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Tuesday, April 23, 2024

Chiavacci

 Sembra, quindi, cosa ardua dire qualcosa di nuovo su Michelstaedter. Un’ulteriore problema, poi, che presenta lo studio della sua opera, sorge allorché si tien conto  che con il giovane pensatore goriziano ci troviamo di fronte ad un intellettuale  anomalo, del tutto sconosciuto in vita e scomparso in un’età in cui di solito gli altri muovono  i primi passi nella vita pubblica. La stessa sua opera principale, La persuasione e la rettorica, era destinata ad essere la sua tesi di laurea ed è  stata data alle stampe postuma; sicché il  riconoscimento tardivo e la fortuna, non solo nell’ambito del panorama culturale italiano, ma  anche di carattere internazionale, che essa ha avuto, sono in gran parte dovuti alla devota  sollecitudine di un pugno di amici, cui si deve la sua pubblicazione e quella degli altri scritti  di Michelstaedter. A loro si deve, infatti, dopo la sua scomparsa prematura, il merito di aver  sottratto alla morte la sua memoria3 Tra di essi, e sono soprattutto i nomi che contano nella ristrettissima cerchia degli amici  fiorentini, spiccano Arangio–Ruiz e  C.. Il  lavoro paziente e meticoloso del secondo, in particolare, per rendere accessibile la conoscenza degli scritti di Michelstaedter, con la sua edizione delle  Opere  (Firenze, Sansoni), “costituisce una  pietra   miliare   nella   vicenda   storico-culturale   e   storico-critica  del filosofo goriziano. L’edizione Sansoni di C. è all’origine del lavorio critico e interpretativo  che è seguito negli ultimi trent’anni e che non accenna ormai a declinare”           In  uno  studio su   Michelstedater,  non   si  può  allora   perdere  di   vista  questa   verità;  e,  soprattutto non si può non tenerne conto. Occorre, allora, affrontare il compito di chiarire il  senso e i termini della ricostruzione del suo pensiero proposti da C.e da Arangio –  Ruiz.        E parlare dei due fraterni amici di Michelstaedter significa non poter passare sotto silenzio  un   autore,  Gentile, le  cui suggestioni   sono  penetrate   per  canali   vari  e   hanno  raggiunto un’egemonia ancora non del tutto esaurita  nella cultura italiana. Non a caso, con  aderenza  più o meno piena, da lui hanno preso le mosse  molti autori che poi hanno svolto  idee originali e autonome, accentuando, ripensando o rivedendo l’uno o l’altro aspetto della  sua  filosofia. Nella sterminata  letteratura critica che gravita sull’attualismo,  i due pensatori  ‘fiorentini’ compaiono,  sia pure con caratteristiche proprie che li distinguono dall’uno e dall’altro indirizzo d’interpretazione, come “notevoli esponenti” della sinistra (Vl.Arangio –  Ruiz) o della destra gentiliana (C.) Tuttavia, il loro lungo e travagliato svolgimento dell’eredità neo-idealistica, sia pure  ripensata “in novitate spiritus”7, perloppiù non è stato mai messo a fuoco con efficacia e nei  suoi risvolti più significativi ed è stato oggetto solo di qualche timida e stentata paginaNon deve perciò apparire strano che su questi problemi e su questi autori, e in particolare  sulla loro collocazione speculativa nell’ambito del panorama attualistico, si torni ad insistere:  essi esordirono come attualisti; poi, seguirono e “amarono” Gentile9; non persero mai di vista  l’approfondimento  del  suo  pensiero  e  si   riconobbero   in  esso  nell’arco  di  alcuni   decenni,  giungendo  ad  un  suo  “sincero   ripensamento”10.  Una  lettera   di   dedica   a  Gentile,  datata   8  agosto   1943   (che   apre   il   volume  La   ragione   poetica,   Firenze,   Sansoni,   1947),   mette  ampiamente in evidenza l’effetto che provocò sul giovane C., nel marzo del 1919, la  lettura della Teoria generale dello spirito come atto puro :”ebbi un lampo di luce, pel quale  intravidi la possibilità di comprendere la vita, di potervi trovare quel valore, senza del quale   ogni altra cosa non ha pregio”     A questi dati se ne potrebbero aggiungere molti altri. Qui, tuttavia, per ragioni di tempo e   di spazio, occorre prescindere da una approfondita analisi delle rispettive biografie teoretiche  e del contesto. E, poi, per lo stesso motivo, si rende necessaria una ulteriore limitazione del  discorso al solo rapporto Chiavacci – Michelstaedter - Gentile, anche perché “Arangio – Ruiz  non   ha  lasciato   un   grosso   volume   sistematico,   ma   solo   volumi   di   saggi;   e   quanto   a  Conoscenza e  moralità,  che   già subito non lo appagava più...egli  stesso  lo considerava un  saggio, non un trattato”12; e, poi, egli fu non tanto un pensatore sistematico, quanto un fine e  colto letterato, un autore “di prosa morale o di polemica antintellettualistica o di discussione  su  problemi di estetica e di critica  d’arte”. Infine, tutta  la sua  opera è pervasa  sin dai suoi   momenti iniziali da “una polemica coi suoi più vicini maestri: Croce e Gentile” 13; invece, le posizioni speculative di Chiavacci presentano tratti più sistematici, rientrano nel grande alveo  dei   motivi   tipicamente   attualistici   e   culminano  con   maggior   consapevolezza   ed   esiti   più  cospicui in un tentativo di rielaborazione, di compiuta espressione dell’idealismo14.        Qui,  come   termine  di  riferimento   e  di confronto,   occorre   prendere  in  considerazione  l’insegnamento di Gentile negli anni in cui la sua attività didattica e scientifica trovò il suo  più maturo affermarsi, a partire dal 1918 a Roma.15 Sono, infatti, gli anni in cui si pongono le  basi di un fitto tessuto di relazioni  che  interviene   a   connettere   Chiavacci a Gentile, in un  rapporto   che   diventerà   sempre   di   più   assiduo,  “amichevole   e   confidente”.  La   prima  domanda da   porsi, per  sgomberare  il  terreno   da equivoci,   è di   sapere, attraverso  l’analisi  puntuale dei principali documenti letterari, quali furono il consenso e i punti di dissenso.     Ma vediamo i termini del discorso, senza perdere il contatto con i testi.      Gentile si   occupa  ripetutamente di  Carlo   Michelstaedter. Su sollecitazione   di  Chiavacci (lettera 14 novembre 1920), che si era iscritto in Filosofia, a Roma dopo averne letto i testi e ascoltato le lezioni, interviene presso Vallecchi, una delle  sue  cittadelle   editoriali,   per   caldeggiare   l’edizione  de  La   persuasione   e   la   rettorica  data  effettivamente alle stampe nel 1922; nel 1933 (lettera a Chiavacci del 21 novembre) chiede  allo stesso   Chiavacci di   redigere  per  l’Enciclopedia  Italiana  la  voce  Michelstaedter   di 10  linee, e qualche giorno dopo decide di elevare lo spazio per la stessa voce a 30 righe18. Nel  1922, poi, recensisce l’opera di Michelstaedter data alle stampe per i tipi della Vallecchi. Nel  farlo,   tributa   innanzitutto   elogi   all’iniziativa   ad   opera   di  un   “fido   gruppo   di   amici”   di  Michelstaedter; rileva  subito  dopo che   si   tratta di  uno   scritto giovanile  in   cui non  c’è   un“approfondimento metodico” degli argomenti trattati, e né un loro  “sviluppo  sistematico 19.  Infine, prende  in considerazione “il problema  dell’opposizione tra la persuasione  vera, che  corrisponde al possesso della vita, e la falsa persuasione, scopo della rettorica”20.        Per Gentile, in   Michelstaedter la persuasione  serve ad indicare il  fatto che il “possesso  della realtà e della verità...non cerca vanamente fuori di sé il suo mondo”, ma è caratteristica   “della sufficienza, dell’autarchia, come dissero i greci. La persuasione del vero sapere, come  lo intuì e lo volle Socrate, tranquillo, sereno, saldo sul punto che è il centro del suo mondo:  nel suo animo”21. Di contro, la rettorica è espressione dell’individualità illusoria, inganna e  s’inganna, è superficiale, prende il posto del vero sapere, si prende “gioco dell’uomo, gli fa  credere di vivere in mezzo ai piaceri”;   la   rettorica   uccide   la   vita,   irretisce   l’uomo  “nella  vana   teoria   dei   concetti”,   “sdoppia   il  sapere   e   la   vita”,  oppone   “alle  cose   direttamente  affermate il pensiero che afferma le cose” e così mostra “l’insufficienza delle cose che hanno  nella persona il loro correlato e l’insufficienza della persona, che ha nelle cose il suo termine  integrante”Tuttavia,   per   Gentile,   anche   se   il   Michelstaedter  sceglie   giustamente   a   suo  bersaglio la rettorica, alla quale dedica gran parte delle proprie forze speculative e del proprio   lavoro di tesi, “non ha né tempo né animo per considerare direttamente e con pari studio la  persuasione.   Sono   accenni   qua   e   là,  e   qualche   spunto   del   suo   pensiero   positivo   si   può  scorgere”   nelle  Appendici  e,   più   precisamente,   ne  Il   prediletto   punto   di   appoggio   della   dialettica socratica24. La persuasione, è vero, dice Gentile, viene definita come caratteristica  “di chi permane. L’unica via di chi permane è la sua forza; la forza di non asservirsi al futuro,  e tenere raccolta nel presente la propria  vita”25. Ma qui si ha a che fare con una immagine  poetica, non con un concetto filosoficamente dimostrato; permangono perciò interrogativi sul  cos’è la vita, questo permanere, ecc. Il merito indiscusso del Michelstaedter, il suo guadagno  speculativo   più   cospicuo,   secondo   Gentile,   consiste   nel   mettere   in   rilievo   un   universale  aspetto di verità,   che  consiste nel  fatto   che  l’uomo “rientra   in   se stesso, liberandosi   della  rettorica e gettando la salda ancora della vita nel porto della persuasione”26.     Quali furono le reazioni di Chiavacci a questo giudizio di GentileUno sguardo da   vicino  all’elenco dei  suoi   scritti e una  loro   attenta  analisi consente   di   accertare   che   la   sua   personalità   speculativa,   ma   anche   quella   di   Arangio   –   Ruiz,   nasce  dall’incontro con Carlo Michelsteadter, cioè “da un humus fortemente sentimentale”, e il suo  “culto” per l’amico comune  “restò fino all’ultimo  sempre vivo”27. Entrambi gli autori, poi,  pur se  procedono con  diversa,  e non certo  marginale, fisionomia sistematica  e speculativa,  fanno proprie le istanze teoretiche gentiliane centrali e le affrontano sotto le suggestioni di   Michelstaedter,   nel   tentativo   di   riguadagnare,   come   nel   caso   del   Chiavacci,   l’essenza  dell’attualismo   e   così   di   offrire  un   contributo,   “perfettamente   consentaneo”,   alla   sua   più  compiuta espressione28.     L’intero percorso speculativo di Chiavacci, ad esempio, manifesta fino in fondo la fedeltà a  conservare queste istanze, comunque egli si muova, quali che siano gli andarivieni del suo  pensiero. In particolare,  egli dà  alle stampe nella “Rivista di cultura”, di cui   Gentile era membro del comitato di redazione, un testo intitolato Le due nature29. In esso, egli  affronta il   problema del rapporto tra  finito e infinito, sostenendo  che “l’infinito ideale non  può realizzarsi come immanente al finito, ma come immanente alla negazione del finito”30. Il  testo viene pubblicato con una postilla dello stesso Gentile, in cui il filosofo siciliano lo invita  a non insistere tanto sulle differenze tra le sue posizioni e quelle dell’attualismo e, soprattutto,  ad approfondire  meglio gli aspetti relativi   al ruolo della “negatività  nella dialettica propria  dell’idealismo”, con particolare riferimento al tema dell’attuosità dell’atto, della negazione in  cui si deve cogliere una attività che passa e supera il limite che si è posto e si afferma nella  “sua libertà da ogni limite”, come valore o realtà infinita, laddove il finito non rinvia ad una   trascendenza, ma è il “campo nel quale si celebra e trionfa la potenza dello spirito nella sua  concretezza”.         Dopo   questo   intervento,   due   anni   dopo,  ossia   nel   1924,   e  sulla   scia   evidente   delle  sollecitazioni  di  Gentile,  nel  Giornale critico  della  filosofia   italiana,  la  rivista   fondata   e diretta dallo stesso Gentile, Chiavacci dà alle stampe un corposo articolo su Michelstaedter in  cui cerca di mostrare, rispondendo ai rilievi critici del suo maestro siciliano, che il pensiero di  Michelstaedter  non  è   riconducibile   ad  “una  realtà  negativa”,   ma  è  “la  positività   dell’atto  negante, in  quanto vero atto, cioè vita”; esso non è “pura  negatività”, e tutta  la  sua novità  consiste nel fatto che  “il positivo di Michelstaedter è l’attività che crea se stessa dal nulla” e   perciò è senza condizioni o, in termini gentiliani, “libertà senza limiti”32.        Tutto il  testo  di Chiavacci è una serrata,  e pacata, replica  e a Gentile,  in cui  si pone il  problema   di   precisare   e   difendere  le   giuste   esigenze,   quasi   come   una   esplicitazione   in  positivo del pensiero di Michelstaedter e in particolare come una prosecuzione della sua tesi  su  La  persuasione   e  la  retorica.  Già  il   titolo  dell’articolo  di   Chiavacci   è   una  risposta  a   Gentile, che negava al Michelstaedter l’esistenza di una vera e propria dottrina filosofica, di  un   approfondimento   metodico   e   di   uno   sviluppo   sistematico   e   parlava   piuttosto   di  “personalità filosofica”33.      Per Chiavacci, invece, Michelstaedter “non parla direttamente della persuasione”, ma non  per questo è “giusto dire che ne dia pochi cenni...della persuasione si parla in tutto il libro,   perché essa  è il criterio della lotta contro la rettorica”34. Egli non ne fa la teoria, “come non fa  la teoria del positivo della persuasione, così si rifuta di considerarne il risultato, come un fatto  staccato dal processo”35. Il criterio che Michelstaedter usa non è una nuova teoria accanto a  tante altre teorie che si sono avute nel corso della storia del pensiero, ma “è Michelstaedter  stesso vivente. Filosofia non sistematica, perché ogni sua affermazione è il sistema, e il suo  organismo vivo che non può contraddirsi”36; e perciò la definizione della persuasione risulta  “da tutto il libro”37. Una tale filosofia, nel nucleo essenziale del suo pensiero, è l’attività vera,   la vita, non ha fuori di sé la vita “perché deve essere essa la vita” 38. “La via della persuasione  è se stessa e non ha un fine fuori di sé. Essa intanto è la vita dell’infinito nell’individuo finito,  è la vera vita del finito: è processo, vita”39.      Michelstaedter non è un mistico; il suo ideale non è un qualcosa di trascendente, “ma è la  realtà  stessa  più   profonda  del  soggetto”;  quel  che   egli  nega  del   particolare   “è  insieme  affermazione,   come   dice   l’idealismo”:   si   nega   la   particolarità   del   particolare,   “nella   sua  32 G. Chiavacci, Il pensiero di Carlo Michelstaedter, in “Giornale critico della filosofia italiana”,  pretesa immediata, quel che si afferma  è   quel   che   implicitamente  era in lui di universale,  senza di che non poteva neppure esser particolare: è lo sviluppo della sua parte migliore che  dormiva. Quel che di lui perisce era quel che non valeva, che non era mai stato reale: quel che  del particolare ci deve premere, la  sua   aspirazione   all’universalità,  quella non perisce, ma  s’invera. E’ in fondo quel che dice il Gentile stesso quando parla dell’immortalità”41. Questo  particolare, questo esserci del mondo come particolare, come finito, non è possibile senza “la  richiesta dell’universale”, è “il campo in cui lo spirito si celebra  e trionfa...’è  il lampo che  rompe la nebbia’ “42; è sviluppo spirituale, mondo come fare non come è dato.      La convergenza delle due posizioni, e su punti e aspetti decisivi della vulgata attualistica,  diventa qui profonda. In concreto, l’idea di individuo, non più un essere naturale e che “non  si restringe nei limiti del particolare: perché egli non può né pensare, né sentire, né altrimenti  realizzarsi,   che   in   un   modo   universale”43,   caposaldo  e   tipica   espressione   dell’attualismo  gentiliano chiamata in causa nel testo di Chiavacci del 1924, viene pienamente accolta. E si  pongono così le basi di un consenso che non si discosterà molto negli ulteriori svolgimenti  del confronto tra i due autori.         Per cogliere ulteriormente i tratti principali del consenso tra Gentile e Chiavacci, al di là  dei  punti  di   convergenza  fin  qui   messi  in risalto,   è   necessario  tener  presente   i  principali  scritti di Gentile di quegli anni, in cui la sua attività didattica e scientifica “trovò…il suo  primo affermarsi con  volontà   rivoluzionaria.  Si determinava una   svolta   essenziale del suo  pensiero e della sua azione”. Gentile, infatti, al culmine della propria  maturità   scientifica,  iniziava   il  corso   di   Storia  della   filosofia.  E,   nel  concludere   la  sua  prolusione, tracciava le linee direttrici per un programma di rinnovamento della filosofia, con   l’intento di “rifare l’uomo intero, che senta come pensa, e operi come parla”45, perché “il  vecchio letterato è  morto…l’accademia   e   la  filosofia da eruditi devono essere   davvero   un  passato irrevocabile” : la vita deve diventare una milizia continua46.         Come documento più significativo di  questa svolta  può essere preso il proemio (del 19  ottobre 1919) del primo numero del “Giornale critico della filosofia italiana”, la rivista della  Scuola romana gentiliana, in cui viene portato avanti lo stesso discorso della prolusione. Non a caso, in esso, Gentile “propone di guardare all’avvenire” per incominciare una  nuova   vita,   uscendo   dall’individualismo   e  dall’egoismo.   E,  per   farlo,  egli  dice,   occorreprecisare il rapporto tra scienza e filosofia, contrapponendo le due forme di sapere. Da una  parte   c’è   la   scienza   e   dall’altra   la   filosofia.   La  prima   presuppone   il  proprio   oggetto   di  conoscenza ed è analisi disgregatrice “sintesi impotente a ricreare la vita distrutta...la quale se  potesse veramente realizzare il suo stesso ideale, sarebbe affatto morta e quindi inesistente:  critica presuntuosa, intenta a rendersi conto della vita restandone fuori”; la seconda, invece,  e lo stesso discorso vale per la religione, “non presuppone, ma pone; non guarda, ma crea;  non analizza perciò, ma vive; non è astratta teoria, ma teoria che è prassi”48. Il problema di  questo rapporto è un principio essenziale dell’attualismo e costituisce l’aspetto fondamentale  del programma della nuova rivista 49. Gentile parla qui di sviluppo dialettico che si risolve e si  supera   in   un   dramma   eterno,   che,   proprio   perché   continuo   superamento,   rinvia  necessariamente   al   continuo   superato,   all'oggetto   nel  soggetto.   Cosicché   la   realtà,   o  atto  spirituale, è una unità, ma non una mera unità immediata, bensì unità del suo opposto, ossia   della molteplicità. Tale idea di uno svolgimento dialettico dello spirito, ribadita a più riprese,  significa che  la   filosofia  non è più "teoria e  contemplazione   del  mondo, ma solo azione e  creazione del mondo stesso. Azione che non è, tuttavia, un immediato agire, bensì coscienza  di   agire''.   Tanto   che,   come   afferma  Spirito,   "l'idealismo   trionfa   veramente   di   ogni  intellettualismo non in quanto   esso   rimane  una teoria dell'atto, ma solo in quanto si attua,  sicché il suo  valore   teoretico  è assolutamente nulla   (intellettualismo)  se non diventa etico  (attualismo)''.           Gentile insiste,  in altre  parole, sul valore  dell’attività creatrice dell’uomo e sviluppa il   concetto di un mondo che   noi   facciamo  e dobbiamo fare. Anzi,  esso   è   l’unico veramente  esistente. Tutto il suo pensiero, perciò, è caratterizzato dall’esigenza pedagogica e dal posto  che il problema dell’educazione occupa nella sua speculazione, che è così ”il massimo centro  della sua concezione” e mette in luce “la finalità più profonda del suo pensiero, tutta raccolta  in   quell’umanesimo,   che   dà   significato   fin   da   principio   alla   teoria   e   alla   storiografia  dell’attualismo.  La   vita spirituale   è educazione,   anzi  autoeducazione...questa   affermazione  non   ha   un   significato   parziale,  e   relativo   ad   una   determinata   questione,   ma   rappresenta  l’essenza del concetto di  spirito che qualifica tutto il pensiero del Gentile”.51 E, perciò, per  intenderne a fondo il senso e l’importanza, occorre  ”guardare al lato più propriamente etico  della sua filosofia: a quello cioè per cui la filosofia, essendo giunta alla completa liquidazionedel vecchio significato intellettualistico, si  afferma   come   identica  alla vita, come il valore  stesso   della   vita.   La   filosofia   del   Gentile   è   tutta   Etica   o   meglio   Pedagogia.   Poiché  una  filosofia   che   non   è   concetto   della   realtà,   ma   autoconcetto,   non   può   essere   più   teoria   e  contemplazione del mondo, ma solo azione e creazione del mondo stesso”52.      In forza di queste considerazioni, è chiaro che non si può indulgere a nessuna inerzia. Una   tale filosofia, infatti, non può risolversi più in una pura e semplice contemplazione. Prima il   filosofo   poteva   rintanarsi   nell’ozio   speculativo,   far  propria  una   ideologia   estetizzante   da  filosofo - letterato, ed avere come unico compito quello di guardare e giudicare, per intendere  una realtà altra ed indipendente da lui. Si trovava così dinanzi a sé un mondo già dato, che per  il suo stesso esserci limitava e vanificava la libertà dell’uomo. Col Gentile, invece, cessa ogni   dualismo e ogni astratto concetto di filosofia. Quest’ultima, anzi, diventa, azione consapevole  di sé, vita umana, sociale, e quindi anche educazione e politica. Vi è identità di conoscere e   fare e viene   meno la separazione meccanicistica, e con essa  ogni   residuo dualistico, tra le  varie sfere dell’attività umana; perciò filosofo, educatore e politico diventano tutti termini  sinonimi di uomo. Noi siamo artefici assolutamente liberi e responsabili del nostro mondo e  di conseguenza natura,  società, storia, ecc. non costituiscono più un limite. Tutto, infatti, è   assolutamente immanente nel nostro io più intimo. La nostra stessa umanità non è più quella  degli uomini presi nel loro atomismo particolaristico, ma “quella della nostra personalità, più  profonda che non è di fronte ad altre personalità, ma tutte le affratella raccogliendole nel suo  seno in una vita  unica   che   deve  farsi sempre più una, e   cioè   sempre  meno particolare ed  egoista”53. Così  viene  vanificata  la   nozione individualistica   della  persona,  nel   tentativo di  guadagnare  una  societas in interiore  homine, perché, per  usare le stesse parole del  Gentile  della  Teoria   generale  dello  spirito  come atto   puro :“altri, oltre   di  noi, non   ci  può  essere,  parlando a  rigore,   se noi lo conosciamo, e ne  parliamo.   Conoscere è identificare, superare  l’alterità   come   tale.  L’altro   è   semplicemente  una   tappa   attraverso  di   cui   noi  dobbiamo  passare, se dobbiamo  obbedire   alla  natura immanente del   nostro   spirito :   ma   passare, non  fermarci”54. Questo stesso concetto, poi, verrà ripreso e ulteriormente approfondito in Genesi  e struttura della società, dove si afferma che l’individuo non da considerare come un  atomo; ad esso, infatti, è  :”immanente al concetto di individuo è il concetto di società. Perché  non c’è Io, in cui si realizzi individuo, che non abbia, non seco, ma in sé medesimo, un alter,  che è il suo essenziale socius”.55  L’uomo, allora, non può più rinchiudersi nella sua angustaempiricità e nella sua particolare competenza, ma deve invece realizzare se stesso e la propria  “personalità nella coscienza di una vita universale”.56        Gentile, secondo Ugo Spirito, non solo è pervenuto a questo nuovo concetto della realtà,  ma con la propria vita ci ha dato l’esempio per l’attuazione più alta e coerente della nuova  idealità. In lui filosofia e politica, vita individuale e vita sociale si sono realizzate nella sintesi  più   concreta  e   consapevole.   Egli,   perciò,  nel   significato   più   proprio   della   espressione  hegeliana,   è  un  individuo   portatore   dello   spirito57;  anzi,   “è   il   simbolo,   e,   meglio,   che   il  simbolo, l’iniziatore di una nuova Italia”, perché la sua umanità non si riduce ad una vuota e  vaga  astrazione,  ma   egli   è  un  uomo   intero,  appunto  perché   è  quella  “universalità  che   si  concretizza nella storia e nell’individuo...vive concretandosi nell’individuo”58.         Il che, nei suoi termini essenziali, non è altro che lo stesso discorso che Chiavacci aveva  svolto nel suo articolo del 1924. Per il filosofo fiorentino, infatti, come abbiamo avuto modo  di  vederlo  più   sopra,  anche  Michelstaedter   non  elabora una  teoria   della  persuasione,  e   il  criterio che egli usa “è Michelstaedter stesso vivente. Filosofia non sistematica, perché ogni  sua affermazione è il sistema, e il suo organismo vivo che non può contraddirsi”59; e il nucleo  essenziale del suo   pensiero,  quindi, è l’attività vera, la vita,   che   non ha fuori di sé la   vita  “perché deve essere essa la vita”60. “La via della persuasione è se stessa e non ha un fine fuori  di  sé.  Essa  intanto  è   la  vita  dell’infinito   nell’individuo  finito,  è   la  vera  vita  del finito:   è  processo, vita”61.          Lo stesso tema  verrà   ulteriormente   ripreso   dal   Chiavacci  negli anni successivi. Il suo  volume  Illusione  e  realtà,   del  1932  e  sua  prima   opera  sistematica  di   filosofia,  per  usare  un’espressione   di   Eugenio   Garin,   può  essere   intesa   “come   una  sorta   di   esplicitazione  in  positivo”62 del pensiero di Michelstaedter e in  particolare come una prosecuzione della sua  tesi su La persuasione e la retorica volta a metterne in risalto gli aspetti per così dire positivi,  cioè  il tema della  persuasione. Dopo pochi anni,  ossia nel 1936, dà alle  stampe un   Saggio   sulla natura dell’uomo  (Firenze, Sansoni) animato dal proposito di tradurre nella tensione  dialettica di natura/uomo la precedente coppia di termini illusione/realtà e, così, di continuare  la   chiarificazione   delle   principali   istanze   michelstadteriane   in   rapporto   alle   posizionigentiliane. Tale  compito campeggia sin dalle prime battute discorsive  del saggio,  che perciò viene presentato come una “visione di scorcio”, un discorso che “dovrebbe riuscire  ad   una   riaffermazione   di   idealismo”.63  Nell’Epilogo,  poi,   il   risultato   dell’argomentazione  discorsiva,   considerato   nelle   sue   rigorose   e   ultime   conseguenze,   lo   porta   ad   individuare  nell’atto gentiliano, ossia in quella che egli chiama la ragione poetica, il punto focale della  riflessione   attorno   a   cui   disegnare   il  tracciato   del  confronto   Michelstaedter   –  Gentile.   E  questo atto consiste in una liberazione e in un  distacco da tutto ciò che è caduco e relativo;  epperò,  nello  stesso   tempo,  conduce  “a   vivere  con   altra   mente   la  vita  che   ci  troviamo  a  vivere, un consistere nel qualunque punto la sorte ci abbia gettato, è accettazione, perché tale  atto “non cerca nulla fuori di sè e l’unica sua gioia – unica pura gioia, se tale può dirsi – è lo  stesso suo puro conoscere, la stessa sua assoluta liberazione interiore”64.   In un altro saggio  del 1947, apparso ancora una volta nel “Giornale critico della filosofia  italiana”, Chiavacci  affronta di nuovo, e non a caso, Il centro della speculazione gentiliana: l’attualità dell’atto.   Nel  farlo  ammette   che  il  centro   dell’attualismo  è  l’attualità  dell’atto,  ossia   l’affermare  la  realtà come un unico processo, un perenne “farsi quel che deve essere e non è”, atto come  processo che è “assoluto possesso, realtà attuale immanente al suo farsi”. Per spiegare come  sia da intendere questa affermazione di carattere fondamentale, Chiavacci analizza alcuni dei  principali   testi  del  Gentile;  mette  in   evidenza,   poi,   che  la  realtà  di  cui   il  filosofo   di  Castelvetrano parla non è un fatto, ma libera creatività “che sfugge ad ogni metro di criterio   preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna rivivere dal di dentro”66. In questo processo, il  finito, l’io empirico, il mondo, “che deve essere negato nella sua pretesa sufficienza, nella sua  pretesa di sostituirsi all’infinito”, non viene abolito, ma “acquista tutto il suo valore, quando,  vedendosene   l’insufficienza   in   sé,   è   considerato   nel   suo   essenziale   rapporto   con  l’infinito...perché   visto  con   altri  occhi   nella   sua  vera   realtà” Per Chiavacci, in questo consiste la verità elementare e il valore incontestabile, positivo, di ciò che il gentilianesimo  indica quando parla di attualità dell’atto. Non più filosofia in senso logico, ma vita in atto,  attività giudicante e nello stesso tempo attività creatrice. Questo è l’aspetto  più importante,  avvincente e persuasivo, ossia il concetto della processualità dello spirito, in cui “il processo  è veduto come perenne farsi, come assoluta perenne novità, e al tempo stesso come assoluta unità, come un nuovo che è sempre identico”68, un conoscere che è nello stesso tempo fare e  vivere. In questa  concezione, per Chiavacci sembra   annidarsi, comunque, una difficoltà di  fondo, cioè:  anche l’attualità dell’atto  sembra essere una  forma di mediazione, di logica, e  quindi in definitiva di oggetto; e perciò sembra cadere nell’accusa di panlogismo già rivolta a  suo tempo contro la filosofia hegeliana. Ma questa difficoltà si supera se si tien conto che per   Gentile l’attualità non è da considerare come una cosa, ma come “spirito, non fatto ma atto,  farsi. Viene facilmente pensato  che  questa  sia la   nuova  mediazione;  giacché   un  farsi,  un  divenire, non può essere in sé un immediato, ma deve essere passaggio in atto dal non essere  all’essere...Ma anche questa è mediazione logica”69. La soluzione di questo problema è di  capitale importanza per poter intendere effettivamente il pensiero di Gentile e per far si che  esso non sia da abbandonare come una realtà del passato definitivamente tramontato, ma sia  “più vivo che mai”.  Per  sciogliere  i  nodi  del   problema   e   dissipare  i  dubbi,  in  modo   da   comprendere l’essenza stessa del nucleo centrale dell’attualismo, occorre tener presente che  la mediazione attuale, di cui parla Gentile, nel caratterizzare il suo modo di intendere l’atto in  atto, “è una mediazione non  di opposizione, ma   di distinzione, in  cui non si  afferma né si  nega più, ma si vive direttamente, si possiede la propria vita, in quanto si vive la vita altrui, e  si vive   l’altrui in quanto si vive   la  nostra”70.  Questo è il vero e incontestabile   attualismo,  ossia “lo spirito che sempre si fa, sempre non è, e che pure giunge a vivere questo suo non  essere  (cioè questo suo superare il finito) come l’eterna assoluta realtà (cioè come vita del  finito  in cui  si realizza l’infinito)”71. Nei testi Filosofia dell’arte e  Genesi e struttura della   società, in particolare, Chiavacci trova conferma a questa sua rilettura del Gentile, soprattutto  quando si parla nell’ultima opera del filosofo siciliano dell’individuo all’interno della Società  trascendentale o societas in interiore homine: “la realtà, che è spirito, è originariamente, già  nel suo  principio,   non un’unità semplice, un io indivisibile,   un   individuo atomistico: ma è  unità fra un io e un altro che noi portiamo dentro di noi, una società orginaria per la quale  soltanto  ci  possono   essere  l’io  e   l’altro”  72. Si   tratta  di  fondare  una   società,  in  cui   “l’io,  essendo conciliato con se stesso, si trova anche conciliato con gli altri, e la vita di ciascuno è  la stessa, identica vita di tutti. Solo nella misura in cui l’uomo giunge a realizzare se stesso, si  crea per lui una più vera e libera società in cui l’uomo non è homini lupus, ma io nella sua più vera realtà, ora consapevole   e   perciò   soltanto   ora   veramente   reale   nella   sua   concretaindividualità”73.   Si   tratta   in   altri   termini   di   una   dialettica  tra   logo   e   attualità   o   attualità  dell’atto, che consente al Gentile, secondo Chiavacci, di prendere le distanze e di realizzare  un fondamentale progresso rispetto allo stesso Hegel.      Gli stessi termini fondamentali del lessico gentiliano fin qui illustrati (ma poi anche quelli  di “illusione” e “realtà”) traducono in linguaggo attualistico la distinzione michelstaedteriana  tra persuasione (vita del finito in cui si realizza l’infinito, campo in cui lo spirito si celebra e  trionfa) e rettorica (affernazione illusoria di vita, individuo atomistico, ecc.).   A   ulteriore  dimostrazione   di   quanto  fin   qui   affermato,  c’è   un  altro   testo   di   Chiavacci,   datato   1952,  significativamente intitolato L’individuo74, in cui sin dalle prime battute discorsive si dice che  non si “comprende Michelstaedter se non si comprende cosa significhi per lui ‘individuo’ “.  Per cogliere il vero senso del pensiero di Carlo Michelstaedter, occorre allora tener presente  che “egli è un uomo d’azione: il suo parlare è agire...un imperativo dunque, volto a creare una  nuova realtà, in  cui il  mondo e gli altri siano a lui identici, siano una cosa sola con lui, in   quanto egli abbia raggiunto una vita che abbia in sé la ragione, e che perciò sia giusta verso  tutti,  perché abbia raggiunto quel valore individuale che fa vivere ‘le cose lontane’ “. E,  nella stessa pagina, nell’intento di mettere a in luce e cogliere il vero significato del pensiero  di Michelstaedter, Chiavacci ribadisce ulteriormente che :”il valore individuale...è la concreta  consapevolezza che la nostra essenziale esigenza trascende ogni singola determinazione. In  tal modo si porta a una decisione la nostra vita,...allora la coscienza acquisterà un’unità reale,  che  né   spazio  e   né   tempo  potranno   minacciare,   e   il   molteplice   del   mondo   si  unificherà  anch’esso e si farà a noi interiore”. Giunti  fin  qui,  il  quadro che   nei  suoi  tratti   più  peculiari  ci   si   presenta   agli  occhi,  in  particolare dopo la sintetica analisi svolta di alcuni dei passi fondamentali e della vulgata  attualistica e dei testi dati alle stampe da Chiavacci nell’arco di alcuni decenni, è quello di un tentativo   di   riguadagnare   il  più   profondo   significato   dell’attualismo.   Chiavacci,   in   altri  termini,   a   partire   dai   primi   anni   Venti,   riprende   un   motivo   tipicamente   attualistico,  espressione  di   quell’idealismo  che  egli   considera come la  “più  ricca  eredità  tramandataci  dalla storia  della filosofia moderna”77, e  cerca di mostrare  i legami di  fondo che stringono  Gentile a Michelstaedter.   Colloca   così in primo piano   i   punti  di forza del   momento   dellapersuasione e, nello  stesso   tempo,  del momento dell’attualità dell’atto per mostrare in che misura entrambi convergono, seguitando a dare frutti. Di Michelstaedter accentua, prolunga e  rinnova il  problema   della   persuasione   e  di   Gentile   quello   dell’atto   in   atto,  che   si   fa  continuamente,   che   è   vita.   Il   suo   intento  è   quello  di  collocarsi   all'interno   dell'attualismo  nell'intento di chiarirne alcuni suoi problemi fondamentali, per cogliere il senso più pieno, più  recondito, del lascito gentiliano - e de  La persuasione e la rettorica - e di non lasciare che  esso   venga   ridotto   a   teoria,   ad   una   chiusura   sinteticistica   o   una   formulistica   ripetuta  pedissequamente. Lo stesso  Gentile,  per   Chiavacci, non   sempre  ha  avuto   piena coscienza  degli ulteriori svolgimenti impliciti nel suo discorso sulla affermazione dell’attualità dell’atto,  e ancor di più ai suoi seguaci è sfuggito il significato profondo di questa sua conquista, ma  questo non autorizza ad arrestarsi alla lettera del suo discorso, ad una ripetizione puramente  verbale di ciò che egli disse. Anzi, proprio questo “sarebbe non solo tradire lo spirito del suo  pensiero, ma addirittura contravvenire al suo esplicito imperativo, di superare perennemente  le forme individuate in cui il pensiero via via si realizza”.78      Così Chiavacci ritiene di poter cogliere negli scritti di Michelsteadter una forme maitresse,  la cui chiave d’oro è data dal significato che quest’ultimo attribuisce all’individuo, come una  di quelle verità fondamentali che una volta scorte non possono più essere perse di vista, ma  che  possono  essere  pienamente  accolte  e   fatte   oggetto   soltanto  di  ulteriori   svolgimenti   e  approfondimenti. Questa caratterizzazione dell’individuo, non più inteso come atomo e che  perciò non può più rinchiudersi nella sua angusta empiricità, ma deve realizzare se stesso  nella coscienza di una vita universale - cioè far si che nasca in noi “una nuova realtà, così che  il mondo sia con noi una sola cosa”79  -, e che perciò “sceglie di permanere, sceglie l’ora, il  qui, convertendoli   in  sempre   e dovunque  :  sceglie  la   qualunque situazione   che si   trova a  vivere,  e   esaurisce   in   essa   l’infinita   sua   esigenza:  far  finito   l’infinito,   far   vicine   le   cose   lontane”80, rientra, sul terreno speculativo, nel grande alveo della teoresi gentiliana, della sua  dottrina dell’atto puro, e rivela una profonda e sostanziale convergenza con essa, al di là di un  differente   uso   terminologico   e   di   enunciazioni   gentiliane   non   sempre   rigorosamente  univoche.     Nei testi successivi, fino ad arrivare agli ultimi scritti dati alle stampe tra il ,  Chiavacci   conferma   e   sviluppa   ulteriormente   queste   posizioni,   sempre   sullo   sfondo   del  dialogo con Michelstaedter   e   con Gentile, ancora una   volta   nel  tentativo di  conciliarne   leesigenze di fondo. Così in un saggio del 1955, significativamente incentrato su L’eredità di Gentile, si  propone   il   compito   di  individuare   e   descrivere  ciò   che   deve   al  filosofo   di  Castelvetrano. E nel farlo afferma senza mezzi termini:” Se mi domando...che cosa debba al  pensiero filosofico di Gentile, quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua dottrina, che egli lascia come preziosa eredità a quelli che son rimasti dopo di lui, e che sentono  l’impegno di non disperderlo, così come i figli buoni sentono il dovere di non dilapidare, ma  anzi accrescere, il patrimonio  che   il   padre  per amor loro onestamente aveva guadagnato e  saggiamente risparmiato, non trovo, a voler tutto restringere in una parola, risposta più esatta  di questa: la dottrina dell’atto puro”81. Su questo terreno speculativo, la chiave di volta è l’io; ed  è un io senza residui intellettualistici che, per  poter   assolvere   opportunamente   il   suo  compito e realizzarsi senza  impietrarsi, non deve avere alcuna realtà  presupposta, ma deve  “reintegrare la realtà dell’oggetto, senza farne un presupposto del soggetto, nè in ogni modo  qualcosa fuori di  questo” Si tratta qui di  un   io il cui carattere   peculiare   è di avere una   infinita apertura e attualità - che si sottrae alle leggi precostituite di una logica formale, di una natura presupposta,   di  un   mondo   di  idee   già  codificato   e  platonicamente   costruito   sin  dall’eternità   -,  che   si   alimenta   tutto   e  sempre   “sull’infinita,   indefettibile,   unica   attualità   dell’atto” e consiste nell’essere “l’io pensante nelle sue infinite individuazioni storiche” o “la  consapevolezza   che   l’atto   ha   di   sè   come   forma   immanente   dello   stesso   suo   concreto   e  individuato  agire”,  “assoluta   responsabilità   di  chi  si   assume   attualmente  la  responsabilità  della propria vita nel cui infinito anelito è implicata la vita dell’universo”.83  Sicché non può  esservi altro che una “eternità che sia il senso immanente della temporalità...un infinito che  si  realizzi nel finito redimendone la finitudine”; e questo è il guadagno speculativo più cospicuo  dell’attualismo gentiliano, ossia “la più esauriente risposta alla ricerca del pensiero moderno,  e tale da aprire la possibilità dei più felici sviluppi”      Tuttavia,   secondo   Chiavacci,   il   filosofo   siciliano   non  è   riuscito   a   dare   alla   propria  riflessione una  formulazione   in tutto  e   per tutto univoca; e anzi  ha   mantenuto aperte   due  possibilità interpretative, che hanno dato vita ad altrettante enunciazioni del suo pensiero, col  rischio di invalidarne le ragioni più genuine e geniali. In particolare, Gentile non avrebbe  assolto   pienamente   al   proprio   compito  di   riformare   la   dialettica   hegeliana   :   avrebbe   sì  investito  in  maniera   efficace   e  acuta  Hegel   dell’accusa   di  intellettualismo,  per  esser   eglrimasto legato ad una dialettica del pensato, ma poi non avrebbe tratto tutte le conseguenze di  questa   sua   battaglia   e   sarebbe   ricaduto   egli   stesso   in   una   dialettica   a   sua   volta   intellettualistica, cioè in “una teoria del reale che non è essa stessa il movimento per il quale  il reale è; è il concetto dell’autoconcetto,   per   dirla   con Gentile¸ e cioè non l’autoconcetto  stesso, che per essere tale non può essere concetto, ma autocoscienza superante il concetto”.85  In altri termini, una volta intesa veramente la dialettica come dialettica del pensare, nella sua  attualità, come vita dell’atto che è conceptus sui, questa attuosità non può essere colta da una  teoria ad essa  staccata  e   sopranuotante  che trascenda e definisca il tutto, ricomponendo in  sintesi la tesi e l’antitesi e ponendosi come terzo rispetto ai due momenti. Cosi facendo, per  Chiavacci, si ricade soltanto, e ancora una volta, in una forma di platonismo o di dualismo;  invece, la vita interiore dell’atto o, meglio, della soggettività dell’io trascendentale “non può  esser   conosciuta   che   per   la   consapevolezza   che   il   soggetto   ha   di   sé   senza   oggettivarsi,  consapevolezza immanente al processo, in cui un momento in tanto è se stesso, in quanto è  conscio del suo rapporto   all’altro,   così   che il soggetto come vivente relazione non è terzo  oltre i due momenti, ma è tra i due momenti stessi, che in tanto sono due in quanto ciascuno  di essi è per se stesso il vivente rapporto di sé all’altro. La dialettica dell’Atto non può essere   che una monodiade”.86 Il passo che Gentile avrebbe dovuto compiere per condurre a rigorosa  coerenza il   suo discorso   filosofico  consisteva  nel  far  propria   l’esigenza  di   una “dialettica  attuale,  fra  momenti   attualmente  vissuti  nella   loro  reale soggettività...la  dialettica   triadica  degli opposti era un dannoso impaccio”; occorreva  intendere “l’atto come il vivente attuale  processo unitario in cui gli oppos  ti si trasfigura non in distinti, in quanto l’io, realizzando la   proprio apertura  infinita,   supera  le determinazioni intellettive e attua quella coincidenza   di  individuale e di universale, così profondamente vista e così suggestivamente proclamata tante volte dal Gentile, la   quale   mal   si   concilia  con   la   solitudine   del   logo   come   sintesi.  Essa  richiede invece un interiore dialogo fra logo e sentimento, che ben  si può scorgere nel più profondo dell’esigenza   gentiliana”. Solo  così,  ossia   liberando  la   dialettica  dai   residui  intellettualistici   che   ancora   ne  gravano   la   comprensione   e   il   pieno   sviluppo,   è   possibile  riaprire   il   discorso   e   operare   un   rinnovamento   dall’interno dell’attualismo,  per farne  fruttificare il lascito più genuino e importante. E questo è appunto l’intenzione fondamentale  che   pervade   anche   gli   altri,   successivi,   scritti   di   Chiavacci   -   tutti   volti   alla   miglior  comprensione e all’approfondimento delle stesse istanze speculative – che aspira a connotarsiquesta   sua  più   significativa   e   innovativa   scoperta90;   ed   egli   resta   in   definitiva   ancora  impigliato nelle stesse difficoltà di Hegel. Per rendersi conto di queste conclusioni, secondo  Chiavacci occorre porsi all’interno della filosofia di Gentile e prendere in esame il problema  del processo dialettico dell’autoconcetto, che è, appunto, il problema dell’intuizione, ossia  dello   spirito   che   vive   nell’intuizione91;   e   poi   è   necessario   cercare   di   rispondere  all’interrogativo sul modo in cui l’io “distingue se stesso dal suo opposto, e nascano insieme  soggetto e oggetto, nasce cioè la coscienzacome restitutrice del loro peculiare pregio ai motivi più propri dell’attualità dell’atto, per così  dire mortificati da certe inadeguatezze, difficoltà di interpretazione, incomprensioni.        In  un   altro,  denso  e   complesso,  saggio   della  tarda  maturità  su  L’autocoscienza   nella  filosofia di Gentile,  le   posizioni  fin qui prese in esame ricompaiono,  imperniate sul bisogno di fornire ulteriori precisazioni e sviluppi alle stesse istanze teoretiche.  Esse,   infatti,   ruotano   sempre   attorno   al   problema   dell’atto   e   ai   vari   aspetti   ad   esso  strettamente correlati, e si concentrano soprattutto sulla dottrina dell’autocoscienza e sulle sue  articolazioni, perché essa, in quanto “intimità soggettiva dell’atto del pensare, in cui consiste  l’essenza   e  l’esistenza   concreta   dell’Io,   diviene  il   centro   che  sostiene   la  realtà   di   tutto  l’universo”.Per Chiavacci, tuttavia, nonostante che attorno a questo problema graviti tutto il  pensiero gentiliano, negli scritti  del filosofo siciliano,  tranne qualche sporadico cenno, non  compare una esposizione  adeguata   del modo in cui   l’Io   trascendentale  ha coscienza  di   se   stesso. Nella Teoria generale dello spirito come atto puro, nel Sommario di pedagogia  e in  qualche  altra opera,  ad esempio, si dice quà e là, e in maniera stringata, che l’Io, l’atto, in  quanto realtà presa nella sua infinità, come tutto, non è oggettivabile e che la vita dello spirito  si conosce per via di intuizione, ma non vi è mai una esposizione e una trattazione esplicita di questo aspetto. In Gentile, poi, si dice anche che non v’è conoscenza che non sia logica, mediazione; e si  riconosce  che   ogni  grado   della  consapevolezza   (sensazione,  percezione,   rappresentazione,  intuizione, sentimento, e così via) è cosciente  perché si  tratta di distinzioni relative di certi  atti psichici  con certi altri,  e in quanto  tali, sul terreno del  logo astratto, esse  sono sempre  espressione   di   un   pensiero   logico.   Tuttavia,   affinché   l’atto   spirituale   sia   veramente   uno,  questa distinzione per   gradi  tipica della psicologia empirica e di una  concezione analitica  dell’anima   umana,  nell’attualismo   viene  abbandonata.   In  forza  di   queste  considerazioni,  Gentile, secondo Chiavacci, per evitare di ricadere in una visione cristallizata dell’atto e così  di considerarlo come mero fatto, oggetto tra oggetti, individua e ammette nell’intuizione una  forma di logo che non è quella astratta del logo oggettivo, epperò la traduce in termini diversi  da quello di intuizione, ossia con auto-concetto,   facendo   valere   la  distinzione tra pensiero pensante e pensiero pensato. Tuttavia,   pur   se  questa  via  è   in   profonda   dissonanza  con  i  modelli della comune concezione psicologica precedente, sfugge al Gentile la piena portata dPer Chiavacci, la distinzione tra i due termini del discorso emerge in chiaro soltanto nel  momento in cui c’è una forma dell’io  che conosce se stesso distinta  da quella con  cui l’io  conosce l’oggetto, perché nel lessico gergale idealistico,  stricto sensu  parlando, l’io non ha  alcun contenuto; la realtà si risolve tutta nell’io, in quanto forma e contenuto si identificano.  Questo  è  un  aspetto che orienta  tutto  il  quadro  di   pensiero   di   Gentile   -   e  su   cui   egli   è  costantemente ritornato, sottolineando l’esigenza unitaria e monistica della sua filosofia – la cui chiarificazione comporta la necessità di precisare come concepire  l’autocoscienza   e   “quell’autotrasparenza per la quale mentre vive la sua conoscenza delle cose, sa di essere in  atto di conoscerle” .Si tratta qui di una iniziale  intuizione di sé, che si svela ancora  una volta come un atto logico, perché senza la mediazione propria del pensiero pensato, concettuale e oggettivante,  “non ci sarebbe neppure l’intuizione del soggetto”. Questo atto iniziale però ha un carattere  intuitivo, la cui peculiarità diventa ben distinguibile se si prende in esame il processo della  conoscenza sin dal  suo   primo  momento e se  si   tien   conto, secondo Chiavacci,  di   come  a  partire da esso si articola l’unione/distinzione di soggetto e oggetto. Ci si accorge allora che si  tratta di “un atto di analisi che dà per risultato due termini intuiti, cioè conosciuti, come reali,   concreti, come due sintesi. Ed è questo carattere sintetico la spiegazione del fatto che anche  l’oggetto, pur essendo opposto al soggetto, è come lo specchio in cui il soggetto si riflette, il  contenuto della sua vita, il mondo che costituisce la sua vita: la stessa cosa è il suo vivere e il  mondo che vive. E’ un conoscere logicamente anteriore al giudizio predicativo pel quale si  può dire propriamente che nasce il concetto”. Negli   ulteriori  svolgimenti  discorsivi,  poi,   sul   terreno  che  in   termini  attualistici   viene  coperto  dall’area  semantica   del  pensiero pensato,   in  cui  si   analizza   il  contenuto  sintetico  datoci  attraverso l’intuizione e si costruisce  un fitto tessuto di relazioni concettuali, cioè  la  kantiana sintesi a priori del giudizio, non si fa altro che accogliere pienamente e non perdere   di vista la verità “di quella sintesi a priori che c’è già nell’oggetto sintetico analizzato”, per  esplicitarla in   maniera analitica. Una cosiffatta mediazione  concettuale, infine, da  punto  di  vista del   filosofo  di Castelvetrano   non può  non   riconoscere la   propria  astrattezza,   cioè   la  coscienza di essere una “esplicitazione che rimane caput mortuum, se si distacca dalla sintesi  di cui vuol rendere conto, da quella sintesi che gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e  che è l’intuizione costitutiva dell’attualità dell’io e che forse meglio si potrebbe dire sensus   sui”. Quel che così si viene a colpire è la logica del pensiero pensato che per quanto utile e   per certi aspetti finanche necessaria, come  momento essenziale dello sviluppo dialettico, se  abbandonata a se stessa verrebbe ad annullarsi e a ridursi ad un puro e semplice vaniloquio,  ma che  invece se si alimenta  alla fonte di ogni   mediazione, che è la  consapevolezza di sè  dell’io, crea per ciò stesso la propria ricchezza di sviluppi e trova nell’intuizione, cioè nella  concreta unità dell’atto che è la sede dell’autocoscienza e certezza della verità, la sua vera e   proficua radice.      Questa certezza Chiavacci la chiama anche fede, un termine contro cui si sono addensate  non poche critiche, ma che a suo dire potrebbe tener conto adeguatamente dell’apertura alla  religiosità   della   vita   spirituale   mostrata   da   Gentile   in  tutto   l’arco   della   sua   produzione  scientifica  e,  in  particolare,  negli   ultima anni della sua vita. L’atteggiamento del filosofo siciliano  nei confronti della religione,   tuttavia,   in  proposito   avrebbe  potuto   essere più evidente e  di maggior respiro, se   egli avesse stabilito con chiarezza  inequivocabile  come  individuabile   specificazione   dell’autoconcetto   ciò   che   esso   veramente   è:   intuizione   o  sentimento Nel tracciato del grandioso disegno speculativo di Gentile, invece, è proprio questo il punto più  debole  e  bisognoso di una   riconsiderazione   critica.   Per   Chiavacci,   infatti,   la   sua  costruzione logica, pur se foggiata in maniera geniale e improntata a una visione metafisica di  grande rigore filosofico e fortemente innovatrice, presenta “il torto di tutte le metafisiche, di  oltrepassare con la  costruzione  intellettuale,  col loro  logo pensato, l’unica   autentica  fonte  della verità, il  logo pensante, in quanto trasparenza della nostra vita a se stessa nell’attualità  dell’atto”. Questo  non  significa affatto sminuirne l’importanza e le grandi possibilità  che  essa  ci   dischiude;   anzi,   il   valore   sostanziale   delle   sue   tesi   comporta   il   più   ampio  riconoscimento e consiste nel fatto che con esse noi “mettiamo a profitto ciò che egli solo ci  ha insegnato, riprendendo l’aureo filone dell’analisi dei grandi filosofi sulla vita spirituale, e  arricchendolo nella sua maschia originalità...Certo è che la filosofia del Gentile mi attirò fin   dal mio primo contatto con essa; e più tardi, nel primo dopoguerra, quando ero quasi giunto al  mezzo del cammin di nostra vita, mi fu di grande conforto per riconquistare fiducia, il che mi  permise di  riprendere   il  mio cammino attivamente. E di questo   non  cesserò mai di sentire  gratitudine. E’ una gratitudine non minore di quella che debbo a lui in persona, per avermi  sempre incoraggiato e aiutato affettuosamente in ogni circostanza della mia vita”. Questa conclusione riassuntiva implica il  riconoscimento  dell’importanza fondamentale  della teoresi gentiliana e, nello stesso tempo, comporta anche l’impegno a farne fruttificare il  più genuino e fecondo lascito. Chiavacci, proprio per questo, sottopone la teoria dell’atto ad  approfondimento   e  revisione   interna,  in   un  ampio,   continuo  e   serrato  dialogo,   con  una  disamina volta a   stabilirne  una più  rigorosa   coerenza  che valga   a   guidare e inquadrare   la  propria riflessione speculativa. In particolare, la prospettiva a cui giunge Chiavacci, nel corso  del  suo   lungo  cammino   intellettuale,   presa  nel  suo  complesso,  comporta   in  definitiva  un  triplice guadagno: 1) un riuscito tentativo di promozione dell’opera dell’amico goriziano, per accreditarle una  sua peculiarità e dignità filosofica, col metterla a confronto con la speculazione gentiliana; Chiavacci nello stesso tempo raggiunge anche una sua personale elaborazione teoretica  dell’attualismo; 3) gli spetta così il merito, con questo suo atteggiamento rivalutativo di entrambi gli autori  citati, non  solo di aver  speso con efficacia   le sue migliori   fatiche in difesa dell’amico,  ma   anche  un posto  d’onore, con una sua originalità e  competenza, nell’ambito della letteratura  che gravita su Gentile e l’attualismo, tanto da poter essere considerato come espressione di un  indirizzo del pensiero filosofico contemporaneo in cui egli “appare indubbiamente tra quelli  che più sono progrediti”. Senonché, a parte i riconoscimenti fin qui menzionati che gli sono stati variamente tributati,  le acute indagini e la argomentazioni del Chiavacci, volte a svolgere una vigorosa opera di  individuazione   e   di   messa   in   chiaro   di   un   comune   ambito   teoretico   tra   Gentile   e  Michelstaedter, non sempre trovarono unanime consenso; in alcuni casi esse suscitarono non  poche perplessità. E’ questa, ad esempio, la convinzione di Ugo Spirito che, nel concludere la  propria   risposta   all’amico  Chiavacci,  non   esita  ad   affermare:   “a  me   sembra  Chiavacci, profondamente legato alle esigenze dell’attualismo e a quelle michelstaedteriane,  non abbia   potuto  conciliarle  fino   in fondo,  sia  rimasto in   una  posizione  intermedia  tra la  concezione dell’assoluto dialettico e quella dell’assoluto adialettico”. Su questo punto, comunque, la riflessione critica  che gravita sugli autori fin qui presi in  considerazione  (alquanto lacunosa, a dire il vero,  soprattutto negli ultimi anni e per quanto  concerne   l’esigenza   e   il   compito  di   saggiare   storicamente   le   posizioni   di   Chiavacci!!)   a  tutt’oggi   non  è   concorde   e  perciò il   problema   della  conciliazione tra   la  speculazione  gentiliana   e   quella   di   Michelstaedter   ci   sembra   tuttora   aperto   a   ulteriori  sviluppi  e approfondimenti che sono ben lontani dal venire realizzati, come un compito non ancora del  tutto assolto. Ben consapevoli di queste difficoltà, in queste paginei abbiamo inteso soltanto delimitare e precisare l’ambito di indagine, che è da valutare come un’ulteriore approsimazione al problema, e offrire degli spunti utili a sostegno della prosecuzione del discorso Gaetano Chiavacci. Keyowords: poetico, critica della ragione poetica, illusion, allusion, ludo, la natura dell’uomo, carteggio con Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiavacci” – The Swimming-Pool Library.

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