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CLASSICI DEL RIDERE
Sono pubblicati :
1. G. Boccacci // Decamerone (Giornata I; 2'' ristampa) L. 6 —
2. Petronio Arbitro - // Saiurkon (4* ediz.) ...» 8,50
3. S. De Maistre - / viaggi in casa (2* ristampa) . . » 7,50
4. A. Firenzuola - Novelle (2» risUmpà) .... » 6 —
5. A. F. Doni - Scritti vani » 7,50
6. EIroda - / mimi »6 —
7. C. Porta - Antologìa »6 —
8. G. SwiFT - 1 Viaggi di Gulliver (2* ediz.) .... 8,50
9. G. RaJBERTI - L'Arte di convitare » 7,50
10. G. Boccacci - // Decamerone (II) » 6 —
1 1 . Luciano - / dialoghi delle cortigiane » 6 —
12. Cyrano - // pedante gabbato, ecc » 6 —
13. G. Boccacci - // Decamerone (Ili) 6 —
14. e. TiLLlER Mio zio Beniamino » 9,50
15. Margherita di Navarra - L' Heptaméron . . . . » 10 —
16. N. Machiavelli Mandragola, Clizia, Belfagor. . » 6 —
17. O. WiLDE - // fantasma di Canterville 6 —
18. G. Boccacci - // Decamerone (IV) » 6 —
19. C. TiLUER Bellapianta e Cornelio » 8,50
20. G. Boccacci - // Decamerone (V) » 6 —
21. e. De Coster - La leggenda di Ulenspiegel (1) . . ' 9,50
22. Voltaire - La Pulcella d'Orléans, trad. dal Monti. » 7,50
23. F. Berni - Le Rime e la Catrina » 6,50
24. D. Batacchi - La Rete di Vulcano (I) . . . » 6,50
25. C. De Coster - La leggenda di Ulenspiegel (II) . . » 9,50
26. G. Boccacci - // Decamerone (VI) » 6 —
27. G. Boccacci // Decamerone (VII) » 6 —
28. G. Boccacci - // Decamerone (VIII) » 6 —
29. G. Boccacci - // Decamerone (IX) » 6 —
30. G. Boccacci - // Decamerone (X) » 6 —
31. D. Batacchi La Rete di VuUano (II) .... » 7,50
32. F. De Quevedo La vita del Pitocco » 6 —
33. A. Tassoni - Z-a Secchia Rapita » 7,50
34. Salom Alechem. Marienbad » 6 —
35. O. Guerrini e e. Ricci, // Giobbe » 6,50
36. V. Marziale - Gli Epigramu.i » 5.00
37. O.Bklzac - Le sollazzevoli historie » 7,50
38. W. BVCH - S. Antonio da Padova i 4,50
39. G. Bruno - In tristitia hilaris, in hilaritale tristis . » 9,50
GIORDANO BRUNO
IN TRISTITIA HILARIS,
IN HILARITATE TRISTIS
LA PROPRIETÀ LETTERARIA ED ARTISTICA
delle versioni onginalì, degli ornamenti, delle note crìtiche
pubblicate in questa collezione
SPETTA ESCLUSIVAMENTE ALl' EDITORE
i! quale, adempiuti i suoi obblighi verso la legge e verso gli Autori
eserciterà i suoi diritti contro chiunque e dovunque
Copyright 1922 by A. F. Formiggini, Rome-
114S^<)5
Grafìa* S. A. I. Industrie Grafiche - Roma, Via Federico Cesi, 45 - 1922
Alla filosofia, come all'arte in genere edalla poesia
in ispecle, è noto, fin dai primi tempi, il riso; e
accompagnato con esso, il pianto.
Si tratta di espressioni, e, si potrebbe dire, a di-
rittura, di elementi essenziali dello spirito; e però la
considerazione filosofica, come la contemplazione
artistica, dell'uomo e delle cose, non poteva pre-
scinderne. A traverso il pianto ed il riso, filosofia ed
arte si congiungono ancora una volta profondamente.
E se in quei termini è d'uopo ravvisare non
solo elementi um.ani, sì anche una delle molte
formie dell'antitesi eterna di Bene e di Male, non
ristretta al consueto senso pratico e morale, ma
estesa alla sua significazione più propriamente teore-
tica, non si può in alcun modo giustificare e vera-
mente intendere un contrapposto assoluto di filosofie
e di filosofi, a seconda che essi più inclinino ad
una visione ilare o ad una visione triste del mondo.
La bizzarria di Luciano, che crea in Democrito il
filosofo ridente e in Eraclito il filosofo piangente,^ '^
(0 Luciano, L'Asta delle Anime. — Di Luciano ved. in « Clas-
sici del ridere » Opere scelte, a cura di Emilio Bodrero.
vili Prefazione
si perpetuerà In una facile opposizione, ma non darà
mal un legittimo e saldo lineamento di considera-
zione filosofica.
La stona opporrà al paganesimo il cristianesimo;
la metafisica costruirà sistemi di ottimismo e di
pessimismo; la indagine psicologica e la specula-
zione filosofica tenteranno la sintesi del Weltschmerz
con Schopenhauer e l'analisi del Rìdere col Bergson;
ma in realtà una vera posizione filosofica non sta nella
rigida antinomia di riso e pianto; e filosofo non può
essere, nella sua espressione più piena, ne chi
dlsciolga ed anneghi nel riso, ne chi conduca a ne-
garsi nel dolore, lo spirito e il mondo.
Si deve anche dire che il riso, in un suo momento
estremo, è segno quasi sinonimo di pianto, di più
profondo pianto; che l'uno e l'altro hanno talora
come una risoluzione tragica comune nella pazzia —
un enigma, appunto, di riso e di pianto che scoppia
nell'uomo,^' e dall'uomo si riversa, con un brivido,
sul mondo.
Giordano Bruno npete più d'una volta la facezia
di Luciano; nel Candelaio, ^^^ che è comedia sa-
tirica per eccellenza, e nella Cena delle Ceneri, ^^^
che è il vibrante dialogo della nuova costituzion e
dell'universo: vi accenna singolarmente conl'espres-
0) «Considerate chi va, chi viene, che si fa, che si dice, come
s'intende, come si può intendere; che certo contemplando quest'azioni,
e discorsi umani col senso d'Eraclito o di Democrito avete occasione
di molto o ridere o piangere >. Candelaio. Proprologo.
(2) « Or eccovi... un convito sì grande, sì picciolo, sì maestrale, si
disciplinale, sì sacrilego, si religioso... che certo credo che non vi sarà
poca occasione da divenir eroico, dismesso; maestro, discepolo; cre-
dente, miscredente; gaio, triste;... sofista con Aristotele, filosofo con
Pitagora, ridente con Democrito, piangente con Eraclito... ». Cena
delle Ceneri. Proemiale epistola al signor di Mauvissiero.
Prefazione |X
sione democriteggiare, che è nella satanica Declama-
(1)
e che
zione della Cabala del Cavallo Pegaseo,
torna nel dialogo primo de La Causa Principio et
Uno, ^^^ dove il pensiero va con ala superba, per
altezze magnifiche. Ma è evidente dal testo dei
passi stessi accennati, che il Bruno non intende
affatto stabilire ne una contrapposizione radicale
di riso e di pianto, ne la sua posizione propria;
mentre invece egli qui riguarda le cose dal semplice
punto di vista esteriore e comune; onde tutto si
presta alla considerazione dell'uno o dell'altro di
questi, che si potrebbero chiamare anch'essi A'jo lo^oi
delle cose. Non senza piegare, sotto questo rispetto,
verso un impetuoso riso; che circola e guizza in
tutte le sue opere e scoppia fin in mezzo agli argo-
menti più gravi, senza sottigliezza e senza ambagi,
aperto e rude, come un suggello di giudizio, e di
sanzione.
Ma se ben consideriamo la natura del suo riso,
ci apparirà come esso non abbia mai nulla di
esteriore o che possa farlo considerare quale fine
a se medesimo. Il comico, in quanto tale, vera-
mente, non c'è in Bruno. In lui non si aprono quelle
brevi parentesi di azzurro, che, per esempio, tra-
(1) «Chi potrà donar freno a le lingue, che non mi mettano ne
medesimo predicamento, come colui che corre appo h vestigi degh
altri, che circa cotal soggetto (<\eìV asinità) democriteggiano ». Cabala
del Caoallo Pegaaeo. Declamazione allo studioso, divoto e pio lettore.
(2) « Cosi è disposto il mondo! Noi facciamo il Democrito sopra
li pedanti e grammatisti, li solleciti cortigiani fanno il Democrito sopra
di noi; li poco pensosi monachi e preti democriteggiano sopra tutti;
e reciprocamente li pedanti si beffano di noi, noi de' cortigiani, tutti
de li monachi, et in conclusione, mentre l'uno è pazzo o 1 altro, verremo
ad esser tutti differenti in specie, e concordanti in genere et numero
et casu ». De la Causa, Principio et Uno. Dialogo primo
X Prefazione
mezzano spesso, con caricature e disegni umoristici,
le grandi opere di Leonardo. E cade opportuno
notare che, forse, non furono mai scritti dal
Bruno quei Pensier gai accennati nel Candelaio^^^
in cui forse si sarebbe potuto avere, a sollazzare la
Signora Morgana, propriamente gaiezza e riso. Non
era fatto per ciò quegli che nell ' /4n//pro/o^o del
Candelaio stesso dice « ch'ave una fisionomia smar-
rita; par che sempre sii m contemplazione delle pene
dell'inferno... un che ride sol per far come fan gli
altrr^^ ^^^ Il suo vero riso, è qualche cosa di singo-
lare, che va assai oltre il ghigno ed il lazzo; è non
solo il riso deìV uomo fastidito, ma del pensoso instau-
ratore, dell eretico della Religione e della Filosofìa.
Ed ugualmente, e necessariamente, per ciò, la sua
tristezza, che è stata assomigliata a quella di Nicolò
Machiavelli, è ben più profonda che non sia un
miomentaneo ripiegamento dello spirito; trae dalla
considerazione di quella medesima realtà umana e
sociale, su cui si esercita l'aspro e violento suo riso,
e che costituisce una specie di contrapposizione alla
realtà ontologica, la quale e posta, invece, essenzial-
m.ente pura e buona. Così la posizione bruniana
rispetto a questo problema del riso e del pianto,
nella considerazione delle cose umane e delle cose
universali, è tutta propria. La filosofìa, come
del resto la vita stessa, non può abbandonarsi
ad esclusivismi, o sentimentale, o razionale, e
pratico, in un senso o nell'altro, con Democrito
o con Eraclito, secondo la facile e rigida distin-
zione tradizionale. Occorre trascendere il riso per se,
(') Alla signora Morgana. Cfr. al proposito V, SPAMPANATO, Can-
delaio. Bari, Laterza, 1909, pag. 6.
(2) Ibid. pag. 19.
Preiaz;(5ne XI
il dolore per se, per poter vedere veramente l'es-
senza umana, cogliere e diffondere e rendere frut-
tifero il valore universale dell'uno e dell'altro. Questo
necessario superamento può avere nell'atteggiamento
del filosofo, può cioè filosoficamente compiersi in
vane forme, di cui due sono le fondamentali; la
forma bruniana e la forma spinoziana: « In tristitia
hilarisy in hilaritate tristis » del Nolano ; « Non ri-
dere, non lugere...^^^^^ dell'Olandese.
Del pensiero spinoziano (che è assolutamente
erroneo intendere qual'espressione di indifferenza
morale, precorrente m certo senso il nietzschiano al
di là del bene e del male) non si deve qui trattare di
proposito. Basti ricordare che Biuno è la tempesta
nel colmo del suo impeto travolgente; Spinoza è
il sereno risolutivo della tempesta stessa; ^^^ e come
in genere questi segna il compimento di tutto il
moto rivoluzionano della Rinascenza, cosi m ispecie
la sua formola indicata, per il problema di cui qui
SI discorre, supera sotto l'aspetto filosofico la for-
mula e la posizione bruniana.
Ma filosoficamente, e nel senso teoretico e nel
senso morale e storico, alla suprema forma di Be-
nedetto Spinoza non si poteva pervenire, se non
per la forma più tragicamente umana di Giordano
Bruno. ^^^ Per andare oltre il riso ed il pianto, e
(0 Tractatus Politicus, Caput I, § IV. Cfr. anche il frammento di
lettera a Boyle. Opere, Van VloteN et Land, voi. II, pag. 305.
(2) E TroiLO, Introduzione alla Filosofia di Benedetto Spinoza.
Milano, 1914.
O) E però da notare che già in Bruno stesso è un accenno anche
al superamento di carattere spinoziano, nella considerazione del punto
di passaggio dall'elica subiettiva all'elica obiettiva, e precisamente nel-
opera De Vinculis. Su di che può vedersi la mia Filosofia di C B. Parte II,
La Fil. Soggettiva; U Etica, spec. pagg. 124-127.
XII
Pref
azione
da quel supremo punto considerare anche queste
fragili e terribili manifestazioni e gli eventi che si
può dire ne siano materiati, e le cose cui sono
mescolati (non sono pure metafore il numeroso riso
dell'universo e le lacrymae rerum), occorreva pas-
sare a traverso, e considerare, il riso che è pianto,
ed il pianto che è riso: ed ecco, appunto, la tri'
stitia hilaris e la hilaritas tristis, ed il filosofo che è
in hilaritate tristis ed in tristitia hilaris.
* * *
Non è senza importanza l'accenno alla duplice
espressione della formula; ^'^ l'una, la più nota e la
più citata, prevalentemente personale e soggettiva;
l'altra meno conosciuta, più oggettiva, che trova
riscontro in molte altre espressioni e proposizioni
bruniane delle opere, latine ed italiane, di filosofia
morale e di filosofia naturale. Ciò sta ad indicare non
solo un atteggiamento personale del pensatore ma
qualche cosa di più; quasi una nota obiettiva, una co-
loritura singolare e profonda del suo pensiero morale,
in connessione con tutti gli altri aspetti e con l'es-
senza stessa del pensiero filosofico fondamentale.
Il motto del filosofo ilare nella tristezza, triste
nella ilarità, apparisce in fronte ad una delle prime
opere, che è il Candelaio; e sta, appunto, ad indi-
care non solo lo spirito informatore di questa stu-
penda comedia di riso e di amarezza, ma quasi
Io spirito di tutta l'opera, distruttiva e costruttiva,
del filosofo.
(1) Candelaio. Epigraje. - De Vinculis in genere, art. IX. Opera lat.,
▼ol. Ili, ...laetiliam trisiitiam... fletum et risum. — De vinciente in
genere; etc
Prefazione XIII
E del resto il Candelaio stesso è ben altro che una
comedia nel senso ordinano della parola; e la sua
caratteristica non è solo quella di allargarsi alla più
vasta materia sociale, come osserva lo Zumbini, ^'^
ma di riconnettersi, secondo gli oscuri accenni del-
l'autore, alla sua dottiina filosofica propriamente,
sia quando si avverte che esso potrà chiarire alquanto
certe « Ombre delle Idee >\ ^^^ sia quando si conclude
la dedica dell'opera stessa, con austere parole in cui
vibra il senso profondo della nolana filosofia. « //
tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla
s'annichila; è un solo che non può mutarsi, e può perse-
verare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa
filosofia Vanimo mi s'aggrandisce e mi si magnifica
r intelletto. ^^^ Suggestive parole, le quali, a traverso
la trama ridicola della favola, a traverso l'ingenuità
e talora la sconcezza degli svolgimenti e degli epi-
sodi, costituiscono come un'atmosfera di più pro-
fonda meditazione, entro cui si accendono di opposto
riflesso l'ilarità triste e la tristezza ilare dello psico-
logo, del moralista, del filosofo.
Cosi, il riso di Giordano Bruno è veramente filo-
sofico; e però esso non s'intende nel suo significato
e nel suo valore, non s'intende nel suo intimo segreto.
(0 Ved. Spampanato. Introd. Op. cit., pag. lxiv.
(2) Alla Signora Morgana. SPAMP. pag. 6. « ...eccovi la candela
che vi vien porgiuta per questo Candelaio che da me si parte, la qual
in questo paese, ove mi trovo, potrà chiarir alquanto certe Ombre dei-
Videe, le quali invero spaventano le bestie, e come {ussero diavoli dan-
teschi, fan rimaner gli asini lungi a dietro; ed in cotesta patria, ove
voi siete, potrà far contemplar l'animo mio a molti, e fargli vedere che
non è al tutto smesso >\
(3) Cfr. De V Infinito Universo e Mondi. Wagner, II, pag. 12:
« ...Questa è quella filosofia che apre gli sensi, contenta il spirto, ma^
gnifica l'intelletto e riduce l'uomo alla vera beatitudine ».
XIV Prefazione
se lo si considera diversamente e sotto gli altri par-
ticolari e più facili aspetti che può presentare, come
il letterario, e quello morale, nel senso più stretto e
più pratico della parola. Non che ciò sia trascura-
bile; ma certo non è tutto, e non è il più. Onde
è avvenuto che anche qualche grande spinto,
come Giosuè Carducci, non abbia inteso in parti-
colare il Candelaio ed abbia disconosciuto in gene-
rale, nel Bruno, lo scrittore. E che quel riso, se pur
si esplica nella forma della comedia cinquecentesca
e della satira; se nel gonfiarsi delle tendenze letterarie
del suo tempo ha spunti di violento antiaccademismo
e di antipetrarchismo; se ritrae i tipi classici del
pedante, dell'avaro libertino, del marito sciocco, dello
scroccone, etc, non è un riso, per cosi dire, let-
terario; e se ancora vuole, secondo la massima tra-
dizionale, castigare ridendo mores, non è nel senso
immediato e, diciamo, esclusivo della morale.
A chi studii a fondo l'etica bruniana, appare come
il riso e la satira del Nolano non solo siano profonda-
mente inseriti in essa, ma quasi ne seguano lo stesso
schema di svolgimento.
Sembrano veramente corrispondere alle tre fasi o
aspetti dell'Etica (la psicologica e descrittiva, la co-
struttiva e, in certo senso, dialettica, e la conclusiva o
razionale e filosofica propriamente) la Satira in con-
creto e in particolare, di vizii e difetti e debolezze e
sconcezze degli uomini; ^'^ la Satira in astratto di
quegli stessi vizi e difetti e imbecillità, considerati
possiamo pur dire ex altiore causa, criticamente e
simbolicamente, in correlazione con le virtù, negli
O « Eccovi avanti gli occhi ociosi princinii, debili orditure, vani
pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di petto, scoverture di corde,
falsi presuppositi, alienazion di mente, poetici furori, offuscamento
Prefazione XV
uomini e negli dei; la Satira, infine, che ha vera
e propria intenzione filosofica, nella critica e nel
sarcasmo di carattere eterodosso verso i tradizio-
nali valori scientifici, morali, politici e religiosi, e
che comprendendo e riassumendo anche le altre
due forme accennate, esplica appieno il significato,
della tristitia hilaris e della hilaritas tristis. E si ha
qui una profonda espressione di quella oppositorum
coincidentia, che, formula ricorrente nella filosofia
bruniana, assume forse la sua maggiore consistenza
e significazione precisamente sotto l'aspetto morale,
nella caratteristica compenetrazione di riso e pianto,
e nella fase culminante dell'Etica propriamente, con
la trattazione, per quanto frammentaria e balenante,
del problema delle opposizioni e delle armonie mo-
rali. Si possono distinguere, appunto, questi tre
aspetti o momenti del riso bruniano; ed approssima-
tivamente e quasi a mo' di esemplificazione, si pos-
sono riferire al Candelaio (1582) il primo; allo Sphccio
della Bestia trionfante ed al Cantus Circaeus (1584)
il secondo; ed il terzo allo Spaccio stesso, alla Cabala
del Cavallo Pegaseo ed a\V Asino cillenico (1585), con
i richiami alle altre opere veramente costruttive,
quali sorxO la Cena delle Ceneri, De la Causa, Prin^
cipio et Uno (1584), etc.
di sensi, turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio d'intelletto,
fede sfrenate, cure insensate, studii incerti, somenze intempestive, e
gloriosi frutti di pazzia ».
« Vedrete, etc. Candelaio. Proprologo.
E di fronte a questa materia di morale miseria, l'A., nella evidente
contrapposizione del urologo al Proprologo, delinea se medesimo, a L au-
tore, si voi Io conosceste, direste, ch'ave una fisionomia smarrita, etc.
...per il più, lo vedrete fastidito, restio e bizarro, non si contenta
di nulla, ritroso come un vecchio d'ottantanni, fantastico com un cane
ch'ha ricevute mille spellicciate, pasciuto di cipolla... ». Ibid.
XVI Prefazione
Non sono inutili la distinzione, necessariamente
sommaria, ed il riferimento ai tre gradi progressivi,
come abbiamo detto, deWEtica; giacche questa nota
di coincidenza e di analogia può far vedere come
il riso di Giordano Bruno non sia un episodio,
ma rientri quasi nella linea del suo pensiero e,
in sostanza, tenga della stessa suggestiva profondità
di tutta la sua etica.
Perciò la materia di questo libro, il quale non è
leggiero, come potrebbe forse apparire a taluno, ma
più tosto grave e pensoso, pur nella facezia e nella
licenza, è disposta secondo quella triplice divisione,
che naturalmente segue la partizione dell' etica bru-
niana.
Comunque, è ben certo che il significato del ca-
ratteristico riso del Bruno, sta nel complesso dei
suoi momenti e dei suoi aspetti. Solo nell'insieme,
e sopra tutto tenendo conto della sua formula inte-
grale, che si estende alle considerazioni estreme della
filosofìa (ma, come abbiamo notato, costituisce pure
il solenne avvertimento ed il motto del Candelaio)
si può intendere il suo vero senso umano ed uni-
versale, il suo valore filosofico.
Bisogna tener conto della formula compiuta, che
esplicitamente apposta alla prima opera italiana, a
quella che più si avvicina nella forma e nel conte-
nuto ai molti e tradizionali componimenti morali
del tempo, sta ad indicar quasi di questo l'avvia-
mento verso uno spirito nuovo; e, riprodotta più
oggettivamente, in uno scritto, fra altri, di preva-
lente sostanza etica, che è dei più personali ed im-
portanti, il De Vinculis, come a ragione giudicava
Felice Tocco, sembra abbracciare l'intero sistema
morale e filosofico del Bruno.
A prescindere dagli strani richiami sopra ricor-
Prefazione XV I
dati, i quali, pur facendo la necessaria parte alla
consueta fantastica associazione bruniana, prendono
un significato rilevantissimo allorché vediamo, e dob-
biamo pur confessare senza intenderne a pieno il
motivo e la portata reale, ricongiunti in una relazione
singolare la luce del Candelaio e le ombre delle idee,
la filosofia della Comedia e la filosofia de V Infinito
Universo e Mondi (e molti altri accenni si potrebbero
trovare ancora nelle altre opere); a prescindere da
ciò, e ben evidente che anche un sommario esame
della formula della ilarità bruniana ci riporta, per
cosi dire, nel cuore della sua fondamentale inspi-
razione filosofica
Certo essa si presta ad un'analisi puramente e
strettamente morale; a cui è connesso un atteggia-
mento particolare psicologico, sentimentale del filo-
sofo. Da tal punto di vista potremo cogliere qualche
lato del pensiero, qualche momento dello spirito biz-
zarro e tempestoso del Bruno; ma se, arrestandoci
a ciò, ritenessimo soli o ponessimo definitivi questo
lato e questo momento, noi non avremmo e non
intenderemmo, affatto. Bruno nella sua interezza e
nella sua essenza, sotto questo rispetto.
Il fastidito, il perseguitato, l'insonne, l'errante,
il misconosciuto, l'odiato può anche umanamente
esprimere un senso tragico, di riduzione e quasi di
confusione, in un disprezzo ed in un'amarezza su-
periori, della sua tristezza e del suo riso; può, sopra
tutto, esprimere la sua forza tremenda, ridendo nella
tristezza ed essendo triste nell'ilarità; può anche,
mefistofelicamente, ridere laddove gli altri piangono
e piangere laddove gli altri ridono; può, infine, ripor-
tare tutto ciò ad un senso vago di scetticismo e di
Bruno, In tristitìa hilaris, etc. 2.
XVlll Prefazione
pessimismo, che più d'una volta pur si accenna nel-
l'opera del Bruno; ora in forma propria, come per
esempio in quelle parole del Candelaio dove si dice,
m conclusione... non esser cosa di sicuro, ma assai di
negocio, difetto a bastanza, poco di bello e nulla di
buono, ^^^ ora con qualche formula usuale, come il
biblico omnia vanitas.
Massime la ilarità triste, presa separatamente, si
presta ad una significazione più particolare, espri-
mendo quella che è l'essenza amara di ogni satira;
la quale veste di riso ciò che in realtà è solo degno di
compassione per la sua debolezza, per la sua defi-
cienza, per la sua bruttura, specialmente nell'ordine
umano.
Ma questo, mentre non dà il lineamento vero ed
intiero del Bruno, riferendosi solo al flusso delle sue
vicende personali, intellettuali e sociali, se ben si
consideri presuppone, in fondo, una diversa e supe-
riore posizione della sua stessa personalità; e, ciò
che più importa, ancora, un diverso e superiore'punto
di vista della sua speculazione morale propriamente
detta e filosofica. Il che appare dalla prima parte
della formula, e più dall'insieme.
La ilarità che è triste e la tristezza che è ilare non
indica un bisticcio, si una intuizione profonda, mo-
rale e filosofica; in quanto non si limita a conside-
razioni parziali di umanità, ma scende alla totale
contemplazione umana, ed a questa aggiunge, anzi
connette in un inscindibile complesso, la considera-
zione della realtà universale.
(') PropTolo^o, — Sono le ultime parole che precedono l'entrata
del Bidello. Naturalmente qui il senso è del tutto particolare e riferito
al mondo del Candelaio, che sta per entrare materialmente in iscena.
Prefazione XIX
A nessuno più che a Bruno ripugna la concezione
della realtà umana staccata ed avulsa dalla realtà
totale; e più a lui ripugna quella definizione dell'uomo,
a cui accenna non senza ironia Benedetto Spinoza,
come V animale capace di ridere. Qui siamo fuori del
campo morale, sia che questa capacità di ridere si
prenda nella sua espressione più semplice e primi-
tiva, nella sua espressione inferiore e fisiologica —
dove, in sostanza, non e che l'animalità — nel senso
preumano, dunque; sia che si prenda nel senso estremo
opposto, nel senso cioè nietzschiano, che nel Supe-
ruomo travolge l'Uomo.
L'umanità vera ha il suo segno nel riso che si fa
pensoso di tristezza e nella tristezza che s'illumina
in una visione trascendente di gioia; segno vero di
umanità, che è morale ed estetico insieme, e che ha
in Bruno un assertore d'incomparabile energia.
II quale trae il motivo e la forza possente e luminosa
dell'affermazione sua, in un certo senso nuovissima,
non già da fonti, che trascendono, in sostanza, l'uomo
e la realtà, come sono propriamente le fonti e gli
ideali religiosi (al di là, immortalità, ricompensa
divina, etc, che fanno piacente la tristezza, il dolore,
la morte), bensì dalle stesse fonti della vera umanità
e della vera realtà, in una superba considerazione
filosofica.
Cosi ritroviamo Bruno e cogliamo il vero suo
spirito. Cosi, da un punto di vista più particolare
ma non meno importante, possiamo intendere come
se la rozza asprezza dell'autore, e circostanze spe-
ciali della sua vita e del suo tempo, lo conducono a
parlar volgare e sconcio, adoperare forme e figure
licenziose e toccare talora l'oscenità, tutto ciò è
trasfigurato e purificato nell'intento profondo che lo
domina: qui veramente il riso, che sembra infettarsi
XX Pref
azione
di elementi estremi, è triste. Questa tristezza purifica
e redime; ed accenna, appunto, a qualche cosa di
più alto a CUI mira il filosofo, e che trascende la ilarità
per se e la tristezza in se.
Così, la considerazione della ilarità di Giordano
Bruno ci conduce a veder, sotto nuova luce e forse
non meno profondamente della pura indagine spe-
culativa, una parte, da cui non si può prescindere,
del suo pensiero.
Di là dalla hilaritas tristis, la tristitia hilaris
può riferirsi ad un altro importante aspetto dello
spirito bruniano: l'ottimismo. Il quale ha la
sua vera significazione (che riapparirà con altre
forme, in altri sistemi) non tanto copie espres-
sione morale per se, o perchè conferisca una co-
loritura particolare alla visione bruniana del mondo;
ma in quanto esprime, in certo modo, l'aspetto
intrinseco e la risoluzione culminante della realtà
stessa.
L'ottimismo morale qui è coessenziale, assoluta-
mente, con l'essere e con l'immanente suo ordine
ontologico: il nuovo mondo della realtà infinita che,
escludendo ogni trascendenza, è essere, potenza e
legge eterna a se, non può non essere, per ciò
stesso, che uno ah solutissimo in cui Ente, Vero, Bene
fanno la medesima cosa.
Che significato possono avere in questo universo
il dolore, il brutto, il disordine, il male e la morte,
il caso e la fortuna?
Brunianamente, tutto ciò appartiene alla superficie,
alla esteriorità, alla contingenza ed alla transitorietà
del mondo; tutto ciò che è pluralità e particolarità
è la spuma che si gonfia, scorre e si frange sulla
realtà; non è la realtà; tutto ciò è di ente, non ente.
Prefazione XXI
come dice con sottigliezza grammaticale, ma con pen-
siero profondo il Bruno.
Il mondo si presenta, dunque, sotto questi due
aspetti: quello della totalità, dell'unità, dell'assoluto
e dell'eterno; e quello del vario, molteplice, fluente,
disgregantesi nel tempo e nella particolarità.
L'uomo sta di fronte a questo mondo, spettatore
e partecipe, ad un tempo, della sua realtà e della
sua transitorietà; di fronte a questo enorme ritmo,
ond'esso quasi sgorga e si discioglie fuori di se, nel
molteplice, nel disgregato e nel relativo, e si rituffa
in se nella pienezza dell'essere che è assolutezza
d'eternità.
Allora l'uomo che riguarda e che agisce in questo
mondo, se si fermi a ciò che è particolare, scorre e
cambia volto, può e deve trovar motivo alla sua tri-
stezza; ma se approfondisca lo sguardo e l'azione, allora
il particolare transfluisce nell'universale, il contin-
gente nell'infinito, il relativo nell'assoluto: la visione e
la consapevolezza di ciò può dare, dà, filosoficamente,
la tristezza gioconda. Questo e il segno del consegui-
mento della più alta coscienza e della più profonda
realtà; questa è la visione sub specie aeterni, ed è
quasi comunicazione con l'assoluto. Allora la tri-
stezza svanisce; alla realtà particolare e contingente
subentra un'altra più profonda realtà. Dileguano
le nubi e brilla il sole, o apparisce il cielo stellato.
Il Riso stesso si è trasfigurato; esso, ormai nel campo
della contemplazione e dell'azione più alta, è dive-
nuto eroico furore e beatitudine.
*
* *
Il presente volume vuol accogliere quanto di più
caratteristicamente espressivo della ilarità triste e
della tiistezza ilare circola, guizza o s'indugia
XXII Prefazione
nella vasta opera di Giordano Bruno, e le dà un fa-
scino strano ed acuto.
Forniscono qui la materia solo gli scritti ita-
liani; che sono più varii di contenuto e più vivi
di forma e quasi più liberamente riflettono l'anima
del filosofo e dell'uomo. Laddove i latini sono o
più tecnici e scolastici, come quelli che appartengono
ai gruppi delle opere Lulliane, Mnemoniche, Espo-
sitive e critiche;^^^ o più solenni come le brevi, im-
portantissime Orazioni; ovvero rielaborano più rigi-
damente, in gran parte con veste poetica, come
De minimo. De Monade e De Immenso, contenuto
di opere italiane.
(Tuttavia, neppur le opere latine mancano di
qualche sprazzo del pensoso suggestivo riso; come
la prima parte del Cantus Circaeus; la quale, mentre
la seconda riguarda l'arte della memoria, è di
carattere essenzialmente morale).
Forse a chi guardi le tre sezioni della raccolta
ed i titoli apposti ai brani ch'esse contengono, non
apparirà chiaro a prima vista il significato messo in
rilievo e che possiam dire ascendente, del riso bru-
niano, secondo lo schema generale dell'etica, che
abbiamo altrove particolarmente studiato. ^'^ Ma se
ben SI consideri, esso risulterà, in sostanza, non meno
sicuro che la intima compenetrazione di quel riso
in tutte le parti dell'opera del Nolano, anche nelle
più astratte, speculative ed astruse; come là dove
si tratta dell'eroico slancio per la conoscenza e per
1 ideale, o della nuova cosmologia, dei principii del-
l'universo e della verità.
(') La Filosofia di G. B., cit. Parte I, III. Le opere brunlane. —
Giordano Bruno, - Coli. Profili, N" 47, Formi'gglni, Roma, 1917.
Prefazione XXI li
La materia morale agitata dal filosofo è una;
massa viva e turbmosa su cui cadono il suo ghigno
e la sua tristezza, come gocce di fuoco. Ma non si
può sconoscere la differenza dell'atteggiamento spi-
rituale, e, in un certo senso, del fine medesimo, nel
Candelaio, per esempio (ed anche in pagihe affini di
altre opere) e nello Spaccio de la Bestia trionfante.
Nell'uno v'è, sopra tutto, il quadro satirico, dipin-
tura e constatazione dei vizii e difetti e debolezze
e sconcezze, come abbiam detto, degli uomini; nel-
l'altro l'approfondimento critico di tutto questo
mondo, e la contrapposizione fra simbolica e dia-
lettica di corrispondenti pregi, virtù, valori, nel
cielo e nella terra, negli uomini e negli dei.
Nell'uno è la materia fermentante ed oscura di
Menandro e di Teofrasto, di Plauto e di Terenzio,
di Machiavelli e di Molière; nell'altro la materia
di Xenofane e di Aristofane, ed è anche (come non
a torto è stato da taluno notato) lo spirito di Dante.
Poiché la Bestia che si deve spacciare non è
solo ciò che d'impuro e triste offende praticamente
l'uomo e il convitto umano, ma quello altresì che
contamina e sminuisce i diritti, la libertà, la san-
tità della mente nelle sue più alte funzioni contem-
plativa e speculativa. E, insomma, trattasi dell'af-
francazione totale dell'uomo e dello spirito, che
fanno tutt'uno.
E come nel Candelaio medesimo (l'abbiamo di
proposito avvertito) c'è qualche oscuro accenno a
più profondo intento ed a relazioni speculative, cosi
lo Spaccio de la Bestia trionfante segna la strada
(1) Op' di.. Parte II. La filosofia soggettiva, l'Etica- — Giordano
Bruno. Profilo cit.
XXIV Prefazione
per la più completa conquista etica ed elevazione
spirituale.
Purgare, liberare: questo è il motivo dell'opera
strana e stupenda di fantasia e di riso. Purificare
ciò che è fuori dell'uomo (ma che cosa è fuori del-
l'uomo, dal punto di vista morale?) e ciò che è
nell'uomo: il mondo superno e celeste, che la vecchia
scienza teneva incorruttibile, e che al filosofo appar
pieno e guasto d'infinita corruzione; e perfino il
mondo infero, la sede stessa del peccato e della
bruttura, che la credenza a quello opponeva. (Ab-
biam notizia d'un dialogo bruniano, // Purgatorio
dell Inferno ^^^ il quale nel titolo d'apparente bisticcio
ma di trasparente significato, completa suggestiva-
mente il disegno della totale purgazione). Oc-
corre, finalmente, mondare e rinnovare la scienza
e la filosofia, la stessa mente umana; ed a questo
mira, con passione intensa, con forza eroica, il
filosofo nuovo.
E se tale opera, che più propriamente riguarda
lo spirito, appare nella form.a ridicola di quella
vivacissima e scintillante trattazione che ha per
(') Nella Cena delle Ceneri, dialogo quinto, verso la fine, Teofilo
(G. B.) dice: « Non dubitate, Prudenzio, perchè del buon vecchio
non ri si guasterà nulla. A voi, Smitho, manderò quel dialogo del
Nolano, che si chiama Purgatorio de l'Inferno, e ivi vedrai il frutto
della redenzione ».
L'accenno al frutto della redenzione, che forse rendeva estremamente
eterodosso lo scritto, non toglie nulla all'idea dello spaccio dell'in-
ferno; forse la rende più forte. Cosi pure, per essa nulla importa che,
a quanto pare, il Purgatorio sia stato composto qualche anno avanti
della Bestia trionfante, verso il 1582. L'idea potrebbe essere stata estesa
dall'inferno al cielo. Ma l'opinione di D. Berti (Vita di G. B., pag. 25,
1* ed.), e di J. Frith (Life of G. B., Londra 1887, pag. 375), i quali
accennano a quella data, resta anche da dimostrare.
Prefazione XXV
soggetto V Asinità, ciò non oscura affatto il pathos
intenso e puro che agita ogni fibra dell'instauratore
e che sembra discendere in lui dall'ardore stesso del
divino Platone. Ne la frenesia da cui si lascia tra-
sportare il Bruno impedisce di scorgere, da ultimo,
la sovrana bellezza della visione che s'apre davanti
al suo occhio profondo, ed innanzi alla quale egli
stesso rimane estatico e commosso. Così come
per Xenofane colofonio (del quale v'è qualche
traccia nello spinto del Nolano) ; che dopo aver
spacciato, sia lecito adoperar questa espressione,
gli Dei della superstizione, dell'ignoranza e della
corruzione, riguardando nel cielo, purificato, disse
che tutto era Dio. ^'^
Culmina, dunque, la critica, la satira, la deri-
sione e la tristezza delle brutture e degli errori
umani, un mondo morale e spirituale di bellezza,, di
bontà, di verità.
Alla instaurazione cosmologica, onde si rompe-
vano e disfacevano i palchi dipinti e i congegni di
orbi e di cieli, si congiungono la instaurazione mo-
rale, e la intellettuale, le quali finiscono per coin-
cidere, sul principio dell'indissolubile ternano di
Ente, Vero e Bene; che il Bruno contempla, ragiona
e sente con impeto straordinario.
Candelaio e Canto di Circe, Spaccio de la Bestia
trionfante ed Eroici furori. Cena delle Ceneri e Asino
cillenico. Cabala del cavallo pegaseo e Causa Principio
et Uno esprimono e fondono insieme, a traverso
^') Noti sono i framm. di Xenofane circa la critica degli Dei. —
Quello citato è riferito da Aristotele Metafisica, I, 5. 986^>- 10.
Le diverse interpretazioni del passo non disdicono al concetto fon-
damentale qui adombrato.
XXVI
Pref
azione
i momenti che singolarmente rappresentano 1 nuovi
valori del mondo e dello spirito. E però, non illegit-
timamente, si chiude questo libro della ilarità triste
e della ilare tristezza del Bruno (che speriamo re-
chi qualche vantaggio, illuminando la pur sempre
scarsamente conosciuta opera del Nolano) con al-
cune fra le pagine più solenni della sua filosofia,
fra le parole più alte della sua anima.
H
PARTE PRIMA
I.
PRESENTAZIONE E SOGGETTO
DEL CANDELAIO
IL LIBRO
A GLI ABBEVERATI NEL FONTE CABALLINO.
Voi che tettate di muse da mamma,
E che fiatate su lor grassa broda
Col musso, r eccellenza vostra m*oda.
Si fed'e caritad' il cuor v infiamma.
Piango, chiedo, mendico un epigramma.
Un sonetto, un encomio, un inno, un oda
Che mi sii posta in poppa over in proda.
Per farmene gir lieto a tata e mamma.
Eimè ch'in van d'andar vestito bramo.
Oimè ch'i* men vo nudo com'un Eia,
E peggio: converrà forse a me gramo
Monstrar scuoperto alla Signora mia
Il zero e menchia com'il padre Adamo,
Quand'era buono dentro sua badia.
Una pezzentaria
Di braghe mentre chiedo, da le valli
Veggio montar gran furia di cavalli.
6 Parte prima
ALLA SIGNORA MORGANA B.,
SUA SIGNORA SEMPRE ONORANDA.
Ed lo a chi dedicarrò il mio Candelaio? a chi, o gran
destino, ti piace ch'io intitoli il mio bel parammfo, il
mio bon corifeo P a chi invlarrò quel che dal sino influsso
celeste, in questi più cuocenti giorni, ed ore più lambic-
biccanti, che dicon caniculan, mi han fatto piovere nel
cervello le stelle fìsse, le vaghe lucciole del firmamento
mi han crivellato sopra, il decano de' dodici segni m'ha
balestrato in capo, e ne l'orecchie interne m'han soffiato i
sette lumi erranti P A chi s'è voltato, — • dico io, — a chi
riguarda, a chi prende la miraP A Sua Santità P no. A Sua
Maestà Cesarea P no. A Sua Serenità P no. A Sua Altezza,
Signoria illustrissima e reverendissima P non, non. Per
mia fé, non è prencipe o cardinale, re, imperadore o papa
che mi ìevarrà questa candela di m.ano, in questo solen-
nissimo offertorio. A voi tocca, a voi si dona; e voi o
l'attaccarrete al vostro cabinetto o la ficcarrete al vostro
candeliero in superlativo dotta, saggia, bella e generosa
mia signora Morgana: voi, coltivatrice del campo del-
l'animo mio, che, dopo aver attrite le glebe della sua du-
rezza e assottigliatogli il stile, — acciò che la polverosa
nebbia sullevata dal vento della leggerezza non offendesse
gli occhi di questo e quello, — con acqua divina, che dal
fonte del vostro spirto deriva, m'abbeveraste l'intelletto.
Però, a tempo che ne posseamo toccar la mano, per la
prima vi indrizzai : Gli pensier gai; apresso: 11
tronco d'acqua viva. Adesso che, tra voi che godete
al seno d'Abraamo, e me che, senza aspettar quel tuo soc-
corso che solea rifrigerarmi la lingua, desperatamente ardo
e sfavillo, intermezza un gran caos, pur troppo invidioso
del mio bene, per farvi vedere che non può far quel mede-
simo caos, che il mio am.ore, con qualche proprio ostaggio e
material presente, non passe al suo marcio dispetto, eccovi
la candela che vi vien porgiuta per questo Candelaio
I. - Presentanzione e soggetto del Candelaio 7
che da me si parte, la qual in questo paese, ove mi trovo,
p otrà chiarir alquanto certe Ombre dell'idee le quali
in vero spaventano le bestie e, come fussero diavoli dan-
teschi, fan rimanere gli asmi lungi a dietro, ed in cotesta
patria, ove voi siete, potrà far contemplar l'animo mio a
molti, e fargli vedere che non è al tutto smesso.
Salutate da mia parte quell'altro Candelaio di carne ed
ossa, delle quali è detto che « Regnum Dei non posside-
hunt )'; e ditegli che non goda tanto che costì si dica la mia
memoria esser stata strapazzata a forza di pie di porci e
calci d'asini: perchè a quest'ora a gli asini son mozze l'o-
r ecchie, ed i porci qualche decembre me la pagarranno.
E che non goda tanto con quel suo detto: « Abiit in regio-
nem longinquam »; perchè, si avverrà giamai ch'i cieli mi
concedano ch'io effettualmente possi dire: « Surgam et
ibo », cotesto vitello saginato senza dubbio sarrà parte
della nostra festa. Tra tanto, viva e si governe, ed attenda
a farsi più grasso che non è; perchè, dall'altro canto, io
spero di ricovrare il lardo, dove ha persa l'erba, si non
sott'un mantello, sotto un altro, si non in una, in un'altra
vita. Ricordatevi, Signora, di quel che credo che non
bisogna insegnarvi: — Il tempo tutto toglie e tutto dà;
ogni cosa si muta, nulla s'annichila; è un solo che non può
mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente
uno, simile e medesimo. — ■ Con questa filosofia l'animo
mi s'aggrandisse, e me si magnifica l'intelletto. Però, qua-
lunque sii il punto di questa sera ch'aspetto, si la muta-
zione è vera, io che son ne la notte, aspetto il giorno, e
quei che son nel giorno, aspettano la notte: tutto quel ch'è,
o è qua o là, o vicino o lungi, o adesso o poi, o presto o
tardi. Godete, dunque, e, si possete, state sana, ed amate
chi v'ama.
ARGUMENTO ED ORDINE DELLA COMEDIA.
Son tre materie principali intessute insieme ne la pre-
sente comedia: l'amor di Bonifacio, l'alchimia di Barto-
lomeo e la pedantaria di Manfuno. Però, per la cognizion
Bruno. In tristitia hilaris, etc 3.
8 Parte prima
distinta de' suggetti, ragglon dell'ordine ed evidenza del-
l'artificiosa testura, rapportiamo prima, da per lui, l'in-
sipido amante, secondo il sordido avaro, terzo il goffo
pedante: de' quali l'insipido non è senza goffaria e sordi-
tezza, il sordido è parimenti insipido e goffo, ed il goffo
non è men sordido ed insipido che goffo.
ANTIPROLOGO.
Messer sì, ben considerato, bene appuntato, bene or-
dinato. Forse che non ho profetato che questa comedia
non si sarebbe fatta questa sera.^ Quella bagassa che è
ordinata per rapresentar Vittoria e Carubina, ave non so
che mal di madre. Colui che ha da rappresentar il Boni-
facio, è imbnaco che non vede ciel né terra da mezzodì in
qua; e, come non avesse da far nulla, non si vuol alzar di
letto; dice: « Lasciatemi, lasciatemi che in tre giorni e
mezzo e sette sere, con quattro dui rimieri, sarrò tra par-
glioni e pipistregli: sia, voga; voga, sia >k A me è stato
commesso il prologo; e vi giuro eh 'è tanto intricato ed
mdiavolato, che son quattro giorni che vi ho sudato sopra,
e dì e notte, che non bastan tutti trombetti e tamburini
delle Muse puttane d'Elicona a ficcarmene una pa-
gliusca dentro la memoria. Or, va' fa il prologo: su
battello di questo barconaccio dismesso, scasciato, rotto,
mal'impeciato, che par che, co crocchi, rampini ed arpa-
goni, sii stato per forza tirato dal profondo abisso; da
molti canti gli entra l'acqua dentro, non è punto spal-
mato; e vuol uscire e vuol fars' in alto mareP lasciar
questo sicuro porto del Mantraccio.^ far partita dal
Molo del silenzio?
L'autore, si voi lo conosceste, dirreste ch'ave una
fisionomia smarrita: par che sempre sii in contempla-
zione delle pene dell'inferno, par sii stato alla pressa
ccome le barrette : un che ride sol per far comme fan
gli altri: per il più, lo vedrete fastidito, restio e bizarro,
non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio
I. - Presentazione e soggetto del Candelaio 9
d'ottant'annl, fantastico com'un cane ch'ha ricevute
mille spellicciate, pasciuto di cipolla. Al sangue, non
voglio dir de chi, lui e tutti quest'altri filosofi, poeti e
pedanti la più gran nemica che abbino è la ricchezza e
beni: de quali mentre col lor cervello fanno notomia,
per tema di non essere da costoro da dovero sbranate,
squartate e dissipate, le fuggono come centomila dia-
voli, e vanno a ritrovar quelli che le mantengono sane ed
m conserva. Tanto che io, con servir simil canaglia, ho
tanta de la fame, tanta de la fame, < he si me bisognasse
vomire, non potrei vomir altro ch'i^ spirto; si me fusse
forza di cacare, non potrei cacar altro che l'anima,
com'un appiccato. In conclusione, io voglio andar a
farmi frate; e chi vuol far il prologo, sei faccia.
PROPROLOGO.
Dove è ito quel furfante, schena da bastonate, che deve
far il prologo.^ Signori, la comedia sarrà senza prologo;
e non importa, perchè non è necessario che vi sii: la ma-
teria, il suggetto, il modo ed ordine e circostanze di quella,
vi dico che vi si farran presenti per ordine, e vi sarran
poste avanti a gli occhi per ordine: il che è molto meglio
che si per ordine vi fussero narrati. Questa è una specie
di tela, ch'ha l'ordimento e tessitura insieme: chi la può
capir, la capisca; chi la vuol intendere, l'intenda. Ma non
lascerò per questo di avvertirvi che dovete pensare di
essere nella regalissima città di Napoli, vicino al seggio
di Nilo. Questa casa che vedete equa formata, per questa
notte servirrà per certi barn, furbi e marioli, — ■ guarda-
tevi, pur voi, che non vi faccian vedovi di qualche cosa
che portate addosso: — • equa costoro stenderranno le sue
rete, e zara a chi tocca. Da questa parte, si va alla
stanza del Candelaio, id est messer Bonifacio, e Carubina
moglie, ed a quella di messer Bartolomeo; da quest'al-
tra, si va a quella della signora Vittoria, e di Gio. Ber-
nardo pittore e Scaramuré che fa del necromanto; per
IO Parte prima
questi contorni, non so per qualoccasioni, molto speso
si va rimenando un sollennissimo pedante, detto Manfu-
rio. Io mi assicuro che le vedrete tutti: e la ruffiana Lucia
per le molte faccende bisogna che non poche volte vada
e vegna; vedrete Pollula col suo Magister per il più, — •
queste un scolare da inchiostro nero e bianco; — • ve-
drete il paggio di Bonifacio, Ascanio, — • un servitore
da sole e da candela. Mochione, garzone di Bartolom.eo,
non è caldo né freddo, non odora ne puzza; in Sanguino,
Barra, Marca e Corcovizzo contemplarrete, in parte, la
destrezza della mariolesca disciplina; conoscerrete la
forma dell'alchimici barrane in Cencio: e per un pas-
satempo vi si farrà presente Consalvo speciale, Marta,
moglie di Bartolomeo, ed il facetissimo signor Ottaviano.
Considerate chi va chi viene, che si fa che si dice, come
s'intende come si può intendere: che certo, contemplando
quest'azioni e discorsi umani col senso d'Eraclito o di De-
mocrito, arrete occasion di molto o ridere o piangere.
Eccovi avanti gli occhii ociosi pnncipii, debili orditure,
vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di petto,
scoverture di corde, falsi presuppositi, alienazion di
mente, poetici furori, offuscamento di sensi, turbazion
di fantasia, smarrito peregnnaggio d'intelletto, fede sfre-
nate, cure insensate, studi incerti, somenze intempestive
e gloriosi frutti di pazzia.
Vedrete in un amante suspir, lacrime, sbadacchia-
menti, tremori, sogni, rizzamenti, e un cuor rostito nel
fuoco d'amore; pensamenti, astrazioni, colere, manin-
conie, invidie, querele, e men sperar quel che più si desia.
Qui trovarrete a l'animo ceppi, legami, catene, cattività,
priggioni, eterne ancor pene, martiri e morte; alla ri-
tretta del core, strali dardi, saette, fuochi, fiamme, ar-
dori, gelosie, suspetti, dispetti, ritrosie, rabbie ed oblii,
piaghe, ferite, omei, folli, tenaglie, incudini e martelli;
l'archiero faretrato, cieco e ignudo; l'oggetto poi del
core, un cuor mio, mio bene, mia vita, mia dolce piaga
e morte, dio, nume, poggio, riposo, speranza, fontana,
spirto, tramontana stella, ed un bel sol ch'a l'alma mai
1. — Presentazione e soggetto del Candelaio 1 I
tramonta; ed a l'incontro ancora, crudo cuore, salda co-
lonna, dura pietra, petto di diamante, e cruda man ch'ha
chiavi del mio cuore, e mia nemica, e mia dolce guer-
riera, versaglio sol di tutti miei pensieri, e bei son gli
amor miei non quei d'altrui.
Vedrete in una di queste f emine sguardi celesti, su-
spiri infocati, acquosi pensamenti, terrestri desiri e
aerei fottimenti: — • co riverenza de le caste orecchie, — •
è una che sei prende con pezza bianca e netta di bu-
cata. La vedrete assalita da un amante armato di
voglia che scalda, desir che cuoce, carità ch'accende,
amor ch'infiamma, brama ch'avvanpa, e avidità ch'ai
cielo mica e sfavilla. Vedrete ancora, — a fin che
non temiate diluvio universale, — l'arco d'amore il
quale è simile a l'arco del sole, che non è visto da chi vi
sta sotto, ma da chi n'è di fuori: perchè de gli amanti l'uno
vede la pazzia dell'altro e nisciun vede la sua. Vedrete
un'altra di queste femine, priora delle repentite per l'om-
missione di peccati che non fece a tempo ch'era verde,
adesso dolente come l'asino che porta il vino; ma cheP
un'angela, un'ambasciadora, secretaria, consigliera, refe-
rendaria, novellerà, venditrice, tessitrice, fattrice, nego-
ciante e guida: mercantessa di cuori e ragattiera che
le compra e vende a peso, misura e conto, quella eh in-
trica e strica, fa lieto e gramo, impiaga e sana, sconforta e
riconforta, quando ti porta o buona nova o ria, quando
porta de polli magri o grassi: advocata, intercessora, man-
tello, rimedio, speranza, mediatrice, via e porta, quella che
volta l'arco di Cupido, conduttrice del strai del dio d'amo-
re, nodo che lega, vischio ch'attacca, chiodo ch'accoppia,
onzonte che gionge gli emisferi. Il che tutto viene a effet-
tuare mediantibus finte bazzane, grosse panzanate, suspiri
a posta, lacrime a comandamento, pianti a piggione, sin-
gulti che si muoiono di freddo, berte masculine, baie illu-
minate, lusinghe affamate, scuse volpine, accuse lupine,
e giuramenti che muoion di fame, lodar presenti, biasmar
assenti, servir tutti, amar nisciuno: t'aguzza l'apetito e poi
digiuni.
12 Parie prima
Vederete ancor la prosopopeia e maestà d'un omo
masculini generis: un che vi porta certi suavioli da far
sdegnar un stomaco di porco o di gallina, un instaurator
di quel Lazio antiquo, un emulator demostenico, un
che ti suscita Tullio dal più profondo e tenebroso centro,
concinitor di gesti de gli eroi. Eccovi presente un'acutezza
da far lacrimar gli occhi, gricciar i capelli, stuppefar
i denti, petar, rizzar, tussir e starnutare; eccovi un di com-
positor di libri benemeriti di republica, postillatori, glo-
satori, construttori, metodici, additori, scoliatori, tradut-
tori,^ interpreti, compendiarii, dialetticarii novelli, appa-
ntori con una grammatica nova, un dizionario novo, un
lexicon, una varia lectio, un approvator d'autori, un appro-
vato autentico, con epigrammi greci, ebrei, latini, italiani,
spagnoli, francesi, posti in fronte libri. Onde l'uno, e
l'altro, e l'altro e l'uno vengono consecrati all'immorta-
lità, come benefattori del presente seculo e futuri, obli-
gati per questo a dedicarli statue e colossi ne' mediter-
ranei mari e nell'oceano ed altri luochi inabitabili de la
terra. La lux perpetua vien a fargli di sberrettate, e con
profonda riverenza se gl'inchina il saecula saeculorum;
obligata la fama di farne sentir le voci a l'uno e l'altro
polo, e d'assordir co i cridi, strepiti e chiassi il Borea
e l'Austro, ed il mar Indo e Mauro. Quanto cam.-
peggia bene — mi par veder tante perle e margarite in
campo d'oro — un discorso latino in mezzo l'italiano, un
discorso greco in mezzo del latino; e non lasciar passar
un foglio di carta dove non appaia al meno una dizionetta,
un versetto, un concetto d'un peregrino carattere ed idio-
ma. Oimè che mi danno la vita, quando, o a forza o a buona
voglia, e parlando e scrivendo, fanno venir a proposito
un versetto d'Omero, d'Esiodo, un stracciolin di Plato
o Demosthenes greco. Quanto ben dimostrano che essi
son quelli soli a' quai Saturno ha pisciato il giudizio in
testa, le nove damigelle di Pallade un cornucopia di
vocaboli gli han scarcato tra la pia e dura matre: e però
è ben conveniente che sen vadino con quella sua prosopo-
peia, con quell'incesso gravigrado, busto ritto, testa salda
I. - Presentazione e soggetto del Candelaio 13
ed occhii in atto di una modesta altiera circumspezione.
Voi vedrete un di questi che mastica dottrina, olface opi-
nioni, sputa sentenze, minge autontadi, eructa arcani,
exuda chiari e lunatici inchiostri, semina ambrosia e
nectar di giudicii, da farne la credenza a Ganimede e
poi un brindes al fulgorante Giove. Vedrete un pubercola
sinonimico, epitetico, appositono, suppositorio, bidello di
Minerva, amostante di Pallade, tromba di Mercurio, pa-
triarca di Muse e dolfino del regno apollinesco, — poco
mancò ch'io non dicesse polledresco.
Vedrete ancor in confuso tratti di marioli, stratagemme
di barri, imprese di furfanti; oltre, dolci disgusti, piaceri
amari, delerminazion folle, fede fallite, zoppe speranze
e caritadi scarse; giudicii grandi e gravi in fatti altrui, poco
sentimento ne' propri; f emine virile, effeminati maschii:
tante voci di testa e non di petto; chi più di tutti crede,
più s'inganna; e di scudi l'amor universale. Quindi pro-
cedeno febbre quartane, cancheri spirituali, pensieri man-
chi di peso, sciocchezze traboccanti, intoppi baccellieri,
granchiate maestre e sdrucciolate da fìaccars' il collo; oltre,
il voler che spinge, il saper ch'appressa, il far che frutta,
e diligenza madre de gli effetti. In conclusione, vedrete
in tutto non esser cosa di sicuro, ma assai di negocio, difet-
to a bastanza, poco di bello e nulla di buono. —
Mi par udir i personaggi; a dio.
BIDELLO.
Prima ch'i' parie, bisogna ch'i' m'iscuse. Io credo che,
si non tutti, la maggior parte al meno mi dirranno: — Can-
caro vi mangie il naso! dove mai vedeste comedia uscir
col bidello .3 — • Ed io vi rispondo: — Il mal'an che Dio vi
dia! prima che fussero comedie, dove mai furono viste
comedie.^ e dove mai fuste visti, prim.a che voi fusteP E
pare a voi ch'un suggetto, come questo che vi si fa presente
questa sera, non deve venir fuori e comparire con qualche
14
Parte prima
privilegiata particularitàP Un eteroclito babbuino, un
naturai coglione, un moral menchione, una bestia tropo-
logica, un asino anagogico come questo, vel farro degno
d'un connestable, si non mei fate degno d'un bidello .
Volete ch'io vi dica chi è luiP voletelo sapere P desiderate
ch'io vel faccia intendere P Costui è — vel dirrò piano:
— il Candelaio. Volete ch'io vel dimostri P desiderate ve-
derlo P Eccolo: fate piazza; date luoco; retiratevi dalle ban"
de, si non volete che quelle corna vi faccian male, che
fan fuggir le genti oltre gli monti.
II.
L" INNAMORATO
E LE ARTI MAGICHE D'AMORE
Bonifacio, solo ^^>
L^arte supplisce al difetto della natura, Bonifacio.
Or, poi ch'a la mal'ora non posso far che questa tradi-
tora m'ame, o che al meno mi remiri con un simulato
amorevole sguardo d'occhio, chi sa, forse quella che non
han mossa le paroli di Bonifacio, l'amor di Bonifacio,
il veder spasmare Bonifacio, potrà esser forzata con que-
sta occolta filosofìa. Si dice che l'arte magica è di tanta
importanza che contra natura fa ritornar gli fiumi a
dietro, fissar il mare, muggire i monti, intonar l'abisso,
proibir il sole, despiccar la luna, sveller le stelle, toglier
il giorno e far fermar la notte: però l'Academico di nulla
academia, in quell'odioso titolo e poema smarrito, disse:
Don a rapidi fiumi in su ritorno.
Smuove de Volto del V aurate stelle.
Fa sii giorno la notte, e notfil giorno.
E la luna da lorhe proprio svelle
E gli cangia in sinistro il destro corno,
E del mar Fonde ingonfia e fissa quelle.
Terra, acqua, fuoco ed aria despiuma,
Ed al voler uman fa cangiar piuma.
0) Candelaio, Atto I, Scene !I, III e X.
16 Parte prima
Di tutto si potrebbe dubitare; ma, circa quel ch'ulti-
mamente dice quanto all'efifetto d'amore, ne veggiamo
l'esperienza d'ogni giorno. Lascio che del magistero di
questo Scaramurè sento dir cose maravlgliose a fatto.
Ecco: vedo un di quei che rubbano la vacca e poi donano le
corna per l'amor di Dio. Veggiamo che porta di bel novo.
M. Bonifacio, M. Bartolomeo ragionano; Pollulo e
Sanguino, occoltì, ascoltano.
Bart. Crudo amore, essendo tanto ingiusto e tanto
violento il regno tuo, che voi dir che perpetua tanto P
perchè fai che mi fugga quella ch'io stimo e adoro P per-
chè non è lei a me, come io son cossi strettissimamente
a lei legato P si può imaginar questo P ed è pur vero. Che
sorte di laccio è questa P di dui fa l'un incatenato a l'altro,
e l'altro più che vento libero e sciolto.
BoN. Forse ch'io son soloP uh, uh uh.
Bart. Che cosa avete, messer Bonifacio mioP pian-
gete la mia penaP
BoN. Ed il mio martire ancora. Veggo ben che sete
percosso, vi veggio cangiato di colore, vi ho udito adesso
lamentare, intendo il vostro male, e, come partecipe di
medesma passione e forse peggior, vi compatisco. Molti
sono de' giorni che ti ho visto andar pensoso ed astratto,
attonito, smarrito — come credo eh altri mi veggano, —
scoppiar profondi suspir dal petto, co gli occhi molli —
Diavolo! — dicevo io — a costui non è morto qualche
propinquo, familiare e benefattore; non ha lite in corte;
ha tutto il suo bisogno, non se gli minaccia male, ogni
cosa gli va bene; io so che non fa troppo conto di soi pec-
cati; ed ecco che piange e plora, il cervello par che gli stii
in cimhalis male sonantibus: dunque è inamorato, dunque
qualche umore flemmatico o colerico o sanguigno o melan-
colico — non so qual sii questo umor cupidinesco —
gli è montato su le testa. — Adesso ti sento proferir
queste dolce parole: conchiudo più fermamente che di
quel tossicoso mele abbi il stomaco ripieno.
II. - L'innamorato e le arti magiche d'amore 1 7
Bari. Oimè, ch'io son troppo crudamente preso dai
suoi sguardi! Ma di voi mi maraviglio, messer Bonifacio,
non di me che son di dui o tre anni più giovane, ed ho
per moglie una vecchia sgrignuta che m'avanza di più
d'otto anni: voi avete una bellissima mogliera, giovane di
venticinque anni, più bella della quale non è facile trovar
in Napoli; e sete inamoratoP
BoN. Per le paroli che adesso voi avete detto, credo che
sappiate quanto su imbrogliato e spropositato il regno
d'amore. Si volete saper l'ordine, o disordine, di miei
amori, ascoltatemi, vi priego.
Bart. Dite, messer Bonifacio, che non siamo come le
bestie ch'hanno il coito servile solamente per l'atto della
generazione, — però hanno determinata legge del tempo
e loco, come gli asini a i quali il sole, particulare o princi-
palemente il maggio, scalda la schena, ed in climi caldi e
temperati generano, e non in freddi, come nel settimo cli-
ma ed altre parti più vicine al polo; — noi altri in ogni
tempo e loco.
BoN. Io ho vissuto da quarantadue anni al mondo tal-
mente, che con mulieribus non sum coinquinato; gionto che
fui a questa etade nelle quale cominciavo ad aver qualche
pelo bianco in testa, e nella quale per l'ordinario suol in-
freddarsi l'amore e cominciar a venir meno...
Bart. In altri cessa, in altri si cangia.
BoN. ...suol cominciar a venir meno, com'il caldo al
tempo de l'autunno, allora fui preso da l'amor di Caru-
bina. Questa mi parve tra tutte l'altre belle bellissima;
questa mi scaldò, questa m'accese in fiamma talmente,
che mi bruggiò di sorte, che son dovenuto esca. Or, per
la consuetudine ed uso continuo tra me e lei, quella prima
fiamma essendo estinta, il cuor mio è rimasto facile ad
esser acceso da nuovi fuochi...
Bart. S'il fuoco fusse stato di meglior tempra, non t'ar-
rebbe fatto esca ma cenere; e s'io fusse stato in luoco
di vostra moglie, arrei fatto cossi.
BoN. Fate ch'io finisca il mio discorso, e poi dite quel
che vi piace.
18 Parte prima
Bart. Seguite quella bella similitudine.
BoN. Or, essendo nel mio cor cessata quella fiamma che
l'ha temprato in esca, facilmente fui questo aprile da
un'altra fiamma acceso.
Bart. In questo tempo s'mamorò il Petrarca, e gli asini
anch'essi, cominciano a rizzar la coda.
BoN. Come avete detto .^
Bart. Ho detto che in questo tempo s'inamorò il Pe-
trarca, e gli animi, anch'essi, si drizzano alla contempla-
zione: perchè i spirti ne l'inverno son contratti per il
freddo, ne l'estade per il caldo son dispersi, la primavera
sono in una mediocre e quieta tempratura onde, l'animo
è piij atto, per la tranquillità della disposizion del corpo,
che lo lascia libero alle sue proprie operazioni.
BoN. Lasciamo queste filastroccole, venemo a propo-
sizio. Allora, essendo io ito a spasso e Pusilipo da gli
sguardi della signora Vittoria fui sì profondamente saet-
tato, e tanto arso da' suoi lumi, e talmente legato da sue
catene, che oimè....
Bart. Questo animale che chiamano amore, per il più
suole assalir colui ch'ha poco da pensare e manco da fare:
non eravate voi andato a spasso ?
BoN. Or voi fatemi intendere il versaglio dell'amor
vostro, poi che m'avete donata occasion di discuoprirvi
il mio. Penso che voi ancora deviate prendere non poco
refrigerio, confabulando con quelli che patiscono del me-
desmo male, si pur male si può dir l'amare.
Bart. Nominativo: la signora Argenteria m'affligge, la
signora Orelia m'accora.
BoN. Il mal'an che Dio dia a te, e a lei ed a lei.
Bart. Genitivo: della signora Argenteria ho cura, della
signora Orelia tengo pensiero.
BoN. Del cancaro che mange Bartolomeo, Aurelia ed
Argentina.
Bart. Dativo: alla signora Argenteria porto amore, alla
signora Orelia suspiro; alla signora Argenteria ed Orelia
comunmente mi raccomando.
BoN. Vorrei saper che diavol ha preso costui.
II. - L'innamorato e \s arti magiche d'amore 19
Bari. Vocativo: o signora Argenteria, perchè mi lasci?
o signore Orelia, perchè mi fuggi P
BoN. Fuggir ti possano tanto, che non possi aver mai
bene! va' col diavolo, tu sei venuto per burlarti di me!
Bari. E tu resta con quel dio che t'ha tolto il cervello,
se pur è vero che n'avesti giamai. Io vo a negociar per le
mie padrone.
BoN. Guarda, guarda con qual tiro, e con quanta fa-
cilità, questo scelerato me si ha fatto dir quello che meglio
sarrebbe stato dirlo a cinquant'altri. Io dubito con questo
amore di aver sin ora raccolte le primizie della pazzia.
Or, alla mal'ora, voglio andar in casa ad ispedir Lucia.
Veggo certi furfanti che ridono: sùspico ch'avranno udito
questo diavol de dialogo, anch'essi. Amor ed ira non si
puot'ascondere.
ScARAMURÈ, Bonifacio, Ascanio,
ScAR. Ben trovato, messer Bonifacio.
BoN. Siate il molto ben venuto, signor Scaramurè, spe-
;anza della mia vita appassionata.
ScAR. Signum affecti animi.
BoN. Si V. S. non rimedia al mio male, io son
morto.
SvAR. Sì come io vedo, voi sete inam.orato.
BoN. Cossi è: non bisogna ch'io vi dica più.
ScAR. Come mi fa conoscere la vostra fisionomia, il
computo di vostro nome, di vostri parenti o progenitori,
la signora della vostra natività fu « Venus retrograda in
signo masculino; et hoc f or tasse in G eminibus vigesimo se-
ptimo grada: » che significa certa mutazione e conversione
nell'età di quarantasei anni, nella quale al presente vi
ritrovate.
BoN. A punto, io non mi ricordo quando nacqui; ma,
per quello che da altri ho udito dire, mi trovo da quaran-
tacinque anni in circa.
ScAR. Gli mesi, giorni ed ore computare ben io piìi di-
stintamente, quando col compasso arò presa la propor-
20 Parte prima
zlone dalla latitudine dell'unghia maggiore alla linea vi-
tale, e distanza dalla summità dell'annulare a quel termine
del centro della mano, ove è designato il spacio di Marte;
ma basta per ora aver fatto giudicio cossi universale et
in communi. Ditemi, quando fùstivo punto dall'amor
di colei per averla guardato, a che sito ti stava ellaP a de-
stra o a sinistra P
BoN. A sinistra.
ScAR. Arduo opere nanciscenda. — Verso mezzogiorno
o settentrione, oriente o occidente, o altri luoghi mtra
questi P
BoN. Verso mezzogiorno.
ScAR. Oportet advocare septentrionales. — Basta, basta:
qui non bisogna altro; voglio effectuare il tuo negocio
con magia naturale, lasciando a maggior opportunità le
superstizioni d'arte più profonda.
BoN. Fate di sorte ch'io accape il negocio, e sii come
si voglia.
ScAR. Non vi date impaccio, lasciate la cura a me. La
cosa già fu per fascinazione P
BoN. Come per fascinazione P io non intendo.
ScAR. Idest, per averla guardata, guardando lei anco
VOI.
BoN. Sì, signor sì, per fascinazione.
ScAR. Fascinazione si fa per la virtù di un spirito lucido
e sottile, dal calor del core generato di sangue più puro,
il quale, a guisa di raggi, mandato fuor de gli occhi aperti,
che con forte imaginazion guardando, vengono a ferir
la cosa guardata, toccano il core e sen vanno ad afficere
l'altrui corpo e spirto o di affetto di amore o di odio o di
invidia o di maninconla o altro simile geno di passibili
qualità. L'esser fascinato d'amore adviene, quando, con
frequentissimo over, benché istantaneo, intenso sguardo
un occhio con l'altro, e reciprocamente un raggio visual
con l'altro si rincontra, e lume con lume si accopula. Al-
lora si gionge spirto a spirto; ed il lume superiore, incul-
cando l'inferiore, vengono a scintillar per gli occhi, cor-
rendo e penetrando el spirto interno che sta radicato al
II. — L'innamorato e le arti magiche d'amore 21
cuore; e cossi commuoveno amatorio incendio. Però, chi
non vuol esser fascinato, deve star massimamente cauto
e far buona guardia negli occhi, li quali, in atto d'amore,
principalmente son fenestre dell'anima: onde quel detto:
« Averte, averte oculos tuos ». — Questo, per il presente,
basti; noi ci revedremo a più bell'aggio, provedendo alle
cose necessarie.
BoN. Signor, si questa cosa farete venir al butto, vi ac-
corgerete di non aver fatto servizio a persona ingrata.
ScAR. Misser Bonifacio, vi fo intender questo: che voglio
io prima esser grato a voi, e poi son certo, si non mi sa-
rete grato, mi doverete essere.
BoN. Comandatemi, che vi sono affezionatissimo, ed ho
gran speranza nella prudenza vostra.
AscANio, ScARAMURÈ, Bonifacio. ^'>
Asc. Oh, ecco messer Bonifacio mio padrone. Misser,
siamo qui con il Signor eccellentissimo e dottissimo, il
signor Scaramurè.
BoN. Ben venuti. Avete dato ordine alla cosaP è tempo
di far nulla P
ScAR. Come nulla P ecco qui la imagine di cera ver-
gine, fatta m suo nome; ecco qui le cinque aguglie che
gli devi piantar in cinque parti della persona. Questa par-
ticulare, pili grande che le altre, li pungerà la sinistra
mammella: guarda di profondare troppo dentro, perchè
fareste morir la paziente.
BoN. Me ne guardarò bene.
ScAR. Ecco, ve là dono in mano; non fate che da ora
avanti la tenga altro che voi. Voi, Ascanio, siate secreto,
non fate che altra persona sappia questi negocii.
BoN. Io non dubito di lui: tra noi passano negocii più
secreti di questo.
ScAR. Sta bene. Farete, dunque, far il fuoco ad Ascanio
di legne di pigna o di oliva o di lauro, si non possete farlo
(1) Atto III. Scena III.
22 Parte prima
di tutte tre materie insieme. Poi arrete d'incenso, alcuna-
mente esorcizato o incantato; co la destra mano lo getta-
rete al fuoco; direte tre volte: «/4urum thus »; e cossi ver-
rete ad incensare e fumigare la presente imagine, la qual
prendendo in mano direte tre volte: « Sine quo nihil »;
oscltarete tre volte co gli occhii chiusi, e poi, a poco a poco,
svoltando verso il caldo del fuoco la presente imagine, —
guarda che non si liquefacela, perchè morrebbe la pa-
ziente, — ...
BoN. Me ne guardar© bene.
ScAR. ...la farrete tornare el medesmo lato tre volte,
insieme insieme tre volte dicendo: « Zalarath Zhalaphar
nectere vincula: Caphure, Mìrion, sarcha Vitloriae », come
sta notato in questa cartolina. Poi, mettendovi al contrarlo
sito del fuoco verso l'occidente, svoltando la imagine con
la medesma forma, quale è detta, dirrete pian piano: « Fe-
laphthon disamis festino barocco daraphti. Celantes dahitis
fapesmo frises omorum '>K II che tutto avendo fatto e detto,
lasciate ch'il fuoco si estingua da per lui; e locarrete la
figura in luoco secreto, e che non su sordido, ma onore-
vole ed odorifero.
BoN. Farro cossi a punto.
ScAR. Sì, ma bisogna ricordarsi ch'ho spesi cinque
scudi alle cose che concorreno al far della imagine.
BoN. Oh, ecco, li sborso. Avete speso troppo.
ScAR. E bisogna ricordarvi di me.
BoN. Eccovi questo per ora; e poi farò di ventaggio assai,
si questa cosa verrà a perfezione.
ScAR. Pazienza ! Avertite, messer Bonifacio, che,
si voi non la spalmarete bene, la barca correrà mala-
mente.
BoN. Non intendo.
ScAR. Vuoi dire che bisogna onger ben bene la mano:
non sapete P
BoN. In nome del diavolo, lo procedo per via d'in-
canti, per non aver occasione di pagar troppo! Incanti e
contanti.
ScAR. Non indugglate. Andate presto a far quel che vi
II. - L'innamorato e ]s arti magiche d'amore 23
è ordinato, perchè Venere è circa l'ultimo grado di Pesci;
fate che non scorra mezza ora, che son trenta minuti di
Ariete.
BoN. A Dio, dunque, Andiamo, Ascanlo. Cancaro a
Venere, e...
ScAR. Presto, a la buon'ora, caldamente!
Bonifacio, solo. (^>
Per quel che costei me dice, io credo di avere approssi-
mata le imagine tanto presso al fuoco, che quasi si sarebbe
liquefatta: penso d'averla troppo scaldata. Guarda come
la povera donna viene tormentata dall'amore: per mia
fé, che non ho possuto contener le lacrime. Si messer
Scaramurè, — che Dio li dia il bon giorno e la buona
sera, che adesso conosco per propria esperienza che è un
galantissimo uomo, — non mi avesse avertito con dirmi
— Guarda che non si liquefaccia; — io certamente arrei
fatta qualche pazzia ch'io non ardisco tra me stesso dirla.
Or, va' numera l'arte maggica tra le scienze vane!
(1) Atto IV. Scena VII
Bruno. In tristiUa hilaris, etc.
III.
ARTI E DEBOLEZZE DI DONNE
Signora VITTORIA, sola. (')
Aspettare e non venire è cosa da morire. Si se farà
troppo tardi, non si potrà far nulla per questa volta; e non
so SI se potrà di bel nuovo offrirsi tale occasione, come
si presenta questa sera, di far che questa pecoraccia rac-
coglia 1 frutti degni del suo amore. Quando mi credevo di
guadagnar una dote co l'amor di costui, sento dir che
cerca d'affatturarmi, con l'avermisi formata in cera. E
potrebbe giamai l'unita forza, fatta del profondo inferno,
giunta alla efficacia che si trova ne' spirti de l'aria e l'ac-
qui, far ch'io possa amar un che non è soggetto amoroso?
Si fusse il Dio d'amore istesso, bello quanto si voglia, si
sarà egli povero o ver — che tutto viene ad uno —
avaro, ecco lui morto di freddo; e tutto il mondo agghiac-
ciato per lui. Certo, quel dir povero, over avaro, è un mi-
serabile e svergognatissimo epiteto, che fa parer brutti i
belli, ignobili i nobili, ignoranti i savii, ed impotenti i
forti. Tra noi che si può dir più che reggi, monarchi ed
imperadon? questi pure, si non arran de quibus, si non
farran correre gli de quibus, saran come statue vecchie d'al-
tari sparati, a' quali non è chi faccia riverenza. Non pos-
siamo non far differenza tra il culto divino e quello di
mortali. Adoriamo le sculture e le imagini, ed onoriamo
il nome divino scritto, drizzando l'intenzione a quel
(I) Candelaio, Atto IV. Scena 1.
III. - Arti e debolezze di donne 23
che vive. Adoramo ed onoramo questi altri Dei, driz-
zando la intenzione e supplice devozione alle lor imagini
e sculture, perchè, mediante queste, premiino i vir-
tuosi, inalzino i degni, defendano gli oppressi, dilatino i
lor confini, conservino i suoi, e si faccino temere de-
l'aversarie forze: il re, dunque, ed imperator di carne
ed ossa, si non corre sculpito, non vai nulla. Or, che dun-
que sarà di Bonifacio, che, come non si trovassero uomini
al mondo, pensa d'essere amato per gli belli occhii suoi P
Vedete quanto può la pazzia ! Questa sera intenderà che
possan far contanti; questa sera spero che vedrà l'effetto
della sua incantazione.
Marta, sola, ^i)
Meschina me ! io lo dico, io lo so, io l'esperimento.
Ero più contenta, quando questo zarrabuino di mio ma-
nto non avea tanto da spendere, che non potrei essere al
dì d'oggi. Allora giocavamo a gamba a collo, alla stret-
tola, a infilare, a spaccafico, al sorecillo, alla zoppa, alla
sciancata, a retoncunno, a spacciansieme, a quattro spinte,
quattro botte, tre pertosa, ed un buchetto. Con queste
ed altre devozioni passavamo la notte e parte del giorno.
Adesso, perchè ha scudi di vantaggio per la eredità di Puc-
ciolo — che gli sii maledetta l'anima, anco si fusse in
seno di Abrammo! — ecco lui posto in pensiero, angosce,
travagli, tema di fallire, suspicion d'esser rubbato, ansia
di non essere ingannato da questo, assassinato da quello
altro; e va e viene, e trotta e discorre, e sbozza ed imbozza,
e macina e cola, e soffia vintiquattro ore del giorno. Tra
tanto, oggi, gran mercè a Barra, che, se lui non fusse, po-
trei giurare, che più dì sette mesi sono, che non me ci ha
piovuto. Ieri, feci dir la messa di Sant'Elia contro la sic-
cità; questa mattina, ho speso cinque altre grana de li-
mosina per far celebrar quella di S. Gioachimo ed Anna,
(1) Atto IV Scena IX.
26 Parte prima
la quale è miracolosissima a riunir il marito co la moglie.
Si non è difetto di devozione dal canto del prete, io spero
di ricevere la grazie, benché ne veggo mala vegilia: che,
in loco di lasciar la fornace e venirme in camera, oggi è
uscito, più del dover, di casa, che mi bisogna a questa
ora di andarlo cercando. Pure, quando men la persona si
pensa, le gracie si adempiscono.
Gio. Bernardo e Carubina. (')
Carubina Olmè, messer Gio. Bernardo, io ho ben
tenero il core! Facilmente credo quel che dite, benché
siino in proverbio le lusinghe d'amanti. Però desidero ogni
consolazion vostra; ma, dal canto mio, non é possibile
senza pregiudizio del mio onore.
Gio. B. Vita della mie vita, credo ben che sappiate che
cosa è onore, e che cosa anco su disonore. Onore non é
altro che una stima, una riputazione; però sta sempre
intatto l'onore, quando la stima e riputazione persevera
la medesma. Onore è la buona opinione che altri abbian
di noi: mentre persevera questa, persevera Tonore. E non
è quel che noi siamo e quel che noi facciamo, che ne rendi
onorati o disonorati, ma sì ben quel che altri stimano, e
pensano di noi.
CaR. Sii che si vogli de gli omini, che dirrete in con-
spetto de gli angeli e de' santi, che vedeno il tutto, e ne
giudicano P
Gio. B. Questi non vogliono esser veduti più di quel che
si fan vedere; non vogliono esser temuti più di quel che si
fan temere; non vogliono esser conosciuti più di quel che
si fan conoscere.
Car. Io non so quel che vogliate dir per questo; queste
paroli io non so come approvarle, né come riprovarle:
pur hanno un certo che d'impietà.
Gio. B. Lasciamo le dispute, speranza dell'anim.a mia.
Fate, vi priego, che non in vano v'abbia prodotta cossi
(I) Atto V. Scena XI.
III. - Arti e debolezze di donne 27
bella il cielo: 11 quale, benché di tante fattezze e grazie vi
sii stato liberale e largo, è stato però, dall'altro canto, a
voi avaro, con non giongervi ad uomo che facesse caso di
quelle, ed a me crudele, col farmi per esse spasimare, e
mille volte il giorno morire. Or, mia vita, più dovete cu-
rare di non farmi morire, che temer in punto alcuno, che
si scemi tantillo del vostro onore. Io liberamente mi uc-
ciderrò — si non sarrà potente il dolore a farmi morire,
— si, avendovi avuta, come vi ho, comoda e tanto presso,
di quel, che mi è pm caro che la vita, dalla crudel fortuna
rimagno defraudato. Vita di questa alma afflitta, non
sarrà possibile che sia in punto leso il vostro onore, de-
gnandovi di darmi vita; ma si ben necessario ch'io muoia
essendomi voi crudele.
Car. Di grazia, andiamo in luoco più remoto, e non
parliamo qui di queste cose.
IV.
IN TAVERNA
Barra, Marca. ('>
Marc. 0 vedi il mastro Manfurio che sen va.^
Bar. Lascialo col diavolo! Seguite il proposito inco-
minciato: fermamoci qua.
Marc. Or dunque, ier sera, all'osteria del Cerriglio,
dopo che ebbemo benissimo mangiato, sin tanto che non
avendo lo tavernaio del bisogno, lo mandaimo a procacciar
altrove per fusticelli, cocozzate, cotugnate, ed altre bagat-
telle da passar il tempo. Dopo che non sapevamo che più
dimandare, un di nostri compagni fìnse non so che debi-
lità; e Toste essendo corso con l'aceto, io dissi: « Non ti
vergogni, uomo da poco! camina, prendi dell'acqua namfa,
di fiori di cetrangoli, e porta della malvasia di Candia ».
Allora il tavernaio non so che si rinegasse egli, e poi co-
mincia a cridare, dicendo: « In nome del diavolo, sete
voi marchesi o duchi? sete voi persone di aver speso quel
che avete speso ? Non so come la farremo al far del conto.
Questo che dimandate, non è cosa da osteria ». « Furfante,
ladro, mariolo», dissi io, «pensi ad aver a far con pan
tuoi? tu sei un becco cornuto, svergognato ». « Hai men-
tito per cento canne », disse lui. Allora, tutti insieme,
per nostro onore, ci alzaimo di tavola, ed acciaffaimo,
ciascuno, un spedo di que' più grandi, lunghi da diece
palmi...
(1) Candelaio. Atto III, Scena Vili.
IV. - In taverna 29
Bar. Buon principio, messere.
Marc. ...li quali ancor aveano la provisione infilzata;
ed il tavernaio corre a prendere un partesanone; e dui di
suoi servitori due spadi rugginenti. Noi, benché fussimo
sei con sei spedi più grandi che non era la partesana,
presimo delle caldaia, per servirne per scudi e rotelle...
Bar. Saviamente.
Marc. ...Alcuni si puosero certi lavezzi di bronzo in
testa per elmetto over celata...
Bar. Questa fu certo qualche costellazione che puose
in esaltazione i lavezzi, padelle e le caldaie.
Marc. ...E cossi bene armati, reculando, ne andevamo
defendendo e retirandoci per le scale in giù, verso la porta,
benché facessimo fìnta di farci avanti....
Bar. « Bel combattere! un passo avanti e dui a dietro,
un passo avanti e dui a dietro ": disse il signor Cesare da
Siena.
Marc. ...Il tavernaio quando ci vedde molto più forti
e timidi più del dovero, in loco di gloriarsi, come quel che
si portava valentemente, entrò in non so che suspizione:...
Bar. Ci sarebbe entrato Scazzolla.
Marc. ...per il che, buttata la partesana in terra, co-
mandò a sua servitori che si retirassero, che non volea di
noi vendetta alcuna...
Bar. Buon'anima da canonizzare.
Marc. E voltato a noi disse: « Signori gentiluomini,
perdonatime, io non voglio offendervi de dovero! di grazia,
pagatemi ed andiate con Dio! )\
Bar. AUor sarrebbe stata bene qualche penitenza con
l'assoluzione.
Marc. « Tu ci voi uccidere, traditore »: dissi io; e con
questo puosemo i piedi fuor de la porta. Allora l'oste de-
sperato, accorgendosi che non accettavamo la sua cortesia
e devozione, riprese il partesanone, chiamando aggiuto
di servi, figli e moglie. Bel sentire! l'oste cridava: « Paga-
temi, pagatemi »; gli alti stridevano: « A' marioli, a' ma-
rioli! ah, ladri traditori! ». Con tutto ciò, nisciun fu tanto
pazzo che ne corresse a dietro, perché l'oscurità della
30 Parte prima
notte faurlva più noi che altro. Noi, dunque, temendo
il sdegno ostile, idest de l'oste, fuggivimo ad una stanza
apresso li Carmini, dove, per conto fatto, abbiamo ancor
da farne le spese per tre giorni.
Bar. Far burla ad osti è far sacrifìcio a Nostro Signore;
rubbare un tavernaio è far una limosina; in batterlo bene
consiste il merito di cavar un'anima di purgatorio! —
Dimmi, avete saputo poi quel che seguitò nell'ostariaP
Marc. Concorsero molti, de quali altri pigliandosi
spasso altri attristandosi, altri piangendo, altri ridendo,
questi consigliando, quelli sperando, altri facendo un viso,
altri un altro, altri questo linguaggio ed altri quello: era
veder insieme comedia e tragedia e chi sonava a gloria e
chi a mortoro. Di sorte che, chi volesse vedere come sta
fatto il mondo, derebbe desiderare d'esservi stato pre-
sente.
Bar. Veramente la fu buona. — Ma io che non so tanto
di rettorica, solo soletto, senza compagnia, l'altr'ieri, ve-
nendo da Nola per Pumigliano, dopoi ch'ebbi mangiato ,
non avendo tropo buona fantasia di pagare, dissi al ta-
vernaio: « Messer osto, vorrei giocare ». « A qual gioco )>,
disse lui, « volemo giocare .3 qua ho de tarocchi ». Risposi:
« A questo maldetto gioco non posso vencere, perchè ho
una pessima memoria ». Disse lui: « Ho di carte ordinarie ».
Risposi: « Saranno forse segnate, che voi le conoscerete.
Avetele che non siino state ancor adoperate? » Lui ri-
spose de non. « Dunque, pensiamo ad altro gioco ». « Ho
le tavole, sai.^ ». « Di queste non so nulla ». « Ho de scac-
chi, sai?» «Questo gioco mi farebbe rinegar Cristo».
Allora, gli venne il senapo in testa: « A qual, dunque,
diavolo di gioco vorrai giocar tu? proponi ». Dico io:
« A stracquare a palle maglio ». Disse egli: « Come, a
pall'e maglio P vedi tu qua tali ordegni P vedi luoco da
posservi giocare?» Dissi: «A la mirella? » «Questo è
gioco da fachini, bifolchi e guardaporci ». « A cinque
dadi»? «Che diavolo di cinque dadi? mai udivi di tal
gioco. Si vuoi, giocamo a tre dadi ». Io gli dissi, che a tre
dadi non posso aver sorte. « Al nome di cinquantamila
In taverna 31
diavoli », disse lui, « si vuoi giocare, proponi un gioco che
possiamo farlo e voi ed io ». Gli dissi: « Giocamo a spac-
castrommola ». « Va' », disse lui, « che tu mi dai la baia:
questo è gioco da putti, non ti vergogni? » « Or su, dun-
que^», dissi, « giocamo a correre ». « Or, questa è falsa »
disse lui. Ed io soggionsi: « Al sangue dell'Intemerata,
che giocarai! » «Vuoi far bene», disse, «pagami; e si
non vuoi andar con Dio, va' col prior de' diavoli! ». Io
dissi :_« Al sangue delle scrofole, che giocarai! » « E che
non gioco? »_diceva. «E che giochi?» dicevo. «E che
mai mai vi giocai P ». « E che vi giocarrai adesso.^ ». « E che
non voglio? » « E che vorrai ? » In conclusione, comincio
io a pagarlo co le calcagne, ideste a correre; ed ecco quel
porco chepoco fa diceva che non volea giocare, e giurò
che non volea giocare, e giocò lui, e giocorno dui altri
suoi guattari: di sorte che, per un pezzo correndomi a
presso mi arrivorno e giunsero... co le voci. Poi, ti giuro,
per la tremenda piaga di S. Rocco, che né io l'ho più uditi,
né essi mi hanno più visto.
V-VI.
CASTIGO E BEFFE — PLAUDITE
Barra, Marca, Corcovizzo, Manfurio, Sanguino,
ASCANIO. (')
Bar. Quell'altro è ispedito. Che vogliam far di costui,
del domino Magister ?
Sang. Questo porta sue colpa su la fronte non vedi c'hè
stravestito? non vedi che quel mantello è stato rubbato a
Tiburolo? Non l'hai visto che fugge la corte?
Marc. E vero; ma apporta certe cause verisimile.
Bar. Per ciò non deve dubitare d'andar priggione.
Manf. Verum; ma cascarrò in derisione app>o miei
scolastici e di altri per i casi che me si sono aventati al
dorso.
Sang. Intendete quel che vuol dir costui?
Corc. Non l'intenderebbe Sansone.
Sang. Or su, per abbreviarla, vedi, Magister, a che cosa
ti vuoi resolvere: si volete voi venir piggione, over donar
la bona mano alla compagnia di que' scudi che ti son ri-
masti dentro la giornea, perchè, come dici, il mariolo ti
tolse sol quelli ch'avevi in mano per cambiarli.
Mane. Minime, io non ho altrimente veruno. Quelli
che avevo, tutti mi furon tolti, ita, mehercle, per lovem,
per Altitonantem, vos sidera testar.
(1) Candelaio, Atto V. Scene XXV, XXVI.
V.-VI. - Castigo e beffe - Plaudite 33
Sang. Intendi quel che ti dico. Si non voi provar il
stretto della Vicaria, e non hai moneta, fa' elezione d una
de le altre due: o prendi diece spalmate con questo ferro di
correggia che vedi, o ver a brache calate arrai un cavallo
de cmquanta staffilate: che per ogni modo tu non ti par-
tirrai da noi, senza penitenza di tui falli.
Manf. « Duobus propositis malis minus est tolerandum,
sìcut duobus propositis bonis melius est eligendum »: dicit
Peripateticorum princeps,
Asc. Maestro, parlate che siate inteso, perchè queste
son gente sospette.
Bar. Può esser che dica bene costui, allor che non vuol
esser inteso?
Manf. Nil mali vobis imprecar: io non vi impreco
male.
Sang. Pregatene ben quanto volete, che da noi non
sarrete essaudito.
CoRC. Elegetevi presto quel che vi piace, o vi legar-
remo meglio e vi menarremo.
Manf. Minus pudendum erit palma feriri, quam quod
congerant in veteres flagella nates: id non puerile est.
Sang. Che dite voi? che dite, in vostra mal'ora?
Manf. Vi offro la palma.
Sang. Tocca Uà, Corcovizzo, da' fermo.
CoRC. Io do. Taf, una.
Manf. Oimmè, lesus, of!
Coro. Apri bene l'altra mano. Taf, e due.
Manf. Of, of, lesus Maria.
CoRC. Stendi ben la mano, ti dico; tienla dritta cossi.
Taff, e tre.
Manf. Oi oi, oimmè, uf, of of of, per amor della Pas-
sion del nostro Signor Jesus. Potius fatemi alzar a cavallo
perchè tanto dolor suffrir non posso nelle mani.
Sang. Orsù, dunque. Barra, prendilo su le spalli; tu.
Marca, tienlo fermo per i piedi, che non si possa movere;
tu, Corcovizzo, spuntagli le brache e tienle calate ben
bene, a basso; e lasciatelo strigliar a me; e tu. Maestro,
conta le staffilate, ad una ad una, ch'io t'intenda, e guarda
34 Parte pritra
ben. che si farrai errore nel contare, che sarrà bisogno di
ricominciare; voi, Ascanio, vedete e giudicate.
Mar. Tutto sta bene. Cominciatelo a spolverare, e
guardatevi di far male a i drappi che non han colpa.
Sang. Al nome di Santa Scoppettella, conta: toff.
Manf. Tof, una; tof, oh tre; tof, oh oi, quattro; toff,
cime, oimè...; tof, oi, oimè...; tof, oh, per amor de Dio,
sette!
Sang. Cominciamo da principio, un'altra volta. Ve-
dete si dopo quattro son sette. Dovevi dir cinque.
Manf. Oimè, che farro ioP erano in rei ventate sette.
Sang. Dovevi contarle ad una ad una. Or su, via di
novo: toff.
Manf. Toff, una; toff, una; toff, oimè, due; toff, toff,
toff, tre, quattro; toff, toff, cinque, oimè; toff, toff, sei.
0 per l'onor di Dio, toff non piìj, toff, toff, non più, che
vogliamo, toff, toff, veder nella giornea, toff, che vi saran
alquanti scudi.
Sang. Bisogna contar da capo, che ne ha lasciate molte,
che non ha contate.
Bar. Perdonategli, di grazia, signor Capitano, perchè
vuol far quell'altra elezione di pagar la strana.
Sang. Lui non ha nulla.
Manf. Ita, ita, che adesso mi ricordo aver più di quattro
scudi.
Sang. Ponetelo abasso, dunque, vedete che cosa vi è
dentro la giornea.
Bar. Sangue di..., che vi sono più di sette de scudi,
Sang. Alzatelo, alzatelo di bel novo a cavallo: per la
mentita ch'ha detta, e falsi giuramenti ch'ha fatti, bisogna
contarle, fargli contar settanta.
Manf. Misericordia! prendetevi gli scudi, la giornea,
e tutto quanto quel che volete, dimittam vobis.
Sang. Or su, pigliate quel che vi dona, e quel mantello
ancora che è giusto che sii restituito al povero padrone.
Andiamone noi tutti: bona notte a voi, Ascanio mio.
Asc. Bona notte e mille bon'anni a V. S., signor Capi-
tani©, e buon prò faccia al Maestro.
V.-VI. - Castigo e beffe - Plaudite 35
Manfurio, Ascanio.
Manf. Ecquis erit modus.
Asc. Olà, mastro Manfurio, mastro Manfurio.
Mane, Chi è, chi mi conosce? chi in questo abito e
fortuna mi distmgue? chi per nome mio proprio m'ap-
pella ?
Asc. Non ti curar di questo, che t'importa poco o nulla:
apri gli occhi, e guarda dove sei, mira ove ti trovi.
Mane. Quo melius videam, per corroborar l'intuito e
fìrm.ar l'acto della potenza visiva, acciò l'acie de la pupilla
più efficacemente per la linea visuale, emittendo il radio
a l'obiecto visibile, venghi ad introdur la specie di quello
nel senso interiore, idesi, mediante il senso comone, col-
locarla nelle cellula de la fantastica facultade, voglio appli-
carmi gli oculari al naso. — Oh, veggio di molti specta-
tori la corona.
Asc. Non vi par esser entro una comedia?
Mane. Ita sane.
Asc. Non credete d'esser in scena?
Mane. Omni procul duhio,
Asc. A che termine vorreste che fusse la com.edia?
Mane. In calce, in fine: ncque enim et ego risu ilia tendo.
Asc. Or dunque, fate e donate il Plaudite.
Mane. Quam male possum plaudere,
Tentatus pacientia,
Nam plausus per me factus est
lam dudum miserabilis.
Et natibus et manibus
Et aureorum sonitu. Amen.
VII.
AVVENTURE LONDINESI <"
Teofilo... — 0, di grazia, dissero, presto, senza dimora
andiamo, che vi aspettano tanti cavallieri, gentilomini e
dottori, e tra gli altri ve n'è un di quelli ch'hanno a dispu-
tare; il quale è di vostro cognome. — Noi dunqne, disse il
Nolano, non ne potremo far male. Sin adesso una cosa m'è
venuta m fallo, ch'io sperava di far questo negocio a lume
di sole, e veggio, che si disputarà a lume di candela. —
Iscusò meastro Guin per alcuni cavallieri, che deside-
ravano esser presenti: non han possuto essere al desinare,
e son venuti a la cena. — Orsù, disse il Nolano, andiamo
e preghiamo Dio, che ne faccia accompagnare in questa
sera oscura, a sì lungo camino, per sì poco sicure strade.
Or, benché fussemo ne la strada diritta, pensando di
far meglio, per accortar il camino, divertimmo verso il
fiume Tamesi, per ritrovar un battello, che ne conducesse
verso il palazzo. Giunsemo al ponte de palazzo del milord
Beuckhurst; e quinci, cridando e chiamando oares {idest,
gondolieri), passammo tanto tempo, quanto arrebe ba-
stato a bell'agio di condurne per terra al loco determinato,
e avere spedito ancora qualche piccolo negozio. Risposero
al fine de lungi dui barcaroli; e pian pianino, come venes-
sero ad appiccarsi, giunsero a la riva; dove, dopo molte
(I) Cena delle Ceneri, Dialogo II. — Teofilo (G. B.) narra le peripezie
occorse a lui, a messer Florio e maestro Guin (Gwinnc).
VII. - Avventure londinesi 37
interrogazioni e risposte del donde, dove, e perchè, e come,
e quanto, approssimorno la proda a l'ultimo scahno del
ponte. Ed ecco di dui, che v'erano, un, che pareva il noc-
chier antico del tartareo regno, porse la mano al Nolano,
e un altro, che penso ch'era il figlio di quello, benché
fusse uomo di sessanta cinque anni in circa, accolse noi
altri appresso. Ed ecco che, senza che qui fusse entrato
un Ercole, un Enea, o ver un re di Sarza, Rodomonte.
gemuit sub pondere cymba
Sutilis, et multam accepit limosa paludem.
Udendo questa musica, il Nolano: — Piaccia a Dio,
disse, che questo non sii Caronte; credo, che questa è
quella barca chiamata l'emula de la lux perpetua: questa
può sicuramente competere in antiquità con l'arca di
Noè: e per mia fé, per certo, par una delle reliquie del di-
luvio. — Le parti di questa barca ti rispondevano, ovon-
que la toccassi, e per ogni minimo moto risuonavano per
tutto. — Or credo, disse il Nolano, non esser favola,
che le muraglia, si ben mi ricordo, di Tebe erano vocali,
e che talvolta cantavano a raggion di musica. Si noi cre-
dete, ascoltate gli accenti di questa barca, che ne sembra
tanti pifferi con que' fischi, che fanno udir le onde quando
entrano per le sue fessure e rime d'ogni canto. — Noi
risemo, ma Dio sa come.
Annibal, quando a Vimperio afflitto
Vedde farsi fortuna sì molesta.
Rise tra gente lacrimosa e mesta.
Prudenzio. Risus sardonicus.
Teo. Noi, invitati sì da quella dolce armonia, come da
amor gli sdegni, i tempi e le staggioni, accompagnammo i
suoni con i canti. Messer Florio, come ricordandosi dei
suoi amori, cantava il Dove, senza me, dolce mia vita. Il
Nolano ripigliava: // Saracin dolente, o femenil ingegno, e va
discorrendo. Cossi a poco a poco, per quanto ne permet-
tea la barca, che (benché dalle tarle e il tempo fusse ri-
38 Parte prima
dutta a tale, ch'arrebe possuto servir per subero) parca
col suo festina lente tutta di piombo, e le braccia di quei
dua vecchi rotte; i quali, benché col rimenar della persona
mostrassero la misura lunga, nulla di meno coi remi fa-
ceano i passi corti.
Pru. Optime descriptum illud: festina, con il dorso fret-
toloso di marinai; lente, col profìtto de' remi, qual mali
operarli del dio degli orti.
Teo. a questo modo, avanzando molto di tempo e poco
di camino, non avendo già fatta la terza parte del viaggio,
poco oltre il loco, che si chiama il Tempio, ecco che i no-
stri patrini, in vece d'affrettarsi, accostano la proda verso
il lido. Dimanda il Nolano: — Che voglion far costoro?
voglion forse riprendere un po' di fiato? — E gli venne
interpretato, che quei non erano per passar oltre; perchè
quivi era la lor stanza. Priega e ripriega, ma tanto peggio;
perchè questa è una specie de rustici, nel petto de' quali
spunta tutti i sui strali il dio d'amor del popolo villano.
Pru. Principio cmni rusticorumg eneri hoc est a natura
tributum, ut nihil virtuiis amore faciant, et vix quicquam
formidine poenae.
Frulla. E un altro proverbio anco in proposito di cia-
schedun villano:
Rogatus tumet,
Pulsatus rogat,
Pugnis concisus adorat.
Teo. In conclusione, ne gittarono là; e, dopo pagategli
e resegli le grazie (perchè in questo loco non si può far
altro, quando se riceve un torto da simil canaglia), ne mo-
strorno il diritto camino per uscire a la strada. Or qua te
voglio, dolce Mafelina, che sei la musa di Merlin Cocaio.
Questo era un camino, che cominciò da una buazza, la
quale, né per ordinario, né per fortuna, avea divertigli©.
Il Nolano, il quale ha studiato ed ha pratticato ne le scuole
più che noi, disse: — Mi par veder un porco passaggio;
però seguitate a me. — Ed ecco, non aveva finito quel
dire, che vien piantato lui in quella fanga di sorte, che
VII. - Avventure londinesi 39
non possea ritrarne fuora le gambe; e cossi, agglutando
l'un l'altro, vi demmo per mezzo, sperando che questo
purgatorio durasse poco. Ma ecco che, per sorte iniqua
e dura, lui e noi, noi e lui ne ritrovammo ingolfati dentro
un limoso varco, il qual, come fusse l'orto de la gelosia
o il giardin de le delizie, era terminato quinci e quindi da
buone muraglia; e perchè non era luce alcuna che ne gui-
dasse, non sepeamo far differenza dal camino ch'aveam
fatto, e quello che doveam fare, sperando ad ogni passo
il fine: sempre spaccando il liquido limo, penetravamo
sin alla misura delle ginocchia verso il profondo e tene-
broso averno. Qua l'uno non possea dar conseglio a l'altro;
non sapevam che dire, ma con un muto silenzio chi sibilava
per rabbia, chi faceva un bisbiglio, chi sbruffava co' le
labbia, chi gittava un suspiro e si fermava un poco, chi
sotto lengua bestemmiava; e perchè gli occhi non ne ser-
veano, i piedi faceano la scorta ai piedi, un cieco era con-
fuso in far più guida a l'altro. Tanto che,
Qual uom, che giace e piange lungamente
Sul duro letto il pigro andar de l'ore.
Or pietre, or carme, or polve, ed or liquore
Spera, ch'uccida il grave mal, che sente:
Ma, poi cKa lungo andar vede il dolente.
Ch'ogni rimedio è vinto dal dolore.
Disperando s'acqueta; e, se ben more,
Sdegna cKa sua salute altro si tente;
cossi noi, dopo aver tentato e ritentato, e non vedendo
rimedio al nostro male, desperati, senza più studiar e bec-
carsi il cervello in vano, risoluti ne andavamo a guazzo a
guazzo per l'alto mar di quella liquida bua, che col suo
lento flusso andava del profondo Tamesi a le sponde.
Pru. 0 bella clausola !
Teo. Tolta ciascun di noi la risoluzione del tragico cieco
d'Epicuro:
Dov'il fatai destin mi guida cieco.
Lasciami andar, e dove il pie mi porta;
Né per pietà di me venir più meco
Bruno, In tristHia hilaris etc. 5.
40 Parte prima
Trovare forse un fosso, un speco, un sasso
Piatoso a trarmi fuor di tanta guerra.
Precipitando in loco cavo e basso;
ma, per la grazie degli Dei (perchè, come dice Aristotele,
non datur infinitum in actu), senza Incorrer peggior male,
ne ritrovammo al jfine ad un pantano; il quale, benché
ancor lui fusse avaro d'un poco di margine per darne la
strada, pure ne relevò con trattarci più cortesemente,
non inceppando oltre i nostri piedi; sin tanto che, mon-
tando noi più alto per il sentiero, ne rese a la cortesia d'una
lava la quale da un canto lasciava un sì petroso spazio per
porre i piedi in secco, che passo passo ne fé' cespitar come
ubriachi, non senza pencolo di romperne qualche testa
o gamba.
Pru. Conclusio, conclusio!
Teo. In conclusione, tandem laeta arva tenemus: ne
parve essere ai campi Elisii, essendo arrivati a la grande e
ordinaria strada; e quivi da la forma del sito, considerando
dove ne avesse condotti quel maladetto divertiglio, ecco
che ne ritrovammo poco più o meno di vintidui passi di-
scosti de onde eravamo partiti per ritrovar gli barcaroli,
vicino a la stanza del Nolano. 0 vane dialettiche, o no-
dosi dubii, o importuni sofismi, o cavillose capzioni, o
scuri enigmi, o intricati leberinti, o indiavolate sfìnge,
risolvetevi, o fatevi risolvere.
In questo bivio, in questo dubbio passo,
Che debbo far, che debbo dir, ahi lasso ?
Da qua ne richiamava il nostro allogiamento; perchè
ne avea sì fattamente imbottati maestro Buazzo e maestro
Pantano, ch'a pena posseamo movere le gambe. Oltre, la
regola de la odomantia e l'ordinario degli augurii impor-
tunamente ne consegliavano a non seguitar quel viaggio.
Li astri, per esserne tutti ricoperti sotto l'oscuro e tene-
broso manto, e lasciandoci l'aria caliginosa ne forzavano
al ritorno. Il tempo ne dissuadeva l'andar sì lungi avante
ed essortava a tornar quel pochettino a dietro. Il loco vi-
VII. - Avventure londinesi 41
cino applaudeva benignamente. L'occasione, la quale con
una mano ci avea risospinti sin qua, adesso con dui piìi
forti pulsi facea il maggior empito del mondo. La stan -
chezza, al fine, non meno ch'una pietra da l'intrinseco
principio e natura è mossa verso il centro, ne mostrava
il medesmo camino, e ne fea inchinar verso la destra.
Da l'altro canto ne chiamavano le tante fatiche, travagli e
disagi, i quali sarrebono stati spesi in vano. Ma il ver-
mine de la conscienza diceva: se questo poco di camino
n'ha costato tanto, che non è vinticinque passi, che sarà di
tanta strada che ne resta ? Mejor es perder que mas perder.
vili.
BOTTEGARI, SERVI, FURFANTI*"
Eccovi proposta avanti gli occhi un'altra parte, che,
quando vede un forastiero, sembra, per Dio, tanti lupi,
tanti orsi, che con suo torvo aspetto gli fanno quel viso,
che saprebe far un porco ad un che venesse a torgli il ti-
nello d'avanti. Questa ignobilissima porzione, per quanto
appartiene al proposito, è divisa in due specie;
Prudenzio. Omnis divisio debet esse bimembris, vel re-
ducibilis ad bimem.br em.
Teofilo — de quali l'una è de l'arteggiani e bottegari,
che, conoscendoti in qualche foggia forastiero, ti torceno il
musso, ti ridono, ti ghignano, ti petteggiano co' la bocca,
ti chiamano, in suo lenguaggio, cane, traditore, straniero;
e questo appresso loro è un titolo ingiuriosissimo, e che
rende il supposito capace a ricevere tutti i torti del mondo,
sia pur quanto si voglia uomo giovane o vecchio, togato
o armato, nobile o gentiluomo. Or qua, se per mala sorte
ti vien fatto che prendi occasione di toccarne uno, o porre
mano a l'armi, ecco in un punto ti vedrai, quanto è lunga
la strada, in mezzo d'uno esercito di coteconi; i quali più
di repente che, come fìngono i poeti, da' denti del drago
seminati per lasone risorsero tanti uomini armati, par che
sbuchino da la terra, ma certissimamente esceno dalle
botteghe; e facendo una onoratissima e gentilissima pro-
spettiva de una selva de bastoni, pertiche lunghe, alebarde,
(I) Cena dille Ceneri. — Ibid.
vili. - Bottegari, Servi, Furfanti 43
partesane e forche rugginenti (le quali, benché ad ottimo
uso gli siamo state concesse del prencipe, per questa e
simili occasioni han sempre apparecchiate e pronte);
cossi con una rustica furia te le vedrai avventar sopra,
senza guardare a chi, perchè, dove, e come, senza ch'un
se ne referisca a l'altro: ognuno, sfogando quel sdegno
naturale, c'ha contra il forastiero, ti verrà di sua propria
mano (se non sera impedito da la calca degli altri, che po-
neno in effetto simil pensiero) e con la sua propria verga,
a prendere la misura del saio; e se non sarai cauto, a sal-
darti ancora il cappello in testa. E se per caso vi fusse
presente qualch'uomo de bene, o gentiluomo, al quale
simil villania dispiaccia, quello, ancor che fusse il conte o
il duca, dubitando, con suo danno, senza tuo profìtto,
d'esserti compagno (perchè questi non hanno rispetto
a persona, quando si veggono in questa foggia armati),
sarà forzato a rodersi dentro ed aspettar, stando discosto,
il fine. Or, al tandem, quando pensi che ti sii lecito d'an-
dar a trovar il barbiere, e riposar il stanco e mal trattato
busto, ecco che trovarai quelli medesimi esser tanti birri
e zaffi, i quali, se potran fengere che tu abbi tocco alcuno,
potreste aver la schena e gambe quanto si voglia rotte,
come avessi gli talari di Mercurio, o fussi montato sopra
il cavallo Pegaseo, o premessi la schiena al destrier di
Perseo, o cavalcassi l'ippogrifo d'Astolfo, o ti menassi
il dromedario di Madian, o ti trottasse sotto una delle
ciraffe degli tre Magi, a forza di bussate ti faran correre,
aggiutandoti ad andar avanti con que' fieri pugni, che
meglio sarrebe per te fussero tanti calci di bue, d'asino
o di mulo: non ti lasciaranno mai, sin tanto che non
t'abbiano ficcato dentro una priggione; e qua, me Uhi co-
mendo.
Pru. a fulgure et tempestate, ab ira et indignatione,
malitia, terdatione et furia rusticorum
Fru. libera nos, domine.
Teo. Oltre a questi s'aggionge Tordine di servitori.
Non parlo de quelli de la prima cotta, i quali son genti-
luomini de' baroni, e per ordinario non portano impresa
44 Parte prima
o marca, se non o per troppa ambizione degli uni, o
per soverchia adulazlon degli altri: tra questi se ritrova
civiltà.
Pru. Omnis regala exceptionem patitur.
Teo. Ma, eccettuando però di tutte specie alcuni,
che vi posson essere men capaci di tal censura, parlo
de le altre specie di servitori; de' quali altri sono de la
seconda cotta; e questi tutti portano la marca affibbiata
a dosso. Altri sono de la terza cotta, li padroni de* quali
non son tanto grandi, che li convenga dar marca ai
servitori, o pur essi son stimati indegni e incapaci di por-
tarla. Altri sono de la quarta cotta; e questi siegueno gli
marcati e non marcati, e son servi de' servi.
Pru. Servus servo^um non est malus titulus usquequaque.
Teo. Quelli de la prima cotta son i poveri e bisognosi
gentiluomini, li quali, per dissegno di robba o di favore,
se riducono sotto l'ali di maggiori; e questi per il più
non son tolti da sua casa, e senza indignità seguitano i
sui milordi, son stimati e fauriti da quelli. Quelli de la
seconda cotta sono de' mercantuzzi falliti, o arteggiani,
o quelli che senza profitto han studiato a leggere, scrivere,
o altra arte; e questi son tolti o fuggiti da qualche scuola,
fundaco o bottega. Quelli de la terza cotta son que' pol-
troni, che, per fuggir maggior fatica han lasciato più libero
mestiero; e questi o son poltroni acquatici, tolti da' bat-
telli; o son poltroni terrestri, tolti dagli aratri. Gli ultimi,
de la quarta cotta, sono una mescuglia di desperati, di di-
sgraziati da lor padroni, de fuor usciti da tempeste, de
pelegrini, de disutili ed inerti, di que' che non han più
comodità di rubbare, di que' che frescamente son scam-
pati di priggione, di quelli che han disegno d ingannar
qualcuno, che le viene a torre da là. E questi son tolti
da le colonne de la Borsa, e da la porta di San Paolo. De
simili, se ne vuoi a Parigi, ne trovarai quanti ti piace a la
porta del Palazzo; in Napoli, alle grade di San Paolo; in
Venezia, a Rialto; in Roma, al Campo di Flora. De le
tre ultime specie sono quei, che, per mostrar quanto
siino potenti in casa sua, e che sono persone di buon
vili. - Bottegari, Servi, Furfanli 45
stomaco, son buoni soldati e hanno a dispreggio il nnondo
tutto, ad uno, che non fa mina di volergli dar la piazza
larga, gli donaranno con la spalla, come con un sprone
di galera, una spinta, che lo faran voltar tutto ritondo,
facendogli veder quanto siino forti, robusti e possenti,
e ad un bisogno buoni per rompere un armata. E se
costui, che si farà incontro, sarà un forastiero, donigli
pur quanto si voglia di piazza, che vuole per ogni modo
che sappia quanto san far il Cesare, l'Anniballe, l'Ettorre
ed un bue che urta ancora. Non fanno solamente come
l'asino, il quale, massimamente quando è carco, si con-
tenta del suo diritto camino per il filo; d'onde, se tu non
ti muovi, non si moverà anco lui, e converrà che o tu a
esso, o esso a te doni la scossa; ma fanno cossi questi,
che portan l'acqua, che se tu non stai in cervello, ti farran
sentir la punta di quel naso di ferro, che sta a la bocca
de la giarra. Cossi fanno ancora color che portan birra e
ala, i quali, facendo il corso suo, se per sua inavertenza
te si avventaranno sopra, te faran sentir l'empito de la
e arca che portano, e che non solamente son possentia
portar su le spalli, ma ancora a buttar una casa innante
e tirar, se fusse un carro, ancora. Questi particolari per
l'autorità, che tegnono in quel caso che portano la som.a,
son degni d'escusazione, perchè hanno più del cavallo,
mulo ed asino, che de l'uomo; ma accuso tutti gli altri,
li quali hanno un pochettino del razionale, e sono, più
che gli predetti, ad imagine e similitudine de l'uomo: ed
in luoco di donarte il buon giorno, o buona sera dopo
averti fatto un grazioso volto, come ti conoscessero e ti
volessero salutare, ti verranno a donar una scossa be-
stiale. Accuso, dico, quell'altri, i quali tal volta fìngendo
di fuggire, o voler perseguitare alcuno, o correre a
q ualche negocio necessario, se spiccano da dentro una
bottega; e con quella furia ti verranno da dietro o da costa
a donar quella spinta, che può donar un toro quando è
stizzato, come, pochi mesi fa, accadde ad un povero
messer Alessandro Citolino; al quale, in cotal modo,
con riso e piacer di tutta la piazza, fu rotto e fracassato
46 Parie prima
un braccio; al che volendo poi provedere il magistrato,
non trovò manco che tal cosa avesse possuto accadere
in quella piazza. Sì che, quando ti piace uscir di casa,
guarda prima di farlo senza urgente occasione, che non
pensassi come di voler andar per la città a spasso. Poi
segnati col segno de la santa croce, armati di una cor-
razza di pazienza, che possa star a prova d'archibugio, e
disponeti sempre a comportar il m.anco male liberamente,
se non vuoi comportar il peggio per forza.
Ma di che devi lamentarti, ahi lasso P Ti par ignobiltà
l'essere un animale urtativoP Non ti ricordi. Nolano, di
quel ch'è scritto nel tuo libro intitolato L' a r e a di
Noè? Ivi, mentre si dovean disponere questi animali
per ordine, e doveasi terminar la lite nata per le pre-
cedenze, in quanto pencolo è stato l'Asino di perdere
la preeminenza, che conslstea nel seder in poppa de l'arca,
per essere un animai più tosto di calci, che di urti? Per
quali animali si rapresenta la nobiltà del geno umano
nell'orrido giorno del giudizio, eccetto che per gli agnelli e
gli capretti? Or questi son que' virili, intrepidi ed animosi,
de' quali gli uni de gli altri non saran divisi, come
oves ab haedis, ma, qual più venerandi, feroci ed urtativi,
saran distinti, come gli padri degli agnelli da' padri
di capretti. Di questi però i primi nella corte celestiale
hanno quel favore, che non hanno gli secondi; e se non
il credete, alzate un poco gli occhi, e guardate chi è stato
posto per capo de la vanguardia di segni celesti: chi è
quello, che con la sua cornipotente scossa ne apre l'anno?
pRU. Aries primo; post ipsum, Taurus.
Teo. Appresso a questo gran capitano e primiero
prencipe de le mandre, chi è stato degno d'essergli pros-
simo e secondo, eccetto ch'il gran duca degli armenti,
a cui s'aggiongono, come per doi paggi, o doi Ganimedi,
que' bei gemegli garzoni P Considerate dunque, quale e
quanta sia cotal razza di persone, che tengono il primato
altrove, che dentro un'arca infracidita.
Fru. Certo, non saprei trovar differenza alcuna tra
costoro e quel geno d'animali, eccetto che quelli urtano
vili. - Bottegari, Servi, Furfanti 47
di testa, ed essi urtano di spalla ancora. Ma, lasciate
queste digressioni, e tornate al proposito di quel ch'av-
venne in questo residuo del viaggio, in questa sera.
Teo. Or, dopo ch'il Nolano ebbe riscosse da venti in
circa di queste spuntonate, particolarmente alla piramide
vicina al palazzo in mezzo di tre strade, ne si ferno in-
contro sei galantuomini, de' quali uno glie ne die una sì
gentile e gorda, che sola possea passar per diece; e gli
ne fé donar un'altra al muro, che possea certo valer per
altre diece. Il Nolano disse: Tonchi maester. Credo che
lo ringraziasse perchè li die di spalla, e non di quella punta
ch'è posta per centro del brocchiero o per cimiero de
la testa.
Questa fu l'ultima borasca; perchè poco oltre, per
la grazia di San Fortunnio, dopo aver discorsi sì
mal tristi sentieri, passati sì dubbiosi divertigli, varcati sì
rapidi fiumi, tralasciati sì arenosi lidi, superati sì limosi
fanghi, spaccati sì turbidi pantani, vestigate sì pietrose
lave, trascorse sì lubriche strade, intoppato in sì ruvidi
sassi, urtato in sì perigliosi scogli, gionsemo per grazia
del cielo vivi al porto, idest alla porta.
IX.
PRELUDII
ALLA « CENA DELLE CENERI » ("
CERIMONIE DI TAVOLA <2)
Smitho. Parlavan ben latino?
Teofilo. Sì.
Smi. Galantuomini?
Teo. Sì.
Smi. Di buona riputazione?
Teo. Sì.
Smi. Dotti?
Teo. Assai competentemente.
Smi. Ben creati, cortesi, civili?
Teo. Troppo mediocremente.
Smi. Dottori?
Teo. Messer sì, padre sì, madonna si, madesì, credo
da Oxonia.
Smi. Qualificati?
Teo. Come non ? uomini da scelta, di robba lunga,
vestiti di velluto; un de' quali avea due catene d'oro lu-
cente al collo, e l'altro, per Dio, con quella preziosa mano,
che contenea dodeci anella in due dita, sembrava un
ricchissimo gioielliero, che ti cavava gli occhi e il core,
quando la vagheggiava.
(1) Dialogo I. — Si presentano i due esaminatori della nolana sufficienza,
ì dottori Torquato e Nundinio.
(2) Dialogo II.
IX. - Preludii alla « Cena delle ceneri » - Cerimonie di tavola 49
Smi. Mostravano saper di greco?
Teo. e di birra eziandio.
Prudenzio. Togli via queW eziandio, poscia è una
obsoleta e antiquata dictione.
Frulla. Tacete, maestro, che non parla con voi.
Smi. Come eran fatti?
Teo. L'uno parca il connestabile della gigantessa
e Torco, r altro 1' amostante della dea de la riputa-
zione.
Smi. Sì che eran doi?
Teo. Sì per esser questo un numero misterioso.
Pru. Ut essent duo testes.
Fru. Che intendete per quel testes"?
Pru. Testimonii, essaminatori della nolana suffi-
cienza. At, me hercle, perchè avete detto, Teofìlo, che il
numero bmario è misterioso?
Teo. Perchè due sono le prime coordinazioni, come
dice Pitagora, finito e infinito, curvo e retto, destro e
sinistro, e va discorrendo. Due sono le spezie di numeri,
pare e impare, de' quali l'una è maschio, l'altra è femina.
Doi sono gli Cupidi, superiore e divino, inferiore e vol-
gare. Doi sono gli atti della vita, cognizione ed affetto.
Doi sono gli oggetti di quelli, il vero e il bene. Due sono
le specie di moti: retto, con il quale i corpi tendeno alla
conservazione, e circulare, col quale si conservano. Doi
son gli principii essenziali de le cose, la materia e la
torma. Due le specifiche differenze della sustanza, raro
e denso, semplice e misto. Doi primi contrarii e attivi
principii, il caldo e il freddo. Doi primi parenti de le cose
naturali, il sole e la terra.
Fru. Conforme al proposito di que' prefati doi, farò
un'altra scala del binario. Le bestie entrorno ne l'arca, a
due a due; ne uscirono ancora a due a due. Doi sono i
corifei di segni celesti: aries e taurus. Due sono le specie
di nolite fieri: cavallo e mulo. Doi son gli ammali ad
imagine e similitudine de l'uomo: la scimia in terra, e '1
barbagianni in cielo. Due sono le false e onorate reliquie
di Firenze in questa patria: i denti di Sassetto e la
50 Parte prima
barba di Pietruccia. Dol sono gli animali, che disse il
profeta aver più intelletto, ch'il popol d'Israele: il bove,
perchè conosce il suo possessore, e l'asino, perchè sa
trovar 11 presepio del padrone. Dol furono le misteriose
cavalcature del nostro redentore, che significano il suo
antico credente ebreo e il novello gentile: l'asina e il
pullo. Doi sono da questi li nomi derivativi, ch'han for-
mate le dizioni titulari al secretarlo d'Augusto: Asinio
e Pullione. Doi sono 1 geni degli asini: domestico e sal-
vatico. Dol i lor più ordinarli colori: biggio e morello.
Due sono le piramidi, nelle quali denno esser scritti e
dedicati all'eternità i nomi di questi doi e altri simili
dottori: la destra orecchia del cavai di Sileno, e la sini-
stra de l'antagonista del dio degli orti.
Pru. Optimae indolis ingenium, enumeratìo minime cori"
temnenda!
Fru. Io mi glorio, messer Prudenzio mio, perchè voi ap-
provate il mio discorso, che sete più prudente che la istessa
prudenzia, perciò che sete la prudentia masculini generis.
Pru. Neque id sine lepore et grafia. Orsù, isthaec mit-
tamus encomia. Sedeamus, quia, ut aii Peripateticorum
princeps, sedendo et quiescendo sapimus; e cossi, insino al
tramontar del sole, protelaremo il nostro tetralogo circa
il successo del colloquio del Nolano col dottor Torquato
e il dottor Nundinio.
Fru. Vorrei sapere quel che volete intendere per quel
tetralogo.
Pru. Tetralogo, dissi io: id est, quatuorum sermo; come
dialogo vuol dire duorum sermo, trilogo trium sermo; e
cossi oltre, de pentalogo, eptalogo, e altri, che abusiva-
mente si chiamano dialoghi, come dicono alcuni quasi
diversorum logi: ma non è verisimile, che li greci inventori
di questo nome abbino quella prima sillaba di prò capite
illius latinae dictionis diversum.
Smi. Di grazia, signor maestro, lasciamo questi rigori
di grammatica, e venemo al nostro proposito.
Pru. 0 saeclum! voi mi parete far poco conto delle
buone lettere. Come potremo far un buon tetralogo, se
IX. - Preludii alla « Cena delle ceneri » - Cerimonie di tavola 5 1
non sappiamo, che significhi questa dizione tetralogo
e, quod peius est, pensaremo che sia un dialogo? Nonne
a difinitione et a nominis explicatione exordiendum, come
il nostro Arpinate ne insegna?
Teo. Voi, messer Prudenzio, sete troppo prudente.
Lasciamo, vi priego, questi discorsi grammaticali; e fate
conto, che questo nostro raggionamento sia un dialogo,
atteso che benché siamo quattro in persona, saremo
dui in officio di proponere e rispondere, di raggionare
e ascoltare. Or, per dar principio e reportar il negocio
da capo, venite ad inspirarmi, o Muse. Non dico a voi,
che parlate per gonfio e superbo verso in Elicona: perchè
dubito, che forse non vi lamentiate di me al fine, quando,
dopo aver fatto sì lungo e fastidioso peregrinaggio, var-
cati sì perigliosi mari, gustati sì fieri costumi, vi biso-
gnasse discalze e nude tosto repatriare perchè qua non
son pesci per Lombardi. Lascio, che non solo siete stra-
niere, ma siete ancor di quella razza, per cui disse un
poeta:
Non fu mai Greco di malizia netto.
Oltre che non posso inamorarmi di cosa, ch'io non vegga.
Altre, altre sono che m'hanno incatenata l'alma. A voi
altre, dunque, dico, graziose, gentili, pastose, morbide,
gioveni, belle, delicate, biondi capelli, bianche guance,
vermiglie gote, labra succhiose, occhi divini, petti di
smalto e cuori di diamante; per le quali tanti pensieri
fabrico ne la mente, tanti affetti accoglio nel spirto, tante
passioni concepo nella vita, tante lacrime verso dagli
occhi, tanti suspiri sgombro dal petto, e dal cor sfavillo
tante fiamme; a voi. Muse d'Inghilterra, dico: inspira-
temi, suffiatemi, scaldatemi, accendetemi, lambiccatemi
e risolvetemi in liquore, datemi in succhio, e fatemi
comparir non con un picciolo, delicato, stretto, corto e
succinto epigramma, ma con una copiosa e larga vena
di prosa lunga, corrente, grande e soda: onde, non come
da un arto calamo, ma come da un largo canale, mande
52 Parte prima
i rivi miei. E tu, Mnemosme mia, ascosa sotto trenta
sigilli, e rinchiusa nel tetro carcere dell'ombre de le idee^
intonami un poco ne 1 orecchio.
*
* *
Dopo fatti 1 saluti e 1 resaluti —
Prudenzio. Vicissim,
Teofilo. ed alcuni altri piccoli ceremonl (tra* quali vi fu
questo da ridere, che ad un de* nostri essendo presentato
l'ultimo loco, e lui pensando che là fusse il capo, per
umiltà voleva andar a seder dove sedeva il primo; e qua
si fu un picciol pezzo di tempo m contrasto tra quelli,
che per cortesia lo voleano far sedere ultimo, e colui, che
per umiltà volea seder il primo); in conclusione, messer
Florio sedde a viso a viso d'un cavalliero, che sedeva al
capo de la tavola; il signor Folco a destra de messer
Florio; io e il Nolano a sinistra de messer Florio; il dottor
Torquato a sinistra del Nolano; il dottor Nundinio a
viso a viso del Nolano. Qua, per grazia di Dio, non viddl
il ceremonlo di quell'urcluolo o becchieri, che suole
passar per la tavola a mano a mano, da alto a basso, da
sinistra a destra, ed altri lati, senza altro ordine, che di
conoscenza e cortesia da montagne; il quale, dopo che
quel, che mena il ballo, se Tha tolto di bocca, e lasciatovi
quella Impannatura di pinguedine, che può ben servir
per colla, appresso beve questo, e vi lascia una mica di
pane; beve quell'altro e v'affigge a l'orlo un fnsetto di
carne; beve costui e vi scrolla un pelo de la barba; e cossi
con bel disordine, gustandosi da tutti la bevanda, nes-
suno è tanto malcreato, che non vi lasse qualche cortesia
de le reliquie, che tiene circa il mustacclo. Or, se a qual-
cuno, o perchè non abbia stomaco, o perchè faccia del
grande, non piacesse di bere, basta che solamente se
l'accoste tanto a la bocca, che v'imprima un poco di ve-
stigio de le sue labbra ancora. Questo si fa a fine, che
sicome tutti son convenuti a farsi un carnivoro lupo col
IX. - Preludii alla « Cena delle ceneri » - Cerimonie di tavola 53
mangiar d'un medesmo corpo d'agnello, di capretto, di
montone o di un Grunnio Corocotta ('^; cossi, applicando
tutti la bocca ad un medesimo bocale, venghino a farsi
una sanguisuga medesima, in segno d'una urbanità,
una fratellanza, un morbo, un cuore, un stomaco, una
gola e una bocca. E ciò si pone in effetto con certe genti-
lezze e bagattelle, che è la più bella comedia del mondo a
vedere, e la più cruda e fastidiosa tragedia a trovarvisi
un galantuomo in mezzo quando stima esser ubligato a
far, come fan gli altri, temendo esser tenuto incivile e di-
scortese; perchè qua consiste tutto il termine della ci-
vilità e cortesia.
(I) Grunnio Corocotta = porchetto. Con questo nome ebbe molta voga uno
scritto scherzoso: Grunni Coracoitae testamentum.
X.
DELLE DONNE <"
E cosa veramente, o generosissimo Cavalliero, da basso
bruto e sporco ingegno d'essersi fatto constantemente
studioso, ed aver affisso un curioso pensiero circa o sopra
la bellezza d'un corpo femenile. Che spettacolo, o Dio
buono!, più vile ed ignobile può presentarsi ad un occhio
di terso sentimento, che un uomo cogitabundo, afflitto,
tormentato, triste, maninconioso, per dovenir or freddo
or caldo, or fervente, or tremante, or pallido, or rosso,
or in mina di perplesso, or in atto di risoluto; un che
spende il miglior intervallo di tempo e gli più scelti frutti
di sua vita corrente, destillando l'elixir del cervello con
m.ettere in concetto, scritto e sigillar in publichi monu-
menti, quelle continue torture, que' gravi tormenti, quei
razionali discorsi, quei faticosi pensieri e quelli amaris-
simi studi, destinati sotto la tirannide d'una indegna, im-
becille, stolta e sozza sporcarla?
Che tragicomedia? Che atto, dico, degno più di com-
passione e riso può esserne ripresentato in questo teatro
del mondo, in questa scena delle nostre conscienze, che
di tali e tanto numerosi suppositi, fatti penserosi, con-
templativi, constanti, fermi, fìdeli, amanti, coltori, ado-
ratori e servi di cosa senza fede, priva d'ogni costanza,
destituta d'ogni ingegno, vacua d'ogni merito, senza ri-
conoscenza e gratitudine alcuna, dove non può capir
più senso, intelletto e bontade, che trovarsi possa in una
(1) Argomento del Nolano sopra gli Eroicì FuroRI, scritto al molto illustre
signor Filippo Sidneo.
X. - Delle donne 55
statua o imagine depinta al muro? E dove è più superbia,
arroganza, protervia, orgoglio, ira, sdegno, f alsitade,
libidine, avarizia, ingratitudine ed altri crimini exiziali,
che avessero p ossuto uscir veneni e instrumenti di morte
dal vasello di Pandora, per aver pur troppo largo ricetto
dentro il cervello di mostro tale? Ecco vergato in carte,
rinchiuso in libri, messo avanti gli occhi e intonato
agli orecchi un rumore, un strepito, un fracasso d'insegne,
di imprese, de m.otti, d'epistole, de sonetti, d'epigrammi,
de libri, de prolissi scartafazzi, de sudori estremi, de vite
consumate, con strida, ch'assordiscon gli astri, lamenti,
che fanno ribombar gli antri infernali, doglie, che fanno
stupefar l'anime viventi, suspiri da far exinanire e com-
patir gli dei, per quegli occhi, per quelle guance, per quel
busto, per quel bianco, per quel vermiglio, per quella
lingua, per quel dente, per quel labro, quel crine, quella
veste, quel manto, quel guanto, quella scarpetta, quella
pianella, quella parsimonia, quel risetto, quel sdegno-
setto, quella vedova fenestra, quell'eclissato sole, quel
martello, quel schifo, quel puzzo, quel sepolcro, quel
cesso, quel mestruo, quella carogna, quella febre quar-
tana, quella estrema ingiuria e torto di natura, che con
u na superfìcie, un'ombra, un fantasma, un sogno, un
circeo incantesimo ordinato al serviggio della generazione,
ne inganna in specie di bellezza. La quale insieme viene
e passa, nasce e muore, fiorisce e marcisce: ed è bella
cossi un pochettino a l'esterno, che nel suo intrinseco
vera — e stabilmente è contenuto un navilio, una bottega,
una dogana, un mercato de quante sporcane, tossichi e
veneni abbia possuti produre la nostra madrigna natura,
la quale, dopo ever riscosso quel seme, di cui la si serva,
ne viene sovente a pagar d'un lezzo, d'un pentimento,
d'una tristizia, d'una fiacchezza, d'un dolor di capo, di
una lassitudine, d'altri ed altri malanni, che son mani-
festi a tutto il mondo, a fin che amaramente dolga, dove
suavemente proriva
Che dunque voglio dire? Che voglio conchiu-
dere? Che voglio determinare? — Quel che voglio con-
Bruno, In tristitia hilaris, etc. 6.
56 Parte prima
chiudere e dire, o Cavalliero illustre, è che quel ch'è
di Cesare, sia donato a Cesare, e quel ch'è di Dio, sia
sia renduto a Dio. Voglio dire, che a le donne, benché
talvolta non bastino gli onori ed assequii divini, non
perciò se gli denno onori ed ossequii divini. Voglio
che le donne siano cossi onorate ed amate, come denno
essere amate ed onorate le donne: per tal causa dico,
e per tanto, per quanto si deve a quel poco, a quel
tempo e quella occasione, se non hanno altra virtù che
naturale, cioè di quella bellezza, di quel splendore, di
quel serviggio, senza il quale denno esser stimate più
vanamente nate al mondo che un morboso fungo, qual
con pregiudicio de meglior piante occupa la terra; e
più noiosamente che qualsivoglia napello o vipera, che
caccia il capo fuor di quella. Voglio dire, che tutte le
cose de l'universo, perchè possano aver fermezza e con-
sistenza, hanno gli suoi pondi, numeri, ordini e misure,
a fin che sieno dispensate e governate con ogni giu-
stizia e raggione.
* (1)
FlLOTEO... torno a scongiurare tutti in generale, e in
particolare te, severo supercilioso e salvaticissimo maestro
Polimmo, che dismettiate quella rabbia contumace e
quell'odio tanto criminale contra il nobilissimo sesso feme-
nile; e non ne turbate quanto ha di bello il mondo, e il
cielo con suoi tanti occhi scorge. Ritornate, ritornate a
VOI, e richiamate l'ingegno, per cui veggiate che questo
vostro livore non è altro che mania espressa e frenetico
furore. Chi è più insensato e stupido, che quello che non
vede la luce? Qual pazzia può esser più abietta, che, per
raggion di sesso, esser nemico all'istessa natura, come quel
barbaro re di Sarza, che per aver imparato da voi, disse:
Natura non può far cosa perfetta.
Poi che natura femina vien detta.
(1) Dalla fine del I Dialogo De la Causa, Principio et Uno
X. - Delle donne 57
Considerate alquanto il vero, alzate l'occhio a l'arbore
de la scienza del bene e il male, vedete la contrarietà
ed opposizione ch'è tra l'uno e l'altro. Mirate chi sono
i maschi, chi sono le femine. Qua scorgete per suggetto
il corpo, ch'è vostro amico, maschio, là l'anima che è
vostra nemica, femina. Qua il maschio caos, là la f emina
disposizione; qua il sonno, là la vigilia; qua il letargo, là la
memoria; qua l'odio, là l'amicizia; qua il timore, là la
sicurtà; qua il rigore, là la gentilezza; qua il scandalo, là
la pace; qua il furore, là la quiete; qua l'errore, là la ve-
rità; qua il difetto, là la perfezione; qua l'inferno, là la feli-
cità; qua Poliinnio pedante, là la Poliinnia musa. E final-
mente tutti vizii, mancamenti e delitti son maschi; e
tutte le virtudi, eccellenze e bontadi son f emine. Quindi
la prudenza, la giustizia, la fortezza, le temperanza, la
bellezza, la maestà, la dignità, la divinità, cossi si nomi-
nano, cossi s'imaginano, cossi si descriveno, cossi si pin-
gono, cossi sono.
XI.
PEDANTI
MANFURIO. (1)
Manfurio, Pollula, Sanguino.
Manf. Bene repperiaris bonae, melioris, optimaeque in"
dolis, adolescentule : quomodo tecum agitur? ut vales?
PoLL. Bene.
Mane. Gaudeo sane gratulorque satis, si vales bene est,
ego quidem valeo: — marcitulliana eleganza in quasi
tutte le sue familiari nnissorie servata.
PoLL. Comandate altro, domine Magister? io vo oltre per
compir un negocio con Sanguino, e non posso induggiar
con voi.
Manf. 0 buttati indarno i miei dictati, li quali nel mio
almo minervale gimnasio, excerpendoli dall'acumine del
mio Marte, ti ho fatti nelle candide pagine, col calamo di
negro attramento intincto, exarare! buttati dico, incassum
cum sii, che a tempo e loco, eorum servata ratione, ser-
virtene non sai. Mentre il tuo preceptore, con quel ce-
leberrimo apud omnes, etiam barbaras, nationes idioma
latino ti sciscita; tu, etiam dum persistendo nel commercio
bestiis similitudinario del volgo ignaro, abdicaris a theatro
literarum, dandomi responso composto di verbi, quali
dalla balla et obstetrice in incunabulis hai susceputi vel, ut
melius dicam, suscepti. Dimmi, sciocco, quando vuoi
dispuerascere ?
(I) Candelaio, Atto I, Scena V.
XI. - Pedanti 59
Sang. Mastro, con questo diavolo di parlare per
grammuffo o catacumbaro o delegante e latrinesco, amor-
bate il cielo, e tutt'il mondo vi burla.
Manf. Sì, se questo megalocosmo e machina mun-
diale, o scelesto ed inurbano, fusse di tuoi pari referto
et confarcito.
Sang. Che dite voi di cosmo celesto e de urbano?
parlatemi che io v'intenda, che vi responderò.
Manf. Vade ergo in ìnfaustam nefastamque crucem, si-
nistroque Hercule! Si dedignano le Muse di subire il
porcile del contubernio vostro, vel haram colloquii Destri.
Che giudicio fai tu di questo scelesto, o Pollula? apposi-
torte fructus eruditionum mearum, receptaculo del mio
dottrinai seme, ne te moveant modo a nobis dieta, perchè,
quia, namque, quandoquidem — particulae causae reddi-
tivae — ho voluto farti partecipe di quella frase con la
quale lepidissime eloquentissimeque facciamo le obiurga-
zioni, le quali voi posthac, deinceps — se li Celicoli vi
elargiranno quel ch'hanno a noi concesso — all'inverso
de vostri erudiendi descepoli, imitar potrete.
PoLL. Bene; ma bisogna farle con proposito ed occa-
sione.
Manf. La causa della mia excandescentia è stata il
vostro dire: « Non posso induggiar con voi ». Debuisses
dicere, vel elegantius. — infinitivo antecedente subiuncti-
vum — dicere debuisses: « Excellentia tua, eruditione tua,
non datur, non conceditur mihi cum tuis dulcissimis musis
ocium ». Poscia quel dire: « con voi », vel ethruscius:
« vosco », nec bene dicitur latine respectu unius, nec urbane
inverso di togati e gimnasiarchi.
Sang. Vedete, vedete come va el mondo: voi siete
accordati, ed io rimagno fuori come catenaccio. Di
grazia, domine Magister, siamo amici ancora noi, perchè
benché io non sii atto di essere soggetto alla vostra
verga, idest esservi discepolo, potrò forse servirvi in
altro.
Manf. Nil mihi vobiscum.
Sang. Et con spiritu tuo.
60 Parte prima
Manf. Ah, ah, ah, come sei, Pollula, adiunto socio a
questo bruto?
Sang. Brutto o bello, al servizio di vostra maestà,
onorabilissimo Signor mio.
Manf. Questo mi par molto disciplinabile, e non coss
inmorigerato, come da principio si mostrava, perchè mi
dà epiteti molto urbani ed appropriati.
PoLL. Sed a principio videbatur Ubi homo nequam.
Manf. Togli via quel « nequam »: quantumque sii
assumpto nelle sacre pagine, non è però dictio ciceroniana,
« Tu vivendo bonos, scribendo sequare peritosi »
disse il ninivita Giov. Dispauterio, seguito dal mio pre-
ceptore Aloisio Antonio Sidecino Sarmento Salano, suc-
cessor di Lucio Gio. Scoppa, ex voluntate heredis. Dicas
igitur: « non aequum », prima dictionis litera diphtongata
ad differentiam della quadrupede substantia animata sen-
sitiva, quae diphtongum non admittit in principio.
Sang. Dottissimo signor Maester, è forza che vi chie-
chiamo licenza, perchè ne bisogna al più tosto esser con
messer Gio. Bernardo pittore. Adio.
Manf. Itene, dunque, co i fausti volatili. Ma- chi è
questa che con quel calatho in brachiis me si fa obvia? è
una muliercula, quod est per ethimologiam m o 1 1 i s Her-
cules, apposita iuxta se posita: sexo molle, mobile,
fragile ed incostante, al contrario di Ercole. 0 bella eti-
mologia! è di mio proprio Marte or ora deprompta. Or
dunque, quindi propriam versus domum movo il gresso,
perchè voglio notarla maioribus literis nel mio propriarum
elucubrationum libro. Nulla dies sine linea.
Messer Ottaviano, Manfurio, Pollula ^').
Ott. Misser Manfurio, amenissimo fiume di eloquenza,
serenissimo mare di dottrina...
Manf. Tranquillitas maris, serenitas aèris.
(I) Cand. Atto II, Scena l.
XI. - Pedanti 61
OtT. ... avete qualche bella vostra di composizione,
perchè ho gran desiderio aver copia di vostre doctissime
carte.
Manf. Credo, Signor, che in loto vitae curriculo e di-
scorso di diverse e varie pagine non ve siino occorsi car-
mini di calisimetria, idest cossi adaptati, come questi che
al presente io son per dimostrarvi, qui, exarati.
Ott. Che è la materia di vostri versi?
Manf. Litterae, syllabae, dictio et oratio, partes prò-
pinquae et remotae.
Ott. Io dico: quale è il suggetto ed il proposito?
Manf. Volete dire: de quo agitur? materia de qua? circa
quamì E la gola, ingluvie e gastrimargia di quel lurcone
Sanguino — viva effigie di Filosseno, qui collum gruis
exoptabat — con altri suoi pari, socii, aderenti, simili e
collaterali.
Ott. Piacciavi di farmeli udire.
Manf. Lubentissime. Eruditis non sunt operienda ar-
cana: ecco, io explico papirum propriis elaboratum et li-
neatum digitis. Ma voglio che prenotiate che il sulmo-
nense Ovidio — Sulmo mihi patria est — nel suo libro
Methamorphoseon octavo, con molti epiteti l'apro calidonio
descrisse, alla cui imitazione io questo domestico porco
vo delineando.
Ott. Di grazia, leggetele presto.
Manf. Fiat. Qui cito dat, bis dat. Exordium ah admi-
rantis affectu.
0 porco sporco, vii, vita disutile.
Ch'altro non hai che quel gruito fatuo.
Col quale il cibo tu ti pensi acquirere;
Gola quadruplicata da /'axungia,
D air anteposto absorpta brodulario.
Che ti prepara il sozzo coquinario.
Per canal emissario;
Per pinguefarti più, vase d'ingluvie.
In cotesto porcil f intromettesti,
W ad altro obietto non guardi cKal pascolo.
62 Parte prima
E privo d'exercizio.
Per inopia e penuria
Di meglior letto e di meglior cubiculo.
Altro non fai ch'ai sterco e fango involverti.
Post haec:
A nullo sozzo volutabro inabile.
Di gola e luxo infìrmità incurabile.
Ventre che sembra di Pleiade il puteo,
Abitator di fango, incoia luteo;
Fauce indefessa, assai vorante gutture.
Ingordissima arpia, di Tizio vulture.
Terra mai sazia, fuoco e vulva cupida,
Orfìcio protenso, nare putida;
Nemico al cielo, speculator terreo,
Mano e pie infermo, bocca e dente ferreo,
L'anima ti fu data sol per sale,
A fin che non putissi: dico male?
Che vi par di questi versi? che ne comprendete con
di vostro ingegno il metro?
Ott. Certo, per esser cosa d'uno della profession vo-
stra, non sono senza bella considerazione.
Manf. Sine conditione et absolute denno esser giudicati
di profonda perscrutazion degni questi frutti raccolti
dalle meglior piante che mai producesse l'eliconio monte,
irrigate ancor dal parnasio fonte, temprate dal biondo
Apolline e dalle sacrate Muse coltivato. E che ti par di
questo bel discorso? non vi admirate adesso come pria
già?
Ott. Bellissimo e sottil concetto. Ma ditemi, vi priego,
avete speso molto tempo in ordinar questi versi?
Manf. Non.
Ott. Sietevi affatigato in farli?
Manf. Minime.
Ott. Avetevi speso gran cura e pensiero?
Manf. Nequaquam.
Ott. Avetele fatti e rifatti?
XI. - Pedanti 63
Manf. Haudquaquam.
Ott. Avetele corretti?
Manf. Minime gentium: non opus erat.
Ott. Avetene destramente presi, per non dir mario-
lati, a qualche autore ?
Manf. Neutiquam, ahsit verbo invidia, Dii avertant, ne
faxint ista Superi. Voi troppo volete veder di mia erudi-
zione: credetemi che non ho poco io del fonte caballino
absorpto, ne poco liquor mi ave infuso la de cerebro nata
lovis, dico la casta Minerva, alla quale è attribuita la sa-
pienza. Credete ch'io non sarei minus foeliciter risoluto,
quando fusse stato provocato ad explicandas notas afflr-
mantis vel asserentis. Non hanno destituita la mia memo-
ria: Sic, ita, etiam, sane, profecto, palam, verum, certe^
procul dubio, maxime, cui dubium"?, utique, quidniì, mehercle
aedepol, mediusfidius, et caetera.
Ott. Di grazia, in luoco di quell'e/ caetera, ditemi una
altra negazione.
Manf. Questo cacocephaton, idest prava elocuzione,
non farò io, perchè factae enumerationis clausulae non
est adponenda unitas.
Ott. Di tutte queste particule affirmative quale vi
piace più de l'altre?
Manf. Queir utique assai mi cale, eleganza in
lingua aethrusca vel tuscia meaeque inhaeret menti: eleganza
di più profondo idioma.
Ott. Delle negative qual vi piace più?
Manf. Quel nequaquam est mihi cordi e mi so-
disfa.
Ott. Or dimandatemi voi, adesso.
Manf. Ditemi, signor Ottaviano, piacenvi gli nostri
versi ?
Ott. Nequaquam.
Manf. Come nequaquam? non sono elli optimi?
Ott. Nequaquam.
Manf. Duae negationes affirmant: volete dir dunque
che son buoni.
Ott. Nequaquam.
64 Parte prima
Manf. Burlate?
Ott. Nequaquam.
Manf. Sì che dite da senno?
Ott. Utique.
Manf. Dunque, poca stima fate di mio Marte e di mia
Mmerva?
Ott. Utique.
Manf. Voi mi siete nemico e mi portate invidia: da
principio, vi admiravate della nostra docendi copia, adesso,
Ipso lectionis progressu, la admirazione è metomorfita in
invidia?
Ott. Nequaquam: come invidia? come nemico? non
mi avete detto che queste dizioni vi piaceno?
Manf. Voi, dunque, burlate, e dite exercitationis
gratia ?
Ott. Nequaquam.
Manf. Dicas igitur, sine simulatione et fuco: hanno
enormità, crassizie e rudità gli miei numeri?
Ott. Utique.
Manf. Cossi credete a punto?
Ott. Utique, sane, certe, equidem, utique, utique.
Manf. Non voglio più parlar con voi.
Manfurio, Gio Bernardo, Pollula. O
GlO. Bernardo ...vorrei sapere da voi che vuol dir:
pedante.
Manf. Lubentissime voglio dirvelo, insegnarvelo, de-
clararvelo, exporvelo, propalarvelo, palam farvelo, insi-
nuarvelo, et — particula coniunctiva in ultima dictione
apposita — enuclearvelo; sicut, ut, velut, veluti, quemad-
modum nucem ovidianam meis coram discipulis — quo
melius nucleum eius edere possint — enuncleavi. P e-
dante vuol dire quasi pede ante: utpote quia ave lo in-
cesso prosequitivo, col quale fa andare avanti gli eru-
diendi puberi; vel per strictiorem arctioremque aethymo-
(I) CanJ. Atto Ili. Scena VII.
XI. - Pedanti 65
logiam: Pe, perfectos, — Dan, dans, — Te, thesauros.
Or che dite de le ambedue?
GlO. B. Son buone; ma a me non piace ne l'una né
l'altra, né mi par a proposito.
Manf. Cotesto vi é a dirlo lecito, alia meliore in me-
dium prolata, idest quando arrete apportatane un'altra
vie più degna.
Gio. B. Eccovela: P e, pecorone, — Dan, da
nulla, — Te, testa d'asino.
Manf. Disse Catone seniore: « Nil mentire, et nihil
temere credideris ».
GlO. B. Hoc est, id est, chi dice il contrario, ne mente
per la gola.
Manf. Vade, vade:
« Contra verbosos, verbis contendere noli.
Verbosos contra, noli contendere verbis.
Verbis verbosos noli contendere contra '.
GlO. B. Io dono al diavolo quanti pedanti sono!...
Resta con cento mila di quelli angeli de la faccia
cotta !
Manf. Menateli pur, come socii vostri, vosco! — U*
siete voi, Pollula? Pollula, che dite? vedete che nefando,
abominando, turbulento e portentoso seculo?
« secol noioso in cui mi trovo.
Voto d*ogni valor, pien d*ogni orgoglio ».
Ma properiamo verso il domicilio.
TORQUATO. (')
Or, veniamo un poco agli discorsi fatti col dottor
Torquato; il quale son certo che non può essere tanto
più ignorante che Nundinio, quanto é più presuntuoso,
temerario e sfacciato.
(1) Cena delle Ceneri. Dialogo IV. — Interlocutori 'sono: SmitHO, Teo-
FiLo filosofo, Prudenzio pedante. Frulla.
66 Parie prima
Fru. Ignoranza e arroganza son due sorelle individue
in un corpo e in un'anima.
Teo. Costui, con un enfatico aspetto, col quale il divum
Pater vien descritto nella Metamorfose seder in
mezzo del concilio degli Dei per fulminar quella severis-
sima sentenza contra il profano Licaone; dopo aver con-
templato la sua aurea collana...
Pru. Torquem auream, aureum monile.
Teo. ed appresso remirato al petto del Nolano, dove
più tosto arrebe possuto mancar qualche bottone; dopo
essersi rizzato, ritirate le braccia da la mensa, scrolla-
tosi un poco il dorso, sbruffato co' la bocca alquanto,
acconciatasi la beretta di velluto in testa, intorcigliatosi
il mustaccio, posto in arnese il profumato volto, inar-
cate le ciglia, spalancate le narici, messosi in punto
con un riguardo di rovescio, poggiatasi al sinistro fianco
la sinistra mano per donar principio a la sua scrima,
appuntò le tre prime dita della destra insieme, e co-
minciò a trar di mandritti, in questo modo parlando — :
Tune ille philosophorum protoplastes ? — Subito il Nolano,
suspettando di venire ad altri termini che di disputazione,
gl'interroppe il parlare, dicendogli: — Quo vadis, domine,
quo vadis ? Quid, si ego philosophorum protoplastes ? quid ,
si nec Aristoteli, nec cuiquam magis concedam, quam mihi
ipsi concesserint ? Ideone terra est centrum mundi immo-
bile? — Con queste e altre simili persuasioni, con quella
maggior pazienza che posseva, l'essortava a portar pro-
positi, con i quali potesse inferire demostrativa o proba-
bilmente in favore degli altri protoplasti contra di questo
novo protoplaste. E voltatosi il Nolano agli circostanti,
ridendo con mezzo riso: — Costui, disse, non è venuto
tanto armato di raggioni, quanto di paroli e scommi,
che si muoiono di freddo e fame. — Pregato da tutti, che
venesse agli argumenti, mandò fuori questa voce: — Unde
igitur stella Martis nunc maior, nunc vero minor apparet,
si terra movetur?
Smi. 0 Arcadia, è possibile che sii in rerum natura,
sotto titolo di filosofo e medico...
XI. - Pedanti 67
Fru. e dottore e torquato,
Smi. che abbia possuto tirar questa consequenza?
Il Nolano che rispose?
Teo. Lui non si spanto per questo.
Or, mentre il Nolano dicea questo, il dottor Torquato
Gridava: — Ad rem, ad rem, ad rem! — Al fine il Nolano
se mise a ridere, e gli disse, che lui non gli argomentava,
né gli rispondeva, ma che gli proponeva; e però: — Ista
sunt res, res, res. — E che toccava al Torquato appresso
d'apportar qualche cosa ad rem.
Smi. Perchè questo asino si pensava essere tra goffi e
balordi, credeva che quelli passassero questo suo ad rem
per un argumento e determinazione; e cossi un semplice
crido, co' la sua catena d'oro, satisfar alla moltitudine.
Teo. Ascoltate d'avantaggio. Mentre tutti stavano ad
aspettar quel tanto desiderato argumento, ecco che, vol-
tato il dottor Torquato agli commensali, dal profondo
della sufficienza sua sguaina e gli viene a donar sul m.o-
s taccio un adagio erasmiano: — Anticyram navigat.
Smi. Non possea parlar meglio un asino, e non possea
udir altra voce chi va a pratticar con gli asini.
Teo. Credo che profetasse (benché non intendesse
lui medesmo la sua profezia) che il Nolano andava a far
provisione d'elleboro, per risaldar il cervello a questi
pazzi barbareschi.
Smi. Se quelli, che v'eran presenti come erano civili, fus-
sero stati civilissimi, gli arrebbono attaccato, in loco della
collana, un capestro al collo e fattogli contar quaranta ba-
stonate in commemorazione del primo giorno di q uaresima.
Teo. Il Nolano gli disse, che il dottor Torquato lui
non era pazzo, perché porta la collana; la quale se non
avesse a dosso, certamente il dottor Torquato non va-
lerebe più che per suoi vestimenti; i quali però vagliono
pochissimo, se a forza di bastonate non gli saran spolve-
rati sopra. E con questo dire si alzò di tavola.
XII.
DOTTORI ED ARCHIDIDASCALI o
FlLOTEO. Questo sacrilego pedante avete per il quarto:
uno de' rigidi censori di filosofi, onde si afferma M o m o ;
uno affettissimo circa il suo gregge di scolastici, onde si
noma^inell'amor socratico; uno, perpetuo nemico del
femineo'^sesso, onde, per non esser fisico, si stima Orfeo,
Museo, Titiro e Anfione. Questo è un di quelli, che,
quando ti '.^irran fatta una bella costruzione, prodotta
una elegante" epistolina, scroccata una bella frase da la
popina ciceroniana, qua è risuscitato Demostene, qua
vegeta Tullio, qua vive Salustio; qua è un Argo, che vede
ogni lettera, ogni sillaba, ogni dizione; qua Radamanto
umbras vocat die silentum; qua Minoe, re di Creta, urnam
movet. Chiamano all'essamina le orazioni; fanno discus-
sione de le frase, con dire: — Queste sanno di poeta,
queste di comico, questa di oratore; questo è grave,
questo è lieve, quello è sublime, quell'altro è humile di"
cenai genus; questa orazione è aspera; sarebbe leve, se
fusse formata cossi; questo è uno infante scrittore, poco
studioso de la antiquità, non redolet Arpinaiem, desipit
Latium. Questa voce non è tosca, non è usurpata da Boc-
caccio, Petrarca e altri probati autori. Non si scrive
homo, ma omo; non h o n o r e, ma onore;
non. P o 1 1 h 1 m n i o, ma P o 1 i i n n i o. — Con queste
trionfa, si contenta di sé, gli piaceno più ch'ogn'altra
cosa i fatti suoi: è un Giove, che, da l'alta specula, re-
(1) De la Caxisa, Princifiio et ilio Diaioso 1. — Interlocutori sono: Eli-
TROPIO, FlLOTEO, ArMESSO.
XII. - Dottori ed Archididascali 69
mira, e considera la vita degli altri uomini suggetta a
tanti errori, calamitadi, miserie, fatiche inutili. Solo lui
è felice, lui solo vive vita celeste, quando contempla la
sua divmità nel specchio d'un Spicilegio, un Di-
zionario, un Calepino, un Lessico, un
Cornucopia, un Nizzolio. Con questa suffi-
cienza dotato, mentre ciascuno è uno, lui solo è tutto.
Se avvien che rida, si chiama Democrito; s'avvien che
si dolga, si chiama Eraclito; se disputa, si chiama Cri-
sippo; se discorre, si noma Aristotele; se fa chimere, si
appella Platone; se mugge un sermoncello, si intitula
Demostene; se construisce Virgilio, lui è il Marone.
Qua corregge Achille, approva Enea, riprende Ettore,
esclama contra Pirro, si condole di Priamo, arguisce
Turno, iscusa Didone, comenda Acate; e in fine, mentre
verbum verbo reddit e infilza salvatiche sinonimie, nihil
divinum. a se alienum putat. E cossi borioso smontando
da la sua catedra come colui ch'ha disposti i cieli, regolati
i senati, domati eserciti, riformati i mondi, è certo che,
se non fusse l'ingiuria del tempo, farrebe con gli effetti
quello che fa con l'opinione. — 0 tempora, o moresl
Quanti son rari quei che intendeno la natura de' parti-
cipi!, degli adverbii, delle coniunctioni! Quanto tempo
è scorso, che non s'è trovato la raggione e vera causa,
per cui l'adiectivo deve concordare col sustantivo, il
relativo con l'antecedente deve coire, e con che regola
ora si pone avanti, ora addietro de l'orazione; e con che
misure e quali ordini vi s'intermesceno quelle interie-
ctioni delentis, gaudentis, heu, ho, ahi, ah, hem
ohe, bui, ed altri condimenti, senza i quali tutto il
discorso è insipidissimo?
Elitropio. Dite quel che volete, intendetela come vi
piace; io dico, che per la felicità de la vita è meglio stimarsi
Creso ed esser povero, che tenersi povero ed esser Creso.
Non è più convenevole alla beatitudine aver una zucca
che ti paia bella e ti contente, che una Leda, una Elena,
che ti dia noia e ti vegna in fastidio ? Che dunque importa
a costoro l'esser ignoranti e ignobilmente occupati, se
70 Parie prima
tanto sor» più felici, quanto più solamente piacene a se
medesimi? Cossi è buona l'erba fresca a l'asino, l'orgio
al cavallo, come a te il pane di puccia e la perdice; cossi
si contenta il porco de le ghiande e il brodo, come un
Giove de l'ambrosia e nettare. Volete forse toglier costoro
da quella dolce pazzia, per la qual cura appresso ti der-
rebono rompere il capo? Lascio che chi sa se è pazzia
questa o quella. Disse un pirroniano: — chi conosce se
il nostro stato è morte, e quello di quei, che chiamiamo
defunti, è vita? — Cossi chi sa se tutta la felicità e vera
beatitudine consiste nelle debite copulazioni e apposi-
zioni de' membri dell'orazioni?
Armesso. Cossi è disposto il mondo: noi facciamo il De-
mocrito sopra gli pedanti e grammatisti; gli solleciti cor-
teggiani fanno il Democrito sopra di noi; gli poco pen-
serosi monachi e preti democnteggiano sopra tutti; e
reciprocamente gli pedanti si beffano di noi, noi di cor-
teggiani, tutti degli monachi; e, in conclusione, mentre
l'uno è pazzo a l'altro, verremo ad esser tutti differenti
in specie e concordanti in genere et numero et casu.
FlL. Diverse per ciò son specie e maniere de le cen-
sure; varii son gli gradi di quelle; ma le più aspre, dure,
orribili e spaventose son degli nostri Archididascali.
Però a questi doviamo piegar le ginocchia, chinar il
capo, converter gli occhi ed alzar le mani, suspirar, la-
crimar, esclamare e dimandar mercede. A voi, dunque,
mi rivolgo, che portate in mano il caduceo di Mercurio
per decidere ne le controversie, e determinate le questioni
eh accadeno tra gli mortali e tra gli dei; a voi, Menippi,
che, assisi nel globo de la luna, con gli occhi ritorti e
bassi ne mirate, avendo a schifo e sdegno i nostri gesti;
a voi, scudieri di Pallade, antesignani di Minerva, ca-
staidi di Mercurio, magnarli di Giove, collattanei di
Apollo, manuarii d'Epimeteo, botteglieri di Bacco, aga-
soni delle Evante, fustigatori de le Edonide, impulsori
delle Tiade, subagitatori delle Menadi, subornatori delle
Bassaridi, equestri delle Mimallonidi, concubinarii della
ninfa Egeria, correttori de l'intusiasmo, demagoghi del
XII. - Dottori ed Archididascali 71
popolo errante, desciferatorl di Demogorgone, Dioscori
delle fluttuanti discipline, tesorieri del Pantamorfo, e
capri emissarii del sommo pontefice Aron; a voi racco-
mandiamo la nostra prosa, sottomettendo le nostre
muse, premisse, subsunzioni, digressioni, parentesi,
applicazioni, clausule, periodi, costruzioni, adiettivazioni,
epitetismi. 0 voi, soavissimi aquarioli, che con le belle
eleganzucchie ne furate l'animo, ne legate il core, ne
fascinate la mente, e mettete in postribulo le meretri-
cole anime nostre; riferite a buon conseglio i nostri bar-
barismi, date di punta a' nostri solecismi, turate le male
olide voragini, castrate i nostri Sileni, imbracate li nostri
Nohemi, fate eunuchi gli nostri macrologi, rappezzate
le nostre eclipsi, affrenate gli nostri taftologi, moderate
1 e nostre acrilogie, condonate a nostre escnlogie, iscu-
sate i nostri perissologi, perdonate a* nostri cacocefati.
Torno a scongiurarvi tutti in generale, e in particulare
te, severo, supercilioso e sabaticissimo maestro.
Eli, Questo proposito mi fa ricordar di fra Ven-
tura il quale, trattando un passo del santo Vangelo, che
dice reddite quae sunt Caesaris Caesari, apportò a proposito
tutti gli nomi de le monete che sono state a' tempi di Ro-
mani, con le loro marche e pesi; che non so da qual dia-
volo di annale o scartafaccio l'avesse racolti; che furono
pili di cento e vinti, per farne conoscere quanto era stu-
dioso e retentivo. A costui, finito il sermone, essendo-
segli accostato un uom da bene, li disse: — Padre mio
reverendo, di grazia, imprestatemi un carlino. — A cui
rispose che lui era de l'ordine mendicante.
Arm. a che fine dite questo?
Eli. Voglio dire che quei che son molto versati circa le
dizioni e nomi, e non son solleciti de le cose, cavalcano
la medesima mula con questo reverendo padre de le mule.
Arm. Io credo che, oltre il studio de l'eloquenza, nella
quale avanzano tutti gli loro antiqui, e non sono inferiori
agli altri moderni, ancora non sono mendichi nella filo-
sofica e altnmente speculative professioni; senza la perizia
de le quali non possono esser promossi a grado alcuno;
Bruno, In Uistitia hilaris, etc. 7.
72 Parte prima
perchè gli statuti de l'università, alll quali sono astretti
per giuramento, comportano che nullus ad philosophiae
et theologiae magisterium et doctoratum promoveatur, nisi
epotaverit e fonte Aristotelis.
Eli, Oh, io ve dirò quel ch'han fatto per non esser
pergiuri. Di tre fontane, che sono nell'Università, al-
l'una hanno imposto nome Fons Aristotelis, l'altra dicono
Fons Phytagorae, l'altra chiamano Fons Platonis. Da
questi tre fonti traendosi l'acqua per far la birra e la
cervosa (de la qual acqua pure non mancano di bere i buoi
e gli cavalli) conseguentemente non è persona, che, con
esser dimorata meno che tre o quattro giorni m que studii
e collegii, non vegna ad esser imbibito non solamente
del fonte di Aristotele, ma e oltre di Pitagora e Platone.
Arm. Oimè, che voi dite pur troppo il vero. Quindi
avviene, o Teofllo, che li dottori vanno a buon mercato
come le sardelle; perchè, come con poca fatica si creano, si
trovano, si pescano, cossi con poco prezzo si comprano.
Or dunque, tale essendo appresso di noi il volgo di dot-
tori in questa etade (riserbando però la riputazione d'al-
cuni celebri e per l'eloquenza e per la dottrine e per la
civil cortesia, quali sono un Tobia Mattheo, un Culpe-
pero, e altri che non so nominare), accade che tanto
manca che uno, per chiamarsi dottore, possa esser sti-
mato aver novo grado di nobiltade, che più tosto è su-
spetto di contraria natura e condizione, se non sia parti-
colarmente conosciuto. Quindi accade, che quei, che per
linea o per altro accidente son nobili, ancor che gli s'ag-
giunga la principal parte di nobiltà, che è per la dottrina,
si vergognano di graduarsi e farsi chiamar dottori, bastan-
dogli l'esser dotti. E di queste arrete maggior numero ne
le corti, che ritrovarsi possano pedanti nell'universitade.
* (i)
Burchio. Con questo vostro dire volete ponere sotto
sopra il mondo .
(I) De l'Infinito Uriiverso e Monc/i. Dialogo III. — Interloquisconj Elpino,
LOTEO. FrACASTOBIO. BuRCHìO.
XII. - Dottori ed Archididascali 73
Fracastorio. Ti par che farebbe male un che volesse
mettere sotto sopra il mondo rinversato?
BuR. Volete far vane tante fatiche, studii, sudori di
fisici auditi, de cieli e mondi, ove s'han lambiccato il
cervello tanti gran commentatori, parafrasti, glosatori,
compendiarii, summisti, scoliaton, traslatatori, que-
stionarii, teoremisti? ove han poste le sue base e gittati
i suoi fondamenti i dottori profondi, suttili, aurati, magni,
inexpugnabili, irrefragabili, angelici, serafici, cherubici
e divini ?
Fra. Adde gli frangipetri, sassifnjgi, gli cornupeti e
calcipotenti. Adde gli profundivedi, palladii, olimpici,
fìrmamentici, celesti empirici, altitonanti ?
BuR. Le deveremo tutti a vostra instanza mandarle
in un cesso? Certo, sarà ben governato il mondo, se
saranno tolte via e dispreggiate le speculazioni di tanti
e sì degni filosofi!
Fra. Non è cosa giusta, che togliamo agli asini le sue
lattuche, e voler che il gusto di questi sia simile al nostro.
La varietà d'ingegni e intelletti non è minor che di spirti
e stomachi.
BuR. Volete che Platone sia uno ignorante, Aristo-
tele sia un asino, e quei, che l'hanno seguitati, sieno in-
sensati, stupidi e fanatichi ?
* (1)
* *
• ... 1
Prudenzio. Dite quel che vi piace, tiratela a vostro bel
piacer dove vi pare: io sono amico de l'antiquità; e quanto
appartiene a le vostre opinioni o paradossi, non credo,
che sì molti e sì saggi sien stati ignoranti, come pensate
voi e altri amici di novità.
Teofilo. Bene, maestro Prudenzio, si questa volgare e
vostra opinione per tanto è vera, in quanto che è antica,
certo era falsa quando la fu nova. Prima che fusse questa
filosofìa conforme al vostro cervello, fu quella degli Caldei
0) Cena delle Ceneri, Dialogo I.
74 Parte prima
Egizll. Maghi, Orfici, Pitagorici ed altri di prima memoria,
conforme al nostro capo; da' quali prima si nbellorno
questi insensati e vani logici e matematici, nemici non
tanto de l'antiquità, quanto alleni da la verità. Poniamo
dunque da canto la raggione de l'antico e novo, atteso
che non è cosa nova che non possa esser vecchia, e non è
cosa vecchia, che non sii stata nova, come ben notò il
vostro Aristotele.
Frulla. S'io non parlo, scoppiare, creparò certo. Avete
detto il vostro Aristotele, parlando a mastro
Prudenzio. Sapete, come intendo, che l'Aristotele sii
suo, idest lui sii Peripatetico? (Di grazia, facciamo que-
sto poco di digressione per modo di parentesi). Come di
dui ciechi mendichi a la porta de l'arcivescovato di Na-
poli l'uno SI diceva Guelfo e l'altro Ghibellino; e con que-
sto si cominciorno sì crudamente a toccar l'un l'altro
con que' bastoni, ch'aveano, che, si non fussero stati di-
visi, non so com.e sarebbe passato il negozio. In questo
se gli accosta un uom da bene, e li disse: — Venite qua,
tu e tu, orbo mascalzone: che cosa è Guelfo? che cosa è
Ghibellino? che vuol dir esser Guelfo ed esser Ghibel-
lino? — In verità, l'uno non seppe punto che rispondere,
né che dire. L'altro si risolse dicendo: — Il signor Pietro
Costanzo, che è mio padrone, e al quale io voglio molto
bene, è un Ghibellino.
Cossi a punto molti sono Peripatetici, che si adirano,
se scaldano e s'imbraggiano per Aristotele, voglion defe-
ndere la dottrina d'Aristotele, son inimici di que' che
non sono amici d'Aristotele, voglion vivere e morire per
Aristotele, 1 quali non intendono né anche quel che signi-
ficano 1 titoli de' libri d'Aristotele. Se volete ch'io ve ne
dimostri uno, ecco costui, al quale avete detto il vostro
Aristotele, e che a volte a volte ti sfodra un Ari'
toteles noster, Peripateticorum princeps, un Plato noster,
et ultra,
Pru. Io fo poco conto del vostro conto, niente istimo
la vostra stima.
PARTE SECONDA
I.
LA VECCHIEZZA DI GIOVE <"
Sofia .. Giove... comincia ad esser maturo, e non admette
oltre nel conseglio, eccetto che persone, ch'hanno m capo
la neve, alla fronte gli solchi, al naso gli occhiali, al mento
la farina, alle mani il bastone, ai piedi il piombo: in testa,
dico, la fantasia retta, la cogitazion sollecita, la memoria
ritentiva; ne la fronte la sensata apprensione, negli occhi
la prudenza, nel naso la sagacità, nell'orecchio l'atten-
zione, ne la lingua la veritade, nel petto la sinceritade,
nel core gli ordinati affetti, ne le spalli la pazienza, nel
tergo l'oblivio de le offese, nel stomaco la discrezione,
nel ventre la sobrietade, nel seno la continenza, ne le
gambe la constanza, ne le piante la rettitudine, ne la
sinistra il pentateuco di decreti, ne la destra la raggione
discussiva, la scienza indicativa, la regolativa giustizia,
l'imperativa autoritade e la podestà executiva.
Saulino. Bene abituato: ma bisogna, che prima sia
ben lavato, ben npurgato.
SoF. Ora non son bestie, nelle quali si trasmute; non
Europe, che l'incornino in toro; non Danae, che lo im-
pallidiscano in oro; non Lede, che l'impiumino in cigno,
come ninfe Asterie e frigii fanciulli, che lo imbecchino
in aquila; non Dolide che lo inserpentiscano; non Mne-
mosine, che lo degradino in pastore; non Antiope, che
lo semibestialino in Satiro; non Alcmene, che lo trasmu-
tino in Anfitrione; perchè quel temone, che volgeva e
(1) Spaccio della Bestia trionfante. Dialogo I. — Interlocutori SoFlA,
Saulino, Mercurio
80 Parte seconda
dirizzava questa nave de le metamorfosi, è dovenuto sì
fiacco, che poco più che nulla può resistere a l'empito
de le onde, e forse che l'acqua ancora gli va mancando a
basso. La vela è di maniera tale stracciata e sbusata, che
in vano per ingonfiarla il vento soffia. Gli remi, ch'ai
dispetto di contrarli venti e turbide tempeste solcano
risospingere il vascello avanti, ora, faccia quantosivoglia
calma, e sia a sua posta tranquillo il campo di Nettuno,
in vano il comite sibilarà a orsa, a poggia, a la sia, a
la voga, perchè gli remigatori son dovenuti come pa-
ralitici.
Saul. Oh gran caso!
SoF. Indi non fia chi più dica e favoleggi Giove per
carnale e voluttuario; perchè il buon padre s'è addovato
il spinto.
Saul. Come colui, che tenea già tante moglie, tante
ancelle di moglie e tante concubine, al fine dovenuto qual
ben satollo, stuffato e lasso, disse: Vanità, vanità,
ogni cosa è vanità?
SoF. Pensa al suo giorno del giudizio, perchè il ter-
mine degli o più o meno o a punto trentasei mila anni,
come è publicato, è prossimo; dove la revoluzion de
l'anno del mondo minaccia, ch'un altro Celio vegna a
repigliar il dominio, e per la virtù del cangiamento,
ch'apporta il moto de la trepidazione, e per la varia, e
non più vista, né udita relazione e abitudine di pianeti,
teme che il fato disponga, che l'ereditaria successione
non sia come quella della precedente grande mondana
revoluzione, ma molto vana e diversa, cracchieno quanto-
sivoglia gli pronosticanti astrologi e altri divinatori.
Saul. Dunque, si teme che non vegna qualche più
cauto Celio, che, all'esempio del Prete Gianni, per obviare
agli possibili futuri inconvenienti, non bandisca gli suoi
figli agli serragli del monte Amarat ed oltre, per tema
che qualche Saturno non lo castre, non faccia mai difetto
di non allacciarsi le mutande di ferro, e non si riduca a
dormire senza braghe di diamante. Laonde, non succe-
dendo l'antecedente effetto, verrà chiusa la porta a tutti
I. - La vecchiezza di Giove 81
gli altri conseguenti; e in vano s'aspetterà il giorno na-
tale della dea di Cipro, la depressione del zoppo Saturno,
l'essaltazion di Giove, la moltiplicazion di figli e figli de'
figli, nipoti e nipoti de' nipoti, sino a la tantesima ge-
nerazione, quantesima è a' tempi nostri, e può sin al
prescritto termine essere negli futuri.
Nec iterum ad Troiam magnus mittetur Achilles.
SoF. In tal termine, dunque, essendo la condizion de
le cose, e vedendo Giove ne l'importuno memoriale de
la sfiancata forza e snervata virtude appressarsi come la
sua morte, cotidianamente fa caldi voti ed effonde fer-
venti preghiere al fato, acciò che le cose negli futuri se-
coli in suo favore vegnano disposte.
Saul. Talché, o Sofia, (cosa inaudita!) questo nume
ancora hav'egli dove effondere orazioni? Esso ancora
versa nel timore della giustizia? Mi maravigliavo io,
perchè gli Dei sommamente temevano di spergiurare
la Stigia palude; ora comprendo, che questo procede dal
fio, che denno pagare anch'essi.
SoF. Cossi è. Ha ordinato al suo fabro Vulcano, che non
lavore de' giorni di festa; ha comandato a Bacco, che non
faccia comparir la sua corte, e non permetta debaccare le
sue Evanti, fuor che nel tempo di carnasciale, e nelle
feste principali de l'anno, solamente dopo cena, appresso
il tramontar del sole, e non senza sua speciale ed espressa
licenza. Momo, il quale avea parlato contra gli dei, e,
comò a essi pareva, troppo rigidamente arguiti gli loro
errori, e però era stato bandito dal concistoro e conversa-
zion di quelli, e relegato alla stella, ch'è nella punta de la
coda di Calisto, senza facultà di passar il termine di quel
parallelo, a cui sottogiace il monte Caucaso, dove il po-
vero dio è attenuato dal rigor del freddo e de la fame;
ora è richiam.ato, giustificato, restituito al suo stato pristino
e posto precone ordinario ed estraordinario con amplis-
simo privilegio di posser riprendere gli vizii senza aver
punto risguardo a titolo o dignitade di persona alcuna.
Ha vietato a Cupido d'andar più vagando, in presenza
degli uomini, eroi e dei, cossi sbracato, come ha di costu-
82 Parte seconda
me; ed ingiontoli, che non offenda oltre la vista de' cell-
coli, mostrando le natiche per la via lattea e Olimpico
senato: ma che vada per l'avenire vestito almeno da la
cintura a basso; e gli ha fatto strettissimo mandato, che
non ardisca oltre di trar dardi, se non per il naturale, e
l'amor degli uomini faccia simile a quello degli altri ani-
mali, facendoli a certe e determinate staggloni Inamorare;
e cossi, come agli gatti è ordinano il marzo, agli asini
il maggio, a questi sieno accomodati que' giorni, ne' quali
se innamorò il Petrarca di Laura, e Dante di Beatrice;
e questo statuto è in forma de in/en'msinoal prossimo con-
cilio futuro, entrante il sole al decimo grado di Libra, il
quale è ordmato nel campo del fiume Eridano, là dove è
la piegatura del ginocchio d'Orione. Ivi si ristorare quella
legge naturale, per la quale è lecito a ciascun maschio di
aver tante moglie, quante ne può nutrire e impregnare;
perchè è cosa superflua e ingiusta, e a fatto contraria alla
regola naturale, che in una già impregnata e gravida
donna, o in altri soggetti peggiori, come altre illegittime
procacciate — che, per tema di vituperio, provocano
l'aborso — vegna ad esser sparso quell'omifìco seme,
che potrebbe suscitar eroi, e colmar le vacue sedie de
l'empireo.
Saul. Ben provisto, a mio giudizio: che più ?
SoF. Quel Ganimede, ch'ai marcio dispetto de la ge-
losa Giunone, gli era tanto in grazia, e a cui solo liceva
d'accostarsegli, e porgergli li fulmini trisolchi, mentre a
lunghi passi a dietro riverentemente si tenevano gli dei,
al presente credo che, se non ha altra virtute, che quella,
che è quasi persa, è da temere che, da paggio di Giove,
non debba aver a favore di farsi come scudiero a Marte.
Saul. Onde questa mutazione?
SoF. E da quel che è detto del cangiamento di Giove,
e perchè lo invidioso Saturno ai giorni passati, con fìnta
di fargli de' vezzi, gli andò di maniera tale rimenando la
ruvida mano per il mento e per le vermiglie gote, che da
quel toccamento se gl'impela il volto, di sorte che pian
piano va scemando quella grazia, che fu potente a rapir
I. — La vecchiezza di Giove 83
Giove dal cielo, e farlo essere rapito da Giove In cielo, ed
onde il figlio d'un uomo venne deificato, ed ucellato il
padre degli Dei.
Saul. Cose troppo stupende! Passate oltre.
Sofia. Ieri, che fu la festa in commemorazion del
giorno de la vittoria de Dei centra gli Giganti, im-
mediatamente dopo pranso, quella, che sola governa la
natura de le cose, e per la qual gode tutto quel che
gode sotto il cielo, avendo ordinato il ballo, se gli fece
innante con quella grazia che consolarebbe ed invaghi-
rebbe il turbido Caronte; e, come è il dovere de
l'ordine, andò a porgere la prima mano a Giove.
Il quale in loco di quel ch'era uso di fare, dico, di
abbracciarla col sinistro braccio, e strenger petto a petto,
e con le due prime dita de la destra premendogli il labro
inferiore, accostar bocca a bocca, denti a denti, lingua
a lingua (carezze più lascive, che possano convenire a un
padre in verso de la figlia) e con questo sorgere al ballo, —
ieri, impuntandogli la destra al petto, e ritenendola a
dietro (come dicesse: Noli me tangere) con un compassio-
nevole aspetto, ed una faccia piena di devozione: — Ah
Venere, Venere, li disse: è possibile che pur una volta al
fine non consideri il stato nostro, e specialmente il tuo?
Pensi pur che sia vero quello che gli uomini s'imaginano di
noi che chi è vecchio, è sempre vecchio, chi è giovane, è
sempre giovane, chi è putto, è sempre putto, cossi perse-
verando eterno, come quando da la terra siamo stati as-
sunti al cielo; e cossi, come là la pittura e il ritratto nostro
si contempla sempre medesimo, talmente qua non si
vada cangiando e ricangiando la vital nostra complessione?
Oggi per la festa mi si rinova la memoria di quella dispo-
sizione, nella quale io mi ritrovavo quando fulminai e
debellai que* fieri giganti, che ardirò di ponere sopra
Pelia Ossa, e sopra Ossa Olimpo: quando io il feroce Bria-
reo, a cui la madre Terra avea donate cento braccia e
cento mani, acciò potesse con l'empito di cento versati
scogli centra gli dei debellare il cielo, fui potente di abis-
84 Parte seconda
sare alle nere caverne dell'orco voraginoso: quando rele-
gai il presuntuoso Tlfeo là, dove il mar Tirreno col Jonio
si conglonge; spingendogli sopra l'isola Trinacria, afin
che al VIVO corpo la fusse perpetua sepoltura. Onde
dice un poeta:
Ivi a rardiio ed audace Tifeo, ^
Che carco giace del Trinacrio pondo^
Preme la destra del monte Peloro
La greve salma; e preme la sinistra
Il nomato Pachin; e V ampie spalli.
Ch'ai peso han fatto i calli,
Calca il sassoso e vasto Liliheo;
E '/ capo orrendo aggrieva Mongihello,
Dove col gran martello
Folgori tempra il scabroso Vulcano.
Io, che sopra quell'altro ho fulminata l'isola di Pro-
chita; io, ch'ho reprimuta l'audacia di Licaone, ed a tempo
di Deucalione liquefeci la terra al ciel rubella; e con tanti
altri manifesti segnali mi son mostrato degnissimo della
mia autontade; or non ho polso di contrastar a certi mezzi
uomini, e mi bisogna, al grande mio dispetto, a voto di
caso e di fortuna lasciar correre il mondo; e chi meglio la
seguita, l'arrive, e chi la vence, la goda. Ora son fatto qua!
quel vecchio esopico lione, a cui impune l'asino dona di
calci, e la slmia fa de le beffe, e, quasi come ad un insen-
sibil ceppo, il porco vi si va a fricar la pancia polverosa.
Là dove io avevo nobilissimi oracoli, fani ed altari, ora,
essendo quelli gittati per terra ed indegnissimamente
profanati, in loco loro han dirizzate are e statue a certi,
ch'io mi vergogno nominare, perchè son peggio che li
nostri satiri e fauni e altri semibestie, anzi più vili che gli
crocodilli d'Egitto; perchè quelli pure, magicamente
guidati, mostravano qualche segno de divinità; ma co-
storo sono a fatto Iettarne de la terra. Il che tutto è prove-
nuto per la ingiuria della nostra nemica fortuna, la quale
non l'ha eletti e inalzati tanto per onorar quelli, quanto
per nostro vilipendio, dispreggio e vituperio maggiore
1. - La vecchiezza di Givve 85
Le leggi, statuti, culti, sacrlfìcli e ceremonie, ch'Io già per
li miei Mercurii ho clonate, ordinati, comandati e insti-
tulti, son cassi e annullati; e in vece loro si trovano le più
sporche e indegnissime poltronarie, che possa giamai
questa cieca altnmente fengere, a fine che, come per noi
gli omini doventavano eroi, adesso dovegnano peggio che
bestie. Al nostro naso non ariva più fumo di rosto, fatto
in nostro servizio dagli altari; ma, se pur tal volta ne viene
appetito, ne fia mestiero d'andar a sbramarci per le co-
cine, come dei patellari. E benché alcuni altari fumano
d'incenso {quod dai avara manus) a poco a poco quel fumo
dubito che non se ne vada in fumo, a fine che nulla ri-
magna di vestigio ancora delle nostre sante instituzioni.
Ben conoscemo per prattica, che il mondo è a punto come
un gagliardo cavallo, il quale molto ben conosce, quando
è montato da uno, che non lo può strenuamente maneg-
giare, lo spreggia, e tenta di toglierselo da la schena;
e, gittato che l'ha in terra, lo viene a pagar di calci. Ecco,
a me si dissecca il corpo, e mi s'umetta il cervello; mi
nascono i tofi, e mi cascano gli denti; mi s'inora la carne
e mi s'inargenta il crine; mi si distendeno le palpebre e mi
si contrae la vista; mi s'indebolisce il fiato e mi si rinforza
la tosse; mi si fa fermo il sedere e trepido il caminare; mi
trema il polso e mi si saldano le costa; mi s'assottigliano
gli articoli e mi s'ingrossano le gionture: e in conclusióne
(quel che più tormenta) perchè mi s'indurano gli talloni
e mi s'ammolla il contrapeso; l'otncello de la cornamusa
mi s'allunga ed il bordon s'accorta:
La mia Giunon di me non è gelosa.
La mia Giunon di me non ha più cura.
Del tuo Vulcano (lasciando gli altri dei da canto) voglio
che consideri tu medesima. Quello, che con tanto vigore
solca percuotere la salda incudine, che agli fragrosi schias-
si, quali dall'ignivomo Etna uscivano a l'orizzonte, Eco
dalle concavitadi del campano Vesuvio e del sassoso Ta-
burno, rispondeva — adesso dove è la forza del mio fabro
e tuo consorte? Non è ella spinta? non è ella spinta?
86 Parte seconda
Forse che ha più nerbo da gonfiar 1 folli, per accendere
il foco? Forse ch'ha più lena d'alzar il gravoso martello,
per battere l'infocato metallo? Tu ancora, mia sorella,
se non credi ad altri, dimandane al tuo specchio; e vedi
come per le rughe, che ti sono aggionte, e per gli solchi,
che l'aratro del tempo t'imprime ne la faccia, porgi giorno
per giorno maggior difficultade al pittore, s'egli non vuol
mentire, dovendoti ritrare per il naturale. Ne le guance,
ove ridendo formavi quelle tue fossette tanto gentili, doi
centri, doi punti, in mezzo de le tanto vaghe pozzette,
facendoti il riso, che imblandiva il mondo tutto, giongere
sette volte maggior grazia al volto, onde (come da gli occhi
ancora) scherzando scoccava gli tanto acuti e infocati
strali Amore; adesso, cominciando dagli angoli de la bocca
sino a la già commemorata parte, da l'uno e altro canto
comincia a scuoprirsi le forma di quattro parentesi, che
ingemmate par che ti vogliano, strengendo la bocca,
proibir il riso con quelli archi circonferenziali, ch'appaiono
tra gli denti ed orecchi, per farti sembrar un crocodillo.
Lascio che, o ridi o non ridi, ne le fronte il geometra
interno, che ti dissecca l'umido vitale, e con far più e
più sempre accostar la pelle a l'osso, assottigliando la
cute, ti fa profondar la descrizione de le parallele a quattro
a quattro, mostrandoti per quelle il diritto camino, il qual
ti mena come verso il defuntoro. — Perchè piangi Ve-
nere? Perchè ridi, Momo? disse, vedendo questo mo-
strar I denti, e quella versar lacrime. Ancora Momo sa,
quando un di questi buffoni (de' quali ciascuno suol por-
gere più veritade di fatti suoi a l'orecchi del prencipe,
che tutto il resto de la corte insieme, e per quali per il
più color che non ardiscono di parlare, sotto specie di
gioco parlano e fanno muovere e muovono de* propositi)
disse che Esculapio ti avea fatta provisione di polvere di
corno di cervio e di conserva di coralli, dopo averti ca-
vate due mole guaste tanto secretamente, che ora non è
pietruccia in cielo, che noi sappia. Vedi, dunque,
cara sorella, come ne doma il tempo traditore, come tutti
siamo suggetti alla mutazione: e quel che più tra tanto ne
I. - La vecchiezza di Giove 87
affllge, è, che non abbiamo certezza ne speranza alcuna di
ripigliar quel medesimo essere a fatto, in cui tal volta
fummo. Andiamo, e non torniamo medesimi; e, come
non avem.o memoria di quel che eravamo, prima che fus-
semo in questo essere, cossi non possemo aver saggio di
quel che saremo da poi. Cossi il timore, pietà e religione
di noi, l'onore, il rispetto e l'amore vanno via; li quali
appresso la forza, la previdenza, la virtù, dignità, maestà
e bellezza, che volano da noi, non altrlmente che l'ombra
insieme col corpo si parteno. La veritade sola, con l'abso-
luta vlrtude è inmutabile ed immortale: e, se tal volta
casca e si sommerge, medesima necessariamente al suo
tempo risorge, porgendogli il braccio la sua ancella Sofìa.
Guardiamoci, dunque, di offendere del fato la divinitade.
facendo torto a questo gemino nume a lui tanto racco-
mandato e da lui tanto faurito. Pensiamo al prossimo stato
futuro, e non, come quasi poco curando il nume univer-
sale, manchiamo d'alzare il nostro core ed affetto e quello
elargitore d'ogni bene e distributor de tutte l'altre sorti.
Supplichiamolo che ne la nostra transfusione, o transito,
o metempsicosi, ne dispense felici genii: atteso che, quan-
tunque egli sia inesorabile, bisogna pure aspettarlo con
gli voti o di essere conservati nel stato presente, o di su-
bintrar un altro megliore, o simile, o poco peggiore. Lasci
che l'esser bene affetto verso il nume superiore è come un
segno di futuri effetti favorevoli da quello; come chi è
prescritto ad esser uomo, è necessario ed ordinario, eh il
destino lo guida, passando per il ventre de la madre; il
spirto predestinato ad incorporarsi in pesce, bisogna che
prima vegna attuffato a l'acqui; talmente a chi è per esser
favorito dagli numi conviene che passe per mezzo de
buoni voti ed operazioni.
Bruno, In trìstHia hilaris, etc.
II.
GLI DEI A CONSIGLIO"*
— Con questo dire, di passo m passo sospirando, il gran
padre de la patria celeste, avendo finito il suo raggiona-
mento con Venere, il proposito di ballare converse in pro-
ponimento di fare il gran conseglio con gli dei de la tavola
ritonda; cioè tutti quei che non sono apposticci, ma na-
turali, ed han testa di conseglio, esclusi gli capi di montone
corna di bue, barbe di capro, orecchie d'asino, denti di
cane, occhi di porco, nasi di simia, fronti di becco, sto-
machi di gallina, pancle di cavallo, piedi di mulo e code
di scorpione. Però, data la crlda per bocca di Miseno,
figlio di Eolo (perchè Mercurio sdegna l'essere, come an-
ticamente fue, trombettiero e pronunziator di editto),
que' tutti dei, ch'erano dispersi per il palagglo, si trovorno
ben presto radunati. Qua dopo tutti, essendo fatto alquanto
di silenzio, non men con triste e mesto aspetto, che con
alta presenza e preeminenza maestrale, menando i passi
Giove, prima che montasse in solio e comparisse in tri-
bunale, se gli appresenta Momo; il quale, con la solita
libertà di parlare, disse cossi con voce tanto bassa, che fu
da tutti udita: — Questo concilio deve essere differito
ad altro giorno e altra occasione, o padre, perchè questo
umore di venir in conclave adesso, inmediate dopo pranso
pare che sia occasionato dalla larga mano del tuo genero
copplero; perchè il nettare, che non può essere dal sto-
maco ben digerito, non consola o refocilla, ma altera e
(1) Seconda parte del primo Dialogo.
II. — Gli Dei a consiglio 89
contrista la natura e perturba la fantasia, facendo altri
senza proposito gai, altri disordinatamente allegri, altri
superstiziosamente devoti, altri vanamente eroici, altri
colerici, altri machinatori di gran castegli, sin tanto che,
col svanimento di medesime fumositadi, che passano per
diversamente complessionati cervelli, ogni cosa casca e va
in fumo. A te. Giove, par che abbia commosse le specie di
gagliardi e fluttuanti pensieri, e t'abbia fatto dovenir
triste; per ciò che inescusabilmente ognuno ti giudica,
benché io solo ardisca di dirlo, vinto e oppresso da l'atra
bile, perchè in questa occorrenza, che non siamo conve-
nuti provisti a far conseglio, in questa occasione, che
siamo uniti per la festa, in questo tempo dopo pranso,
e con queste circostanze d'aver ben mangiato e meglio
^bevuto, volete trattar di cose tanto seriose, quanto mi par
intendere e alcunamente posso annasare col discorso. —
Ora, perchè non è consuetudine, né pur molto lecito agli
altri dei di disputar con Momo, Giove, avendolo con un
mezzo e alquanto dispettoso riso remirato, senza punto
rispondergli, monta su l'alta catedra, siede, remira in
cerchio la corona de l'assistente gran senato. Da qual
sguardo convien ch'a tutti venesse a palpitar il core e per
scossa di maraviglia e per punta di timore e per empito di
riverenza e di rispetto, che suscita ne' petti mortali e im-
mortali la maestade, quando si presenta; appresso, avendo
alquanto bassate le palpebre, e poco dopo allunate le pu-
pille in alto, e sgombrato un focoso suspiro dal petto,
proruppe in questa sentenza:
Orazione di Giove.
— Non aspettate, o Dei, che, secondo la mia consue-
tudine, v'abbia ad intonar ne l'orecchio con uno artifi-
cioso proemio, con un terso filo di narrazione e con un de-
lettevole agglomeramento epilogale. Non sperate ornata
tessitura di paroli, ripolita infìlacciata di sentenze, ricco
apparato de eleganti propositi, suntuosa pompa di eia-
90 Parie seconda
borati discorsi e, secondo l'instituto di oratori, concetti
posti tre volte a la lima, prima ch'una volta a la
lingua: non hoc
Non hoc ista sibi tempas spectacula poscit.
Credetemi, Dei, perchè crederete il vero; già dodici
volte ha ripiene l'inargentate corna la casta Lucina, ch'io
son stato in la determinazione di far questa congregazione
oggi, in questa ora e con tai termini, che vedete. E in
questo mentre son stato più occupato sul considerar quello
che devo a nostro malgrado tacere, che mi sia stato lecito
di premeditar sopra quello che debbo dire. Odo che vi
maravigliate, perchè a questo tempo, rlvocandovi da vo-
stro spasso, v'abbia fatto citar alla congregazione e dopo
pranso a subitanio concilio. Vi sento mormorare, che in
giorno festivo vi vien tocco il core di cose seriose, e non
è di voi chi a la voce de la tromba e proposito de l'editto
non sia turbato. Ma io, benché la raggione di queste azioni
e circostanze pende dal mio volere, che l'ha possuto in-
stituire, e la mia voluntà e decreto sia l'istessa raggione
de la giustizia, tutta volta non voglio mancar, prima che
proceda ad altro, di liberarvi da questa confusione e ma-
raviglia. Tardi, dico, gravi e pesati denno essere gli pro-
ponimenti; maturo, secreto e cauto deve essere il conseglio;
ma l'essecuzlone bisogna che sia alata, veloce e presta.
Però non credete, che intra il desinare qualche strano
umore m'abbia talmente assalito che, dopo pranso, mi
tegna legato e vinto, onde non a posta di raggione, ma per
impeto di nettareo fumo proceda a l'azione; ma dal me-
desimo giorno de l'anno passato cominciai a consultar
entro di me quel tanto, che dovevo esseguire in questo
giorno ed ora. Dopo pranso, dunque, perchè le nove triste
non è costume d'apportarle a stomaco diggiuno; all'im-
provviso, perchè so multo bene che non cossi come alla
festa solete convenir volentieri al conseglio, il quale è
intensissimamente da molti di voi fuggito: mentre chi
lo teme per non farsi di nemici, chi per incertezza di chi
vince e di chi perde, chi per timore ch'il suo consiglio non
II. - Gli Dei a consiglio 91
sia tra' dispregglati, chi per dispetto per quel, che il suo
parere tal volta non è stato approvato, chi per mostrarsi
neutrale nelle cause pregiudiciose o de l'una ode l'altra
parte, chi per non aver occasione d'aggravarsi la con-
scienza; chi per una, chi per un'altra causa.
Or vi ricordo, o fratelli e figli, che a quelli, ai quali il
fato ha dato di posser gustar l'ambrosia e bevere il net-
tare e goder il grado della maestade, è ingionto ancora di
comportar tutte gravezze, che quella apporta seco. 1 1
diadema, la mitra, la corona, senza aggravarla, non ono-
rano la testa; il manto regale e il scettro non adornano senza
impacciar il corpo. Volete sapere per che io a ciò abbia
impiegato il giorno di festa, e specialmente tale, quale è
la presente? Pare a voi, dunque, pare a voi, che sia degno
giorno di festa questo? E credete voi, che questo non deve
essere il più tragico giorno di tutto l'anno? Chi di voi,
dopo ch'arra ben pensato, non giudicare cosa vituperosis-
sima di celebrar le commemorazion de la vittoria contra
gli giganti a tempo che dagli sorgi de la terra siamo di-
spreggiati e vilipesi ? Oh che avesse piaciuto a l'onnipo-
tente irrefragabil fato, che allora fussemo stati discacciati
dal cielo, quando la nostra rotta per la dignità e virtìi de*
nemici non era vituperosa tanto; perchè oggi siamo nel
cielo peggio che se non vi fussemo, peggio che se ne fus-
semo stati discacciati, atteso che quel timor di noi, che ne
rendea tanto gloriosi, è spento; la gran riputazione de la
maestà, providenza e giustizia nostra è cassa; e, quel che
è peggio, non abbiamo facultà e forza di riparar al nostro
male, di vendicar le nostre onte; perchè la giustizia,
con la quale il fato governa gli governatori del mondo ne
ha a fatto tolta quella autorità e potestà la quale abbiamo
tanto male adoperata, discoperti e nudati avanti gli occhi
di mortali e fattigli manifesti inostri vituperii; e fa che il
cielo medesimo con cossi chiara evidenza, come chiare
ed evidenti son le stelle, renda testimonianza de' misfatti
nostri. Perchè vi si vedeno aperto gli frutti, le reliquie,
gli riporti, le voci, le scritture, le istorie di nostri adulterii,
incesti, fornicazioni, ire, sdegni, rapine e altre iniquitadi
92 Parte seconda
e delitti, e che, per premio di errori, abbiamo fatto mag-
giori errori, malzando al cielo i trionfi de' vizii e sedie
de sceleragini, lasciando bandite, sepolte e neglette ne
l'inferno le virtudi e la giustizia.
E per cominciare da cose minori, come da peccati ve-
niali: perchè solo il Deltaton, dico quel triangolo,
he ottenute quattro stelle appresso il capo di Medusa,
sotto le natiche di Andromeda e sopra le corna del Mon-
tone? Per far vedere la parzialità, che si trova tra gli dei.
Che fa il Delfino, gionto al Capricorno da la parte set-
tentrionale, impadronito di quindeci stelle? Vi è, a fine
che si possa contemplar l'assumpzione di colui, che è
stato buon senzale, per non dir ruffiano, tra Nettuno e
Amfitrite. Perchè le sette figlie d'Atlante soprasiedeno
appresso il collo del bianco Toro? Per essersi, con lesa
maestà di noi altri dei, vantato il padre di aver sostenuti
noi e il cielo rumante; o pur per aver in che mostrar la
sua leggerezza i numi, che vi l'han condotte. Perchè Giu-
none ha ornato il Granchio di nove stelle, senza le quat-
tro altre circonstanti, che non fanno imagine? Solo per
un capriccio, perchè forficò il tallone ad Alcide a tempo
che combatteva con quel gigantone. Chi mi saprà dar
altra caggione che il semplice e irrazionai decreto de' superi
perchè il Serpentauro, detto da noi Greci Ofiulco, ottiene
con la sua colobnna il campo di trentasei stelle P Qual
grave ed oportuna caggione fa al Sagittario usurparsi
trenta e una stella? Perchè fu figlio di Euschemia, la quale
fu nutnccia o baila de le Muse. Perchè non più tosto a la
madre .^ Perchè lui oltre seppe ballare e far i giuochi de
le bagattelle. Aquario, perchè ha quaranta cinque stelle
appresso il Capricorno? Forse, perchè salvò la figlia di
Venere Facete nel stagno P Perchè non altri, agli quali
noi Dei siamo tanto ubligati, che sono sepolti in terra,
ma più tosto costui ch'ha fatto un serviggio indegno di
tsmta ricompensa, è stato conceduto quel spacio? Perchè
cossi ha piaciuto a Venere, Gli Pesci, benché meritino
qualche mercede per aver dal fiume Eufrate cacciato quel
l'ovo, che, covato da la colomba, ischiuse la misericordia
II. - Gli Dei a consiglio 93
de la dea di Pafo, tutta volta paionvi soggetti d'ottenlr
rornamento di trentaquattro stelle, senza altre quattro
circostanti, e abitare fuor de l'acqui nella region più no-
bile del cielo? Che fa Orione, tutto armato a scrimir solo,
con le spalancate braccia, impiastrato di trent'otto stelle,
ne la latitudine australe verso il Tauro? Vi sta per sem-
plice capriccio di Nettuno, a cui non ha bastato di privi-
legiarlo su l'acqui, dove ha il suo legitimo imperio; ma
oltre, fuor del suo patrimonio, si vuol con sì poco pro-
posito prevalere. La Lepre, il Cane e la Cagnolina sa-
pete ch'hanno quarantatre stelle ne la parte meridionale,
non per altro, che per due o tre frascarie non minori che
quella, che vi fa essere appresso la Idra, la Tassa e il
Corvo, che ottegnono quarant'e una stella, per memoria
di quel che mandaro una volta gli dei il Corvo a prender
l'acqua da bere; il qual per il camino vedde un fico, che
avea le fiche o gli fichi (perchè l'uno e l'altro geno è ap-
provato da' grammatici, dite come vi piace): per gola
quell'ucello aspettò, che fussero maturi, de' quali alfine
essendosi pasciuto, si ricordò de l'acqua; andò per empir
la lancella, veddevi il dragone, habbe paura; e ritornò
con la giarra vota agli dei: li quali, per far chiaro quanto
hanno ben impiegato l'ingegno e il pensiero, hanno de-
scritta in cielo questa isturia di sì gentile e accomodato
servitore. Vedete quanto bene abbiamo speso il tempo,
l'inchiostro e la carta. La Corona austnna, che sotto l'arco
e' piedi di Sagittario si vede ornata di tredeci topacii
lucenti, chi l'ha predestinata ad essere eternamente senza
testa? Che bel vedere volete voi che sia di quel pesce,
Nozio, sotto gli piedi d 'Aquario e Capricorno, distinto
in dodici lumi, con sei altri, che gli sono incirca? De
l'Altare, o turribulo o fano o sacrario, come vogliamo dire,
io non parlo; perchè giamai li convenne cossi bene d'essere
in cielo, se non ora, che quasi non ha dove essere in ter-
ra; ora vi sta bene, come una reliquia, o pur come una
tavola della sommersa nave de la religion e colto di noi.
Del Capricorno non dico nulla perchè mi par dignis-
simo d'ottenere il cielo, per averne fatto tanto beneficio.
94 Parte seconda
insegnandoci la ricetta, con cui potessimo vencere il
Pitone; perchè bisognava, che gli dei si trasformassero
in bestie, se volevano aver onor di quella guerra: e ne ha
donata dottrma, facendoci sapere che non si può man-
tener superiore chi non si sa far bestia. Non parlo de la
Vergine; perchè, per conservar la sua verginità, in nes-
sun loco sta sicura, se non in cielo, avendo da qua un
Leone e da là un Scorpione per sua guardia. La pove-
rina è fuggita da terra, perchè l'eccessiva libidine de le
donne, le quali, quando più son pregne, tanto più so-
gliono appetere il coito, fa che non sia sicura di non esser
contaminata, anco se si trovasse nel ventre de la madre;
però goda gli suoi ventisei carbuncoli con quelli altri sei,
che li sono intorno. Circa l'intemerata maestà di quei
doi Asini, che luceno nel spacio di Cancro, non oso dire,
perchè di questi massimamente per dritto e per raggione
è il regno del cielo; come con molte efficacissime raggioni
altre volte mi propone di mostrarvi, perchè di tanta ma-
teria non ardisco parlare per modo di passaggio. Ma di
questo sol mi doglio e mi lamento assai, che questi divini
animali sieno stati sì avaramente trattati, non facendogli
essere, come in casa propria, ma nell'ospizio di quel re-
trogrado animale aquatico, e non munerandoli più che
de la miseria di due stelle, donandone una a l'uno e l'altra
a l'altro; e quelle non maggiori che de la quarta grandezza.
De l 'Altare, dunque, Capricorno, Vergine e Asini
(benché prendo a dispiacere, ch'ad alcuni di questi, non
essendo lor trattati secondo la dignità, in loco di essere
fatto onore, forse gli è stata fatta ingiuria) or al presente
non voglio definir cosa alcuna; ma torno agli altri sup-
positi, che vanno per la medesima bilancia con gli sopra-
detti.
Non volete voi, che murmurino gli altri fiumi, che sono
in terra, per il torto che gli vien fatto? Atteso che, qual
raggion vuole che più tosto l'Eridano deve aver le sue
trenta e quattro lucciole, che si veggono citra e oltre il
tropico di Capricorno, più tosto che tanti altri non meno
degni e grandi, e altri più degni e maggiori? Pensate che
li. - Gli Dei a consiglio 93
basta dire che le sorelle di Fetone v'abbiano la stanza P
0 forse volete, che vegna celebrato, perchè ivi per mia
mano cadde il fulminato figlio d'Apollo, per aver il padre
abusato del suo ufficio, grado e autoritade? Perchè il
cavallo di Bellerofonte è montato ad investirsi de vinti
stelle in cielo, essendo che sta sepolto in terra il suo ca-
valcatore? A che proposito quella saetta, che per il splen-
dor di cinque stelle, che tiene inchiodate, luce prossima
a l'Aquila e Delfino? Certo, che se gli fa gran torto,
che non stia vicina al Sagittario, a fin che se ne possa
servire, quando arra tirato quella, che tiene in punta;
o pur non appaia in parte, dove possa rendere qualche
raggion di sé. Appresso bramo intendere, tra il spoglio
del Leone e la testa di quel bianco e dolce Cigno, che fa
quella lira fatta, di corna di bue in forma di testugine:
vorrei sapere, se la vi dimore per onor de la testugine,
o de le corna, o de la lira, pur perchè ognun veda la
maestria di Mercurio, che l'ha fatta, per testimonio, de
la sua dissoluta e vana iattanzia ?
Ecco, o Dei, l'opre nostre; eccole egregie nostre mani-
fatture, con le quali ne rendemo onorati al cielo! Vedete
che belle fabriche, non molto dissimili a quelle, che so-
gliono far gli fanciulli, quando contrattano la luta, la pa-
sta, le biscuglie, le frasche e festuche, tentando d'imitare
l'opre di maggiori! Pensate, che non doviamo ren-
der raggione e conto di queste? Possete persuadervi,
che de l'opre ociose sarremo meno richiesti, interrogati,
giudicati e condannati, che dell'ociose paroli? La dea
Giustizia, la dea Temperanza, la dea Constanza, la dea
Liberalitade, le dea Pazienza, la dea Veritade, la dea
Mnemosine, la dea Sofia e tante altre dee e dei vanno
banditi, non solo dal cielo, ma e oltre da la terra; e in
loco loro e negli eminenti palaggi, edificati da l'alta Pre-
videnza per residenza loro, vi si veggono delfìni, capre,
corvi, serpenti ed altre sporcarie, levitadi, capricci e le-
gerezze. Se vi par questa cosa inconveniente, e ne tocca il
rimorso de la conscienza per il bene che non abbiamo
fatto; quanto più dovete meco considerare, che doviamo
96 Parte seconda
esser punti e trafitti per le gravissime sceleragini e delitti,
che comessi avendone, non solamente non ne siamo ri-
pentiti ed emendati, ma oltre ne abbiamo celebrati trionfi,
e drizzati come trofei, non in un fano labile e ruinoso,
non in tempio terrestre, ma nel cielo e nelle stelle eterne.
Si può patire, o dei, e facilmente si condona agli errori,
che son per fragilità e per non molto giudiciosa levità;
ma qual misericordia, qual pietade può rivoltarsi a quelli,
che son commessi da color, che, essendone posti presi-
denti nella giustizia, in mercede di criminalissimi errori,
contribuiscono maggiori errori con onorare, premiar ed
essaltar al cielo gli delitti insieme con gli delinquenti?
Per qual grande e virtuoso fatto Perseo hav'ottenuto vin-
tesei stelle? Per aver con gli talari e scudo di cristallo,
che lo rendeva invisibile, in serviggio de l'infunata Mi-
nerva ammazzate le Gorgoni che dormivano, e presen-
tatogli il capo di Medusa. E non ha bastato che vi fusse
lui, ma per lunga e celebre memoria bisognava che vi
comparisse la moglie Andromeda con le sue vintitre, il
suo genero Cefeo, con le sue tredeci, ch'espose la figlia
innocente alla bocca del Ceto per capriccio di Nettuno,
adirato solamente perchè la sua madre Cassiopea pen-
sava essere più deliache le Nereidi.E però anco la madre
vi si vede residente in catedra, ornata di tredeci altre stelle,
ne' confini de l'Artico circolo. Quel padre di agnelli con
la lana d'oro, con le sue diece e otto stelle, senza l'altre
sette circostanti, che fa baiando sul punto equinoziale?
E forse ivi per predicar la pazzia e sciocchezza del re di
Colchl, l'impudicizia di Medea, la libidinosa temeritade
di Giasone e l'iniqua previdenza di noi altri? Que' doi
fanciulli, che nel signifero succedeno al Toro, compresi
da diece e otto stelle, senza altre sette circonstanti informi,
che mostrano di buono o di bello in quella sacra sedia,
eccetto, che il reciproco amore di doi bardassi? Per qual
raggione il Scorpione ottiene il premio di venti e una stelle,
senza le otto, che son ne le chele, e le nove, che sono circa
lui, e tre altri informi? Per premio d'un omicidio ordi-
nato dalla leggerezza ed invidia di Diana, che gli fece
II. - Gli Dei a consiglio 97
uccidere Temulo cacciator Orione. Sapete bene che Chi-
rone con la sua bestia ottiene nella australe latitudine
del cielo sessanta e sei stelle per esser stato pedante di
quel figlio, che nacque dal stupro di Peleo e Teti.
Sapete che la corona di Ariadna, nella quale risplen-
deno otto stelle, ed è celebrata là, avanti il petto di Boote
e le spire de l'angue, non v'è se non in commemorazione
perpetua del disordinato amor del padre Libero, che
s'imbracciò la figlia del re di Creta, rigettata dal suo stu-
prator Teseo.
Quel Leone, che nel core porta il basilisco e che ottiene
il campo di trenta e cinque stelle, che fa continuo al Can-
cro? Evi forse per esser gionto a quel suo commilitone e
suo conservo de l'irata Giunone, che lo apparecchiò va-
statore del Cleoneo paese, a fine che, a mal grado di quello
aspettasse l'advenimento del strenuo Alcide? Ercole
invitto, laborioso mio figlio, che col suo spoglio di leone
e la sua mazza par che si difenda le vinti e otto stelle,
quali con più che mai altri abbia fatto tanti gesti eroici
s'ha meritate, pure, a dire il vero, non mi par conveniente
che tegna quel loco, onde il suo geno pone avanti gli
occhi della giustizia il torto fatto al nodo coniugale della
mia Giunone per me e per la pellice Megara, madre di
lui. La nave di Argo, nella quale sono inchiodate quaran-
tacinque risplendenti stelle, ne l'ampio spacio vicino al
circolo Antartico, evi ad altro fine, che per eternizare la
memoria del grande errore, che commese la saggia Mi-
nerva, che mediante quella instituì gli primi pirati a fine
che, non meno che la terra, avesse gli suoi solleciti preda-
tori il mare? E per tornar là, dove s'intende la cintura
del cielo, perchè quel bove, verso il principio del zodiaco,
ottiene trenta e due chiare stelle, senza quella ch'è nella
punta del corno settentrionale, e undeci altre, che son
chiamate informi P Per ciò che è quel Giove (oimè!) che
rubbò la figlia ad Agenore, la sorella a Cadmo. Che Aquila
è quella, che nel firmamento s'usurpa l'atrio di quindeci
stelle, oltre Sagittario verso il polo? Lasso, è quel Giove,
che ivi celebra il trionfo del rapito Ganimede e di quelle
98 Parte seconda
vittoriose fiamme ed amori. Quella Orsa, quella Orsa, o
Dei, perchè nella più bella ed emmente parte del mondo,
come in una alta specola, come in una più aprica piazza
e più celebre spettacolo, che ne l'universo presentarsi
possa agli occhi nostri, è stata messa? Forse a fine che non
sia occhio, che non veda l'incendio ch'assalse il padre
degli dei appresso l'incendio de la terra per il carro di
Fetonte, quando in quel mentre, ch'andavo guardando
le rulne di quel foco, e riparando a quelle con richiamar
i fiumi, che timidi e fugaci erano ristretti a le caverne, e
ciò effettuando nel mio diletto Arcadio paese: ecco, altro
fuoco, m'accese il petto, che, dal splendor del volto de la
vergine Nonacrma procedendo, passommi per gli occhi,
scorsemi nel core, scaldommi l'ossa, e penetrommi dentro
le midolla; di sorte, che non fu acqua ne rimedio, che po-
tesse dar soccorso e refrigerio all'incendio mio. In questo
foco fu il strale, che mi trafisse il core, il laccio, che mi
legò l'alma, e l'artiglio, che mi tolse a me, e diemmi in
preda alla beltà di lei. Commesi il sacrilego stupro, violai
la compagnia di Diana, e fui a la mia fidelissima consorte
ingiurioso, per la quale in forma e specie d'una Orsa pre-
sentandomise la bruttura del fedo eccesso mio, tanto
si manca che da quella abominevol vista io concepesse
orrore, che sì bello mi parve quel medesimo mostro, e sì
mi soprapiacque, che volsi ch'il suo vivo ritratto fusse es-
saltato nel più alto e magnifico sito de l'architetto del
cielo: quell'errore, quella bruttezza, quell'orribil macchia,
che sdegna ed abomina lavar l'acqua de l'Oceano, che
Teti, per tema di contaminar l'onde sue, non vuol che
punto s'avicine verso la sua stanza, Dictinna, l'ha vie-
tato l'ingresso di suoi deserti per tema di profanar il sacro
suo collegio, e per la medesima caggione gli niegano i
fiumi le Nereidi e Ninfe. Io, misero peccatore, dico la mia
colpa, dico la mia gravissima colpa in conspetto de l'inte-
merata absoluta giustizia, e vostro, che sin al presente ho
molto gravemente peccato, e per il mal essempio ho por-
giuta ancor a voi permissione e facultà di far il simile;
e con questo confesso che degnamente io insieme con voi
II. - Gli Dei a consiglio 99
siamo incorsi il sdegno del fato, che non ne fa più essere
riconosciuti per dei, e mentre abbiamo a le sporcarie de
la terra conceduto il cielo, ha dispensato ch'a noi fussero
cassi gli tempii, imagini e statue, ch'avevamo in terra;
a fine che degnamente da alto vegnano depressi quelli,
quali indegnamente han messe in alto le cose vili e basse.
Oimè, Dei, che facciamo? Che pensiamo? Che indug-
giamo? Abbiamo prevaricato, siamo stati perseveranti
negli errori, e veggiamo la pena gionta e continuata con
l'errore. Provedemo, dunque, provedemo a' casi nostri;
perchè, come il fato ne ha negato il non posser cadere,
cossi ne ha conceduto il possere risorgere; però, come
siamo stati pronti al cascare cossi anco siamo apparecchiati
a rimetterci sugli piedi. Da quella pena, ne la quale me-
diante l'errore siamo incorsi, e peggior della quale ne po-
trebe sopravenire, mediante la riparazione, che sta ne le
nostre mani, potremo senza difficultade uscire. Per la ca-
tena degli errori siamo avinti; per la mano della giustizia
ne disciogliamo. Dove la nostra levità ne ha deprimuti,
indi bisogna che la gravità ne inalze. Convertiamoci alla
giustizia, dalla quale essendo noi allontanati, siamo al-
lontanati da noi stessi; di sorte, che non siamo più dei,
non siamo noi. Ritorniamo dunque a quella, se vogliamo
ritornare a noi.
L'ordine e maniera di far questo riparam.ento è, che
prima togliamo da le nostre spalli lagrieve soma d'errori,
che ne trattiene; rimoviamo d'avanti gli nostri occhi il
velo de la poca considerazione, che ne impaccia; isgom-
bramo dal core la propria affezione, che ne ritarda; git-
tiam.o da noi tutti que' vani pensieri, che ne aggravano;
adattiamoci a demolire le machine di errori ed edificii di
perversitade, che impediscono la strada ed occupano il
camino; cassiamo e annulliamo, quanto possibil fia, gli
trionfi e trofei di nostri facinorosi gesti, a fine che appaia
nel tribunal della giustizia verace pentimento di commessi
errori. Su su, o dei, tolgansi dal cielo queste larve, statue,
figure, imagini, ritratti, processi e istorie de nostre avarizie
libidini, furti, sdegni, dispetti ed onte. Che passe che passe
100 Parte seconda
questa notte atra e fosca di nostri errori, perchè la vaga
aurora del novo giorno de la giustizia ne Invita; e dispo-
niamoci di maniera tale al sole, ch'è per uscire, che non ne
dlscuopra cossi come siamo immondi. Bisogna mondare
e renderci belli; non solamente noi, ma anco le nostre
stanze e gli nostri tetti fia mestiero che sleno puliti e netti;
doviamo Interiore ed esteriormente ripurgarcl. Disponia-
moci, dico, prima nel cielo, che intellettualmente è dentro
di noi, e poi in questo sensibile, che corporalmente si
presenta agli occhi. Togliemo via dal cielo de l'animo
nostro l'Orsa della difformità, la Saetta de la detrazione,
l'Equlcolo de la leggerezza, il Cane de la murmurazione,
la Canicola de l'adulazione. Bandiscasi da noi l'Ercole de
la violenza, la Lira de la congiurazione, 11 Triangolo de
l'impietà, il Boote de l'incostanza, il Cefeo de la durezza.
Lungi da noi il Drago de l'invidia, il Cigno de l'impru-
denza, la Cassiopea de la vanità, l'Andromeda de la de-
sidia, il Perseo della vana sollecitudine. Scacciamo l'Ofìulco
de la maldizione, l'Aquila de l'arroganza, il Delfino de la
libidine, il Cavallo de l'impazienza, l'Idra de la concupi-
scenza. Togliemo da noi il Ceto de l'ingordiggia, l'Orione
de la fierezza, il Fiume de le superflultadl, le Gorgone de
l'ignoranza, la Lepre deivano timore. Non ne sia oltre
dentro il petto l'Argo, nave de l'avarizia, la Tazza de l'm-
sobrletà, le Libra de l'iniquità, il Cancro del mal regresso,
il Capricorno de la decepzione. Non fia che ne s'avicine
il Scorplo de la frode, il Centauro de la animale affezione,
l'Altare de la superstizione, la Corona de la superbia,
il Pesce de l'indegno silenzio, Con questi caggiano gh
Gemini de la mala familiaritade, il Toro de la cura di cose
basse, l'Ariete de l'inconsiderazione, il Leone de la ti-
rannia, l'Aquario de la dissoluzione, la Vergine de l'in-
fruttuosa conversazione, il Sagittario de la detrazione*
Se cossi, o Dei, purgaremo la nostra abitazione, se coss*
renderemo novo il nostro cielo, nove saranno le costella
zioni ed influssi, nove le impressioni, nove le fortune;
perchè da questo mondo superiore pende il tutto, e con-
trarli effetti sono dependenti da cause contrarie. 0 felici,
II. - Gli Dei a consiglio 101
o veramente fortunati noi, se faremo buona colonia del
nostro animo e pensiero! A chi de voi non piace il pre-
sente stato, piaccia il presente conseglio. Se voghamo
mutar stato, cangiamo costumi. Se vogliamo che quello
sia buono e meghore, questi non sieno simili o peggiori.
Purghiamo l'interiore affetto, atteso che da l'informa-
zione di questo mondo interno non sarà diffìcile di far
progresso alla riformazione di questo sensibile ed esterno.
La prima purgazione, o dei, veggio che la fate, veggio che
l'avete fatta; la vostra determinazione io la veggio; ho
vista la vostra determinazione, la è fatta; ed è subito
fatta, perchè la non è soggetta a' contrappesi del
tempo.
Or su, procediamo a la seconda purgazione. Questa è
circa l'esterno, corporeo, sensibile e locato. Però bisogna,
che vada con certo discorso, successione e ordine; però
bisogna aspettare, conferir una cosa con l'altra, comparar
questa raggione con quella, prima che determinare; at-
teso che circa le cose corporali, come in tempo è la dispo-
sizione, cossi non può essere, come in uno instante, l'es-
secuzione. Eccovi dunque il termine di tre giorni, dove
non avete da decidere e determinare infra di voi, se questa
riforma si debbe fare o non; perchè per ordinanza del
fato, subito che vi l'ho proposta, insieme l'avete giudicata
convenientissima, necessaria e ottima; e non in segno
esteriore, figura e ombra, ma realmente e in verità veggio
il vostro affetto, come voi reciprocamente vedete il mio;
e non men subito eh io v ho tocco l'orecchio col m.io pro-
ponimento, voi col splendor del consentimento vostro
m'avete tocchi gli occhi. Resta dunque, che pensiate e
conferite infra di voi circa la maniera, con cui s'ha da pro-
vedere a queste cose, che si toglieno dal cielo, per le quali
fìa mestiero procacciare e ordinar altri paesi e stanze; e
oltre, come s'hanno da empire queste sedie a fin che il
cielo non rimanga deserto, ma megliormente colto e abi-
tato che prima. Passati che saranno gli tre giorni, verrete
premeditati in mia presenza circa loco per loco e cosa per
cosa, a ciò che, non senza ogni possibile discussione, con-
102 Parte seconda
veniamo il quarto giorno a determinare e pronunziar la
forma di questa colonia. Ho detto.
* (1)
Sofia. Venuto 11 quarto giorno, ed essendo appunto
l'ora di mezzo dì, convennero di bel novo al conseglio
generale, dove non solamente fu lecito d'esser presenti
gli prefatl numi più principali, ma oltre tutti quelli altri,
ai quali è conceduto, come per lege naturale, il cielo. Se-
dente dunque il senato e popolo degli dei, e con il con-
sueto modo essendo montato sul solio di safìro inorato
Giove, con quella forma di diadema e manto con cui
solamente negli sollennissimi concilii suol comparire,
rassettato il tutto, messa in punto d'attenzion la turba
e Indltto alto silenzio, di mianiera che gli congregati
sembravano tante statue o tante pitture; si presenta in
m^ezzo con gli suoi ordini, insegna e circonstanze il mio
bel nume, Mercurio. E, gionto avanti il conspetto del
gran padre, brevemente annunziò, interpretò ed espose
quel che non era a tutto il conseglio occolto, ma che,
per servar la forma e decoro de' statuti, bisogna pronun-
ziare: cioè, com.e gli dei erano pronti e apparecchiati
senza simulazione e dolo, ma con libera e spontanea
voluntade, ad accettare e ponere in esecuzióne tutto
quello che per il presente sinodo verrebe conchiuso,
statuto e ordinato. Il che avendo dette, si voltò agli
circonstanti dei, e gli richiese che con alzar la mano fa-
cessero aperto e ratificato quel tanto, ch'in nome loro
aveva esposto in presenza de l'altitonante. E cossi fu
fatto.
Appresso apre la bocca il magno Prctoparente, e fassi
in cotal tenore udire: — Se gloriosa, o Dei, fu la nostra
vittoria contra gli giganti, che In breve spacio di tempo
risorsero contra di noi, che erano nemici stranieri ed
aperti, che ne combattevano solo da l'Olimpo, e che non
(') Terza parte del primo Dialogo.
II. - Gli Dei a consiglio 103
possevano ne tentavano altro, che de ne precipitar dal
cielo; quanto più gloriosa e degna sarà quella di noi
stessi, li quali fummo contra lor vittoriosi ? Quanto pifi
degna, dico, e gloriosa è quella di nostri affetti, che
tanto tempo han trionfato di noi, che sono nemici do-
mestici ed interni, che ne tiranneggiano da ogni lato, e
che ne hanno trcibalsati e smossi da noi stessi ? Se dunque
di festa degno ne ha parso quel giorno, che ne partorì
vittoria tale, di quale il frutto in un momento disparve,
quanto più festivo dev'essere questo, di cui la fruttuosa
gloria sarà eviterna per gli secoli futuri ? Seguite, dunque,
d'essere festivo il giorno de la vittoria; ma da quel che
si diceva de la vittoria de' giganti, dicasi de la vittoria
degli Dei, perchè in esso abbiamo vinti noi medesimi.
Instituiscasi oltre festivo il giorno presente, nel quale
si npurga il cielo, e questo sia più solenne a noi, che
abbia mai possuto essere agli Egizii la trasmigrazione del
popolo leproso, e agli Ebrei il transito dalla Babilonica
cattivitade. Oggi il morbo, la peste, la lepra si bandisce
dal cielo agli deserti; oggi vien rotta quella catena di de-
litti e fracassato il ceppo degli errori, che ne ubligano al
castigo eterno. Or dunque, essendo voi tutti di buona
voglia per procedere a questa riforma, e avendo, come
intendo, tutti premeditato il modo, con cui si debba e
possa venire al fatto; acciò che queste sedie non rima-
gnano disabitate, e agli trasmigranti sieno ordinati luoghi
convenienti, io cominciar© a dire il mio parere circa
uno per uno; e prodotto che sarà quello, se vi parrà degno
d'essere approvato, ditelo; se vi sembrarà inconveniente,
esplicatevi: se vi par che si possa far meglio, dechiaratelo*
se da quello si deve togliere, dite il vostro parere; se vi
par, che vi si deve aggiongere, fatevi intendere; perchè
ognuno ha plenaria libertà di proferire il suo voto; e
chiunque tace, se intende affìrmare. Qua assorsero al-
quanto tutti gli Dei, e con questo segno ratificar© la pro-
posta.
Bruno, In trisiitia hilaris, etc.
III.
LA PROVVIDENZA DI GIOVE *"
Mercurio.. . Su, su, presto, [disse Giove] cloniamo
ordine a' nostri affari, prima che tu vadi a veder che
vuole quella meschina, e io a ritrovar questa mia tanto
fastidiosa mogliera, che certo mi pesa più che tutta la
carca de l'universo. — Subito volse (perchè cossi è nova-
mente decretato nel cielo) che di mia mano registrasse
tutto quel che deve essere provisto oggi nel mondo.
Sofia. Fatemi, se vi piace, alquanto udire di negocii,
poi che m'hai svegliata questa cura nel petto.
Mercurio. Ti dirò. — Ha ordinato, che oggi a mezzo
giorno doi meloni, tra gli altri, nel meìonaio di- Pranzino
sieno perfettamente maturi; ma che non sieno colti, se non
tre giorni appresso, quando non saran giudicati buoni a
mangiare. Vuole, ch'ai medesimo tempo dalla iviuma,
che sta alle radici del monte di Cicala, in casa di Gioan
Bruno, trenta iviomi sieno perfetti colti, e diece sette
caggiano scalmati in terra, quindeci sieno rosi da* vermi.
Che Vasta, moglie di Albenzio, mentre si vuole increspar
gli capelli de le tempie, vegna, per aver troppo scaldato
il ferro, a bruggiarne cinquanta sette; ma che non si
scotte la testa, e per questa volta non biastemi quando
sentirà il puzzo, ma con pazienza la passe. Che dal sterco
del suo bove nascano ducento cinquanta doi scarafoni,
de*, quali quattordeci sieno calpestrati e uccisi per il pie
(1) spaccio. Dialogo primo.
III. - La provvidenza di Giove 105
di Albenzio, venti sei muoiano di rinversato, venti doi
vivano in caverna, ottanta vadano in peregrinaggio per
il cortile, quarantadoi si retireno a vivere sotto quel ceppo
vicino a la porta, sedeci vadano isvoltando le pallotte,
per dove meglio li vien comodo, il resto corra a la for-
tuna. A Laurenza, quando si pettina, caschino diece
sette capelli, tredeci se gli rompano, e di quelli diece ri-
nascano in spacio di tre giorni, e gli sette non rivegnano
più. La cagna d'Antonio Savolino concepa cinque ca-
gnolini, de' quali tre a suo tempo vivano, e doi sieno
gittati via; e di que' tre il primo sia simile a la madre, il
secondo sia vario, il terzo sia parte simile al padre, e
parte a quello di Polidoro. In quel tempo il cuculo s'oda
cantare da la stanza, e non faccia udire più né meno che
dodici cuculate; e poi si parta, e vada a le roine del ca-
stello Cicala per undeci minuti d'ora, e da là se ne vole
a Scarvaita; e di quello che deve essere a presso, prove-
deremo poi. Che la gonna, che mastro Danese taglia su
la pianca, vegna stroppiata. Che da le tavole del letto
di Costantino si partano dodeci cimici, e se ne vadano al
capezzale: sette degli più grandi, quattro de' più pic-
cioli, uno de' mediocri; e di quello che di essi ha da es-
sere questa sera, al lume di candela, provederemo. Ch«
a quindeci minuti de la medesima ora per il moto de la
lingua, la quale si varrà la quarta volta rimenando per il
palato, a la vecchia di Fiurulo casche la terza mola, che
tiene nella mascella destra di sotto; la qual caduta sia
senza sangue e senza dolore; perchè la detta mola è
gionta al termine della sua trepidazione, che ha perdurato
a punto diece sette annue revoluzione lunari. Che Am-
bruoggio nella centesima e duodecima spinta abbia
spaccio ed ispedito il negocio con la mogliera, e che non
la ingravide per questa volta, ma ne l'altra con quel seme,
in cui si convertisce quel porro cotto, che mangia al
presente con la sapa e pane di miglio. Al figlio di Marti»
nello comincieno a spuntar i peli de la pubertade nel
pettinale, e insieme insieme comince a gallugarli la voce.
Che a Paulino, mentre vorrà alzar un ago rotto da terra,
106 Parte seconda
per la forza che egli farà, se gli rompa la stringa rossa
de le braghe; per la qual cosa, se bestemmiare, voglio
che sia punito appresso con questo, che questa sera la
sua minestra sia troppo salita e sappia di fumo; caggia
e se gli rompa il fiasco pieno di vino; per la qual causa se
bestemmiare, provederemo poi. Che di sette talpe, le
quali da quattro giorni fa son partite dal fondo de la
terra, prendendo diversi camini verso l'aria, due vegnano
a la superficie de la terra nell'ora medesima, l'una al
punto di mezzo giorno, l'altra a quindici minuti e dieci
nove secondi appresso, discoste l'una da l'altra tre passi,
un piede e mezzo dito ne l'orto di Anton Faivano; del
tempo e luogo de l'altre si proveder à più tardi.
IV.
UOMINI E BESTIE <»
Lascio che tutte le generazioni illustri ed egrègie,
mentre per gli lor segni e imprese vogliono mostrarsi ed
essere significate, ecco le vedi aquile, falconi, nibbii, cu-
culi, civette, nottue, buboni, orsi, lupi, serpi, cavalli,
buovi, becchi, e tal volta, perchè manco si stimano degni
de farsi una bestia intiera, ecco vi presentano un pezzo
di quella, o una gamba, o una testa, o un paio di corna,
o una coda, o un nerbo. E non pensate che, se si potes-
sero trasformare in sustanza di tali animali, non lo far-
rebono volentiera; atteso, a qual fine stimate, che pin-
gono nel suo scudo le bestie, quando le accompagnano
col suo ritratto, con la sua statua ? Pensate forse, che vo-
gliono dire altro eccetto: Questo, questo, di cui, o spet-
tatore, vedi il ritratto, è quella bestia, che gli sta vicina
e compiuta; overo: Se volete saper chi è questa bestia,
sappiate che la è costui, di cui vedete qua il ritratto, e
qua scritto il nome. Quanti sono, che per meglior parere
bestie, s'impellicciano di lupo, di volpe, di tasso, di ca-
prone, di becco, onde, ad essere uno di cotai animali,
non par che gli manca altro che la coda ? Quanti sono,
che per mostrar quanto hanno dell'ucello, del volatile,
9 far conoscere con quanta leggerezza si potrebono
sollevare alle nubi, s'impiumano il cappello e la barretta ?
Saul. Che dirai de le dame nobili, tanto de le grandi,
quanto di quelle, che voglion far del grande? Non fanno
elle più gran caso delle bestie, che de' proprii figli? Ec-
(1) Spaccio. Dialogo terzo.
108 Parte seconda
cole, quasi dicessero: — 0 figlio mio, fatto a mia ima-
gine: se, come ti mostri uomo, cossi mostrassi coniglio,
cagnolina, martora, gatto, gibellino; certo, sì come ti ho
commesso a le braccia de la serva, de la fante, da questa
ignobile nutriccia, di questa sugliarda, sporca, imbreaca,
che facilmente, infettandoti di lezzo, ti farà morire;
perchè conviene anco che dormi con ella; io, io sarei
quella che medesima ti portarci in braccio, ti sostenerci,
lattarci, pettinarci, ti cantarci, di farei di vezzi, ti ba-
ciarci, come fo a quest'altro gentile animale, il qual non
voglio che si domestiche con altro che con me; non per-
metterò, che sia tocco da altro che da me, e non lascerò
star in altra camera, e dormir in altro letto che nel mio.
Questo se averrà ch^ la cruda Atropo mi tolga, non pa-
tirò che vegna sepolto come tu, ma gl'imbalsimarò, gli
perfumarò la pelle; ed a quella, come a divina reliquia,
dove mancano li membri de la fragil testa e piedi, io vi
formarò la figura in oro smaltato e asperso di diamanti,
di perle e di rubini. Cossi, dove bisognerà onoratamente
comparire, il portarò meco, ora avolgendomelo al collo,
ora me l'accostando al volto, a la bocca, al naso; ora me
l'appoggiarò al braccio; ora, dismettendo il braccio per-
pendicolarmente in giù, lo lasciarò ir prolungato verso le
falde, a fin che non sia parte di quello, che non sia messa
in prospettiva. Onde aperto si vede, quanto con più
sedula cura queste più generose donne sono affette circa
una bestia, che verso un proprio figlio, per far vedere
quanta sia la nobiltà di quelle sopra questi, quanto quelle
sono più onorabili che questi.
SoF. E per tornare a più seriose raggioni, quelli che
sono, o si tegnono più gran prencipi, per far con espressi
segni evidente la loro potestà e divina preeminenza sopra
gli altri, s'adattano in testa la corona; la quale non è altro,
che figura di tante corna, che in cerchio gl'incoronano,
I d est gì 'incornano il capo. E quelle, quanto son più
alte ed eminenti, tanto fanno più maestrale representa-
zione, e son segno di maggior grandezza; onde è geloso
un duca, che un conte o m.archese mostre una corona
IV. - Uomini e bestie 109
cossi grande come lui; maggiore conviene al re, massima
a l'imperatore, triplicata tocca al papa, come a quello
sommo patriarca, che ne deve aver per lui e per li com-
pagni. Li pontefici ancora sempre hanno adoperata la
mitra acuminata in due corna; il duce di Venezia com-
pare con un corno a mezza testa; il gran Turco da fuor
del turbante lo fa uscir alto e diritto in forma rotonda
piramidale; il che tutto è fatto per donar testimonio della
sua grandezza, con accomodarsi con la meglior arte
questa bella parte in testa, la quale alle bestie ha conce-
duta la natura: voglio dir, con mostrar di aver de la be-
stia. Questo nessuno avanti, né alcuno da poi ha possuto
più efficacemente esprimere, che il duca e legislatore
del popolo giudeo: quel Mosè, dico, che in tutte le scienze
degli Egizii uscì addottorato da la corte di Faraone;
quello, che nella moltitudine di segni vinse tutti que'
periti nella magia. In che modo mostrò l'eccellenza sua,
per esser divino legato a quel popolo, e representator
de l'autorità del dio d'Ebrei P Vi par che, calando giù
del monte Sina con le gran tavole, venesse in forma d'un
uomo puro, essendo che si presentò venerando con un
paio di gran corna, che su la fronte gli ramificavano?
Avanti la cui maestral presenza mancando il cuore di
quel popolo errante, ch'il mirava, bisognò che con un
velo si cuoprisse il volto; il che pure fu fatto da lui per
dignità, e per non far troppo familiare quel divino e più
che umano aspetto.
Saul. Cossi odo ch'il gran Turco, quando non porge
familiare udienza, usa il velo avanti la sua persona. Cossi
ho visto io gli religiosi di Castello in Genova mostrar
per breve tempo e far baciar la velata coda, dicendo:
— Non toccate, baciate; questa è la santa reliquia di
quella benedetta asina, che fu fatta degna di portar il
nostro Dio dal monte Oliveto a Jerosollma. Adoratela,
baciatela, porgete limosina: Centuplum accipietis, et vi^
tam aeternam possidebitis.
V.
MOMO E MARTE (1)
A questa voce generale, prima ch'altro proponesse di
Cassiopea, alzò la voce il furibondo Marte, e disse: — Non
sia, o Dei, chi tolga alla mia bellicosa Ispagna questa
matrona, che cossi boriosa, altiera e maestrale non si
contentò di salir al cielo senza condurvi la sua catedra
col baldacchino. Costei (se cossi piace al padre summi-
tonante, e se voi altri non volete discontentarmi a rischio
dj_patir a buona misura il simile, quando mi passarete
per le mani) vorrei che, per aver costumi di quella patria,
e parer ivi nata, nodrita ed allevata, determiniate che la
vi soggiorne. Rispose Momo: — Non sia chi tolga l'ar-
roganza e questa femina, ch'è vivo ritratto di quella, al
signor bravo capitan di squadre. A cui Marte: — Con
questa spada farò conoscere non solamente a te pove-
raccio, che non hai altra virtude e forza, che di lingua
fracida senza male; ma ed oltre a qualsivogli'altro (fuor
di Giove, per essere superior di tutti) che sotto quella,
che voi dite iattanzia, dica non si trovar bellezza, gloria,
maestà, magnanimità, e fortezza degna della protezion
del scudo marziale; e di cui l'onte non son indegne d esser
vendicate da questa orribil punta, ch'ha soluto domar
uomini e dei. — Abbila pur, soggionse Momo, in tua
malora teco: perchè tra noi altri dei non vi trovarai un
altro si bizzarro e pazzo, che, per guadagnarsi una de
(1) spaccio. Dialogo secondo.
V. - Momo e Marte 1 1 1
queste colubre e tempestose bestie, voglia mettersi a
rischio di farsi rompere il capo.
Non te incolerar, Marte, non ti rabbiar, Momo, disse
il benigno protoparente. Facilmente a te, dio de la
guerra, si potrà concedere liberamente questa cosa, che
non è troppo d'importanza, se ne bisogna talvolta, al
nostro dispetto, comportar, che con la sola autorità
della tua fiammeggiante spada commetti tanti stupri,
tanti adulterii, tanti latrocinii, usurpazioni ed assassinii.
Va dunque, che io insieme con gli altri dei la commet-
temo in tutto alla tua libidinosa voglia; sol che non più
la facci induggiar qua in mezzo agli astri, vicina a tante
virtuose Dee.
VI.
RICCHEZZA E POVERTÀ <"
Quando Giove ebbe escluso Ercole da là, subito si
mese avanti la Ricchezza, e disse: — A me, o padre, con-
viene questo luogo. A cui rispose Giove: — Per qual
caggione? E lei: — Anzi mi maraviglio, disse, che sin
tanto abbi differito di collocarmi, e prima che ti ricor-
dassi di me, hai non solo collocate altre dee e altri numi,
che mi denno cedere, ma oltre hai sostenuto che biso-
gnasse che io da per me medesima venesse ad opponermi
e presentarmi contra il pregiudizio mio e torto, che mi
fate. E Giove rispose: — Dite pur la vostra causa. Ric-
chezza; perchè io non stimo d'averti fatto torto col non
darti una de le stanze già proviste; ma ancora credo di
non fartene con negarti la presente, che è da pTovedere:
e forse ti potrai accorgere di peggio che non ti pensi. — - E
che peggio mi può, e deve accadere per vostro giudizio,
di quel che m'è accaduto? disse la Ricchezza. Dimmi,
con qual raggione m'hai preposta la Veritate, la Prudenza,
la Sofia, la Legge, il Giudicio, se io son quella, per cui
la Veritate si stima, la Prudenza si dispone, la Sofia è
preggiata, la Legge regna, il Giudicio dispone, e senza
me la Verità è vile, la Prudenza è sciagurata, la Sofia
è negletta, la Legge è muta, il Giudicio è zoppo; perchè
io a la prima dono campo, alla seconda do nervo, alla
terza lume, a la quarta autoritade, al quinto forza; a
(I) spaccio. Seconda parte del seconda Dialogo.
VI. - Ricchezza e Povertà 1 1 3
tutte insieme giocundità, bellezza e ornamento, e le li-
bero da' fastidii e miserie? — Rispose Momo: — 0 Ric-
chezza, tu non dici il vero più che il falso; perchè tu
oltre sei quella, per cui zoppica il Giudizio, la Legge sta
in silenzio, la Sofìa è calpestata, la Prudenza è incarce-
rata e la Verità è depressa, quando ti fai compagna di
buggiardi e ignoranti, quando favorisci col braccio de la
sorte la pazzia, quando accendi e cattivi gli animi ai pia-
ceri, quando amministri alla violenza, quando resisti a
a giustizia; e appresso a chi ti possiede non meno ap-
porti fastidio che giocondità, difformità che bellezza,
bruttezza che ornamento, e non sei quella, che dai fine
a' fastidii e miserie, ma che le muti e cangi in altra specie;
sì che in opinione sei buona, ma in verità sei più mal-
vaggia; in apparenza sei cara, ma in esistenza sei vile;
per fantasia sei utile, ma in effetto sei perniciosissima;
atteso che per tuo magistero, quando investisci di te
qualche perverso (come per ordinario sempre ti veggio
in casa di scelerati, raro vicina ad uomini da bene), là
abbasso hai fatta la Veritade esclusa fuor de le cittadi
agli deserti, hai rotte le gambe a la Prudenza, hai fatta
vergognar la Sofìa, hai chiusa la bocca a la Legge, non
hai fatto aver ardire al Giudicio, tutti hai resi vilissimi.
In questo, o Momo, rispose la Ricchezza, puoi conoscere
la m.ia potestate ed eccellenza; che io, aprendo e serrando
il pugno, e per comunicarmi o qua o là, fo che questi
cinque numi vagliano, possano e facciano, o ver sieno
spreggiati, banditi e ributtati; e per dirla, posso cacciarli
al cielo, o ne l'inferno. — Qua rispose Giove: — Non vo-
gliamo in cielo e in queste sedie altro che buoni numi.
Da qua si togliano que' che son rei, e quei che o sono più
rei, che buoni, e quei che indifferentemente son buoni e
rei; tra gli quali io penso che sei tu, che sei buona con
gli buoni, e pessima con gli scelerati.
— Sai, o Giove, disse la Ricchezza, che io per me son
buona, e non sono per me indifferente o neutra, o d'una
ed altra maniera, come dici, se non in quanto di me altri
bene si vogliano servire o male. — Qua rispose Momo:
I 1 4 Parte seconda
— Tu dunque, Ricchezza, sei una Dea maneggiabile,
servibile, contrattabile, e che non ti governi da te stessa,
e che non sei veramente quella che reggi e disponi de
altri, ma di cui altri disponeno, e che sei retta da altri;
onde sei buona, quando altri ti maneggiano bene, sei
mala, quando sei mal guidata; sei, dico, buona in mano
della Giustizia, della Sofìa, della Prudenza, della Reli-
gione, della Legge, della Liberalità e altri numi; sei ria,
se gli contrarii di questi ti maneggiano: come sono la
violenza, l'avarizia, l'ignoranza e altri. Come, dunque,
da per te non sei né buona, né ria, cossi credo essere bene,
se Giove il consente, che per te non abbii né vergogna,
né onore; e per consequenza non sii degna d'aver propria
stanza, né ad alto tra gli dei e numi celesti, né abbasso
tra gli inferi, ma che eternamente vadi da loco in loco,
da regione in regione.
Arrisero tutti gli Dei al dir di Momo, e Giove sentenziò
cossi: — Sì che. Ricchezza, quando sei di Giustizia,
abitarai nella stanza della Giustizia; quando sei di Verità,
sarai dove è l'eccellenza di quella; quando sei di Sapienza
e Sofìa, sederai nel solio suo; quando di voluttuarii pia-
ceri, trovati là, dove sono; quando d'oro e argento, al-
lora ti caccia ne le borse e casce; quando di vino, oglio e
frumento, va ficcare ne le cantine e magazini; quando di
pecore, capre e buovi, va a pascolar con essi, e posa negli
greggi ed armenti.
Cossi Giove l'impose quello che deve fare, quando si
trova con gli pazzi, e come si deve comportare quando
é in casa di sapienti; in che modo per l'avenire perse-
verar debba a far come per il passato (forse perché non
si può far altro), di farsi in certo modo facilmente tro-
vare, e in certo modo difficilmente. Ma quella raggione
e modo non la fece intendere a molti; se non che Momo
alzò la voce e gle ne die un'altra, se non fu quella mede-
sima via, cioè: — Nessuno ti possa trovare, senza che
prima si sia pentito d'aver avuto buona mente e sano
cervello. — Credo, che volesse dire, che bisogna perdere
la considerazione e il giudicio di prudenza, non pensando
VI. - Ricchezza e Povertà 1 1 5
mai all'incertezza ed infidelità de' tempi, non avendo
riguardo a la dubia e instabile promessa del mare, non
credere a cielo, non guardare a giustizia o a ingiustizia,
ad onore o vergogna, a bonaccia o tempesta, ma tutto
si commetta a la fortuna: — E che ti guardi di farti mai
domestica di quei, che con troppo giudicio ti cercano; e
color meno ti veggano, che con più tendicoli, lacci e reti
di providenza ti perseguitano; ma per l'ordinano va dove
son gli più insensati, pazzi, stracurati e stolti; e in conclu-
sione, quando sei in terra, guardati da' più savii come
dal fuoco: e cossi sempre accostati e fatti familiare a
gente semibestiali, e tieni sempre la medesima regola,
che tiene la fortuna...
SOF. Non sì tosto la Povertà vedde la Ricchezza, sua
nemica, esclusa, che con una più che povera grazia si
fece innante; e disse, che per quella raggione, che facea
la Ricchezza indegna di quel loco, lei ne dovea essere
stimata degnissima, per esser contraria a colei. A cui
rispose Momo: — Povertà, Povertà, tu non sareste al
tutto Povertà, se non fussi ancora povera d'argumenti,
sillogismi e buone consequenze. Non per questo, o mi-
sera, che siete contrarie, seguita, che tu debbi essere
investita di quello che lei è dispogliata o priva, e tu debbi
essere quel tanto, che lei non è: come, verbigrazia (poi
che bisogna donartelo ad intendere con essempio) tu devi
essere Giove e Momo, perchè lei non è Giove né Momo:
e in conclusione, ciò che si niega di quella, debba essere
affìrmato di te; perchè quelli, che son più ricchi de dia-
lettica, che tu non sei, sanno che li contrarii non son me-
desimi con positivi e privativi, contradittorii, varii, dif-
ferenti, altri, divisi, distinti e diversi. Sanno ancora, che
per raggione di contrarietà seguita, che non possiate
essere insieme in un loco; ma non che, dove non è quella,
e non può esser quella, sii tu, o possi esser tu. Qua risero
tutti li dei, quando veddero Momo voler insegnar logica a
la Povertà; ed è rimasto questo proverbio in cielo :
Momo è maestro de la Povertà, o ver:
Momo insegna dialettica a la Povertà.
I 16 Parte seconda
E questo lo dicono, quando vogliono delleggiar qualche
fatto scontrafatto. Che dunque ti par, che si debba far
di me, o Momo? disse la Povertà. Determina presto,
perchè lo non sono sì ricca di paroli e concetti che possa
disputar con Momo, né sì copiosa d'mgegno, che possa
molto imparar da lui.
Allora Momo dimandò a Giove per quella volta li-
cenza, se voleva, che determinasse. A cui Giove: — An-
cora mi burli, o Momo? che hai tanta licenza, che sei
più licenzioso (volsi dir licenziato) tu solo, che tutti gli
altri. Dona pur sicuro la sentenza a costei; perchè, se la
sarà buona, l'approvaremo. Allora Momo disse: — Mi
par congruo e condigno, ch'ancor questa se la vada spas-
seggiando per quelle piazze, nelle quali si vede andar
circumforando la Ricchezza, e corra e discorra, vada e
vegna per le medesime campagne; perchè (come vogliono
gli canoni del raziocinio) per raggione di cotai contrari!
questa non deve entrare, se non là, onde quella fugge, e
non succedere, se non là, d'onde quella si parte; e quella
non deve succedere ed entrare, se non là, d'onde questa
si parte e fugge; e sempre l'una sia a le spalli de l'altra,
e l'una doni la spinta a l'altra non toccandosi mai da faccia a
faccia, ma dove l'una ha il petto, l'altra abbia il tergo,
come se giocassero (come facciamo noi tal volta) al giuoco
de la rota del scarpone.
Saul. Che disse sopra di questo Giove con gli altri ?
SoF. Tutti confìrmaro e ratificaro la sentenza.
Saul. La Povertà che disse?
SoF. Disse: — Non mi par cosa degna, o dei (se pur
il mio parer ha luogo, e non sono a fatto priva di giudicio)
che la condizion mia debba essere al tutto simile a quella
de la Ricchezza. A cui rispose Momo: — Da l'antece-
dente, che versate nel medesimo teatro, e rapresentate
la medesima tragedia e comedia, non devi tirar questa
consequenza, che vengate ad essere di medesima condi-
zione, quìa contraria versantur circa idem. — Vedo, o Momo,
disse la Povertà, che tu ti burli di me; che anco tu, che
fai professione de dir il vero e parlar ingenuamente, mi
VI. - Ricchezza e Povertà 117
dispreggl; e questo non mi par che sia il tuo dovero
perchè la Povertà è più degnamente difesa tal volta, anzi
il più de le volte, che la Ricchezza. — Che vuoi, che ti
faccia, rispose Momo se tu sei povera a fatto a fatto? La
povertà non è degna de difensione, se è povera di giu-
dizio, di raggione, di meriti e di sillogismi, come sei tu,
che m'hai ridutto a parlar ancor per le regole analitiche
dalli Priori e Posteriori d'Aristotele.
VII.
LA BIBLIOTECA DEGLI DEI <'>
Saulino. Che cosa me dici, Sofìa? Dunque li Dei
prendeno qualche volta Aristotele in mano? Studiano
verbigrazia negli filosofi P
Sofia. Non ti dirò di vantaggio di quel ch'è su la Pippa,
la Nanna, l'Antonia, il Burchiello, l'Ancroia, e un altro
libro, che non si sa, ma è in questione, s'è di Ovidio
o Virgilio, e io non me ne ricordo il nome, e altri
simili.
Saul. E pur adesso trattano cose tanto gravi e
seriose?
SoF. E ti par, che quelle non son seriose? Non son
gravi? Se tu fussi più filosofo, dico più accorto, crede-
resti che non è lezione, non è libro, che non sia essami-
nato da' dei, e che, se non è a fatto senza sale, non sia
maneggiato da dei; e che, se non è tutto balordesco,
non sia approvato e messo con le catene nella biblioteca
commune; perchè piglian piacere nella moltiforme re-
presentazione di tutte cose e frutti multiformi de tutti
ingegni, perchè loro si compiaceno in tutte le cose che
sono, e tutte le representazioni che si fanno, non meno
che essi hanno cura che sieno, e donano ordine e per-
missione che si facciano. E pensa ch'il giudicio degli Dei
è altro, che il nostro commune, e non tutto quello che è
peccato a noi e secondo noi, è peccato a essi e secondo
essi. Quei libri certo cossi, come le teologie, non denno
esser communi agli uomini ignoranti, che medesimi sono
scelerati; perchè ne riceveno mala instituzione.
oribd.
VII. - La biblioteca degli Dei 119
Saul. Or non son libri fatti da uomini di mala fama,
disonesti e dissoluti, e forse a mal fine?
SoF. E vero; ma non sono senza la sua mstituzione e
frutti della cognizione de chi scrive, come scrive, perchè
e onde scrive, di che parla, come ne parla, come s'in-
ganna lui, come gli altri s'ingannano di lui, come si de-
cima, e come s'inclina a uno affetto virtuoso e vizioso,
come si muove il riso, il fastidio, il piacere, la nausea; ed
in tutto è sapienza e providenza, e in ogni cosa è ogni
cosa, e massime è l'uno dove è l'altro contrario, e questo
massime si cava da quello.
Saul. Or torniamo al proposito, donde ne ha diver-
titi il nome d'Aristotele e la fama de la Pippa.
Bruno, In tristitia hilariz, etc. 10.
vili.
LA FORTUNA <»
...Io me ne vo aperta aperta e occolta occolta a tutto
runiverso; discorro gli alti e bassi palaggi, e non meno che
la morte so inalzar le cose infime, e deprimere le supreme;
e al fine, per forza di vicissitudine, vegno a far tutto uguale,
e con incerta successione, e raggion irrazionale, che mi
trovo (cioè sopra ed extra le raggioni particolari) e con
indeterminata misura volto la ruota, scuoto l'urna, a fine
che la mia intenzione non vegna incusata da individuo al-
cuno. Su, Ricchezza, vieni a la mia destra, e tu. Povertà, a
la mia sinistra: menate vosco il vostro comitato; tu, Ric-
chezza, li ministri tanto grati, e tu, Povertà, gli tuoi tanto
noiosi alla moltitudine. Seguiteno, dico, prima il fastidio e
la gioia, la felicità ed infelicità, la tristizia, l'allegrezza; la
letizia, la maninconia, la fatica; il riposo; Tocio, l'occu-
pazione; la sordidezza, l'ornamento. Appresso l'auste-
rità, le delicie; il lusso, la sobrietà; la libidine, l'astinenza;
l'ebrietà, la sete; la crapula, la fame; l'appetito, la sacie-
tade; la cupidiggia, il tedio e saturità; la pienezza, la
vacuità; oltre il dare, il prendere; l'effusione, la parsi-
monia; l'investire, il dispogliare; il lucro, la iattura l'in-
troito, l'exito; il guadagno, il dispendio; l'avarizia, la
liberalitade, con il numero e misura, eccesso e difetto;
equalitade, inequalitade; debito, credito. Dopoi sicurtà,
suspizione; zelo, adulazione; onore, dispreggio; riverenza,
scherno, ossequio, dispetto; grazia, onta; agiuto, desti-
(I) spaccio. Terza parte del secondo Dialogo.
vili. - U Fortuna 121
tuzione; disconforto, consolazione; invidia, congratula-
zione; emulazione, compassione; confidenza, diffidenza;
dominio, servitù; libertà, cattività; compagnia, solitudine.
Tu, Occasione, camina avanti, precedi gli miei passi,
aprime mille e mille strade, va incerta, incognita, oc-
colta, per ciò che non voglio che il mio advenimento sia
troppo antiveduto. Dona de* sghiaffi a tutti vati, profeti,
divini, mantici e prognosticatori. A tutti quei, che si at-
traversano per impedirne il corso nostro, donagli su le
coste. Togli via d'avanti gli miei ^piedi ogni possibile
intoppo. Ispiana e spianta ogni altro cespuglio de' dis-
segni, che ad un cieco nume possa esser molesto, onde
comodamente per te, mia guida, mi fia definito il mon-
tare o il poggiare, il divertir a destra o a sinistra, il mo-
vere, il fermare, il menar e il ritener de' passi. Io in un
momento e insieme insieme vo e vegno, stabilisco e
muovo, assorgo e siedo, mentre a diverse e infinite cose
con diversi mezzi de l'occasione stendo le mani. Discor-
rerne dunque da tutto, per tutto, in tutto, a tutto; quivi
con dei, ivi con gli eroi; qua con uomini, là con bestie.
IX.
SONNO ED OZIO <»
...Qua il Sonno si fece un passetto avanti, e si fricò
alquanto gli occhi per dire ancora lui qualche cosetta ed
apportar qualche picciolo proposito avanti il Senato,
per non parer d'esservi venuto in vano. Quando Momo
il vedde così suavemente rimenarsi pian pianino, rapito
dalla grazia e vaghezza de la dea Oscitazione, che, come
aurora avanti il sole, precedeva avanti a lui, in punto di
voler far ella il prologo; e non osando di scuoprir il suo
amor in conspetto degli dei, per non essergli lecito di
accarezzar la fante, fece carezze al signore in questa
foggia (dopo aver gittato un caldetto suspiro) parlando
per lettera, per fargli più riverenza ed onore:
Somne, quies rerum, placidissime somne deorum.
Pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
Fessa ministeriis mulces, reparasque labori.
Non sì tosto ebbe cominciata questa cantilena il dio
de le riprensioni (il quale per la già detta caggione s'era
dismenticato de l'ufficio suo) che il Sonno, invaghito
per il proposito di tante lodi e demulcto dal tono di
quella voce, invita a l'udienza il Sopore, che gli alloggiava
negli precordii. Il quale, dopo aver fatto cenno alle fu-
mositadi, che faceano residenza nel stomaco, gli mon-
(1) spaccio. Dialogo terzo
IX. - Sonno ed Ozio 123
torno tutti insieme sul cervello, e cossi vennero ad ag-
gravarli la testa, e con questo vennero e discioperarsi gli
sensi. Or mentre il Ronfo sonavagli li scifoli e tromboni
innante, andò trepidando trepidando a curvarsi e dar
di capo in seno di madonna Giunone; e da qyel chino
avenne (perchè questo dio va sempre in camicia e senza
braghe) che, per essere la camicia troppo corta, mostrò
le natiche, il coliseo e la punta del campanile a Momo e
tutti gli altri dei, ch'erano da quella parte. Or, con questa
occasione, ecco venuto in campo il Riso, con presentar
agli occhi del Senato la prospettiva di tanti ossetti, che
tutti eran denti; e, facendosi udire con la dissonante mu-
sica di tanti cachinni, interruppe il filo de l'orazione a
Momo. Il qual, non possendosi risentir contra costui,
tutto il sdegno suo converse contra il Sonno, che l'avea
provocato, con non premiarlo al meno di buona atten-
zione, e di sopragionta, con andar ad offrirgli con tanta
sollennitade il purgatorio, con la pera e baculo di Gia-
cobbe, come per maggior dispreggio del suo adulatorio
ed amatorio dicendi genus. Là onde ben si accorgeva, che
gli dei non tanto ridevano per la condizion del Sonno,
quanto per il strano caso intervenuto a lui, e perchè il
Sonno era giocatore ed egli era suggetto di questa co-
media; e con ciò avendogli la Vergogna d'un velo san-
guigno ricoperto il volto: — A chi tocca, disse, di levarci
dinanzi questo ghiro? Chi fa, che sì a lungo questo lu-
dibrioso specchio ne si presente agli occhi ? In tanto la
dea Poltronaria, commossa da la rabbiosa querela di
Momo (dio de' non più volgari, ch'abbia il cielo), se mise
il suo marito in braccio; e presto, avendolo indi tolto;
lo menò verso la cavità d'un monte vicino a gli Cim.merii,
e con questi si partirò li suoi tre figli Morfeo, Icilone e
Fantaso; che tutti tosto si ntrovorno là, dove da la terra
perpetue nebbie exalano, caggionando eterno crepuscolo
a l'aria: dove vento non soffia, e la muta Quiete tiene un
suo palaggio ancora vicino a la regia del Sonno; avanti
il cui atrio è un giardino di tassi, faghi, cipressi, bussi e
lauri; nel cui mezzo è una fontana, che deriva da un picciol
124 Parte seconda
rio. che dal rapido varco del fiume leteo, divertendo dal
tenebroso inferno alla superficie de la terra, Ivi viene a
discuoprlrsi al cielo aperto. Qua il dormiglioso dio ri-
mesero nel suo letto; di cui d'ebano le tavole, di piuma
i strami e il padiglion di seta di color pardiglio.
In questo mentre, presa avendo licenza il Riso, se
partì dal conclave; ed essendo rimesse al suo sesto le
bocche e ganasse degli dei, che poco mancò che non ve-
nesse smascellato alcuno di essi; l'Odo, il qual solo ivi
era rimaso, vedendo il gludicio de' dei non troppo inchi-
nato al suo favore, e desperando di profittar oltre in qual-
che maniera, se le sue quasi tutte e più principali rag-
gioni non erano accettate, ma, tante quante furo, di ro-
vescio erano state ributtate a terra, dove per forza de la
repulsa altre erano mal vive, altre erano crepate, altre
aveano il collo rotto, altre in tutto erano andate in pezzi e
fracasso: stimava ogni momento un anno, per pigliar
occasione di torsi de là di mezzo, prima che forse gli
potesse intravenire qualche vituperosa disgrazia simile a
quella del suo compagno, per rispetto del quale dubitava
che Momo non gli aggravasse le censure contra. Ma
quello, scorgendo il spavento, che costui avea di fatti
non suoi: — Non dubitar, povera persona, gli disse;
perchè io, instituito dal fato advocato de* poveri, non
voglio mancar di far la causa tua. E voltato a Giove, gli
disse: — Per il tuo dire, o Padre, intorno alla causa de
rOcio comprendo che non sei a pieno informato de l'esser
suo, della sua stanza e degli suoi ministri e corte; la qual
certamente se verrai a conoscere, facilmente mi persuado
che, se non come Odo lo vuoi incatedrare nelle stelle, al-
m eno come Negocio lo farai alloggiare insieme con quel-
l'altro, detto e stimato suo nemico; con il qual, senza
farsi male l'un l'altro, potrà far perpetuo soggiorno.
Rispose Giove, che lui desiderava occasione di poter
giustamente contentar l'Odo, de le cui carezze non è
mortale né dio, che non soglia sovente deiettarsi; però
che volentieri l'ascoltarebbe, se gli facesse intendere qual-
che nervosa causa in suo favore. — Ti par, Giove, disse.
IX. - Sonno ed Ozio I 25
che in casa de rOclo sia ocio, quanto a la vita attiva, là
dove son tanti gentiluomini di compagnia e servitori,
che si alzano ben per tempo la mattina, per lavarsi tre e
quattro volte con cinque o sette sorte d'acqua il volto e le
mani, e che col ferro caldo e con l'impeciatura di felce
spendeno due ore ad incresparsi e ricciarsi la chioma,
imitando la alta e grande previdenza, da cui non è ca-
pello di testa, che non viene ad essere esaminato, acciò
di quello secondo la sua raggione vegna disposto? Dove
appresso con tanta diligenza si rassetta il giuppone, con
tanta sagacità si ordinano le piegature del collaio, con
tanta moderanza s affibiano gli bottoni, con tanta genti-
lezza s'accomodano gli polsi, con tanta delicatura si pur-
gano e si contemprano le unghie, con tanta giustizia,
moderanza ed equità s'accopulano le braghe col giub-
bone, con tanta circonspezione si disponeno que' nodi
de le stringhe; con tanta sedulità si menano e rimenano
le cave palme, per far andar a sesto la calzetta; con tanta
simmetria vanno a proporzionarsi gli termini e confini,
dove l'orifìcii de' cannoni de le braghe s'uniscono a le
calzette in circa la piegatura de le ginocchia, con tanta
pazienza si comportano gli artissimi legami o garret-
tiere, perchè non diffluiscano le calzette a far le pieghe e
confondere la proporzione di quelle con le gambe; dove
col polso della difficultade dispensa e decerne il giudicio,
che, non essendo leggiadro e convenevole che la scarpa
s'accommode al piede, vegna il piede largo, distorto,
nodoso e rozzo, al suo marcio dispetto, ad accommo-
darsi con la scarpa stretta, dritta, tersa e gentile? Dove
con tanta leggiadria si muoveno gli passi, si discorre, per
farsi contemplare, la cittade, si visitano e intertegnono
le dame, si balla, si fa de capriole, di correnti, di branli,
di tresche; e, quando altro non è che fare, per essersi
stancato ne le dette operazioni, ad evitar l'inconveniente
di commettere errori, si siede a giuocare di giuochi da
tavola, ritrandosi dagli altri più forti e faticosi, e in tal
maniera s'evitano tutti li peccati, se quelli non son più
che sette mortali e capitali; perchè, come disse un gè-
1 26 Parte seconda
noese giocatore: — Che superbia vuol tu ch'abbia un
uomo, il quale, avendo perduti cento scudi con un conte,
si mette a giocar per vencere quattro reali ad un famiglio?
Che avarizia può aver colui, a cui mille scudi non durano
otto giorni? Che lussuria e amor cupidinesco può tro-
varsi in quello, il quale ha messa tutta l'attenzion del
spirto al giocare? Come potrai arguire d'ira colui, che
per tema ch'il compagno non si parta dal giuoco, com-
porta mille ingiurie, e con gentilezza e pazienza risponde
ad un orgoglioso, che gli è avanti? Per qual modo può
esser goloso chi mette ogni dispendio e applica ogni sol-
lecitudine a l'esercizio suo? Che invidia può essere in
costui per quel ch'altri possieda, se getta via, e par che
spreggle il suoP Che accidia può essere in quello, che
cominciando da mezzo giorno, e tal volta da la mattina,
insino a mezza notte mai cessa di giuocare? E vi par che
faccia in questo mentre star in odo gli servitori, e quelli
che gli denno assistere, e quelli che gli denno admini-
strare? al tempio, al mercato, a la cantina, a la cocina, a
la stalla, al letto, al bordello? E per farvi vedere, o Giove,
e voi altri dei, che in casa de l'Ozio non mancano de per-
sone dotte e literate, occupate a studii, oltre quelle oc-
cupate a' negocii, de' quali abbiamo detto: pare a voi,
che in casa de l'Odo si stia in odo quanto a la vita con-
templativa, dove non mancano grammatici, che dispu-
tano di chi è stato prima, il nome o il verbo? Perchè
l'adiettivo accade che si pona avanti e appresso al sustan-
tivo? Onde ne la dizione alcuna copula, quale, verbi gra-
zia, et, si pone innanzi ed alcun'altra, quale per essempio,
que, si pone a dietro? Come \o e e d con la giunta del
temone e scissione del d per il mezzo, viene a far como-
damente il ritratto di quel nume di Lampsaco, che per
invidia commise rasinicidio? Chi è l'autore a cui legiti-
mamente deve referirsi il libro della P r i a p e a , il
Maron mantuano, o pur il sulmonese Nasone? Lascio
tanti altri bel propositi simili, e più gentili che questi.
Dove non mancano dialettici, che inquireno, se Cnsaono,
che fu discepolo di Porfirio, avea bocca d'oro per natura,
IX. - Sonno ed Ozio 127
o per riputazione, o solamente per nomenclatura; se la
Periermenia deve passar avanti, o venir ap-
presso, o pur, ad libitum, mettersi innanzi e a dietro de
e Categorie; se l'individuo vago deve esser messo
m numero, e posto in mezzo, come un sesto predicabile,
o pur essere come scudiero de la specie e caudatario del
geno; se, dopo esser periti in forma sillogistica, doviamo
per la prima applicarne al studio della Posteriore,
dove si complisce l'arte giudicativa, o ver subito dar su
la Topica, per cui si mette la perfezion de l'arte
inventiva; se bisogna pratticar le captiuncule ad usum
vel ad fugam vel in abusum; se gli modi, che formano le
modali, son quattro, o quaranta, o quattro cento; non
voglio dire mille altre belle questioni. Dove son gli fisici,
che dubitano, se de le cose naturali può essere scienza; se
lo suggetto è ente mobile, o corpo mobile, o ente naturale,
o corpo naturale; se la materia bave altro atto che enti-
tativo; dove consiste la linea de la coincidenza del fisico
e matematico; se è la creazione e produzione de niente
è, o non; se la materia può essere senza la forma; se più
forme sustanziali possono essere insieme; ed altri innu-
merabili simili quesiti circa cose manifestissime, se non
con disutili investigazioni son messe in questione. Dove
gli metafìsici si rompeno la testa circa 11 principio dell'in-
dividuazione; circa il suggetto ente, in quanto ente;
circa il provar, che gli numeri antmetrlcl e magnitudini
geometriche non son sustanza de le cose; circa le idee,
se è vero, ch'abbiano l'esser subsistenziale da per esse;
circa l'essere medesimo, o diverso subiettivamente ed
obiettivamente; circa l'essere ed essenzia; circa gli acci-
denti medesimi in numero in uno o più suggetti; circa
l'equivocazione, univocazione ed analogia de lo ente;
circa la coniunzione de le intelligenze a li orbi stel-
liferi, se la è per modo di anima, o pur per modo di mo-
vente; se la virtù infinita possa essere in grandezza finita;
circa la unità o pluralità de primi motori; circa la scala
del progresso finito o infinito in cause subordinate; e
circa tante e tante cose simili, che fanno freneticar tante
1 2S Parte seconda
cuculle, fanno lambiccar il succhio de la nuca a tanti
protosofossi. —
Qua disse Giove: — 0 Momo, mi par che l'Ocio t'ab-
bia guadagnato o subornato, che cossi ociosamente
spendi il tempo e il proposito. Conchiudi, perchè è ben
definito appresso di noi di quel che doviamo far di co-
stui. — Lascio dunque, soggionse Momo, de referir
tanti altri negociosi innumerabili, che sono occupati in
casa di questo Dio; come è dir tanti vani versificatori
ch'ai dispetto del mondo si vogliono passar per poeti,
tanti scrittori di fabole, tanti nuovi rapportatori d'istorie
vecchie, mille volte da mille altri a milledoppia meglior-
mente referite. Lascio gli algebristi, quadraton di cir-
coli, figuristi, metodici, riformatori de dialettiche, in-
stauratori d'ortografie, contemplatori de la vita e de la
morte, veri postiglioni del paradiso, novi condottier di
vita eterna novamente corretta e ristampata con molte
utilissime addizioni, buoni nuncii di meglior pane, di
meglior carne e vino, che non possa esser il greco di
Somma, melvagìa di Candia e asprinio di Nola. Lascio
le belle speculazioni circa il fato e l'elezione, circa l'ubi-
quibilità d'un corpo, circa la eccellenza di giusticia che si
ritrova ne le sanguisughe. — Qua disse Minerva: — Se
non chiudi la bocca a questo ciancione, o padre, spende-
remo in vani discorsi il tempo; e per il giorno d'oggi non
sarà possibile di espedire il nostro principal negocio. —
Però disse il padre Giove a Momo: — Non ho tempo di
raggionar circa le tue ironie. Ma, per venire alla tua ispe-
dicione. Ocio, ti dico, che quello, che è lodevole e stu-
dioso Ocio, deve sedere e siede nella medesima catedra
con la Sollecitudine, per ciò che la fatica deve maneggiarsi
per l'ocio, e l'ocio deve contemperarsi per la fatica. Per
beneficio di quello questa fia più raggionevole, più ispe-
dita e pronta, perchè difficilmente dalla fatica si procede
a la fatica. E sì come le azioni senza premeditazione e con-
siderazione non son buone, cossi senza l'ocio premedi-
tcinte non vagliono. Parimente non può essere suave e
grato il progresso da l'ocio a l'ocio, per ciò che questo
IX. - Sonno ed Ozio 129
giamai è dolce, se non quando esce dal seno della fatica.
Or fia dunque glamal, che tu Odo, possi esser grato ve-
ramente, se non quando succedi a degne occupazioni.
L'ocio vile ed inerte voglio che ad un animo generoso sia
la maggior fatica, che aver egli possa, se non se gli rappre-
senta dopo lodabile esercizio e lavoro. Voglio che ti aventi
come signore alla Senettute, e a colei farai spesso ritorcer
gli occhi a dietro; e se la non ha lasciati degni vestigii,
la renderai molesta, triste, suspetta del prossimo giudicio
deirimpendente staggione, che l'amena a l'inexcrabile
tribunal di Radamanto, e cossi vegna a sentir gli orrori
della morte, prima che la vegna.
X.
LA VERGINE")
Sofia. — Or, che sarà della Vergine? — dimandò la
casta Lucina, la cacciatrice Diana. — Fategli, rispose
Giove, intendere se la vuole andare ad esser priora o ab-
batessa delle suore o monache, le quali son ne* conventi
o monasterii de l'Europa; dico, in que' luoghi, dove non
son state messe in rotta e dispersione da la peste: o pur
a governar le damigelle de le corti, a fin che non le as-
salte la gola di mangiar li frutti avanti o fuor de la stag-
gione, o rendersi compagne de le lor signore. — Oh,
disse Dictinna, che non puote; e dice che non vuole in
punto alcuno ritornar onde è una volta scacciata, e donde
è tante volte fuggita. — Il protoparente suggionse: —
Tegnasi dunque ferma in cielo, e guardisi bene -di ca-
scare, e veda di non farsi contaminare in questo loco. —
Disse Momo: — Mi par che la potrà perseverar pura e
netta, si perseverarà di esser lungi da animali raggionevoli,
eroi e dei, e si terrà tra le bestie, come sin al presente è
stata, avendo da la parte occidentale il ferocissimo Leone,
e dall'oriente il tossicoso Scorpio. Ma non so come si por-
tare adesso, dove gli è prossima la Magnanimitade, l'Amo-
revolezza, la Generositade e Vinlitade, che facilmente
montandogli a dosso, per raggion di domestico contatto
facendoli contraere del magnanimo, amoroso, generoso
e virile, da femina la faranno dovenir maschio, e da sel-
vaggia e alpestre dea, e nume da Satiri, Silvani e Fauni,
(1) Spaccio. Dialogo terzo.
X. - La Vergine 1 3 1
la convertiranno in nume galante, umano, affabile e ospi-
tale. — Sia quel che deve essere, rispose Giove; ed intra
tanto, gionte a lei ne la medesima sedia, sieno la Castità,
la Pudicizia, la Continenza, Purità, Modestia, Verecundia
e Onestade, contrarie alla prostituta Libidine, effusa In-
continenza, Impudicizia, Sfacciatagine; per le quali in-
tendo la Verginitade esser una de le virtudi, atteso che
quanto a se non è cosa di valore. Perchè, quanto a sé, non
è virtù né vizio, e non contiene bontà, dignità, né merito;
e quando non serve alla natura imperante, viene a farsi
delitto, impotenza, pazzia e stoltizia espressa: e se ottem-
pera a qualche urgente raggione, si chiama continenza,
e ha l'esser di virtù, per quel che participa di tal fortezza
e dispreggio di voluttadi: il quale non è vano e frustra-
torio, ma conferisce alla conversazione umana ed onesta
satisfazione altrui.
XI.
LA BILANCIA (')
E che faremo de le Bilancie?, disse Mercurio. — Va-
dano per tutto, rispose il primo presidente: vadano per le
fameglie, acciò con esse li padri veggano dove meglio
inchinano gli figli, se a lettere, se ad armi; se ad agricol-
tura, se a religione: se a celibato, se ad amore; atteso che
non è bene, che sia impiegato l'asino a volare, e ad arare
i porci. Discorrano le academie e universitadi, dove s'es-
samine se quei che insegnano, son giusti di peso, se son
troppo leggeri o trabuccanti; e se quei, che presumeno
d'insegnar in catedra e scrittura, hanno necessità d'udire
e studiare: e, bilanciandoli l'ingegno, si vegga se quello
impenna, over impiomba; e se ha della pecora, o pur del
pastore; e se è buono a pascer porci ed asini, o pur crea-
ture capaci di raggione. Per gli edifìcii Vestali vadano a
far intendere a questi e a quelle, quale e quante sia il
momento del contrapeso, per violentar la legge di natura
per un'altra sopra- o estra- o contra- naturale, secondo
o fuor d'ogni raggione o debito. Per le corti, a fin che gli
ufficii, gli onori, le sedie, le grazie ed exenzioni corrano
secondo che ponderano gli meriti e dignitade di ciascuno;
perchè non meritano d'esser presidenti a l'ordine, e a gran
torto della Fortuna presiedono a l'ordine quei che non san
reggere secondo l'ordine. Per le republiche, acciò ch'il
carico delle administrazioni contrapesi alla sufficienza e
capacità degli suggetti; e non si distribuiscano le cure con
bilanciar gli gradi del sangue, de la nobilitade, de' titoli.
(1) Spaccio. Ibid.
XI. - La Bilancia 133
de ricchezza: ma de le vlrtudi, che parturiscono gli frutti
de le imprese; perchè presiedano i giusti, contribuiscano
i {acuitosi, insegnino li dotti, guideno gli prudenti, com-
battano gli forti, conseglino quei ch'han giudicio, co-
mandino quei ch'hanno autoritade. Vadano per gli stati
tutti, a fin che negli contratti di pace, confederazioni e
leghe non si prevariche e decline dal giusto, onesto ed
utile commune, attendendo alla misura e pondo della
fede propria e de quei, con gli quali si contratta; e nel-
rimprese e affari di guerra si consideri, in quale equilibrio
concorrano le proprie forze con quelle del nemico, quello
che è presente e necessario, con quello che è possibile nel
futuro, la facilità del proponere con le diffìcultà dell'exe-
quire, la comodità dell'entrare con l'incomodo dell'uscire,
l'incostanza d'amici con la constanza de' nemici, il piacere
d'offendere con il pensiero di defendersi, il comodo turbar
quel d'altri con il malaggiato conservare il suo, il certo di-
spendio e iattura del proprio, con l'incerto acquisto e gua-
dagno de l'altrui. Per tutti gli particulari vadano, acciò
ogn'uno contrapesi quel che vuole con quel che sa; quel
che vuole e sa con quel che puote; quel che vuole, sa e
puote, con quel che deve; lo che vuole, sa, puote e deve,
con quel che è, fa, ha ed aspetta. — Or, che metteremo
dove son le Bilancie? Che sarà in loco della Libra? — do-
mandò Pallade. Risposero molti: — La Equità, il Giusto,
la Retribuzione, la raggionevole Distribuzione, la Grazia
la Gratitudine, la buona Conscienza, la Recognizion di
se stesso, il Rispetto, che si deve a* maggiori, l'Equa-
nimità, che si deve ad uguali, la Benignità, che si richiede
verso gl'inferiori, la Giustizia senza rigore a riguardo di
tutti, che spingano l'Ingratitudine, la Temeritade, l'In-
solenza, l'Ardire, l'Arroganza, il poco Rispetto, l'Iniqui-
tade, l'Ingiuria ed altre familiari di queste. — Bene,
bene! — dissero tutti del Concistoro.
XII.
ORIONE*')
i
Che farete, o Dei, del mio favorito, del mio bel mi-
gnone, di quell'Orione, dico, che fa, per spavento (come
dicono gli etimologisti), orinare il cielo?
— Qua, rispose Momo: — Lasciate proponere a me,
o dei. Ne è cascato, come è proverbio in Napoli, il mac-
carone dentro il formaggio. Questo, perchè sa far de ma-
raviglie, e, come Nettuno sa, può caminar sopra l'onde
del m.are senza infossarsi, senza bagnarsi gli piedi; e con
questo consequentemente potrà far molte altre belle gen-
tilezze; mandiamolo tra gli uomini; e facciamo che gli
done ad intendere tutto quello che ne pare e piace, fa-
cendogli credere che il bianco è nero, che l'intelletto
umano, dove li par meglio vedere, è una cecità; e ciò che
secondo la raggione pare eccellente, buono e ottimo, è
vile, scelerato ed estremamente malo; che la natura è
una puttana bagassa; che la legge naturale è una ribaldaria;
che la natura e divinità non possono concorrere in uno
medesimo buono line, e che la giustizia de l'una non è
subordinata alla giustizia de l'altra, ma son cose contrarie,
come le tenebre e la luce; che la divinità tutta è madre di
Greci, ed è ccme nemica matrigna de l'altre generazioni;
onde nessuno può esser grato a' dei altrimente che gre-
chizando, id est facendosi Greco: perchè il più gran sce-
lerato e poltrone, ch'abbia le Grecia, per essere appar-
tenente alla generazione degli dei, è incomparabilmente
megliore che il più giusto e magnanimo, ch'abbia pos-
suto uscir da Roma, in tempo che fu republica, e da qual-
sivoglia altra generazione, quantunque meglior in costumi,
I spaccio. Terza parte del dialogo terzo
XII. - Orione 135
scienze, fortezza, gludicio, bellezza e autorità. Perchè
questi son doni naturali e spreggiati dagli dei, e lasciati
a quelli, che non son capaci de più grandi privilegi!: cioè
di que' sopranaturali, che dona la divinità, come questo
di saltar sopra Tacqui, di far ballere i granchi, di far fare
capriole a' zoppi, far vedere le talpe senza occhiali, ed
altre belle galantarie innumerabili. Persuaderà con questo,
che la filosofia, ogni contemplazione ed ogni magia, che
possa fargli simili a noi, non sono altro che pazzie; che ogni
atto eroico non è altro che vegliaccaria; e che la ignoranza
è la pili bella scienza del mondo, perchè s'acquista senza
fatica, e non rende l'animo affetto di melancolia. Con
questo forse potrà richiamare e ristorar il culto ed onore,
ch'abbiamo perduto; ed oltre, avanzarlo, facendo che gli
nostri mascalzoni siano stimati dei per esserno o Greci
o ingrecati. Ma con timore, o dei, io vi dono questo con-
seglio; perchè qualche mosca mi susurra ne l'orecchio:
atteso che potrebbe essere, che costui al fine, trovandosi
la caccia in mano, non la tegna per lui, dicendo e facen-
doli oltre credere, che il gran Giove non è Giove ma che
Orione è Giove; e che li dei tutti non sono altro che chi-
mere e fantasie. Per tanto mi par pure convenevole, che
non permettiamo, che per fas et nefas, come dicono, voglia
far tante destrezze e demostranze, per quante possa farsi
nostro superiore in riputazione. —
Qua rispose la savia Minerva: — Non so, o Momo,
con che senso tu dici queste paroli, doni questi consegli,
metti in campo queste cautele. Penso ch'il parlar tuo è
ironico; perchè non ti stimo tanto pazzo, che possi pensar
che gli dei mendicano con queste povertadi la riputazione
appresso gli uomini; e, quanto a questi impostori, che la
falsa riputazion loro, la quale è fondata sopra l'ignoranza
e bestialità de chiunque le riputa e stima, sia lor onore
più presto, che confirmazione della loso indignità e som-
mo vituperio. Importa a l'occhio della divinità e presi-
dente verità, che uno sia buono e degno, benché nissuno
de' mortali lo conosca; ma che un altro falsamente ve-
nesse sino ad essere stimato dio da tutti mortali, per ciò
Bruno, In tristitia hilarii, etc II .
136 Parte seconda
non si agglongerà dignità a lui, perchè solamente vien
fatto dal fato Instrumento e indice, per cui si vegga la
tanto maggiore indignità e pazzia di que* tutti, che lo
stimano, quanto colui è più vile, ignobile e abietto. Se
dunque si prenda non solamente Orione, il quale è Greco
e uomo di qualche pregglo; ma uno della piìi indegna e
fraclda generazion del mondo, di più bassa e sporca na-
tura e spirito, che sia adorato per Giove, certo mai verrà
esso onorato in Giove, ne Giove spreggiato in lui: atteso
che egli mascherato e incognito ottiene quella piazza o
solio, ma più tosto altri verranno vilipesi e vituperati
in lui. Mal, dunque, potrà un forfante essere capace di
onore per questo, che serve per scimia e beffa di ciechi
mortali con il ministero de' genii nemici. —
Or sapete, disse Giove, quel che definisco di costui
per evitar ogni possibile futuro scandalo? Voglio che
vada via a basso; e comando che perda tutta la virtù di far
de bagattelle, imposture, destrezze, gentilezze e altre
maraviglie, che non serveno di nulla; perchè con quello
non voglio, che possa venire a destruggere quel tanto di
eccellenza e dignità, che si trova e consiste nelle cose
necessarie alla republlca del mondo; il qual veggio quanto
sia facile ad essere ingannato, e per conseguenza incli-
nato alle pazzie, e prono ad ogni corrozione e indignità.
Però non voglio che la nostra riputazione consista nella
discrezione di costui o altro simile; perchè, se pazzo è
un re, il quale a un suo capitano e generoso duca dona
tanta potestà e autorità, per quanta quello se gli possa
far superiore (il che può essere senza pregiudicio del
regno, il quale potrà cossi bene, e forse meglio, esser go-
vernato da questo che da quello); quanto più sarà insen-
sato e degno di correttore e tutore, se ponesse o lasciasse
nella medesima autorità un uomo abietto, vile e ignorante,
per cui vegna ad essere invilito, strapazzato, confuso e
messo sotto sopra il tutto; essendo per costui posta la
ignoranza in consuetudine di scienze, la nobiltà in di-
spreggio e la villania in riputazione!
XIII.
LA TAZZA <"
Sofia. — Or che si farà de la Tazza? dimandò Mercurio.
De la giarra che si farà? — Facciamo, disse Momo, che
sia donata, iure successionis, vita durante, al piìi gran be-
vitore che produca l'alta e bassa Alemagna, dove la Gola
è esaltata, magnificata, celebrata e glorificata tra le vir-
tudi eroiche; e la Ebrietade è numerata tra gli attributi
divini: dove col treink e retreink, hibe et rebibe, ructa rC"
ructa, cespita recespita, vomi revomi usque ad egurgitatio-
nem utriusque iuris, id est del brodo, butargo, menestra,
cervello, anime e salzicchia, videbitur porcus porcorum in
gloria Ciacchi. Vadasene con quello l'Ebriatede, la qual
non la vedete là in abito todesco con un paio di bragoni
tanto grandi, che paiono le bigonce del mendicante ab-
bate di santo Antonio, e con quel braghettone, che da
mezzo de l'uno e l'altro si discuopre: di sorte che par che
voglia arietare il paradiso? Guardate come la va órsa,
urtando ora con questo, ora con quel fianco, mò di proda,
mò di poppa, in qualche cosa, che non è scoglio, sasso,
cespuglio, o fosso, a cui non vada a pagar il fio. Scorgete
con ella gli compagni fidelissimi Replezione, Indige-
stione, Fumositade, Dormitazione, Trepidazione, alias
Cespitazione, Balbuzie, Blesura, Pallore, Delirio, Rutto,
Neusea, Vomito, Sporcaria ed altri seguaci, ministri e cir-
constanti. E perchè la non può più caminare, vedete.
(1) Spaccio. Dialogo terzo
133 Pdfte seconda
come rimonta sul suo carro trionfale, dove sono legati
molti buoni, savll e santi personaggi de' quali li più ce-
lebri e famosi sono Noemo, Lotto, Chiacchone, Vltan-
zano, Zucavlgna e Sileno. L'alfìero Zampaglion porta la
banda fatta di scarlato; dove con il color di proprie penne
appare di dol sturni il naturai ritratto; e gionti a doi gioghi,
con bella leggiadria tirano il temone quattro superbi e
gloriosi porci, un bianco, un rosso, un vario, un negro;
de* quali il primo si chiama Grungarganfestrofìel, il se-
condo Sorbillgramfton, il terzo Glutius, il quarto Scra-
focazio.
XIV.
IL CENTAURO <"
Or, che vogliamo far di quest'uomo insertato a bestia*
o di questa bestia inceppata ad uomo, in cui una persona
è fatta di due nature, e due sustanze concorreno in una
ipostatica unione? Qua due cose vegnono in unione a far
una terza entità; e di questo non è dubio alcuno. Ma in
questo consiste la difficultà; cioè, se cotal terze entità
produce cosa megliore che l'una e l'altra, o d'una delle
due parti, o veramente più vile. Voglio dire, se, essendo
a l'essere umano aggionto l'essere cavallino, viene pro-
dotto un divo degno de la sedia celeste, o pur una bestia
degna di esser messa in un armento e stalla? In fine, e
sia stato detto quanto si voglia da Iside, Giove ed altri
dell'eccellenza de l'esser bestia, e che a l'uomo, per esser
divino, gli conviene aver de la bestia, e quando appe-
tisce mostrarsi altamente divo, faccia conto di farsi vedere
in tal misura bestia; mai potrò credere che, dove non è
un uomo intiero e perfetto, né una perfetta e intiera
bestia, ma un pezzo di bestia con un pezzo d'uomo, possa
esser meglio che come dove è un pezzo di braga con un
pezzo di giubbone, onde mai provegna veste meglior
che giubbone o braga, ne meno cossi come questa o quella,
buona. — Momo, Momo, rispose Giove, il misterio
di questa cosa è occolto e grande, e tu non puoi capirlo;
però come cosa alta e grande, ti fìa mestiero di solamente
. (1) Ibid
140 Parte seconda
crederlo. — So bene, disse Momo, che questa è una cosa,
che non può esser capita da me, né da chiunque ha qual-
che piccolo granello d'intelletto; ma che io, che son un
dio, o altro, che si trova tanto sentimento, quanto esser
potrebbe un acino di miglio, debba crederlo, vorrei che
da te prima con qualche bella maniera mi vegna donato
a credere. — Momo, disse Giove, non devi voler sa-
pere più di quel che bisogna sapere, e credimi, che questo
non bisogna sapere. — Ecco dunque, disse Momo, quel
che è necessario intendere, e ch'io al mio dispetto voglio
sapere; e, per farti piacere, o Giove, voglio credere, che
una manica e un calzone vagHono più che un par di ma-
niche e un par di calzoni, e di gran vantaggio ancora;
che un uomo non è uomo, che una bestia non è bestia...
XV.
IL PESCE <')
Saulino. Or che dissero li Dei?
SoF, Non fu grande o picciolo, maggiore o minore, ma-
schio o femina, o d'una e d'un'altra sorte, che si trovasse
nel conseglio, che con ogni voce o gesto non abbia som-
mamente approvato il sapientissimo e giustissimo decreto
Gioviale. Là onde, fatto tutto allegro e gioioso, il summi-
tonante s'alzò in piedi, e stese la destra verso il pesce
australe, di cui solo restava a definire, e disse: — Presto
tolgasi da là quel Pesce, e non vi nmagna altro che il suo
ritratto; ed esso in sustanza sia preso dal nostro cuoco, ed
or ora, fresco fresco, sie messo per compimento di nostra
cena parte in craticchia, parte in guazzetto, parte in agresto
parte acconcio come altnmente li pare e piace, accomo-
dato con salza rom.ana. E facciasi tutto presto, perchè
per il troppo negociare io mi muoio di fame, ed il simile
credo de voi altri anco: oltre che mi par convenevole,
che questo purgatorio non sia senza qualche nostro pro-
fìtto ancora. — Bene, bene, assai bene! risposero tutti
gli dei; e ivi si trove la Salute, la Securità, l'Utilità, il
Gaudio, il Riposo, e somma Voluttade, che son parturite
dal premio de virtudi, e remunerazion de studii e fatiche.
E con questo festivamente uscirò dal conclave, avendo
purgato il spacio oltre il signifero, che contiene trecento
e sedici stelle segnalate.
(1) spaccio. Ibid.
PARTE TERZA
I.
EPISTOLA
DEDICATORIA A DON SABATINO ("
Reverendissime in Christo Pater,
Non altrìmente che accader suole a un figolo, il qua],
gionto al termine del suo lavoro (che, non tanto per tra-
smigrazion de la luce, quanto per difetto e mancamento
della materia spacciata, è gionto al fine) e tenendo in
mano un poco di vetro o di legno, o di cera o altro, che
non è sufficiente per farne un vase, rimane un pezzo senza
sapersi né potersi risolvere, pensoso di quel che n'abbia
fare, non avendolo a gittar via disutilmente, e volendo,
al dispetto del mondo, che serva a qualche cosa; ecco che
a l'ultimo il mostra predestinato ad essere una terza ma-
nica, un orlo, un coperchio di fiasco, una forzaglia, un
empiastro, o una intacconata, che risalde, empia, o ri-
cuopra qualche fessura, pertuggio, o crepatura; è avvenuto
a me, dopo aver dato spaccio, non a tutti miei pensieri,
ma a un certo fascio de scritture solamente, che al fine,
non avendo altro da ispedire, più per caso che per consi-
glio ho volti gli occhi ad un cartaccio, che avevo altre volte
spreggiato e messo per copertura di que' scritti: trovai che
conteneva in parte quel tanto che vi vederete presentato.
Questo prima pensai di donarlo a un cavalliero; il quale,
avendovi aperti gli occhi, disse che non avea tanto stu-
diato che potesse intendere gli misterii; e per tanto non
gli possea piacere. L'offersi appresso ad un di questi mi-
nistri verbi Dei; e disse che era amico della lettera, e che
(I) Cabala del Cavallo Pegasto
148 Parte terza
non SI delettava de simili esposizioni proprie a Origene,
accettate da* scolastici ed altri nemici della lor professione.
Il misi avanti ad una dama; e disse che non gli aggradava
per non esser tanto grande quanto conviene al suggetto
d'un cavallo e un asino. Il presentai ad un'altra; la quale,
quantunque gustandolo gli piacesse, avendolo gustato
disse che ci volea pensar su per qualche giorno. Viddi se
vi potesse accoraggiar una pinzocchera; e la me disse:
Non lo accetto, se parla d'altro che di rosario, della vertù
de' granelli benedetti e de l'agnusdei.
Accostailo al naso d'un pedante, il qual, avendo tor-
ciuto il viso in altra parte, mi disse che aboliva ogn 'altro
studio e materia, eccetto che qualche annotazione, scolia
e interpretazione sopra Vergilio, Terenzio e Marco Tullio.
Udivi da un versificante che non lo volea, se non era qual-
che copia d'ottave rime o de sonetti. Altri dicevano, che
gli meglior trattati erano stati dedicati a persone, che
non erano megliori che essi loro. Altri co' l'altre raggio ni
mi parevan disposti a dovermene ringraziar o poco o
niente, se io gli l'avesse dedicato; e questo non senza
caggione, perchè, a dir il vero, ogni trattato e considera-
zione deve essere speso, dispensato e messo avanti a quel
tale, che è de la suggetta professione o grado.
Stando dunque io con gli occhi affissi su la raggi on
della materia enciclopedica, mi ricordai dell'enciclope-
dico vostro ingegno, il qual non tanto per fecondità e ric-
chezza par che abbraccie il tutto, quanto per certa pele-
grina eccellenza par ch'abbia il tutto e meglio ch'il tutto.
Certo, nessun potrà più espressamente che voi compren-
dere il tutto, perchè siete fuor del tutto; possete entrar
per tutto, perchè non è cosa che vi tegna rinchiuso; pos-
sete aver il tutto, perchè non è cosa che abbiate. (Non so
se mi dechiararò meglio col descrivere il vostro ineffabile
intelletto). Io non so se siete teologo, o filosofo, o caba-
lista; ma so ben che siete tutti, se non per essenza, per par-
tecipazione; se non in atto, in potenza; se non d appresso,
da lontano. In ogni modo credo che siate cossi sufficiente
nell'uno come nell'altro. E però eccovi cabala, teologia e
I. - Epistola dedicatoria a don Sapatino 149
filosofìa: dico una cabala di teologica filosofìa, una filosofìa
di teologia cabalistica, una teologia di cabala filosofica,
di sorte ancora che non so se queste tre cose avete o come
tutto, o come parte, o come niente; ma questo so ben certo,
che avete tutto del niente in parte, parte del tutto nel
niente, niente de la parte in tutto.
Or per venire a noi, mi dimanderete; che cosa è questa
che m'inviate? quale è il suggetto di questo libro? di che
presente m'avete fatto degno? Ed io vi rispondo, che
vi porgo il dono d'un Asino, vi presento l'Asino, il quale
vi farà onore, vi aumentare dignità, vi metterà nel libro
de l'eternità. Non vi costa niente per ottenerlo da me ed
averlo per vostro; non vi costarà altro per mantenerlo,
perchè non mangia, non beve, non imbratta la casa; e
sarà eternamente vostro, e duraràvi più che la vostra
mitra, crocea, piovale, mula e vita; come, senza molto
discorrere, possete voi medesimo ed altri comprendere.
Qua non dubito, reverendissimo Monsignor mio, che
il dono de l'asino non sarà ingrato alle vostra prudenza e
pietà: e questo non dico per caggione, che deriva dalla
consuetudine di presentar a' gran maestri non solamente
una gemma, un diamante, un rubino, una perla, un cavallo
perfetto, un vase eccellente; ma ancora una scimia, un
papagallo, un gattomammone, un asino; e questo, al-
lora che è necessario, è raro, è dottrinale; e non è degli
ordinarii. L'asino indico è precioso e duono papale in
Roma; l'asino d'Otranto è duono imperiale in Costanti-
nopoli; l'asino di Sardegna è duono regale in Napoli;
e l'asino cabalistico, il qual è ideale e per conseguenza
celeste, volete voi che debba essere men caro in qual si
voglia parte de la terra a qual si voglia principal perso-
naggio, che per certa benigna ed alta repromissione sap-
piamo che si trova in cielo il terrestre? Son certo, dunque,
che verrà accettato da voi con quell'animo, con quale
da me vi vien donato.
Prendetelo, o padre, se vi piace, per ucello, perchè è
alato, ed il più gentil e gaio, che si possa tener in gabbia.
Prendetelo, se *1 volete, per fiera, perchè è unico, raro e
150 Parte tei za
pelegrlno da un canto, e non è cosa più brava, che possiate
tener ferma in un antro o caverna. Trattatelo, se vi piace,
come domestico; perchè è ossequioso, comite e servile;
ed è il meglior compagno, che possiate aver in casa. Vedete
che non vi scampe di mano; perchè è il meglior destriero,
che possiate pascere, o, per dir meglio, vi possa pascere
in stalla; meglior familiare, che vi possa esser contuber-
nale e trattenimento in camera. Meneggiatelo come una
gioia e cosa preciosa; perchè non possete aver tesoro più
eccellente nel vostro ripostiglio. Toccatelo come cosa
sacra, e miratelo come cosa da gran considerazione; perchè
non possete aver meglior libro, meglior imagine e meglio
specchio nel vostro Ccibinetto. Tandem, se per tutte queste
raggioni non fa per il vostro stomaco, lo potrete donar
ad alcun altro, che non ve ne debba essere ingrato. Se
l'avete per cosa ludicra, donatelo a qualche buon caval-
liero, perchè lo mette in mano de' suoi paggi, per tenerlo
caro tra le scimie e cercopitechi. Se lo passate, per cosa
armentale, ad un contadino, che li done ricetto tra il suo
cavallo e bue. Se '1 stimate cosa ferina, concedetelo a
qualche Atteone, che lo faccia vagar con gli capri e gli
cervi. Se vi par ch'abbia del mignone, fatene copia a
qualche damigella, che lo tegna in luogo in martora e ca-
gnuola. Se finalmente vi par eh cibbia del matematico,
fatene grazia ad un cosmografo, perchè gli vada rependo e
salticchiando tra il polo artico ed antartico de una di queste
sfere armillan, alle quali non men comodamente potrà
dar il moto continuo, ch'abbia possuto donar l'infuso mer-
curio a quella d'Archimede, ad esser più efficacemente
tipo del megacosmo, in cui da l'anima intrinseca pende la
concordanza ed armonia del moto retto e circolare.
Ma, se siete, come vi stimo, sapiente, e con maturo giu-
dicio considerate, lo terrete per voi, non stimando a voi
presentata da me cosa men degna, che abbia possuto pre-
sentar a Papa Pio quinto, a cui consecrai 1 *A r e a di
Noè; al re Errico terzo di Francia, il quale immorta-
leggio con rO mbre de le Idee; al suo legato
in Inghilterra, a cui ho conceduti Trenta sigilli;
I. — Epistola dedicatoria a don Sapatino 131
al cavallier Sidneo, al quale ho dedicata la Bestia
trionfante. Perchè qua avete non solamente la
bestia trionfante viva; ma, ed oltre, gli trenta sigilli aperti,
la beatitudme perfetta, le ombre chiarite e l'arca gover-
nata; dove l'asino (che non invidia alla vita delle ruote del
tempo, all'ampiezza de l'universo, alla felicità de l'intel-
ligenze, alla luce del sole, al baldachino di Giove) è mo-
deratore, dechiaratore, consolatore, aperitore e presi-
dente. Non è, non è asino da stalla o da armento, ma di
que' che possono comparir per tutto, andar per tutto,
entrar per tutto, seder per tutto, comunicar, capir, con-
segliar, definir e far tutto. Atteso che, se lo veggio zappar,
inaffiar e inacquare, perchè non volete ch'il dica orto-
lano? S'ei solca, pianta e semina, perchè non sarà agri-
coltore? Per qual caggione non sarà fabro, s'ei è mani-
polo, mastro e architettore? Chi m'impedisce che non lo
dica artista, se è tanto inventivo, attivo e reparativo? Se
è tanto esquisito argumentore, dissertore e apologetico,
perchè non vi piacerà che lo dica scolastico? Essendo
tanto eccellente formator di costumi, institutor di dottrine
e riformator de religioni, chi si farà scrupolo de dirlo
academ.ico, e stimarlo archimandrita di qualche archidi-
dascalia? Perchè non sarà monastico, stante ch'egli sia
corale, capitolare e dormitoriale? S'egli è per voto povero,
casto e ubediente, mi biasimarete, se lo dirò conventuale?
Mi impedirete voi, che non possa chiamarlo conclavi-
stico, stante ch'egli sia per voce attiva e passiva gradua-
bile, eligibile, prelatibile? S'è dottor sottile, irrefraga-
bile ed illuminato, con qual conscienza non vorrete che
lo stime e tegna per degno consegliero? Mi terrete voi la
lingua, perchè non possa bandirlo per domestico, essendo
che in quel capo sia piantata tutta la moralità politica ed
economica? Potrà far la potenza de canonica autoritade
ch'io non lo tegna ecclesiastica colonna, se mi si mostra
di tal maniera pio, devoto e continente? Se lo veggo
tanto alto, beato e trionfante, potrà far il cielo e mondo
tutto che non lo nomine divino, olimpico, celeste? In
conclusione (per non rompere più il capo a me ed a voi)
é
Bruno, In tristitia hilaris, etc 12.
152
Parte terza
mi par che sia Tistessa anima del mondo, tutto in tutto, e
tutto in qualsivoglia parte. Or vedete, dunque, quale e
quanta sia la importanza di questo venerabile suggetto,
circa il quale noi facciamo il presente discorso e dialoghi:
nelli quali, se vi par vedere un gran capo o senza busto,
o con una picciola coda, non vi sgomentate, non vi sdc"
gnate, non vi maravigliate; perchè si trovano nella na-
tura molte specie d'animali, che non hanno altri membri
che testa, o par che siano tutto testa, avendo questa cossi
grande e l'altre parti come insensibili; e per ciò non manca
che siano perfettissime nel suo geno. E se questa raggione
non vi sodisfa, dovete considerar oltre, che questa ope-
retta contiene una descrizione, una pittura; e che negli
ritratti suol bastare il più de le volte d'aver ripresentata la
testa sola senza il resto. Lascio che tal volta si mostra ec-
cellente artificio in far una sola mano, un piede, una gamba,
un occhio, una svelta orecchia, un mezzo volto, che si
spicca da dietro un arbore, o dal cantoncello d'una fe-
nestra, o sta come sculpito al ventre d'una tazza, la qual
abbia per base un pie d'oca, o d'aquila, o di qualch'altra
animale; non però si danna, ne però si spreggia, ma più
viene accettata e approvata la manifattura. Cossi mi per-
suado, anzi son certo, che voi accettarete questo dono
come cosa cossi perfetta, come con perfettissimo cuore
vi vien offerta. Vale.
II.
IN LODE DE L'ASINO ">
0 sant* asinità, sant* ignoranza.
Santa stolticia e pia divozione,
Qual sola puoi far Vanirne sì buone,
CWuman ingegno e studio non F avanza;
Non gionge faticosa vigilanza
D'arte, qualunque sia, o 'nvenzione,
Né de sofossi contemplazione
Al del, dove t'edifichi la stanza.
Che vi vai, curiosi, il studiare.
Voler saper quel che fa la natura,
Se gli astri son pur terra, fuoco e mare?
La santa asinità di ciò non cura;
Ma con man gionte e 'n ginocchion vuol stare.
Aspettando da Dio la sua ventura.
Nessuna cosa dura.
Eccetto il frutto de l'eterna requie.
La qual ne done Dio dopo Fessequie.
(1) Dalla Cabala del Cavallo Pegaseo,
154 Parte terza
A L'ASINO CILLENICO
Oh beato quel venir e le mammelle.
Che t'ha portato, e n terra ti lattare,
Animalaccio divo, al mondo caro.
Che qua fai residenza e tra le stelle!
Mai più preman tuo dorso basti e selle,
E contril mondo ingrato e del avaro
Ti faccia sort'e natura riparo
Con sì felice ingegno e buona pelle.
Mostra la testa tua buon naturale.
Come le nari quel giudicio sodo.
L'orecchie lunghe un udito regale.
Le dense labbra di gran gusto il modo,
Da far invidia a' dei quel genitale;
Cervice tal la costanza, ch'io lodo.
Sol lodandoti godo:
Ma, lasso, cercan tue condizioni
Non un sonetto, ma mille sermoni.
III.
DISSERTAZIONI SOPRA L'ASINITÀ'"
Oimè, auditor mio, che senza focoso suspiro, lubrico
pianto e tragica querela, con l'affetto, con gli occhi e le
raggioni non può rammentar il mio ingegno, intonar
la voce e dechiarar gli argumenti, quanto sia fallace il
senso, turbido il pensiero ed imperito il giudicio, che con
atto di perversa, iniqua e pregiudiciosa sentenza non vede,
non considera, non definisce secondo il debito di natura,
verità di ragglone e diritto di giustizia circa la pura bon-
tade, regia sinceritade e magnifica maestade della santa
ignoranza, dotta pecoragme, e divina asinitade! Lasso! a
quanto gran torto da alcuni è sì fieramente essagitata
quest'eccellenza celeste tra gli uomini viventi, contro la
quale altri con larghe narici si fan censori, altri con aperte
sanne si fan mordaci, altri con comici cachini si rendono
beffeggiatori. Mentre ovunque spreggiano, burlano e vi-
lipendeno qualche cosa, non gli odi dir altro che: Costui,
è un asino, quest azione è asinesca, questa è una asini-
tade; — stante che ciò absolutamente convegna dire
dove son più maturi discorsi, più saldi proponimenti e
più trutinate sentenze. Lasso! perchè con ramarico del
mio core, cordoglio del spirito e aggravio de l'alma mi
si presenta agli occhi questa imperita, stolta e profana
moltitudine, che sì falsamente pensa, sì mordacemente
parla, sì temerariamente scrive per parturir que' scelerati
(1) Cabala del Cavallo Pegaseo. — Declamazione al studioso, divoto e pio
lettore.
156 Parte terza
discorsi de' tanti monumenti, che vanno per le stampe,
per le librarle, per tutto, oltre gli espressi ludibrli, dlspreg-
gi e biasimi: l'asmo d'oro, le lodi de l'asmo, l'encomio de
l'asino; dove non si pensa altro che con ironiche sentenze
prendere la gloriosa asinitade in gioco, spasso e scherno?
Or, chi terrà il mondo, che non pensi ch'io faccia il si-
mile? Chi potrà donar freno alle lingue, che non met-
tano nel medesimo predicamento, come colui che corre
appo gli vestigli degli altri, che circa cotal suggetto demo-
criteggiano? Chi potrà contenerli, che non credano, af-
fermino e confermino, che io non intendo vera- e serio-
samente lodar l'asino e asinitade, ma piuttosto procuro di
aggionger oglio a quella lucerna, la quale è stata dagli
altri accesa? Ma, o miei protervi e temerarli glodlcl, o
neghittosi e ribaldi calunniatori, o foschi e appassionati
detrattori, fermate il passo, voltate gli oc hi, prendete
la mira; vedete, penetrate, considerate se gli concetti sem-
plici, le sentenze enunciative e gli discorsi sillogistici,
ch'apporto in favor di questo sacro, impolluto e sarìto ani-
male, son puri, veri e demostratlvi, o pur son fìnti, im-
possibili ed apparenti. Se le vedrete in effetto fondati
su le basi de fondamenti fortissimi, se son belli, se son
buoni; non le schivate, non le fuggite, non le rigettate;
ma accettatele, seguitele, abbracciatele, e non siate oltre
legati dalla consuetudine del credere, vinti dalla suffi-
cienza del pensare, e guidati dalla vanità del dire, se altro
vi mostra la luce de l'intelletto, altro la voce della dot-
trina intona ed altro l'atto de l'esperienza conferma.__
L'asino ideale e cabalistico, che ne vien proposto nel
corpo de le Sacre Lettere, che credete voi che sia? Che
pensate voi essere il cavallo pegaseo, che vien trattato in
figura degli poetici fìgmenti? De l'asino cillenico degno
d'esser messo in croceis nelle più onorate academie che
v'imaginate? Or, lasciando il pensier del secondo e terzo
da canto, e dando sul campo del primo, platonico pari-
mente e teologale, voglio che conosciate che non manca
testimonio dalle divine ed umane lettere, dettate da sacri
e profani dottori, che parlano con l'ombra de scienze e
III. -- Dissertazioni sopra l'asinità 157
lume della fede. Saprà, dico, ch'io non mentisco colui
ch'è anco mediocremente perito in queste dottrine, quan-
do avien ch'io dica l'asino ideale esser principio prodot-
tivo, formativo e perfettivo sopranaturalmente della specie
asinina; la quale, quantunque nel capacissimo seno della
natura si vede ed è dall'altre specie distinta, e nelle menti
seconde è messa in numero, e con diverso concetto ap-
presa, e non quel medesimo, con cui l'altre forme s'ap-
prendeno; nulla di meno (quel ch'importa tutto) nella
prima mente è medesima che la idea de la specie umana,
medesima, che la specie de la terra, della luna, del sole,
medesima che la specie dell'intelligenze, degli demoni,
degli dei, degli mondi, de l'universo; anzi è quella specie,
da cui non solamente gli asini, ma e gli uomini, e le stelle
e gli mondi, e gli mondani animali tutti han dependenza:
quella dico, nella quale non è differenza di forma e sug-
getto, di cosa e cosa; ma è semplicissima ed una.
Vedete, vedete, dunque, d'onde derive la caggione, che,
senza biasimo alcuno il santo de' santi, or è nominato, non
solamente leone, monocorno, rinoceronte, vento, tempesta,
aquila, pellicano, ma e non uomo, opprobrio degli uomini,
abiezion di plebe, pecora, agnello, verme, similitudine
di colpa, sin ad esser detto peccato e peggio. Considerate
il principio della causa, per cui gli cristiani e giudei non
s'adirano, ma più tosto con glorioso trionfo si congratu-
lano insieme, quando con le metaforiche allusioni nella
Santa Scrittura son figurati per titoli e definizioni asini,
son appellati asini, son definiti per asini: di sorte che,
dovunque si tratta di quel benedetto animale, per moralità
di lettera, allegoria di senso, ed anagogia di proposito,
s'intende l'uomo giusto, l'uomo santo, l'uomo de Dio.
Pregate, pregate Dio, o carissimi, se non siete ancora
asini, che vi faccia dovenir asini. Vogliate solamente;
perchè certo certo, facilissimamente vi sarà conceduta la
grazia: perchè, benché naturalmente siate asini, e la di-
sciplina commune non sia altro che una asinitade, dovete
avertire e considerar molto bene se siate asini secondo Dio;
158 Parte terza
dico, se siate quei sfortunati, che nmagnono legati avanti
la porta, o pur quegli altri felici, li quali entran dentro.
Ricordatevi, o fìdeli, che gli nostri primi parenti a quel
tempo piacquero a Dio, ed erano in sua grazia, in sua sal-
vaguardia, contenti nel terrestre paradiso nel quale erano
asini, cioè semplici ed ignoranti del bene e male; quando
posseano esser titillati dal desiderio di sapere bene e male;
e per consequenza non ne posseano aver notizia alcuna;
quando possean credere una buggia, che gli venesse detta
dal serpente; quando se gli possea donar ad intender sin
a questo: che, benché Dio avesse detto che morrebono,
né potesse essere il contrario, in cotal disposizione erano
grati, erano accetti, fuor d'ogni dolor, cura e molestia.
Sovvegnavi ancora ch'amò Dio il popolo ebreo, quando
era afflitto, servo, vile, oppresso, ignorante, onerario,
portator de' còfìni, somarro, che non gli possea mancar
altro, che la coda ad esser asino naturale sotto il dominio
de l'Egitto: allora fu detto da Dio suo popolo, sua gente,
sua scelta generazione. Perverso, scelerato, reprobo, adul-
tero, fu detto quando fu sotto le discipline, le dignitadi,
le grandezze e similitudine degli altri popoli e regni ono-
rati secondo il mondo.
Non è chi non loda l'età de l'oro, quando gli
uomini erano asini, non sapean lavorar la terra, non
sapean l'un dominar a l'altro, intender più de l'altro,
avean per tetto gli antri e le caverne, si donavano a dosso
come fan le bestie, non eran tante coperte e gelosie e con-
dimenti de libidine e gola; ogni cosa era commune, il
pasto eran le poma, le castagne, le ghiande in quella forma
che son prodotte dalla madre natura. Non é chi non sap-
pia qualmente non solamente nella specie umana, ma e
in tutti gli geni d'animali la madre ama più, accarezza più
mantien contento più e ocioso, senza sollecitudine e fa-
tica, abbraccia, bacia, stringe, custodisce il figlio minore,
come quello che non sa male e bene, ha dell'agnello, ha
de la bestia; é un asino, non sa cossi parlare, non può
tanto discorrere; e come gli va crescendo il senno e la
prudenza, sempre a mano a mano se gli va scemando
III. - Dissertazioni sopra l'asinità 1 59
ramore, la cura, la pia affezione, che gli vien portata dagli
suoi parenti. Non è nemico, che non compatisca, abblan-
disca, favorisca a quella età, a quella persona, che non ha
del virile, non ha del demonio, non ha de l'uomo, non ha
del maschio, non ha de l'accorto, non ha del barbuto,
non ha del sodo, non ha del maturo. Però, quando si
vuol mover Dio a pietà e comiserazione il suo Signore,
disse quel profeta: Ah, ah ah. Domine, quia nescio loqui;
dove, col ragghiare e sentenza, mostra esser asino. E in
un altro luogo dice: Quia puer sum. Però, quando si brama
la remission della colpa, molte volte si presenta la causa
nelli divini libri, con dire: Quia stulte egimus, stulte ege-
runt, quia nesciunt quidfaciant, ignoramus, non intellexerunt .
Quando si vuol impetrar da lui maggior favore, ed
acquistar tra gli uomini maggior fede, grazia ed autorità
si dice in un loco, che li apostoli eran stimati imbreachi;
in un altro loco, che non sapean quel che dicevano; perchè
non erano essi che parlavano: ed un de' più eccellenti ,
per mostrar quanto avesse del semplice, disse, che era
stato rapito al terzo cielo, uditi arcani ineffabili, e che
non sapea s'era morto o vivo, s'era in corpo o fuor di
quello. Un altro disse, che vedeva gli cieli aperti, e tanti
e tanti altri propositi, che tegnono gli diletti de Dio, alli
quali è revelato quello che è occolto a la sapienza umana ,
ed è asinità esquisita agli occhi del discorso razionale:
perchè queste pazzie, asinitadi e bestialitadi son sapienze,
atti eroici e intelligenze appresso il nostro Dio; il qual
chiama li suoi pulcini, il suo gregge, le sue pecore, li suoi
parvuli, li suoi stolti, il suo pulledro, la sua asina que'
tali, che li credeno, l'amano, il sieguono.
Non è, non è, dico, meglior specchio messo avanti
gli occhi umani che l'asinitade e asino; il qual più
esplicatamente secondo tutti gli numeri dimostre qual
essere debba colui, che faticandosi nella vigna del
Signore, deve aspettar la retribuzion dei danaio diurno,
il gusto della beatifica cena, il riposo che siegue il
corso di questa transitoria vita. Non è conformità
megliore, o simile, che ne amene, guide e conduca
160 Parte terza
alla salute eterna più attamente, che far possa questa
vera sapienza approvata dalla divina voce: come, per
il contrario, non è cosa, che ne faccia più efficaceme-
mente impiombar al centro ed al baratro tartareo, che le
filosofiche e razionali contemplazioni, quali nascono dagli
sensi, crescono nella facultà discorsiva e si maturano nel-
l'intelletto umano.
Forzatevi, forzatevi dunque ad esser asini, o voi,
che siete uomini. E voi, che siete già asini, studiate,
procurate, adattatevi a proceder sempre da bene m
meglio, a fin che perveniate a quel termine, a quella
dignità, la quale, non per scienze e opre, quantunque
grandi, ma per fede s'acquista; non per ignoranza e
misfatti, quantunque enormi ma per la incredulità (come
dicono, secondo l'Apostolo) si perde. Se cossi vi dispor-
rete, se tali sarete e talmente vi governarete, vi trovarete
scritti nel libro de la vita, impetrarete la grazia in questa
militante, ed otterrete la gloria in quella trionfante eccle-
sia, nella quale vive e regna Dio per tutti secoli de' secoli.
Cossi sia !
* (])
Sebasto. è il peggio, che diranno che metti avanti
metaffore, narri favole, raggioni in parabola, intessi enigmi,
accozzi similitudini, tratti misterii, mastichi tropologie.
SauliNO. Ma io dico la cosa a punto come la passa; e
come la è propriamente, la metto avanti gli occhi.
CoRlBANTE. Id est, sine fuco, plane,candi de; ma vorrei
che fusse cossi, come dite, da dovero.
Saul. Cossi piacesse alli dei, che fessi tu altro che fuco
con questa tua gestuazione, toga, barba e supercilio: come,
anco quanto a l'ingegno, candide, piane et sine fuco, mostri
agli occhi nostri la idea della pedantaria.
Cor. Hactenus haec? Tanto che Sofia loco per loco,
sedia per sedia vi condusse?
Saul. Sì.
(I) Cabala del Cavallo Pegaseo. EMalogo primo — Sono interlocutori Se-
BASTO, Sauuno, Coribante.
III.- Dissertazioni sopra l'asinità 161
Seb. Occórrevi de dir altro circa la previsione di que-
ste sedie?
Saul. Non per ora, se voi non siete pronto a donarmi
occasione di chiarirvi de più punti circa esse col diman-
darmi e destarmi la memoria, la quale non può avermi
suggerito la terza parte de' notabili propositi degni di
considerazione.
Seb. Io, a dir il vero, rimagno sì suspeso dal desio de
saper qual cosa sia quella ch'il gran padre degli dei ha
fatto succedere in quelle due sedie, l'una Boreale e l'altra
Australe, che m'ha parso il tempo de mill'anni per veder
il fine del vostro filo, quantunque curioso, utile e degno:
perchè quel proposito tanto più mi vien a spronar il desio
d'esserne fatto capace, quanto voi più l'avete differito a
far o udire.
Cor. Spes efenim dilata affligit animum, vel animam, ut
melius dicam; haec enim mage significat naturam passibilem.
Saul. Bene. Dunque, perchè non più vi tormentiate su
l'aspettar della risoluzione sappiate che nella sedia pros-
sima immediata e gionta al luogo, dove ere l'Orsa minore,
e nel quale sapete essere exaitata la Veritade, essendone
t olta via l'Orsa maggiore nella forma ch'avete inteso,
per previdenza del prefato consiglio vi ha succeduto l'Asi-
nità in abstratto: e là, dove ancora vedete in fantasia il
fiume Eridano, piace agli medesimi che vi si trove l'Asi-
nità in concreto, a fine che da tutte tre le celesti reggioni
possiamo contemplare l'Asinità, la quale in due facelle
era come occolta nella vie de' pianeti, dov'è la coccia del
Cancro.
Cor. Procul, o procal, este, profanil Questo è un sacri-
legio, un profanismo, di voler fingere (poscia che non è
possibile che cossi sie in fatto) vicino a l'onorata ed emi-
nente sedia de la Verità essere l'idea di sì immonda e vi-
t uperosa specie, la quale è stata dagli sapienti Egizii negli
lor geroglifici presa per tipo de l'ignoranza.
Saul. Alla contemplazione de la verità altri si promuo-
veno per via di dottrina e cognizione razionale, per forza
162 Parte terza
de rintelletto agente, che s'intrude nell'animo, exci-
tandovi il lume interiore. E questi son rari; onde
dice il poeta:
Fauci, quos ardens evexit ad aethera virtus.
Altri per via d'ignoranza vi si voltano e forzansi di per-
venirvi. E di questi alcuni sono affetti di quella, che è
detta ignoranza di semplice negazione: e costoro né sanno,
né presumeno di sapere; altri di quella, che é detta igno-
ranza di prava disposizione; e tali, quanto men sanno e
sono imbibiti de false informazioni, tanto più pensano di
sapere: quali, per informarsi del vero, richiedeno doppia
fatica, cioè de dismettere l'uno abito contrario, e di ap-
prender l'altro. Altri di quella, ch'è celebrata come divina
acquisizione; e in questa son color, che, né dicendo, né
pensando di sapere, ed oltre essendo creduti da altri igno-
rantissimi, son veramente dotti, per ridursi a quella glorio-
sissima asinitade e pazzia. E di questi alcuni sono naturali,
come quei che caminano con il lume suo razionale, con
CUI negano col lume del senso e della raggione ogni lume
di raggione e senso; alcuni altri caminano, o per dir meglio,
si fanno guidare con la lanterna della fede, cattivando l'in-
telletto a colui, che gli monta sopra, ed a sua bella posta
l'addirizza e guida. E questi veramente son quelli, che non
possono essi errare, perchè non caminano col proprio fal-
lace intendimento, ma con infallibil lume di superna in-
telligenza. Questi, questi son veramente atti e predestinati
per arrivare alla Jerusalem della beatitudine e vision aperta
della verità divina: perchè gli sopramonta quello, senza il
qual sopramontante non è chi condurvesi vaglia.
Seb. Or ecco come si distingueno le specie dell'igno-
ranza e asinitade, e come vegno a mano a mano a conde-
scendere per concedere l'asinitade essere una virtù necessa-
ria e divina, senza la quale sarrebe perso il mondo, e per
la quale il mondo tutto è salvo.
Saul. Odi a questo proposito un principio per un'altra
più particular distinzione. Quello ch'unisce l'intelletto
nostro, il qual é nella sofia, alla verità, la quale è l'oggetto
III. - Dissertazioni sopra l'asinità 163
intelligibile, è una specie d'ignoranza, secondo gli caba-
listi e certi mistici teologi; un'altra specie, secondo gli
pirroniani, efettici ed altri simili; un'altra, secondo teo-
logi cristiani; tra' quali il Tarsense la viene tanto più a
magnificare, quanto a giudizio di tutt'il mondo è passata
per maggior pazzia. Per la prima specie sempre si niega;
onde vien detta ignoranza negativa, che mai ardisce affir-
mare. Per la seconda specie sempre si dubita, e mai ardisce
determinare o definire. Per la terza specie gli principii
tutti s'hanno per conosciuti, approvati e con certo argu-
mento manifesti, senza ogni demostrazione e apparenza.
La prima è denotata per l'asino pullo, fugace ed erra-
bondo; la seconda per un'asina, che sta fitta tra due vie,
dal mezzo di quali mai si parte, non possendosi risolvere
per quale delle due più tosto debba muovere i passi; la
terza per l'asina con il suo pulledro, che portano su la
schena il redentor del mondo: dove Tasina, secondo che
gli sacri dottori insegnano, è tipo del popolo giudaico, e
il pullo del popolo gentile, che, come figlia ecclesia, è
parturito dalla madre sinagoga; appartenendo cossi questi
come quelli alla medesima generazione, procedente dal
padre de' credenti Abraamo. Queste tre specie d'igno-
ranza, come tre rami, si riducono ad un stipe, nel quale
da l'archetipo influisce l'asinità, e che è fermo e piantato
su le radici delli dieci sephiroth.
Cor. 0 bel senso! Queste non sono retoriche persua-
sioni, ne elenchici sofismi, né topiche probabilltadi, ma
apodictiche demostrazioni; per le quali l'asino non è sì
vile animale, come comunmente si crede, ma di tanto
più eroica e divina condizione.
Seb. Non è d'uopo ch'oltre t'affatichi, o Saulino, per
venir a conchiudere quel tanto, che io dimandavo che da
te mi fusse definito: sì perchè avete sodisfatto a Coribante,
sì anco perchè da li posti mezzi termini ad ogni buono
intenditore può esser facilmente sodisfatto. Ma, di grazia,
fatemi ora intendere le raggioni della sapienza, che consi-
ste nell'ignoranza ed asinitade iuxta il secondo modo: cioè,
con qual raggione siano partecipi dell'asinità gli pirro-
164 Parte terza
nianì, efettici et altri academici filosofi; perchè non dubito
della prima e terza specie, che medesime sono altissime e
remotissime da' sensi, e chiarissime, di sorte che non è
occhio, che non le possa conoscere.
Saul. Presto verrò al proposito della vostra dimanda:
ma voglio che prima notiate il primo e terzo modo di
stoltizia e asinitade concorrere in certa maniera in uno ; e
però medesimamente pendeno da principio incompren-
sibile ed ineffabile, a constituir quella cognizione, ch'è di-
sciplina delle discipline, dottrina delle dottrine e arte de
le arti. Della quale voglio dirvi, in che maniera con poco o
nullo studio e senza fatica alcuna ognun, che vuole e volse,
ne ha possuto e può esser capace. Veddero e considerorn o
que' santi dottori e rabini illuminati, che gli superbi e pre-
sumptuosi sapienti del mondo, quali ebbero fiducia nel
proprio ingegno, e con temeraria e gonfia presunzione
hanno avuto ardire d'alzarsi alla scienza de' secreti divini
e que' penetrali della deitade, non altrimente che coloro ,
ch'edificaro la torre di Babelle, son stati confusi e messi
in dispersione, avendosi essi medesimi serrato il passo,
onde meno f ussero abili alla sapienza divina e visione della
veritade eterna. Che fero? Qual partito presero? Fermaro
i passi, piegar© o dismesero le braccia, chiusero gli occhi,
bandirò ogni propria attenzione e studio, riprovar© qual-
sivoglia uman pensiero, rmiegaro ogni sentimento natu-
rale; e, in fine, si tennero asini. E quei, che non erano, si
trasformar© in questo animale: alzar©, disteser©, acumi-
nar©, ingr©ssar© e magnific©rno l'orecchie; e tutte le po-
tenze de l'anima rip©rt©rno e unir© nell'udire, c©n asc©l-
tare s©lamente e credere: c©me quell©, di cui si dice: In
auditu auris obedivit mihi. Là, c©ncentrand©si e cattivan-
d©si la vegetativa, sensitiva e intellettiva facultade, hann©
inceppate le cinque dita in un'unghia, perchè non potes-
sero, come l'Adamo, stender le mani ad apprendere il
frutto vietato dall'arbore della scienza, per cui venessero
ad essere privi de' frutti de rarb©re della vita, © c©me
Pr©mete© (che è metaf©ra di medesim© pr©p©sit©) sten-
der le mani a suffurar il fu©co di Gi©ve, per accendere
III. - Dissertazioni sopra l'asinità 165
il lume della potenza razionale. Cossi li nostri divi asini,
privi del proprio sentimento ed affetto, vegnono ad in-
tendere non altrimente che come gli vien soffiato a l'o-
recchie dalle revelazioni o degli dei o de' vicarii loro;
e per consequenza a governarsi non secondo altra legge
che di que' medesimi. Quindi non si volgono a destra
o a sinistra, se non secondo la lezione e raggione, che gli
dona il capestro o freno, che le tien per la gola, o per
la bocca, non caminano, se non come son toccati. Hanno
ingrossate le labbra, insolidate le mascelle, incontennuti
gli denti, a fin che, per duro, spinoso, aspro e forte a
digerir che sia il pasto, che gli vien posto avante, non
manche d'essere accomodato al suo palato. Indi si pa-
scono de' più grossi e materialacci appositorii, che altra
qualsivoglia bestia, che si pasca sul dorso de la terra; e
tutto ciò per venire a quella vilissima bassezza, per cui
fìano capaci de più magnifica exaltazione, iuxta quello:
Omnis qui se humiliat exaltabitur.
Seb. Ma vorrei intendere, come questa bestiaccia potrà
distinguere che colui, che gli monta sopra, è Dio o dia-
volo, è un uomo o un'altra bestia non molto maggiore
o minore, se la più certa cosa, ch'egli deve avere, è che
lui è un asino e vuole essere asino, e non può far me-
glior vita ed aver costumi migliori che di asino, e non
deve aspettar meglior fine che di asino, ne è possibile,
congruo e condigno ch'abbia altra gloria che d'asino?
Saul. Fidele colui, che non permette che siano tentati
sopra quel che possono: lui conosce li suoi, lui tiene e
mantiene gli suoi per suoi, e non gli possono esser tolti.
0 santa ignoranza, o divina pazzia, o sopraumana asinità!
Quel rapto, profondo e contemplativo Areopagita, scri-
vendo a Caio, afferma che la ignoranza è una perfettis-
sima scienza; come per l'equivalente volesse dire, che
l'asinità è una divinità. Il dotto Agostino, molto ine-
briato di questo divino nettare, nelli suoi S o 1 i 1 o q u i i
testifica, che la ignoranza più tosto che la scienza ne
conduce a Dio, e la scienza più tosto che 1 ignoranza ne
mette in perdizione. In figura di ciò vuole ch'il reden-
166 Parte terza
tor del mondo con le gambe e piedi degli asini fusse
entrato in Gerusalemme, significando anagogicamente in
questa militante quello che si verifica nella trionfante cit-
tade; come dice il profeta salmeggiante: Non in fortitu-
dine equi voluntatem habebit, neque in tibiis viri benepla-
citum erit ei.
Cor. Supple tu: Sed in fortitudine et tibiis asinae et
pulii fila coniugalis.
Saul. Or, per venire a mostrarvi come non è altro che
l'asinità quello con cui possiamo tendere ad avvicinarci
a quell'alta specola, voglio che comprendiate e sappiate
non esser possibile al mondo meglior contemplazione che
quella che niega ogni scienza ed ogni apprension e giu-
dicio di vero; di maniera che la somma cognizione è certa
stima, che non si può saper nulla e non si sa nulla, e per
consequenza di conoscersi di non posser esser altro che
asino e non esser altro che asino; allo qual scopo giunsero
gli socratici, platonici, efettici, pirroniani ed altri simili,
che non ebbero le orecchie tanto piccole, e le labbra tanto
delicate, e la coda tanto corta, che non le potessero lor
medesimi vedere.
S e b. Priegoti, Saulino, non procedere oggi ad altro
per confirmazion e dechiarazion di questo: perchè assai
per il presente abbiamo inteso; oltre che vedi esser tempo
di cena, e la materia richiede più lungo discorso. Per
tanto piacciavi (se così pare anco al Coribante) di rive-
derci domani per la elucidazione di questo proposito; ed
io menarò meco Onorio, il quale si ricorda d'esser stato
asino, e però è a tutta divozione pitagorico; oltre che ha
de' grandi proprii discorsi, con gli quali forse ne potrà
far capaci di qualche proposito
IV.
METAMFISICOSI <"
Sebasto. e tu ti ricordi d'aver portata la soma?
Onorio. La soma, la carga, e tirato il manganello qual-
che volta. Fui prima in serviggio d'un ortolano, aggiun-
tandolo a portar Iettarne dalla cittade di Tebe a l'orto vi-
cino le mura, ed a riportar poi cauli, cipolle, cocumeri,
pastinache, ravanelli ed altre cose simili dall'orto alla cit-
tade. Appresso ad un carbonaio, che mi comprò da quello,
ed il qual pochissimi giorni mi ritenne vivo.
Seb. Come è possibile, ch'abbi memoria di questo?
Onor. Ti dirò poi. Pascendo io sopra certa precipi-
tosa e sassosa ripa, tratto dall'avidità d'addentar un cardo,
ch'era cresciuto alquanto più giìi verso il precipizio, che
io senza periglio potesse stendere il collo, volsi al dispetto
d'ogni rimorso di conscienza ed instinto di raggion na-
turale più del dovero rampegarvi; e caddi da l'alta rupe;
onde il mio signore s'accorse d'avermi comprato per gli
corvi. Io, privo de l'ergastulo corporeo, dovenni vagante
spirto senza membra; e venni a considerare come io, se-
condo la spiritual sustanza, non ero differente in geno,
né in specie da tutti gli altri spiriti, che dalla dissoluzione
de altri animali e composti corpi transmigravano; e viddi
come la Parca non solamente nel geno della materia cor-
porale fa indifferente il corpo dell'uomo da quel de l'a-
sino, ed il corpo degli animali dal corpo di cose stimate
senz'anima; ma ancora nel geno della materia spirituale
(I) Cabala Dialogo secondo. Interlocutori i precedenti, ed Onorio (=
asinesco).
Bruno, In tristitia hilaris, etc 13.
168 Parte terza
fa rimaner indifferente l'anima asmina da l'umana, e l'a-
nima, che costituisce gli detti ammali, da quella che si
trova in tutte le cose: come tutti gli umori sono uno u-
more in sustanza, tutte le parti aeree son un aere in su-
stanza, tutti gli spiriti sono dall'Amfitrite d'un spirito, ed
a quello ritornan tutti. Or, dopo che qualche tempo fui
trattenuto in cotal stato, ecco che
Lethaeum ad fluvium Deus evocai agmine magno
Scilicet immemores supera ut convexa revisant,
Rursus et incipiant in corpora velie reverti.
Allora, scampando io da' fortunati campi, senza sorbir
de l'onde del rapido Lete, tra quella moltitudine, di cui
era principal guida Mercurio, io feci fìnta de bevere di
quell'umore in compagnia degli altri: ma non feci altro
ch'accostarvi e toccarvi con le labbra, a fin che venessero
ingannati gli soprastanti, a' quali potè bastare di vedermi
la bocca e '1 mento bagnato. Presi il camino verso l'aria
più pura per la porta Cornea, e lasciandomi a le spalli
e sotto gli piedi il profondo, venni a ritrovarmi nel Par-
nasio monte, il qual non è favola che per il suo fonte
Caballino sia cosa dal padre Apolline consecrata alle Muse,
sue figlie. Ivi, per forza ed ordine del fato, tornai ad es-
sere asino, ma senza perdere le specie intelligibili, delle
quali non rimase vedovo e casso il spirito animale, per
forza della cui virtude m'uscirno da l'uno e l'altro lato
la forma e sustanza de due ali sufficientissime ad inalzar
in sino agli astri il mio corporeo pondo. Apparvi e fui
nomato non asino già semplicemente, ma o asino volante,
o ver cavallo Pegaseo. Indi fui fatto exequitor de molti
ordini del provido Giove, servii a Bellerofonte, passai
molte celebri e onoratissime fortune, ed alla fine fui as-
sumpto in cielo circa gli confini d'Adromeda e il Cigno
d'un canto, e gli Pesci e Aquario da l'altro.
Seb. Di grazia, rispondetemi alquanto, prima che mi
facciate intendere queste cose più per il minuto. Dunque,
per esperienza e memoria del fatto estimate vera l'opi-
nion de' Pitagorici, Druidi, Saduchimi e altri simili, circa
IV. - Metamfisicosi 169
quella continua metamfisicosi, cioè transformazlone e tran -
scorporazione de tutte 'anime ?
Spiritus eque feris humana in corpora transit,
Inque feras noster, nec tempore deperii allo.
Onor. Messer sì, cossi è certissimamente.
Seb. Dunque, constantemente vuoi, che non sia altro
in sustanza l'anima de l'uomo e quella de le bestie? e
non differiscano, se non in figuraz>one?
Onor. Quella de l'uomo è medesima in essenza spe-
cifica e generica con quella de le mosche, ostreche ma-
rine e piante, e di qualsivoglia cosa, che si trove animata,
o abbia anima: come non è corpo, che non abbia o più
o meno vivace e perfettamente communicazion di spirito
in se stesso. Or cotal spinto, secondo il fato o provi-
denza, ordine o fortuna, viene a giongersi or ad una spe-
cie di corpo, or ad un'altra; e, secondo la raggione della
diversità di complessioni e membri, viene ad avere di-
versi gradi e perfezioni d'ingegno e operazioni. Là onde
quel spinto o anima, che era nell'aragna, e vi avea quel-
l'industria e quelli artigli e membra in tal numero, quan-
tità e forma; medesimo, gionto alla prolificazione umana,
acquista altra intelligenza, altri instrumenti, attitudini e
atti. Giongo a questo che, se fusse possibile, o in fatto
si trovasse, che d'un serpente il capo si formasse e stor-
nasse in figura d'una testa umana, e il busto crescesse
in tanta quantità, quanta può contenersi nel periodo di
cotal specie, se gli allargasse la lingua, ampiassero le
spalli, se gli ramificassero le braccia e mani, e al luogo,
dove è terminata coda, andassero ad ingeminarsi le gambe;
intenderebbe, apparirebbe, spirarebbe, parlarebbe, opra-
rebbe e cammerebbe non altrimente che l'uomo; perchè
non sarebbe altro che uomo. Come, per il contrario,
l'uomo non sarebbe altro che serpente, se venisse a con-
traere, come dentro un ceppo, le braccia e gambe, e
Tossa tutte concorressero alla formazion d'una spina, si
incolubrasse e prendesse tutte quelle figure de' membri
e abiti de complessioni. Allora avrebbe più o men vivace
170 Parte terza
Ingegno; In luogo di parlar, sibilarebbe; in luogo di ca-
minare, serperebbe; in luogo d'edificarsi palaggio, si ca-
varebbe un pertuggio; e non gli converrebe la stanza,
ma la buca; e come già era sotto quelle, ora è sotto queste
membra, mstrumenti, potenze e atti; come dal medesimo
artefice, diversamente inebriato dalla contrazion di ma-
teria, e da diversi organi armato, appaiono exercizii de
diverso mgegno, e pendeno execuzioni diverse. Quindi
possete capire esser possibile, che molti animali possono
aver più ingegno e molto maggior lume d'intelletto che
l'uomo (come non è burla quel che proferì Mosè del
serpe, che nominò sapientissimo tra tutte l'altre bestie
de la terra).
V.
ARISTOTELE-ASINO
E I SUOI SEGUACI <•>
Onorio. Or essendo io, come ho già detto, nella region
celeste in titolo di cavallo Pegaseo, mi è avvenuto per
ordine del fato, che per la conversione alle cose inferiori
(causa di certo affetto, ch'io indi venevo ad acquistare,
la qual molto bene vien descritta dal platonico Plotino)
come inebriato di nettare, venia bandito ad esser or un
filosofo, or un poeta, or un pedante, lasciando la mia
imagine in cielo; alla cui sedia a tempi delle trasmigra-
zioni ritornavo, riportandovi la memoria delle specie, le
quali nell'abitazion corporale avevo acquistate; e quelle
medesime, come in una biblioteca, lasciavo là, quando
accadeva ch'io dovesse ritornar a qualch'altra terrestre a-
bitazione. Delle quali specie memorabili le ultime son
quelle, ch'ho cominciate a imbibire a tempo della vita
de Filippo macedone, dopo che fui ingenerato dal seme
de Nicomaco, come si crede. Qua, appresso esser stato
discepolo d'Aristarco, Platone ed altri, fui promosso col
favor di mio padre, ch'era consegliero di Filippo, ad
esser pedante d'Alexandro Magno; sotto il quale, benché
erudito molto bene nelle umanistiche scienze, nelle quali
ero più illustre che tutti li miei predecessori, entrai m
presunzione d'esser filosofo naturale, come è ordinario
nelli pedanti d'esser sempre temerarii e presuntuosi; e con
(1) Cabala, Dialogo secondo
172 Parte terza
ciò, per esser estinta la cognizione della filosofìa, morto
Socrate, bandito Platone, e altri in altre maniere dispersi,
rimasi io solo lusco intra gli ciechi; e facilmente possevi
aver riputazion non sol di retorico, politico, logico, ma
ancora de filosofo. Cossi, malamente e scioccamente ri-
portando le opinioni degli antiqui, e de maniera tal scon-
cia, che né manco gli fanciulli e le insensate vecchie par-
larebono e intenderebono come io introduco quelli ga-
lantuomini intendere e parlare, mi venni ad intrudere
come riformator di quella disciplina, della quale io non
avevo notizia alcuna. Mi dissi principe de' peripatetici;
insegnai in Atene nel sottoportico Liceo; dove, secondo
il lume, e per dir il vero, secondo le tenebre, che regna'
vano in me, intesi e insegnai perversamente circa la na-
tura de li principii e sustanza delle cose, delirai più che
ristessa delirazione circa l'essenza de l'anima, nulla pos-
sevi comprendere per dritto circa la natura del moto e
de l'universo; e, in conclusione, son fatto quello, per cui
la scienza naturale e divina è stinta nel bassissimo della
ruota, come in tempo degli Caldei e Pitagorici è stata in
exaltazione.
Seb. Ma pur ti veggiamo esser stato tanto tempo in
admirazion del mondo; e tra l'altre maraviglie è trovato
un certo Arabo, ch'ha detto la natura nella tua produ-
zione aver fatto l'ultimo sforzo, per manifestar quanto
più terso, puro, alto e verace ingegno potesse stampare;
e generalmente sei detto demonio della natura.
Onor. Non sarebbono gli ignoranti se non fusse la
fede; e se non la fusse, non sarebbono le vicissitudini
delle scienze e virtudi, bestialitadi ed inerzie, e altre suc-
cedenze de contrarie impressioni, come son de la notte
e il giorno, del fervor de l'estate e rigor de l'inverno.
Seb. Or, per venire a quel ch'appartiene alla notizia de
l'anima (mettendo per ora gli altri propositi da canto) ho
letti e considerati que' tuoi tre libri, nelli quali parli più
balbamente, che possi mai da altro balbo essere inteso;
come ben ti puoi accorgere di tanti diversi pareri ed estra-
vaganti intenzioni e questionarii, massime circa il dislac-
V. — Aristotele - asino e i suoi seguaci 173
dar e disimbrogliar quel che ti vogli dire in que* confusi
e leggieri propositi, gli quali, se pur ascondono qualche
cosa, non può esser altro che pedantesca o peripatetica
levitade.
Onor. Non è maraviglia, fratello; atteso che non può
in conto alcuno essere, che essi loro possano apprendere
il mio intelletto circa quelle cose, nelle quali io non ebbi
intelletto; o che vagliano trovar construtto o argumento
circa quel ch'io vi voglia dire, se io medesimo non sa-
pevo quel che mi volesse dire. Qual differenza credete
voi essere tra costoro e quei, che cercano le corna del
gatto, e gambe de l'anguilla? Nulla, certo. Della qual
cosa precavendo ch'altri non s'accorgesse, ed io con ciò
venesse ad perdere la riputazion di protosofosso, volsi far
de maniera, che chiunque mi studiasse nella naturai fi-
losofia (nella qual fui e mi sentivi a fatto ignorantissimo),
per inconveniente o confusion che vi scorgesse, se non
avea qualche lume d'ingegno, dovesse pensare e credere
ciò non essere la mia intenzion profonda, ma più tosto
quel tanto, che lui, secondo la sua capacità, posseva dagli
miei sensi superficialmente comprendere. Laonde feci,
che venesse publicata quella Lettera ad Alexan-
d r o, dove protestavo gli libri fisicali esser messi in luce,
come non messi in luce.
Seb. e per tanto voi mi parete aver isgravata la vostra
conscienza; ed hanno torto questi tanti asinoni a disporsi
di lamentarsi di voi nel giorno del giudicio, come di quel
che l'hai ingannati e sedutti, e con sofistici apparati di-
vertiti dal camino di qualche veritade, che per altri prin-
cipii e metodi arrebono possuta racquistarsi. Tu l'hai
pure insegnato quel tanto ch'a diritto doveano pensare:
che se tu hai publicato, come non publicato, essi, dopo
averti letto, denno pensare di non averti letto, come tu
avevi cossi scritto, come non avessi scritto: talmente quei
cotali, ch'insegnano la tua dottrina, non altrimente denno
essere ascoltati, che un che parla, come non parlasse. E
finalmente né a voi deve più essere atteso, che come ad
un che raggiona e getta sentenza di quel che mai intese.
174 Parte terza
Onor. ...Slamo dovenutl a tale, ch'ogni satiro, fauno,
malenconico, embreaco e Infetto d'atra bile. In contar sogni
e dir de pappolate senza construzione e senso alcuno, ne
vogliono render suspetti de profezia grande, de recondito
misterio, de alti secreti e arcani divini, da risuscitar morti,
da pietre filosofali, ed altre poltronarie da donar volta a
quei ch'han poco cervello, a farli dovenir al tutto pazzi
con giocarsi il tempo, l'intelletto, la fama e la robba, e
spendere sì misera e ignobilmente il corso di sua vita.
Seb. La intese bene un certo mio amico; il quale, a-
vendo non so se un certo libro de profeta enigmatico, o
d'altro, dopo avervisi su lambiccato alquanto dell'umor
del capo con una grazia e bella leggiadria andò e gittarlo
nel cesso, dicendogli: — Fratello, tu non vuoi esser in-
teso; IO non ti voglio intendere; — e soggiunse, ch'an-
dasse con cento diavoli, e lo lasciasse star con fatti suoi
in pace.
Onor. E quel ch'è degno di compassione e riso è, che
su questi editi libelli e trattati pecoreschi vedi dovenir
attonito Silvio, Ortensio melanconico, smagrito Serafino,
impallidito Cammaroto, invecchiato Ambruogio, impaz-
zito Giorgio, abstratto Reginaldo, gonfio Bonifacio; ed il
molto reverendo Don Cocchiarone pien d' in finita
e nobil maraviglia, sen va per il largo della sua
sala, dove, rimosso dal rude ed ignobil volgo, se la spas-
seggia; e rimanendo or quinci, or quindi de la litteraria
sua toga le fimbrie, rimanendo or questo, or quell'altro
piede, rigettando or vers'il destro, or vers'il sinistro fi.anco
il petto, con il texto commento sotto l'ascella, e con gesto
di voler buttar quel pulce, ch'ha tra le due prime dita,
in terra, con la rugata fronte cogitabondo, con erte ciglia
ed occhi arrotondati, in gesto d'un uomo fortamente ma-
ravigliato, conchiudendola con un grave ed enfatico su-
splro, farà pervenir a l'orecchio de' clrconstanti questa
sentenza: Huc usque ahi philosophi non pervenerunt. Se si
trova in proposito di lezion di qualche libro composto
da qualche energumeno o inspirato, dove non è espresso
e donde non si può premere più sentimento, che possa
V. - Aristotele - asino e i suoi seguaci 175
ritrovarsi in un spirito cavallino; allora, per mostrar di
aver dato sul chiodo, exclamarà: — 0 magnum mysteriuml
Seb. Ma vorrei saper da Saulino (che magnifica tanto
l'asmitade, quanto non può esser magnificata la scienza
e speculazione, dottrina e disciplina alcuna) se l'asinitade
può aver luogo in altri che negli asini; come è dire, se
alcuno da quel che non era asino, possa doventar asino
per dottrina e disciplina. Perchè bisogna che di questi
quel che insegna, o quel che è insegnato, o cossi l'uno
come l'altro, o né l'uno né l'altro, siano asini. Dico, se
sarà asino quello solo che insegna, o quel solo ch'è inse-
gnato, o né quello né questo, o questo e quello insieme.
Perchè qua col medesimo ordine si può vedere, che in
nessun modo si possa inasinire. Dunque, dell'asinitade
non può essere apprension alcuna, come non è de arti e
de scienze.
Onor. Di questo ne raggionaremo a tavola dopo cena.
Andiamo, dunque, ch'è ora.
Cor. Propere eamus.
VI.
L'ASINO ACCADEMICO <»
L'Asino. Or perchè derrò lo abusar de l'alto, raro e
pelegrino tuo dono, o folgorante Giove? Perchè tanto
talento, porgiutoml da te, che con sì partlcular occhio
me miraste {indicante fato), sotto la nera e tenebrosa terra
d'un ingratissimo silenzio terrò sepolto? Suffnrò più a
lungo l'esser sollecitato a dire, per non far uscir da la
mia bocca quell'estraordinario ribombo, che la largita
tua, in questo confusissimo secolo, nell'interno mio spi-
rito (perchè si producesse fuora) ha seminato? Aprisi,
aprisi, dunque, con la chiave de l'occasione l'asinin pa-
lato, sciolgasi per l'industria del supposito la lingua, rac-
colgansi per mano de l'attenzione, drizzata dal braccio
de l'intenzione, i frutti degli arbori e fiori de l'efbe, che
sono nel giardino de l'asinina memoria.
Micco. 0 portento insolito, o prodigio stupendo, o
maraviglia incredibile, o miracoloso successo! Avertano
gli dii qualche sciagura! Parla l'asino P l'asino parla? 0
Muse, o Apolline, o Ercule, da cotal testa esceno voci
articulate? Taci, Micco, forse t'inganni; forse sotto questa
pelle qualch'uomo stassi mascherato, per burlarsi di noi.
Asino. Pensa pur. Micco, ch'io non sia sofìstico, ma
che son naturalissimo asino, che parlo; e cossi mi ricordo
aver avuti altre volte umani, come ora mi vedi aver be-
stiali membri.
Micco. Appresso, o demonio incarnato, dimandarotti
chi, quale e come sei. Per ora, e per la prima, vorrei sa-
(I) L'Asino cillenico. — Interlocutori sono l'AsiNO. Micco PITAGORICO, Mercurio.
VI. - L'asino accademico 177
per, che cosa dimandi da qua? che augurio ne ameni?
qual ordine porti dagli Dei? a che si terminarà questa
scena? a qual fine hai messi gli piedi a partitamente mo-
strarti vocale in questo nostro sottoportico?
Asino. Per la prima voglio che sappi, ch'io cerco di
esser membro e dichiararmi dottore di qualche colleggio
o academia, perchè la mia sufficienza sia autenticata, a
fin che non siano attesi gli miei concetti, e ponderate le
mie parole, e riputata la mia dottrina con minor fede,
che —
Micco. 0 Giove! è possibile, che ab aeterno abbi
gìamai registrato un fatto, un successo, un caso simile
a questo?
Asino. Lascia le maraviglie per ora; e rispondetemi
presto, o tu, o uno de questi altri, che attoniti concor-
reno ad ascoltarmi. 0 togati, annulati, pileati, didascali,
archididascali e de la sapienza eroi e semidei: volete,
piacevi, ewi a core d'accettar nel vostro consorzio, so-
cietà, contubernio, e sotto la banda e vessillo della vostra
communione questo asino, che vedete e udite? Perchè
di voi, altri ridendo si maravigliano, altri maravigliando
si ridono, altri attoniti (che son la maggior parte) si mor-
deno le labbia, e nessun risponde?
Micco. Vedi che per stupore non parlano, e tutti con
esser volti a me mi fan segno, ch'io ti risponda; al qual,
come presidente, ancora tocca di donarti risoluzione, e
da cui, come da tutti, devi aspettar l'ispedizione.
Asino. Che academia è questa, che tien scritto sopra
la porta: Lineam ne pertransito?
Micco. La è una scuola de Pitagorici.
Asino. Potravisi entrare?
Micco. Per academico non senza difficili e molte con-
dizioni.
Asino. Or quali son queste condizioni?
Micco. Son pur assai.
Asino. Quali, dimandai, non quante.
Micco. Ti risponderò al meglio, riportando le prin-
cipali. Prima, che, offrendosi alcuno per essere ricevuto.
178 Parte terza
avante che sia accettato, debba esser squadrato nella dl-
sposlzlon del corpo, fisionomia ed ingegno, per la gran
consequenza relativa, che conoscemo aver il corpo da
l'anima e con l'anima.
Asino. Ab love principium, Musae, s'egli si vuol ma-
ritare.
Micco. Secondo, ricevuto ch'egli è, se gli dona ter-
mine di tempo (che non è men che di doi anni) nel quale
deve tacere, e non gli è lecito d'ardire in punto alcuno
de dimandar, anco di cose non intese, non sol che di di-
sputare e exarninar propositi, e in quel tempo si chiama
acustico. Terzo, passato questo tempo, gli è lecito
di parlare, dimandare, scrivere le cose udite, ed esplicar
le proprie opinioni; e in questo mentre si appella ma-
tematico, o caldeo. Quarto, informato di cose si-
mili, e ornato di que' studii, si volta alla considerazion
de l'opre del mondo e principii della natura: e qua ferma
il passo, chiamandosi fisico.
Asino. Non procede oltre?
Micco. Più che fisico non può essere: perchè delle
cosa sopranaturali non si possono aver raggioni, eccetto
in quanto riluceno nelle cose naturali; perciochè non ac-
cade ad altro intelletto, che al purgato e superiore' di con-
siderarle in sé.
Asino. Non si trova appo voi metafisica?
Micco. No; e quello che gli altri vantano per metafi-
sica, non è altro che parte di logica. Ma lasciamo questo,
che non fa al proposito. Tali, in conclusione, son le con-
dizioni e regole di nostra academia.
Asino. Queste?
Micco. Messer sì.
Asino. 0 scola onorata, studio egregio, setta formosa,
collegio venerando, gimnasio clarissimo, ludo invitto, e
academia tra le principali principalissima! L asino er-
rante, come sitibondo cervio, a voi, come a limpidissime
e freschissime acqui; l'asino umile e supplicante, a voi,
benignissimi ricettatori de' peregrini, s'appresenta, bra-
moso d'essere nel consorzio vostro ascritto.
VI. - L'asino accademico 179
Micco. Nel consorzio nostro?
Asino. Sì, sì, signor sì, nel consorzio vostro.
Micco. Va per quell'altra porta, messere, perchè da
questa son banditi gli asini.
Asino. Dimmi, fratello, per qual porta entrasti tu?
Micco. Può far il cielo che gli asini parlino, ma non
già che entrino in scola pitagorica.
Asino. Non esser cossi fiero, o Micco, e ricordati, ch'il
tuo Pitagora insegna di non spreggiar cosa, che si trova
nel seno della natura. Benché io sono in forma d'asino
al presente, posso esser stato e posso esser appresso in
forma di grand'uomo; e benché tu sia un uomo, puoi
esser stato e potrai esser appresso un grand'asino, secondo
che parrà ispediente al dispensator degli abiti e luoghi
e disponitor de l'anime transmigranti.
Micco. Dimmi, fratello, hai intesi gli capitoli e con-
dizioni dell'academia?
Asino. Molto bene.
Micco. Hai discorso sopra l'esser tuo, se per qualche
tuo difetto ti possa essere impedita l'entrata?
Asino. Assai a mio giudicio.
Micco. Or fatevi intendere.
Asino. La principal condizione, che m'ha fatto dubi-
tare, é stata la prima. £ pur vero che non ho quella in-
dole, quelle carni mollecine, quella pelle delicata, tersa
e gentile, le quali tegnono li fìsionotomisti, attissime alla
recepzion della dottrina; perchè la durezza di quelle ri-
pugna a l'agilità de l'intelletto. Ma sopra tal condizione
mi par che debba posser dispensar il principe; perchè
non deve far rimaner fuori uno, quando molte altre par-
zialitadi suppliscono a tal difetto, come la sincerità de*
costumi, la prontezza de l'ingegno, l'efficacia de l'intel-
ligenza, e altre condizioni compagne, sorelle e figlie di
queste. Lascio, che non si deve aver per universale, che
l'anime sieguano la complesslon del corpo; perchè può
esser, che qualche più efficace spiritual principio possa
vincere e superar l'oltraggio, che dalla crassezza o altra
indisposizion di quello gli vegna fatto. Al qual proposito
180 Parte terza
v'apporto l'esempio de Socrate, giudicato dal fisogno-
mico Zopiro per uomo stemprato, stupido, bardo, effe-
minato, namoraticcio de putti e incostante; il che tutto
venne conceduto dal filosofo, ma non già, che l'atto de
tali inclinazioni si consumasse: stante ch'egli venia tem-
prato dal continuo studio della filosofia, che gli avea
pòrto in mano il fermo temone contra l'empito de l'onde
de naturali indisposizioni, essendo che non è cosa, che
per lo studio non si vinca. Quanto poi all'altra parte
principale fisiognomica, che consista non nella comples-
sion di temperamenti, ma nell'armonica proporzion de
membri, vi notifico non esser possibile de ritrovar in me
defetto alcuno, quando sarà ben giudicato. Sapete ch'il
porco non deve esser bel cavallo, né l'asino bell'uomo;
ma l'asino bell'asino, il porco bel porco, l'uomo bell'uomo.
Che se, straportando il giudicio, il cavallo non par bello
al porco, né il porco par bello al cavallo; se a l'uomo
non par bello l'asino, e l'uomo non s'innamora de l'asino,
né per opposito a l'asino par bello l'uomo, e l'asmo non
s'mnamora de l'uomo....
Micco. Sin al presente costui mostra di saper assai
assai. Seguita, messer Asino, e fa pur gagliarde le tue
raggioni quanto ti piace; perché
iVe Fonde solchi e ne Farena semini,
E */ vago vento speri in rete accogliere,
E le speranze fondi in cuor di femine,
se speri, che dagli signori academici di questa o altra
setta ti possa o debbia esser concessa l'entrata. Ma, se
sei dotto, contentati di rimanerti con la tua dottrina solo.
Asino. 0 insensati, credete ch'io dica le mie raggioni
a voi, a ciò che me le facciate valide? Credete eh io ab-
bia fatto questo per altro fine, che per accusarvi, e ren-
dervi inexcusabili avanti a Giove? Giove con avermi fatto
dotto mi fé* dottore. Aspettavo ben io, che dal bel giu-
dicio della vostra sufficienza venesse sputata questa sen-
tenza: — Non é convenevole, che gli asini entrino in A-
cademia insieme con noi altri uomini. — Questo, se stu-
VI. — L'asino accademico 18|
dioso di qualsivoglia altra setta lo può dire, non può
essere raggionevolmente detto da voi altri pitagorici, che
con questo, che negate a me l'entrata, struggete gli prin-
cipii, fondamenti e corpo della vostra filosofia. Or che
differenza trovate voi tra noi asini e voi altri uomini,
non giudicando le cosa dalla superficie, volto ed appa-
renza? Oltre di ciò dite, giudici inetti: quanti di voi er-
rano ne l'academia degli asini? quanti imparano nell'a-
cademia degli asini? quanti fanno profitto nell'academia
degli asini? quanti s'addottorano, marciscono e muoiono
nell'academia degli asini? quanti son preferiti, inalzati,
magnificati, canonizati, glorificati e deificati nell'academia
degli asini? che se non f ussero stati e non f ussero asini,
non so, non so come la cosa sarrebbe passata e passa-
rebbe per essi loro. Non son tanti studii onoratissimi e
splendidissimi, dove si dona lezione di saper inasinire,
per aver non solo il bene della vita temporale, ma e de
l'eterna ancora? Dite, a quante e quali facultadi ed onori
s'entra per la porta dell'asinitade? Dite, quanti son im-
pediti, exclusi, rigettati e messi in vituperio, per non esser
partecipi dell'asinina facultade e perfezione? Or perchè
non sarà lecito, ch'alcuno degli asini, o pur almeno uno
degli asini entri nell'academia degli uomini? Perchè non
debbo esser accettato con aver la maggior parte delle
voci e voti in favore in qualsivoglia academia, essendo
che, se non tutti, almeno la maggior e massima parte è
scritta e scolpita nell'academia tanto universale de noi
altri? Or se siamo sì larghi ed effusi noi asini in ricever
tutti, perchè dovete voi esser tanto restivi ad accettare
un de noi altri al meno?
Micco. Maggior difficultà si fa in cose piìi degne e
importanti: e non si fa tanto caso, e non s'aprono tanto
gli occhi in cose di poco momento. Però, senza ripu-
gnanza e molto scrupolo di coscienza, si ricevon tutti
ne l'academia degli asini, e non deve esser così nell'aca-
demia degli uomini.
Asino. Ma, o messere, sappime dire e resolvimi un
poco, qua! cosa delle due è più degna, che un uomo ina-
182 Parte terza
sinisca, o che un asino inumanisca? Ma, ecco in veri-
tade il mio Cillenio: il conosco per il caduceo e l'ali. —
Ben venga il vago aligero, nuncio di Giove, fido inter-
prete della voluntà de tutti gli dei, largo donator de le
scienze, addirizzator de l'arti, continuo oracolo de' ma-
tematici, computista mirabile, elegante dicitore, bel volto,
leggiadra apparenza, facondo aspetto, personaggio gra-
zioso, uomo tra gli uomini, tra le donne donna, desgra-
ziato tra' desgraziati, tra' beati beato, fra tutti tutto; che
godi con chi gode, con chi piange piangi; però per tutto
vai e stai, sei ben visto e accettato. Che cosa de buono
apporti ?
Merc. Perchè, Asino, fai conto di chiamarti ed essere
academico, io, come quel, che t'ho donati altri doni e
grazie, al presente ancora con plenaria autorità ti ordino,
constituisco e confermo Academico e Dogmatico gene-
rale, acciò che possi entrar e abitar per tutto, senza ch'al-
cuno ti possa tener porta o dar qualsivoglia sorte d'ol-
traggio o impedimento, quibuscumque in oppositwn non oh-
stantibus. Entra, dunque, dove ti pare e piace. Né vo-
gliamo, che sii ubligato per il capitolo del silenzio bien-
nale, che SI trova nell'ordine pitagorico, e qualsivogli 'altre
leggi ordinane: perchè, novis intervenientibus causis, novae
condendae sunt leges, proque ipsis condita non intelliguntur
iura: interimque ad optimi iudicium iudicis ref erenda est
sententia, cuius intersit iuxta necessarium atqiie commodum
providere. Parla, dunque, tra gli acustici; considera e con-
templa tra' matematici; discuti, dimanda, insegna, de-
chiara e determina tra' fisici; trovati con tutti, discorri
con tutti, affratellati, unisciti, identificati con tutti, do-
mina a tutti, sii tutto.
Asino. Avetel'inteso?
Micco. Non siamo sordi.
VII.
DALLE TENEBRE ALLA LUCE <•)
Elitropio. Qual rei nelle tenebre avezzi, che, liberati
dal fondo di qualche oscura torre, escono alla luce,
molti degli esercitati nella volgar filosofia ed altri pa-
ventaranno, adn aranno, e, non possendo soffrire il
nuovo sole de' t; i chiari concetti, si turbaranno.
FlLOTEO. Il dift ' o non è di luce, ma di lumi: quanto
m sé sarà più b lo e piìj eccellente il solc: tanto
sarà a ' de le notturne strige odioso e discaro
di vantaggio.
Eli. La impresa che hai tolta, o Filoteo, è difficile,
rara e singulare, mentre dal cieco cibisso vuoi cacciarne e
amenarne al discoperto, tranquillo e sereno aspetto de le
stelle, che con sì bella varietade veggiamo disseminate
per il ceruleo manto del cielo. Benché agli uomini soli
l'aitatrice mano di tuo pietoso zelo soccorra, non saran
però meno vani gli effetti de ingrati verso di te, che varii
son gli animali che la benigna terra genera e nodrisce nel
suo materno e capace seno; se gli é vero che la specie
umana, particularmente negl'individui suoi, mostra de
tutte l'altre la varietade per esser in ciascuno più espres-
samente il tutto, che in quelli d'altre specie. Onde ve-
dransi questi, che, qual'appannata talpa, non sì tosto sen-
tiranno l'aria discoperto, che di bel nuovo, risfossicando
la terra, tentaranno agli nativi oscuri penetrali. Quelli,
(1) De la Causa, Principio et Uno. Dialogo primo. — Interlocutori sono;
Elitropio, Filoteo, Armesso.
Bruno, In tristitia hilaris, etc. 14.
184 Parte terza
qua! notturni uccelli, non sì tosto arran veduta spuntar
dal lucido oriente la vermiglia ambasciatrice del sole,
che dalla Imbecillità degli occhi suol verranno invitati
alla caliginosa ntretta. Gli animanti tutti, banditi dallo
aspetto de le lampadi celesti e destinati all'eterne gabbie,
bolge ed antri di Plutone, dal spaventoso ed erlnnico
corno d'Alecto richiamati, apriran l'ali, e drizzaranno il
veloce corso alle lor stanze. Ma gli animanti nati per
vedere il sole, gionti al termine dell'odiosa notte, rin-
graziando la benignità del cielo, e disponendosi a ricever
nel centro del globoso cristallo degli occhi suoi gli tanto
bramati e aspettati rai, con dlsutato applauso di cuore,
di voce e di mano adoraranno l'oriente; dal cui dorato
balco, avendo cacciati gli focosi destrieri il vago Titane,
rotto il sonnacchioso silenzio de l'umida notte, raggiona-
ranno gli uomini, belaranno gli facili, inermi e semplici
lanuti greggi, gli cornuti armenti sotto la cura de' ruvidi
bifolchi muggiranno. Gli cavalli di Sileno, perchè di nuovo
in favor degli smarriti Dei, possano dar spavento ai più
de lor stupidi gigantoni, ragghiaranno; versandosi nel suo
limoso letto, con importun gruito ne assordiranno gli
sannuti ciacchi. Le tigri, gli orsi, gli leoni, i lupi e le fallaci
golpi, cacciando da sue spelunche il capo, da le deserte
alture contemplando il piano campo de la caccia, manda-
ranno dal ferino petto i lor grunniti, ricti, bruiti, fre-
miti, ruggiti ed orli. Ne l'aria e su le frondi di ramose
piante, gli galli, le aquile, li pavoni, le grue, le tortore, i
merli, i passari, i rosignoli, le cornacchie, le piche, gli
corvi, gli cuculi e le cicade non sarran negligenti di re-
plicar e radoppiar gli suoi garriti strepitosi. Dal liquido
e instabile campo ancora, li bianchi cigni, le molticolo-
rate anitre, gli solleciti merghi, gli paludosi bruzii, le
oche rauche, le querulose rane ne toccaranno l'orecchie
col suo rumore, di sorte ch'il caldo lume di questo sole,
diffuso all'aria di questo più fortunato emisfero, verrà
accompagnato, salutato e forse molestato da tante e tali
diversitadi de voci, quanti e quali son spirti che dal pro-
fondo di proprii petti le caccian fuori.
VII. — Dalle tenebre alla luce 185
FlL. Non solo è ordinarlo, ma anco naturale e necessario
che ogni animale faccia la sua voce; e non è possibile che
le bestie formino regolati accenti e articulati suoni come
gli uomini, come contrarie le complessioni, diversi i
gusti, varil gli nutrimenti.
Armesso. Di grazia, concedetemi libertà di dir la parte
mia ancora; non circa la luce, ma circa alcune circustanze,
per le quali non tanto si suol consolare il senso, quanto
molestar il sentimento di chi vede e considera; perchè, per
vostra pace e vostra quiete, la quale con fraterna caritade
vi desio, non vorrei che di questi vostri discorsi vegnan
formate comedie, tragedie, lamenti, dialoghi, o come vo-
gliam dire, simili a quelli che poco tempo fa, per esserno
essi usciti in campo a spasso, vi hanno forzato di starvi
rinchiusi e retirati in casa.
FlL. Dite liberamente.
Arm. Io non parlare come santo profeta, come astratto
divino, come assumpto apocaliptico, né quale angelicata
asina di Balaamo; non raggionarò come inspirato da Bacco,
né gonfiato di vento da le puttane muse di Parnaso o come
una Sibilla impregnata da Febo, o come una fatidica Cas-
sandra, né qual ingombrato da le unghie de' piedi sin alla
cima di capegli de l'entusiasmo apollinesco, né qual vate
illuminato nell'oraculo o delfico tripode, né come Edipo
esquisito contra gli nodi della Sfinge, né come un
Salomone inver gli enigmi della regina Sabba, né
qual Calcante , interprete dell 'olimpico senato , né
come un inspiritato Merlino, o come uscito dall'antro di
Trofonio. Ma parlare per l'ordinano e per volgare, come
uomo che ho avuto altro pensiero che d'andarmi lam-
biccando il succhio de la grande e picciola nuca, con farmi
al fine rimanere in secco la dura e pia madre; come uomo,
dico, che non ho altro cervello ch'il mio; a cui manco gli
dei dell'ultima cotta e da tinello nella corte celestiale
(quei dico che non beveno ambrosia, né gustan nettare,
ma si vi tolgon la sete col basso de le botte e vini rinversati,
se non voglion far stima de linfe e ninfe, quei, dico, che
sogliono essere più domestici, familiari e conversabili
166 Parte terza
con noi), come è dire né il dio Bacco, né quel imbreaco
cavalcator de l'asino, né Pane, né Vertunno, né Fauno,
né Priapo, si degnano cacciarmene una pagliusca di più
e di vantaggio dentro, quantunque sogliano far copia de'
fatti lor sin ai cavalli.
Eli. Troppo lungo proemio.
Arm. Pacienza, che la conclusione sarà breve. Voglio
dir brevemente, che vi farò udir paroli, che non bisogna
disciferarle come poste in distillazione, passate per lam-
bicco, digente dal bagno di maria, e subblimate in recipe
di quinta essenza; ma tale quali m'insaccò nel capo la
nutriccia, la quale era quasi tanto cotennuta, pettoruta,
ventruta, fiancuta e naticuta, quanto può essere quella
Londriota, che viddi a Westmester; la quale, per iscalda- É
toio del stomaco, ha un paio di tettazze, che paiono gli
borzacchini del gigante san Sparagorio, e che, concie in
cuoio, varrebono sicuramente a far due pive ferrarese.
Eli. e questo potrebbe bastare per un proemio.
vili.
LA CENA FILOSOFICA*"
Armesso. Or su, per venire al resto, vorrei Intendere da
voi (lasciando un poco da canto le voci e le lingue a pro-
posito del lume e splendor, che possa apportar la vostra
filosofìa) con che voci volete che sia salutato particolar-
mente da noi quel lustro di dottrina, che esce dal libro
de la Cena de le ceneri? Quali animali son
quelli, che hanno recitata la Cena de le ceneri?
Dimando, se sono acquatici, o aerei, o terrestri, o luna-
tici? E lasciando da canto gli propositi di Smitho, Pru-
denzio e Frulla, desidero di sapere, se fallano coloro che
dicono, che tu fai la voce di un cane rabbioso e infuriato,
oltre che tal volta fai la simia, tal volta 11 lupo, tal volta
la pica, tal volta il papagallo, tal volta un animale, tal
volta un altro, meschiando propositi gravi e seriosi,
morali e naturali, ignobili e nobili, filosofici e comici?
FlLOTEO. Non vi maravigliate, fratello, perchè questa non
fu altro ch'una cena dove gli cervelli vegnono governati
dagli affetti, quali gli vegnon porgiuti dall'efficacia di sa-
pori e fumi de le bevande e cibi. Qual dunque può essere
la cena materiale e corporale, tale conseguentemente suc-
cede la verbale e spirituale; cossi dunque questa dialo-
gale ha le sue parti varie e diverse, qual varie e diverse
quell'altra suole aver le sue; non altnmente questa ha le
proprie condizioni, circonstanze e mezzi, che come le
proprie potrebbe aver quella.
Arm. Di grazia, fate ch'io vi intenda. _
FlL. Ivi, come è l'ordinario e il dovero, soglion tro-
varsi cose da insalata, da pasto; da frutti, da ordinarlo; da
cocina, da spedarla; da sani, da amalatl; di freddo, di
caldo; di crudo, di cotto; di acquatico, di terrestre; di do-
(1) Ibid. Seguito.
188 Parie terza
mestico, di salvatico; di rosto, di lesso; di maturo, di
acerbo; e cose da nutrimento solo e da gusto, sustanziose
e leggieri, salse e insipide, agreste e dolci, amare e suavi.
Cossi quivi, per certa conseguenza, vi sono apparse le sue
contrarietadi e diversitadi, accomodate a contrarie e di-
versi stomachi e gusti, a' quali può piacere di farsi pre-
senti al nostro tipico simposio, a fine che non sia chi si
lamente di esservi gionto in vano, e a chi non piace di
questo, prenda di quell'altro.
Arm. e vero; ma che dirai, se oltre nel vostro convito,
ne la vostra cena appariranno cose, che non son buone ne
per insalata, né pe pasto; né per frutti, né per ordinario;
né fredde, né calde; né crude, né cotte, né vagliano per
l'appetito, né per fame; non son buone per sani, né per
ammalati; e conviene che non escano da mani di cuoco
né di speciale?
FlL. Vedrai che né in questo la nostre cena é dissimile
a qualunqu'altra esser possa. Come dunque là, nel più
bel del mangiare, o ti scotta qualche troppo caldo boccone;
di maniera che bisogna cacciarlo de bel nuovo fuora, o
piangendo e lagnmando mandarlo vagheggiando per il
palato, sin tanto che se gli possa donar quella maFadetta
spinta per il gargazzuolo al basso; o vero ti si stupefa
qualche dente; o te s'intercepe la lingua, che viene ad esser
morduta con il pane; o qualche lapillo te si viene a rom-
pere e incalcinarsi tra gli denti per farti regittar tutto il
boccone; o qualche pelo o capello del cuoco ti s'inveschia
nel palato, per farti presso che vomire; o te s'arresta
qualche aresta di pesce ne la canna, a farti suavemente
tussire; o qualche ossetto te s'attraversa ne la gola, permet-
terti in pericolo di suffocare; cossi nella nostra cena, per
nostra e com.un disgrazia, vi si son trovate cose corri-
spondenti e proporzionali a quelle. Il che tutto avviene
per il peccato dell'antico protoplaste Adamo, per cui la
perversa natura umana é condannata ad aver sempre i
disgusti gionti ai gusti.
Arm. Pia - e santamente.
IX.
LODE DEL NOLANO e»
Teofilo ....Or che dirò lo del Nolano? Forse, per
essermi tanto prossimo, quanto io medesmo a me stesso,
non mi converrà lodarlo? Certamente, uomo raggionevole
non sarà che mi riprenda in ciò, atteso che questo talvolta
non solamente conviene, ma è anco necessario, come bene
espresse quel terso e colto Tansillo:
BencKad un uom, che preggio ed onor brama,
Di sé stesso parlar molto sconvegna.
Perchè la lingua, ov'il cor teme ed ama.
Non è nel suo parlar di fede degna;
L'esser altrui precon de la sua fama
Pur qualche volta par che si convegno.
Quando vien a parlar per un di dui:
Per fuggir hiasmo, o per giovar altrui.
Pure, se sarà un tanto supercilioso, che non voglia a
proposito alcuno patir la lode propria, o come propria,
sappia, che quella talvolta non si può dividere da sui pre-
senti e riportati effetti....
Gli Tifi han ritrovato il modo di perturbar la pace altrui,
violar i patrii genii de le reggioni, di confondere quel che
la provi da natura distinse, per il commerzio radoppiar i
difetti, e gionger vizii a vizii de l'una e l'altra generazione,
con violenza propagar nove follie, e piantar l'inaudite
(1) Cena dalle Ceneri. Dialogo primo
190 Parie terza
pazzie ove non sono, conchludendosi al fin più saggio quel
che più forte; mostrar novi studi, instrumenti ed arte di
tirannizar e asassmar l'un l'altro; per mercè de* quai gesti
tempo verrà, che, avendono quelli a sue male spese im-
parato per forza de la vicissitudme de le cose, sapranno e
potranno renderci simili e peggior frutti de sì perniziose
invenzioni....
Il Nolano, per caggionar effetti al tutto contrarli, ha
disciolto l'animo umano e la cognizione, ch'era rinchiusa
ne Partissimo carcere de l'aria turbulento; onde a pena,
come per certi buchi, avea facultà de remirar le lontanis-
sime stelle; e gli erano mozze l'ali, a fin che non volasse
ad aprir il velame di queste nuvole, e veder quello, che
veramente là su si ritrovasse, e liberarse da le chimere di
quei, che, essendo usciti dal fango e caverne de la terra
quasi Mercuri ed Appollini discesi dal cielo, con molti-
forme impostura han ripieno il mondo tutto d'infinite
pazzie, bestialità e vizii, come di tante vertù, divinità e
discipline, smorzando quel lume, che rendea divini ed
eroici gli animi di nostri antichi padri, approvando e con-
firmando le tenebre caliginose de' sofisti ed asini. Per
il che già tanto tempo l'umana raggione oppressa, talvolta
nel suo lucido intervallo piangendo la sua sì bassa condi-
zione, alla divina e provida mente, che sempre nell'in-
terno orecchio li susurra, si rivolge con simili accenti:
Chi salirà per me, madonna, in cielo,
A riportarne il mio perduto ingegno?
Or ecco quello, ch'ha varcato l'aria, penetrato il cielo,
discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte
svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none,
decime ed altre, che vi s'avesser potuto aggiongere, sfere,
per relazione de vani matematici e cieco veder di filosofi
volgari; cossi al cospetto d'ogni senso e raggione, co la
chiave di solertissima inquisizione aperti que' chiostri de
la verità, che da noi aprir si posseano, nudata la ricoperta
e velata natura, ha donati gli occhi a le talpe, illuminati ì
ciechi, che non possean fissar gli occhi e mirar l'imagin
XI. - Lode del Nolano 191
sua in tanti specchi, che da ogni lato gh s'opponeno;
sciolta la lingua a' muti, che non sapeano e non ardivano
esplicar gl'intricati sentimenti; nsaldati i zoppi, che non
valean far quel progresso col spirto, che non può far
l'ignobile e dissolubile composto; le rende non men pre-
senti, che se fussero proprii abitatori del sole, de la luna
ed altri nomati astri; dimostra, quanto siino simili o dis-
simili, maggiori o peggiori quei corpi, che veggiamo lon-
tano a quello, che n'è appresso, ed a cui siamo uniti; e
n'apre gli occhi a veder questo nume, questa nostra madre,
che nel suo dorso ne alimenta e ne nutrisce, dopo averne
produtti dal suo grembo al qual di nuovo sempre ne riac-
coglie, e non pensar oltre, lei essere un corpo senza alma
e vita, ed anche feccia tra le sustanze corporali. A questo
modo sappiamo, che, si noi fussimo ne la luna o in altre
stelle, non sarreimo in loco molto dissimile a questo, e
forse in peggiore; come possono esser altri corpi cossi
buoni, e anco megliori per sé stessi, e per la maggior fe-
licità de proprii animali. Cossi conoscemo tante stelle,
tanti astri, tanti numi, che son quelle tante centenaia de
migliaia, ch'assistono al ministerio e contemplazione del
primo, universale, infinito ed eterno efficiente.
Non è più impriggionata la nostra raggione coi ceppi de'
fantastici mobili e motori otto, nove e diece. Conoscemo,
che non è ch'un cielo, una eterea reggione immensa, dove
questi magnifici lumi serbano le proprie distanze, per co-
modità de la participazione de la perpetua vita. Questi
fiammeggianti corpi son que' ambasciatori che annunziano
l'eccellenza de la gloria e maestà de Dio. Cossi siamo pro-
mossi a scuoprire l'infinito effetto dell'infinita causa, il
vero e vivo vestigio de l'infinito vigore; e abbiamo dottrina
di non cercare la divinità rimossa da noi, se l'abbiamo ap-
presso, anzi di dentro, più che noi medesmi siamo dentro
a noi; non meno che gli coltori degli altri mondi non la
denno cercare appresso di noi, l'avendo appresso e dentro
di se, atteso che non più la luna è cielo a noi, che noi alla
luna. Cossi si può tirar a certo meglior proposito quel
che disse il Tansillo quasi per certo gioco:
192 Parie lerza
Se non togliete il ben, che ve da presso
Come torrete quel, che ve lontano?
Spreggiar il vostro mi par fallo espresso,
E bramar quel, che sta ne l'altrui mano.
Voi sete quel, cK ahandonò se stesso.
La sua sembianza desiando in vano:
Voi sete il veltro, che nel rio trabocca.
Mentre F ombra desia di quel ch'ha in bocca,
Lasciate l'ombre, ed abbracciate il vero;
Non cangiate il presente col futuro.
Io d'aver di meglior già non dispero;
Ma, per viver piii lieto e più. sicuro.
Godo il presente e del futuro spero:
Cossi doppia dolcezza mi procuro.
Con ciò un solo, benché solo, può e potrà vincere, ed
al fine ara vinto e trionfarà centra l'ignoranza generale; e
non è dubio, se la cosa de' determinarsi non co' la molti-
tudine di ciechi e sordi testimoni, di convizu e di parole
vane, ma co' la forza di regolato sentimento, il qual bi-
sogna che conchiuda al fine; perchè, in fatto, tutti gli orbi
non vagliono per uno che vede, e tutti i stolti non possono
servire per un savio.
INDICE DEL VOLUME
Prefazione Pag. VII
PARTE PRIMA
I. Presentazione e soggetto del Candelaio 5
A gli abbeverati nel fonte Caballino 5
Alla signora Morgana B ... 6
Argumento ed ordine della Comedia 7
Antiprologo 8
Proprologo 9
Bidello 13
II. L'innamorato e le arti magiche d'amore 15
III. Arti e debolezze di donne 24
IV. In taverna 28
V-VI Castigo e beffe - Plaudite 32
VII. Avventure londinesi 36
Vili. Bottegari, Servi, Furfanti 42
IX. Preludii alla « Cena delle Ceneri » - Cerimonie di tavola 48
X. Delle donne 54
XI. Pedanti 58
XII. Dottori ed Archididascali 68
PARTE SECONDA
I. La vecchiezza di Giove 79
II. Gli Dei a consiglio 88
Orazione di Giove 89
III. La provvidenza di Giove 104
IV. Uomini e bestie 107
V. Momo e Marte 110
1 94 Indice del volume
VI. Ricchezza e Povertà Pag. I 1 2
VII. La biblioteca degli Dei 118
Vili. La Fortuna 120
IX. Sonno ed Ozio 1 22
X. La Vergine 130
XI. La Bilancia 132
XII. Orione 134
XIII. La Tazza 137
XIV. Il Centauro 139
XV. 11 Pesce 141
PARTE TERZA
I. Epistola dedicatoria a don Sapatino 147
II. In lode de l'asino 153
A l'asino cillenico 1 54
III. Dissertazioni sopra l'asinità 155
IV. Metamfisicosi 167
V. Aristotele - Asino e i suoi seguaci 171
VI. L'asino accademico 1 76
VII. Dalle tenebre alla luce .... * 183
Vili. La cena filosofica 187
IX. Lode del Nolano 189
PROFILI
Ogni volume L. 2,70 - Serie di 6 volumi L. 15
I. 1. B. Supino - Sandro
Botticelli (3i ediz.),
2 A. Alberti - Cario Darwin
(3» ediz.).
3 . L. DI S. Giusto - Gaspara
Stampa (2. edziz.) (Esaurito).
4. G. Setti - Esiodo (2»edÌ7.)
(Esaurito).
5 P. ArcaRI - Federico Amiel.
6. A. Loria- Malthus (3»ediz.).
7. A. D'Angeli - Giuseppe
Verdi (2* ediz.) (Esaurito).
8. B. Labanca - Gesìi di
Nazareth (3*ediz.) (Esaurito).
9. A. Momigliano - Carlo
Porta. (Esaurito).
10. A. FavaRO - Galileo Ga-
lilei (2* ediz.) (Esaurito).
11. E. Troilo - Bernardino
Telesio. (Esaurito).
12. A. RiBERA - Guido Ca-
valcanti (Esaurito).
13. A. BUONAVENTURA - A'i-
colv Paganini. (Esaurito).
14. F Momigliano - Leone
Tolstoi. (Esaurito).
15. A. Albertazzi - Torquato
Tasso (Esaurito)
16. I. Pizzi - Firdusi.
17. S. Spaventa F. - Carlo
Dickens.
18. C. Barbagallo - Giuliano
l'Apostata
19. R. Barbiera - / Fratelli
Bandiera.
20. A. ZerBOGLIO - Cesare
Lombroso.
21. A. Favaro - Archimede.
22. A. Galletti - Gerolamo
Savonarola. (Esaurit^o).
23. G. SecrÉTANT - Alessan-
dro Poerio.
24. A. Messeri - Enzo Re.
25. A. Agresti -Abramo Lincoln.
26. U. Balzani - Sisto V.
27. G. Bertoni -Dan/e (2* ediz.)
28. P. Barbèra -G.S. Bodoni.
29. A. MichielI - Stanleu-
30. G. Gigli - Sigismondo
Castromediano .
31. G. Rabizzani - Lorenzo
Sterne.
32. G. Tarozzi- G.G. Rousseau.
33. G. Nascimbeni - Riccardo
Wagner. (Esaurito).
34. M. Bontempelli - San
Bernardino.
35. G. MuONl - C. Baudelaire.
36. C. Marchesi - Marziale.
37.G.RadicI0TTI - G. Rossini.
38. T. Mantovani - C. Gluck.
39. M. Chini - F. Mistral.
40. E. B. Massa -G.C.Abba.
41. R. Murri - Cavour.
42. A. Mieli - Lavoisier.
43. A. Loria - Carlo Marx.
44. E. BuoNAiUTi - S. Agostino.
45. F. LoSINI - /. Turghienief.
46. R. Almagià - Colombo.
47. E. Troilo - G. Bruno C.
48. P. Orsi - Bismark-
49. E.BuONAIUTi -S. Girolamo.
50. G- Costa - Diocleziano.
51 . F. Belloni Filippi - Tagore.
52. G. Loria - Newton.
53.G.MUONI - GustavoFlaubert
54. e. Marchesi - Petronio.
55. e. Barbagallo - Tiberio.
Leggere nei Profili:
GIORDANO BRUNO
DI ERMINIO TROILO
FONDAZIONE LEONARDO
PER LA CULTURA ITALIANA
Palazzo Doria - ROMA - Vicolo Doria. 6-a
CONSIGLIO DIRETTIVO.
Consiglieri eletti dall'Assemblea dei Soci: FERDINANDO
Martini, Presid. ,- Orso Mario cordino, V. Pres.;
Roberto almagìV e Giuseppe Chic venda.
Consiglieri di dirillo : // Ministro degli Esteri (AMEDEO
Giannini, Delegato); Il Ministro della P. I. (GIO-
VANNI Gentile, Delegato) ; Il Ministro delle Colo-
nie (Ferdinando Nobili Masìuero, Delegato);
Il Ministro dell'Industria (MICHELE ARNALDI, Dele-
gato); Il R. Commissario dell' Emigrazione (TOMASO
PERASSI, Delegato); La Società della Messaggerie Ita-
liane (Giulio Calabi, Delegato); A. F. Formig-
GINI {Socio fondatore).
La fondazione, eretta in ente morale, mira ad inten-
sificare in Italia e a far nota all'estero la vita intellet-
tuale italiana valendosi di mezzi pratici ed efficaci
finora intentati.
Soci promotori. Quota libera non inferiore a L. 1000
Soci perpetui, » » » » 250
Soci ANNUALI, con V Italia che Scrive . . » 12,50
Estero » 15 —
Con diritto anche a 3 Guide » 20 —
Estero » 25 —
/ nomi dei Promotori e dei Soci perpetui sono co-
stantemìnte ripetuti nelle pubblicazioni della * Leonardo».
Le loro quote ne costituiscono il patrimonio intangibile.
PQ Bruno, Giordano
A615 In trisbitia hilaris


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