitava  ancora  , in  mezzo  a lagrime  co- 
piose , tal  discorso  animatore  , e chiamava  a nome  cia- 
scuno de’  tribuni , de’  centurioni , e de’  soldati  , nolo 
a lui  per  le  belle  prove  di  valore  date  nel  combattere, 
e prometteva  a chi  più  segnalato  sarebbesi  nella  batla- 


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LIBRO  IX.  137 

glia  molti  e gran  pegni  di  benevolenza  , onori  , r;c> 
cliezze  , soccorsi  d’  ogni  guisa  in  parità  delle  imprese  ; 
quando  proruppe  da  tutti  una  voce  che  inviuvalo  a 
con6dare  , e portarli  al  nemico.  Cessata  questa , gli  si 
fece  innanzi  dalla  moltitudine  Marco  Flavoleio  , plebeo 
di  condizione  ed  arteGcc  , non  vile  però  , ma  per  le 
sue  virtù  pregiato  , e prode  in  guerra  ; e per  tali  due 
rispetti  condecorato  in  campo  di  una  presidenza  lumi- 
nosa , cui  sieguono  ed  ubbidiscano  per  legge  sessanta 
centurie.  I Romani  chiamano  primipili  nel  patrio  idio- 
ma tali  condottieri.  Or  quest’  uomo , altronde  grande  e 
bello , postosi  in  parte,  donde  fosse  a lutti  visibile,  al- 
fine disse:  K oi  temete,  o consoli,  che  le  opere  nostre 
non  corrispondano  alle  parole  ? Io  per  il  primo  vi 
darò  su  mestesso  le  assicurazioni  meno  equivoche 
della  mia  promessa.  E voi  cittadini , voi  compagni 
della  sorte  medesima , voi  che  avete  risoluto  di  pa- 
reggiare ai  detti  le  opere  , non  sbaglierete  facendo 
quanto  io  fo.  E qui , sollevando  la  spada , giurò  con 
formola  sacra  e solenne  ai  Romani  , per  la  sua  buona 
fede , di  non  tornare  , se  non  dopo  vinti  i nemici,  alla 
patria.  Sorsero  al  giuramento  di  Flavoleio  lodi  amplis- 
sime d’ogn’intorno.  Fecero  bentosto  altrettanto  i consoli 
e mano  a mano  i duci  minori , tribuni  e centurioni  ; e 
la  moltitudine  finalmente.  Yidesi  dopo  ciò  molto  buon 
animo  in  tutti,  molta  benevolenza  fra  loro , molta  con- 
fidenza , e fermezza.  Partiti  dall’  adunanza  , chi  metteva 
il  freno  ai  cavalli,  chi  le  spade  aguzzava  e le  lance  ; e 
chi  riforbiva  gli  scudi  ; ond’  è che  tra  poco  tutta  1’  ar- 
mala fu  in  pronto  per  la  battaglia.  I consoli , invocali 


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i38  DELLE  Antichità’  romane 
gl' Iddìi  con  voti,  con  ugrifizj , con  suppliche,  perchè 
fossero  i duci  essi  stessi  di  quella  uscita , portavano 
fuori  degli  steccati  l’esercito,  schierato  in  buon  ordine. 
I Tirreni  vedutili  scendere  dalle  loro  trincee  , ne  stu- 
pirono , e vennero  ad  incontrarli  con  tutte  le  forze, 

XI.  Come  furono  gli  uni  e gli  altri  sul  campo,  e le 
trombe  annunziarono  il  seguo  delta  battaglia  , corsero 
quinci  e quindi  con  alti  clamori.  E fattisi  i cavalieri 
su  i cavalieri,  ed  i fanti  so  i fanti;  pugnarono,  e molu 
fu  la  occisione  in  ambe  le  parti.  I Bomani  dell’ala  de- 
stra comandati  dal  console  Mallìo  malmenavano  il  corpo 
che  li  contrastava  , e smontati  da  cavallo  combattevano 
appiedo:  ma  quelli  dell’ala  sinistra  erano  circondali  dal 
corno  destro  de’  nemici.  Imperocdiè  essendo  ivi  la  mi- 
lizia tirrena  più  elevata  e più  numerosa  , i Romani  ne 
erano  battuti,  e coperti  di  ferite.  Comandava  in  questo 
corno  Quinto  Fabio  luogotenente  e già  due  volte  con- 
sole. Egli  resistè  lungo  tempo  , ricevendovi  ferite  sopra 
ferite  ; ma  poi  trafitto  da  una  lancia  nel  petto  fino  alle 
viscere  , esangue  ne  stramazzù.  Come  ciò  udì  Marco 
Fabio  il  console  che  crasi  ordinalo  nel  centro , pigliò 
seco  i più  bravi,  e,  chiamato  Fabio  Cesone  l’uno  dei 
fratelli , marciò  verso  1’  altro  Fabio  (i).  E proceduto 
buon  tratto,  e trascorso  all’ala  destra  de’ nemici,  venne 
a quelli  che  circoudavano  i suoi.  Dato  l'assalto,  causò 
strage  cupa  a quanti  avea  tra  le  mani,  e fuga  ad  altri 
che  erano  da  lontano.  Trovato  il  fratello  che  respirava 

(i)  Il  ferito.  Par  questo  il  senso  migliore.  Nel  testo  si  legge 
in  luogo  di  Fabio.  Qui  dunque  si  hanno  tre  Fabj, 
Marco  , Quinto  , c Cesone,  fiaiclli  lutti  tre. 


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LIBRO  IX.  189 

ancora,  lo  soUcTÒ;  ma  questi  non  molto  sopravvivendo, 
morì.  Crebbe  qui  l’ira  a’ vendicatori  suoi  su’ nemici.  Nè 
più  riguardando  la  propria  salvezza  lanciatisi  in  piccieda 
sebiera  nel  mezzo  di  essi , dove  erano  più  folti , vi  al- 
zarono monti  di  cadaveri.  Pericolò  da  questa  |>arte  la 
milizia  toscana  , ed  essa  che  prima  incalzava  en  incal- 
zata dai  vinti.  Per  l’ opposto  c|oelli  dell’ala  sinistra  che 
gii  crollavano  , e gii  meticvansi  in  piega  li  dove  era 
Mallio,  quelli  fugarono  i Romani  contrapposti.  Imperoo 
cbè  trafitto  Mallio  con  una  lancia  da  banda  a banda  in 
un  ginocchi  o , c riportato  da’  suoi  che  lo  circondavano 
agli  alloggiamenti  ; i nemici  lo  credettero  estinto  , e se 
ne  animarono  ; ed  assistiti  pur  da  altri  forzavano  i Ro- 
mani , ridotti  senza  duce.  I Fal^  dunque  lasdalo  il 
corno  sinistro  furono  di  nuovo  astretti  a soccorrere  il 
destro.  I Tirreni , vistfli  che  venivano  con  esercito  po- 
deroso , desisterono  dall’  inseguire  : e strettisi  fra  loro  , 
combatterono  io  ordinanza  , perdendovi  molti  de’  loro  ; 
e molti  nocidendovi  de’  Romani. 

XII.  Intanto  i Tirreni  ebe  avevano  invaso  gli  allog- 
gia menti  lasciati  da  Mallio , aizaione  il  segnale  dal  ca- 
pitano, marciarono  con  gran  fretta  ed  ardore  verso  gli 
altri  alloggiamenti  Romani  perchè  non  bene  forniti  di 
guardie.  Era  il  loro  concetto  verissimo  ; perché  tolti  i 
triarj  e pochi  giovani,  non  v’  erano  se  non  mercadanii, 
e servi  , ed  artefici.  Ma  ristringendosi  molti  in  picciolo 
spazio  presso  le  porte,  ebbevi  una  viva  e terribile  zuffa 
con  strage  copiosa  e vicendevole.  Accotzo  con  i cavalieri 
Mallio  il  console  per  ajuto  ; cadde  col  cavallo,  nò  po- 
tendo risorgere  per  le  molle  ferite  vi  morì.  Perirono 


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i4o  DELLE  Antichità’  romane 
ancora  intorno  a lui  molti  giovani  valorosi  : e per  tale 
infortunio  gli  alloggiamenti  furono  espugnati  ; vcriGcan* 
dosi  cosi  li  vaticini  fatti  ai  Tirreni.  E se  avessero  ben 
usato  la  sorte  presente,  e guardato  quegli  alloggiamenti; 
sarebbero  stati  gli  arbitri  delle  provvigioni  de’  Romani  e 
gli  avrebbero  costretti  a partire  obbrobriosamente  : ma 
datisi  a predare  le  cose  rimastevi  , e li  più  a ristorarsi 
ancora , lasciaronsi  fuggir  di  roano  una  bella  occasione. 
Imperocché  nunziatasi  appena  all’  altro  console  la  presa 
del  campo  , accorsevi  co'  fanti  e cavalieri  migliori.  Li 
Tirreni  saputo  che  veniva  cinsero  le  trincee  ; e fecesi 
battaglia  ardentissima  tra  chi  voleva  ricuperar  le  sue 
cose , e chi  temea  , se  ricuperavansi , 1’  ultimo  eccidio. 
Ma  traendosi  in  lungo  , e riuscendovi  migliore  assai  la 
condizione  de'  Tirreni , perchè  combatteano  da  luogo 
elevato  contra  uomini  stanchi  dal  'combattere  di  tutto  il 
giorno;  Tito  Siccio  legato  e propretore,  consigliatosene 
con  il  console , intimò  la  ritirata  ; e che  si  riunissero 
ed  attaccassero  tutti  le  trincee  dal  canto  più  facile. 
Trascurò  la  banda  verso  le  porte  per  un  discorso  plau- 
sibile che  non  lo  ingannò;  per  questo  cioè,  che  i Tir- 
reni sperando  salvaf&i  , ne  uscirebbero  : laddove  se  di 
ciò  disperavano  circondati  da  nemici  senza  uscita  niuna; 
sarebbero  necessitati  a far  cuore.  Portatosi  in  una  sola 
parte  l’assalto;  non  più  si  diedero  i Tirreni  a resistere; 
ma  spalancate  le  porte , salvaronsi  ne’  proprj  alloggia- 
menti. 

XIII.  II  console  , rimosso  il  pericolo , scese  di  nuovo 
a dar  soccorso  nel  piano.  Dicesi  che  questa  battaglia 
de’  Romani  fu  maggiore  di  tutte  le  antecedenti  per  la 


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LIBRO  IX.  l4l 

mollltudine  degli  uomini  , per  la  durazione  del  tempo , 
e per  l’ alleraarvi  della  sorte  ; imperocché  venti  mila 
erano  i fanti,  tutti  di  Roma,  floridi  e scelti,  oltre  mille 
dugento  cavalli  che  univansi  alle  quattro  legioni  ; ed  aU 
trettanta  era  la  milizia  de’  coloni , e degli  alleati.  La 
}>attaglia  conunciaia  poco  prima  del  mezzogiorno  si  estese 
6no  air  occaso , e la  sorte  ondeggiò  quinci  e quindi 
gran  tempo  tra  vittorie  e tra  perdite.  Occorsevi  la  morte 
di  un  console , di  un  legato  , stato  due  volte  console  , 
e di  tanti  altri  capitani , tribuni , e centurioni , quanti 
mai  piu  per  addietro.  Il  buon  esito  della  giornata  fu 
creduto  de’  Romani  non  per  altro  , se  non  perché  li 
Tirreni  fra  la  notte  lasciarono  il  proprio  campo,  e pas- 
sarono altrove.  Il  giorno  appresso  fattisi  i Romani  a 
saccheggiare  il  campo  Tirreno  abbandonato  , e seppel- 
lire le  morte  spoglie  dei  loro  , tornarono  agli  alloggia- 
menti. Dove  riunitisi  a parlamento  diedero  i premj  di 
onore  a quelli  che  avevano  combattuto  da  valorosi , e 
primieramente  a Fabio  Gesone  fratello  del  console,  che 
avea  fatto  grandi , e meravigliose  gesta  : in  secondo 
luogo  a Siedo,  cagione  che  gli  alloggiamenti  si  ricu- 
perassero ; ed  in  terzo  a Marco  Flavoleio  duce  di  una 
legione,  si  pel  giuramento,  che  per  la  magnanimità  sua 
tra*  pericoli.  Rimasero  dopo  ciò  per  alquanti  giorni  nel 
campo  ; ma  ninno  più  dimostrandosi  per  combatterli  tor- 
narono alla  patria.  In  Roma  per  battaglia  si  grande  la 
quale  prendea  fine  bellissimo  , voleano  tutti  aggiungere 
r onor  del  trionfo  al  console  che  tornava  : ma  il  con- 
sole stesso  noi  consentì , dicendo,  non  essere  pia  cosa, 
nè  giusta , che  egli  s’  avesse  pompa  e corona  trionfale 


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l[\1  DELLE  ANTICrilTA*  ROMANE 

per  la  morte  del  fratello  e del  collega.  E qui  lasciate 
le  insegne , e congedalo  1’  esercito  , depose  ancora  i) 
consolato  due  mesi  prima  del  termine  suo  , non  po> 
tendo  ornai  più  sostenerlo  per  la  grande  finta  che  lo 
travagliava  e riduoevalo  in  letto. 

XIV.  Il  Senato  scelse  gl’  interré  pe’  comizj , e convo- 
cando il  secondo  interré  la  moltitudine  nel  campo  Mar- 
zo, vi  fu  nominato  console  Tito  Yerginio , e per  la 
terza  volta  Fabio  Cesone,  colui  che  ebbe  i primi  premj 
della  battaglia  ed  era  fratello  insieme  del  console , che 
avea  deposto  il  comando.  Questi,  decidendo  ciascuno  per 
sé  l’esercito  col  mezzo  ddle  sorti,  uscirono  in  campo, 
Yerginio  per  combattere  i Yejenti  e Fabio  gli  Equi  che 
scorrevano,  depredando,  le  campagne  Latine  (i).  Gli 
Equi  all’  udire  che  i Romani  venivano , si  levarono  iu 
fretta  dalle  terre  nemiche , e ritiraronsi  alle  proprie  città, 
sopportando  che  si  derubassero  le  terre  loro  : tanto  che 
il  console  col  subito  venir  suo  s*  impadroni  di  danari  , 
di  persone,  e di  altre  prede  in  copia.  Si  tennero  i Ve- 
jenti  in  principio  tra  le  mura  ; ma  quando  parve  loro 
di  avere  il  buon  ponto , usarono  su’  Romani  sbandati , 
ed  intenti  alla  rapina  delie  campagne.  E perciocché 
piombarono  numerosi  , in  buon  ordine  contro  di  essi , 
non  sedo  ue  ritolser  le  prede;  ma  uccisero,  o fugarono 
quanti  si  opposero.  E se  Tito  Siccio  legato  non  accor- 
reva , e li  frenava , con  soldatesca  ordinata  appiedi  e a 
cavallo , niente  .impediva  che  I’  esercito  in  tutto  si  di- 
struggesse. Ma  giunto  lui  per  impedir  ciò,  si  affretta- 
ci) Adoo  di  Room  37S  aecaudo  Catone,  377  secondo  Marrone  e 
479  av.  Cristo. 


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LIBRO  IX.  I 43 

rono  a rlunirsegli , senza  eccettuarne  alcuno , tutti  i di- 
spersi. Coocenlralisi  tutti  occuparono  a sera  un  colle,  e 
vi  pernottarono.  Animati  dalla  prosperità  li  Vejenti  ac- 
camparonsi  presso  del  colle  e chiamarono  altri  dalla  città, 
quasi  avessero  addotti  i Romani  in  luogo,  privo  in  tutto 
de’  viveri , e poiessero  tra  non  molto  necessitarli  ad  ar- 
rendersi. Accorsavi  gran  moltitudine , si  misero  due 
campi  ne’  lati  possibili  ad  espugnarsi  del  colle  ; ed  altre 
picciole  guarnigioni  in  siti  men  facili  ; tanto  che  tutto 
ribbolliva  di  armati.  Fabio  l’ altro  console  intendendo 
per  le  lettere  del  compagno  che  gli  assediati  nel  colle 
erano  agli  estremi,  e sul  punto  ornai  di  rendersi  per  la 
fame  , se  alcuno  non  li  soccorreva  ; raccolse  1’  esercito  , 
e corse  su’  Vejenti.  E se  giungeva  un  giorno  più  tardi; 
niente  gli  sarebbe  valuto  , ma  trovato  avrebbe  l’ esercito 
rovinato.  Imperocché  quei  del  colle  costretti  dalla  pe- 
nuria ne  uscirono  per  correre  a morte  più  onorata  ; e 
fattisi  alle  prese  co’  nemici , combattevano  esausti  dalla 
fame , dalla  sete , dalla  veglia , da  ogni  disagio.  Ma 
dopo  non  molto,  quando  videsi  l’esercito  di  Fabio  che 
giungeva  numeroso,  in  buon  ordine,  tornò  la  conBdenza 
ne’  Romani  , e la  paura  negli  avversar).  Dond’  è che  i 
Tirreni  più  non  estimandosi  acconci  per  fare  giornata 
cx>ntro  di  un  esercito  fresco  e potente , abbandonarono 
l’ impresa , e partirono.  Ma  non  si  tosto  le  due  armate 
Romane  si  ricongiunsero , fecero  un  amplisnmo  campo 
in  luogo  munito  presso  della  città.  Trattenutisi  quivi 
più  giorni  , e saccheggiatone  il  meglio  del  territorio  di 
Vejo;  rimenarono  in  ‘patria  gli  eserciti.  Avvedutisi  i 
Vejenti  che  le  milizie  Romane  eransi  levate  dalle  inse- 


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i44  DELLE  Antichità’  eomane 
gne , presa  ia  gioventù  più  spedita  che  essi  tenevano  ia 
arme  , e quanta  ne  era  presente  de’  loro  vicini , si  get- 
tarono su  campi  confinanti , e li  depredarono  pieni  di 
fratti , di  bestiami , di  uomini  ; per  essere  i contadini 
calati  da’  castelli  a pascere  i bestiami  c lavorare  le  terre 
su  la  fiducia  che  aveano  nell’  esercito  Romano  trincie- 
rato  innanzi  di  loro.  Non  eransi  questi  ai  partir  dell’e- 
sercito affrettati  a ritirarsi  colle  cose  loro,  non  temendo 
che  i Vejenti , tanto  danneggiati , dessero  cosi  pronta 
la  ripercossa  a’ nemici.  Fu  la  irruzione  de’  Vejepti  pic- 
cola se  se  ne  guardi  il  tempo  ; ma  grandissima  per  la 
quantità  de’  campi  saccheggiati  : ed  avanzatasi  fino  al 
Tevere  verso  il  monte  Gianicolo  a meno  di  venti  stadj 
da  Roma  ; le  recò  dolore  e vergogna  insolita  ; non  es- 
sendovi sotto  le  insegne  milizie  che  impedissero  a quella 
di  estendersi.  Cosi  l’esercito  de’  Vejenti  prima  che  que- 
ste si  riunissero  ed  ordinassero , corse  desolando , e 
parti. 

XV.  Adunatisi  quindi  il  Senato  e i consoli  , c datisi 
a considerare  in  qual  modo  fosse  da  far  guerra  a’  Vc- 
jenti  ; prevalse  il  partito  di  tener  ne’  conOni  milizie  di 
osservazione  pronte  sempre  in  campo  per  la  difesa  del 
territorio.  Couturbavali  che  grande  ne  diverrebbe  il  di- 
spendio , laddove  l’ erario  era  esausto  per  le  imprese 
continue  , nè  più  bastavano  i beni  ai  tributi  ; e molto 
più  contnrbavali  la  recluta  di  tali  presidj  da  spedirsi  * 
perocché  ninno  voleva  star  in  guardia  per  tutti:  doven- 
dosi travagliare  non  a volta  a volta,  ma  sempre.  Essen- 
do per  tali  due  cause  mesto  il  Senato;  i due  Fabj  (a) 
(i)  1 due  Fabj  sono  Marco  Fabio,  e Fabio  Cesoue  nomiaati  di  topna. 


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LIBRO  ix;  145 

convocarono  qnanti  partecipavano  il  loro  lignaggio.  Con* 
saltatisi,  promisero  al  Senato  di  andare  spontaneamente 
essi  per  tutti  a tal  rischio , conducendo  seco  amici  e 
clienti , e militandovi  a proprie  spese  ; finché  durerebbe 
la  guerra.  Ed  esaltandoli  per  la  disposizion  generosa , e 
contando  tutti  di  vincere  anche  per  (jnesta  opera  sola , 
pigliarono  essi  famosi  in  città  le  aripe  tra’sagrifizj  e tra 
i voti,  e ne  uscirono.  Era  duce  loro  Marco  Fabio  il 
console  dell’  anno  precedente,  quegli  che  vinse  i Tirreni 
in  batuglia.  Esso  menava  presso  a poco  quattro  mila , 
clienti  per  la  maggior  parte  ed  , amici  , ma  trecento  sei 
ve  n’ erano  delia  stirpe  de’Fabj.  Usci  non  molto  dopo 
su  le  orme  loro  l’armata  Romana,  comandata  da  Fabio 
Cesone,  Tuno  de’ consoli.  Avvicinatisi  al  Cremerà,  fiume 
non  molto  discosto  da  Vejo  , fordficaroiio  su  di  una 
balza  precipitosa  e dirotta  un  castello  opportuno  a di- 
fendere tante  milizie,  e vi  scavarono  intorno  doppie 
fosse , e vi  elevarono  torri  froquenti.  Cremerà  fu  nomi- 
nato ancor  esso  il  castello  dal  fiume.  E conciosnachè 
molti  esercitavano,  ed  il  console  stesso  coadiuvava  quel 
lavoro , fu  terminato  prima  che  noi  pensassero.  Allora 
cavò  r esercito , e marciò  su  1’  altra  parte  alle  terre  dei 
yejenti , poste  incontra  al  resto  della  Etruria , dove 
quelli  tenevano  i bestiami , non  aspettandovi  mai  l’arme 
Romane.  Fattavi  gran  preda  se  la  recò  nel  nuovo  ca- 
stello , esultandone  per  due  cause  , cioè  per  la  vendetta 
non  tarda  pigliata  su’  nemici , e per  1’  abbondanza  che 
dava  copiosissima  ai  soldati  che  lo  presidiavano,  percioc-  « 
chè  niente  ne  riservò  per  l’  erario , o ne  dispensò  tra  lo 

DIONIGZ  , tomo  in.  1« 


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i46  DEiXE  Antichità’  romane 
sue  milizie,  ma  tulio  concedette  a quelli  che  guarda^ 
vano  la  regione,  greggi,  giumenti,  gioghi  di  buoi, 
ferramenti , e quanto  era  utile  per  la  coltura.  E dopo 
ciò  rlmenò  1’  esercito  a Roma.  Erano  dopo  fondato  il 
cartello  i Vejenti  a mal  termine  ; non  polendo  nè  lavo* 
t^re  con  sicurezza  le  terre , nè  ricevere  esterne  vetto> 
vaglie.  Imperocché  li  Fabj  (i)  diviso  in  quattro  parti  la 
gente  loro , con  una  difendevano  il  castello  , e le  tre 
altre  scorrevano  la  regione  nemica  pigliando,  e traspor> 
landò.  E quantunque  molte  volte  i Vejenti  gli  assalirono 
con  truppe  non  poche  nell’  aperto , e se  li  tirarono 
dietro  in  terre  piene  d' insidie  ; essi  nondimeno  vinsero 
r uno  e r altro  pericolo  ; e fatta  glande  uccisione , n 
ricondussero  salvi  al  castello.  Pertanto  non  osavano  più 
li  nemici  d’ investirli  , ma  tenendosi  per  Ib  più  tra  le 
mura  , np  faceano  furtive  sortite.  E cosi  ne  andò  quel* 
r inverno. 

XVI.  Entrati  l’anno  appresso  (a)  in  consolato  Lucio 
Emilio , e Cajo  Servilio  , fu  nunziato  a’  Romani  , che 
i Volsci  e gli  Equi  eransi  convenuti  di  portare  su  loro 
la  guerra,  e d’ invaderne  tra  non  molto  le  terre;  e ve- 
rissimo ne  era  1’  annunzio.  Imperocché  , armatisi  gli  uni 
e gli  altri  prima  dell’  aspettazione , corsero  , e devasta- 
rono , ciascuno , la  regione  vicina  a sestesso  , persuasi 
che  non  potrebbono  i Romani  combattere  in  un  tempo 
i Tirreni , e rispiiigere  altri  che  gli  assalissero.  Poi  so- 

(i)  Cioè  quelli  i quali  prcaidiavauo  il  casiello  aoUo  gli  auspicj 
di  Marco  Fabio. 

(a)  Addo  di  Roma  37C  lecoudo  Catone,  3^8  lecoodo  Varroae  ; 
e 476  *v.  Cristo. 


* 


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LIBRO  IX.  147 

{iravveiiendo  altri  ridicevano  che  I’  Elriiiia  tutta  levavasi 
in  guerra  coulro  i Romani , e preparavasi  di  s[>edire  ia 
comune  un  soccorso  a’  Vejenti.  Or  lo  avevano  i Ve> 
jenti  f incapaci  di  espugnare  il  castello , imploralo  qu»> 
sto  soccorso  ; commemorando  la  unità  del  sangue , 1’  a- 
micizia,  e le  tante  guerre  che  aveano  insieme  combat- 
tute. Anzi  aVeano  dimandata  l’ alleanza  loro  nella  guerra 
co’  Romani  non  si  per  questi  riflessi , come  per  quello 
ancora  , che  i Vejenti  erano  su  la  frontiera  dell’  Etra- 
ria ; e frenavano  una  guerra , che  versavasi  da  Roma  su 
tutta  la  nazione.  Convinti  di  tanto  i Tirreni  promisero 
mandare  tutti  i sussidj  che  richiedevano.  Per  1*  opposto 
il  Senato,  informatone,  risolvette  spedire  tre  eserciti.  Ed 
arrolate  in  fretta  le  milizie;  fu  spedito  Lucio  Emilio  sa 
i Tirreni.  Usci  pur  con  esso  Fabio  Ceso  ne  , colui  che 
avea  di  fresco  deposto  il  comando , ottenuta  dal  .Senato 
la  facoltà  di  ricongiungersi  in  Cremerà , e partecipare  t 
pericoli  della  guerra  colle  genti  Fabie  che  il  fratello 
aveaci  condotte  in  difesa  del  luogo  : ma  egli  v’  andava 
co’  suoi  compagni  ornato  di  autorità  proconsolare.  Cajo 
Srrvilio  l'altro  console  marciò  contro  i Volsci,  e Servio 
Furio  proconsole  contro  gli  Equi.  Seguivano  ciascun  di 
essi  due  legioni  Romane  , e truppe  alleate  non  minori 
di  Eroici , di  Latini , e di  altri.  Servio  il  proconsole 
espedì  la  guerra  con  termine  rapido  e lieto  ; perciocché 
fugò  gli  Equi  con  una  battaglia  , e senza  stento  ; im- 
paurendoli al  primo  investirli  : e poi  rifuggitisi  questi 
ne’ luoghi  forti  ; ne  devastò  le  campagne.  Ma  Serviliu  il 
console  fattosi  a combattere  con  fretta  ed  orgoglio,  in- 
contrò ben  altra  sorte  da  quella  che  ne  aspettava:  Op- 


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i/jS  DELLE  Antichità’  romane 
posiiglisi  i Volsci  bravissimameote  , vi  perdette  molti  va* 
lentuomini:  tanto  che  si  fidasse  a non  far  più  battaglia: 
ma  standosi  negli  alloggiamenti  , deliberò  di  mantenere 
la  guerra  con  tenui  mosse  e scaramuccie  de’ soldati  leg- 
geri. Lucio  Emilio  mandato  nell’  Etruria  , trovando  ac- 
campati innanzi  della  città  li  Yefenti  con  grandi  rinforzi 
di  quella  nazione , non  indugiò  per  imprendere  : ma 
dopo  un  giorno  da  che  erasi  trincerato , presentò  le 
schiere  in  battaglia.  Vi  si  lanciarono'  i Vejenti  arditis- 
simamente: ma  divenuta  questa  eguale  in  ambe  le  parti; 
prese  i cavalieri , e.  gli  avventò  su  1’  ala  destra  de’  ne- 
mici ; e perturbatala;  corse  su  la  sinistra,  combattendo 
a cavallo  dov’era  luogo  da  cavalcarvi,  e dove  no,  smon- 
tando , e combattendo  a piede.  Venute  in  travaglio  am- 
bedue le  ale  , nemmeno  ' il  centro  potè  più  sostenersi , 
forzato  dalla  fanteria  : e fuggirono  tutti  verso  gli  allog- 
gitrmenti.  Emilio  allora  gl’  inseguì  con  le  milizie  ordi- 
nate, e molti  ne  uccise.  Giunto  presso  gli  alloggiamenti 
diedevi  con  mute  continue  1’  assalto , ostinandovisi  tutto 
quel  giorno  e la  notte  seguente  : finché  nel  giorno  ap- 
presso languendo  i nemici  pel  travaglio , per  le  ferite , 
e per  la  veglia  , se  ne  impadronì.  Quando  i Tirreni 
videro  i Romani  trascendere  le  trincee  , le  abbandona- 
rono, e fuggirono  quali  in  città,  e quali  a’ monti  vicini. 
Tennesì  il  console  per  quel  di  negli  alloggiamenti  ne- 
mici ; ma  nel  giorno  prossimo  onorò  con  doni  conve- 
nienti i più  segnalati  in  combattere,  e concedette  a’ sol- 
dati quanto  era  ivi  stato  lasciato  , giumenti , schiavi  , c 
tende  piene  di  ogni  ricchezza.  E 1’  esercito  Romano  se 
ne  ricolmò  quanto  non  mai  per  altra*  battaglia;  impe- 


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LIBRO  • IX.  1 4p 

rDcclièJi  Tirreni  vivono  vita  delicata  e sontuosa  in  pa- 
tria , ed  in  campo  ; e portan  seco , non  che  le  cose 
necessarie , suppelletlili  ancora  di  pregio  e di  artifizio  , 
ond’  esserne  in  piaceri  e delizie. 

XYII.  Ne’  giorni  appresso  stanchi  da’  mali  i Vejenti 
spedirono  ambasciadorì  i più  anziani  della  città  cq^  modi 
de’ supplichevoli  per  trattare  intorno  la  pace  col  console. 
Or  questi  sospirando,  prostrandosi^  e dicendo,^  tra  molte 
lagrime,  quante  cose  mai  sogliono  impietosire;  indus- 
sero il  console  a questo,  che  permettesse  loro  d’inviare 
oratori  a Roma  per  dar  fine  in  Senato  alla  guerra  : e 
che  non  danneggiasse  in  tanto  la  terra  loro  , finché  ne 
tornassero  colie  risposte.  Ad  ottenerne  però  questo,  pro- 
misero , come  volle  il  vincitore , dar  grano  per  due 
mesi , e danari  per  sei  pe’  stipeudj  di  tutta  V armata.  E 
portate , e ricevute , e dispensate  tra'  suoi  tali  cose  , il 
console  conchìuse  con  essi  la  tregua.  Il  Senato  , uditi 
gii  ambasciadori , viste  le  lettere  del  console  che  molto 
pregava,  e raccomandava  che  si  finisse  il  più  presto  la 
guerra  co’  Tirreni  ; deliberò  dar  la  pace  che  dimanda- 
vasi  : e che  nel  darla  il  console  Lucio  Emilio  stabilisse 
le  condizioni  che  gli  sembrasser  migliori.  Il  console  a 
tale  risposta  si  concordò  co’  Vejenti , facendo  una  pace 
anzi  umana , che  utile  pe’  vincitori , senza  riserbare  per 
essi  delle  terre , senza  impor  nuòve  multe,  nè  garantire 
i patti  cogli  ostaggi.  Or  ciò  lo  mise  in  grand’  odio , e 
fu  causa  che  non  avesse  dal  Senato  ringraziamenti,  come 
savio  nel  procedere  suo.  Imperocché  chiese  il  trionfo; 
ed  i padri  si  opposero  ; incolpando  1'  arbitrio  de'  suoi 
trattati , definiti  senza  il  pubblico  voto.  AlìGaché  però 


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l5o  DKLTT.  AXTICHÌTA’  ROMANE 
nou  sei  prendesse  ad  ingiuria  , nè  sen  corucciasse  ; lo 
destinarono  a portare  le  armi  contro  de’  Volaci  in  soc- 
corso dell’altro  console,  perchè,  come  fortissimo  nomo 
eh’  egli  era , desse  ivi  , se  poteasi , buon  fine  alla  guer- 
ra , e dissipasse  1’  odio  dell’  azion  precedente.  Ma  costui 
sdegnato  sa  la  negazion  degli  onori  fece  presso  del  po- 
polo lunga  accasa  de’  senatori , cpiasi  dolesse  loro  che 
spenta  fosse  la  'guerra  co’  Tirreni.  Diceva  , che  ciò  fa- 
cevano ad  arte  in  conculcaménto  de*  poveri  , perchè 
i poveri , delusine  già  tanto  tempo,  non  insistessero  per 
la  division  delle  terre , se  tornavano  dalle  guerre  di 
fuori.  Queste  e simili  contumelie  lanciò  con  indigna- 
zione vivissima  su’  patrizj  , e sciolse  1*  armata  che  avea 
con  lui  combattuto , e richiamò , e congedò  1’  altra  che 
era  tra  gii  Eqni  sotto  Furio  proconsole.  Con  die  re- 
nelle con- 
ti ricchi  i 

poveri. 

XVIII.  Presero  quindi  il  consolato  Cajo  Orazio , e 
Tito  Menenio  (t)  nella  olimpiade  settantesima  sesta, 
quando  vinse  allo  stadio  Scamandro  da  Mitilene,  es- 
sendo in  Atene  Fedone  P arconte^  Il  torbido  interno 
impedì  questi  a principio  ne*  fatti  del  comune,  fremendo 
la  moltitudine , nè  tollerando  che  si  fornisse  niuna  pub- 
blica cosa  innanzi  la  divisione  delle  terre.  Ma  poi,  vinto 
il  popolo  dalla  necessità , lasciò  quanto  facea  sommossa 
e tumulto , e ne  andò  spontaneo  in  sul  campo.  Impe- 
rocché le  undici  popolazioni  Tirrene  non  comprese  nella 

( I ) Anno  di  Roma  377  secondo  Catone  , 27;)  secondo  Varrone , 
e 4y5  av.  Cristo. 


stimi  molto  potere  ai  tribuni  di  malignare 
doni  contro  del  Senato ,,  e di  alienare  < 


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LIBRO  IX.  I 5 1 

pace,  lenato  consiglio,  accusavano  i Yejenti  su  la  pace, 
fatta  co’  Romani  senza  il  voto  comune  , e chiedevano 
che  la  rompessero,  o n’  avrebbero  guerra  da  loro,  essr 
e i Romani.  Esousavansi  i Yejenti  sulla  necessità  della 
pace , e proponevano  che  il  consiglio  nazionale  delibe- 
rasse come  potessero  decorosamente  rescinderla.  Quivi 
fu  chi  suggerì  che  reclamassero  sul  castello  di  Cremerà, 
donde  non  toglievasi  ancora  la  guarnigione.  Cercassero 
prima  con  parole  che  lo  disgombrassero:  ma  se  poi  non 
ve  gl’  inducevano  ; lo  assediassero , e dessero  o>n  ciò 
principio  alla  guerra.  Levaronsi,  ciò  convenuto  , dal  par-» 
lamento.  Indi  a non  mollo  spedirono  i Yejenti  a raddo» 
mandare'  da’  F abj  il  castello , e già  tutta  1'  Etruria  era 
sa  r arme.  I Romani , conosciuto  ciò  per  lettere  spedite 
da’  F abj , decretarono  che  uscissero  ambedue  i consoli 
r uno  alla  guerra  che  sorgea  dall’  Etruria  , e 1’  altro  a 
quella  che  ardeva  già  co’  Yolsci.  Orazio  marciò  con  due 
legioni  e con  truppe  alleate  ben  forti  contro  de’ Yolsci, 
Menenio  dovea  con  altrettanta  soldatesca  incamminarsi 
contro  r Etraria.  Ma  intanto  che  si  apparecchia,  e s’in> 
dogia  ; il  castello  di  Cremerà  fu  preso  , e distratta  la 
stirpe  de’  F abj.  La  sciagura  de’  quali-  si  narra  a due 
modi  r uno  non  persUadevole , 1’  altro  piò  prossimo  al 
vero.  Io  gli  esporrò  tutti  due , come  gli  ebbi. 

XIX.  Narraoo  alcuni  che  sovrastando  no  patno  sa- 
grideio  che  doveasi  porger  da’Fabj,  uscirono  gli  uomini 
con  pochi  clienti  per  compierlo  , ed  andarono , senza 
esplorare  le  strade  , non  ordinati  sotto  le  insegne  , ma 
incauti  e negligenti , quasi  passassero  terre  amiche  , nei 
giorni  lieti  della  pace.  I Tirreni , saputane  anzi  tempo 


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iSa  DELLE  ANTICniTA*  ROMANE 

r andata  , disposero  tra  via  le  insidie  con  parte  dell*  e> 
sercito , mentre  1’  altra  parte  veniva  in  ordinanza  non 
molto  addietro.  Approssimatisi  i Fabj,  sorsero  i Tirreni 
dalle  insidie , e gl’  invasero  di  fronte  , e di  fianco  ; as- 
salendogli non  molto  dopo  da  tergo  il  resto  de’ Tirreni. 
Circondatili  d’  ogn’  intorno  con  fionde  , con  archi , e 
dardi  , e lance  ; gli  uccisero  tutti  colla  moltitudine  dei 
colpi.  Or  tale  racconto  a me  sembra  poco  persuasivo. 
Imperocché  non  par  verisimile,  che  tali  uomini,  addetti 
com’  erano  alla  milizia,  ne  andassero  dal  campo  in  città 
senza  il  voto  del  Senato  per  sagrìficarvi  ; potendo  il 
santo  rito  fornirsi  per  altri  del  lignaggio  medesimo,  già 
provetti  negli  anni.  Che  se  tutti  erano  partiti  d»  Roma 
senza  che  stesse  ne’patrj  lari  alcuno  de’ Fabj;  nemmeno 
può  credersi , che  uscissero  dal  castello  quanti  di  questi 
il  guardavano;  imperciocché  se  ne  andavano  tre  o quat* 
tro , bastavano  a compiere  il  santo  rito  per  tutta  la  pro- 
sapia. Per  tali  cagioni  a me  non  sembra  credibile  questo 
racconto. 

XX.  L’  altro  che  io  reputo  piò  verisimile  su  la  di- 
struzione di  essi , come  su  la  presa  del  cartello  , così 
procede.  Andando  questi  di  tempo  in  tempo  per  forag- 
giare, e.  spandendosi  ognora  più  da  largo,  come  quelli 
che  prosperavano  ne'  tentativi  ; i Tirreni , raccolte  gran 
forze,,  si  accamparono,  senza  che  il  nemico  ne  sapesse, 
in  luoghi  vicini  : poi  facendo  uscire  da’  castelli  masse  di 
pecore , di  buoi , di  cavalli , come  per  pascere , accen- 
devano i Fabj  ad  invaderli:  ond’ è che  venendo  questi 
predavano  i pastori , e menavano  seco  i bestiami.  Davano 
i Tirreni  di  continuo  tal  »ca , traendo  i nemici  sempre 


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LIBRO  IX.  l53 

piii  lontani  dal  campo  : or  quando  ebbero  con  gli  allst- 
lameoti  perpetui  dell’  utile  rallentate  le  provvidenze  loro 
per  la  sicurezza;  misero  di  notte  gli  agguati  in  luoghi 
opportuni , intanto  che  altri  stavano  su  le  allure  per 
esplorare.  Nel  giorno  appresso  mandali  innanzi  alcuni 
soldati , come  per  difesa  de’  pastori,  cavarono  mollo  be- 
stiame da’  castelli.  Come  fu  nunziato  ai  Fabj , che  se 
andavano  di  ià  dai  colli  vicini , troverebbero  ben  tosto 
il  piano  ripieno  d*  ogni  bestiame  senza  valida  guardia  : 
lasciarono  nel  castello  un  idoneo  presidio  , e vi  si  di- 
ressero. E trascorrendo  frettolosi , ardenti  < la  via  , pre- 
sentavonsi  schierati  in  arme  ai  pastori  : i quali  senz’  a- 
spettarli- fuggirono.  I Fabj  come  sicuri  arrestavano  essi 
e ne  menavano  gli  armenti  ; quando  i Tirreni  uscendo 
per  più  luoghi  dalle  insidie  gl’  investirono  d’ ogn’  in- 
torno. Sbandatisi  i più  dé’  Romani  non  poterono  gii  uni 
soccorrere  gli  altri , e perirono.  Gli  altri  che  erano  in 
schiera , intenti  a raccogliersi  in  luogo  sicuro , al&etla- 
vansi  ai  monti  ; e trovaronsi  in  mezzo  di  agguati , di- 
sposti tra  balze  e selve.  F ecesi  grande  combattimento , 
e strage  vicendevole.  Pur  li  respinsero  i Fabj  , ed  em- 
piuta la  valle  di  cadaveri , corsero  ad  un  altura  non 
fàcile  a prendersi , ove  , privi  di  tutto  il  bisognevole , 
passarono  la  notte  seguente. 

XXL  Quei  che  guardavano  il  castello  saputa  nel  giorno 
appresso  la  sorte  dei  loro , come  gran  parte  ne  era  pe- 
nta tra  le  prede , come  il  fior  d’ essi  era  assedialo , e 
ristretto  in  una  cima  deserta  , e come  se  non  davasi 
pronto  soccorso  vi  sarebbero  .vinti  pel  disagio  ; v’  anda- 
rono a gran  fretta , lasciato , dov’  erano  , un  presidio 


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l54  DELLE  AìVTICniTA’  ROMANE 

assai  scarso.  Ma  corsi  da’  proprj  castelli  i Tirreni  li  cir- 
condarono , prima  che  a’  snoi  si  riunissero  , e gli  ucci» 
sero  infine  tutti , quantunque  dimostrassero  sommo  va- 
lore. Dopo  nou  molto  i refuggiti  nel  colle  spinti  dalla 
fame  e dalla  sete  risolverono  di  andarne  al  nemico  : e 
scagliatisi  pochi  so  molti , pugnarono  dalla  mattina  alla 
sera  ; facendo  tanta  strage  che  i cumoli  de’cadaveri  ne- 
mici gl’  impedivano  in  piò  luoghi  dal  combattere.  I Tir- 
reni penluiovi  più  che  il  terzo , e temendo  pel  resto 
dell’esercito,  sospesero  alquanto  la  zuffa,  e a gran  Voce 
annunziarono  -per  gli  araldi , e promisero  a’  F abj  libera 
la  uscita  , se  lasciavano  le  arme  e il  castello.  Non  ac- 
cettando però  questi  l’ invito,  anzi  preferendo  una  morte 
generosa  ; ripigliarono  i Tirreni  gli  uni  dopo  gli  altn 
r attacco  non  a piè  fermo  e da  presso  , ma  fulminan- 
doli da  lontano,  con  strali  e 'sassi,  tanto  che  pareano 
questi , densi  come  neve",  discendere.  1 Romani,  ristret- 
tisi nelle  schiere , corsero  sopr'  essi  che  non  sosteneano 
r incontro , e vi  si  tennero  in  mezzo  ai  colpi  che  rice- 
veano  d’ ogn’  intorno.  Ma  rimasti  alfine  molti  con  spade 
rintuzzate , rotte , inntili , e con  scudi  laceri  intorno  da- 
gli strali,  e trovandosene  i piò  trafitti,  esangui,  invalidi 
a moversi  per  le  ferite  ; i Tirreni  gli  spregiarono  e cor- 
ser  su  loro.  Scagliatisi  come  fiere  i Romani  ne  afferra- 
rono e spezzaron  le  aste  ; e strapparono  loro  di  mano 
le  spade  , presele  per  le  punte.  Alcuni  prostrati  in  terra 
ne  sorgeano  combattendo  , anzi  colla  virtù , che  colle 
forze.  Tanto  che  non  più  venivano  con  essi  alle  mani  i 
nemici  sbalorditi  dalla  fermezza  de’ valentuomini , e spa- 
ventati dall’  ardore  che  aveano  concepito  disperando  delia 


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’ I.IBHO  IX.  i55 

Titaì  ma  slontanatisi  di  bel  nuovo  li  tempestavano  con 
legni  e sassi  e con  quanto  capitava  loro;  sopralTacendoli 
infine  colla  quantilÀ  dei  colpi.  Distruttili,  corsero  al  ca- 
stello recando  seco  le  ' teste  de’  più  riguardevoli  , per 
Abbattervi  col  solo  presentarvisi , quelli  che  v’ erano;  non 
succedette  però  secondo  i lor  voti.  Imperocché  li  soldati 
lasciativi  in  guardia  , presi  da  invidia  della  morte  gène- 
rosa  de’  compagni  , e parenti , uscirono  , sebbene  po- 
chissimi , e fatta  lunga  battaglia  soccomberono  come  gli 
altri  ; dond’  è che  i Tirreni  presero  il  castello  diserto. 
Queste  secondo  racconto  a me  sembra  credibile  più  del 
primo  ; pur  si  ha  1’  uno  e 1’  altro  in  pregiati  scrittori 
Romani. 

XXII.  Quello  poi  che  agglungesi  tutto  che  non  vero, 
né  verisimile , ma  finto  sia’  dalla  moltitudine  per  voci 
uditene , pure  non  si  dee  tralasciare  senza  considerarlo. 
Dicono  alcuni  che  spenti  i treceniosei  Fabj  non  rimase 
della  stirpe  loro  che  un  fanciullo.  Or  tale  narrazione 
non  é solo  improbabile  , ma  impossibile  ; imperocché 
non  può  essere  che  i Fabj  andati  al  castello  mancassero 
tutti  di  mogli  e di  figli;  quando  un  antichissima  legge 
obbligava  al  matrimonio  in  eti  conveniente,  e ad  alle- 
varne indispensabilmente  la  prole:  né  già  avrebbero  essi 
i soli  violata  una  legge  mantenuta  dagli  avi  fino  a loro. 
E se  altri  dica  anche  questo  ; certo  non  concederé  che 
non  avessero  fratelli  di  età  puerile  ; se  pur  non  vdole 
le  favole  soniigliare  c le  finzioni  teatrali.  Ed  in  tanto 
scadimento  di  stirpe  i padri  loro  idonei  ancora  a dar 
figli , non  avrebbeme  generato  degli  altri  perché  nè  i 
sagrìGzj  aviti  si  tralasciassero , né  lo  splendore  in  tutto 


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i56  DELLE  Antichità’  romane 
perisse  della  lor  gente?  Che  se  non  erast  lasciato  ninn 
padre  loro  idoneo  a tanto , egli  è impossibile  che  rima- 
sti non  fossero  teneri  fanciullini , e mogli  gravide , fra- 
telli impuberi , e padri  impotenti.  Pertanto,  consideran- 
dolo , non  giudico  vero  quel  racconto  : ma  ben  giudico 
vero , che  tenuto  per  seti’  anni  il  consolato  dai  tre 
Fabj  Cesone,  Marco,  e Quinto,  rimanesse  a Marco 
solamente  un  figliuolo  ; e niente  impedisce,  credere  che 
questo  sia  quello  il  qual  dicesi  T unico  sopravvantato.  E 
forse  r essere  in  età  matura  divenuto  insigne  e celebre 
lui  solo  porse  a molti  la  occasione  di  dire  , ch^  taon 
eravi  rimasto  de' Fabj  che  un  solo,  non  perchè  non 
ve  ne  fosse  niun’ altro , ma  perchè  niun  altro  somigliava 
quelli , se  argomentavasi  la  prosapia  dalla  virtù  , non 
dalla  nascita.  Ma  ciù  basti  sh  questo. 

XXIII.  I Tirreni  dopo  disfatti  i Fabj  e preso  il  ca- 
stello di  Cremerà , marciarono  armati  contro  le  altre 
forze  Romane.  Menenio , 1’  altro  de'  consoli , non  tenea 
nè  lontano  il  campo , nè  in  luogo  sicuro.  E quando  la 
gente  Fabia  periva  co' suoi  clienti,  era  discosto  soli  trenta 
stadj  dal  luogo  della  sciagura.  Or  ciò  diede  a molti  so- 
spetto , ch’egli  saputo  il  rischio  de’ Fabj,  li  trascurasse 
per  astio  della  virtù  , e della  gloria  loro.  Dond’  è che 
chiamatone  da’  tribuni  in  giudizio  principalmente  per 
ciò,  vi  fìi  condannato.  Imperocché  pianse  Roma  tali  e 
tanti  valentuomini,  inesorabile  su  quanti  pareano  cagion 
della  perdita:  e dichiarò  negro  e nefando  H giorno  del- 
r infortunio  ; talché  più  non  vi  si  desse  principio  ad 
imprendere  le  utili  azioni  in  mcmo.ria  della  sorte  incon- 
tratavi. Avvicinatisi  i Tirreni  ai  Romani  e vedutone  ac- 


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LIBRO  IX.  i57 

campato  Fesercilo  appiè  di  ùa  lato  del  monte;  spregia- 
rono la  imperizia  del  dace,  e segnirono  di  buon  grado 
la  bella  occasione  presentata  loro  dalla  sorte.  Presero  le 
truppe  equestri,  e ben  tosto  per  l’altra  parte  del  monte 
ne  ascesero  fin  su  le  cime  senza  ostacolo  alcuno.  Oc- 
cupata r altura  che  soprastava  ai  Romani,  vi  posero  gli 
alloggiamenti , e vi  trassero  le  milizie  tutte  in  salvo  ; 
cingendoli  con  alte  palizzate  e fosse  cupe.  Se  dunque 
avvertito  il  vantaggio  .dato  da  esso  a’ nemici  e pentitone, 
avesse  menato  altrove  in  luogo  sicuro  le  sue  genti;  Me- 
nenio sarebbesi  condotto  da  savio.  Ma  vergognatosi  com- 
parire di  aver  mancato  , e sostenendo  il-  proposito  suo 
rimpctto  ad  altri  che  ne  lo  richiamavano,  cadde  in  colpa 
veramente  obbrobriosa.  Imperocché  li  nemici  , spiccatisi 
ad  ora  ad  ora  da  luogo  superiore,  assai  ne  prosperarono; 
derubando  i viveri  che  si  recavano  ad  essi  da’  merca- 
danii  , e sopraffacendo  quelli  che  uscivano,  pe’ foraggi  , 
o per  l’ acqua.  Il  console  ne  fu  cosi  ristretto  che  non 
era  più  l’  arbitro  nè  del  tempo  di  combattere , nè  del 
luogo;  ciocché  sembra  troppo  accusare  la  imperizia  nel 
comandare.’  Pur  non  seppe  risolversi  a rimovere  nem- 
meno allora  1’  esercito  ; ma  io  cavò  e l’ ordinò  per  la 
battaglia  , spregiati  gli  utili  consigli  degli  altri.  Li  Tir- 
reni riputarono  grande  lor  sorte  la  stolidità  dei  capitano, 
e scesero  non  minori  del  doppio  de’  nen^ici  dalie  trin- 
cee. Attaccatisi  ; ecco  farsi  strage  orrida  de’  Romani  , 
impotenti  a serbarsi  con  ordine:  imperocché  li  balzavan 
di  posto  i Tirreni,  favoriti  dalla  natura  del  luogo  e dei 
compagni  , li  quali  sopraslavano  e pressavano  a tergo 
per  lungo  e per  largo.  Caduti  i centurioni  [uù  insigui , 


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l58  DELLE  antichità’  ROMANE 

tutto  il  resto  de'  Eomaui  piegò , e fuggi  verso  gli  al- 
loggiameoli.  Gl’  ins^fuirono  quelli , e ne  iuvolarbno  le 
insegne  , e i feriti  , e rimasero  gli  arbitri  de’  cadaveri. 
Eìd  assediandoli,  ed  assalendoli  tutto  il  resto  del  giorno 
e la  notte  ; espugnarono  le  trincee  alflne  abbandonale 
dalle  milizie  che  v’ erano:  vi  sorpresero  nondimeno  uo^ 
mini  e suppellettili  io  copia.  Imperocché  chi  fuggì»  non 
avendo  spazio  di  raccoglierle,  fu  ben  contento  di  scam- 
pare; tanto  che  molti  non  serbarono  nemmeno  le  armi. 

XXIV.  Salvatisi  i primi  a Roma  in  gran  fuga  es- 
sendo ancor  notte  , e sapmavisi  la  diafaiu  dell’  esercito, 
è la  presa  del  campo,  sorsevi,  com’  è verisimile,  grande 
tumulto.  E ben  tosto  impugnate  le  arme  , quasi  1’  ini- 
mico fosse  per-giugnere , chi  circondò  le  mura , chi 
guarnì  le  porte  , e chi  si  pose  nell’  alto  della  città. 
Corressi  , gridavasi  per  tutto  disordinatamente  e rinfu- 
samente  : tenessi  la  turba  dei  domestici  pronta  su’  letti 
a respingere  : frequenti  v’ erano  i fuochi,  come  fra  la 
notte  e le  tenebre:  e tante  faci  spleodeano  dall’ interno 
e dall’alto  delle  case,  che,  mirandovi  da  lontano,  parea 
tutto  un  incendio  ed  ardere  la  città.  E se  li  Tirreni 
ncgligeotato  il  saccheggio  del  campo  seguitavano  im- 
mantinente quelli  rhf  fuggivano;  forse  andava  a niente 
tutto  r esercito  , uscito  per  combatterli.  Ma  voltisi  a 
predare  le  cose  derelitte  nel  campo,  e quindi  al  ri[mso, 
tolsero  a sesiessi  un  vantaggio  più  grande.  Nel  di  se- 
guente marciando  alla  volta  di  Roma  ne  occuparono  di 
lungi  circa  a due  miglia  il  monte  detto  Giaiiiculo,  dal 
quale  la  città  si  contempla.  Di  là  spiccandosi  rapivano, 
e trasportavano  dalle  campagne  senza  ostacolo,  con  di- 


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LiBfio  IX.  1 5g 

•prezzo  sommo  di  quei  d’eotro,  finché  non  ricomparve 
Orazio  r altro  console  che  riconduceva  1’  armata  dai 
Volsci.  Credendosi  allora  sicuri,  armarono  i Romani  la 
gioventù  interna , ed  uscirono  all’  aperto.  Data  una  pri- 
ma battaglia  un  miglio  di  là  da  Roma  presso  al  tempio 
della  Speranza  , vinsero  , e fugarono  gl’  inimici  ; e poi 
datane  un’altra  presso  la  porta,  detta  Collina,  sebbene 
accorsa  vi  fosse  milizia  ’rirrena  ancora  più  numerosa,  vi 
operarono  gloriosissimamente.  Respirarono  con  ciò  dalla 
paura  ; e 1’  anno  fini. 

XXV.  L’anno  segnenle  presero  il  consolato  nel  Giu- 
gno circa  il  solstizio  esuvo  (i)  due  valentuomini  in 
guerra , Spurio  Servilio^,  ed  Aulo  Verginio.  Or  questi 
tennero  la  lotta  co’  Tirreni , quantunque  grave  e diffi- 
cile , per  leggera  in  paragone  dell’  altra  che  ci  avea 
dentro  le  mora.  Imperocché  per  la  occupazione  del 
monte  vicino  , e per  le  scorrerie  continue , sendosi  già 
consumato  l’ inverno  senza  seminare  , né  recandosi  al- 
tronde dei  viveri  da’  mercadanti  ; avessi  penuria  somma 
di  frumento  in  Roma.  E questa  era  piena  delle  genti 
sue  come  di  altre  venutevi  dalla  campagna;  imperocché 
li  cittadini  adulti,  come  rilevasi  dal  censo  ultimo,  erano 
più  che  cento  undici  mila  : il  complesso  delle  donne  , 
de’  fanciulli , de’  servi  , de’  negozianti , degli  artefici  di 

(i)  Anno  di  Roma  378  secondo  Catone  , 380  seooado  Varrone,  e 
4y4  Cristo. 

Vi  t chi  sospetta  che  nel  testo  debba  leggersi  : /tei  mtse  di  Di^ 
cemhre  circa  il  toUtizio  invernale  , in  luogo  delle  voci:  net  Giu~ 
gru)  circa  il  solstizio  estivo.  Ma  il  parlarvisi  dell’Inverno  come  già 
passato  ; esclude  i sospetti  ansidetli.  l’cr  altro  questo  luogo  non  i 
libero  aRallo  da  difficoltà. 


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l6o  DELLE  antichità’ romane 

arti  viK  ( giacché  non  era  lecito  al  Romano  il  far  1’  ar^ 
tigiano  (i)  o il  taverniere)  non  era  men  grande  del 
triplo  de’ cittadini.  Or  questi  non  era  facile  intrattenerli, 
e cracciavànsi , e correvano  al  F oro  , e gridavano  ai 
magistrati , e ne  andavano  in  folla  alle  case  de’  ricchi , 
e tentavano  involarne  senza  compera  i cibi  che  vi  ri- 
servavanob  E li  tribuni , convocando  il  popolo  , ed  ac- 
cusandogli i ricchi , come  intenti  sempre  a’  mali  de’  po> 
veri,  e dicendo  opera  loro,  quanto  è l’opera  di 'una 
sorte  improvveduta  , ed  inevitabile  ; li  renderono  inso- 
lenti, se  già  erano  esasperati.  Fra  tanti  mali  i consoli 
spedirono  con  molti  danari  chi  comperasse  grano  dai 
luoghi  vicini  : e comandarono  che  chi  teneane  in  casa 
oltre  i bisogni  moderati  della  vita  , lo  recasse  al  pub- 
blico: e destinatone  i prezzi  convenienti,  e fatte  queste 
e cose  altrettali , ammansarono  i poveri  che  si  sfrena- 
vano , e si  rivobero  di  bel  nuovo  agli  apparecchiamenti 
delia  guerra. 

XXVI.  E certo  tardando  a giugnere  le  vettovaglie 
di  fuori , e finite  in  breve  le  interne,  non  aveaci  altro 
scampo  da’ mali:  ma  doveasi  nece»ariamente  o rischiare 
tntte  le  forze  e snidare  i nemici  dai  territorio,  o morire 
tra  le  mura  per  le  discordie  e la  fame.  Adunque  eles- 
sero farsi  incontro  ai  nemici , come  al  meno  dei  mali. 
E levatbi  di  città  coll'esercito  valicarono  circa  la  mezza 
notte  su  picciole  barche  il  fiume,  e prima  che  il  giorno 
fosse  luminoso  , già  teneano  il  campo  presso  a’  nemici. 
Donde  cavato  nel  giorno  appresso  1’  esercito , 1’  ordiua- 

(i)  Di  ani  illiberali  • sordide.  Silbtirgio  inleade  (|<ielle  osile 
quali  arie  manmria  cibut  tjmerilur. 


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LIBRO,  IX.  • l6l 

rono  per  la  battaglia.  Reggea. Vergioio  l’ala  destra»  e 
Servilio  la  sinistra.  I Tirreni  vedei)doli  apparecchiali 
per  combattere  , n’  esultarono  ; quasi  sivessei^  , se  riti* 
sciva  lor  bene  quel  solt)  cimento  , a sterminate  il  prin» 
dpato  di  Roma.  Imperocché  miravano  awentorarvisi 
tatto  il  6or  de’ Romani,  e'  speravano  con  molta  vànité, 
vincerli' faciltiien te  ^ perchè  avcano  vinto  Meneide  che 
pugnò  coDira  loro  iu  sito  men  buono.  Data  una  viva  e 
diuturna  bat^glìa  uccisero  molti  Romani  ; ma  perdutivi 
più  ancora  dei  loro , si  ritirarono  a poco  a poco  fra  le 
trincee.  Verginio  ch’avea  1’  ala  destra  non 'consenti  che 
i Romani  gl’ incalzassero,  ma  volle  che  si  contentassero 
di  qnapto  crasi  fin’  allora  ottenuto.  Per  T opposito  Ser« 
vilio,  comandante  l’altr’ala , inseguì  luogo  tempo  quelli 
eh’ erano  a lui  contrapposti.  Ma  non, si  tosto. ^ giunto 
alle  falde  de’  tponti i Tirreni  voltarono  faccia  , e soc- 
corsi da  quelli,  degli  alloggiamenti  gli  si  avventarono. 

I Romani  soailennero  l’urlo  per, breve  tempo;  e ,poi  si 
ripiegarono,  e fuggirono.  Perseguitati  gi)]i  pel  colle  soc-  ^ 
combeveno  sparsi  qqa  è là  ; quando  Vej^inio  udendo 
io  qual  pericolo  fosse  la  milizia  del  corpo  sinistro  guid^ 
la  sna , .tutta  ordinata  com’  era  , per  la  strada  obliqua 
del  mente.  E Gitosi  .alle  spalle  di  quelli  che  iucalzavano 
i suoi  lasciò  parte  dell’ esercito  per  traversale  i soccorsi 
che  venivano  dagli  alloggiamenti,  e coll’altra  marciò  sol 
nemico.  Rianimati  quei  di  Servilio  dalla  presenza  dei 
eompagoi  si  voltano,  e fermausi  e combattono.'  Rinchiusi 
i Tirreni  d’  ogn*  intorno  , non  potendo  pro.cedere  più 
innanzi ..pòr  la  battaglia  di  fronte.,  nè ‘ fuggire  iudietro 


DI  onici , «mw  III. 


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i6i  DELLE  Antichità’  bomank 

agli  alloggiameuti  per  l’assalto  da  tergo;  forono  in  gran 
parte  uccisi  miseraraeute.  Acquistata  una  vittoria  lut- 
tuosa , non  essendo  l’ esito  della  battaglia  per  ogni 
parte  propizio^  i consoli  accamparonsi , e rimasero  la 
notte'  seguente  innanzi' de’ cadaveri. ~ I Tirreni  cbe  le- 
ticano il  Gianicolo  , nob  giungendo  niun  rinforzo  dei 
loro , deliberarono  di  abbandonarlo  : e , presa  di  notte 
la  marcia  , ne  andarono  .a  Yejo , città  vicinissima  a 
quelle  de’  Tirreni..  Impadronitisi  i Romani  del  campo  , 
vi  d^redaho  quanto  eravì  derelitto  per*  non.  potersi 
trasportar  nella-  fuga  ; e prendono  molti,  feriti  , quali 
abbandonati  negli  alloggiamenti,  e quali  giacenti' via  via: 
perocché  taluni  spìnti  dal  desiderio  distornare  alia  pa- 
tria , seguirono , i compagni , e'  resisterono , e si  sforza- 
tono  oltra  il  potere.  Ma  aggravandosene  poscia  più  e 
più  le  membra , caddero  Semivivi  a terra  \ e quindi  in 
• balla  de’  cavalieri  Romani , che  andarono  innanzi  buon 
tratto  di  strada.  Alfine  ,npn  apparendo  più  nemici  ri- 
' presero  il  forte;  e rientrarono  colle  spoglie  loro  in  Ro- 
ma : ma  peivracchè  riportavano'  i.  cadaveri  degli  estinti 
in  battaglia,  mestissimo  ne' riuscì  lo  spettacelo,  per  la 
^ moltitudine,  e 'per  la  virtù,  perduta  di  questi.  T^anto  che 
il  popolo  non  voile  nè  menar  festa  come  per  conflitto 
di  esito  buono; -nè  lutto- cóme  peé  calamità  grande,  e 
senza  riparo.  Il  ' Senato  decretò  li  sagrifizj  dovati  a§^ 
Iddii , nè  concedette  che  i consoli  trionfassero.  Dopo 
non  molti  giorni  la  città  si  empiè  di  viveri  ; introdu- 
ueudovisi  grano  in  copia  da’  pubblici  commissarj , e dai 
solili -mercadanti:  dond’è  che  tutti' ne  riebbero  l’abbou,-' 
dauco  di  prima.  ^ 


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LIDRO  IX.  lG'3 

. » 

XXVII.  Finite  in  tal  modo  le'  guerre  in  campo  aper< 
to , ribollirono  le  interne  sedizioni  ; concitando  i trU 
buni  di  bel  nuovo  la  plebe.  I patrizj.,  opponendovisi , 
ben  aveano  fatto  svanire  ciascuno  de’  loro'  progetti  per 
cpianto  però  brigassero , non  poterono  escludere  l’ accpsa 
contro  Menenio  , console  dell’  anno  ^ precedente.  .Citato 
questi  in  giudizio  da’ due  tribòni  Quinto  Quintilio  , e 
Tito  Gemizio,  ed  astretto  a dar  conto  dell’esito  né  fau- 
sto né  decoroso  del  suo  capitanato e soprattutto  accu- 
sato della^ rovina  de’ Fabj  b della  presa  di  Cremerà;  vi 
fu  condannato  dal  popolo  per . tribù , poco  meno  che 
col  voto  di‘ tutti  ; quantunque  egli  fosse  il  flgliuolo.di 
quel  Menenio  Agrippa  che  avea  ricondotto  dalla  fuga , 
e'  riconcilialo  i plebei  co’  patrizj  , di  quello  jo  dico , ■ il 
quale  morendo  era  stato  a pubbliche  spese  onorato  dal  ' 
Senato’  con  funerali  magnifici , e dalle  matrone  Romane 
col  lutto  di  un  anno^  spogliatesi  ^ dell’  oro  e della  por- 
pora. Non  però  li  giudici  'suoi , lo  ,condanuacono  della 
morte,'  ma  di  uua  mul(a  la  quale  ; paragonata^  a quelle 
de’ nostri  tempi  parrebbe  ridicola;  pv  gli  uomini 
d’ allora  i quali  travagliavano  colle  proprie  mani , e vi- 
veano  del  necessariq , e principalmente  per  quest’  nomo 
die  avea  ereditata  dal  padre  la  povertà,  riuscì  grave  e 
molesta.  Importò  la  multa  due  mila  assi , 'e  1’  asse  era 
moneta,  di  rame  del  peso  di  una  libbra,  tanto  ebe  tutta 
la  somma  dovuta  dava  in  peso  di  rame  sedici  talenti  (i). 
Or  questa  parve  di  que'  tempi  odiosisaima  : ond’  è che 
volendo  correggersene^  abolirono  le  multe  in  danaro , e 

(i)  lateade  i talenti  che  petavano  ia5  Kbl>r«.  Quindi  è che  se 
dividasi  390U  per  laS  risulta -i6.  Casaub. 


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i64  DEIXE  Antichità’  romane 

le  trasmutarono  in,  àlire  di  pecore  e’  buoi , tassato  an- 
che il  numero  di  questi  per  le  ammende  avveniife , che 
i magistrati  imporrebbero  su’ privati.  La  condanna  di 
Menenio  fa  causa  che  i patriaj  si  sdegoas'sero  col  p- 
polo , nè  più  gli  permettevano  di  fare  la  divisione  delle 
terre , nè  voleano  in  cosa  ninna  condiscendergli.  Ma  tra 
non' molto  lu  potilo  il  pplo  de’ suoi  giudizj , appunto 
nell’  udire  la  morte  di  Menenio..  Imperocché  non  crasi 
questi  mal  p(ù  veduto  nelle  adunanze , o"  ne’  pubblici 
luoghi:  e polendo  pagare  l'ammenda  (giacché  non  po- 
chi de’  suoi  eran  pronti  a soddisfarla  pr  esso  ) , e con 
ciò  non  perdere'  niun  pubblico  diritto  j non  volle  : ma 
giudicando  pri  la  ingiuria  alla  morte;  si  tenne  in  casa, 
nè  più  ammise  prsona  , e rifinito  dal  dolore  e dalla 
’ fame  ' abbandonò  la  vita.  E tali  sono  le  ■ Operazioni  di 
quest’  anno.  ^ . 

XXVIII.  Divenuti  consoli  Pulsilo  Valerio  Poplicòla  e 
Cajo  Nauzio  (i),  fa  condotto  a giudizio  capitale  anche 
un  altro  patrizio  Servio  Servilio,  console  dell’anno  pre- 
cedente, non  laokò  -dopo  che  aveva  lasciato  il  coma'udo. 
Due  tribuni  Ludo  Cedicio , e.Tito  Stazk)  erano  quelli 
che  lo  accusavano’  al  popolo-  chiedendo  ragione  non 
d' ingiustizia  alcuna , ma  degl’  infortuni  suoi , perchè 
nella  ballagUa  co’  Tirreni  spintosi  egU  fin  sotto  alle  trin- 
cee nemiche  con  più  ardirò  che  prudenza  , e-  rincal- 
zatone da  quei  d’ entro' che  ne  uscirono  in  copia  , vi 
prJetle  il  meglio  de’  giovani.  Questo  giudizio  parve  ai 
patrizi  il  più  duro  di  tutti.' E congregavansì , e doleansi , 

(i)  Abdo  di  Roma  979  Mcoado  Catoast  aSi  secondo  Varrone, 
e 473  >r.  Cristo* 


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LIBRO  IX..  lG5 

è teneano  per  gran  male  se  il  bell’  ardire , e il  non  ri* 
cu  sarsi  ai  pericoli  accusarasi  ne’  capitani  che  non  tro* 
vavan  propizia  la.  sorte,  e da  quelli  che  non  erano 
nemmeno  stati  ne’  perìcoli  : dicevano  , che  qne’  giudizj 
aarebbero , coni’  era  verìsimile , cagione  di  timori  e di 
ignavia  ne’ comandanti,  e di  non  &r  loro  mai  piu  con* 
cepire  nuovi  trovameoti  : che  perita  ne  sa.rebbe  la  li- 
bertà, come  annientata.!’ antorità  del  capitano.  Ed  in- 
sistevano caldamente  presso  la  plebe >.  perchè  non  con- 
dannasse quest’  nomo  , avvertendola  ,che  grabde  ne  sa- 
rebbe il  . danno  se  puoi  vanti  i dttci  > pe’  successi  non 
buoni.  Venuto  il  tempo  del  giudizio , fattosi  innanzi 
Lneio*  Cedicio,  uno  de’ tribuni,  accusò  Servilio  di  avere 
per  imprudenza  ed  imperizia  di  comando  menata  i’  ar- 
mata incontro  a pericoli  manifesti  , e rovinato  il  Bore 
della  repubbnca  : tanto  ohe  se  informalo  beo  tosto  il 
console ' compagno  della  sciagura  volando  a lui  coll’e- 
sercito,  non  respingeva  i nemici,  e salvava  i suoi;  niente 
impediva  che  non  fosse  disfatta  anche  tutta  1’  altra  mi- 
lizia , e che  in  avvenire  per  metà  decadesse  , non  che 
si  ampliasse  la'' potenza  di  Ronìa.  E cosi  dicendo  presen- 
tava per  testimOnj  i centurioni , quanti  ve  n’  erano , èd 
alcuni  soldati,  i quali,  volendo  rilevare  sestessi  dall’  infa- 
mia della  disfatta  e della  foga,  d’  allora  , versavano  sul 
capitano  là  colpa  degl’  infortito)  del  combattimetnto. 
Quindi  inspirando  viva  compassione,  verso  gli  estinti  in 
quella  giornata,  exl  esagerando  quel  male,  ne  ricordò  con. 
molto  .disprezzo  ancor  altri , i quali  detti  in  comune 
contro  i ' patrìzj , scoraggiavano  chiunque  di  loro  volesse 
intercedere  per  Servilla  ; é dopo  ciò  gli  concedè  la  dii- 


/ 


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l66  DKU.E  ANTICHITÀ.’  ROMANE 

XXIX.  E Servilio  pigliando  a difendersi  disse  ^ Cif- 
tadini , se  mi  chiamale  al  giudizio,  e cìuedete  ragione 
del  "mio  capitanalo  ; san  pronto,  a renderla  : ma  se 
mi  oliiàmate  ad  una  pena  già  risoluta , e'  mente  pift 
giova  eh’  io  dimostri  che  non  v oJ[esi;  prendete  fusa-, 
temi  come  avete  già  stabilito.  .Egli'è  pur  meglio  eh’ io 
mora  non  giudicato  cK  ottener  le  difese,  nè  persua-, 
dervele  ; perciocché  ■ sembrerei  patir  con  giustizia  ogni 
cosa  che  su  me  sentenziaste.  Altronde  voi  meno  sa~ 
rete  colpevoli,  se  togliendomi  le  difese,  jnentre  oscura 
ancora  c la  mia  colpa , se  colpa  ho  mai  fatta  ; secon- 
date 1 vostri  risentimenti.  Il  pensier  vostro' dalla  vostra 
udienza  mi  -sarà  chiaro  : il  silenzio  o'  il  tumulto  mi 
saran  d argomento  se  m’ avete  alle  ^scolpo  chiamato, 
o alla  pena.  E biò  detto  si  tacque.  E fatto  silenzio,  e 
gridando  ben  molli  che  facesse,  cuore , e dicesse  ciocché 
voleva,  cosi  ripigliò:  Cittadini,  se  .voi  siete  i‘ giudici, 
non  i nemici  miei  ; di  leggeri  spero  XOftVincervi  , che 
non  v’  oj^esì  ; e comincio  da  ciò  cito' tutti  sapete.  Io 
fui  scelto  console  ’coll  ottimo  V-erginio , quando  i Tir^ 
reni  fortificatisi  nel  colle  imminente  a Ronìà , domi» 
navano,  tutta  intorno  la  campagna,  sperandosi  di  abo- 
lire ben  tosto,  ambe  il  vostro f principato.  Eravi  in 
città  fante  , discordia  , defeienza onde  risolvette.  In- 
contratomi in  tempi  così . turbati  e terribili  ruppi , 
unito  al  collega , due  volte  in  battaglia  i nemici , e 
gli  astrinsi  a lasciare,  il  castello  , 'che  guardavano. 
Feci  dopo  non  molto  cessare  la  fame  , ricondotta 
t abbondanza  npl  ■ Foro  , e consegnai  d consoli  susse- 
guenti sgombro  da’  nemici  il  territorio  che  n’  era  pie- 


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L13BO  IX».  167 

HO,  e Roma  sana  da  tutti  i mali  politici , i cot 
pipopoU  l’  avea/io  inabissata.  So  dunque  non  è de^ 
litio  vincere  gt  inimici , e di  che  mai  son  io  ’^lpevole 
presso  vai  ? O conte  ha  Servilio  offeso  il  popolo',  se 
alcuni  bravi  incontraron  la  morte  col,  maU:hio  combai* 
tere  ? Già  non  v’  è niun  Dio  che  asiicuri  ai  capitani 
la  vita  de*  suoi  militari  ; nè  prendiamo , d , comando 
con-  patti  e formale  di  vincer  lutti  i nemici  ^ e non 
perdervi  aldino  de'  nostri.  E chi  mai , s egli  è uomo^ 
chi  si  offrirebbe  di  riunire  in  sè  tutti  i bei  tratti  di 
consiglio  buono  , e di  sorte  ? Anzi  i grandi  risuUad 
con  pericoli  grandi  s'  ottengono. 

XXX.  Nè  già  io-  sono  il  primo  éte  m’  avessi  tale 
ÒKonlro  in  combattere,  ma  se  l ebbero,  dOei,  quanti 
fecero  pericolose  battaglie  con  poche  schiere  contro  lè 
molte  nemiche.  Incalzarono  alctzni  i nemici , e poi 
furono  incalzati:  ne  uccisero,  e ne  furono  decisi,  an- 
che in  più  nurhero.<  Lascio  di  dire  che  molti  , disfatti 
in  tutto  , sen  tornarono  con  gran  danno  è vergogna. 
£ niun  diede  per  tali  successi  le  pene , essendo  la 
sciagura  stessa  la  pena  : anzi  , ìjuando  tutto  manchi , 
lo  stesso  npn  ottener  lode  \ r\iuna  à sommo  castigo  , 
come'debbe  esserlo  per  un  capitano.  Che  più;  tanto 
io  sono  lontano  dal  dire  (ciocché  i sàvj  pur  dirèb* 
bona  gituto  ) che  io  non  debbo  dar  conto  della  mia 
sorte  r cfn,  se  niun  soffrirebbe  di  venirne  ifi  giudizio; 
io  noi  ricuso,  e lasciavi  esaminar  la  mia  sorte;  ifom* 
menò  che  'le  mìe  ^risoluzioni.  Ma  prirna  lasciale  eh’  io 
dica , che  io  vedo  calcolarsi  la  felicità  o la  infelicità 
delle  impreso  degli  uomini  non  dagli  olii  parziali 


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l68  DELLE  ANTICHITÀ.’  BOMANE 

thè  sono  molti  e ben  varj' , ma  dal  fine:  quando  que» 
sto  sia  lieto , sebbene  più  casi  intermcdj  noi  siano , 
sento  'esser  quelle  applaudite , invidiate  , e credute 
fortunate  da  tulli:  laddove  se  il  fine  è sciaurato, 
sebbene  quanto  precede  sia  fausto;  allora  quelle' si 
ascrivono  alla  sorte  rea  » non  alla'  sorte  buona  di  cfù 
le , opera.  Or  voi  , ciò  considerando  , valutate  gf  in- 
contri eh’  io  n%  ebbi  nella  guerra^,  e se  mi  trovate 
vinto  infine  da' nemici,  dite  pur  trista  la  ventura  mia, 
ma  buona , se  vincitore;  Ma  quanto  alla  sorte  sebbene 
io  possa  dirne  assai  più , lo  tralascio,  sapendo' quanto 
molesti  si  tendono  qitelli  che  no  parlano. 

XXXI. -tSi  accusano,  egli  ò vero,  i miei  consigli, 
ma  niuh  fmote  accusarli  di  tradimento  , niuno  di  vil- 
tà , pe’  quali  due  titoli  si  giudicano  altri  capitani.  E 
su  la  imperizia  , su  la  imprudenza  del  comandare  , 
quasi  io  mi  esponessi  a pericolo  non  necessario  spin- 
gendomi coll  esercito  fin  sotto  al  vallo  nemico , su 
questo  ancora  voglio  io  darvi  Sconto-;  potendo  innanzi 
tutto  dirvi  eh'  egli  è beri  facile' e comune  malignar  su 
le  azioni  ; ma  che  è ben  arduo  , e da  pochi  il  cipten- 
tarsi  alle  grandi  intraprese che  le  cose,  future  non 
appariscono  ■ quali  saranué  , come  • le  passate  appari- 
scono j perocché  queste  si  estimano  con  ciò  che  sen- 
tiamo- e patiamo,  laddove  quelle’  rintracciansi  opi- 
nando e divinando,  mezzi  molto  fallaci:  e finalmente 
ch’egli  è ben  facile  fuor  del  pericolo,  come  starisi  gli 
accusatori  miei , guidar  con  paróle  una  guerra.  Ma 
lasciata  pure  queste  cose  : ditemi  per  gli  Dei , vi 
sembro  io  forie  il  primo  o il  solo  che  slanciomi  colie 


i 


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LIBKO  IX.  . . 169 

schiere  contro  un  luogo  munito , . e su  per  t alto  con' 
'ducale  ? o pure  ho  fatto  ciò  sult  esempio  di  tanti  w>- 
siri  capitani , riuscitici  altri  con  termine  buotto  , ‘altri 
con  doloroso  ? E perchè  dunque^  lasciate  gli  altri , e 
me  'giudicale  ; se  a norma  - ponderale  delle  leggi  le 
opere , non  degne  della  sapienma  e del  capitanato  ? 
Quante  imprese  più  audaci  ancor  della' mia  cadde  in 
pensiero  capitani^  di  compierle , quando  la  circo- 
stanza non  ammetteva  consigli  sicuri,'  é già  maturati^ 
Chi  strappando  le  insegne  dalle . mgni  de'  soldati , le 
gittò  fra  nemici  , perchè  i suoi  scoraggiati  ed  intimo- 
riti » d -rìànimassero  a-  forza,  istruiti  , che  chi  non 
salvatale  ne  avrebbe  morte  ingloriosa  dal  comandante, 
jiltri  scorrendo  sul  territorio  nemico , ucdicarono  e 
ruppero  i ponti  de'  fiumi  valicati,  perchè  i soldati  non 
. vedessero  scampo  nella  fuga,  se  la  tramavano , e com^ 
battessero  coji  ardore  e ferrnezza.  Altri-  dando  alle 
fiamme  le  bagagUe  e le  tende  , necessitarono  ' i suoi 
a ritrovare  nelle  terre  nemiche  quanto  lor  bisogna- 
va. 'Lascio'  mille  altre  imprese',  audaci  tutte , ed 
ideate  da  capitani , che  ió  .potrei  pur  dire  'su  la  sto- 
ria , e su  la  sperienza , e per  le  quali  ninno  mai , 
faUilagli  .la  prova,  soggiacque  alle  pena  E già  niuno 
può  redarguirmi  che  mettendo  i compagni  ad  aperto 
pericolo , io  xnen  tenessi  lontano.  Se  io  mi  vi  esposi 
cogli  .altri , se  ultimo  me  ne  ritolsi  , se  vi  'corsi  la 
sorte  comune  di  tutti  ; e di~che  • sono  io  reo  ? Ma 
basti  il  fin  qui  detto  su  me. 

XXXIL  Voglio  ora  dirvi  alóune  poche  cose  intorno 
del  Senato  e de’  patrizj , perocché  f odio  pubblico 


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l'](y  DELLE  antichità’  HOMANE 
contro  di  loro  per  la  division  sospesa  àeUe  terre  deot* 
neggìa  eutcora  a me,  nè  l accusatore  mio  occultò  que-^ 
sto facendomene  parte  non  piccola  delt  accusa.  E 
questo  dir  mio  sarà  libero  ; giacché  diversamente  nè 
io  saprei  parlarvi,  né  > voi  profittarne»  Popolo!  voi  nè 
giusti  siete  nè  retti non  rendendo  grazie  al  Senato 
de'  tanti  e 'grandi  benefit j che  ne  aveste  ; e sdegnan- 
dovi che  non  'per  invidia  ma  per  calcolo  di  ben  pub- 
blico, vi  si  oppone  .in  cosa  che'-  dimandate , la  quid 
conceduta  tusai  nocerebbe  '.al  comune.  Piuttosto  do- 
vevate accettarne  i consigli  pome' nati -da  principj  sol* 
dissimi , pel  bene  di',  tutti  , e tenervi  dalle  sedizioni'} 

0 se  non  potevate  con  tal  sano  discorso  frenar  gli 
appetiti,  t non  sani , dovevate  implorar  te  dimande , 
persuadendo  , non  violentando,  Imfièroechè  li  doni 
spontanei  titnpettp  de’  violenti  son  più  cari  per  chi  li 
dona  y e più  stabilì  per  . chi.  H riceve..  Or  • voi  , viva 
Dio  , non  ' avete  ciò  cónsiderato  : nia  commossi  ed 
inaspriti  dai  capipopolo,. come  il  mare  dai  venti  che 
insorgano,  F un.  dopo  F altro  , non  avete  lasciato  che 
la  patria  riposasse,  nemmen  picciolo- tempo.,, tra  la 
xoima , 'e  il  sereno.  Dondt  è che.  noi.  dobbiam  pensare 
migliore  per  noi  la  guerra,  che  la  pace  ;^iacchà  nella 
guerra  maltrattiamo  i nemici,  ma  gli  amici  nella  pace. 
Se  voi  lipulate  tutti  burnii  e lutti  utili,  come  sono, 

1 decreti  del  Senato  ; perchè,  non  avete  riputato  tale 
anche  questo  ? E se  credete  che  il  Senato  non  prov- 
veda con  semplicità,  mq  che  male,  e vituperosamente 
amministri , 'perché  noi  degradate  / voi  tutto  , e ven 
prendete  le  cariche  , e consultate  e guerreggiale  voi 


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LIBRO  ix;  • 171 

per  la  potenza  di  Roma , ma  , lo  stuzzicate , e lo  in- 
debolite poco  a poco  , chiamandone  i personaggi  più 
illustri  in  giudizio?  Certo  sarebbe  pur  meglio  che  fos» 
situo  tutti  insieme  combattuti , che  càìunmati  ad -uno 
ad  uno.  Sebbene , non  siete  voi , con»’  io  diceva , la 
cagione  di  ciò,  ma  i capi  del  popolo  che  vi  sommo- 
vano , non  sapet^o  essi  nè  ubbidire  y nè  comandare. 

E per  ciò  che  spetta  alla  loro  imprudenza  ed  impe^ 
rizia',  già  più  volte  sarebbefi  la  nave  rove^aicita.  Ep- 
pure il  Senato  che  ha  riparato  tante  volle  i loro  sba- 
che.  fa  che  la  vostra  repubblica  navighi  rettamente,  ' 
ascolta  ^ peggio  della  maldicenza  da  loro.  Or  queste 
cose , vi  piacciano  o no-,  le  ardisca  io  dire  con  ogni 
verità:  e vorrei  piuttosto  morire;,  videndorm  di  una 
libertà  'profittevole  ab  pubblico  { . che  salvarmi  adu- 
landovi. ■ • ' ■ 

XXXIIf.  G}si, dicendo  ,, senza  volgei^i  a lamentare  o 
deplorar  la  sciagura , senza  uniilianti  a suppliche,  e pro- 
slrai^ioni  non  degne  y e senza'  ..palesai^  affezione  alcuna 
men  che  generosa  , lasciò  che  parlassero  gli  altri , 'do- 
gliosi di ' coadiuvarlo  arringando,  o testificando:  Lui  di** 
scolpavano,  molti  che  eran  presenti , singoK\rmente  Ver* 
giuio  , gii  cpnsòle.  co'n  euo  lui  , riputato  l’autore  della 
vittoria!  Coitui  non  solamente  dimostrò  Servilio  irre- 
prensibile, ma  degno  che  si  encomiasse  ‘ed  otiofasse 
come  peritissimo  in  guerra , e savissimo  tra’  capitani. 
Diceva  che  se  credeano  buono  iì  termine  della  gaerra 
dovevano  ringraziar  lutti  due  ; o tutti  dile  punirli  se 
sci  aurato  ; giacché  avevano  .tntti;.dne  avuto 'doiiiu  ni  i 
consìgli , le  opere  , la  fortuna.  Commovea  non  solo  il 


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172  DELLE  INTICHITA.’  ROMANE 

/ discorso  di  lui  ma  la  vita  intera,  speriménUtta  in  tutte 
le  belle  ationi.  A^iungevasi , ciocché  ispirò  piò  com- 
passione , la  forma  addoloievole , (piai  suoL  essere  in 
qiielli  che  han  sofferto,  o siano  per-  soffrire  tamii  ter- 
ribilL  Tanto  che  li' congiunti  degU  uccisi,  quelli  che 
pareano  più . implacabili  contro  1*  autore  tl^l  danuo  , Ia<> 
sciaronsi  vincere-,  e deposer  lo  sdegno  che  ne  aveano 
manifestato  ; imperocché  qinna  tribù  nel  dare  il  voto  ló 
diede  per  la  condanna.  E tal  fu  la  fine  de’  pericoli  di 
Servilio.  ■ ' . 

^XXIV.  Marciò  non  mólto  dòpo  contro  i Tirreni 
r armata  Romana  sotto  gli  auspicj  dei  console  Pubfio 
Valerio,  perocché  si  era  d^  bei  nuovo  levau  in  arme 
la  città  di  Vejo , ubendpsde  i Sabini , alieni  fino  a quei 
giorno  di  unirsele , quasi  aspirasse  cose  impossibili  : 
quando  però  vider(>  Menenio  in  fuga  e presidiato  il 
monte  prossimo  a Roma  , giudicando  ^ scadute  le  forze 
Romane , e sbaldanzito  1’  animo  di  quella  'repuUilica , 
eoncertaronsi  co’  Tirreni , spedendo  loro  milizie  nume- 
rose. I Vejenti  confidati  su  le  schiere  proprie  e su  quelle 
giunte  di  fresco^  da’  Sabini  frattanto  che  aspettavano  le 
ausiliarie  degli  altri  Tirreni  anelavtino  , di  volarsene  a 
Roma  col  più  dell’  esercito , quasi  ninno,  ne  uscirebbe  a 
combattere , ma  dovessero  per  assalto  espugnarla , o ri- 
durla con  la  fame.  Indugiandosi  però  essi  ed  aspettando 
i confederati,  lehti  a ingiungersi,  Valerio  ne  prevenne 
i disegni , guidato  contra  loro  il  fiore  de’  Romani , .e 
gli  alleati,  con  sortita  non  manifesta,  ma  occulta  quanto 
polevasi.  Imperocché  .uscito  da  Roma  sul  far  della  sera, 
e valicato  il  Tevere  ; si  accampò  non  lontano  dalla  città. 


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LIBRO  IX.  ' 173 

Poi  levando  F esercito  su  la  mezza  notte , si  avanzò  con 
marcia  oi-dinata;  e prima  che  fosse  il  giorno,  investi 
r nna  de’  campi  nemici.  Erano  due  questi  campi  ; di^ 
sgiunti , ma  non  molto , fra  loro , l’ uno  de’  Tirreni , 
r altro,  de’ Sabini.  Fattosi  primieramente  stil  campo  Sa* 
bino,  assalirlo  fb  prenderlo  ; ''dormendovi  i più  senza' 
guardia  sufficiente,  'come  in  terra-  amica  , e liberi  da 
ogni  sospetto  , nwntre  non  si  annoqziavano  in  parte  ai* 
cuna  i nemici.- Preso  il  campo , quali  furono  uccisi  tra 
il  sonno  , quali  ^orti  appena’,  o mentre  si  armavano , 
e quali  armati  già , mal  resistendo  disordinati  e dispersi: 
la -più  parte  peri,  fuggendo  verso  .1’ altro  campo,'  sor- 
presa dalla  cavalleria.  , 

XXXV.'  Valerio',  invaso'  il  'campo  Sabino , marciò  su 
r altro  de’  Vejenti , postisi  in  luogo  non-  abbastanza  si- 
curo: ma  non  poteano  più  gli  assalitori  ghingeM  oc-' 
culti , per  essere  il  giorno  già  chiaro  ; e datoyi  da  fng- 
gitivi  r avviso  della  strage  Sabina  , e di  quella  immi- 
nente ai  Tirreni.  Pertanto  eca  necemario  andar  con 
fortezza  al  nemico.  'Ecco  dunque  resistere  con  ardore 
sommo  i. Tirreni  avanti  j^i  alleggia'menti , e fervisi' aspra 
tenzone  e strage  vicendevole.;  stando  'lungo  tempo  in- 
cert^  e pendendo  or  quinci  Or  quindi  la  sorte  della 
guerra.  Alfine  dan  volta  i Tirreni  , sospinti  dalla  ca- 
valleria Rpmana  , e ricacciansi  tra  le  uincee. . Segueli 
il  consolé  , ed  approssimatosi  alle  trinclere  nè*  ben  for- 
mate , nè  in.  luogo  , come  ho  detto  , abbastanza  sicuro , 
le  assaU  da  più  parti  ; travagliandovi  tutto  il  resto  del 
giorno  , nè  desistendone  por  nella  notte  appresso.  I Tir- 
renivinti  da’  mali  incessanti  / a'bbandonano  su  l’ alba  il 


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174  DELLE  antichità’  ROMANE 
CAmpo  ; altri  in  città  iuggeo4o$i , altri  dispergendosi  pei 
boschi  vicini.  Il  console , invaso  par  questo  campo,  diè 
riposo  ; in  quel  giorno  all’  esercito  : e net  seguènte  com> 
parti  la  preda  copiosa  de’ due  alloggiameuti  tra  le  Site 
milizie , coronando  co*  premi  ^ usati  chiunque  s’ era  più 
segnalato  nel  'combattere.  SenrUio  il  console  dell’  anno 
precedente  , quegli  che  sfuggi  le  ^ne  popolari , man- 
dato ora  luogdtenente  di  Valerio,  parsé  aver  pià  che 
tatti  risplenduto  fra  le  arme,-  e sospinto  i Vejeqti  alla 
fuga;  è per  tale  SUO  merito  ne  ebbe  il  primo  i premj, 
riputati' più  grandi  tra' Roiliani. 'Fatti  quindi  spogliare  i 
cadaveri  nemici , e>  seppellire  quelli  de’suoi , marciando, 
e venendo  il  console  coll’  esercito  ne’  campi  prosskni  a 
Vejo;  sfidò  quelli  d’  entro  per  la  battaglia.  Ma  non  pre- 
sentandovisi  alcono , e conoscendo  altronde  esser  cosa 
ben  ardua  pigliarli  di  assalto , come  chiusi  in  città  for- 
tissima, scorse  in- gran  parte  il  lor  territorio,  e si  glttò 
su  s quello  dé’  Sabini.  E saccfaeggikto  pei^.,  più  giorni', 
pur  questo  , ^ che  era  ancora  intatto  ; ricondusse  l’ eser- 
cito carico  di  prede  àmplissimi  in  patria.  ‘ Usci  di  città 
molto  a dilungo  per  incontrarlo  ' il  popolo  cintp  di  ghir< 
lande  ed  accolse  Ini , dove  passava  con  profumi  d’ in- 
censo , e r armata  con  oratesi  di  vino  coti  mefe.  Il  Se- 
nato in  fine- decretò  loro  le  pompa  trionfale.  Cajo  Nau- 
zio  , r altro  console , a cui  -toccò  per  sorte'  la  difesa  dei 
Latini  e degli  Ernici , .s’indugiò  per  andarvi , aspettando 
l’esito  della  guerra  co’Vejenti,  non  per  imperizia,  o 
timor  de’  pericoli , ma  perchè  se  1’  armata  aveva  in  essa 
disagio  , ne  stesse  un’^ altra  pronta  in  città  , per  impe- 
dire che  i nemici  spaziassero  pel  territorio  quando  ve- 


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. LIBRO  IX.  1-^5 

Bisserò , e tentassero  come  prima  fortlCcarsi  presso  di 
Boma.  Frattanto  anche  la  guerra  degli  Equi  e de’ Vol- 
aci contro  i Latini  'prese  buon  termine  : e venn$  chi 
annunziò  che  i nemici  vinti  io  battaglia  eranseoe -levali 
territorio , né  più  vi  si  bisognava  allora  degli  - alleali. 
IVauzio  nondimeno  dopo  li  bei  successi  contro  i Tirre- 
ni I,  cavò  1’  esercito , e piombò  su  le  campagne  de’  Vol- 
aci; ma  ikitosi.a  scorrerle'  non  vi  occupò  che  poco  di 
bestiame  e di  schiavi',  per  essere  già  stale  derelitte.  Diè 
lé  fìamme'  ai  lor  seminati',  rigogliosi  già  per  le  messi  ; 
e Citii  altri  danni- nqn  lievi,  nè'compareDdQ  àlctiho  per  - 
combatterlo  ; ne  ritirò  le  milizie.  É tali  furono  le  gesta 
di  que’ consoli.  ' - ‘ ' 

^XXVL  Succeduti  loro  i oonttdi  Aulo  MaUio  e Lik> 
ciò  Furio  (i);  il  Senalo  decretò  che  Tnino  de’due  mar*, 
classe  ^contro  di  Vejo  , ed  essi  decisero,  come  u$ayasi, 
colle  sortì,  chi  andasse.  E 'toccato  a Malliq,  vdlò  col- 
r armata,  e mise  il  campo  presso  a’ nemici.  I Vejenti 
ristrettisi  fra  le  mora , resisteroùO  intanto ,.  e spedirono 
alle  città  Tirrene, _ ed  ai  Sabini,'  recenti  loro ' alleati , 
chiedendone  che  mandassero  sollecito  ajuto,  .Ma  percioc- 
ché non  furono  secondati -e  consumarono  .tra  poco  i 
viveri  ; alfine  ^ necessitati  dalla  fame , uscirono,  i perso- 
naggi  più  provetti  e 'più  veóer;iodi  e co’ simboli  di.  pa- 
ce , ne  andarono  ambasaiadori  ai  console  per  intercedere  ' 
da  esso  il  fin  della  guerra.  M^o  comandò  che  poetas- 
sero a lui  li  viveri  di  due  mesi  per'.tulta.rarmsui).  o 
tanto  di  argento  da  stipendiamela  per  un’anno,  e ciò 

. (i)  Anno  di  Roma  a&u  secoado  .fatoae^  aSa  secoado  Vacroae, 

4t  473  av.  Cristo. 


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176  DELLE  Antichità’  romàne 
fatto , «perirebbero  al  Senato  per  trattarvi  la  pace.  Ac> 
cattarono  i Vejenti  le  condiaioai,  e dati  beu^tosl»  gli 
stipendi , e per  concession  del  console , anche  in  luogo 
del  grano  il  suo  prezzo , ne  andarono  a Roma.  Intro- 
dotti in  Senato  cercarono  perdono  t delle  cose  operate 
fin’ allora,  e requie  dalla  guerra  in  tu.tio.  l’ avvenire. 
Disputate  più  cose  per  l’una  e l'atra  sentenza,  al  line 
prevalse  quella  che  insinuava  la  riconciliazione , e ven- 
nesi  ad  Una  tregua  di  quaraot*  anni.,  Gli  oratori,  avuta 
la  pace,  assai  de  ringraziarono  Roofa  , e partirono.  In 
opposito  Mallio  vi  tornò  finita  la  guerra , e vi  chiese  , 
e n’ebbe  il  trionfo  a piede  (i).  Fecesi,  reggendo  questi 
consoli , il  censo  ; ed  i cittadini  che  assegnarono  sè 
Stessi,  i beni,  e li  figli '^ià  puberi,  fotono,  poco  più. 
che  cento  fneUta'  mila;  . , . 

XXXYU.  Giunti  dbpo  quesU  al  consolato  . Lucio 
Emilio  Mamertx)  per  la  terza  volta  e Giulio  Yopisco 
nella  olimpiade  settantesima  settima  (a) , nella  quale 
vinsè  allo  stadio  Date  Argivo , mentre  Caritè  era  l’a»  ' 
conte- di  Atene  ; ebbero  assai  travaglioso  e turbato  il 
comando , sebben  tacesse.  la  guerra  di  fuori.  Standosi 
ogni  nemico  in  calma  ; ineprsero  per  le  se4izìoni  in- 
terne , in  pbricoti , prossimi  a rovinar  la  repubblica. 
Sciolto  il  popolo  dalia  otilizia  insistè  ben  tosto  per  la 
division  delle' lem.  'Imperocché  fra  i tribuni  aveacene 
uno  baldanzoso,  nè  disacconcio  alle  arringhe.  Gneo 
Genuzib.eia  deiso,  l’ istigatore  dei  popolo.  Egli  ad  ora 

(1)  L’ovatiooe.  *'  ‘ 

(a)  Aano  di  Roma  aSi  secondo  Catone,  aS3  secondo  Varrauc  , 
e 471  a».  Cristo.  ' . ■ , 


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LIBRO  IT.  177 

nJ  ora  adunauJolo  , per  conciliarsi  i poveri  ; pressava 
i consoli  all  eseguire  il  decreto  del  Senato  sa  la  divi» 
sion  delle  terre.  E questi  ricusavano  dicendo , non  es- 
serne la  esecuzione  stabilita  pel  consolato  loro , ma  per 
quello  di  Vergiiiio , e di  Cassio  a’ quali  era  diretto  il 
decreto  : similmente  che  gli  ordini  del  Senato  non  erau 
leggi  perpetue , ma  previdenze  , valide  per  un  anno. 
In  mezzo  a tali  pretesti  non  potendo  costringere  i con- 
soli che  aveano  autorità  più  grande  della  sua  ; diedesi 
a protervi  consigli.  Mise  in  pubblica  accasa  Mallio  e 
Lucio  , consoli  dell’  anno  precedente , e prescrisse  loro 
il  giorno  nel  quale  dovésse  giudicarsene , pronunziando 
svelatamente  per  titolo  dell'  accasa  , ch’essi  aveano  offeso 
il  popolo  col  non  avere  nominati  i decemviri , com'era 
il  decreto  del  Senato , per  dividere  finalmente  i terreni. 
Che  se  non  menava  in  giudizio  altri  consoli  quando 
dodici  erano  i consolati  dalla  emanazione  del  decreto , 
ma  faceva  rei , questi  due  soli , della  promessa  tradita; 
davano  per  cagione  la  mansuetudine  sua.  In  ultimo  disse; 
che  i consoli  attuali  allora  unicamente  ridurrebbonsi  a 
divìder  le  terre , quando  vedessero  alcuni  de’  trasgres- 
sori puniti  dal  popolo , considerando  che  avverrebbe 
anche  ad  essi  altrettanto. 

XXXVllI.  Ciò  detto , esortati  tutti  a venir  pel  giu- 
dizio , giurò  per  le  sante  cose , che  egli  osserverebbe  il 
proposito  , ed  insisterebbe  con  tutto  l’ardore  su  la  con- 
danna di  quelli,  e prefisse  il  giorno  in  cui  sen  farebbe 
la  causa.  I patrizj , ciò  udito , caddero  in  molto  timore 
e sollecitudine  , come  dovessero  liberare  que’  due , e 
reprimere  1’  audacia  del  tribuno.  Deliberarono  resistere 

DIOXIGI  . tomt  Iti.  i> 


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1-^8  DELLE  ANTICniTA’  ROMANE 

al  popolo  fortissimameote , e bisogoandovi , colie  armi 
ancora , né  permettergli  cosa  ninna  , se  mai  la  decre- 
tasse contro  la  dignità  consolare.  Non  però  vi  bisognò 
violenza  ninna , cessando  il  pericolo  con  risoluzione  ina- 
spettata e repentina.  Imperocché  quando  mancava  al 
giudizio  un  giorno  solo;  Genuzio  fu  rinvenuto  morto 
nel  suo  letto  p senza  indizio  niuno  di  uccisione  non  per 
isu-azio  , o capestro , o veleno  , nè  per  altre  insidiose 
maniere.  Risaputosi  il  caso , e portatone  il  cadavere  nel 
Foro  , parve  questo  come  un  impedimento  divino  , e 
ben  tostò  il  giudizio  fu  tolto.  Imperocché  niun  tribuno 
osò  di  riaccendere  la  sedizione , anzi  molto  condannò  le 
lune  di  Genuzio.  ' Se  dunque  i consoli  quando  il  cielo 
chetò  la  discordia  avessero  ceduto,  non  insistito  in  con- 
trario ; non  sarebbero  incorsi  in  altro  pericolo.  Ma  da- 
tisi ad  insolentire  e spregiare  il  popolo,  e fatti  vogliosi 
di  mostrargli  quanto  era  il  potere  del  loro  comando  ; 
causarono  mali  gravissimi.  Intimata  una  iscrizioa  mili- 
tare , e forzandovi  chi  ricusava , con  multe  e verghe  : 
ridussero  il  più  del  popolo  alla  disperazione,  principal- 
mente per  tali  motivi. 

XXXIX.  Publio  Valerone  , un  plebeo , d’  altronde 
illustre  fra  le  arme,  e già  capitano  di  centurie  nelle 
guerre  precedenti , fu  segnato  da  essi  per  semplice  le- 
gionario. Or  lui  reclamando , e ricusando  un  posto  che 
lo  disonorava  quando  non  aveva  demeriti  anteriori,  sde- 
gnaronsi  i consoli  de’  liberi  modi  , e comandarono  ai 
Kttori  di  nudarlo  a forza , e di  batterlo.  Il  giovine  in- 
vocava i tribuni , e chiedeva , se  era  colpevole  , di  es- 
sere giudicato  dal  popolo.  Ma  non  udendolo , ed  insi- 


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LIBRO  IX j irjg 

Stendo  i consoli  perchè  i latori  sei  menassero , e lo  bal^ 
lessero;  egli  riguardò  la  ingiuria  come  insoffribile,  e 
divenne  appunto  il  vindice  di  sè  stesso.  Imperocché, 
fortissimo  eh’  egli  era  , trae  de’  pugni  in  faccia , ed  at- 
terra il  littore  che  primo  lo  investe , e poi  l’ altro.  Esa- 
sperandosene i consoli,  e comandando  a tutti  insieme  i 
satelliti  di  avventarsegli  ; parve  raiion  superbissima  ai 
plebei  ebe  eran  presenti.  E congregandosi  ; e schiamaz- 
zando  per  istigarsi  1’  uno  V altro  alla  vendetta;  ritolsero 
il  govane,  e respinsero  colle  percosse  i littori.  Alfine 
si  spiccavan  su  i consoli , e se  questi  non  isparivan  dai 
F oro  ; sarebbevisi  fatto  male  gravissimo.  Per  tale  evento 
tutta  la  città  se  ne  scinde  ; ed  i tribuni  placidi  fin’  al- 
lora , fremendo  ne  accusano  i consoli  : e le  contese  per 
la  ditnsion  de’  terreni  cangiaronsi  in  altra  più  grave  su 
la  forma  del  governo.  Imperocché  irritandosi  i paU-isj 
come  i consoli  , quasi  fosse  l’ antorilà  conculcata  di 
questi  ; voleano  precipiur  dalla  rupe  l’ audace  che  in- 
sorse su  i littori.  Per  1’  opposi to  i plebei  riuni vansi , e 
vociferavano  e conciUvansi  a non  tradire  la  libertà.  Si 
rimettesse  la  causa  al  Senato , vi  si  accusassero  i con- 
soli, e se  n esigesse  un  castigo , perchè  non  lasciarono 
goder  de’  suoi  dritti , e traturono  come  uno  schiavo,  e 
diedero  a battere  un  uomo  libero  , un  cittadino  , che 
chiedeva  l’ ajuto  de’  tribuni , e di  essere , se  fosse  reo , 
giudicato  dai  popolo.  Fra  tali  contrasti  e ritrosie  di  ce- 
dere gli  uni  agli  altri  , decorse  tutto  il  tempo  di  quel 
consolato  senza  fatti  di  guerra,  o di  governo,  belli  e 
memorandi. 

Xh.  Venuto  il  tempo  de’comizj  furono  dichiarati 


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i8o  DELLE  Antichità’  romane 
consoli  Lucio  Pina  rio  e Publio  Furio  (i).  In  principio 
di  quest’  anno  la  cilià  fu  piena  ben  tosto  di  religiosi  e 
divini  terrori  pe’  molli  portenti  e segni  che  apparvero. 
£ li  vali , e gl'  interpreti  delle  sante  cose,  dichiaravano 
tutti , esser  questi  gl’  indizj  dello  sdegno  celeste  per  al- 
cuna sacra  cosa , fatta  con  ministero  non  pio , nè  puro. 
E dopo  non  mollo  ne  venne  su  le  donne  un  morbo , 
chiamato  contagioso  , e tanta  moruliià  per  le  gravide 
principalmente , quanta  mai  più  per  addietro.  Imperoc- 
ché partorendo  prole  immatura  e già  morta , perivan 
con  essa.  IVè  le  suppliche  ne’  templi  e nelle  are  de’nu- 
mi,  nè  i sagrifizj  di  espiazione  fatti  a scampo  della  pa- 
tria o delle  famiglie , portarono  un  fine  ai  mali.  In  tal 
rio  stato  un  servo  diè  cenno  a’  pontefici , che  una  delle 
vergini  sacre , custodi  del  foco  inestinguibile  , ( Orbilia 
ne  era  il  nome  ) avea  la  sua  verginità  estinta , e che 
non  pura  sagrificava  ; ed  essi  traendola  dai  Santiìario , 
e dandola  a giudicare  ; poiché  per  gli  argomenti  fu  rea 
manifesta  , la  batterono  , e condottala  con  pompa  lugu- 
bre per  la  città  , la  seppellirono  viva.  Di  quelli  poi  che 
ebbero  il  mal'  affar  colla  vergine , 1’  uno  si  diè  la  morte 
di  per  sè  stesso;  l’altro  fu  preso  nel  Foro  pe’ sopra- 
stanti delle  sante  case , e flagellato  come  uno  schiavo , 
ed  ucciso.  Dopo  ciò  fini  ben  tosto  la  infermità  soprav- 
venuta alle  femmine  , e la  tanto  lor  perdita. 

XLI.  La  sedizione  già  si  diuturna  in  Roma  de’plebet 
co’  patrizii , vi  ribolli  per  opera  di  Publio  Valerone  tri- 
buno , quello  che  ntll'  anno  precedente  aveva  disubbi- 

|i)  Anno  di  Roma  aSa  secoudo  Catone,  aS;  secondo  Varrone,  e 
4^0  av.  Cristo. 

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LIBRO  IX.  l8l 

dito  i consoli  Emilio  e Giulio  quando  il  segnavano 
per  legionario,  di  centurione  che  era.  Costui  nato  di 
stirpe  vilissima , e cresciuto  in  grande  oscurità  e disa- 
gio , fu  creato  tribuno  dal  ceto  de'  poveri , appunto 
perchè  sembrava  che  avesse  il  primo  tra’  privati  umi- 
liato il  grado  consolare  , autorevole  Gu’  allora  come  quello 
dei  monarchi,  'e  molto  più  per  le  promesse  che  dava 
di  togliere , giurilo  al  tribunato , la  potenza  de’  patrizj. 
Costai  quando  l' ira  del  cielo  era  cheta  , convocando  il 
popolo,  fece  uba  legge  su  le  elezioni  popolari  trasmu- 
tando i comizj  che  i Romani  chiamano  per  curie  in 
quelli  per  tribù.  Io  sporrò  qual  sia  la  differenza  degli 
uni  e degli  altrL  Li  comizj  curiati  perchè  fossero  va^ 
lidi , conveniva  che  precedesseli  il  decreto  del  Senato , 
che  il  popolo  vi  desse  il  voto  di  curia  in  curia  ; e che 
oltre  questi  due  requisiti , niun  segno , nè  augurio  ce- 
leste vi  si  opponesse  : laddove  gii  altri  comizj  compi- 
vansi  dalle  tribù  con  un  giorno  solo  senza  decreti  an- 
teriori del  Senato  , senza  sagriGzj , e senza  le  divinazioni 
degli  auguri.  Due  degli  altri  quattro  tribuni  volean  co- 
m’ egli  la  legge  ; ed  esso  tenendosi  amici  que’  due  ; ne 
andava  superiore  a fronte  degli  altri  che  la  ricusavano 
i quali  eran  meno.  I consoli , il  Senato  , i patrizj  in- 
tendeano  tutti  a distoglierla  e renderla  vana.  E recatisi 
in  folla  al  Foro  nel  giorno  preGsso  dai  tribuni  per  fon- 
dare la  legge  , vi  furono  aringhe  di  consoli , di  sena- 
tori provetti , e di  chiunque  il  volle , per  dimostrare  gli 
assurdi  di  essa.  Risposero  i tribuni , e di  bel  nuovo  i 
consoli  ; e prolungandosi  mollo  le  altercazioni  , fecesi 
notte  , e l’ adunanza  fu  sciolta.  Proposero  nuovamente 


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182  DELLE  Antichità’  romane 
i tribuni  pel  terzo  mercato  la  diacussion  su  la  legge  ; 
ma  concorsavi  gente  anche  in  pi  & copia , se  n’ebbe  un 
fine  simile  al  precedente.  Or  ciò  vedendo  Publio,  de- 
liberò di  non  permettere  ai  consoli  di  accasare  la  legge , 
nè  al  patrizj  di  trovarsi  al  dar  de’  sufiì'agj.  Perocché 
questi  co’  loro  amici  e clienti  non  pochi , ingombravano 
gran  parte  del  F oro , facendo  animo  a chi  denigrava 
la  legge  , e remore  a chi  difendevala  , e cose  altrettali 
che  nel  dar  dei  voti  sono  indizio  di  violenza  e disordine. 

XLII.  Se  non  che  ne  interruppe  i disegni  tirannici 
nn’ altra  calamhé  mandata  dal  cielo.  Imperocché  sorse 
in  città  nn  morbo  pestilente  che  infuriò  pnr  nel  resto 
d’ Italia  ; non  però  quanto  in  Roma.  Nè  valeva  per  gii 
infermi  soccorso  umano , morendovi  del  pari  e chi  era 
con  ogni  diligenza  curato,  e chi  non  lo  era.  Nemmeno 
giovarono  allora  suppliche  , sagrifizj  , espiazioni  private 
o pubbliche , alle  quali  necessitati  si  rivolgono  gli  uo- 
mini io  tali  casi  per  estremo  rimedio.  Il  male  non  di- 
stinse non  età , non  sesso  , non  vigore  , non  debolezza, 
non  arte  , non  cosa  ninna  di  quelle  che  pajono  ren- 
derlo più  leggero;  ma  comprendea  del  paro  Uomini  e 
donne , giovani  e vecchi.  Non  però  durò  gran  tempo , 
e questo  impedì  che  la  città  ne  perisse  totalmente.  Si 
gettò  come  torrente  o incendio  su  gli  nomini  con  im- 
peto furibondo , ma  passeggero.  Quando  il  male  diè 
requie  ; Publio  era  per  uscire  di  carica.  E siccome 
non  potea  stabilire  in  quel,  resto  di  tempo  la  legge  ; 
soprastando  i comizj  j chiese  di  nuovo  il  tribunato  per 
l’anno  seguente,  fatte  molte  e grandi  promesse  al  po- 
polo: e di  nuovo  se  lo  ebbe  egli,  e due  de’ compagni. 


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LIBRO  IX.  l83 

Per  Topposito  i patrizj  tentarono  far  console  un  uomo 
aspro,  odiatore  del  popolo,  e che  non  lascerebbe  punto 
diminuire  l’ autorità  de’  pochi  : io  dico  Àppio  Claudio , 
6glio  di  queir  Appio  eh’  crasi  tanto  opposto  al  ritorno 
del  popolo.  Or  quest’uomo  che  moltissimo  contraddiceva 
alla  scelta  dei  tribuni , questo  che  non  avea  nemmeno 
voluto  venire  al  campo  p«’ comic],  sei  crearono  con-* 
sole , quantunque  assente , avutone  precedentemente  il 
decreto  del  Senato. 

XLIII.  Terminati  ben  tosto  i comic]  > per  esserne 
partiti  i poveri  appena  udito  il  nome  di  Appio  ; pre^ 
sero  il  consolalo  Tito  Qninuo  Capitolino  ed  Appio 
Claudio  Sabino,  nomini  non  simili  di  caratteri  e di 
voglie  (i).  Perocché  Appio  voleva  distrarre  tra  le  mi- 
lizie di  fuori  il  popolo  ozioso  e povero  , afGnchè  coi 
suoi  travagli  guadagnasse  dai  beni  ' del  nemico  il  vitto 
giornaliero , di  cui  tanto  penuriava , e rendendo  UliK 
servigi  alla  patria , non  fosse  malafFelto  e molesto  a’  pa- 
dri che  governano  il  comune.  Dicea  che  avrebbe  puiv 
le  cagioni  plausibili  di  guerra  una  città  che  si  procac- 
ciava il  comando  , e che  era  da  tutti  invidiata  : chie- 
deva che  argomentassero  dalle  cose  passate  le  future , 
esponendo  quanti  moti  erano  stati'  in  città , e come 
sempre  nella  cessazion  della  guerra.  Quinzio  però  non 
pensava  di  portare  ad  altri  guerra  : dichiarando  che  do- 
vea  bastar  loro  quando  il  popolo  ubbidiva  chiamato 
contro  ai  pericoli  esterni , che  sopravvengono  e strin- 
gono , e dimostrando , che  se  forzassero  nel  caso  pre- 
ti) Anno  di  Roma  a83  secondo  Catone  , aSS  secondo  Varrone, 
av.  Cristo. 


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l84  PKLLE  ANTICHITÀ.’  ROMANE 

sente  gl'  indocili , indurrebbero  la  disperazione  come  i 
consoli  precedenti  1’  avevano  indotta.  Dont}*  è che  por- 
rebbonsi  essi  a repentaglio  o di  opprimere  la  sedizione 
col  sangue  e colle  stragi , o di  scendere  con  vitupero  ad 
appiacevolire  la  plebe.  Comandava  Quinzio  in  quel  me- 
se ; tantoché  non  potea  1’  altro  console  far  nulla  senza 
il  consenso  di  esso..  Ma  Publio  e li  compagni  ripiglia- 
rono senza  indugio  la  legge , che  non  aveano  potuto 
stabilire  nell'  anno  precedente  , aggiungendo  a questa  , 
che  si  creassero  ne'  comizj  stessi  ancora  gli  edili:  o che 
tutto  in  fine,  quanto  si  trattava  o risolveva  dal  popolo, 
si  trattasse  e risolvesse  nel  modo  medesimo  con  i co- 
mizj per  trìbùr  Or  ciò  era  l’ annientamento  manifesto 
del  Senato  , e l’ inalzamento  del  popolo. 

XLiy.  A tale  notizia  mpensierirono , e discussero 
i consoli  , come  togliere  pronti  e sicuri  la  sommossa  e 
la  sedizione.  Appio  consigliava  che  si  chiamassero  al- 
r armi  quanti  volean  salva  la  forma  della  repubblica  ; 
e che  si  numerassero  tra’  nemici  quanti  si  opporrebbero 
ad  essi  che  le  impugnavano.  Ma  Quinzio  giudicava  che 
si  dovesse  prendere  il  po[x>lo  colla  persuasiva  , e con- 
.vincerlo  die  per  ignoranza  de’ -veri  interessi  sla  nciavansi 
a rovinose  risoluzioni.  Dicea  esser  t estremo  'della  de^ 
menta  estorcere  colla  forza  da’  cittadini  ritrosi  ciocché 
aver  ne  poteano  di  buorr  grado.  Ora  approvando  pur 
gli  altri  senatori  il  parere  di  Quinzio  ; i consoli  ne  an- 
darono al  Foro,  e chiesero  da’ tribuni  un’aringa,  ed 
il  giorno  in  cui  farla.  Ottenuta  a stento  l’una  e l’altra 
istanza,  venuto  il  giorno  richiesto,  e concorsa  al  Poro 
moltitudine  d’ ogni  genere  preparata  per  opera  de’  due 


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MBIVO  IX.  l85 

magistrati  in  favor  loro , presenlaronsì  i consoli  per  cen- 
surarvi la  legge.  Quinzio , uomo  altronde  discreto , e 
persuaso  che  il  popolo  avessi  a guadagnar  col  discor- 
rere , chiese  il  primo  udienza , e ragionò  cose  a propo* 
sito  , e con  piacere  di  tutti  ; cosicché  li  fautori  delia 
legge  impotenti  a dir  cose  pii^  giuste  o benigne,  assai 
ne  furono  imbarazzati.  B se  il  console  collega  non  la- 
vasi ancora  troppo  gran  moto  ; forse  i plebei  ricono- 
scendo che  non  cercavano  nè  il  giusto , nò  il  bene  ri- 
pudiavan  la  ■ legge.  Ma  perciocché  colui  tenne  un  discorso 
superbo , e grave  ad  udirsi  da’poveri  ; il  popolo  ne  fu 
crocciato , implacabile , e discorde  , quanto  mai  piò  per 
addietro.  Non  parlò  costui  come  a uomini  liberi,  a cit- 
tadini arbìtri  di  fare  e disfare  le  leggi  : ma  quasi  par- 
lasse con  nomini  vili  , forestieri , né  liberi  solidamente; 
vi  lanciò  detti  amari,  insoffribili:  vi  lamentò  le  assolu- 
zioni dei  debiti , e ricordò  la  separazione  dai  consoli  ; 
quando  dato  di  piglio  alle  insegne , che  pur  sono , san- 
tissima cosa , abbandonarono  il  campo , volgendosi  ad 
un  esilio  volontario.  Richiamò  li  giuramenti  che  avean 
fatti , quando  presero  per  la  patria  le  armi , che  poi 
contro  lei  sollevarono.  Pertanto  diceva  che  non  sarebbe 
meraviglia  se  essi  che  avevano  spergiurato  gl’iddj , lasciato 
i capitani , e diserta  , quanto  era  in  loro , la  p^ttria , e 
che  vi  erano  tornati,  confusavi  la  buona  fede,  e sov- 
vertitevi le  leggi  ed  il  governo  , ora  non  si  dimostras- 
sero moderali  ed  utili  cittadini  : mai  incitati  da  nuòvi 
desideri  ed  eccessi , talvolta  chiedessero  magistrati  pro- 
prj , scelti  dall’ordin  loro,  e questi  iudipendentì  , in- 
violabih  ; tal’  altra  chiamassero  in  giudizio  per  cagioni 


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1 86  DELLE  A^TICHITA’  ROMANE 

turpissime  que’palrizj  che  loro  paressero,  trasferendo 
dal  celo  più  puro  al  più  sordido  i poteri  con  cui  Roma 
faceva  un  tempo  giudicare  sull’  esilio  e la  morte;  e ta- 
lora i mercenari  e privi  de’  palrj  lari  com’  erano , fis- 
sassero leggi  ingiuste  ed  oppressive  contea  i bennati , 
senza  lasciare  al  Senato  la  facoltà  di  proporle  prima 
col  sno  decreto  , tolta  ad  esso  una  prerogativa  che  aveva 
V sempre  avuta  senza  contrasto,  fin  sotto  de’monarchi,  e 
de'  tiranni.  E dette  molte  altre  cose  consimili , senza 
lasciare  indietro  memorie  amare,  nè  risparmiare  nomi 
ingiuriosi  ; alfine  pronunziò  questo  ancora  per  cni  tntto 
il  popolo  ne  infuriò , vale  a dire  che  mai  la  città  che* 
terebbesi  totalmente  dalle  sedizioni  ma  che  sempre  in- 
fermerebbesi  per  nuovi  mali , finché  fossevi  il  poter  dei 
tribuni  ; affermando  che  negli  affari  politici  si  dee  ve- 
dere che  i principi  sian  buoni  e giusti , giacché  da  buon 
seme  si  ha  frutto  buono  e felice,  ma  infelice  e reo  da 
reo  seme. 

XLV.  Diceva  : se  questo  potere  fosse  erttraio  in 
città  di  buon  accordo  per  ulil  comune;  venutovi  col 
favor  degli  augurj  e della  religione , sarebbe  stalo  a 
noi  causa  di  molti  e gran  beni , di  unione , di  leggi 
savie,- di  speranze  belle  dal  ctmto  dé’ numi,  e di  mille 
altre  cose.  Avendovelo  però  introdotto  la  violenza,  la 
prevaricazione  , la  discordia , il  timore  di  una  guerra 
interna,  e tutti  i mali  più  odiati  fra  gli  uomimf  come 
con  tali  principii  ne  sarà  mai  fausto  e salutare?  Ben 
è superfìua  cosa  cercar  farmachi  e cure  quante  sen 
possono  ai  mali  che  ne  germogliano  finché  restavi  la 
radice  viziata.  Nè  mai  vi  sarà  termine  , mai  requie 


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LIBRO  IX.  187 

alcuna  dallo  sdegno  celeste , finché  ques^  invìdia , in» 
saziabile  furia  in  città  s’  annida  , e lorda , ed  infra- 
cida tutto.  Ma  per  tali  cose  vi  sarà  discorso,  e tempo 
più  acconcio.  Ora,  poiché  si  vuole  rimediare  alle  còse 
presenti  ; io  lasciando  ogni  acerbità , vi  dico  : « N& 
» questa  legge,  nè  altra  qualunque  non  approvata  prima 
» dal  Senato  sarà  mai  valida  nei  mio  consolato.  Ma  so> 
n Sterrò  con  parole  gli  ottimati , e quaudo  anche  1’  o- 
» pere  vi  bisognino  , nemmeno  in  queste  sarò  vinto 
» dagli  avversar).  E se  non  prima  ayete  saputo  quanta 
» sia  r /lutorità  de'  consoli , nel  mio  consolato  lo  sa- 
a prete,  a 

XLVI.  Àppio  cosi  disse , quando  Cajo  Lettorio  il 
piò  provetto  e più  venerabile  de’  tribuni , uomo  rico- 
nosciuto non  ignobile  in  guerra , e buono  al  maneggio 
degli  affari , sorse  e replicò  , cominciando  da  alto  , e 
ragionando  a luogo  sul  popolo  , quante  diftìcili  spedi- 
zioni avessero  intrapreso  i poveri , da  lui  vilipesi , non- 
solo  nel  tempo  dei  re , quando  forse  era  necesiiià  , ma 
dopo  la  espulsione  loro  per  acquistare  alla  patria  la 
libertà  e il  comando.  Pur  non  ebbero  , dicea  , ricom- 
pensa ninna  da  palrizj , né  goderono  alcuno  de'  pub- 
blici beni;  ma  quasi  presi  in  guerra  , furono  privati 
injino  della  libertà  : e se  volevano  conservarsela  do- 
vettero . abbandonare  la  patria , cercando  una  terra 
ove  non  fossero , essi  liberi  uomini , insultati^  Senza 
violentare , senza  obbligare  colle  arme  il  Senato  , eb- 
bero nella  patria  il  ritorno , condiscendendo  a lui  che 
chiedeva  e pregava  che  si  rendessero  alle  abbandonate 
lor  cose,  fi  qui  spose  i giuramenti , e rammentò  gii 


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l88  DELLE  antichità’  ROMANE 

accordi  fatti  per  questo  ritorno;  tra’ quali  v’era  I* amni- 
stia di  tutto  il  passato,  e la  concessione  a’  poveri  di 
eleggersi  magistrati  i quali  proteggessero  loro  , e resi- 
stessero a chiunque  volesse  mai  conculcarli.  Scorrendo 
su  ^li  subjetd , aunoverò  le  leggi  fondate  poco  prima 
dal  popolo  ; come  quella  su  la  iraslasion  dei  giudizj  per 
la  quale  il  Senato  cedeva  ài  popolo  che  chiamasse  in 
giudizio  qual  più  volesse  de’  patrizj  ; e 1’  altra  sul  dar 
dei  suffragi,  la  qual  rendeva  arbitri  de’ voti  i comìzj  per 
tribù , non  quelli  per  centurie. 

XLVIL  E così  ragionato  Sul  popolo  ; rivolgendosi  ad 
Appio  disse  : E tu  ardisci  et  insultar  quelli  pe’  quali 
la  repubblica  divenne  di  piccola  grande , e luminosa 
d' ignobile  ? tu  chiami  sediziosi  gli  altri  ^ e rimproveri 
loro  tome  fuorusciti  ? Quasi  non  tutti  rammentino 
ancora  ciocché  avvenne  tra  noi , vuol  dire  che  gli  avi 
tuoi  levarono  il  capo  contro  de’  magistrati , abbando- 
naron  Ut  patria,  e supplichevoli  qui  s' alloggiarono.  Se 
non  forse  voi  che  avete  abbandonala  la  patria  per 
amore  della  libertà  , voi  v avete  fatto  un  opera  belìa^ 
fié  ^ella  è quella  de’  Romani  che  han  fatto  altret- 
tanto, Tu  ardisci  calunniare  l’ autorità  de’ tribuni  conte 
introdotta  a mal  fatto  ; e persuadi  qui  noi  che  c in- 
voliamo questo  sacro , questo  immobile  rifugio  de’  po- 
veri , confermatoci  da  numi  a dagli  uomini  per  tanto 
grandi  cagioni  ? Ta  tirannissimo , ninUcissimo  che 
sei  del  popolo  ! E non  giungi  nemmeno  dunque  a 
vedere , che  ciò  dicendo  , oltraggi  il  Senato , oltraggi 
la  tua  mùgislratura  ? Insorse  pure  ' tutto  il  Senato 
contro  dei  re , più  non  potendo  so  ferirne  la  superbia^ 


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LIBRO  IX.  1 89 

c gli  affronti  ; e fondò  il  consolalo  , e prima  di  ban- 
dirli da  Rema  f coesi  altri  ministri  del  regio  potere. 
2'antochè  ciò  che  dici  contro  del  tribunato  come  in- 
trodotto mal  fato,  per  la  origine  sediziosa,  ciò  dici 
ancora  contro  del  consolato  ; giacché  non  altra  causa 
il  fé  nascere  se  rwri  lo  scuotersi  de’  patrie j contro  dei 
re.  Ma  che  parlo  io  di  queste  cose  con  te  quasi  con 
cittadino  buono  e Moderato  , quando  tutti  sanno  che 
tu  sei  di^ stirpe  mal  grazioso , anzi  acerbo , anzi  in- 
festo al  popolo , nè  buono  da  ingentilire  la  salvati- 
chezea  tua  ? X)  perchè  non  pospongo  i detti , e ^ in- 
vesto co’  fatti , e ti  mostro  che  tu  che  non  ti  vergogni 
di  chiamare  il  popolo  un  sordido , e senza  casa , tu 
non  sai  quanta  sia  la  forza  di  lui  ? quanta  quella  del 
suo  magistrato  a cui  le  leggi  ti  obbligano  di  dar  luo- 
go e di  cedere  ? ma  già  lasciati  1 rammaricìd  delle 
parole , comìncio  le  opere. 

XLVIII.  E ciò  detto  giurò  col  giuramealo , più  rive* 
reado  infra  loro , di  sostenere  la  legge;  o di  morire.  E 
qui  taciutisi  lutti , e latti  empiutisi  di  ansietà  su  ciò 
che  farebbe  : comandò  che  Appio  ne  andasse  dall*  adu- 
nanza. E perciocché  non  ubbidiva  , ma  cingendosi  coi 
littori  e colia  turba  che  aveasì  perciò  condotto  di  casa, 
ripugnava  ad  andare  ; Lettorio , intimato  pe’  banditori 
silenzio,  consigliò  che  i tribuni  facessero  portare  il  con- 
sole nella  carcere.  E qui  la  guardia  di  lui  si  avanzò  , 
comandata , come  ad  arrestarlo  ; ma  il  littore , che  il 
primo  se  la  ebbe  innanzi , la  battè  e respinse.  E levatosi 
romor  grande  e rammarico;  v’accorse  lo  stesso  Lettorìo, 
eccitando  la  turba  in  ' suo  ajulo.  Se  gli  oppose  Appio 


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igo  DELLE  Antichità’  romane 
con  giovani  bravi  e numerosi;  ed  eccone  quinci  e quindi 
viluperauoni , grida , spinte  ; talché  la  contesa  diveni— 
vane  zuflà , ornai  cominciandovisi  il  trar  delle  pietre. 
Se  non  che  ripresse  tali  colpi , e fece  chn  il  male  non 
procedesse  più  oltre  Quinzio  l’ altro  console , caccian- 
dosi egli  c li  più  anziani  de’  senatori , tra  le  minacce  , 
e supplicando  e scongiurando  tutti  a desistere.  Non 
avanzava  allora  se  non  picciola  parte  del  giorno,  e però 
si  divisero  finalmente  , ma  di  mal’  animo.  Incoiparonsi 
i magistrati  a vicenda  ne’  giorni  appresso  : il  console 
accusava  i tribuni  che  tentassero  di  annientare  il  suo 
grado  col  volere  in  carcere  chi  lo  rappresentava  ; ed  i 
tribuui  il  console  , pe’  colpi  portati  su  persone , sacre 
ed  inviolabili  per  la  legge  ; e de’  colpi  avea  Lettorio  i 
segni  manifesti  nel'  sembiante.  Intanto  stavasi  la  città 
scissa  e fremente.  I tribuni  ed  il  popolo  occuparono  il 
Campidoglio,  non  tralasciandone  mai  la  guardia,  giorno' 
e notte  : il  Senato  adunatosi  tenne  lunga  e travagliosa 
discussione  intorno  ai  modi  di  chetar  la  discordia , con- 
siderando la  gravezza  del  pericolo  , e come  nemmeno  i 
consoli  fossero  uniti  fra  loo);  giacché  volea  Quinzio 
conr^dere  al  popolo  le  istanze  • moderate , ed  Appio  vi 
ripugnava , a costo  ancora  della  vita. 

XLIX.  E poiché  ninna  cosa  avea  termine , Quinzio 
presi  nn  per  uno  i tribuni  ed  Appio , orando , scon- 
giurando , raccomandava  loro  di  antepoiTe  il  ben  pub- 
blico al  proprio.  E vedendo  alfine  ornai  rimplacidili 
quelli,  ma  duro  in  sua  caparbietà  il  console  compagno; 
persuase  Leitòrio  e i seguaci  di  lui,  sicché  rimettessero 
al  Senato  l’esame  de’ privati  e pubblici  risentimenti.  Con- 


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LIBRO  IX. 


*9* 

Tocato  quindi  il  Senato,  lodativi  ampiamente  i tribuni, 
e scongiurato  il  compagno  a non  contrastare  la  salvezza 
pubblica , invitò  tutti , secondo  il  solito , a dirne  il  pa- 
rer suo.  Invitato  per  il  primo  Publio  Valerio  Poplicola, 
disse:  che  doveansi  dal  pubblico  condonare,  non  por- 
tare in  giudizio  le  incolpazioni  vicendevoli  de'  tribuni 
e del  console  su  quanto  s’ avean  fatto  o sofferto  nel 
tumulto;  perchè  non  erosi  fatto  per  mal  animo,  nè 
per  ben  propiro  , ma  per  gara  di  preminenza  in  re- 
pubblica: quanto  alla  legge  poi  sen  facesse  previo 
decreto  in  Senato  ; giacché  Appio  console  non  voleva 
che  senza  questo  al  popolo  si  proponesse.  Del  resto 
provvedessero  tribuni  e cofisoli  insieme  il  buon  ordino, 
e C armonia  de'  cittadini  nel  dar  de'  suffragi.  Appro- 
varono lutti  quel  dire  ; e ben  tosto  Quinzio  fe’  dare  il 
volo  a’  senatori  su  la  legge.  AcCusolla  Appio  per  più 
capi,  e -molto  i tribuni  se  gli  opposero,  ma  vinse  (ìnal- 
mente  di  gran  lunga  il  partito  per  introdurla  ì stesone 
il  decreto  del  Senato,  ne  tacquero  le  gare  de’ magistrati, 
il  popplo  di  buon  grado  lo  accolse  , e fece  co’  sufTragj 
suoi  la  legge.  Da>quelip  (i)  fino  a miei  tempi  i comizj 
per  tribù  decidono  col  volo  loro  la  scelta  de’  tribuni  e 
degli  edili  ^enza  dipendenza  ninna  dagli  augurj^e  dalle 
cose  di  religione.  E tal  fu  la  soluzione  de’  dissidj  che 
di  que’ giorni  conturbarono  Roma. 

L.  Piacque  dopo  non  molto  ai  Romani  di  arrolar  le 
milizie , e spedire  ambedue  ^ consoli  contro  gli  Equi  e 
li  Volsci:  perocché  nunziavasi  loro  eh’ erano  uscite  truppe 

(i)  Addo  di  Roma  a83  secondo  Catone,  a85  secondo  Varrone, 
* 4^  UT.  Cristo. 


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1C)2  DELLE  antichità’  BOMANE 

in  gran  numero  deli’  uno  e dell’  altro  popolo  e depre- 
davano  gli  alleati  Romani.  Apparecchiati  dunque  in  fretta 
gli  eserciti , e sceltone  colle  sorti  il  comando  ; Quinzio 
marciò  contro  gli  Equi,  ed  Appio  contro  de’Volsci.  Ma 
ciascun  dei  due  consoli  v’  ebbe  le  vicende  che  meritava. 
Imperocché  l’armata  di  Quinzio  benevola  al  vaientQomo 
per  la  moderazione , e per  la  dolcezza  di  lui , ne  ubbi- 
diva pronta  i comandi , e le  più  volte  anche  senza  co- 
mandi affrontava  i pericoli , per  acquistargli  fama  ed 
onore.  Dond’è  che  scorse  in  gran  parte,  saccheggiando, 
la  region  de’  nemici  ; senza  eh’  ardissero  questi  venirne 
alle  mani  : e raccoltevi  amplissime  prede  , e vantaggi , e 
dimoratavi  alcun  tempo  scevra  in  tutto  da  mali;  si  pre- 
sentò di  bel  nuovo  in  patria , rimenandovi  il  suo  capi- 
tano luminóso  per  le  belle  azioni.  Ma  1’  arntata , anda- 
tane con  Appio , lasciò  per  odio  di  lui  ipulti  patrj  do- 
véri; perocché  fu  mal  animata  in  ogni  spedizione  e poco 
curante  il  suo  duce:  e quando  le  bisognò  far  battaglia 
co’ Volscl , schieratavi  da  . esso,  ricusò  di  venire  alle 
mani.  Centurioni  ed  antesignani , chi  lasciò  la  schiera 
sua , chi  gettò  1’  insegna , e rifuggironsi  agli  alloggia- 
menti. E se  gl’inimict,  sorpresi  dalla  stranissima  fuga, 
ed'  intimoriti  per  essa  di  un  qualche  inganno , non  de- 
sistevano dall’  incalzarli  ; perivane  il  più  de’Romani.  Or 
ciò  faceauo  a mal  cuore  del  capitano  , sicché  egli  sul- 
r esito  di  fauste  battaglie,  non  crescesse  col  trionfo,  e 
con  altri  onori.  Nel  giorno  appresso  ora  il  console  re- 
darguendoli per  la  fuga  -ingloriosa , ora  esortandoli  a 
cancellarne  la  infamia  con  un  generoso  combattimento, 
ora  minacciandoli  che  varrebbesi  del  rigor  delle  leggi  se 


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LIBRO  IX.  ig3 

non  teneansi  fermi  contro  a’  pericoK  , essi  ìadociii  tut>' 
lavia  Io  intronarono  colle  grida , e cltiesero  che  li  ri«> 
tirasse  dalla  guerra  , come  invalidi  a pi&  resistervi  per 
le  ferite.  E quasi  feriti  davvero , ' aveansi  alcuni  fasciate 
membra  sanissime.  Appio  adunque , necessitatovi , ritirò 
r esercito  dalle  terre  nemiche;  ed  i Volaci  tenendogli 
dietro,  ne  ticoisero'non  pochi.  Giunti  in  terre  amiche, 
il  cònsole  convocatili , e fintine  i grandi  lamenti , an- 
nnnrìò  che.  punirebbeli  come  i disertori.  E quantunque 
seniori  e magistrati  militari  assai  lo  pregassero  a tem- 
perarsi , nè  volgere  la  patria  di  danno  in  danno  ; egli 
non  tenne  conto  di  alcnno , e stabili  la  pena.  Quindi 
i centarìoni  le  cui  centurie  fuggirono  «'e  li  portatori 
delie  bandiere , che  le  aveano  peivlute , gli  nm  furono 
decapitati  colle  scuri , e gli  altri  Colle  verghe  battuti  e 
morti.  Del  resto  della  diilizia  ne  peri , tirata  a sorte , 
la  decima  parte  per  tatti.  Tale  fra*  Romani  è il  castigo 
per  chi  lascia  l’ ordinanza  , o getta  la  insegna.  .Dopo 
ciò  egli , duce  odióso  , condocendo  1’  avanzo  dell’  eser- 
cito mesto  è disonoralo  ; ornai  sovrastando  i oomiz)  , si 
rimise  in  patria. 

LI.  Dichiarati  consoli , dopo  questi , Lncio  Valerio 
per  la  seconda  volta  , e Tiberio  Emilio  (i);  i Tribuni 
contenutisi  già  per  qualche  tempo  , introdussero  di  bel 
nuovo  il  discorso  su  la  division  de’ terreni.  £d  andatine 
ai  consoli , chiesero  supplichevoli  ed  insistenti  che  si 
mantenessero  al  popolo  le  proihesse  fattegli  dal  Senato 

(i)  Addo  di  Roma  384  *<cuado  Csioue,  a86  secondo  Varrona , 
a 4C8  av.  Cristo. 

pjo.Yicr , tomo  tri.  . ij 


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ip4  delle  Antichità’  romane 
5otio  i coasoli  Spurio  Cassio , e Proclo  Verginio.  Unt- 
ronsi  loro  ambedue  i consoli , Tiberio  Emilio  mosso  da 
vecchio , nè  irragionevole  odio  contro  del  Senato,  per» 
che  non  concedette  al  padre  di  lui  il  trionfo  che  di- 
mandava (i),  e 'Valerio  affine  di  mitigare  lo  sdegno 
conceputo  dal  popolo  contro  lui  per  la  morte  di  Cassior 
perocché  Valerio , allora  questore , diè  la  morte  a qae* 
st’  uomo , famosissimo  in  quei  di  nel  condurre  gli  aifari 
militari  e civili , quasi  aspirasse  la  tirannide , perchè 
primo  propose  in  città  la  legge  per  la  division  de’  ter- 
reni ; ed  incorse  principalmente  perciò  1’  odio  de’  pa- 
trizi , come  avesse  anteposta  ad  essi  la  plebe.  Promet- 
tendo allora  dunque  i consoli  di  confortare  in  Senato 
la  inchiesta  loro  su  la  parlizion  delle  terre  pubbliche , 
e di  dar  mano  alla  legge  ; i tribuni  su  ciò  confidatisi  » 
vennero  in  curia , e ven  fecero  mite  discorso.  Non  ss 
contrapposero  i consoli,  come  per  iseansare  il  nome  di 
contenziosi , ma  chiesero  su  ciò  gli  anziani  del  giudizio 
loro.  E dimandato  il  primo  Lucio  Emilio,  il 'padre 
dell’ fino  de’  consoli,  disse,  parere  a,  lui  giusto  ed  utile- 
a Roma  che  le  cose  del  comune  fossero  di  tulli  non 
di  pochi  : consigliava  di  coruliscendere  alle  istanze  del 
popolo  , perché  la  concession  loro  si  avesse  per  un 
benefizio  ; laddove  erano  stati  ridotti  ad  accordare  di 
forza  tante  e tante  cose  che  non  aveano  concedute  di 
buon  grado  : dicea  voler  la  ragione  che  chi  riteneva 
i fondi  pubblici,  ringraziasse  il  Senato  pel  frullo  fine 
allor  percepitone  senza  titolo , non  si  ostinasse  in 
contrario , se  non  più  potea  percepirli , e ciò  dicerts 
(i)  Vedi  S 7 di  questo  libro.  ' *| 


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LIBRO  IX.  Ij)f) 

sol  diritto,  riputato  da  tutti  booissimo,  che  le  cose  del 
pubblico  sian  comuni  a tutti , e le  particolari , acqui- 
state legittimamente , sian  de’  privati  : aggiungeva  es~ 
sere  necessità  che  eseguita  fosse  la  divisioii  dal  Se- 
nato , il  quale  aueala  decretata  , erano  già  diciassette 
anni-  Dimostrava  che  il  Senato  aveva  allora  ciò  de- 
cretalo per  util  pubblico , perchè  nè  il  terreno  fosse 
incolto , nè  la  povertà  si  stesse , come  ora , oziosa  in 
Roma , ed  invida  dell  altrui  : e finalmente  perchè  la 
gioventù  allevata  ne’  patrj  lari  e beni  avesse  come 
educarvisi  onestamente , e pe'  grandi  pensieri.  Per- 
ciocché li  non  possidenti,  quelli  che  pasconsi  scarsa- 
mente pe’lavori  mercenarj  ne' fondi  altrui,  non  hanno 
in  sè  voglia  di  generare,  o se  pur  V hanno  don  frutti 
rei , nè  ben  augurati , perchè  nati  di  matrimonio  mi- 
sero , ed  in  misero  stato  cresciuti.  Io  dunque,  soggiun* 
geva  propongovi  che  fi  consoli  corf ormino  le  cose  già 
decretate  dal  Senato , e sospese  fin  qui  per  la  tur- 
bolenza de’  tempi , e dichiarino  i decemviri  per  la 
divisione.  , 

Lll.  Erasi  Emilio  taciuto,  quando  invitato  a dire  Ap* 
pio  Claudio  il  console  dell’  anno  precedente  espose  con- 
trario parere  : aflermava  che  nemmeno  il  Senato  ebbe 
mai  volontà  che  i pubblici  beni  si  compartissero.  Se 
no,  già  da  gran  tempo  sarebbono  i decreti  suoi  stali 
eseguiti.  Egli  differì  prima  la  discussion  della  causa 
da  tempo  a tempo , intento  a comprimere  Ut  sedizio- 
ne , introdotta  dal  console , che  ambì  la  tirannide , e 
ne  trovò  le  pene  meritate.  I consoli  eletti  dopo  quel 
decreto  nemmen  essi  lo  effettuarono , considerando 


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ig6  DELLE  Antichità’  romane 

quanto  seme  di  mali  si  porrebbe  in  città  colC  assue- 
fare i poveri  a dividersi  a sorte  i beni  del  comune. 
Dopo  quel  primo  consolato  negli  altri  successivi  che 
pur  furono  quindici , i consoli , tutto  che  ridotti  a 
molti  pencoli  dal  popolo  , mai  risolveronsi  a fare  cioc- 
ché non  giovava , sul  pretesto  che  il  decreto  accordava 
ai  primi  consoli,  non  ad  essi  la  facoltà  di  creare  i 
riconoscilori  delle  terre.  Cosi  pure  egli  non  è benfatto, 
nè  sicuro  , che  tu  o Valerio , e tu  Emilio  , nati  am- 
bedue da  egregi  parenti , intiomettiate  la  division  delle 
terre , ienza  esserne  comandati  dal  Senato.  E ciò 
basti  sul  decreto  al  quale  non  siete  tenuti  voi,  che 
tanto  tempo  dopo  v avete  il  consolato.  Ora  dirò  bre- 
vemente' su  quelli  che  di  forza  o in  occulto  s'  appro- 
priano le  cose  del  comune.  Chi  sa  che  alcuno  usu- 
frultua  beni  de^  quali  non  può  mostrarne  legittimo  il 
possesso  , ne  dia  f indizio  a'  consoli  , e scn  giudichi  a 
norma  delle  leggi;  perocché  non  dobbiamo  già  far- 
cele nuove , ma  antiche  sono  ; e niun  tempo  mai  le 
abolì-  Siccome  poscia  Emilio  disse  pur  dell’utile,  quasi 
la  division  delle  terre  sia  per  essere  con  pubblico  be- 
ne ; non  vo’  trasmettere  senza  censur  a nemmen  questo 
punto.  -A  me  sembra  che  egli  non  miri  che  il  pre- 
sente, senza  guardar  f CM’cnire , e di  quedi  e quanti 
gran  mali  vi  fia  cagione  il  donare  (che  par  lievis- 
sima cosa  ) agli  oziosi  e poveri , i beni  pubblici.  Il 
costume  ohe  con  tal  fatto'  s’  insinua,,  ed  in  città  si 
rimane,  ne  diverrà,  più- che  tutti,  tremendo  e rovi- 
noso, Imperocché  ’ IL  soddisfaiìe  i malt  desi  deb/ 
NOIf  GLI  EST  ILE  A GIa'  DALL'  ANIMO  ,*  MA  VE  GLI  AC- 


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LIBRO  IX.  ig'J 

CRSSCS  s PEGGIO^.  E documento  i fatti  ne  siano  : 
altronde  e che  gioverebbe  a voi  dar  mente  tdle  mie 
voci  o di  Emilio  ? ^ 

LUI.  Tutti  sapete  quante  genti  abbiamo  debellato , 
quanti  territorii  saccheggiato  , quante  prede  raccolto 
da  città  conquistate , e come  privati  di  esse  i popoli , 
che  ne  erari  felici,  or  ne  stiano  in  cupo  disagio.  E 
sapete  che  i nostri,  .che  lamentano  la  loro  miseria 
non  furono  esclusi  da  niuna  parte  ^i  spoglie , ma  se 
ni  ebbero  non  meno  che  gli  ah  ri.  Or  ne  sembra  egli 
per  tali  acquisti  ridìrizzato  lo  stato  loro  , o se  ne  i 
fatto  più  chiaro  per  agiatezza  ? Certo  io-  bramerei,  e 
già  io  gt  iddj  ne  pregava , che  meno  in  città  ci  pe- 
sassero. Nondimeno  mirateli , uditeli  querelarsi , che 
desolante  è la  loro  perhtria,  DoruT  è che  non  miglio- 
reranno la  sorte  loro  nemmen  se  ottengano  ciò  che 
ora  presumono , e più  ancora.  Non  proviene  t inopia 
loro  dalla  sorte  ; ma  dai  costumi  : nè  per  tali  costumi 
basta  il  campicello , anzi  nemmen  tutti  i doni  vi  ba- 
sterebbono  de’  principi , e de’  tiranni.  Se  noi  condi- 
scendiamo in  ciò  ; farem  con  essi  a simiglianza  dei 
medici  che  curan  P infermo , come  più  brama.  Non 
che  risanisi  la  parte  inferma  della  città  ; la  sana  an- 
cora se  ne  guasterà.  In  somma  assai  dovete  attendere 
o padri , assai  riguardare  a serbare  da  ogni  reo  de- 
siderio I costumi  che  vanno  in  città  peggiorando.  Mi- 
rate ov  è giunta  la  protervia  ! nemmen  più  soffre  il 
popolo  il  comando  de’  consoli  / E non  che  penlasi 
della  insubordinazione  sua.,  qui  tra  noi,  fino  in  campo 
la  manifesta  ; e gitta  le  armi , e levasi  di  schiera , e 


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igS  DELLE  Antichità’  romane 
lascia  a nemici  le  insegne , e fogge  obbrobriosamente 
prima  di  combattere,  quasi  tolga  a me  solo  non  alla 
patria  amara  la  gloria  cP  cn^er  vinto  i nemici,  jdl  pr e ~ 
sente  i Kolsci  innalzano'  trofei  contro  de'  Romani;  si 
ornano  i loro  tempj  delle  nostre  spoglie  : e le  loro 
città,  quelle' che  supplicavano  dianzi  i nostri  duci  per 
non  essere  schiave  o distrutte , quelle  si  mdgnificano 
ora , quanto  mai  più  per  addietro.  E giusto  egli  forse 
e conveniente  che  voi  ringraziate  costoro  per  si  belle 
imprese  ? e finiate  di  onorarli , co’  doni  pubblici , fet- 
cendo  ad  essi  dividere  a sorte  la  terra  che  quanto  è 
da  loro , sarebbe  de'  nemici  ? Ma  perchè  redarguir 
lungamente  costoro  , se  per  la  mala  educazione  e ria 
stirjie  poco  apprezzano  il  bene;  quando  essi  vedono 
che  nemmeno  pe’  costumi  nostri  abbiama  noi  t amico 
dettame:  ma  la  gravità  ce  la  nominiamo  orgoglio,  la 
giustizia  un  corto  vedere , e capriccio  diciamo  il  co- 
raggio , e stolidità  la  saviezza.  Ciocch’  era  t orrore 
degli  antenati  ora  è lo  scopo  sublime  de’  cittadini  : e 
pajono  aie  uom  corrotto  meravigliosissimi  beni  la  im- 
becillità , la  buffoneria  , F animo  reo  , la  cabala  nel 
brigare,  la  temerità  da  far  tutto,  la  facilità  nel  la- 
sciarsi persuadere , e non  mai  per  lo  meglio  : vizj  • 
tutti  che  già  postisi  in  grandi  e potenti  città  le  di- 
strussero. E queste  sono  , o padri  coscritti  , le  cose, 
le  quali >,  piacciavi  udirle  o no,  vi  dico,,  veracissimo 
e libero  , come  utili  di  presente , e sicure  per  P avve- 
nire , se  lascerete  mai  persuadervene  ; quantunque  per. 
me  che  affronto  pel  pubblico  bene  l'odio  altrui  saran 
causa  di  mali  non  pochi.  Imperocché  ragionando  an- 
tivedo , e presentami  i casi  altrui  come  norma  de'miei. 


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LIBRO  IX.  IQQ 

LIV.  Appio  cosi  disse  , e consenlendo  con  lui  quasi 
tutti , fu  sciolto  il  Senato.  Irriuronsi  i tribuni  per  la 
ripulsa  : e partitisi , considerarono  come  punirne  un  tal 
uomo.  In  mezEO  al  molto  discutere  piacque  loro  di  sot- 
toporre Appio  ad  un  giudizio  capitale.  Pertanto  accu» 
sandolo  .nell’  adunanza  del  popolo , invitarono  tutti  a 
venire  in  giorno  determinato , per  sentenziare  su  lui. 
Sarebbero  queste  le  incolpazioni , vuol  dire  che  stabiliva 
massime  ree  cofilro  il  popolo  ; che  riaccese  in  città  la 
sedizione  ; che  alzò  viqlento  le  mani  sul  tribuno  ad 
onta  delle  leggi  sacrosante  ; e che  duce  delC  esercito , 
sen  tornò  pieno  di  sciagura , e (T  infamia.  Annunziate 
tali  cose  al  popolo  , e destinato  il  giorno  in  cui  di(^ 
vano  che  ne  farebber  la  causa , intimarono  ad  Appio  di 
comparire  a difendersi.  Sen  dolsero  e prepararonsi  i 
padri  Con  tutto  l’ ardore  a salvarlo.  Eid  esortandolo  a 
cedere  al  tempo , e prender  abito  conveniente  alle  cir> 
costanze  ; replicò  che  mai  non  farebbe  azione  vile , nè 
degna  delle  precedenti;  e che  sosterrebbe  anzi  mille 
morti  che  prostrarsi  supplichevole  ad  alcuno.  Rimosse 
alquanti ‘che  eran  pronti  d’ Intercedere  per  lui , dicendo: 
die  sarebbegli  stata  doppia  vergogna , se  vedesse  altri 
fare  per  lui  ciocché  non'  dovea  fare  nemmeno  per  sè 
stesso.  Dette  queste , e cose  consimili , senza  cambiar 
vestimenti,  nè  tener  di  sembiante,  nè  l<i  sublimità  del- 
r animo  , quando  vide  la  città  levata  e sospesa  in  espcU 
tazion  del  giudizio , mancandovi  ancor  pochi  giorni , si 
uccise.  Li  congiunti  di  >lul  fìnsero  che  per  una  Infermità 
morisse.  Portatone  quindi  il  cadavere  nel  Foro  , -il  Gglio 
di  lui  fattosi  innanzi  ai  tribuni  ed  ai  consoli  » dimandò 


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200  DELLE  ANTICHITÀ’  ROMANE 

che  convocassero  Tadananza  legittima;  e ^mettessero 
a lui  di  lare  sul  padre  suo  la  -funebre  laudazione,  usala 
in  morte  de’ Valentuomini.  Intimarono  ai  consoli  l’adu* 
nanzB  ; ina  vi  ripugnarono  i tribuni , ed  imposero  al 
giovine  di  tor  via  quei  cadavere.  Non  sofferse  il  popolo 
né  guardò  con  indifferenza  clte  inonorato  il  cadavere  si 
rimovesse  ; ma  concedette  al  > 6glU>  di  rendere  i con- 
sueti onori  al  padre  : £ tale  fu  la  fine  di  Appio. 

LV.  I consoli  arrotarono,  e cavarono  di  città  le  mi- 
lizie ; Lucio  Valerio  per  combattere  gli  Equi  e Tiberio 
Valerio  i Sabini  ; perciocché  gli  ultimi  ne’  tempi  della 
sedizione  entrarono  il  territorio  romano,  e danneggia- 
tane gran  parte , ne  partirono  con  amplissima  preda  : 
gli  Equi  poi  venuti  più  volte  alle  mani , e presevi  molte 
ferite,  eransi  riparati  in  luogo  fortissimo,  nè  più  ne 
scendevano  per  combattere.  Ben  tec^ò  Valerio  di  asse- 
diare quelle  trincee , ma  ne  fu  proibito  dal  cielo.  Im- 
peròcclié  mentre  v’andava  e ponessi  all’opera;  si  mise 
il  cielo  in  caligine , in  pioggie  , in  fulgori  , e tuoni 
spaventevoli.  Se  ne  sbandò  l’ esercito , ma  sbandatosi 
appena  cessò  la  procella  : e fecesi  grande  serenità.  Prese 
il  console  come  cosa  di  religione  un  tal  fatto  : e per- 
ciocché gl’  indovini  diceano  non  essere  da  por  quell’as- 
sedio ; egli  diè  volta,  e saccheggiò  la  terra;  e lasciata 
in  utile  de*  soldati  la  preda  , ricondusse  in  patria  l’eser* 
cito.  Tiberio  Emilio  però  scOrrea  fin  dal  principio  con 
assai  negligenza  le  regioni"  de’ nemici,  nè  aspettavano 
ornai  più  le  milizie;  quando  uscirono  a fronte  i Saliini, 
e sen  fece  battaglia  ordinata , quasi  dal  mezzodì  fino  a 
sera.  Sorprese  dalla  notte  ritiraronsi  le  armate  ciascuna 


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LIBRO  IX.  aoi 

al  suo  campo  , nè  vincitori  nè  vinte.  Ne’giorai  appresso 
i duci  presero  cura  de’  loro  estinti , e munirono  di  fossa 
gli  alloggiamenti  ; ambedue  con  proposito  di  difender' 
visi , non  di  uscirne  per  offendere.  Poi  col  volger  del 
tempo  levarono  le  tende , e partironsi  cogli  eserciti. 

LVI.  L’  anno  dopo  (i)  nella  olimpiade  settantesima 
ottava  in  cui  vinse  nello  stadio  Parmenide  di  Possido> 
nia  , mentre  Teagene  «vea  l’ annuo  magistrato  di  Atene, 
furono  in  Roma  consoli  Aulo  Verginio  Cclimoutano  e 
Tito  Numicio  Prisco.  Ascesi  appena  questi  al  comando, 
ridicevasi  che  giungevano  i Volsci  con  esercito  poderoso. 
Nè  mólto  dopo  fu  invaso  da  essi , e dato  alle  Gamme 
un  posto  ne’  dintorni  di  Roma  : e non  essendo  questo 
mollo  lontano  ; il  fumo  stesso  annunziava  alia  città  l’in» 
ibrtunio.  Immantinente,  essendo  ancor  notte,  inviarono 
i consoli  de’  cavalieri  per  osservare , e misero  guardie 
su  le  mura;  ed  essi  stessi  schieratisi  fuori  delle  pqrte 
co’  soldati  più  spediti , v’  a^ettavano  i ' rapporti  de’  ca- 
valieri. Fatto  giorno  raccolta  la  milizia  che  avevasi  iu 
Roma,  andarono  contro  a’ nemici:  ma  questi,  derubato 
il  luogo'  ed  incendiatolo,  ne  erano  ben  tosto  partiti. 
Liberarono  r consoli  )e  cose  che  ardevano  ancora , e 
lasciatovi  un  presidio  sen  tornarono  a Roma.  Pochi 
giorni  appresso  usci  coll’  armata  propria  , e con  quella 
degli  alleati  l’ uno  e 1’  altro  console  : Yergiulo  contro 
degli  Equi  e Numicio  contro  de  Volsci  : e ciascuno  se 
n’  ebbe  fra  le  armi  il  successo  che  desiderava.  Deva- 
stando Verginio  le  terre  degli  Equi  non  ardirono  questi 

(i)  Attuo  di  Roma  z85  tecondo  Calotte,  >87  secondo  Varroac  , 
e 4^  av.  Cristo. 


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aoa  DELLE  anticbita’  romane 
di  venire  alle  mani.  Ben  posero  nna  imboscata  di  uo- 
mini scelti  ove  speravano  di  piombare  su  l’inimico  sban> 
dato;  ma  vanissima  ne  fu  la  speranza.  Imperocché  sa- 
putosi «ben  tosto  pe’  Romani , fecevisi  vigorosa  battaglia: 
ove  gli  Equi  tanto  perderon  de’  suoi  ■ die  più  allora  non 
vennero  al  paragone  delle  armi.  Numicio  marciò  su  la 
città  degli  Anziati , 1’  uua  allora  delle  primarie  tra’VoI- 
sci , ma  non  se  gii  oppose  armata  niuna  , riducendosi 
tutti  a rispingerlo  da  entro  le  mura.  Fu  dunque  sac- 
cheggiato gran  tratto  della  lor  terra,  e presa  una  citta- 
della in  sui  lido,  la  quale  era  per  essi  come  arsenale 
ed  emporio,  ove  concentravano  il  molto  che  andavano 
depredando  sul  mare.  L’  esercito  si  attribuì  per  conces- 
sione dei  console  gli  schiavi , i danari , i bestiami , le 
merci  : ma  gli  uomini  liberi  che  non  erano  periti  tra  la 
guerra  furono  presentati  all’ incanto.  Si  acquistarono  nom- 
meno  su  gli  Anziati  ventidue  navi  lunghe  , ed  apparec- 
chi ed  armi  di  navi.  Alfine  per  comando  del  console  i 
Romani  ne  bruciarono  le  case , ne  devastarono  l’ arse- 
nale, e ne  distrussero  da’ fondamenti  le  mura;  perchè, 
ritirandosene  essi  , quel  luogo  non  fosse  un  castello 
vantaggioso  per  gli  Anziati.  Tali  furono  le  azioni  se- 
parate de’  consoli  ; poi.  gettatisi  insieme  sui  territorio  dei 
Sabini , e depredatolo  , rimenarono  a Roma  gli  eserciti; 
e r anno  finì.  ’ 

LYII.  L’anno  appresso  fatti  appena  consoli  Tito  Quin- 
zio Capitolino,  e Quinto  Servilio  Prisco  (i),  tutta  la 
milizia  romana  fu  in  arme , e spontanea  si  presentò 

(i)  Auno  di  Roma  aS6,  secondo  Catone,  aS8  secondo  Varrone, 
e 4^  av-  Cristo. 


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LIBRO  IX.  ao3 

quella  degli  alleati , prima  che  richiesti  ne  fossero.  Dopo 
ciò  fatte  suppliche  ai  nami,  ed  espiato  l’esercito,  mar> 
ciarono  i consoli  contro  a*  nemici.  Li  Sabini  contro  ai 
quali  era  andato  Servilio , non  che  schierarsi  in  batta> 
glia  , non  nscirono  nemmeno- all’  aperto:  ma  tenendoM 
dentro  del  chiuso,  lascravano  che  si  devastassero  loro  le 
terre,  s’ incendiasser ’ le  case,  e gli  schiavi  se  ne  fuggis*  . 
sero.  Dond’  i che  i Romani  tornarono  a grand’  agio 
dalle  lor  terre , carichi  di  preda , e risplendenti  di  glo* 
ria.  E cosi  terminò  la  spedizion  di  Servilio.  Quinzio, 
ed  il  seguito  suo , movendosi  con  marcia  più  che  mili» 
tare  contro  gli  Equi , ed  i Volsci,  venuti  ambedue  dalle 
regioni  loro  in  un  sito  stesso  a combattere  per  gli  al- 
tri , ed  accampatisi  davanti  di  • Anzio  : diedesi  a vedere 
improvviso.  E fermatosi  non  lungi  dal  campo  loro  in 
tm  luogo , basso  per  sé  medesimo , che  era  quello  ap> 
punto  dove  prima  fa  veduto  e vide  gli  avversar) , po- 
sevi  le  bagaglie  per  far  mostra  di  non  temere  i nemici, 
quantunque  superiori  di  numero.  Or  com’  ebbero  am- 
bedue tutto  in  punto  per  la  battaglia , uscirono  in  cam- 
po , cd  avventatisi  pugnarono  infino  al  mezzogiorno. 
Non  cedevano,  non  superavano,  quésti  o quelli,  risto- 
rando sempre  la  parte  che  vacillava , co’sussidj  ordinàli 
per  questo.  Allora  quando  come  superiori - di  nnmero, 
cominciarono  i Yolsci  e gli  Equi  a vantaggiare  ^ e pre> 
valerne;  non  avendo  i Romani  moltitudine  , pari  all’ar- 
dore , Quinzio  veduti  estinti  molti  de’  suoi , e ferito  il 
più  de’  superstiti , era  per  intima  ve  la  ritirata  : ma  te- 
mendo poi  di  dar  vista  ài  nemici  di  fuggire;  concluse, 
ch’egli  dovea  cimentarsi.  E scelto  il  nerbo  de’cavalieri. 


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2o4  delle  antichità’  bomane 

vola  in  soccorso  de'  laoi  nell'  ala  destra  , dove  princi- 
palmente perìcclavaoOi  Ed  ora  sgridando  di  codardia  li 
duci  stessi , ora  ricordando  le  passale  battaglie , e di- 
pingendo la  infamia  ed  il  pericolo  loro  se  fuggivano; 
alfine  disse  una  cosa  Gota  sì , ma  cbe  rincorò  li  suoi 
più  che  tutto , e sbigottì  F ibiiuico.  Egli  divulgò  che 
r allr  ala  sua  incalsava  già  gli  avversar} , e già  stava 
prossima  agli  alloggiamenti  r e divulgandolo,  spronò  sui 
nemici  ; e sceso  di  cavallo  co’  bravi  suoi  cavalieri,  prese 
a combattere  di  piè  fermo.  Tornò  l’ audacia  aUora  nei 
suoi  che  ornai  si  abbandonavano  , e divenuti  quasi  altri 
da  quelli  cbe  erano,  fulminaronsi  tutti  sul  nemico.  Tal- 
ché li  Volsci  contrapposti  -appunto  in  quella  parte,  dopo 
aver  luogo  tempo  résislito  , piegarono  finalmente.  Quin- 
zio fiigaiili  appena  , rimonta  il  cavallo e corre  all’  al- 
tr’ala,  e mostravi  a’ fanti  suoi  disfatta  l’ala  nemica,  e 
raccomanda  che  non  sieno  per  virtù  minori  de’compagni. 

LYllI.  Dopo  ciò  niono  più  de' nemici 'tenne  fronte, 
ma  fuggirono  tutti  alle  trincee.  Non  gl’  inseguirono 
lungo  tempo  i Romani , ma  beutoste  se  he  rivolsero 
forzali  dalla  stanchezza,  nè  più 'avendo  ornai  l’arme, 
pari  al  bisogno.  Decorsi  alquanti  giorni , convenuti  per 
seppellire  gli  estinti e curare  i mal  conci , avendo  già 
riparato  quanto  mancava  loro  per  combattere,  fecero 
nuovo  conflitto  intorno  gli  alloggiamenti  romani.  Impe- 
roccliè  venute  nuove  reclute  ai  Volsci  e agli  Equi  dalle 
terre  circonvicine,  inanimito  il  capitano  perchè  i suoi 
erano  il  quintuplo  de’  Romani  , e perchè  vedeva  le  trin- 
cee di  questi  su  luogo  non  abbastanza  munito , cre- 
dette il  buon  punto  d’  assalirvegli.  Con  tal  disegno  guidò 


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LIBRO  IX.  . ao5 

su  la  mezza  notte  1’  esercito  intorno  al  vallo  de’  Roma- 
ni , e cinseli , e t«ineli  in  guardia , percbè  inosservati 
non  s’ involassero.  Quinzio  saputa  la  moltitudine  de’ ne- 
mici , ebbe  caro  di  accoglierla.  Ed  aspettaudo  che  fosse  • 
giorno,  e principalmente  Tura  nella  quale  il  Foro  suol 
riempirsi , quando  vide  > che  i nemici  venivano  ornai 
stanchi  dalla  vigilia  e dalle  scaramucce,  non  per  centu- 
rie, nè  in  schiera  , ma  confasi  e sparsi;  immantinente, 
spalancale  le  porte , precipita  su  loro  col  nerbo  de’  ca- 
valieri , mentre  i fanti  lo  seguitavano  serrati  e stretti. 
Sbalorditi  i Yolsci  dall’  audacia  , dopo  aver  sostenuta 
bteve  tempo  la  furia  della  irruzione,  rinculano,  e la- 
sciano gli  alloggiamenti.  E percbè  non  lungi  da  questi 
aveasi  un  colle  alquanto  elevato  ; vi  accorrono  , come 
a riprendervi  requie  ed  órdine. 'Non  riuscì  però  loro  di 
fermarsi  e di  riaversi , giungendo  ben  tosto  i nemici , 
stretti  quanto  poteano  colle  coorti  , per  non  esserne 
trabalzali , nell’  ascendere  a forza  la  pendice.  Fattasi 
azione  vivissima  per  gran  parte  del  giorno,  ne  perirono 
molti  diagli  ani  e degli  altri.  I Volaci , 'tuttoché  supe- 
riori nel  numero,. e rassicurati  dal  posto  occupalo,  nou 
goderono  alcuno  de’  dué  vantaggi  : ma  violentati  dall’ar- 
dore e dalla  virtù  de’  Romani  , abbandonarono  il  colle. 

F uggendo  però  verso  le  trincee , molti  ne  soccombe- 
rono. Imperocché  non  cessarono  i Romani  d’inseguirli , 
ma  tennero  immantinente  .dietro  loro  , senza  desisterne , 
finché  ne  presero  a forza  il  campo.  Impadronilivisi  dei 
prigionieri  e di  ogni  cosa  lasciatavi»  cavalli  , armi , da- 
nari , che  erau  pur  molli , passarono  ivi  la  notte.  Nel 
giorno  appresso  il  console,  apparecchialo  ciocché  biso- 


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2o6  delle  antichità’  romane 
goava  per  un  assedio , diresse  1’  esercito  alla  città  degli 
Ansiati , uon  lontana  più  di  trenu  stadj.  Per  avvenlora 
ivi  slavan  di  guardia  alquanti  Equi  ausiliarj  e custodivan 
le  mura , e questi  per  terrore  della  baldanza  romana 
naacchinavan  fuggirsene.  Saputo  dagli  Anziati , ed  impe- 
diti partirne , congiurarono  dar  la  cittade  a’Roraani  che 
si  appressavano.  Gli  Anziati  avuto  sentore  pur  di  que- 
sto , cedettero  al  tempo  : E imnvenutisi  cpn  loro  ; si  die- 
dero a Quinzio , in  modo  che  gli  Equi  pe^  patto  si 
dimettessero,  accettassero  gli  Anziati  in  città  la  guarni- 
gione , e seguissero  i comandi  de’  Romani.  Divenuto 
pertanto  il  console  arbitro  della  città,  pigliatine  stipendi 
ed  altri  bisogni  dell’  esercito , e presidiatala,  se  ne  ritirò. 
Uscitogli  per  tal  gesta  incontra  il  Senato,  lo  accolse 
gratissimamente,  e lo  onorò  del  trionfo. 

LiX.  L’anno  -appresso  (i)  furono  consoli  Tiberio 
Emilio  per  la  seconda  volu,  e Quinto  Fabio  Ggliuolo 
dell’  uno  dei  tre  fratelli , duci  già  della  guarnigione  spe- 
dita in  Cremerà^  ed 'ivi  periti  co’ loro  clienti.  Ora.  fa- 
vorendo Emilio  console  ai  tribuni , e rimescendo  qu^ti 
di  bel  nuovo  il  popolo  intorao  la  divisione  de’  campi  ; 
il  Senato  voglioso  di  cattivarselo , e sollevarne  i poveri, 
stabili  di  compartir  loro  uu  tratto  del  territoifio  conqui- 
stato r anno  avanti  su  gli  Anziati.  Furono  deputati  per 
la  divisione  Tito  Quinzio  Capitolino , quello  appunto  a 
cui  si  erano  gli  Anziati  venduti  , e Lucio  Furio  ed 
Àulo  Verginio.  Non  < però  fu  cara  la  divisione;  quasi  per 
essa  i poveri  ed  altri  del  popolo  fossero  espulsi  dalia 

(i)  Anno  di  Roma  287  secondo  Catone,  289  secondo  Varrone, 
e 4^5  ar.  Cristo. 


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• LIBRO  IX.  207 

patria.  E siccome  non  si  ascrisser  che  pochi , nè  giusta 
ne  sarebbe  la  spedizione;  il  Senato  concedette  a qual 
più  voleva  degli  Eroici  e de’ Latini  di  tor  parte  nella 
colonia.  Divisero  i deputati  spediti  ad  Anzio  la  terra 
infra  i loro , lasciatane  ancor  parte  per  gli  Ànziati. 
Frattanto 'marciarono  coll’  esercito  tutti  due  i consoli. 
Emilio  in  terra  de’  Sabini,  e Fabio  degU  Equi.  Ma  per 
qnamto  Emilio  colè  si  restasse , niuno  gli  si  presentò 
per  combatterlo  ; talché  ne  manomise  a grande  suo  agio 
le  campagne  , finché  giunto  il  tempo  de’  comizj , ricon- 
dussè  in  patria  1’  arnuta.  Gli  Equi  prima  di  essere  agli 
estremi  per  eserciti  perduti  e città  espugnate , inviarono 
a Fabio  oratori  per  la  pace;  ^ Fabio  ^ esigendone  due 
toniche  per  ogni  soldato , ì viveri  ‘di  due  mesi , gli  sti- 
pendj  di  sei  e quant’  altro  era'  d’  uopo  per  1’  armata , ' 
concedè  loro  la  trégua , finché  andatine  a Roma  vi  ot- 
tenesser  la  pace.  Il  Senato  intendendb  -ciò , trasmise  a 
Fabio  i poteri  di' concordare , come  a lui  ne  paresse 
con  gli  Equi.  Perunto  col  mezzo  del  console  sf  con- 
cluse questo  brattate  : cioè  che  gli  Equi  obbedissero  a 
Roma , conservando  le  loro  città  e le  terre,-  senza  spe- 
dirle altro  che  milizie  a'  proprie  spese , quando  ne  fos- 
sero dimandati.  Concluso  ciò  Fabio  ritrasse  le  truppe, 
e preordinò  col  compagnb  i magistrati  per^  1’  anno  se- 
guente. f 

LX.  Furono. per  essi  designati  consoli  (i)  Spurio  Po> 
stumio  Albino  per  la  prima  volta , ■ e Quinto  Servilio 
Prisco  per  la  seconda.  Nei  lor  giorni  gli  Equi  risolvei* 

(t)  Anno  di  Roma  -aSS  secondo  Catone,  390  secondo  Vsrrone, 
e 4^4  Cristo. 


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2o8  delle  antichità’  romane 
tero  vioiai-e  i patti , recenti  co’  Romani , per  questa  ca- 
grane.  Gli  Aoziati  che  avevano  case  e campi , rimasero 
nella  lor  patria , coltivando  le  terre  ad  essi  concedute , 
come  quelle  attribuite  ai  coloni  , a’  quali  davano  con 
regole  Gsse  parte  del  frutto  : quelli  perd  che  unila  più 
avevan  di  questo,  si  trasmigrarono.  Gli  accolsero  di  buon 
grado  gli  Equi  fra  loro  ; ma  uscendone  , d^>redav«x> 
le  terre  latine  : dond’  è cbe  'i  più  audaci , e più  poveri 
ancora  degli  Equi , fecero  causa  con  essi.  Lamentarono 
i' Latini  r insulto  in  Senato,  e'tdiiesero  che  mandasse 
loro  un  esercito,  o loro  concedesse  di  ribattere  gli  au- 
tori delia  guerra.  Il  Senato  , udito  eiò , nè 
inviare  un  esercito , né  permise  ai  Latini  che  lo  menas- 
sero : ma  scelti  tre  ambasciadori,  capo  de*  quali  era  Fa- 
,bio , quegli  che  l' anno  avanti  avea  conchiuso  il  trat- 
tato, ordinò  loro  di  chiedere  dai  primarj  della  nazione, 
se  mandava  il  pdbtdico  per  qite’  latrocini  ne’campi  degli 
alleati  di  Roma  , anzi  di  Roma  stessa , ne’  quali  eransi 
anche  fatte  alcune  scorrerie  da , quegli  esuli  : o se  il 
pubblico  non  avea  di  ciò  colpa  ninna  : E se  diceano 
che  r opera  era  de’  privati  senza  volere  del  popolo  ; 
chiedessero  nelle  mani  le  predé  nomuMno  ohe  i preda- 
tori. Venuti  gli  oratori , ed  ascoltatili  ; gli  Equi  diedero 
oblique  risposte  , dicendo , che  1’  opera  non  era  certo 
fatta  per  pubblico  voto,  ma  che  non  istimavano  bene 
consegnarne  gli  autori , perché,  ridotti  già  senza  patria, 
e vaganti  , erano  come  supplichevoli  stati  ricevuti  nelle 
campagne  (t).  AddoloravaSi  Fabio,  e reclamava  i patti 

(i)  Vuol  c^ita  pareva  loro  come  tradire  la  fede  oepiiale  , $e  ti 
conergnaTeoo. 


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Linno  IX.  - 209 

traditi , pur  vedendo  che  gli  Equi  s’inGngevano , e di- 
mandavano tempo  a consultarsi  , e lo  intrattenevano 
come  pe’  doveri  ospitali  ; si  rimase  infra  loro  con  di> 
segno  di  esplorare  le  cose  della  città.  E visitando  ogni 
luogo  sul  titolo  di  vagheggiarvi  le  cose  dei  templi  e 
del  popolo  , gli  opifizj  delle  arme  da  guerra  o Gnite 
o che  si  lavoravano , comprese  i loro  disegni.  Tornato 
■n  Roma  disse  in  Senato  quanto  aveva  udito , e ve- 
duto. Ed  il  Senato , non  più  dubbioso  , decretò  che 
si  mandassero  i F eciali  per  intimare  agli  Equi  la  guer- 
ra , se  non  cacciavan  da  loro  i fuorusciti  di  Anzio , nè 
promettevano  rintegrare  i danneggiati.  Replicarono  gli 
Equi  baldanzosi , Gno  a dir  che  accettavano , nè  già  di 
mala  ' voglia , la  guerra.  Li<  Romani  però,  sia  che  im- 
pedirseli il  cielo,  sia  che  le  infermità  , dominate  gran 
parte  dell’  anno  tra  ’l  popolo , non  poterono  inviare  in 
quell*  anno  un  armata  contro  di  loro  : solamente  usd 
per  difendere  gli  alleati  poca  milizia  comandata  da 
Quinto  Servilio  console , e si  tenne  su'  monti  latini. 
Frattanto  Spurio  Postumio  il  collega  dedicava- in  città 
sul  colle  Capitolino  (9  aGe  none  che  chiaman  di  Giu- 

(i)  Non  è ben  chiaro  le  qui  si  parli  di  od  tempio  nel  colle  Ca- 
pitolino. Cosi  la  intese  Lapo  il  primo  tcadottore  Latino  di  Dionigi  j 
ma  nel  testo  propriamente  si  legge  iri  rS  ;^ìfv«A<k  sul 

eol/e  Marciale  secondo  Giiisrppe  Scaligero.  Mei  lib.  4 Linguft 
Ltalina  di  Varrone  si  legge:  CoUis  Mutialis  quinticcpso$  apud  aedetn 
Dei  Fidii  in  delubro  ; e se  qui  pongasi,  correggendo,  Mariialit  io 
luogo  di  Motialis  , come  pretende  lo  stesso  Scaligero  ; concepiremo 
che  non  tì  si  tratta  di  un  tempio  sul  colle  Capitolino  \ ma  di  un 
altro  fabbricato  pur  da  Tarquinio  superbo,  nh  da  lui  consagrata i 
tanto  pib  che  il  tempio  di  Giove  Gapitolino  era  già  staio  consa- 
grato. Vedi  lib.  T , g 35. 

PIONIGI . tomo  III. 


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aio  DELLE  ANTICHITÀ*  ROMANE 
gno  il  tempio  di  Giove  Pidio  edificato  dall’  ultimo  re 
Tarquinio  , ma  non  consagrato  da  lui  secondo  i riti 
romani.  Parve  allora  al  Senato  che  Postumio  avesse  per 
sè  la  iscrizione  dei  tempio  (i).  sotto  questi  consoli 
occorse  altra  cosa  degna  di  ricordanza. 

LXL  Nell’  olimpiade  settantesima  nona  nella  quale 
Senofonte  corintio  vinse  allo  stadio  quando  Arcbedemide 
era  l’arconte  di  Atene  entrarono  consoli  Tito  Quinzio 
Capitolino  , e Q.  Fabio  Vibuiano  : Quinzio  assuntovi 
dal  popolo  per  la  terza  volta  e Fabio  per  la  seconda  (a), 
n Senato  spedi  1’  uno  e T altro  con  eserciti  grandi  e 
ben  apparecchiati , Quinzio  a custodir  ne’  confini  la 
campagna  romana  , e Fabio  a devastare  quella  degli 
Equi.  Fabio  trovò  gli  Equi  che  lo  aspettavano  ne’  con- 
fini con  valid’armata.  Alfine  dopo  aver  l’uno  e gli  altri 
preso  alloggiamento  in  fortissimi  luoghi  uscirono  iu 
campo,  provocando  e cominciando  gli  Equi  la  battaglia. 
Pugnarono  buona  pezza  del  giorno  ardenti,  infaticabili, 
nè  alcuno  ponea  la  speranza  di  vincere  in  altri  che  in 
sè.  Ma  divenuta  poi  la  spada  mutile  ai.  più  pe’  colpi 
continui  , e sonato  da’  capitani  a raccolta  , ritiraronsi  , 
ciascuno  alle  sue  trincee.  Dopo  ciò  non  piùi  v’  ebbe 
combattimento  ordinato  ma  preludj  e scaramucce  , per 
lo  più  eguali , de’  soldati  leggeri  intorno  le  acque  e i 
^ foraggi.  F rattantò  un  corpo  dell’  armata  degli  E^qoi 

(i)  Cioè  che  si  scrìvesse  nel  tempio  che  qaesto  per  decreto  del 
Senato  era  stato  dedicato  da  f osluioio  : ciocché  era  di  onore  non 
piccole. 

(a)  Anno  di  Roma  389  secondo  Catone , agi  secondo  Vatrone , 
e 4^3  av.  Cristo- 


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LIBRO  ix:  2 I I 

avanzatosi  per  vie  non  osservate  piombò  sul  territorio 
romano  io  parte  assai  lontana  dai  loro  confini , e però 
non  difesa.  Predatavi  roba  ed  uomini  assai  , tornossene 
al  suo  campo , senza  saputa  di  Quinzio  e de’  suoi,  che 
guardavano  il  territorio.  E replicandosi  spesso  la  vicen» 
da,  ne  diede  ai  consoli  vergogna  non  poca.  Ma  poi  sa* 
pendo  Fabio  col  mezzo  degli  esploratori  e de' prigionieri 
essere  usciti  dagli  alloggiatnenti  le  milizie  più  forti  degli 
Equi , egli  lasciati  i veterani  nelle  trincee , accorse  fra 
la  notte  col  nerbo  de'  cavalieri  e de’  fanti.  Gli  Equi , 
dato  il  sacco  ai  luoghi  invasi,  rìtiravansi  pieni  di  preda. 
Non  eransi  ancora  mollo  slontanati;  quando  Fabio  ap- 
parendo ritolse  loro  la  preda,  e vinséne  quanti  con  ar* 
dorè  di  valentuomini  lo  aspeltaronò  per  la  battaglia  : 
gli  altri  sbandati  e sottrattisi,  per  la  perizia  de’ sentieri, 
a chi  gl’  inseguiva , rifuggironsi  agli  alloggiamenti,  fiat* 
tufi  gli  Equi  con  tal  colpo  improvviso , levarono  io  su 
la  notte  il  campo  , e partironsl  verso  la  ciltò , nè  più 
ne  uscirono  : ma  tenendovisi,  mirarono  raccolte  dal  ne- 
mico le  messi  già  mature  , via  portati  i bestiami , tolti 
i danari , incendiate  le  case  , ed  imprigionati  in  copia 
^ gli  uomini.  Dopo  ciò  sopravvenendo  il  tempo  di  cedere 
ad  altri  la  sua  magistratura,  Fabio  ricondusse  l’esercito, 
e Quinzio  fece  altrettanto. 

LXII.  Tornati  in  Roma  designarono  consoli  Aulo 
Postumio  Albo  e Spurio  Furio.  Preso  da  questi  il  co- 
mando (i)  vennero  messaggeri,  spediti  a gran  fretta'  dai 
Latini.  Introdotti  questi  in  Senato  svebrono  che  la  cal* 

(i)  Aooo  di  Roma  «90  fecondo  Catone,  391  fecondo  Varrone,  • 
tfin  BT.  Criiio. 


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aia  DELLE  antichità’  romane 
ma  degli  Anziali  non  era  abbastanza  sicura  : che  gli 
Equi  teneano  con  essi  pratiche  occulte:  che  sul  pretesto 
di  mercantarvi  andavano  alla  loro  città  molti  Volsci 
guidativi  dagli  Anziati , li  quali  uscitine  già  per  la  mi» 
seria  quando  sen  divisero  i campi , eransi , come  ho 
detto , ricoverati  presso  degli  Equi,  Aggiungevano  che 
il  morbo  erasi  insinuato  non  solo  tra*  paesani  , ma  tra 
molti  pure  de’ forestieri  (i).  Che  se  dunque  non  fossero 
questi  preoccupati  con  giusto  presidio  ^ sorgerebbens 
quindi  guerra  inaspettata  ai  Romani.  Non  molto  dopo 
di  loro,  altri  spediti  dagli  Eroici,  annunziarono  ch’era 
uscita  un’  armata  potente  di  Equi  , che  accampava  sa 
le  terre  degli  Eroici  , che  involava  e portavaselo  : che 
militavan  cogli  Equi  anche  i Volsci , e formavano  il 
più  delle  schiere.  Vennero  anche  alcuni  Anziati  a di- 
fendersi; ma  chiaro  appariva  che  non  aveano  sani  pen* 
sieri.  Laonde  il  Settato  decretò  spedire  una  nuova  gtur> 
nigione  su’*  turbolenti  di  Anzio , onde  rassicurarsene  , e 
Spurio  Furio  l’altro  de’consoli  coll'esercito  contro  degli 
Equi.  Marciò  ben  tosto  1’  uno  e 1’  altro  ; nfa  gli  Equi 
udendo  uscita  già  l’armata  romana  si  mq^sero  da’ campi 
degli  Ernici  per  incontrarla.  Vedutisi  appena  fra  loro  , 
tutto  che  non  fossero  molto  distanti  , per  quel  giorno 
si  trìncierarono.  Nel  giorno  appresso  i nemici  vennero 
quasi  alle  trincee  de’Romani  per.  esplorarvenè  gli  animi. 
E poiché  questi  non  uscivano  alla  battaglia,  fattevi  delle 
scaramucce,  e niente  di  memorando,  sen  partirono  assai 

(i)  Allude  ai  Romaui' portali  non  molto  prima  iif  Aniio , come 
coloni  pcrchi  nel  tempo  slesto  invigilassero  e lenestero  iit  soggeunn^ 
Ig  città  proclive  alla  ribellione. 


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LIBRO  IX.  213 

magnificandosene.  Il  cohsole  lasciate  nel  giorno  seguente 
quelle  trincee,  come  non  molto, sicure  , trasposele  in 
sito  più  acconcio  , e vi  scavò  fossa  più  profonda  ^ e vi 
piantò  steccati  più  alti.  Crebbe  a tal  vista  il  cuor  dei 
nemici , e molto  più  quando  ad  essi  pervennero  altri 
snssidj  de’  Volaci  e degli  Equi  ; tanto  che  senza  più 
indugi  marciarono  al  campo  romano. 

LXIII.  Il  console  considerando  che  a lui.  non  bastava 
r>esercito  contro  le  dpe  nazioni,  spedisce  alcuni  cavalieri 
con  lettere'  in  Roma  perchè  mandisi  a lui  pronto  soc- 
corso , pericolandogli  tutta  l’ armata.  Giuntivi  questi  su 
la  mezza  notte , Postumio  il  collega  di  lui  ricevendole, 
fe’  convocare  per  via  di  molti  araldi  i padri  in  Senato: 
e prima  che  il  di  si  chiarisse,  crasi  decretato  che  Tito 
Quinzio  già  console  per  la  terza  volta  portasse  bentosto 
con  autorità  proconsolare  il  fior  de’  giovani  a piedi  ed 
a cavallo  sul  nemico  , c che  Aulo  Postumio  il  console 
raccolte  il  più  presto  le  altre  milizie , a raccoglier  le 
quali  vi  abbisognava  più  tempo,  li  soccorresse.  Quinzio 
riuniti  sul  principio  del  giorno  presso  a cinque  mila 
volontari,  dopo  non  molto  marciò.  Gli  Equi  ciò  sospet- 
tando non  istavansi  a bada  : ma  deliberati  d’  assalir  le 
trincee  de’  Romani  prima  che  vi  giungesse  il  soccorso  , 
si  divisero  in  'due  corpi  , e t’  andarono  per  espugnarle 
colla  forza  , e col  numero.  Fecesi  per  tutto  il  giorno 
calda  battaglia  , spingendosi  questi  audacemente  in  più 
parti  su’ ripari,  nè  reprimendosene  pe’ tiri  continui  delle 
lance  , degli  archi , e delle  fionde.  Adunque , conforta- 
tivisi  a vicenda,  il  console  ed  il  legato  spalancando  in 
uri  tempo  le  porte  , ne  sboccano,  e piombando  co’sol- 


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2i4  delle  Antichità’  romane 
dati  più  validi  da  ambedue  le  parti  del  campo  su  i ne* 
mici,  ne  rispingono  quanti  vi  salivano.  Messili  in  fuga, 
il  console  insegai  breve  tempo  i soldati  a lui  coatra- 
posti,  e poi  si  ripiegò:  ma  il  fratello  suo  e Publio  F urio 
il  legato  trasportati  dalla  impresa  e dall’  ardore  corsero 
incalzando  e uccidendo  fino  al  campo  nemico  ; e non 
avean  seco  se  non  due  coorti , numerose  in  .tutto  di 
mille  uomini.  Gli  avversar)  loro  «be  erano  intorno  a 
cinque  mila,  osservato  ciò,  si  avventano  dagli  steccati. 
. E mentre  questi  vengon  di  fronte , la  cavalleria  , fatto 
un  giro,  prende  alle  spalle  i Romani.  Publio  ed  il  se- 
guito suo  cosi  circondato  e disunito  dal  resto  de*  suoi 
ben  potea  salvarsi  se  cedeva  le  arme,  esibendogli  questo 
i nemici , cbe  assai  valutavano  far  prigionierì  que’mille 
bravi,  quasi  potessero  in  vista  di  essi  ottener  pace  ono* 
rata:  ma  i Romani  spregiato  l’invito  ed  animatisi  a non 
far  cosa  indegna  della  patria,  combatterono  e spirarono 
tutti  Ira’  cadaveri  de’  nemici. 

LXIV.  Morti  questi , gli  Equi  inebbriati  dal  buon 
successo  presentaronsi  alle  trincee  romane  elevando  con- 
fitto alle  aste  il  capo  di  Publio  e di  altri  cospicui,  per 
iscoraggirne  quei  d’ entro,  e necessitarli  a ceder  le  arme. 
Ma  se  venne  ad  essi  pietà  per  la  sciagura  degli  estinti 
compagni  , e se  ne  pianser  la  sorte  , si  moltiplicò  ben 
anche  lo  spirito  per  combattere  e l’ onorato  amore  di 
vincere  o di  morir  come  quelli  prima  che  andar  pri- 
gionieri. Circondati  dunque,  com’erano  de’ nemici,  pas- 
sarono i Romani  senza'  sonno  là  notte , riordinando  le 
parli  che  aveano  soiferto  nelle  trincee  , e quant’  altro 
mai  potea  respingere  gl’  inimici  se  tentavano  un  altra 


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LIBRO  IX.  2i5 

volta  investirveli.  F ecest  nel  giorno  appresso  di  bel  nuovo 
r assalto  , schiaotandovisi  lo  steccalo  in  più  parti.  Più 
volte  furono  gli  Equi  respinti  da  quei  d*  entro  che  ne 
uscivano  a schiere  , e più  volte  nell’  audacia  delle  soi> 
lite  , lo  furono  questi  dagli  Equi.  Durò  tutto  il  di  la 
vicenda:  quando  fu  il  console  romano  ferito  nel  femore 
da  uno  strale  a traverso  dello  scudo,  e feriti  pur  furono  ^ 
molti  de’  più  rignardevoli , quanti  li  combattevano  in- 
foiano. Ornai  vacillavano  t Romani  , quando  su  l’ im- 
brunir della  sera  ecco  inopinatamente  apparire  Quinzio 
per  soccorrerli  col  corpo  de’  prodi  volontarj.  I nemici  , 
vedutili  che  avanzavano , diedero  di  volta , lasciando 
l’assedio  imperfetto:  ma  quei  d’  entro  incalzandoli  nella 
ritirata  facean  strazio  della  retroguardia  : se  non  che 
indeboliti  per  la  più  parte  dalle  ferite,  non  gl’  insegui- 
rono a lungo  ; ma  presto  si  ripiegarono  verso  il  lor 
campo.  Dopo  ciò  si  tennero  gli  uhi  e gli  altri  lungo 
tempo  fra  le  trincee  , guardando  sestessi. 

LXVt  Quindi  mentre  il  nerbo  de’  Romani  era  im- 
pegnato in  campo  , altre  milizie  di  Equi  e di  Volaci 
credendo  il  buon  punto  d’ ime  depredando  la  regione  , 
uscirono  tra  la  notte  ; ed  invasala  in  parte  lontanissima 
dove  gli  agricoltori  viveano  scevri  d’ogni  paura,  occu- 
parono non  poco  di  robe  e di  nomini.  Non  però  ne 
ebbero  bella  in  ,dné  né  facile  la  ritirata  , imperocché 
Postumio  il  console  mepaudo  agli  assediati  nel  campo  i 
soccorsi  adunati , appena  udì  le  operazioni  de'  nemici , 
si  presentò  loro  contro  la  espettazione.  Non  sbalordironsi 
essi,  nè  tremarono,  ma  ponendo  a bell’agio  le  bagaglio 
e le  prede  in  luogo  sicuro  , e lasciandovi  guarnigione 


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2i6  delle  antichità’  romane 
che  bastasse,  marciarono  ordinali  al  nemico.  Venuti  alle 
mani , sebben  pochi  contro  molli , fecero  memorabili 
prove.  Imperocché  precipitandosi  giù  dalle  campagne 
uomini  in  copia  cinti  di  lieve  armatura  conir’  essi  che 
eran  tutto  arme  il  corpo  , fecero  grande  uccision  dei 
Romani  ; e per  poco  non  si  ritirarono  , lasciando  nel- 
l’altrui territorio  un  trofeo  su  gli  assalitori.  Ma  il  con- 
sole e con  esso  i cavalieri  più  scelti  spronandosi  a re- 
dini abbandonate  su’  loro  , dov^  erano  il  forte  , e com- 
battevano ; ve  li  sbaragliarono  «e  prostrarono  in  copia. 
Battuti  que’  pnmi , anche  il  resto  dell’  armata  respinto 
fuggì  : e la  guaniigìone  delle  bagaglie , lasciatele , s*  in- 
volò di  su  pe’  monti  vicini.  Cosi  pochi  moriron  di  essi 
nella  battaglia  ; ma  moltissimi  nella  fuga , perchè  ignari 
de’  luoghi  ed  inseguiti  dalla  cavalleria  de’  Romani. 

LXYI.  Intanto  Servio  1’  altro  console  persuaso  che  il 
collega  ne  veniva  a lui  per  soccorrerlo,  e temendo  che 
1 nemici  ^non  gli  uscissero  incontra  e glien  traversasser 
la  strada  ; risolvè  frastornameli , con  assalirli  negli  aU 
loggiamenti.  Questi  però  lo  prevennero;  perciocché  sa- 
puu  la  sciagura  de’  compagni  dai  predatori  salvatisi  , 
levarono  il  campoj  e nella  notte,  che  fu  la  prima  dopo 
la  battaglia,  rientrarono  in  città,  senza  che  avesser  po- 
tuto tptanto  aveano  disegnato.  Ma  se  ne  periron  di  loro 
tra  le  battaglie  e i foraggi  ; ne  soggiacquero  nella  fuga 
d’ allora  assai  più  di  prima  (ra  quelli  che  restavano 
addietro.  Aggravati  questi  dal  travaglio  e dalle  ferite  , 
Iraendosi  a stento  innanzi , perchè  non  .prestavansi  ad 
essi  i lor  membri , stramazzavano  , vinti  principalmente 
dalla  sete  , presso  de’  ruscelli  e de’  dumi  : e raggiunti 


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LIBRO  IX.  ^ , 217 

da’cavallert  romani,  erano  trncidali.  Netnraeno  i Romani 
tornarono  felici  in  tutto  da  quella  f guerra  ; perdutivi 
molti  valentuomini,  ed  il  legato  che  vi  si  .era  segnalato, 
più  che  tutti , nel  combattere.  Non  pertanto  rivennero 
in  patria  con  una  vittoria  non  inferiore  a ninna.  E ciù 
fecesi  in  quel  consolato.  ' 

LXVII.,  Sacceduti  consoli  Lucio  Ebusio , e Pnblio 
Servilio  Prisco  (1);  k Romani  plinti  da  mori>o  con- 
tagioso , quanto  mai  più  per  addietro , non  fecero  in 
queir  anno  cosa  ninna  degna  di  rimembranza  nè  in 
guerra  nè  in  pace.  Gettatosi  quel  morbo  in  prima  tra 
gli  armenti  de’  cavalli , e de’  bovi , e poi  delle  capre  e 
delle  pecore  , disfece  quasi  tutti  i quadrupedi.  Quindi 
serpeggiando  tra'  pastori  e tra’  coloni  via  via  per  tutta 
la  regione , in  ultimo  invase  anche  Roma.  Non  è facile 
ridire  quanti  servi,  quanti  mercenàrj,  quanti  della  , classe 
indigente  perissero.  Da  principio  se  ne  trasportavano  i 
cadaveri  a mucchi  su’  carri  : ma  poi  quelli . de’,  men  ri- 
guardevoli  si  gettarono  nella  corrente  del  fiume.  Con- 
tasene perito  il  quarto  de’ senatori  , e con  essi  i due 
consoli,  ed  il  più  de’  tribuni.  Cominciò  quel  morbo  in- 
torno a’  primi  di  settembre  , e prosegui  per  un  anno 
in^ro  , investendo  e consumandone  di  ogni,  sesso  e di 
ogni  età.  Saputosi  tra’ vicini  il  disastro  romano,  gli  Equi 
ed  i Yolsci  lo  riputarono  occasione  bonissima  da  levare 
sene  il  giogo  , e fecero  patti,  e giuramenti,  di  alleanza 
fra  loro.  Quindi  preparato  quant’  era  d'  uopo  per  1’  as- 
sedio , uscirono  gli  uni  e gli  altri  il  più  presto  colle 

(1)  Anno  di  Roma  391  secondò  Catone,  39!  secondo  Vartoae  , 
e 4^1  av.  Cristo. 


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2i8  delle  antichità’  romane 
milizie;  inondando  su  le  prime  il  territorio  de* Latini  e 
degli  Emici,  onde  precludere  a Roma  il  soccorso  degli 
alleati.  E nel  giorno  che  giunsero  ai  Senato  gli  oratori 
de’  due  popoli  assaliti  per  ottenerne  ajuto  , in  quei 
giorno  appunto  era  morto  Ebuzio  1’  uno  de*  consoli  » 
standosi  già  Servilio  , eh*  era  1’  altro  , per  morire.  Or 
questo , sopravvivendo  anche  un  poco , convocò  il  Se- 
pa to.  Portativi  i più  de’  padri  malvivi  su  le  lettighe  di- 
chiararono ai  legati  di  annunziare  a lor  popoli  ^ che  U 
Senato  concedeva  ad  essi  di  respingere  col  proprio  va- 
lore i nemici , finché  il  consolo  si  risanasse  , e fosse 
raccolto  un*  esercito  per  soccorrerli.  A tali  risposte  i 
Latini  concentrato  ciocché  poteano  dalie  campagne  , 
guardavano  le  mura,  trascurando  ogni  altro  danno.  Ma 
gli  Eroici  non  reggendo  al  guasto  ed  al  sacco  de’ campi, 
diedero  all’ armi,  ed  uscirono.  Infine  dopo  fatte  luminose 
battaglie  con  perdervi  molti  ^de’  loro  ed  uccidervi  molto 
più  de*  nemici , fuggirono  , necessitati , fra  le  mura , né 
tentarono  più  di  combattere. 

LXVIII.  Pertanto  gli  Equi  ed  i Volsci,  depredatone 
il  territorio,  si  avvanzarono  impunemente  ai  campi  Tu- 
scolani.  E derubati  pur  questi  senza  che  ninno  li  re- 
spingesse , scorsero  fino  ai  Sabini  ; e giratisi  impune- 
mente anche  su  le  terre  loro , avviaronsi  a Roma.  Ben 
poterono  essi  turbarla;  non  però  conquistarla.  Quanlun* 
que  languidi  nella  persona , e perduta  1*  uno  e F altro 
console,  mortone  di  fresco  ancora  Servilio,  armatisi  ol- 
tre le  forze  i Romani , si  misero  su  le  mura.  Estese 
allora  per  circuito  quanto  quelle  di  Atene,  sorgeano 
queste  parte  su  i colli  e su.  scogli  dirotti,  fortissimi  per 


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UBBO  IX,  a 19 

natura , e bisogoevoli  appena  di  difesa , e parte  assicu- 
rate dall’ alveo  del  Tevere,  fiume  largo  quattrocento 
piedi  (i),  profondo  da  navigarvisi  con  legni  grandi; 
rapido  quant*  altri  e vorticoso  nel  corso.  Non  passasi 
questo  appiedi  se  non  per  vìa  de’  ponti , de’  quali  ve 
n*  era  allora  sol  uno  , e di  legno  , cui  disfacevano  nei 
tempi  di  guerra.  Il  lato  di  Roma  men  arduo  ad  espu« 
gnarsi  dalla  porta  chiamata  Esquilina  fino  alla  Collina 
era  fortificalo  eoli’ arte;  imperocché  scavata  innanzi  ci 
avevano  una  fossa  , larga , dove'  eralo  il  meno , più  di 
cento  piedi , e cupa  di  trenta , è quinci  e quindi  su  la 
fossa  elevavasi  un  moro,  cinto  da  argine  interno  ampio 
ed  alto,  talché  né  battere  quello  si  potrebbe  cogli  arieti, 
né  rovesciar  sbucandone  le  fondamenta.  Lungo  questo 
lato  circa  sette  stadj  spandesi  cinquanta  piedi  per  largo. 
Or  qui  schieratisi  in  folla  i Romani  respingevano  1’  as« 
salto  nemico  : perocché  noù  sapevano  allora  i mortali 
né  far  testuggini  sotterranee , né  macchine  espugnatrict 
delle  mura.  Diffidatisi  gli  assalitori  di  prendere  la  città 
ritiraronsi  dalle  mura , e devastandone , ovunque  passa- 
vano la  campagna,  sea  tornarono  in>patria. 

LXIX.  I Romani  come  sogliono  quando  restano  senza 
chi  comandi , scelsero  gl’  interré  per  tenere  i comizj , 
e vi  crearono  consoli  .Lucio  Lucrezio  e Tito  Veturio 
Gemino  (z).  Sotto  questi  ebbe  requie  la  pestilenza;  puc 

(i)  'Wel  testo:  ntritfit  rìkirftr  : la  toco  rXtrftr  »’  interpreta 
da  altri  per  jugero  : Svida  la  interpreta  per  cesto  piedi.  — Ma  tale 
cspoiisione  noa  corrisponde.  ' 

(a)  Aano  di  Roma  aga  secondo  Catone,  394  secondo  Varrone, 
e 46a  av.  Qrisio.  1 


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2 20  DELLE  ANTICHITÀ*  ROMANE 

♦ • 

furono  diflerite  le  controversie  civili  private  o pubbliche: 
e tentando  Sesto  Tito  T uno  dé’  tribuni  >,  riaccendere 
quella  su  la  division  de’ terreni;  il  popolo  gli  si  oppose, 
e rimisela  a tempi  più  acconci.  Eccitossi  in  tutti  in  vece 
I un  desiderio  di  punire  quanti  aveano  dato  guerra  alla 
repubblica  ne’ giorni  del  morbo.  Cosi  decretata  la  guerra 
dal  Senato,  e ratiScata ' dal  popolo,  si  arrolarono  le 
soldatesche  : e ninno  di  anni  militari , quantunque  pri> 
vilegiatone  per  le  leggi,  cercò  sottrarsi  da  quell’  impresa. 
Diviso  r esercito  in  tre  parti  1*  una  fu  lasciata  in  guar- 
dia di  Roma  sotto  gli  auspicj  di  Quinto  Fabio,  uomo 
consolare  ; e le  altre  seguirono  i consoli  contro  i Yolsci 
e gli  Equi.  Aveano  gii'  fatto  altrettanto  i nemici.  Riu- 
nitesi le  milizie  migliori  d’  ambedue  quelle  nazioni , te- 
neano  il  campo  aperto  sotto  due  capitani  per  cominciare 
dalla  terra  degli  Ernici  , dove  ' allor  si  trovavano  , a 
devastarne  quanta  ne  soggiaceva  ai  Romani  : la  parte 
men  atta  delle  ipilizie  crasi  lasciata  in  custodia  delle 
città,  perchè  su  di  esse'  ngn  venisse  irruzione  improvvisa 
dagli  emoli.  Avuto  infra  loro  consiglio , crederono  i 
consoli  il  meglio  d’ investire  innanzi  tutto  le  lorp  città 
sul  riflesso  che  la  unione  delle  armate  si  scioglierebbe, 
se  ciascuno  udisse  ridotta  in  pericolo  estremo  la  sua  pa- 
tria ; giacché  riputerebbero  assai  meglio  salivare  le  pro- 
prie cose  che  guastar  le  ini  miche.  G)sl  Lucrezio  piotnbò 
su  gli  Equi , e Yeturio  su  i Yolsci.  Gli  Equi  trascu- 
rando ogni  rovina  di  fuòri  guardavano  la  città  e li  ca- 
stelli. 

LXX.  In  opposito  i Yolsci  ardimentosi , arroganti , 
spregiando  1’  armata  Romana  come  diseguale  contro  la 


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Lisno  IX.  221 

lor  ffloltitudiae , uscirooo  4 combattere  pel  territorio 
proprio,  e misero  il  campo  presso  di  Yeturio-  Ma  come 
accade  a milizie  receuti , raccolte  per  la  circostanza  alla 
rinfusa  di  mezzo  a villani  e cittadini , privi  in  gran 
parte  di  arme  o di  sperienza  , non  ebbero  cuore  nem- 
men  di  venire  alle  mani  : e perturbatine  i più  fin  dal 
primo  avventarsi  de’  Romani , non  reggendo  nè  al  suono 
delle  arme  percosse , nè  ai  gridi , preludio  della  batta- 
glia , tornarono  con  dirottissima  fuga  in  città.  Dond’  è 
che  incalzati  dalia  cavallwia  ne  perirono  molti  nello 
stretto  de’  sentieri , e più  ancora  mentre  a gara  si  cac- 
ciano tra  le  porte.  A tale  disastro  accusarono  i Yolsct 
sestessi  d’ imprudenza , nè  più  tentarono  di  cimenUrsi. 
Li  capitani  però  che  tenevano  in  campo  aperto  le  mi- 
lizie dei  Yolsci  e degli  Equi  all’  udire , com’  erano  in- 
vestite le  loro  città,  deliberano  di  fare  ancor  essi  alcuna 
magnanima  impresa , levandosi  dalle  terre  de’  Latini  e 
degli  Eroici  , e marciando  «on  quanta  avean  furia  e 
prestezza  su  Roma.  .Ancor  essi  avean  mira  che  rinscisse 
loro  r uno  o 1’  altro  de’  due  belli  disegni  , cioè  d’  inva- 
dere Roma  ,improvvista  , o di  richiamarvene  le  armate 
di  lei  dai  loro  territori,  necessitando  ti  consoli  a soc- 
correr la  patria.  Su  tale  pensiero  marciarono  a gran 
fretta  per  essere  inaspettati  su  Rotna , coll’  effetto  del- 
r opera. 

LXXI.  Avvicinatisi  di  nuovo  al  Tuscolo,  udendo  che 
le  mura  di  Roma  erano  tutte  piene  di  arme,  e che  in<« 
uanzi  le  porte  si  stavano  schierate  quattro  coorti  cia- 
scuna di  secento  soldati , desisterono  dall’  inoltrarvisi  : 
ma  fermatisi  diedero  il  gnasto  al  icrrilurio  suburbano. 


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222  DELLE  ANTICHITÀ’  HOMANE  LIB.  IX.' 
trascnrato  nella  spedicion  precedente.  Ma  presentatosi 
ed  accampatosi  non  lontano  da  loro  Lncio  Lucrezio 
console  ; essi  riputando  il  buon  ponto  di  combatterlo 
innanzi  che  giungesse  a soccorrerlo  1’  altra  armata  Ro- 
mana retta  da  YetaVio;  concentrarono  le  bagaglie  in  un 
colle  con  due  coorti  di  guardia , ed  uscirono  in  campo. 
Scagliatisi  addosso  de’  Romani  portaronsi  gran  tempo  da 
valentuomini.  Ma  poi  vedendo  scendere  una  soldatesca 
giù  pel  monte  dai  castelli  da  tergo  , sospettarono  venir 
r altro  console  coll’  esercito,  ed  impauriti  di  essere  colti 
in  mezzo  da  ambedue , non  -più  tennero  fronte , ma 
fuggirono.  In  questo  cqndbattimento  morirono  tra  lu(» 
di  azioni  bellissime  tutti  due  i lor  capitani  e molti  altri 
valentuomini , i quali  pugnavano  intorno  di  loro.  Quelli 
che  ne  fuggirono  , salvaronsi  sbandati  per  la  più  parte 
nelle  lor  patrie.  Dopo  ciò , presa  gran  sicurezza , an- 
darono ' Lucrezio  devastando  le  terre  degli  Equi,  e Ye- 
turio  quelle  dei  Yolsci , 6nchè  giunse  il  tempo  de’  co- 
mizi (0*  'Allora  levando  l’armata,  si  ricondussero  in 
casa.  Trionfò  1’  uno  e 1’  altro  per  la  vittoria , entrando 
ambedue  Roma  Lucrezio  su  la  quadriga , e Yeturio 
appiedo  ; imperocché  si  concedoho  dal  Senato  triond , 
come  ho  detto  di  due  specie , similissimi  in  tutto , ec- 
cetto che  nell’  uno  il  capitano  è sul  carro , ed  appiedi 
nell’  altro. 

(i)  Anno  di  Roma  aga  lecondo  Catone,  ag4  lecondo,  Varrone  , 
• 4^  av.  Criato. 


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223 

DELLE 

ANTICHITÀ  ROMANE 

D I 

DIONIGI  ALICARNASSEO 


LIBRO  DECIMO. 


L fjKTAò  (i)  dopo  quel  cònso^to  1*  olimpiade  ottan- 
tesima nella  quale 'Toribante  di  Tessaglia  ?inse  in  su 

10  stadio , essendo  F rasicleo  1’  arconte  di  Atene  : ed  in 
Roma  furono  istituiti  consoli  Pdblio  Voiunmio,  e Se» 

.(i)  Nella  ediiiooe.  del  testo  greco  fatta  dallo  Stefano  ai  pone 
per  prÌDcipio  di  questo  libro  l’argomento  di  esso  il  quale  è tale: 

11  ùbro  decimo  deUe  Antichità  romane  teritte  da  Dionigi  di  AU- 

€arna$$o  comprende  le  cote  operate  da’  Romani  daW  anno  primo 
della  olimpiade  ottanteeima  tatto  i eontoli  Publio  Vobunnio  e Pam 
hlio , cioè  Serrio , SulpUio  , teorrendo  fitta  al  duodecimo  anno 
appretto  colle  tue  narrationi,  ' ‘ 


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aa4  DELLE  ANTICHITÀ.’  ROMANE 

TÌO  Sulpicio  Catneriao  (i).  Non  portarono  questi  fuora 
□iun’ armata  né  per  punire  gli  offensori  loro  o degli 
alleati , nè  per  guardare  U proprio  territorio  , ma  solo 
invigilarono  in  città  perchè  il  popolo,  congiuratosi,  non 
disponesse  alcun  male  al  Senato.  Imperocché  inculcan- 
dosi da’  tribuni  l’eguaglianza  come  bonissima  infra  tutte 
le  istituzioni  per  uomini  liberi , tumultuava  il  popolo 
nuovamente , e voleva  che  ogni  cosa  privata  o pubblica 
si  conformasse  alle  leggi;  giacchè^i  que'giorni  in  Roma 
nè  le  leggi  erano  ancora  pari  per  tutti , nè  pari  la  li- 
bertà del  dire  , anzi  non  erano  nemmeno  scritte  tutte 
le  leggi.  E veramente  ne’  primi  tempi  i re  deGnivano 
di  per  sestessi  i diritti  a chi  li  reclamava , e tutte  le 
loro,  sentenze  eran  leggi  : cessati  i re  si  appartenne  ai 
superiori  dell’anno  la  discussione  dei  diritti,  come  altre 
regie  incombenze  , ed  essi  li  decidevano  in  ogni  con- 
troversia ; se  non  che  risentivansi  tali  decisioni  dell’  in- 
dole de’  superiori  eletti  d’  entro  il  rango  degli  ottimati 
al  comando  (a).  Appena  ci  avea  ne’  libri  sacri  alquante 
risoluzioni  con  autorità  di  legge  ; ma  non  erano  note 

(i)  Annodi  Roma  393  secondo  Catone,  agS  secondo  Varrone  , e 
459  ar.  Cristo. 

(a)  Cio6  le  sentenze  erano  miti,  oompiaceroli giuste,  arroganti 
secondo  che  i magistrati  come  consoli,  pretori  ec.  erano  miti,  com- 
piacevoH  , giusti,  o superbi.  Giovan  Giacomo  Reiskc  dice  esser 
credibile  che  i piò  di  que*  magistrati  fosser  arroganti,  superbi,  scor- 
tesi , duri , fieri , perchè  nello  sceglierli  si  tenea.  conto  principal- 
mente della  nobiltA  dei  natali.  Questa  ragione  è quriosa , e certo 
dovrebbe  essere  ignobile  e falsa  s perché  il  genere  umano  non  do- 
vrebbe aspettare  dai  nobili,  che  i bei  tratti,  le  cortesi  maniere,  la 
equità,  la  giustizia,  insomma  la  luce  e la  sublimità  delle  operazio- 
ni, come  contempla  nelle  stelle  lo  spettacolo  vaghissimo  de'  cieli. 


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UBRO  t.  saS 

che  a pochi  patria^ , perchè  ia  t città  dimoravano  ; lad-' 
dove  ignoravale  U popolo  intetito  al  iralHco’  ed  alla  cuU^ 
tura , perché  non  capitava  in  città  se  non  pe’  mercati: 
dopo  molli  giorni.  Cajo  Terrenzio  tribuno  ' dell’  atmo> 
antecedente  aveva  tentalo  il  primo  d’  iikrodiuTe  tale 
eguaglianza  ; ma  dovette  lasciar  I*  opera  imperfetta,  tro-; 
vandosi  U gran  numero  del  popolo  nell'  armata  in  sai' 
campi  nemici , tenutovi  ad  arte.  ,da’  consoli  , finché  il 
tempo  finisse  del  loro  governo. 

IL  Postisi  quindi  a tale  impresa  il  uibubo  Aulo  Veo- 
ginio’e  li  colleghi , t voleano  consumarla:  ma  i consoli  , 
col  Senato , e . con  ■ altri  in  città . più  potenti  adoperavansi 
costantemente  per  ogni  maniera  ,,  affinchè  ciò  non  se-« 
guisse , nè  dovessero  governare  secondo  le  leggi  : e.  più 
volle  sen  tenne  1’  adunanza  del  Senato,  piA  volte  quella 
del  popolo  ; facendo  i lor  magistrati  ogni  sforzo  gli  uni 
contro  degli  altri  ; doiid’  era  a tutti  viàbile  che  verreb!>e 
da'  tanto  Jisàdio  alla  città  disastro  insanabile  e grande. 
A tali  |>resagj.  dai  canto  degli  uomini  agglongevansi  i 
terrori  dal  canto  del  cielo  , d’  alcuni  de'  quali  non  Iro- 
vavansi  L àmili  ne’  pubblici  scritti , né  , par  monumento 
qualunque.  Ben  trovavanà  occorse  ancora  in  antico  e 
coiTuacazioni  soorrenti  pelcielo  ed.  accensioni  fissa  in  un 
luogo,  muggiti  e scosse  continue  delia  terra,. e larve 
qua  e-  là  vaganti  per  l’aere,  e voci  desolatrioi , e cose 
alirallali:  ma  ciò  che  non  erasi  mai  nè  sperimentalo-  nà 
udito,  e che  più  che  lutti  perturbava.,  era  che  il  cielo 
navigò . dirottamente  pQn- già  con  nembo  , dii  neve  , ma 
con  brani,  più  o men  grandi  di  carne;  che  tali  cairn 
momot , <«np  ui.  is 


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32(j  DELLE  AATICKITa’  ROMANE 

furono , mentre  cadeano  -,  afferrate  per  U aere  dai  rostri 
di  uccelli  cbe  volano  a :orme  , laddove  le  carni  cbc' 
toccarono  terra  tuttoché  giacessero  gran  tempo  per  la 
città-  e pe'  campi  , nè  scoioraronsi  come  le  stantie  , nè 
marcirono,  nè  diedero  alcun  tetro  odore.  Or  su  tale 
portento  - non  sapeano  gli  auguri  interni  vaticinarne  : 
quando  si  troVò  ne’  libri  Sibillini  che  verrebbero  esterni 
nemici  tra  le  mura , e Roma  correrebbe  pericolo  di 
essere  schiava  ; che  delia  guerra  cogli  esteri  sarebbe 
foriera  àna  vivil  sedizione  : la  sterminassero , nata 
appetta,  dalla  • città  : deviassero  i mali  placando  gC  iddj 
co*  sagrifitj  , e co*  voti  ; e vincerebbero  t inimico.  Ri- 
saputosi ciò' tra ’J  popolo,  i 'sacri  ministri  a’ quali  ciò  si 
spalava  , fecero  sagriQzio  agl’  iddj  cbe  declinano  e re- 
spingono i mali.  Adunatisi  poscia  a consiglio  i padri 
deliberaronó  coll’intervento  dei  tribuni  sopra  la  sicurezza 
e la  salute  di  Roma.  t 

III.  Tutti  dunque  conclusero  (%e  doveano , come  da- 
vasi  ad  intender  dagli  oracoli , lasciare  i lamenti  vicen- 
devoli , e rendersi  unanimi.  Non  créava  (lerò  -loro  poca 
difficoltà  la<  maniera  di  far  questo , donde  cominciasse 
un  partito  a cedere  all’altro  , talché 'se  ne  chetasse  infine 
la , sedizione.  I consoli  ed  i capi  del  Senato  additavano 
gli  autori  della  turbolenza  ne’ iribuui*  cbe  . introducevano 
metodi  nuovi,  cercando  di  abolire  il  governo  antico  della 
patria  : in  opposi  to  dicevano  i . tribuni  di  non  far  cosa 
che  fosse  non  degna , non  giusta , o non  giovevole  ; 
giacché  volevano  intromettere  le  buone  leggi  e la  egua- 
glianza : i patrizj  ed  i consoli  essere  i colpevoli  ; giacché 
ampliavano  il  mal  delle  leggi  ^ e le  preminenze , ed 


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LIBBO  X,  227 

emulavano  le  maniere  de’  tiranni.  Per  più  giorni  si  xlis* 
acro  queste  e cose  consimili , e inttanto  indarno  si  tem» 
poreggiava , nè  in  cittè  si  oUimava  aiTare  ninno  privato 

0 pubblico.  Adunque  non  profittandone  , lasciarono  i 
tribuni  i discorsi  e le  accuse  ohe  andavano  disseminando 
contro  del  Senato  ; 6 convocato  il  popolo  ^ gli  promisero 
far  leggi  so  èiò  che  voleva;  ed  applauditine  gli  reaiuH 
inno  imnuiattrrente  il  progetto  apparecchiato.  Enne  il 
cardine:  che  il  popolo  adunatosi  in  comizj  legittimi 
scegliesse  dieci'  i più  anziani  e più  savj  , amanti  della 
riputaxione  e del  buon  nome  : che  questi  scrivessero 
leggi  su  tutti  i rispetti  privati  o publilici , e le  propo^ 
nessero  ed  popolo  : che  si  tenessero  poi  fìsse  nétforo, 
cóme  regola  dei  diritti  vicendevoli  per  i magistrati 
dell  emno  q per  i privati.  Progettata  .questa  legge  la» 
sciaróno  a chi'  volea  , 1’  adl>ltrio  di  ''contndirla  fino  al 
ritorno  del  terso  mercato.  Or  molti,  d^l  Seoatè  giovani 
e vecch) , nè  giè  de’  più  dispregevoli , la  contraddissero 
per  più  giorni  cou  as^ai  studiati  discorsi.  Stanchi  poscia 

1 tribuoi  per  tanto  consumarsi  di  tempo , più  non  per> 
misero  che  altri  aringasse  in  contrario:  ma  predesti» 
Dando  il  giorno  nel  quale  espedire  la  legge , invitarono 
i plebei  a raccogliersi  appunto  in  quello , giacché  non 
sarebbero  più  conturbati  dalle  lunghe  concioni , ma 
voterebbero  su  di  essa  per  tribù.  Cosi  promisero , e 
sciolsero  4’  adunanza. 

IV.  Dopo  ciò  li  consoli  e li  patrizj  più  potenti  an- 
datine più  esasperali  ad  essi  reclamarono , e dissero  che 
non  permetterebbero  che  introducessero  leggi  senza 
previo  decreto  del  Senato  : SSSMUS  IM  lecci  t patti 


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3 28  DELLE  ANTICHITÀ’  ROMANE 

DSL  COMVNS  DELLB  ClTtjC  IfOTf  DI  ONA  PARTE  DS~. 
GLI  ABlTAafl  DI  QUESTE  : CHE  QUAWDO  LA  PARTE-, 
MEIf  SANA  VI  da'  leggi  ALLA  MIGLIORE  A PRSf.UDlO 
MANIFESTO  DI  DANNO  TRISTO,  INSANABILE , SCON» 
GISSIMO. . Quale.  , aggiuDgevaQO  qtuU  potere  avete  voi 
o.  tribuni  di  far  leggi  o distruggerle  ? Voi  non  avete 
con  questi  diritti  ricevuta  dal  Senato  là  magistratura: 
voi  chiedeste  il  tribunato  in  difesa  de'  poveri  offesi 
o soverchiati , non  per  altra  briga  niuna.  Che  se  aveste 
già  prima  tal  potenza  cedendo  il  Senato  ad  ogni  vo- 
stra pretensione  ; non  C avete  voi  questa,  perduta  col 
mutar  dei  comizj  ? perciocché  non  i Pereti,  del  Sor- 
nald',  non  i voti  dati  per  centurie  destinano  voi  per 
tiibuni  : voi  non  premettete  ai  comizj  per  la  vostra 
creazione  nè  i sagfijicj  dovuti  per  legge  , né  altri  os- 
sequj  verso  de'  numi  , nè  pietose  -opere  verso  degli 
uomini.  Come  a voi  si  appartiene  far  cose  ( quali  ap- 
punto  sono  le  leggi)  che  ahbisognavtmo' di  culto  e di 
sagrifizj  di  un  dato  rito , se  i riti  tutti  violate  f Coai 
«lissero  ai  tribuni  i patrixj  seniori , cosi  li  giovani , .che 
andarono  cinti  da  un  seguito  per  la  città  : e rìcuperà^ 
rono  colle  dolci  i cittadini  più  miti  spaventando  i ca-, 
parbj  e K turbolenti  se  non  faceano , senno,  col  terroc 
de’  pericoli  : anzi  battendo  come  schiavi , ed^  escludendo 
dal  Foro  alcuni  de’ più  bisognosi  ed  abjelti,  i qualt 
non  curavano  se  non  l’ utile  proprio.  • 

V.  L’  uno  di  quelli  ebe  ebbe  maggior  seguilo , e che 
poteva  aUora  più  di  lutti  i giovani  fu  Quinzio  Cesone, 
figlio  di  Lucio  Quinzio  chiamato  Cincinnato , nobile , 
Straricco , bellissimo , valentissimo  nelle  armi , e nel  dire« 


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LIBRO  X.  229 

Or  questi  molto  allora  si  scaricò  su'  plebei , non  aste* 
nendosi'  nè  da  parole  , molesiissitne  ad  uomini  liberi  , 
nè  da’  fatti  corrispondenti  alle  parole,  Pertanto  i pairizj 
lo  onoravano,  e ^istigavanlò  più  a tener  fronte  ai  perì- 
coli , promettendogli  sicurezza  essi  stessi  : ma  i plebei 
r odiavano  più  che  ogni  altro.  Or  da 'un  tal  uomo  ri- 
solverono liberarsi  * i tribuni  avanti  tutto  per  abbattere 
in  esso  gli  altri  giovani  , e necessitarli  ad  esser  più  savj. 
Ciò  risoluto , e preparati  assai  discorsi  e lestimon}^ , lo 
dtardno  come  reo  di  pubblica  * offesa  per  punirlo  'di 
morte.  Intimatogli  di  presentarsi  al  popolo,  venutone  il 
giorno , e convocata  1’  adunanza  , perorarono  a lungo 
coofra  lui  ; nunierando  tutte  le  violente  fatte  , ed  alle- 
gandone gli  offesi  stessi  per  teslimonii.  -Or  .qui  data  li- 
cenza di  parlare  ; il  giovine  chiamato  a difendersi  non 
ubbidiva  : ma  volea  soddisfare  ai  privati  in  'quanto  di- 
ceansi  oltraggiati  da  loi  > secondo  le  leggi , tenutone  il 
giudizio  innanzi  de’  consoli  : ma,  il  padre  di  lui  vedendo 
i plebei  sofferime  malamente  le  ritrosie , prese  a difen- 
’^erlo  egli  stesso  ; dimostrando  le  tante  delle  accuse  coqic 
false  f ed  insidiose  , e dimostrandole , . quando  negar  non 
poteansi , come  picciole  , leggere  , nè  dégne  dell’  ira  del 
popolo , e su  cose  , fatte  non  per  trama  o disprezzo , 
ma  piuttosto  per  enfasi  giovanile  di  gloria.  Per  questa 
diceva  eh’  eragli  occorso  talora  di  fare  e tal  altra  di  pa> 
rire  forse  incautamente  nelle  contese;  non  essendo  lui 
nel  fiore  degli  anni  e del  senno.  Pertanto  pregava  il 
popolo  non  solamente  che  non  se  gli  adirasse  pel  di- 
scorrere suo  , ma  che  giel  condonasse  in  vista  delle  belle 
gesta  di  esso  le  quali  operarono  fra  le  armi  la  libertà 


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23o  delle  antichit-v’  romane 
de’  privati  ed  il  comando  della  patria  , ed  invocavano 
fin  d’  allora  per  lai  quando  Avesse  mancato  la  clemenaa 
ed  il  soccorso  di  tcuti.  E qui  narrò  le  campagne  da  lai 
sosténute  , -e  le  battaglie  nelle  quali  avea  riportato  dai 
capitani  la  corona  de’  prodi , quante  volte  eravi  stato  la 
diiesa  de’  cittadini , e quante  avea  primo  salito  le  mura 
de’  nemici  : da  ultimo  ri  rivolse  ad  impietosire  e scon- 
giurare il  popolo  in  riguardo  della  modera^'one  sua 
verso  tutti , e del  vivere  ‘suo  conosduto  sempre  come 
innocente  ; chiedendo  che  in  grazia  almeno  gli  salvas- 
sero il  figlio.  ' ' 

' VI.  Compiacevasi  il  popolo*  a tali  discorsi  , e delibo- 
ravasi  rendere  H 6glio  al  padre.  Se  non  che  riflettendo 
Yerginio  che  se  costai  non  subiva  le  pene  ; ne  diver- 
rebbe intollerabile  1’ audacia, e la  caparbietà  de’ giovani, 
sorse  e disse  : Contestata  o Quinzio  è la  tua  virA , la 
tua  benevolenza  verso  del  Spopolo  e te  ten  debbe  tutta 
la  stima:  ma  la  molestia , e la  insolenza  di  codesto  tuo 
figlio  verso  tutti  non  ammette  escusàzione  o perdono. 
Egli  educato  con  la  tua  disciplinà  sì  discreta,  cpme  tutti 
sappiamo  , e si  popolare  ; ne  abbandonò  gli  ammae- 
stramenti e seguì  V arroganza  de  tiranni , - e la  sfre- 
natezza de' barbari , portando  in  città  gf  incentivi  a 
tristissiiHe  opere.  E sia  che  tu  noi  conoscessi  per 
tale  ; ora  che  tei  conosci  ben  dei  con*  noi  e per  noi 
concitartene  : che  se  per  tale  il  sapevi , e lo  coadiu- 
vavi in  quanto  egli  inviliva  ognora  pià'  la  sorte  dei 
poveri  ; eri  anche  tu  lo  scellerato  , e mal  souavati 
intorno  la  fama  di  uom  probo.  Afa  tu  non  vedevi 
( ed  io  stesso  potrei  contestartelo  ) quanto  egli  dalla 


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LIBBO  X.  . a3i 

tma  uirtà  degenerava.  Sebbene  io  tenga  però , che  al- 
lora tu  non  partecipavi  con  esso . nelF  offenderci  ; 
dolgomif  che  ora  come  noi  non  te  ne  sdegni.  Ma. 
perchè  tu  meglio  conosca  qual  niostro'  abbi  nudrito 
senza  avvedertene  contro  la  patria,  quanto  tirannico, 
c non  . puro  nemmeno  tlal  sangue. . dk'  cittadini  ^ odi 
la  egregia  opera  sua  , e contrapponi  a questa , se 
puoi  , U bellici  suoi  prèmji  E voi , quanti  siete  imo 
pioto  siti  al  pianger  di  un  padre  , considerate  se  stia 
bene  che  risparmisi  un  tal  cittadino.  ' 

• VII.  E qui  fe'  cenno  a Marco  Volscio  T uno  de’  suoi 
colleghi  perchè  sorgesse  e dicesse  quanto  sapeva  di  quel 
giovane.  E fatto  silenzio  , e grande  espettazioiie  ; V(d> 
scio  soprastando  alcun  poco-,  disse  : Oltraggiato , e pià 
che  oltraggiato  che  io  fui  da  quest’uomo , ben  avréi 
voluto  pigliarmene  , o cittadini , le  pene  che  ut  erano 
concedute  dalle  leggi  : ma  impeditovi  allora,  dalla 
mia  debolezza  , dalf  esser  mio  di  plebeo  , prenderò 
ora  che  mi  è dato  f le  parti  di  testimonio  , se  quelle 
non  posso  di  accusatore.  Udite  le  acerbità , le  inde- 
gnità che  men  ebbi.  Era  Lucio  , fraltel  mio  , ,che  io 
amava  piti  che  tutti  i mortali  Avea  \ questi  cenato 
mecò.  presse  di  un  amico  , quando  al  giungere  della 
notte  di  levammo  , e partimmo.  E già  passavamo  per 
il  Foro  , quando  si  abbattè  con  noi  codesto  petuUui- 
,te , seguito  da  giouani  pari  suoi:  li  quali,  ebbrj  ed 
'arroganti  che  erano , beffarono  ed  insultarono  noi , 
quanto,  insultato  e beffato  avrebbero  i meschini  e gli 
.ignobili.  Così  provocati  j V uno  di  noi  parlò  liberis- 
simamente. Or  codesto  Cesane  estintando  . ria  cosa 


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a3a  DELLE  antichità’  romane 

ttdire  ' ciocché  non  voleva  , gU  s'  avventò  , lo  battè  : e 
mainìenalolo  con  i calci  e con  ogni  guisa  di  sevizio^ 
e cT  ingiurie;  io  uccise.  Ucciso  lui,  manomise  ancor 
me , che  ne  gridava  , e ne  repugnava  quanto  io  po~ 
tev'a  : nè  mi  lasciò  , se  non  dopo  credutomi  estinto  , 
ài  vedermi  immobile  in  terra  , e senza  voce.  Allora 
se  no'  andò  giubilando  come  per  bellissima  prova  ; 
ed  allora'  gli  astanti  raccòlsero  noi  lordi  dal  sangue  j 
e riportarono  a casp  Lucio  il  fnio  fratello  , morto  , 
come  ho  detto  , e me  presso  che  morto  , e che  certo 
ornai  poco  sperava  di  sopravvivere.  Occorse  ciò. sotto 
i consoli  P^ublio  Servilio  , e Lucio  Ebuzio  , quando 
spaziava  in  Boma  la  ff-an-' pestilenza,  alla  quale  era- 
vamo soggiaciuti  atKor  noi.  Quindi  non  potei  diman- 
darne ragione  , morti  /essendo  i consoli  tutti  due.  Suc- 
cederono  poi  consoli  Luaezio  e Tito  Terginio.  Io 
voleva  allora  ' citarlo  in  giudizio  ; ma  ne  fui  impedito 
dalia  guerra , fasciando  ambedue  per  essa  la  città. 
Jiitomati  .questi  dal  campo  , quanto  volte  16  citai 
presso  de*  òiagittrati , quante  volte  mi  vi  accostai , 
tante  ( e ben  molti  lo  sannò  ) fui  da  esso  ferito.  E 
questo, 'o  popolo  , che  io  ne  ho  tollerato,  questo  vi 
ho  detto  con  tutta  la  verità.  • ■ ' ' . 

Vili.  Alzarono  a quel  dire  , gli  astanti  le  grida  , (eo- 
landone  molti  la  vendetta  colie  lor  inani.  Ma  vi  si  op- 
posero i consoli , ed  i più  de’  tribuni , alieni  che  in  città 
s’  introducesse  la  tea  consuetudine  ; tanto  più  che  la 
parte  più  sana  del  popolo  non  voleva  che  si  toglicssero 
le  difese  a chi  pericolava  in  giudizio  della  vita.  La  cura 
duirque  della  ginsUzut  represse  allora  gii  empiti  della  iur 


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I 


LìMRO  X.  • ' a 33 

scienza  , ed  il  giudizio  fii  differito  non,  senza  conten- 
zioni e dobbj  non  piccioli,  se  dovesse'  intanto  il  reo 
serbarsi  neiia  carcere , o dare  i mallevadori  per  la  sua 
dimissione  , come  il  padre  di  lui  dimandava.'  Il  Senato 
adunatosi  decretò  che  se  no  desse  malleverìa  • sotto  ob-> 
biigazion  pecuniaria  ; ed  egli  libero  andasse  finché  di 
lui  si  giudicasse.  Or  mancando  il  giovine  di  comparire  • 
al  suo  tempo  ; . i tribuni  convocarono  il  giorno  appresso 
la  molthndine  , e contro  lui  sentenziarono  ; dond’  è che 
i mallevadori , eh’  eran  dieci , pagarono  là  multa  conve- 
nuta in  sicurezza  delia  sua  presentazione.  Colto  dunque 
fra  tali  insidie  dai  tribuni  che  guidavano  tutta  la  trama  , 
colle  itestimobianze  di  Volscio  , che  poi  false  si  riconób- 
bero , Cesone  fuggi  nell’  Etruria.  Il  padre  di  lui  venduto 
il  più  di  sue  cose , e rintegrati  i mallevadori  delle  multe 
obbligate  visse  tra  il  disagio  e lo  stento  in  un  poderétto; 
che  aveasi  con  picciolo  abituro  lasciato  di  là  dal  Tevere, 
coltivandolo  con  ponchi  servi,  né  più  rècandosi  in  città 
per  1’  afflizione,  b la  inopia,  nè  riabbracciando  gli 
«mici , né  iniramettendosi  -a  festa  , o ricreazione  niuna. 

Ai  tribuni  però  succedé  ben  altro  che  le  loro  speranze: 
imperocché  non  .solo  qon  se  ne  chetò  pér  alcun  modo 
la  gioventù  contenziosa  ammaestrata  dai  mali  di  Cesone  ; 

-ma  ne  imperversò  più  ancora , contrastando  co'  detti  e 
co’  fatti  la  legge;  talché  non  poterono  affatto  stabilirla, 
cousumandosi  in  brighe  la  loro  magistratura.  Pertanto 
il  popolo  confermò  pel  nuovo  anno  i tribuni  medesimi. 

' fX.  Ascesi  ai  grado  consolare  Valerio  Popiicola , e 
Cajo  .Claudio  Sabino  (i),  Roma  corse  in  pericoli  « quanti 

(i)  Anoo  di  Roma  39!  secondo  Catons , 396  secondo  Varrone, 
c 4''8  av.  Cristo. 


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n34  DELLE  ANTICHITÀ*  ROMANE 

uiai  più  ^ per  la  guerra  cogli  i esteri , attiratale  dalle  d!«i 
«cordie  domestiche , come  af  eano  j preoooziato  i libri 
sibillini,  e li  segui  dimostrati  1’  anno  precedente  dai 
numi.  Io  sporrò  cagione,  che  suscitò  U guerra , e ciò 
che  fu  per  queau  operato-  allora  da’  consoli.  Li  tribuni 
preso  di  nuovo  il  lor  grado  su  la  speranza  di  fondare 
la  legge  , vedendo  console  Ca)o  Claudio  pieno  di  odio 
ereditario  contro  del  popolo,  e sollecito  per  ogni  guisa 
nd  impedire  quanto  facevano  ; e vedendo  i più  potenti 
de’  giovani  trascorsi  -iu  fùria  manifesta  da  non  combatterli 
colla  forza , ed  i più  della  plebe  obbligati  da'  servigi 
de’  patrizj , e rimasti  senza  il  primo  ardore  per  la  leggQ 
deliberarono  spingersi  all’  intento  con  mezzi  più  risoluti , 
onde  atterrire  quei  della  plebe , e far  desistere  il  console. 
Su  le  prime  procurarono  spargere  voci  varie  per  la  città, 
poi  sederono  da  mattina  a sera  coosultaudosi  visibiloRate 
senza  comunicarne  ad  alcuno  nè  consigli  nè  parole.  Ma 
quando  parve  loro  tempo  di  .eseguire  i disegni,  finsero 
delle  lettere  ; facendosele  recare  mentre  sedeano  nel  Foro 
da  un  ignoto.  E come  prima  Je  lessero  , , battendosi  la 
.fronte  , e contristandosi  ne’  set^bi^nti  ; levaronsi  in  piede. 
Accorsa  gran  moltitudine,  ed  insospettitasi  che  fosse  in 
quelle  lettere  indicato  alcun  grande  infortunio,  essi  or* 
dioaroiio ,pe’ banditori  silenzio  e dissero;  La  repubblica 
o cittadini  sta. negli  estremi  pericoli.  E sé  la  benevo^ 
lenza  degl  iddj  non  avesse  provveduto  a chi  era  per. 
incorrervi  : noi  tutti  saremmo  in  fetali  sciagure.  Chie- 
diamo che  vi  tfiniale  qui  breve  tempo , finché  riferiamo 
al  Senato  eiocohè  ne  si  avvisa,  e facciamo  di  cornuti 
volo  oiocché  si  debbo  ; E ciò  detto  , ne  andarono  ai 


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LIBRO  X.  a35 

consoli.  Frattanto  che  il  Senato  si  radunava,  faceansi 
pel  Foro  molti  e svariati  discorsi;  ripetendo  altri  appo> 
stalaroente  ne’crocchj  ciocché  era  stato  intimato  loro 
da’  tribuni  ; ed  altri  pubblicando  , come  detto  ai  tribuni, 
ciocché  temeano  essi  stessi  , che  succedesse.  Chi  dicea 
che  i Volsci  e gli  Equi  aveano  accolto  Quinzio  Cesone 
il  giovine  condannalo  dal  popolo  , creandolo  comandante 
assoluto  delle  due  genti  e che  leverebbe  .gran  forze  e 
marcerebbe  contro  di  Roma:  echi  dicea  che  quel  gio- 
vine d’  accordo  cp’  patrizj  tornava  con  esterne . milizie  , 
perché  si  abolisce  una  volta  per  sempre  il  magistrato 
che  era  il  presidio  de’  plebei  : altri  aggiungeva  che  eosì 
non  sentivano  tutti  i patrizj  ma  i giovani  soli:  e. vi  fu 
chi  ardi  fino  dire  che  colui  si  stava  occulto  in  città  , e 
che  occnpenebbe  i posti  più  acconci.  Ondeggiando  cosi 
tutta  la  città  per  |a  espeUazioue  de’  mali , e sospettan- 
dosi tutti , e guardandosi  gli  uni  dagli  altri  : i consoli 
convocano  il  Senato  : ed  i tribuni  vengono  e palesano 
ciocché  avvisavasi  loro:  parlava,  per  tutti  Aulo  Yerginlo 
e disse  : - „ >>  • f > 

X.  Finché  gli  annunzj  che  ci  si  davan  de'  medi  ^ 
ci  sembrarono  non  accureUi , ma  vani  e senza  fondai 
mento  , sdegnefmmo  o padri  coscritti , di  pubblicarlit 
tal  timore  che  non.se  ne  eccitassero  grandi  txirba- 
menti , come  sogliono  , alP  udirsi  triste  cose  , e con 
riguardo  di  non  essere  da  voi  creduti  anzi  precipitosi 
che  savj.  Non  però  lasciammo  tali  annunzj , trascu^ 
rondo  li  eiffaUo  : anzi  ne  abbiamo  i investigata  la  ver 
rità , quanto  per  noi  si  potè..  Ora . poiché  la  provit 
denzu  celeste , la  quale  ci  ha  ‘sempre  salvato  la  re» 


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2 36  DELLE  Antichità’  homane 

pubblica , ci  benefica  p svela  i segreti  consigli  y e le 
ree  macchinazioni  di  uomini  nemici  agt  iddj  , e te- 
niamo fin  delle  lettere  che  abbiamo  di  fresco  ricevute 
in  pegno  di  benevolenza  da  ospiti,  che  voi  poscia 
adirete  ,*  e poiché  concorrono  e concordano  gC  indizf 
Interni  con  gli^  altri  di  fuori , e gli  affari  che  abbiam 
tra  le  mani  non  ammettono  più.  indugio  e riserva  i 
deliberiamo  , com’  è giusto  , palesarli  a vói , prima 
che  al  popolo.  Sappiale  dunque  che  hanno  contro  il 
popolo  congiuralo  uomini  non  ignobili , tra'  quali  di- 
pèsi-esser  parte,  non  grande  però,  degli  anziani, 
ascritti  al  Senato  , ma  più  grande  de’  cavalieri  che 
ascritti  non  vi  sono  ; e questi , quali  siano  , non  è 
tempo  ancora  di  rivelarlo.  Questi , come  udiamo  , 
colta  una  notte  oscura,  sono  per  assalirci  tra’l  son- 
no , quando  nè  può  risapersi  ciocché  è fatto  , nè  va- 
Uomo  a congregarci  e difenderci.  Fermi  sono  d'in- 
vestire ‘e  di  uccidere  nelle  case  noi  tribuni  e quei 
plebei  che  st  opposero  iy  o fossero  mai  per  opporsi 
ad  essi  circa  la  libertà.  Quando  avran  tolto  noi , 
pensano  di  aver  da  voi  ciò  che  resta , sicurissima-  ' 
mente  , cioè  che  revochiate  di  comun  voto  le  conces- 
sioni da  voi  fatte  alla  plebe.  Fedendo  però  che  han 
bisogno  per  compiere  ciò  di  prepararsi  occultamente 
una  milizia  di  fuori , e non  piccola  , si  hanno  eletto 
capo  queir  esule  nostro,  quel  Ceso» e , convinto  del- 
V eccidio  di  cittadini , e della  discordia  della  città , • 
e pure  fatto  per  alcuni  di  qua  entro  , fuggir  salvo 
dal  giudizio  e da  Roma , con  promettere  di  procurar- 
gli il-  ritorno  , magistrature  , onorificenze , ed  altri 


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LIBRO.  X, 


compensi  de' servigj.  E questo  Cesene  ha  protnesso 
di  conduf  loro , milizia  di  Equi  e di  Eplsci , quanta 
abbisognane.  Egli  verrà  tra  non  molto  co’  più  audaci, 
introducendoli  a pochi  a pochi  e '.sparsamente  in  ci/r 
tà:  l^  altre  milizie,  quando  saremo  periti  noi  capi 
del  popolo  si  avventeranno  su  gli  alpi  del  popolo 
stesso , i quali  difendessero  ancora  la  libertà.  Queste, 
o padri  coscritti  sono  le  terribili , le  impurissime 
opere  che  disegnano  far  tra  le  tenebre , senza  temere 
r ira  degli  iddj , nè  riguai  dare,  la  vendetta  degli 
uomini.  ^ , 

XI.  Agitati  da  tanto  pericolo  , a voi  ne  veniamo 
supplichevoli , o padri,  voi  scongiuriamo  per  gf  iddj, 
voi  pe  genj  adorati  dalla  patria , voi  per  la  memoria 
dei  tanti  e gravi  nemici  da  noi  combattuti  in  coma-, 
ne,  affinchè  non  lasciate  che  noi  patiamo  le  sì  dure, 
ed  indegnissime  offese  : ma  v’  'empiate  come  noi  di 
risentimento , e ne  soccorriate , e puniate  , come  delf~ 
Lesi,  tali  macchinatori  tutti , o nei  capi  almeno  della 
infame  congiura.  E prima  che  tutto  , dimandiamo  o 
padri  che  decretiate,  come  è giusto,. che  inquisiscasi 
da  noi  tribuni  su  le  cose  deferiteci;  perciocché  oltre, 
la  giustizia , la  necessità  dee  rendere , inquisitori  di-, 
agentissimi  gV  investiti  dal  pericolo.  Che  se  alcuni 
tra  voi  son  disposti  di  non  compiacerci  punto , anzi 
di  contrariarne  in  , quanto  vi  diciamo  del  popolo  ; 
volsntieri  conoscerò  da  essi  quale  vi  disgusti  delle. 
nosVe  dimande , e ciò  che  vogliate  da  noi  finalmente 
Che  non  facciamo  forse  niuna  ricerca , ma  trascu~ 
riamo  la  si  bufa  e si  rea  tempesta  che  pende  sul 


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2.38  DELLK  ANTICIUTA’  ROMANE 
popolo  ? E chi  direbbe  li  sì  fatti  decisori  esser  sani, 
e non  corrotti)  e non' partecipi  della  congiura  anzi 
chi  non  direbbe  che  temono  per  sestessi  , temono  di 
essere  scoperti , e quindi  scansano  che  si  esamini  • il 
vero  ? Perciò  non  debbesi  attendere  a tali  uomini.  O 
vorranno  forse  che  non  siamo  noi  gl'  inquisitori 'di 
dò;  ma  il  Senato  e li  consoli?  Ma  che  impedirebbe 
che  i tribuni  pure  dicessero , che  a loro  che  han 
preso  a difendere  il  popolo  / a loro  si  spetta  la  in- 
quisizione de*  plebei , se  alcuni  mai  congiurassero 
contro  de'  padri  e de'  consoli , e macchinassero  la 
rovina  del  Senato  ? Or  che  seguirebbe  da  ciò  ? que- 
sto appunto  , che  mai  la  indagine  si  farebbe  ma- 
neggi  reconditi.  Noi  però  mai  ciò  nort  faremmo,  per- 
chè sospetta  ne  sarebbe  f ambizione  : e così  voi  non 
bene  adopererete  dando  mente  a coloro  che  non  vo- 
gliono che  noi  pure  slam  pari  a voi  ne’  casi  nostri , 
per  fare  F esame;  ma  benissimo  adopererete  riguar- 
dando questi , come  nemici  comuni.  Al  presente , o 
padri  coscritti , niuna  cosa  tanto  bisogna  , quanto  la 
sollecitudine:  glande,  imminente  è il  pericolo;  e C in- 
dugio a salvarsi  è sempre  intempestivo  ne’  mali  che 
non  indugiano.  Lasciando  dunque  le  altercazioni , e 
i lunghi  discorsi  decretate  ornai  ciocché  F utile  vi 
sembra  della' repubblica.  < 

XII.  ÀUoniti  a tal  dire , non  sa|>eraoo  i padri  come 
rìsolfere:  e riflettevano  seco  stessi,  e ripetevano 'fra 
loro  , come  fosse  ugualmente  arduissima  cosa  concedere 
e non  concedere  ai  tribùni  di  fare  inquisiaione  su  loro, 
in  affane  comune  e gravissimo.  Ma  Cajo  Claudio  1’  uno 


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' . ■ LIBRO  ajg 

de*  consoli , che  tenea  per  obliqua  quella  loi^  propo- 
sta , sorse  e disse  : iVon  penso , o Kergìnio , che  co- 
storo sospettino  me  come  partecipe  della  congiura  che 
dite  macchinata  cantra  voi , e cantra  il  popolo  e 
sospettino  che  io  sorga  a contraddire , perchè  temo  per 
me  o per  alcuno  de  miei  che  n è complice  ; giacché 
il  tenore  della  mia  vita  esclude  in  tutto  da  me  tali 
sospetti.  Io  dirò  sincerissimamente  e sema  riguardi 
ciocché  reputo  £ utile  del  Senato  c del  popolo.  Molta , 
anzi  affatto  s’  inganna  Ferginio  , se  concepisce  che 
alcun  di  noi  sia  per  dire  ohe  si  lasci,,  sema  discu- 
terlo , im  tal»  affare  sì  grande  e necessario  ; e che 
non  debbono  aver  parte , nè  star  presenti  alla  inda- 
gine i magistrati  del  popolo.  Niuno  è sì  stolido  , 
niuno  sì  malevole  al  popolo  che  voglia  ciò  dire:  Che 
se  dunque  alcun  chiede , qual  ne  ho  male  , ohe  in- 
sorgo contra  cose  che  io  concedo  per  giuste  ; e che 
presumo  io  mai  col  mio  dire  ; io  , viva  Dio , ve' lo 
esporrò:  Io  penso,  o padri  coscritti,  che  i savj  deb- 
bano considerar  sottilmente  i germi  e le  linee  prime 
di  ogni  affare  : imperocché  deesi  di  ogni  affare  di- 
scorrere secondo  che  ne  stanno  i principj.  Ora  udite 
da  me  ciocch'  è V intrinseco  del  subietto  presente  , e 
quale  il  disegno  de  tribuni.  Non  riesce  ora  loro  di 
ultimare  ninna  delle  cose  incominciate  nè  proseguite 
nelC  anno  antecedente , perchè  voi  vi  opponete  ad 
essi  come  allora , nè  pià  il  popolo  li  favorisce.  E ciò 
conoscendo  cercano  necessitare  voi , sicché  cediate 
loro  anche  vostro  malgrado , ed  il  popolo , sicché 
cooperi  a quanto  mai  vogliono.  Ma  per  quanto  se  ne 


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24o  delle  Antichità’  romane 
consultassero,  per  quanto  volgessero  da,' ogni  banda, 

V affare , non  trovando  mezzi  semplici  e buoni  per 

V uno  e V altro  intento  ; alfine  così  la  discorsero. . 
» Lainenliamoci  che  alenai  nobili  han  congiurano  di> 

abballcre  il  popolo  / e di  uccidere  quanti  ne  proca- 
» nino  la  salvezza.  E quando  avrem  &UO , che  tali  cose, 
» preparale  da  gran  tempo,  siano. in  cittA  disseminate,; 
» e sembrino  credibili  «I  popolo  (e  credibili  le  renderà 
a la  paura)}  allora  fiugeremo  delle  lettere  da  presenti 
» larcisi  per  un  ignoto  in  presenza  di  molti.  Ne  amdre> 
» mo  quindi  In  Senato,  ci>  sdegneremo,  ci  dorremo, 
» e cercheremo  il  poter  d’ inquisire  su  le  dinunzie  dateci. 
» Se  i patria)  ci  si  oppongono,  prenderemo  ‘da  indi 
» ^argomento  di  calunniaiii  presso  del  popolo;  ed  il 
a popolo  esacerbato  contro  di  essi  diverrà  ^ propizio  a 
X .quanto  noi  vogliamo.  Che  se  cel  concedono  leveremo 
X di  città , come  trovati  complici , i più  misgnanimi  frA 
» loro , e più  nemici  nostri  , vecch j ^o  giovani.  Impe- 
» rocchè  coloro  intimoriti  di  essere  condannati  o pat- 
» tuiranno  con  noi  di  non  più  contrariarci  ; o saran 
» costretti  a lasciare  la  patria  : e co^  la  fàzipn  contrap- 
» posta  sarà  desolata  ». 

XIII.  Tali  sono  i loro  disegni p padri  coscritti,  e 
quando  li  vedevate  che  sedeano  o consultavano  ^ al~ 
lora  tesseano  C inganno  contro  i più  riguwrdevoli  tra, 
voi,  allora  complicavan  la  rete  contro  i cavalieri  più 
puri.  E che  ciò  sia  vero  ; presto  ve  lo  dimostro.  Dì , 
yèrginio  , dite  voi , su  quali  pende  il  pericolo  , da 
quali  ospiti  aveste  la  lettera  ? dove  abitano , come  vi 
conoscono',  come  seppero  tali  nostre  cose  ? Perché 


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LIBRO  X.'  241 

differiste  a svelare  i lor  nomi , perchè  prometteste 
dirceli  poi , nè  li  avete  già  detti  ? Qual  fu  V uomo 
che  vi  portava  le  lettere  ? che  noi  menate  voi  qui  y 
sicché  su  lui  cominciamo  a diicutere , se  vere  elle 
siano  y o se  piuttosto  , come  io  penso  finte  da  voi  ? 
E gt  indizj  interni  che  si  accordano  co’  segni  di  fuori 
quali  sono  mai  questi?  o chi  mai  ve  li  diede  ? Per- 
chè ne  celate , non  ne  pubblicate  le  prove  ? Se  non. 
che  mal  si  trovano  prove  di  cose  che  non  furono 
mai come  io  credo  , nè  mai  saranno.  Questi  o pa- 
dri coscritti  non  sono  indizj  di  una  congiura  contro 
loro  ma  piuttosto  delle  insidie  e del  mal  animo  che 
essi  covano  contro  di  voi  , come  C affare  dichiaralo  • 
per  sè  stesso.  Ma  voi  siete -di  ciò  la  causa,  voi  che 
concedeste  loro  le  prime  cose,  e portaste  a tanta  po- 
tenza codesto  insano  1 loro  magistrato , quando  lascia- 
ste nell’  anno  antecedente  che  giudicassero  per  falsi 
titoli  Quinzio  Cesone  y 'e  soffriste  che  strappasSer 
dal  seno  un  tanto  difensor  de'patrizj.  Da  ciò  nasce 
che- pili  non  serban  misura , nè  tolgon  di  mira  i no- 
bili ad  ano  ad  uno,  ma  investono  e scacciatio  in  un 
globo  tutti  i migliori  della  città  : E- ciò  che  è peggio  j 
non  permettono  nemméno  che  contraddiciate  Biro  , e 
V atterriscono  con  darvi  per  i sospetti  , e calunniarvi 
come  complici  de’ segreti  disegni  ^ con  dirvi  ben  tosto 
inimici  del  popolo  , e citarvi  al  popolo  stesso  , per- 
chè -subiate  la  pena  de’  discorsi  qui  fatti.  Ma  su  ciò 
diremo  altrove  pià  acconciamente.  Ora  per  istringere 
e non  prolungare  il  discorso  , ammoniscavi  che  vi 

PTOIftCr  , tomo  in.  ' it 


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242  DELLE,  antichità’  ROMANE 

guardiate  da  codesti  turbatori  di  'Jioma  , dti  codesti 
seminatori  de’  mali.  Nè  celerò  già  al  popolo  quanto 
qui  dico  ; ma  gli  sporrò  liberissimo  che  non  pendo 
su  lui  niente  di.  male  , se  non  quanto  glien  fanno  i 
tristi  ed  insidiosi  ..tribuni , benevoli  ne'  sembianti  e 
nemici  ne' fatti.  Sorse  al  dire  del  console  clamore  m» 
tomo  ed  applauso  ben  grande , e sciolsero  1’  adunanza 
senza  ^pertncHve  che  '^pià  i tribuni  parlassero.  Dopo  ciò 
Yergiaio  convocato  il  popolò,  vi  accusò  il  Senato  ed  i 
consoli.  Ma  Clandio  ve  li  escusava  apptmio  co’  discorsi 
tenuti  in  Senato.  Presero  i più  discreti  del  popolo  per 
vana  quella  paura:  ma  i più  sjolidi  per -vera,  credendo 
le  dicerie  : e quanti  ne  erano  I più  soellerali , ^anti  i 
più  bisognosi  ognora  di  un  cambiamento , vi  xercaròno 
un  pretesto  -di  sedizione , je  di  torbido  , doù  che  mi> 
ressero  a far  disceraere  il  Vero  dal  falso. 

XIV.  Intanto  un  Sabino  non  ignobile  di  lignaggio  , 
potente  in  averi  (Appio  Erdonio  ih  chiamavano.)  si 
pose  in  cuore  di  - abbattere  la  potenza  romana  , sia  che 
ne  cercasse  per  sé  la  tirannide  , sia  che  una  grandezza 
ed  un  dominio,  ai -Sabini,  sia  che  tina  fama  luminosa 
al  suo  nome.  Comnni'catosi,  in  quanto  a tale  idea,  con' 
molti  amici , divisata  là  maniera  dell’  impresa  , ed  ap- 
provatone ; riuni  li  clienti , e li  più  baldanzosi  de’  servi 
suoi.  Concentrati  In  poco  tempo  intorno  a quattro  mila 
uomini , ed  apparecchiate  arme,  viveri  , e quanto  biso- 
gnava per  una  guerra,  gl’  imbarcò  su  legni  fluviali.  ?ia- 
vigando  sul  Tevere  , gli  approssimò  a Roma  dalla  ban- 
da, ove  sorge  il  Campidoglio  , non  lontana  nemmeno 

uno  stadio  dal  fiume.  Era  la  notte  in  sul  mezzo:  ed  in 

» ’ 


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LIBRO  X.  243 

Roma  calma  grandissima.  Egli  dunque  al  favore  di  que< 
sté  , sbarcati  sollechamente  i suoi , gl’  intromise  in  città 
per  una  porla  che  stavasi  aperta  ^ed  aperta  era  a nor- 
ma dell’  oracolo  una  porta  s^enr  del  Campidoglio  chia- 
mala Carmenlale  (i))  e cosi  prese  il  Campidoglio.  Di 
là  spingendosi  verso  la  fortezza  , che  vi  è contigua,  in- 
vase anche  questa.  Era  disegno  sno^  doq>o  ottenuti  i 
luoghi  piu  acconci,  ricever^  gli  esuli,,  liberare,  gli  schiavi, 
sdebitar  con  promesse  i poveri , e consociare  a sestesso 
4utti  gli  akti  cittadini  clie  dal  basso  loro  stato  invidia- 
vano ..ed  odiavano  i potenti,  e seguivano  con  diletto  la 
mutazione.  La  iipniagine.  che  deludevalo  intanto  che  lo 
isperariziva  di  ottenere  quanto  aspettava , era  la  civil 
sedizione,  per  la  quale  concepiva  che  più  non  vi  fosse 
amicizia  , nè  ligame  tra  i plebei  e tra’  patrizj.  Che 
non  fosse  a lui  riuscita  ninna  di  tali  cose  r allora  dise- 
gnava chiamare  con  tutte  le  milizie  i Sabini , i Yolsci 
ed  altri  vicini , quanti  voleano  iredimerst  dal  giogo  ese- 
crato de’  Romani.  . ^ ' 

XV,  Occorse,  però  che  s’ ingannasse  in  lutto  ; jmpe«> 
aocchè  nè  si  diedero  a lui  gli  schiavi,  dè  gli  esuli  ripa- 
triaronb,  nè  gl’ indebitati  q disonorali 'anteposero'!’ utile 
proprio  al  comune,  nè  i sqcj  esterni  ebbero  spaziò  ab- 
bastanza da  preparare  la  guerra:  giacché  tale  affare,  che 
diede  tanta  paura  e turbamento  a^  Romani  , ebbe  Gne 
ben  tosto  ne’  primi  tre  o quattro  giorni.  E per  verità  , 
presa  appena  la  fortezza  , datisi  gli  abitanti  dei  luoglù 

(1)  Questa  porta  fu  chiamala  ancora  scellerata  perchè  poterono 
per  essa  uscire  ma  non  tornare  i Pabj  che  andarono  a Cremerà 
contro  i Toscani  j come  iuiUcano  Testo  ed  Ovidio.  Fasi.  a. 


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a 44  DELLE  AWriCHITA”  ROMANE 

intorao  che  non  erano  rimasti  uccisi  , a gridare  e fug-' 
gire  ; il  popolo  non  sapendo  che  mai  fosse  , impugnò 
le  armi , e Corse  parte  ne*  siti  eminenti  y o ne’  spaziosi  , 
che  eran  molti , della  città , e parte  ne’  campi  vicini. 
Quanti  perduto  il  fiore  degli  anni  erano  nella  impotenza 
delle  forze  , salirono  colle,  mogi)  ai  tetti  delle  case  per 
combattere  di  là  li  forestieri , parendo  loro  ogni  luogo 
pieno  di  nemici.  Fatto  giorno,  come  seppesi  che 'erano 
in  città  prese^  le  fortezze , e chi  prese  le  avesse  ; i coa- 
soli andarono  al  Foro , e chiamarono  i cittadini  alle 
arme.  Li  tribuni  convooita  la  ' moltitudine  dissero  che 
non  voleano  far  cosa  contraria,  alla  patria  ne’ suoi  peri- 
coli ; ma  che  riputavaào  giusto , che  il  popolo  il  'quale 
espoùevasi  a tanto  cimento  vi  si  esponesse  con  patti 
espressi  : Se  i patrìzj  , diceano , promettono  , chiamarti 
done  mallevadori  gli  Dei,  che  Jinifa  la  guerra  cìoon^ 
cederanno  di  creare  i legislatori  , e di  vivere  pari  a 
noi  ne  diritti  per  t avvenire;  liberiamo  con  essi 'la 
patria  : ma  se  ricusano  ogni  partito  di  moderaziode  ; 
e perchè  mai  cimentarsi  ?'  perchè  gettile  la  vita , 
quando  niun  bene' ce  ne  ridonda  ? Mentre  cosi  dice- 
vano ed  il  popolo  se  >ne  persuadeva  tiè  udiva  le  voci 
di  chi  altro  gli  suggerisse  ; Claudio . disse  ohe  non  tJ>- 
bisognavasi  di  tali  che  soccorressero  la  patria  non 
volontari , ma  per  prezzo  e non  ' lieve  : che  i pcurizj 
armando  sestessi  e i clienti,  e chiunque  univasi  loro 
spontaneamente  assedierebbero  le  fortezze  ; Che  se 
tali  milizie  non  pareano  sufficienti;  ne  chiamerebbero 
ancora  dai  Latini  e dagU  Ernici  : e se  la  necessità 
stringesse , prometterebbero  la  libertà  agli  schiavi  : 


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LIBRO  X.  245 

cAe  infine  inviterebbero,  tutti,  piuttosto  che  quelli  che 
in  tal  congiuntura  profittavano  della  odiosità  de'  vec~ 
chj  fatti.  Contraddiceva  a tanto  Valerio  1’  altro  console  : 
e giudicando  che  non  dovesse  mettersi  in  guerra  coi 
patris)  la  plebe  già  adirata  con  essi  .-consigliava  che  si 
cedesse  al  tempo  : si  pretendesse  da'  nemici  esterni  il 
diritto:  ma  si  usasse  helle  gare  domestiche  equità  e 
dolcetta,  E sembrato  egli  al  più  dei  padri  di  aver  dato 
il  consiglio  migliore,  ne  venne  all’ adunanza  del  popolo, 
e tenutovi  un  ' conveniente  discorso  , lo  ■ terminò  , giu> 
rando  , che  se  i plebei  si  unissero  a , lui  con  ardore 
sella  guerra,  q, riordinassero  le  cose  della  città;  con- 
cederebbe ai  tribuni  di  far  discutere  al  popolo  la  legge 
che  essi  progettavano  su  la  eguaglianza  ne’ diritti,  e che 
terrebbe  modo  onde  ciò  che  fosse  à questo  piaciuto  si 
eseguisse  nel  suo  consolato.  Ma ‘non  portava  il  destinò 
eh’  egli  adempiesse  alcuno  de’ patti,  seguendolo  ornai  da 
presso  la  morte.  . • 

XVI.  Sciolu  i’ adunanza  , intorno  a’ crepuscoli  ve- 
spertini accorse  ciascuno  a’  suoi  posti  per  dare  a’  capi  il 
suo  nome,  ed  il  militar  giuramento;  e fra  tali  due  cure 
si  consnmò  qncl  giorno  e la  notte  che  lo  segui.  - Nel 
giorno  appresso  furono  compartiti  e còllocati  da’  consoli 
i tribuni  sotto  le  insegne  sante , aiTollandovisi  la  niolti- 
tndine  ancora  abitatrice  della  campagna.  Ordinata  così 
ben-  tosto  ogni  cosa , i consoli  divisero  le  milizie,  e ne 
tirarono  a sorte  il  comando.  A Claudio  toccò  d’ invigi- 
lare innanzi  le  mura  , aIBnché  non  entrasse  in  sussidio 
altr’  armata  di  fuori  ; perocché  sospettavasi  di  un  moto 
assai  grande,  e temeasi  che  piomberebbero  forse  tutti  i 


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2 46  DELLE  antichità’  ROMANE 

nemici  su  loro.  Portò  la  sorte  che  Valerio  si  mettesse 

all’  assedio  delle  fortezze.  Altri  duci  furouò  destinati  sb 

I 

di  altri  luoghi  muniti,  interni  alla  città ^ ed  altri  su  le* 
vie  che  menano  al  Cartipidoglio  per  impedire  che  vi 
passassero  al  nemico  gli  schiavi  e li  bisognosi  temuti 
soprattutto.  Non  venne  a Roma  sussidio  di  alieniti  , se 
non  de’  Tnscolaili , informati  ed  apparecchiati  in  una 
notte  e guidati  da  Lucio  Mamilio  , uomo  operosissimo , 
e capo  allora  della  nazione.  Questi  soli  entrarono  con 
Valerlo  a parte  de’  pericoli  , et  dimostrandovi  Ihtta  la 
benevolenza  e lo  zelo  ; rivendicarono  con  eSso  le  for- 
tezze. Diedevisi  da  tutte  le  parti  1’  assalto  : chi  adattava 
su  le  donde  vasi  pieni  di  bitume  e ■ pece  incendiaria  , 
e lanciavali  dalle  case  vicine  in  sul  colle  : chi  recava 
, fasci  di  sarmenti  , e fattine  cumoli  ben  àltj  su  lo  sco- 
' sceso  della  rupe  gli  ardeva , lasciando  che  il  vento  ne 
trasportasse  le  damme:  i più  magnanimi  ristrettisi  nelle 
Schiere  salivan  alto  di  su  per  vie  manufatte  : ma  la 
motti(udine  colla  quale  tanto  sorpassavano  1*  inimico  , 
niente  giovava  ad  essi  che  ascendevano  per  sentiero 
angusto , pièno  sopra  di  sassi  da  trabalzameli , e tale 
che  i pochi  vL  divenivano  bastanti  contro  i mólti  : nè 
la  costanza  acquistala  tra  le  molle  ‘‘guerre  incontro  ai 
pericoli  valeva  punto  per  chi  rampicavasi  diritto  sa  pei 
scogli.  Pcroccliò  facessi  la  battaglia  con  colpi  lontani  e 
Dòn  a corpo  a corpo  onde  moslraiwi  audacia  e forza  ; 
le  arme  lanciate  da  basso  in  alto  giungevano  , cotn  -è 
verisimile , se  colpivano , languide  e tarde  ; laddove 
quelle  scagliate  dall’  alto  in  basso  piombavano  penetranti 
e piene  , secondandone  il  peso , \ lor  tiri.  Non  però 


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LIBRO  X.  247 

invilivano  gli  assalitori  , ma  persistevano , necessitati , 
tra'  mali , senza  rèquie  alcuna  diurna  o notturna  : tanto 
che  mancate  finalmente  agli  assediati  le  arme  e le  forze, 
dopo  il  terzo  giorno  gii  espugnarono.  Perdeèouo  i Ro« 
mani  in  questa  battaglia  molti  valentuomini , ed  il  con- 
sole', valentissfmo , come  tutti  concedono.  Costui  seb- 
bene ricevute  molte  ferite  , non  si  levava  da’  perìcoli  : 
ma  saliva  tuttavia  la  rocca , finché  gli  precipitarono  ad* 
dosso  un  macigno  , che  gli  tolse  • la  vittoria  e la  vita. 
Espugnata  la  fortezza , Erdonid  robustissimo  che  era  di 
corpo-,  e bravissimo  in  arme  , destò  strage  incredibile 
idtornct  di  sé,  ma  sopraffatto  infine  dai  colpi  morì.  Tra 
quelli  che -avevano  occupato  con  esso  il  castello,  pochi 
furoRO  pigliali  vivigli  più  trafissero  sestessi,  o perirono 
precipitandosi  dalla  rupe. 

XVII.  Finito  cosi  l’attacco  de’ Ladroni,  i tribuni  ri- 
produssero le  ‘interne  discordie  , chiedendo  dal  console 
superstite  che  adempisse  le  promesse  circa  la  istituzioa 
della  legge  fatte  loro  da  Valerio , estinto  nella  battaglia. 
Trasse  GlandLò  in  lungo  qualche  tempo,  ora  con  espiar 
la  città , ora  con  fare  agl’  Iddii  sagrifiz)  di  ringrazia- 
mento , ed  ora  dilettando  il  popolo  con  spettacoli  e 
giuochi.  Alfine  mancatigli  tutti'!  pretesti  disse,  che  do- 
vessi nominare. in  luogo  del  defunto  un  altro  console, 
perocché  le  cose,  fìtte  da  lui  solo  non  sarebbero  né  le- 
gutime  ',  né  salde,' ma  salde  saqebbero , e legittime  fatte 
da  ambedue.  Respintili  con 'questa  replica,  prefisse  il 
giorno  pe’  oomizj  ove  farsi  un  collega.  Intanto  i capi 
dei  Senato  concertarono  con  maneggi  occulti  fra  loro  il 
console  da  eleggersi.  Venuto  il  giorno  de’comizj,  quando 


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248  DELLE  Antichità’  romane 
il  baDclitore  chiamò  la  prima  classe,  le  diclotto  ceniarie 
de’ cavalieri  e le  ottanta  de’fanti  ricchi  di  più  possideusa 
entrate  nel  luogo  dimostrato  nominarono  console  Lncio 
Quìdeìo  Cincinnato,  il  cui  figlio  Cesone  ridotto  a già* 
di^o  capitale  da’  tribuni , avea  per  necessità  lasciato  la 
patria:  >nè  più  si > chiamarono  altre  classi  a dare  il  lor 
voto,  giacché  le  centurie  che  lo  aveano  dato  superavano 
per  tre  centone  le  rimanenti.  Il  popolo  si  ritirò  prono- 
sticando il  suo  male , perché  sarebbe  il  consolato  in 
mano  di  chi  lì  odiava.  Il  Senato  spedi  uomini  che 
prendessero  e menassero  il  suo  console  al  comando. 
Quinzio  arava  allora  per  avventura  un  campo  per  se- 
minarvi , ed  egli  stesso  scinto  di^  tonica , col  pilco  in 
testa , e con  fascia  ai  lombi , teneva  dietro  ai  bovi  che 
lo  fendevano.  Or  vedendo  i molti  che  a lui  si  recavano, 
fermò  1’  aratro , e dubitò  buon  tempo  chi  fossero  , e 
perchè  sen  venissero  ; ma  precorrendo  un  tale  ed  am- 
monendolo ad  acconciarsi  , andò  nell’  abituro , e accon- 
ciatovisi  riuscì.  Gli  uomini  spediti  a riceverlo , lo  salu- 
tarono tolti  non  dal  suo  nome  , ma  come  console  : e 
messagli  la  veste  circondata  di  porpora , e dategli  le 
scuri , e le  altre  insegne  de’  consoli , lo  pregarono  che 
in  città  si  portasse.  £ colui  soprastando  alcun  tempo  e 
lagrimandone  disse  : questo  mio  campiceUo  . in  qilesto 
anno  restar^  dunque  non  seminato,  ed  io  correrò  pe- 
ricolo di  non  avere  come  alimentarmene.  E qui  salu- 
tata la  consorte,  ed  intimatole  che  provvedesse  alle  coso 
dimestiche , sen  venne  a Roma.  Or  questo  mi  son’  io 
condotto  a dirlo  non  per  altra  cagione  , se  non  perchè 
sì  conosca  quali  erano  allora  i primarj  di  Roma,  come 


Dicitt  i GoOgIc 


LIBRO  X.  249 

operosi  , collie  savj  ; e come  , non  che  gravarsi  di  noa 
povertà  onorata  , ricusavano  , non  ambivano  i sovrani 
poteri.  Dal  che.  sarà  manifesto , che  i moderni  non  so* 
migliano  a quelli  nemmen  per  poco  , eccettuatine  ai- 
quanli , pe’  quali  vive  ancora  la  maestà  romana  e ser- 
basi una . immagine  di  que*  tempi.  Ma  basti  su  ciò. 

XVIII.  Quinzio  preso  il  consolato  (i)  chetò  li  tribuni 
dalle  innovazioni  e dalle  brighe  su  la  legge  , con  inti- 
mare , ehe  àc  non  la  finivano  , porterebbe  tutti  i citta- 
dini fuori  di  ' Roma  , minacciando  una  spedizione  sui 
Volsci.  E replicando  i tribuni  che  lo  avrebbero  impe- 
dito di  arrolare  l’esercito;  egli  convocata  un’  adunanza, 
disse  che  lutti  si  erano  vincolati  col  giuramento  militare 
di  seguire  a qualunque  guerra  fossero  chiamati,  li  con* 
soli;  come  di  non  lasciar  le  bandiere  e di  non  far  cosa 
contro  Ja  legge.  Diceva  che  con  assumere  il  consolato, 
ei  tenevali  tutti  sotto  quel  giuramento.  Ciò  detto , giu-> 
rando  che  si  varrebbe  delle  leggi  contro  gl’  indocili , 
fe’  cavar  le  bandiere  da’  tèmpli.  £ perchè  disperiate  di 
ogni  aggiramento  di  pòpolo  nel  mio  consolato  , non 
tornerò,  disse',  da  cnmpi  nemici  se  non  dopo  Jinitone 
il  tempo.  Apparecchiatevi  dunque  in  quanto  v è ne- 
cessario , come  per  isvernare  nel  campo.  Sbalorditili 
con  tal  parlare,  quando  li  vide  alquanto  più  mansuefatti 
supplicarlo  di  esser  liberi  dalla  spedizione,  dichiarò  che 
sospenderebbe  in  grazia  loro  la  guerra,  purché  non  fa* 
cessero  movimenti,  lasciassero  eh’  egli  reggesse  il  con- 
fi) Aanb  di  Roma  394  secondo  Catone,  996  secondo  Varrone',  a 
4S8  av.  Cristo. 


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aSo  DELLE  Antichità’  romane 

solato  a suo  modo,  e dessero  ed  esigessero  scambievole 

mente  il  giusto. 

XIX.  Calmata  la  turbòienza,  ristabilì  su  le  istanze 
loro  li  giudizj  interrotti  da  tanto  tempo  , ed  egli  straso 
decise  il  più  delle  cause  colla  equità  e colla  giustizia, 
sedendosi  quasi  tutto  il  giorno  nel  tribunale , > io  atto 
sempre  compiacevole , mite , umano  verso  de’  ricorrenti. 
Operò  con  questo  die  il,  governo  non  sembrale  aristo* 
cratico , che  i poveri , gl'  ignobili , ed  altri  infelici  co- 
munque conculcati  da’ potenti,  OOn  avessero  bisogno  dei 
tribuni, 'nè  desiderassero  piu  nuova  legislazione  per  es- 
sere trattati  cOn  eguaglianza  , anzi  che  amassero  e gra- 
dissero tutti  il  ben  essere  attuale  delie  leggi.  Fu  iodato 
nel  valentuomo  questo  procedere,  òome  pure,  che  fluito 
il  suo  comando , ricusasse  non  che  lieto  riaccettasse  il 
consolato  offertogli  nuovamente.  Imperocché  il  Sanato 
che  vedea  la  moltitudine  non  alièna  di  obbedire  aU’uom 
buono  , rivolealo  a grand’  istanza  nel  consolato , perché 
li  tribuni  brigavansi  a non  lasciare  uemmen  pel  terzo 
anno  il  magistrato,  ed  egli  sarebbesi  ad  essi  contrapposto 
rattenendoli  dalle  innovazioni  colla  verecondia  o col  ter- 
rore. Disse  che  non  appcovava  cJte  i tribuni  non  ce- 
dessero il  grado  loro  ^ ma  che  egli  non  incorrerebbe 
' neir  acciua  di  essi.  E convocato  il  popolo  e lamenta- 
tovisi  lungamente  de’  riottosi  a deporre  , il  comando  , 
giurò  solennissimamente  di  non  ricevere  il  consolato  in- 
nanzi di  averlo  ceduto.  E prefisse  il  giorno  pe’  comizi, 
e designativi  i consoli , si  ritirò  di  bel  nuovo  nel  suo 
picciolo  abituro  , c visse  , come  dianzi , col  travaglio 
delle  sue  mtini.  > 


X 


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LIBRO  X.-  aSi 

XX-  Divenuti  consoli  Fabio  Ylbolano  per  la  terza 
volta  , e Lucio  Cornelio  (i),  e celebrando  i patrj  spet> 
tacoli  , frattanto  circa  eeì  mila  Eqof , uomini  scelti , 
marciarono  in  lieve  armatura  nella  notte  , e la  notte 
durando  ancora  giunsero  al  Tuscolo  , città  latina  , di*- 
stante  nemmeno  di  cento  stadj  da  Roma.  Trovatene 
aperte  come  in  tempo  di  pace  , le  porte  , nè  '"custodite 
le  mura,  la  invasero  al  giunger  primo,  in  odio  de’Tu- 
scolaci  > perchè  erano  gli  ardenti  cooperatori  dei  Ror 
mani , e principalmente  perchè  essi  gli  unici  aveano 
fatto  causa  - di  guerra  con  loro  nell’  assedio  del  Campi- 
doglio. Uccisero  certo  degir^uomini , non  però  molti 
nella-  invasione  della  città  ; perocché  mentre  prendeasi 
quei  che  v’ -erano  , eccetto  gl*  invalidi  per  vecchiezza  e 
per  mali , fuggirono ^ spingendosene  fuori  per  le  porte. 
Fecero  prigionieri , le  donne , i fanciulli,  i servi,  e 
diedero  il  sacco  alle  robe.  Nunziatasi  in  Roma  la  espu- 
gnazione,, i consoli  conclusero  che  si  dovesse  bemosto 
provvedere  ai  fuggitivi  e rendere  loro  la  patria.  Oppo- 
nendosi però  U tribuni,  non  permettevano  che  si  arro- 
lasscr  soldati,  se  prima  non  si  desse  il  voto  su  la  legge. 
Cònlurbandosene  il  Senato,  e ritardandosi  là  spedizione, 
sopravvennero  altri  messi 'da’  Latini  colia  nuova  che  là 
città  di  Anzio  erasi  manifestamente  ribellata,  accordan- 
doviki  i Volsci  , antichi  abitatori  di  essa,  e, li  Romani 
venutivi  come  coloni  , e compartecipi  de’  terreni.  Giun- 
sero contemporaneamente  de’  nunzj  ancora  dagli  Eroici 
e dissero , che  già  era'-  uscita  , e già  stava  nel  lor  ter- 

(i)  Adqu  «li  Roma' 395 secondo  Catone  , 397  secondo  Varrone-,  « 
457  av.  Cristo. 


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aSa  DELLE  Antichità’  romane 
ritorio  un  armata  grande  di  Volaci  e di  Equi.  A tali 
a^unzj  parve  al  Senato  che  dovesse  > ornai  ,non  indù* 
giarsi  , ma  corrersi  con  tutte  le  forze  da  entrambi  i 
consoli  : e che  chiunque  ciò  ricusasse  , romano  o con- 
federato : si  avesse  per  inimico.  Or  qui  li  tribuni  cede- 
rono  , e li  consoli  descrissero  quanti  aveano  età  milita- 
re, e* convocate  le  truppe  alleate,  uscirono  bentosto  in 
campo  ; lasciando  il  terzo  delle  milizie  urbane  in  guar- 
dia di  Roma.  Fabio  n*  andò  di  fretta  coIF  esercito  su 
gli  Equi  fra’  Tuscolani  : li  più  di  quelli  saccheggiata  la 
città  , sen’  erano  già  ritirati  : ma  pochi  ne  difendevano 
ancora  il  castello.  E questo  assai  forte , uè  bisognavi 
molto  presidio.  Adunque  alcuni  dicono  che  le  guardie 
del  castello , dal  quale,  come  elevato , scopronsi  dj  leg- 
geri tutti  i dintorni , vedendo  uscire  da  Roma  un’  ar- 
mata, lo  abbandonassero  spontaneamente:  altri  però  di- 
cono , ebe  postovi  da  Fabio  l’ assedio  si  renderono  a 
patti , e passando  sotto  giogo  ebbero  in  dono  lai  vita. 

XXI.  Fabio  venduta  la  patria  ai  Tnscolani,  levò  l’e- 
aercito  sul  far  della  sera , e marciò  di  tutta  fretta  coiv 
tro  a’ nemici  ^ Equi  e Volsci  che  accampavano,  come 
udiva  , con  armata  numerosa  intorno  alla  città  dell’  Al- 
gido. Viaggiando  tutta  la  notte  si  trovò  su  l' alba  a 
fronte  dei  nemici  alloggiati  nel  piano  senza  vallo , senza 
fossa,  come  nel  proprio  territorio',  con  disprezzo  degli 
avversar).  Or  qui  confortati  i suoi  a farla  da  valentnq- 
mini , piombò  prima  sul  campo  nemico  con  la  cavalle- 
ria , mentre  i frati  alzato  il  grido  militare  la  seguita- 
vano- Altri  furono  uccisi  che  dormivauo , altri  che  sorti 
appena  davano  all’  armi , e volgeansi  a resistere  : ma  li 


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LIBRO  X.  a53 

più  gettaronsi  alla  fuga  e si  dispet^ro.  Presi  con  molta 
fiicilltà  gli  alloggiamenti,  concedette  a’ suoi  che  vi  s’im- 
padronissero di  robe  e persone,  salvo  quanto  era  dei 
Tuscolani.  Non  istette  quivi  gran  tenapo  , e menò  1’  ar- 
mata'su  la  città  degli  Eccctrani,  riguardevolissima  allora 
tra  quelle  de’  Volaci,  e fondata  in  fortissimo  luogo.  Te- 
nutovisi  più  giorni  da  presso  coll’  esercito  su  la  Speranza 
che  quei  d’  entro  uscissero  per  combattere  , nè  uscen- 
done ; diedesi  a devastare  la  loro  campagna  piena  di 
bestiami  e di  uomini;  non  avendone  gii  assediati  ritirato 
prima  ciò  che  v’  era  pel  troppo  repentino  giungere  dèi 
nemici.  Fabio  'lasciò  che  i soldati  facessero  anche  qui 
le  prede  per  loro , e consumati  più  giorni  nel  farle  ; 
alfine  con  essi  ripatriò.  Cornelio  T altro  console  mossosi 
contro  i Romani  di  Anzio,  e li  Volsci  sen’ imbattè  col- 
r esercito  loro  che  l’aspettava  a’ confini.  Fattovisi  alle 
mani  , uccisine  molti , e fugatine  gli  altri , s’ avanzò  col 
campo  fin  presso  fe  mura:  ma  non  osandovisi  più  uscirne 
a combattere  ; prima  desolò  la  lor  terra , e poi  ne  rin- 
chiuse la  città  con  fossi  e steccati.  Vinti  allora  dalla 
necessità  , ne  uscirono  novamente  con  tutte  le  forze  , 
che  erano  molte  si , ma  disordinate.  Paragonatisi  in  bat- 
taglia , sostenutala  , ancor  peggio , e fuggitine  scoraggiti 
e svergognati , si  rinserrarono  un’  altra  volta  tra  le  mura. 
Il  console  non  dando  ad  essi  tempo  di  riaversi , portò 
le  scale  alle  mura,,  e ne  abbattè  con  gli  arieti  le  porte: 
e cenciossiachè  da  entro  vi  resistevano  affaticati  e lan- 
guidi; ve  li  espugnò  senza  molto  travaglio.  Quanto  eravi 
monetato  , quanto  di  oro , di  attuto , di  rame,  fe’  por- 
tarlo neU'erario  : gli  schiavi , e le  altre  prede  le  fe’  rac- 


I 


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2 54  DELLE  Antichità’  romane 

cogliere  e venderle  da’  questori  ; lasciando  a’  soldati , 
quanto  ve  n era  , alimenti , vesti , e cose  • altretuli  di 
lor  giovamento.  Poi  scelti  tra  i coloni  e t^a  gli  Anziaii 
nativi  i capi,  clie  eran, molti,  più  cospicui  della  rivolta, 
e battutili  lungamente  e decapitatili  inSne , si  ravviò 
coir  esercito  alla  patria.  Il  Senato  usci  all*  incontro  dei 
consoli  che  tornavano  , decretando  che  ambedue  trion» 
lasserò:  si  concordò,  per  finire  la  guerra,  cogli  Equi, 
che  aveano  perciò  spediti  oratori , e nei  patti  fu , che 
ritenessero  le  cittò , e eie  terre  che  *aveauo  nel  tempo 
che  si  conehindeva  la  pace , ma  ubbidissero  ai  Romani; 
non  pagassero  tributi,  ma  somministrassero  ideile  guerre, 
come  gli  altri  alleati  , truppe  ausiliarie.  secondo  >1  biso- 
gno : e con  ciò  l’ anno  spirò. 

XXII.  L’anno  appresso  (i)  fatti  consoli  Cajo  Nauzio 
per  la  seconda  volta,  e Lucio  Minu^io  ebbero  per  qual- 
che tempo  guerra  domestica  su’  diritti  civili  con  Vergi- 
nio  e li  compagni  di  lui , tribuni  già  da  quattro  anni. 
Ma  poi  venendo  alla  città  guerra  da-’ popoli*  iotorno , e 
paura  che  le  tógliessero  il  régno  ; presero  con  trasporto 
l’ evento  come  dalla  fortuna  : e fatti  i cataloghi  militari , 
divise  in  tre  parti  le  milizie  interne  e confederate,  e 
bsciatane  una  in  città  sotto' gK  ordini  di  Fabio  Vibo- 
lano  ; essi  alia  testa  delle  ^ altre  uscirono  immantinente  , 
Nauzio  contro  de’  Sabini , e Minucio  contro  degli  Equi. 
Iniperoccbé  questi  due  popoli  s’ erano  di  que’  giorni  ri- 
bellati a’  Romani  : li  Sabini  manifestamente  tanto,  che  si 
erano  avanzati  sino  a Fideue,  città  dominati  da  Roma, 

(i)  Anno  di  Roma  396  secouòo  Catone,  398  secondo  Varrouc  , e 
456  av.  Cristo. 

I 


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- UBRo  X.  a55 

che  ne  era  distante  quaranta  stadj  ; laddove  gli  Equi 
ferbavano  colle  parole  i ^diritti  dell’  ultima  pace  ; facen- 
dola nelle  opere  da  nemici,  con  movere  guerra  ai  La- 
tini , confederati  di  Roma , quasi  i^el  trattato  di  pace 
non  «ressero  mcbiuSo  ancor  essi.  Comandava  l’armata  loro 
Gracco  delio  ^ uomo  intraprendente  , che  avea  renduto 
quasi  regio  il  potere  arbitrario  di  cui  era  stato  adornato. 
Costui  ne  andò  fino  al  Tuscolo  , città  pigliata  e sac- 
cheggiata ancora  nell’  anno  antecedente  dagli  E^ui,  che 
poi  ne  furono  espulsi  dai  Romani , e rapi  dalle  campa- 
gne quanti  uq  sorprese‘ uomini  in  copia-  e bestiami , 
guastandovi  i fruiti  , buoni  già  da  ricoglierli.  E giunta 
un’  ambasceria,  dal  Senato  per  intendere  le  cause  per  le 
quali  guerreggiavano  contro  gli  alleati  de’Romani  quando 
erasi  di  fresco  giurata  pace^con  essi , nè  frattanto  era 
occorso  disturbo  alcuno  tra’due  popoli , e dovendo  que- 
sta ammonir  Clelio  a dimettere  i prigionieri  che  avea 
di  quelli , a ritirare  1’  armata  , e ‘ subire  il  giudizio  su 
le  ingiurie  o danni  fatti  a’ Tuscolani  ; colui  s’  indugiò 
lungamente  scuz’  abboccarsele come  impedito  dalle  oc- 
cupazioni. Alfine  quando  gli  parve  tempo  di  ammettere 
r ambasceria,  e quando  i.  membri  di  essa  ebbero  espresso 
gli  annunzi  del  Senato  $ egli  Soggiunse:  Mi  meraviglio, 
o Romani,  come  voi  per^dominare  e tiranneggiare., 
temale  per  Turnici  lutti  gli  uomini , anche  senza  es- 
serne  offesi.  Voi  non  permettete  che  gli  Equi  si  venr 
dichino  de'  Tuscolani,  contrarj  loro.,  senza  che  ciò  si 
concordasse  nella  pace,  firmala  con  voi.  Se  dite  che 
abbiamo  oltraggiato  e danneggialo  voi  ; vi  rinlegre- 
temo  a norma  de'  patti  : ma  se  venite  a chieder  conto 


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2 56  dell?:  Antichità.’  romane 

su  Tuscolani  ; nienle  vale , che  a me  parliató , o vai 
quanto  parliate  con  quella  pianta;  e frattanto  additò 
loro  un  &ggio  (i) , che  prossimo  frondeggiava. 

XXIIL  I Romani  cosi  vilipesi  da  colui  non  cavarono 
subito , abbandonandosi  all*  ira , gli  eserciti  : ma  repU- 
carono  un  altr  ambasceria , e mandarono  i Feriali  che 
chiamano  , uomini  sacrosanti , . per  attestare  i genj  ed  i 
numi , che  essi  porterebbero , necessitati , una  guerra 
legittima  , se  non  erano  soddisbuti  ; e dòpo  ciò  spedi- 
rono il  console  colle  milizie.  Gracco  all’,  intendere  che 
i Romani  venivano,  levò  l’esercito,  e lo  portò  più  ad* 
dietro,  seguendolo  pasto  passo  i nemici.  Egli  volea  ri- 
durli in  luoghi  da  vantaggiarsene  ^ come  addivenne. 
Imperocché  tenendo  in  mira  una  valle  cinta  da  monti, 
non  si  tostò  i Romani  vi  s’ internarono , egli  voltò  fac- 
cia , e si  accampò  su  la  strada  che  conduce  fuori  di 
quella.  Segui  da  questo  ,.che  i Romeni  misero  il  campo 
non  dove  il  volevano  , ma  dove  la  circostanza  lo  per- 
metteva. Ivi  nè  era  facile  il  pascolo  pe’  cavalli , per.  es- 
sere il  luogo  chiuso  da  monti  ripidissimi  e nudi  ; nè 
facile  I dopo  aver'  consumato  quelli  che  portavano  , pro- 
cacciare a sestessi  gli  idimenti  dalle  terre  nemiche  , o 
mutare  il  campo;  standogli  a fronte  i nemici,  e, proi- 
bendone r uscita.  Risolverono  dunque  usar  la  violenza , 
e cacCiaronsi  avanti  per  la  battaglia  : ma  respinti  e feri- 
tivi largamente  si  richiusero  fra  le  loro  trincee,  delio 
inanimato  dal  buon  succedo  li  circondò  con  fosse  e 
steccali  , su  la  fiducia  che  premuti  dalla  fame  gli  si 

« 

(>)  Lìtio  chiama  quèrcia  quella  che  i delta  fiisgìo  da  Dioiùgi. 


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LIBRO  X.  2,5'J 

reoJerpbbero.  Giupta*  in  i\oma  la  ao|i»a  di  ciò.  Quinto 
FabÌ9  lasciatovi  comandaute,  scelse  il  fiore  ed  il  nerbo 
suoi  militari, , e li  spedi  per  soccortere  il  console  , 
sotto  gli  ordini-  di -Tito  Quinzio  uome  cousoUre  , e 
questore.  Mapdò , oopomeno  letiére  a rCsuaio  <ehe  tenea 
r esercito  ira’Sabini,  dichiarandogli  ia  stlnaziooe  di  Mi- 
nucio , e chiedendo  che  venisse  immantinente.  ^ oolui, 
fidato  il  canapo  .a'iuogotenenti,  venne  con  altri  cavalieri 
in  corso  rapidissimo. a Rodia.  Entratavi  jdt -notte  cup  , 
consultato  visi  con  F^ip  e eoa  allri  seniori  sù,cli^  che 
losae'^a.  fare  , e concedutosi  da  ttiHr  che  abbisogqavasi 
di  un  dittaiqre,  nominò  a tal  grado  Lucio  Cincinnato; 
e ciò  fatto,  rfyolò  nel  suo  <»nipo. 

I XXIV,  Fabio  il  coqMqdaqte  di  Roma  spedi  deputati 
che  assnmefeero  -QuinzÌ9  .al  comando.  Per  avventura 
egli  faceva  allora  alqualt  deile  campestri  sue  cose.' - Ve- 
duta,-la  moltitudine,,  e sos^ttando  bhe  a lui  ne  venisse, 
prese  abito  piò  conveniente,  e ne  andò  per  incontrarUi 
Ginotole  da  vicino , gli  app^senlaropo  cavalli  magnifi- 
camepte  bardati  , e le  scuri  * co’  vefttiqnattro  fasci,  e la 
veste -di  por[H>ra  , e le  .altre  insegne  ornamento  un 
tempo  de\.  re.  Saputo^  che  Roma  .oIeggeval(>  diltàtore  , 
non  solo  non ' si  rallegrò  di  up  4anio  onore,  ina  conr 
tuebandoseoe  disse , adiaufue  per  io  mio  occupdzioni 
perud',pw  e il  fi  allo  di  ifUest'  unno  e noi.tidti  rje 
avremo  grande  il', disàgio  ! Dopò  ciò  recatosi  a Ro- 
ma ( 1^,  confortò  su  le  prime  i cittadini  con  discorso  al 

(•y'-Amio  «li  Roma  agS  secu'mla  Caloof  , ajS  fecondo  Vsernas, 
t 4^  sv.  Lfista.  • . 

ZJYw.v/(;/ . /tZf  ' 


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258  DELLE  Antichità’  romane 
popolò'  dà'enapierlo  di  beile  speranze!  Poi'^coavocAti 
mai  i giovani  dalia  Oittà'  e dalia  campagnì , soncenlrate 
le  truppe  ausiliarie , e nominalo  maestret  de’  cavalieri 
.Lucio  ' Tarquinio  , 'ignobile  per  la  povertà  ma  nobilis- 
simo in  arme,  Usci  coll’esercito  riuaiio  e gianto  >af 
questore  Tito  Quinzio  c6e  io  aspettava , prese  ' pur  le 
sue  schiere  , e né  andò'  sul  nemico.  Appe'Oi#  ebbe  con- 
siderata la  natura  de' luoghi  ov’ erano  gli  accampamenti 
cOilooò  parte  dell'armatA  ntdie  aliuiié  onde  precladerc 
agli  ^quà  i sussidi  ed  i meri,  e' riieneodo 'seco  le  - ah  re 
naHizie  lé  avanzò  cOn  -ordiqe  de  'battaglia,  ■ GleliO  phnto 
tion  si  sbietti , perocché  nè  la  sua  gente  era  poca , 'Oè 
poco  il  cor  suo  nella  guerra,  e lo  seooti^  nel  sUo^  gia- 
gnerè , e ne  sorse  ■una  pugna  ostinata;  Era  decorso 
buon  tempo,  e li  Romani  oom'e  cresciuti ’fi'à'''  le  arme 
rinovavansi  Ognora  al  travaglio,  *e  la  cévallérià  soccorrea 
|yron;a  ove  erano  ì iaHti'*iti  pericolo.  Criccò  dunque 
Eopra0altone  , si  ritirò  nel  suo  cantpo.  Quinzio  ' éllora 

10  cifis^e  con  aho  steccato  e torri  frequenti ,-  e'  quando 
seppe  a!6nc  che  penuriava' de’ vivevi,  lo  investi  con  as- 
salii contigui  nel  stio  oéntfpo,' ordinando  a hSinucfó  che 
uscisse  dall^altVà  parte.  Esausti  gli  Equi  di  viveri  , di*- 
speraii  di  un  soccorso  ,*  -e  streiii  per  ogn’  intorno  Hal- 
r assedm  , furouo  nécéssitéti  à prender  ibr&a  *dì  ' su[^ 
{tlichevbli , e spedire  a Qoìozìq  per  la  pace.  E-  colai 
replicò  che  la  daitebbe , 'e  lasccrebbe*  agli  Equi  iSalva  la 
persona  , se  deponessero  le  arme  , é-  passassero  ad'  uno 
ad  uno  sotto  giogo:  traliersbbe  però' qual  nemico  Gracco 

11  capo  tkUa  guerra,,  e gli  altri  consiglieri  delia  rivolu. 
£ qui  comandò  che  gli 'recassero  tali  '^ùoraiai  in  ferri. 


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turno  X.  a59 

[/milìaVaiui  gli  Equi' a lutto;  quando' egli  ordioó,  che 
giacobè  aveano  senza  "esserne  oilest  previamettie , sog- 
gettilo e derubato  il  Tuscolo  città  coufederau  di  Ruma, 
essi  consegnassero  a lui  ' CorbioBe -,  città  loro  perchè  ne 
lutasse  altrettanto.  Prese  tali  -rrsposta  partirono  gli  ora- 
tori , e dopo  non  molto  tornarono  traendo  .con  st 
Gracoo  è i Compagni  incatenali.  Essi  poi  cedute  le  arme, 
e lasciate 'le  trincee  t ne  andarono  ^so  t(o  ^iogo,  come 
era  il  volere  del  diltaiort  , . à traverso  .del.èaiupo  ro- 
mano. Consegnarono  tiorbione  , e ebn  restituire  ,i  pri- 
gionieri tuscolaai  ottennero  soUmeotè  che  ialiti  prima 
ne  uscissero  gli  uomini  iagfenai. 

XXV.  Quinrio  ricevuta  ht"  città,  comaodd  ■ che.  le 
prede  pià -wgqardevoU  sr  trasportassero  in  Roma  , .con- 
cedéndo  che  le  altre  si  dispensassero  tra’  soldati  venuti 
con  esso,  e tra- gir  altri  spediti  prima  con  Quinzio  il 
questore  ;,  e"  soggiungendo  , che  a^  soldati  rinchiusi  «mi 
console.  Miiiudo  avea  dato  ànjplissimó  «lono , quando  li 
rivenaiet-  dajla-  morte.  Ciò  'fano  , obbligando  Minucio.a 
dhnettérsi  djl  suo  grado,  si  ripiegò  verso  IVoma,  e'ne 
menò.  Uionfo  luminoio,  più.  che  tutti  .i  duci  meuato- Io 
avessero perche  in  sedici  giorni  de’ die  avea  preso  il 
còniaotfo , 'uvea  salvalo  l’  esercilò  anaico,  disfatto  i’ altro 
floridissilno  de’  nemici  ; saccheggiata  la  loto  città  , mes- 
savi guarnigione,  e comku» va • séco  In  catene  il  capo, 
e.  gli  altri  primarj  di’qneUa  gueira.  . FaoeVa  soprattutto 
ùieravigliu  die  avtmdo  ricevuto  quel  magistrato  per  sci 
mési  non  sei  tenne  quuito  eonòedeva  la'>  legge  : • ma  coni 
vocata  la  plebe  , e ragipjiatuJe  delie  cos«r  operate  ; lo 
depose.  E pregandolo  il  Schato  che  prendesse  quanto 


260  DELLE  ANTÌCUITA’  ROMANE 
vote»  delle- terre , degli  schiavi delle  prede  conquistate 
colle  armi , e pressandolo  che  vivificasse  la  tenaiti  sua 
con  ricchexaa  ginata,  ché  egli  possederebbe  'glónosrsaitna, 
come 'tratta  colle  proprie  iàticbe  dal  nemico',  ed=o(fe« 
rendo'gli'  amici-  e pai'enli amplissimi  doni , e pregiando 
più  che  tutto'  adagiare  un  tal  uomo  , egli  ' lodatane  la 
cortesia,  non  prese  nulla,  ma  si  ricondusse  nel  piodolo 
suo  campicello  „ ' ed  antepose  ad  nna  splendida  vita  la 
vita 'tua  travagliósa,-  nobiliubdosi  per  la  ^povertà,  più 
che  altri  .non.  sogliaho  per  l’ opulenta.  Dopo  non  molto 
Nanzio  f altro  console  vinse  in  battaglia  i<  Sabini , e 
scorsa  e derubata  gran  parte  delle. loro  campfigoe’,  rw 
trasse  jn  patria  1’  esercito.  • 

XXVI.  Dopo  questi  magistrati  fa  la 
tesima  prima  , nella  quale  PolimnastQ 
nello  stadio^  essendo  Callia*!' «recate  di  Alene,  ed  in 
quest’ anuo  assunsero  in -Roma  il  consolato  Cajo,Oràzio, 
è Quinto  Minucio  (1^.  Sott’essi  mossero  i Sabini  nno> 
vamente  le  armi  contro  de’ Romani,  e scorKro- «accheg- 
jgiando  assdi  della  lòr  terra  tanto  che  quei  che'  veai« 
vano  int.copia  fuggendo  dalle  campagne,  dicevano  tatto 
in  poter  loro  , quanto  è tra  Fidene  e Cmstumera^  An- 
che gli  .Equi  sottomessi  ultimamente  sorsero^ im’ afira 
volta  alle  armi:  e recandosene  > tra  la  notte  i più  robusti 
a Corbìone , città  ceduta  da  essi  Panno  antecedente  ai 
Romani,  c sorpresavi, la  gnamigioDe  nel  sonno >;  ve  la 
uccisero,  salvo  podhi‘^  che"  per  .ventura  non  v’  erano.  Gli 
altri  marciarono  ju  gran  moltitudine  contro 'di  Ottona, 

(■)  Anno  di  Roma  397  'secondo  Catone,  399  seconda  Varronc,  a 
4S5  Cristo.  ■'  . 


olimpiàde  otlan» 
dr  Gitene  vinse 


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. LIBRO  X.'  . ^ • 261 

cìni  de*  Latini  , e -presala  a prim’ impeto,  fecero  per  la 
rabbia  su  gli  alleati  de’ -domani , docebè  non  potevano 
su’  Romani  medesimi  ' uccisero  tutti  > puberi , eccetto 
quelli -ette  efan  fuggiti  udì’ invadersi  della' cillà-r  rende-, 
rono  prigionieri,  donne,  fanciulli,  vecchj,,  e raccoltovi 
in  fretta  quanto  poteano  trasportar  di  pregevole ,' ripar* 
tirono  prima'' che  v’accorressero  tutti.!  Latini. ,11  Senato 
saputo  ciò  da’  Latini , e da’  militari  salvatisi  della  guarr. 
nigione , decretò  di 'iàr  uscir  le  milqsie  y e con  ùse  i 
due  consoli.  Ma  Verginio  e i colieghi , tribuni  già  da 
cinque  anni  davano  a ciò  ritardo  , opponendosi  come 
negli  -anni  antecedenti  alla  scelta  militare  , , che  faceasi 
pe’coqsojij.u  reclamando  che.  si  Sdisse  prima  la  guerra 
domestica,  -con  rimettere  al  popolo  l’esame  della. legge, 
che  davano  sò  la  eguagliauaa  .dei  diritti  : e la  plebe 
ooadjuvava  t ttibaui  che  asiaf  malignavano  , contro,  del 
Senato.  Imapto  temporeggiandosi , nè  comportando  i 
consoli,’ che  si  facesse  in  Senato  il  previo  decreto  su  la 
legge  e si  proponesse  al  - popolo  né  volendo  i tribuni 
concedere  la  leva  e la  marcia  delle,  milizie,  an^i  facen- 
dosi accuse  inutili  e dice^e  vicendevoli  belle  concioni  e 
nella  curia,,  alSne  fu  ideato  da’ tribuni -uu  altro  disegno^ 
che  sorprese  l padri  e chetò >U  sedizione  attuale,^~ma 
fu* causa  di  molto  ingrandimento  per  il  popolo:  ed  io 
sporrò  .come  il  popolo  se  lo  ebbe  questo  incremento. 

' XXVII.  Essendo  manomesso  e predato  il . territorio 
de’  Romani  e de’  cOufederati , e spaziandovisi  i nemici 
come  per  una  solitudine  su  la  speranza  che  nou 'Usci- 
rebbe oontr’  essi  esercito. alcuno  a causa  dcHe  sedizioni 
di  Róma,  i consoli  -adunarono-  il  Senato  per  consultare 


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3 DET.L5  ANTICHITÀ:’  BOMANE 

come  sy  pericolo  estcetno.  Tenutisi  raoUi  discórsi , li- 
ichestò  il  primo  dei*  parer  suo  Lucio- (^uiozio , il>  dit* 
latore  dellVarìBO,  aotecedents  , >ttomq  ,noo/^solo  -il  più 
grande  allora  fra  le  armi',*; ina  creduto  ancora-  savissimo 
nel  govefoo',  propose  il  coniglio  d ^ale  poi  persuase 
più  che  tnttq'i  tribuni  e gli  altri,  che  si  dij^erine  in 
tempo  più  accóncio  t esame  allora  ‘non  riecessario 
della  legge,  è si  /accise  con  tutta  prontezza  la  guerra 
alfutJe’,  scorsa  ornai  /no,  su  la  etllà  r nè  si  perdesse 
imbeflemente  e Mtuperosasnente  il  comando  con  tanti 
stenti  acqmstato.  H che  se  il  popolo  non  -ià-s'  tmi*- 
ceva;  si  armassero  patrizj  e clienti,  con- guanti  altri 
vòleano  far  causa  con  essi  in  qaeil  aringo  ‘nobilissimo 
della  patria,  e ne  andassero  ardenti  al  nemico,- pren^ 
dendo  per  duci  dell  andafpiento  i Numi 'protettori  di 
Roma.  Imperocché  ne  verrebbe  lune  'o  laUi^  buono 
e bel  fratto^  vuoi  dire  ò che  riporferebbefo  ima  vit- 
toria la  più  gloriósa  fra  tutte  le  riportate  "dai  loro 
ptaggiori  , o che  magfianimi'  niorirebbero  pe'  beni  che 
sìeguòno  la  vittoria.  'Annnnzìaira  c4e>  egli  stesso  ^n 
si  ricuserebbe  a tanto  .esperimento , ma  presento  vi 
pugnerebbe'  qeaniq  i più  coraggiosi',  e ‘che  rpempieno 
manchérebbevi  alcuno  seniori  che  amasse-.la  libertà 
e li  buon  nome.  > > ^ 

XXVHL'-'Così  piacitito  a tutti , Senza  che  alouna  vi 
ù -óppon%sc  , i consoli  convocarduo  il  popolo.' Cbacorsi 
quanti  erano  in  Roma  come  per  ndieofa  di  nuov^  co* 
se,  fattosi  innanzi  Cajo  Orazio,  l’uno  de^ consoli,  tentò 
volgere  spontaneamente  i plebei  anche  alia  guerra  pre* 
sente.  Ma  perciocché  i tribuni  vi  'ripugnavano,  'ed  i 


LTUno  X.  , 263 

plebei  ,!a> senti v«n  coq  essi;  recatoseli  console  Un  altra 
volta  in  tneszo  disse-  : Beìia marlwigliasa  impr^a  ifi 
vero  é^la  vostra -o  f^ejrginìo  ck^.  abbiale  stacpatò  U 
popolo  dal  Senato  ! e cho.  dal^  canto  vostro  avesstmo 
già  perduto  quanto  abbiamo,  ereditato  dagli  .avi , e 
ffuanlo  .oUepiUo  co')Ttoftrì  sudori  Ma  noij  npn,  cede- 
remo noi  questo,  senza  lordarsi  nemmeno  di  polvere) 
ma  impugnando  le  orini  con  .quanti  vprrap  salva  la 
patria  ne  andremo  al  cimento,  i^erantiti  su  la  bontà 
dell’impresa.  E se  àLui}' Dio  rimìui.  le  belle.,,  le' giu- 
stissime imprese')  se  la  sorte  che  da  tanto  ' tc/Apo  prò-  • 
spera  questa  cillà  -,  non  t ahbqndona  sqibnonte- 

reniò  il  nemico. , Ma  se  alcun,  Dio  me  gravita . sopra  4 
c’  ci  si  oppope  per , bt  salvezza  . di  -Jiqma  ) certo  JC 
voler  nostro  x di  nostra  propensione  non  perirà-;  che 
Jortissimamente  per  la  pat/ia  moriremo.  'E  voi  li  belli, 

U generosi  capi  che  siete  di  ' Roma  , guardata  pure 
colle  vostre  mogli  le  case,  abbandonando  e tradendo 
noi:,,  ma  nà  te  noi  vinciamo  onoràta-  sarà  la  vostra 
vita,  nè  sicura  se  perderemo.  Se  pur  non  siete  ■‘ani- 
mali (lidia  misera  speranza  che  inémici  dàpo.' rovinati 
i patrizj , preserveranno  voi  per  gratitudine  , a cori- 
cederànuo  che  godiate  la  vostrd  patria,  la  libèrtà,  il 
comando  , e tuUi  t befù  -^/ie  ora  v’  avete.  Sb,  questo 
appunto  a voi  copeederanao  cfue’ nemici  a'  quali  men-  / 
tre  vói  pensavate  pìà  'saviamehte  avete  levato  tardo 
iersìtorio,  distratte  ttgtle  c'ktà,  JaUine' schià^i  i >popoli, 
ed  irudzati  toni i- trofei,  tanti  manUmérUi  di  nemicizfa, 
e sì  luminosi,  che  mai^per  età  non  perirahpo.  Ma 
perchè  io  mi  addoloro  còl  popolo  il  qtude  non  fu  mqi 


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2^4  TfJULLE  Antichità'  romane 
taUù’o  ài  voter  non  piit  tosto  o Vt^fginìo  con 

Voi  che  per  si  bella-  maniero,  io  dirigete  ? Noi'  certo 
necessitali  b.  non -pensar  bassamente  noi  deliberata 
abbiamo , e ninno  cel  vielirà  , 'di- farci  a combattere 
per  la  patria:  jna  voi  che  abbandonate,  voi  che ^ tra- 
dite il  comune,  voi  ne- avrete  condegna,  irreprensibil 
vendetta  dal  cielo:  nè' fuggirete ‘già  questa,  se  quella 
fuggite  degli  uomini.  Nè  crediate  già  che  io  ciò  dica 
pertatterrirvi  : 'ma  sappiate  che  quanti  siano  qui  la- 
sciati per  guardia  dèlia  città,  se  mai  gf  inimici  pre- 
valilo Ho  ^ ne  destineremo  come  a noi  si  conviene.'  Se 
od  alcuni^  ìfarbatì  , ornai  tra  le  unghie  de'  nomici  , 
venne  in  cuore  di  non  lasciare  ad  essi'  non  le  mogli, 
~hon  i figli  , non  le  cùlà,  ma  di  ardere  .gueste  , e di 
uccidere 'quelli;  non  farànno  altrettanto  sé"  li  Èo- 
mani  de' quali  è proprio  il  dominare.?  ' Certo' degeneri 
non  saratmo  : ma  còmi  notando  da  vqi  > che'  nemicis- 
simi Stata  ,s.  ogrii  amica\lor  cosa  distruggeranno.-  ^on- 
sidarMe  ora  up'i  questo  , ié>  considerandolo  ; fatevi -le 
adunatvte  e-  le  leggi.  - ' ~ • 

XXIX'.  Detto  tali  ^ose  e ‘molte  consimili,  presentò  li 
più  provetii  de  patrie]  che  piangevano.  A tale''s[>euaoolo 
molti  del  popolo  boa  contennero  nemmeno  essi  le  la» 
gtime:  t destatasi  grande  commoxlone  per  gli  acmi  e per 
la  maestà  di  tali  uomini,  il  console  sopraÀandò  alquanto 
disse  : 'Impugneranno  questi  seniori  le  'armi  per  voi 
giovani nè' voi  ve  nè'  vèrgognelete , occultandovi' fin 
.sollotarm  é"  vi  terrete  lontani  da  questi  duci,  che 
padri  sempre  , avete  nominati  ? 'Sciaguo^i  voi  ! nè 
degni  pure  di  èsser  detti-  cittadini  -di  questa  èittà  fon- 


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' : LiBiio  • 265 

Sala  "da  c'olbro  che  àveano  por  iole  fpaile  il  pa- 

dre, aperto  loro  dà  numi  lo  teatnpo  ^ra  le  armi  e le 
fiàmmè-  Catm  Yergioìo  temè  ciré  il  pòpolo  fosse  com- 
mosso dà)  quel  discorso  per  non  SDfhii{V  'dl  dover  met- 
tersi « quella  guerra  coOlro  il  sub  dire,  fecési  avanti'  e 
soggiunse;-  Noi  non  vi  abbandoniamo'- né.  Vt'  6-adiamo, 
Hè  mai  vi  .abbandoneremo  o padrii  come  per  addietro 
mai'^ foste  da  noi  derelitti  su,  et  impresa  niurta<;  ma 
vo^Hamò  con  voi  vivere,  e con 'voi'  patirà,  comunque 
^ Dei  ne  declinino.-  -Pronti  già  sempre  -per  voi  chie- 
diamo da  voi  la  discreta  concessione  di-  àisere  pari  a 
voi -ne’  diritti  se  pari  vi  siamo  ne' pericoli , >e  di  met- 
tere custodi'  delia  libertà  te  leggi  a cui  tutti  ubbidi- 
scano^ Che  se  ciò  vi  .sa  male  p,  Se  sdegriate-  concederle 
a' vostri  cittadini  questa  grazia,'  e'^  riputate  com’  essere 
la  mocte.  vostra  ammetlére-  il  popolo  nelC eguaglianzd; 
non'  pià  vi  darem  briga  su  dà  ,■  ma  vi  chiederemo  ' 
altro'  dono  , avuto  il  quale  farse  noh  avrem  pià  bi- 
sognò di  nuova  legislazione:  se  nonché  ci  vien  paura 
che  non  ottérremo  nemttten  questo  , sebbene  non  sia 
ponto  lesivo  dei  Senato,-  e sia  ^uUo*  bmief  ce- ed- ono- 
revole al  popolo.  s '' 

«‘  XXX.  E replicando  il 'console- che  se  rimetteanb  la 
istanza  vai  Senato , non  sarebbe  oegata  loro  cosa,  che 
discrcia  fosse-;  ed  invitandoio  a dire  ciocché  dimanda*- 
sero , ' Verginio  abboccatosene  alquanto  ^co’-suoi  colleght 
rispose , che  lo  dirèbbe  - al  Senato,  'fiopo  ciò  Ji  consoli 
adnnarooo  il  Senato  , ed  egli  - venutovi  ^ e divisatovi 
quanto  edmpetevasi  al  po>pólo,  chiede  che  si  duplicassero 
i magistrati  del  pòpolo,  ed  .ogni  anno  in  luogo  ;d>  ciò* 


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aGfì  DETXE.ANtlCHITA’  ROMANE 

que  ài  nonaipaiserD  dieci',  tiibuni.  Alcuoi,  ca{>0  de’qaaii 
era  Laoio  QuipzioV  àatorevolissinto  Pilota  , in  v Senato  , 
pensavano  clie.ciò  pon.  offenderebbe*  Ja  repubblica e 
ooDsigll<lTaDo’che  fi  accordasse  , non  ti  coitfrastasse.  U> 
nico  vi  si'dppose  Cajo  Claadio  , figlio  di  Appio /dau* 
dio , deir  avvertano  'perpetuo  a voleri  del  popolo  , se 
non  erano  ^a  nórma  'delle,  leggi.  Egli  ereditati  i ' senti- 
menti del  padre,  impedì  quando. fu  console  che  si  con- 
cedesse ai'  tribpni  d.*  inquisire  contro  de’  cavalieri,  calun- 
niati di  congiure,  ed  ora  con  iuiligo  ragionamento  di^ 
mostrava  , che  il  popolo  non  diverrebbe  più  moderato 
e più  docile  y ma  più  incansiderato  e più  grave.  lùipe- 
rocchù  appelli  che  sarebbero  ' dt  poi  giunti  'al  iribonaio 
noi  prenderebbero  gii'  per*  questo*  eoa.-  legame'*  .che  li 
tenesse  ai  patti,  ma  beP. presto  tratter^bero  di  divìsioue 
di 'terre  4^  « dl,e^[}ia|ità  dì  drritir',,e  certdtei;ebbera  par- 
lando e ..brigando  de  cqiUe  cose  , estensive  'delia  potenta 
del  popolo,  eotne  dmpaqenti  1*  onor  del  .Seoato^.-ìlfosse 
ntolti*  tH^  tal  dire  graodemeote  i.  ma  Quinzio  a ri- 

trasse ammaestrandoli voler  1’  otite  del  Sedato  che  i 
tribooS  si  moltipKcttseil» , giacché  i molti  men  *8’ at^r- 
dan  dei  poclii  t esser  <]uestO'  T unico  rimedio  veduto  già 
da  Appio  il' padre, di  Caio  Claudio  , che  al  ntogistrato 
discordi,  nè  vi. ai  pensi  da  lutti  ad  un  ntodo.  Adunco 
cori  ne  prve  al.  Senato  , e^si  deprelò  i.  che  poUuse--H 
popolo  eleggersi  \fìgn  armo  dipei  tribuni,  nors  péro  dai 
numero  degli  attuali.  -Portarono  Vei^itA)  e i collabi 
tale  decreto  sii  popolo,  e Bonfennatane  la  legge  ebd  vi 
inclnadeva  , designarono  dieci  tribuni  per  f anno  se- 
gaentej.  • Chetata  la  aedicioue-i  i consoli  arredarono,  le 


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. • . LUfflo/x.  ' . 267 

omizi^  , « .decisero  » sorte  la  h>rocspediziooe>^  Toccò  a 
MìducÌo  Ja  gaem  co’  Sabfm  ad*  Orazio  1*  altra'  eoo  gli 
Eqaiy- e ben  lostb  marciarono ‘atubedi^e.  L Sabini  gtuuy* 
dando  le  Idko  città.;  non  curarono  .'che' ì Romani  si 
menassero  >6  portasae.ro  quanto  .r’ era  pez  le  campagne. 
Gii  Equi  a|ledirono  'Ito’ armala' per  coalrxitarli;  ma -tutto 
ebe  pugnassero  nobilissimamente  / non  poterono  supe- 
rarli, e si  - ritirarono  ne^sitatt  oeile  loro^  città,*  perduto 
il  castello  pel  quale  avaano  co/nbattùlo'.  Orazio  respinti 
i nemici  , -iPatto  assai  danno  alle,  lor  itette.^  abbattè  le 
mura  di  Corbinne  r ne  rovesciò  da’  fondamenti'  le  mse  , 
e -ricondusse  in  Roma  l»  e(wreito.v  ’ ' ' ' ■*  ~ 

• XXXL  Sotto  Marco  Vaieriòy*  e Spurio  Verìpoio  con- 
soli delH  anno  segne'nte ,(i)  non  osci  dà’ confini <'anjiata 
ninna  de’  Romani  ; ma  risòrser  le  dispute  dé’  tpbuni  e 
de’  cotiscdi  ',  ^r  le  quali  i tribnòi  staccarono  alqiMn|gs 
delia  consolar  dignità;  Imperoocbà  per  addietreà  poteanp 
i tribuni  convocale  il  popolo  ;f  nè  poteano  convocare  *^il 
Senato  o dirvi  il  parer  loro , serbandosi  tàlè^doòré  pei- 
cODsoJi.  Ma  i tribuni  di  quell’annò  tentafono'  conv«:aro 
U Senato  , pOsiovisi  alla  prova  Icilio , Capo'di  essi',  in- 
trapreodente , nè  infacondo  nel*  perorare  alla  Romana, 
Apeb’  egli  presentò  .Un  ''doovo  progettò  , dimanjd^ndo 
ébe  si  compartisse* ai  plebei  rAvventiao  afBnchè 'vi  er- 
gessero delle*^  case.  È l’AvTéntiuó  nn  epHe  dolcemente 
elevato '^con  perimetro  non-  minore*  di  dodici  stadj  entro 
ti  circuito  stesso  di  Roma':  nè' -in* -quei. giorni  era  tatto 
accasalo,  ma  selroso  e pubblico:  poncepetfdo  il  tribuno 

(1)  /Orna  di  Roma  agS.  sccoaòe  'Cacone,  '3oo  tocoOdo  Varrone, 
454  av.  Critto.  * .. 


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a68  HEi.LE  Antichità’  romane 
un  tal  piano  ^ venne  al  Senato  ed  ai  consoli , e chi<^^ 
cbe  facessero  'su^di^esso  un  previo' decreto  , .-e  si  pub- 
biicasK  (^).  Ma  indugiandosi  i conili  e protraeodo  ; 

spedito  cm  araldo  intimò  doro  di  seguirlo  .al  trìbu> 
nato,  e • convoràlv.  il  Senato.  E condosslachè  un  littóre, 
comandatone,  rispinse  T- araldo  ; icilio  e i suoi  coUeghi 
■degnatine  presero  e trassero 'il  littore  <x>me  per  balzarlo 
^la  ‘ rupe  I consoli  tuttoché  sen  tenesseró  's[^giatls$inù 
non  poteano.fiir  violenza,  e redimere  quel  prigioniero: 
e''^i  volsero  ptf  ajuto  agli  altri' tribuni-: 'Perooché  niuu 
pifò  sospendere  p proibire  gli  atti  di-  alcun  tribuno,  se 
non  quegli  che  tribuno,  sia  parimente  giaqchéji  tribuni 
s’ erano  <fin  dal' principio  convenuti  infra  . .loro,  che 
ntuoo  introdurrebbe  di  per  sé  subiUmento  alcuno  senza 
il  .beneplacito  * di  tutti  ; e ‘ niuao  farebbe  • opposizione  , 
ma  cip' si  tenesse  per  fermo  che  i più.'  destinassero  ;•  ed 
aveansL.ciò  giurato  scaiAbievolmeoie  tra ’l  sagrHìzio  nel- 
r atto  appunto  di  rassumere- il  magistrato,;  sul . concetto 
che  indelebile*  diverrebbe  il . tribunato  , se  k discordia 
sé  ne  allontanasse.  Fidi  a tal  giuramento  , ordinarono 
che  ii  togliesse  la  guardia  del  console , dicendo  esser 
questo  il  vplere-di  tum.  Non  persisterono  peròneirira) 
ma -renderono  il  prigioniero  agli  anziani  del  Senato  eba 
Iq*  raddomandavano.  imperocché  temerono*  l' odip  dei 
fatto  ; perché  -'essi  i ptimi  condannerebbero  * a morte  iiu 
littore 'per  avere  adempito  i comandi  de’  consoli  ; e te- 
merono che  per  esso  fatto  non  si  volgessero  L patrìzi  a 
disperati  disegni. 

(i)  Xltti  inieipretano  i t se  ni  faeeese  rapporto  al  popolo:  ed  il 
sento  par  mi|ljor». 


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, > LIBRO  X.  • <-  269 

•XXXII.  Adùaatosi  quindi  il  'Senato , i consoli  vi  fe- 
cero lunghissima  là  querela  su’  tribuni.  ■ Ma  Icilio  presa 
la  parola,  giusiihcò  lo  sdegno  contro  del:liuore,  alle» 
gando  la  legge  sacra  per  la  quale  non  toncedeasi  nè 
<£  magistrali  nè  ai  privati  far  cosa  niuna  contro  dei 
tribuni.  £ quanto  all’ aver  lui  comandata  la . rinnion  del 
Senato,  dimostrò  che  non  avea  fatto  nulla' d’ incongruo 
con  ragioni,  premeditate'  di  ogni  genere.  .Ribattute  le  ac- 
cuse , fecesi  a parlar,  su  la  legge  che  era  : che  quanto 
i privati  possedeano  con  diritto  sei  tenessero':  ma  re- 
stituissero 'al  popolo  quphto  altri  avevano  occppato  con 
violenza  o di  furto  neW  edificate  ^ ricuperandone- le  „ 
spese  j cóme' sarebbero  tassate  da  periti:  e finalmertte 
che-  il  resto  , quanto  era  del  pubblico  si'  dividesse  e 
comppi'lisse  al  popolo  senza  prezzo.  .Dava  a conoscere 
che  tale,  istituzione  era  per  più  capi,  proficua  alla  re- 
pubblica , e principalmente  perchè  i poveri  non-  tumul- 
tuassero, pel'  terrea  pubblico,  che  i , ricchi  s|  possede- 
vano-Sarebber  essi  consolati^  con  parte  de’ siti  ' urbani  ' 
se  essere  noi  poteano  con  parte'  de’  campi  >>  preoccupati 
già, da  molti  e potenti.  Unico  -contraddisse  .a.tal  dire 
Caju  Claudio  , comprovandolo  molti  ; ma  -si  decretò  che 
il  silo  al -popolo  sì  concedesse.  Dopo  ciò.  presenti  i pon- 
tefici,‘ gli  auguri,  e due  sagrificatori  , fatti  secondo  il 
rito.sà^ifizj  e preghiere  , e convocati  da’  consoli  i 00- 
niizj  centurìati  si  'confermò  la  leg^e  , e descritla  sQ  co- 
lonna^ metallica  , e portata  ne|l’  Avventiòq  ' fu  collocata 
nel  tempio  di  Diana.  Poscia-  coqgregatisi  J plebei  tira- 
rono a sorte  il  suolo  dove  fabbricare  e fabbricarono  , 
occupando  ciascuno , lo  spa^o  che  poteva.  Unironsi  al-r 


. • i 


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27 Ò DELIE  ANTICBITà’.  ROIBANB 
r edifiso  dì  qò^lcke  cak  due  o M'  pèrsone , e talvoiu 
più- ancora,  prendendosi  uno  i pianterreni  ».  e gl!  ahri 
i piani  ,'àupdnori.  E 'cosi  tl’.  armo  si  consumò  eoj^i^b- 
bricare.  • ' • ' ' > • 

' XXXIII.  Riusoi  pesò  complicatò  e varìo e pie*o  di 
grandi  avVenluee  l’  anno  seguente  (j)’,  nel  optale  eletti 
consoli  .T'ito' Ro™iliO  e Cafo  Veturio,  furono  riassunti 
al  Hribanale ‘Icilio  e i coUegbi.  {mperoccfaè  fu  di  nuoro 
suscitata  da’ tribuni  la  d*ril  sedizione  ebe  parea  venuta 
ihene;  e sorsero  guerre  dagli' esteri  : ma  queste  non 
4^e  danneggiarla  , ' giovaróno  non  poco  la  repubblica  , 
non  toglierne  gl’  in^rlH  diSsidj  ; essendole’  consueto  e 
viceodevole  di  ' esaére  ’anaoime  tra  le  guerie,  * ma  discor> 
diosa'  nella  pace,  distraiti  - di  ciò  quanti  salirano  al  con- 
solato» prendevano  eoo  trat^rtOi  se  nascevaoo,Te  guerre 
cogli  esteri.  E ce  i ^oemìd  erim'  'cheti  ; essi  stèssi  finge- 
vano’ manoanze  pretesti  <,*  vedendo  che  Roma  prospe- 
rava e.  ingrandivasi'  nella  gtiérrè  , ma  decadeva  > 0' debi- 
^litavasi  tra  lo  sedizioni.'  Animati  nel  modo  'stesso  i-'oOn* 
soli 'di  quest’'am^,  deliberarono  cavar  1' esercito'  contro 
L taemìci spi  timore  che  i'  poveri  e gli  oziosi . qoaiìn- 
ctassero  a perturbare  - la  pacel  Or  essi-  ben  la  rutebde* 
vano  ,'cbe  'vuoisi-  distrarre  la  mollitudioe  ndle  gtiè'rre 
cogli  esteri  i’hia  non  beò  intendevano  com’ eseguiscasi.' 

' Quando  avrebbero  dovuto  flir  leve  moderate  ì Qotìae  ilo 
città  mal  affetta  ; si  diedero  a 'castigarvi  colla  forzà  tùtii 
i ’ranitenti  i senza  Cfonsazione  o dispensa,  iriando  ine- 
sorabili ^il  rigor  4elie.  leggi  sù  gli  àVen>  e su  le  persone. 

'ny  Anqo  di' Roma  agg  secoodo  Calooc , joi  seoondo  Varroue,  a 
453  av.  Critto..  ■ 


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LIBRO  X.  - ) 37 1 

Presero  da  tal  proceder^  ■ occasioae  di  bel  onovo  i tri* 
buoi  di  concitare  la  plebe  ; e radonatala  , vi  strepitarono 
per  più  cause,  come  ancora, perchè  aveano. .fatto  portar 
nella  carcere  molti  che  reclamavano  1’  ajuto  de’  iriboni: 
e dissero  che'  essi  che  soli  he  aveano  l’ autorità  dalle 
leggi , gli  assolveano  da  quel  rechi  [amento. ' Vedendo 
però  che  niente  ne  profittavano , anzi  ' che  laccasi  la 
coscrizione  piti  severamente  , incominciarono* ad  oppor» 
visi  co’  fatti.  E resistendo  I conscM  .colla  forza  del  grado 
loro  ; sen  fecero  altercazioni  e scaramnCce.  La  tenea  pei 
consoli  la  . gioventù  patrizia  , ma  teneala  • pe’  tribuni  la 
turba  oziosa  e povera  : e quel  giorno  assai-  prevalsero  i 
LODSolif  su'  tribuni.  Ne'  giorni  appresso  - versandosi  in>  città 
più  turba. dalle  campagne  , i tribuni , vedutisi  òmai  con 
forze'  da  contrapporsi , convocarono  assai  spesso  il  po- 
polò-, ^e  mostratigli'! ‘minbui  loro  malconèr  ' dalle  pia- 
ghe , prolestaropo  che  deporrebbero  il  magistrato  se 
non  erano  da  esso  gàraoliti.  - '• 

XXXiVv  Irritatasene  la  nioltitudiée  ; dt^'no  i coiv* 
soli  a ' dar  conto  al  popolo  del  procedete'  loro.  Nóp  gli 
attesero  questi;  ed  andatine  i 'iribòni  alia  curia* ove  il 
Senato  ^a^e va 'già  consultandoqe  lo.aupplicaroooi  a non 
trascurare  essi  tribuni,  offesi  -bruttisiihiàmrate , uè  il 
spopolo,  che  era  dell’  aita  loro  privato. -^E  qui ùàrracono 
quante  ne  aveano  sopportate  da’  consoli , e le  mapohi- 
nazioni  di  quesb  contr*  essi  ond’  erano  svergognati'  non 
pure  flel  grado ) ma'-  nelle  penonc.  Laonde  chiedeaao 
che  ^.consoli  facessero  l*  Una  delle  due  , vuol-  dire  , se 
negavano  di  aver  fatto  . cesa  vietata  datie  leggi  contro 
de’  tribuni  « vemsserò  e giurando*  Ift  negassero  all’ ado- 


2’J2  DELLE  AT^riCUlTH’  ROMANE 

aaaza  ; se  di  giurare  non  sostenevano , venissero , c 
vi  rendessero,  conto  ; e le  tribù  «entenziereLbero  su  loro. 
Si  difesero  i cousoli , . dando  a vedere  ebe  i tribuni 
erano  la  origine  de’, mali,  per  la  caparbieti  , per  l’auda- 
cia di  profanare  Je  persone  de’ consoli,  prima  con  avere 
imposto  ai- satelliti  jorp 'e  agli  edili  di  portare  in  carcere 
uonjini  rivesliti  di  ogni  potere,  e poi  con  tentar  di  as- 
salirli col  raeazo  de'  plebei  più  temerarj  ; e qui  sponeano 
quanto  fosse  il^  divari  a dalla  tribunizia  alla, consolar  di- 
gnità, piena 'questa  di  regio  potere,  e nata  l’altra  solo 
per  protegger'  gli  ttppressi.  Tanto  esser  lungi  che  po- 
tes^ro  far  votare  la  moltitudine  contro  de' consoli,  che 
noi  póteauo  nemmeno  contro  il  minimo  de’  patriz|  senza 
un  decreto  espresso  del  Senato.  Pertanto  'minacciavano, 
se  i,  tribuni  faceano' votar  la  moltitudine  di  dàr.  rju’me 
a*  patria).  Continuandosi  ‘ppr  tutto.il  giorno  i <div^j  ; 
il  Senato  niente  definì  per  non  isceraaré  .1’  autorità  'dei 
consoli  o de’  tribuni  , cose  ambedue  pericolosissime. 

.XXXV.  Partili  i tribuni  senz’  aver  trovalo  soccorso  p 
e tornali  al  popolo  ; • considerarono  di  nuovo  ciocché 
avessero  a fare.  Pareva  ad  alcuni  , spocialméuic  ai  ppì 
turbolenli , che  il  popolo  dovesse  ritirarsi  colle  armi 
alla  mano  nel  , monte  sacro  , dove  accampato  si  era  la 
.prima  volta, (i)t  e che  di  là  sorgendo  dovesse  far' gnerra 
ai^  patrizj perchè  violavano  gli  accordi  conclusi  poi  po- 
polo , annientando  manifestamente  l’ autorità  de’  tribuni. 
In  opposlto  pareva  ai  più  che  non  dovessero  spairiatb  » 
né  credere  colpa  di  tutfi  , (ytclla  di  > pochi  contro  de) 

' r • ■ . 

(0  Vedi  Ii<).  B,  S45.. 

) 

t 


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LIBRO  X.  • ' 2^3 

triboni  , perché  oUenetsern  quanto'  concederiast  dalle 
leggi , le  quali  ordinano  imponetitenie  la  morie  so  chi 
oltraggia  la  persona  de’ medesimi.  Ma  i più  benigni  non 
teneano  per  savio  nino  de*  partiti.,  non  quello,  di' ab- 
bandonare la  patria  , e non  1’  ahro  di  uccidere  senza 
condanna  , specialmente  i consoli , che  erano  per  auto- 
rità sì  cospicui , ma  volevano  < piuttosU>  che  si  ripiegasse 
lo  sdegno  su’  lor  fautori , castigandoli  a norma  delle 
leggi.  Se  quel  giorno  i tribuni  trasportati  dall’ira  lan- 
ciavansi  a far  cosa  alcuda  contro  del  Senato,  p de* con- 
soli , niente  avrebbe  impedito  che  la  città  di  per  sé  ro- 
vinasse. Tanto  eran  tutti  pronti  per  armarsi  e .combat* 
Uni  t Ma  perché  sospeser  1’  afiàre , dando  ' a sé  tempo 
per  meglio  consigliartene;  serbarono  essi ' moderazione  , 
e r fra  del  popolo  n'n  fu  mitigÀa.  Intimarono  pel  tc^'zo 
mercato  dopo  quel  giorno  una  assemblea  popolare- ove 
condannire;  i consoli  ad  una  emenda  in  mgeoto,  e sciol- 
sero 1’  adunanza.  Approssimandoti  pe^ò  quel  -giórno  de- 
sisterono anche  da  lah*  intrapreta  dicendo,  di  coneedecp 
ciò  alle-  istanze  di  uomini  i più  'venerandi  per  anni  e • 
per  grado.  Poi  congreg-indo  il  popolo;  dichiararono  die 
essi  rimettevano  le  offese  proprie , sul  desiderio  di  motti 
buoni,  a’ quali  nop  era  lecito  contraddire  : ma  che  le 
ingiuri^  fette  al  popolo  e punirebbero  queste  , anzi  le 
toglierebbero.  Imperocché  diretumente  (i)  aggiùngereb- 
bero tra  le  leggi  pnr  quella  su  la  divisiori  delle  terre 
differìlit  ornai  da  treni’  anni , e quella  su’  diritti  eguali 

r • N.  ’ 

(i)  Kel  lesto  »v^it  nuot’aiiante , forse  <• 

DlONIGt , toma  III.  ■ ' *,  i8 


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a'j4  ■ DELLE  ^ANTICHITÀ.’  ROMAKE 

per  tutti , presentala  bensì  da’  tribuni  precedenti , non 

firmata  però  da’  voti  dèi  popolo.  - ! 

• XXXVI.  Gò  promesso  e gìaràto  ; atmunziarbnp  i 
giorni  di  'adunanza  ne’  quali  il  popolo  voterebbe  su  di 
esse  leggi.  V-enutone  il  tempo  próposero'  innanzi  la  legge 
agraria.  £d  avendo  essi  allegate  -le  molte  ragioni  per 
essa;  invitarono  chi  più  yolea  del  popolo  oootinnarle. 
Or  qui  presentandosi  molti  , e narrando  le  imprese  da 
loro  fitte  tra  ■ le  arme , e dolendosi  che  dopo  levato 
tante  terreno  al  nemico  , essi  non  ne  avevano  parte  al- 
cuna ma  lo  vedevano  usurpato  ed  usufrutinato  violen- 
temente dal  polenti  per  amici  e danari  , e dimandando 
che  il  popolo  non  fosse  a parte  de’  pericoli  soli  ma 
delle  consolazioni  ancora  e de’ vantaggi  della  repubblica; 
erano  con  diletto  , ascoltati  dalia  moltitudine:  non  però 
niuno  in  paragone  di  Lucio  Siccio  Dentato  imbaldanzì 
più  il.  popolo  -col  dirgli  le  tante  sue  gesta fino  a ren- 
derlo impaziente  ,di-  ogni  contraddizione.  Era  quest’  lio- 
mo , meraviglioso  a vedére,  nel  sacro  delU  ìltù  per  gli 
ènni  cinquantotto  che  numerava  , buono  ad  'intendere 
ciocchi  dovessi , nè  invàlido  a dire , per  quanto  si  ap-< 
partieOe  a un  guerriero.  Egli  fecesi  innanzi  e disse:  Se 
io  dolessi  o popolo  commemorare  ad  una  ' ad  urna  le 
opere  da  me  Jalle  ; innanxi  mancherebbenù  il  giorno: 
me  io  le  toccherò  brevissìmamente  cotne  posso  per 
sommi  capi'  È (picsto  l'anno  quarantesimo  che 'io 
militai' per  la  patria;  e l'  anno  trentesimo '{ì)  che’ ho 

(i)  Lapo.it  primo  traJnUore  di  Qioaigi  qui  Itigge  trentèlimo  le- 
eondo  i coti  pqre  Tegge  il  Glareaao  il  quale  più  sono  legge  venliiet 
per  vfntitcue'^  aflìncliè  Ha  a6  e 3a  riauUi  1'  aouu  53  il  quale  era 
r auDo  della  età  di  Siccio.  " 


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■ xibrO  X.  . 

sempre  militari  presidenze  , ora  di  eoorti , òr'a  di  le- 
gionicominciando  da'  consoli  Cajo  A^qailio  ^ fi  Tito 
Sicció  , desiati  dal  Senato  ^ alla  guerra  coi.  Folsci. 
In  ifuella  io  di  euini  ventisette'’  era  subordinato  ai 
centurioni.  Fatta  una  cruda  battaglia , fuggiti  i no- 
stri, perito  il  duce  della  mia  coorte  f ^e- presene  le 
bandiere  dal  nemico  , io  solo  gettandomi  per  tutti  tra 
I pericoli t le  ritfendicai , e respinsi  chi  mi  si  appo- 
' nova  j e fui  causa  mani/esta  che  i centurioni  non  ca- 
dessero in  obbrobrio'  sempiterno..  ( i ) , tìè  rimanessero 
a vita  pià  amara  della  morte , come,  dicbiararono 
essi  stessi  col  cingermi  -di  una  corona  di  oro  ; e 
come  dichiarò  pure  il  console  Siedo  nominofido  me 
per  centurione.  Sopras'venutaci  un  altra  battaglia  -ove 
occorse  else  il  duce  della  legione  ' cadesse  f e l' aquila 
restasse  ‘in  poter  del  nemico,  io  nel  modo  stesso  presi 
la  causa  di  tutta  la  legione , e redintei  t aquila , ed 
il  ducè  fu  per  me  salvo  ; ed  il  ■ àucè  grato  'al  bene- 
fizio cedevami  il  comando  suo  e V àquila  mi  conse- 
gnava : ma  io  non  lo  udii , ué  sostenni  di-  levare  a 
chi  diedi'' la  vita , gli  onori  , ed  il  ben  che  li  seguita. 
Domi  è che  amandomene  il  console.,  mi  Je’  a^o  della 
prima  legione  , mortone  il  duce  in  bat^tglia.  <. 

,XXX,VIl.  Queste  sono  o popolo  le  gesta  valorose 
che  -.mi  segnalarotto  e promossero.  Divenuto  ornai 
^ chiai'O  per  nome , passai  di  mano  in  mòno  alle  altre 
battaglie  vergognandomi  sempre  else  per  esse  deca- 
dessero ’le  prime  glorie  e le  ortorificense  mie.  Da  indi 

(i)  Perchè  guanto  è da  loro  aon  arrebbero  suppliie  all^  matt- 
cauta  del  duce  mu'ia.  ' • 


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376  DELLE  Antichità’  romane 
in  poi  'fui  sertipre  tra  le  Ormi  e gli  stenti , non  te- 
mendo , anzi  neinmeno  considerando'  ì'  pericoli y ed 
in  tutti  rie  riportai  da'  consoli  i premj  de’ bravi',  spo* 
glie  y corone , ed  altri  distintivi.  per  dirla  in  un 
tratto  , feci  ne'  quarant’  anni  da  che  rnilito  circa  cento 
venti  battaglie , ^ v ebbi  quarantacinque  ferite  , di- 
nanzi fatte , e non  da  tergo  ; delle  quali  dodici  men 
toccarono  U giorno  che  Erdonio  Sabino’  dominava  la 
rocca  ed  II  Campidoglio  ; riportai  pugnartdo  , quattor- 
dici corone  civiche  , colle  quali  mi  avvòlsero  que’  che 
furono  da  'me  salvati  ' nelle  mischie  : tre  murali , per- 
chè primo  salendole , occupai  le  mura  nemiche  ,*  ed 
otto  per  combattimerui  campali  delle  quali  fui  con- 
decorato  da'  capitani  : inoltre  ottanta  tre  collane  di 
Oro , sessanta  braccialetti  pur  di  oro  ,,  diciotto  aste  , 
e ventìcinque  Jìilgide  spoglie , nove  dèlie  quali  eran 
d?  uomini  i quali  sfidavano  , solo  con  solo  , alcuno 
di  noi,  e che  io  vinsi  entrando  volontario  a combat- 
terli. Or  io , cittadini , io  'che  sono  quel  Siedo  che 
ho' per  voi  militato  tanti  artni ,■  sostenute  tante  batta- 
glie riportati  tanti  onori , non  temuti  nè  ricusati  pe- 
ricoli , in  campo  ^ 0 su  le  mura , tra  fanti  o tra  ca- 
valieri , con  tutti  con  pochi , o solo  e ferito  in  tutto 
H corpo  i io  che  ho  conquistato  alla  patrict  tante  terree 
bonissime  , e quelle  che  avete  prese  da'  Tirreni -e  dai 
Sabini , e quelle  che  possedete  degli  Equi,  de'  Volsci 
e di  altri  ; io  , cittadini , e chiunque  ha  qfiartto  me 
travagllató , niuno'abbiam  ricevuto  nemmen  picciolis- 
sima  parte  ,di  'queste  terre  : ma  li  più  violenti,  li  pià 
sfacciati  sen  tehgono  le  migliori , e le  usufruttuano 


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Ll&RO  X.  ' 377 

già  da  moki  anni  senz'  averle  dà  i>ot  nè  per  dono  ,> 
nè  per  compera  , nè  per  altro  legittimo  mezzo  che^ 
possa  dimòstrarvisi.  Se  ne  avessero  questi  dimandata 
parte  pià  grande , che  noi  dopo  • avere  come  noi  tra~ 
vagliato  neW  acquistarle  ; certo  non  sarebbe  stato  de» 
gno  di  uomini  , degno  di  cittadini  che  pochi  si  ap» 
propiassero"  ciocché  era  di  tutti;  ma  pur  stata  una 
causa  vi  sarebbe  a tanta  ingordigia^  Ma  quando  non 
potendo  dimostrare  alcuna  opera  grande  e magnanima 
per  la  quale  si  tengono  ciocché  è nostro , non  sen 
vergognano  ^ 'né  lo  rilasjdano  y nemmeno  convintine  ; 
chi  potrà  comportarli?  _ 1* 

XXXVIII.  Or  su,  per  Dio,  se  io  nfetilo  in  ciò  , 
venga  chiunque  di  questi  onorandissimi , venga , e 
dimostri  per  quali  splendide-  e belle  gesta  presuma 
pià  parte  di  me.  Forse  ha  guerreggiato  pià  anni,  in 
pià  battaglie  , con  pià  ferite  , con  pià  onore  di  po« 
rotte  di  spoglie , di  prede  , o di  cUtre  marcfm  da 
vincitore , per  le  quali  /’  inimico  se  ne  umilia , e la  , 
patria  > magnificata  ne  sfol^ra  ? Dimostri  il  decima 
almeno  di  quanto  io  v ho  dimostrato.  Per, certo  i pià 
d’  essi  non  potrebbero  allegare  nemmen.  la  minima 
parte  delle  mie  gesta  : anzi  alcuni  di  loro  non  par.^ 
rebbero  di' avere  sofferto  nemmen  quanto  il  popoletlo 
pià  basso.  Grandi  essi  ne  detti  , noi  sono  certo  nelle 
armi, pià  vagliano  contro  l' amico  , che  a fronte 
dell'  inimico  : non  pensano  essi  di  avere  una  patria 
a tutti  comune , ma  propria  di  loro , quasi  non  siano 
stati  per  noi  liberati  da’  tiranni , ma  dà  tiranni  ab-^ 
biano  noi  preso  come  un  lòt  bene.  Questi  (perocché 


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un 8 HELLE  Antichità’  romane 
bacaselo  /e  ingiuriò  continue  pià  o men  ^andi  j eh» 
tutti  sapete  ) sono  giunti  a tanta  in  scienza  ^ efu^.non 
soffrono  che  alcuno  di  noi  dica  libere  yoci,  o che 
solo  apra  la  bocca  su  la  patria.  E 'Sputió  Cassio  , 
quello  che  ptimó^  parlò  su  la  le^e  agraria-,  quello 
che  illuitre  per  tre  eonsólati,  e per,  due  trionfi  glo- 
riosi, e che  avea  dimostrato  tanta  solerzia  nel  co- 
mando nplitare  e civile  , quanto  niun  altro  in  quei 
tempii  qùeH'  uomo  si  grande  lo  accusarono  i con- 
•soU’j  come  intento  alla  tirannide,  lo  sopraffecero  con 
falsi  teslìmonj , e,  Jìnalniente^  precipitandolo  dalla 
rupe ,, Io  uccisero',  nè  per  altra  cagione  se  iwn  per- 
ché era  V amico  della  patria  e del  popolo.' E Cajo 
Genuzh)  tribuno'  vòstro- che  riproduceva  - dopo  undici 
anni  la  stessa  legge , e citM>a-  in  giudizio  i consoli 
deir  anno  antecedente  come  trascurati  'a  compiere  i v 
decreti  del  Senato  tu  la  partition  delle  terre  , lo  lè- 
varon  di  mezzo  appunta  il  giorno  avanti,  il  giudizio 
con  occulte  maniere  i non  potendolo  colle  manifeste. 
Donde  tte  venne  .a*  successori  grave  timore,  e niun 
più  st  mise  a quel  rischio  : e già  sono  trend  anni 
che  sopportiamo , quasi  perduta  il  nostro  potere  nella 
tirannide. 

XXXIX.  Ma  lasciamo  il  resta.  I magistrati  vostri 
attuali , quelli  che  voi  avete  rendati  siseri  per  le^e 
ed  mvMabili , a quanti  mali  non  incorsero  per  vo- 
glia di  difendere  gli  oppressi  tra  7 popolo  ? Non  fu- 
rono questi  ètpulsi  dal  Foro  a pugni  e calci,  e con 
ogni  altra  guisa  di  vilipendj  ? Vò  'siro  era  V affronto; 
e voi  vel  comportaste  nè  cercaste  vendicarvene  con 


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• ' LIBRO  X.  , i'^g 

darne  i voti  almeno , in  che  solo  vi  resta  la  libertà. 

e 

Ma  su  prendete  spirita  o miei  cpmpopoUiri.  Presene 
tino  i tribuni  la  legge  su  la  partizione  delle- campa- 
gne';  _e  voi  la  confermate  co’  voti  vostri , nè  soffrite 
pur  voce  chi  reclami.  Voi  non  abbisognate  o tri- 
buni di  esortazione  a questi  opera  ; voi  posti  vi  ci 
siete , e benissimo  fate  a non  desisterne.  E se  la 
caparbietà',  se  là  insolenza  de’  giovani  vi' si  opponga, 
e rovesci  le  urne  in'' che  i voti  raccolgonsi  , o./i  voti 
vi  levino,  o scondita  tal , altra  cosa  nel' dar  de  sofì 
fragi  ntastrate  -loro  quanta  ' il  potere  siasi  del  tri-  i 
bunato.  Che  se  non  è lecito  degradar^  i constai,  sot* 
topOnete  ai . giudizio  i privati , de’  quali  si  vatgonó 
per  le  violenze  ; e fate  che  il  popolo'  voti  su  loro  ^ 
come  su  conculcatori  delie  leggi  sacre  y e distruttori 
del  dostro  magistrato.  * . 

XL,  Or  Jui  cosi  dicendo , ta  moltiludibe  nè  fa  cóm> 
mossa  tanto  intimainente , e manifestò  tanta  ira  contro 
gU  oppositori,  che,  copie  ho  divisato  dai  princt[yio,  non 
vofesa  memmen  tollerarne  t discorsi.  Quaodo  sorgendo 
Icilio  tribuno  dii^e  : che  eran  pur  buoni *1  suggerimenti 
di  Siccio,  e lan^mcnte  lo  encomiò,  tuttavia  dimostrò 
cìie  non  era  cosa  nè  giusta , nè  sociale  negar  la  parola 
a chi  vojeya  perorare  in  contrario , prìncipalmeote'  di> 
acutendosi  una  legge  colia  quale  far  prevalece  il  diritto 
alla  Ibraa varrebboosi  di  occasioni  consitnili , qpelK 
che  non  avevano  pensieri  eqni  uè  ginstì  sul  popolo  , a 
turbar  la  pUè  novamentp,  e'rimovetae  ciocché  le  gio* 
/asse.  E ciò  detto  ^ prescrivendo  ^ il. giorno  seguente  ai  , 
contraddittori  della  legge , sciolse  1’  adunanza.  I consoli 


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aSo  DELtE  Afl^TICHITA’  ROMANE 

a4umildjili  «oiuiglio  privato  de^'pairìxj  più  energici  al» 
lora  e più  floridi , dimostrarono  cbe  dovea  leg^ 
impedirsi  per  ogni  modo  prima' colie  parole,  è poi  colle 
opere,  se  il  popolo  non  lasciasse  persuadérsi.  AdunqH^ 
raccomandavano  a tutti  che  andassero  la  ma^a  al  poro 
ciascuno  quanto  più  poteva  con  amici  e cliènti:,  e quindi 
che  alcuni  ài  stessero  .ed  aspettassero  intorno  la  tributiti 
onde  parlasi  all’  adunanaa  , ed  altri  in  più  crttcchj  tna>. 
versassero  il  Foro , per  intraccbiudere,  il  popolo,  é vie- 
tarne la  riunione.  Parve  questo  U partito  migliore , e 
prima  cbe  il  di  si  chiarisse  , erano  molli  posò  del  Forò 
presi  gii  'da’  patriÉj.  ' ‘ 

XLI,  Vennero  dopo  ^ciò  li'  Iriboni  e li  consoli, 
quando  il  banditore  invitò  chiunque  voleva  dir  contro 
la  legger  Presemaronsi  perciò  molti  onesti  uomini , ma 
il  remore  e il  disordine  non  lasciai*  ascoltarne  le  voci. 
Imperocché  qoal  déflli  astanti  esortava 'ed  animava  i di* 

^ cuori,  e quale  gli  urlava  e'rigettavali nè  la  lode'pre- 
yalèva  de’fautori,  né  lo  strepito  degli  avversar):*  Sdegna* 
ronsi  « .protestarono  r consoli,  che  il  popolo  dava  prìn* 
cipio  alla  vioTenza  col  non  volere  ascoltare  : ma  repli- 
carono i triboni  che  avendo* essi  ascoltato  ben  per  cin- 
que anni , non  laceano  cosa  da  odiarnéli , se  non  voi- 
leaoo  più*  tollerare  trite  contraddizioni , e rant^de.  Còsi 
ne  andara  il  più  delia  giornata,  quando  il  popolo  chiese 
di  votare/  Allora  i giovani  patria)  credendo  che  più  non 
iCoise  da  sufferire , impedirono  il  popolo  che  si  racco- 
gliesse in  tribù,  tolsero  a chi  li  portava  i vasi  de' voti, 
e battendo  e spiugendo,-  cacciarono  quanti  erano  a ciò 
deputati,  nè  $en  parlivauo.  Alzarono  le  grida  i tribadi. 


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' LIBRO  x:  281 

e géttaronsi  nel  _ méz^o  di  essi  : e questi  cederono  e là» 
sciarono  die  ipvioiati  ' passassero  ovnnqne,  ina  passare 
ovnnque  nob  Isàdavano  il  popolo'xbe  li  seguitava  , o 
quello  che  tumultuando  e disordinandosi  qua  e là  per 
lo  Foro  moveasi  verso  di  loro.  Cosi  divenne  inutile  al 
popolo  il  soccorso  de’ tribuni  : ed  i patrizj  ila.  vinsero  , 
nè  lasciarono  che  si  ammettesse  la  legge.  Le  famiglie 
che  più  sembrarono  coadjuvare  i consoli  furono  le  tre 
de’  Posiumj , de’  Sempronj , de’  Clelj,  cospicuissime  tutte 
per  lo  splendor  de’ natali,* e potenti  assai  per  amicizie; 
per  ricchezze  , e riputazione , .come  insigni  per  le  im- 
prese nella  guèrra.  Si  consente  che  da  questi -dipendè 
prìncipalmebte  che  la  legge  non  si  ammettesse^ 

XLll.  Nel  giorno,  appresso  i tribuni  prendendo  i l>le* 
bei  più  rlguardevolT  discùssero  ciocché  fosse  da ‘fare:  e 
tutti  di  comun  voto  statuirono  di  non  citare  in  giudizio 
i cposoli  , ma  i'  privati  che  erano  stati  loro!  minjstrij; 
la  punizione  de*  qudi  ecciterebbe  come  Siccio'  avvertiva 
meno  diceria  contro  del  popolo.  Adunque  cominciarono 
dih'geotemcnte  a discutere,  quabti 'fossero  da  : processare, 
qpal  titolo  Ressero  al  giudizio  « e qtialé.  ne  sarebbe, '.e 
quanta  la  pena.  1 più  buj  di  carattere  consigliava  nò  che 
si  desse  a tutta  un  aria  di  graveùa  e di  terrore  f in 
opposito  i' più  miti  voleano  moderazione  e ^clemenza,  é 
Siccio  era  ,il'  capo  di  questi , e-  ve  li  persuase  ; io  djco 
colui  che  perorò  per  la  partizion  delie  terre  diuonti  del 
popolo.  Parve  loro  che  si  trascùraasero- gli  àitri  patrizi, 
e si  menassero  al  popolo  i Clelj,  i Posiumj,  i Sempronj 
a subirne  le  pene 'delle  opere' fotte  : *si  ! accusassero,’ .di 
aver  soverrbiato  .ed  rnipedUo  i tribuni  dal  forc'uliiiiutre 


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p 

28 a DETXr.  AMTlCìrtTA’  ROM^WE 

la  deftsioQ 'della  legger  qa«ido  lè  l^gt  facre  -dei  Senato-- 
e del  popolo  ,hqn  tsoucedoM  ad;  alcuno , di  p/dl^i  ri<» 
durre  come  gli  altri  ciltadint  a seflTric  cosa  veruna  con- 
tro fot’  voglia.  Quanto  alle  pené  piacque  loro 7 di'  vei— 
ger&i  air  inteola  più  discreto  della  legge  , e nou<  fissare, 
pe’rei  né  la  nioMe,  nè  restilo,  uè  altre  'duretae  odiose, . 
perchè  non  lostero  ad  essi  cagion  da  sottrarsene  , ma 
solo  di  renderne  i beni  sacri  a Cerere.'  Cosi  fu  con-> 
chiuso  t ed  alfine  sen  venne  il  tempo  di  giudicare  co- 
loro. I cooteli  ed  i , patria]  («rau  questi  i migliori)  a^^ 
sunti  per  consultatvisi -opinavano  che  si  dovesse  con- 
cedere a!  tribuni , la  punigione  , affinché  i|upedki  Uoa 
causassero  male  tpaggiore  1 e lasciare  che  i ^plebei  furi-' 
Ixmdi  versassero*  r ira  loro  sù  le.soÀanxe  degli  accusati 
affiprhè  paesane  arendeita  quanta  ne  voleanp  *,  V iirq>U- 
cidnsero  *pér  l’ avveAire prinoipalmente  ché  il  danno 
negli  averi  potrebbe  risarcirai  a chi  aosteuevalo.  Or  Unto 
appunto  àddivénne.  Imperocché  condannati  questi,  scnaa- 
apptfrìre  in  giudizio,  il  popolo  Inasprito  se  ne^raddolci,- 
ì tribuni  pensarono  che  fossè  rendalo,  loro  un  -moderato 
eivil  potere  e sostegno:  ed  i'patrizj -restituirono  ai-  con- 
dannati le  lo'to  ^stanze  reiHmendole,  a prezzo  eguale 
da  chi  -areale  dal  pubblico  comperate.  Con  tali  ripari  -si- 
dissiparono  i mali  imminenti  ^lla  repubblica.  , ' 

XMII.  Dopo  non  molto  riprodussero  i.  tribuni  il  di- 
scorso su  la  legg^y  àia  l’avviso  delia- irmzioae  repeatina 
de’ucjidci  sul  Tusoolo  fu  causa  bastante  ad  im^edirneli. 
^ceeiuccliè  precipitandosi  li  Tuscolani  in  folta  a , Roma 
«'dicendo  essere  giunta  una  artnaNi  grande  di  Equi, 
che  av«a-  già  devaatatq  le  foro  campagne  , e ohe  tra 

; , 


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LiBFo  X.  a83 

pochi  gieini  ne  espugnerebbero  fin  k ciwà  se  ben  tosto 
non  sibccorpeTauo  ; iK  Senato  decretò  ‘che  v’ andassero 
entrambi  U consolù  .ed  i consoli,  intimata  la  leva,  fchk* 
tnarono  tutti  i dttsdini  alle  anni.  Ebbevi  anche  allora 
del  snsurro,  oppibnendovisi  i tribnni  alla  iscrizion  mili^ 
tare , né.  volendo  die  gl’  indocili  si  pòm'ssei'O  col  rigor 
delie  leggi:  ma  tutto  io  indarno.’ Imperocché -il  Senato, 
raccoltosi,  decretò  che  uscissero  alia  guerra  i ' patck)  coi 
loro  clienti  : che  quanti  voleano  avér  parie  nel  aalvaro 
la  patria,  avessero  ancor  parte  nelle  sante  cose  de’ numi, 
ma  che  niuna  più  ve  n’  avessero  quei  -che  lasciavano  i 
consoli.  Saputosi  il  decreto  del'Sen^o  nell’  adunanza 
del  popolo  mólti  si  misero  spontaneamente  all'  impresa. 
Vi  si  misero  i p{ù  ingenui  per  la  verecondia  'di  non 
soccorrere  toha  città  confederata  ,'  diauuta  wmpre  per 
r aderenza  sua  con  Roma  : tra  questi  fu  Siceio  1’  accu- 
satore presso  del  popolo  degli  usurpatori  delle 'pobblidie 
terre , -il  quale  menava  seco -ottocento  uomini,  timi  co» 
me  -lui  di  età  superiore , nè  piè  vincolati  dalla  legge  ^a 
combattere  ma  pieni  della  riverenza  del  valentuomo 
pe’  grandi  benefizj  ricevutine  aveano  ripntato  cosa  non 
degna  di  abbandonarlo,  mentre  rinsciva  egli*  a fitr 
guerra.  Òr  questa  tra  la  milizia  d’  allora  fu  di  gran 
lunga  la'  migliore  per  la  perizia  iu  combattere  , Come 
per  T'ardire  tra’ pericoli.  Seguitarono  anepr  altri  T eaer- 
cito-  vinti  dall’ aderenza  e dalle  istanze  de' seniori.  - E il 
èri  pur-  k milizia 'pronta «sempre  a tnui  {.pericoli  per 
amor  deUe  prede  , che  si  fan  tra4e  arme..  Pertanto  in 
poco  tempo  ebbest  un  armata  numerosa  , e .'fornita 
splendidissimameute.  .!■  nemici  udite  che  i Romani  mar* 


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*84  DELLE  Antichità’  romane 
cercbbero  contre  ^ essi  , ravviafóQO  terso  la"  patria 
r esercito  : ma  i consoli  avanzando  ,a  .gran  >freila<  ii 
ragginnsero  p ‘ che  erano  accampati  vicino  ài  - Anzio  su 
monte  alto  e scosceso,  e vi  si  trincierarono  non  lontani. 
Rimasero  alcun  tempo#  ciascuno  né’proprj  alloggiamenti. 
Ma,  poi  gli  Equi  spregiando  i Romani , perché  questi 
non  avevano  i, primi  assalito,  e riputandone  insuflìciente 
la  molt(tudine , uscirono,  e li  traversarono,^  e respinsero 
colla  cavalleria , mentre  erano  spedili  per  frumento , >o 
per  6eno,  e gl*  investirono  improvvisi,  mentre  scendevano 
a tor  r acqua  ; e più  volte  a battaglia  li  provocarono. 

XLIV.  -Or  <^iù  ^veduto  i consoli  deliberarono  di  non 
mandare  più  « in  luogo  la  guerra.  Speltarane  in  quei 
giorni  il  comando  a Romilio  j ed  egli  dovea  date  i se- 
gni , ordinar  ie  milizie , i cominciar  la  battaglia  , o so- 
spenderla , Sgolandone  i tempi.  Or  cpme  questo  ebbe 
imposto  che‘1  segni  si  alzassero  delia  ]>attagiia  ; e cavò 
le  milizie  dalle  trincee#. e comparti  fcavslieriie  fanti  per 
coorti,  ciascuno  ne’luoghi'  Convenienti  ; alfine  chiamando 
Siede  gli  disse  : iVbi  combattiamo  da  quindi  o Succio, 

1 nemicL  Tw-  mentre  noi  ed  efsi  ci  risparmiamo  ap- 
parecchiandocip  va  di  fianco  per-  quella  via  sul  monte 
ove  è il.eaatpo  nemico,  e v assalùci  quei  che  ilo 
guardano  , affinchè  gli  altri  che  slan  contro’  noi  ne 
teman  la  perdita,  e tentando  soccQnjerlo  ci  volgari  le 
spalle  ; e cor/ie.  avviene  ^in  una  subita  ritirata , si  affi. 
foUirt  tutti  per  una  strada  , e con  fUcilità  li.,  conqui- 
diamo : o se  qui  si  rimangono  ; lo  perdano  il^  campo  ^ 
loro.  La  milizia  che  -lo  presidia,  per  quanto  seti  con- 
cepisce, già  non  è.  per  sè  foige,  ma  pan  mettere  tutta 


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■ ' LIBRO  X.  , ■ 285 

la  fiducia < sua  nella  garanzia  del  silos  ma'  soprauan- 
zano  a le  li  tuoinnilitarì , ottocento  di  numero,  cam- 
pioni tulli  di  tante  batlt^lie , 'idonei  per  invadere 
d'  improvviso  e prendervi  magnanifiuanenlè  talli  con- 
turbali. Siedo  replicò  : ben  io  son  pronto  a tutto  : 
ma  facile  ,non  è , come  credi  , la  impresa  : imperoc- 
ché la  rupe , “ové  è il  campo  , è sublime , e dirotta  , 
e senza  vie  che  vi  guidino^  fuori  che  una  dalla  quale 
ci  piomberanno  addosso  i nemici.  Egli  è Perisimile 
che  acconcia  ne  sia  - la  guanugione  , e quando  anche 
scarsa  fosse  per  avventura  nè  valida;  basterebbe  can- 
tra piic  schiere  che^  non- le  mie  concedendole  il.  silo 
la  sicurezze^  Se  dunque  pericolosa.^  la  prova;  cangia 
piuttosto  consiglio  f o per  ogni  modo  vuoi  due  bai* 

taglie  in' un  tempo , imponi  che  guerrieri  scelti  e ba- 
stanti siegiuuw  me  co'  miei  veteratth»  nè  salirem  di 
furto  a quel  campO) , ma  cospicui, ^ e violenti  -per 
espugnarlo.'  • 

' XLV.  Egli  seguitava  lattaria  , quando  interrompea- 
dolo  il  coitso|e;  n^n  (Jsbisognanò,  disse,  Uaile  parole: 
se  hai  cuore  per  ubbidirmi , va  , spedisciti,  non  di- 
scorrere da  capitanò:  ma,  se  ricusi  e fuggi  il  pericolo, 
varrommi  dt  altri  alla  impresa.  Tu  che  combattesti  'i 
quarand  apni,  in  cento  venti  battaglie,  tU  chè  se’ ct^ 
perla  di  elcatrici  in  tutto  il  corpo,  tu  venuto  qui' 'vo- 
lontario , va  , ritorna , non  volerti  brigar  col  nimico  , 
nè  rimirarlo  ; e solo  aguzza  , , noti  le  comi  , ma  'po- 
destà tua  lingua,  cóme  la  usavi -già  sui  patrizj.  Dove 
son  ora  que  tanti  tuoi  premf,  le  collane,  i braccia- 
letti , le  aste , gli  abbigluuperai,  le,  corone-  de’cònsoli. 


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2 86  ‘ DIÌIXE  ANTICHITÀ.’  BOMANE 

ìe^spojglie  de’  cònfiiui  di  persona  ù persona  ? Dove 
quella  tanta  farragine  che  ahbiam  tolleralo  jnel  dir 
tuo?'  l^éseo'  prova  in  una  opera  sola,  pericolosa 
veramente  , assai  li^manifesli  f qual  sei ^ mitlanuuorer 
e non  bravo  , o solo  di  nome.  Inacerbito  'Siccia  a tali 
onte',  veggOy  disse,  o Romilio  che  ti  hai  iu  proposto, 
che  io'  viva  , e non  operi,  e ricusi  II  pericolo,  e men 
abbia  fama  di  vile  o , che  io  mbra  tra  gli  straz/ 
oscuri  e pessimi  de'  rtemici,  perchè  Cuna  io  ti  sembro 
de  ISteri  pensatori.  Certamente  mi  vuoi  tu  spingere'  a 
morte  non  dubbia , ma  potentissima  ; piu-  mi  oc* 
QÙigo  , e rischierò  me  stesso'" noti  dimostrandomi  vile, 
ma  vincendo  quel  campo-,  'o-se'  ciò  .esser  non  può, 
morendovi  coraggiosissifnomente.  E voi-  compagni  di 
arme,  se  udireto- la  mia. mòrte  , voi^  siatemi  teeùmonj 
jìresso  gli'tdui  citutdini,  che  il  mio  valore,  e il  libera 
dir  mio  mi  hah  costata  la  yita.  Ciò.  dello  al  console  , 
e lagritnatobe  , e salutati  i falnigliari  ; ne  andò  con  gli 
ottocento  sooi^  rabbulTaii  e piangenti,  come, alla  mprte; 
e lutto  d vesto  ddl’ armata,  ne  impietosi,  quasi  più  non 
fosse  per  rivederli, 

' XLVI.  Stccio  rivoltosi  ad  altra  'vìa  cb^  non  quella 
concepita  , da  Romilio  menò  li  Auoi  di  fìanco  al  monte. 
Imperocché  ci  aveva  una  selva  profonda  , e qua  • sen 
venne , e fermatosi  disse  : Il  console , corno  vedete  , 
mandaci  alla. rovina:  egli  vuole  che  rie  andiamo  ob-> 
bliquamente  per  quella  slracbi , impossibile  a salirsi 
di,  rutscosòr  dei  nemici:-  ma  io  vi  condurrò  per  vie 
non, visibili  ad  essi;  e ben  mi  presagisco  trovarle  tali 
òhe  ci -guidino  sul  morite,  e sul  campo.  Inanimiìevi 


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« . , LlDnO  X.  ‘ 


387 


dunque  i e speràlCk  Ciò  detto  s*  avviò  Wk  fa  selva , '>« 
eorsooe  buoa  tratto,  a’ imbattè  con  un 'cHtadioo , parti» 
tosi  non  so  d’  onde  , e fattolo  arrestare  ; , sei  prese  a 
guida.  E colui  rigirandoli  gran  tempo  attorno  del  mon* 
te , li  pose  al  fine  su  di  nn  colle  rimpetto  degli  aHog< 
giamentl  dal  quale  in  ’ poco  e speditissimamente  vi  si 
andava.  Intanto  le  armate  de’ Romani  e degli  Equi  eransi 
avveniate,' e eombatteano  di  piè  fendo*, '' e^alj  di  nta» 
mero,  di  arnìte„  di  'coraggio.'  Adunque  alternarono  lungo 
tempo  di  sorte -cavalieri  con  cavalieri,  e fanti  con  fanti, 
ora  prevalendo  or  cedendo,  ^n  perdita  di  valentuomini 
da  ambe  le  parli.  Ma  da  ultimo  > la  battaglia  ebb^  un 
fine  decisoli  Imperocché  -Siccio  co’  suoi,  non  Si  toifo  - fu 
-presso  degli  alloggiamenti  , trovalbne'' il  danto  verso  di 
sè  derelitto  dalla  iniliiia , intenta  tutta,  come  n spetta» 
cólo  dal  canto  verio  del  combattimento  > vi  diede  faci» 
lissimitmente assaltò  , -e  sonrontpvvi  : . e prorompendo 
in  grida  ; corsele  come  dall’ alto  ^ addosso.  Sopraffatta 
quella  dal  mate  impensato  e concependo  che  venisse 
non  qne’  pochi  ma  l' altro  console  colle  > sue  schiere  si 
precipitò  fuori  delle  trincee,  per  la 'più.  gran  parte 
senz’arme.  Que’di  Siccio  ne'  uccisero 'qua  uà  ne  presero, 
e signori  già  degli  alloggiamenti  , ripiombarono  sa  gli 
altri  nel  piano.  Gli  Equi  , conoscinta- dalla  foga  e dar 
damori  la  presa  degli  alloggiamenti,’  e veduti  dopo  non 
molti^.i  nemici  correre  loro  alle  spalle,  noo 'mostraùlno 
.già  cnof 'generóso  , ma  dnordinadsi , ceecàrono  scanapo 
per  varj  sentieri.  Ma  iu  questi  appunto  fecesi  strage 
copiosa  , non  avendo  i Romani  lasciato  d’  iusegnirli  a 
trucIdarvegU  fino  alla  notte.  Siccio  ne  era  l’uccisor-  più 


/ 


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288  DELLE  antichità'  BOMANE 
graude  Ira  Ilice  d’imprese  bellissime:  e quando  vide  le 
cose. nemiche  ornai  ridolte  al  suo  temiihe,  egli  già  fatta 
notte  , tripudiando  e forte  magnificandosene  rimenò  la 
sua  coorte  agli  alloggiamenti  espuguati.  1 suoi  npn  sedo 
illesi  ed  inviolati  da’  mali  che  ne  temeyanó  „ ma 'em- 
piutisi tutti  di  gloria  vivissima  , lo  chiamavano  padre  y 
salvatore,  Dio,  ed  ogni  altro  bel  nome,  nè  finivano  di 
felicitarlo  con  amplèssi  ed  -altre  esuberanze  di  'gioja. 
Intanto  r altra . milizia  romana  tornava  al  campo  tuo 
‘ dall’  inseguire  i nemici.  > , . 

. XLVIL  Era  già  la  mezza  notte  , quando'  Sfecio  ra- 
minando  1’  odio  suo  'bontro  de’  (Gasoli  che  ,lo  oveano 
spedito  alia  morte  -,  si  pose  in  ' animo , dì  tor  loro  la 
gloria  4el  buon'  successo.  Rivelato  il  cor  suo  tra’  com- 
pagni , e sembratone  a tatti  benissimp  , anzi  ammiran- 
done Ognuno  i concetti  e F ardire,  .^li  prese  e fe’' 
prender  le  armi  , e prima  uccise  guanti  trovò 't|tnvi 
nomini,  cavalli,  ed  altri  animali  degli  Equi,  e pòi  mise 
in  fiamme  i padiglioni , pieni  di  arme  , di  vesti  , di 
apparecchi  di  guerra  , e di  robbe  moltissìmé , recàtevi 
dalla  [ureda  tascoiaua  : al  fine , dopo  svanita  ogni  cosa 
tra  r incendio,  parti  su  I’  alba  senza  altro  che  le  arme, 
e rientrò  con  marcia  rapidissima  in  Roma.  Osservativisi 
questi  appena  , solleciti  tra  le  arme , tra  ’b  sangue , tra 
i cantici  della  vittoria  , eccovi  grande  il  concorso , e la 
smania  di  visitarli  , ed  intenderne  le  cose  .operate.,  Ed 
essi,  andatine  al- Foro,  ve  le  narrarono  ài  tribuni:  ed 
i tribuni,  intimata  un’adunanza;  comandarono  loro  che 
vi  favellassero.  Era  già  grandè  la  moltitudine  ; quando 
Siedo  recatolesi  iunanzi  narrò  la.  vittoria  \ e' le  maniere 


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LIBRO  xr  '289 

del  combatlimentp  j >e  come  il  campo  nemico  era  preso 
per  ie  ' forze  sae>e  degK  ottocento  suoi,  spediti  dal  con- 
sole a morire,  e come  infine  le  altre  • milizie  combattute^ 
dai -consoli  ne  ifurono  ridotte  a fiìggjre,  Chiedea  per« 
tanto  che  non  sapessero  grado  , se  non  a luì  dèlia 
vittoria  dicendo  in' ultimo  : noi  veniamo  sMve  le  per- 
sone e le  arme  , nè  pattiamo  coià  ninna  grande  o 
picciola  delle  involate  ài  'nemico.  Il'  popolo  -alf  udirli', 
impietosì,  lagrìmò  , vedendo  la  età  , considerando  la 
fortezza  de’  valentuomini , e crucciandosi , • e smabiandó 
so  chi  voluto  ne  aveva  privare  la  patria.'  Sorkène,  come 
era  l’intento  di  Siccio  , l’odio  di  tutti  contro  de’ con* 
soli.  Il  Senato  srésso'non  soffrì  ciò  di  buon  animo,  nè 
decretò  per  essi  il  trionfo'  o altro  pe’ fausti  cornetti- 
menti.  H popolo  poi  veduto  if  tempo  della  scelta  dei 
magistrati  , nominò 'Siedo  tribuno  ; conferendogli  la  di- 
gnità della  • qpale  erà'  1’  arbitro.  E tali  furono  le  cose 
più  rilevanti  operate  in  qòeiranno.  '•  1 

XLVllI.  Spurio  Tarpeo , ed  A11I9  (i^  Térmipio  pr^ 
sero  il  consolato  per  l’  anno  seguente  (0).  Questi  carez- 
zarono di  continuo  il  popolo  con  più  medi  , ccène  col 

previo  decreto  del  Senato  su’ magistrati  (3);  imperocché 
“ * » * 

(i)  Si  coniulti  SigoDÌo  su  Livio.  Di  là  si  raccoglie  cìie  forse  dea 
Irggtt ti' jfterh.  \ ' 

(a)  Anna  di 'Roma  3ao.  secondo  Catone.. ^o»  secoado  Varrone, 
e av'.  Cristo.  , . ' 

(3)  Cioi  che  si  potessero  multare  i magistrati  arrogami  o clie 
trascendevano  i limili^dei  loro  poteri.  Vedi.g  5o^i  rjueito  libro. 
Nondimeno  vi  è chi  crede  che  vi  si  parli  del  senatusconialto  fallo 
emanare  dai  consoli  perchè  li  tribuni  potessctp  ìar  approvare  dal 

DlOillGT,  amo  Iti.  • ' » ' ' <'!)i 


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agà  DELLE  antichità’  romane 
vedeano  chQ  dal'contrapporglisi  ^od  ndoodava  ai  patrlz) 
cbe  mvidia , odio  , ofTese  private,. e sciagure  per  i più 
.ardenti  nel  sostenerli^  e sbigottivali  più  che.  tutto  la  ca- 
lamiti de*  consoli  dell’anno  precedente  ; i .quali  solTri- 
rono  tanto  dal  canto  del  popolo,  nè  trovarono  -soccorso 
nluno  dal  Senato.  E per  veriti  Siccio , qnegli  che  area 
coU'  espugnarne  il  campo  , espugnato  insieme  V annata 
degli  Equi , creato  allora , come  ho.  detto  , tribuno  , e 
fatti' nel  primo  giorno  della*  sua  magistratara  sagrìfiai 
legittimi  pel  buon  principio,  intimò  aranti  di  ogni  altra 
pubblica  cosa  a Tito  Romilio  di  venirne  al  < popolo  in 
tempo  determinato  per  giuslificarvisi  intorno  1’  abusata 
repubblica.  E Lucio  (i)^  allora  edile  e gii  tribuno  deU 
r anno  .scaduto' citò  per.  eguale  maniera  Gajo  Yetnrio 
r altro  de’  o>nsoli  ultiini.  Intanto  prima  che*  d*  di  Sén 
Venisse 'di' quella  causa.^  facendo  l’uno  e^l’ altro  d^li 
accusati  calde  brighe  e raccomandaziodi,  essi,  come  già 
consoli , assai  speravano  su  del  $éQato  ; • e teneano  per 
leggero.,  il  pericolo , promettendo  i seniori  di  quel  ceto 
ed  i giovani  che  ilon  lascerebbero  far-  tal  giudizio.  Ma 
ì tribuni  prevependo  tutto  da  lontabo,  e non  valutando 
preghiere;  non  minacce,  non  pericoli  ; a{q>ena  giunsene 
il  tèmpo,' convocarono  .il  popolo.  Eransi  già  riversati 
da’  campi  in  città  poveri  e lavoranti  in  gran  numero  : 
or  .-questi  aggiunti  alla  moltitudine  interna  'empierono  il 
Foro,  e le  vie  che  vi  conduconp. 

popolo  il  progetto  sa  la  formasione  del.le  leggi  , eguali  per  tatti  ; 
'argomeaio  allora  di  controTeraie , -come  apparisce  dalle,  coa'e  pre- 
cedenti/'’ -• 

(r)  Forae  Icilio  tribuno  dell’  anno  precedente.  . ' ‘ 


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• n. 


..  LIBRO  X.- 


».r-XLIX.,  laQ^oUo.per  il  primo  il  gÌRdluo' tU' Romi« 
lio , .Sieda  fattoti  (^vaati  .accurà  le>  violenze  di  lui  nel 
•DO  consolato  contro  de’  tribuni , e le  insidie  contro  di 
aè  e della  sua  coorte  nel  suo  capitanato.  E <jni  de’ sol- 
dati -di  quella  spedizione  allegavane  per  testimonj  non  i 
plebei, , ma  i pi^  distinti  palrizj,  e tra  questi  uq  giovine 
non  ignobile  per  lignaggio  e per  virtù  private , anzi 
boniàsimo  iu  anDe  , Spurio  Yergiuio  di  nome.'  ^Costui 
disse:  cIk  a\>endo  egli  voluto  esimere'  da  quella  spe- 
dizione. Matxo  .Jciiio  , coetaneo  ed  qmico'SUOf  figlio 
di'  uri  tale  dellfi  coorte^,  perchè  qifesti  non  ujttme.  ài 
un  tempo  col  ^adre  -à  morire  ^ e che  avendo  ottenuto 
da  Aulo  V srginio , zio  suo , e luogotenente  afiqrq 
delle  nfilizie  di  recarsi' ai  consoli^  chiederne  quésta 
grazia  ; i coruiyli  ebbero  cuore  di  .coatraddirh  , ed 
egli, fa  ridotto  al  conforto  nùsero  delle  lagrime  ^ non 
restar^do  à (iti  che  dèplorare- la  calamità,  delf  amico  : 
che  t antico  pel  quale  pregqvaf  udito  ciò,  se_n  venni, 
9 chiesto  di  parlate  protestò  choj  avea  pur  grandi  gli 
obblighi  agi  inteAiessori  suoi,  rna  che. mai  grad^ebbe 
anche  ottenutala  una  concessione  che  levavagli  d' esser 
pietoso  inverso  del  sangue  suo  : nè  nidi  si  Hmove/ubbe 
dal  padre  quanto  più  si  avyiava  a. morte,  certa  come 
tutti  sapeane  : anzi  ne  andrebbe  con  lui  pey  difen- 
derlo fin  dove  potrebbe  , e correrne,  la  sorte  medesi- 
ma, Or  costui  ridicendo  tali  cose , niun  fu  " che  nou 
commiscrasse  la  sorte  di  tali  uomini  : ma  quando  poi 
chiamati , comparvero  per  attestarla  , (cilio  ' padre  , e 
figlio,  e oarrarono  cioochè  era. di  loro;  non  poterono 
i più  del  popolo  contenere  le  lagrime.  'Perorò,  se  ne 


293>  DELLE  ANTICHITÀ^'  ROMANE 

difese  Ròmilk>,'non  ossequioso,  non  pi^érole-ai  tem« 
pi  ; ma  fastoso , e,  grande  ne’  concetti  ' suoi , coÉàe  non 
si  avesse  a dar  cónto  del  consolato.  ■ Adunque  l’ira  ne 
crebbe* de’ cittadini , e rendati  arbhri  di  sentenziame  , 
deliberarono  ripercoterlo,' e condannarlo  co’voti  di'  tutte 
le  tribù  ; . talché  la'  condanna  fosse  una  ' multa  di  assi 
dieci  mila.  Siccio,  'sembrami,  risolvè  ciò  non  senza  nna 
.provi  denza  : ma  perchè  scadesse  il  favór  de'  patrizj  su 
costui,  nè  facessero  broglio  nel  darsene  ih  voto,  consi- 
derando che  la  emenda  era  * in  danari  e non  ‘altro  ; e 
perchè  li  plebei  fossero  più  pronti  a .pronunziarne  la 
pena,  non  dovendo  spogliare  l’àom  consolare  di  patria, 
nò  di  yita.  Condannato  Romilio  fu  dopo  pochi  giorni 
condannato  eziandio  Yeturio.'  Anche  la  multa  sua- fa 
pecuniarìa,  ma  suddupla  di  quella  del  <collega  (t)!. 

Ly  Sbigottirono  e provvidero  i consoli  di  quest’  anno 
di  non  avere  gli  eguali  trattamenti  dal  popolo  dopo  dd 
> consolato.  Adunque  non  \ più  governavano  misteriosa- 
mente, ma  Con  intento  manifesto  ai  vantaggi  del  popolo. 
E priipa  stabilirono  ne’comizj  benturiati  per  legge:  che 
tutti-  i magistrati  potessero  punire  quelli  i quedi  ecce* 
devono  o disordinavano  i loro  poteri  , perchè  per  ad- 
dietro non  altri  che  i consoli  pòteano  far  questo.  Per 


(i)  Qoi  di'cinqoa  mila  aui.  Ora  ciò  sembra  ragionevòle;  per- 
chè esseodo  Romilio  oppositore  più  che  Velario  de’  tribooi  , dovea 
sentirne  danno  maggiore.  Nondimeno  Livio  afTerma  che  Romilio  fa 
condannalo  per  dieci  mila  assi , e Velario  per  (piiadjci  mila  ; il  che 
ha -fallo,  interpreiare  la  voce  a/<<sA<er  per  tetqtUalUro  cioè  per 
l’altrelianlo  e messo  che  qui  sarebbe  quindici  mila  rispello  del 
diecimila  i ma  forse  in  vece  di  a^ieArer  dee  leggersi  a/a<rv. 


I ■ LIBRO  x<  ap3 

altro  noli  lasciarono  a’  punitori  arbitrio  nel  castigare  ; 
ma  determinarono  essi  stessi  la  multa  , limitandone  a 
dne  bovi  o trenta  'pecore  la  più  grande.  £ questa  ' legge 
8Ì,osfiervò  lungo  tempo  dai  .Romani.  Dopo  (iò  rimisero 
al  Senato,  r esame' delia  legislaùone  che  i '.tribuni  yo- 
leano  introdurre  comune  a tutti,  e per  secare.  E di- 
spuutosi  molto  da’ migliori  quinci  e quindi  per  ammet- 
terla. o no  t prevalse  alQne  contro  l’ immaginare  de’  pa- 
trizi e dei  plebei  la^  sentenza  di  Tito  Romilio",  che  tu- 
troduceva'  1’  utile  del  popolo  più  che  de’  nobili.  Certo 
concepivasi  , che 'egli  condànnatd  ultimamente  dal,  po- 
polo , ,ne  mediterebbe  e proporrebbe  tutto  il  male  ; ma 
pur  quest’  uomo  , ' che  era  tra  que’  di  mezzo  per  onori 
e per  anni quando  intérrogato  per  ordine  dovette  pa- 
lesare ciocché  ne  pènsava  , disse  : 

. LI.  £m  sarei,  o -patii,  uno  smoderato  se't>oUssi 
qui  dire  minatamente , a voi , che  vef.  sapete  , quanto 
ho  sofferto  dal  pòpolo  non  per  mie  private  ingiusti- 
zie i ma  per  la  henevolenza  mia  verso  di  voi;  tuttavia 
ciò  ricordo  per  neceisità,  affinchè  vediate  che  io  parlo 
per  lo  migliore  ,,  non  per  adulare  il  popoìp  , che  mi 
è eontrarioi  Nè  alcuno  si  meravigli , -je-  io  che  fui 
d altro  asviso  più  volte , e quando  fui  ^console  e 
prima,  ora  mutato  mi  sia  sttbitamenté  ;J  nè  vogliate 
concepire  che  non  bene  consigliassi  allora , , o non 
bene  mi  ritratti  ah  presente.  Io  finché  vidi , o padri  , , 
superiore  lo  .stato  de  nobili,  lo  favorii,  come  doveasi, 
non. curando  quello  dei  popolo.  Ma  poiché  fatto  savio 
da’  mali  miei,  vidi. a gran  costo  che  il  poter  vostrq  è 
minore  dei  vostri  voleri  ; e che  piegaridovi  alta  ne-, 


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294  DELLE  AWTKHITA^  ROMANE 

cessild  più  volle  avete  lasdèUo  manometter  dal  popolo 
quelli  che  vi  sostetievimA  , rdiora  più  ,non  tenni  gh 
antichi  pensieri.  E ben  vorrei  che  rion  fossero  a me, 
nè  al  collega  mio  succedute  le  cose  per  le  tjtiali  voi 
tutti  su  noi'vi  condolete.  Ma  poiché  finite  sono,  tali 
nostre  vieef^e,  e possiamo  solo  curar'  t avvenire,  prov- 
vedendo 'che  ailri  non  soffran  Iq  stesso  , v'i  esorto  ad 
uno.  xid  uno  I é tutti  insieme che  órdinialé  m bene, 
almeno  il  presente:  àmpcrocchò'JèUcissimamente  go- 
vernasi una  repubBlica  , la  qual  si  èontempera  alle 
sue  cose;  quegli  è il  consiglierò  migliòre  che  pòrge  il 
parer  suo  per  cònio  di  utile  pubblico^ -non  di  nirnid- 
xte  private  o furóri;  e benissimo  lei.  porgerà  su'tempi 
di  poi  chi  pigha  esempio  delle  cose  JWhtre  dalle  pas- 
sale. Noi.,  o padri,  quante  sfolte  si ■ disputò , si  'don- 
lése  tra'l  Senato  e tra ’l  popolò  ; tante  ne  àvemmo 
per  alcun  modo  la- peggio  con  morti,  «v»  esilj  , con 
sfingi' (T  Uomini  insigni.  Or  quale  sciagura  maggiore 
per  una. repubblica  che  le  si  tolgano  i cittadini  mi- 
gliori , ò senza  Una  cauia  ? Pertanto  io  vi  esorto  che 
questi  ve  ù risparmiate;  nè  gettiate  i consoli  presenti 
a''màmfesti  pericoli , abbandonaisdoli  poi  tra  la  tem- 
pesta, al  pentimento.  Deh!  che  non  gettiate  ai ‘peri- 
coli niim  altro  qualunque,  e sia  pur  egli  piccolissimo 
per  la  repubblica.  La  principale  fierò  delle  cose  che 
vi' raccomando  , è che  mandiate  deputati  ,'qiusli  nelle 
grecite  città  d"  Italia , e quali  in  Alene  ; perchè  vi 
cerchìn  le  leg'gi  migliori  , e più  confacevoli  a’  nostri 
costumi,  e Sce  le  fìpot'i.iio:  che  Ibrnnti  questi,  i con- 
soli propongano  al  Senato  , quali  debbansi  'scegliere 


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LIBBO  X.  395 

per  legitlatori  con  Jfual  potere  , , per  quanto  tempo  , 
e cosp  altrettali  come  - egli  le  crederà  spedienti  : fi- 
nalmente che  lasciate  le  discordie  col  popolo  , e di 
cofinetlervi  disgrafia  a disgrazia  , principalmente  per 
una  legislazione  , la  quale  ha  seoo , se  tiòn  altro  » uM 
apparqto  'almeno  di  maestà.  . 

- LU.  Seooodarooo  i dpe  consoli  ài  parer  di  Rqntiliò 
con  più  ragioni  premediut^  e , molti  altri  xonsiglieri  lo 
secoodaronof;  tanto  cbè  la  plorftità'vi  ^ deprsj^.  E già 
già  se-  ne  slendeva  ài  decreto,  quando  Slocio'.il^  trtbimot 
quegli  cbe  zyevz  accusalo  iLomilio  sorse,  e fattone  ekn 
gio  copioso , ne  laudò  la  mutazione  , e cbe  non  ayesse 
anteposto  Je  nimicizie  sue  all’  util  comune  ,-,ma  ^tto 
ingennào^entè  9ÌÒ.  eb’era  il  bene.  Peritai  meritp^  sog- 
giunse , IO  gir  rendo  qvesC  ossequio , 0 ^ptesta  ricono^ 
saenza  : io  U>  assolvo  dalla  multa  impostagli' nel  giu- 
dizià  , e dà  pra  in  poi,  me  ^ riconcilio  : perocché  ci 
ha  sopra^atlo  ftel  .bpne.  Egli  disse } e già  altri  tribuni 
presenti  acconsenlironò.  I^on  sostenne  RomiUo- dà,  pren- 
derne quel  conlnccambio  ; ma  lodati  i .tribuni  protestò 
cbe  pagherebbe  la  multa,  essere  questa  sacra  ai  numi: 
e non  fare  ■ cosa  né  giusta  nè  pia,  chi  spoglia  h numi 
di  quanto  si  dee  laro  per  legge  : e.  coti  £e$;9.  Steso  il 
decreto  dal  Senato , 'e  confermato  dal  popolo  , ' furono 
eletti  a prendere  le  leggi  da*  Greci  Spurio  Posiiunio  , 

Setvio.  Sulpicio , ed  Aulo  MalHò  (i).  Furono,  questi  a 
' . , " ^ „ 

(I)  In  Lirio  si  legge  PuM-  Sulpicio  .in  laog'o  di  Servio  Salpido 
come  scrivesi  '.in  Dionigi.  Servio  Sulpicio  fu  eOosdle  l'anno  193,  ma 
Publio  non  si  trova  cbe  'mai  lo  fosso.  Tanto  Liiio  quanto  Dionigi 
numeraao  Aulo  Manlio  Ua  i depùiati,  cd.  Aulo  Maoliq  seooado 


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2g6  DELLE  ANTICmtA’  'ROMANE 
pubbliche  spese  forn^  di  triremi- e > di  ogni  arredo  ; 
quanto  si  convenisse  ialia  maestà  ' dell' impéno  ; e cosi 
l’anno -spirò.  ''  ‘ 

' LUI.  Nella  olimpiade  ottantesima  seconda,  quando 
Lieo  Tessalo'  di  Larissa  vinse  allo  stadio  , e Cherofiino 
era  l’arconte  di  Atene,  compiutosi  1’ anno  ,trecent«imo 
dalla  fondasionb  di  Roma,  cretti  consoli  ' Publio  Orazio, 
e Sesto  Qaintilip  j[i) , proruppe  nella ^città  up  morbo 
coptagioso  , il  inaggioi%  di  quanti  ue  erano  ricordatL 
Vi  'perirono  quasi  tutti  i sèrvi , e circa  .Una  metà  di 
cittadini.  Non.  piò  i medici  avean  cuore  d(  curare  gl’ in- 
iermi  , non  i domestici , non  gli  amici  di  porgere  loro 
le  cose  necessarie  ; perocché  volendo 'assistere  gU  -altri 
còl  tatto  e col  commercio  ne  coutr^evan  i malu  Donde 
è che  piò  famiglie  si^  desolarono  per, deficiènza  di  assi- 
stenti. Non  era  la  minima  delle  sciagure*  quella  so  la 
esportazion  de- cadaveri,  ^ certo  era  causa'.cliè  il  morbo 
non  venisse  meno  subitamente.  Su  le  prime  per  la  ve- 
recondia , e la  copia  de’  funebri  apparecchi  bruciavano 
o seppellivano  i -morti  : ma  poi  curando  poco  la  vere- 
condia , o non  avendo  ciocché  bisognava , ne  gettavano 
molti  nelle  chiaviche , e più  ancora  nella  corrente  del 
fiume.  < £V>nd’  è che  spinti  ai  scogli  e alle  arene  delle 
rive , songeane  danno  gravissimo  ; perchè  spiccavasene 

Oiooipi  fu  contotq  r aono  s8o  i laddove  io  Livio  leguaai  .ia  quel- 
l’anno per  coufole  G.  Manlio.  S;  dunque  ì deputali  erano,  còm'a 
veri$imile,  tuui  uomini  co^olari  , il  tèsto- di  Dionigi  in  questi -lue- 
gbi  trovasi  più  eastigato  che  quello  di  LCvio.  t 

.-(t)  Aono  di  Roma  3oi  secondo  Catone ,,  3o3.  secondo  Varrone, 
e 45»  av.  Crisio.  • ■ • ’ 


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f ..  "‘uBao  x;  ' 297 

un -odor  fetidissimo,  il  quf^e  col  corso  dé’ reali  causava 
subite  mutezioni  ai  corpi  anche  saqi.  Nè  l’acqua  portatq 
dal  dame  era  più  buona  da  beveme  si  per  1’  odor  tri» 
sto,  ri  per  le  ree  digestioni < che  ne  seguivano.  ,Nè  il 
male  alla  dui  Kmkavasi,  ma  spaziava  per  le  campagne: 
tanto  che  non,  poco  ne  fu  dolente  la  turba  de’conudini, 
einpiutasi  del  morbo  de’ cavalli,  de’ buoi,  delle . pecore , 
e' degli  qliri  quadrupedi  tra’ quali  conversava.  Finché 
il  popolo  ebbe  scintilla  di  speranza  che  il  cielo  lo ’ soc» 
correrebbe,  si  diedero  tatti, alle  éspiasioni  ed  a’^agrifizj, 
introducendo  ad  onoridoensa  de’nnmi  riti  anche- insoliti, 
né  conveni^ntt:  non  Si  tostò  però  s’avvidero  che  i nu(nt 
a' loro  non  si  volgeano , nè  li  commiseravano ; si  al- 
lontanarono pttf  essi  dalle  pratiche  sante.  Morirono  in 
questa  calamità  'Sesto  Quintilio  .1’ uno  de’ consoli ò 
quindi  Spurio  Foiio  elettogli  successore,  qùaitro  tribuni, 
e -molti  rispettabili  senatori.  Or,  cosi.  1 angUendosi  ■ Roma, 
gli  Equi  destinarono  di  guerreggiarle,  e mandarono  alle 
nazioni  nemiche  di  essa  invitandole . a.  prendervi  parte. 
Ma  non  eransi  ancora  espediii  a por-,  già  eserciti  in 
campo , ancora  si  apparecchiavano , qoando  la  peste  si 
mise  pure  nelle  loro  città;  scorrendo,  non  gli  Equi  soli, 
ma  i Vobei,  e i Sabini  con  strage  gravissima  di  uomini. 
Dond’é.che  lasciate  incalte  le  campagne,  sopravvenne 
alla  peste  la  lame.  -Per  tal  morbo  non  fu^  totip  questi 
consoli  operata  in  patria  o tra  le  arme-  cosa  niòua  de- 
gna di  trasmetterla  nella  stona.  ' • . ' 

LIV.  Furono  per-l’-anno  ^guente  dichiarati  consoli 
Lucio  Menenio,  e Publio  Sesto.  In  esso  (i)-fini  la  per 

(1)  Anno  di  Roma  3oa  stcondo  Catone,  3o4  seedado  Varrooe , 
« ^So  IT.  Cristo. 


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2q8  delle  Antichità’  romane 

Milenz«,  e si  fecero  sagrifiz)  .pubblici  di  riograzUmenlo, 
e spettacoli  splendidissimi.  La  oitlà  com’-^.  treritinnile  , 
diedesi  a’  conviti  e sollazzi  ; a cosi  tae  tutto  F ior 
verao.  Sorta  la  primavera , vi  .fu  poìrtato  frumento  ior 
copia  e di  varj  luoghi.,  il  più  comperalio  col  pubblico 
erario,  e l’ altro  condottovi  da  mercadanti  perocché. H 
popolo  erari  nou  poco  travagliato  pel  cb'sagio  de’  vitt^eri, 
essendone  rimaste  incolte  le  terre  per  le  infermità  e le 
mo'rti  degli  agricoltori.  ' Nel  tempo  stesso  tornai^o  t 
deputati’ portando  le  lèggi  ..da' Atene  e dalie  greche  città 
d-  Italia;  Adunque  ne  andarono-  i tribuni  ai  oonsolt  o 
richiesero  ' che  nominassero  a norma  dei  decreti  del 
Senato  i formatori  delie  leggi.  Conturbati  i :COhseli  'da 
lauto,  non  sapendo  come  espedirat^  dalle  visite^  e dalle 
manze  continue,  itè  volendo  altronde  che  il  .comando 
do' pochi, sT  annullasse. nel  tempd  loro;  opposero  uóq 
specioso  pretesto  , e dissero  che  - erano  imminetiti  i oco- 
Diizj  y che  eoi  aVrebbero  prima  ( e presto-  il  ferebbèro> 
a designarvi  i consoli,  e designatili ',  propoiTebbero'  io* 
sieme  con  questi  ai  padri  la  scelta  de’  legislatori.  ^ Ao- 
cordativisi  i tribuni , essi  intimarono  -i-  comizj  prima 
assai  deir  usato  , e destinaieno  consoli  Appio  Clandio  , 
0 Tito 'Genuzio.  Dopo  questo  .omettendo  , quasi  già 
fòsser  di  altri,  .tutte -li  cure  {fùbliliche,  più  non  datano 
ascolto  ai  tribuni  ',  e solo  miravano  a sottrarsi  di-  briga 
nel  resto  delia  loro  raagistratnra.  Occorse  intanto  cbo 
Mencaio  l’ iroò  de’  consoli-  s’  ìnfernuMe  di  juna'  lunga 
malattia , e vi  fu  chi  disSe  che  il  languore  sopravvenu- 
togli per  -l’ affanno  e per  1’  abbattimento,  la  rendeva  in* 
sanabile.  E'  Séstio  sol  titolo  che  egli  non  "potea’  solo  per 


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LIBBO  X.  . 1 , a()9 

aè  fiir  aiedle,' respingeva  4e  istanzt  de’ tribuni,^  e voleva 
che  si  vbigessero  a miO^i  niagislrati.  E questi  non  avendo 
altoo  lYiodó,  furono  astretti  in  privato,  e nelle  adunanze 
pufablicbe  dirigersi  ad  Appio , e suo  collega , quantun> 
qùe  non  avessero  ancora  preso  il  coniando.  Or  gli  ri- 
dussero alQue  questi  uomini,  empiendoli'  di  grande  spe> 
ranza  di  onori  e,  di  potere , se  prendessero  a*” cuore  gli 
interessi  del'popdfo.  Imperocché -Appio  iu  invaso  dal- 
1’  ambizione  di  avere  una  qualche  nuova  magistratura , 
di  fondare  leggi  di  cònCordia  e di  pace",  e di  far  che 
tulli  estimassero  'che  la  patria  sola-  comandava^«u‘  citu* 
dini.  Ornato  però  di  una' grande  magistratura  non  vi  à 
contenne;  ma  inebbriàtone  da’ poteri  sublimi  ,^^tr^orse 
ai  furori  di  perpetuarsela  , e per  poco  non  giuose  alla 
tirannide  ; cqme  spbirò  ne’ suoi  tempi.  - 

LV.‘  Allora  dunque  cosi  pensaodota  con  cuore  -buono, 
'6no  a {lersuademe  il.* collega  egl’ invitato  più' volte  dai 
tribupi  alle  adunanae  , vi  'si  (^dusSe  , e 'tenpevi  molti 
ed  umani  ragionamenti.  I quali  rigiravansi . ip  t^eslo 
che  piaceva  a hd  come  al  collega  suo',  prÌTtcipalmeiUe 
che  si  destinassér  le  leggi,  e si  chetassero . le  ■ discara 
die  civili  su  diritti  ; e diceano  ciò  ' palesissimàmeute  ; 
come  pure  che  ''essi  ',  perchè  non  entrati  al  comando  , 
non  aveano  'facoltà  di  nominare  i cosUtutori' delle 
leggp  ‘ che  noH  si  opporrebbero  per  ' mòdo  'alcuno  a 
Menenio’  console  e suo  ^collega  se  dava  esecuzione  al 
decreto  del- Senato,  anzi’ che  do  - coadj'uverebbero  e 
ringràzierebbyo  ; che'  se  Menenio  e il  compiano  re- 
ylica  e protesta- ( Soggiungevano) , che  trovandoci  noi 
designati  per  consoli  f Tton  ^uo  ' nominare  altre' magi- 


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iSoO  DELLE  ANTICHITÀ.’  ROMANE 

slrature  lé  quali  prendano  podestà  pari' alla  consola- 
re ; noi  dal  canto,  nostro  non  saremo  V ostacolo  della 
operazione  : perchè  sporttanoi  cederemo  la  nostra  so- 
prastanza, se  cosi  • piace  in  Senato,  ai  nuovi  che  sce- 
glieransi  in . ^ogo  de'  consoli.  Elocomiava  it  popolo'  la 
buona  volonlà  di  tali  .uomini  ; e spiolMÌ,  tutti  ia  /olla 
nella  curht , Sesto  ( non  poiendoviai  tcovare  Menenjo 
per  la  iufern^ità  ) costretto  a convocare  egli  solo  il  Se- 
nato, propose  la  deliberazione  su  le.  leggi.  Ben  si  disputò 
qninci  e quindi  copiosaiaeute da.  chi  lodava  l’essere 
coiuanihto  dalle  leggi , e da  chi  chiedeva  che  si  rite- 
nessero le*  costumanze  paterne:  ma  prevale  il  , parere 
de’  consoli  designati  propostovi  da  Appio  Claudio  , in- 
terrogatone per  il  pritpo  : vuol  dire  cAe  si  icegliessero 
dieci  i più  cospicui  tra  padri  : che  forrtandastero  su 
tutta  la  repubblica  per  un  anno  dal  giorno  deità  ele- 
zione'col  potere' che 'ci  aveatip  i consoli',  e primari 
re  : e che-.fiotànto  che  governavanp  i decemviri  .ces- 
sasse ogni  altra  .màgislralura:  che  qqesti  proponessero 
le  leggi  più  utili  alla  ivpubblica , scegliendone  le  mi- 
gliori da  quelle  riportate  pe'  deputali  dalla  Grecia  , e 
dalle  usante. della  patria;  che  le  leggi  scritte  da  de- 
cemviri, approvale  • che  fissero  dal  Senato  e ratificate 
dal  popolo  ,,  valessero  per  tutto  f avvenire;  e che  i 
magistrati  che  si  creerebbero  a norma  di  queste  leg- 
gi , discutesteror  a rtórma  appunto  di  esso  i,  conti  atti 
d'e' privali,  e pròvyedessero  al  pubblico. 

- .,LYL.  Preso  questo  decreto  ne  anderonò  i tribuni 
al/ adunanza,  e letto  velo;  assai  vi  encomiarono  i padri, 
ed  Appio  che  lo  aveva  proposto.  Giunto  poscia  il  tempo 


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■ , ' LIBRÒ  x:^  . ‘ 3oi 

de’  comizj , i iribun!  convocatovi  il  popolo , fecero  ve« 
Dirvi  i censoU/ designiti  perchè  g[li  osservà^ro  le  pro- 
messe: e questi  presentatisi  ; deposero  il  consolato.  Non 
finiva  il  popolo  di  encomiarli  e lodarli:  fattosi  quindi 
a dare  il  voto  pe’  legislatori scelse  a tal  grado  -ipiestl 
due  per  i 'primi.  Imperocché,  ne’  comizj  per  centurie 
furono  eletti  legislatori  Appio  (gaudio,  e>Tito  Genuzio^ 
li  due' che  doveano  èsser  consoli  l’anno  seguente  :*  Pu« 
blio 'Sestiò.,  «insqle ^ dell’ anno  corrente,  li  tre  Publio 
Postnmió  , Cervio  Sulpicio  , ed  -Aulo  Mallio  -, . r qusfli 
aveano  riportate  le  leggi  da’  Greci;  Romilio  il  console 
dell’  anno  antecedente  (i)  il  quale  condannato  peo  le 
accuse^  di'  Sfócio  dal  popolo , fu  poi  sentito  il  primo  a 
dir  senlèDEe  fautrici < dello  stato  popolare:  e tra  gli  altri 
senatori  Cajo  Gialio , Tito  Veturio,  Publio  Orazio  (:i), 
penonaggi  tutti  consolari.  E così  furono  sciolte  tillte  le 
magistrature  di  tribuni , ^i  edili , di  questori , e quante 
altre  ven*  erano , proprie  di  ‘Roma.  - 

LVlI.  Postisi  nell’ anno  seguente  (3)  1 dieci  in  sn  gli 
aflàri  , ordinarono  così  la  forme  del  governo. , L’  uno 
di  essi  aveva  le  verghe , e le  altre  insegne  dell’  gutorilà 
consolare  , convocava  il  Senato  , ne-,  ratificava  i decKti, 
e ftceva  quanto  ad  un  capo  si  appartiene  gli  altri-  co* 

- < ' .y 

(i)  Cioè  del  quinto  anno  addietro  nel  quale  Romilio  fu  con- 
sole insieme  con 'Veturio  i tanto  che  Dionigi 'qui' ligtlar^a  geueral- 
mente  l’anteriorità  de’ tempi  sensa'  cirooaccÌTqrla  ^11' ultìmli  ae- 
cnrateisa . i . 

(s)  Lìtio  acrire  Curtaiio  ih  vece  di  Oraiia.  Forse  è shaglUi  dei 
scritti , e forse  Dionigi  e Livio'  attinsero  a ionti  diversa . 

(3)  Anno  di  Roml  3d3  Sccetndo  Catone  , doS-  teeondo  Varrooa  , 
a 4^9  avaati  Creato,  '--'s.  ’ •’  • '/  ' 


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Sol  DELLE  Antichità’  romane 

« i 

siiluUi  cose  per.  un  apparato  popolerèseo^il  quale  meno 
si -odiasse , poco  si  disùngiieaao,)a,  vederH,  dal  popolo:, 
aia  poi  tU  vìa  setleotrava  uo  altro  di  essi  perìotUca- 
laente  al  comandp  q)er,nunaero  certo  di  giovai.  Kacco» 
glieadosi  tutti  a consesso  dal  principio  del  giori^it  trat» 
tavauo  le  cose  private  e 1^ , pubbliche;  vdirimendo  con., 
tutta,  la  equità  e la  dolcezza  le  controversie  -le  quali  ac* 
cadevano  co’ sudditi.,  con  igli  alleati,  cob  ognuno  di 
debbia  fede.  i Pertanto  in  quest’  anno  ■ parve  }o  Stalo  ro* 
tbauo  benissimo  governato  .dai  decemviri.  LaudavascnC' 
soprattutto  la  sollecitudine  inverso_  del  popolo  , .e  la  di- 
fesa pe’ deboli  contea  di  ogni  violenza  : e dicevasi- puth- 
blicamenle  che  non  pìiH  bisognerebbero  a Roma  tiàbuni 
ed  altre  magistrature,  quando  ordinava,'  -tutto  sat^annente 
una  sola,  della  quale  Appio  ripntavasi  il  capo  eri» 
scuoteva  egli  solo  dal  popolo  gli  elogi  per  tutto  il--de>^ 
cemVirato<‘  Imperocché  a lui  davano  fama  purìasinwt'ìioà 
solamente  le  cose  che  egli  facea.di  ciior  buono. insièniè 
co'  dieci , ma  quelle  che  pratic«va  cesuntissimo  di  per 
sé  co’,  saluti , co’ nomi  umanissimi  , ed  altre 'degnazioni 
inverso,  de’ pqveri.  ,Or  questi  dieci  compilando  le  leggi 
dalle  leggi 'greche  té  dalle  .consaeiudjai  non  scritte  della 
patria,  le  esposero  a chiunque  volesse  pouderarlef  udeu- 
4one  ogni  rettificazióne  da’  privati , e conlemperandole 
al  pubblico  gradimento.  E gran  tempo' passaronq  con- 
sultandone in  copino^  co’  personaggi  più  degni , ' e fa- 
cendone sottilissimo  esame.  Or  poi  che  parvero  ad  essi 
Scritte  a proposito , convocarono  prinia  il  Senato  e 
jùuno  più  ceOBuràndole;  vi  fi  decretarono.  Quindi  adu- 
nato il  popolo  per  centurie , compite  le  cerimonie  di- 


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WBRO  xJ  3o3 

Woe  , \com’ ^ra  il  rito  .^a’ pontefici  ^ dagli  asgorì  , e 
dagli  altri  'kaori  «ioistrì  , , e ,'ir;^ado  quesli  presenti  , 
diedero  alle  peaturie  i vóti  perchè  sentenziassero.  E 
siccome  il  popola  confermò  queste  .leggi  ^ le^  iscrissero 
su  cplonhe  -di  bronzo  e le  collocarono  quindi  nel  Fo^, 
scegliendone  il.  luogo  più  .^insigne.  Quando  in6ne  rima- 
nea  loro  appena  poco  tempo  dèlia'  magistratura  .eonvo^^ 
carono  i pad»,  e' proposero  a discutere, su' comizj  cieor 
chè  era  da  .bire.  . • .1  ' • > • f 

LVtll-  Dettesi  quinci  0 quindi  più  cose»' vinse' final- 
tnente.il  partito  di  chi  consigliava  che  sì  tenesse  ancorsi 
il ■ decemvirato  su -là  repubblica;  peroccbè' compilata  in 
picciolo  ,t$mpo  la  legislazione  non  pareva  La  .tutto  ulti- 
osata.,  e -pareva  ancora  ;che  bisognasse  un  magistrato 
assoluto  per  .obbligare  , volessero  0 no , tutti , a quanta 
ne  èpa  già -stata  decretata.  Ma  ciò-,cbe  gl’. indusse  più 
che  tutto,  a preeleggere  i dieci. fu, rinlenlo  di  spegnere- 
il  tribunato , ciocché  bramavano  sommanaenie.  ''Tali  fa- 
tono  i risaltati  delle  - pùbbliche  « cousuUaziom  : ma.  in 
privato  i primi  del  Senato  disegnavano  procurare  per 
sè  quel  magistrato  Sui  timore  che  intrqduceodovisi  uo- 
mini turbolenti  nen  cagionassero  grandi  sciagure.  Il  po* 
polo  ricevè  con  diletto , e ratificò  Con  pieno  trasporto  , 
dandone  -il  voto  , le  sentenze  -dej  Senato. . I dieci  pre- 
fissero il  tempo  de’.comiàj-,  e li  più  provetti  e più  ri- 
spettabili de’  patrizi  ambirono  quel'  magistrato,  b*  fptì 
molto  ebeomiato  da  tutti  JVppio  , il  pruno  ^allora  del 
decemvirato  , * ed  il  popoip  vo)ea  .couifermarvelo  ,-  -come 
se  niou  altro  meglip  di  lui -lo  remerebbe.  Egli-  fingea 
su  le  prime  di  escusarsene  e 'cbiodeva  ebe  Ip  esimes- 


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3o4  DELLE  ANtlCHITA’  ROÌIArfE 

sero  da  nn  incarico  , pieno  di  travagli  e d*  invidia  : ma 
poi  Btimolandovelo  tutti;  fecesi  a chiederlo  nottamenle  ; 
anzi  dolendosi  dei  migliori  ' de’ competitori  , come  di 
animo  non  buono  verso  lui  per  4a  ' invidia  ; favori  gli 
amici  suoi  palesissimamente.  Egli  dunque  nc’comizj  per 
centurie  fu  crealo  per  la  seconda  volta  datore  di  leggi: 
e eoa  esso'lai  furono  creati' Quinto  Fabio  detto  Vibo^ 
lado  , già 'per 'tre  volte  console;  ed- irreprensibile  6no 
a quel  tempo  in  ogni  bel  costume  : e ira  gli  altri  pa-^ 
trii)  diletti  ^uoi;  Mai‘co' Cornelio,  Marco  Sergio,  Lucio 
MinuCio  , Tito  Antonio  , e Manio  Rabulejo , .uomiut 
non  molto  chiari  : de’  plebei  poi  Quinto  Poetelio , Ce- 
sbne  Duellio  , e Spurio  Oppio.  Aveaci  Appio  assunti 
por  questi  per  adulare  il  popolo  coi  dire  che',  1’  equità 
voleva  , • «he  , stabilendosi  una  magistratura  uòica  su 
tutte  le  -còse  ; aves^ro  parie  in  essa  anche  i plebei. 
Applaudito  in  unte'  queste  cose  , . e ‘parendone  il  mi- 
gliore dei  re  , e de’  soprastand  annuali  ; prese  la  magi.i 
stratura  per  l’ anno  che  seguiva.  Or  questo  e non  altro 
' è quanto  si  operò  degno  di  ricordauza  nel  primo  de- 
cemvirato presso  de’  Romani.  ' ^ 

LtX.  Presero  nell' anno  ^guente  -la  podestà  suprema 
i dieci  con  Appio  alle*  idi di  maggio.  Allora  i mesi 
legolavausi  colla  Iona , e cadeva  in  quelle'  idi  appunto 
il  plenilooio.  Or  prima  legandosi  tra  sagrifizl , arcani 
alla  plebe  , convennero  di  non  contrariarsi  mai  fra 
loro,  'di  ratificare  tutti  quanto  ciascuno  giùdicherebbe: 
di  ritenersi  la  magistratura  ih  vìta\  nè  Jasciare  che 
altri  vi  sottentrasse  : di  aventi'  tutti  onore  e potere 
eguali  : di  ricorrere  di  rarii  , e per  necessità  sola , ai 


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LIBRO  X.  . 3o5 

i>oti  del  Senato  e del  popòlo  , e di  ultimare  per  lo 
più  le  cose  colC  autorità  propria.  Poi  jrenuto  il  gio;^o 
da  pigliare  il  comando , ( è questo  giorno  sacro  ai  Ro- 
mani , e guardansi  tutti  di  ascoltare  o vedere  cose  non 
liete  ) ^ fatto  prima  sagrifìzio  agl’ Iddìi  secondo  il  rito, 
uscirono  ben  tosto  i.  dieci  su  la  mattina  con  tutti  i di- 
stintivi di  nn  regio  potere  (i).  Come  il  popolo  vide, 
che  non  osservavano  più  |e  mauiere  popolari  e, modeste 
di  preminenza  , e che  non  avvicendavan  fra  loro  come 
prima  i segni  del  comando  supremo;  assai  ne  decadde 
nell’  aspetto  e nell’animo.  Temè  le  scuri  messe  tra’ fasci 
portati  da  dodici  licori  dinanzi  a ciascuno,  i quali  fa- 
cean  largo  , dando  de’  colpi  come  prima  ai  tempo  dei 
re.  Era  stator  questo  costume  abolito  ben  tosto. dopo  la 
espulsione  dei  ré  da  Publio  Valerio , uomo  popolare  , 
quando  ne  succedette  al  comando.  E paréndo  essere 
stato  autóre  di  ottima  cosa;  tutti  i consoli  posteriore  fe> 
cero  come  lui,  nè  più  misero  tra’  fasci  le  scuri,  se  non 
quando  marciavano,  all’ armata,  o per  altro  intento  usci- 
vano da  Roma’.  Or  quando  portavano  guerra  agii  esteri, 
quando  visitavano  i sudditi,  assuiueans  le  scuri  ; .perchè 
r aspetto  terribile  di  esse- , . come  dirette  contro  de’  ne- 
mici e de’  servi , si  rendeva  mec  grave  pe’  cittadini. 

LX.  Veduto  ciò,  che  riputavasi  il  segnate  di  nn  re- 
gno , si  temè , come  ho  detto  , moltissimo , credendosi 
pòduta  la  libertà , e creati  dieci  per  un  solo  monarca. 
Con.  tal  modo  sbalordirono  i dieci  la  moltitudine  : e 

(f)  Anòo  di  Roma  394  secondo  Catone,  3g6  secondo  Varrous, 
e 448  ar.  CrJslo.  ' '1 

PlOStGt  , Itipu)  in.  ■ ' - . * IO 


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3o6  DELLE  Antichità’  domane 
fermi , cbe  avrebbero  a dominare  per  1’  avvenire  col 
terrore  ; ciascuno  fecesi  Un  seguilo  dì  ^oyanl  i più  le- 
Dterarj , e opporiuui  per  esso.  Ben  era  da  aspettare , o 
sperare  cbe  i più  de’  poveri  e sciaurati  si  dimostrassero 
fautori  della  tirannide  ; anteponendo  l’  utile  proprio  al 
pubblico  ; ma  non  era  da  aspettare  , nè  da  sperare , e 
certo  egli  fu  meravigliosissimo^  che  molli  patrizj  potendo 
grandeggiare  per  'sestauze  e per  , sangue  soffrissero  di 
opprimere  co’  decemviri  la  liberi^-  della  patria.  ' Costoro 
datisi  a tutti  i piaceri , quanti  sottopongono  1’  uomo  , 
comandavano  superbissitnamente  : e legislatori  insieme  e 
giudici  , tcncano  per  niente  il  Senato  ed  il  popolo,  ed 
uccidevano  e spogliavano  , conculcando  ogni  diritto.  E 
perchè  azioni  illegittime  e biasimevoli  sembrassero  noux 
indegne,  anzi  operale  per  giiislizia;  nomsi  accingevano 
a farle  se  non  previo  esame,  ed'uu  giudizio.  Erano 
gli  accusatori  inandaii  da* fondatori  stessi  delta  tirannide, 
creali  i giudici  dal  ceto  de’ loro  amici;  laDlochè  solcano 
questi  in  coniraccaràbio  sentenziarne  per  compiacerli. 
Molte  cause  però',  nè  di  poco  rilievo,  le  defìnivano  i 
dieci  per  sesiessi.  Cosi  quelli  che  erano  per  essere  de- 
fraudali del  loro  diritto  , non  trovando  altro  scampo  , 
conducevansi  necessariamente  a renderseli  amici.  Ood’  è 
che  col  volgere  del  tempo  videsi  la  parte  corrotta  ed 
inferma  maggiore  della  innocente.  Imperocché  coloro 
che  v'  erano  concul^cati  da’  decemviri  sdegnavano  di  ri- 
manervi , e si  ritiravano  «nelle  campagne  , Bspettandovi 
il  tempo  de  comizj  , ^quasi  coloro  finito  1’  apno  fossèro 
per  deporre  il  comando , ed  eleggete  nuovi  ^nagislrali. 
Appio  intanto  £ i colleghi  ^crisscA)  le.  leggi  che  rima- 


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LIBRO  X. 


nevano  in  altre  due  tavole,  e le  aulroao  alle  prime.  In 
queste  eravt  traile  altre  lajegge,  che  non  concodeàsi 
a^atrizj  il  matrimonio  co’ plebei:  e ciò  non  per  altro, 
io<  credo  , se  non  perchè  legandosi,  di  palentado  , non 
divenissero' le  due  classi  Unanimi  ne' pensieri.  Venuto  il 
tempo  de’  c’omizj  si  tennero,  saldi  ne’  pósti  loro  senza 
decreto  alcuno  del  'Senato  o del  popolo , con  violazion 
manifesta  creile  patrie^  consuetudini,  e delle  nuove  leggi. 

. LXI.  Dopo  quest’  anno  correva'  la  olimpiade  ottante^ 
sima  terza,  nella  quale  Crisone  'Imereo  vinù  allo  Madio 
mentre  Fijisco  era  l’ arconte  di  Atene , intanto  Appio 
Qaudip  riteneasi  in  Roma  (i)  la  podestà  suprema,  capo 
per  la  terza  volta  de’  decemviri  : e quelli  che  aveano 
con  'dui  ^comandato  1’  anno  antecedeate  , persistevano 
còm’  esso  nel  comando. 


* J • 

(i)  Addo  di  Roma  lo5  lecoodo  Catone,  ^2  secondo  Va^rOM,  « 
44;  Grillo. 


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3o8  ' ' ' 

DELLE  ' 

ANTICHITÀ  ROMANE  . 

. • * 

‘ DI  ' I , 

' ^ ’ r V , •» 

DIONIGI  ALICARNASSEO 

/ % 


LIBRÒ  UNDEGIMO. 

> 

t 

j * ■ , 


!•  OLGENDO  la  olimpiade  ottantesipia  ' terza  nella 
quale  Grisoue  Imero  vinse  allo  stadio  mentre  Filisco 
era  1 arconte  di  Atene  , i Romani  annientarono  il  de- 
cemvirato il  quale  governava  già  da  tre  anni  la  repub- 
blica. Ora,  io  tenterò  descrivere  dalle  origini  per  qual 
modo  , quali  nomini , con  i|uali  cause  e pretesti  , se- 
guendo la  libertà , si  lanciassero  a schiantare  una  si- 
gnoria che  ovea  già  profonde  le  radici  ; perciocché  ne 
reputo  la  cognizione  bella  e necessaria  principalmente 
al  Glosofo  die  contempla , ed  all’  uomo  dr  stato  che 
amministra , per  non  dire  a tutti.  E certo  .molti  non  si 


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LIBRO  XI,  3o9 

contentano  ^ conoscere  dalia  storia , solamente  come 
gli  Ateniesi  ed  i Lacedemoni  vinsero , per  esempio',  la 
^ guerra  col  Persiano , aiTrontandosi  in  due  battaglie  na- 
vali ed  nna  campale  contro  - un  barbaro  che  area  tre 
milioni  di  nomini , essi  che  'aveano  appena  cento  dieci 
mila  nomini  insieme  cogli  alleali;  ma  vogliono' por  co», 
noscere  dalla  storia  i luoghi  ove  occorsero  , .ed  kiten» 
dere  le  cagioni  per  lè  quali  si  compiecono  le  meravi- 
gliose ed  incredibili  gesta  , come  apprendere  quali  fos- 
sero i duci  delle  armate  greche  e persiane  , nè  essere  , 
per  cosi  dire , defraudati , di  cosa  niuna  fatta  ne’  com- 
battimenti. Imperocché  dilettasi  la  mente  dell’ nomo  por*, 
tata  quasi  per  mano  dai  racconti  alle  opere , e come  a 
vederle  dopo  ascoltatele;  E quando  gli  uomini  odono 
le  civili  vicende  , non  appagansi  di  udire  la  somma  ed 
il  termine  degli  ’ affari , per  esempio.,  come  gli.  Ateniesi 
permettessero  el^e  gli  Spartani  demolissero  le  mura , 
conquassassero  le  navi  di  Atene  , ponessero  guarnigionè 
nella  Iqr  cittadella  è vi  trasmutassero  il  governo  del  po- 
polo in  quello  de’pochi^  senza  nemmeno  combattere  (.i); 
ma.  bentosto  dimandano  quali  erano  le  angustie  di 'quella 
città  , onde  incorse  in  tali  orrori  è miserie , quali  e di 
chi  li  discorsi  che  ve  1’  acchetarono , e quanto  seguila 
tali  cose.  Dilettarsi  poi  della  contemplazione  totale  di 
quanto  ■concerne  gli  affari  è cQmifuq  a tutti ,.  come  agli 
uomini,  pubblici  , tra’  quali  colloco  àncora  i fUosofì , 
quelli  almeno  che  pongono  la  filosofìa  non  già  nelle 

(i)  Occorsero  tali  fatti  oelf''aoao  Hltimo  detta  goeri'a  del  Pelo- 
poaneso  ; conws  pu&  vedersi  io  Senofoute  nel  libro  secoado  lAasx- 
nel  lib.  -i3  di  Di  odoro , t nel  LitandrQ  di  Plutarco., 


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3 IO  DELLE  antichità’  ROMANE 

I 

parole , ma  nelf  esercizio  delle  opere  belle.  Cd  oltre 
questo  diletto,  ne  segue,  <die  in  tem^  difTìcili  prestino^ 
alle  città  con  tali  cognizioni  servigj  amplissimi , e le  4 
indirizzino  colla  persuasiva , spontanee , verso  quanto  le 
giova.  Imperocché  gli  nomini  iacHissimamente  codvin- 
consi  di  ciò  che  giova  o nuoce,  quando  lo  apprendano 
pe’ molti  esempj,  e rendono  testimonianza  di  perspicàcia 
e di  saviezza  grande  a chi  con  essi  ammaestragli.  Per 
tali  cagioni  piace  anche. a me  delineare  diligentissima- 
mente  quant’ occorse  degno  di  ricordanza  nell’  abbattere 
il  comando  de’  pochi.  Io  dunque  ne  parlerò , non  però 
cominciando  dalle  cose  ultime , che  pur  sembrano  a 
molti  la  cagione  unica  della  libertà , vale  a dire  .dai 
delitti  di  Appio  per  gli  amori  della  donzella;  perciocché 
son  qucsti^un’  aggiunta  o piuttosto  il  termine  delle  cause 
dell’ira  del  popolo,  essendone  precedute  altre  mille  ; 
ma  ne  pàrlerò  cotninciaudo  dalle  prime  ingiurie  de’ dieci 
alla  ritpubblica , e seguirò  mano  a mano  tutte  le  ingiu- 
stizie commesse,  nel  governo  di  allora. 

II.  La  prima  occasione  di  odio  coutro  il  comando 
de’  pochi  sembra  quella  di  aver  sopraggiuflto  il  secondo 
al  primo  decehavirato  con  dispregio  del  popolo , e con^ 
tro  la  mente '-del  Senato.  Fu  l’ altra  causa,  che  bandi- 
rono  ,*  o spensero  con  mentite  indegnissime  accuse  i 
Romani  più  autorevoli , perchè  non  approvavano  questi 
le  operazioni  loro.  I decemviri  traevano  da’  propr}  ade- 
renti chi  gli  accusasse,  e pòscia  «ssi  stes4  né  giudica- 
vano (i).  Fu  soprattutto  cagione  di  odio  coacedete  ai 

(■)  Piti  Toltr,  e non  sem|]ire,  come  appaiilce  dal  libro  precedente. 


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LIBRO  XI.  3ll 

giovani  più  baldanzosi che  ciascuno  avea  d’ Intorno 
sù , di  menare  o portar  via  olocch’  era  de’  contrarj  al 
governo.  Questi , quasi  fdssb  la  patria  espugnata  colle 
armi,  ne.^gllevano  non  solo  gli  averi  di  un  possesso 
legittimo;  ma^  ne.  oltraggiavano  le  mogli  belle,  e le 
nubili  figlie  ; battendoli  come  gli  schiavi , se  rjclamava>> 
no  , e riducendd' quanti  ner  credevano  IntorTerablle  il 
giogo  ; a lasciare  colle  -mogli  e co’  figli  lo^  patria  , ed 
alloggiarsi  nelle  città  vicine,  ricevutivi  da’Lallni  in  forza 
de*'- parentadi  , e dagli  Eroici  per  essere  stati  di  fresco 
creati-  cittadini  da'  Romani.  DI  guisa  <;he , come  è,  per 
sè  verisimile,  npn  vi  restarono  in  fine  se  non  gli  amici 
deija  tirannide,  e quelli  in  so.nma  che  niente  curavanst 
della  repubblica.  Imperocché  non  rliUasero  in  città  li 
patrizj , perché  nè  voleano  adulare  que’  despoti , nè'  po> 
teaoo  traversarne  'le  opere  ; nè  vi  rimasero  nemmeno 
gli  asciiitl  al  Sentito  I qu^li  doveano  per  necessità  star 
pronti  pe’  decemviri  ; ma  l più  trasferendosi  con  quanto 
aveano  in  famiglia;  dimoravano,  abbandonate  lo  case , 
per  le  carrqiagne.  Non  dispiaceano  gli  allontanamenti 
de’  grandi  personaggi  agli  amatori  del  decemvirato  per 
più  cause,  e principalmente,  perchè  I più 'giovani  di 
questi  erano  divenuti  don  che  scellerati,  molto  insoleati, 
né  poteauo  tollerare.  1’  aspetto  di  qtielll  , innanzi  dei 
quali  doveano  arrossirsi  della  loro  impudenza. 

III.  Derelitta  cosi  la  città  dal  fior  degli  uomiai  (^) , 
e cadùlavi  ogni  libertà  ; gli  Equi  già  vinti  da'  Romani , 
cogliendo  la  Occasion  propizia  di  combatterli , di  con» 

(i)  Anuo  di  Roma  3o5  Mcondo  Caioua,  ìof  ascondo  Vartoae  , 
c av.  Cristo. 


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3i2  delle  antichità’  romane 
traecambiarlt  delle  iogiorie  sostennlene , e riveodicarsi 
quanto  perduto  ci  aveano  , apparecchiaronsi  all’ armi , e 
marciarono  con  grandi  eserciti  contro  di  lei',  malconcia 
pel  comando  de’  pochi  nè  idonea  a tener  fronte , nè  a 
concordarsi  , nè  a'  cura<  dualmente  i pubblici  affari.  I 
Sabini  contemporaneamente  Invasone  il  confine,  c fattavi 
amplissima  preda  e strage  di  agricoltori  , sfavinsi  ac- 
campati presso  di  Ereto,  citità' presso  il  Tevere,  lontana 
cento  quaranta  stadj  da  Roma  (i).  Gli  Equi  riversatisi 
coir  esercito  su  le  terre  de’  Tuscolani , adjacenli  alle 
loro,  e devastatone  gran  tratto,  si  stavan  col  campo  nel 
castello  dell’  Algido.  Come  i decemviri  udirono  la  in- 
cursione , spaventati  convocarono  i ceti  de’  loro  parti- 
giani , e vi  consonarono  ciocché  fosse'  da  fare.  Parve  a 
tutti  che  ai  mandasse  1’  armala  di  là  da’  confini  , nè  si 
aspettasse  che  giungessero  le  soldaiesuhe  nemiche  a Ro* 
ma.  Dava  loro  però  gran  pensiero  primieraménte  se 
dovessero  chiamare  alle  arme  tutti  i Romàni,,  anche  gli 
indispettiti  contro  del  governo  ; e pòi  come  avessero  a 
fire  la  iscrizione  delie  milizie  se  co’ metodi  austeri  ed 
esosi  de’  re  e de'  consoli  , o con  altri  umani  e benigni. 
Nè  parca  loro  cosà  men  grave  a discutersi,  chi  dovesse 
decrÀare  la  guerra  , e le  leve  , il  Senato  o il  popolo , 
o niun  d’  essi  , come  sospetti  , ma  i decemvin.'  'Dopo 

1 < 

(0  Qiuvario  ncit'  Italia  amica  lib.  a pania  alierato  quatto  nnitiero 
di  tudj.  E vi  i;  chi  pausa  che  jdebba 'laggarsl,  RegiUo  in  luogo  di 
Ereto  ; alla  qual  scutenia  favoriico  Stefano  Biraptino  il  quale  segna 
Be^iUn  ira  le  città  Sahiue.  Ma  à meglio  di  concordare  eoa  Livio 
il  quale  tcrÌT«  t rtcrpiù  ad  Eretum  dgmtnif  castra  idcanl-  Vedi  ( i5 
di  questo  libro.  ■' j 


tic 


D 


• LiBBo  xi;  ’ ' 3i3 

multe  deliberazioni  risolverono  di  convocare  il  'Senato  « 
e far  si  cbe  vi  si  decretasse  la  guerra,  e si  permettesse 
loro  di  arrolar  le  milizie.  Iniperocché  iusiugavansi  in 
prima  che,  decretata  cosi  I’ uqa  e' l’altra  cosa,  vi  sa- 
rebbero tutti  più  docili  , massimamente  essendo  abolita 
r autorità  tribuaizia,  la  sola  che  potesse  contrapporsene 
agli  ordini  ; e poi  , che  dando  essi  vista  di  servire  al 
Senato  , e di  eseguirne  i voleri  , parrebbono  intrapren- 
dere coir  autorità  delle  leggi  la  . guerra. 

IV.  Cosi  i^isolutisi  , e preparatisi  tra’  congiuuti  e gli 
amici^  quelli  che  perorassero  in  Senato  la  sentenza  ad 
essi  proficua,  e ribattessero  chiunque  le. si  opponeva*, 
recaronsi-al  Foro,  e stabilitone  il  banditore,  ordinarono, 
che  chiamasse  ad  uno  ad  uno  li  senatori.  Ma  niun  ve- 
recondo davagli  udienza.  E proseguendo  il  banditore  a 
gridare  i lor  nomi , nè  presentandosi  alcuno  fuori  che 
gli  adulatori  più  infami  della  oligattehia  ; gli  astanti  nel 
Foro  prendeano  meraviglia  che  essi  i quali  mai  per  ad- 
dietro aveano  interpfllato  il  Senato  , sapessero  allora  la 
prima  volta  che  eravi  io  Roma  un  consesso  di  valenti 
uomipi  , a’  quali  spe^tavasi  discutere  il  bene  della  co^ 
muae.  Veduto  ciò  , si  applicarono  i 'decemviri  a cavare" 
i senatori  dalle  case  ; ma  udendo  come  le  più  .-ne  stes- 
sero vuote,  diiferironsi  al  giorno  seguente.  Intanto  spe- 
dendo per  le  campagne  li , richiamarono.  Eitipiutosi  il 
Senato  , Appio  il  capo  de’  decent  viri  > fecesi  innanzi  e 
disse  che  portavasi  a -Roma,  la  guerra,  da  due  parti, 
quinci  dagli  Equ^ , e quindi  da’  Sabini  ; tenendovi  un 
discorso  ariifiziosissimo* , indirilto  a far  votare  la  leva 
delle  milizie  e condurle  imipzntioeDtc  in  campagna , 


3i4  DELLE  Antichità’  romane 
non  peùnetteodo  T «Ifare  che  » indagiasse.  Or  lui  cosi 
dicendo  insorse  Lucio  Valerio,  soprannominato  Polito  , 
uomo  che  grande  tenessi  |>e' grandi  genitori:  certamente 
era  stalo  padre  di  lui  <|nel  Valerio  il  quale  espugnò 
Erdonio  sabino  l’ invasore  del  Campidoglio,  e ne  ritolse 
il  forte  , morendo  egli  poscia  in  battaglia  ; ‘ ed  avo  pa- 
terno eragli  stato  Poplicola  , colui  ohe  cacciò  li  mon.ir* 
chh,  e mise  il  governo  degli  ottimati.  Or  vedendo  Àp- 
pio che  costui  elevavasi,  e temendone  contrarj  discorsi  ; 
non  è questo,  disse,  o F^alerio  il  tuo  luogo,  nè  spet- 
tasi- ora  a te  di  parlare  : nia  quando  li  più  anziani 
é più  riguardevoU  cwran  detto:  allora  tu  pure  invitato 
per  la  tua  volta  dirai  ciù  che  ~le  ne  piace.  Or  ‘taci  e 
siedi.  Replicò  Valerio  : non  io  sorgo  a dire  su  que- 
ste cose;  ma  su  di  altre  più  grandi  e più  necessarie; 
che  io  giudico  che  debhansi  ascoltare  innanzi  dal  Se- 
nato. 'Decideranno'  essi  che  odono  qual  sia  cosa  più 
necessatia  da  udirla  , quella  per  cui  voi  'd  avete  qui 
convocato,  o quella  che  vi  sarà  da  me  disputala.  Non 
impedire  dunque  il  parlare  a me 'che  sono  un  sena- 
tore , un  V ilerio  , un  che  vuol-  favellare  intorno  la 
Salute  della  repubblica.  ^ Ch,e  se  in  ciò  siegui  la  osti- 
nazione tua  , come  in  tutto  ; a quali  tribuni  ricorro 
io  mai , se  lo  avete  voi  tolto  quel  rifugio  degli  op- 
pressi ^ Se  non  che  può  darsi  mai  minor  male  di 
questo  mio  male,  vuol  dire  che  io  che  sono  Valerio, 
r uno  dei  Potiti,  io  come  uno  dpgt  infimi  non  ot- 
tenga il  mio  dritto  ; ma  trovirni  bisognoso  di  tribuni 
i quali  me  lo  ^vendichino  ? Ma  giacché  • noi- siam 
privi  di  questi;  invoco  voi  tutti  che  avete  preso  colla 


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LIBRO  XI.  3l5 

vostra  magistratura  T autorità  pur  di  essi  , e che  Ut 
città  dominate.  Nè  ignoro  gi4  che  indarno  io  fo  que- 
sto ; ma  vo'  rendere  a tutti  mani/esla  la  vostra  con» 
giura; 'come  avete  per  essa  conturbato  Ut  repubblica, 
e V avete  tutti  un  sol  cuore.  Anzi  te  solo  invoco  , o 
Quinto  Fabio  Fibolano  , te  chiaro  già  per  tre  con- 
so Ulti  , se  pur  serbi  ancora  t animo  stesso.  Che  non 
sorgi  e non  soccorri  gli  oppressi  ? Il  Senato  non  mira 
che  in  te. 

y.  Vergognavasi  Fabio  al  dir  di  Valerio;  ma  sedea 
senza  rispondere  : 'Appio  non  di  meno  e gli  altri  dieci 
levatisi  dalle  lor  sedi  , gli  vietarono  di  parlare.  Or  qnl 
sascilatasi  turbolenza  -grande  in  Senato  , e corucciando- 
sene  d più  de’  membri  , gli  amici  pHncipalmeiile  die 
giudicavano  che  colui  come' gli  altri,  parlato,  vi  avrebbe 
dirittamente  sorse  Marc’  Orazio/  cognominato  Barbato  , 
OD  discendente  delTOrazio,  compagno  g'à  nel  consolato 
a Publio  Valerio  Poplicola’ dopo  la  espulsione  dei  re. 
Valevole  questi  nell’  arme , nè  impotente  nel  dire  , era 
antichissimo  amico  di  Valerio  : nè  più  contenendo  la 
rabbia  gridò  : Tu  mi  necessiti  o Appio  a spezzare 
bentosto  ogni  freno  ; poiché  voi  non  serbate  più  mo- 
derazione ; ma  presentate  un  Tarquinio  in  voi,  quando 
non  permettete  che  parti  chi  vuole  della  salute  della 
repub bUca.  Fi  è forse  andato  via  dal  pensiero _ che 
vivono  ne  Falerj  i discendenti  degli  espulsori  dei  re, 
che  serbasi  ancora  là  prosapia  degli  Orazj)  soliti  per 
esempio  paterno  di' attaccare  soli  o con  altri  gii  op- 
pressori 'della  patria!  ? O riputate  noi , come,  tutti  i 
Romani , codardi  a segno,  che  basti  loro  che  lasciasi 


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3i6  DELLE  Antichità’  romane 
vivere , nè  situi  per  dire  o fare  cosa  mima  per.  la 
Ubertà  della  patria,  e per  la  franchigia  del  perorare  ?t 
o la  grandezza  v\  inebriò  del  potere  ? Chi  siete  ? o 
qual»  autorità  dalle  leggi  v avete  voi  che  inibite  a 
Valerio  e ad  altri  senatori  il  parlare?  Non  foste  voi 
dichiarati’ per  un  anno  presidenti  del  comune  ? non 
è scaduto  il  termine  d^l  vostro  comando  ? Non  siete 
ora- voi  per  legge  altrettanti  privati?  E macchinate 
thè  niun  tratti  di  tali  cose  col  popolo  ? E che  impe- 
disce , che  chiunque  di  noi  lo  vuole  , intimi  un  adu- 
nanza, e V accusi  il  potere  che  voi  tenete  contro  ogni 
legge  ? Fate  che  volisi  dcC  cittadini , se  debba  restare 
il  comando  de’  dieci,  o se  debbano  i palrj  magistrati 
ristabilirsi.  Se  il  popolo  infatuato  lo  tollera  ; rkene- 
tevel  pure  il  vostro  magistrato  : e se  giusto  credono 
il  vostro  procedere;  impedite  pure  che  altri  dica  cioc- 
ché vuole  per  la  patria;  giacché  d'egfii  siamo  di  tanto 
e di  peggio  , se  vi  torniam  tra  le  mani;  degradando 
con  vilissima  vita  la  dignità  nostra  , e degli  avi.  ‘ 

. YJ.  Egli  parlava  ancora  quando  i dieci  lo'  circon- 
dano vociferando  , ostentando- 1’  autorità  de’  triliuui  , e 
minacciando  precipitarlo,  se  non  iacea,  dàlia  rupe.  Re- 
clamarono tutti  a tanto , come  se  la  libertà  loro  si  op- 
primesse ; e tutto  il  Senato  fu  pieno  di  dispétto  c di 
turbamento.  Come  videro  i dieci  irritato  il  Senato  , 
pentironsi  bentosto  delle  loro  proibizioni  e minacce.  E 
^er  èssi  facendosi  à parlare  Appip,  e chiedendo  che  si 
chetasse  per  un  momento  il  tumulto  , e chetatolo;  Se- 
natori , disse  , noi  non  abbiamo  interdetto  ad  alcuno 
di  voi  che  parlasse  al  suo  tempo  ; mà  solo  abbiamo 


Di 


Googli 


LIBRO  XI.  3i7 

represso  chi'vóìea  nobilitarsi  perorando , o chi  sorgea 
per  far  ciò  prima  che  gli  convenisse.  Laonde  non 
vogliate  sdegnarvi  : • Noi  lasceremo  che  Orazio  , che 
Kcderio  , che  chiunque  parli  ài  suo  tempo  , purché 
non  parlino  di  altro  che  delle  cose  le  quali  venuti 
siete  a discutere.  Che  se  piuttosto  che  aringare  di 
queste,  diansi  a concitare  voi  e spàrgere  dissidj  nella 
patria  ; noi  abbiamo  o 'Marc  Orazio  la  facoltà  di 
reprimere  li  sediziosi,  e ci  si  dava  dal  popolo  quando 
concentraiva  in  noi  col  suo  voto  i poteri  de’  tribuni  e 
de’  consoli.'  Nè  il  tempo  ne  è;  come  tu  penti,  spirato. 
Imperocché  noi  non  fummo  eletti  per  un  anno  , o 
per  altro  tempo  circoscritto,  ma  fincjiè  avessimo  com- 
pita la  legislazione-  Quando  avrem  dunque-  finito 
quanto  ci  stà  nel  pensiero  , e stabilite  ancor  le  altre 
leggi  ; allora  deporremo  il  comando , e darem  conto 
delle  nostre  operazioni  a chiunque  di  voi  pià  lo  vo- 
glia. Intanto  punto  non  cederemo  dell  autorità  con- 
solide , né  della  tribunizia.  Ora  chiedo  che  prima  i 
vecchi  tra  voi  come  porla  la  usanza  e il  decoro  , poi 
che  gl  intermedi , ed  in  fine  che  i giovani  dicano  su 
la  guerra  „ via  via  ciò  che  dee  farsi  per  abbattere  il 
più  presto  e nel  modo  migliore  i nemici. 

VII.  Ciò  (letto  , invitò  per. il  primo  Cajo  Cianaio  Io 
zio  suo:  e questi  levatosi  in  piede,  cosi  ridonò;  Poi- 
ché, o padri  coscritti^  rippio  onorando  come,  a lui 
si  conviene  , il  parentado  che  ha  meco  , vuole  che  io 
per  il  primo  dichiari  il  mio  parere:  e /poiché  deggio 
dir  ciò  che  penso  intorno  la  guerra  degli  Equi  e dei 
Sabini  } -avanti  che  io  • mi  palesi , vorrei  da  voi  risa- 


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v3i8  DELLE  Antichità’  romane 
pbre , -quale  speranta  inanimasse  questi  popoli  a.  por- 
tarci la  guerra , e depredarne  le  terre  , quando  essi 
Jinqul  teneansi  ben  contenti  ed  assai  ringraziavano  gli 
Dei , se  l'asciavasi , che  godessero  in  paté  le  uniche 
loro  campagne.  Se  dà  sapete  ; voi  saprete  ancora  il 
mezzo  bollissimo  onde  svolgervi  da  questa  guerra. 
Questi  udito  avendo  t nè  a torto  ( giacche  il  vtro  ne 
udirono,  nè  fa  d'uopo  allegarne  le  cause,  a voi  che 
le  conoscete  ) che  C interno  della  patria  è da  gran 
tempo  agitato  e malconcio  , che  nè  il  popolo  nè  i 
patrizj  slan  di  buon  animo  verso  chi  li  governa  ; 
concepivano  che  se  oltre  i mali  domestici , venivaci 
addosso  esterna  guerra , e se  volevasl  cavare  un  ar- 
mata a difendere  il  ' territorio  , nè  i cittadini  per  ex* 
sere  alienati  da*  capi  loro  , onderebbero  tutti  spon- 
tanei a dare  come  per  lo  passato  il  giuramento  mi- 
litare , nè  i capi  stessi,  punirebbero  col  rigor  delle 
leggi  chi  non  accorreva,  timorosi  di  causare  un  male 
maggiore  : laddove  se  altri  ubbidivano  e prendeano 
le  armi , /udirebbero  poi  dalle  bandiere  ; o se  vi 
restavano , non  combatterebbero  che  per  perdere.  Or 
tali  concetti  non  erano  inverisimili  ; perchè,  quando 
la  città , tutta  unanime  , è colta  dalla  guerra  , e chi 
règge  4 chi  è retto  ne  apprende  l’utile  stesso;  allora 
tutti  vanno  ardenti  al  cimento  , nè  sgomentansi  a 
travaglio  tì  pericolo.  Ma  quando  la  repubblica , tro- 
vandosi inferma  in  sestessa  , esce  in  campo  a com- 
battere , prima  di  riordinare  il  suo  interno  : quando 
la.  moltitudine  pensa  che  non  esponesi  per  C atil  suo, 
ma  perchè  altri  la  predomini  pià  saldamente  ; quando 


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* LIBRO  XI.  319 

i~  capitani  han  contrarie  le  forze  proprie  nommen  che 
le  altrui  ; sconcertasi  allora  anche  il  resto  , ed  ogni 
forza  basta  a debellare  e distruggere  tali  milizie.  1 

Vili.  Tali  sono  o padri  coscritti  v riflessi,  a quali 
confidandosi  gli  Equi  e i Sabini,  invasero  le  nostre 
regioni.  Che  se  ora  mal  soffrendo  noi  che  questi  in- 
vaniscano e ci  dispregino  decretiamo , irritati  come 
siamo  , di  uscire  contro  loro  coll’  esercito  ; temo  che 
ci  avvengano^,  anzi  convinto  sono  che  ci  avverranno 
i mali  antiveduti  da  essi.  Ma  se  innanzi  ristabilito 
avremo  le  cose  che  son  le  primarie  e>  più,  importano, 
conte  sarebbe  il  buon  ordine  della  moltitudine,  e che 
la  cosa  stessa  apparisca  utile  a tutti , rimovendo 
dalla  città  la  ingiustizia  e la  soverchieria  che  vi  do- 
mina, e rendendo  l’  antica  forma  al  governo;  in  tal 
caso  sbattuti  quelli  che  ora  inorgogliano  , e gettate 
le  armi,  verranno  a noi  tra  non  molto  per  saldarne 
le  ingiurie,  e trattare  la  pace  : e noi,  ciocché  i savj 
tutti  desiderano  , potrein  finir  senza  le  armi , la 
guerra  con  essi.  Or  ciò  considerando,  poiché  sì  grave 
tra  le  mura  è la  turbolenza  ; io  giudico  che  debbasi 
per  ora  sospendere  ogìti  cura  di  guerra,  e concedere 
a chi  vuole  di  proporre  mezzi  di  concordia  , e buon 
ordine  interno.  Noi  chiamati  da  queste  magistrato 
non  abbiamo  potuto  già  prima  di  essere  addotti  a 
questa  guerra , consultare  su  lo  stato^  de’  nostri  pub- 
blici affari,  e conoscere  se  scóncio  alcuno  ci  avesse. 

Ed  ora  assai  riprensibile  sarebbe  chi,  lasciata  la 
occasione  , •cercasse  di  altro  discorrere  : e niuno  dir 
può  con  sicurezza  che  trascurato  questo  tempo,  come 


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3ao  DELLE  Antichità’  romane 

men  congruo,  un  altro  ne  avremo  pià  acconcio.  Anzi 
se  alcuno  vuol  concludere  V avvenire  dal  passato  ; 
trascorrerà  gran  tempo  senza  che  possiamo  qui  riu- 
nirci per  deliberare. 

IX.'  Io  prego  te  , Appio  , e voi  tutti  presidenti  di 
Honta , voi  che  dovete  provvedere  non  al  bene  vostro 
privato  , ma  a quello  Ai  tutti , a non  corucciarvi , se 
io  parlo  secondo  la  verità , non  secondo  il  genio  vo- 
stro. Voi  dovete  por  mente , che  io  parlo  , non  per 
malignare,  o vilipendere  il  vostro  magistrtUo;  ma  per 
additare  , se  pur  vi  è , una  via  di  salvare , e diri- 
gere la  repubblica  , dopo  mostratine  i /lutti  da’  quali 
è sbattuta.  Quanti  han  cara  la  patria,  debbono  forse 
qui  tutti  discorrere  dell’  util  comune , ma  io  princi- 
palmente. Imperocché  io  debbo  per  la  onorificenza 
fattami  dar  principia  ad  opinare  : e saria  vergogna 
e stoltezza  grande,  se  io  che  sorgo  il  primo  non  di- 
cessi le  cose  che  prime  son  da  correggere  : Appresso 
trovandomi  io  zio  paterno  di  Appio  il  capo  decem- 
viro,  accade  che  più  di  tutti  mi  consolo,  o rattristomi 
secondo  che  bene  o non  bene  governano  la  repub- 
blica. Aggiungi  che  ho  io  ricevuto  da’  maggiori  miei 
la  civil  consuetudine  di  curare  anzi  l'  utile  -pubblico 
che  il  mio  , senza  guartlare  a privati  pericoli  ; nè  io , 
la  tradirò  io  questa  civil  consuetudine , nè  profanerò 
le  gesta  di  que'  valentuomini.  Orjt , che  il  governo 
presente  male  a .noi  si  conviene  anzi  che  incomoda  , 
direi  quasi  tutti  ; siane  questo  l’  argomento  gravissi- 
mo , che  quanti  trattavano  le  cose  civili  ( nè  già  po- 
tete voi  soli  ignorarlo  ) ràiransi  ogni  giorno  da  Ho - 


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LIBRO  XI.  3ai 

ma,  lasciando  le  paterne  case  deserte.  Qual  de' plebei 
più  rìguardevoli  trasferisce  la  propria  sede  colle  mo- 
gli  e co' figli  nelle  città  più  vicine , e quale  nelle 
campagne  più  lontane  da  Roma  : E molti  de'  patrizj 
nemmen  essi  in  città  se  ne  vivono,  ma  li  più  si  di- 
morano per  le  campagne.  Ma  che  giova  parlare  degli 
altri  j quando  appena  in  città  se  ne  stanno  alcuni 
pochi  senatori  uniti  a voi  per  amicizia  o per  sangue, 
e cercan  gli  altri  la  solitudine  più  che  la  patria?  E 
quando  voi  v'aveste  il  bisogno  di  adunche  il  Senato, 
tornarono  invitati  ad  uno  ad  uno  dalle  campagne 
que'  dessi  che  solcano  insieme  co'  magistrati  guardare 
la  patria,  nè  mancare  mai  da  affare  niuno  della  re- 
pubblica. Or  tdie  pensate  voi  che  gli  uomini  ahban- 
donande  la  patria  fugano  i beni  o li  mali  ? certo 
che  i mali.  E t essere  abbandonata  da  plebei  , de- 
relitta da'  pevrizii  senza  incontri  di  guerra  , di  pesti- 
lenze , e di  altri  disastri  mandati  dal  deh  , , ella  è 
sciagitra  questa  non  seconda  a niuna  per  una  città, 
massimamente  per  Roma , la  quale  abbisogna  di 
molle  milizie , tutte  sue  ; se  vuoi  dominare  stabil- 
mente su'  vicini. 

X.  Folete  udir  voi  le  cagioni  che  riducono  i po- 
poli ad  abbandonare  i templi  e le  tombe  degli  avi , 
e lasciar  diserti  i poderi  e le  case  paterne' ^ e cre- 
dere ogni  altra  terra  più  necessaria  della  patria  ? 
Certamente  tali  cose  non  avvengono^  senza  cagioni, 
ed  io  sporrovele  queste , non  occulterowele.  Molte 
Appio  sono  le  accuse  e di  molti  sul  vostro  magi- 

DSOHKlJ  , tomo  III.  il 


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32  2 DELLE  AHTICHITA’  HOMANE 

strato  : vere  o false  che  siano  , noi  cerco  per  ora  : 
certo  che  vi  si  fatino.  Ninno  , se  non  del  vostro  se- 
guito j trova  il  ben  suo  nell' orditi  presente.  I ^andi, 
figli  pur  essi  di  grandi  , à quali  spettavano  i sacer- 
dozj , le  magistrature  , e gli  altri  onori  goduti  dai 
loro  padri , fremono  di  essere  da  voi  respinti  e tolti 
dalle  dignità  degli  antenati.  Quei  del  celo  di  mezzo 
che  cercati  la  calma  del  vivere  , v imputano  lo  spo- 
glio ingiusto  de  beni  loro , lamentano  il  disonore  che 
fate  alle  lor  mogli,  la  effrenatezza  verso  le  loro 
figliuole  nubili,  ed  altri  oltraggi  molti  e gravi:  e la 
parte  più.  bassa  del  popolo , non  più  arbitra  per  voi 
de'  voti  e delle  elezioni,  non  più  chiamata  alle  a4u- 
nanze , nè, partecipe  di  alcuna  civile  uguaglianza , ve 
ne  maledice  appunto  per  questo  , e tirannico  chiama 
il  vostro  governo. 

XI.  Ora  come  voi  correggerete  questi  abusi,  come 
la  lingua , incolpati  che  ne  siete  , accheterete  del  po- 
polo ? questo  è ciò , che  rimanemi  a dire.  Facciane 
il  Senato  previamente  il  decreto  : fate  che  il  popolo 
deliberi,  se  torni  a lui  meglio  ripristinare  i consoli, 
i tribuni  e gli  altri  magistrali  della  patria , o conti- 
nuare r ordin  presente  : se  tutti  i Romani  avran  caro 
il  comando  de'  pochi , e dinoteran  co’  lor  voti  , che 
ve  lo  abbiate  voi  questo  comando  ; voi  terrete  un 
magistrato  legittimo  , non  violento.  Ma  se  vorranno 
di  nuovo  i consoli,  di  nuovo  gli  altri  mostrati  ; voi 
sarete  decaduti  per  legge  , nò  più  crediate  dominare, 
se  ìton  da  tiranni  su  gli  eguali  , non  prendendo  gli 
ottimati  il  comando  , se  non  da'  cittadini  spontanei. 


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LIBRO  XI.  3a3 

E nel  far  questo  , o u4ppio , tu  dei  dar  principio  , c 
tu  disciogliere  un  comando  da  te  stahilUo , utile  un 
tempo  , ed  ora  noceyole.  E m’ odi  ciocché  ne  guada- 
gni, se  mi  ti  arrendi,  se  ne  deponi  codesto  malve- 
liuto  comando.  Se  li  tuoi  colleghi  a ciò  s’ indurranno'; 
ciascwi  dirà  che  buoni  fatti  su  /’  esempio  tuo  vi  si 
indussero  t laddove  se  questi  si  ostinano  a tenere  un 
dominio  illegittimo  ; sarai  tu  benedetto  che  volesti , 
altnen  solo  , compiere  il  giusto  ; mentre  i contumaci 
saran  con  infamia  e danno  gravissimo  degracUtti.  Che 
se  mai  ( lo  che  potria  ben  essere  ) fermato  v'  aveste 
infra  voi  secreti  trattali  e parole  , pigliandovi  i Dei 
per  mallevadori , fa  pur  conto  che  siasi  empietadv 
osservarli , e vera  pietà  vilipenderli , come  contrarf 
ai  cittadini , e alla  patria.  Imperocché  sogliono  i numi 
esser  presi  mallevadori  su  gli  accordi  buoni  e giusti; 
non  su  gV  ingiusti  e vergognosi. 

XII.  Che  se  tu  esiti  lasciare  il  comando  per  timor 
de'  nemici , sicché  non  ten  venga  pericolo , nè  sii 
stretto  a dar  conto  delle  opete  tue  ; certo  non  è ra- 
gionevole questo  timore.  Non  è sì  picciolo  , non  sì 
sconoscente  il  Romano  da  ricordare  i tuoi  sbagli  , c 
scortlarc  i tuoi  benefizj  : ma  contrapponendo  i beni 
presenti  ai  mali  passati  giudicherà  degni  questi  di 
perdono  , c quelli  di  lode.  Potrai  tu  rappresentare 
al  popolo'  le  tante  belle  tue  gesta  innanzi  del  Decem- 
virato , ed  in  .vista  di  queste  ottenerne  ajuto  e sal- 
vezza , e difenderti  in  più  modi  dalle  accuse , come 
ad  esempio , che  non  eri  tu  che  abusavi , ma  un  altro 
senza  tua  saputa;  che  non  bastavi  a reprimerlo  come 


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3a4  , DELLE  antichità’  romane 
tuo  pari:  o che  eri  necessitato  a soffrire  per  areme 
altra  cosa  più  utile.  Ma  troppo  lungo  sarebbe  il  di- 
scorso , se  numerare  volessi  tutti  i modi  delle  difese. 
Coloro  che  non  han  discolpa  niuna  giusta , nè  plau- 
sibile , pur  confessando  il  delitto  , e raccomandan- 
dosi, ammolliscono  il  cuor  degli  offesi , con  allegare 
il  poco  giudizio  degli  anni , la  pravità  de'  tompagnì , 
la  vastità  del  comando,  o la  sorte  che  travia  ne  cal- 
coli loro  tutti  i mortali.  Or  tu  se  deponi  il  comando, 
tu  n avrai , lo  prometto , amnistia  generale  de’  man- 
camenti , e riconciliazione  col  popolo , decorosa  in 
mezzo  de'  mali. 

XIII.  Ma  io  temo , che  il  pericolo  siati  pretesto 
non  vero  a non  lasciare  il  comando  ] essendo  a mille 
riuscito  di  rinunciar  la  tirannide  , nè  scontrarne  al- 
cun danno  da  cittadini.  Le  cagioni  non  dubbie  sono 
un  ambizione  vana  che  cerca  le  apparenze  di  una 
gloria  vera , una  propensione  pe'  rei  piaceri , quali  il 
vivere  concedegli  de’  tiranni.  Ma  se  pià  che  andar 
dietro  alte  immagini , e alle  ombre  degli  onori , e 
de’  piaceri  , ne  vuoi  tu  ciò  che  è solido;  rendi  alla  pa- 
tria la  tua  preminenza , ricevi  le  dignità  dagli  eguali 
tuoi  , acquistati  la  emulazione  de’  posteri , e lascia 
loro  in  luogo  del  mortala  tuo  corpo  , sempiterna  la 
fama.  Questi  sono  gli  onori  fondati  e veri , questi 
gt  indelebili  e cari  nè  rincrescevoli  mai.  Pasci  V animo 
ti.'o  de’ beni  della  patria:  già  non  parrai  di  aver- 
glìt.^e  dato  la  menorna  parte,  liberandola  da  signo- 
ria ce'ti  dura.  Prendi  esempio  dagli  antenati , consi- 
dera chs^  niun  d’ essi  mise  affetto  ad  un  potere  di- 


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LiBBO  XI.  3a5 

spotico  ^ nè  fu  lo  schiavo  vilissimo  de  piaceri  del 
corpo  ; eppur  furono  onorati  in  vita  , e morti  sono 
celebrati  da  posteri  ; giacché  tutti  fan  loro  testùno- 
niama  , che  furon  custodi  fidissimi  delC  aristocrazia  ^ 
che  Roma  fondò , dopo  espulsi  i monarchi.  Non  di- 
menticare  i detti  ^ non  i fatti  tuoi  gloriosi;  perciocché 
belle  pur  furono  le  prime  tue  mosse  nella  repubblicUf 
e pur  grandi  per  la  speranza  ^ che  davano  della  tua 
virtù.  Deh  ! che  siano  consentanee  ancor  le  altre  tue 
opere.  Deh  ! ritorna  a quella  indole  tua  Jlppio  fi- 
gliuolo : sii  nel  genio  del  governo  un  ottimate  , non 
un  tiranno.  Fuggi  quelli , che  adulando  , ti  parlano , 
quelli  pe'  quali  , se’  lungi  dalle  utili  istituzioni  , er- 
rante dal  diritto  sentiero,  già’  wotr  È rzRtstitiLE , 
CHS  AtTSt  SIA  DI  SSL  HVOrO  SXWDUTO  BDOIfO  , DA 
CHI  già’  FSSSIXO  lo  RStfDk. 

Xiy.  Quante  volte  dir  ti  volli  tali  cose  da  solo  a 
solo  j per  instruirviti  dove  le  ignoravi , o per  ammo- 
nirtene, dove  vi  mancavi!  Nè  già  venni,  per  ciò  sola 
una  volta  in  tua  casa,  ma  i servi  tuoi ,me  ne  riman- 
darono , e con  dire , che  non  avevi  tu  ozio  da  inti'at- 
tenerd  con  un  tuo  congiunto  ; ma  clu:  avevi  a fare 
cose  più  necessarie  ; seppur  v è cosa  più  necessaria 
della  pietà  verso  i suoi.  Forse,  i tuoi  servi , ciò  co- 
noscendo y mi  vietarono  di  per  sé  stessi  t entrata , e 
non  per  tuo  comando.  E ben  io  vorrei,  che  così  fosse. 
Certamente  questo  mi  ridusse  a parlarti  di  ciò.  che 
io  volea  nel  Senato , non  avendolo  mai  potuto  da 
solo  a solo.  Ma  .le  buone  , e le  utili  cose  dovunque, 
0 rippùj  y son  da  dire  tra  gli  uomini,  piuttosto  che 


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'JaG  DELLE  Antichità’  romane 

sempre  tacerle.  E che  io  a le  rendessi  gli  ojfizj  do- 
vuti alla  nostra  prosapia  ; ne  attesto  gl'  Iddj  de'  quali 
noi  dell’ Appio  sangue  veneriamo  i templi  e gli  altari 
con  sagrifiej  comuni:  ne  attesto  i genj  degli  antenati, 
a’  quali  porgiamo  del  paro  gli  onori  secondi , e li 
ringraziamenti , dopo  de’  numi  : e soprattiMo  attesto 
questa  terra,  la  qual  tiene  nelle  sue  viscere  il  padre, 
ed  il  fratello  mio  , che  io  dedicava  a te  la  vita  e la 
voce  per  sit^erire  il  tuo  meglio.  Pertanto  desideroso 
di  rettificare , per  quanto  io  posso  , gli  sbagli  tuoi  ti 
prego  a non  rimediare  male  con  male  } à non  per- 
dere le  cose  tue  mentre  aspiri  ad  altre  pià  gratuli  ; 
e finalmente  a non  dominare  agli  eguali  e a maggiori , 
ed  essere  dominato  da' pià  vili,  c più  tristi.  Se  noti 
che,  volendoti  io  ra^nar  di  più  cose  e più  a lungo, 
non  so  ridurmici  : perocché  se  Dio  ti  rivuole  a buon 
senno;  sóprawanzano  le  cose  anzidetle:  ma  seti  ab- 
handona  al  tuo  peggio  , sarebbero  indarno  , quante 
io  ne  aggiungessi.  Eccovi , o padri  coscritti , e capi 
tutti  di  Poma , il  mio  sentimento  per  dar  fine  alla 
guerra , ed  ordine  alla  repubblica  perturbata.'  Se 
altri  tien  cose  migliori  a ridirne  ; vincano  pure  te 
ottime. 

XV.  Cosi  disse  Claudio  ; assai  speranzandosene  i pa- 
«Iri , che  i Dieci  deporrebbero  il  loro  magistrato.  Non 
replicava  Appio  nulla  in  contrario  ; quando  fattosi  in- 
nanzi Marco  Cornelio  altro  Decemviro  disse  : Non  ab- 
bisognano, o Claudio,  i tuoi  consìgli:  su  Futile  no- 
stro provvederemo  noi  da  noi  stessi;  perocché  tale 
appunto  ò'  la  nostra  olà,  da  non  disconoscere  ciò 


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LIBRO  XI.  327 

che  ne  giova  , nè  scarsi  siamo  di  (uaici , età  consul- 
tar nel  bisogno.  Pertanto  dispensati  da  opera  intem- 
pestiva ; non  dare  o gran  veccJào  consigli , ove  non 
se  ne  richiedono.  Che  se  vuoi  di  cosa  alcuna  ammo- 
nire t o pià  propriamente  , inveire  su  di  Appio  ; in- 
veisci a tua  voglia  y ma  quando  se’  fuor  di  Senato. 
Quivi  entro  però  di  ciò , che  ten  pare  su  la  guerra 
t co’  Sabini , e con  gli  Equi  , circa  la  quale  se’  chiesto 
del  parer  tuo  ; e cessa  da  vaniloqui  fuori  di  argo- 
mento.  Sorse  a lai  voci  Claudio  nuovamente  tutto  me- 
sto, e pieno  gli  occhi  di  lagrime,  e disse:  Appio  o 
padri , Appio  , presenti  voi , non  reputa  me  , lo  suo 
zio  , degno  nemmeno  di  risposta.  Egli  precludemi , 
quanto  è da  esso , il  Senato , come  già  la  sua  casa. 
Anzi  levami , a dirlo  più  veramente , dalla  città  ; 
perocché  non  io  potrei  rimirarvi  di  buon  occhio  un 
indegno  degli  antentUi  , un  emulatore  de'  tiranni.  Io 
dunque  raccolti  i miei , e le  mie  cose  , vammene  tra 
i Sabini , per  abitarvi  la  città  di  Jiegillo , dond’  è la 
oiigine  mia , e tenermivi  finché  questi  trionfano  nel 
sì  bel  magistrato , ma  quando  ( nè  dee  molto  tarda- 
re ) fta  di  questo  decemvirato , ciocché  ne  antivedo  ; 
allora  tra  voi  mi  renderò.  Ma  ciò  basà  su  me.  Quanto 
alla  guerra , e sue  cose , consigliavi  o padri , che 
non  diate  sentenza  niuna , finché  i nuovi  magistrati 
non  si  abbiano.  Cosi  dicendo , e svegliando  grandi  ap> 
plausi  nel  Senato  pel  maschio  e libero  suo  spirito;  se- 
dette. E qi)i  rizzandosi  in  piede  Lucio  Quinzio  Cin- 
cinnato , Tito  Quinzio  Capitolino  , Lucio  Lucrezio , 
e lutti  i primari  1 senatori , seguirono  il  parere  di 
Claudio. 


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3a8  DELLE  antichità’  romane 
XVI.  Comarbatine  i coilegbi  di  Appio;  risolverono 
di  non  più  chiamare , a dir  la  sua  mente , niodo  io 
vista  degli  anni,  e dell’autorità  sua  nel  consigliare;  ma 
solo  in  vista  delia  intrinsichezza , e dell’  aderenza  con 
esso  loro.  E qui  procedendo  in  mezzo,  Marco  Cornelio 
fe’  sorgere  Lucio,  Cornelio  il  fratello  suo,  uomo  operoso 
nè  infacondo  nella  ragione  politica , e già  compagno  di 
consolato  a Quinto  Fabio  Vibulano , mentre  Fabio  era.  • 
console  per -la  terza  volta.  Ora  costui  sorto  disse:  Egli  r 
è mirabile  , o padri , che  uomini  di  tatua  età  quanta 
ne  kan  quelli  li  quali  hanno  prima  opinato , e li 
quali  cercano  primeggiar  nel  SeiuUo , portino  per 
gare  politiche,  un  odio  implacabile  ai  capi  dello  sta- 
to , quando  dovrebbero , quanto  è d'uopo  difenderli , 
animare  i giovani  a combattere  intrepidi  per  la  buona 
causa,  e tener  per  amici,  non,  per  nimici  i sosteni- 
tori del  pubblico  bene.  Ma  mollo  pià  mirabile  egli 
è,  che  trasferiscano  là  malvolenza  privata  alle  atse 
della  repubblica , e vogliano  anzi  perir  co’  nemici , 
che  con  tutti  gli  amici  salvarsi.  Eccesso  di  furore  , 
e direi  accecamento  divino  egli  è questo;  eppure  cosi 
li  capi  si  comportano  del  nostro  Senato.  Sdegnati 
questi  che  nel  concoirere  al  decemvirato,  che  ora  ac- 
cusano , furon  vinti  da  altri  che  apparvcr  pià  idonei , 
fan  loro  eterna,  irreconciliabile  guerra:  e sì  stolida, 
e sì  furiosa  ; da  ìovesciare  da  capo  a fondo  la  pà- 
tria, per  calunniare  presso  voi  li  Decemviri.  Vedon 
essi  la  nostra  regione  in  preda  a nemici  : vedono 
che  ornai  giungono  a Roma , giacché  breve  è lo  spa- 
zio che  ne  li  separa  ; ed  in  luogo  di  esortare , e di 


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LIBRO  XI.  339 

incitare  i giovani  a combattere  per  la  patria , e di 
soccorrerla  essi  stessi  con  tutta  la  diligenza,  e l’ or- 
dorè  , quanto  la  età  loro  ne  ammette  ; vogliono  che 
ora  voi  provvediate  ad  ordinare  il  governo , a creare 
nuovi  magistrati , e far  tutto  piuttosto-,  che  conqui- 
dere gC  inimici  : nè  san  vedere  che  danno  sentenze  , 
anzi  che  tengono  desiderj  impossibili. 

XVII.  E certo , fate  cosi  ragione  : il  Senato  emani 
il  decreto  de'  comizj  : i Decemviri  lo  riferiscano  al 
popolo  , destinando  il  giorno  del  terzo  mercato  dal 
giorno  presente  ) perocché  -,  e come  staà  mai  valido 
ciocché  si  vota  dal  popolo  j se  non  compiasi  a norma 
delle  leggi  ? Poi  quando  abbiano  le  tribà  dato  il 
voto  , prendano  i nuovi  magistrati  la  repubblica  , e 
propongano  a voi  la  guerra  perchè  ne  discutiate.  Se 
in  tempo  sì  grande , quanto  ve  n ha  da  ora  ai  co- 
mizj, si  avanzino  intanto  i nemici,  e vengano  fino 
alle  mura;  noi  che  faremo,  o Claudio?  Diremo  loro: 
« atpettate  per  Dio , finché  ci  avrem  fatti  nuovi  magi* 
a straM  ? Certo  Claudio  suggerìvaci  a non  decretare , 
a nè  riferire  mai  cosa  al  popolo  , nè  scriver  le  leve  , 
a se  prima  non  siasi  deciso  come  vogliamo  su'  magi- 
a strati.  Itene  dunque,  e quando  udirete  creati  ì con- 
a soli , creati  i magistrati , e tutto  pronto  per  le  armi 
a tornate  allora  per  trattare  con  noi  della  pace  ; giac- 
B cbè  voi  senza  essere  offesi  da  nei  d avete  i primi 
a oltraggiato  ; e d ricompenserete  , secondo  la  giusti* 
a zia , in  danaro  i danni  delle  vostre  incursioni  : non 
a però  vi  conteremo  le  stragi  degli  agricoltori , non  le 
a inginrie , e le  insolenze  sperimentate  da  femmine  in* 


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33o  DELLE  Antichità’  romane 
M g«uuc,  nè  altro  male  insanabile  ».  Ed  essi  li  nemici 
a tal  nostro  invito  useranno  moderazione  , e lasciato 
che  la  repubblica  crei  li  nuovi  maestrali,  e faccia 
gli  apparecchi  di  guerra  ; tomeran  poi  portando  ùi 
luogo  delle  armi , suppliche  per  la  pace  ; ed  arren» 
dendo  a voi  sè  medesimi. 

Xyni.  O pur  stolti  coloro  d-  quali  van  pel  pen- 
siero tali  delirj  ! e milènsi  noi  se  non  ci  corucciamo 
con  quei  che  li  propongono:  anzi  sosteniamo  di  udirli, 
quasi  consultino  su  nemici , non  su  la  patria  e su 
noi!  Che  non  leviamo  di  mezzo  i cianciatori  sì  fatti? 
che  non  decretiamo  sul  punto  , che  marcisi  a difen- 
dere il  territorio  , il  quale  ci  si  devasta  ? che  non 
armiamo  quanti  vi  sono  idonei  de  cittadini  ? anzi , 
che  non  portiamo  le  armi  contro  le  città  loro  ; ma 
ce  ne  stiamo  qui  a bada,  ed  accusando  i Decemviri, 
ideando  nuovi  magistrati , e discutendo  forme  di  go- 
verno , lasciamo  quant'  è nelle  nostre  campagne,  come 
nella  pace  , esposto  al  nemico  ? Che  sì  ; che  infine  , 
se  permetteremo  che  la  guerra  giunga  alle  mura  , 
corriamo  noi  rischio  di  essere  schiavi , e che  ne  sia 
lì  orna  stessa  distrutta.  Non  sono  queste  , o padri 
coscritti,  le  maniere  di  uomini  sani,  non  le  maniere 
di  una  social  provvidenza , la  quale  antepone  al  ben 
pubblico  gli  odj  privati  ; ma  le  maniere  piuttosto  tli 
una  contenzione  intempestiva , di  un  disamar  sconsi- 
gliato, di  una  invidia  sciaurata,  la  qual  non  lascia 
esser  savio  chi  ne  vieti  preso.  Tacciano  per  Dio  le 
controversie  ; che  tenterò  di  esporre  ciò  che  avete  a 
decretare  salutevole  per  la  patria , ed  espediente  per 


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. LIBRO  XI.  33 1 

1*01 , come  terribile  pe’  nemici.  Stabilite  ora  la  guerra 
co*  Sabini  f e cogli  Equi  : arrolate  diligentissinù  e 
prontissimi  le  milizie  da  guidare  contro  ambedue  : e 
quando  la  guerra  abbia  avuto  buon,  termine  , quando 
siansi  in  città  ricondotte  le  milizie  ^ quando  sia  già 
rinata  la  pace  ; allora  volgetevi  ad  ordinare  il  go- 
verno , allora  chiedete  conto  dai  dieci  delle  opera- 
zipni  loro  nel  mostrato  , allora  createvi  nuovi  ma- 
gistrati , fondatevi  nuovi  tribunali  ; e quando  da  voi 
dipendono  queste  cariche  onoratene  i personaggi  che 
ne  son  degni  ; avvertendo  , che  pud  tboppo  non  seb» 

FONO  I TEMPI  Alts  COSE  MA  LE  COSE  AI  TEMPI. 
Spiegatosi  Cornelio  in  questa  sentenza  vi  aderirono, 
toltine  pochi,  anche  gli  altri  che  dopo  lui  ragionarono, 
altri  perchè  la  stimavano  necessaria , come  -convcnien' 
lissima  a'  fatti  presenti , ed  altri  perchè  piegavansi  e 
blandivano  i Dieci  per  timore  delia  loro  autorità  , la 
quale  avea  costernato  non  picciofa  parte  de’  padri. 

XIX.  'Alfine  essendosi  opinato  dalla  più  parte,  e cora* 
parendo  quelli  che  volcano  la  guerra  superiori  di  nu- 
mero agli  altri  ; invitaron  tra  gli  ultimi  a dire  Lucio 
Valerio , quello  che  volea  fin  da  principio  proporre  la 
sentenza  sua , ma  se  fu  ritardato , come  già  scrissi.  Or 
costui  sorgendo  tenne  questo  ragionamento  : Fedele  , o 
padri  j C inganno  dei  Dieci]  Non  permisero  questi 
che  a voi  favellassi , com'  io  volea , nel  principio  , 
ed  ora  tra  gli  ultimi  mel  permettono  ! quando  pen- 
dano che  io  punto  non  giovi  la  repubblica,  sebbene 
io  segua  il  partito  di  Claudio  , perchè  ben  pochi  vi 
si  appigliarono.  Che  se  io  mi  dichiaro  per  altro  con- 


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33 2 DELLE  Antichità’  bomane 

sigilo  , sia  quanto  si  vuole  bonissimo , ne  sarò  va- 
nissimo difensore  ove  io  contraddica  gli  espósti  da 
loro.  Annoverar  si  possono  facilmente  quei  che  dopo 
me  sorgeranno  per  dire  : e quando  pure  consentano 
tutti  con  me,  che  può  mai  risultarmene , non  facendo 
essi  nemmen  picciola  parte  rimpetto  ai  fautori  di 
Cornelio  ? Ma  sebbene  io  ciò  veda  ; pur  non  dubito 
dire  il  mio  sentimento:  a voi  si  spetta,  quando  udito 
lo  avrete  , di  volgervi  al  meglio.  Quanto  al  Decem- 
virato , e le  cure  sue  del  ben  pubblico^  concepite  che 
io  ven  dica  le  cose  tutte,  che  il  prestantissimo  Clau- 
dio ven  diceva  : e che  debbesi  far  nuovi  magistrati 
prima  che  votisi  per  la  guerra,  giacché  pur  questo 
chiedea  con  purissimo  'fine  quel  valentuomo.  Tentò 
Cornelio  mostrarvi  impossibili  i cos/.ui  su^erimenli  , 
pretestando  il  gran  tempo  che  abbisognavi  per  le  civili 
r forme , quando  la  guerra  ne  ò sopra.  Egli  mise  in 
burla  , cose  niente  burlevoli , e con  ciò  commosse  , 
ed  ebbe  molti  di  voi:  ma  io,  fofò  vedervi,  che  non 
è impossibile , no , - la  sentenza  di  Claudio  ; come 
niuno  di  quanti  la  derisero  osò  dirla  nocevole  : e vi 
mostrerò  come  salvisi  il  territorio ,' e puniscasi  chi 
temerario  danneggialo  : come  ristabiliscasi  intanto  il 
comando,  che  era  qui  degli  ottimati;  e come  tutto  si 
compia , cooperandovi  i cittadini , senza  che  niuno 
tenti  il  contrario.  Nè  sarà  già  questa  una  mia  sa- 
viezza ; ma  io  non  vi  addurrò  se  non  gli  esempli  di 
cose  operate  da  voi;  imperocché  qual  luogo  hanno 
tnai  gli  argomenti  dove  la  sperienza  stessa  ne  am- 
maestra su  ciò  che  giova  ? 


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LIBRO  XI.  333 

XX.  Fi  ricorda  che  i popbli  stessi  che  ora  le  man- 
ti a/w  , spedirono  ancora  milizie  in  un  tempo  stesso  , 
già  è r mino  nono  o decimo^  su  le  terre  nostre  e de^ 
gli  alleati,  sotto  i consoli  Cajo  Nauzio,  e Lucio  A/i* 
maio  F Foi  mandando  allora  molta  florida  gioventà 
contro  i due  popoli  ; f uno  de' consoli  ridotto  a trio- 
cerarsi  in  luoghi  disastrosi,  non  potè  far  nulla , anzi 
videsi  assediato  nel  >suo  campo  medesimo  , e,  sul  ri- 
schio di  esservi  preso  per  la  penuria  de'  viveri.  Nau- 
zio  poi  contrapposto  a'  Sabini,  impegnato  da  battaglie 
continue,  non  potea  nemmeno  accorrere  verso  i suoi 
che  pericolavano  : non  ignoravasi  che  se  periva  V e- 
sercito  contro  degli  Equi,  non  avrebbe  nemmeno  po- 
tuto resistere  V altro  contro  de’  Sabini , riunendosi 
insieme  i nemici.  E fra  tanti  pericoli  intorno  della 
città  , mentre  nemmen  ci  avea  nelC  interno  suo  la 
concordia , qual  rimedio  voi  ritrovaste  ? Congregativi 
su  la  mezza  notte  in  Senato  ( lo . che  giovò  sicura- 
mente ogni  cosa , e dirizzò  la  patria  che  rovinava 
ornai  miseramente  ) , creaste  un  magistrato  solo  , ar- 
bitro della  guerra  e della  pace,  sospendendo  tutti 
gli  altri  ; e prima  che  fosse  giorno , ebbesi  un  ditta- 
tore neir  ottimo  Lucio  Quinzio  , sebbene  si  trovasse 
allora  non  in  città,  ma  in  campagna.  Foi  ben  sapete 
le  imprese  operate  dipoi  dal  valentuomo , come  ap- 
prestò forze  idonee , liberò  V armata  che  pericolava  , 
e punì  gV  inimici,  pigliandone  fino  il  duce  prigioniero. 
E fatto  ciò  con  soli  quattordici  giorni , e riparlato 
quan^  altro  pur  v era  di  male  nella  repubblica , de- 
pose il  comando.  Così  niente  impedì,  volendolo  voi 


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334  DELLE  Antichità’  noiviANE 
che  si  creasse  il  imovo  magistrato , solamente  in  un 
giorno  ; e così  dovete  > credo , imitarne  V esempio  , e 
scegliere , poiché  altro  non  potete , un  dittatore , pri- 
ma che  di  quivi  usciate.  Se  trapassiam  questo  tempo , 
i Dièci  non  pià  vi  aduneranno  per  consultazione  al- 
cuna. E perchè  sia  il  dittatore  nominato  legittima- 
mente eleggete  un  interré  nel  pià  idoneo  de  cittadini; 
come  solcasi  fare  quando  i re  mancavano  , o li  con. 
soli , nò  si  aveano  affatto  , come  ora  non  le  avete , 
legittime  autorità.  Spirato  che  fosse  per  questi  il 
tempo  del  comarulo  ; la  le^e  a sé  ne  richiamava  i 
poteri.  Or  questo  o padri,  che  è sì  fattibile  ed  utile, 
è ciò  che  vi  eswlo  di  fare.  La  opinion  di  Cornelio 
porta  la  dissoluzion  manifesta  del  comando  degli  ot- 
timati ; imperocché  se  i Dieci  divengano  una  volta 
padroni  delle  arme  per  tale  occasione  di  guerra  ; 
temo  che.  valercnisene  contro  di  noi.  (^uei  che  non 
voglion  deporre  i fasci  ,-  depotranno  essi  mai  le  ar- 
mi f Considerate  ciò  : "'guardatevi  da  tali  uomini  ; 
provvedete  contro  tutti  gC  inganni  ; poiché  vai  meglio 
provveder  che  pentirsi;  cotne  é cosa  pià-  savia  discre- 
dere gli  empj  ; che  , credutili , accusarli. 

XXI.  Piacque  il  dir  di  Valerio  ai  più  come  potè  ri- 
levarsi dalle  voci  loro  e da  quelli  che  sorsero  dopo  di 
lui  ; perciocché  doveano  opinare  ancora  i giovani , e 
questi , eccetto  pochi , lenean  per  bonissitno  ,quel  con- 
siglio. Cosi  quando  tutti  ebbero  opinato  , e le  delibe- 
razioni aver  dovevano  un  termine  ; Valerio  chiese  che 
i decemviri  proponessero  la  ritrattazion  dei  pareri  , c 
che  di  nnovo  s invitassero  a dire  tutti  i senatori  ; c 


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UBRO  xj.  ■ 335 

persuase  ciò  fàcilmente  , volendo  molti  di  loro  cangiar 
eli  partito.  Cornelio  che  avea  consigliato  che  si  desse  a 
decemviri  il  tornando  deHa  guerra , opponeasi  poten- 
tissimamente;  dicendo  esser  questo  un  affare  già  discus- 
so , e portato  giurìdicamente  al  suo  fine  col  voto  di 
tutti  : pertanto  si  annoverassero  i voti  nè  cosa  ninna  si 
rìnovasse.  Alternavansi  tali  detti  ostinatamente  a gran 
voce  da  ambe  le  parti,  essendone  scisso  il  Senato;  pe- 
rocché tutti  quelli  che  voleano  riformato  il  disordiu  ci- 
vile , favorivan  Valerio  ; ma  peroravano  per  Cornelio 
quanti  preferivano  il  peggio  , e-  temeano  de’  perìcoli  da 
un  cambiamento.  I decemviri  presa  occasione  di  fare  a 
lor  modo  per  la  turbolenza  del  Senato  , si  -attennero  al 
parer  di  Cornelio.  Ed  Appio  , quell’  uno  di  essi , re- . 
catosi  in  mezzo  disse  : JVoi  v abbiamo  qua  convocati 
o padri  perchè  deliberaste  su  la  guerra  cogli  Equi  e 
co’  Sabini , e per  questo  abbiam  /alto  che  interlo- 
quissero quanti  il  volevano  ^ chiamando  voi  tutti  dal 
primo  aia  ultimo , ciascuno  ordinatamente  , al  suo 
tempo.  I tre  uomini • Claudio , Cornelio,  e Valerio  in 
fine , ne  diedero  tre  pareri  ; e voi  tutti , quanti  altri 
qui  restavate  , li  ponderaste  : e ciascuno  , udendolo 
tutti,  espose  il  partito  al  qual  si  appigliava  Tutto 
fu  a norma  delie  leggi  : ed  essendo  ai  pià  di  voi 
parato  che  Cornelio  abbia  presentata  la  sentenza  mi^ 
gliore  ; dichiariamo  che  questa  prepondefa  ; e scritta 
Ut  pubblicfdamo.  f^alerio  e ti' suoi  partitoni,  annul- 
lino se  vogliono , ma  quando  sian  consoli , i giudizj 
già  finiti  : ed  invalidino  le  sentenze  già  firmale  da 
tutti.  E'  cosi  dicendo  , c comandando  che  io  scriba  le- 


336  DELLE  Antichità’  romane 

gesse  3 decreto  del  Senato  , col  quale  ordinava»  che  i 
dieci  làcesser  la  leva  delle  milizie  , e ammiuistrasser  la 
guerra  ; sciolse  1’  adunanza.  ■ 

XXII.  Quei  della  panie  decemvirale  ne  andavano 
dopo  ciò  superbi  e gonfi  , come  vincitori , e come  riu- 
sciti con  esser  gli  arbitri  delie  arme  , nell’  intento , che 
non  si  abolisse  il  loro  comando.  Per  contrario  quelli 
che  aveano  voluto  il  bene  della  repubblica  suvansi  ti- 
midi e mesti;  come  se  non  più  ne  sarebbero  gli  arbitri 
in  maneggio  ninno.  Dond’  è che  si  divisero  con  risolu- 
zioni diverse  ; riducendosi  i meno  ' generosi  per  indcde 
a concedere  tutto  ai  vincitori , e consociarvisi  ; laddove 
i men  paventosi  teneansi  in  placida  vita  lontani  dalie 
pubbliche  cure  ; e li  più  eccelsi  di  spìrito  faceansi  ua 
seguito  proprio,  intenti  a difènder  sestessi,  e trasmutare 
il  governo.  Capi  di  queste  unioni  erano  Lucio  Valerio 
e Marco  Orazio  , que’  dessi  appunto  che  intrepidi,  pro- 
posero i primi  al  Senato  di  ritogliersi  al  decemvirato  : 
e questi  custodivano  la  propria  casa  colle  armi , e se- 
stessi con  valida  guardia  di  'clienti  e .di  servi  per  non 
patir  violenza  , e non  mostrar  di  temerla  insidiosa  o 
palese.  Quelli  che  non  voleano  in  Roma  part^giar  coi 
più  forti  , nè  brigarvisi  in  cure  pubbliche , nè  giudica- 
vano intanto  ben  fatto  di  starvi  in  ozio  indolente  ; ne 
uscivano  , . parendo  loro  cosa  non  facile  di  vincere  i 
dieci  colle  arme,  anzi  impossibile  di  abbatterne  la  grande 
potenza  ; ed  era  lor  condottiero  1’  insignissimo  uomo 
Ca)o  Claudio,  lo  zio  di  Appio  Clandio  capo  decemviro^ 
il  quale  adempiva  le  promesse  fatte  in  Senato  al  figlio 
del  fratello  quando  stimolavalo  a deporre  3 comando. 


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LIBRO  xr.  , 337 

ne  T«  Io  indusse  (1).  Lui  seguivano  torbe  di  amici  e 
clienti;  ma,  datovi  da  esso  il  principio,  abbandonarono 
la  patria  ancor  altri  colle  mogli  e co’  Ggli , non  già  di 
nascosto  ed  in  pochi;  ma  a moltitudini  ed  in  pubblico. 
Altronde  i compagni  di  Appio  indispettiti  del  fatto  si 
misero  ad  impedirlo,  cbiudendo  le  porte,  e ritraendone 
alquanti  de’  profughi.  Ma  poi  venuti  in  paura  , che  gli 
impediti  si  rivolgessero  alla  forza  , e considerando  più 
rettamente  come  era  meglio  che  uscissero  che  rimanes- 
sero, nemici  loro,  a conturbarli;  spalancarono  le  porte, 
e lasciarono  andarne  quanti  mai  vollero;  incolpatili  però 
come  disertori  , ne  invasero  le  case , i poderi  , ed  ogni 
cosa  non  potata  portar  via  per  l’esilio,  apparentemente 
a conto  del  fisco , ma  in  sostanza  beneficandone  i loro 
fautori,  quasi  comperata  l’avessero.  Or  tali  imputazioni 
date  a’  primarj  esasperarono  più  ancora  i patrizj  e i 
plebei  contro  ai  decemviri.  Nondimeno  se  qiiesti  non 
aggiungevano  novi  errori  ai  già  detti;  parmi  che  avreb- 
bero tenuto  ancora  lungo  tempo  il  comando.  Imperoc- 
ché stavasi  ancora  in  città  la  sedizione,  mallevadrice  del 
poter  loro , cresciuta  da  tanto  tempo , e per  tante  ca- 
gioni : le  quali  facevano  esultare  a vicenda  gli  uni  pei 
mali  degli  altri  ; li  plebei  perchè  vedevano,  mancato  il 
cuor  ne’  patrizj  , e nel  Senato  ogni  arbitrio  su  la  re- 
pubblica; e li  patrizj,  perchè  vedevano  il  popolo  ridotto 
in  tutto  senza  libertà  e senza  forze  , fin  d’ allora  che  i 
dieci  gli  tolsero  l’autorità  de’ tribuni.  Ma  perciocché  tali 
decemviri  nè  moderali  in  campo,  nè  prudenti  ìu  Roma, 
(1)  Vedi  S i5  di  questo  libro.  4 v 

ptONlGl  > ITI’  , la 


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338  DEI.LE  antichità’  ROMANE 
iasistevaDO  con  assai  durezza  centra  l'uno  e Tallro  par* 
ti(o,  lo  astrinsero  infine  a riunirsi,  e deporli  colle  arme 
stesse  , avute  per  la  guerra.  Tali  poi  furono  gli  ulllmi 
delitti  pe’  quali  svergognato  il  popolo  , ne  infuriò. 

XXIII.  Dopo  che  ebbero  stabilito  .in  Senato  il  de» 
creio  per  la  guerra  ; descrissero  in  fretta  le  milizie  , e 
divisele  in  tre  parti,  ne  serbarono  due  legioni  per  guar* 
dia  deir  interno  della  città.  Piesedeva  a queste  due  Ap* 
pio  Claudio  il  capo  decemviro  insieme  uon^  Spurio  Op* 
pio.  Intanto  Quinto  Fabio  , Quinto  Poeteiio  e Manio 
Rabuleio  nè  andarono  con  tre  legiodi  contro  de' Sabini: 
partirono  con  altre  cinque  per  la  guerra  .contro  degli 
Equi  Marco  Cornelio  , Lucio  Minucio  , Marco  Sergio  , 
Tito  Antonio , e Cesone  Duvilio  finalmente.  Militarono 
con  essi  le  truppe  latine  , e di  altri  alleati  , non  meno 
numerose  delle  romane.  Ma  con  tantb  milizie  urbane , 
con  tante  ausiliarie  , niente  riuscì  loro  secondo  il  dise- 
gno. Imperocché  li  nem'tci  spregiandoli  come  nuove  re* 
clute  , si  accamparono  vicinissimi  a loro;  e ne  invade- 
vano i viveri  che  erano  ad  èssi  portati  , insidiando  le 
strade  , e gli  assalivano  mentre  uscivano  ai  pascoli.  E 
se  mai  venivano  ordinati  alle  mani,  cavalieri  con  cava- 
lieri, e fanti  con  fami;  riuscivano  da  per  tutto  vincitori 
i nemici  ; perocché  non  pochi  Romani  mandavano  alla 
peggio  ogni  cosa  , indocili  al  capitano  , come  restii  per 
combattere.  Quelli  che  erano  tra’  Sabini , renduti  sav) 
da  mali  minori,  deliberarono  da  seslessi  di  abbandonare 
il  campo:  e levandosene  circa  la  mezza  notte  ripassarono 
con  una  ritirata  , simile  ad  una  fuga,  dal  territorio  ne- 
mico nel  proprio;  fino  a Crustumero,  città  nou  lontana 


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tiBno  jfi.  339 

da  Roma.  Gli  altri  che.  teneano  il  campo  nell’  Algido 
della  regione  degli  Equi,  ne  riceverono  ancor  essi  non 
poebe^  percosse.  Ma  ostinandosi  incontro  a’ pericoli,  quasi 
a riaversi'  dalie  perdite , incorsero  in  danni  lagrimevoli. 
Imperocché  spintisi  i nemici  su  loro , cacciarono  quelli 
che  erano  in  guardia  degli  steccati;  e salite  le  trincee  , 
occuparono  il  campo , e vi  uccisero  i pochi  che  resi- 
stevano , uccidendone  anche  più  nell’  inseguirli.  Quelli 
che  scamparono  colla  fhga,  feriti  in  gran  parte,  e quasi 
tutti  privi  di  arme,  ripararonsi  al  Tuscolo.  Del  resto 
tende , giumenti , danari , schiavi  e tutti  gli  altri  appa- 
recchi furono  preda  ai  nemici.  Saputasene  in  Roipa  la 
nuova  i nemici  del  decemvirato  , quelli  ancora  che  ne 
occultavano  1 odio,  si  dichiararono,  esultando  su  la  rea 
condotta  de’  capitani.  E già  grande  era  Ja  moltitudine 
presso  di  Orazio  e di  Valerio,  capi  , come  fu  detto, 
de'  crocchi  aristocratici. 

XXIV.  Appio  e Spurio  somministrarono  a quelli  che 
comandavano  in  campo  arme , danari , grano  , ed  ogni 
bisogno,  pigliandone  superbissimamente  da’  privati  e dai 
pubblico:  e reclutando  dalle  tribù  tutti  gl’idonei  a com- 
battere ; gl’'  inviarono  loro  in  supplemento  de’  morti , e 
delle  schiere.  Invigilarono  diligentissimi  su  Roma  , pre- 
sidiandovi i luoghi  più  acconci;  talché  il  seguito  di  Va- 
lerio non  fosse  occulto  nel  sommoversi.  Commisero  per 
vie  sécretissime  ai  capi  dell’esercito  di  sterminare  i loro 
contrari , in  occulto  se  riguardevoli , ma  palesemente  se 
ignobili,  sempre  però  con  qualche  pretesta,  perchè  pa- 
ressero giustamente  levati.  Altri  mandati  da  essi  a fo- 
raggiare , altri  a proteggere  i trasporti  de’  viveri  ; ed 


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34 o DELLE  ANTICHITÀ.’  ROMANE 

altri  ad  altre  belliche  incombenEe  lisciti  dagli  alloggia- 
menti , non  furono  mai  più  vedùti  in  alcun  luogo.  Ma 
li  più  ignobili  accusati _ di  aver  dato  princi'pio  alla  fuga, 
o portato  secreto  notizie  ài  nemico , o non  mantenuto 
r ordine,  erano  in  pubblico  trucidati  per  ispavento  co- 
mune. Così  le  milizie  erano  in  due  modi  disfatte  : le 
fautrici  del  -decemvirato  pe’  cimenti  col  nemico  , e pei 
capitani  le  altre  che  ridesideravano  jl  governo  degli 
ottimati. 

XXV.  Appio  co’ suoi  commetteva  in  città  delitti  con- 
simili e non  pochi  : la  plebe  tenne  picciolo  conto  di 
alcuni  estinti  quantunque  fossero  molti  di  numel-o  : ma 
la  morte  barbara , ingiusta  di  uno  de’  plebei  più  cospi- 
cui, celeberrimo  per  le  belle  virtù  sue  nel  combattere, 
operata  nell’ accampamento  ov’ erano  i tre  capitani,  de- 
cise quanti  vi  erano  alla  ribellione.  Sicciu  fu  I’  ucciso  , 
quegli  che  avea  combattuto  le  cento  v^nti  battaglie  , 
raccogliendone  sempre' il  premio  de’ prodi  , quegli  che 
disobbligato  già  per  gli  anni  dal  > guerreggiàre  , si  diè 
spontaneo  per  'la  guerra  ,con  gli  Equi  menandovi  per 
r amor  che  gli  avcano , altri  ottocento,  già  liberi  ancor 
essi  a norma  delle  leggi  da’  servigj  militari  : quegli  che 
spedito  dall’  uno  de’  consoli  contro  le.  trincee  nemiche 
a rovina  come  parea  manifesta;  pur  le  invase,  e preparò 
pienissima  la  vittoria  pe’  consoli.  Or  quest’  uomo  , cer- 
cando Appio  co’ suoi  di  levarsel  d’intorno,  perchè  avea 
molto  parlato  in  città  contro  i duci  del  campo  come 
codardi  e imperiti»  io  trassero  a discorsi  amichevoli, 
lo  invitarono  a deliberare  con  essi  intorno  le  cose  del 
campo,  e dire  come  fossero  da  emendare  gli  errori 


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‘ LIBBO  XI.  341 

de’  capitani  i e Io  indussero  infine  ad  andare  in  forma 
di  legato  all’  armata  di  Crustumero.  È tra’  Romani  il 
legalo  onoratissima  e santa  rappresentanza  , con  l’ auto- 
rità de’ comandanti,  e con  la  riverenza  e la  inviolabilità 
de’  sacerdoti.  Lo  accolsero  al  giunger  suo  con  benevo- 
lenza i duci , e lo  stimolarono  affinchè  stesse  e coman- 
dasse con  essi  ; anticipandogli  de’  doni , e promettendo- 
gliene ancora.  L’uom  d'arme,  tutto  ingenuo  in  seslesso, 
deluso  dai  scellerati,  come  lui  che  non  capiva  i presti gj 
delle  parole  , e quanto  erano  ingannevoli  ; suggerì  loro 
le  cose  che  utili  riputava,  e soprattutto  che  trasferissero 
il  campo  dal  territorio  proprio  a quello  de’  nemici  ; 
additando  i mali  che  ivi  soffrivano , c rilevando  i beni 
che  da  tale  passaggio  nascerebbero. 

XXVI.  Fingeano  que’duci  udirne  con  diletto  gli  am- 
mpnimenti  : Adunque  che  non  ti.  fai  tu  duce,  gli  dis- 
sero , di  questo  transito  , preeleggendone  il  sito  op- 
portuno , tu  si  perito  do'  f ioghi  por  le  tante  tufi  spe- 
dizioni ? Noi  ti  daremo  schiera  eletta  di  uomini  , 
espediti  per  armamento  leggiero.  Avrai  tu  cavallo 
come  alT  età  tua  si  com’iene , ed  armatura  degita . dei 
tuoi  pari.  Tenne  Siccio  l’invito,  e chiese  cento  uomini 
scelti.  Quegli,  essendo  ancor  notte,  spediscono  lui  senza 
indugio  , c con  lui  cento  i più  baldanzosi  de’  loto  fau- 
tori , istrutti , e mossi  ad  ucciderlo  con  lusinga  ahiplis- 
sima  di  ricompense.  Or  questi  giunti,  ornai  ben, lungi 
dal  campo  , in  luogo  montuoso , angusto,  e difficile  di 
ascenderlo  a cavallo  , se  non  di  passo , ordinaronsi  , 
datone  il  segno  , in  maniera  da  serrarsi  in  folla  su  lui. 
Un  tale , sostenitore  e servo  di  Siccio , valoroso  tra  le 


34 a,  DELLE  ANTICITITa’  KOMAVE 

arme  , indovinando  il  cor  loro  , diedene  cenho  al  pa- 
drone. Il  quale  vedutosi  in  tanto  disagio  di  sito  da  noa 
potervi  nemmen  slanciar  con  forza  il  cavallo',  ne  salta  , 
e postosi  coir  unico  sostenitore  suo  in  una  balza  per 
non  esservi  circondato  , aspetta  che  ve  lo  assalgano.  Or 
tutti  ( ed  erano  molti  ) assalendovelo  ; ne  uccide  intorno 
a quindici,  feritone  il  doppio  : e parca  , se  lo  assaliva» 
da  presso  , che  avrebbe  , combattendo  , straziato  ancor 
gli  altri.  Ma  questi,  conceputolo  per  invincibile,  e come 
non  era  dà  prenderlo  a corpo  a corpo  ; non  vennero 
in  tal  modo  alle  mani:  ma  tenendosi  lontani  da  lui;  lo 
fulminarono  con  dardi , sassi  , e legni.  Ed  altri  avan- 
zandosi di  fianco  in  &ul  motttc,  e riuscendogli  a tergo, 
rotolavano  dall’  alto  macigni  stragrandi  : talché  per  la 
moltitudine  de’  dardi  lanciatigli  conira  , e per  la  enor- 
mità de’  sassi  che  cade.mu  romorosi  dall’  alto  , lo  op- 
pressero in 'fine:  e questo  fu  il  termine  incontrato  da 
Siccio. 

XXyiI.  Tornaitono  gli  uccisori  co’  feriti  nel  campo  , 
e vi  pubblicarono  che  una  insidia  ióiprovvisa  di  nenrici 
avea  spento  Siccio , e gli  altri , che  assalirono  i primi , 
e che  essi  he  erano  a stento  scampati,  ricevutine  molle 
ferite.  Pareano  questi  dir  vero  ; non  però  si  giaeque 
occulta  la  loro  per6dia  : ma  sebbene  avvenisse  1’  eccidio 
in  luoghi  deserti  e senza  testiinonj  ; i fati  stessi  e la 
giustìzia  che  invigila  le  cose  umane,  lo  diedero  a co- 
noscere per  segni  indubitati -(i).  Imperocché  quei  del 
campo  riputando  1’  uom  forte  degno  di  pubblica  sepol- 

(i)  A quella  icotenza  somiglia  quella  lauto  vera  di  Arioslo  can.  6 
e tanto  poco  tenuta  in  peotieio  dagli  nomini. 


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LIBRO  • XI.  343 

tara . e di  onori  distinti  rispetto  degli  altri,  per  più  cau- 
se , e'  principalmente  pel  carattere  suo  di  legato,  e per* 
cbè  libero  già  da’  servigj  militari, eravisi  cimentata  di 
nuovo  per  util  comune;  decisero  di  unirsi  dal  complesso 
di  tre  legioni  e di  uscjre  cosi  per  investigarne  il  cada- 
vere , onde  riportarselo  con  pieno  decoro  e sicurezza. 
Concederono  questo  i capitani  per  non  dare  sospetto 
alcuno  delle  insidie  : e prese  le  arme  uscirono  intenti 
all’^opcra  bella  e degna.  Giunti  al  sito  e vistovi  non 
selve  , non  valli , non  luoghi  consueti  per  le  insidie  , 
ma  una  balta  tuttar  nuda  ed  aperta  ,.ed  angusta  a pas- 
sarla; sospettaron  bentosto  ciocch’era.  Avvicinatisi  quindi 
ai  cadaveri  % mirato  Siccio  e gli  altri  derelitti,  ma  senza 
essere  spqgliati;  si  meravigliarono  che-i  nemici,  vincen- 
do , non  avessero  levate  loro  non  le  vesti  , nè  le  anni. 
E specolando  ihtoroo  ogni  cosa , nè  trovando  vcstigia 
di  cavalli  o di  uomini  se  non  le  impresse  nel  sentiero; 
tennero  per  impossibile  che  i nemici  fossero  su  loro* 
venuti  improvvisi , quasi  uccelli.,  o uomini  discesi  dal 
cielo.  Ma,  più  che  questi  e simili  indi^,  il  non  trovarsi 
ivi  cadaveri,  di  avversar)  fu . loro  argomento  evidentissi- 
mo , che  gli  amici  ne  erano  stati  gii  uccisori  e non  i 
nemici.  Imperocché  non  parea  loro  che  Siccio  , e quel 

Miscr  chi  maV  oprando  si  confida , 

Che  ngnor  star  debba  il  maleficio  occulto  ; 

Che  quando  ogn’  altro  taccia  intorno  grida 
V aria  e la  terra  ittetsa  in  che-d  tepultq^  . 

E Dio  fa  spesso  che  'I  peccato  guida 
Il  peccator,  poi  cV alcun  di  gli  ha  indulto- 
Che" si  medesmo  , seni'  altrui  richiesta 
JnavOedutamstnle  mastifesla. 


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■^44  nF.LT,E  antichità’  ROMANE 

sosteuitore  suo,  e gli  altri, che  seco  perìroofi,  sarebbero 
morti  inulti , specialmente  se  venuta  si  fosse,  quanto  si 
può , (la  vicino  alle  mani.  Rac(:olsero.  ciò  ancora  dalle 
ferite  : perocché  Siccio , come  quel  suo,  sostenitore  , ne 
avea  molte  per  colpi  di  sassi  o di  strali  e di  spade  ; 
laddove  gli  uccisi  da  loro  avean  colpi  di  spade  si,  non 
di  sassi , o di  strali  e di  saette.  Adunque  .ne  sorse  in- 
dignazione , e claipore  , e lutto.  Alfine  compianta  la 
disgrazia  ; raccolsero  e portarono  il  cadavere  ai  campo  : 
e là  gridarono  altamente  contro  de’  capuani , esigendo 
allora  allora  secondo  la  legge  militare  la  morte  degli 
uccisori  ; o che  sen  fidasse  almeno  il  giudizio  ; e già 
molti  erano  pèr  ,farvisi  accusatori.  Ma  conciossiaché  non 
davano  loro  udienza,  e nascondeano  gli  uccisori,  e^ne 
differivano  il  giudizio  , con  dire  che  in  Roma  darebr 
bero  a chi  la  volea  la  podestà  di  accusarli  ; ben  vtdesi 
che  la  trama  era  de’  (ùpitani.  Adunque  portarono  (xm 
* magnifica  pompa  Siccio  al  sepolcro,  alzandogli  una  pira 
meravigliosa,  e tributandogli  secondo  il  loro  potere  altre 
primizie  che  la  legge  concede  negli  onori  estremi  dei 
valentuomini.  Alienaronsi  allora  tutti  dal  decemvirato; 
e pensarono  come  liberarsene.  Cosi  l’ esercito  presso 
Chistumero  r Fideue  era  nimico  a’  suoi  capi  per  la 
morte  di  Siccio  legato. 

XXVIIl.  L'  esercito  acc;impato  nell’  Algido  della  re- 
gione degli  Equi  , e la  molutudiiie  in  Roma  crasi  per 
tali  cagioni  esacerbata  tutta  con  essi.  Lucio  Verginio  un 
plebeo,  non  secondo  a niuuo  nella  milizia,  starasi  capo 
di  una  centuria  nelle  cinque  legioni,  belligeranti  con  gli 
Equi.  Avea  costui  per  avventura  una  figlia  vaghissima 


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LIBRO  XI.  345 

fra  ratte  le  donzelle  romane.  Ella  portava  il  nome  del 
padre,  ed  avealasi  pattuita  in  isposa  Lucio  Icilio,  uomo 
tribunizio,  qome  6glio  (i)  di  quell’ Icilio  che  primo  fe’ 
stabilire  , e primo  assunse  T autorità  di  tribuno.  Appio 
Claudio  il  capo  decemviro  vista  la  verginella  che  leg- 
geva in  una  scuola  ( stavansi  allora  le  scuole  pe’  giovi- 
netti intorno  del  Foro)  bentosto  ne  fu  preso  dalla. bel- 
lezza ; anzi  vinto  dalla  passione  era  così  tòlto  a sestes-^ 
so  , che  non  potea  non  passare  più  volte  intorno  della 
scuola.  Or  non  potendo  torlasi  sposa  come  già  sacra  ad 
altri  , anzi  perchè  egli  avea  pur  moglie  , e perchè  non 
istavagli  bene  donna  plebea  di  lignaggio  contro  il  suo 
grado  e la  legge  scrìtta  da  lui  nelle  dodCci  tavole  ; su 
le  prime  tentò  corrompere  co’ danari  la  giovinetta.  Egli 
mandava  ad  pra  ad  ora  delle  donne  con  doni  e pro- 
messe maggiori' alle  nudrici  di  essa,  orfana  già  della 
madre  ^ avea  però  comandate  le  donne  che  tentavano 
le  nudrici  a non  dire  chi  fosse  l’amante  della  fanciulla, 
ma  solo  eh’  egli  erg  un  tale  che  potea , volendo , -bene- 
ficare e nuocere.  Non  potendo  però^  guadagnarle  , anzi 
vrt.duta  la  donzella  guardata  più  che  prima  , si  mise , 
caldissimo  che  ne  era  d’  amore  , a camminare  altra  via 
con  meno  ancora  di  sénno.  Fattosi  chiamare  Marco 
Claudio  , r uno  de’  suoi  clienti , uomo  ardito  e pronto 
ad  ogni  servigio , gli  additò  la  Gamma  sua  : e prescrit- 

(t)  Forse  nipote’,  perchfc  dalla  islitusione  del  tribonato  all' anso 
prescote  decorsero  45  aooi.  Pertanto  Lucio  Icilio  di  cui  qui  ai  ra- 
giona o era  nipote  ni*, Icilio  Ruga,  o coOTÌen  dire  che  di  molto  ec- 
cedesse gli  anni  di  Virginia  destinatagli  sposa  ; seppure  non  voglia 
dirsi  che  Icilio  Ruga  generasse  beo  tardi  quel  figlio.  > 


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34 fi  DELLE  antichità’  ROMANE 

togli  cioccliè  volea  che  facesse,  e dicesse  ; lo  spedi  con 
allato  uomini  impudentissimi.  Costui  recatosi  alla  stuoia, 
vi  tolse  la  vergine  , b volea  recarsela  palesemente  pel 
Ford.  Impedito  però  dai  clamori  e dal  grande  «oucor- 
so,  di  recarsela  dove  avea  stabilito;  venne  al  magistrato. 
Sedessi  allora  nel  tribunale  Appio*'  solo,  rendendo  ri- 
sposte e r&gioni  a chi  ne  chiedeva.  Or  volendo  colui 
dire  , sòrsene  rumore  e sdegno  tra*  circostanti , i quali 
tutti  reclamavano  , perché  si  aspettasse  6nchè  venissero 
i parenti  della  fanciulla  ; ed  Appio  ordinò  che  in  tal 
modo  appunto  si  facesse.  Passato  appena  picciolo  tem- 
po; ecco  presentarsi 'Publio  Numitore  nomo  insigne  tra 
i plebei,  zio  materno  di  lei,  con, seguito  di  molti  amici 
e parenti;  e dopo  non  molto  ecco  giungere  con  numero 
poderoso  di  giovani  plebei  Lucio  Icilio,  quegli  che  per 
le  promesse  dèi  padre  aver  dovea  la  donzella  in  isposa. 
E questi  , tutto  sospeso  ed  ansio  nel  respiro , avanzan- 
dosi al  tribunale  , addimandò  chi  osato  avesse  toccare 
la  giovine' cittadina  , g (die  mai  ne  pretendesse. 

XXIX.  Fattosi  intanto  silenzio.  Marco  Claudio,  que- 
gli appunto  che  avessi  preso  la  donzella,  così  ragion:^; 
O j^ppio  Claudio  , niente  ho  io  fatto  di  temerario  , 
niente  di  violento  contro  la  fanciulla.  ' Signore  , come 
io  tono  di  lei , secondo  le  leggi  me  la  conduco.  Or 
odi  comi  ella  siasi  la  mia.  Ho  io  una  tal  serva  pa- 
terna che  ministrami  già  da  tempo  lunghissimo.  Or 
questa  , familiare  che  ne  era , usava  di  andare  alla 
mo"liè  di  f^érginio;  e la  moglie  di  Ferginio  persuase 
lei  gravida  a concederle  , quando  che  fosse  , il  frutto 
del  suo  ventre.  La  donna  , partoiita  una  figlia , ( ed 


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LIBRÒ  XI. 


347 


era  questa ) serlà  le  promesse  ; e àiedela  a Numito- 
ria,  con  fingere  presso  noi  che  uscita  fosse  la  di  lei 
prole  già  morta.  Numitorià  tuttoché  madre  non  fosse 
di  fanciulli  o fanciulle,  la  pigliò,  la  fé'  sua,  la  nudrì, 
senza  che  io  sapessi  nel  principio  la  vicenda.'  Or 
la  so  per  indizj  di  molti  e buoni  testimonj  : io  ho 
fatto  t esame  di  quella  serva , e ricorro  alla  legge 
comune  per  tutti  ha  quale  vuole  « che  sia  la  prole  non 
» di  chi  la  impostura  per  sua , ma  di  chi  1’  ha  gene- 
» rata  ; e che  libera  sia  se  nata  di  libera , e serva  , se 
» nata  di  serva , de’  padroni  stessi  delle  madri  u . Su 
questa  legge  esigo  di  riportarmi  la  figlia  della  mia 
serva  , pronto  a subirne  il  giudizio:  Che  se  alcuno  la 
reclama  per  sua,  dia  certi  mallevadori  di  riprodurla  in 
giudizio  : ma  se  anzi  vuole  chi^  ora  qui  sen  tratti  la 
causa  io  lo  secondo , voglioso  c^e  si  espedisca  anzi 
che  si  procrastini , e che  io  mi  assicuri  con  malleva- 
doii  la  vergine.  Scelgano  qual  più  vogliono  di  questi 
partiti. 

XXX.  Claudio  cosi  disse  aggiungendo  vive  preghiere 
di  non  essere  considerato  meno  de’‘suoi  competitori  per< 
che  era  cliente  ~di  lui',  ed  umile  di  condizione.  Quando 
do  zio  della  vergine  fattosi  a dire  alcune  poche  cose 
quali  si  convengono  innanzi  di  un  magistrato  , ri;poK  : 
che  padre  della  donzella  era  Vergineo  un  plebeo  il 
quale  stava  lontano  'a  combattere  per  la  patria  : che 
madre  ne  era  Numitorià  germana  di  lui  presente  , 
donna  pudica  e'buqna , e motta  non  molti  anni  avan- 
ti : che'  la  vergine  , educata'  come  deesi  una  ingenua 
e cittadina , era  già  pe'  riti  della  legge  la  sposa  d J- 


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348  DELLE  Antichità’  romane 
cilio , e che  ultimato  ne  sarebbe  già  stato  il  matrimo- 
nio se  cosi  di  subito  non  sorgea  la  guerra  con  gii 
Equi;  che  volgeva  ornai  T anno  quintodecimo  nè  Clau- 
dio avea  mai  fallo  tali  reclami.  Ora  che  la  donzella , 
vaga  in  vista , tien  la  età  da  marito , egli  viensene 
amante  con  queste  invereconde  finzioni  non  sue , ma 
fabbricate  da  chi  pensa  che  debba  per  egni  via  con- 
tentare le  sue  passioni.  E qui  dicev» , che  il  padre 
di  lei  tornando  doli  esercito  ne  giustificherebbe  la  causa: 
che  intanto  egli  zio  della  vergine  raddomandava  la 
persona,  in  conformità,  comeAeesi,  della  legge,  pronto 
a fai'  quanto  è giusto  : non  chiedeva  già  egli  cosa  in- 
degna , o strana , nè  mai  conceduta  ai  Romani , per 
non  dire  ai  mortali , quando  chiedea  che  la  persona 
cui  pretendeano  far  s^rva^di  libera,  si  stesse  fino,  al 
giudizio  presso  lui  che  ne  difendeva  la  libertà  , non 
presso  lui , che  glie  là  involava.  ^ qui  soggiuogeva 
convenirsi  che  Appio  garantisse  un  tal  dritto  per  jriù 
titoli:  e prima  perchè  avealo  scritto  come  legge  nelle 
dodici  tavole  ; appresso  perdi  egli  era  capo  decemvi- 
ro : ed  inoltre  perché  in^  sè  riuniva  colla  potestà  con- 
solare la  tribunizia,  diretta  per  natura  a proteggere  i 
deboli  e desolati  tra  cittadini.  Pertanto  impietosisse 
( pregavalo  ) di  una  vergine  che  a lui  ricorreva  , orfana 
già  della  madre  ed  allora  lontana  dal  padre , la  quale 
pericolava  di  perdere  non  le  sostanze  , ma  il  marito 
e la  patria , e ciocché  supera  tutti  i beni  , la  libertà. 
Fipaknente  deplorata  la  calamità  nella  quale  era  per  ca- 
dere la  vergine,  e sparsane  tenera  compassione,  fra  gli 
astanti , cosi  disse  intorno  al  tempo  del  giudizio:  Claudio 


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LIBRO  XI.  ' 349 

mai  per  quindici  anni  non  reclamò  la  ingiustizia', 
ed  ora  vuole  che  sen  faccia  bentosto  il  giudizio'?  Se 
altre  persone  che  noi , fossero  càn  esso  in  tal  briga; 
sen  terrebbero  molto  gras'ote , e giustamente  se  ne 
dorrebbero  , con  chiedere  che  sen  faccia  la  causa  dopo 
conchiusa  la  pace , quando  quelli  che  ora  stansi  nel 
campo  siano  ritornali , quando  siavi  per  F una  'e  F al- 
tra parte  copia  di  testimonj  , di  amici  , di  giudici  : 
richieste  tutte  sociali , moderate  , consuete  tra'  Romani. 
Noi  però  , soggiuDgea , non  abbiamo  bisogno  di  a- 
ringhe  , non  di  pace , non  di  folla  di  amici  e di  giu- 
dici : nè  vogliamo  rimand'are  F affare  a tempi  giudi- 
ziali, ma  sosteniamo  di  giustificarlo  in  tempi  di  guer- 
ra , in  mezzo  a penuria  di  amici , con  giudici  non 
propizj , e d"  improvviso:  e solo  da  te‘ dimandiamo  o 
j4ppio  tanto  spazio,  quanto  basta  perchè  il  padre  qui 
dal  campo  si  restituisca  , e pianga  la  propria  sorte , 
e difendasi  da  seslesso. 

XXXI.  Avendo  Numitore  ciò  detto  , e la  turila  intorno 
a gran  voce  sig'ni Beandone  come  giuste  le  dimaude  ; 
Appio  i dopo  alquanto  replicò  : non  ignoro  la  legge 
emanala  intorno  al  dar  sicurtà  per  gli  uomini  cito  trag- 
gonsi  ad  esser  schiavi , legge  che  non  permette  che 
F uomo  preteso  per  ischiavo  stiasi  presso  chi  lo  pre- 
teruìe , prima  che  se  ne  giudichi , nè  io  la  torrò  questa 
legge , scritta  dcdle  mie  mani.  Essendo  però  due  li 
pretendenti  il  padiv  ed  il  padrone  ; giudicherei  se  fos- 
sero ambedue  presenti,  che  il  padre  s'  avesse  la  don- 
zella: ma  stando  questo  lontano:  è giusto  che  se  F ab- 
bia il  padrone,  sotto  idonea  sicurtà  di  rimenarla  al 


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35o  DELLE  Antichità’  bomane 
tribunale  , appena  il  padre  di  lei  sif  giunto.  Prowe~ 
derò  poi  seriamente  quanto  ai  maUevadori  e alla  multa, 
che  i oi  non  siate  punto  danneggiati  nel  giudizio  : ma 
ora  concedi  tu  la  donzella.  Data  . questa  Sentensa  da 
Appio  feceseiie  gran  pianto  dai(a  vergine  , e dalle  donne 
che  le  erano  intorno  ; conte  un  clamore , un  fremilo 
cupo  dalla  moltitudine  circostante  al  tribunale.  Icilio  che 
era  per  iaposarsi  la  vergine  presela  tenacissimamente  , e 
disse  : no  , finché  io  vivo  , niuno  non  porlerassela , o 
'jippio.  Ma'  se  vuoi  tu  violare  la  legge , confondere  il 
giusto , e rapirci  la  libertà;  non  tu  negare  ornai  la  ti- 
rannide, che  tanto  ti,  si  rimprovera,  Dopo  ciò  coman- 
da che  tronchisi  qìwslo  mio  capo , e che  la  donzella 
sia  tratta  colle  altre  vergini  e colle  maU'one  dove  ti 
piace.  Sapranno  allora  Jirudmente  i Romani  che  servi 
son  fatti  di  liberi  ; nè  terran  sentimenti , grandi  più 
della  sorte.  Che  più  dunque  t indugj?  che  non  spargi  il 
mio  sangue  appiè  del  tuo  tribunale  , innanzi  agli  occhi 
di  tutti  f Sappi  però  chiaramente  che  la  mia  morte  fia 
principio  di  mali  grandi  o di  beni  cl  Romani. 

XXXII.  Voleva  più  dire  ma  i littori,  comandatine 
dal  magistrato  , lo  allontanarono  dal  tribunale , intimati* 
dogli  di  rimettersi  al  giudizio  già  dato  : e Claudio  af- 
ferrata |a  donzella  voleasela  tot*  via , tutta  intenta  come 
era  allo  zio , e allo  sposo.  Alzarono  allo  spettacolo  mi- 
serando i circostanti  le  grida  ; nè  rivecendo  più  l’ auto- 
rità dei  comando  , si  lanciarono  su’  violenti  satelliti  ; talcViè 
temendone  Claudio  l’ impeto , lasciò  la  donzella , e si 
riparò  presso  del  magisU'ato.  Appio  su  le  prime  assai  ue 
fu  conturbato , vedendo  lutti  irritati  ; e dubitò  gran  teoi- 


* 


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- LIBRO  XI.  ' 35 1 

po  ciocché  fosse  da  fare:  ma  poi  cliiamato  a se  Claudio, 
ed  abboccatisi , come  pare , brevemente , ed  intimata 
calma  ai  circostanti  disse  : Romani , giacché  per  quanto 

10  vedo , vi  esaspera , io  tralascio  la  tanta  mia  dili-’ 
gema  per  assicurarmi  della  persona  controversa.  In- 
tento a farvi  cosa  grata  ho  persuaso  quel  mio  cliente 
a contentarsi  che  i parenti'  della  vergine  facciansi  per 
lei  mallevadori,  finché  torna  il  padre  della  medesima', 
recatevi  dunque  o Numitore  la  donzella:  e v obbligate 
presentarla  dimani  novamente  al  tribunale,  perocché 
basta  oggi  il  ternpo  per  dar  la  notizia  a V erginio , e 
bastano  dimani  le  tre  o quattr'  ore  a qui  ricondurlo 
dal  campo.  Dimandavano  quelli  un  tempo  più  lungo; 
ma  egli  senza  rispondere , ^otse , e fe’  levare  la  sedia. 

XXXIll.  Se  non  che  partitosi tutto  dolente  e sma* 
DÌoso  per  amore , dal  F oro , deliberò  di  non  più  con- 
cedere la  fanciulla  a parenti  ; mà  cingere  sestesso  di 
più  guardie , e preoccupare  'i  posti  attorno  del  tribunale 
con  numero  di  clienti  e di>  amici , e torlasi  a forza 
quando  glie  la  ripresent'avano  per  la  sentenza.  E perchè 

11  giudizio  fosse  con  buona  forma  , sul  pretesto  che  il 
padre  di  lèi  non  erasi  presentato  ; diè  lettere  a cavalieri 
fedelissimi , e li  spedi  nel  campo  ad  Antonio , cdroan- 
dante  della  legione  ov’ era  Verglnio,  con  ordine  che 
ritenesse  quest’  uomo  cautissima  mente  , talché  udite  le 
vicende  della  figlia , da  fui  non  s’  involasse.  Ma  Io  prejr 
vennero  , attinenti  che  erano  alla  donzella  , il  figlio  di 
Numitorio,  cd  il  fratello  d’ Icilio , spediti  avanti,  sul 
nascere  appena  della  sommossa.  Giovani  pieni  di  corag- 
gio fornirono  prima  il  vaggio  sferzando  i cavalli  ed  ab* 


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35a  DELLE  Antichità’  bomane 

baudonando  loro  le  redini  j e _ narrarono  a Vergitiio 
l’evento.  E Verginio,  ^cimane  ad  ^Antonio  la  cagione 
vera  , e fintogli  di  aver  udita  la  morte  di  un  suo  pa« 
rente  di'  cui  doveasi  fare  il  trasporto  , e la  sepoltura 
secondo  la  legge  , ebbe  il  congedo.  E presso  1'  ora  in 
cbe  accendonii  i lumi  ; se  ne  andò  con  que’  giovini , 
ma  per  altra  via  , temendo  , come  avvenne  , di  essere 
inseguito  da  quei  del  campo  e della  città;  perocché 
Antonio,  ricevuta  la  lettera  circa  la  prima  vigilia,  spedi 
contr  esso  una  banda  di  cavalieri,  mentre  un’altra  spe* 
dita  da  Roma  guardò  per'  tutta  la  notte  la  strada  che 
vi  conduceva  dal  campo.  Ma  non  si  tosto  un  tale  ridisse 
ad  Appio  che  Yerginio  era  l’unto  contro  la  espetta- 
zione;  egli,  uscito  di' senno , ne  andò  con  gran  seguilo 
al  tribunale , e fece  che  a lui  si  chiamassero  i con- 
giunti della  donzella.  Venuti' questi , Claudio  ripetè  lo 
stesso  discorso , e dimandò  cbe  Appio  senza  indugio 
decidesse  l’affare;  dicendo  esser  pronto  chi  lo  esponeva, 
e chi  lo  attestava  , fin  la  serva , madre  vera  della  fan- 
ciulla. Simulava  in  tutti  questi  atti . che  assai  si  sdegne- 
rebbe , se  esso  per  essere  cliente  di  lui  non  ottenea 
come  prima  la  giustizia  egualmente  che  gli  altri  ; e di- 
mandava che  ajutasse  chi  dicea  cose  più  vere,  non  chi 
più  lamentevoli. 

XXXIV.  Il  padre  della  donzella  e gli  altri  patenti 
escludcano  la  supposizione  del  parto  con  molti  argo- 
menti giusti  e veri , per  esempio  che  non  ebbe  cagion 
plausibile  di  farla  la  sorella  di  Numitorio  c moglie  di 
Verginio  maritatasi  vergine  ad  utl  giovine  la  quale  par- 
torì tra  non  molto  : appresso  perchè  sebbene  voluto 


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’ ' LIBRO  XI.  353 

avesse  iotradere  in  sua  casa  un  6glio  altrui  ; v’  avrebbe 
intruso  non  il  figlio  di,  una  donna  schiava , ma  quello 
di  una  ingenua,  amica  o parente  sua,  onde  ritener  fe- 
delmente e stabilmente  ciocché  TÌce'«’eaiée  : ed  arbitra  in 
tutto  di  Scersela  Come  volea  ,*  scelta  s’  avrebbe  la  prole 
non  femipea,  ma > vivile}  imperocché  la  donna  che  par- 
torisce, vinta  dall' aderenza  pe’ 6gli  che  partorisce,  ama 
e nudre  ciocché  la ‘natura  le  porge:  laddove,  la  donna 
che  imposturasi  un  6g)fO  sei' cerca  del > sesso  migliore, 
non  del  più  ignobile.  Contro  lui  poi  che  dava  .l’ indi- 
zio,'e .contro  i molti  tesu'monj- edibili  da  Claudio  come 
degni  di  fede . allegavano  cagioni  tratte  dal  verisimile  : 
vuol  dire  che  Numitoria  non  avrebbe  operalo  imai  pale- 
semente e presenti  molti  ingenui  tekùmònj  tur  fatto  che 
abbisognava  di  silenzio , e che -pbtea' fornirsi  col  mini- 
stero di-  un  solo  ; e c|ò  perché  la  prole  edncatà  non 
fosse  col  tempo  ritolta  dai  padroni  delia  madre.  Ag- 
ginngeano  che  la  dilazione  non  picoiola'  era  segno  evi- 
dente che  il  calunniatore  non  prolTeriva  niente  di  vero: 
perocché  colui  che  dié  l’ indiziò  'della  supposlzioue  e 
gli  altri  che  la  cooteslano  -l’avrebbero  molto  'iuoansi 
svelata,  non  tenuta  Segretissima  per  quindi^,  anni.  Frat- 
tanto redarguivano  le  pròve  degli  accusatori,  come  non 
vere  'né  credibili,  e chiedeano  che  si  paragoudssero 
colle  altre  loro,  nominando  molte  doqpe  non  ignobili 
le  quali  dicevano  aver  veduta  Numitoria  gravida  cOn 
pienezza  di  utero.  Olirà  queste  ne  additavano  altre  che 
in  fom  del  parentado  venute  pel  parto  o per  la  pimr- 
pera  aveano  mirato  k prole , ed  iuasievano  perché  s’ iu- 

Viomci  , tome  III.  .1  »i  • 


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354  delle  antichità.’  romàne 

terrogassero.  Era-  poi  di<  inui  gli  argomenti  cQin6  il  cu-  • 
niolo , che  molli  uonaiui  -e  dauae  , liberi  e -nou  liberi  , 
.sosteneano  che  la  iaucialla  era  stata  allattata  da  Nomi- 
toria  ; imperocché  oitina  donna  se  non  ha  partorito  può 
empiere  di  latte  le  mammelle.  , ' ' 

XXXV.  Or 'essi  dicendo  tjaesù  argomenti  e molli 
consimili,  validi 'tutti  e senza  replica; 'ed  ispirando  viva 
compassione  pel  disask-o  della  vergine  ; gli  altri  che  gli 
intendevano,  su 'lei  s’ natenerivand  ogni  volta  cheda  ri- 
miravano. Imperocché  chiusa  in  lugàbre  ves^,  stpiallida 
ne*  sembianti , e sciolta- i begli  occhi,  in  pianto,  rajMva 
gli  sguardi  . di  tutti  ; Tanta  in  lei  riluceva  sovrumana 
bellezza  e grazia  ! tutti  l’ infortunio  ne.  compiangevano, 
dacché  ornata  di  uli  doti  décadecebbe  a tonto  dispregio 
ed  avvilimento.  Adnn^e  entrè  loro  in  pensiero  che  tolto 
la. legge  della  libertà';  niente  impediva  che  le  mogli,  .e 
le  figlie  loro  eziandio  soggiaces$ei*o  a pari  vicende.  E coa> 
siderando  queste  e simili  cose,  e fra  lóro  discorrendole, 
ne  piangevano.  Appjo  altronde , come  non  cauto,  per 
matura , e corrotto  dalia  grandezto  del  potere , invanito 
di  sestcsso , e caldo  ' di  amore  nelle  viscere , non  ohe 
attendere  al  parlare  dei  difensori , e commoversi  alle 
lagrime  della  vergine , adiravasi  per  la  compassione  che 
di -lèi' Sentivano  >i  circostanti  (Juasi  di  compassitme  egli 
fosse  più  degno,  e patisse  mali  più  grandi,  ridotto  pri* 
■gioniero  dì  quella  bellezza.  Da  tali  cause  infuriato  ardi 
fin  di  'fare' impudenti  discorsi  (pe’ quali,  coloro  che  già 
ne  sospettavano  ,'  foron  -chiari , 'che  sua  era  1-  impostura 
contro  la  donzella  ) > e compiere  infine  la  barbara  c ti- 
rannica azione. 


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, LIBRO  XI.  355 

XXXVI.  Àncora  parlavano , quando  egli  iu- 

Uqoò  sUeniiio  ; e . feoesi.  jbtanlò  la  moilitudine  che  era 
nel  Foro  , ^ntenendo  lo  adegno  si  spinge  innanzi  per 
desiderio  d’ intendere  ciocché  direbbe  ; ed  esso  volgeo'. 
dosi  qua  c là  per  numerare  col  guardo  i crocchi  degli 
amici  co* quali  avea  p|:ima  occupato  il  Foro  cosi  favellò: 
O Verginio  j o voi  qui  presenti  con  , esso  f fiqn  io 
sento  ora  la  prima  voltd  un  tal  fatto , ma-  lo  sentii 
prima  ancora  di  giutfgere  a questo  magistrato.  Or 
udite  ; Come  ' lo  sentàsL  11  ^ padre  di  questo  Marco 
Claudio  ornai . spiratido  la  fitfl  y pregavnmi  die  io 
prendessi  la  tutela  del  figlio  lascialo  da  lui  piccélo  ; 
giqcchò  essi  fin.  dagli  antichi  loro  son  . clienti  della 
ìiostra  famiglifc.  Or  mentre  io  rn  era  il  tutore  di  esso 
udii  della  donzella  e .come  Numitoria  sala  suppone; 
prendendola  dalla  sert>à  di  Claudio:  ed  esaminatala; 
trovai  che  appupto  cosi  pava  •<  la  cosa.  l\lbn  conve- 
nendo però  che  io  mi  vii  Ifrigassi  ; riputai  meglio  di 
riserbare  la  cosa  v per , lui  quando  fosse  piò  grande  , 
sia  che, volesse  rivendicare  la  giovine,  sia  che  la- 
sciarla grOtuitameiite  o co.n  prezzo,  a chi  la  educava. 
Intanto,  io  .ravvolto  tra  <gli  affari  politici,  non  tenni 
piò  niente  a quelli  di  Claudio.  Ora  per  quanto  vedo, 
esaminando  costui  lo  sótto  -di  famigifit , vien  detto  a 
lui  ciocché  a me  per  addietro  su  la  fanciulla;  ne 
gi4  chiede  eglL'qpsa  ingiusta  , .rivolqttdo . la  fglia  di 
una.  sua.  seiva.  Se  • questi  f a lor  si  acconciavano  ; 
tutto  andava  benissimo.  Mossasi  però  lite  ; io  stesso 
attesto  ciòcche  ìu>' dettai  c, giudico  esser  Claudio  pa- 
drone della  serva. 


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356  1 DELLE  antichità’  EOJHAME 
XXXVII.  Udito  ciò , quanti  ivi  erano  fiomlni  iniegrì , 
sostenitori  di  que’  che  dicevano  il  giusto  , levarono  le 
mani  al  cielo  , con  “"un  grido  misto  d’  indignazione  , e 
di  pianto  : per  1’  opposlto  i partigiani  de’  Decemviri  , 
mandavano  voci  atte  ' a confortarli  ed  animarli.  Irritatasi 
però  l’adubanza,  e riempiuta»  di  ogni  guisa  di  afTetti, 
e discorri  ; Appio  intimo  silenzio  , e disse  : O tutbo- 
lenti , o inutìii  a tutto  nella  guerra  e nella  pace  !•  se 
non  cessale  di  sonunover  la' patria  , e di  contropor- 
vici  ; farete  alfin  senno  per  forza.  Non  pensate  , jche 
abbiamo  noi  messo  un  presidio  nel  Campidoglio  , e 
nella  fortezza  soltanto  contro  i nemici  di  fuori , e 
che  lascèremb  poi  fare  quei  iT  entro  , i quali  scon- 
ciano ih  Roma,  ogni  cosa.  'Prendete  consiglio  migliore  ^ 
thè  non  avete  o . voi  tutti  a quali  non  spetta  C af- 
fare ; andatene  per  le  cose  vostre  in  buon  ora.  £ tu 
Claudio  recati  ria  pel  toro  ' la  donzella  : non  teme- 
re ; giacche  i dodici  miei  Colle  scuri  ti  saran  guar- 
dia. A ul  dire  gli  altri  ululando,  battendosi  la  froòte, 
nè  potendo  raffrenare  le  lagrime,  partirono  dal  Foro; 
e Claudio  succò  via  la  donzella,  che  stringeva,  che 
baciava  il  padre  suo , e con  voci  affettuosissime  lo  in- 
vocava. Fra  tanti  mali , Yerginio  si  mise  in  pensiero 
un’  azione , amara  , addolorevole  ad  un  padre  , ma  de- 
gna di  ud  nomo  liberò,  -di  un  Uomo  generoso.  Egli 
intercedette  di  salutare  ancora  una  volta  la  6glia , e di 
parlare  a lei  le  cose , che  volea  da  solo  a solo  ; prima 
che  dal  Foro  la  involassero.  Condiscesone  dal  capitano  , 
e ritiratisene  alquanto  i satelliti  , abbraccia  la  figlia  che 
sviene , che  abbandonasi  ; e cosi  la  sostiene , richiaman- 


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LIBRO  XI.  . • 357 

dola,  baciandola',  rasciugandola  dalle  lagnile,  che  la 
inondavano.  Poi^  trattala  seco  un  poco , non  si  tosto  fu 
presso  la  officina  di  un  niacellajo,  rapiscene  di  su  dal 
banco  la  coltella,  ed  immersela  nelle  viscere  della  figlia 
gridando:  Figlia  (i  mando  Ubera  e casta - ai  nostri 
sotterra:  per  colpa  del  tìrarmo  già  ntm  potevi  tu  viva 
serbare  questi  pregi. . SóHevatisi  intanto  ■ de' clamóri  ; 
tenendo  in  pugno  il  ferro  insanguinato,  egli  stesso  gron- 
dante del  sangue , sebitaato  su  lui , nell’  uccidere  della 
figlia  , corse  furibondo  , peó  la  città  , reclamandovi  la 
libertà  ; de*  cittadini.  Passate  a fona  le  porte,  àìcese  il 
cavallo , ebe  ■ tenessi  per  Ini'  preparatp  , e rivelò  nel 
campo , riaccompagnatovi  dà  Icilio , e da'  Knmitórlo  , i 
giovanetti  ebe  ne  *1  cavarono.  Teneano  loc' dietro  anche 
altri  plebei  non  pochi, Jn  numero  quasi  di  ^attro.* 
cento.  j ' ; 

XXXVIIT.  Appio  al  caso  della  ^giovinetta,. levatosi  da 
sedere,  si  slanciò  cpme  per  inseguire  Verginio , dicendo, 
e facendo  cose  non  degne  : ma  eiroondandolo , e pres- 
sandolo gli  , amici  a non  traviare  , si  ritirò  , pieno  di 
rabbia  su  tutti  : quando  ornai  -presso  della  sua  casa  udì 
da  taluni  de'  suoi  fautori , che  Icilio  il  .suocero  , e Nut 
raitore  lo  zio  , ridottici  con  altri  - amici , e congiunti 
intorno  al  cadavere,  gridavano  contea- Ini  an  colpe  no*> 
te,  e non  note  concitando  tutti  a rendersene  liberi  una 
volta.  Colui  spedì  per  la  rabbia»  che  ne'  ebbe,  alcuni 
de’  littori , -con  ordine  d’  imprigionare  i maledici , e di 
levare  dal  Foro  il  cadavere;  opera,  insana  in  v?ro  , « 
sconvenientissima  al  tempo.  Imperocché  mentre  dovea- 
carezzar  la  moltitudine  incollerita  giusUmente,  e-jóedere 


358  * DELLE  Antichità’  bomane 

in  principio  al  tempo  , e poi  rdifendersi , pregare  , be- 
neficare onde’  riconciliarsela  ; egli  'corso  Alla*  violenza  , 
ridusse  tutti . a disperarsi.  Pertanto  non  permisero  che 
gl’  inviati  levassero  la  estinta , o'  portassero  alcuno  nella 
carcere  : ma  gridando , ed  animandosi  gli  uni  gli  altri  ; 
cacciarono  dai  Foro  coll’impeto,  e oolle  percosse  i mi'- 
nistri  della  violenza.  Talché  Appio,  ciò  udendo,  fu  co- 
stretto dì  recarsi  con  molte  partigiani  e clienti  nel  F oro , 
e comandare  'che  battessero , e sbandissero  , chi  v*  era  ,* 
ne’ capi  delle  vie.  Orazio  e Valerio,  duci  come  ho  detto 
degli  altri  a riprendere  la  libeiné , sentito  il  disegno 
dell’ uscir  di  colpi,  menarono' con  sé  molti  bravi  gio- 
vani , e si'  misero  dinanzi  k estinta.  E qpando  ebbero 
più  \icini  {'compagni  di ‘Appio,  prima  inveirono,  (jnanto 
poterono , su  loro  cOn  -clamori  .ed  ingiurie  ; é quindi , 
pareggiando  ai  detti  le  opere , ferirono  e rovesciarono 
quanti  osarono  lanciarsi  su  lOro.  * 

XXXiX.  Appio  mal  .sofferendo  l’ostacolo  impreve- 
duto , nè  trovando  come  trattare  tali  nomini  \ risolvette 
di  correre  Una  viaria  più  rOvinOk.  Impéròccbè  porta- 
tosi al  tempio  di  Vulcano  ; invitavi  a parlamento  la 
' plebe,  quasi' benevola  ancora  verso  di  esso:  e prendevi 
ad  accasare  la  inginslizia,  t la  dnsojenza  di  tali  uomini, 
lusingandosi  per  l’ autorità  sua  .tribunizia , e per  le  vane 
speranze , ebe  la  moltitudine  gli  concedesse  di  precipi- 
tarli dalTa'  rupe..  Afa  i compagni  di  Valerio  occupata 
l’altra  parte  del  Forò,  e postovi  il  cadavere  della  ver- 
gine visibilissimo  a .tutti , ''convocarono  un*  altra  adu- 
.'nahza;  facendovi  vivissime  aCcusé  di  Appio  e de’ suoi. 
Occorse,  com’era  vcrisimile’,  che*’aUÌt'andovene  altri 'la 


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LIBRO  XI.  . 359 

riverenza  per  ^questi  ' nomioi ,,  altri  la  commiserazioae 
vereo  la  dctazella  soggiaciuta  a vicènde  dure,  ,e  più,  che 
dure  per  la  sv>a  bellezza  infelice,  ed, altri  H.  desiderio 
stesso  della  forma  .precedente  df  governo  , vi  si  rioni 
più  gente  che  intorno  di  Appio  : tanto  che  non  rima-c 
seto  presso  questo  'se  non  pochi , appunto  i partigianir 
ira'qtuli  cc  ne^avéa  pur  alèoni , che  per  molte  cagìoivi  ■ 
mal  più  si  acconcravano  eoi  Decemvirato ,,  contèntissimi 
di  rivolgersi  agli-  avversar)  , sé  il  partito  loro  si  fortiG- 
easse.  Appio  vedendosi  - derelitto  ^ -fo  cpstretio  i mutar 
COtasigHo  ,'e  ' ritnrarsi  dèi  Fpro^*cioecll&'  moitissiUo  gii 
giovò.  Imperocché  prèso  a cólpi- 'dalia  moltitadioe  pa- 
gata le  avrebbe  le*  giustissime  pene.  Dopò  .ciò  Valerio  . 
acquistata  preponderanza,  quanta 'ne  volle,  si  sfogò  pe- 
rorando contro  ai 'Decemvirato  , e decise  in  favor  suo 
perGno  i dubbiosi.  Molto . più'  poi  conjpccia'rono  la  moU 
titudiiie  contro  ai  Dètèiòviri  i parenti  della  vergine, 
recando -al  Foro  .il  feretro , -e  T altro  lagubre  apparato, 
maguiGco  quanto  potevano  , è facendo  ..la  traslazione  del 
cadavere  per  le  .vie  più  illustri,  di  Roma  , onde  fóssevi 
più  rimiralo;  imperocché  còrreabu  fuori  di  casa  matrone 
e donzelle  per  piangere  la  sciagura  e qual  d’esse  get- 
tava su  la  bava  Gori^e  ghirlande*',  e qual  veli  e. nastri  . 
e fiV;gi  pel  capo  di  .una  vergine,  e quale,  in  Gne.te 
anella  de’  Vecisi  capelli  : iiratlantor  molti  uomini  •nobilita* 
vano 'la  liinèbre  pómpa  con' doni*  convenienti,  presi  grsì- 
tnitamente’  o con  pfeézró  dalie  prossime  olBcIce.  Tanto 
che  divulgaiissima  era  per' la  citrii  la  lagrimevole  ceri- 
mònia , éd  avea  tulli  acceso  il  desiderio  di -spègnerti  la' 
lirannlde.  Ma  qnei  chè  la  difeudeano  f isirntii  che 


1 ' ; ‘ ".jd  ny 


36o  DELLt  AWTICHITa’  nOMANE 

erano  di  arme , davano  grande  spavento  ; laddove  Va^ 
lerio  W SUOI  non  volea  finire  col  sangue  de’  duadim 
la  disputa.  " . 

Tale  era  in  Roma  la  turbolenza.  Intanto  Ver- 
ginio  che  avea^  come  ho  detto  ^ itccisa  di  sua  mano  la 
figlia  spronando.' a briglia  sciolta  il  .cavallo i giunse  agli 
alloggiamenti  presse  l'  Algido  su  l’ imbruttir  della  sera  , 
tutto  lordo  -di  sangue , e . colla  ooltelitt , in  pugno  , ap- 
punto . com’  era  fuggito  da  Roma.  Vedi^tolo , i soldati 
che  stavansi  a guardia  innanzr  del  campo  ^ non  sapeano 
indovinare  ciocché  . avessè  patito^  e lo  accompagnarono 
per  intenderne  1*  alto.'  e terribile  caso.  E colui  tuttavia 
camminava  piàngendo,  e significando-  a quanti  gli  erano 
intorno  di  .seguitarlo.  Uscivano  fin  di  mezzo  alJf  cena 
da’  padiglioni , presso  i quali  passava  , soldati  Jn  folla  y 
con  faci  e làmpade,  pieni  di  mestizia  e tumulto,  e fa* 
cendogli  corona^  lo  accompagn#ano.  Alfine  giunto  in 
un  luogo  spaziose  del  campo.,'  e salita  una  eminenza 
ov’ essere  da  tutti  veduto,  nar^ò.  le  disavventure  sue, 
dandone  per  testimou)  quanti  erano  con  esso  , venati  da 
Roma.  E quando  infine  videne  molti  addolorati  e pian- 
genti-; fecesi  allora  a supplicarli  e scongiurarli  di  non 
permettere  che  restassero ,. egli  invendicato,  ^ concai- 
cataria  patria.  E lui  coti  dicendo,  ecco. in  tutti- grande 
la  voglia  di. udirlo  e viva  1». istigazione  perchè  parlasse. 
Adunque  tamtx  più  animoso 'inveì  su’ Decemviri , mo- 
strando di  quanti,  aveano  essi  tolte  le  sostanze,  di  quanti 
flagellato  il  corpo,  e quanti  ne  aveano  ridotti  senza 
colpa  niuna  a lasciare  la  patria  ^ e numerando  insieme 
le  ingiurie  verso  le  matrone , i ratti  delle  donzelle . nu- 


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LIBRO  XI.  36 1 

bili,  i '.disoBoramenti  de’ liberi > garzoncelli,  e, le,  tante 
altre  ingiustizie  e tirannidi.  E così,  disse,  ci  calpestano 
* (Questi , senza  che  ne  aibiano  il  poterti  non  dulia 
legge , non  dal  Senato  , non  dal  popolo.  Imperocché 
spirato  è /’  anno  dflla  loro  magistratura  ; e spirato  ; 
doveano  in  altre  mani>  trasmetterla'.' violentissimi  però 
la  ritengono  ; spregiando  in  noi  , quasi  in  femmine  , 
la  paura  grande  e'  la  codardia.  Ognun  • di  voi  qui 
ricordi  quanti^  mali  ha  da  loro  sofferti,  o veduto  sof- 
ferirsi  dagli  e^i.  Che  se  alcuni  qui  blanditi  da  essi 
mai  con' piaceri  o favori , non  temete  il  Decemvirato, 
ne  apprendete  che  eguali  mali  siano  per.,  venire  un 
giorno  su  voi,  sappiate  che  non  vi  è fede  pe  tiranni, 
sitppicUe  che  non  donano  t'  potenti  per  benevolenza , 
e sapendo  queste  e simili,  cose  , Uorreggetévene  : ed 
unanimi  tutti  Iterate  da  tù'onni  la  patria , quella 
dove  sono  i templi  de\ vostri  Dii,  dove  le  tombe  dei 
vo.stri  maggiori,  ! quali  voi  riverite  appresso  gV  Iddj , 
dove  li  veóchi  genitori  che  .dimandano  il  premio  dei 
travasi  e delle  tante  cure  per  voi ^ dove  le  mogli, 
vostre  legittime  ^ dove  le  figlie  nubili,  alle  quali  deesi 
non  tenue  Id  Vigilanza:  dove  infine \i  vostri  figli  ma- 
schi , che  aspettano  da  voi  cose  degne  dèlia  natura 
loro^  e de’  progenitóri.  Taccia  le  vostre  case,  i vostri 
poderi , i vostri  ■ danari  acquistati  con  tome  fatiche 
dagli  antenati  e >da^  voi  : , delle,  quali  cose  tutte  pià 
non  pofrtle  essere  i certi, padroni  'finché  i Dieci  qui 
tiranneggianox  ' . 

XLI.  Già  non  è da  savj ,. non  da  valenùtompii  cer» 
care  colla  fortezza  le  cose  altrui  ^ nè  curare  poi  che 


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36a  DELLE  antichità’  romane 
per  viltà  si  rovinin.  le  proprie  far  co»  gli  Equi  ^ 
co’  Fblsci , co’  Sabini , a ' con  tutti  intorbo  i vicini 
guerre  diuturne  » indefesse  per  la  indipendenza  e pel 
principato , nè  vbter  poi  nemmeno  prendere  le  armi 
per  la^  vostra  sicurezza  e la  libertà  cantra  uomini  il- 
legittimi che  fi  comandano.  Che  nòn  ripigliate  lo  spi- 
rito' delia  patria  ? Che  non  tornano  - in  voi  li  sensi 
degni  degli'  antenati?  cU  quelli  che  per  V oltra^ìo  di 
una  femmina  solà  profanata  da  un  de  •Tarquìnj  ed 
ucàisasi  da  sestessa  per  le^  vergogna , 'tanto  rie  incol- 
lerirono e infierirono  , e tanto  comune  tipqtaron  la 
ingiuria';  che  sbandirono  di  Roma  non  il  solo  Tqr- 
quinio,maJ  re-:  nè  piti  soffersero^  die  magistrato 
alciùfó  vi  comandasse  in  vita,  e senza  doverne  far 
conto  : di  quelli  che  ne  fecero  altisiunto  giuramento 
fitto  con  imprecazione  su  paetèri'  se  noi'  compievano  ? 
Of  essi  non  avran  sopportata  la  incuria  di  un  sol 
giovinastro  su  di  una  libera-  donna'  soltanto  ; e voi 
vi  state  Comportando  una  tirannide  di  tante  teste  , 
•ehé’ scorre  ad  ogti  ingiustizia  e libidine  ^ è scorrerawi 
anche  pià  se  pià  tra  vói  la  tenete  ? Non  la- ebbi  io 
sole  una.  figlia  vaghissima  , che  jippìò-- accirigevasi 
palesemente  a violentare  e lordare  : le  avete  anche 
molti  infra  voi‘'rhogli  o ; figlie  e figli  avvenenti:  Or 
chi  difhn'dele  mai  che  ' ' alcuno  de'  Dièci  nón  fàccia 
loro  come  /dppio  ? Vi  raccertano  forse  gt  Iddf  che 
so  lasciate  impunita  la  insolenza  ' a me  fatta,  no/i  si 
avanzi  questa  fin  su  molti  di  voi;  e che  ^ nmor  ti~ 
tannò  , giunto  alla  mia  figlia , ivi  si  'rimanga  e si 
plachi  rispetto  degli  altri  fanciulli  e faiKÌiille?  Quanto 


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" LIBRO  XI.  • 363 

stolula , quanto  atfena  cosa  è dire  che  mai  tali  idee 
si  -effettuerànno  ! Illimitate  sono  de'  tiranni  le  pas- 
sioni, perchè  superiori  alle  leggi,  e al^  timore.  Su 
dunque  fate  le  mie  vendette , prepardte  la  sicurezza 
vostra,  per  non  subire  egual  male , rompete  o miseri 
una  volta  la^  cótena:  riguardate  ‘con  intenti  sguardi 
la  libertà  : ~E  per  qual  altra  occasione  mai  fremerete 
pià  che  per  queéta;  quando  ne  si  tolgon  le  figlie  prè- 
testandooele  per  ischiave , e quando  via  ne  si  porlan 
le  spose"  co’  littori?  E se'ora  che  siete  tutti  cinti  di 
arme  la  trascurate  la  occasione e:  quando  mài  \ 
quando  il  genia- di  libertà  ripiglierete?  -, 

XLU.  Ma  iotaato  cKe  egli  parlava  molti  gli  promct- 
teanò,  gridando,  la  vendetta:  e chiamati  a nomr  i dnci 
delle  schiere  gl’  invitaronó  a por  mano  aff  impresa  ; 
molli  ancora  , se  ne  avéano  riéeTuto  alcun  danno  , fa- 
ceansi coraggiosi  innanzi,  e lo  rivelavano'.  'Udito  ciò  li 
cinque,  capi  come  ho  detto  delle  legioni,  temendo  che 
la  moltitudine  facesse  qualche  soròmossa ' Cóntro  di  essi 
corsero-  tutti  'al  pretorio  e vi  consultarono  con  gli  amici, 
se  poteanO  chetarne  il  tumulto  cinti  dalle  arme  de  par*  ' 
tigiani.  non  si  tosto  intesero  che  i soldati  eransi  .tri* 
tirati  'nelle  tende  , che  caduto  e cessato  era  il  tumulto , 
senza  sapere  intanto  che  il  piò  de’cènturioni  aveva  con- 
giuralo occultissimamente  d’ insórgere  e liberare  la  pa- 
tria ; destinarono  , appena  fosse  giorno  , imprigionare 
Verginió  che  istigava  la^  moltitudine  , e raccolto  l’ eser- 
citò condurlo  ed  acc^parlo  tra’  nemici , . e desolarvi  H 
meglio  elei  lor  lerritorj  ; nè  più'  lasciare  chè  ognuno 
investigasse  Curioso  ciocché  facevasi  in  Roma , ma  tutti  < 


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364  delle  antichità’,  romane 
appiicarl!  a far  prede  , o combattere  per  sestessi.  Non 
però  succedette  loro  parte  niuaa  di  questi  disegni.  Im> 
perocché  , chiamato  Vergioio  ai  pretorio , i ceatnriooi 
non  permisero  che  v’  andasse  pel  sospetto  che  vi  peri» 
colasse:  e scoperto  com’era  ne’ratpi  'il  proposito  di  por- 
tare l’armata  tra’ nemici.  Io  riprovavano,  dicendo:  Me- 
ramente ci  avete  prima  comandato  benissimo,  perchè 
ora  isperanzili  vi  seguitiamo  f Duci  voi  di  'tanta  mili- 
zia , quanta  ninna  ntai  ne  portò  da  Roma  f e dagli 
alleati  non  sapeste  nè  vincere  , nè  danneggiare  i ne- 
miti.  V oi  dimostrandovici  odi , imperiti , colf  accam- 
parci male  , e col  desolare  , quasi  asversarj  , le  terre 
nostre , ci  rendes^  poveri , e bisognosi  delle  cose  le 
quali  noi  conqOistayamo  col  prev/dere  in  bailaglia  , 
quando  i nostri  capitani  \ eran  migliori  che  voi.  Ora  il 
nordico  inalza  contro  noi  li  trofei i il  nemico  si. porta 
le  cose  nostre;  saccheggiandoci  tende ^ schiavi y ottm, 
danari. . 

XLUl.  Verginio  per  la  rabbia  , e perché  non  più 
temea  que’  capitani  .inveiva  più  libero  conti»  di  essi  , 
'chiamandoli  corruttori  e distruttori  delia  patria,  ed  ani- 
mando i centurioni  a tor  le  insegne,,  e ricondursi  in 
Roma  colle  milizie.  Molti  non  ardivano  ancora  movere 
le  insegne , che  sono  inviolabili  ; né  riputavano  cosa 
onesta  e.  sicura  abbandonare  i loro  capitani  ' e ^i  co- 
mandanti ; perocché  il  giuramento  militare , die  i Ro- 
mani avvalorano  più  che  tutti,,  (à  che  il  soldato  siegua 
i suoi  comandanù  , dovunque  Io  guidino  : e la  legge 
concede  a questi  di.  uccidere , nemmen  giudicandoli  . 
gl’ indocili  e li  disertori.  Verginio,  vedendoli  tenuti  an- 


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' LIBRO  XI.  365 

cora  da  tal  riverenza , mostrò  ' loro  che  La  le^e  stessa 
avea  sciolto  quel  giuramento  : giacché  dea  ehi  có- 
manda  gli  eserciti , esser  scelto  a norma  delle  leggi  ; 
e r autorità  de’  decemviri  era  tutt^  contro  le  leggi, 
trapassalo  t anno  per  cui  fu  destinata  ; far  poi  gli 
ordini  di  chi  comanda  contro  le  leggi  non  è ubbi- 
dienza, nè  pietà,  ma  demenza  e furore.  Or  ciò  aden- 
do , giudicarono  udire  il  vero  : e suscitatisi  a vicenda  ; 
e quasi  dato  lor  cuore’ dagl’  Iddi!;  tolser  le  insegne,  e 
ne  andarono.'  In  mezzo  d’  indoli  tanto  varie  , nè  tutte 
conoscitrici  del  meglio,  si  rimasero,  co’ decemviri,  com’è 
verisimile,  centurioni  e soldati',  minori  però  molto, 
non  eguali  di  numero  agli  altri.  Quelli  clie  partirono 
dal  campo  , viaggiando  tutto  il  giorno  , giunsero  al  far 
della  sera  in  città  , seuzaqhè  alcuno  ve  li  annunziasse  ; 
nè  poco  la  costernarono , credula  cbe  giugnesse  il  ne> 
mica.  Adunque  tutto  tri  divenne  clamore  , moto  , di- 
sordine ; ' ma  non  sì  a lungo  , da  nascerne  òiale  : pe- 
rocché quelli  passando  pe’capi  strada,  vi  gridavano  che 
eran  gli  amici,  e venivano  in  bene  della  pàtrio:  e con- 
formarono le  Opere  ai  detti , non  offendendovi  alcuno. 
Recatisi  ali' Aventino,' colle  il  piò  acconcio  entro  Roma 
per  accamparvisi,  allogaronsi  presso  il  tempio  di  Diana. 
Nel  giorno  seguente  fortificato  il  campo,  e destinati  dieci 
tribuni  miljtàri , de' quali  era  capo' Marco  Oppio,  sul 
comune , si  tennero  in  calma. 

XLIV.  Dopo  non  molto  giunsero  in*  sussidio  loro 
con  molta  milizia  dal  campo  di  Fidene  i centuribni  mi- 
gliori delle  tre'  legioni  , alienatisi  da’  comandanti  fin  di 
allora  che  fecero  trucidare  , come  ho  detto  , Siedo  il 


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366  DELLE  AJITICHITA.’  ROMANE 
legato  ; .e  timidi  non  pertanto  di  cominciare  i primi  la 
ribellione  in  vista  . delle  cinque  legioni  delK  Algido  , 
quasi  fossero  amiclie  ai  Decemviri.  Ora  però  saputane 
la  insurrezione;  acceuarotjo  di  tatto  buon  grado  il  favor 
della  sorte  :■>  anche  di  queste  milizie  eran  capi  dieci  tri- 
buni eletti  in  mezzo  alla  marcia  , ma  Sesto  Manlio  ne 
era  il  più  ragguardevole.  - Congiuatisi  tutti , e deposte 
le  arme,  incaricarono  i venti  tribuni  a poter . dire  e fare 
quanto  dovessi  pel  comune.  .Elessero  di  questi  venti 
come  capi  consiglieri  i due  più  rispettabili,.  Marco  Op- 
pio, e Sesto  Manlio.  E questi  .formata  un  coùsigUo  dei 
centurióni  maneggiavano  tutto  ,cpn,.  essi.  .Non  essendo 
ancor  c^arl  al  popolo  i (prò  disegni , Appio  .consape- 
róle  a ses tesso  di  essere  la  cagione  di  quella  turbolenza, 
e de’ìUali  che  ne  verrebbero,  tenòvasi  in  casa,  non 'ehe 
ardisse  far  pubblici  atti.  Sbigottì  su  le  prime  anche 
Spurio  Oppio  , costituito  , come  lui  , su  la  città  , quasi 
fossero  ben  tosto  per  assalirlo  nemici,  e fossato  appunto 
per  questo  venutL  Quando  però  vide  che‘'uon  fàceano 
innovazioni]  rallentando  le  paure  ^ convocò  li  Senatori 
nell.^  curia  , intimatili  ad  uno  ad  ano  per  le  case.  E 
' standovi  questi  ancora  adunati:  ecco  giungere  i cpman- 
danii  dall’ armata  di  Fidane,  irritati  che  la  milizia  avesse 
abbandonato  T uno  e.T  altro'  campo  , -.ed.  insistere  col 
Senato  perché  ne  prendesse  degna  vendetta.  Ora  do- 
vendo ciascuno  dare  il  sno  voto  su  questo.  Ludo  Cor- 
nelio disse , porlqre  il  dovere ,che  tornussero  i spillali 
'ttcl  giorno  stesso  daW  Avenlitto  lot' campi,  ed  ese- 
guissero gli  ordini  des  comandanti.  Con  ciò  non  sa- 
'rebhero  tenuti  rei  di  quanto  s'  era  fatto  , so  noti  gli 


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LIBRO  XI. 


367 


autori  sali , della  ribellione  ; à qvudi  imporrebbe  la 
pena' il  duce  ^medesimo  : ma  se  non  ubbidwanq  ; il 
Senato  delibererebbe  su  loro  ,,  camq  su  disertori  dei 
posti , affidati  ad  essi  da'  capitani  , e come  su  viola- 
tori  del  giuramento  ipiUtare.  Lucio  .Valerio  gli  contrae 
riava  (i)....  Ma  nè  conviene  che  no»  facclaosi  af&tto' pa- 
role delle-  leggi  romane  ehe  troviamo  nello  dodici  tavole, 
essendo  tanto  venerande  e più  insigni  delia  grecai  legi- 
slazione ; nè  conviene  che  sen  facciano  oltre  il  dovere , 
prolungando  la  storia  delle  leggi  medesime.  --  - 

XLV.  Tolto  il  decemvirato  ebbero  i primi  ne’oomizj 
cenluriati  la  dignità  consolare,  dal  popolò  come  ho ‘detto 
Lucio  Valerio  Potilo,  -e  Marco  Orazio  Barbato  (2),  uo- 
mini popolari  per  indole,  come  per  educazione  eredi- 
tari*'. Fidi  alla  promessa  che  avcan  fatta  al  popolo 
quando  lo  indussero  a,  deporre  le  armi  , di  maneggiare 
sempre  il  governò  in  suo  bene  ; stabilirono  ne’  coraizj 
centuriati,  mal  grado  i palrizj  che  vergognavansi  di  re- 
clamarvi , oltre  le  leggi  che  non  rileva  qdi  scrivere , 
anche  quella  coUa  quale  ordinavasi , che  i decreti  faixi 
dal  popolo  ne  comizj  per  tribù  valessero  conìé  i de- 
creti emanati  ne'  comizj  ceniuriati  per  ogni  classe  di 
cittadini  ;■  sotto  pena  t in  caso 'di  convinzione  , per 
chiunque^  abrogasse  o trasgredisse  questa  legge,  della 


(t)  Qdì  miaca  1’ aliimo  SYÌluppo  de*  fatti  co*  quali  fa  tolta  la 
eppreaaione  Decemvirale.  -Perdita  non  ignobile  ; traltSadoYiti  di  uno 
de*  graudi  oambiameati  di  stato.  . . , *• 

(a)  Aeuo  44^  avanti  Cristo  , dalla  fondaiiooe  di  Aoma  ,3o6  se- 
condo Catone^  Quest*  anuo  è tralasciato  nella  cronologia  di  Varroue 
e però/ le  dne  cronologie  differiscono  dopo  questo  per  un  anno  solo, 
non  per  due  com^  per  I*  addietro.  ‘ 


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368  DELLE  Antichità’  romane 

morie  e della  confisca  de'heni.  Questa  risoluzione  levò 
le  controversie  tra’  plebei  e tra'  patrizj  , i quali  ricusa- 
vano di  ubbidire  ai  d^eti  latti  dai  primi , e riguar- 
davano i decreti  emanati  ne’comizj  per 'tribù  come  leggi 
singolari  di 'esse  non  'come  universali  di'  Roma  intera: 
laddove  ciocché  fosse  stabilito  ne’comizj  per  centurie  lo 
riputavano  ordinato  a sestessi  come  a tutti  i cittadini. 
Fu  gié  détto  innanzi  che*  ne’ comiz)  per  tribù  li  poveri 
e li  plebei  prevaleano  su’ patrizj  , come  i patrizj/ quan- 
tunque assai  minori  di  numero  , prevalevano  su’^plebei 
ne’  comizj  per  centurie.  » ' ' . • 

XLVI.  Stabilita  da’  consoli  questa  legge  con  altre 
leggi , fautrici  ’anch’  esse  , 'come  ho  detto  , del  popolo  ; 
ben  tosto  i tribuni  credendo  vénnto  il  tempo  di  vendi- 
cami di  Appio  e de’ colleghi  di' esso,  pensarono  d’  in- 
timar loro  il  giudizio  >e  chiam'arveli  non  tutti  insieme 
perchè  gli  uni  non  giovassero  gli  altri  ; ma  l’ uno  dopo 
l’altro,  su  la  idea  di  convioceryeli  più  facilmente.  Ora 
considerandu  su  chi  prima  incominciassero  più  a pro- 
posito , deliberarono  mettere  in  istato  di  accusa  Appio , 
il  più  esoso  al  pqpolo  per  le  oppressioni , e per  le  in- 
degnità recenti  contrò  la  vergine.  Parea  (oro  che  assi- 
curatisi ''di  questo , disporrebbono'  facilmente  pur  degli 
altri;  laddove  se  cominoiassero  dai  men  furti,  parea  loro 
che  l’ira  de’ cilladtni , calda  oe’ primi  gludizj«  s’inde- 
bolirebbe, come  spesso  accadde,  per  giudicare  in  ultimo 
i rei  più  segnalati.  Deliberato  ciò , sopravvegliarono  i 
rei  ,(j)  ordinando  a Verginìo  di  accusare  Appio',  senza 

, * ' t • • 

|i)  Cioè  gli  aliti  DeceniTiri  aùìaebè  non  soccorceMcto  Appio. 


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LIBRO  XI.  369 

nemmeno  decidere  colle  sorti  chi  Io  accusasse.  Appio 
dunque  accusato  da  Yerginio  nell’ adunanza  fu  citato  al 
giudizio  del  popolo  , e chiese  tempo  per  giustificarvisi. 
£ siccome  non  si  ammisero  per  v lui  mélievadorì  ; ■ fu 
tratto  in  carcere  per  custodii^elo  finché  di  lui  si  giu- 
dicasse. Ma  prima  ' chu  giùngesse  il  di  prescritto  pel 
giudizio  mori  nella  carcere , per  opera  come  molfi  so- 
spettano de’  tribuni  : ma  secondo  che  divulgarono  altri, 
che  li  discolpano , egli,  appiccò  sé  medesimo.  Dopo  lui 
fu  tradotio  al  popolo  Spurio  Oppio  da  Publio  Numi- 
torio  altro  tribuno  : ma',  dategli,  le  difese , vi  fu  con- 
dannata a pienissimi  voti  : e portato  in  carcere  fini  nel 
giorno  stesso  la  vita.  Gli  altri  decemviri  pfima  di  essere 
necessitati  al  giudizio , ■ condannarono  sestessi  all’  esilio. 

1 questori  incorporarono  all’eràrto  i beni  degli  uccisi  e 
degli  esuli.  Fu  nommeno  citato  Marco  Claudio  quegli 
che  si  accinse  a tor  via  come  schiava  la  donzella  da 
Icilio  lo  sposo  : ma  preiéstando  i comandi  di  Appio  fu 
scampato  da  morte  ^ e 'gettato' in  esilio  perpetuo.  Gli 
altri' ministri  ^elle*  ingrastizie 'dèi  decemviri  non  .subi-' 
irono  giudizio  pubblico  ma  diedesi  a tutti  la  impunità. 
Suggerì  pari  economìa  Marco  Duilh'o  il  tribuno  per 
essere  ornai  turbati  i cittadini,  e.  timorosi  di -essere  fi- 
nalinente  anch’  essi  giudicati. 

XLyiI.  Chetate  le  turbolenze  interne',  raccolto  il 
Senato,  decretatio  che  esca  immantinente  T armata  con* 
tro , a’ nemici.  Ratificato  dal  popolo  il  decreto  del  Se- 
nato, Valerio  l’uno  de’ cònsoli  , marciò  eoa  metà  delle 
schiere  contro  gli  Equi  e li  Yolsci  i quali  miliuvano 

' PtOSIGt , itmo  III.  .- 


370  DELLE  antichità’  ROMANE 

insieme.  (Consapevole  però  thè  gli  Equi  , imbaldanzili 
pe’ vantaggi- precedenti,  elevavansi  fino  a sprecar  gran- 
demente la  milizia  romana  , cercò  renderli  ancora  più 
temerari  e vani  con'^are  di  sé  vista  ingannevole,  <|uasi 
diffidasse  di  venire  con  essi  alle  mani,  e con  fare  ogni 
cosa  in  aria  di  timòroso.  Quindi  scelto  per  accamparvisi 
un  luogo  elevato  ' e non  làcile  lo  cinse  di  fossa  cupa  , 
e di  alti  steccati.  Più  volle  lo  sfidarono  i nemici  a bat* 
taglia  , beffandolo  fin'  da  codardo  ; ed  egli  tennesi  in- 
dolente in  calma.  Ma  quando  vide  la  parlo  miglior  dei 
nemici  uscita  a predare  i campi  de’ Latini  e degli  Ei^ 
nici , cr  poca  nè'  buona  la  milizia  lasciata  negli  allog- 
giamenti , credendo  allora  venuto  il-  tempo  opportuno  , 
trasse  1’.  armata  in  buon  ordine  , e presentovVela  come 
per  combattere.  Nè  uscendogli  alcuno  all’  incontro  con- 
tenaesi  per  quel  giorno  : ma  nel  giorno  appresso  mar- 
ciò fino  agli  alloggiamenti  loro  non  molto  muniti.-  Gli 
usciti  alla  preda,  intesone  l’assedio,  tornarono  di  volo; 
non  però  congiunti  ed  in  ordine , naa  sbandali  \e  a po- 
chi a pochi , secondo  che  poterono.  ’ Còme  tjuelli  degli 
allpggiamenli  mirarono  i loro  che  venivano , preso  cuo- 
re', sboccarono  ip  folla  : e fccesi  aspro  combattimento 
ed  eccidio  in  ambe-  le  parti.  Più  polenti  alfine  i Bimani 
fugarono  gl’  inimici  che  pugnavano  di  pi^  fermo^  e fu- 
gati-gl’ iniÀlzarono , Dccidendòne  o prendendone;.  Fatto 
ciò  Valerio  dava  a grand’,  agio  il  guasto  alle  terre  ne- 
miche. - : 

XLVIU.  Marc’  Orazio  incaricato  della  guerra  .sabina  ^ 
conosciuti  i fatti  del  collega  ; cavò  puf  egK  le  milizie 

dalle  trincee , schierandole  ben  tosto  tutte  contro  le  al- 

* 


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• LIBRO  XI.'  ^ . 071 

tre  non  inipori  e 'perìlissime  ^de’  nemici..  Qnesii  lutti 
universalmente,  e - specialmente  il  lor  comandante,  buon 
capitano  iusiemc  e buon  combattitore  / avéano  da’  p(ro«- 
speri  successi  antecedenti  molto  coraggio  e<Ì  ardire  sò> 
pra  de’  Romani  r -ma  dimostrando  r cavalieri  un  ardor 
sommo  ottenne  una  segnalata  vittoria  , - nccisivi  molti 
nemici , imprigionativene  pii^  ancora  , e preso'  i loro 
alloggiamenti  dereKtti.  IvÙ trovò  •molte  provvigioni  da 
guerra,  e tutta  la  preda  già  tolta,  dal  terchoi^'dé’'Ro- 
mani  : anzi' detenuti  molti  de’ suoi  che  liberò;  non. es- 
sendosi alTretlati  i Sabini  pel  disprezzo  che  aveano  del 
nemico  a riporre  in  sictirb  4anti  loro  vantaggi.  'Adunque 
diede  a’  soldati  la  roba  nemica , preelcggeudone  ciocché 
era  da  offerire  agl’  Iddii  1 ' ma  ‘ rendette  te  prede  a chi 
n^era  stato  spogliato.  ‘ 

XUX.  Fatto  ciò  ricondusse  1’  eserdto  in  Roms  ove 
giunse)- contemporaneamente  anche  . Valerio  : ambedue 
sentivansi  grandi  per  là  vittoria  , e'  se  ue  auguravano 
luminosi  trioufi.  Non  però  uiccedette  cobi’  essi  ne  spe- 
rayano  .imperocché  Raccoltosi  il  Senato'  per  essi  'dtie- 
efae  stavansi  coli’  esercito  sul  campo  -Marzo , ed  esami- 
natine'le  gesta  , non  accordò  loro  il  sagrifizio  per  1» 
vittoria  : essendo  oontrarìati  da  molti. , e da  alcuni  ma- 
nifestamente , soprattutto  da  Cajo  Claudio  , zio come 
scrissi  di  Appio,  vuol  dire  del  fondatore  dei  decemviri, 
e tolto  non  ha  guari  di  mezzo  .da’  tribuni.  Cajo  ricor- 
dava le  leggi  colle  quali  ajrean  essi  ‘ diminuita  rautorilà 
del  Senato , e ricordava  le  altre  maniere  da  essi  tenute 
perpetuamente  ' nel  gorernare  : ricordava  ‘ le  morti  o le 
conCfohe'de’beni  dc’decemviri,  traditi  da  esu  ài  tribuni 


37»  DELLE  ANTICPITA’  ROMANE 

contro  i patti  ed  i giuramenti  essendosi  in  mezEO  alle 
vittime  convendta  tra’  patrizi  e tra’  plebei  la  dimenti« 
canza,  e la  impunità  su  tutto  il  passato.  Protestava  cbe 
Appia  non  era  caduto  morto  innanzi  al  giudizio  di  sua 
mano  , ma  per  malizia  de’  tribuni  : aflìncbè  nell’  essere 
giudicato  non  ottenesse  nè  difese , nè  misericordia  : co* 
me  polea  ben  ottenerle , se  potatalo  in  giudizio  metteva 
ÌDuanzi  al  guardo  la  nobiltà  della  sua  gente,  e le  molle 
beoefìcenze  di  essa  verso  la  repubblica  ; se  reclamava  i 
giuramenti  e' la  buona  ^fede- su  la  quale  gli  uomini  ri- 
posano) e rendonsi  a far  pace;  se veniva,  co’ suoi  figli» 
co’  parenti.,  jn  àbito  di  umiliazione  ; in  somma  con  -gli 
altri  modi  pe’  quali  uo  popolo  si  disacerba  , s’ intene- 
risce, e perdona. '{fra  tali  rimproveri  dati  loro  da  Cajo 
Claudio , e da  altri  presenti , fu  coucluso , che  si  con- 
tentassero i'  due,  di  non  pagarne  le  pene:  del  resto  non 
essere  nemmeno  in  picciobssima  parte  d^gui  del  trionfo, 
o ,di  concessioni  non  dissìmili. 

L.  Valerio  ed  il  coUega  esclusi  ^al  trionfo  ,'  lenen- 
dosene ofTcsìssimi , e sdegnandosene  ; convocano  il  po- 
polo , e vi  accusano  vivamente  il  Settato.  .Peroravano 
per  loro  i tribuni^  e proposero  e ne  ottennero  dal  po- 
polo il  trionfo:  ed  essi  ..primi  di  tutti  i Romani  pro> 
dussero  tal  cot^uetudine.*  Dopo  ciò  rinacquero  ‘i  dissid), 
e le  incolpazioni  tra’  patrizj  f e tra’  plebei.  Li  tribuni 
raccendeano  questi  ogni  giorno  concionandoti.  Irriuyali 
soprattutto  il  sospetto  cbe  li  tribuui  cercavano  di  cor- 
roborare con  romori  incerti , e di  amfdìare  con  divina- 
zioni varie,  come  se  li  patriz)  fossero  per'  )tnnienUre  le 
leggi  stabilite  dai  consoli,  Valerio  e suo  collega:  c quel 


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LIBRO  ’XI.  $7  3 

lupetto  ornai  tanto  prevaleva  che  degenerava  la  fede. 
E tati  sona  gli  eventi  di  qnel  consolalo. 

LI.  Nell’ anno  appresso  foron  consoli  Laro  Erminio,  e 
Tito  Verginio  (i).  Snccederon  loro  Marco  Geganio..>(a). 

LH.  Nè  rispondondo  essi,  ma  sdegnandosene;  Scatùo 
fecesi  di  nuovo  innanzi  e disse  : ecco  o cittadini  che 
si  concede  dai  litiganti  medesimi  che  essi  pretumonb, 
parte  che  a lor  non  compete f della  noslrà  campagna', 
or  voi  considerando  ciò  decidete  ciò  che  é giusto  e 
congruo  co'  giuramenti.  Scattio  cosi  diceva  : ma  i con- 
soli ardevano  dalia  vergogna  in  riflettere  , che  il  giudi* 
aio  prenderebbe  un  ' termine . nè  giusto  , uè  onorato  , se’ 
il  popolo  il  quale  qiai  non  aveast  attribuito  ' la  campagnar 
disputata,  ora,  elettone  giudice,  se  T attribuisse , con 
toglierla  ai  litigami.  Adunque  ad  iscansare  èiò  si  ten- 
nero dai  consoli"  e dai  capi  del  Senato  molli  e molti 
discorsi  ; ma  ihvauo.  Impetocchè  quelli'  che  aveano  pi- 


(i)  Ando  di  Roma  3o7  fecondo  Catone,,  3o3  fecondo  Varrone  , 
e 445  *v.  Ctifio. 

.-(a)  E C.  Giulio  secondo  che  si  ricava  dà  Livio.  Net  consolato 
di  Erminio  e <li  Verginio  fu  calma  in  casa' e fuori.  Li  consoli  Cajo 
Grgaaio,  e Cajo  Giuho  contennero  la  piche  d^lle  sedisioni  bon  far 
decretare  la  guerra  contro  i Volaci  e gli  Equi  : nel  terzo  anuò  furono 
eoofoli  Tito  Quinzio , e Furio  Agrippa:  cappero  i Volfbi  e gN 
scorsi  nel -far  pMda  ho  sotto  Roma.  Il  Senato  aon  concedette  Ipro 
il  trioiif»,  nè  i consoli  lo  dimandarono..  La  campagna  ooniroversjt 
Ira  quelli  della  Riccia  e di  Ardea  fu  ascritta  dalle  tribù  al  popolo 
rom'ano.  Il  resto  di  quell’ apno  fu  tranquillo  da*  moli  luCfe'rui  ed 
esterni,  ita  piobigi  è perito  quanto  conoerne  'questa  coke;  ed  ora 
non  siedile  la  non  un  frammento,  di  tale  ialnria.  Lapo  Birago,  primo 
tradottora  Latino  di  Dionigi , lavorava  su  di  un  codica  greco  ove 
questo  tratto  era  corroso  dagli  auaie'fa  meraviglia,  coma  por  gli 
altri  codici  siano  difettosi  in  questo  luogo.  . ’ 


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3 7 4 DELLE  Antichità!  romane 

glialo  i suffragi  per  ^volare  'diceano  , essere  grande  aloK 
tezza  patire  che  le  cose  lóro  fossero  ténnie  da-  altri , 
nè  credevano  dar  fine  pietoso  all’ affare  se  dirfiiaravano 
rAricino  e TArdeaiino  padrone  della  terra -cpntroversa, 
quando  eglino  aveano  giurato  di  ascriverla,  a quelis^ai 
qoali  scoprissero  che  apparteneva  ; e fremevano  co  liti» 
ganti  I perché  avevano  assunlo  gindici  tali  che  prive- 
rebbero appunto  sestessi  della  terra  .senaa«  potersela  più 
rivendicar? , ^percìpcchè  previo  il  giuramento  , la  sen- 
tenzierebbero essere  di  altri.'  F acepdo  tali  riflcsffloni , e 
sdegnandosene;  ordinarono  che  in  ogni  tribùt  si  mettesse 
un  urna  pel  popolO; romano  , ove  siigetta^ro  i voti; 
«e  cosi  con  tutti  i voti  il.  popolo  romano  fu  dichiarato 
padrone  della  terra  controversa.  B tali  furono  le  cose 
operate  sotto  -qoe’  cònsoli.  . * 

iin.  Fatti  consoli  Marco  Gennaio  è Cajo'^Puinzib  fi) 
eccitaroBsi  di  bel.  nuovo  le  civili  discolie  , esigendo  i 
plebei  che  potesse  ogni  romano  esser  coosòle.  Fino  a 
quell’  epoca  aspirando  soli  a tal  grado  i patriz} , eranvi 
eletti  por  soli  ne*  comizj  per  centurie:  ma  i '.tribuni  at* 
luali  toltone  l’unico  Cajo'Fumio  avevano’ tmanimi  tutti 
’ fra  iar  combinato  , è prbponeano  su’  comizj  consolar» 
per  legge,  che  il  popolo. fosje  arbitro,  t^nì  anno  di 
dccùlere  quali  volesse  i candidati  del  consolato  se  p(H. 
■trìr.j  o plebei.  Sdegnatine  quei  dell’  ordine  senatorio  ; 
perchè  vedeano  annientarsene  .1’ àu^riià  loro,  destina- 
rono anzi  tutta  soffiehe , che  lasciar  prevalere  là  legge. 
Continue  dunque  eniuo  le  ire , le  incolpa'àiont , le  re- 


fi) Aaoti  dì  Roma  Ìio  sccoado  Calco*,  3i'i  secoodo  Varrooe, 
« Cdsl*.  ' , 


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• • LIBRO  , XI. 

sUtenze  uell«  adunanze  private  e neUe  pobbliche , per 
essere  I patriej  alienali  da’  plebei.  Li  capi  stéssi  degli 
Ottimati  molto  ne  parlarono  nel  Senato  e molto  ^eUe 
adunanze  , più  miti  o meno  , secondo  che  pensavano 
che  i. plebei 'maucasfccD  per  ignoranza,  o per  artifizio 
ed  invidia.  ' ^ 


LIV.  Intanto  consumandosi  il  r tempo  in  vano  , giun- 
sero a Roma  messa^eri  degli  alleati  i quali  annunziavano 
che  gli  Equi  e i Volsci  minacciavano  piombare  su  loro 
con  - esercito  pódoròso , e chiedeauo  cbe  in  tanto  peri» 
colo.' si’  spedissero  loro  de’  soccorsi.'  Dicessi  ancora  che 
i Vejenti  fra’  Tirreùi  apparecchiavansi  alla  rivolta  : gli 
Ardenti  Aon  ubbidivano  pid  per  la'  indignazioha  su  U 
' terra 'controversa  che  il  popolo  RonrenO,  elettone  .giu- 
dice,’' aveva  aggiudicato  a sestesso  nell’. anno  precedente^ 
Il  Senato,  saputp  ciò,  decretò  che  si  reclutassero  Je  mi- 
lizie , e che  i consoli  udissero  tutti  dye  coll’  armata. 
Ma  i tribuni  ohe  promulgavano  la  legge  si  opponeaoo 
aitale  deerelo:  bau  essi  ancora  1’  autorità  di  resistere  al 


consoli^  e quindi  ritoglievano  loro  quanti  .orano  estratti 
a <laTe  ^il  giuramento  militare  , nè  permettevano  ofaè  pu- 
nissero chi  uQn  ubbidivi.  Pregavali  istantemente  ilsSe- 
nato  che  sospendessero  in  tal  congiuntura  la  gara  « 
proponessero  la  legge  su’  cOmizj  dopo  la  guerra  : ma 
tanto  furono  lóntani-dal  cèdere  ai  tém^  ; ; che-  distro 
chevopporrebbonsi  anche  alle,  altre  risoluzioni  del  Se- 
cato , né  lascereMtono  eseguirne  alcuna , su  qualunque 
affare  y «e  prima  nonr.  faceva  il  decreto  per  la  legge  che 


voleasi  dal  capi  del  popolo.  I^è  si  avanzarono  sola'a  mi- 
nacciare di  ciò  ti  censoK  nel  Senato , ma  .concionaodò 


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3^6 


DELLE  Antichità’  bomane 


dichiararono  con  giarameato  per  es$i  gravissimo  , vuoi 
dire  su  la  propria  lor  fede,  che  tdai,  se  bene  > venissero 
persuasi  in  contrario , annullerebbero  alcuna  delle  rìso- 
kizioni  proprie. 

LV.'  In  vista  di  .tali  minacce  .adunati  gli  Ottimati  Ji 
piu  anziani  e principali  da'  consoli  a consiglio  privato  , 
ponderavano  ciocché ''fosse  da  fare.  Cajo  Claudio  come 
U men  popdiarc  , ed  erede  degli  antenati  in  tal  genio 
di  procedere,  inculcava  ostinatissimo,  che  non  si  ce- 
dessero al  popolo  né  i consolati , nè  altro  magistrate 
qualunque;  e che  senza  riguardo  di  persona . privata  o 
pubblica  si  frenasse  colle  armi , se.  non  l'eodeasi  per  le 
parole,  chiunque  tentasse  il  contrario.  (mpero.cché  chiun- 
que tentava  sommovere  le  patrie  costumanze  o discio- 
gliere la  forma  primitiva  del  governo  era  non  cittadino 
ma  nimico.  Per  1’  opposito  Tito  Quinzio  non  voleva  che 
si  reprintessero  gli  avversari  colla  violenza , .né  si  venisse 
alle  armi  ed  al  sangue  civile  colla  plebe:  tanto  più  di- 
ceva che.  -noi  abbiamo  contrarj  i tribuni , che  i nostri 
padri  dichiararono  sacri  ed  inviolabili;' facendo  igenj  e 
gl'  fddj  mallevadori  dell’  accordo  con  imprecatone  gra- 
vissima delia  rovina  loro  e'  de’  figli , se  da  indi  in  poi 
lo  avessero  mai  violato  anche  in  parte. 

LVI.  Accosta vansi . a questo  partito  . ancor  gli  altri 
chiamati  a'  congresso  , quando.  Claudio  pigliando  la  pa- 
rola disse  : Non  ignoi*o  quaji  Jòndamento  pongasi  di 
mali,  per  tulli  noi,,  se^-concediamo  che  il  popolo  fac- 
ciasi a volare  su  questa  legge':  ma  non  avendo  cosa 
pià  farmi,  nè  come  resistere  a voi;  che  tanti  siete  ; 
ahbattdonomi ' ai  vostri  consigli.  Ben  è giusto  cJte 


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LIBHOXI. . 377 

ognun  dica  Ciò  che  sente  deU  util  comune:  ma  poi 
siegua  ciò  che  i più  ne  conchiudono.  Jar,  eome  esortasi 
in  c^fan  che  aggravano , nè  si  vogliono , vi  esorterei 
che  non  cedeste  nè  ora  nè  poscia  il  consolato  a ninno, 
se  non  ai  patrtzj , i quali  è giusta  è pia  cosa  che  lo 
abbiano  : ma  qustndo  come  cd  presente  , siete  alla  n«- 
cessità  ridotti  di  far  partecipi  anche  gli  altri  cittadini 
del  grado  e del  potere  più  grande  ; vi  dico  che  assu^ 
miate  i tribuni  militari  in  luogo  de'  consoli , defineie- 
ione  un  numero  { otto  -o  sèi  forse,  chè  tanti  credo 
bastarne  ) riel  quale  i patrizj  e i plebei  si  pareggino. 
Così  Jrscendo  nò  renderete  il  córuolato  magistratura  di 
uomini  indegni  ed  abbietti  •,  oè  parrete  per  voi  f ohe 
hricare  un  comando  ingiusto , coll  escluderne  affatto 
i plebei.  Ed  approvando  tatti  , senza  reòlamt>  niuno  un 
lai  voto}  udite  soggiunse , .ciocché  restami  a dire  a voi 
consoli.  Prefisso  il  giorno  in  cui^  stabiliate  quel  previo 
decreto  ^ e ciò  che  daf  Senato  si  giudica , lasciale  che 
parlino  su  Ha  legge  chi  la  difende  e chi  C accusa.  Fi~ 
mia  la  disputa  , quando  fio  t ora  d’  irttendeme  i voti, 
non.  vogliate  da  me  cominciare , non  da,  codesto  Quirtr 
zio , nè'  da  altro  seniore  ma  dsU  popolafissimo  sena- 
tore Lucio  Valerio;  interrogando  appresso  Orazio  , se 
punto  vuol  dire,  Bicercate  così  le  .loro  .sentènze , or- 
dinale che  noi  seniori  diciamo.  Jq  sporrò  liberissirrta- 
mente  il  parer  mio  'contrqrio  ai  tribuni  ,•  e fa  questo 
[ utile  della  repubblica.  .Questo  Tito  Genuzio , se  il 
volete,  dia  la  proposta  su*  tribuni  militari.  Parrà  que- 
sto il  partilo  più  congruo  e meno  sospetto  se  proget- 
tisi o Marco  Genuzio-  dal  tuo  fratello.  I(  consiglio  sena- 


l 


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O'jS  DELLE  antichità’  ROMANE 

brò  giusto  , e parlironsi'  dU  oiAigresso.  T^merbuo  i tri* 
buui  la  secretissima  aduuanza,  come  intenta  a gran  danno 
de’  plebei , perché  fatta  in  casa  , _ non  in  pubblico , e 
senz' .ammettervi  alcuno  de’ capi 'del  popolo.  Adunque 
raccogliendo  anch’  essi  un  consiglio  di  uomini , amantis* 
simi-  della  plebe  ^ idewono  ript|ri  e guardie  contro  le 
iusidìe  che  aspeitavansi  da’  patrizj. 

. LVIL  Giunto  il  tempo  preacritlo  per  fare 'il  previo 
decreto , i consoli  convocato  il  Senato , ed*  esortatolo 
grandemente  al  buon  ordine  ed  alla  concordia;  invitarono, 
prima  di  ogn’  altro  j a parlare  i tribuni  deUik.  plebe,  i 
quali  propónevano  la  legge.  Fe^i  avanti  Cajo  Canule)o, 
un  di  loro  ; ma  egli  non  che  dimostrarla , bon  mentovò 
nemmeno  la  giustizia  e la  utilità  della  legge.  Diceva  c/te 
si  stupiva  de  consoli  che  avendo  fra  loro  ponderato  ù 
deciso  ' ciocché  jsra  da  fare  , ora  quasi  pi  abbisognasi 
sero  consigli  e decisioni , metteansì  a proporlo  ai  Pa» 
dri  , e 'davano-  facoltà  di  cBingaxyi  con  simulakione 
non  cbnvèniente  nè  alt  età  loro  , r\è  alla  ' grandezza 
del  comando.  Diceva  che  irttroducevan  t esempio  di 
tristissime'  pratiche  , quando  umvansi  in  casa  et  con- 
gressi recondite,  jtè  vi  chiamavano  tutti  i Senatori , ma 
i soli  favorevolissimi  loro.  E qui  soggiungeva  che  poco 
faceva^li  meraviglia  che  fossero  esclusi  da^quel  coa- 
1 sigho  edtri  sonatori;,  ma  ^grandissima  gliene  ftcevache 
'avessero  tenuti  indegni  da  invitarveli  Marco  Grazia, 
e Lucio  L aierio , qaell(  che  avetìno . tolto  il  Decemvi- 
rotò,  ambedue  uomini  consplari  %nè  idonei' -men  di 
chiunque  a deliberare  su  la  repubblica:  lui  non  poter, 
concludere  appunto  In  cauta  .di  tal  procedere  ; indovi- 


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LIBBO  XI.  . 379 

nco  iie  però  quest'  unica:  valé^  a direi  cfie  essendo  essi 
per  allegare  -disegni' ingiusti  trovinosi  alla  piche,  non 
vollero,  convocarvf  persone  di  essa  amantissime , per-  ' 
chè  sdegnate  <se  ne,  sarebbero ^ rtè  avrebbero  tollerato 
che  si  prendesse  risoluzione  alcuna  ingiusta  e lesiva 
del  popolo. 

LYIil.  Cosi  Canidejo  «rrìngava  ooa  indignaziÒQe  cupa: 
e trasfondeudoseDe  la  iadiguauone  auc|ie  « al  Padri  Don 
invitati  a. .quel  congresso;  Genncio';  1’ altro  'de’ consoli , 
fiittosi  innanzi  per  escusarsene , tentò  rimplacidirii , di- 
cendo : che  aveano  invitalo  'gli  amici  non  per  trattare 
contri}  'del  popolo  ; ma  per  cercare  co'  più  intimi  cioc- 
ché fosse  da  fare  per  non  •danneggiare  niun  de’  partiti, 
vuol  dire  se  dovessero  affrettare  o tardare  di  proporre 
al  Senato  V esame  della  legge  (i):  che  Orazio  e Va- 
lerio  non  erodo  stati  invitati  per  -aUra  cagione  se 
non  perchè  nel  popolò  non  si  eccitasse  alcun  sospetto 
indegno  di  loro  quasi  variati  si  josséro  jie’  modi  del 
governare  se  prendessero  mai  la' "senterv^a  la  qual 
trasporta  a tempo  più-  acconcio  t esame  della  legge. 
Siccome  però  a tutti  gli  adunati  parve  migliore  d' esame 
anzi  sollecito  che  tardo  , io  fo  di  presente , ' conta  a 
lorr  piacque.  Cosi  dicendo  e protestando  gl’  Iddj  su  la 
verità  del  suo  dire  aggiunse  che  tutti  i senatori  cori- 
vocativi  escluderebbero  quella  calunnia  co'  fatti , non 
colle  parole.^  Imperocché  quando  quelli  che  il  vogliono, 
abbiano  detto  ciò  che  é giusto  a persuadere  o dissua- 

(i)  Perchè  nel  partito  de’pUriaj  ri  erano  molti  i quali  propo- 
nevano che  l'esame  dcfla  Jtgge'si  differisse  per  più  ànoi  1 come  già 
al  era  -mandala  in  lungo  la  controversia  su  la  legge  agraria. 


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380  DELLE  antichità’  ROMANE 
der*  la  Ugge,  egli  inviterebbe  li  primi  a darne  il  voto 
loro  i senatori  più  giovani  e creduli  più  popolari , nan 
i più  provetti  e più  venprmtdi , se  bene  per  usanza  pa- 
tria  diasi  lor  quest'  onpre , e non  quanti  sono  sospetti 
presso  del  popolo  , quasi  non  siano  per  dire  nè  per 
pensare  niente  di  utiU  verso  di  esso. 

■ LIX.  Così  promise' e '-diede  a^.qaapli  U voleano',  fa- 
coltà di  parlare  : lattaria  noo  presentandosi  alcuno  per 
approvare  o riprovare  la  legge  ; egli  si  trasse  un’  altra 
volta  innanzi , e chiesO  da  Valerio  il  primo  qual  forae 
il  ben  della  patria  , e qual  snggerisse  che  facessoo  i 
Padri  previo  decreto  ; e Valerio'  levatosi  in  piedi  e ri* 
cordando  con  lungo  discorso  com’  esso  e gli  avi  snoì 
erano  sempre  stati  in  città  li  promotori  dell’  utile  delle 
|>arti  popolaresche  ; numerando  fin  da  principio,  tutti  i 
|>ericoli  venuti  su  Roma  per  colpa  di  quelli  phe  vole- 
vano conU'ario  governo;  rilevando  come  l’odio  versola 
plebe  crasi  renduto  dannoso  a quanti  lo  ebbero;  e lo- 
dando amplìssimamente  il  popolo  .come,  autor  principale 
delia  libertà  e del  comando  delia  repubblica;  alfine  ra- 
gionate queste  e simili  cose  , concluse  non  poter  e^ser 
libera  quella  città  dalla  quale  tolgasi  /’  eguaglianza  z 
e quindi  sembrare  a lui  giusta,  la  legge  la- qual  vuole 
che  concorrano  al  consolalo/  tutti  i Boinani  purché  siano 
irreprensibili  ne  costumi  e degni  per  le  opere  di  lai 
tanto  onore  : non  essere  però,  quello  il  tempo  oppor- 
tuno da  trattare  legge  siffatta  in  tanta  turbolenza  di 
guerra  per  la  repubblica.  Pertanto  consigliava,  ai  tri- 
buni di  permettere  che  si  réclutassèro  i soldati,  e che 
reclutati  uscissero:  ai  consoli  poi  di  pubblicare,  appe-j 
\ 


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V',  i.iBHó  xr.'  '*  38 1 

na  detto  buon  alla  guerra  il  previa  decreto  su  la 
legge:  e si  scrivessero  e si  corueruissero  fin  et  allora 
tali  cose  da  ambe  ’ie, parti.  Ta^è  fu  la  senteuza  di  Va- 
lerio « e tale  appresso-  fu  pur  quella  di  Orazio  invitato 
il  secoudo  da*' consoli:  non ^ però  ne  fu  pari  1*  affetto  io 
tutti  gli  astanti.  Imperocché  quelli,  che  voleaoo  preclusa 
la  legge,  ne  udirono  f!Ot>  piacere  la  dilazione , non'peré 
con  piacere  ne  adirono  éhe  essa  dovesse  decretarsi  dopo 
la  guerra:  air  opposito  quelli  che  volevano  che  sì  ac- 
cattasse la  legge  dal  Senato  iotesero  con  trasporlo  che 
giusta  si  dichiarava  : ma  con  isdegno  intesero  che  se  ne 
ritardasse  il  decreto.  ■ j > 

LX.  filato  taraulto  ('oom' è verisimile  , perchè  questa 
sentenza  non  soddisfaceva  in  tutto  ad  ainhe  le  parti , il 
console  fattosi  innanzi  interrogò  per  il  terzo  Cajo  Claudio 
il  quale  sembrava  ostinatissimo  e/  potentinimo  fra  tutti 
i primari  della  fazione  opposta  alla  |>lebe.  Costui  tenne 
un  dùtcorso  premeditato  contro  del  popolo-,  rilevando  di 
luì  tutte  le  cose  che  gPien  parevano  contrarie  a begli 
usi  della  patria,  fra  lo  scopo  principale  ove  tendeva  il 
dir  suo,  che  i consoli  non  pcoponessero  al  Senato  l’^esar* 
me  di  quella  legge  nè  allora'  - uè  mai , ooine  diretta  a 
distruggere  il  comando  degli  Ottimati,  e confondere  ogni 
buon  ordine.  Cresciuto  a tal  dire  il  tumulto , sorse  in- 
vitato il  quarto  , Genuzio  , fratello  dell*  a^tro  con- 
sole.-Costui  j discorse  breveménce  le  circostanze  della  città, 
e come  la  cótnplicav^^no  all*  uno  o all’  altro  disastro , o 
di  far  prosperare  ^i  nemici  per  la  discordia  e 1*  ambiziojie 
de’  citudinij  e, di  dare  mal  termine  alla  guerra  interna 
e domestica  .|>er  espedirsi  dajl’  altra  che  le  era  portata 


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38 2 DELLE  A^ìTICHITA’  ROMANE 

di  fuori,  disse,  che  essendo' due  i maiì'  ed  essendo  ne- 
cessità d’  inwyrreme  , loro  mal  grado,' l’^udo  o Y altro , 
credeva  coufacevole  ai  Padri  lasciar  che  il  popolo  urtasse 
alcune  istituzioni  proprie,  anzi  che  rendere  la  patria  Io 
scherno  di  forestieri'  e nemici^  E cosi  dicendo"  propose 
la  sentenza  approvata  nel  congresso  di  ^elli  che  si  erano 
in  casa  riuniti , sentenza  come  io  dichiarai  suggerita  da 
Claudio , che  si  eleggessero  ift  luogo  de'  consoli  i tri- 
buni militari  , tre  de’  patrizj , e tre  dd  plebei , tutti 
con' potestà  superiore  : chè  quando  -^nìrebbefo  questi 
il  lor  tempo,  e si  dovrebbero  creare  i nuovi  magistra- 
ti ; allora  unitisi  di  bel  nuovo  il  SerUUo  ed  il  popolo 
decidessero  quali  più  voleano  riassumesre  al  cornando  li 
tribuni  militari  o li  consoli  : che  per  valido  si  tenesse 
quello  che  il  voto  comune  destinerebbe:  e che  pari 
decreto  si  rinovpsse  ogni  anno.  ■ , ' ' 

LXI.  Eu  la  opinion  di  Genuzto  acclamata  da  tutti: 
e gli  altri  che  sorsero  a sentenziar  dopo  lui  -la  tennero, 
quasi  tutti , per  b migliore.  ' Se  ne  stese  dunque  da' 
consoli  il  decreto , ed  i tribuni  della  plebe , pigliatolo  , 
oe  andarono  , tripudiando,  al' Foro.  E convocatovi  il 
popolò,  vi  lodarono  amplissimamente  il  Senato^  e vi  di* 
nunziaronoV  cbe  doncorresse  pure  a’  magistrati  .‘insieme 
co'  patrizj  chiunque  il  volea  de*  plebei.  '.Se  non-  ohe  il 
desiderio  senza  cagione , Speciàlmemc'  nel  popolo  ^ è per 
sé"  dori  vano,  e cori  pronto  ' a dar  luogo  arcOnirario  ; 
ohe  quelli  i quali  facevano  ogni  prova  per  essere  a parte  ' 
del  magistrato  , risoluti  se  non  concedeasi  ciò  da’ patrlz}, 
di  abbandonare  la  patria  come  1'  avevano  abbandonata 
altra  volta  , o dì  usurparselo  colle  armi , ottenutane  ap* 


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LIBRO  XI.  383 

pena  la  pertnissione , rattemperacono  sestessi , e rivolsero 
altrove  i loro  favori.  E quantunque  molti  de’  plebei  aspi- 
rassero al  militar  tribunato,  e" facessero  per  giungervi 
insistenze  caldissime  ; non  riputarbno  alcuno  degno  del 
grande  onore.- Cosi  quando  vennesì  al  voti  nominarono 
al  militar  tribunato  tra’  patria)  che  yi  còneorrevano  , Aulo 
Sèmpronio  Atratino^  Lucio  Attilio  Longo,  e Tito  delio 
Sieelo.  . ' ; . y ‘ ^ ■ 

i * 

LXn.  Questi  assunsero  i piWi  qu^  grado  in  luogo 
del  consolare  nell’  anno  terzo  della  olimpiade  ottante- 
sima quarta  essendo  Di61o  arconte  in  Atene  (i):  ma 
ritenutolo  settantatrè' giorni  lo  deposerq  secondò  gli  usi 
della  patria’ spontan^atOébte  ;•  perché  alquanti  segni  ce- 
lesti vietavano  loro  il  maneggio  de’  pubblici  affari.  ' Le- 
vatisi questi  dal  comando;  il  Senato- si  raccolse,  e no- 
minò gr;ìn(errè.  U quali  prefìssero  il  tempo  de’  comizj 
e proposero;  da  risolvere  al  popolo  se  voleat  rieleggere 
li  tribuni  o li  «008011 1 il  popolo  decise  attenersi  agl)  nsi 
primitivi;  ed  essi  cont»derono  che  chiunque  il  volea  de* 
palrizj  concorresse  al  consolato."  Adunque  si  elessero  di' 
nuovo  i' consoli’ dell’  ordin  patriuo , e fuf'onò'  Lucio 
Papirio  Mugiliano , e Lucio  Sempronio  Atratino , fratello 
di  uti  de*  tribuni  che  s’  eran  dimessi.  Dond*  è che  furono 
in  -fiLoma  tu  un  anno  stesso  due  magistrature  supreme. 
Non  però  comparisce  1’  una  e l’ altra  magistratut^  in  tutù 
gli  annali  Romani  : ma  in  alcuni  trova'nsi  i 'soli  tribuni, 

(i)  Aodo  di  Roma  3ii  $ècon{lo  Catone,  3ia  secondo  Varronc  , 
e 44*  ^v.  Ccisle.  Tilo  Livio  dice  cbv  i tribuni  militari  entrarono 
maghtraii  sul  termidare  dall*  anno  3io  , e perciò  toccarono  anche 
l’inno  3 11. 


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384  DELLE  Antichità’  romane 

ÌD  altri  i consoli  soli , osservandosi  in  non  molti  T .una 
e r altra.  Noi  ci  atteniamo  agli  ultimi  nè  senza  ragione, 
affidandoci  alla  testimonianza  de'  libri  sacri  «'recònditi. 
Sotto,  questi  consoli  nou  occorse  altra  cosa  civile  o mi- 
litare degna  di  ricordanza;  fecesi  però  trattato  di  ami- 
cizia e di  alleanza  colla  cidi  degli  Ardeali , peroccliè 
spedirono  ambasciadori  , pe*  qliali , lasciate  le  querimonie 
intorno  la  campagna  , dimandarono  di  essere  gli  amici 
e gli  alleati  de’  Romani.  I consoli  ratificarono  questo 
trattato. 

LXIII.  11  popolo  confermò  co'  suoi  voti  che  si  cf'eas* 
s^  i consoli  anche  per  1’ anqo  seguente  ; e nel.  pleni- 
lunio di  Dicembre  presero  il  consolato  Marco.  Geganio 
Macerinó  per  la  secotula  volta , e Tito  Quinzio  Capi- 
tolino per  la  quinta  (i).  Questi  rimostrarono  <10  Seqato, 
che  per  lò  spedizioni  continue  de’  consoli  contro  i ne- 
mici , giacéansi  neglette  più  cose  ; tra  le  ^qnali  la  osser- 
vanza legittima , del  censo  de’  beni , ' cosa  più  che  le  altre 
necessaria.'  Imperocché  per  esso  conoscasi  il  numero  de- 
gli uomini  di  età  militale,  e la  quantità  delle  sostanze, 
su  là' quale -dee  proporzionare  ciascuno  ì tributi  per  la 
guerra:  nè  più- si  era  fatto  alcun  censo,  volgeva  già 
r anno  diciassettesimo , dai  consolato  di  Lucio  Cornelio, 
e di  Quinto  Fabio.  Adunque  eraue  seguitato  che  i buoni 
e gli  utili  cittadini  teneansi  ne’  censi  e nella  milizia  > 
mentre  i più  inutili  e più  svergognati  eran  fuori  ài  ogni 
registro,  e cangiavano  luogo  con  luogo  affine  di  viverci 
come  loro  piaceva.  , 

i. 

(i)  Addo  di  Roma  3ia  se'coado  Catone,  3i3  seeuado,  Yatione  , 
41»  ar.  Cristo. 


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SUPPLEMENTI  E FRAMMENTI 

DEI  NOVE  LIBRI  PERDUTI 

DELLE  ANTICHITÀ  ROMANE 

DI 

DIONIGI  DI  ALICARNASSO. 


DZONlGt,  fmo  Ut. 


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387 

IL  TRADUTTORE 

AI  LETTORI. 


U tomai  dì  AUcartiosso  scrìsse  le  Antichità  Ro- 
mane dalie  orìgini  di  Roma  fino  alla  prima  guerra 
Punica  in  venti  libri  estesissimamente , e di  questi, 
poi  diede  un  compendio  in  cinque  libri  come  fu  già 
detto  nella  prefazione  al  tomo  primo.  De'  venti  libri 
perirono  qualche  parte  deW  undecimo  , e tutti  i nove 
ultimi , salvo  alcuni  frammenti  pubblicati  più  volle 
e ridotti  in  fine  secondo  P ordine  de'  tempi  in  ciò 
che  narrano.  ’ 

Avendo  io  trasportato  nel  nostro  idioma  gli  undici 
primi  libri,  e li  frammenti  già  noti  de'  rimónéitti,  fu 
tutto  dato  in  luce  U anno  ii5ia  per  Fìncenm  Pog- 
gioli, editore  in  Roma  della  Collana  Greca  tradotta 
in  Italiano.  Quattro  anni  appresso  però , cioè  nel 
1816,  apparve  in  Milano  una  stampa  Grecolatina 
della  quale  il  titolo  latino  è:  DiONTsii  Halicarnassei 
RomaDarum  AntiquitaUim  pars  hactenus  desiderata  nunc 
denique  ope  codicum  Ambrostanorum  ab  Angelo  MaJO 
Ambrosiani  Coliegii  doctore  , quantam  licuit , restitala. 
Quella  stampa  comprende  gli  antichi  frammenti  dei 
nove  libri  smarriti,  e parti  riguardevoli  derivate  dal 
compendio,  collocate  prima  c dopo  di  essi  frammenti 


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388 

per  ordinare  un  tutto  il  quale  dia  compenso  e lume 
di  ciò  che  erano  i nove  libri  perduti  di  Dionigi. 

Jn  questo  letterario  ordinamento  ci  si  dà  ciò  che 
si  è trovato  , e non  sopra.  Del  resto  la  versione  la- 
tina è precisa  , corrispondente  , elegante  , buona  , 
anzi  molto  : te  note  opportune , nè  vi  si  desidera  di- 
ligenza : e ciò  basti  su  quell’  opera. 

Considerando  come  i frammenti  veri  de’  nove  libri 
presentati  di  nuovo  in  quella  stampa  erano  già  vol- 
garizzati , C editore  in  Roma  della  Collana  Greca 
tradotta,  cercò  più  volte  di  avere  anche  il  volgare  di 
que’  supplementi  raccolti  come  si  potè  dalla  Epitome 
o Compendio  di  Dionigi:  ed  uUirnumente  vi  aggiunse 
pur  le  sue  premure  il  nuovo  editore  in  Milano  della 
Collana' Greca , presa  la  occasione  dal  valersi  egli 
ancora  della  mia  traduzione.  Su  tali  istanze  ho  con- 
segnato il  volgare  di  que’  Supplementi  ordinato  coi 
vecchi  frammenti  appunto  come  si  ha  nel  testo  Gre- 
colatino.  E ciò  è quanto  basta  a dar  luce  alla  giunta 
seguente. 

Roma  aa.  Settembre  i8a3. 


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V 


389 

DELLE  ^ 

ANTICHITÀ  ROMANE 

DI  > . • ‘ 


DIONIGI  ALICARNASSEO 


LIB^lO.  DUODECIMO.  • 

SDPPLEMENTI  (i). 


i • £jglI  avendo  radtinato  Intorno  a sé  uomini  di 
ogni  reo  genio,  li  nudrìva,  quasi  fiere,  contro  la  patria. 

(i)  Suppiementi.  Cos\  li  chiamo  per  dittiogaerli  dai  Frammenti. 
Qnetti  tono  parti  vere^  dei  libp  perduti  f gli  altri  tono  parti  deri- 
Tite  dal  compendio  de’ Tenti  libri  delie  anpchilà  di  Dionigi  troraio 
in  Milano  ueil’ Ambr<>*>a°a  io  due  dodici,  l'nno  intitolato:  Di  Dio- 
nigi di  jilicarnatto  Archeologo  Romano  t l’altro:  Dionigi  di  Ali— 
tarna$$o  Archeologo  dplle  cote  Romane.  E chiaro  che  questo  titolo 
i dato  da  altri.  Li  supplementi  avran  sempre  doe  TÌrgole  in  prin- 
cipio ed  in  fine  dei  paragrafi  per  dùtiognerli  dai  frammenti., 


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390  DELLE  antichità’  ROMANE 

Tuttavia  se  ascoltava  me , se  confofmavast  alle  leggi , 
egli  faceva  un  gran  colpo  per  la  difesa  , dando  segno 
non  piccolo  di  non  aver  cospirato.  Ma  sbattuto  dalla 
sua  cosdenza  si  ridusse  dove  quelli  si  riducono,  i quali 
siegnono  scellerati  disegni  contro  dei  loro  più  congiunti; 
deliberò  di  non  presentarsi  al  giudizio  ; e respinse  a 
colpi  di  mannaja  li  cavalieri  spediti  su  lui  (i)  ....  li 
suolo -della  sua  casa  i Romani  Io  chiamano  equimelio: 
conciossiacbè  equo  è detto  da  loro , ciò  cbc  non  ha 
prominenze.  Cosi  il  luogo  soprannominato  Mclio  in 
principio  fu  di  poi  detto  Equimelio  alterandosi  i dne 
nómi  in  un  solo  (2)  ». 

II.  « Guerreggiando  i Tirreni , i Fidenati , e li  Ve- 
jenti  co’  Romani  (3j , « Laro  Tolumuio  re  de’  Tirreni 
segnalandovisi  spaventosamente  ; un*  tribuno  romano  , 
Aulo  Cornelio  cognominato  Cosso,  spronò  il  cavallo  su 
lui.  F attisi  a combattere  già  moveano  ai  colpi  le  aste  ; 
quando  Tolumnio  feri  nel  petto  il  cavallo  dell’  emulo  , 
talché  il  cavallo  ne  infuria  e lo  atterra.  Ma  Cornelio 
internando  I’  asta  per  lo  scudo  e 1’  usbergo  nel  fianco 
di  Tolumnio  rovesciò  pur  lui  da  cavallo.  Ben  sorgea 
questi  ancora , quando  fu  colto  nell'  anguinaja.  Con  ciò 
Cosso  Io  ucdsc  e lo  ' spogliò , non  solo  respingendo 

quanti  accorrevano  fanti  e cavalieri  , ma  disanimando  e 

t . 

(1)  Qo«sla  h parte  òel  discorso  di  Cineinnato  sa  Spn^o  Melio 
Deciso  come  reo  di  ambita  lirannido. 

(a)  La  occisione  di  Spurio  Melio  co4) corre  con  l’anno  3r5.  II 
libro  XI  di  Dionigi  non  eccede  1*  anno  Sia.  Pertanto  cib  ebe  manca 
a dar  conliuna  la  storia  delle  Àniichiià  Romane  con  quella  del  Coca- 
pendio  b la  serie  dei  fatti  dell’  anno  3i2  e dell!  due  sdenti. 

(3)  Anno  di  Roma  3i^.  • 


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• LIBRO  XII.  ' 391 

impaurando  quanti  erano  alle  mani  neN'  uno  e nell*  al- 
tro cornò  »• 

IH.  « Essendo*  consoli'  ntiovamenie  Aulo  Gjmelio 
Cosso,  e Tito  Qtrinzio  (i)  ; penuriò  la  terra  per  gran 
siccità;  mancando  non  che  le  pio^e,  fin  le  acque  nelle 
sorgenti.  Donde  nniversaie  fa  lo  scapito 'di  pecore,  di 
giumenti , di  bovi  : e moitè  -fra  gli  uomini  le.  malattie , 
quella  principalmente  che  scabbia  à detta,  assai  molesta 
per  lo  rosore  nella  cute , c più  Rtolesta  ancora  se  inni- 
ceravasi  : infermità  miserabile  in  vero , e cagione  solle- 
citissima di  rovina  ». 

IV.  ....  « Mal  sembrava  a’  primarj  del  Senato  ad- 
dimesticare il  popolo  alla  pace  e prolungargliene  la  cal- 
ma , sul  riflesso  che  per  la  pace  si  schiudono  in  città , 
vizj  , piaceri , e sedizioni  , e solean  queste  prorompere 
ad  ogni  occasione  , difficili  nè  interrotte , appena  si  lo- 
gliean  le  guerre  di  fuori  ....  E meglio  superar  1*  ini- 
tnico  beneficando , che  punendo  : imperocché  di  là  sie* 
gue  se  ' hon  altro , almeno  la  speranza  loro  più  dolce 
sopra  de’  Numi 

V.  . . a Appena  conobbe  che  i nemid  Io  assali- 

vano alle  spalle  , chioso  com’  era  per  ogn’  intorno  da, 
essif  disperò  di  retrocedere.  Egli  tenea  grave  sul  cuore 
che  nel  pericolo  comune , essi  pochi  contro  de'  molti , 
essi  gravati  dalie  arme  conira  milizie  leggere  perireb- 
bero turpissimamente  senza  dar  segno  di  opera  generosa. 
Adunque  vista  un’ allora  conveniente  nè  lontana  destinò 
di  occuparla  » 

VI.  « Agrippa  Menenio,  e Publio  Lucrezio  e Servio 

(3)  Anno  di  Roma  3i6. 


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' 392  DELLE  Antichità’  romane 
Nauzio  tra  gli  ODorì  di  tribuai  militari  scopersero  and 
insurrezione  di  servi  destinata  coaUx>'di  Roma  (1).  Di- 
segnavano i congiurati  dar  fuoco  tra  la  notte  in  un 
tempo  a più  case  in  più  luoghi,  e quando  vedeano  gli 
altri  intenti  a reprima.  1*  incendio  , allora  invaderne  il 
Campidoglio,  ed  altre  parti  munite,  e quindi  provocare 
ad  esser  liberi  lutti  gii  altri  Servi,  e.  con  essi  ucciderne 
i padrom',  onde  averae  le  mogli  e li,  beni.  Manifestatasi 
la  prauca  , i capi  di  essa  furono  presi , battuti , e cro- 
ciassi : e que’  due  servi  che  la  manifestarono,  ottennero 
essi  la  libertà  veramente , e miUe  (2)  dramme  a testa 
dal  pubblico  erario  a.  . ' . , 

VII.  Adoperavasi  il  tribuno  romano  a compiere  la 
guerra  iu  pochi  giorni,  come  lui  che  credea  facilissimo, 
e quasi  posto  nelle  sue  mani  , sottomettere  còn  una 
batuglia  i nemici.  Per  contrario.Jl  comandante  nemico 
apprendendo  la  perizia  de’  Romani  tra  le  armi , e . la 
costanza  ne’  pericoli , non  avea  cara  una  battaglia  in 
campo  aperto  con  pari  circostanze;  ma  Uaeva  la  guerra 
tra  le  arti  e 1*  inganno  , aspettandone  chq  gli  si  pre- 
sentasse un  vantaggio  (3)  . . . . ferito  e morto  venuto 
appena  ».  , , 

Vili.  « In  quest’anno  fu  l’ inverno  rigidissimo,  in 
Roma  (4) , tanto  che  dove  la  neve  caduta  era  meno , 

( i)  .tnno  di  Roma  335.  ^ 

(a)  Il  mille  mauca  oel  lesto.  È presso  a pòco  il  nomerò  pbe  dee 
supplirai  consideralo  ciò  che  se  ne  ha  presso  di  Livio  lib.  4,  o.  aS. 

(3)  Questo  racconto  consente  per  qualche  modo  con  ciò  che 

narra  Livio  net  capo  4^  del  libro  quarto  , intorno  la  disfalla  dei 
Romani  contro  degli  Equi.  ' r ^ 

(4)  Anno  di  Rema  355. 


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LIBRO  XII.  393 

ivi  era  alta  li  sette  piedi  (1).  Vi  perirono  alquanti  uo- 
mini, e molte  greggi,  ed  altro  bestiame  non  poco,  so- 
praffatto dal  gelo  o dalla  fame  per  mancanza  de’pasccdi. 
Le  arbori  firuuifere  inusitate  alle  grandi  nevi  o perirono 
in  tutto,  o seccate  ne’<  rami  rimasero  gran  tempo  inf»< 
coode  : molle  case  ne  furon  confuse , e talune  disfatte , 
prinapalmenie  quelle  di  pietra  , .allo,  sciogliersi  delie 
nevi.  Tale  infortnnio  noi. trovo  scritto  mai  più,  prima 
né  poi , fino  al  mio  > tempo  in  tali  regioni  alquanto  più 
boreali  del  mezzo , seguendo  il  circolo  parallelo  il  qual 
viene  per  1’  Ellesponto  sopra  di  Atene.  Allora,  per  la 
prima  ed  unica  volta  1’  ambiente  di  questa  regione  si 
allontanò  dalla  sua  temperatura  fa)  a. 

IX.  « I Romani  fecero  le  feste  dette  letxistermi  nel- 
r idioma,  dei  luog.o.  Or  furono  ammoniti  a tanto  pe’  li- 
bri Sibillini:  giacché  gli  astrinse  a consultarne  l’ oracolo 
nn  morbo  pestilenziale  mandato  loro  da'  Nomi , nè  sa- 
nabile'per  cura  umana.  Adunque  acconciarono,  come 
voiea  r oracolo  tre  ietti , T uno  ad  Apollo  e Latona  , 
r altro  ad  Ercole  e Diana  , ed  il  terzo  a Vulcano  e 
Nettuno.  Fot  per,s?'tte  giorni  fecero  pubblici  sagrifizj  , 
come  pur  fecero,  ciascuno  secondo  le  forze  sue,  private 
offerté  ai  Numi , e conviti  sontuosi  ed  accoglienze  di 

forestieri  (3)  ». 

« ^ , 

I 

I ' 

(1)  Livio  raeconu  I.  ▼,  c.  i3  cb«  il  Tevere  non  pelea  navigard. 
(3)  Questo  fraocbiaaiUko  tcnvere  & desiderare  le  cautele  dell’aa- 
tore  dei  veoli  . libri  delle  Aulichità  Aooiaae.  Le  muiasioai  anche 
rarieeime  dcll'elmosfera  ooa  perché  non  sono  scriue  pel  tempo  paa- 
laio  , può  concludersi  che  non  avvenissero  mai  piò . 

(3j  Livio  parla  di  ul  festa  nel  lib.  t , 0.  i3 , la  dice  occorsa 


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3p4  DELLE  ANTICHITÀ,’  ROMANE 
X«  « Pìsone  il  censore  fa  negli  annaK  suoi  quest’ag> 
giunta  : cioè , che  sebbene  fossero  sciolti  tutti  i servi  ^ 
tenuti  io  ferri  dai  padroni , sebbene  Roma  si  empisse 
di  forestieri  , ' e sebbene  ’si  tenessero  dì  e notte  spalan* 
cate  le  case,  penetrandovi  chi  volea,-senz* ostacolo  ; pur 
ninno  si  dolse  che  avessene  furio , nè  oltraggio  ; quan« 
tnnque  i giorni  festivi  sogliano  per  'le  brìachesze  dar 
largo  il  campo  a disordini  ed  ingiustizie 

XI.  «r  Stando  i Romani  all’  assedio  di  Vejo  (i)  sul 
nascere  delia  canicola  quando  gli  stagni  diminuisconsi  e 
tutti  li  fiumi  all’  infuori  ' dell’  Egizio  {filo  (a) , il  . lago 
de’ monti  Albani,  distante  non  meno  di  quindici  miglia 
da  Roma,  presso  al  quale  fu  già  la  città  madre  de’Ro* 
' mani  , crebbe  senza  piogge  , senza  nevi , e senz’  altre 
apparenti  cagioni , per  le  sole  inteMe  sue  fonti'  a tal 
dismisura , che  'inondò  buon  tratto  delle  adiacenze  con 
molte  case  di  agricokorì.  E finalmente  aprendosi  a forza 
, il  passo  tra-  monti  si  versò  con  terribile  sbocco  ne’  campi 
sottoposti  , ■ ' 


Della  estate  contagiosa,  la  qual  s^cedcltc  all' inverao  rigidissimo 
descritto  diantì. 

(i)  Addo  di  Roma  356. 

(a)  Aie  infuori  delV  Egitto  Nilo-  Questa  cceetione , &t  cono- 
scere, parmi,  che  l’autore'del  compendio  non  i Dionigi.  Imperoc- 
ché egli  nato  in  Alicamasso  città  dell’  Asia  , e già  spettante  al  re- 
gno di  Persia , come  tatto  il  corso  dell'  Eufrate , non  poterà  , e 
certo  non  dorerà  ignorare  in  tanta  naturai  tua  diligenia  che  P Eu- 
frate anch*  esso  nel  luglio  assai'  cresce  e trabbocca  , come  si  legge 
in  Arriano  iibro  ni,  par.  ao,  greco  per  esso,  e scrittore  delle  gesta 
di  Alessandro.  Lo  stesso  Arriano  scrire  nel  lib.  r,  paragr.7  secondo 
la  nostra  tradusione,  che  anche  i fiumi  Indiani  nell’estate  ingrossano 
fuor  di  modo  e neU’inrerno  scemano. 


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LIBRO  XII.  395 

XII.  • Vedalo  ciò  li  Romaai  , da  princìpio  , (jQast 

10  sdegno  del  cielo  minacciasse  Roma,  decretarono  pia* 

care  con  sagrifizj  i Nomi  ed  i Genj  del  luogo  , con- 
saltandovene  pur  gl’  indovini , se  ne  eressero  mai  co$a 
da  significare:  .Se  non  che  né  il  Iago  ripigliava  l'ordine 
SQO,  nè  gTinterpetri  sapean  dirne  a proposito,  ma  sng~ 
gerirono  che  si  mandasse  per  intenderne  P oracolo  in 
Delfo  ».  ' 

XIIL  « Intanto  un  di  Vejo  perito,  per  Ipmc  avutone 
da’ maggiori,  dell' arte  divinatoria  di'  qne* luoghi,  sfavasi 
per  avventura  in  gnardiè'deNe  mura/  Era  cosini  noto 
ad  un  centurione  romano.  E • quél  centurione  venato 
una  volta  presso  le  mura  lo  salutò  come  usava  ; aggiu- 
gnendogli  di  commiserare  Ini  come  tutti  i suoi  pe’mali 
imminenti  nella  espugnazione  dellai  cittè.'Per  l’opposito 

11  Tirreno,  il  qual  già  sapeva  In  inóndàziooe  del  lago 
Albano,  e sapeva  gli  antichi  oracoli  intorno  di  questa  , 
replicò  , sorridendo , guanto  é bene  conoscere  t ot'tv- 
nt're.  Voi  per  non  conoscerne  sostenete  una  guerra 
senza  fine , e travagli  irriuscibili , disegnandovi  la 
distruzione  di  Vejo.  Se  alcuno  vi  rivelasse  portare  il 
destino  di  questa  città  che  allora  sia  presa , quandó 
U lago  Albano  impoverendo  nelle  acque  sue , non 
più  si  mescoli  al  mare,  cessereste  di  tenere  voi  nella 
fatica,  e noi  tra  le  molestie.  Assai  ne  impensierì  ciò 
udendo  il  romano  , e parti  ». 

XIV.  « Nel  giorno  appresso  il  romano , comunica- 
tone il  disegno  co’  tribuni',  rivenne  allo  stesso  luogo  , 
ma  senza  le  armi , onde  il  Tirreno  non  sospettasse  af- 
fatto d’ insidie.  Ripigliò  I’  usato  saluto  , e poi  disse  in- 


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396 


DELLE  antichità’  ROMANE 


nanzi  tutto  l’ incertezza  la  quale  agitava  il  campo  de! 
Romani , e cose  altrettali  da  rallegrarne , com’  egli  cre- 
deva , il  Tirreno.  Poi  chiedealo  spositore  di  alquanti 
segni  e portenti  occorsi  di  recente  ai  tribuni.  Gnidi- 
scese  colui  ' niente  sospettando  d’ inganni.  E fatto  ritirare 
gli  altri  i quali  erano  con 'lui  si  mise  egli  solo  col  .cen- 
turione : £ questi  U passo  a passo  lo  allontanò  dalle 
mura  con  discorsi  diretti  a deluderlo  ; Or  come  fu 
presso  alle  muniuoni  romane. lo  abbracciò  con  ambe  le 
mani , e sei  portò  negli  alloggiamenti  ». 

XV.  B Quivi  i tribuni  or  lusihgando  or  minacciando 
lo  ridussero  a dire  quanto  celava  sul  lago  Albano , e 
poi  lo  mandarono  al  Senato.  Non  parvene  u tutti  i pa- 
dri in  un  modo  : e chi  tenea  costui  per  pno  scaltro  ^ 
per  un  impostore,  per  uno  che  mente  su  gli  oracoli 
de’  Numi,  e chi  dicea  lui  parlare  a punto  il  vero  ». 

XVI.  « Fluttuando  fra  tali  incertezze  H Senato,  ecco 
i deputati  - al  Nome  in  Delfo  riportarne  (i)  le  divine 
risposte,  concordi  a quelle,  date  già  dal  Tirreno:  vncd 
dire  che  gli  Dei  e li  Genj  li  quali  aveano  in  sorte  la 
città  di  Vejo  promettevano  mantenervi  costante  la  pro- 
sperità trasmessavi  dagli  antenati  finché  le  acque  sor- 
genti del  lago  Albano  ne  Uaboocassero  e corressero  al 
mare  : Ma  quando  quelle  acque  , .mutata  la  fonte  e il 
corso  antico  , deviassero  altrpve , nè  più  si  mescolassero 
al  mare,  allora  pur  Vejo  ne  andrebbe  sossopra.  Parve 
che  potesse  pianto  ottenersi  da’.  Romàni  , se  scavando 
delle  fosse  intorno  al  lago  V*  incanalavano  l’ acque  le 
quali  sboccavano,  dirìgendole  in  campi  lontani  dal  mare. 


• (i)  AjBno  di  Homa  357* 


» 


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L^O  XII. 


397 


G>DOsc!ato  ciò  li  Romaai  bentosto  misero  gli  operaj  su 
r intento  », 

XVIL  w Rendutine  i Vejenti  consapevoli  per  nn  pri* 
gioniero,  deliberarono  spedire  a chi  li  assediava,  a fine 
di  toglier  la  guerra  innanzi  ch^  la  città  soccombesse:  e 
scelsero  de’ seniori  per  deputati.  Rigettata  dal  Senato  la 
pace  , lasciavano  questi , taciuirni , la  curia  : quando  il 
più  Cospicuo  fra  loro  e più  famoso  nel  divinare , fer- 
matosene alla  porta  e girato  lo  sguardo  su  tutti  se- 
natori disse:  bel  decreto  v avete  voi  fatto  o Romani! 
e degno  di  voi  U quali  cercate  dominare  per  tutto 
intorbo  , quando  ricusate  aver  suddita  una  città  nè 
piccola  nè  ignobile  la  qual  depone  le  armi  e si  ren- 
de, e destinata  abbatterla  da’  fondamenti  senza  te- 
meme^t  ira  de'^Numiy  nè  la  vendetta  degli  uomini. 
Or  ne  verrà  per  questo  su  voi  la  giustizia  punitriea 
de’  Numi  con  pari  vicenda  ; Voi  che  spogliate  li  Ve- 
jenti di  patria  , voi , tra  non  molto  perderete  la  vo- 
stra (i)  ». 

XVIII.  « Prendendosi  (a)  dopo  breve  tempo  Yejo, 
taluni  de’  cittadini  ne  andarono,  e stettero  da  valebtno- 
mini  contro  a’  nemici , e ne  uccisero  e furono  uccisù: 
altri  diedero  a sé  stessi  la  morte:  ma  quanti  per  co 
dardia , e bassezza  di  spirito  risguardavano  ogni  altro 
successo  come  più  mite  della  morte , abbandonarono  le 
armi  e sè  stessi  al  inncitore  ». 


(i)  Anche  Cicerone  nel  lib.  r,  c.  44  èe  Natura  Deoram  fa  men- 
xione  di  quella  ambasceria  , e dell'annunxio  del  castigo,  succeduto, 
^oni’  egli  scrive  , sei  auui  dopo  la  presa  di  Vejo,  col  piombare  dei 
Galli  su  Roma. 

(3)  Anno  di  Roma  35K. 


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398 


DELLE  ANTICHITÀ.’  ROMANE 


XIX.  « GatniUo  sotto  la  dittatitra  del  quale  Ve)o  fu 
presa , stando  co’  Romani  pili  insigni  su  luogo  elevato 
donde  tutta  quella  città  si  scopriva,  prknieramente  fèli- 
qitava  té  stesso^della'  Iiella  avventura  con  che  gli  era 
accaduto  di  espugnare  e senza  gran  costo  una  città 
grande  e prosperosa , - la  quale  erà  parte  , uè  gii  la 
più  ignobile  'della  Etmria , allora  fiorentissima  , e po- 
tentissvna  tra'  popoli  dell’  Italia , e la  quale  avea  dispu- 
tato |1  principato  ai  Romani  con  guerre  moltiplicate  per 
dieci  generazioni  (i)  con  cimentarsi  alfine  a tutti  i mali 
tra  r assedio  non  interrotto  di  nove,  anni  (a)  ». 

XX.  a Di  poi  ponsiderando  per  qual  lievissimo  bil- 
lico  trascende  la  sorte  umana , e come  nino  bene  tien 
fermezza  , alzò  le  mani , sopplichevole  ' a Giove  e agK 
altri  Nomi,  perchè  tanta  felicilà  non  chiamasse  l’invidia 
su  lui  principalmente  , nè  su  la  patria  : e se  per  Con- 
trario pubblici  disastri  pendeano  su  Roma,  o privati  sa 
lui,  almen  fossero  questi  i più  lievi  e più  tollerabili  ». 

XXI.  « Non  minore  di  Roma  per  gli  cdificj , godea 
Vejo  terreni  ■ ampj , d’  assai  frutto  , dove  piani  , e dove 
montuosi  in  aere  purissimo  e salutevolissimo,  senza  pa- 
ludi vicine  , dalle  quali  sorgono  aliti  gravi  ed  ingrati  , 
e senza  ninn  fiume  il  qual  dia  troppe  fredde  le.  aure 
del  mattino:  nè  scarse  vi  son  Tacque  (3),  nè  condot- 


ti) Ciok  per  circa  irecento  anni  asjegaaado  treni' anni  ad  ogni 
generaaione;  Imptroccbè  Vejo  cominciò  tali  tae  gaerre  con  Romolo: 
poco  prima  della  aua  morte,  e loocomM  l’anno  358  di  Roma. 

(3)  Livio  ed  aliti  dicono  durato  quello  asi^io  dieci  anni  : vuol 
diro  nove  furono  gli  anni'  interi  ciocché  scrive  I’  autore  dell’  Epi« 
tome , ma  non  intero  fu  1’  ultimo. 

(3)  Dionigi  nel  paragr.  i5  del  libro  iz  scrive  che  non  lungi  da 


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, , LIMO  xil;  399 

levi  altronde  , ma  vi  scatnrtacono  copiose  • nommeoo  , 
ohe  bouissime  a beverne  a.  ■ * 

XXII.  «'Dicono,  che  quando  Enea 'figlio  di  Anchise 
e di  Venere  approdò  nell' Italia  volesse, far  sagrìfizio  ad 
un.  tale  de’  Numi  ; e che  fatte  già  le  preghiere , stando 
ornai  per  operare  su  la  vittima  apparecchiata  , mirasse 
venir  da  lontano  tm  greco,  Ulisse  forse  quando  fu  per 
r oracolo  di  Avemo  , o Diomede  quando  si  recò  per 
soccorso  di  Danno.  E dicono  che  disgustato  Enea  del- 
l’incontro,  tenesse  come  inaugurata  la  vista  dell’ inimico 
tra  le  sante  cose,  e che  volendo  respingerla  si  bendasse 
e volgesse  altrove  ; finché  dopo  la  sparizione  di  colui 
lavatesi  di  nuovo  le ^ mani  fece  il  sagrìfizio:  e siccome 
vi  si  rendè  fàusta  ogni  cosa  , e^U  ne  fu  dilettato  per 
.'nodo  da  custodihie  di  poi  nelle  sante  cose  la  cerimo- 
nia; conservandola  per  ciò  li  posteri  di  Ini  quasi  legge 
dei  sacro  ministero  ». 

XXUI.  « In  conformità  de’  patrii  riti  , fatta  la  sup- 
plica Camillo  ancora  si  trasse  in  sul  capo  il  manto  , e 
volea  rivoltarsi.  Ma  travoltoglisi  ciò  che  avea  di  sotto  a 
piedi , nè  potendosene  rattenere , ne  andò  supino  a 
terra.  Or  questo  rovescio  , indizio  che  egli  di  necessità 
cadrebbe  per  una  miseranda  caduta , questo  rovescio 
fàcilissimo  da  intenderlo  senza  calcoli  e divinazioni,  an- 


Vejo  è il  fiume  Cremerà,  e che  da  questo  fiume  fu  denomioaio 
Cremerà  il  caetello  edificato  da  Romani  contro  di  Vejo.  Qui  ai 
•crÌT»  che  non  vi  è niun  fiume  il  ^oalc  dia  troppo  fredde  le  aure 
del  mattino  : che  anche  senza  fiume  vi  abbondano  le  acque.  Questo 
esservi  e non  esservi  un  fiume  & concepire  che  lo  scritture  del  com'.^ 
pendio  non  è Dionigi. 


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4oO  DELLE  ANTICHITÀ.’  ROMANE  LIBRO  XIlJ 
che  da’  meoo  periti , questo  egli  ■ noi  pensò  degno  da 
guardarsene  e da  espiarsene  f ma  lo  ridusse  tale  da. 
consolarsene  come  se  li  Numi  avessero ‘esaudito  le  pre< 
ghiere  di  lui , con  operare  che  gli  avvenisse  il  meno 
de’ mali  ».  ' . 


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/ 


. ' ' ! - - j.’ - 4®* 

‘ ' DIfcLLE 

/ANTICHITÀ  - ROMANE. 

- ^ ^ ^ ' D I ^ ^ - 

' ' ' ' ' 

DIONIGI  ALIGARNASSEO 

* *• 

» ' • ■ t I . , 


LIBRO  DECIMOTERZO. 

SUPPLEMENTI  (i). 


I.  « 'IVEehtiuC  Camilio  assediava  la  citlA  de'  Pali-/ 
sci  (a),  un  di  qumi  aia  che 'disperasse  della  patria,  sia 
che  spiasse  l’ utile  suo  , .tradendo  i fanciulli  delle  fami> 

glie  pii\  illustri  a' quali  esso  era  maestro  di. lettere,  li 

\ » * 

' • t * 

(i)  Narrano  che  Dionigi  divise  il  suo  campcndie  in  cinque  libri. 
Ambedue  li  codici  trovati  del  compendio  delle  aiilicbilà  non  hanno 
0 non  ritenpoiio  indiaio  ninno  della  distinsiooa  in  libii. 

(a)  Aaoo  di'  Roma  36o 

BfOHlGI,  urna  III.  j ,S 


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4o2  delle  Antichità’  romàne 
cavò  fuori  delie  porte  come  per  passeggiare  dinanzi  le 
mura  , e far  loro  visibile  il  campo  romano.  Poi  sionla* 
nandoli  poco  a poco  dalla  città , li  ridusse  presso  le 
guardie  Romane:^  queste  accorsero;  ed  egli  cedè  sé  stesso, 
e gii  altri.  Menato  a Camillo  disse  , che  da  gran  tempo 
egli  volea  rendere  la  città  de’  Romani  : ma  non  avendo 
in  sua  balla  nè  la  fortezza , nè  le  porte , nè  le  armi , si 
argomentò  di  mettere  nelle  mani  di  lui  li  6gli  ^e’dtta^ 
dini  primarj , consideràndo  cbe  necessiterebbe  li  padri , 
solleciti  di  salvarli , a dar  la  città  quanto  prima  ai  Ro- 
mani. E cosi  diceva,  immaginandosene  maravigliòsi  pre^ 
mj  pel  tradimento,  a 

II.  « Camillo , dati  da  custodire . il  maestro  e (i  fan- 

ciulli, scrisse  al  Senato  il  successo,  chiedendone  cièche 
fosse  da  fare.  ■ Lasciatogli  dal  Senato  di  lÀrne  il  lueglio 
che  a lui  ne  paresse  , egli  cavò  dagli  alloggiamenti'  il 
maestro  e li  fanciulli,  e fece  alzare* il  suo  tribunale  non 
lungi  dalle  porte  , presentandosi  immensa  la  folla  su  le 
mura , e dalle  porte.  Quindi  primieramente  distinse  ai 
Falisci  quanto  il  maestro  fosse  stato  ardito  di  olTeuderli. 
Appresso  ordinò  che  i servi  gli  traesscr  la  veste  , e lo 
canninasser  ben  bene  colle  sferzate  ; e quando  tal  pena 
gli  parve  bastare  ^ .allóra  ‘diè  delle' verghe  ai  fanciulli  , 
e fece  che  sèi  menassero  innanzi  alla  città,  legato  colle 
mani  al  t&rgo,  battendolo  e malmenandolo  per  ogni  ma- 
niera. I Falisci  ricuperalo  i fanciulli,  e punito  il  maestro 
in  proporzione  del  suo  malfare , sottomisero  la  patria  a 
Camillo.  «'  , I ' . , 

-•  , ^ - , f » 

III.  n Lo  stesso  Camillo  nella  spedizione  su  Vejo  (i) 

(i)  Anno  di  Homa  36o. 


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' ' LIBRO  XII. 

lece  volo  a Giunone^ 'Dea  sovrana  del  luogo,  di  collocarle 
se  prendea  Yejo  , la  statua  iu  Roma',  istitoendoveue 
insiemé  cpito  magnidco.  Pertanto  dopo  espugnalo  Vejo, 
man^ò  de’  cavalieri  più  rìguardevoli  a prendere  dalla  sua 
sede  it  simulacro.  Appena  gl’  inviati  vennero  al  tempio, 
r uno  (K  loro  sia.  p^erilmeitte  e per  beflTarsene , sia  per 
fame  l’augurio,  addimandò  la  Dea  se  voleva  tra^mn 
grarsi  a Roma , e colèi  soggronsè  volere  con  chiarissima 
voce  della  statua  ; e due  volte  lo  aggiunse.  Impérocchè 
non  potendo  que’  giovani  peiiuadersi  che  la  statua  fosse 
quella  che  «vea  parlato , replicarono  la  dimanda , e ne 
adirono  un*  altra  volta  la  voce  stessa  (i).  » 

IV.  «'Tra  il  comando  de’  consoli  dopo  Camillo  pro- 
ruppe in  Roma  un  morbo  contagioso  , apparecchiato  dal 
non  piovere  e dall'  anura  estrema.  Afflitti  con  4:iò  git' 
albereti  e li  senànati  porsero  frutti  pochi,  e nocevoli'  agli 
uomini  , e pascoli  scarsi  e malsani  ai  bestiami.  Odd’  è 
che  ■ il  male  consuase  pecore  e giumenti  senta  numero 
non  sedo  per<  la  inopia  del  cibo  ma  della  bevanda.  Tanto 
erano  scemate  le  acque  de’  fiumi  come  delle  altre  sorgenti 
nella  stagione  ' in  che  gli  'animali  più  assetano  I Quanto 
agii  uomini  i ne  perirono  pochi  solamente,  ridotti  a cibi 
non  provati  mai  per  addietro  ; gli  ahri  caddero  quasi 
tutti  in  malattie  terribili  le  quali  si  manifestavano  con 
picciola  eiflorescenza  e gonfiore^ sa  la  cute  esterna,  e 
degeneravano  in  ulceri  grondi',  simili  ^ alle  gangrcnc , 
molestissime  a vedere,  come  a 'soffrire.  Nè  s’-aveano  gli 

(i)  Vejo  e la  alalua  fu  presa  I’ auuo  358.  Ma  il  tempio  iu  I\vnia 
le  fu  (Vedicalo  l’auiio  362,  appuntò  ilopo  la  gucr^a'Fa^lsca.  E perù 
il  fatta  si  narra  iu  <juest’ auuo  che  dava  termine  SI  volo. 


4o4  DELT.F.  antichità’  ROMANE 

infermi  rimediq^-  alcuno  so  non  quanto  il  rodere  e il 
giaf6are  continuato  cagionava  lacerazioni  dalla' cute  alle 
ossa.  •»  ^ 

V.  « Dop9  non  molto  i trilmni  per  invidia  convo» 
carono  il  popolo  (i)  contro  Camillo,  e fecero^;  che  lo 
multassero  a dieci  migliaja  di> . • quantunque  non  igno- 
rassero che  U multa  eccedèVa  non  poco  gli  averi  di  ]ui: 
ma  ciò  vollero  perchè  messo  ' in  fcavcere  scapitasse  nella 
riputazione  chi  tanta  ne  avea  per  'hobitissiole  guerre , 
amministrate  per^  eecellenia.  Li ‘congiunti  e li  clienti  ac- 
cozzarono e diedero  la  son^ma-  richiesta  afBnchè  egli 
non  soggiacesse  a vilipendj  ; ma  H valentnonio  riputando 
intollerabile  la  ingiuria.,  abbandonò  (a  patriq.  » 

VI.  « Nel  giungere  alle  porte  fra  gli  astanti  • addo* 
lorati  e piangenti  per  la  perdita  che  farebboho,  bagnò 
di  largo  pianto  anch'esso  il  senAbiante, -e  lamentò  la  in- 
famia in  che  era  mesio  dicendo  : > ^<n  -^umi  e Qenj 
esaminatori  dette  opere  de'  mortàli,  voi  giudici  siatCt 
prego , della  mia  condotta  verso  la  pàtria  e Hi.  tutta 
la  vita  mia  precedente.  E se  trovate,  me  reo  delle  in- 
colpazioni su  le  t/uali  il  popolo  mi  condannava,  da- 
temene ignominioso  e misero  il  fine  de'  giorni.  Ma 
se  in  quanto  mi  si  c^fidavà  dqltd. patria  in  pace , e 
in  guerra , ir»  tutto  vedete  me  pio  , giusto  , superiore 
ai  non  degni  sospetti  ^ voi  Genj  e Numi  vindici  mi 
siale  , voi  create^  loro  pericoli  e paure  donde  siano  ne- 
cessitati di  ricorrere  a rati , hón  trovando  altro  scampo. 
E così  dicendo  s’ incanantinó  alla  zittii  di  A'rdea.  • 

VII.  « E ben  gli  Dei  ne  ^Ascoltarono  la  preghiera: 

(i)  Auoo  di  Roma  ...  ’ * 


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LWBO  xin.  4o5 

Impcroccliè  tra  poco  I Galli  presero  la  etUA  senza-  il 
Campidoglio.  Riparàtiai  in  questo  i R^omani  più  distinti 
ri  erano  assediati',  mentre  la  moltitudine  si  era  dispersa 
per  le  città  d’  Italia,  (ii  'Romani  concentratisi  a Vejo 
fecero  loro  capitano  un  tal.Cedicio;  e Gedicio  nominò 
Camillo  sebliene  lontano  per  comandante  , arbitro  della 
guerra  e della  pace.  Poi  fattosh  capo  di  iegazione  esortò 
Camirìo  di  ciconciliarsi  alla  patria , redui^ia  in  sventure 
talp  che'  la  riducqvano  ad  invocar^  chi  aveva  oltraggiato.» 

Vili.  « E qui  .Camillo  disse':  non  abbisognano  ^ le 
esortazioni  o Cedicio.  Imperocché  se  voi  qui  non  ginn- 
gcvate  per  chiamarci  a parte  dell  opera , io  già  /ara 
sul  punto  di  venire:  a voi  con  la  milttia  la  quale  mi 
vedete  presente.  O Numi  o G<tnj  tutti  li  quali  risguar- 
date  in  vka  degU,Miemini^  io  vi  ringrazio  largamente 
di  ^quello  che  fin  qui  me  ne  deste:  e. vi  prego  cheti 
mio  ritorno  sia  fausta  per  C avyonire  e felice  alla  Pa- 
tria : Ah! -se  C.uornò  potesse  'antivedere  il  futuro  ; 
mai  chiesto  vi -avrei  che  Rama,  caduta  in  tal  Sorte  a 
me  ricorresse  : . mille  volte  anteponei  continuare  la  vita 
fuori  delle  emulazioni  e della  gloria , prima  che  io  ve- 
dessi Roma'  sotto  il  giogo  de'  barbari  condotta  a questo 
da  non  rimamele  altra  speranza  che  in  me  di  sai-, 
vezzo.  Ciò  detto  raccolse'  le  milizie , e col  solo  improv- 
viso apparir  suo  disperse  i Galli , finché  assalendoli  di- 
sordinati e turbati,  ne  fé  macello  comlo  in  ima.gr^ggia.  (i)a 

IX.  e Menti^'e  stavano  assediati  tuttavia  nel  Campido- 
glio quanti  ' vi  si  erano  ritirali  &.  spedito  loro  un  lai 
giovine  dai  Romani  di  Vejo;  e 'colui  venuto  e penetrato 
(i)  Anco  di  Roma  364<  - 


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4o6  DELLE  Antichità’  romane 
nel  Campidoglio  ^nza  farlo  conoscere  alle  guardie  de’ 
Galli , e dettovi  ciò  che  dovea , lie  riparti  Ira  la  notte. 
Fattosi  giorno  l’  uno  de’  Galli,  vistone  le  pedate,  lo  disse 
al  suo  re  (i):  questi  Convocando  i suoi  più  valorosi  ad- 
ditò loro  le  orme  del  Romano  asceso  nel  Campidoglio: 
E qui  stimolandoli  a far  cuore  ,■  e tentare  pur  essi  di 
salire  la  forlezsa  , prometteva  amplissimi  premj  al  fatto. 
Convenutisi  molti  per.  la  impresa , intimò  silenzio  aìlc 
guardie , alBncliè'  li  BomCui  le  credessero  f^ddoimite , e 
si  dessero  ài  sonno  anch'  essi.  » 

X.  a Già  erano  saliti  alquanti,  già  lasciavano  che  altri 
pnr  salissero , onde , fattosi  buon  numero  trucidare  le 
guardie  ed  espugnare  la  rocca , c tuttavia  ninno  de’  Ro- 
mani se  ne  avVedeva.  .Quando  le  oche  sarxe  di  Giuno- 
ne ^ tenute  nel , recinto  santo,  sebiamazoando  od 'avven- 
tandosi ad  un  tempo  cóntro  ‘de’  barbari , palesarono  il 
male.  Allora  si , ne  fu  tumulto  e strepito , accorrendo 
ed  esortandosi  lutti' alle  armi  ; Nondimeno  i Galli,  già 
moltiplicati  si  avanzavano  più  addentro;  n 

XI.  R Or  qui  Marco  Mallio  l’uno  de’ consolari,  dato 
«li  piglio  alle  armi , e fattosi  a resistete,  mentre  il  primo 
de'  salitori  gli  era  colla  spada  sul  capo , ne  prevenne  il 
colpo , ferendolo  nel  braccio , e troncandone  il  cubito. 
Quindi  idnanzi  che  venire  alle  mani  percoteiidolo  collo 
scudo  elevalo  lo  stese  a terra , e ve  lo  uccise.  ‘Appresso 
violentando  anche  gli  altri  già  perturbati dove  ne  uc- 
cideva, c dove  nell’  incalzare,  li  precipitava  dall’alto. 
'Per  tanto  valore  ne  eb'be  da  quelli  del  Campidoglio,  un 

't  * X 

(i)  Qiicslo  picciolo  re  sì  cliiitxiaTB  Hr^nno.  Livio.  5.  4^. 


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LIBRO.  XIII.  ' 1^0'] 

dono,  pari  alle  ciroostaoze,  in  tanto  farro  e vino,  qnanto 
ne  era  il  villo  giornaliero  di  ognuno.  » 

XII.  'K  Appresso  6nita  la  inquisizione  sa  quanti  aveano 
mancato  alla  guardia  del  luogo  nel  t^mpo  che  vi  asce- 
sero i Galli , il  Senato  condannò  tutti  alla  morte  : ma  il 
popolo  , ridotto  più  mite  , si  contentò  della  morte  di  un 
solo  de’  capitani;  la  quale  affinchè  fosse  palensaima  ai 
barbari , legarono  ad  esso«  le  mani  dietro',  e lo  precipi- 
tarono dall’  alto  fino  a loro.  Dopo^  questo  supplizio  non 
vi  era  più  negligenza  nelle  guardié,  ma  vegliavano,  tutù 
tutta  la  notte.  .>  Adunque  disperando  i barbari  prendere 
la  fortezza  per  inganno  o di  furto-,  si  diedero  a trattare 
del  prezzo , cui  dato , i Romani  riavessero  la  cittù.  » 
XIIL  a Dopò  giurati  gli  accordi;  i Romani  portarono 
r oro  , e Vckiticinqae  talenti  era  la  somiina'.la  quale'  do- 
veano  ricevere  i Galli.  Disposta  la  bilancia  ècco  il  Gàllp 
imporvi  un  peso  maggiore  deKgiusto:  se  ne  querelarono 
i Romani  : ma.  il  nemicò-  tanto  fu  alieno  dal  rettificarlo, 
che  lo  aopmccaricò  delia  sua  spada,  levatosela  dal  cinta 
E chiedendo  il  questore  che  volea  mai  significate  quel 
fatto  ; rispose  , ^ubt  pò  vinti.  E poi  che  il  peso  ivi  po- 
sto, ampliato  com’  era-,  non  si  pareggiava , anzi  mancava 
un  terzo'  di  tanto , i Romani  si  ritirarono  chiesto  tempo 
da  raccoglier  l’ intero.  Sosteneano  tanta  insolenza  ignari 
delle  cose  operate  ] come  al>biàm  detto , in  campo  d<t 
Cedicio  e da  Camillo.  » , - ■ 

XIV.  o^Quekla  fa  poi.-ht  cagione  del  venire  de’  Galli 
nell’  Italia.  Lucumone  .un  tal  capo  di -Tirreni  ornai  sul 
fin  della  vita  raccomandò  la'  cura  del  figlio  ad  un  suo 
fìdo/chiamato  Arante.  Morto  il  Tirreno,  AfuiHtc  assunse 


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4o8  DELLE  ANTICHITÀ.’  ROMANE 

la  'cu«a  sollecito  e puntuale  della  sua  fede  verso  il  fen- 
ciullo.  Al  quale  già  cresciuto  rassegnò  quanto  gli  era 
stato  affidato  dal  padre:  non ‘però  ne  ebbe  da*  lui  pari 
corrispondenza.,  a ^ , 

XV.  a Area  questi  una  moglie  formosa,  e giovane , 
e cara  a lui- siogolarraente  , .come  un  Got;e.  Gui  qui 'di 
pudicizia.  ' Ma  il  giovinetto,  presone  dalP  amore,  tae  cor- 
ro|>pe  il  'corpo  ad  un  tempo  e lo  spirito;  converseodola 
oibei  Uòndi  nasposto^ma  palesemente.  Addolorato  Arante 
per  lo  distacco  della  donzella  non  più  reggeva  alia  in- 
giuria-, cbe  ne  avea  da-  ambedue  : né  potendo  pigliarne 
Vendetta  si  mise' ad -ùn  viaggio  sótto  .vista  di  liegoziare. 
Udì  con  trasporto  il  giovine  lo  andare  , dandogli  ciò  che 
era  l^sogao  ai  goadàgiii,'  e T altro  poftò,  nelle  Gallie  molli 
earri  eoa  Q^i  di  vinoV  di  olio  ^ e 'tnollr.'ata  ceste >di 
fichi,  a ' r ‘ . 

a I Galli  di  quel  di' non  conoseeano  il  vino 
delle,  vili,  nè  1’  olio-,  quale  fi'a-uoi  1q  danno  ie  olive: 
ma.teneano  vin  d’orab,  festnefatato  in  acqqà , ó foglia- 
me. tetro  all*  odore  , usando  per  olio  ^assi  vecebj  di 
porco  , ingrati  a odorarne  e gustarné/>  CoiQe  provarono 
frutti  non  prima  gustati  ne  presero  dilatto  masaviglioso, 
iuierrogaodo  il  forestiere , dove  e come  ciascuno  di  questi 
si  generasse,  n -'t  ■ 

XVII.  « E. colai  replica*,  the.'iimpìa  e buona  è la 
terra  che  li  produci , è questa  posseduta  da  uomini  , 
pochi  di  numero:  uè  punto. migliori  delle  Jìemraine  in 
far  guen'a.  Suggeriva;  ,chc'non  ricevessero  più 'tali  cose 
dagli  altri  ad  on  péezzq,  ma  cacciassero  i possessori  an- 
tichi, e se  le  appropriassero.  ( i ).  Mossi  da  quel  dire  ven< 

(i)  I Carri  qui  noioioau  dicnandano  uar  via  già  uottiunt  • nota 


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' LIBRO  XIII.  4*^9 

nero  i .Galli  nell’  I^taiia,  e portarono  la  gaerra  ai  Tirreni 
di  Chinn , donde  era  colui  che  li  avea  persuasi.  » 

XVI|I.  ( 'Era  giunta  un*  ambasceria  da  Roma  ai  Galli  ; ' 
Ina  come  Q.  Fabio  il  capo  di  quella  udì  che  i barbari 
erano  usciti  a foraggiare  , si  diede  a combatterli , e ne 
ndeise  il  capitano.  I barbari  spedirono  a Roma  chiedendo 
che  si  consegnasse  Wo  questo  Fabio  ed  il  fratello,  onde 
subir  la  pena  dell*  uccisione,  a ' ' ' . ^ ' 

XIX.  « Differendo  il  Senato  la  risposta.,'  i jGalli''‘di 
necessiti  trasportarono  la. guerra  verso  Róma  (i).  Udita 
ciò  i Romani  uscirono  dalla  città  con  qòaitro  tegÌ9ni  di 
soldati  scelti  e veterani  : e con  numero  ancora  maggiore 
d'  ipqqilìni  , di  oziósi , e di  altri  uteno  consueti  alle  ar> 
mi.  Ma  i 'GaRii  ne  misero  in  fuga  la  molhtudine  , ed 
occuparono  tutta  Róma  , salvo  il  Campidoglio. 

v Con  c'ò  gran  eommrrcio  praesdente.  Cioachè  non  ti  accorda  con 
la  DoTÌlà  deacriiia  .dei  prodotti  recati  da  Aruoti  nelle  Gallif.  Won 
a facile  a connidemi  ube  una  natione  ai  ecciti  e commo^a  a tfa- 
tmtgrare  pa’ racpooti  dì  un  aTTeuttrriero.  Livio  tcrive  Iv  5.  i4> 
.Eoa  ( Gallt  ) ^lu  oppufinavtrunt  CUuiunì . non  fuh$t  qui  primi  alpet 
trantUrint^  latù  óonstat.  0uel  .aarii  eo/iitat  impoHa  Alt  lai  «ni- 
diaione  era  comune  in  Roma  a'iAreno  Ira!  leueraii  'oi  t,empi  di  Livio, 
che  sod  (joelli  di  Augatcn  ,,  .nel  cui  regno^^  anche  Dionigi  vino,  io 
Roma  luogo  tempo.  Panai  duiiqae  da  coocluderbe  che  lo  scritto  ai 
risente  di  alquanto  nosiooi  te  'quali  .uoo  erano  del  diligentissimo  aa- 
tore  della  aiilicbità  : ciot  questo-  tjompoodio  k di  t>n  greco  il  quale 
non  essendo  £>rao  vivulo  nell*  Italia  , S compendiando  Dionigi , 'vi 
lasciava  conoscere  la  vena  dell*  ingrfpio  ano  non  ai  para  quanto  quella 
di  Dionigi.  ■ ; ' s * 

(t)  Anno  di  Roma.  551.  * ' • •'  . ‘ ' 


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4io 

DELLE  ’,  •!  '• 

* » • f ' 

■ ANTICHITÀ  ROMANE  - 

DIONIGI  ALIGARNASSEO 

) V 

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’ * t • 

LIBRO  DEGIMOQUARTO.'  : 

^ ^ SUPPLEMENTI  E FRAMMENTI. 

* » ■ i ' ' ' - , 

- , A • • 

' L « 3tA  la  Gallia  nel|a  parie  qccideatale  di  Euro- 
pa tra  il  polo  di  tramontana  e 'r'equatorv.  Quadrala 
nella'  figura  confifia  verso  1’  oriente  colle  Alpi , altissime 
tra’  monti  di  Europa , verso  il  mezzogiorno  ed  il  vento 
Noto  co’  monti  Pirenei verso  ponente  col  mare  di  là 
dalle. cdlomie  di  Ercole,  e Onalmcnte  collo  Scita  e col 
, Trace  veiw  il  Settentrione  ed  il  Danubio,  6ume  il  ipale 
Scende  gii'i  dalle  Alpi , grandissimo  infra  Uiui  iu  quei 
luoghi , ed  il  quale  trascorse  tutte  le  terre  boreali , sbocca 
nel  mare  del  Ponto,  a 


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LIBRO  XIV.  4 * * 

II.  « Tanta  ne  è ia  grandezza  , che  tien  poco  meno 

delia  quarta  parte  d’  Europa.  Irrigua  , pingue  , ricca  di 
frutti  ,*  c bonissima  da  pascer  gii  armenti  è tagliata  in 
mezzo  dai  Reno,  ii  quale  sembra  il  più  grande  de’ fiumi 
Eluropei  dopp  deli’  4tro  : la  parte;  di  qua  dal  Reno  la 
qual  confina  cogli  Sciti  e co’  Traci , è .sdetta  'Germania 
dalla  selva  Ercinia  fino -a’ monti  Rifei  : nla  la  parte  di 
U dal.i  fiume  la  quale  è rivolta  a mezzogiorno  fino  ai 
monti  Pirenei , ^ quesu  , abbracciando  il  seno  Gallico  , 
prende  il  nóme  di  Gallia  da  quel  .mare.'  » ' ^ ' 

III.  « Ti)tta  poi  con  vocabolo  .cómone  tea’  Greci  è 
detta  CeUioa  da  CcltO , un  Gigante  phe  ivi  regnava  se- 
condo alpuni  ; ma  per  altri  si  favoleggia  che  da  Ercole 
e,  da  Asterope  Atlantide  nacquero  ’ due  figli  Ibero  e 
Celto  , i quali  diedero  il  nome  loro  a’  paesi  dominafi 
da  essi  : Nondimeno  altri  narrano  esservi  ' nn  * fiume, 
Celto  dì  nome  , il  quale  scaturisce  da’  Pirenei  e pel 
quale  prima'-fu  detta  pitica  la  regione  vicina  , e coll’  an- 
dare del  tèmpo  anche  la  più  .lontana.  Finalmente  per 
altri  si  aggiupge.  che  quando  i primi  Greci'  furOn  messi 
n queste  ragioni,  le  navi  rapite  dall’  impeto, de’  venti 
corséro  a .riya  (i).  .entro  il  Gallico  seno  : e che  gli  uo« 
mini  presavi  terra  chiamarono  Celsica  la  regione  , ap- 
presso Celtica  detta  da  posteri  coi  mutarne  una  lettera.» 

IV R In  .Atene' nel  recinto  sacro  di  Erittonio, 

figlio  della  terra,,  i’ olivo  ^ sacro  piantatovi'  da  Minerva 
quando  disputava  cott  Nettuno  per  quella  regione ,'  bru- 
ciato da’ barbari  mentre  teneano  Ja  cittadella , nel  giofno 

‘ I 

(i)  Corsero  a liva,  ap|>rodar(7ao,  nel  lesto  edeltan,  donde  celtico 
e poi  ceillca,  , , 


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4i3  delle  Antichità.’  romane 
dopo  V incendio  generò  dal  ceppo  un  tirgnlto  , come  dì 
Un  cubito , volendo  gli  Dei  manifestare  ^e  ben  presto 
la'  città , ricreando  se  stessa,  darebbe  germi  novi  in  vece 
degli  antichi.  » ' 

y.  H Anche  in ‘Roma  il  picciolo  tempio  di  Marte  in 
cima  al- Palatino  ,<  bruciato  con  le  case  intorno  sino  ai 
fondamenti  quando  sé  ne  ' purgè  il  terreno  allhie  di 
ciedidcarvi , conservava  tra  le, -ceneri  intatto  il  simbolo 
che  la  titià  si  rifarebbe  , io  dico  una  verga  , curVf  da 
uno  degli  estremi , .come  ritorto  è il  baston'dei  bifolchi 
e dei  pastori,  che  i, Greci  chiamano  ìagobota  , e colla 
quale  Romolo  dovendo  prender  gli  angurj  descrisse  i 
siti  ove  prenderli,  quando  era  per /ondar  la  città,.... 
coll’  esercito  dpedlto  , sene’  altro  chele  ^mi  . . S.  .scop- 
piando uno  strepito  come  in  speitacelb  grandissimo  per 
ndienca  bellissima  altri  stupefatti  da  vorO , ed  altri  in 
apparenza  a pieno.  » - • • 

VI.  « Manlio  segnalatosi  tanto  , '(juaudò  i Romani 
cercarono  scampo  nel  Gampldo^io  » ora  incorso  in  pe- 
ricolo estréiho  per  la  incolpazione  di  aspirar  la  Tiran- 
nide ( l)  ^ riguardando  al  Campidoglio , è stendendo  le 
roani  verso  il  tempio  ivi  poVtò-  dr .Giove,  disse  : iVora 
rord  dunque  bastante  a salvarmi' nemmeno  quel  luogo 
che  io  a tulli  voi  conservai  quafido  era  già  tra  'le  mani 
de’  bttebari  ? ■ Io  che  ivi  mi  . esponeva  allora  per  voi 
tutti  òlla  morte  , ord  alla  jaorte'  sarà  consegnalo  da 
VOI  ?■  Impietositt.  a tal  dire  lo  rilasciarono  per  qt^el  gior< 
jio,’oia  nel  seguente  fu  prepipitato  -daHa  lupe.  » 

VII.  «Prevalendo  centra-  I.  nettaci,  e riemp'endo 

(i)  Anno  di  Rema  !t^o. 


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'libro  XIV.  • 4*^ 

r e^rcito  suo  di  utili , Tito  Quinzio  «dittatore  in  nove 
giorni  prese  nove  cittÀ  nemiche  (i) Rinchiusi  da 


ambe  Ic  parli  erano  gU  iniquissimi  trucidati^  come  una 
greggia.  » ■.  ' - ' ' - • 

VllL  Marco  Furio  - Camillo  dittatore  fu  ora  quanti 
fiorirono  nell’  eià  sua  1’ uomo  il  più  insigue<^  nella  miti» 
zia,  ed  il  più  sapiente  nel-govbrqO  della  cepubblica.(a). 

Sonò  pur  generosi  i Romani.  Gli  .altri  popoli  di- 
rigono quasi  lutti  nelle  private' ò pmbhliche  cose  i prò* 
prj.péiuieri  a norma  del  termine  degli  eventi,  ora  de* 
pope»do  le  grandi  inimicizie  per  tenui  .^benéScenze , ed 
ora  le,  antiche  amicizie  ripadiando  per  offese  lievissime. 
Per  J’  'op{tosilo'>  'i  Romani  pensano' chò  debbasi  operare 
ben  alirimen)Ì<con  gli  amicLj  < e che>  debbasi  a’  vecchj 
benefìzi  sagrificare  la  coliéra  per  gli  oltraggi  recenti. 

IXt  -Cerltmenle  della  Romana  grandezza  ben.  fu  me- 
raviglioso. quel  ^axto,  che  non  malmenarono,  pia  lascia- 
rono ille^  tjttti  i Tuscolani  ‘^u^ntuòque  colpevoli  f tna 
più  meraviglioso  ancora  fu  quanto  eòncedesouo  ad  essi 
dopo*  il  perdono  (3).  Imperocché  fattisi  % provvedere  che 
non  .saccedesse  più  nòlla  di  Simile.,  nella  loro  città  , né 
più  ci  avessero  alcuni  comodità  di  far  cose  nuove , non 
conclusero  già  di  mettervi  guarnigione  nella  fortezza , nè 

(l'I  Anno  di  Roma  }-4-  , ^ 

(a)  Questo  e li  tre  seguenti  paragrafi  sono  fratOmeaii  dei  venti  libri 
delle  autichltà  Romane  acUtte  da  bioaigt  e àul''  dal  Gomptndjo  ; 
aono  picciolo  parti  dèli’  opera  vara' e noi»*  parti*  derivata  altronde 
per  supplirla,  il  tasto  grec»  e-la  tradaàioqe  latina  ai  ara  atampata 
più  volte.  Li  framosenti  ai  dislingtsuao  dal  non  avere  l«  virgole  nè 
in  principio  nù  in  fin^  dei  paragrafi.  ' 

(3)  Anne  di  Roma  3^3 . ' . > . . < 


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4l4  DELLE  ANTICHITÀ.’  ROMANE 

di  esiger  gli  ostaggi  dal  ceto  più  riguàrdevole  , nè  di 
levare  le  armi  a chi  uè  teneva  , di'  porgere  indiz) 
comunque  di  amicizia  malGda  : ma  persoasi  /che  il  mezzo 
ohde  tenere,  concordi  fra  loro  i congiunti  di  4micizia  o 
di  saogue.èrl*  uguaglianza  sola  de’ beni,  delibehirono  di 
concedere  ai  vinti  la  cittadinanza  • accomunandoli  a tulli 
i diritti  quanti  ne  hanno  i Romani  (i). 

X.  Nel  elle  presero  ben  altra  via  che  gli  Ateniesi  e 
li  lacedemoni  ( nè  già  rileva  parlare  di  altri  della  Greca 
nazione)  qòando  ambirono 'dominare  la  Grecia.  Impe- 
rocché, per  offesa  ricevutane,  gli  Ateniesi  straziarono 
cQsl  - duramente  e brutalmente  i Samj,  popolo  da  essi 
disceco,  e gli. Spartani  quello  de’ Measenj , 'non' distinti 
da  loro  se  non  quanto  fratelli  ; che,  rotto 'ogui' vincolo., 
e soggiogatene  le  città,  uon> lasciarono  contro  il  sangue 
loco  eccessi  ùi  oltraggi  che  i barbari  più  empj  potessero 
sopraggiungervi.  . ^ - 'i'  . 

'XI.tE  potrei  allegare’  altri  errori' infìnhi  'di  quelle 
repubbliche  ; ma'  li  tralascio;  giaocbè  spiaeemi  ; - fino 
l’aver  menzionato  gli  ànzidetti.  Imperocché  vorrei  che 
la  nazione  Greca . si  distinguesse '‘dà  . quelle  de’  barbari 
non  col  nome  solo. e col  dialetto;  ma  per  la.inlelligeoza 
eia  scelta  delle  utili  costumanze;  c sopratthtto  che  infra 
loro  noit  si  desolassero  con  ingiurie  più  che  disumane. 
E <piei  che  por^np  in  ^ tali  mas^ipie , quelli  nomino 
(V)«,Tilo  Livio  cosà  patio  di  un  tal  fatto  neU'aouo  3^3  di  Roma: 
Tantwh  jf^rò  t'trliOruM  a Tutculànù  in_SehaUi  factum.  Paeem  in 
IfratieMia  , nec  tnuhojuul  CitiUaUrH  (mpeirarerani.  E pali’ auuo  377 
desarìve  i,-Laiiai  accesissimi  dalU  ralibia  perche  i Tuscolani'derrrto 
caruuni  concilio  Latinorum  non  (n  tociclalctù  /nodo  romanorum,  sed 
ctium  in  civitatem  tese  deditsenl. 


r 


. ' LIBRO  XIV.  ^l5 

Grpci , come  barbari  ^li  altri,  che  altre  ne  portano.  E di 
colorp  io  conio  le  risoluzioni  e le  opere  come  per  Grò* 
che  se  umane  sieno  e benefiche;  ina  per  Greche  affatto 
non  lengOie  se  crude  aieno  e ferali  ,'prìqdpaimente  contro 
i paretui  e gli  amici.  Del  cesto  i Tuscolani , presa  la 
loro 'Città,  non  che  essere  spogliati  de’ beni  loToy  ^ non*  ^ 
che  arerùe  P.  amicizia  ; parteciparono  anche  • ai  ‘ beni  ^de’' 
vincitori.  , 

Xn.  « I Galli,  con  altra  spedizione  contro  Roma 
presero , ,e  manomisero  la  tèrra  Albana  (IJ.  Dove  em- 
piendosi dr  cibo,^e  del  vino  parò  (piale  ivi  si  genera, 
il  pià  soave  dopo  il  falerno  , e moleo  somiglievole  al 
mnlsO  , e dandosi  oltre  P usato  al  sonno , e per  lo  più 
standosene  all’ombra  , s’  eran  tanto  impingua  ti , ingen- 
tiliti / snet%ati  , dre.  ee  tèlvolta  eran  posti>  ad  esercitare 
i lor  corpi  o faticare  nelle  armìv  ne  ausavano  di  con- 
tinuo, e vi  grondavano  dal  sudore,  costretti  a desisterne 
innanzi  P awiSo  de’ capitani  ».  . 

XUI.  ‘ a Udito  ciò  f ' Camillo  dittatore  de’  RomaOi , 
adunò  le  sue  milizie , e condonò  • tra  loro  , . assai  vivifi- 
(»ndole  ad  imprèndere:  0 ‘Romani  ^ e^i  disse,  nói 
abbiamo  assai  più  cùU  it  nemici  benfatte  le  arme , le 
corazze  y gli  elmi,  gli  stivali,  gli  teuài  saldi,  coi  tiuaU 
guardiamo  tutto  il  corpo  , le  spade'  d due  tagli , ed 
in  luogo  dell  asta,  saette  iP  irreparaòH  colpo.  Le  armi 
colle  qutdi  ci  copriamo  son  tali'da  ndn>  fdcilitare  su 
noi  le  ferite:  laddove  quelle  con  lè  quedi  nodiamo  'ci 
abilitano  per  ogn  impresa.  B poi  - ruiao  è il  càpo  dei 
nemici,  nudo  il  petto  ed  i lati, 'nudo  il,fem&re  è la 
( 1 ) Aiuio  di  Roma  S87 . " . 


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4l6  DELLE  XNTICHn:A’  ROMANE 

gamba  mfino  piedi.  Altro  noti  hanno  die  li. mu- 
nisca se  nonf  lò'  scudo  : nè  adiro  <on  ^che  assalgano 
se  non  lance  , e lunghe  sciable  ».  '•  ' ^ 

XIV.  « ■//  lut^os  tlove  ‘combatteremo  ajuta  noi.  li 

giudi  caliamo  dati altOr  dovendo  essi  venirp  da  basso. 
Nitsno  di  voi' tema  per  la  rnoUitildine  , niuno  per  la 
slauira  del- nemico,  e niuno  per  tedi  varttaggì  di  lui 
si  disanimi  alla  battaglia:  anzi  pensi  che  un  picciolo 
esercito  , pratico  di  -fió  che  dee  fare  vale  assai  più 
di  un  esercito  ^ mtmeroso  e mal  pratico  : e pensi  che 
chi  combatte  per  le  -sue  cose  's"  it^randisce  per  natura 
ai  perìcoli  conte  fro'-t  entusiasmo  di  chi 'rapito  è 'dai 
Nume,  laddove  ne’  grandi  cimenti  suol  mancare  t,  ar- 
dire a chi^  appetisce  f <^jrui  •».,  * . ‘ 

XV.  « Noihmeno  voi  dovete , fognasi  ignari  di  guer- 
ra., temere  guelle  cose  i colle  eguali- imparano  e co- 
sleraano  prima  venire  alle  mani.  Potrebbero,  mai 
darvi  spavento  nelC  assalirgli , le  folte  tapellature  , i 
sguardi  cupi,  o il  truce  pspetlo  ? E U strani  salti, 
Jó  agitar  vario  -delle  '‘armi  , f > tanto  picchiar  degli 
scudi  , e guani  altro  ostentano  di  barbara  e stolido  a 
bravar  t inimico  , guai  vantaggio  daranno  ad  essi  i 
guali  assalgono  senza  regola  , .a-,  guai  mai  terrore  a 
chi  con  tanta  re^la  sta  tra  i pericoli  ? » 

XVI. ,  B Considerando  tali  cose:  voi  tutti  guanti  ne 
foste  nella  prima  guerra  cpì  Galli  e guanti  non  vi 
foste , non  ‘diserrate.'  o voi  ohe  vi  foste  C arUica  vir- 
tù , col  temere , e;  vai  che  non  virfbste  non  siate  da 
meno  che  gli  altri  net  jegntdarvi  co' fatti  (i).  Andate 

(i)  La  prima  gnarra  ocoqrae  l’ aooo  364  I*  acMiida  ueii’337 


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LIBRO  XIV.  4 * 7 

bravi  giovani  : dimostratevi  degni  de'  padri  valorosi , 
correte  intrepidamente  al  nemico  ; Sarà  con  voi  la  ' 
mano  degC  Iddìi  per  tentarvi  à punire  • quanto  volete, 
questi- impìacabili.  Io  vi  son  duce,  al  qucde  tanto  te- 
slificate  buon  senno  e Jbrlunà.  Da  ora  in  poi  saréte 
felici,  sia  che  riporterete  alla  patria  la  iwbilo  corona 
della  vostra  virtù  , sia  che  qui  finendo  la  vita  lasco- 
rete  a’  teneri' figli]  e ai  vecxhj  padri  per  un  fragile 
corpo  una  splendida  fama  immortale.^  Ma  già  non  è 
più  da  tenervi,  Ecco  t irUaùco  sen  viene  ; ofidaie , 
presentatevi  in  schiera  ». 

XVII.  « Era ‘'il  combattere  de’ Barbari  ansi  brutab: 
e maniaco  senza  le  cure  e la  scienza  delle < armi.'  Ora 
alzando  le  sciable  le  abbassavano  al  colpo  , abbande- 
nandovisi  con  tutta  la  persona , quasi  tagliatori  o fos-  '' 
saiuoli  : ed.  ota  sènza  mira  le  'menavan  di  fianco  , in 
vista  di  tronctb^e  ad  un  tempo  1’  armatura  e'd  il  corpo 
al  nemico.  • Ond’  è che  disestavano  il  uiglto  de’  ferri  . 
loro  ».  ( " 

XVIII.  « Laddove  ne’ Romani  -èra  acconcio  il  valore, 
c ben  sicuro  l’ artificio  contro  de’  Barbari.  Peroccìiè 
mentre  questi  teneano  le  scifible  alzate  , i Romani  si 
fàceano  sotto  ai  bracci  loro  con  lo  scudo  in  testa',  e 
curvi  e- ristretti,  ne  rendevano  i colpi  inoperosi  e vani: 
e frattanto  co’  pugnali  diritti  li  ferivano  nell’  anguinaja  , 
o sotto  alle  coste,  o ne  solcavano  tra ’l  petto  la  piaga, 
fino  alle  viscere.  Che  se  vedevano ’^i  parti  difese,  U- 

, J 

Tculiuè  aaiii  dopo.  OnJ’ù  clit  duo  mòlli  saraauo  stali  ia  ambedue 
l«  goffra.  • ‘ , t 

D70NXCX , tomo  ///.  ' 97 


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4*8  DELLE  ANTICraTA.’  ROMANE 

gliavano  loro  i nervi  de’  ginocchj  ^ de’  malleoli , tanto- 
ché ne  cascavano  a terrf  iremeado  .e  mordendo  gli 
scudi , e gettando , quasi  bruti , voce  di  ruggiti  ». 

XIX-  « Già  veniva  meno  la  fama  in  molti  de’ Bar- 
bari , abbandonandosene  le  membra  dalla  stancbesaa  ; 
intanto  che  altri  tenea  l’armi  ottùse,  altri  rotte,,  ed  altri 
disabilitate  in  tutto.  Imperocché  oltre  il  sangt^e  il  quale 
scorreva  dalle  ferite  , sciolti  per  ogni  parte  in  sudore  , 
ornai  non  potevano  più, né  dominare  la  sciabia  né  so- 
stenere lo^  scudo , non  prestandosi  le  mani  a stringere, 
né  a colpir  con  vigore.  Per  contrario  li  Romani  tolle- 
ravano tutto  virilmente  , indurati  ai  lunghi  travagli  di 
guerre  indefesse  e continue  ». 

XX.  « In  Roma  occorsero  molti  segni  divini  de’ quali 

fu  questo  il  più  grande  (i).  11  Foro  si  sprofondò  verso 
il  mezzo  in  voragine  cupa , ripaanendo  più  giorni  in 
tal  modo.  Quelli  che  presiedono  agli  oracoli  Sibillini , 
consultatine  per  decreto  del  Senato  i libei  sadri , rispo- 
sero ebe  la  terra  quando  avesse  ricevuto  preziosissima 
cose  da'  Romani  , ricongiungerebbe  , e renderebbe 
mòlla  r abbondanza  di  tali  cose  nell  divenire,  A tali 
presagi  ognuno,  recò  nella  voragine  oblazioni  de’  beni , 
creduti  bisognare  alla  patria , il  fior  de’  prodotti , e le 
primizie  delle  altre  cose  ».  ... 

XXI.  R Marco  Curzio  però  stimato  uno  de’  giovani 
primafj  per  saviezza  e valore,  chiestane  la  udienza, 
disse  in  Senato  : che  il  valore  degli  uomini  è il  più 
bello  , è il  più  necessario  de*  beìil  pe'  Romani.  Che 
se  là  terra  ottiene  tuia  oblazion  di  valore,  e si  trovi 

(ì'j  Anno  di  Roma  393.  • 


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LIBRO  XIV.  4*9 

ehi  la  consacri  sponUmeamente  alla  patria , allora  la 
patria  genererebbe  jn  copia  de’  valentuomini.  E qui 
soggiungendo  che  egli  non  la  cederebbe  ed.  alciiao  la 
tal  gare  • prese  1’  èrmi  e H cavallo  da  guerra  > e vi 
ascese.  Accorsa  la  molUtudine  'urbana  allo  spettacolo  , 
egli  primieramente  fece  voti  alBncbè  11  ^umi  avvèrsa- 
aero  l’ oracolo  , e facessero  nascere  molti  , eguali  a lui 
di  valore  bella  patria.  Dopo  ciò  lasciate  le  redini  e ' 
dato  di  sprone  cavallò  precipitò  nella  voraginet  Sopra 
lui  furono  gittate  in  quell’  abisso  nioltè.  vittime  , nìolti 
frutti,  molte  ricchezze,  molte  preziose  Vesti  ^ «'molti 
oggetti  di  arti  di  ogni  maniera,  e senza  più  la  terra  si 
ricongiunse  ( i ) ■•  ' ’ 

XXn « Il  Gallo  area  corpo  straordinario,  il 

quale  molto  eccedeva  la  proporzione  comnne  ....  Li- 
cinio Stolone  stato  dieci  volte  tribuno  , quegli  il  ‘‘quale 
fu  capo  alla  fstitnzlone  delle  leggi  , per  la  'quale  dieci 
anni  fu  sedizione,  alfine'  vinto  iu  giudizio  e condannato 
ad  una  multa  in  danaro  ())  disse:  che  non  vi  è bestia 
alcuna  pià  callivà  del  popolo,  il  qutde  non  nsparmia 
nemmeno  chi  lo  sostenta  ». 

XXIII.  B Assediando  Marcio  console  que’di  Piperno , 
ridotti  senz’  altra  speranza  spedirono  a lui.  E Marcio  , 
indicatemi , disse , come  solete  voi  trattare  li  servi  li 
quali  dà  voi  si  ribellano  ? tome  si  dee  , soggiunse  il 
legato  più  anziano  , punir  chi  desidera  ricupenve  la 

r 

(i)  Sie  mai  ri  fu  questa  Toragiae , ciò  che  può  beo  essere,  ta 
ricoopuDtione  di  lai  mode  ò tutta  (àvolosa.  Livio  assai  propiiio  a 
tali  raceopti  aon  la- fiiTorisce.  Vedi  lib.  7.  4*  . 

(3)'.\nao  di  Roma  3^7. 


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4ao  DELLE  Antichità’  romane 
liberti  ncUiva.  DlIetUtosL  Marcio  del  franco  parlare , e 
se  nei , dicea , se  noi  ci  lasciassimo  piegare  a'  lispar^ 
miarvi  ogni  cruccio,  quali  pegni  ne  darete  voi  di  non 
farla  mai  più  da  nemici  ? q V anziano  tipigUava.  Sta 
in  te  o Marcio  e ne'  tuoi  Romani'  sperimetttm-lo.  So 
con  la  patria  Uberi  torniamo  , vi  ci  terremo  • pen 
sèmpre  costanti  amici  : ma  tali  mai  vi  saremo , 'se  ci 
astringerete  a servire.  Marcio  ne  ammirò  li  magnanimi 
M‘q^i , e sciolse  1’  assedio  ».  ^ 


/ 

\ 


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42t 


- ' D^I/LE 

ANTICHITÀ  RÒMÀNE 


D I 


DIONlGI  ALICARNASSEO 


t ■ 


* ^ ^ 


. . LIBRO  DECIMOQUINTO, 


. -SUPPl^MENTl  E FRAMMENTI. 


L « IV^EMTAE  i GaQi  guerreggiavano  Roma,  un  priil'» 
cipe  di  questi  sfidò  qm^lunque  de’ Romani  a venire  con 
esso  al  paragone  dello  armi,(i).  Un  Marco  Valerio  tri- 
buno proveniente  da  Valerio  PopUcola’  il  quale  insieme 
con  altri  ' Uberò  la  città  dai  tiranni  , si  fece  innansi  pel 
combattimento.  Venuti 'alle  mani,'  un  ooryo  .si.  mise  in 
su. r elmo  di  Valerio,  sgrid^do  e guardando  terribil- 
mente il  barbaro  f e se  mai  lo.  vedeva  portare  de’ colpi 
sul  romano  / gli  si  avventava  ora  colie  unghie  alle 
(i)  Addo  di  Roma  4»5.  j . ' ; 


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422  .DELLE  ANTICHITÀ’  ROMANE 
guance  lacerando , ed  ora  col  rostro  agli'  Occhi , pun- 
gendo. Tanto  che  il  Gallo  ne  andava  fuori  di  se  , non 
potendo  trovare  come  ribatter  1'  emolo  , nè  come  'guar- 
darsi dal  corvo  »!  ' ' 

II.  « Ma  traendosi  la  zuffa  in  lungo,  il'  Gallo  fu  col 
ft;rro  sU  T altro  per  internarglielo  coll'  impeto  nel  seno. 
Corsogli  il  corvo  agli  occhi  Onde  forarglieli,  colui  alzò 
Io  scudo  a respingerlo  : e tenendolo  alzato , il  Romano 
che  ne  seguiva  1e  mosse  , menò  da  basso  la  spada  , e 
lo  uccise,  Camillo  (i)  il  comandante  lo  insigni  .con 
aurea  corona  soprapnominaudolo  Corvino^  dall’  uccello 
compagno  di  lui  nel  combattimento  ; perocchò  li  Ro- 
mani chiamano  corvi',  gli  oicoelll  che  noi  coracas  chia- 
miamo. E costui  da  quel  fatto  ebbe  1’  elmo  ornato-  di 
un  corvo.  In  guisa  che  qùanti  fecero  statue  o pitture 
di  lui , lutti  gli  acconciarono  sul  capo  quell’  uccello  ». 

III.  « Devastavano  le  campagne  ricche  di  ogni  bene... 

nomini  sfìaiti  dalla  g^uerra  • e simili  ai  cadaveri , se  non 
quanto  respiravano  . . . Essendo  calda  ancora  la  penero 
come  dicono  dell*  ucciso  ...  Fu  vittin»  miseranda  del- 
r inimicO’Uomo  il  quale  saziava  la  iuvidia  sua  poi  san- 
gue civile  . . . Dispensò  tra’  soldati  parte  de’  vantaggi 
nè  questa  la  più  piccola,'  ma  tale*  da  sommergéK  frà 
le  ricchezze  la  inopia  dt  ciascùtlo  . . . diedero  il 'guasto 
ài  seminati’ già  colmi  per  h ' raccolta tnalmetiando  il 
meglio  dellB^ terre  fruttifere  »:  ' i ■ 

I • , . . . f I 

* * * • " ' t 

, (i)  Queste  Cemitlo  il, quale  apparisce  ora  aalHaaao'4e&  Roma 
i Uli  tìglio  del^ftmoso  Furio  Csmiflo  morto  i6  ano,!  adòiciro.  .Au- 
cb'esso  viute  S fugò  con  ifna  iniigue  battaglia  i Galli,  tuttavia  mo- 
lesti ai  Romani.  Livio  lib.  7.  aS.  aC.  '' 


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LIBRO  XV.  4^3- 

IV.  . . • Ma  percl^è  spesso  e molto  danneggiavano  i 
Campani  come  iorp' amici  (i).  Pertanto  -il  Senato  ro« 
manò  su  le  istanze  e lamenti  replicati  dé’ Campani  .con* 
tro  de*  Napoletani  spédi  a questi  ordinando  che  non 
più  nòcessero  ai*  sudditi  della  repubblica  ; ma  ne  aves- 
sero e rendessero  ciò  ch’  era  ^usto  -:  e nascendo  coih- 
(roversìe  fra  loro,  le  dJscutesserò  co’gindizj  non'cqlle 
armi , ' secQudo  le  convenzioni  che  ne  farcbbono  : del 
resto  mantenessero  la  pace  con  lutti  ìnlornó  i popoli  , 
non  corseggiassero  il  mare  Tirreno  né  tentassero  eséi 
per  sé  nè  .cooperassero  con  altri  imprese  disdicevoli 
ai  Greci.  Soprattutto  istmi,  gli  .ambasciadori  che  ’ cer- 
cassero , Se  venivano  il  destro , di  alienare  co’  bei  modi 
verso  de’  potenti  la  loro  città  dai  Sanniti , e renderla 
amica  di  Roma.  ' , . 

y.  Ti-òvavansi  di  quel  tempo  (a)  in  Napoli  come 

ambasciadori  di  Tatanto  uomini  rispettabili , e , po’  li- 

gami  del. sangue,  ospiti  antichi  di  que’ cittadini:  ma  por 

altri  ,vi  si  trovavano  inviativi  da’ Nolani , cooSuanti  dei 

Napoletani,  e tutti  dediti'  ai  Greci,  i quali  vi  brigavano 

in  contrario  onde  non  copcórdassero  co’  Ifomani  nè 

co'  sudditi  di  essi)  nè  lasciassero'  l' amicizia  verso  dei 

Sanniti.  'Che  .se  r Romani  set  pigliassero  a pretesto 

di  guerra  { rton  temessero  , nè  invilissero , come  in^ 

su^rabile  rie  fosse  la  forza  ; ma,  perseverassero  , e 

combattessero  come  i jbraoi  Grecf.,  confidando-  sù  le 
- » 

(i)  Manca  il  principio  dj  questo  raccolto:  puj>  coninliar^i  Livio 
nel  lib.  8 , c.  aa.  Questo 'pangrafo  e tutto  il  resto  del  libto 'sono 
Frammenti  veri  dei  libri  perduti  delle  aatichità  di  Dionigi.*  . 
(a)  Anno  di  Aoina  497. 


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/^24'  DELLE  antichità’  ROMANE 
schiere  proprie  ^ e su  le  ausiìiane^  che  verrehhono  dai 
Sanniti.  Riceverebbero  se  ne  abbisognavano  , pià 
delle  loro,  le  forte , navali  dà' TaretUim  , le  quali 
eran  tanUs  e. si,  buone. 

VI.  Adunato  il.  Sanato,  e tenutivi  molti  dlsconi  dai 
legati  « loro  fautori , vi  si  divisero  i senbmenti  : ma  li 
piu  autorevoli  parfianO  tenerla  ' pe’  Romani.  Non  fecesi 
per  quel  giorno  decréto  alcuno  , ma  riserbato  per,  altra 
sessìonè  l’esame  intorno  ai  legati;  recaronsi  a Napoli  in 
folla'  i primarj  de’  Sanniti.  Or  quésti  * Conciliandosi  con 
ossequióse  manio:e  i capi  del  comune-,  pregarono  il 
Senato  a far  si  che  decidesse  il  popolo  dell’,  utile  pub» 
blico.  Quindi  recandosene  all’  adunanza , vi  ricordarono 
i loro  benefizj  , poi  vi  fecero  le  mille  - accuse  di  Roma 
come  di  una  ingannevole  e perfida  : e finalntente  pro- 
misero- le  meraviglie  ai  Napoletani  se  deliberavann  per 
la  guerra:  vale  a dire  che  mauderèbbero  loro. milizie  , 
quante  ne  bisognassero  ‘ per  difender  le  ptura  , come 
Tarmata  e 4utta  la  ciurma  per  le  na#I.  Davano  insieme 
a vedere  che  subirebbero  tutte’  le  speso  guerra  non 
solo  pe’  soldati  proprj , m»  pe’  loro.;  che  respinto  T .e- 
sercito  romano  ■ ricupererebbero  ,Cuma  ,-  occupata  dai 
Campani,  erano  già  due  generazioni  {i),  .cén  esdnderM 
gli  abitanti  : che  renderebbero  la  patria  ai  Cumani , 
accolti  , quando  U perderono  , dai  Napoletani , e fatti 
partecipi  di  ogni  lor  bene:  che  'darebbero  ai  Napoletani 
un  trat^  assai  grande  del  territorio  che  tenevasi  dai 
Catppihi.  , - , ' r ' 

, vn.  Ih  mezzo  a .tal  dire,  la  parte  calcolatrice  dei 

(i)'Auno  di  Roma  335. 


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- . LIBRO  XV.  . 4^5 

Ntpoletani , la  quale  vedea  da'  .lontano  i mali  xhe  ver* 
rri>bero  colle  battaglie,  su  la  città  , dimandava  che  ai 
conservasse  la  ^ace:  ma' la  parte  amante  di  :cose  nuove 
^Ja  quale  cercava  insieme  un.  mezsp  .<}>  arricchire  nelle 
ttsbolenze  lanciavasi  verso  le  guerra:  'Pertanto,  elevafonsi 
a vicenda  e -voci  e mani  ; procedendo  la  contesa  fino 
al  tiro  delsàss).  Alfine  prevalendo  il. partito  men  buono, 
gli.  oratori  di  Roma  dovettero  tornarsene  senza  Tintento. 
Dond’^è  che  il"  Senato  romano  .decreti^  'd’ inviare  un 
eseacito  contro  de’ Napoletani.  . , ' 

.Vln.  1 Romani  all’  udire  5^10  i Sanniti  apprestavano 
un  esercito,  vi  spedirono  prima  Rmbasciadori.(i).  E di 
essi  quelli  eh’ erano  scelti  dell’ ordine ..  senatorio  venuti 
ai  consiglieri  de’ Sanniti  dissero:  Voi  fatfi  ÌQgiustamonte 
o Sanniti  violando  i p'attati  cha  ovate  con  noi  con^ 
cordato.  Amici  vi  eijt^nete  di  nome  , nemici  che  ne 
siete  di  fattL  Vìnti,  voi  da  Romani  in  tanti  condtat» 
timenti,  sciolti  per  le  istanze  vostre  caldissime  dalla 

• f . . ' 

guerra  j oiténuta  la  pace  come  la  volevate'  ^ e desi- 
derosi poi  di  essere  gli  amici  e gli  alleati  di  Roma; 
giuraste,  alfine,  di  avere  amici  e nemici  quelli  appvinto 
che  per  tali  riconosceva  la  nostra  repubblica. 

^ IX.  Ed  ora  immemori  di  tutto  questo  , e fin  posti 
in  non  cale  i , giuramenti  , avete  abbandonato  noi 
nella  jguerra  co'  Latini  e ci>i  Volsci,,cpn  que’  pòpoli 
io  dioOf  che  sono  divenuti  nemici  nostri  appunto  per 
voi , perchè  avevamo  noi  ricusqtò  di  unirci  con  essi 
net  dare  a wi  guerra.  JE  nelt  anno. J precedente  voi 
avete 'istigato  con  tutta  la  premura  e f ardore  , anzi 

(1)  Addo  di  Roma  4’8. 


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4? 6 DELLE  antichità’  ROMANE. 
voi. avete  necessitato  i Napoletani  che  temevano  far- 
lo , a prendere. contro  noi  la  guerra^  e voi  ne  sup- 
plite'le  spese  : voi  la  loro  città  ven  tenete.  Ed  ora 
tutti  intenti  ad  apparecchiarvi  raccogliete  d'  ogn  in- 
torno milizie  ,>  coh  pretesto  , come  pare , innocente  , 
ma:  in  realtà  con  disegno  di  guidarle  contro' i nostri 
cotoni.  Ed  a tanta  ingiustizia  invitate  i .Fdndiani  e i 
Formiqni' ed  altri,  i (fuaii  abbiamo  no,i  pOr^^iato 
ne'  diritti  ai  nostri  cittadini. 

X.‘  Or  'voi  profanando  così  scopertamente  9 turpe- 
mente i trattati  'di  amicizia  e di  alleanza  ; il  Senato 
ed  il  popolo  romano^  deliberarono  di  spedirvi  amba- 
sciadori  , e iperitnentai'vi  colle  parole  , innanzi  di 
procedere  ai'  fatti.  E queste  sono  le  cose  che  ami 
tutto  vi  dimandiamo,  queste  quelle,  ottenute  le  quali, 
crederemo  soddisfatti  i nostri  risentimertti  : Chiediamo 
primieramente  che  ritiriate,  le  truppe 'inviate  in  soc- 
corso ai  Napoletani:,^  e poi  che  non  mandiate  milizie 
condro  i nostri'  coloni  , nè  provochiate-  affatto  i sud- 
diti nostri  a voglie  ambiziose.  Che  se  dite  che  tali 
cose  non  piacciono  a tutti  fra  voi , ma-  che  le  fitnno 
alcuni  solamente  contro  il  ‘votò  comune;  cónsegHàteci 
dunque  voi  questi  perchè  ne  giudichiamo  , 0 cen  ter- 
remo contenti:  ma  se  non  gli  avremo  noi  tjuesti  nelle 
mani  j né  prenderemo  in  ) testimonia  i Numi  , ed  i 
Genj  invocati  da  voi  -nel  giurare  i trattati  ; e pSrciò 
siam  qua  venuti  co*  Eeciali.  ' • • r • 

XI:  Dòpo  H parlar  del  romano  consaìlatisl  infra  loro 
quei  capi  de’  Sanniti  diedero*  questa  risposta  : Non  è 
già  colpa  del  comune  che  i nostri  sussidj  giungessero 


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•LIBRO  XV.  4^7 

a poi  tardi  per  Ut  guerra  'cóntro  i Latini,  Imperocché 
si  era  appunto  decretato  che  questi  a voi  s’ inviasse- 
ro : ma  i capitani  assai  ' s’  irtdugiOrono  nell  àppre- 
starveli  ; come  voi  troppo  vi  acceleraste  a dar  la 
battaglia  ] e coti  giunsero  quelli  tre  o Quattro  giorni 
dopo  il  bisogno.'' Jiispetto'  a Napoli  poi -dove  sono 
alquanti,  de 'nostri , tanto  siamo  lantàni  dcUt  oltrag- 
giarvi soccorrendola  in  qualche  fnodo  mentre  perico-  ' 
la-;  che  noi  pensiamo  di 'essere'  piuttosto  gli  oltrag- 
giati e gravemente  da  voi.  Foi,  tutto  che  non  òjfesi, 
v'  adoperale  a soggiogare  questa  città , confederata 
ed  amica  nostra  non  già  da  poco  , né  d^  allora  che 
con  voi  ci  concordammo  , ma  da  due  generaeioni 
en>antS , e per  grandi  e copiosi  ben^tij  ricevutine. 

XII.  .Tuttavia  non  é la  comun  dei  Sanniti  che  of- 
fendavi nepimeno  in  questo  ; imperocché  di  propria 
voglia  ìóccorpono  Napoli , come  udiamo  , alcuni  no- 
stri , ospiti  ed  amici  loro  , o stipendiati  , per  la  in- 
di^nta’fbrse  del  vivere.  Nè  abbiam  poi  bisogno  di 
staccare  da  voi'  li  sudditi  yostri  ; imperocché  senza 
que’  di  Fondi , ^ e . li  Formiesi , noi  , necessitati  alla 
guerra  , bastiamo  a noi  ■ stessi.  -Apparecchiamo  un 
esercito- non  per  levare:  a^ yostri  colorii  le  còse  loro  ; 
ma  per  difendere  le  nostre  propriamente.  A vicenda 
noi  dimandiamo  da  voi  j se -volete  far  la  giustizia, 
che  partiate  da  Fregelli , città  da  " noi  conquistata 
tanto  priiHa  col  mezzo  delle  armi,  che  è mezzo  di- 
rittissimo di  possedere  ; e voi  sera  alcun  titolo  ve 
t avete  , già  sono  due-  anni  , ' appropriata.  ' Or  tali 


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428  DELLE  Antichità^,  romane 
cose  ci  si  concedano  > nè  crederemo  di , essere  stati 
oltraggiati.  . 

• XUI.  Allora»  subentrando 'al  discorso  il  Pedale  Ro- 
mano , ripigliò  : Niente  impedisce  che  violando  voi 
così  manifestamente  i trattati  di  pacOy  i Bomani  pas- 
sino alle  armi  : nè  già  ponete  lepnerUarvi  di  essi , 
ma  de'  non-  sani  vostri  consigli.  Ornai  da  loro  si  è 
/atto  qtuuUo  doveàsi  per  .le  leggi  rsacre  e civili  della 
patria , o di  pio  verso  i Numi , o di  giusto  verso  i 
mortali.  Gli  Dei  che  per  sorte  soprawegliano  alla 
guerra,  giudicheranno  tfuale  de  due  popoli  osservasse 
i tràttati.  £/  qpi  recatosi  in  atto  di  partire  , e tiratosi 
al  capo  il  lembo  onde  cingevasi  gli  omeri , .alzò  come 
era  il  costume  j le  mani'  al  cielo , orando  don.  impreca- 
zione gl'  Iddii  : che  se  Roma  ingiuriata  da  Sarmio  , 
non  potendo  riaversi  dalla,  ingiuria  cotle  jrsfrole  e 
co'  tribunali  ^ procedeva  finabnerite  alle  operé  , U 
dessero  per  la  mente  ctmsigU  bùqni,.  e.  condotta,  pro- 
pizia per  la  guerra.  Afa  se  in  opposito  Rorna  ìrà- 
scurando  i legami  santi  delV  amicizia,' accattava  pre- 
testi non  giusti  onde  romperla , -.non  la  dirigessero 

0 ne  consigli  o ftelle  opere. 

XIV.  Levatisi  gli  uni  e gli  altri  dal  .colloquio  ; e di- 
chiarate alle  loro  città  le  CMe  disputatevi  ; dascuno  dei 
due  popoli  pensò  molto  diversamente  su  Tabro.  I San- 
niti come  £an  essi  quando  iqtprendon  la  guerra  , te- 
ndano per  lent^  assai  |e  operazioni  de’ Romani;  laddove 

1 Romani  immaginavano  rannata  di  Sannio. ornai  pros- 
sima a . piombare  ^u  i*  Fregèllaui’,  loro  còloni.  Donde 
ne  avvenne  a ciascuno  ciocché  erane  consentaneo:  Im- 


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LIBRO  XV»  ' 429 

perocché  li  primi,  apparecchiandosi  e indugiandosi  ro- 
vinarono la  opportunità  ’d^  imprendere  : per  T opposito 
i Romani  tenendo  tutto  pronto , udita  appena  la  rispo< 
sta,  decretarono  la  guerra,  e deci^talala , vi  spedirono 
tutti  due  li  o>nsóli.  E prima  che  i nemici  ne  udissero 
la  marcia;  tanto  le  milizie  reclutate<di  nuovo',  quanto 
le  altre  ^che  svernavano  tra  i Volsci  sotto  gli  ordini  di 
Cornelio^  mirarono  i confini  db’ Sanniti.  > 

V , ‘ i.  ' • 

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43o  > . - 

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ANTICHITÀ  romane 


DIONIGI  ALIGARNASSEO 


LIBRO  DEGIMOSESTO! 

r 

SUPPLEMEÌTTI  E FRAMMENTI. 

/ . ■ * ' ■ r ' ' 

< 

J.  « TTenendo,  ; Romani  il.  campo  per  la  guèrra  ul- 
tima co’  Sanniti  , un  fulmine  caduto  in  cospicuissimo 
luogo  uccise  de’ soldati , e di  più  straniò  due  insegne, 
e disfece  molte  armi  e molte  ne  deformò.  Conciossiachè 
il  fulmine  vien  giù  somigliando  col  nome  alle  òpere. 

''  Imperocché  tal  nome  si  trae  da  una  voce  la  qual'  si- 
gnifìca  mescimento  o mntaaioq  del  subjetto  da  volgerne 
in  contrario  le  sorti  umane.  E veramente  il  fuoco  del 
fulmine , stia  nell’  etere  o sotto  , quando  a noi  scende 
é necessitato  esso  il  primo  a maiar  sua  natura  ; conr 


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DELLE  Antichità'  romane  libro  xvi.  4^1 

venendogli  quando  sieguQ  la  sua  nat]ara>-non.  di»:etidere 
in  teiTa  , ma  .dalla  terra  elevarsi.  Imperocché  nell’  e^ero 
stan  le  sorgenti  del  fuoco  divino  ». 

II.  a Ciò  che  si  dimo^ra  pel  fuora  .nostro  sia  che 
lo  abbiam 'da.  Prometeo  , sia  che  da  Vulcano.  Impe^ 
rocché  quando  è sciolto  da’  vincoli  pe’  quali  è necessi- 
uto  a»  rimanere  fra  noi , corre  subitamente  per  1’  aria 
verso  1*  altro  fuoco , suo  connaturale,  ed  Q quale  doge 
d’interno' tutta  la  natura  del  mondo^  Cosi  donque  l’al<  ' 
tro  fuoco  divino'»  scevro  da  corrutlibil  materia,  quando 
per  r aere  vieù  giù  su  la  terra  , venendovi  violeuUto 
da  necessità  superiore , annnnxla  «qujtaxioni  e retrocer 
dimeati  ».  , 

. III.  « Occorso  anche  allora  un  portento  somigliante , 
i Romani  lo'ebberò  . in  .non  cale:  ma  ne  seguitò  che 
rinehiusi  da  Ponzio  Sannita  in  luoghi  irriuscibili,  ridotti 
a perir  dalla  fhrae^  cederonq  ( ed  erano  quasi  quaranta 
mila  ) tutti  sé  stessi  al*  nemico.  E quindi  lasciate  le  armi 
ed  ogni  altra  cosa  passarono  tuili  sotto  giogo  : passo  che 
è il  segno  di  chi  vien  prigioniero  (i).  Dppo  non  molto 
anche  Ponzio- soffri  .da'  Romani  altrettanto  j e ne  andò 
sotto  il  giogo , esso  e li  suoi  (a),  a 

IV.  ...  u Cosi  dismessi,  così  ridotti  senza  riparo 
W preghìàrn  sólamente  a -non  aggiunger  la  infamia  a 
tanto  dartno  , sprofondando  con  piè  che  si  aggrava  la 
sorte  de'  miseri  .......  Non  sai  tu  (3)  quanti  de'  no- 

(i)  Aauo  di  Rodi»  4^S.  . 

(a)  'Ancbc  Lucio  Floro  narra  la  steua  vicenda  nel  ld>.  ■■  l6-  e 
Livio  più  dislesamente  nel  lib.  9.  i5. 

(3)  Il  tratto  aegnenic  sembra  parte  della  ri^tosia  di  Poaaio  ai- 
rinviato  de’ Romani. 


4 


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4^2  DELLE  Antichità’  /Romane 

neUe  guerre  han  ■perduto  i jìgti,  quanti  i fraleìli, 
e quanti  gli  amici?  Ne’>  quali  tutti  come  pensi  che  dee 
traboccatne  la  bile  ^ se  alcuno  ' gf  impedisca  placare 
^ue'  morti  eoa  tante  vite  di  nemici  le  quali  sole  son 
credute  un  ossequio  in  verso  gU  estinti  ì, 

V.  '«  Ma  supponiamo  che  •persuasi,  o forzali^  o per 

qualunque  maniera  vinti  mi  si  arrendano , e contxdano 
che  questi  continuino  tìi  vita,  or  ti  pare,  che  sian  per 
cqnce'dere'che  ritengano  insieme  ogni  lor  cesa,  q sema 
pur  neo  di  vergogna'  se  ne  vadano  quando,  a tbr  pia» 
ce  , 'quasi  eroi . qui  apparsi  per  felicitàrne  ? O non 
piuttosto  sopravvenendomi  j quasi  fiere,  mi  sbranereb- 
bero appena  tentassi  dit  questo?  O non  vedi  come  i 
cani  da  caccia  quando  è presa  la  fiera  la  qual  chiusa 
dà  essi  va  nella  rete , circondano  il  ceuciatort , chie- 
dendo parte  della  preda  ? e se  non  ottengono  bttntosto 
il  sangue  o le  viscere , non  yédi  come  lo  sieguonó , e 
pressano,  e malmenano,  nè.  respinti  sèn  pdrtono , nè 
percossi  ? » » • , ■ ■ 

VI. ...  « Faticarono  tuUo'il  di  cotnbaltendd,  ma^i 
che  le  ombre  tobero  di  rafhgurare  gii  amici  e i nemici, 
tornarono  a proprj  alloggiamenti  . . . Appio  Gaudio  non 
so  per  qual  mancanza  intorno  de*  sagrifizj  perdé  la  vi- 
sta, e ne  fu  denominato ->^f£'eco  ; 'perocché  li' Romani 
cosi  chiamano  chi  non  vede  ^ ^ . le  scritluce'  custodite 
tra  1 murs  (i) , formate  con  lettere/  accuratissime  , odo'- 
rifere  per  lo  misto  in  che  sono,  presentano  tal  iloridez* 

(t)  È diifieite  iotarpetrare  dove  miri  «iitesio  rottame.-  Fn  detto 
che  alle  «nti  Freoettine'. 


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* . • LIBRO,  tVl.  ,•  i 4^3 

u . ^ . I RonUuii  ckUmaQO  calende'  le  ncòmeaie  . come  * 
none  dtiamano  la'  mezza  IbQa , ed  idi  il  pleoiluaio.  » 
VII.  « Era*. la  falange  nel  rnsAZO  disgiunta  ié.  mal 
piena  : cori  quelli  che  ivi  erano  disposti  id  òontrario, 
le  furono  sopra,  e ne 'respinsero  i>coDÒfc|auenli  l’'ia<< 
tema  e moid>osa,  guàra  aitàccò  tutto  il  fiore  dc^  cita 
Uomini  sacerdoti , onorati  Co’  sacri -minirieii'. 
Quest’  uomo  pien  di  trasporti  senza  consiglro,  insolen> 
tissimo , deliberando  e ctmcentrando  in  sé  tutti  i poteri 
per  la  guerra  E poi  tu  ardisci  di  accusare  ia 
sorte,  turche  la  usavi  pessimarnente,  postola  su  barca 
già  rovesciata  ? Così  eri  stolto  ? \ , .^jilcuni  i membri 
abbisognano  di  cura,  e tali  altri  cicalritzcmdosene  .> . « 
■VQt  (i)  Ma  vo’ ricordare  ancora  un’ arion' dvile -de* 
gna  degli  «noom)  di  tutti  i mortali , dalla  iquale  sia  chiaro 
ai  .Greci  quanto  Roma ' allora  abborrisse  soellerati  , e 
come  fosse  inesorabile  contro  chi  viola  i diritti  comuni 
della  natura.  |Ca jo  Letorìo  soprannominato  Mergo , uomo 
illtutre  pe’^  natali , , còme  >non  ignobile  per  le'  belliche 
imprese  ; dichiarato  trìbW>'  militare*  nefia 'guetta  -San- 
nitica^  Ittsiqgò  per  un  tempo  un  giovinetto^  sub  came- 
rata , vago  più  eh’  altri  di  aspetto  , perchè  rendere  si 
volesse  agli  amorosi  diletti  di-  lui  (a).  Ma  perchè  noi 
guadagnava  cb’'donl , uè  còlle  gentili  maniere,*  ornai  più 
non  bastando  a sesiesM , cpr§e  alla  violen^.  Divulgato- 
sene il  disordine  tra  le  miliziè  ,,  i tribuni  • della  plebe 

y « ; V » ' ' - 

(i)  Qoaoto  Si«go»Ja  questo  .libro , er^etlaato.  it*  paragrafo  lO'A 
lutto  frammenti.  . . ^ 

*•  * V > 

(r)  Anno  di  Roma  4^,  . • . > 

PÌONIGI,  lama  111.  . 1 ' , . U 


4^  DELLE  Antichità’  romane 

• ripuUQ^Io  oltraggiò  comune  della  {repubblica  , me  die» 
dero  .accusa  .pubblica  al  reo-,  cpudannatone  quindi  dal 
.popolò  a Qiorte  eoo  voti  pieqi.  Peroécbè  non  tollerò 
questo  ebe  uomini  di  grado  ,nell',;fsercilo  profanassero 
con  ingiurie ‘ùmpìabili  e contrarie  ali^  -natura  Tirile, 
' persone -iagentté,  mentre  esse  per  la  libertà’ co  njballe-; 
vano  (i)i  .•  ...  . - ' 

IX.  .Se  non  che  non  molto  prima -di  questo  fece^ttn’ 
opera  ‘ aaeor  piò  tp^evigliosa  per  T ingiuria  recata  ad  un 
altra  persona,  quantunque  servile.  Il  (àglio  di  PubKo,io 
dico  t di  uno  di  que’  tribuni  milUari  che  umiliarono  ai 
Sanniti  l’ esercito  e n&  andarono,  sotto  giogo , fa  co- 
stiletto,  come  lasciato  iir  grave  pénuria,  a ter -danari 
ad  usura  pe’ funerali  del  padre ,- ^qtfasi  ch%  sarebbene 
quanto  prima  rilegato  da’  parenti.'  Ma  deinsò  nelle  sue 
speranze,  e scadutone  il  termine {vfa  présir'egU  Stesso 


pel: debito,  giovinetto  èòm’  era.  e vaghissimo  nc’  sem- 

(t)  Valtrìo  Masshiro  pirla  di  <picslo-&tM>  a(  capo' primo '<M  li- 
bro fCato':  ma  Scaivt  che  Lelotio  fag^‘ prima  dèi  cempo  delia  sua 
esosa;  e che ^poi  si  uocise , coCcbiudfi^dot.r^unie  niodum  txpUtre- 
rat  , fu)*  tameH  functUfunivertèé^pUbii  tententia,^rrimine  idipudi- 
,«'<(«  damnauu  est.  Qon.'cbe  pSre  ohe  egli  fòsse  boiidlaoaat.0  dopo 
morte.^^  > ' ' ' ^ 

Le  deecrjsione  qui  «ecala  b l' una' de’ tram  meati  de’ libri  per- 
doti-di  Oiop^i.  ,II'£|ito  fi  narra  pur  aél  compendio  in.  tal  modo: 
Ua  tal  Romano^,  Cajo  Leutrio , intUleva  cpn  un  giovine  , suo  eu- 
merata,  ond’ avir  tUo  diletto  da  lui  y vago  della  persona.  'Ma  non 
essendo  il  giovane  goodagnalq  nb  per  doni  v né  pér  eavetse  , alta 
Jiite  divalgato  il  disordine  dell’uomo,  i tribuni  lo  condannaranò . 
‘-'IXdnigi , ’Oòm'Vne'^reaiaieoii , leone  per  ciseostinta  gravissima 
del  fitto  la  vipleoia, usala  in  noe  dg  Letorio  : -Se  cglf  compendiava 
sè  atess<^,  come  traacurava  nel  compendio  circostansa  tanto  impor- 
tante t Ma  il  compendio  sa  Dionigi,  h forse  di  alim  scrittore.  ' 


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Lmo  vn:  435 

biaoti..  Or  ({uesti  rldq^tto  a.sérng,  quali.  ptea,t«U  il  servo 
al  pa^ne,  sei  «omportava  : ina  chiesto  di  abbandonare 
a’  (iiaceri  di.  lui  le  belle  sue  fórme  , Seri  dolse  , e fórmo^ 
vi  ripugni;  PesUfóne  d^  colpi  replicali  'di  verghe  ; fog- 
gissene  al  jForo;  e.postovisi  in  luogo  .elevato  f dohde 
potea  molti  f«T.  testimoni  dello  strazio ^suo  , disse. le  in- 
temperanze,  dell’ uauclero , e mostrò  le  lividure  delle  ^r« 
cosM. 'Agitandosene  il  popolo^  e riputandone  la  ingiuria 
degna  delle  ire  comuni  ; sentenziò  chr  si-  espiasse  polla 
morte,,  introdottone  da’ trjbuni  il  giudizio.  A 'tanto  af- 
fronto tutti  i ftomaoi,  repduti  «chiavi  pe’ debbi fórono 
in  TibeViò  rivendicali  dalle  leggi  ff). . . ... 

X.  ^ « .Pregando  U Senato  pe’ bisognosi  e per  gli 
indebitati  > >Ta  le  carni  ^acci&ct^  appena-^  si'riseajtooo  e ' 
commoTOusi  ifid  tanto  eh*. gli  «piriti . nalnrali  di  esse  yio* 
lentano  i p.ori , e $i  dissipa'no.  Questa  •>, pur  la  cagione 
de’  terremolwià  Roma.  Conciossiaché  tutta  vuota  di  setto 
per  grandi  e contiqùatl  canali  pe’  quali  conducesi  T afana 
tien  m'ohe  sflatatoje^  per  le  quali  sen.esca.il  vento  rio- 
r.hiusovit  ma.  quando  il  vento 'rimastovi  prigiohiero  ' sia 
troppo  e veemente^  questo^  somioove'  Roriù  e rompene 
il  suolo  (a),  a •'  ; . 

(iX  Si^ consenta  in  generata  ani  liplo  rfi  qi|eSto, giATÌnetto  : ma  si 
discorda  autonome,  su  la  famìglia',  e sul  ten^)0.  Valerio' Massimo 
nel  lihA  ^ lo  chiama  *fity  Vetório  figlto  noa  di  Pubblio  ma  di  quel 
Tito  Veturio  che  net  aifq  consolato  fu  dato  ai  Saooiti  (lal.  cfattaio 
obbrobrioso  coocluso  con  essi.  7(10  Livio  chiama  it  giovine  Cajo 
Publicio,  ed  assegna  il  fauo  all’  anqo  .'4^7  di  lioma  aolto  i oontoli 
C.  Poeleliu  fc  Lucjo  Pepino,  vispi  4ir<t  cinque  asiiù  pciioa  <1^1  coii« 
solato  di  Valnrio. 

(z;  È curiosa  questa  origine  di  Iremuolo  I»  quala  ■aacabbi'si  po- 


s 


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436  DELLE  ANTICHITA,’^  ROMANE 

XI.  Riarié  (a  guerra  Sacinitica 'per  tali'  cagioni 
G>ùclusa  la  pace  co’  Romani , soprastettero  breve'  tempo 
i Saiteiti,  e poi,,  stimolati  dà  un*  antiéa  ingiuria,  mar* 
' ciaróno  coll'  armata  tra  i Lucani,'  loro  cónfinauti.  Questi 
affidati  da  principio  'alle  forze  proprie  sosienner  la  guér* 
ra  : ma- pòi  vinti  in  tutte  le  battaglie,  pelòta  gran 
parte  del  territorio , e già  prossimi  » perdere^  anche  il 
resto , si  videro  necessitali  ad  implorare  rajuto-  di  Roma» 
J£  quantunque'  consapevoli  a sestessi  di  aver  tradito  i 
patti  cdnclusi  Uria  volta  con  lei  di  antiòizia  e di  allean- 
zaf  non-  disperSròne  ch^  concorderebbe  di  nuovo,  se  le 
inviassero  in  ostaggio  insibme  òon  gli  oratori 'i  giovinetti 
più  rignardèvoti  di  tutta  la  repubblica  loro.  ■ 

XU.  Qr  questo  appunto  ne  seguitò.  Perciocché  Ve- 
nutivi gli  oratori^  e supplicandovi  ca^dissimamente ; il 
Senato  deliberò  di- ricever  gli  ostaggi  e render^  ai -Lo* 
cani  r amicizia;  ed  il  popolo  né  comprovò- la  sentenza. 
Firmati  gii  accordi  con-  gl'  inviati  de'Lh'cani , il  Senato 
elesse  i più  provetti  per  anni  è per  onori  ^ e li  diresse 
ambasciadori  al  consiglio' generale  dèi  Sanniti;  affinchè 
dichiarassero 'ad  èssi  che  ‘i  Luoùni  erano  git  amici  , e 
gli  alleati  .di  Bontà , e gli  esortassero  a render  lóro 
le  terre  usurpatene  , nè  più  tramarli  ostilmente  : già 
non  permetterebbe  la  repubblica' che  alleati  suoi  che 
a ' lei  ricorret'àna , rinutnessero  esclusi , dal  proprio, 
territorio.  ...  • 

tata  levar  tutu  levando,  i oaneli.  Pìi(  volentieri  diremo  che  le  mosee 
de' venti  ttnterranei  seno  éfletlo  4ie'unemoti  ausi  che  la-  priout 
eafione.  * 

(t)  Anno  di  Roo»  4^6. 


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UBBO  XVI,  4^7 

, . XIII.  I Sanniti  gli  mnbasciadcwi  incollerìrono  e 
replicarono  primicramentò  ; che  i trattati  di  pace  non 
erano  Jdtt}  'Con  accordo  'che  essi  -non  mossero  per. 
amico;  o , nemicò  se  /ton  ^quello  che  -assegnassero  • loro 
per  tale  i Romani  i Appresso  , che  i Romàni  ~s'  avje- 
vano  renàuto  amici  i Lficani  non  già  in  antico,  ma  di 
recerite  quand'  erano  questi  già  inoolli-  nella  ~^guerra 
co' ^Sanniti  ; oh  A è che  non  avevano-  titolo  nè,  giusto 
nè  decoroso  per-  romperla  co'  Sanniti  Risposero  i Ro- 
tofiixì'.'che.  coloro  i quaU  avevano  promesso  di  soggia- 
cere, ottenendo  appuntò  con  ciò-  la  pace,  dovevano 
obbedire  in  tutto,  a chi  presedeva.;  '.e  minacciavano  in 
caso  contrario  di  portare  sa  essi  la  guerra.  I 3aimiù 
ripuianjlo  intollerabile  |a  ptresunaione  di  Roma  intima- 
roflo  agli  ambasciadori  cht  partiasero  su.  T istante  ; e de- 
ntarono che  sL  apparecchiasse  spianto  bisognava  per  la 
guerra  di  tutta .1»  fazione,  e di  ogni  citti^^^  ^ 

XrV.  Pèrtanto' la  ; cigìon  manifesta,  nè  ingloriosa  a" 
raccontarla ,.  della  guerra  Sanuiliea , fu  .la  voglia  di  soc- 
Q>rrere  i Lucani  caccòmmuidatisi  a Roma quasi  fosse 
già  pubblico  e^  vecchio  costume  * di  essa  ^difendere  gli 
oppressi, che  la  invocavano:  ma  la  oagion  recondiu.,  e 
che  più  \li  sospinse  a romper  la  pace  , era  la  potenza 
Saimitica,  divenuta  già  grande,  e la  qnal$' crescerebhene 
ancora,  se<>  domati  i.l,ucani  ed  i confinanti  di  questi  si 
volgessero  ad  essi  anche  le  barbare  genti  .che  stayansf 
appresso.  Cosi  tornati  appena  gli  ambasciadori  la  pace 
fu  rotta  , e sì  àfrolarono  due  armate. 

XV.  Postumio  già  console  , ■ venuta  1*  oca  di  esserlo 


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438  DELLE  AJWICHITa’  ROMANE 

ii«vatneiue  - ( i ) , teniasi  grande  per  to  splendor  de*’na- 
taii , come  pel  gemino  consdato»  Doleasene  sa  ie  prime 
il  collega  di  Ini  quasi  escluso'  daU’  essergli  Uguale,  e più 
volle  ne  fece 'in  Senato  rimostranxa.  Alfine  qUah  plebeo 
venuto  in  luce  da  poco,  riconosoendosegli' mìAore  per 
gli  antenati,  per  gli  amici,  e per  àltre  eccellènze,  .n'mi* 
liossegli , e gli  concedette  di  per  si  stesso  il  comandò 
della  guerra  Sanuitica.  Diede  grande  invidia  aPostumio 
un  tal  fatto,  come  nato  dalla  media  arroganza  sua';  ma 
poi  glien  ' diede  un  altN , ancona  più  indegno  di  un 
duce  -Romano.  linperoccbè  separali  due  mila'  difi  esercito 
suo  li  ridusse  nelle  campagne  sue  proprie'  senza  i fèrri 
con  ordine  l'nsieme  ebe  potassero  "un  qùerceto,  leneu- 
doK  gran  tempo  in  òpere  ài  mercenari  e dà  schiavi. 

XVI.  E superbo  tanto  ^ prima  di  Uscire  |Kr  la  s|>è- 
dizione,  apparve,  più  InioUeraUle  ancora  nel  compierla; 
dando  al  Senato  ed  al  popolo  catise*  giustissime  òndè 
r abborrissero.  E ceno,  • avendo.  i|  Senato  definitó'che 
Fabio  il  console-  dell’  àttnò  precedente,  il  quale  area  vinto 
i Sanniti  cbiamali'  ’FeHtri'{i)  si-  rimanesse  nei  campo 
.con  aniorità  proconsolare  per  guefreg^are  con-  la  parte 
stessa  de' Sanniti,  ^gli.oon  ieiterrs(ia'  gl'  intimò  di  par* 
tirne  , come  spettasse  e lui  sólo  còmaudarvi.- Spedirono 
i FUdtì'a  ^chiederlo  ebe  non  impedisse  al  proconsole 
di  stTtre,  nè  ripugnaste 'ài  loro  decreti;  ed  'agli  non  diede 
se  nOn.  òrgegboae  e*  tiranne  rlsposfe,  dicèndó:*cAe  fin- 

(■)  Anno  (li  Roma  ' 

(a)  Aocbe  Litio  fa  mauaionè  di  quelli  SaoaÌM  : nondimeau  Cla- 
tetio  li  tralatoia  Della  ina  Italia  antica. 


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LIBRO  xn.  43<5|. 

eh'  era  console,  ogU.  sopraslava  al  Senato,  non  il  Se- 
nato a kù. . Quiodi , congedali  i messaggeri  , no  andò 
coir  esorciip  verso  6'abio  per  «striogervel'o  colle  arme, 
se  neo  voleva  von  truKjaillità  litirarseoCk.  E sorfsresolo 
che  assediava  If  città  di  C^inio«  io  iooalaò  con 
lumnlto.  di. 'orgoglio  , e con  alto  disprezzo'  de’  costumi 
amichi,  talché  Fabio  cedendo  ai  furori  di  lui  si  ritirò 
dal  comando. 

XVII. .Questo  Postumio  medesimo,  assediatala,  espu*. 
gnò  so  le  primé  Cominio  con  assalti  non  lunghi,  e poi 
Venosa  città  popolosa , ed  altre  molte.  In  tali  cimenti 
caddero  uccisi  dieci  mila , restandone  prigionieri  sei  mila 
dugento  che  arcano  deposte  le  armi;  Egli  compiute 
tali  xose.  non  che  «^erne  tenuto  degno  . dal  Senato  di 
riconoscenza  e di  onore,  perdette  anche  l’ antico  splen- 
dore suo.  Peco^ebé  mandandosi  dal  Senato  venti  mila 
coloni  a Venosa,  1’  una  delle  città  prese,  furono  creali 
de’  capitani  cfie  ve  li  menassero;  ed  egli  che  ne  era  stato 
il  conquistatore^. egli  cheavM  proposta  la  spedizioo  dei 
coloni, . non  fu-  riputato^ idonea  all’  onor  di  eondurveii  (i). 

XVI IL  Ora  se  ^li  avesse  comportato  ciò  con  saviezza 
e rattemperato  la  collera  del.  Senato  colle  buone  parole 
e còlle'  opere  ; non  sarebbe  più  stato  sottoposto  ,ad  in- 
contri che  disoaorano.  Ma  fremendo  e riluttandone,  di- 
spensò  fra’  asoldati  tulUr-  la  preda  che  raccoglieva  daUa 
gjaerra  ; poi  'disciolse  1’  esercito  innanzi  che  venisse  un 
altro  per  comandarvi e d«  ultimo  ne  fece  di  suo  volere 
il  trionfo  senz’ essergli  conceduto  dal  Senato  , né  dal 

(i]f  Di  ; quella  colooia  parla  Vetlejo  nel  - lib.  i.  - Slnuestam 
Mintmrnasque  mini  eolorà,  -poti  quadrUnniwn  Vemuiam, 


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44o  DELLE  antichità’  ROMANE 

popolo.  Per  le  quali  cose  ecdtandose^r  tanto  più  I’  ira 
cqmonei  non  si  tosto  ebber  luogo  i consoli  consecndai, 
fa  citato  da  dnè  tribuni  dinanzi. dcl‘ popolo.  Giudicatovi, 
fa  condannato  da  tutte  le  tribù' ad  un*^  aménda  di  cin- 
quanta  mila  monete  jn  argento.  '' 


^ « 


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44 1 


PELLE 


; • « 


ÀNTiCHJTi' . ROMANE 


P I 


DIONIGI  ALICARNASSEO 


LIBRt)  DEGIMOSETTIMO. 


^PPUBMENTI  E ERAMHENTI. 


••  n ■•  ••  ^ • : 

• 1.  «,  \^ROT.ofiE'è  cilttAdeir  Italia  , e Siban  anch’  essa, 
cosi  clenbinioatà  dal  fiume  che  ivi  trascofre  quando 
^ Lacedemonii  faceanp,  guerra  ai  Messepf  i Sparta  restò 
senza  uomini;  talché  le  donne  maritate  e Ip' nubili  prin^ 
oipalmente  jdchiese^  di  non  essere  le  une- senza  figli  « 
c.  le  altre  sènza  àposì.  Bertanlp  si  mandarono  tdal  cam- 
po via  via  de*  giovani  per  esse,  e qoe*  gtovaqi  capitarono 
Mia  ventura.  Nacquero  dall*  uso  promiscuo  figli  incerti , 
poi  trattati  adulti  con  vilipendio,  e sòprannominati  quelli 
delle  Vergini.  » 


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442  DELLE  antichità’  ROMANE 

II.  c Fatta  sedizione,  vinti  quei. delie  verini  e riti- 
ratisi dalla  città,  spedirono  a DeUo , e ne'  udirono- che 
navigassero  ^r  l’ Italia  : cli^  trovato  nèlla  japigia  i.1  luogo 
Satino  ed  il  fiume  Taranìo  dove 'mirerebbero  un  capro 
tinger  la  barba  nel  mare,  ivi  foqdasser  la  sede.  FaMA 
vela,  e trovato  il  fiume,  videro  liu  caprifico  (i)  nato- 
in  riva  del  mare  con  una  vite  la  quale  al  caprifico  si 
abbracciava , intanto  che  una  patte  di  essa  vite  (occaya 
il  mare.  Interpreundo  òhe  questo  fòs^  il  . capro  citi 
l’ oracolo  prediceva , che  mirerebbero  tingere  in  mare 
la  barba  , si  fermarono  in'  quel  luogo , e vinsero  li 
japigi , e fondarono.  la'entà  cui  Taranto  notninaroho  dal 
fiuqje.  n ' 

llf.  Artemide  Calcidese  avea  dair'oratolo  che  dove 
trovasse  il  maschio  soggiacere  alia  femmina  ivi  si  fer- 
masse senza  navigare-  più  -tnnanzL  Navigando  intorbo  al 
Pallanieo  d’ Italia , e miratavi  una  vite  intorno  di  un 
caprifico  , femmina  quella  , e maschio  l’altro,  talché  que- 
sto ne  era  coperto  « concepì  .che  T’-oracold  fùsse  adem- 
pito. £d  espulsi  i bathari  ' che  vi  erano  , vi  si  accasò  . . , 
Begio"  fu' detto  ’ il  luògo  sià*^  perché,  fosse  uno"  .scoglio 
dirotte , via  péVthè  ivi  mterroua  ht  ter»  pcn  disgìufata 
i'  Italia- dalla  'Sioilia  coìitcapposta  :<skt  ohe  Ud  nome*  fòsse - 
il  nome  eziandio  di  -<dii  vi  ddmioava»  > a . . > 

. IV.*-*  beticippe  IvaocdeaiOBe-ìùteyVÓgÀido  l’oracolo, 
dove  portaste  il  destino  * che  egli  cc/’^stiei  '‘prendessero 
tede,  né  ascoltò  chè  dovessero  Aavìgare-AllMuiia,  «divi 

(i)  Caprifico,  fico  «ilvcstfe.  La  voce  greca  tigoifica  ca'pro 

e pr«s$o  .glcuui  popoli  caprifico.  Quindi  P ambiguiii  d*  iulerprcUrc 
la  voce  per  capro  o-  capritico.  ^ 


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LÌfiRO  XVII.  • 443 

ahbìtàre  dove  approdati  rimanessero  un 'giorno  ed  una 
notte.  Approdata  la  flotta  intorno  di  Gallipoli 'in  un  tal 
campo  de^T^renlinì,  dilelliito'Leacippo  della  aalbra  del 
luogo  , operò  coi  Tarenlini  .afllnchè  gli  isonCedessero  di 
stanisi  ii  giorno  e la  notte.  ^ Cosi  passatine  più  giorni  ; 
voleano  ' i ^Tarentini  che  ne  partissero  ì -ma  colui  noti 
ditd^  lor  mente,  dicendo  che  secondò  ^li  accordi  uvea 
iU  loì^  quel  tUoigo  pel  giorno  e per  la  notte",  e però 
sino  a Umto^che  fosse  o furio  o f altra  non  se  ne  parti- 
rebbe.'I  Taréalini  vistisi,  nell’ inganno,' coQsentirono  che 
rimanessero  (ì).  » > > ' 

'V.  u I Looresi  popolando  Zefirio  (3)  , «Ina  punta 
d’  Itali»;  ne  flirtino  soprannominati'  Epizeflrii  .X.  . Stav 
tniropo.  che  rimanesse  nel  hiogo  in  che  era , soste- 
nendone la  ^ecn.  che  ne  derivava  .«.  furono  dissipati 
tra  selve  e valli  e ripidezze,  s 

Vi.  « Un  TarentiOo,  uomo  empio,  e deditO/-à  tatti 
i piaderf  p«*  la  incpntinenztr  e prostituzione'  della  Sua 
bellezza  fln'da  ^ovinetto  / ne' iu  nominato  Taide  . . . . 
Fatta  ià' scelta  dal  popolò  erano'' partiti  ....  Vilissimi 
e petulaaUssìml  tra*  cinadini.'  » ■ • 

VII.'  (3)  Fu  Postumio  spedito  ambàsciadore  ai  Ta- 
rentinr  : ma'  facendovr  rimostranza  ; questi  non-T  iitte> 
sero , nò  ' pigliaronp  il  contegno  de’  saVf  i quali -òòmuliino 
su  là  patria  che  pericola  : anzi , se  nieoiotavitno  mai  che 
cóldi  non  parlava  accuratissimo  il  greco  'Idioola  , ve! 

(1)  Siraboàs  pel  libro  setto- dà  questo '«Sdetiaid  racconto  per  la 
origine  di  Melapoalo.  ■ ^ ‘ r 

(a)  Cosi  detto  perebà  risolte  al  vento  Ztflro  ciot  di  Ponente. 

(3)  Questo  e li  tre  paragrafi  srgoenti  tono  frammenti.  - 


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444  DELLE  Antichità’  romane 
deridevano , ed  elevando  1i;m  le  mani  o la  voce  , se  ne 
irritavano,  e barbaro  lo  chiamarono;  jtantt>  che  1q  espul- 
sero infine  .dal  teatro  (i).  E già  costui  m ne  andava 
co’ suoi,  quandd  per  istrada  si  avvenne  con  essi ,.  Fi- 
lopide  , un  accattone  (a)  di  Tasanto  il  ' quale  sopran-j 
nomina  vasi  Colila  dalF  uso  che  avea, ‘continyo  di  bria> 
carsi.  Caldo  del  vino,  ancora  del  di  precedente , come 
ebbe  vicini  i Romani , si  tirò  su  la  veste  : e scompó- 
stosi in  atto  indegnissimo  da  «vederlo , sbrufTè  sul  manto 
sacro  de’  Legati  ciocché  non.  pttò  nominarsi  ' nemmeno 
con  decenza.  , 

, Vili.  Scoppiatene  da  tutto  '3  teatro  le  .visa',  e sbat- 
tendoglisi  per  fino-  le  mani  da'  più  protervi ,-  EoStumio 
riguardandolo  disse  : accettiamo  o tvtissimo  uomo  / au- 
gurio  : giacché  ci  date  fin  le  cose  che  nòn  chiedi/ama. 
Poi  rivoltosi  alla  moltitndine  ,■  mostratovi  contaminato  il 
suo  manto , e sentitevi  uuiversaliN  aucora  'e  più,  grandi  le 
risa,  anzi  le  voci  nemmeno  , di  àlcUni  che'sen  compia- 
cevano , e lodavansi,  della  contutUelid  : -ridete  f disse  , 
finché  V é dato  ; ridete,  pure  o "Tarenùni  ; ehè  assai 
ne  sospirerete  dii  j>oi.  Fremendo  alquanti 'alla  minaccia 
iò  ; replicava  , perchè  pià  Jremiale  vi  aggungo  ; che 
assai  laverete  col  sangue  :quesUi , mia  Cosi  spre- 

giati dai  'prijvati  e(kl  pubblico,  e tosi •pcoaunziatp  quasi 
come  un  vaticinio  divino  , su  loro  / sciolsero  ,d  legati  dal 
porto  dà  Taranto.  „ ' . • v ' * « ^ ' 

IX.  Giunti  questi  sotto  Emilio  fiarbula  magisti^to 

(i)  Aono  di  Roma 

(al  Altri-  alla  idea-dj  acoattone- soatitaiacono  quella  *di  od  aomo 
brflardo  t garrulo , < 


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' • LIBRO  XVII.  44^ 

recente  in  Rpina , vi  esposero  non  le  risposte , che 
non  le  aveano , ona  le  ingìune  ond’  erano  stati  vilipesi , 
presentandone  in  prova  la  veste  di  Postumioi  Destatavisi 
conadne  la  indignazione  ^ Emilio  console  raccolse  il  -Se» 
nato  e 'vi  deliberò  ciocché  fosse  da  fare  per  più  giorni 
da)  nascere  del  solè  fino  all*  occàsb.  ' 

X.  Non  volgeasi  già  la  ricerca  sul  decidere  se  fijssero 

stati  rotti  i trattati  di  pace  , non  'essendo  ciò  dubbio  , 
ma  sul'  fissare'  il  tempo  acconcio  per  indire  l’ esercito 
su’  Taiinentini.  ' Im^ierocchè  talnni  consigliavano  che  non 
s’  imprendesse  tal  guerra  finché  aveasi  a fare  colla  ri- 
l>ellione  de**  Lucani  e de*  Bruzj  ‘j  e finch’  era'  indomita 
la' nazione' grande  le  bellicosa  de*  Sanniti  , e 1*  altra 'de*< 
Tirreni )siinata  alle  porte  stesse  di  Roma;  ma  ^ando  questi 
popOK  fossero  suti  sottomessi  tolti , o li  più  orientali 
almeno,  cioè  li  più  prossimi  a' Taranto.  ‘All’ opposito 
pareva  ad  altri  utilissimo  non  differire  nemmen  picciolo 
tempo ^ ma  decretare  sul, fatto  la  guerra.  In  fine  racco- 
gliendosi i vofi  videsi  prevalere  il  partito  che  chiedeane 
la  dilazione',  ed  il'  pòpolo  colffetmò  la  sentenza  del 
Senato.  . 

XI.  • M -Gir  uccelli  i'qOali  si  aggirano  in  luoghi  me- 
desinù  con  placide  volo>  questi  son  fatti  a\dar  buoni 
auguri  , a chi  cerca  mantenne  i beni  pri>prii.  Ma.  chi 
cerca  r altra!,  spii  queiU  augnrf  da  uccelli  di  pronto  e 
rapido  impeto  per  lontauT  Via^.  Ginciossiaché  questi 
uccelli  sieguooo  e pcocacciansi  ciò  che  nbn  hanno  : ma 
gli  altri  guardano  e''cnstodiscòno  ciò  <^he  hanno  pre- 
sente. » 

' XIL  a Egli  scorrea  tutta  la  regione  nemica  dando  alle 


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lyl\G  DELLE  ANTICHITÀ*  ROMANE 

fiamme  li  seminati  già  maturi  per  la  raccolui,  e por^uido 
il  ferro  su  le  piante  da  frutto  . ....  1^' città  di  forma 
popolare  somigliano  per  qualc)te  modo  le,  vicende  de’ 
mari:  perocché  questi,  .sebbene  tranquilli  per  natura , 
son  perturbati  dà  ventt^  Or  cosi. le  città  popolaci seb- 
bene non  sia  in  essa  niuu  male , ^ sono  rime^olate  da’ 
capipopolo  (i).  » . ‘ 

XIII.  « Intanto  (die  li  Tarenlini' voleano  dall’- Epiro 
chiamar  Pirro  per  U guerra  contro  de’  Romani , e mal- 
menavano chiunque  vi  ripugnava , Metpne  Tarentido 
ancb’  esso  , per  guadagnarne  1’  aUeaxione  , <ed  .avvertirli 
de’  ‘ tanti  ‘mali  i quaU  verrebbero  con  là  regia  prepon- 
deranza in  città  libera  e'  data  alle  deljsie  , si  presentò 
nel-t(»lro  dove  sedea  la  moltitudine,  coronato  <U  fiori 
come  venisse  dal  convito,  abbracciato'. ad  una  Maciulla, 

* a ♦’  • 

sonalrice  di'  tibia,  la  qtlal  cantava  una  canzone  appunto 
da  convito.  •*  . ' . ■ . . 

XIV.  M Andandone  lo  attender  di  tutti  alle  risa,  anzi 

eccitandolo  a cantare  e saltare.,  colui,  ginì  lo  sguardo., 
e chiesto  silenzio  con  la:m.^o^  poiché  fu'sedatp.  il  .tu- 
multo disse  : XJiltadinì  dellt  cosfi  che  ora  ve^te  mo 
fare  di  queste  voi  .ne^  j/otrete  farne  radi  piìi  ,'se 
Iftsciate  venire  uh.  rnonarca  ed  U regie  presidio  nella 
<;iUd.  ,Poi'qnando  ii  vide*  commossi,  attenti  e-dqsiderosi 
in  gran,  parte,  che  volesse  tut^^. diré,  egli  ritenendo 
r, allegoria  .del  convito  numerava  i mali  i xjualt  ‘ vpcE^b- 
bero  su  loro.  Ma  Iqtaam  che  di  numerava,  gli  autori  di 
(juesti  lo.  afferrarono  perda  cervice  , e^o  respinserp  dal 
teatro.  •».  . • • ^ . 

(t)  Par  tfie  alluda  ai  siovinenli  'delle  duh  d’-Iutlia  e di  Sicilia 
sopraiiando  la  guerra  di  Pirro. 


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LIBBO  XVII. 


44? 


.XV.  « Epistola  ,dì  Piero al  console  .de’  Romani . 
« Pirro:- re ‘degf  Epiteti  , ,*^glio  di  Eacide  ai  console 
de’  Bomkpi  .salute  ».  ivriiimiU  che  tu  .abbi  sentilp 
dagli'  altri  , (ha  io  vengq  colf  esercito  per  soccorrere 
li  TareaCòii  e. gli  altr( Italiani  li  quali  mi  chiamano: 
e che  nqn  ignori  nemmeno  da  quali  valerUuomini  io 
discenda con  qsiali  azioni  fin  qui  mi  segnalassi , 
quanta. milizia  io  conduca,  e quanto  bellicosa.  Spero 
che  Hi , ponderando  ciascuna  di  queste  cose  , non 
vogU  aspettare  ad  imparare  eoi  fatti  e per  prova 
quanto  è il  npstro  vedere  nel  combattere  : ma  che 
lasciate ‘in  disparte  le  armi  tu  venga  a \trsUtative.'  Io 
ti  consìglio  •che  si  rimettano  a me  ^le  controversie  dei 
Romani , co*'  Tarentini  , co'  Lucani  , e co’  Sanniti.  Io 
ìé  concilierò  tutte  secondo  la  equità  : farò  che  gli 
amici  miei  compensino  tutti  \ danni  che  io  ricono- 
scerò  dati  da  essi  ».  . - 

XVI.  « Sòrà  ppi  bene  se -intorno  a ciò  di- che  gli 
altri  si  riùhùamanòi  di  voi. darete  i mallevadori  i quali 
assicurino  che  farete  come  io  tre  sfiMemioi  Se  adem- 
pite ciòy  vì  'anriurtziò  pace,  e che-  sarò  vostro  amico , 
proutissimo  per  'soccórrervi-  in  quante  -guerre  mi  chia- 
mate : fnà'se  ricusale  ,,  non , lascerò  che  devastiate  i 
paesi  degli  alleati',  nè‘ derubiate  te  città -greche  vOrt- 
dendóne'  te  persone  predale  .*  io-  ve  lo  impedirò  colle 
armi  r a^nchè  cessiate- urta  volta  dal  togliere  e por-' 


tdn-eae  da  tutta  I Italia , e màltrattandone  a Vostro 
piacete  gli  ‘uomini , come  £U  schiavi.  IVe  aspètto  'la 
risposta  in  dieci  giorni , giacché  non  potrei  pià  a 
lunga  ».  ‘ ' 


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448  DELLE  Antichità’  bomane  libro  xvii. 

XVII.  « Rispose  il  console  romano  a.  tali  cose  pun- 
gendone r arroganza , e 'dimostitpido  insieme  la  subli- 
mitA  di  Roma  a Publio  Valerit»  Levino'  'comandante  e 
console  de’ Romani  al  re  Firrt>  saltité  ».  ■Pormi  sa- 
viezza mandar’ lettere  di  minàcce  aC sudditi:  ma  vi&t 
pendere  come  uomini  da  pocoro  da  nulla- Uomini  dei 
quali  non  siansi  considerate  le  milizie  -nò  conosciuto 
il  valore  , questo  è indizio  di  forsennato  , o di  chi 
non  sa  ciò  che  è senno.  3Ia  noi  sogliamo  punire  i 
nemici  co  folti  , non,,  colle  parole.  Nè  fàteiamo  te 
giudice  de’  nostri  richiami  co’  Tapentùti , oo’  Sanniti  , 
e con  altri:  nè  prendiam  te  garante- dà  far  valere  ciò 
che  tu  . giudichi.  Decideremo  colle  armi  nostre  la  di- 
sputa pigliandone  la  pena  che  ne  vohemo.-  Su  tali 
'notizie . apparecchiati  come  nimico  ^ noa  come  giudice 
nostro  ».  - , » ' 

XVIII.  « Vagli  poi  considerare  quali  ’ garanti  ne 
darai  per  te  da  soddisfare  le  ingiurie  >che  tu  ci  fai  : 
non  ricevere  a carico  tuo  che  nè^  farentim . né  sdtri 
nemici  opprimeranno  i diritti.  Se  luti  deliberato  di int- 
prendere  per  ogni  rqdnierà  la. guerra' contro  di  nói  , 
tieni  certo  che^ti  succederà  dò  Se  di  ^ 'necessità  suc- 
cede a chi  vuole  combattere  innanzi  di,  aver  ponde- 
ralo con’ chi  sia- per  .combatterò.  'Abbi 'tutto  in  pen- 
siero , e poi  se  cosa  ti  bisogna  da  noi,  aìlo'ntàna- le 
minacce  , pon  già.  quella  tua  regia  fierezza  V vieni  al 
Senato  , informalo  ,,  persuadilo  uè' vedrai  -mtuteanS 
non 'il  tjlirilto,  e non  £ equità  a. 


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V 


i'»9 


• DELtE  ' 

ANTICHITÀ  ROMANE 


n I 


DIONIGI  ALICARNASSEO 


> • J . ' 

LIBRO  DECIMOTTAVO.  . 

SUPPLEMENTI  E FRAMMENTI. 


I.  « JLìevino  console  ramano  (i),  preso  un  esploratore 
«li  Puro  (e  prendorfe  alle  sue.  milizie  le  armi  e schie>r 
rarsì  : poi  mostratone  a lui  lo  spettacolo  gl’  impose  di 
riferirne  a cbv  lo  mandava,  tutta  la  verità  : e che  oltre 
le  cose  vedute  dicesse  che  Levino  il  console  de’Komani 
lo  ammoniva  a -non  inviare  occultamente ‘altri  per  os- 
servare : venisse  egli  'e  vede^  palesissipiameate,  e spe* 
rimenlasse  ciò  che-gian  Tarmi  romane  ». 

(■)  Addo  (li  Roma. 474- 

n/ÓJV/C/.  lówà  III.  ' ' '>9 


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45o  DELLE  antichità’  ROMANE 

IT.  « Ua  tal  Oblaco,  loprannominato.VuUinlo,  dace 
de'Fereatani,  al  vedere  che  Pirro  non  avea  posto  certo, 
ma  presentavasi  rapido  dòvuoqnc.  .tra’  soldati , diresse 
r attenzione . a.' lui  solo  : e dove'  che  ,ne  andasse  il  re 
cavalcando , ivi  piegava  anch’  esso  il  proprio  cavallo. 

' Osservando  'ciò  Leonnato  di  Macedonia  figlio  di  Leo- 
fante , .l’nno  de*  compagni  del  re,  se  ne  empi  di  so- 
spetto, e scoprendolo  a Pirro  disse  fvMar</ah'  o re  Ja 
quell'  uomo.  Egli  cothbalte  nella  prima  schiera  , nè 
sempre  fermo  m un  luogo  : e te  adocchia  , e su  te 
mette  i disegni  ». 

IIL  a.  Rispondeva  il  monarca  : E' che  puè  mai  fare 
costui  solo  conira  me  circondato  da  tanti  ? Poi  fa- 
cendola alquanto  da  giovane  circa  lé  snè  forze,,  aggiun- 
geva: e se  venisse,  egli  sjoìo  contro  me  solo,  nemmeno 
allora  sen  tornerebbe  contento.  Intanto  Oblaco  il  Fe- 
rentano  , colta  la  occasione  che  aspettava,  si  avventò 
co*  suoi  compagni  nel  mezzo  del  regio  seguito  de-’  ca- 
valieri. E forzatolo  e rottolo , ne  audàva  diritto  al  mo- 
narca con  l’asta,  retta  da  ambedue  le  maui.  Nel  tempo 
stesso  Leonnato , qùegli  che  ave^  poeaozi  ammonito 
Pirro  a guardarsene  , piegatosi  alquanto  di  fianco  tra- 
fisse coir  asta  le  viscere  al  cavallo  di  lui.  11  Ferentano 
però  nell’  andar  giù  fcH  nel  petto  , il  -cavallo  del  Mo- 
narca: tanto  che  apibedue 'caddero  co’ propri  cavalli  o. 

lY,  « Un  uom . fidatissimo  delle  regie  • guardie  del 
corpo  fece  ascendere  nej  suo  cavallo  x il  sovrano  ^ e lo 
sottrasse.  Oblaco  per  contrario  perwstendo  quivi  a com- 
battere , soggiacque  dalle  ferite  , qua^ado  alcuni  compa- 
gni, iàuoine  combattimento  grande,  pigliarono  l’estinto. 


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Lirnio  xviii.  45* 

e sif  lo  ri{>ortaro(^o.  Dopo  quell’  incontro  il  monarca 
afEne  <Ti  nòn  esser  cospicno'Bi  neniici  , fece  vestire  a 
Megarle  > fidisstihó  e valorosissimo  fra’  coin|>kgni  la  da* 
mide  sua  di  porpora  e di  Oro  usata  da  Ibi.  nel  com- 
battere, c l’armatura,  migliore  delle  altre  per  la  materia 
e pei  'tavqro , ed  Segii  prese  la  clamide  bruna  , e 1’  u- 
sbergo  e la  causia  colla  quale  , Megacle  difendeva  il 
capo  dagli  ardori.  E questo  fu  cagione , sembra  , a lui 
dj  salute  a. 

‘V.  (i).  Dopo  (Jbe  Pirro  signore  degli  Epiroti  aveva 
portato  r esercito  contro  - ai  Romani , deliberarono  spe* 
dirgli  ambasdadoH  pel-  riscatto  de'^rigiouieri , sia  che 
colui  volesse'  restituirii'cambiandoli,  sia  che  tassando  un 
prezzo  per  ciascuuo  di  essi  (a).  Pertanto  dichiararono 
ambasciadori' Cajo  Fabrizio  , il  quale  gii  console  , ad- 
dietro da  tre  anni , vinte  i Sanniti , i Lucani  , i Bruzj 
con  strepitose  battaglie  , e disciolse  1’  assedio  ‘di  Turi , 
e Quinto  Etnilio  il  quale  éelTega  un  tempo  di  Fabrizio 
fece  la  guerht  co’  Tircehi«,  è Pdbiio  Cornelio  il  quale 
gii  console  addiètrct  da  quattré'  atini  atuccò  ^utti  i 
Galli  chiamati  Scnoni,  nenvcilsfmi'de’^omani, 'e  'mitene 
a 61  di  spada  tutù  gli  adulti.' 

VI.  Venuti  quésti  a Pirro , e -discorsogli  qninto 
concerneva  il  subjelto  , come  la  sorte  non  Imttoposta 
a calcoli , corno  repentini  sOno  *i  eangiamenti  fra  le  ar- 
mi, e .come  niun  può' di  leggieri  antivederne  il  futbro; 
proposera  a- lui  che  sceglieste  dì  rendere  i -prigionieri 

a p-szzo  o permuta.  . . • ’ * • ' 

• - •■  * • 

(t)  Anno  di  Roma  47S.  ' ( ' 

<a)  Il  para$rafo  i|uhiu  sbio  ai  veuii  fe'liaiaiaéaU. 


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45a  DELLE  antichità’  bomane. 

YIL  Ma  Pirro  consulutoseae  eoa  ,gK  >001101  rispose  : 
jirduo  cimento  è il  vostror  o Romani  , . che  ricusate 
can^iungervi  meco  di  aiaicieia  , e richied/ete  i vostri 
prigionieri  da  usarli  in  altre' battaglie  in  mio.dannoi 
Voi  se  desiderate  il  bene.,  se  intenti  siete  tdX  utile 
comune  a noi  due  ; pacificatevi  con  me  , e ee’  miei 
confederati,  e ripigliatevi  gratuitamente  1 vostri  pri- 
gionieri, alleati,, 0 cittadini  che  sieno.  In  altra  moda 
non  soffrirò  che  vi  abbiate  un'  altra  volta-  tanti,  Je 
^ tanto  valorosi.  Corì  disse  presenti  i tre  'legéti  , ma  poi 
prendendo  Pabrizio  in  disparte  soggiunse:, 

Vili.  Odo  o Fabrizio  che  tu  se  prestantissimo  nel 
guidare  una  guerra,  che  se’  giusto,  e sobbrio  e pieno 
d’^ogni  virtù,  dell’  uomo  privato  , ma  che  intanto  sei 
povero  di  sostanze,  e depresso  in  ciò  solò  dalfis  sor- 
te ; onde  noli  vivi  tù  eoa  più  agio  cher . gV  infimi  se- 
natóri. Ora  io  volendo  sollevarti  anche  in  ciò,  ti  af- 
ferò tanta  quantità  di  argento  e di  oro  da  superarne 
il  più  facoltoso  tra’  Romìmi.  Imperocché  io  reputo 
liberalità  bellissima. , e degna  di  citi  presiede  , be- 
neficare i valentuomini  i ‘ qiysli . per , la  povertà  non 
vivono  con  dignità  de’  lor^  genj  bennati,  e- questi  io 
reputo  doni,  questi  monunten{i  luminosi  per /una  re-: 
già  potenza.  ' 

, IX.  Or  tu  vedendo  '0  Fabrizio  il, voler  mio,  lascia 
ógni  verecondia  ',  vieni  ,a  parte  de’  miei  beni  ; e con- 
cepisci che  mi  farai  piacer  grande,  . . e.  che  sarai 
presso  me  riverito  come  un  amico  , o un,  congiunto  , 
o certo  coni  uno  degli  ospiti  più  onorevoli.  Nè  già 
per  questo  mi  dovrai  tu  p/eslare  l’ opera  tha  in  cose 


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LIBRO'  xvnì.  4'^^ 

non  giuste,  o non  degne,  md  in  coj&  onde  tu  ne  sia 
piti  stimabile  e grande  ancora  nella  tua  patria.  E 
primieramente  pròvecherai  spianto  puoi  perchè  faccia 
la  pace  'cotesto  tu&  Senato , fin  qui  duro  , e privo  di 
niodprati  contigli.  Dirai  che  ia  venni  in  danno'  di 
Roma  promettendo  soccorrere  i Tarentini  ed  altri 
d'  Italia  : che  ora  non  sarebbe  giusto, , né  decoroso 
che  gli  cdibandonassi  io  presente  qui  coll'  esercito',  e 
vincitore  già.,di  tuia'  battaglia:  che  nondimeno  affari 
imperiosi  e molti  avvenutimi  poscia  -mi  richiamano 
alla  reggia.  • ‘ ' 

X.  Ed  io  qui  ne  do  , sii  tu  solo  o am  gli  altri 
compagni  , le  assicurazioni  più.  ferme  , c&è  io  son 
intento  a tornarmene  se  ì Romani  mi  si  concordano 
per  la  pace  : talché  puoi  dirlo  pur  francamente  ai 
tuoi  cittadini  se  alcuni  mai  - ve  ne  ‘fossero  d quali 
mal  suona,  il  mme  di  un,re,  come  quello  di  un 
fi4o , ne’  trattati,  e-témessero  di  me  similmente  perchè 
taluni  monarchi  si. videro,  sorpassare  i giuramenti,  e 
tradire  gli  accordi..  Fatta  la<^  pace  , ne  verrai  meco 
consiglierò,  luegotestentq,  copifiagno  di  ogni  mia  sorte. 
Come  ho  io  bisogno  •di  un  uomo  valoroso  e fedele; 
tu  lo  hai  quèstó.  bisogno  della  Munificenza,  e del*  mi- 
nistero  di  staUf  di  u/i  monàrca!  Se  ci  concederemo  a- 
vicenda  questi  berti;  ambedue  ne  saremo  grandissùni, 
r uno-per  t- altro.  , ' ' , 

, XI.  X)r,  qui  Pirro  sì  tacque^  e<Fabrizio  soprastan^o 
picciolo  tempo,  soggiunse:  ^Quanto  alla  virtii-mia  sep- 
pure io  ne  ito  f,  sulle  cose,  della  mia  persona  o del 
pubblico  , - non  convinte  che  io  te  ne  dica  ; giacché 


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454  DELLE  ANTICHITÀ.’ , ROMANE 

m udisti  dagli  zdtri.  E non.  conviene  pure  , tdie  -io 
dicati  come  possiedo  un  picciolo  campieello  \ ed  uno 
scarso  abituro^  e come  non  sostengo  la  tòta  00’ friuU 
datimi  dai  prestiti  o dai  schiavi;  ciopchò-cd  ^ari di-, 
mostri  aver  ascoltato  pienamente  dq  altri. 

XII.  Sia  poi  che  tu  lo' ascoltassi  altronde;- sia  che 

da  te  lo  argomenti  , non  bene  ti  ^ apponevi  <piemdo 
concepisti  che  la  probità  niente  mi  giova  , e-  che  io 
per . la  povera  vita  assai  plà  stento  di'  ogni  romano. 
Jigperoochè  nè  provai  nò  provo  ora  - tuttavia  senso 
alcuno  di  molestia  per  la  picchia  possidenza^  tanto- 
ché non  deploro  la  mia  sorte  sia  ttelle  cose  private, 
sia  nelle  pubbliche»  • • 

XIII.  E che  ne  sojfersi  mai  sicché  io-  me  ne  dol- 
ga? Forse  non  potei  conseguire  per  Id  povertà  mia 
dalla  patria 'alcuno  .degli,  oneri  00  Spi  cui., -ambiti  con 
tónta  sollecitudine.  dagC  ingenui  ? ]$  lo  posso-  io  'dir 
qtiesto  , che  cornandovi  nolle  ntagistrature  supreme  ^ 
io  che  imprendane  le  ambascerie  pià  memorande,  io 
al  qual' si  affidarono  le  cure  pih' -setcrosante  della 
relighne  ? io  finalmente  ehe  sono  -,  quando,  toccami  , 
ricercate  del  parer  mia , su  di»  ogni  affare  pià  gra- 
ve?'la  vi  sono  espplaudito  , io  ammicato,  h uon  se- 
condo a ninno  de'  pià  polenti,  e tenutavi  com’  esem- 
ph  Jìi  fettitudine.  'E  sappi  che  inr  età  fare  hè  io,'  nè 
gli  alwi  siamo  punto  dispendiati: 

XIV.  Imperocché  Ronia  non  intomnttrdade  sostanze 
altrui,  come  le  incommodano  le  altre  -eittà  nelle  -quali 
grande  'è  la-  ricckesta  privata , ma  scarsa  la  pubbli- 
ca: generosa  la  nostra' patria -e  magnifica  porge  ella 


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L 


LIBKO  XVIII.  - - 455 

tlesia  di  che  fare  ogni  spesa  quante  no  bisognano  a 
chi  preftde  i ^pubblici  'ajfart.  Di  guisa  che  nelt  an- 
dare alte  cariche'  non  vedutasi  il  povero  men  del  piit 
ricco  f ma  risguardansi  tutti  egualmente  , quanti  pei 
nienti  toro  sorto' degni  di  reggerle.  E se  io  povero 
non  apparisco  in  esse  minore  de'  grandi  possidenti , 
e di’  che'  msd  condannerò  la  mia  sorte?  Forse,  perchè 
non  mi  rese  eguate  a voi  re  li  quali  accumulate  tanto 
di'  oro  ? Eppure  io  nel  tenue  mio  statò  rimpetto  ' ài. 
pià  ricchi  mi  credo  una'tfe’ ^oc/y  felici  i e'  per  ciò 
m’  inaleo'  a'  grandi- pensieri. '■  > ■ 

XV.  Magro  ò il  nfio  poderetto:  eppure  amando  io 
di  lavorarvi  ed  appiicàndomene  prudenzialmente  ->  i 
frutti  t somministramb  tutto  il  bisognevole;  riè  la  na- 
tura ci  viohnUf  a cercare  pià  che  il  bisogiievole. 
"Soave  m’  è f alimento  cui  la  fame  còridiscemi,  dolce 
la  • bevanda  Cui  la  seté  procurasi  , e molle  il  sonno 
cui  la  stanchezza  precede.  '&ijfèientissima  rrì  è la 
vèste  Che  mi  difènde  dal  fredda  , come  acconcissimo, 
il  -vose  meri  prezioso  fra  quanti  datino  P uso  mede- 
simo. Noti  saria  ^unquè  giusto  accusare  la  sorte,  la 
quale  mi  pòrge  quanto  basta  alla  natura,  e la  quale 
se  'non  dovami  H'  abbondanza , non  tri'  impresse  netn- 
tnèno  desiderf  superflui.  • 

XVL  Io  non  hb  mètri' è vero  da- soccorrere  riti- si 
debbe  ;~'ma  nemmeno  diedemi''Dio.  su  le  ricchezze 
quella' cognizione . certa  j 'o  divinatoria  per  la  quale 
gioitasi  chi  he'  abbisogna  , come  nemmeno  diedemi 
tante -altre  cose.  Partecipo  ciocché  ho  colla  patria  e 
gli- amici;  porgo  loro  còme  comuni  le  cose  mie  , be- 


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456  DEixE  Antichità’  romane 
neficando  come  posso  chi  ne  abbisogtia  , nà  'quindi 
io  credo  mancare.  K quesfe  sono  quelle  manierp  mie 
che  tu  giudichi,  prestantissime  , e else  sei  pronto  di 
comperale  a sì  gran  prezzo.  - 

, XVll.  Che  se  poi  la  ^ gran  possidenza  sia  degna 
che  procqrisi  po/t  tante  premure , e gare  appunto  per 
benefitare  chi  ne  abbisogna  » e se  questa  rende  più 
Jelici  i pià  ricchi  come  sembra  a voi  re  j qaoii  vie 
saran  le  migliori,  da  pi'ocurarsela,  quellè  per  le  quali 
vuoi  tu  'che  io  me  l'  abbia  ingloriosamente  , o quelle 
per  le  quali  io  V avrei  prima  ottenuta  con  decoro  ? 
Certamente  gli  affari  di  stato  mi  diedero  tante  volte 
per  addietro  > mezzi  da  arricchirne  principalmente 
quando  già  da  tre  anni  fui  • consolo  , spedito  col- 
f esercito  cantra  <14  Sanniti,  ai  lAicani , agli  Bruzj  , 
quando  saccheggiale  laute  terre  , li  vinsi  in  colepo 
con  tante  battaglie  quando  pigliandole  -a  forza, 
esaurii  tante  città  luminose.  In  que  giorni  arricchii 
V esercito  , resi,  ai  privati  quapto',  avevaiio  sominini~ 
strato  per  la  guerra , o portai  dopo  il  trionfo  quat~ 
trocentq.  talenti  nell'  erario.  / >, 

XVIII.  K potendo  di^  tali  acquifU  applicarmene 
quanto.io- voleva  ; • non  veppi  toccarne  I 0 trascurai 
per  amor  della  gloria  uua  ricbhezza  anche  giusta  ; 
come,  fece  falcfio  Poplicola,' e ,come  pur  fecero,  altri 
moltissimi  pc’  quali  - Roma  tante  'ne  è grandiosa,  Ma 
da  te  quali  doni  mi  si,  apparecchìanà  ? Non  cans- 
hierei  forse  il  meglio  col  peggio  ? Sal'ebbe  quella 
prima  maiiiera  di  possedimento  stata_uiùin  colla  sod. 
disj azione  del  cuore,  con  un  apparalo  di  giustizia,  e 


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, j LIBRO  XVIU.  ' 4^7 

decoro;  ma  da  codesta  tua  Ujopfia  tatto  ciò  manca. 
Imperocché  qpAttVO^  uquo^accstta  dall’  nomò  k 
cotta  ca  knseTiro  csb-gu  gravita-  iNTOthro  riw 
cuk  SOL  oottrairifA  i k NAseoaDASf  purb  . la  etA- 

TORÀ  DBL  PRESTITO  .co' tfÙMI  SPSCIOSf , DI  DONLf  Dt 
favori  ; DI  BiOfBFfCBmBE.'  , , o 

XIX.  Or  su  poni  che  io  uscendo  da  me  prenda 
C oro  che  mi  offerì,  e ciò  divulghisi  tra’  Homani.  I 
magistrati  irreformabiU , quelli  . che  noi  chiamiamo 
censori , a’  quali  spetta  esaminare  U' vivete  de'  ife>« 
mani  e castigar  ehi  devia  -dalle  cóasuetadini  della 
patria  , quelli  mi  citino  e m’  astringano  a-  dar  conto 
de’  doni  ricevuti , al  cospetto  del  pubblico  e,  dicano  : 
;,xt.  « Noi  (i)  ti  abbiamo  inviato  o.  Fabticio  con 
due  consoUpi  al  monarca  per  trattare  il  riscatto  dei 
prigionieri.  Tu  rivieni  dalla  spedizione  ‘ feoza  li  pri- 
gio/tieri , e sene’  altro  bene  por,  la  eittà  : Bitorni  col» 
mà  , e m solo^  e npn.  i tuoi  compagni ,,  delle  regie 

.(<)  Quello  icalto  di.parlaU  moca  ne*  fri(niineali  de* Terni  libri 
(li  Dionigi  pubblicati  «la  FuIt^o  UmÌdo  neT  libro  tle  Legattonibus. 
Per  altro  nel  codice  .4nlbroiiai)o  pubblicato  in  gran  parg;  da  Mon- 
signor Maj  ri  sona  le  parole  greche  corrispondenti  alle  italisne  : i 
magìatMi-,  irraformabùi  dir.  come  (iiHe  ai  avfeario  nel  codice  del 
<|uale  si  Tal^  l'djrsioo.  Ciò  che  ia  concepire  che  il  retto  del  di- 
scorso benché  sia  bell’ epitome  , fe  quello  stesso  il' quale  era  oo’tciUì 
libri  dell’ opera 'estesa  di  Olgoigi.  Tale  risoonlro  però  m*  indiicé  a 
pensare  che  l'aptore'dal  compendio,  net  terlp  seguitò  l’opera ‘co- 
piosa di'  Dionigi  e ma  che  esso  non  fa  Dionigi  ; Imperoccbi  gli.  au- 
tori grandi  restriugono  non  solo  la  storiq  ma  molto  piò  le  parlate  , 
onde  ,bon  sorgano  scritti  sregolati  con  parti  ora  naue , ora  gigante- 
sche. Aitfi  (piesto  couipendialorb  indite  altre  rotte  /eccede  rgiial* 
menie  circa  le-  parlate  de’  Tenti  libri , meksc  nel  Compendio.  < 


/ 


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458  DELLE  Antichità’  romane 

largizioni  zon  aver  fatta  di  tuo  volere  una  pàté  senza 
V util  di  Roma  ; e che  Roma  rigetta.  Ofa  donde  è 
mai  (Questo  > se  non  da  ciò  die  tu  ne  tradisci  al  -ne- 
mico, sì  che  egli  coi  tùo  mezzo  soggioghi  per  sè  /’/- 
talia  , e tu  col  mezzo  di  lid  tòlga  alla  patria  la  li- 
bertà ? Così  fan  tutti  gli  nomini  di  una  v^tà  simu- 
lata," e non  vera,  quando  si  sono  avanzati  al. grande 
e forte  degli  affari  «.  « . > . , 

• XX.I.  w Che^fe  non  -tu- adorno  ddla  dignità  sena- 
toria,-e  non  da  nemici,  cnom^per  tradire  e far  ti- 
ranneggiare la  patria  avessi  accettato-  que  doni,  ma 
soltanto  come  privato  da'-un  re  cotfederato,  e senza 
ombra  di  male  pel  comune,  dì,  non. saresti  da  pu- 
nire anche  per  questo  che  depravi  li  giovani  , insi- 
nuando nella  loro  vita  il  genio  per  la-  ricphezza,  per 
le  delizie  , • e per  Its  sontuosità  dd  monarchi-^quando 
abbisognavi  condnenza  estrema  a preservar -la  repub- 
blica? Svergogni,  li  tuoi  maggiori  de'  qu^i  niuno  de- 
viò dagli  usi  della  patria  nè  mutò  la  povertà  deco- 
rosa con  turpi  ricchezze  : Si  tennero  tutti'  nel  tenue 
patrimonio,  che  fu  riceyesti,'ma  poi  “riputasti  minore 

di  tC  n'  . , K 

' XXII.  u Anzi  tu  ' dissipi  la  gloria  a te  risultata 
pe’  fatti  anteèedenli , la  qiiaL  possedevi  di  uom  tem- 
perante , e superiore  ai  bassi  desìderj.  Ti  diletterai 
di'  esser  fatto  malvagio  di  proho , quando  dovevi  an- 
che cessare  dall'  esSer  inalvagió  , se  eri  mai  tale? 
'O  sarai  da  ora  in -poi  messo  a parte  mai  più  degli 
onori  dovuti  ai  buoni  ? anzi  levati  piuttosto  dalia 
città,  o dal  Foro  almeno.  E se  ciò  dicendo  mi  cas- 

i.  ' 


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LIBRO  XVIII.  4^9 

sasserp  dai  Senato  , e mi  riducessero.  disonnati, 

qual  cosa  ftqtrei  replicare  , o.  quid  Jar  giustamente 
in  contrario  ? E, dopo  ciò  qital  vita  vivrei  io  mai, 
caduto  in  tanta, infamia t‘~e  versatola  in  tutti  i iniei 
posteri  ? n • , , - 

XXIlI.  u Quanto  a te  poi  come-  darò  segno  mai 

più  di  giovarti , se  tra  miei  perdo  la  influenza  e Ut 

riputazione  , per  le  qatdi  ora  cerchi,  di  afJezionap~- 
miti  ? Quando  non  potessi  più  nuUa  nella  patria  , 
non  mi  rimarrebbe  che  uscirne  cottr  tutta  la  Jìtmiglia, 
condannandomi  da  me  stesso  ad  un  obbrobrioso  esilio.' 
Ma  dove  mi  starei  da-  indi  in  poi  , qual  ' luogo  mi 
ricetterebbe  » ridotto^'  ^eom’  è conseguenza  , senza  la 
libertà  del  parlare  ?>  Forse  il  tue  regno?  Viva- Giovo 
se  mi  apprestassi  tutta  la  règia  tua  prosperità,,  non 
mi  daresti  tanto  bene  quanto'  mé  ne  togli' , . levatami 
la  libertà,  preziosissima  innanzi  <uUf>  ,n . * 

XXI-V.  u Còihe  potrei  tener  vita  tanto  divérta  ^ 
tardi  ammaestrato  a servire?  Se  cJù-  è nato  ne’ regni 
e nelle  tirannidi  quàhdo  abbia  cuor  generoso  , ama 
la  libertà , stì/nando  ogni  -benè  meno  difessa  ; come 
chi  è cresciuto  ùt  città  libbra  e consueta  dominare^ 
su  gli  altri  , passerà  volentieri  di  bpie  in -mole  , di 
libero  in  suddito  per  imbandire  laàte  ogni  giorno  le 
mense,  pie  .aver  gran  seguito  intórno  di  servi,  e 
pigliar  diletto  senza  rifeèya  eoa''  femmine  e donzelli 
formosi  quasi  'la  ùmana  felicità  sia  riposta  in 
questo  0 non  già  nella  virtù  ?-n 

XXY.  u'Ma  sùm  pure  questo  e cose  altrettali  de- 
gnissime \di  esser  cercate  , or  quando  /’  uso  ne  sarà 


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46o  DELLE  Antichità’  romane  / 
tnai  lieto  se  non  sono  mai  stabili  ? Se  a voi'  sta 
concedere  tali  amabili  còse.;  voi  le  ritogliete  uguale 
mente  ,■  quando  vi  piace.  Lascio  di  ridire  le  gelosie  , 
le  calunnie  , la.  vita  sempre-  in  pericolo  , sempre  in 
timore , e tutti  gli  altri  sconci , non  degni  del  wx» 
lentuomo  , quanti  ne  porta  lo  sfar  presso  ai  moìiar- 
chi.  Già  non  colpirà  tanta  stoltezza  Fabrizio  da  ab- 
bandonare la  famosissima  Roma  per  vivere  nelC  E- 
piro;  o da  ridurlo  chk  merUre  può  far  da  capo  nella 
città  dominante , voglia  essere  dominato  da  un  solo , 
pien  di  sestesso,  e .còhsueto  di 'udire  dagli  altri  sol- 
tanto ciò  che  diletHa  ».  j 
XXVI.  « Già  non  potrei  levare  il  grandioso  nei 
pensieri t nè  impiccolirmiti , anche  volendo,  sicché  tu 
non  debba  sospettare  niun  danno.  E rimanendomi 
come  la' natura  e-'glt  usi  della'  patria  mi  han  fatto  , 
ti  parfè  grave , ■ e quasi  tirare,  da. ogni  pòrte  il  co- 
mando verso  di  me.  Generalmente  debbo  avvertirti 
ctie  non  vagli  ricevere  nel  - tuo  regno,  nè . Fabràio,  nè 
altri , sia  maggiore  sia  .'pòri  tuo  nella  virtà  , . ni  af- 
fatto chiunque  sia'crescitUò  iti,  città  Ubère  con  sensi 
più  grandi  deiiP  nomo  privato.  Già*  non  è sicura 
ai. principi  nè  cara  la  dimestichezza  con  uomini,  di 
mente  eccelsa.  • Mà. su: V utile  tuo  vagli  tu  da  te,  di- 
scernere ciò  eli  è da  fare:.-quaoto  a prigionieri  nostri 
scéndi  ai  miti  consigli,  lasciane  aitdare  ». 

. XXVII.  Appena  Fabrizio  (ìae,  maraviglialo 
della  magnanimità  sua,  lo  prese ‘per  la  (lesira  dibendo: 
Già  non  mi  vlen  maraviglia  che  la  vostra  città  sia 
tanto  celebrala  , • la  cresciuta  a tanta  signoria , dap- 


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LIBRO  XVllI.  4^1 

poiché  dia  nudre  tali  valentuomini.-  Ben  avrei  caro 
che  non  fosse  stata  fra  noi  briga  ninna  fin  dalle 
origini,  fifa  poiché  vi  fu,  poiché  taluno  de'  numi  volle 
che  noi  misurassimo  a vicenda  le  nostre  forze  e iL 
valore , ^ misuratolo  ci  riconciliassimo  ; son  pronto. 
E cominciando  io  la  benignità  la  quale  dimandate  , 
restituisco  'in  dono,  e non  a prezzo  i suoi  prigionieri 
a Roma  n.  ^ , •' 


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46a 


DELLE 

, ANTICHITÀ  ROMANE 

di"  ' . 

I » 

DIONIGI  ALICARNASSEO 


LIBRO  DECIMONONO. 

r 

. SUPPLEMEirri  B FRAMMEHTL 


I.  « X^ECto,  un.  Campano,  lasciàtd  da  Fabrizio 
console  romano  per  capo  ddia  gbarnìgione  di  Regio  (t), 
invaghito  dei  beni  di  questa , finse  venutagli  lettera  da 
un  ospite  suo  nella  .quale  si  annunziava  che  il  re  Pirro 
manderebbe  cinque  mila  soldati  a Reggio  per  invaderla, 
promettendogli  li  cittadini , di  aprir  loro  le  porle.  Su 
tale  pretesto  uccise  cinque  di  Reggio,  e poi  comparti 
le  maritate  e le  nòbili  tnt*  suoi  militari,  » vi  si  fece 
(i)  Anno  di  Roma  47^. 


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CELLE  antichità’  ROMANE  LIBRO.  XIX.  4®'^ 
tiranno  (i).  Alfine  caduto  nudato  degli  Occhi  mandò 
cercando  • in  Messina  Dessicrate  medico  » prestaatissimo 
secondo  che  udiva.  ...>,.»  r 

II.  « Pirro  recitò  li  versi  che  Omero  mise,  in  bocca 
di  Ettore  verso  Achille  ,'qnast  detti  da’  Romani  versò 
di  Pirro; 

. , Ma  te  tale  e Xaot’  nomo  io  gHi  non  voglio  , 

Cól  guardo  seguitandoti , di.'forto  , ■ 

^ Ma  palese  ferir^  se  mi  riesca  i ' • ■ 

Poi'  soggitmgendo  che  egli  seguiva  forse  nn  tristo  $u> 
bjetto  di  guerra  contro  Greci , buonissimi  e giustissimi , 
ma  rimanevaci  un  solo-  e bel  termine  ; che  li  rendesse 

4 

amici  di  nemici  , con'*  principio  magnifico  di  benevo- 
lenza. n • ‘ 

III.  tt  Quindi  fattisi  veaire'  li  prigionieri  de’  Romani, 
diede  a tutti  vesti  convenienti"  ad  uomini  liberi  , e le 
spese-  del  viaggio,  Con  esortargli  infine  a ricordarsi  quale 
egli  foése  staio-  inverso  'di  essi,'  a manifestarlo  - agh  altri, 
e cooperare  con  (utlb  1’  impegno  ‘ a .rendergli  amiche  le 
patrie  loro  , quando  vi  giungessero,  .'i  . 1 Certamenté 
r oro  de’  principi' ticn  forza  insuperabile,  hè  fu  dagli 
uomini  trovato  -fin  qui  riparo  contro  di  arme  siffatta.  »... 

IV.  CKnia  da  Crotone  uomo  soperchiatore  privò  di 
libertà  le  cittadi,  'cOn  dar  fritnehigia  ad  esuli  e schiavi 
numerosi' de’ 'luoghi  intorno  (a).  Fondata  là  tirannide 

(i)  Quel  di  Reggio '«ve  vano  cercalo  il  presidio  Romano,  temendo 
tanto  de*  Cariagipeai  quanto  di  Pirrol  Dacib  uccise  li  cinque  qni  si- 
gnificali in  un  convito.  Ma  li  soldati  ne  uccisero  assai  più  per  le  case, 
come  sì  racc'bgjlie'  da  Dione.  ''  ' 

(a)  Questo  paragraie  , e l(  tegajeuti  lino  al  duodeoimo  sono  fram- 
menti. 


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464  DCLi.E  Antichità’  Domane 
col  mezEO  di  questi  uccise  o bandi  li  Grotoniati  più 
rìguardevòli.  Anassilao  oocopò  la  fortezza  di  Keggio , e ■ 
ritennela  per  tutta  la  vita,  lasciandola  appresso  al  figlio 
suo  Leofrone  (i'.  Dopo  questi  anche  altri  facendosi'  a 
dominar  le  città  vi  sconvolsero  ogni  cosa^ 

V.  Ma  il  dispotismo , ultimo  a nascere  e massimo  ad- 
opprimere  le  città  d’ Italia , fu  quello  di  Dionigi , tiranno 
della  Sicilia.  Imperocché  passato  nella  Italia  in  soccorso 
de’  Locresi  che  vel  chiamavano  a danno  di  que’  di  Reg- 
gio , che  erano  loro  nemici , ebbe  incontro  eserciti  Ita- 
liani numerosissimi  ; ma  postovisi  in  battaglia  uccise 
moltissimi , e presevi  a forza  due  città.  Poi  tornato  un’ 
altra  volta  in  Italia  svelse  dalle  loro  sedi  gl’  Ipponiesi 
traendoli  nella  Sicilia  : invase  Crotone  e Reggio  e vi 
tiranneggiò  per  dodici  anni  fiqché  queste  città  sopraffatte 
dal  timore  di  lui  si  diedero  ai  barbariv  Ma  poi  premuti 
pur  da’  barbari  come  nemici , si  rimisero  nelle  numi  del 
tiranno.  E fluttuando,  come  le.  acque  dqli’  Euripo , si 
volgevano  senza  requie  qua  e là  fortuitamente , levan- 
dosi da  chiunque  li  malmenasse. 

VI.  Scese  PiiTo  di  bel  nuovo  nell’  Italia,  non  riu- 
scendogli. nella  Sicilia  le  cose  come  le  ideava  , perchè 
il  governo  di  Ini  sembrò  dispotico  anzi*  che 'regio  alle 
città  principali.  E per -vero  dire,  iutrodoftp  questo  in 
Siracusa  da  Sosistrato  che  allora  vi  presedeva , e^da 
Toinone  capitano  della  fortezza  (a),  e ricevnto  da  essi 
r erario  , e presso  che  dngento  navi  rostrate  , e sotto- 

(i)  Ciurlino  uel  lil>.  a fa  mcniione  di  <piea(o  Leofrone  tiranno  di 

(i)  Anno  di  Roma  477' 


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l 


LIBRO  XIX.  4^5 

messa  a mano  a mano  tutta  la  Sicilia  , tohaoe  la  città 
di  Lilibeo,  1*  unica  la  quale  vi  rìtene^eco  i Cartaginesi, 
diedesi  iulìoe  ad  insolentirvi  fierissimamente.  . , ^ 

' VII.  imperocché  tolse  le  sostanae  che  gli  amici  e fa- 
miliari di  Agatocie  aveano  da  Agatocle  stesso  ricevute  , 
e le'conoedene  ai  suoi.  Comparti  similmente  le  grandi 
magistratùre  delle  città  fra  i suoi  centurioni  , e satelliti 
non  secondo  le  leggi  locali , bè  pp’  tempi  consueti,  ma 
secondo  .che  -gli  piaceva.  E li  reclami,  e le  cause^  e gli 
altri  provvedimeéti  civili  o li  decideva  egli^di  per  sestes- 
so,  o dava4  a discutere  e definite  ai  cortigiani,  no-, 
mini  intenti  solo  a far  guadagno  e tresca  nell'  abbon- 
danza. Per.'  tatti  questi  nuotivi  riusciva  gravissimo  cd 
odiosissimo  alle  j:iuà  che  lo  avevano  ricevuto. 

Vili.  Avvedutosi  come  tentisi  erano  alienati  da, lui, 
mise  guarnigione  -per  . le  città  sul  pcete;pto  delia  guerra 
con  i Carljginesi,  e^poi  fingendo,  di  averne  scq perle  le 
insidie  ed  i tradimenti,  prese,  ed  uccise  i,  personaggi  più 
riguardevpli , e Va  questi  Tq'tpooe  il  Castellano , il  > più 
zelante  per  pubblica  ^confessione  e più  attivo  nel  dar 
mano  a Pirro  pèrcbé  scendesse  nell’  isola  e vi  regnasse , 
giacché  si  eca  .costui  recate  colla.  fidUar^er  incontrarlo^ 
e gli  av^a  renduta  l’ isoletta , da  Idi,  presidiata  in  Sira- 
cusa (i)..  Ma  tentando  sorprèndere  ugualmente  Sosistrato 
fu  ddosò.;  perocché  costui  previde  le  insidie , * e fùggì. 

- ' r ' ‘ • 

' ' i * ' ' *’ 

,(r)  ^irapnsiT'pcr  quatuo  rileviamo  da  Lucio  l^loro  era  coma  aoa 
ciùà  composta  da  tre  cittàio  delle  quali  ngoiina  /ra  cir- 

oonJata  di  mora.  Vedi  le  uote  lib.'  a , c.  nella  faoSlra  tlradu- 
xKltoe  ^i  quello'  icritìera.  • , ' 

DIÓA’TGI  f tomo  ///.  , i , 


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4G6  DELLE  Antichità’  romane 
Poi  coniinciaiKlo  a scouyolgeoi  le  cose  di  Itti  ; Carta> 
gine  credette  avere  il  buon  tempo  da  riprender  nell’isola 
i luoghi  perdniivt,  e' ti  spedi  sollecita  un’ arinata. 

. IX.  Evagora  figlioolo  di  Teodoro , ^alacro  ' figliuolo 
di  Mieapdro , e Dinarco  figliuolo'di  Nicia , tristi , infàmi 
sopra  tutti  gli  amici  di  Pirro  ,*  emoli  com’  erano  in  dar 
consigli , alieni  da’  Dumi  e dal  culto , vedendo  il  mo- 
narca in  disagio,  cercar  vie  da  conseguire  danari , glie 
ne  proposero  una  indegnissitna^  i^e  era  quella  di  aprire 
i tèsoli  sacri  di  Prosèrpina  (t).  Imperocché  nella  città 
stessa  eravene  un  tempio  aaitvo , il  quale  serbava  oro 
in  copia , intatto  da  tempo  antichissimo , e dove  altro 
ven'  era  invisibile  a tutti,  come  posto  occnltistimamente 
sotterra.  Sedotto  ^da  tali  adulatori,  e riputando' la  neces* 
sità  superiore  a'  tutto,  si  valse  de’  consiglieri  medesimi 
per  lo  spaglio  sacrilego.  Quindi  tutto  riconfortato  im- 
baroò  con  altre  ricckecze  Toro  venutogli'! dal  tempio, 
spendendolo  a.  Taranto. 

X.  Ma  la  provvidenza  giusta  degl’  Iddj  maoifcslò  T ef- 
ficacia sua.  Perocché  ariose  dai  porto  pròcéderono  in 
principio  le  nari' col  fi^re  A t/n.  venm  terra  ; ma 
poi  cambiatosi  questo  iu  altro  coo^rìo  ii^pestà  per 
tutta  la  notte , e quali  ne  affondò , . quali  ' ne  miruse  al 
golfo  di  Sicilia  ; e spinse  ai  fidi,  di  liocrs  quelle  ov’  èra- 
no portati  i doni' , già  votivi  ne’  tempj , e P oro  'am- 
Jtnas&atooe  : e qui  disfacendosene  i legni  foce  perire  i 
nocchieri  naufoaghi  pel  riflusso  deUe  onde  , e sparse 
)’  oro  sacra  su  la  spiaggia  appunto  più  prossima  a Ix>cri. 
Donde  costernato  rese  il  mouaroa  alla  Dea  tulli  gli  or- 

(>}  Anao  di  Roma  4/8- 


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LIBRO  XIX. 

namenti  e i tesori , quasi  per  allontanare  con 
collera.  » 


4G7 

ciò'  (a 


Stollo  ! che  non  vede»  t/ùali  tormenti 

Tf«  ìncorrerì*  : 'chè  facili  non  tono  , ■ , , 

. Thnla  a mutarti  le  celesti  menti,  * ' ' 

Come' Ai  détto  da  Omero  (r).  Dappoiché  stese  la  mano 
lemerliria  su  1’  oro  sacro,  onde  valersene  in  guerra,  la 
Dea  lo  iniìitQÒ  nè*  Consigli  » per  esempio'  e 'documento 
de’  posteri.  t 

XI.  E per  questo  appunto  ' io  vlcrto  colle  armi  da’  Ro< 
manìj  Imperocché  non  etimo  le  sue 'milizie  o spregievoli 
o'non  disciplinate,  ma  le  più  valevoli  allora  della  Gre- 
cia e più  invecchiala  ita  i cimenti  delle  armi:  non  erane 
picciolo  il  numero , mà  tre  volte  più  grande  delle  Ko- 
roane:  non  eaaoe  esso  Qn  capitano  comunqoé,  ma  comé 
tutti  coufessauo , il  'più  t insigne  di  quanti  'allora  ne 
fiorissero.  Finalmente  tioU  i luoghi  sravorevoli , jion  i' 
soccorsi  repeutini  de’  neóiici,’  e non  altre  congiunzioni 
rd  emergenze  di  oasi  fiaccarono  Pirro,  mà  l’ira  lo  di< 
sfece  della  Dèa  vilipesa , come  egli  ben  'se  ue  avvide  , 
e come  Prosscno  raccontò  nella  storia , anzi  come  Pirro 
egli  stesso  lasciò  scritto  de*  suoi  comtnentarf. 

XII  (2).  « Erano  per  marciare  come  ùsano  i soldati 
di  grate  armatorn,  con  elmòy  corazza,  e Mudo  so  ripe 
e lunghi  s0itier?';>  praticati  don  éagli  uomini,  ma  dàlie 
capre  per  lo  selvoso  e scosceso  in  che  sorto  : cd  erano  , 
per  andare  senza  ordine  alcùno  spossandosi  dalla  sete  e 
(1)  Odissea  111-,  , 

):<)  Il  paraj^rafo  la  i suppliio  colla  rpilome  di  Dionigi , ma  it 
segucuie  « tulio  ftanimculi  tolloue  le  parole  iuchiuse  Ira  virgole. 


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468,'  DELLE  antichità’  ROMANE  LIBRO  XIX.' 
dallo  5tento  innanzi  di  scoprir  l’ inimico  ....  Quelli  i 
quali,  combatlono  da  vicino  aiTerrate  le  aste  equestri  con 
' antbe  le  mani  e spesso . riescono  a bene  .^.  . .Quelli  che 
li  Romani  chiàmano  principi  pel  combattere.  » 

XIII.  Nelib  notte  appunto  nella  quale  Pirro  aveva 

deliberato  dt  cohdurre  T esercito  ai  monte , parvegli  in 
sogno  versare  il  più  dei  denti ^ dalla  bocca,  sgorgandone 
intanto  sangue  copioso.  Turbatone  ed  impensieritone 
come  per  la  visione  di  grande  calamità  futura  volea 
sospendere  per  quel  giorno  la  marcia  : « perocché  altra 
volta  dopo  egpale  visione  fra  il  sonno  gli  era  spcceduta 
terribil  vicenda  Non  potè  però  vincere  i destini  , 
vinto  egli  ste^  dagli  amici , ^e  ripugnarono  all’  in- 
dugio , insistendo  , che  tion  lasciasse  sfuggirsi  tale  oc- 
casione dalle  mani  (i).  . , 

XIV.  « Avvedutisi  r Rotnani  che.l’  esercito  dì  Pirro 

ascendeva  con  gli  ele&nti,  feriscono  il  figlio  di  nn  ele- 
fante : e questo  porié  ai  Greci  molta  perturbazione , e 
la 'fuga  in  fine.  Pqi' li  Romani  uccidono  due  elefanti  e 
ne  prendono  vivi  otto , ridottili  in  luogo  senza  scampo, 
datane  loro  la  consegna  dagl’  Indiani  che  li  guidavano  : 
e fanno  strage  cupa  di  militari,  a < ' . 

(i)  Qa'i  fioÌAcono  i frammeuli  i quali  eiaoA  già  parti  degli  ottiroi 
nove  libri  perduti  ira  i Temi  delle  >^micllUà  Romane  di  Dionigi. 
Tulio  il  resto  t auppliio  col  compendio  formala  su  li  medesimi 
verni  libri.  ' , 


. ) 


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4^9 

DELLE  ■ 

ANTICHITÀ  ROMANE 

. ' - '01  , < 

DIONIGI  AIICARNÀSSEO 


.LIBRO  VENTESIMO; 

, • ' , SUPPLEMENTI. 


I.  R Fabrizio  già  console  , creato  censore  «scin- 
se (i)  dal  numero  de’  senatori , -Cornelio  Rufino  insigne 
per  dne  consolati  e per  una  -Dittatura  , appunto  perchè 
il  primo  diè' vista  di  troppo  lusso'  per  1’  apparecchio  in 
vasi  d’  argento , pouedendone  in  dieci  libbre  , le  quali 
sono  pOco  più  che  otto  min&  dell’  Attica.  » 

II.  « Gli  Ateniesi  ebbec  lode  pecchè  punivano  come 
rei  contro  del  ptibblico  gl’inerti,'  gl*  inoperosi  ^ rtè  frut- 
tiferi di  utile  alcuno.  : Ma  gli  .Spartani  la  ebbero  'perchè 

(i)  Anna  di  Rona  479* 


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470  DELLE  antichità’  ROMANE 

davano  a’  seniori  di  poter  battere  colle  vergile  i cilta- 
dini  li  quali  disordinavano  , in  ogni  pubblico  loco.  Ma 
né  provvedevano  nè  sopravvegliavano  alle  cose  operate 
entro  casa',  riputando  .la  porta  dell’ atrio  ^sser  limile  al 
vivere  inosservato  (i).  » 

III.  a .Ma  li  Romani  spalancavano  le  case  internan- 
do vene  anche  nel  pt^  secreto  1’  autorità  del  censore, 
fatto  ispettore^  e curatore  di  quanto  vi  « , operava.  Con- 
ciossìacbè  pensavano  ’ che  nè  il  padrone  dovesse  esKr 
crudele  nel  punire  li  servi , nè  il  padre  aspro  o molle 
fìior  di  misura  nel  governo  de*  figli , nè  1’  uomo  ingiusto 
nella  communione  colia  moglie , nè  li  figli  indocili  ai 
vecchi  padri , nè  i fratellt  legittimi , disegnali  nelle  pre- 
tensioni, nè  li  conviti  o il  beré  cohtittnati' Jn  tutta  la 
uott'e  , nè  li  giovani  derelitti  o.  subornati , nè  tralasciati 
gli  usi  aviti  delle  cose  de’  templi  e de’  sepolcri  : nè  (die 
altra  cosa  qualunque  di  quelle  praticate  contra  il  decoro 

e r utile  di  Roma  (i) Saixheggiavarnó  1’  avere 

de’  tilladini  sul  pretesto  che  aderivano  ai  regio  parti- 
to (3).  » 

(li  Nel  lesto  lìmite  alta  iHertà  del  vìvere. 

(a)  La  ceoMira.  fu  ialkuiia  secondo  Lino.JV,,  8 l’anno  3ii.  la 
tal  anno , o forse  nSI  teguepte,  cesM  coll^  undacimo  Ubro  e manca 
Ih  storia  ampia  delle  anlidiiià  Romàne  scritta  da  Dionigi  in  venli 
libri.  Sema  dubbio  Dionigi  parlava  al  suo  Ifiogo  nè^ libri  perduti 
della  ittitutione  della  Centiira.  la  r]Besto  eompendirs  se  ne  parla 
ora  sotto  I’  anno  479. proposito  per  ocession  delta  pena  dalg  a 
Cornelio  Rufino.  Forse  ciò  fc  stato  per  non  ripetere,' e forst  l'au- 
tore del  compendio  non  6 Piouigi  .petciocolii -<]«ella  istitusiune  4 
troppo  rilevaute  per  doverne  partgra  al  sao  tempo  precisamente. 

(3)  Di  Firro  seoibfa  , dovunque  ciò  foste.  < 


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LIBRO  XX.  47  1 

IV.  K Nemerlo  Fabio  Pittore  , e quioto  Fabio  Maa- 

sirao,  e Quinto  Algumo  , andati  ambasciadorii  a To- 
lommeo  Filadelfio  (i)  , in  vista  di'  una  sua 'deputazione, 
ed  onorati  ciascuno  con  don!  propriì  da  lui  che  regnava 
su  r Egitto , il  secondo  dopo,  Alessandro . Macedone  , 
tornando  a Roma  vi  dieder  discarici»  della  loro.inissione, 
e poetarono  i s%g)  doni  al  pubblico  Eirario.  U Senato 
ne  enoonuò  tutte  le  opere:  nè  permise, che- d accomu- 
nasse oiò  che  era  stato  donato  in  proprietà  dal  sovrano 
a ciascqno  : ma  volle  che  se  lo  recassero  alk  proprie 
case  , come  premio -della  virtik,  e monuiaenlo  di  onore 
ai  posteri.  » , * ' 

V.  c Li  Brùzj  nel  soltoraeuerc  seslessi  spontanea- 

mente ai  Romani  cederono  metà  del  territorio  montuo- 
so , il  quale  è chianuto  Sila , pieno  di  piante  acconce 
alla  costruzione  di  case  e navi , come  ad  ogni  altro  ap> 
parecchio.  Conciossiachè  ivi  crescono  in  copia  abeti  al- 
tissimi e pioppi , e la  pingue  picea , e il  pioppo  e il 
pino  > e r ampio  fàggio , e il  frassino , fecondati  dàlie 
acque  che  vi  trascorrono  ^ ed  ogni  altra  sorta  di  alberi, 
la  qual  densa  ne’  rami  tiene  continua  1’  ombra  su  la 
montagna  1»).  » s - \ 

VI.  a Eh  questa  sélva  gir  alberi  prossimi  al  mare  e 
ai  fiutni  tagliati  interi  dal  ceppo  e recati  ai  porti  ricini 
forniscono  a tuttà  T Italia  materiali^ per  navi  e case:  gU 
alberi^  lontani  dal  mare  e da’  fiumi , ridotti  in  pezzi , e 
riportati  su  le  spalle  dagli  uomini somministrano  remi 

V " 

(t)  Àpao  di  Roma  481.'  ‘ '• 

(a)  Stra'bufu  nel  lilwo  V-I  di«  che  questa  selva  eré  lunga  tcllc- 
cento  stadj. 


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4 7 "2  DELLE  Antichità’  romane 
e pertiche,  e mezzi  di  ogni  arme,  e rasi  domestici:  fi* 
naimcnie  la  parte  di  piante  più  grande  , e più  oleosa 
vien  preparata  a dar  le  resine , e scn  fornia  la  resina 
chiamata.  Bruzia-.,  la  più  odorata  , -e  la  piu  soave  infra 
quante  io  ^ne  conosca.  Or  dagli  affitti  di  unto  Roma  ne 
ha  ciascon  anno  cospicue  rendite.  » 

VH.  « Io  Reggio,  iecesi  un’  altra  sommossa 'dal  pre- 
sidio lasciatovi  di  Romani  e di  confederati  : seguitatidone 
da' ciò  stragi  ed-  esilii  noti  pochi.  Per  tanto  Gajo  Ge- 
micio  r altro  de’ consoli  usci  coll’  esercito  a punir  quei 
ribelli.  Presa  la  città  colle  ardii  rendette  ai  citudini  prò* 
fughi  gli  averi  loro,  edarresuto  il  presidio  lo  condusse 
prigioniero  in  Roma.  Or  su  questi  tanta  fu' Pira,  c 
tanto  il  dispeuo.-Dcl  Senato  e uel  popolo  che- non  vi 
fu  I pietà  di  partiti  : nm  da  tutte  le  tribù  (ù  senlenziau 
su  tutti  la  pena  di  morte  come  presciivono  le  leggi  su 
tali  malfattori  (■).  » > ' ' . 

Vili,  a Stabilita  la  sentenza  di  morte  furono  pianUti 
de’  tronchi-  nel  foro  e condottivi  e legati  trecento  a cor- 
po nudo  i quali  aveanq  già  i cubiti  avvinti  dietro  le 
spalle:  e poi  battuti,  e poi  decapitati  con  le  scuri.  Dopo 
ì primi  vi  furono  puniti  altri  trecento,  e quindi  altret- 
tanti ancora  4 findiè  in  t'uttO  furono  quaMro  m'da  dn- 

(i)  La  Irgiooe  Campaoa  con  Decio  capitano  occupi  Ecgg'o  l'an- 
no 4/4  Roma  poco  ifopo  la  venuta  di  Pirro  nM’  ftalia  , occorsa 
appunto  in  quell’  ann^.  La  legione  ribelle  fu  punita  l’anno  4^^ 
sotto  il  contole  Genucioi  Livio  XX Vili , aS.  dice  clic  la  pena  fu 
dicci  anni  dopo  il  delitto  , é ebe  li  póniti  in  Roma  furono  quattro 
rada.  Nel  testo  ai  parla  della  ribellione  come  aeconda.  Non  k chiaro 
se  la  indicata  io  questo  luogo  eia  detta  seconda  in  rispetto  a quella 
di  Dcciu , o di  altra  antecedente. 


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V 


LIBRO, XX.  ,47  3 

quecento.  Non  ebbero  questi  sepoltura  , ma  tirati  dal 
Foro  in  luogo  aperto  dinanzi  la  città  vi  si  abbandona- 
rono, pascolo  di  uccelli  e di  cat^i.  » 

IX.  . « La  turba  mendica  non  tenea  cura  delPo* 
nesto  nè  del  giusto.  Però  sedotta  dal  Sannite  (i)  si  rac- 
colse in  un  corpo  , e su  le  prime  vivea  por  lo  . più  pei 
monti  nelle  campagne.  Ma  poi  cbe  fu  cresciuta  in  nu- 
mero ornai  da  tener  fronte  occupi  una  città  forte  , dalla 
quale  prendea  le  mosse  a depredare  le  terre  ihtomo. 
ÌÀ  consoli, cavarono  la  milizia,  contro  di  questi.  Ricu- 
perata senza  gran  briga  la  città  batterono  ed  uccisero 
gli  autori  della  ribellione , véndendone^  gli  altri  all’  in- 
canto. Era  già  1’  anno  avanti  stata  venduta  la  terra  e g^i 
altri- acquisti* fatti  colle'  armi  e l’argento  risultatone  dal 
prezzo  èra  stato  comparilo  ai  cittadini  (1).  n 

fi)  Ano»  di  Roma  4^-  ' ' ' ' - ’ > ’ ' 

Qui  81  attude  «Ila  guerra  concitata  da  LoUio  Sannite  il  quale  fug- 
gito da  Roma  dove  era  ostaggio,  raccolse  gente,  prese  un  luogo 
munito  della  sua  regione,  e vi  padrone'ggiava,  e. predata. 

(a)  Dionigi  nel  lib.  1.  9 dice  di  tessere  la  storia  sua  fioo  al  prin- 
cipio della  prima  guerra  Punica  1 Questa  occorse  Panno  488  di 
Roma  ; e le  cose  di  quest’  ultimo  paragrafo  concernono  P anno  {85 . 
Tanto  che  il  eoiApendio  ha  prossima  corrispondensa  alla  storia  delle 
aSA*<d>itA  «Usa  in  venta  libri.  • > - 

J '•  ..  ' • . 

- • i t , 

. . PINE/ DELLE  iNTICniTÀ*  ROMÀNE 
■ ‘ ■ DI  ntONir.l  DI  ILIClRMASSO. 


•I  r-. 

■T — 


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474 

INDICE 

DELLE  COSE  PllT  NOTABILI  IN  DIONIGI 

DI  ALldARNASSO. 


tl  mmero  romano  accenna  il  libro  t P altro  numero  iparagnf. 


A 


.A-borigeoi.' Sono  porto  degli  Oeootri  di  Arcadia.  Tt  36.  Se* 
condo  alcani  non  diiT<M*i<cono  dai  Lolegi,  2..  Percbè  ai  cbia- 
mino  Aborigeni  j irt.  Cacciano  i Sicoli  dalle  l'oro  aedi,  i. 
E gli  Umbri,  8.  Occupano  l’agro  Reatino. 'U.  48.  Comin- 
ciarono a chiamarsi  latini  sotto  il  re  Latino.  I.  f.  Loro 


città  , 6. 

Acaj^  detta  Peloponneso  dai  Greci.  L^i6.  Fa  chiamata  Acaja 
da  'Acheo.  . 

Acanto  Spartano  H priato  opera  nudo  nello  stadio.  VIL  ^2. 

Acarnani  rimnnerati  dai  'Romani.  I.  .^a.'  , 

Achille:  tre  navi  sue  perdute.  I.  scodo  fabbricato’'da 

Vnloano.  VII.  72.  Sna  sepoltnra.  I.  3g,  Celebfa  de’gidochi 
in  morte  di  Patroclo.  V.  17. 

Agro  o campo- di  Tarquinio  diviso  ne’^ttadini.  V.  i3.  Agro 
Romano  come  diviso  da  Romolo.  II.  7.  Come  da  Noma.  II. 
76.  Como  da-  Servio  Tnllid.  IV.  t5.  Numa  divide  un  ter- 
reno pubblico  ai  poveri.  IL  62.  Anche  Servio  Tallio  ne 
divide.  IV.- 9. 

Agraria  (Legge)  Sparto  Cassio  ne  fa  l’ inventore.  X.  38.  Con- 


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4:5 

trovertie  intorno  di  eiH.i  Vili.  <ji.  Gontinnate.  X.  35.  Se 
ne  propone  la  legge  al  popolo.  3C.  Viene  ìoipeditas  <(i. 
Viene  attraversata  di  nnovp,  4^.  Come  i oppaoii  sL  scher- 
miscono dall*  esegnirla.  IX.  3'j.  La  , contesa  .n*  diviene  piik 
pericolosa,  3q.  > ' >. 

Agricoltnra.  Romolo-  conginnge  le  cure  di  essa  con  «joelle 
della  miliaia.  II.  a8.  Anco  Maraio  raccomanda  Tagricoltara 
e li  pascoli  pinttoato  dié  la  gneira.  III.  3G.  ^ 

Agilla  cpsi  chiamata  dai  Pelasgi  fa  poi  détta  Cere  dagli  Etra- 
sci.  I.  1 1 . 

Agrippa  vedi  Menenio.  f 

Alba  Lunga,  suo  fondatore  e sito.  I.  5^.  Sua  durasione. 
III.  5i, 

Albani:  da  quali  genti  r|snltassero,  IL  2.  Catalogo  dei  loro 
re.  I.  Ga.  Dopo  la  morte  di  A,mnlio  e di  Nnmitore  ebbero 
annui  magistrati.  V. Al)«>nza  degli  Albani  e de'Romani 
sotto  Romolo,  III.  3.  Guerra  tra,  i' due  popoli;- loro  capi- 
tani, ed  esito  della  medésima  , 2 e segg.  Traflaziqne  degli 
Albani  in  Roma,  2q,  • 

Albani,  campi  fertili  di  ave  e frutti,  t.  28.  Bontà  premi- 
nente del  suo  vino  , 5^.  'Monte  Albano,  Vili.  87.  Ferie 
Latine',  ivi.  1 > 

Alceo  , poeta  esiliato.  V.  ^3.  ... 

Algido.  I Volaci'»  gli  Equi  vi  accampano.  X.  21.  XI.  3.  i 
Romani  .vi  sono  danneg^ati  ,23.  ■ 

Alsio,  Inogo  degli  Aborìgeok  I.  11.  '' 

Amiterna  Inogo  dei  Sabini.  ’I.  6.  IL 

Amnlio  , ipoglia  il  ano' fratello  Enmitore.  I.  €7.  Regna  XLII 
anni,  G2.  Viene  aaaalito,  ^5,  ' • 

Ancbiie , figlie  di  Capi  -e  padre  di  Enea.  I.  53.  Sua  tomba, 
55.  Porto  di  Anchise,  4L  '^Itri  looghi  i qnaR' ebbero  nomo 
per  Aflcbise,  64.  ' t 

Ancile  o scudo  caduto  dal  cielo.  II.  70. 


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47^  ■ 

Anco,  prenome  di  Marzio  re  e di  t*ablioio  Corano,  Vedi  que- 
sti nomi. 

Anfittioni  e loro  congressi.  IV.  25, 

Aniene , Game,  III.  22.  Non  era  lontano  dal  Monte  Sacro. 
VI,  45.  Era  ricino  * Fidene.  Ili,  55,  Si  ecarioa  nel  Te- 
vere , ivi. 

Anterana,  sna  fondazione,  l.  8.  È tolta  ai  Sicoli  dagli  Abo- 
rigeni. II.  35.  Fn  resa,  colonia  Romana  , ivi.  Si  unisce  a 
Marnilio  TuScolano  per  soccorrere  Tarqninio  contro  i Ro- 
mani. V.  21. 

Antistio  Petrone  i ucciso  per  inganno' da  Sesto 'Tarquinio , 
IV.  57. 

Ansio , è fondata  da  Anzio  figlio  di  Ulisse.  I.  G3.  B cittì  pri- 
maria de*  Volaci.  VIII.,i.  IX.  56.  Fa  lega  con  Tarquinio 
superbo.  IV.  49.  Soccosre  quei  della'  Ricoia.  V.  36.  Soc- 
corre i Latini  contro  i Romani.' VI.  3vSoceorre  quéi  di 
Goriolo,  f)2.  & preso  il,  porto  e la  campagna  di  essa.  IX. 
56..  Sì  rende  a Qoinaio,  .5R,.  Parte  delle  sue  terre  divisa  tra 
i Romanì,«5().  Oli  Anziati  spogliati  delle  terre  ne  partono  , 
sono  ricevuti  dagli  Equi,  e fanno  scorrerie  su  campi  de’ La- 
tini, 60.  Gli  Anziati  si  ribellano.  X.  20. 

Apiolani  espugnati  da  Tarquinio  Prisco.  III.  40* 

Appello,  la  legge  Valeria  permise  a chiunque. di  appellare  dai 
' magistrati  al  popolo  sa  le  condanne  .di  morte  o di  battitore. 

' V.  20.  Si  voglicmò  paniti  i consoli  perobi  impediscono  que- 
st'appello. IX.  3g.  .,  ■ 

Appio,  prenome  Sabino  de’  Claudi  e di  Erdonio.  Ve£  ffuesù 
homi.  : . ^ 

Aquìdotti  magni Gcentisai mi  di  Romq.  III.  67. 

Aqaillo,  C.  console.  Vili.  64*  Vinoe  gli  Erpici,  ,65.  Ne  ot- 
tiene la  ovaz'ione,  67. 

AquìI),  L.  e M.  conghirati,  vicende  nella  loro  pena.  V.  g. 

Ara  massima.  I.  3i.  ' * , 


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477 

Arcadi,  i primi  fra  i Grecj  veogooo  ad  abitare  l'Italia.  I.  3.  ^ 
dove  abitassero,  36. 

Arcadia  fa  già  detta  Licaonia.  II.  i.-  Atlante  fa  ano  primo 
re.  I.  Si.  Dilario  di  Arcadia,  Sa,  5g. 

Ardea  è fondata  da  Ardeas  figlio  di  Ulisse,  I.  63.  È città 
del  Lazio.  V.  6i.  Tarqpinió  superbo  1* assedia.  IV.  6{. 

Fa  fregna  coi  Romani, '85.  V.  i.  È toko  loro  parte  del 
territorio.  XI.  54<  Sii  ribellano  , iri.  £ si.  riconciliano , ai 
Romani,  62.  • • , - 

Aretini,  popolo- dell’ Etraria.  III.  5i.  ^ 

Àrgivi,  commentar)  dei  sacerdoti.  I.  C3.  Tempio  di  Ginnone 
Argiva  e scoi  riti,  12. 

Aristodemo,  tiranno,  di  Coma:  sue  .vicende:  soccorre  la  Ric- 
cia: sottomette  Coma:  è occiso.  VII.  2 e seg. 

Arante,  figlio  di  Denfiarato.  III. 

Amate  figlio  di  Porsena  : , cobsìglia  il  padre  a far  pace  co’Ro- 
'mani.  V.  5o.  Va  ad  assediare  la  Riccia,  VII.  5.  Vi  è uc- 
cise, 6.  ^ , 

Ascanio  figlio  di  Enea  e di  Creosa.  III.-3i.  Ritorna  in  Troja 
con  gli/Ettoridi.  I.  38.  Ascanio  succede  al  padre  nel  regno  • 
latino.  55'.  Ghiamavasi  nn  tempo  Earileone,  ivi.  Divide  il 
regno  con  Ilomolo  e Remo  suoi  fratelli,  64*  Fonda  Alba, 

5^.  III.  81.  0 V.,'  , • 

Asilo  aperto  da  ^Romolo.  -II.  i5.  , 

Asilo  pobBlico  .formato  da  Servio  Tallio.  IV.  26. 

Ateniesi  : loro  repubblica  amministrata  con  annoi  comandi. 

IV.  Quanto  tempo  predominarono  in  Grecia.  Proemio,  3. 
qnanta  fosse  la 'loro  gloria  e perchè.  III.  11.  Furono  spo- 
gliati dell’Impero.  II.  ig.  Permettono  cbe  gli  Spartani  de- 
.moliscano  le  mitra',  di  Atene  e pongano  guarnigione  nella 
fortezza.  XI.  1.  Ruppero  i Persiani ivi.  Condonano  ì de- 
biti ai  poveri  per  suggerimento  di  Solonc.  V.  65. 

Atlante  primo  re  di  Arcadia.  I.  5i. 


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47^ 

0 Atleti':  erano  di  doe  generi  fra  - gli  antichi.  VII. ‘32.  Erano 
coperti  nelle  iole  parti  del  seno , ivi.  Chi  fa  il  primo  at- 
leta che  combattè  nodo  io  tntto , ivi.  Corso , lotta , pugi- 
lato, esercii)  degli  Atleti. -.VII.  ’jo. 

Attilio,  L.  Longo  tribnnò  militare  in  vece  di  console.  XL  6i. 
Aventino  Silfio,  re  di  Alba.  I.  62.  ' 

Avenlibo,  «olle,'  è denominato  dal'  re  Aveodno,  L 6s.  È 
contigno  al  Palatino,  2;),.  Bomolo  lo  fortiCca.  II.  37.  Anco 
Marzio  lo  oongiange  con  Roma.  III.  Si  concede  al  po- 
polo perché  vi  abiti.  X.  32.  E il  piò  grande  de*  colli  ro- 
mani. IV.  2G.  Altesza  e circnltO'di  esso.’lll.  4a.  X.  3i.. 
Era  il'  più  opportuno  per  accamparvisi.  XI.  43.  Viene  oc- 
cupato dai  soldati  .ribellatisi  ai  deoeiòviri.  Sn  questo  colle 
vi  era  il  tempio  di  Diana.  32.  Il  circo  massimo  restava 
tra  il  palatino  e 1’  aventino.  III.  6S. 

Auguri , loro  o^io.  II.  Alìmentapsi  a pubbliche  spese,  G. 
Tarquinio  Prisoo  ti  Oónsulta.  III.  6q.  Tarquinio  superbo  li 
consulta  su  la  compra  dei  libri  Sibillini.  IV.  G2.  Creano 
insieme  eòi  (pontefici  'il  re  dell»  cose  sacre.  V.  1.  Sono 
presenti  alla  formazione  della  legge.  X.  Ss.  Maestri  dell’arte 
aogurale  presso  gli  Etruschi.  III.  70.  Augure  che  descrive 
linee  circolari  e rette  ip  terra.  IV.  6^.  . > 

Aurunci,  popolo  d’Italia.  I.  12.  Loro  qualità,  ivi,  e VI.  Ss. 
Occupavano  la  parte  più  bella  della ’Gampa'oia,  ivi.  Sono 
vinti  da  Servili 0 , ivL  Ridomandano  i caiòpi  degli  Ecce- 
tranì,  ivi.  . , 

Ao  sonia  era  l’Italia.  I.  27.  Il  .seno  Apeonio  fu' pei  chiamato 
il  seno  Tirreno , 3i  Oli  Ausoni  cacciati  dai  iapigi  vanno 
in  Sicilia  , i3.  ' . ' 

Auspizj  s’ imprendono  ooA  cui  le  cose  ardne.  V.  28.  Si  de- 
cide con  essi  li' sito  di  Roma.  I.  77,  Più  volle  sono  di- 
sprezzati.  Ut  G. 


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479 

A»io  Nevio  Aogare  > tua  «ccelienu.  I-  6i.  E tolto  di  mez- 
10,  63. 

Aizio  Tallo  capo  de*  Volaci.  Vili.  l.  Accogllè  benigoameote, 
Coriolaoo,  3.  Stimola  i Volaci  coìitro  i romam  : fa  dicbia-' 
rare  Coriolaoo  per  (mmandante  delle  MÌlicie , i3.  Ne  pro- 
oara  la  morte,  ^7  « segg.'E  uoeiso  in  gaeira , 69.  Suo 
olrattere,  ivi.  * . . 

* ; 

B 

Babilonia,  eoa  celebrità.  I>  27.  Sne  mora.  IV.  25. 

Bacco , pianto  dei  Greci  en  j caeì  di  Bacco.  II.  g.  Tempio  ' 
inalzatogli  da  Fostumio  dettatóre.  VI.  17.  Coneagrasioae  ' 
fattane, 

Battaglia  impedità'  dai  et^ni  celeetì.  IX.  55-  Prima  \di  altóc* 
caria  fanno  preghiere  e eagriiiaio,  10. 

Balia  luogo  degli  Aborigeni.  I.  i5.  ^ ' 

Bighe,  gara  delle  roedeeime.  VII.  93. 

Bitumo,  rasi  pieni  di  bitnme  e pece  drati  colle  Condo  eu  i 
nemici.  X.'iC.  ' 

Boario,  Poco.  I.  3i.  Servio  Tallio  vi  forma  un  tempio  della 
Fortuna.  IV<  37.  ' 

Bolani , popolo  del  Laeio.  Bela  è aisediata  • preea  da  Mar- 
zio. Vili.  1 8.  ' ■ 

Bovilla  è preea  da  Marcio.  Vili.  2o. 

Bruto , I-  Ginnio  : ' perchè  ei  cblaraasee  Bruto,  IV.  67.  Un 
altro  L.  Giunio  uomo  plebeo  oiurpa  il  nome  di  Brolo.  VI. 
70.  Se  } Bruti  poeieriori  diecendeeeero  dal  primo.  V.  18. 
Fedi  i Gimj* 

Bru^  vinti  da  Fabrizio.  Tomo  III.  Legazioni. 

Bruzj  ripevnti  in  Roma.  I.  8».  ■ - - 

Bubetani  popolo  del  Lazio,  V.  Ci.  • 

Butrinlo.  I.  '42. 


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Caco,. furto  e morte  di  esfo.  I.  3o.  _ 

Cecilio  (L.)  MeteHo , ano  trionfo  e zelo  nel  conaerrare  le  coae 
di  Veata  ; e statoa  di-  ioi  Bel  Campidoglio.  II.  6C. 

Cedicio  (Lm)  tribnoo  della  plebe  accoaa  Serrilio  nonio  con» 
aolare.  IX.. i8.  ' . 

Calljade  Arconte  di  Atene.  IX.  i. 

Oalliaa  Arconte  di  Atene.  TU.  i.  '•  ■ ' 

Cameria  è fondata  dagli  Albani  : diviene  colonia  de’  Romani. 

II.  io.  Si  ribella  ed  i preaa  e diatratta.  V.  ^O» 

Camini , giovani  inaerrienti  ai  aa'^ifizj.  II.  22. 

Campania,  anoi  campi  fertiliaaimi.  I.  28.  Vacilla  nella  fe- 
deltà verao  i Romani.  VI.  89.  i Campni  occnpàno  Cnma. 
Tomo  III.  Legnziont., Si  lamentano  dei  Napolitani  in  Se- 
nato , ivi.  ' V > ' t . 

Canne  raconfilta.  II.  17.  . . . 

‘Capi.  I.  ,62.  ' , ' ' ' . • 

Capitolino,  colle,  già  detto  Saturnio.  II.  O Tarpee.  III. 
6q.  Perché  poi  ai  cfaianiasae  Capitolino.  IV.  Gì.  Romolo  lo 
fortiGca.  II.  07.  In  citna  di  qoeato  colle  osala  Catppidoglio 
vi  i il  tempio  di  Giove  Feretrio,  5{.  Tarqoipio  Prisco  vi 
conaìncia  un  tempio , Tarqoinid  anperbo  ve  lo  continua  , 
sua  Innghezza  e larghezza.  IV.  Ci.  È poi  compito,  e M. 
Orazio  lo  dedica.  V.  35.  Vja  in  lìàmme.  IV.  61.  E.  riedi- 
ficato, ivi.  * . . ‘ ' 

Capua  , città  della  Campania.  VII.  10.  Eb^e.  noMer-da  Capi. 
I.  64. 


Carine  luogo  di  Roma.  1.  5g.  III.  22.  Vili.  79. 

Carmenta.  I.  22  a aeg.  • - ‘ ^ 

Carmenlale  porta.  I.  22.  X.  i4.  , v ^ . -f 

Carsola.  I.  C.  ' 

Cartagine.  Timeo  Sicolo  dice  che  fu  fabbricata  circa  i Xempi 


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• 

(li  Roma.  I.  G5.  Toroa  a cercare  di  naoTO  T Impero.  II. 
1'^.  I Cariagineai  sono  eipuUi  dal  mare.  Proemio,  3.  Loro 
viitime  umane/  2r).  , • ' 

Catiandro  re  di  Macedooiar  L ^o. 

Carvilio  (Sp.)  il  primo  ripadia  la  moglie  qon  prima  delt’anno 
5lo  di  Roma.  II.  2$. 

CaMÌo  (Sp.)  Uscelltoo  trionfa  dei  Sabini.  V.  Tito  Larglo 
Dittatore  Io  prende  -per  maestro  de’  cavalieri , 'jb.  Senti- 
u)eolo  doro  di  osto  circa  il  castigo  dei  Latini  ribelli.  VI. 
20.  E fatto  console  di  nuovo,  40’  Guarda  la  città,  gì.  De^ 
dica  il  tempio  di  Cerere  e di  Bacco  , g5.  Diviene  consolo 
per  la  tersa  volta.  Vili.  C8.  Noi  resto  di  questo  libro  sie- 
gue  il  (racconto . dell’  ambisione  di  lai , degli  Sforai  per  in- 
trodurre la  legge  Agraria , le  accuse  , ed  il  suo  tkagico 
fine,  'jg.  I figli  di  Castio  non  sono  privati  nA  della  pa* 
tria  , nè  de’  beni  , nè  degli  onori  pe’  delitti  del  padre  per 
decreto  del  jSènato.  Vili.  8o.  Il  popolo  si  pente  di  aveiio 
condannato  , *82.  ' ' ~ ^ . 

Castore  e Pollace  diconsi  apparsi  in  Roma.  VI.  i3.  Monu- 
menti in  Roma  della  loro  apparisiooe , giuochi  , feste,  ivi. 

Cavalieri.  Servio  Tallio  li  ordinò  in  18  centurie.  IV.  18.  Piò 
di  quattrocento  plebei  souo  aggiaiiti  all’ ordine  de’'cava- 

. lieri.  VI.  4i.  . 

Cecilio  IL.  Metello)  , suo  trionfo  e zelo  nel  oonservare  le  cose 
di- Vesta,  e statua  di  lai.  nel  Campidoglio.  II.  6G. 

Cecidio  (L.^)  tribuno  della  plebe  accusa  Servilio  uomo  con- 
solare. IX.  28. 

Celeri,  origine  del  loro  nome.  II.  i5.  .Loro'incoiubenze  , GL 
Tarquinio  snperbo  costituisce  Bruto  prefetto  di  eui.  VI. 
92.  Bruto  Uscia  questa  prefettura  , '^5. 

Celti  o Galli  fanno  vittiose  umane  a Saturno.  I.  2g. 

Censori , loro  uffizio.  IV,  Come  permettono  il  divorzio 
DIorriGJ,  tomo  II/.  3, 


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48a 

di  Garvilio.  11.  2 5.  CommenUrj  o regùtri  de’  oentori.  I. 
65.  IV.  22.. 

Cento  de’ Romani,  oome  ùtitnito  da  Servio  Tollioi  IV.  i5. 
C latti Bcaaio ne  de’ Romani  , iG.  VII.  5g.  Sfumerò  di  citta- 
dini-IV.  22.  Geiuo  fatto  ancora  dai  contoli.  V.  .20.  Cento 
sotto  Tito  Largio  primo  Dittatore,  g5.  Altro  cento  ove  tro- 
vanti cxxs  mila  cittadini.  VI.  C3.  Cento  dell' anno' 261 
di  Roma.  VI.  gC.  Cento  dell'  anno  2^8  di  Roma.  IX.  25. 
Cento  dell’anno  280.  IX.  36.  Cento  rettituSta  dopo  ig 
anni.  XI  in  fine. 

Centurie,  te  ne  fanno  ]g3  e ti  dividono  in  tei  datai.  IV. 
18.  VII.  5g.  Di  raro  ti  chiedeva  il  voto  della  tetta  clatte. 
IV.  20.  Luogo  tpeciale  delle  oentnrie  negli  tpettacoli. 
III.  «8.  - 

Ceoturiati,  comiaj.  IV.  20.  VII.  $g.  Come  differiacano  dai 
comiaj  per  tribù.  IX.  Ut,  XI.  46*  Intimazione  dei  eomitj 
oentnriati.  V.  10.  Loro  forza.  XI.  55.  I Patrizi  vi  preva- 
levano. Vili.  82.  XI.  4^*  I decreti  di  qtietti  eoli  comizj 
' nn  ^empo  erano  riguardati  come  leggi  dai  patrbi , ivi.  L’in- 
terré-oonvoca  queati  comizj.  VII.  go. 

Centurioni,  loro  scelta.  IV.  i>j.  Dove  collocati.  X-  iG. 

Cecere  insegna  l’agricoltura  a Triptolemo.  I.  4*  Tempio  e 
tacrifitj  di  Cerere , ^4-  Pottomio  Dittatore  le  fonda  un 
tempio  per  voto.  VI.  l'j.  Se  le' innalzano  tUtne  metalliofae. 
Vili.  2g.  A'  Iti  ti  contagrano  i beni  di  quelli  che  facevano 
violenza  ai  -tribuni.  VI.  8g.  X.  4>.  ^ 

Cipria , via  in  Roma.  III.  22. 

Circe , dove  abitatae'.  IV.  G3.  Telegono  figlio  di  essa  e di 
ditte,  45*  Circei  donde  denominiti.  IV.  G3.  Si  rendono  a 
Minio.  Vili.  i4' 

Circo  Massimo.  lL''3i.  Chi  lo  incominciaste.  III.  68.  Vi  era 
tal  termine  il  tempio  di  Cerere.  VI.  g4> 

Citerà,  itola.  L 4l> 


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483 

Citt;idini  romani  come  da  Romolo.  II.  Come  Servio 

Tallio  volle  rieaperne  il  oamero,  il  ietto  e l’ rià.  IV.  l5. 
Come  ne  accrebbe  il  nomero,  91.  Tullio^  vuol  pareggiare 
il  diritto  de’  ciUadini , Non  era  lecito  battere  nn  citta- 
dino. IX.  39.  Non  poteva  nociderai  eenaa  cogniaioii  della 
canta.  VII.  3G.  Qoali  arti  non  potette  eiercitare.  IX.  x5. 
Claudia,  gente  oriunda  da  Regillo  città  di  Sabina.  XI.  i5. 
È condotta  in  Roma  da  Tito  Claudio.  V.  4o*  Tribà  Clan- 
dia  , ivi. 

Claudio  (Appio)  Sabino,  nega  che  potrà  levarti  la  leditione  con 
donare  i debiti.  V.  60.  È Contqle.  VI.  23.  Discorda  dal  col- 
lega'circa  dei  poveri  i4  , e Sol  trionfo  di  lui,  3o.  Suo  di- 
' scorso  per  chetare  le  seditiooi,  38.  E chiamato  nemico  del 
popolo  , 48-  Suo  discorto  circa  il  ritorno  del  popolo , C6  e 
tn  la  legge  agraria.  Vili.  ^3.  Suo  consiglio  per  frenare  i 
tribuni.  IX.  10.  X.  3o.  ' • 

Claudio  (Appio)  nipote  di  C.  Clàudio  per«  parte  del  fratello,  è 
console.  X.  54.  È creato  Decemviro,  56,  (9.  E creato  di 
nuovo  Deceniviro , 58  e ritiene  un  tal  grado  pel  terzo 
anno,  Ci.  Seguito  delle  sue  vioende,  XI.  4 • eeg.  Muore 
in  carcere.  ^.6. 

Claudio  (C.)  Sabine , sio  del  Decemviro  è console.  X.  9.  E 
contrario  anobe  egli  alla  plebe , ivi.  Sua  parlala  in  Senato 
contro  i Decemviri.  XI.  7.  Si  ritira  in  Sabina,  22  , 
Claudio  (M.),  cliente  del  Decemviro  : sue  pretensioni  su  Vir- 
' gioia.  XI.  32, 

Claudio  (Neròne);  console  per  la  seconda  volta.  Proemio , 3. 
Clelia  fugge  con  gli  oslaggj.  V.  53  e teg. 

Clienti  o Clientela.  Proemio,  8. 

Cloache,  loro  grande  artificio.  Ili,  67. 

Cluvilio,  capo  degli  Albani,  occasiona  la  guerra  di  questi  coi 
Romani.  III.  2.  Sna  morte,  repentina ,'  5.  ' 

Cluvilio  Graooo,  sommo  comandante  drgli  Equi.  X 21.  Sua 


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484 

riapoaU  orgoglioaa  ài  Romani.  X.  22.  Gli  arviluppa  , 25.  E 
vinto  e portato  in  trionfo  , 2/(..  , 

Clovilip  (Q.^  Sicoioj  è conaole  , e reata  alla  gnardla  di  Roma, 
e perchè.  V.  5 9.  Depone  il  contolato  e nomina  Largio  per 
Dittatore,  92.  Fa  prigionieri  parte  de'  predatori  latini  , <j6. 
Clnvilio  (Tito)  Sicolo , è creato  tribano  militare  io'  vece  di 
c^llsole.  XI.  Gl.  ' I 

Collatino  (L.  Tarc(oÌDÌo)j  console  con  Bruto.  IV.  96.  Lascia  il 
Consolato  e ai  ritira  a Lavinia,  V.  12.  Esule  ancora  favo- 
nane  la  patria.  Vili. 

Collazia  eapngnata  da  Tarqoiuio  Prisco.  III.  5o. 

Collina , porta  ; le  vergini  vestali  divenute  ree  vi  sono  con- 
. dotte  e sepolte  vive.  IL  67..  La  città  r presso  di  essa  è de- 
bole e viene  mnnita.  IX.  C'j.  Vi  si  combatte  ' <mntro  i To- 
scani. IX.  2^<  ' ' 

Colonie  antiche  , rito  nel  mandarle.  I.  8*  Taj;qaÌDÌo  saper- 
ho , ne  atabilisce  due , e vi  pone  per  capi  due  suoi  figli. 
IV.  63.  Colonie  necessarie  per  la  difesa  dei  luoghi-  VII. 
21.  Talvolta  p>er.  escludere  i scellerati  dalla  città  propria. 
IV.  2$.  Colonie  divenute  maggiori  delle  città  madri.  III.  11. 
Colonne , vi  ai  descrivono  le  alleanze.  IL  55.  Talvolta  si  cn- 
stodivano  ne’ teibpi.  III.  33.  Vi  s'incidevano  li  leggi.  X. 
32.  In  tempi  pib  antichi  le  leggi  si  scrivevano  ip  tavole  di 
quercia.  HI.  36.  ' 

Cominio  (Post.)  console.  V.  So.  Dedica  il  tempio  di  Saturno. 
VI.  I.  È console  per  la  seconda  volta,  49<  Soa  mansnetu- 
dine  verso  i Volici  vinti , £ depntaio  a Corìolano. 

Vili.  22. 

Comizi . Vedi  Centunati.  Luogo  di  essi  per -creare  i magistrati. 
IV.  8{.  Comizi  impediti  dai  tribuni.  Vili.  90.  Talvolta  è 
creato  un  .dittatore  per  i comizi , ivi. 

^pacioni  luogo  di  esse.  VI.  67.  VII.  17.  Chi  avesse  diritto 


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485 

<li  conTocarle.  IV,  ’)2\  VII.  17.  Un  prirato  non  poteva  in- 
terloqnirvi  > ed  in  qnal  epoca.  V.  1 1 . 

Confarreazione.  Ilt  2 5-. 

Consoli , prkni  cemioli  Brolo  e Collatino.  IV.  Loro  di- 
stintivL  III.  Ga.  IV.  V.  75.  X.  5q.  Diritto  di  convo- 
car le  concioni.  VII.  17.  Il  Senato  di  loro  1*  autorità  dì 
crncloder  la  pace.  Vili.  18,  Il  oonsole  è privato  del  con- 
solato dal  Dittatore.  X.  25^  I consoli  si  rendono  amici  al- 
cuni tribuni  per  contrapporli  agli  altri.  IX.  i , '2.  l 'consoli 
sono  citati  al  collegio  de’  tribuni.  X.  3i.  Contrasto  coi  tri- 
buni , ivi.  Sono  citati  dii  tribuni  ai  popolo,  3^.  Comin- 
ciano a governare  favorendo  la  plebe,  ^8.  1 consoli  tengono 
nn  Senato  privato  in  casa,  55.  Contesa  dei  patrizj  e della 
plebe  per  creare  consoli  cìascnno  della  soa'  fazione  : Un 
oonsole  si  sceglie  fra  i fautori  'della  plebe,  uno  tra  i fau- 
tori dot  patrizj.  Vili,  qo  e a«g.  Si  creano  i Decemviri  in 
Inogo  dei  consoli.  X.  56.  Si  terna  a creare  i consoli.  XL 
45.  Si  creano  i tribuni  militari  in  luogo  de' consoli  | Ga. 
GonsolaH , nomini , citati  in  giudizio  dai  tribuni  finite  il  con- 
solato per  la  trascnratesza  sa  le  cose  agrarie.  IX.  37.  Sono 
multati  in  danaht  in  Inogo  di  esporli  a pene  personali , e 
perchè.  X.  49'  Ordine  nel  ohieder  loro  i.  pareri  in  Senato, 
5.  Limiti  deir  autorità  consolare.  IV.  75.  < 

Consolato  : quando  se  ne  prendeva  il  possesso.  IX.  aS,  e più 
veramente  come  nel  XI.  63.  Se  ne  prende  possesso  pih 
presto  del  solito  alle  ealeude  di  settembre.  VI.  49* 

Conso,  Nettuno.  II.  3i. 

Corbio  presidio  Romano  ocoopato  dai  Latini.  VI.  3.  Si 
rende  a 'Marcio.  Vili.  iq.  È consegnato  ai  Romani.  X. 
>4.  Toi*na  in  potere  degli  Equi , 26.  È distratto  dai  Ro- 
mani, 80.  ■>  ' 

Gorciresi  , loro  sedizione.^  VII.  66. 

Cordo,  cognome  di  Mnzio.  V.  aS.  ' 


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486 

Gorilla  0 Coriola  paoae  dei  Latini.  IV. 

Goriola , oittà  famosa  de’  Volaci  tiene  assalita  da  Poslumio 
Gominio.  VI.  92.  Si  rende  a Marcio  Gnriolano,  Vili.  19. 
Marcio  ebbe  nome  appunto  d*' Goriola.  VI.  94* 

Gornelio  (L.  Siila)  , durissioio  nella  sua  dittatura.  V.  77. 

Gornelìo  (L.)  console.  X.  20.  Espufgna  Ansio,  21.  Suo  pa- 
rere su  le  istanze  dei  Decemviri.  XI.  16  e aopra  i r'Idali 
che' abbandonavano  il  campo  dei  Decemviri , 44- 

Gornelio  (M.),  fratello  di  Looio  Gornelio,  è Decemviro.  X.  68. 
Sna  risposta  a G.  Glaudio.  XI.  16.  invita  Lucio  eoo  fra- 
tello a dire  il  suo  parere,  iC>  Marcia  contro  glj  Equi,  2Ó. 

Gornelio  (Ser.),  console,  fa  tregua  per  un  anob  coi  Vedenti. 
Vili.  8a. 

GorneUnì,  popolo  del  Lazio.  V.  Gz. 

Gornicolo , città  del  Lazio.  IV.  1.  Gade  in  potere  di  Tarqoi- 
DIO  Prisco.  III.  5l.  ' 

Gorni  di  bove  :.  si  convocava  con  essi  la  plebe  romana. 

IL  8.  > 

Corona  di  oro  donata  dai  Romani  a Porsena.  ,V.  35.  Gorona 
di  oro  data  a chi  aveva  salvate  le  bandiere.  X.  36.  Gorona 
civica  donata.  Vili.  29.  X.  07.  Gorona  anurale,  ivi.  Il  po- 
polo esce  coronato  ad  incontrare  il  vincitore.  IX.  35. 

Gote  , segata  cpo  un  rasojo.  III.  71. 

Greraera,  castello  presidiato  dai  Romani  contro  i Vejeoti.  IXi 
i5.  E preso  dagli  Etrusohi , 2Ò. 

Grotone , quando  fondata.  IL  69.. 

Grotone  nella  Etrnria  tolta  dai  Pelssghi  agli  Umbri.  I.  1 1* 
Muta  abitatori  e nome,  ed  A chiamata  Goiornia.  17.  Lingua 
de*  Grotoniati , lo.  . < . 

Crnstnroera^  non  lontana  da  Roma.  XI.  z3.  Era  colonia  Al- 
bana. IL  36.  Diviene  colonia  Romana  , ivi.  I Sabini  1’  as- 
sediano. VI.  34.  X.  2G.  I Grnstumerioi  mandano  vettova- 
glie ai  Romani.  IL  53.  Si  arrendono  a Tarquinio.  III.  49* 


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4«7 

Comi,  dorè  foudaU  a da  ohù  TII.  3.  Sua  rìccbessa  e poten» 
sa  i iri.  Arìitodeato  ne  d>**eoe  tiranno  , 8.  Come  le  ne  li* 
bera  , li.  Viene  occnpat'a  dai  Gampapi.  Tomo  £e^s/on/.  In- 
contro in  Coma  dei, Legati  Romaqi.  Manda  nn  Mocono  ■ 
quei  della  Riccia.  V.  36.  ‘ • 

Goraxj.  III.  iL  Loro  spoglie  portate  in  Roma,  21. 

Cori , sna  origine.  II.  48- 

Coreti , loro  rili.  IL  90.  Faroleggiati  ohe  educassero  Gìore 
fanciollo.  II.  61.  1 Coreti  dei  Greci  sono  gl' istessi  cbe  i 
Salj  dei  Latini,  'jo.' 

Carie  erano  parti  anbalteme  delia  divisione 

pii  generale  dei  cittadini  in  Roma.  IL  Se  avessero  nome 
dalle  matrone  Sabine,  47*  Sbotto  Romolo  scelsero  i Senatori , 
ed  i Celeri,  3,  Ordinano  coi  loro  voli  che  ai  restituiscano 
i beni  a Tarqainio  superbo. -V.  6. 

Cariali.  Vedi  Comizi  e Centurie  tì.^ 

Gnriasj.  Vedi  Cumtj.-  . il 

Cnrieni^  capi  delle  Carie.  IL  7.  Facevano  pnbblico  sacrifizio 
per  le  Carie.  IL  64<  ■■  ' 

Curzio  Lago.  IL  ^2. 

Canno  (Mezio)  valoroso  difensore  dei  Sabini.  IL  Ì2. 

Cotilia  o Cotica  paese  degli  Aborigini.  I.  7.  È presa  dai  Sa- 
bini, 4o.  ' 


' ••  .•/  . • 

Damasla  arconte  di  Atene.  IH.  36. 

Dardane,  figlio  di  Giove  e di  Eletlfa.  L Si.  Porta  dna  colo- 
nia nell*  Asia , ivi  e fonda  nella  Troade  nna  città  chia- 
mandola Dardsno  , .53.  Ove  trasporta  4e  sacre  cose  eh’  egli 
aveva  recato  dalla  Samotracia.  IL  06.  Fieli  di  Dardano. 
I.  52.  ’ 

Danni  , popolo,  assalgono  Cuma.  VII.  3. 


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Debiti,  loro  eiTeUi^-Y.'  53.  RUned)  apparcochiatiri  da  Servio 
(.Tallio.  IV.  8.  Cittadino  battuto  e fatto  prigioniero  pe*  de- 
biti. VI.  26.  . " 

Deoemviri  per  determinare  la  fcdiupagDa  la.  quale  «ra  del  pub- 
blico. Vili.  97.  ' ^ 

Decemvirato.  I tribuni  propongono  al  popolo  di  creare  i De- 
cemviri per  la  formazione  delle  l(ggi.  X.  3.  Sono  tì/oali , 
56.  Aooettasi  il  Decemvirato  per  un  aecondo  anno  e di- 
vico  tiranno , 58  e ecg.  I Decemviri  sono  incolpati  da 
Virginio.  XI.  De  troppe  gli  abbandonano , ^3.  Sono 
piioili,.56. 

Decime.  I Pelasgbi  promettono  a^iove  le  decime  di  tutti  i 
frutti  che  raccorrebbero.  I.  i4.  Ercole  offre  ai  Numi  le 
decime  delle  spoglie  , 35.  Tarquioio  snperbo  separa  le  de- 
cime delle  spoglie  per  farne  un  tempio  a Giove.  IV.  5i. 
Appio  punisce  e decima  1*  esercito  insnbordinato.  IX.  So. 
Decio  (U.)  j è spedito  dalla  plebe  al  Senato.  VI-  88.  È 'ri- 
preao  d*  Appio  Olaudin.  VII.  53.  Suo  discorso  contro 
di  Coriolauo.  63.  Allusione  amara  di  Goriolano  su  Deoio. 
Vili.  Ì2. 

Delfo  ( Oracolo  di  ) , A couinluto  da  Tarquinip  auperbo. 

IV-  69.  . . 

Demarato  Corintio  lascia,  erede  universale  Lncnmone.  1IL47* 
Diana,  ano  tempio  in  Efeso.  IV.  25.  Tempio  eretta  da. Tazio 
a Diana  e ad  altri  Dei.  II.  60.  Tempio  di  Diana  nell’  Av- 
ventino. III.  43.  IV.  aC.  I Romani  lasciati  i Decemviri  ti 
accampano  presso  di  qtiesio.  XI.  44*  - > 

Difesa  , non  dee  negarsi  ad  alcuno.  V.  4-  \Tcmpo  acoordato 
per  difendersi.  VII.  58.  , 

Dittatore  , origine  dtl  nome.  V.  73..  S'na  anlorilà  e dnraaione. 
VII.  56.  Creavasi.  nel' tempi  diffioili  della  repubblica.  XI. 
20.' Condotta  del.  primo  dittainre  Tito  Largio.  V.  75.  Imi- 
tato dagli  altri  dittatori  6uo  a Siila  ,77»  Anio  Poslnmie 


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ditutor»  «econdo.  TI.  >.  Mjnio  TaWrìo  dilUtore  terw*.  VL  ^ 
3g.  Loeio  $<àji*io  Ciacinnato  dittatore  quarta  X.  lo- 
Mgne  de^  ditlalofe^  ivL  • 

Diluvio  di  Arcadia.  I.  5i  , 5g.  - . 

Diogoeto  Arooul*  di  Ateoe.  V1^4o- 

Dionigi  Seniore,  quando  divenne  tiranno  di  Siracusa.  VII.  i. 

Dio  Fidio  Sanco.  II,  49- 

Doriesi , loro  emigrazione.  IV,  25.-,  -,  • 

Drepaoo  •,  promontorio  di  Sicilia.  I.  43.  . • 

Ddillio  Cesone  Decemvico.  X.  58. 

DniUio  (M.),  tribuno  della  plebe.  XI.  <7. 

a,  * • . • 

E ' • 

- i •• 

Eboiio  (L^,  conloia,  muore  di  peste.  IX.-  (^7.  • ' , 

Kboaio  (T.  Elva),  console.  V.  58.  È fatto  ^maestro  de' cava- 
h'eri  dal  Dittatore  ^ulo  Postemio.  VI.  1.  Irapedilce  il  tra- 
sporto delle  tettovaglie  ai  Latini,  4,  È ferito  e Oaje  da  ca- 
vallo, ti.  . ^ 

Eccetra  cittì  cpspicna  dei  Voisci.  X,  2J.  Vi  ir  raduna  la 
preda  tolta'  ai  Romani.  Vili.  3G.  GR  Bc^etranr  si  confe- 

, deranp  con  Tarqqjnio  superbo.  IV,  4q.  Qli  Aoronci  rido- 
mandano ai  Romani-. i campi  Eocetrani.  VI.  Sa.  Fabifc  de- 
vasta la  campagna  Ecoetrana.  X.  ai. 

Edili,  loro  ìncotobenae.  VI.  ^0.  Cora  do' iacrifisi  nelle  ferie 
Latine.  Distintivi  degli  Edili.  gCv  Cercano  di  arrestare  Co- 
riobno  e tono  respinti  dai  patrisj.  VIL  a6 , 35.  Pnblio 
Valerone  propone  la  legge  che  gli  Edili  ti  creino  noi  co- 
ntisi per  tribà.' IX.  43.  Gravità  della, offesa  degli  Edili. 
VII.  35.  . , 

EdiUti,  magistrato  plebeo.  V.  19.  Tribnno  deH'anno  prece- 
dente , fatto  edile.  X.  48. 


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490 

Egeria  , ninfa  ; eongreati  di  Ruma  con  essa.  II.  6o.  i 

Egerie , cognome'  cK  Anronte  Tarqninio.  III.  5o.  E spe- 
dito contro- FiJene , S7.  Posterità  di  Egerio.  in  Colhutia. 
IV.  C4. 

Elefanti,  trionfo  in  Ronaa  con  i38  elefanti  dopo  vinti  i Car- 
taginesi in  Sicilia.  II.  66. 

Ellaoìco  Lesbio  snoi  raocnnti.  I.  i3,  iQ,  3G,.3^. 

Epei  Elidesi , compagni  di  Ercole  nella  sua  spediaioné  alle 
Spagne  e per  l’ Italia.  I.  33.  Fissano  la  loro  sede  in  Ita- 
lia , 5 1.  • . , . . 

Ercole,  gira  la  terra  a distruggere  i tiranni.  I.  3>.  Vinte  le 
Spagne  viene  io  Italia  , ivi.  Uccide  Caco  , 33  e .diviene 
insigne , 34>  Abolisce  i sagriGsj  umani  soliti  a farsi  a Sa- 
tarno,  28-  Evandro  gli  tributa  onori- divini,  3i.  Soci  com- 

, pagiii  che  si  fissano  presso  dèi  Pallanteo.  II.  i.  Alenai  han 
crednto  che  egli  lasciasse  de’  figK  nell’  Italia.  I.  3^. 

Ercole,  Arconte  di' -Atene.  .IV.  4 >• 

Erdonio  Appio  «conpa  il  Campidoglio^  X.  1 i-  Muore  combat- 
tendo talerosamente  , iC.  ' 

Erdonio  (Turno),  resiste  a Tarquinio  superbo,  cabala  di  que- 
sto per  Deciderlo.  IV.  e seg. 

Ereto , città  Sabina.  III.  5q.  Battaglia  data  in  Breto  eontro  i 
Toscani.  IV.  3.  Sua  distanza  da  Roma.  III.  3i.  Restava 
presso  del  Tevere.  XI.  3.  I Sabini'- vi  al  aocampanp,  ivi. 
Vi  tono  vìnti  da  Tarquinio.  aoperbo.  IV.  5l. 

Erinni,  venerate  dai  Groci.'II.  Jj.  • r 

Elitra , luogo  dell’  Asia  minore.  IV.  62. 

Ermmio  (Lar.)  conscie.  XI.  5i. 

Erminio  (Tito),  i latciatò  Inogotenente  da  Tarqninio  nel  cam- 
po , suo  zelo  per  liberare  la  patria  dal  medesimo.  IV.  8. 
E UDO  de’ capitani  contro  Porsenna.  V.  22.  Tito  Erminio 
console , 36,  Lnogotenente  del  Dittatore  impedisce  la  foga 

' \ 


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49* 

dc'RomaoL  VI*  Uocide  Manulio,  io  cpoglia  ed  4 uo> 
oieo , ifi.  , , ' , r-  • 

firnici , popoli  *icini  ai  Romani.  Vili.  Si  collegano  eoa 
Tacqninio  , inperbo.  IV.  4q-  Ritpondoao  ambiguameote  ai 
Romani  che  dimandano  loccorto.  V.  Promettono  ajuto 
ai  Latini  contro  i Romani.  VI.  5.  Risposta  loro  superba  ai 
Romani.  Vili.  64*  Lasciano  gli  alloggiamenlt  di  notte  a 
faggono,  C6.  Chieggono  la  pane  e la  ottengono,  G8  « seg. 
Cassio  vuol  che  partecipino  alla  ilivisìone  ilelle  terre,  90 , 
9 ■ . Mandano  >i  Romani  il  doppio  de’  sussidi  ricercati.  IX. 
5.  Dimandano  ajnto  ai  Romani  contro  gli  Equi  e gli  Er- 
niciy  C9.  X.  20. 

Ersilia  Sabina , antrice  della  Legasione  muliebre  ai  Sabini 
dopo  il  ratto.. II.  4^.  III.  1. 

Esequie,  Tarquinio  Superbo  le  proibisce  in,qlQrle.di  Servio 
Tulliò.  IV.  4o.  Escq  uic  per  Virgioia.  XI,  39.  . ' 
Espiasione.  Romolo  fa , saltare  ^il  popolo  attraverso  le  Gamme 
per  espiarlo.  I.  99.  Espiazione  per  acciskme  non  volonta- 
ria. IIL  2 2.  Espiasione  pe^  causa  di  un  morbo  cohtagioso. 
JX.  ^o.  Espiasione  o lustrazione  di  Roma  dopo  ia  morte 
di  Erdonio.  X.  19.  ' 

Esploratori  mandati  in  qualità  di  J/gatu  VI.  i5.  ' ' ■ 

Esquilino , colte,  il.  5'f.  Servio  Tullio  lo  oniOoe  a Roma.’IV. 

là.  Tribù.  Esqnilio'r,  ì4-  Porta -Esquilioa.  IX.  68. 

Etrunia  ; E la  stessa  che  la  Tirrrnia  o Toscana,  è fertile  in 
vino.  I.  28.  E divisa  in  dodici  principati  ed  à potentissima 
per  terra  e per  mare.  VI.  95.  • 

Etrnachi  delicati  e sontuosi  nel  vivere.  IX.  16.  Mandano  soc- 
corso ai  Latini  contro  i Romani.  111.  3>.  Coma  ai  Sabini, 
65.  Sono  vinti  da  Tarqninio  Prisco,  ivi,  e da  Servio  Tal- 
lio. IV:  29.  Sono  battali-  da  quei  delta -Riccia  ed  accolti 
dai  Romani.  V.  36.  Ricusano  socoot^reàa  tanto  i Romani , 
quanto  I Latini,  42.  Destinano  socoòrrere  i Vejentì  contro 


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49» 

- i Romani.  IX.  i.  E'K' toecorretto,  C.  Abbandonano  gli  ao 
campamenti,  i3.  Stacenno  i Yeieotì  dall’ amiciaià  <de*  Ro> 

’ mani.  IX.  i8.  Ocenpano  il  OiamenU,  2ó.  Foggono  di  notte 
a Vejo,  aG.  Etmachì  vebati  ad  abitare  nr  Roma.  I.  So.  Via 
Elrnica  o Tirrena  in  Roma.  'V.  36.  Ré  de^i  Etmsci  : loro 
diatiotivi.  III.  Gl.  ' 

Evandro.  L 92.  Viene  e prenda  sede  cOn  gli  Arcadi  dn  Pa- 
la tia.  I.  So.  II.'  I.  (Inori  che  porge  àd  Ercole.  L'3i.  Dina 
o Lavinia  figlia  di  Evandro,  a3.  ' ' 

Eariléone  Aacanio  figlio  di  Enea  , re  de’  Latini.  I.  5G.‘ 

i 

F • ‘ ‘ 

Fabia  , gente  cccvi.  Fabj  marciano  per  difesa  di  Roma  contro 
di  Vcjo..  IX.  1 5.  Il  consoilato  fa  per  sette  anni-  contiabi 
nella  casa  dei  Fabj  fratelli  Cesene,  Marco,  e (Quinto,  22. 
Se  necièt  i trecento^sei  Fabj  sopravvanzasse  nella  gente  F^* 
bia'  nn  aòlo  fanoiollo,  ivi.  ' 

Fabio  (Cesène),  fratello  di  Q.  Fabio,  estendo  questore  accasa 
Cassio  di  tirannide.  Vili.  7^.  B fatto  console,  83.  Va  a 
■oocorrere  gli  alleati  di  Roma,  S(.  Diviene  oonsole  per  la 
seconda  volta.  IX.  1.  L’esercito  non -lo  ubbidisce  e lo  in- 
salta’ e mettevi  in  marcia  senza  il  comando  di  Ini,  3.  E Io 
priva  di  una  segnalata  vittoria , ivù  Diviene  console  per  la 
tersa  volta,  Soccorre  il  Collega,  ivi.  Va  qaal  proconsole 
ai  Fabj  che  presidiavano  Oreoieral,  16. 

Fabio  (M  ),  fratello  di  Cesene,  é console.  IX.  21.  È' mandato 
a soccorrere  gli  alleati.  Vili.  88.  Depone  il  consolato  e 
ricasa  il  trionfo,  iZ.  Va  con  gli  altri  Fabj.  contro  Ve- 
jp,  i5.  . • ' , 

Fabio  (Q-),  storico  Romano, anlichisshaó.  Proemio,  6.  ' 

Fabio  (Q.),  Pittor»  cosa  narri  dei  dne  gemelli  di  Ilia.  I.  70. 
Gota  del  tradimento 'di  Tarpea.  IL  38eseg.  Si  rigetta  Iacea* 


s 


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teoz»'di  >rai  circa  i figli  di  Tarquiaio  Frjico.  lY.  6«  Seoti- 
menlo  di  Fabio  aa  di  Egerio,  G4>  Foca  ma  diligenza  nella 
cronologia^  3o.  , 

Fabio  (Q.)  r.ooDtole- Vili.  77-.  Marcia  contro  gli  Eqai  ed  i 
Volici,  83.  Q.  Fabio , figlio  di  Ccione , console  per  la  se- 
comU  Tolte,  QO.  È ncciso,  20. 

Fabio  (Quinto),  figlio  di  uno  dei  tre  Fabj  i qnali  preiiede-* 
rano  alla  guarnigione  di  Cremerà , diriene.^  console.  IX. 
5g.  Fa  pace.oon  gli  Eqni,  ivi.  Q.  Fabio  Vibnlano  & còn- 
sole per  la  .seconda  volta.  IX.  6i.^.Debella  gli  Eqni,  ivi. 
Q-  Fabio  Vibolano  console  per  la  tersa  volta  marcia  contro 
gli  E<;^i.  X.  30.  Resta  a difènder  Roma  con  parte  dell*  e- 
sercito,  32.  E fatto  Decemviro,  5^.  Non.  risponde  per  ver- 
A gogna  ai  detti  di  Lpcio  'Valerio.  XI.  5^  Marcia  con  altri  due 
Decemviri  contro  i Sabini,  33.  . ■ ' 

Fabrisio  (Cajo).  Tomo  III.  LegazionL  . , . . ^ 

Falerio,  |Kiese  degli  Aborigeni.  I.  12.  '<•' 

Faronia,  Dea.  II.  - 

Farro.  Uso  di  esso  presso  i Romani  nelle  mense.  de’  Numi, 
II  23.  , 

Fasci  di  verghe  con  la  lonri  si  portavano, da  ogni  littore  fn- 
nanzi  dei-  re  Toscani.' III.  6;.  Uno  dei  consoli  portava  i 
dodici  littori  con  fasci  e scori  , e 1’  altro  con  fasci  e sansa 
^ri  alternativamente  d(  mese-  in  mese.  V.  3.  Valerio  sta- 
bilisce cbe  i coosoH  portassero  entro  Roma  i fasci  senza 
acori  , e 1{  portassero  con  |e^  scori  fuori  di  Roma.  V.  ig. 
Fasci  coronati  nel  trionfo.  VI.  3o.  . 

Fanno,  re  degli  Aborigeni.  I.  22,  35.  , • 

Fanstolo,  presiedo  ai  rag) , bestiami.  I.  70.  Istruisce  Romolo 
della  sua  coudision^  71.  E preso  e portato'  ad  Amulio  , 
73.  Sua  morte  e sepolcro,  78.  . 

Fecìali,  Ira  i Fclasgbi.  I.  11.  , ' 

Ferentino,  i Latini  vi  si  adunavano  a congresso.  III.  5i,  5i. 


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494 

IV.  45.  *>  delibera  sa  la  guerra  contro  i Romani.  V. 

‘ 5o,  Sa,  Ci.  ^ • 

Feciali,  Noma  istitnises  il  collegio  de’ Feciali  in  Roma.  II. 
•ji.  Sono  impiegati  nel  'cènoiliare  la*  plebe- col  Seiuto.  VI. 
89.  Loro  incombente.  II.  93.  ' . 

Ferelrio , Giove.  II.  34-  ' 

Fidene-,  è fabbricata  dagli  Albani.  II.  53.  Era  lontana  cinque 
miglia  da  Roma. 'III.  2ij.  X.  22.  Romolo  la , rende  colonia 
Romana.  III.  2<j.  Spedisione  di  TaHo  OttiHo  contro  Fi- 
dane, 33.  Anco  Marsio  prende  Fidane,  4<>*  prende  Tar- 
• qninio  Prisoo,  58.  Per  impulso  di  Sesto  Tsrquinio  si  ri- 
■ bella  dai  Romani,  V.  4^-  6 riacquistata,  45.  I Sabini  ac- 
campali a Fidene  sono  vinti.  IV.  5s. 

Fido  Giova  Saiico.  IV.  58.  Sp.  Postnmio  consagra  il  tempio 
di  Giove  Fidio.  IX.  Co. 

Figli.  I delitti  de’  figli  non  privano  il  padre  de’  propri  beni. 

Vili.  80.  Figli  come  soggetti  al  padre.  Vedi  padre. 

Flanmii , pecchi  cbs)  chiamati.  IL  C4. 

Ftanleio  (M.),  sna  bravura,  premio,  esortasioni.  IX.  io. 
Fortuna.  Ser.  Tallio  le  fabbrica  due  te(npj.  IV.  2’j.  Uno  di 
questi  tempi  s’ incendia , 4<**  Tempio  ed  ara  'inalzati  alla 
fortuna  muliebre.  Vili.  55.  Sacerdotessa  della  Fortuna,  56. 
Foro, Roano.  L 3i.  Dove  formato,  II.  5o.‘ Foro  come  ornato 
da  Tarqoinio  Prisco.  III.  67.  ¥opo  PopiUo.  I.  i3. 

Fregella.  Tomo  III.  Legazioni.'  ....  t., 

Friimenlo.  Gelone  ne  manda' in  ' dono  ai  Romani.  VII. '-xo. 
II  Senato  fa  venderne , e Cassio  vuole  ohe  se  ne'  restitui- 
sca il  presso  ai  poveri.  Vili.  '9*.  Frnmeoto  di  Tarqoinio 
il  superbo  riguardato  oome  esecrande  e gettato  nel  Te- 
vere.-V,  i3. 

Fufresio.  (Mesio),  ioccede  a Glnvilio  nel  comando  di  Alba.  III. 

5.  Invita  Tulio  Ostilio  alla  pace,  •].  Lo  tradisce,  x3.  E pu- 
' nito , 3o,  - ' ■ 


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4^5 

FuneraK  soleoni  di  Coì^Iano.  Vili.  5g-  Fanerali  fatti  con 
spcM  pnbblicha  a Val.  Poplioola.  V.  48.  Fatti  a Menenio 
Agrippa.  Vlk  96.'Fnnebri  onori  dati  à Stccio.  XL  2’j,  Cori 
Satirici  nelle  pompe  fanebrì.  dei  ricchi.  VII.  >^2.  Giuochi 
funebri.  V.  jj.  Oraiioni  funebri  aolite  in  morte  de*  vaien* 
tuomini.  IX.  54*  Qual  popolo  le  intradnceaae.  V.  ijt  Ora- 
aio  padre  non, rende  i funebri  onori  al)a  figlia  percbi  non 
amica  ‘della  patria.  III.  ai.  , 

Fario  (Lnoio)  , console.  IX.  36.  ~ 

Furio,  triumviro  per  dividere  i terrenj.  IX.  5g.  -*  . 

Furio  (Sta.)  , oòniole.  Vili.  i6. 

Furio. (Spor.),  oopaole.  IX.  i.  Corre  e saccheggia  le  campa'- 
gne  degli  Equi,  a.  . - < • ' < . t 

Furio  (Spor.),  consola  mnore  di  peitilenaa.  X.  53. 

Furato  (C.),  tribuno . della  plebe.  XI.  5a. 

. ..  ■•'o'  . 

Gabio , colonia  di  Alba,  e città  Latina.  V.  6i..  Rimaneva 
nella  via  Preneatina.  IV.  53.  Romolo  e Remò  vi  anno 
istruiti.  I.  gS.  E presa  da  Tarquinio  superbo.  IV.  58.  Il 
quale  fugge  e vi  si  ricovera,  85. 

Galli,  CMciano  gli  Etrnschi  dai  lidi  del  seno  Jonio.  VIL  3. 

Quando  presero  Roma.  I.  G5.  , . . ' 

Gegaoj,  provengono  da  Alba.  lll>/4g.  ■ 

Geganio.  (L.),.  fratello  di  T.  Gegaoio  oonsole,  i spedito  a com- 
prare i grani  in  SiciK».  VII.  i.  Suo  ritorno,  lo. 

Gegaoio  (M.  Macerino),  console.  XI.  5i. 

Geganio  (T.  Macerino),  console.  VII.  i. 

Geli)  , i dne  fratelli,  nipoti  di  Bruto  congiurati.  V.  €.  '* 

Gellio  (Gn.),  senteosa  di  lui  oirca  Tanno  del'ratto  delle  Sa- 
bine. Il,  3l.  Altra  sul  collegio  de' Feoiali,  gl.  Scrisse 
che  Numa  lasciò  una  figlia,  Suo  parere  sul  venir  di 


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Tarqainio  a Roma.  IV.  C.  È oegligeatt'  nella  ■ oronologia. 

- VII.  I.  , ' 

Gelone,  iuocede  ad  IppocraU  nella  tirannide.  VII.  i . Manda 

■ framenlo  in  dono  li  Romaoi,  so.  ‘ 

Gennaio  (On.),  tribuno  della  plebe,  insiete  per  la  legge  agraria  e 
si  ritrova  morto.  IX.  Z’j,  38.  E ohiamato  Cajo  in  .Inogo 
di  Gneo.  X.  38.  4Tito  Gennaio  obiama  in  gindiaia  Tito  Me- 
nenio. Titn  Livio  chiama  Gennaio  sempre  Tito  e non  Cneo 
nè  Cajo.  IX.  27.  • ' . ' < . 

Gennaio  (H.),  console,  sna  risposta  ai  trtb<;ni.  XI.- 58. 

Gennaio  (Tito),  fratello  di  Marco.  XL,  5G.  B destinato  console. 
X.  54.  Ma  in  vece  è creato  Decemviro,  56.  Snoiparere,  60. 
Di  Tito  Gennaio  si  è parlato  innanai. 

Gracco  (C.),  Uribnno  torba  la  repubblica.  II.  11. 

Greci  , gli  Arcadi  i primi  ' tra  i Cteei  passarono  ad  abitare 
l'Italia.  I.  3.  Venuta  de’Felasghi,  altri  Greci  nell’Italia, 
9.  Venata  di  altri  Arcadi , 22..  Altri  lasciativi  da  Ercole , 
35.  Città  Greche  regolate  in  principio  ciascuna  dai  re- 
V.  ']{.  1 Romani  mandano  a cercare  le  leggi  dalla  Grecia. 
X.  52. 

Gianicolo,  no  tempo  si  disse  Enea.  I.  0(.  Sito  di  esso  : Anco 
Marsio  lo  cinge  di  mori.  III.  %5.  Ere  lontano  da  Roma 
meno  di  20  stadj.  LX.  i4>  PorseOa  lo'  occnpa.  V.  22^  Lo 
ooonpano  gli  Etruschi.  IX-  2{.  Lo  abbandonano,  2C. 

Giapigia  , promontorio 'Saleolino.  I.  ^2. 

Giove,  spoglia  Saturno  del  comando.  IL  1 9.  Tarquiàio  Prisco 
comincia  a fabbricare  id  comune  un  tempio  a Giove,  Giu- 
none e Minerva.  III.  C9.  Giove  Feretrio.  II.  34.  Fidio , 
vedi  questa  parolk. , 

Giove'  Capitolino,  ammonisce  i Romani  a replicare  i giuochi  in 
suo  onore.  VII.  68.  Sagrifis)  a Giove  nel  monte  Albano. 
Vili.  87.  Romolo  alsa  un  tempio  a Giove  Statore.  IL  5o. 
Giove  Terminale.  II.  74. 


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497 

Ginlia,  famiglia  traiferiu  da  Alba  a Roma.  III.  29.  Giulio  il 
pili  grande  de’  figli  di  Ascanto  diede  origine  e uomo  alla 
gente  Giulia.  I.  61. 

Giulio  Proolo  , suoi  racconti  eu  Romolo.  II.  C5. 

Giulio  (Cajo)  Cesare  rende  alle  loro  cariche  i tribuni  espulsi 
da  Pompeo.  Vili.  ^8. 

Giulio  (C.)  Ginlo  console.  Vili.  i. 

Giulio  (C.)  console.  Vili.  90. 

Giulio  Decemviro.  X.  5C. 

Giulio  Vopisco  console.  IX. 

Giulio  (L.)  Bruto  perchè  detto  Bruto.  IV.  G7.  Sua  perora- 
zione contro  la  tirannide  ^ 70.  Bruto  e Collatioo  i primi 
sono  destinati  consoli , 7G.  Austerità  sua  nel  punire  i oon- 
giorati  a favorir  la  tirannide.  V.  8.  Fa  rimovere  Collatino 
dal  consolato  e prende  P. /Valerio  per  collega,  12.  È uc- 
ciso da  Arante  Tarqninio  in  battaglia  j i5.  E riportato  in 
Roma:  aoa  pompa  funebre,  17  e seg. 

Giunio  (Brolo  L.)  , nomo  plebeo.  Vedi  Bruto. 

Ginnj  (Tito  « Tib.)  figli  del  console  oongiurano  e sono  pa- 
niti. V.  8. 

Giunone , suo  tempio.  I.  ^1.  Sul  Campidoglio  insieme  con 
quello  di  Giove  e di  Minerva.  IV.  61.  Giunone  Luci~ 
fera,  i5. 

I 

Icilio  (C.)  Ruga,  è creato  tribuno.  VI.  89. 

Icilio  (L.)  tribuno  della  plebe  per  la  seconda  volta.  X.  33. 
Riprova  in  parte  il  parere  di  Siccio , 4». 

Icilio  (L.)  destinato  sposo  dì  Verginia.  XI.  28.  La  soccorre,' 
ivi.  Perora  in  suo  favore,  3i  e seg. 

Icilio  (M.)  coetaneo  e compagno  di  Sp.  Verginio.  X.  49* 
mOJSIGI.  tomo  ut.  Si 


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498 

Icilio  (Sp.)  è spedito  dalle  plebe  al  Senato  insieme  con  Im 
Gionio  Brolo,  e M.  Decio.  VI.  88.  Sne  querele  contro 
del  Senato  per  la  carestia  e per  la  colonia  mandata  in 
luoghi  malsani.  VII.  i4  , 19.  Sp.  Icilio  Roga  edile  tenta 
di  arrestare  per  ordine  dei  tribuni  Goriolano  ed  ò ri- 
spinto dai  patria),  26.  Icilio  tribuno  aumenta  il  potere  della 
plebe.  X.  3i. 

Itia  figlia  di  Numitore.  I.  6'}.  È falla  Vestale,  ed  ingravidata, 
ivi.  Partorisce  doe  gemelli  , 69. 

Imatiooe,  Remo  Gglio  di  esso.  I.  63. 

Imperiale,  abito.  Vili.  Sq. 

Interri , quando  si  creava.  XI.  20.  Interri  creati , morendo 
un  console  e stando  malato  1*  altro.  IX.  i4*  O morendo 
tolti  dne  i consoli,  69.  Interri  creati  per  cagìon  de’comis). 
XI.  Ga.  OfGsio  degl*  interri.  II.  58.  IV.  4o>  So* 

Interregno  dopo  la  morte  di  Romolo.  II.  5'}.  Dopo  la  morte 
di  Tulio  Ostilio.  III.  3C.  Fatto  l’ interri  cessarono  tolti  gli 
altri  magistrati.  Vili.  90. 

Italo,  Oenotro  di  origine  regnò  nell’ Italia  e le  diede  il  nome. 
I.  26.  Sicolo  creduto  figlio  d’ Italo  diede  nome  alla  Sicilia, 
i3.  Ad  Italo  soccedette  Morgete , 64* 

Italia  ebbe  nome  da  Italo.  I.  26.  Fu  già  delta  VItalia.  2’).  E 
dai  Greci  Esperia  ed  Ansonia , ivi.  Come  Saturnia  dai  pae- 
sani, ivi.  Bontà  dell*  Italia,  2';,  28-  Limiti  dell’ Italia , a. 
Antichi  limiti  della  medesima,  64*  Città  Greche  nell’Italia. 
X.  54-  L’Italia  si  ribella  dai  Romani.  IL  17. 

L 

Labìcani  , popolo  del  Lasio.  V.  4*.  Erano  colonia -degli  Al- 
bani. Goriolano  gli  espugna.  Vili.  19. 

Lacedemoni  , loro  colonia  passala  tra  i Sabini.  II.  49*  Uno 
Sparlano  il  primo  si  espose  nudo  affatto  a compiere  i giuo- 


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499 

chi  olimpici  : non  concedevano  agli  esteri  il  diritto  di  cit- 
tadinaosa se  non  rarissimamente,  ij.  S*  impadroniscono  di 
Atene.  XI.  i.  I Re  loro  erano  dne.  lY.  q'S.  Sottoposti  alle 
leggi.  V.  jii  II*  ìAi  Autorità  somma  nel  Senato,  ivi. 
Così  crebbero.  IV.  Perderono  il  comando  con  ignomi- 
nia. II.  7. 

Largio  Sp. , capitano,  protegge  l’esercito  che  si  ritira.  Y.  23, 
2Ì,  Procura  i viveri  a Roma,  sf,  È console,  3iL  Sp.  Lar- 
gio consolare  marcia  a soccorrere  Valerio  , Sp.  Largio 
fratello  di  'T.  Largio  Dittatore /resta  in  gnardia  di  Roma, 
7 5.  Sp.  Largio  Flavio  console  per  la  seconda  volta.  VII. 
68.  Sp.  Largio  mandato  ambasciadore  oon  altri  a Gorìo- 
laoo.  Vili.  23^  Spurio  Largio  stando  a difendere  Roma  ne 
protegge  le  vicine  campagne.  Sp.  Largio  interré  , go. 
Consiglia  la  guerra  contro  i Vejenti , Qi. 

Largio  (T.)  oons.  V.  ^ T.  Largio  Flavo  cons.,  5g.  Sua  mo- 
derasione,  60,  E dittatore  il  primo,  7^.  Sna  condotta, 
75.  Sentenza  di  lai  sol  pacificarsi  coi  Latini.  VI.  ^ Sai 
ristabilire  la  concordia  interna  ed  esterna,  e seg.  È la- 
sciato in  guardia  di  Roma,  4^.  Sno  diacorso  alla  plebe  ri- 
tiratasi, 81. 

Largio  (T.)  legato  di  Postumo  Cominio  espugna  Coriola.  VI. 

Larisse,  due,  nna  in  Italia. I.  l2.  L’altra  in  Tessaglia.  X.  iL 

Latino  figlio  di  Ercole  ma  creduto  figlio  di  Fauno , e per- 
chè. L 34.  Re  degli  Aborigini  : il  suo  regno  passa  ad 
Enea  , ivi. 

Latino  Silvio  Re.  L Ql, 

Latini , ebbero  questo  nome  sotto  Latino,  L 1 , 56  , 5_l,  Le 
città  Latine  ricusano  di  ubbidire  ai  Romani  dopo  la  caduta 
di  Alba.  III.  34,  Sono  vinte  da  Anco  Marzio,  E da 
Tarquinio  Prisco,  4S:  Si  collegano  con  esso,  54.  Decretano 
far  guerra  contro  i Romani  per  favorire  Tarquinio  Super- 
bo,  61.  Vinti  cercano  la  pace.  VI.  1 Volaci  cercano 


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5oò 

•nmiDOVftre  i Latini  , e questi  ne  portano  gli  ambasciailori 
legati  a Roma,  e ne  tono  premiati.  VI.  zi.  Sono  infettati  dai 
Volaci.  Vili.  L2.  E da  Curiolano,  ^ Catsio  vuol  che  par- 
lecipiuo  alla  divisione  delle  campagne  come  i Romani,  6r). 
Cercano  toocorto  dai  Romani  contro  gli  Eqni./4X.  L.  Man- 
dano il  doppio  de*  snttidj  dovuti  ai  Romani,  ^ Sbaragliano 
gli  Equi  ed  i Voitci,  Sì.  Chiedono  di  nuovo  ajoto  dai  Ro- 
mani contro  gli  Equi,  Co . 67.  Città  Latine.  VI.  63  , 7^. 
Vedi  Ferentino.  Ferie  latine  istitnite  da  Tarqninio  superbo 
sni  monte  Albano.  IV.  ^ Se  ne  aggiunge  una  seconda  per 
la  espulsione  del  tiranno  stesso  il  qnale  le  aveva  istituite  , 
ed  una  tersa  pel  ritorno  del  popolo.  VI.  q5. 

Lazio  , era  luogo  della  regione  degli  Opici.  L 63. 

Lavina  o Lavinia  figlia  di  Anio  o di  Latino.  L Lavina  figlia 
di  Evandro  , 

Lavioio  metropoli  del  Lazio,  e di  Roma.  Vili.  3o.  E fon-' 
data  dai  Trojani.  I.  36.  Vili.  2 1 . Coriolano  l' assedia  , ivi. 
Quei  di  Lavioio  cercano  soddisfasione  dai  Romani  per  l’ol- 
traggio  fatto  ai  legati.  IL  .*)  2. 

Lanrento  città  d' Italia.  L 44 . 46.  Era  degli  Aborigeni, 
Situazione  di  essa,  36. 

Legge , si  esaminava  prima  dal  Senato  , e poi  si  proponeva' 
al  popolo.  IX  .45.  Tempo  richiesto  per  I’  esame,  4j_ì  Di- 
ritto di  formare  le  leggi  presso  del  popolo.  II.  i_4.  1 pa- 
trizi tenevano  per  leggi  quelle  sole  emanate  dai  comiz|  cen- 
toriati.  XI.  Ma  poi  riconoscono  anche  le  altre  dei  Co- 
mizj  per  tribù  , ivi.  Leggi  di  Romolo.  IL  z3.  Leggi  di  Servio 
Tullio.  IV.  i_3.  Il  tiranno  Tarqninio  toglie  tutte  le  leggi  di 
Tullio,  43.  Legge  di  Romolo  sol  matrimonio.  IL  £3.  Legge 
del  medesimo  circa  la  potestà  patria,  ìQ.  Compilazione  delle 
leggi.  Vedi  7)ece/nviro/o.’ Queste  leggi  sono  proposte  all’esame 
del  popolo.  X.  5^  Ne  risultano  le  leggi  delle  dodici  tavole. 
Co.  Le  quali  furono  stimatissime.  XI.  44- 


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5oi 

L4‘ttorìo  G.  tribano  della  plebe  rttponde  al  console  Appio  Gl.  a 
nome  della  plebe.  IX.  4^  Suo  tumulto  |>er  arrestare  Appio,  4^ 
Licinio  storico  : sue  narrazioni  su  la  strage  di  Tazio.  II.  5a  « 
54.  Su  Tarqninio  Prisco.  IV.  ù±  Su  la  ovazione.  V. 

Su  Tarqninio  superbo.  VI.  1 1.  Sua  negligenza  nell'  esame 
de'  tempi.  -VII.  u 
Licaoni , dne.  L 1. 

Licinj  C.  e Pab.  creati  triboni.  VI.  8^ 

Lioorgo , dà  leggi  severe  agli  Spartani.  II.  42:  Divulga  di 
averle  apprese  da  Apollo  Delfico,  f)  i . 

Lidi  o Lydi , inventori  di  nn  dato  giuoco.  II.  'jL. 

Littori , precedevano  il  re  con  fasci  di  verghe  e con  scure. 
III.  ILl,  Difendono  il  console  ooniro  il  tribuno.  IX. 
Rimovono  per  comando  dei  consoli  la  torba  che  tumnltoa. 
VII.  IL  Ogni  Decemviro  fa  precedersi  da  dodici  littori.  X. 
5q.  I tribuni  risolvono  di  far  gittare  dalla  rupe  tarpea  oa 
littore  perchè  aveva  ubbidito  al  consoli.  X.  3i, 

Liguri , loro  emigrazione  dall'  Italia  nella  Sicilia.  L lL  I Li- 
cori contrastano  il  passo  ad  Ercole  nelle  Alpi  , 

Liri , fiume.  L L, 

Lista,  metropoli  degli  Aborigeni.  L S, 

Liti,  e cause  discusse  ne’ tempi  de' mercati.  VII.  fiS. 

Locri  , f n tempo  Lelegi.  L Q. 

Longola  città  de' Volaci  è presa  da  Postumo  Cominio.  VI.  qi. 
• È presa  da  Goriolano.  Vili.  56. 

Lucani,  infestati  dai  Sanniti.  Tomo  III.  Lfgationi.  Sono  vinti 
< da  Fabbrizio  , ivi. 

Lncrezia  è violata  da  Sesto  Tarqninio.  IV.  GfL  Si  ucci<le , 6 . 
Sun  elogio, 

Lucrezio  Lue.  console.  IX.  Vince  gii  Equi , ivi.  Ne  trionfa, 
I.  Parere  di  L.  Lncrezio  su  li  Decemviri.  XI.  liL 
Lucrezio  Sp. , padre  di  Lucrezia , prefetto  di  Roma  in  assenza 


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5o2 

di  TarqtiÌDÌo.  IV.  .83.  E fallo  interré  dopo  U espaltiona 
dei  re  per  presedere  ai  comiajj  83.  Soa  parlala  in  fasore 
di  Gollatino.  T.  11.  More  console,  iq. 

Lncrezio  T. , collega  di  Valerio,  quando  questi  fu  console  per 
la  seconda  solla.  V.  30.  Tilo  Lucrezio  consolare  é 1*  uno 
de’ Comandanti  di  armata, \32.  Tito  Locreaio  console  per  la 
seconda  volta  insieme  con  Valerio  Poplicola , Soccorre 
al  collega,  42. 

Lucumone , nome  etrusco , Tarqninio  Prisco  se  lo  cambia  in 
quello  di  Lucio.  III.  48*  Lucumone  etrusco  ajnta  Romolo. 
IL  37. 

Lupa  che  allatta  i due  gemelli.  I.  70. 

Lupercali , festa  Arcade  in  onore  di  Pane.  I.  7 1 . 

Lostrazione.  Vedi  Espiazione. 


M 


Macerioo.  Vedi  Geganio, 

Magistrati.  Vedi  Consoli,  Triènni,  Edili. 

Magistrati  non  si  creavano  anticamente  senza  premettere  gli 
auspiij.  II.  Gl.  £ conceduto  a’ plebei  di  ambire  ai  Magi* 
strati.  VII.  G5.  I Magistrati  si  depongono  per  segni  con- 
trari del  cielo.  XI.  62.  Il  Magistrato  diveniva  di  nuovo  un 
privato  finita  la  soa  magistratura,  5.  Magistrati  inviolabili. 
VI.  89.  Dittatura-,  Magistrati)  inappellabile  iodipendente, 
y.  70,  73.  la  un  anno  stesso  furono  iu  Roma  due  Magi* 
strati  supremi.  Consoli  e Tribuni  militari.  X.  62.  L’onore 
del  Magistrato  non  toglie  la  potestà  patria.  IL  2O. 

Mamillo  L.  viene  co’  suoi  Tuscolani  a soccorrere  Roma.  X.  6. 
Mamilio , Ottavio,  genero  o figlio  del  genero  di  Tarqninio  su* 
perbo.  VI.  S.  Era  altissimo  e fortissimo  più  di  tutti  i suoi 
contemporanei,  12.  Porta  in  sassidio  i Latini  a Tarqninio 
contro  i Romani.  V.  21.  Saccheggia  la  campagna  Romana. 


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5o3 

V.  26.  Gli  Etrascbi  si  ritirano  dalla  lega  di  Tarqninio , e di 
Mamilio,  34*  Infesta  i Romani  co’  latrocioj,  33.  Distacca  i 
Latini  dalla  aocietà  de*  Romani,  5o.  Inveisce  contro  i Ro- 
mani ne*  comizj  Latini,  5i,  Gì.  Procnra  fomentare  le  di- 
scordie in  Roma,  53.  Mamilic  e Sesto  Tarqninio  'sono  di- 
chiarati generali  snpremi  delle  truppe  Latine  centra  i Ro- 
mani, Ct.  Loro  consnltasioni  sa  la  maniera  di  fare  la  guerra. 
TI.  3.  Si  apparecchiano  di  andare  contro  Roma.  V.  7G. 
Mamilio  combatte  nell*  ala  destra.  Esso  e Tito  Ebnaio  si 
disfidano,  e pugnano  e si  feriscono.  TI.  11.  Tiene  aociso 
da  Erminio,  12. 

Manlio  Torquato  , severità  sua  centra  il  figlio.  IL  26.  Lo  uc- 
cide. TIII.  <JQ. 

Manlio  Aulo  console , sua  ovazione  su*  Tejenti.  IX.  36.  E 
citato  in  giudizio  dal  tribuno  Gennaio  pea  la  negligensa  sua 
nel  far  eseguire  la  divisione  de*terreni.  IX.  3g.  Ani.  Manlio 
è spedito  in  Grecia  a raccoglier  le  leggi.  X.  52.  È fatto 
Decemviro,  56. 

Manlio  (C.)  console.  IX.  5.  Suo  padiglione  e cavallo  folmi- 
nati  : il.  cavallo  more,  6.  Combatte  e reprime  i Tejenti,  it. 
Muore  ferito  cadendo  col  cavallo,  12. 

Manlio  Sesto  uno  de*  capitani  delle  milizie  le  qnali  abbando- 
narono i Decemviri.  XI. 

Marsj , guerra  da'  Romani  con  essi.  TIII.  80. 

Marte,  è incerto  se  sia  lo  stesso  con  Quirino.  II.  4fi-  Gra» 
colo  di  Marte  in  Tiora.  I.  6.  Antico  suo  tempio,  ivi.  Tem- 
pio di  Marte  fuori  di  Roma.  TI.  i3.  Bosco  di  Marte.  I. 

' 68.  Campo  consacrato  a Marte.  T.  i3.  Sagrifisio  di  Servio 
Tolto  nel  Campo  Marzo.  IT.  22.  Comizj  nel  Campo  Marzo. 
TU.  go.  Consoli  che  scrivono  le  milizie  nel  Campo  Marzo. 
TIII. 

Marzio , Anco  Re  figlio  di  una  figlia  di  Noma  Pompilio.  II. 


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5o4 

’jCi.  Le  avventare  di  Ini  si  narrano  nel  lib.  Ili  dal  § 36 
sino  al 

Marcio  C.  Goriolano , sne  bravare  contro  Coriola,  e controdi 
Ansio.  VI.  g2 , q3.  Sna  moderazione  , Perchè  fa  chia- 
mato Goriolano,  g{.  Gerca  il  consolato,  ne  bada  ripnUa  , 
e diviene  inimico  alla  plebe.  VII.  21.  Inveisce  contro  i tri- 
. buni,  25.  I tribnni  ne  comandano  I’  arresto  : i Patrizj  lo 
proteggono,  26.  Minneio  console  lo  raccomanda  alla  plebe, 
32.  Discorso  elevato  di  Goriolano  alla  plebe,  5{..  È difeso 
dai  Patrizj,  35.  E citato  dai  tribuni  al  gindisio  del  po- 
polo, 38  e seg.  E condannato  per  divario  di  dne  voti , 64. 
Sne  parole  alla  madre  nell’andare  in  esilio.  Vili.  {i.  Va 
tra  i Volaci,  vi  è ricevuto,  onorato,  e scelto  capitano,  e 
marcia  con  essi  a vendicarsi  di  Roma.  VI|I.  i e seg.  Il 
Senato  gli  spedisce  ambasciadori  per  placarlo.  Sua  risposta 
a Minucio  , 2g.  Gome  risponde  alla  seconda  e tersa  amba- 
V Bceria,  3 <7,  38.  Vinto  dalle  preghiere  della  madre,  54.  Ri- 
tira le  milizie  dal  territorio  di  Roma,  S'j.  E ncciso  da  nn 
partito  di  Volsci,  5g.  Snoi  funerali  magniCci,  ivi.  I Romani 
lo  piangono , 62.  - 1 

Mednllia  , colonia  Albana.  Romolo  la  invade,  e ne  forma  noa 
colonia  Romana.  III.  1.  1 Latini  la  espngnano  ed  Anco 
Marzio  la  ricupera  , 38.  Si  ribella  dai  Romani , e si  con- 
federa coi  Sabini.  VI.  34.  , . 

Menenio  (Agrippa)  Lanato  figlio  di  Gajo.  VI.  68.  E console. 
V.  44-  Reca  Soccorso  a Postumio  collega,  ivi.  Trionfa  dei 
Sabini , 47*  Sua  prudenza  e consigli  per  ricondurre  in 
Roma  la  plebe  la  qnale  ne  era  uscita.  VI.  49-  Appio  Gian- 
. dio  si  oppone,  62.  Nuovi  consigli  di  Menenio  sul  rioon- 
dnre  la  plebe,  67.  Egli  è capo  della  Deputazione  che  il 
Senato  spedisce  alla  plebe  nel  Monte  Sacro  , Gg.  Suo  di- 
scorse alla  plebe  , 83  e seg.  Goncede  alla  plebe  che  possa 


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5o5 

cr«arti  magistrati  o tribtmi  che  la  proteggano  .VI.  88.  Ma- 
gnifici fonerali  di  Menenio  a spese  del  pubblico,  96. 
Menenio'  (L.)  console  : sua  afllisione.  X.  5/{. 

Menenio  (T.)  figlio  di  Agrippa  , é console,  è condannato  ad 
nna  ammenda,  e perchè.  IX.  2’j.  Ne  more  di  afTanno  e d’ i* 
nedia,  sR. 

Mesenzio , monarca  Etrusco  ineeste  Enea  con  la  troppe. 
I.  56. 

Milizia,  gli  antichi  Romani  militavano  a proprie  spese.  IV.  ig. 
Militavano  in  campo  fino  all'età  di  45  anni , i disertori  della 
milizia  si  riguardavano  nelle  urgenze  come  nemici.  X.  20. 
I consoli  vogliono  astringere  a jnilitare  ; i tribuni  assolvono 
da  quest’ obbligo.  Vili.  81.  Maniere  de' consoli  per  delu- 
dere in  tal  caso  i tribuni , 87. 

Milziade,  Arconte  di  Atene.  VII.  5. 

Minerva  , inventrice  del  salto  detto  Pjrrriche.  VII*  72.  Suo 
tempio  antico.  I.  6.  Vestibolo  di  Minerva.  III.  6g.  Tempio 
di  Giunone,  Giove  e Minerva  nel  Campidoglio.  IV.  Gl.  Sa- 
cerdote di  Minerva  Urbica.  VI.  Gg. 

Minosse  Cretese  se  fu  familiare  a Giove.  II.  Gì. 

Minturna  città,  il  fiume  Liri  la  bagna.  I.  i. 

Mioncio  (L.)  console.  X.  22. 

Minncio  (L.)  Decemviro.  X.  58. 

Mtnncio  (M.)  Aogorioo  console  per  la  seconda  volta.  VII.  20. 
Intercede  per  Coriolano , 28.  Suo  discorso  alla  plebe  in 
favore  di  Coriolano , 60.  Va  ambasciatore  a Corfolano. 

Vili.  12. 

Mipnuio  (Q.)  console.  X.  2G.  Marcia  contro  i Sabini,  3o. 
Miscelo  fondatore  di  Crotone.  II.  5g. 

Miaeno  , porto.  I.  VII.  3. 

Morgete  , succede  ad  Italo  , e gl*  Itali  nn  tempo  chiamali  Oe- 
netri  ne  sono  detti  Morgeli.  I.  4* 

Mugillani  popoli  del  Lazio.'  Vili.  olì. 


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6o6 

Mnlu , poiU  contro  di  nomiat  contolari  ia  danaro  e non  ani 
corpo,  e perché.  X.  o aeg. 

Mara,  Targoinio  Prisco  il  primo  lo  forma  di  piatre  tagliata 
regolarmente.  III.  C^.  Premj  per  chi  saliva  il  primo  le 
mura  nemiche.  X.  3 ‘7. 


N 

Napoletani  , ricevono  i Cnmani  Esali.  Tomo  III-  Legazioni. 
Erano  antichi  amici  dei  Sanniti.  I Romani  portano  loro 
guerra  , ivi. 

Nanzio  (C.)  console  compagno  di  P.  Valerio  Poplicola.  IX. 
38.  Devasta  la  campagna  dei  Volaci , 35.  C.  Nanaio  con- 
sole per  la  seconda  volta.  X.  23.  Richiamalo  dalla  Sabina 
provvede  alla  patria  , 23.  Vince  i Sabini , l5. 

Nanzio  Sp.  sno  parere  intorno  al  ritorno  della  plebe.  VI.  69. 
£ console.  VIII.  iG. 

Nettano,  sua  festa.  II.  3o.  Ginochi  a Nettano  equestre.  I.  2{., 
Nolani  dissuadono  i Napoletani  dall'  amicizia  coi  Romani.  Tomo 
III.  Legazioni. 

Nomento  , colonia  Albana.  II.  53.  Nomentani  popolo  Latino. 

V.  Gl.  Si  rendono  a Tarqninio  Prisco.  IH.  5o. 

Norbani,  popolo  del  Lazio.  T.  Gl. 

Nnmicio  (T.)  Prisco  console.  IX.  5G.  Devasta'!  campi  di  An- 
zio, ivi. 

Nnmicio , Game.  I.  55* 

Nnmitore  , Amnlio  tenta  privarlo  di  ogni  saccessione.  I.  67. 

Come  se  ne  vendica,  76.  Ricupera  il  regno  di  Alba,  76. 
Nnmitoria  madre  di  Verginia.  XI.  3o. 

Numitorio  (P.)  zio  di  Verginia  cerca  difenderla.  XL  28.  In- 
veisce contro  di  Appio,  38. 


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o 


Ocrisia , madre  di  Servio  Tallio.  IV.  i. 

Oenotri  nn  tempo  chiamati  Aezei  e Licaonj  occapano  parte 
d’ Italia , e qaale.  I.  4 > 5-  Perchd  chiamati  Aborigeni , 5. 
Vengono  dall’Arcadia  con  Oenotro.  II.  i. 

Oenotro , ana  nascita  e venata  in  Italia.  I.  3. 

Opici , popolo  : loro  porto.  I.  44*  La  regione  loro  abbracciava 
anche  il  Lazio,  C3.  Gli  Opici  cacciano  i Sicoli,  i3. 

Opimia,  Vergine  Vestale;  è condannata  per  lo  stupro.  Vili.  8q. 

Oppio  (M.)  capo  dell’  esercito  che  si  ritira  dai  Decemviri. 

21.  44. 

Oppio  (Sp.)  Decemviro.  2.  58.  Resta  con  Appio  Glandio  a 
proteggere  la  cittii.  21.  a3.  Convoca  il  Senato,  44*  R con- 
dannato a pieni  voti  dal  popolo  e more  lo  stesso  giorno  in 
carcere,  4C. 

Orbilia  Vestale  è punita  per  lo  stupro.  12.  4c. 

Ostia  città,  da  ohi  formata.  III.  44. 

Ovazione,  perchè  cosi  chiamata.  V.  47<  Coma  differisca  dal 
trionfo.  Vili.  67. 


P 

Palanteo , città  di  Arcadia.  I.  22,  5i.  Palanteo  nel  La»o  de- 
nominato dall’altro  di  Arcadia.^  II.  1.  Vi  si  manda  una  co- 
lonia dai  Latini,  45*  Gli  Albani  Io  circondano  di  maro  e 
fossa.  II.  1.  Romolo  cerca  di  fortificare  il  Palanteo  per  al- 
loggiarvi la  «aa  colonia,  85.  Principi  di  Roma  messi  attorno 
il  Palanteo.  III.  4^-  H Pàlanteo  fa  detto  anche  Palaùum, 
e da  Virgilio  Palianteum. 

Palatino  monte , Romolo  lo  munisce  insieme  coll’  Aventino  , 
e col  Gampidoglió.  II.  3^.  Tribà  Palatina.  IV.  i4-  Salii 
Palatini.  II.  70. 


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5o8 

Palladio,  ae  foste  uno,  o due,  e te  Enea  li  portaue  nell'I- 
talia. I.  Co.  Si  dice  che  il  Palladio  fotte  cotlodito  dalle 
Vestali.  II.  C6.  Si  dice  cnttodito  dalla  gente  Nantia.  VI.  C^. 

Pallente  , figlio  di  Ercole  e della  figlia  di  Evandro.  I.  34. 

Pane , Dio  Arcade , anticbittiino.  I.  aó.  Bosco , e grotta  di 
Pane,  'jo.  Sagrifitio  a Pane,  71. 

Panici,  timori  prodotti  da  Fanno.  V.  iC. 

Papaveri.  Tarquinio  il  tiranno  ne  tronca  i più  alti , e percbi. 
IV.  56. 

Papirio  (C.)  pontefice.  III.  3G. 

Papirio  (L.)  Mugillano  console.  XI.  Ca. 

Papirio  Manie  primo  re  delle  cote  aagre.  V.  3. 

Padri,  loro  podestà  sa  i figli.  II.  aC.  Vili.  79.  Rigore  nel 
punire  i delitti  de*  figli , ivi.  Delitti  dei  padri  non  ricade- 

• vano  nei  figli , 80.  Senatori  perché  cbiaiuati  Padri.  II.  8. 
Padri  cotcritli,  12. 

Patritj  ti  chiamarono  quelli  che  erano  nati  dai  padri  cioè  dai 
Senatori.  II.  8.  Officio  dei  Patrizj.  II.  g , io.  Tarqninio 
Prisco  è inscritto  nel  n amerò  dei  Patritj,  e de'Senatori  da 
Anco  Marzio.  III.  4t-  I Patrizj  nel  partir  della  plebe  pren- 
dono le  armi , ciatenno  coi  proprj  clienti  per  la  repubblica. 
VI.  47.  I Patrizj  coi  loro  clienti  marciano  contro  gli  An- 
ziaii.  VII.  ig.  La  plebe  inveisce  contro  l’orgoglio  dei  Pa- 
trizj. VI.  48. 'I  tribuni  gli  accusano  come  intenti  ad  op- 
primere perpetuamente  i poveri.  IX.  a5. 1 Patrizj  non  erano 
sottoposti  al  giudizio  del  popolo  senza  permissione  del  Se- 
nato. X.  34.  Quando  vi  furono  sottoposti.  VII.  G5.  Nelle 
dodici  tavole  erano  proibiti  i matrimonj  dei  Patrhj  coi  ple- 

. bei.  X.  Go.  Molli  Patrizj  divengono  fautori  dei  Decem- 
viri , ivi. 

Patroni,  loro  offisio.  II.  lo,  ii.  Erano  ereditari,  io. 

Pece.  Vasi  di  pece  ardente  lanciatf  colle  fionde  su’  nemici. 
X.  iG. 


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PeUggo , figlio  di  Giove  , e di  Riobe  autore  dei  Pelasglii.  I. 
3,  0.  Saa  diicendeoia,  i0.  Qoando  pattarono  nell’ Italia , 
ivi.  Pelatgo  figlio  di  Laritta  e Nettano.  I.  g.  I*  Pelatghi 
latciano  la  Tettaglia  ^ e vengono  nell’  Italia , 8o.  Pelatghi 
credati  gli  ttetti  che  i Tirreni',  ifi.  A torto,  20.  Furono 
accolti  dagli  Aborigeni , g.  Fioritcono , decadono  e ai  di- 
tperdono  di  nuovo  in  gran  parte  per  le  città  Greche,  i^. 
Città  Pelatghe  in  Italia  diitrntte , 1 '}• 

Peate  , pih  fiera  ne’  bestiami  che  negli  nomini.  VII.  68.  Peste 
ohe  infuria  specialmente  contro  le  gravide.  IX.  io.  Peste 
che  rapida  scorre  per  l’ Italia , Peste  che  dagli  armenti 
e dai  campi  passa  in  città  , 67.  Peste  fierissima  nell*  anno 
trecentesimo  di  Roma.  X.  53,  Peste  che  in  Velletri  stermina 
metà  della  gente.  VII.  12.  Tarqninio  saperbo  manda  a 
conenltare  l’oracolo  in  Delfo  sai  morbo  contagioso.  IV.  6g. 
Sacrifici  ed  anche  riti  insoliti  in  Roma  per  allontanare  la 
peste.  X. 

Pencezio  fratello  di  Oenotro  passa  con  uua  colonia  in  Italia; 

dove  si  posasse.  I.  3.  j 

Pinario  (L.)  console.  IX.  io. 

Finario  (P.)  Rnfo  console.  Vili.  i.  P.  Pinario,  ano  degli  am- 
basciadori  spediti  a Coriolano , 22. 

Pinaria  , figlia  di  Pisblio,  vestale  corrotta.  III.  67. 

Pirro , Re  degli  Epiroti , soa  guerra  coi  Romani.  Tomo  IH- 
Legazioni. 

Pisa  luogo  abitato  dagli  Aborigeni.  I.  i3. 

Pittagora  Spartano , vince  ne’  giuochi  Olimpici.  II.  46* 
Pittagnra  Samio  , quando  filosofasse  nell’  Italia.  II.  49- 
Plebe , dà  al  Senato  la  facoltà  di  scegliere  la  forma  del  go- 
verno, II.  58.  Vivea  in  gran  parte  in  campagna.  VII.  58. 
Vedi  Patrìzi \ la  plebe  si  ritira  nei  monte  sagro  ; vedi  Me- 
nenio Agrippa.  OfGzj  della  plebe.  II.  i{..  Ricupera  gli  an- 
tichi suoi  privilegi  colla  espulsione  dei  Tarquioj.  V.  2.  Un 


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5io 

tempo  era  permetsa  a’ plebei  l'edilità  ed  il  tribnoato;  ap- 
preaso  fu  conuedala  loro  anobe  la  dignità  del  conso- 
lato. V.  i8. 

Plebisciti  dovevano'  essere  precedati  dal  Senatns  Consalto. 
TU.  3g.  X.  4-  Volerone  tribuno  della  plebe  stabilisce  che 
i Plebisciti  ancora  dei  comizj  per  tribù  abbiano  Corsa  di 
legge.  IX.  43. 

Polibio  non  accorato  sull*  epoca  della  fondazione  di  Roma.  I. 
65.  Suo  parere  so  la  denominazione  del  Palaùum,  sa. 

Politorio  città  del  Lazio  espugnata  da  Anco  Marzio.  III. 

' I Politorini  hanno  l’ Avventino  per  abitarvi , ^3. 

Pomentini , campi.  II.  49*  Grandissimi  tra’  campi  Latini.  IT. 
63.  I Romani  vi  si  recano  a provvedervi  del  grano.  VII.  i. 
Snessa,  capitale  de' Fomenlini,  è presa  da  Tarquinio  su- 
perbo. IV.  5o. 

Pompilio , Noma,  originale  di  Cari  ò chiamato  in  Roma,  per- 
chè vi  regni.  II.  58.  Soo  regno,  leggi,  condotta;  dal  § 58 
fino  al  termine  del  libro  II. 

Pomponio  (M.) , e C.  Papirio  consoli.  II.  s5. 

Fonte  Soblicio  , Anco  Marzio  lo  forma  sol  Tevere.  III.  4^* 
I Ponte&ci  ne  hanno  cara , ivi.  E tagliato.  T.  s4- 

Pontefici  , Sommo  Sacerdozio  di  Roma.  I.  Sg.  Donde  cosi 
denominati,  e loro  offizj.  II.  g3.  Vanno  ambasciadori  in» 
damo  a Coriolano.  Vili.  38.  Loro  parte  nella  confermazione 
delle  leggi.  X.  87.  Esaminano  e condannano  la  Vestale  cor- 
rotta. IX.  4i*  Il  diritto  di  sorrogare  no  Pontefice  in  luogo 
di  altro  che  moriva  era  nel  collegio  de'  Pontefici.  II.  g3. 
Libri  o commentari  storici  de'  Pontefici.  Vili.  56. 

Pontificio  Tiberio,  tribuno  della  plebe  si  oppone  ai  consóli  men- 
tre fanno  la  leva.  IX.  5. 

Porsena  Re  di  Etraria  nnito  ai  Tarquin;  assedia  Roma.  V.  21 
e seg.  E costituito  arbitro  delle  controversie  tra  i Romani 


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5i  I 

• Tarqnioio.  V.  Ì2.  Fa  pace  co'  Romaaij  34>  Doao  maodato 
dai  Remaci  al  medesimo  « 35. 

Porta  Capeoa.  TIII.  4-  Carmentale.  I.  23.  Mogooia.  IL  5o. 

Sacra.  X.  i4-  Trigemina.  I.  a3.  3o. 

Porzio  (M.)  Catone,  eoo  racconto  su  dne  gemelii  d'Ilùu  I.  ^o. 
Sa  l’anno  della  fondazione  di  Roma,  65.  Su  le  tribù  sta> 
bilite  da  Tallio.  IV.  i. 

Fostamio  (4.)  consolo,  è nominato  dittatore.  VI.  2.  Marcia 
contro  de’  Latini , 3.  Parla  all’  esercito  per  animarlo , 6. 
Trionfa  dei  Latini,  17.  Lascia  la  dittatura  e rende  i suoi 
magistrati  alla  Patria , 23.  A Postnmio  Albo  combatte  bra- 
vamente contro  gli  Aoranci , 33.  ' 

Fostamio  (A.)  Albo  console,  collega  di  Furio  lo  soccorre. 
IX.  65. 

Fostamio  (P.)  Taberto  console  con  M.  Valerio  , marcia  a eoo 
correrlo.  V.  3q.  P.  Postnmio  Taberto.  console  per  la  se- 
conda volta,  è battuto  per  la  troppa  audacia,  .(4*  Ripara 
r infamia , vince  bravamente  i Sabini , gli  si  accorda  1’  o- 
vazione , 47>  Postnmio  Taberto  è legato  alla  plebe  pro- 
fuga » 9- 

Postnmio  (Sp.)  Albino  console.  IX.  60.  Dedica  il  tempio  di 
Giove  Fidio , ivi.  Spur.  Postnmio  va  legato  in  Grecia  a 
raccoglier  le  leggi.  X.  52.  E creato  Decemviro,  56. 
Postamj , impediscono  la  legge  Agraria , ed  il  popolo  li  con- 
danna ad  una  emenda.  X.  4a> 

Postnmio , legato  vilipeso  dai  Tarentini.  Tomo  III.  Lega- 
zioni. 

Preda,  parta  data  ai  soldati  , parte  all’  erario.  X.  21.  Preda 
venduta  dai  questori  con  metterne  il  denaro  nell’  erario. 
VIII.  82.  Colle  decime  della  preda  se  ne  fan  sagrifizj,  VI. 
17.  Primizie  della  preda  date  ai  valentuomini,  q4. 
Prenestini , popoli  del  Lazio.  V.  4i*  Prenestina  via.  IV.  53. 
Proca  Silvio , Re  di  Alba.  I.  62. 


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5i2 

Prole.  È deliUo  di  ucciderla.  I.  8.  Quando  polesse  eaporei 
secondo  la  legge  di  Romolo,  II.  i5. 

Fi'oserpina,  «e  ne  dedica  il  tempio.  VI. 

Punica,  prima  gnerra  per  la  Siotlia.  II.  6C.  Suo  comincia- 
mento , quando.  Proemio,  8.  ' 

Q 

Quadrighe,  combattimenti  con  ewe.  VII.  'jz,  '^3. 

Questori,  Vendono  la  preda.  VII.  05  e ne  portano  il  danaro 
nell’  erario.  Vili.  82.  Vendono  i beni  dei  profughi , e ne 
recano  il  prezao  nell'  erario.  XI.  06.  Sono  comandati  di 
fare  a spese  pubbliche  i funerali  di  Menenio.  VI.  q6.  Ac- 
cusano Cassio  come  reo  di  tirannide  al  popolo.  Vili.  ^7. 

Querqnelnla , popolo  del  Lazio.  V.  Oi. 

Questura  , la  esercita  un  nomo  consolare.  X.  23. 

Qaintilj  trasferiti  da  Alba  in  Roma.  III.  2^. 

Quintino  Sesto  console , muore  per  la  peste.  X.  55. 

Quinzia , via.  I.  6. 

Quinzio  C.  o Curzio  console.  XI.  5z. 

Quinzio  Cesene  figlio  di  L.  Quinzio  Cincinnato,  si  oppone  ai 
plebei  : è accusato  al  popolo.  X.  5.  Va  in  esilio  , 8. 

Qnhizio  (L.)  Cincinnato,  padre  di  Cesene,  fa  la  causa  del  figlio 
presso  del  popolo.  X.  5.  Venduti  i suoi  beni  paga  per  la 
sicurtà  del  suo  figlio , e si  ritira  io  un  suo  poderelto  di 
là  dal  Tevere.  X.  g.  Donde  è chiamato  al  consolato,  l’j. 
Sna  condotta , e seg.  £ chiamato  dal  suo  poderetto  alla 
dittatura  , 24.  Soddisfa  al  bisogno , e torna  privato  al  suo 
rampo  , 25.  Suo  parere  sul  frenare  i tribuni,  1'}.  E sol 
duplicarne  il  numero  , 3o. 

Quinzio  Tic  Capitolino  console , discorda  da  Appio  suo  col- 
lega. IX.  4i-  Ammansa  il  popolo,  ivi.  Divide  la  rissa  dei 
tribuni  e del  sno  collega , 48>  È console  per  la  seconda 


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5i3 

volta.  IX.  ^ Vince  gli  Equi  e i Volaci , ivi  Ne  trionfa, 

È console  per  la  terza  volta , Qjj  Proconsole  porta  ajoto 
■ Ser.  Furio,  Questore  porta  ajuto  a Miuuoio  circon- 
dato dai  nemici.  X.  22,  Parere  di  lui  su  le  richieste  dei 
Decemviri.  XI.  i2>  E console  per  la  quinta  volta,  02, 
Quirino,  vedi  Romolo  e Marte. 

Quirinale.  II.  58.  K congiunto  a Roma  da  Romolo,  e Tazio, 
2q,  Noma  lo  ricinge  di  mora , , 

Quiriti , nome  di  tatti  i cittadini  di  Roma  derivato , da  Curi 
patria  di  Tazio.  II.  ^6.  . . 


Rabolejo  (C.).  tribuno,  come  divise,  come  dii'  fine  alle  oou* 
tese  dei  consoli.  Vili.  5^ 

Rabnlejo  (M.)  Decemviro.  X.  28,  Marcia  contro  i Sabini. 

XI.  a5.  ■ ' ‘ ' • 

Rasena  duce  Tirreno.  L 21,  . . _ 

Ratto  delle  Sabine.  II.  2tL  In  grazia  di  esse  lasciasi  ai  loro 
cittadini  vinti  la  patria,  la  libertà  , li  beni,  55. 

Reatino  agro,  fu  tenuto-  dagli  Aborigeni.  II.  I Reatini  ac- 
colgono i Listani  profughi.  L 6* 

Regillo  , città  Sabina , patria  della  gente  Claudia.  V.  4°^ 
Claudio  a tempo  dei  Decetnviri  protesta  ritirarvisi  di  nuovo. 

XI.  i2, 

Regillo , lago  nel  Lazio.  V.  ' v 

Regno , Numa  lo  ricusa.  II.  Ila.  Suo  diritto  TÌmaneva  nei  col- 
latori.  IV.  ^ Si  regnò  lungo  tempo  sotto  certe  condizioni.  . 
V.  2^  Perchè  gli  antichi  talvolta  togliessero  il  governo  re- 
gio ; ivi.  Quanto  durasse  in  Roma.  IV.  82, 

Re  delle  cose  sagre,  vedi  Manto  Papirio. 

Rea  , figlia  di  Numitore.  L 
Rea  , ossia  Opi , suo  tempio.  II. 

vio.vicr,  toma  III.  ^ ' il 


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5i4 

Religione,  quanto  ne  fouero  ouer?aatt  gli  antichi.  Vili.  o-). 

Rem  uria.  1.  ^6. 

Ren>o>  nome  dato  da  Fanalaio.  I.  ^o.  È fatto  prigioniero,  ’ji. 
£ aoiolto . ^a.  Sua  morte  e tomba,  78. 

Roma,  Donna  Trojana,  vi  è chi  scrive  che  desse  il  nome  alla 
città  regia  di  Romolo.  I.  65. 

Roma , se  ne  additano  tre.  Proemio , 7.  FondaaioDe  fattane 
da  Romolo.  II.  2.  Il  suo  popolo  derivaTa  dai  Greci  non 
dai  Barbari.  VII.  72.  Romolo  e'  Tasio  l' ampliSoano.  II.  So. 
Servio  Tullin  vi  aggiunge  i|  Viminale.,  e 1’  Esqnilino.  IV. 
i3.  Dividendola  in  quattro  p.irii,  e tribù  ; tanto  che  i colli 
di  Roma  divennero  sette,  i{.  Brolo  la  rende  libera.  Vedi 
Giunlo  Bruto.  Re’  suoi  pericoli  più  grandi  conservò  sempre 
^ la  sua  dignità.  Vili.  36.  Non  usava  cedere  punto  ai  nemici. 
VI.  71.  In  tempo  di  pace  era  sedisiosa  , i laddove  era  una- 
Btmc  in  tempo  di  gnerra.  X..  33.  Fa  rifugio  a quanti  vi 
cercavano  sede  sicara.  V.  56.  Moltitadine  della  colonia  che 
vi  andò  con  Romolo.  II.  2.  Quando  presa  dai  Galli.  I.  65. 
Fn  dominata  prima  dai  Re  {'quanto  ciasenno  vi  dominasse, 
66.  Quindi  ebbe  per  capi  i consoli,  poi  K Decemviri,  e di 
nnnvo  i consoli,  i triboni  militari,  e di  nuovo  i consoli. 
Vedi  queste  parole. 

Romilip  (T.^  console.'  X.  33.  Gommissioni  (die  egli  diede  a 
Siccio,  Siocio  lo  accusa  al  popolo,  ^ condannato, 
ivi.  Sèntensa  di  lui  su  la  compilazione  delle  leggi.  So.  E 
creato  Decemviro  , 56. 

Ronsolo  figlio  di  Enea.  I.  Nascita  di  Romolo  e 

Remo,  6q,'7«.  Era  decimoseuimo  nella  disceadeosa  da 
Enea  , 36.  Non  ennenrda  col  fratello  sol  laogo  di  fabbri- 
care Roma , 76.  Uccide  Remo  e se  oc  pente , 78.  Fonda- 
aione  di  Roma.  II.  a.  È creato  re,  dal  16  al  56,  delio 
stesso  libro  si  esprime  la  condotta ‘di  Romolo  nel  regno; 
muore,  56.  Noma  gli  inalza  un  tempio  e la  venerarlo  con 
annui  tagriCzj , 63. 


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5i5 


Ro*tri  nel  Foro  Romano.  L 20: 

Rutuli,  fanno  guerra  a Latino.  L 4^  Si  ribellano  di  nuovo 
(la  Latino  , Enea  niuor*  combattendo  con  eui , iei.  Pro* 
mettono  di  mandare  ajulo  ai  Latini.  V.  4^ 

S 

Sabini  j cosi  denominati  da  Sabino  o Sabo.  II.  4^  Vi  è chi 
li  crede  Spartani  di  orìgine  in  gran  parte.  IL  Un  tempo 
erano  molli  come  gli  Etruschi  , 58.  Prendono  Lista',  me- 
tropoli degli  Aborigeni,  Sotto  il  comando  di  Tazio  por- 
tano guerra  ai  Romani , 5iL  Condizioni  con  le  quali  con- 
cludono la  pace  con  Romolo  , 4^  Tallo  Ostilio  li  debella. 
111.  Ili  Rompono  1'  alleanza  e li  debella  di  nuovo , 
Come  pure  li  vinco  Anco  Marzio , 4»  . 4--  Promettono 
ajute  ai  Latini  contro  t Romani  « ìlL,  Li  vince  anche  Tar> 
quinìo  Prisco,  55  , G^.  E Tarquinio  so|)erbo.  IV.  5o.  fi 
li  consoli.  V.  Esultano  per  una  leggera  vittoria  e 

sono  disfatti  novamente  , i_5.  Ottengono  la  pace  , 
saliscono  i Romani  mentiv;  erano  in  festa.  Yi«  3_L.  Movono 
guerra  di  nuovo  ai  Romani , 34.  Promettono  soccorrere  i 
Volaci , e sono  vinti , 4A:  Soccorrono  i Vejenti  conlro  i Ro- 
maoi.  IX.  ^ Sono  vinti , ìjL  Fra  la  sedizione  di  Roma 
ne  devastano  la  campagna  , 5^  Tutti  due  i consoli  deva- 
stano la  loro  campagna  , 56.  Servilio  consdle  li  desola  ao- 
vamente,  5‘j.  Scorrono  sino  a Fidene.  X.  2^  Manomettono 
di  nnovo  I’  agro  romano.  X.  zfL  Di  nuovo  fanno  s>:orreria 
ne*  coo6oi.  XI.  5 . Combattono  co'  Romaui  pel  comando. 
VI. 

Sacro  Monte.  VI.  45^  Lai  plebe  vi  alza  nn  altare  e vi  sagri- 
Aca , 90.  Via  sagra.  IL  4C . 5o.  V.'35.  Classi  otto  di  mi- 
nistri sagri  istituite  da  Jfuma  , ii.  Cause  spettanti  a cose 
sagre  deciJevansi  dai  Poatefici,  ’)5.  Legge  sagra:  cioè  quella 
su  la  inviolabilità  dei  tribuni.  VI.  ^ Cittadini  lordi  di 


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5i6 

sangue  sparso  si  espiano  prima  di  accostarti  alle  sagre  cose. 
V.  ^ 

Sacrifisj , dopo  la  viUoria  per  render  grazie  ai  nnmi.  X. 

Vili.  6^  Sagrifìzi  per  il  termine  della  peste  , ivi. 

Salj , istituiti  da  Nama.  II.  2^  Tallo  Ostilio  ne  raddoppia  il 
numero.  III.  2l2.  Salj  Palatini , e Collini , 2^  Ancili  o 
scudi  de’  Salj , 2i_! 

Saline  antiche  all’  iniboccatora  del  Tevere.  II.  5^ 

Samotracia  i«o|a  , perchil  così  chiamata.  L iz.  Enea  porta  <io 
Italia  simtilacri  di  Numi  venerati  in  Samotracia,  6n> 

Sanniti , sconsigliano  i Napoletani  dall’  amicisia  de’  Rolnani  , 
loro,  guerra  (>oi  Lucani  eo.  Tomo  III.  Legazioni. 

Satirico  , giochi  e salti.  VII.  2^ 

Satrieo , popolo  del  Lazio  , Corìolano  lo  riduce  colla  forza* 
Vili.  . . 


Saturnia , colonia  degli  Aborigeni.  L SiL  L’ Italia  fu  detta 
Saturnia , e perchè  , sJL  Saturnio  colle  fu  detto  il  CaunpU 
doglio , ivi. 

Saturno  regna  io  Italia.  Ì.  22*  SagriEsj  fatti  a Saturno  « zq. 
Ercole  alza  un  altare  a Satùrno , VI.  1,  Tempio  dì  Sa- 
tnmo  snl  colle  Capitolino,  ivi. 

Saturnali.  IV.  i^.-  - 

Scattini  popolo  del  Lazio.  V.  S_L.  ■ 

Scellerata , via.  IV.  59. 

Scola  letteraria  nel  Foro.  XI.  a8. 

Scriba  ucciso  in  luogo  di  Porsena..  V.  z8> 

Scuri  , vedi  Fasci. 

Sedia  Curale.  V.  4^  Coriolano  fa  mettere  a basso  la  sedia 
eoa  al  venir  della  madre.  Vili.  4^  '' 

Sempronio  (Q.)  Alratino  console.  VI.  l.  Postumio  dittatore 
lo  lascia  a presedere  à Roma , !•  Console  per  la  seconda 
volta.  VII.  20.  Sentenza  sua  su  le  cose  agrarie.  Vili. 
Sempronio  (A.)  Atratino  interré.  Vili.  E tribuno  militare 
in  luogo  di  console.  XI.  Ci.  ■ ■ 


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* 5i7 

Sempronio  (L.)  Atratino  coniole.  XI.  fìa.' 

Semprooj , impediscono  la  legge  agraria , e ne  sono  paniti. 
X.  ^ e seg. 

Senato,  donde  cos)  detto.  II.  1_Z,  OfBsj  del  Senato,  Pri- 
vilegi. Romolo  stabilisce  nn  Senato  di  cento.  II. 

1-1_.  Vi  si  aggiangnno  altri  cento  dopo  cbe  i Sabini  farono 
messi  a parte  delle  cose  di  Roma  , ^ Tarqninio  Prisco 
ne  aggiunge  altri  cento , rendendo  il  Senato  di  trecento. 
III.  ^ -Strazio  del  Senato  sotto  il  tiranno  Tarquinia.  IV. 
4-2,  Dopo  espulsi  i re  si  ascrivono  dei  plebei  nel  Senato 
per  supplire  i trecento.  V.  il.  Siila  pone  in  Senato  ogni 
feccia  di  nomini , 2Jz  Senato  era  il  freno  dell*  antorilà 
consolare.  VII.  55.  II  console  aduna  il  Senato  di  notte.  IX. 
65.  XI.  2jk  I Senatori  sono  convocati  ad  uno  ad  ano  in 
affari  ardui.  Vili.  5,  I tribuni  tentano  convocare  il  Senato 
sebbene  tal  diritto  fosse  dei  consoli.  X.  3.1  e seg.  I con- 
soli adunano  in  casa  loro  un  corpo  di  senatori  pi&  scel- 
ti , 4^  ^ Quali  fossero  f primi  a dire  il  loro  pa- 

rere in  Senato.  VI.  84^  I censori  esaminano  la  vita  dei 
Senatori.  IV.  2^, 

Seaatusconsnlto  avea  forza  per  un  anno.  ^X.  Ricercavasi 
il  Senatusconsnlto  su  cose  intorno  le  quali  non  vi  era  leg- 
ge. VII.  I'  tribuni  presentano  alla  pdebe  il  sefatusoon- 
snlto  scritto  dai  consoli.  XI.  Gj,  La  plebe  approva  il  sena- 
tnscoosulto.  X.  5^  , 

» ■ ' 

Sette  acque , luogo.  LG,  • ' 

Sette,  pagi.  1 Vejenti  li  consegnano  ai  Romani.  II.  55.  I Ko  • 
mani  li  rendono  a Porsena.  V.  5G, 

Sequinio  Albano.  III.  i5. 

Serg  io  (M.)  Decemviro.  XI.  25, 

Servii)  trasferiti  da  Alba  a Roma.  III.  2^ 

Servilio  (C.)  console,  poco  felice  contro  i Volaci.  IX.  iG, 
Servilio  (P.)  Prisco  console  discorda  da  Claudio  ano  collega 
VI.  25,  Placa  i poveri,  3G,  Eccita  i plebei  alla  gnerra,  28. 


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UiS 

Vince  i Voitcì.  VI.  19.  Si  arro(>a  I*  ovasione  eenza  beneplacito 
del  Senato  a vinca  gli  Aaruaci  ,02.  / 

Servilio  (P.)  Prisco  console , prossimo  a noprte  convoca  il 
Senato.  IX.  6'j.  Muore  di  peste,  68.  ' 

Servilio  (Sp.)  console.  IX.  25.  Più  andace  che  felice  contro 
gli  Etruschi,  26.  È citalo  al  gìodiaio  del  popolo  appunto 
per  questo,  28.  E assolalo,  33.  È legato  di  Valerio  nella 
guerra  co’  Vejenti  e si  distiogoe,  35. 

Servilio  (Q.)  è fatto  maestro  dei  cavalieri  dal  dittatore  Vale- 
rio. VI.  4o. 

Servilio  (Q.)  Prisco,  console.  IX.  5^.  Devasta  la  regione  Sa- 
bina, ivi.  Q.  ^ervilio  console  per  la  aecouda  volta.  Co. 
soccorre  i Latini , ivi. 

Servi  reodoti  liberi  nelle  grandi  urgenze  di  guerra.  VII.  55. 
Servo  quando  torna  di  suo  diritto.  II.  2^.  Cospiraaione  dei 
servi  contro  la  fepubblica.  V.  5i. 

Sestio  (P.)  , console.  X.  5(.  Diviene  Decemviro,  56. 

Setini  popolo  del  Lazio.  V.  61.  Coriolano  ne  prende  la  loro 
città  Seizet 

Sibille  Oracoli.  I.  .{o.  Oracoli  della  Sibilla  Eritrea , 46*  Libri 
Sibillini  esibiti  a Tarquinio  superbo.  IV.  62.  A chi  dati  in 
custodia , e quando  consultati  , ivi.  Si  consultano  in  una 
grande  carestia.  VI.  17.  Como  in  caso  di  segni  portentosi. 
X.  2.  I libri  Sibillini  si  bruciavo,  e ai  procurane  altre  col- 
lezioni di  oracoli  e dà  quali  luoghi.  IV.  62.  Privilegi  dei 
custodi  dei  libri  Sibillìai , ivi. 

Sicania  fu  detta  un  tempo  la  Trinacria  o Sicilia  dai  Sicani , 
popolo  delle  Spagne.  I.  i3. 

Siccio  (L.)  Dentato  : sue  parole  al  popolo  per  la  legge  agra- 
ria. X.  5u.  Propone  consigli  più  miti  di  altri  , 4-*  Siegue 
i consoli  in  guerra  , ma  si  scusa  dall*  adempirne  certi  co- 
niaudt  , 4S-  Come  si  vendicasse  dei  consoli,  46  e seg.  PI 
fatto  tribuno  , 47*  Accusa  Romilie  console  al  popolo,  48. 
Si  riconcilia  con  Romilio , $2.  E ncciao  per  la  perfidia  dei 


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5i9 

Decemviri.  XI.  36.  L*  eeercito  gli  fa  iplendidi  fanarali,  2']. 
Da  alcaiii  è chiamalo  L.  Sicioio  Dentato, 

Siccio  (T.)  console  vince  i Yolsci.  Vili.  67.  Ife  triooEa,  ivL 
T.  Siccio  legato  saggcrisce  a Fabin  come  riprendere  gK  ac- 
campamenti , 68.  Ottiene  i premj  delia  eoa  prodeiaa , ivi. 

Sicilia  fu  detta  dai  Siedi , popolo  italiano , quella  che  un 
tempo  ai  chiamava  Sicania  o Trinacria.  I.  i5.  Roma  ipe- 
disCR  in  Sicilia  a provvedere  i grani.  VII.  1.  La  Sicilia  ai 
ribella  ai  RomanL  IL  17. 

Sicinio  (C.)  Bellbto  nomo  sedizioso  prooora  di  sollevare  ì 
soldati  plebei.  VI.  VII,  33.  Son  risposte  ai  legati  dai 
consoli.  VI.  45.  Aduna  la  plebe  nel  i.ionte  sagro  e permette 
che  i legati  del  Senato  vi  parlino , e fa  che  i plebei  rispon- 
dano. VI.  71  , 72.  E creato  tribuno  dai  plebei,  8q.  E tri- 
bnno  per  la  seconda  volta.  VII.  33.  Sue  invettive  contro 
Goriolano  , 3{.  Cita  Goriolano  al  popolo,  38.  Fa  che  il 
popolo  ne  sentenzi  ,61. 

Sicoli , qnal  gente  fossero  d’ Italia  , e dove  abitassero.  II.  i . 
Italiani  nominati  Sieoli  da  Sioolo  re.  I.  4-  Un  tempo  abi- 
tarono Roma,  I.  Ne  sono  cacciati  dagli  Aborigeni  e dai 
Pelaighi , ivi.  Passano  dall’Italia  nella  Sicania , i3.  Legati 
Sicoli  assaliti  dagli  Anziati.  VII.  37.  Vestigi  de’  Sieoli  in 
Italia.  II.  I. 

Sicolo  figlio  d’italo  porta  nna  oolooia*di  làgqri  nell’Italia.  I. 
i3.  Sicolo  re  di  Ausonia,  ivi.  Siedo  prologo  da  Roma 
viene  a Morgete  , 64. 

Signia , colonia  di  Tarquinio.  IV.  63.  Sesto  Tarqninio  tenta 
invano  di  prenderla.  V.  58. 

Silvio  figlio  postumo  di  Enea  cosi  denominato  dalle  selve.  I. 
Gl.  Ebbe  il  regno  de' Latini  dopo  la  morte  di  Ascanio,  ivi. 
Da  lui  furono  Silvj  denominati  tutti  i re  di  A^ba , ivi. 

Soci  del  popolo  Romano  dovevano  mandargli  de’  sossidj  nella 
guerra.  X.  2i.  Leggi  date  ai  Latini  circa  i sussid;.  VITI. 
i3.  E Su  racquieto  de’ nnovi  campi,  74. 


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520 

Sole , ano  (empio.  II.  5o.  Fonte  dèi  aole.  I.  46. 

Sparla , Spartani.  Vedi  Lacedemoni. 

Spineto  j bocca  del  Po.  I.  io. 

Spoglie.  Vedi  Prede. 

Sterile,  moglie  ripudiata.  IL  25. 

Sobarrana^  tribb.  IV.  i4.  ' • 

Sneasa  Fomexia^  cittì  rignarderole  dei  Volaci.  VI.  2^  Tarqni- 
nio  àoperbo  la  espagna.  FV.  5o.  Servilio  la  prende.  VI.  2g. 
Abbondansa  della  ana  preda  , I Soeaaani  profoghi  ec- 
citano i Cab)  a far  guerra  a Tarqniuio.  IV.  53.  ' - 

Suffragi.  Vedi  Ceiftiz/. 

Solpizio  (Q.)  Camerino  oonaole.  VII.  68. 

Sitlpiiio  (Q.)  Uno  dei  legati  apediti  a Coriolano.  Vili.  32. 

Sulpiiio  (Ser.)  Camerino  coniole.  V.  52.  Sua  prndeoxa  nello 
acoprir  la  congiura , 53.''  Dopo  la  morte  del  collega  egli 
prosiegue  aolo  a reggere  il  consolato,  5^. 

Sulpizio  (Ser.)  Camerino  console.  X.  i.  Ser.  Solpixio  mau- 
dato  per  le  leggi  in  Grecia  j Sz.  È creato  Decemriroj  56. 

Sona  Soana,  paeae  degli  Aborigeni.  I.  6. 

* J 

T 

Tanaqnilla  moglie  di  Tarqnìnio  Prisco  perita  degli  augurj  e 
d*  interpretare  i segni  portentosi.  III.  4’}-  IV.  2.  Sua  pru- 
densa.  IV.  4-  Sno  - favore  per- Servio  Tullio,  ivi.  Se  Tana- 
qoilla  seppellisse  Arnnte  figlio  di  Tarquiaio.  IV.  3o. 

Tareolini , sconsigliano  i Napoletani  dall*  amiciaia  de’  Romani. 
Tomo  III.  Legaùom.  , 

Tarpeja  , suo  tradimento,  morte  e sepoltura.  II.  38  e vg. 

Tarpeo  , colle',  poi  detto  Capitolino  e perchè.  III.  6g.  Tarpea, 
rupe-,  aoprastava  al  Foro,  e vi  ai  precipitavano  i rei.  Vili. 
98.  IX.  4a. 

Tarpejo  (Spnr.)  console.  X.  48. 

Tarquinj  , cittì  ricca  di  Etmria.  III.  46. 

Tarqninieai  cospirano  co'  Vejenli  contro  i Romani.  IV.  zj. 


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Ss  I 

Intercedono  per  Tarqoinio  supèrbo.  Y.  ^ procurano 

colle  armi  il  ritorno  in  Roma  , 

Tarqnioio  Arante,  è messo  dittatore  in  Collazia  donde  prende 
il  nome  di  Gollatino  , esso  e snoi  discendenti.  III.  So. 
Tarqninio  Arante  , fratello  minore  di  Tarqniiiio  superbo  prende 
per  moglie  Tnllia.  IV<  28.  E tolto  di  mezzo'  dalla  moglie 
e dal  fratello , ^ 

Tarqoinio  Arante , figlio  di  Tarqninio  snperbo , porta  una 
colonia.  IV.  Arunte  e Tito  Tarqninio , figli  del  Su- 

perbo sono  mandati  a consultare  l’ oracolo  di  .Delfo , 
Amate  à ucciso  da  Bruto  essendosi  attaccati  per  disfida. 
V.  li  . . 

Tarqninio  (L.)  Prisco  , quando  renne  n Roma.  IV.  fL  E ca« 
pitano  .de* cavalieri  nella  guerra  Lattina.  III.'  5q.  Come  nella 
• goerra  Sabina  , 4^  Pz**  prodezze  sne  nella  guerra  coi 
Vejenti  è ascritto  nel  numero  de*  patrizj  e dei  senatori , 4i-> 
E fatto  re  , 4^  Da  questo  § fino  al  termine  del  lib.  Ili  si 
narrano  le  imprese  di  Tarqninio  re , e la  morte  in  fine. 
Tarquinio  (L.)  superbo,  prende  in  moglie  la* figlia  maggiore 
di  Servio  Tullio.  IV.  Le  òk  la  morte,  e prende  la 
minore , Come , e quando  s*  impadronisse  del  regno  e 
perchè  fu  chiamato  snperbo,  4Ai  Da'  questo  § fino  al  ter- 
mine del  lib.  IV  si  espongono  le  'sue  azioni  fino,  alla  per- 
dita del  regno.  Esule  tenta  più  volte  di  ricuperare  il  trono. 

V.  ^ Porsene  si  distacca  da  lui , Tarquinio  incita*  gli 
Etruschi  contra  i Romani  , 5i  , 6i.  Procura  sedizioni 
in  Roma,  S3,  Quanto  tempo  regnò.  L OS,  Muore  in  Coma. 

VI.  ai, 

Tarqnioio  (L.)  Collatino  torna  dal  campo  in  casa.  IV.  Gj.  La 
ritrova  piena  di  lotto , ivi.  E destinato  e fatto  console  insie- 
me con  Bruto  , , 8i.  Rinunzia  il  consolato  e-  si  ritira  a 

Lavinia.  V.  LI,  Ove  muore.  Vili.  4^ 

Tarquinio  (L.)  maestro  de*  cavalieri  sotto.  T.  Qainzio  Ditta- 
tore. X.  2^. 


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r 9 5 

Tarquiaio  (P.)  e Marno  di  Laurealo  rivebno  una  coapirazio- 
nr,  V.  5^  Premio  dato  loro , 5^ 

Tarqoiiiio  Sesto  Gglio  del  superbo  : suo  messaggio  al  padre 
da  Gabio.  IV.  ^ £ creato  Re  di  Gabio  , Violenta 
Lucrezia , ^ Esule  fa  guerra  par  il  padre.  V.  aa  , afL  É 
creato  capitano  dei  Sabini , Manda  sussidi  ai  Fideoati 
assediati,  5S.  E capitano  dei  Latini  contro  dei  Romani ^ (Ll, 
E ucciso.  VI.  L2. 

Tarquinio  (T.)  figlio  del  superbo  porta  una  colonia  in  Si- 
gnia.  IV.  Egli  a Sesto  fan  guerra  per  il  padre.  V.  aa^ 
a6.  È ferito.  V.  1 1. 

Tarquinia  moglie  di  Ser.  Tullio  muore  d’improvriso.  IV.  4^ 
Strangolala  da  Tarquinio  superbo  , 

Tazio  (T.)  re  di  Curi  e duce  de*  Sabini  contro  i Romani. 
II.  2ÌL  Fatta  la  pace  si  fissa  in  Roma  , e regna 
eoo  Romolu  , ho.'  Erige  altari  a più  Dei  , ivi.  Muore , 5l. 
Telefono  figlio  di  Circe  e di  Ulisae.  IV.  4ì_- 
Tellene  città  del  Lasio.  III.  V.  Qì.  Chi  ne  fosse  l’ autore. 
L & Anco  Marsio  la  espugna  e ne  porta  in  Roma  i cit- 
tadini. III.  !>& 

Tiirsosio  (C.)  tribnno  della  plebe  primo  tenta  introdnrre  leggi 
e diritti  nella  repobblioa.  X.  La  , 

Terenzio  Varrone,  che  dica  su  i Sacerdoti  istitnili  da  Romolo. 
11.1  2±,  So  la  origine  del  nomo  delle  Curie , 4^ 
oracoli  Sibillini.  IV,  fil, 

Tebaoi  tolgono  l'impero  agli  Spartani.  Proemio,  ^ Sono  sol* 
touessi.  II.  l 'j. 

Temistocle  Arconte  di  Atene.  VI.  54» 

Teologia  dei  Romani  migliore  di' quella  de*  Greci.  II. 
Termenio  Cossia  Aterio  console.  X.  4d. 

Termini  Dii  , loro  sagrifisi  e festa.  IL 
Testrina  o Testrnna,  paese  Sabino.  II. 

Tenero  Re  della  Teucri.!  o Troade  nella  Frigia.  L ^ 
Tevere,  passa  vicino  a Fidcne.  11.  hh,  Cliiamavati  Albula  e 


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5a3 

prette  altro  nome  ila  Tiberino  Re  <1i  Alba  il  quale  fu  tra- 
e|>orlak>  dalla  corrente  di  esao.  L Gz. 

Tibnrtini , popolo  del  Laaio»  V.  4i-  Loro  fondatori.  L 8* 
Timeo  Siculo,  storico  non  affatto  diligente,  eioccbè  scrive  sa 
gli  Dei  Penati.  L Gfi.  E sa  1*  epoca  della  fondasiona  di  Ro« 
ma  , (15. 

Tiora,  paese  degli  Aborigeni.  L 6. 

Tisicrate  Grotooiate  vince  nello  stadio.  V.  VI.  43* 

Tisio  (Ses.)  tribuno  della  plebe.  IX.  Cg. 

Toga , soB  forma.  III.  Gì.  Intessnta  di  oro.'  V.  4^! 

Tolerini  espugnati  a farsa  da  Coriolano.  Vili, 

Tuoni  e lampi  spaventevoli  dissnadono  Valerio  il  console  dal> 
r assalire  il  campo  degli  Equi.  IX.  55. 

Trabea,  o Tibeuna.  VI.  i5. 

Trebnia  paese  degli  Aborigeni.  L IL 
Triarj , quali  soldati.  V.  lL  Vili.  SG, 

Tribuni,  prefetti  delle  trib&.  II. 

Tribuni  dei  Celeri  e loro  ofGsj.  II.  64^ 

Tribuni  dèi  soldati , venti  creati  nel  ritirarsi  le  armate  dai 
Decemviri.  XI.  4i^ 

Tribuni  militari  destinati  in  luogo  dei  consoli.  XI.  6t.  Depon- 
gono  il  tribunato  militare  dopo  acttanlatri  giorni  , Ga, 
Tribuni  della  plebe  quando  creati  e quanti.  VI.  8<).  Erano 
inviolabili  , ^ VII.  21,  Non  poteva  impedire  le  asioni  di 
un  tribuno  se  non  un  tribuno.  X.  lì.  Ha  i tribuni  pote- 
vano opporsi  a tutti  aocbc  ai  consoli.  XI.  ^ 54^  Ha  fuori 
di  Roma  non  hanno  alcun  potere.  Vili.  lion  potevano 
pernottare  fuori  di  Roma  se  non  ebe  nelle  ferie  latine,  ivi. 
Sottopongono  a sè  medesimi  quanto  dovea  giudicarsi  dal 
popolo.  VII-  lG,  Querele  de’  tribuni  contro  il  Senato  ebe 
manda  colonie  a luoghi  non  sani , 4i  Altercano  coi  con* 
soli , lS,  Chiamati  in  Senato  inveiscono  contro  Coriolano , 
2i,  Accasano  i patmj  al  popolo,  Il  console  li  riprende 
presso  del  popolo,  aS,  Chiedono  che  i senatori  giurino. 


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5a4 

• e poi  dianola  entenza  VII.  5(). Sono  ammeui  in  Senato,  con> 
aegneiize  , ^ Si  arrogano  Tarbitrio  di  accnaare  qaalnnqne 
patrizio,  5g.  Nel  caso  di  Coriolanoj  ivi.  Cominciano  a ci- 
tare al  popolo  qnalanqne  cittadino  « Si  oppongono  a 
Cassio  per  la  legge  Agraria.  Vili,  Si  oppongono  alla 
leva  de*  soldati,  87.  Impediscono  col  loro  potere  i comizj , 
90.  Nella  penuria  de*  viveri  incitano  la  plebe  contro  i Con- 
soli. IX.  Chiamano  al  gindisio  del  popolo  i già  consoli 
perchè  diano  conto  del  loro  consolato  , ^ , 28.  Restano 
pel  secondo  anno  nelle  cariche  loro  , Sforzi  loro  per- 
chè 8*  imprigioni  nn  console ,'  48^  Insistono  sn  la  formazione 
delle  leggi.  X.'l.  Sono  chiamati  in  Senato  a consnltarvi  sa 
la  salute  pubblica , 2.,  Cacciano  con  finti  delitti  Quinzio 
Cesene  da  Roma.  X.  8.  Restano  pel  terzo  anno  nella  loro 
carica,  ^ E per  il  quarto , 21,  Confermati  per  nn  qninto 
anno  impediscono  la  leva  innanzi  che  il  Senato  decreti  per 
la  formazion  delle  leggi , 28,  Tentano  di  convocare  il  Se- 
nato , il  che  aspettava  ai  consoli,  3i.  Il  Senato  conceda 
che  L tribuni  siano  dieci  in  luogo  di  cinque  , 3^  Gitano 
al  popolo  i consoli  i quali  non  ubbidiscono  , ^ Sono  im- 
pediti nella  legge  agraria , 4i  ° *eg>  La  peste  ne  uccida 
quattro , 88,  Cessano  col  crearsi  dei  Decemviri , 4^  Vedi 
Decemviri.  Ristabiliti  si  vendicano  dei  Decemviri.  XI.  46. 
Istigano  di  nuovo  la  plebe  contro  i patrizj , Pretendono 
che  anche  i plebei  possano  chiedere  il  consolato,  82,  Cac- 
ciati da  Roma  vanno  a Cesare  nelle  Gallie.  Vili.  87. 

Tribè,  Romolo  ne  forma  tre,  -divise  in  dieci  curie.  II.  <2i 
Tarqninio  Prisco  è impedito  di  aumentarne  il  numero.  III. 
70.  Servio  Tullio  ne  forma  quattro  orbane  e ventisei  ru- 
stiche. IV.  i4. 

Tributi,  come  tassati  da  ^Servio  Tullio.  IV.  9.  E come  da 

. Tarqoinio  superbo , 4L 

Trionfo  , maggiore  e minore.  V,  4^  Trionfo  di  Romolo.  IL 
54-  Trionfo  degli  ultimi  tempi,  ivi. 


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5a5 


Troia,  quando  presa.  I.  53. 

Troja,  luogo  d’Italia.  I.  5^. 

Tullio  Coroicnlano.  IV.  i. 

Tullio  Servib  Re  de’ Romani,  sue  imprese.  IV.  3 e seg. 
Tnsoolo,  città  del  Lazio  distante  da  Roma  cento  stadj  incirca. 
X.  30. 

Tnscolani,  popolo  del  Lazio.  V.  6i.  Soccorrono  quei  della 
Riccia,  36.  Largio  Ditutore  li  rilascia  gratnitamente , ■j'j. 
I Volaci  e gli  Equi  devasUno  il  loro  territorio.  IX.  68. 
AjnUno  i Romani  a ricuperare  il  Campidoglio.  X.  i6.  Gli 
Equi  gl’  infestano  di  bel  nuovo , 22 , 43.  XI.  3.  Vedi  Ma- 
rniUo.  Fortezza  Tnscolana  così  alta  ohe  vedevasi  Roma. 
X.  20. 

Tnzia  Vesule  porta  acqua  prodigiosamente.  II.  6q. 

a 

V 

Valeria  , sorella  di  Poplioola  consiglia  che  si  mandi  a Corio- 
lane  la  madre  e la  moglie  con  altre  donne.  Vili.  3g. 
Valerio  (L.)  nipote  di  Foplicola  accasa  Cassio  di  tirannide. 
Vili.  ' 

Valerio  (L.)  Polito , figlio  di  Pubblio  nipote  di  Poplioola.  Ap- 
pio gl’  impedisce  di  dire  il  suo  parere , e come.  XI.  4- 
Valerio  Manio  fratello  di  Poplioola  è fatto  ditutore.  VI.  3q. 
Valerio  (M.)  fratello  di  Poplioola  l’ uno  dei  comandanti  del- 
1’  armata  Romana.  V.  23. 

Valerio  (M.)  console.  X.  3i. 

Valerio  (P.)  Sabino  di  origine , 1’  uno  dei  padri  della  libertà 
Romana.  IV.  Cij.  Prende  i complici  della  congiara.  V.  'j. 
Nei  §§  seguenti  si  hanno  le  altre  imprese. 

Valerio  (P.)  figlio  di  Foplicola  è mandato  a comprare  i grani 
in  Sicilia.  VII.  1. 

Valerio  (P.)  Foplicola  console.  IX.  28.  X.  9.  Muore  colpito  da 
un  sasso.  X.  16. 

Valerio  (P.)  Foplicola  padre  di  Lucio  Valerio  Fotito.  XI.  4* 


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5a6 

Valerio  Storico.  II.  i3. 

Valerio  Voleao.  II.  4o. 

Vaala , o Balia , paese  degli  Aborigeni.  L C. 

Vcjo , fortissima  città  di  Etraria.  IX.  35.  Siloauone  • distaosa 
da  Roma.  II. 

Vejenti , fanou  tregua  con  Romolo.  II.  55.  Cospirano  coi  Fi- 
deoali  contro  i Romani.  III.  C.  Tulio  Ostilio  prende  i loro 
aocanipamenti  > 25.  Anco  Marsio  li  vince,  ^i.  Come  poro 
Tarquioio  Prisco,  58.  E Servio  Tullio.  IV.  2>].  Teotaoo 
riportare  al  trono  i Tarquinj.  V.  i4>  Sono  «ioti  dai  Ro- 
mani, i5.  Cornelio  accorda  loro  la  tregua.  Vili.  82.  Sac- 
cheggiano il  territorio  di  Roma  e ne  sono  repressi,  Qi. 
Cercano  il  soccorso  degli  Etruschi  contro  i Romani.  IX. 
1,5.  Assalgono  i Romani  dipersi , 19.  Scorrono  frao  al 
Gianoioolo , ivi.  Implorano  soccorso  dagli  Etruschi  contro 
i Romani , 16.  Appoggiati  all*  aiolo  degli  Etruschi  e dei 
Sabini  riprendono  di  nuovo  le  armi  contro  i Romani , 34. 
Ottengono  una  tregua  di  aoni  quaranta  , 3G.  Si  acuingono 
a ribellarsL  XI.  54. 

Velia  Inogo  di  Roma.  I.  11.  V.  ig. 

Vellelri  , città  dei  Volaci  si  rende  ad  Anco  Marno.  III.  ^2. 
E presa  da  Verginio  console.  VI.  ^2.  Rifinita  dì  popolo 
dalla  peste,  chiama  dei  coloni  da  Roma.  VII.  iz. 

Vesbola  o Suessola  paese  degli  Aborigeni.  1.  6. 

Vesta  è la  terra.  II.  GG.  Perchè  siale  consagrato  il  fuoco  : e 
a chi  siano  note  le  cote  sacre  di  essa  , ivi.  Tempio  di  Ve- 
sta , So.  Da  chi  prima  fosso  fabbricato  e dove,  65.  Perchè 
vi  si  onstodisse  il  fnooo  e dalle  Vergini,  GG.  Nel  tempio 
non  potevano  pernottare  de’ maschi,  G^j.  Fonte  al  tempio 
di  Vesta.  VI.  i3. 

Vestali  , vergini  nobilissime.  I.  Gl.  Da  obi  foMero  prima  isti- 
tuite. II.  G5.  Quante  ne  stabilisse  Niima  , e qnaute  gli  altri 
Re , G7.  Tarquiuio  Prisco  ne  aggiunte  due.  III.  G’;.  Of- 
fiij  loro.  II.  6G.  Quanto  tempo  dovessero  conservare  la  ver- 


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5i’j 

ginilil.  I.  C8>  IL  67.  Dopo  qnetto  tempo  poteaoo  maritarti. 
IL  67*  Onori  delle  Vestali , ivi.  Loro  gastigo  se  lasciavano 
eorromperai.  L C^.  IL  C7.  III.  G7.  Veatale  convinta  di 
etupro  aottoposta  a pene  solenni.  IX.  4<>*  Vili.  8g.  Suppli- 
xio  dei  corruttori  delle  Vestali.  Vili.  89,  IX.  4** 

Vetoria,  madre  di  Corlolano.  Vedi  Coriolano> 

Vetnrio  (G.)  console.  X.  $2. 

Vetnrio  (P.)  console.  V.  58- 

Veturio  (T.)  Gemino  console.  VI.  3i.  IX.  69.  Marcia  contro 
i Volaci.  IX.  G9.  Ne  trionfa:  ne  ottiene  la  ovaiione  , 71. 
E fatto  Decemviro.  X.  67. 

Virginio  (A.)  Mentano  console.  VI.  3(.  Va  oontro  i Volaci, 

Va  Legato  alla  plebe  profuga  , G9. 

Virginio  (A.)  oonsole.  IX.  i5. 

Virginio  ^A)  Celimontano  console.  IX.  5G.  1 

Virginio  (A.)  triumviro.  IX.  Sq. 

Virginio  (A.)  tribuno  della  plebe.  X.  S e seg. 

Virginio  (Op.)  Tricosto  console.  V.  /(g.  ' 

Virginio  Poolo  console.  Vili.  58,  71. 

Virginio  (Sp.)  console.  X.  3i.  ^ 

Virginio  (T.)  console.  VI.  J. 

Volsci  , sono  ridotti  in- dovere  da  Anco  Marsio.  III.  4i.  Do* 
città  dei  Volaci  ai  coliegano  con  Tarqninio  superbo.  IV.  .49. 
Il  quale  infetta  il  terrtìorio  delle  altre,  52.  Mandano  am- 
basciatori a Gabio  perchè  voglia  far  guerra  con  essi  a Tar- 
qninio , 53.  1 Volaci  ricusano  socoorrere  i Roiiani  contro  i 
Latini.  V.  4 A.nsi  apparecchia  osi  a soccorrere  i Ladini  eon- 
tro  i Romani.  VI.  5.  Giungono  in  soccorso  dei  Latini  dopo 
la  battaglia , i Mandano  ambasciatori  al  campo  Romano 
per  esplorarlo,  i5.  SI  nmiliaoo  e tornano  a ribellarsi,  25. 
Servilio  li  debella,  29.  In  pena  ne  sono  uccisi  in  Roma  gli 
ostaggi , 3o.  Servilio  ne  trionfa  contro  il  voto  del  Senato , 
ivi.  Mandano  legati  in  Roma  a richiedere  ciocché  era  stato 
tolto  loro,  3{.  Sono  costretti  a ricevere  i coloni  Romani, 


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VI.  43  e s«g.  Dopo  la  goerra  Latina  i primi  fomentano  la 
bellione  dai  Romani,  >}C.  Poatomio  Gominio  li  debella,  91. 
In  tempo  di  fame  macchinano  contro  i Romani , ma  la  pe- 
ate li  raffrena.  VII.  13.  Volaci  comandati  ohe  cacano  da 
Roma  tatti  per  nna  porta.  Vili.  4-  Ridomandano  per  meazo 
di  legati  le  loro  cose  ai  Romani , q.  Intimano  gnerra  ai 
Romani  e creano  capitano  Coriolano  , ii.  Il  quale  gli  ac- 
costuma alla  disciplina  militare  dei  Romani , Marciano 
con  gli  Equi  contro  i Romani  , e si  attaccano  fra  loro,  G3. 
Chiedono  pace  dai  Romani,  68.  Q.  Fabio  li  vince , 9i.  Si 
confederano  di  onovo  con  gli  Eqni  contro  i Romani.  IX. 
iC.  Resistono  bravamente  a Serrilio  console  , ivi.  Nansio 
console  devasta  le  loro  campagne,  35.  Sono  presi  i loro 
accampamenti , 58.  In  tempo  di  peste  cospirano  con  gli 
Equi  contro  i Romani,  6'].  Sono  respinti,  70.  Valerio  li 
sbaraglia.  XI.  47* 

Volscio  (M.)  tribuno  della  plebe.  X.  7. 

Voinnnia  moglie  di  Coriolano.  Vili.  io.  Come  ricevuta  da 
Coriolano , i5. 

Volnnnio  (P.)  console.  X.  i. 

INDICE 

Delle  Tavole  a Carte  contenute  nelli  tre  dolami  delle  Antichità 
Romane  -dX  Dionigi  di  AUearnasso. 

Tom.  I.  Ritratto  dell'Autore in  principio 

» » Carla  delli  Antichi  Contorni  di  Roma  . . . n ivi 

n li.  La  Porca  00'  3o  porcelli;  e la  Lupa  del  Campidoglio  o ivi 

» n Carla  topografica  dell’antica  Rmna  . . . . n ivi 

M n Ritratta  di  Giunto  Bruto  ....  ...»  89 

» 111.  Tav.  1.  eli.  Tempia  di  Giano  e sne  vetligia. 


FINE. 

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