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Tuesday, July 2, 2024

GRICE ITALICO A/Z G3

 Grice e Genovese: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della tribù – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Genovese; for one, he has explored the philosophy of ‘vincoli,’ which is all that my theory of communication is about!” Grice: “Genovese has explored the etymology of ‘tribe,’ as originating with Romolo!” Gricce: “Genovese has punned on Kant’s silly ‘pure reason,’ surely what Kant meant was a pure critique of reason – since ‘pure’ is hardly synonymous with ‘theoretical,’ which the treatise is all about! When Kant goes on to write Part II, he qualifies ‘reason,’ as ‘practical,’ HARDLY impure!” – Studia a Pisa e Parigi sotto Foucault al Collège de France. Interessato alla teoria dei sistemi, entra in contatto con Luhmann. La teoria sociologica costituirà da allora una parte importante della sua riflessione. Membro della Fondazione per la critica sociale, fa parte della redazione della rivista La società degli individui e lascia la redazione di Il Ponte per contrasti sulla direzione della rivista.  Formatosi in una prospettiva hegelo-marxista vicina alla Scuola di Francoforte, se ne allontana progressivamente (come si può osservare già in “Dell’ideologia inconsapevole. attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Adorno” (Napoli, Liguori), assumendo sempre più nettamente una postura scettico-relativista con un’attenzione alle scienze sociali e, in esse, alla funzione, appunto relativistica, svolta dall’antropologia culturale. Indicativo di questo passaggio è l’articolo su “Hume e la filosofia antropologica” in “Tra scetticismo e nichilismo” (Pisa, Ets), in cui nel contempo si nota l’interesse per la teoria dei sistemi.  La forma compiuta dell’evoluzione della sua filosofia si trova in “La tribù occidentale”, “Per una nuova teoria critica” (Torino, Boringhieri), e:Un illuminismo autocritico. La tribù occidentale e il caos planetario” (Torino, Rosenberg e Sellier), in cui, nella presa di distanze dalla soluzione di Habermas (v. Speranza, “Grice e Habermas”), si profila una logica dell’ibridazione e del paradosso come fuoriuscita dalla dialettica di marca hegeliana.  Questa linea è approfondita, in senso più strettamente politico con il rilancio di un’idea di socialismo, nel successivo “Convivenza difficile” (Milano, Feltrinelli), “L’Occidente tra declino e utopia” (Milano, Feltrinelli), e soprattutto, facendo i conti finali con la teoria dei sistemi, nel “Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione, potere” (Napoli, Cronopio),  a tutt’oggi la sua opera teoricamente più significativa. Si è dedicato in modo particolare ai temi politici e civili con “Che cos’è il berlusconismo” (Roma, Manifesto); “Il destino dell’intellettuale” (Roma, Manifesto), “Totalitarismi e populismi” (Roma, Manifesto) -- tutti pubblicati dalla casa editrice Manifesto di Roma, e intervenendo regolarmente in rete nel sito “Le parole e le cose” e in quello della rivista Il Ponte. I suoi interessi estetico-letterari si esprimono dapprima con “Teoria di Lulu. L’immagine femminile e la scena intersoggettiva” – keywords: scena intersoggetiva – (Napoli, Liguori), in cui, nel rivisitare il mitico personaggio teatrale, e poi anche filmico, creato da Wedekind, affronta il tema della cosiddetta lotta dei sessi, ripreso con un romanzo breve in forma epistolare (“L’anti-eros”, Firenze, Ponte alle Grazie) in cui sono presenti sia una chiara vena satirica sia il tentativo di fare filosofia in altro modo, in una vaga ispirazione kierkegaardiana. Seguono i libri di viaggio, o apparentemente tali nella miscela di finzione narrativa e saggismo, Falso diario e Tango italiano (Torino, Bollati Boringhieri); “L’Occidente (“Roma, Manifestolibri), e ancora quello che probabilmente è il suo libro più sofferto, insieme documento di una crisi e stravolta autobiografia visionaria, “Ci sono le fate a Stoccolma. Dal diario dell'esilio mentale” (Reggio Emilia, Diabasis). Altre saggi:  “Modi di attribuzione” (Napoli, Liguori); “Figure del paradosso” (Napoli, Liguori); “Critica della ragione impure” (Milano, Bruno Mondadori); “Gli attrezzi del filosofo” (Roma, Manifesto). “L'idea, o forse dovrei dire il gesto, mi sembra felice: invece di scrivere un saggio su x (ideologico, politico, storico) scrivere di sé come turista a disagio che vorrebbe scrivere un libro su x», G. Bollati a G., le Giulio Bollati. Lo studioso, l'editore, Torino, Bollati Boringhieri, A. Tricomi, La Repubblica delle Lettere, Macerata, Quodlibet. G. è quasi costretto non semplicemente ad alternare, ma addirittura a sovrapporre, ad arricchire l'uno con le peculiarità degli altri, e infine a rendere, più che reversibili, indistinguibili, registri argomentativi e stilistici tra loro assai diversi. Ci sono le fate a Stoccolma diventa perciò il libro di un  filosofo, senza che mai si possano individuare luoghi del testo in cui una delle anime che lo ispirano prenda nettamente il sopravvento». Le due leggende troiana e romulea. Il primo popolo, ossia i Ramni, i Tizii e i Luceri.– La plebe. Dopo la rivoluzione portata nella storia tradizionale romana dal l'olandese Perizonio, con le sue Animadversiones historicae, e dal Beaufort con la sua famosa Dissertation sur l'incertitude des cinq premiers siècles de l'histoire romaine, lavori che si succedettero alla distanza di mezzo secolo, la critica, che era rimasta ne gletta nell'evo antico e nel medio, perchè riguardata o inutile o incapace di produrre frutti fecondi, comparve un elemento neces sario nello studio di quella storia tradizionale. E di quei due critici va detto ciò che in una pubblicazione recentissima. La prima edizione delle Animadversiones venne in luce ad Amsterdam,e quella della Dissertation beaufortiana ad Utrecht. Storia di Roma narrate da Bonghi, Manifesto di Brioschi, Giorgini e Minghetti. Questitresignorirecanoilseguentegiudizio sulla Storia Romana di NIEBUHR: Amalgama felice di erudizione e di critica, l'opera del Niebhur (sic) era fatta col sentimento che vi domina, non tanto per dare una nuova direzione allo studio delle antichità, quanto per ispirarne l'amore ». Questo giudizio dimostra che gli autori del Manifesto non sono storici. Ma appunto perchè non sono tali, avreb bero potuto astenersi dal profferire sul fondatore della critica storica moderna un giudizio che dilàdelle Alpi fará un'impressione tutt'altro che lusinghiera per noi. Al giudiziodegli scrittori del Manifesto, con trapponiamo quello del Savigny e dello Schwegler, la cui competenza insiffatto argomento non èscono sciatadaalcuno. Savigny, ne'suoi “Vermischte-Schriften”, così parla della storia romana del Niebuhr:«L'opera del Niebuhr ha impresso alla trattazione della storia dell'antichità un carattere affatto nuovo (Niebuhrs Werk hat der Behandlung der Geschichte des Alterthums einen ganz neuen Charakter verliehen -- Essa ha inalzato l’ideale della storiografia e fissato l'indirizzo di ogni ricerca nel campo Rivista di Storia Italiana. Origini Romane. 13 I. I critici: loro scuole: Niebuhr, Schwegler, Mommsen , Bonghi. I.  ragione, aparernostro, del Niebuhr; che, cioè, questisi propo nesse più d'inspirare l'amore allo studio delle antichità romane,che di dare a quello studio un indirizzo nuovo. L'opera del Niebuhr mirasoprattuttoaquesto secondoscopo;quantoall'altro,delde stare l'interesse per lo studio delle antichità,esso rampollava natu ralmente dal primo ; mentre la critica del PERIZONIO e del Beaufort, pel suo carattere negativo, non poteva prefiggersi che quest'ultimo scopo. Sebbene però ilconcorsodellacritica fosse, dopolacomparsadel l'opera del Perizonio, generalmente ammesso,esso non fu usato da tutti secondo l'ufficio suo. E se i più se ne giovarono per ret tificare od anche per abbattere del tutto la tradizione romana, non mancarono anche coloro che se ne servissero in senso op posto, che è a dire, in difesa di essa tradizione.  Fra questi ultimi vanno segnalati Kobbe (“Römische Geschichte”), Gerlach e Bachhofen (“Geschichte der Römer), Newmann (“Royal Rome,” ecc.) e Duruy (“Histoire des Romains”). Gli altri scrittori, e sono il maggior numero, si divisero in due scuole:all'una vanno ascritti iseguaci del NIEBUHR, all'altraisuoi correttori. Oggi il campo è tenuto dai secondi , in mezzo ai quali spiccano le due splendide figure di Schwegler e di Mommsen. Costoro sono pure campioni di due metodi diversi nel l'applicazione della critica alla storia tradizionale romana. Il metodo dello Schwegler è severamente analitico. Egli espone prima la tra dizione in tutti i suoi minuti particolari e con le sue variant. Poi, nel paragrafo successivo, assoggetta la tradizione ad un rigoroso esame critico, diretto a scovrirne la genesi,e ilcarattere degli ele menti che concorsero a crearla. In questa diagnosi spicca, colla potenza di acume dello scrittore, la sua meravigliosa erudizione. Dopo di avere ben fermato il concetto della leggenda e del mito, e fissate del secondo le categorie diverse (mito etiologico, etimologico, ecc.), egli procede a classificare geneticamente i singoli elementi della tradizione romana, e ci dice quali debbano ascriversi delleantichità romane -- Schwegler (Röm. Gesch.) aggiunge:« La Storia Romana del Niebuhr, opera sotto ogni rispetto classica, non solo diede una nuova direzione allo studio dell'antichità fatto sinora, ma è ancora il punto di partenza e il fondamento a tutte le ricerche future, alle quali egli segnò l'indirizzo e diede il più fecondo impulso (Seinerömische   Geschichte,eingrossartiges,injeder Beziehung classisches Werk, ist nicht nur der Brennpankt und Abschluss der bisherigen, sondern auch der Ausganzspunkt und die Grundlage aller spätern Forschungen, zu denen es den Anstoss und die fruchtbarste Anregung gegeben hat). alla leggenda, quali all'una o all'altra forma del mito, e quali deb bano aversi in conto di storici. Non oseremmo asserire che in questa minuta classificazione Schwegler cogliesse sempre nelsegno. Ma dobbiamo pur dichiarare che in essa nulla apparisce mai di co scientemente arbitrario; di maniera che si potrà dissentire da una data sua opinione, perchè faccian difetto gli argomenti con cui c o m provarla, non già perchè gli argomenti siano stati usati a sproposito. L'opera di Schwegler, comparsa or fanno 30 anni, è rimasta, a parer nostro, fino ad oggi insuperata. Il metodo delMommsen ètuttol'oppostodiquello dello Schwegler. Qua il racconto tradizionale è preso in esame capo per capo ; là di esso non è fatto nemmen parola. In luogo della tradizione, abbiamo un racconto ricostruito dalla critica, senza però che estrinsecamente apparisca traccia di siffatto lavoro.Non vi è dubbio che questo m e todo presenti maggiori attrattive dell'altro,perocchè escluda ogni processo dimostrativo; ma appunto perciò porta anche maggiore responsabilità a chi lo segue ; e offre più largo campo alle censure. La Storia romana del Mommsen ne incontro difatti di vive ed acerbe, sebbene il valore generale della sua opera fosse da tutti rico nosciuto. La polemica suscitata da essa torna poi a grande profitto della critica storica, perchè essa diè occasione al Mommsen di lumeggiare alcuni luoghi oscuri della Storia romana, mercè una serie di monografie storico-critiche, che egli raccolse col titolo di “Ricerche romane” – “Römische Forschungen.” Il metodo di Schwegler trova in questi ultimi giorni un am plificatore fra noi,in Ruggiero Bonghi.La sua Storia di Roma, da molti anni aspettata, ha cominciato ora a comparire in luce col primo volume. Il chiarissimo autore premette ad esso una lettera in risposta al manifesto dei triumviri che aveano promosso la pub blicazione della sua opera.In questa lettera egli dice, che « gli pa reva strano e vergognoso che una storia tutta nostra non avesse mai ritrovato in Italia chi dopo gli antichi avesse intrapreso di narrarla.Veramente, gli storici nazionali di Roma antica non mancano, come non mancarono i critici, e da Lorenzo Valla ad Atto Vannucci trovasi una schiera numerosa di dotti che a quello studio applicarono l'ingegno e la dottrina. In questa schiera spiccano i nomi di ORIOLI, di UCCELLI, di ROSSI, di CANAL, di CANINA, le cui opere dimostrano, che noi non ci eravamo con tentati, come afferma il Bonghi, di tradurre prima Rollin, poi Niebuhr e Mommsen . E se la letteratura nostra mancasse pure di codeste opere, non basterebbero le pagine inspirate che sulla storia romana dettarono il MACHIAVELLI e il VICO, per ismentire il basso concetto che il Bonghi reca della storiografia italiana? Il volume che abbiamo davanti non contiene sufficiente materia, perchè si possa dire fin d'ora in quale misura l'aspettazione dell'opera sia stata soddisfatta. Perché l'autore, amplificando, come si è detto, il metodo dello Schwegler , premette alla critica storica la critica letteraria della tradizione. All'esame di ciò che vi può es sere di storico nella tradizione e della genesi sua, egli manda innanzi la ricerca della sua forma primigenia. Per ora non abbiamo che la sua dichiarazione di avere scoverto « in una selva selvaggia ed aspra e forte di dissensi, di congetture, di questioni d'ogni fatta qualche sentiero non ancora battuto »; lo che acuisce il desiderio di averesott'occhi la seconda parte del volume, che avrebbedo vuto comparire insieme con la prima , con la quale ha comune il subbietto, e della quale è l'anima. L'autore stesso riconosce che lo scompagnare le due parti, come si è fatto, « avrebbe reso meno facile ai lettori di comprendere il suo disegno. E così appunto è avvenuto. Ed io devo confessare che questa difficoltà è nata anche in me, sebbene il lungo esercizio mi abbia reso in certo modo fa migliare questo studio. Dopo illavoro diligentissimo di Schwegler, a me era parsa meno necessaria quest'opera di gran pazienza e fatica, come l’autore stesso chiama e con ragione,l'esameminu tissimo cui sottopose la tradizione.E perchè a ciò solo non si rimane l'opera sua nel volume pubblicato,ma qua elàeglifuindottodallo sviluppo della sua analisi, ad entrare nel merito storico della tradizione, la separazione della seconda parte dalla prima è ancor più deplorata.Senza di essa noi avremmo,per esempio,chiaritosubito la teorica, con la quale l'autore chiude il suo discorso sulla leggenda di ROMOLO, e che messa fuoriamo di assioma storico,anoi è parsa mancante della necessaria chiarezza, per poterci risolvere ad accettarla. Eccola con le parole stesse dell'Autore : « Del rima nente,ènecessario,dic'egli, tenere ben distinte queste tre dimande. Prima, se una leggenda contenga elementi storici. Seconda, quale sebbene pero l'Italia abbia fatto il dover suo in questo impor tante studio, ciò non iscema l'interesse che desta nei dotti la com parsa di un'opera, dettata da una mente che della sua grande potenza avea dato saggi copiosissimi nelle discipline più svariate. la storia sia stata. Terza, come la leggenda sia nata. Noi abbiamo obbligo di rispondere di no alla prima dimanda,se ci si prova che debba essere negativa, pur quando non abbiam modo - e moltissime volte anche a tempi molto più vicini ai nostri, che non sono quelli della fondazione di ROMA, non ne abbiamo il modo — di rispondere nè in tutto nè in parte alla seconda ed alla terza ». Come si vede, questo giudizio riesce alquanto oscuro, particolarmente perché gli manca una dichiarazione di termini, senza la quale non se ne può misurare il valore. Che cosa intende BONGHI per leggenda? Ciò che noi chiamiamo leggenda, i Tedeschi chiamano Sage, ma la differenza sta tutta nella forma, mentre un solo ne è il concetto. Ora il concetto della leggenda è questo. Cioè, il ricordo di un evento notevole trasmesso oralmente, soprattutto per mezzo di canti popolari, dall'una all'altra generazione, e colorito dalla fantasia per modo da imprimere ad esso un carattere prodigioso. Il nucleo della leggendaèadunque storico. Il mito, invece, è tutt'altra cosa. In luogo del fatto storico che costituisce l'essenza della leggenda, nel mito abbiamo come elemento essenziale e come motivo genetico una data idea, resa concreta e sensibile per mezzo di un intreccio di fatti immaginarii. Ora, nella tradizione romana leggenda e mito trovansi mescolati insieme, e il lavoro della critica consiste in cio appunto, di sceverare l'una dall'altro, e liberare entrambi dagli invo lucri che hanno impresso a ciascuno il carattere proprio. Questo lavoro, che non è meno improbo, e per la storia è assai più utile di quello fatto dal BONGHI nel primo volume della sua opera, e già tentato da molti. Ed è in esso che apparirà nel vero valor suo l'opera dell'illustre storico. Il presente volume si chiude all'anno 283 della fondazione di Roma. Ed ecco la ragione che BONGHI dà di questa fermata. -- Succede, dice BONGHI, non addirittura il primo fatto certo della storia interna di ROMA, ma quello de'suoi fatti certi più antichi da cui tutta la sua storia anteriore è spiegata, e tutta la sua storia posteriore,è,se mi si permette la parola, preformata. L’elezione dei tribuni nei comizii tribute. Per ciò che riguarda la certezza del fatto accennato, notiamo che esso, tanto rispetto alla sua cronologia, quanto rispetto al suo stesso contenuto, è tutt'altro che sicuro.Fatti certi dei primi secoli di Roma non ponno chiamarsi che quelli i quali sono attestati da documenti autentici. Ed essi sono : la fondazione del tempio federale di Diana sull'AVENTINO, avvenuta sotto il regno di Servio Tullio : il trattato  federale stipulato da Tarquinio il Juniore coi Sabini : il primo trat tato di navigazione e commercio conchiuso da Roma con Cartagine subito dopo il bando di quel re. E il patto federale conchiuso da Roma colle città latine sotto il secondo consolato di Spurio Cassio. Questi sonoifatti,chesiponno chiamarcerti,perchèqualcunodegli storici maggiori dichiarò di avere visto il documento originale in cui erano consacrati. Tale qualifica non può essere data alla lex Publilia, il cui contenuto forma ancor oggi obbietto di disputazioni fra i critici. Il Bonghi ci dice fin d'ora com'egli spieghi il tenore di quella legge, ed io sono curioso di sentire con quali nuovi ar gomenti egli suffragherà una opinione,che oggi è abbandonata dai più; e cioè, che prima della lex Publilia i tribuni della plebe fos sero eletti in altra sede fuorchè nei comizii tributi.Nei nostri Saggi critici noi esprimemmo il nostro avviso sul tenore della lex Publilia, e rimandiamo il lettore a quel nostro libro, non essendo il caso di ripeterquiciòchescrivemmoaltrove.— Un'ultima osservazione. BONGHI dice, che il fatto del 283 è quello dei fatti certi più antichi di Roma, che spiega tutta la sua storia anteriore.Aspetto di avere la dimostrazione di questo asserto prima di giudicarlo. Per ora, la mia opinione, è che al disopra di quel fatto (badisi che qui si parla di fatti interni) ci stia l'altro della creazione del tribunato della plebe, da cui tanto la lex Publilia, quanto le successive leges tribuniciae e manarono come prodotti necessarii di un fattore comune. Il primo problema che si affaccia alla critica nello studio delle romane origini, è come avvenisse l'innesto della leggenda troiana nella leggenda romulea, perchè è fuor d'ogni dubbio che l'una e l'altra traessero origine da fonti diverse. E mentre la romulea è creazione paesana, nata sui luoghi stessi che sono la scena del suo racconto, la troiana è indubbiamente importazione straniera. Però non tutti gli elementi di questa seconda leggenda sono nati di fuori. Dal momento che l'eroe troiano ha posto piede nel Lazio, la leggenda lo mette in relazione con le popolazioni indigene, facendogli imprendere una serie di guerre coi Latini, Sabini ed Etruschi.Ora, se tolgasi il protagonista che è un personaggio favoloso, il racconto di quelle guerre racchiude indubbiamente elementi storici, che la sciati inavvertiti da CATONE e da Dionisio, furono segnalati e lumeggiati dall'autore dell’ “Eneide.” Infatti,mentre presso idue primi,le lotte combattute da Enea si presentano come guerre dinastiche, nelle quali i popoli appariscono come stromento delle ambizioni di questo o di quel principe. Presso VIRGILIO quelle lotte assumono fin da principio la proporzione di una guerra di stirpi italiche,in cui sono adombrati gli sconvolgimenti politico-sociali onde il Lazio fu teatro nella età pre-romana. Quel Turno che negli altri racconti figura come capo dei Rutuli, nell’ “Eneide” comparisce come duce di una intera confederazione di città italiche e di popoli di diversa stirpe. Alla sua chiamata accorrono iguerrieri di Laurento,Ardea, An tenne, Crustumerio, Tiburi, Atina, Preneste, Gabii, Anagnia, e con essi gli Aurunci,i Volsci,i Sabini, i Falisci. Per tener fronte a tanta oste, Enea, seguendo il consiglio d’Evandro, rivolgesi ai Tirreni,iquali eransidirecenteliberatidal tirannoMezenzio, divenuto ora alleato di Turno. E col loro ausilio, conquista Laurento. Ora, levando da questo racconto la parte leggendaria che è la intromessa di Enea, chiaro apparisce il contenuto storico di esso.Ivi troviamo adombrati, da un lato,iprogressi della conquista etrusca nella valle inferiore del Tevere, e dall'altro, gli sforzi operati dai popoli del Lazio per redimere il paese dalla servitù straniera.Alla quale impresa i latini trovano ausiliarii non pure nelle città fini time del Lazio, ma ancora in un popolo di stirpe sabellica che la primavera sacra ha già portato sulla frontiera latina, e a cui la parte avuta nella liberazione del Lazio frutta una stanza nel Set timonzio. Così per mezzo di VIRGILIO noi siamo posti in grado di spiegare la presenza dei Sabini sul Quirinale e sul Capitolino, comple tando la tradizione romana, il cui contenuto storico, purificato da gl’innesti leggendarii,consiste nel presentarciidue popoli,latinoe sabino, viventi già l'uno presso l'altro sul Settimonzio, e riusciti a pacificarsi e ad unirsi insieme dopo di essere stati lungamente in guerra fra loro. Ancora nei tempi storici, noi troviamo gl’etruschi imperanti nella Campania ; prima di arrivare nella valle del Vol turno, essi aveano dovuto trarre in loro potere la valle inferiore del Tevere, che è a dire , il LAZIO. Senza l'Eneide non sapremmo come questo paese ricuperata avesse la sua libertà.L'Eneide ci apprende che ricuperolla per mezzo di una insurrezione popolare capitanata da un eroe. Quest'eroe è TURNO. Enea gli ha strappato dal capo il lauro dei prodi. Ma l’Eneaitalicoèunmito;Turno invece è persona rimasta viva nella tradizione di un popolo. Ed è singolare, che dal gran cantore d’Enea la critica storica sia stata messa sulla via di riconoscere in TURNO un EROE ITALICO, e di rendergli la sua corona. Dopo questa digressione, che non c'èparsafuoridiluogo,ve niamo ora a risolvere il problema della confusione avvenuta di due leggende,tanto diverse l'una dall'altra, sia perla fonte da cui emanano, sia pel loro contenuto. La tradizione romana nella sua forma più antica, non -- Ennius dicit Iliam fuisse filiam Aeneae,quod si est,Aeneas arus est Romuli » Servio,ad Æn.,VI,778. sa nulla nè dell'una nè dell'altra leggenda. Prima che la boria destata dalla potenza di Roma, introducesse il troiano Enea nelle romane origini, a che nascesse il bisogno di spiegare riflessivamente l'origine nomi, di instituti e di consuetudini di antiche che si trovavano esistenti da tempo immemorabile, senza che fosse stato riferito ab antiquo come fossero nate,la fondazione di Roma erasi spiegata in quel modo semplice, in cui l'antichità si figura la origine di tutte le città greco-italiche, vale a dire,per mezzo di un fondatore epo n i m o . Una città che no ma vasi Roma, dove a a dunque, secondo il concetto dell'antichità, avere avuto per fondatore un Romo, progenie divina al pari di tutti i fondatori eponimi. Ed a noi fu serbata questa tradizione semplice della origine di Roma, la quale biamente la più antica. Ne dobbiamo è indub la conoscenza al grammatico FESTO, che la tolse dallo storico Antigono. « Antigonus, italicae historiae scriptor, ait, RHOMUM quemdam nomine, Jove conceptum urbem condidisse in Palatio , ,Romae eiquededissenomen».Così Festo all'articolo Romam . La tradizione romulea, nella quale l'eponimo ROMO diventa ROMOLO e gli è dato Remo per fratello,e l'uno e l'altro sono aggregati alla dinastia dei Silvii che regnava ad Alba Lunga e ripeteva la sua origine da Enea; questa tradizione era dunque ignota all'antichità.Lo stesso ENNIO non la conosce che in uno stato ancora embrionale, giacchè ENNIO dà alla madre di Romolo, Ilia, Enea per padre. Pero , il concetto inspiratore della leggenda è già nato col poeta rudiese, come è nato l'intrecciamento delle due leggende Ora come avvenne questa sovrapposizione . della leggenda troiana alla romulea? La ragione psicologica del fatto fu data già da VICO in quella boria delle nazioni, le quali appena son pervenute leggenda ad un alto grado di potenza, non sdegnano loro origini oscure, e aspirano a fastose e insigni. VICO accenna anche la capitale cagione che indusse i romani, quando andarono in cerca di origini fastose, a fissare la mente sulla leggenda di Enea.Ei laattribuisce alla fama strepitosa che ebbe per lo mondo la guerra di Troia, a cagione del poema di Omero e della introduzione dell'Occidente nel ciclo troiano, dovuta alla via che si fece percorrere al reduce Ulisse. Però se la boria nazionale fu la causa inspiratrice della fusione delle due leggende, a questa non mancarono altri impulsi. Quando il Senato romano, verso la fine della prima guerra punica, inter venne nella contesa fra gl’etoli e gl’acarnani, e giustifica la sua intromessa in favore dei secondi, osservando che gli Acarnani erano il solo popolo greco, il quale non avesse partecipato alla guerra contro i Troiani progenitori dei Romani , era l'orgoglio nazionale che ispirava quella dichiarazione. Similmente, quando il senato accetta l'amicizia offerta dal re Seleuco, ponendovi per condizione che liberasse i Troiani da ogni tributo ; e quando Flaminino , nel pre sentareidonativideiRomani aiDioscurieadApollo,chiamòisuoi concittadini col nome di Eneadi, è sempre l'orgoglio nazionale che inspira la fusione delle due leggende. Ma allorquando la politica militare di Roma ebbe prodotto in seno  Altri fattori vanno considerati. E , soprattutto, la parte che nella propagazione della leggenda di Enea in Italia ebbero le numerose colonie greche dell'Italia meridionale, e più specialmente Cuma, che oltre ad essere la più antica e la più vicina al Lazio, era di pro venienza diretta dall'Asia Minore, e precisamente dalla Misia, luogo finitimo alla Troade. E come le colonie greco-italiche divennero al trettanti centri propagatori del culto di Afrodite Alveias, dea dei naviganti, con cui la leggenda di Enea è intimamente collegata, cosi l'oracolo della Sibilla cumana divenne ilcentro propagatore dei fausti vaticinii, onde la religione della dardanica Afrodite confor tava nel suo esilio la famiglia degli Eneadi. Già nell’ “Iliade” è fatta allusione a quei vaticinii, dicendosi che la famiglia di Enea era serbata ad un nuovo e splendido avvenire, mentre quella di Priamo era stata destinata alla perdizione. Ora , in questa promessa di un glorioso avvenire serbato alla progenie di Enea giace il motivo riflesso dell'amalgama delle due leggende troiana e romulea. Roma costitui se stessa obbietto dei vaticinii sibillini, e dichiarò avvenute in se stessa le promesse fatte ai discendenti di Enea. Già ENNIO presenta in questo modo il fatto, dicendo che Troia era risorta in Roma, e non andrà guari che la repubblica innalza a domma nazionale l'origine troiana della potente metropoli.   alla Repubblica i suoi effetti liberticidi, e la maestà quiritaria che era in bocca a tutte le nazioni straniere, ed era oggetto di terrore e di riverenza universale, scomparve dal popolo per riassumersi in un uomo, l'orgoglio nazionale passò in seconda linea per cedere il primo posto all'interesse dinastico creato da un usurpatore.Il grande anello di congiunzione fra la leggenda di Enea e la dinastia dei Cesari è quel famoso Julo, che comparisce nella genealogia degli Eneadi, or quale figlio, or quale nipote di Enea. E cosi nell'uno,come nell'altro grado, sembra siavi stato introdotto dai Giulii stessi, dopo che fu sorto il giorno di loro grande fortuna. Infatti, gli scrittori più an tichi della leggenda non conoscono quel nome , sebbene più nomi attribuiscano al presunto figlio di Enea,chiamandolo ora Eurileone, ora Ascanio, ora Ilo. Forse quest'ultimo nome, che ricorda quello della patria Ilio,suggerì l'idea della finzione genetica,ed Ilo diventò facilmente Julo progenitore degli Julii. Ciò spiegherebbe il fatto del comparir di quel nome per la prima volta negli scrittori cesarei. C o m un quesia dell'origine sua, venne un giorno che il popolo romano apprese per bocca di Caio GIULIO CESARE, ch'esso avea nel suo seno una progenie di celesti, e che dalla morte di Romolo in poi essa avea camminato fuori del diritto divino, nel cui sentiero era ora chia mato a ritornare. Il giorno in cui Cesare, essendo questore,recitò dalla tribuna del Foro il panegirico di sua zia Giulia, fu decisivo per le sorti di Roma e del mondo. E là che egli annunzia al popolo stupito, che la sua famiglia eraaduntempoprogeniedidèiedire.«Amitae meae Juliae maternum genus ab regibus ortum,paternum cum Diis immortalibus conjunctum est.Nam ab Anco Marcio sunt Marcii reges, quo nomine fuit mater, a Venere Julii, cujus gentis familia est nostra. Est ergo in genere et sanctitas regum qui plurimum inter homines pollent, et caerimonias deorum, quorum ipsi in pote state sunt reges » (1). Quando GIULIO CESARE recita questa orazione non avea che 32 anni di età , e non avea fatto ancora il suo ingresso nella politica militante, comecchè avesse già coperto parecchie magistrature.Ma l'uomo che avea osato fare pubblicamente l'apologia della regia potestà e pro clamare la origine divina della sua famiglia, avea già intuito il futuro e divisato di rivolgerne a suo profitto il realizzamento. Nel seguente anno , infatti, lo vediamo stretto in lega con Pompeo , e SVETONIO, Caes ., avviato a compiere il cammino trionfale che da Farsaglia lo condurrà a Munda, e metterà nelle sue mani l'impero del mondo. Riassumendo per tanto le cose in sinquidette, notamo che se la leggenda romulea è anteriore alla troiana, all'una e all'altra so vrasta per antichità la leggenda semplice,riferitada Antigono,che Roma avesse avuto per fondatore un eroe eponimo progenie di celesti, e cioè, che fosse nata nello stesso modo in cui l'antichità si figura l'origine di tutte le città greco-italiche: che la leggenda ro mulea, sebbene nata sul suolo romano, mostrasi nelle sue parti es senziali come il prodotto di una invenzione riflessa, avente in mira di spiegare sistematicamente le origini di nomi, d'instituti e di consuetudini antiche che si trovavano esistenti da tempo immemorabile, senza che fosse stato riferito come avessero avuto nascimento : che la leggenda troiana, divulgata in Occidente per mezzo delle colonie italiche e degli oracoli sibillini, fu introdotta nella leggenda romulea, quando la boria destata nei Romani dalla loro potenza li obbligo ad andare in cerca di origini fastose da sostituire alla ori gine volgare trasmessa loro dai maggiori. E come la discendenza di Enea era stata creata per soddisfare l'orgoglio di un popolo conquistatore, cosi essa e scaltramente usufruita da GIULIO CESARE per legittimare la sua opera liberticida. Un altro problema non meno interessante della fusione delle due leggende troiana e romulea,per mezzo della quale si spiegò l'ori gine della città di Roma,è quello che concerne la formazione del suo primo popolo. La tradizione romana spiega questa formazione in un modo semplicissimo. Romolo, dopo che ebbe per la morte di Tito Tazio raccolta nelle sue mani la sovranità sui socii Sabini del Settimonzio, parti il popolo in tre tribù, e pose a ciascuna il nome del duce che aveala capitanata. Ai suoi pose pertanto il nome di Ramnenses ; ai seguaci di Tazio il nome di Titienses, e a quelli diLucumone,cheavealoaiutatonellaguerra contro i Sabini,il nome di Lucerenses. Quanto alla nazionalità, la tradizione ne at tribuisce una propria a ciascuna tribù.I Ramnenses di Romolo sono per lei Latini ; i Titienses di Tazio sono Sabini, e iLucerenses di Lucumone sono Etruschi. Però, se la tradizione è concorde ri spetto alla origine dei due primi nomi, non lo è rispetto a quella  III.   del terzo. Il Lucumone di CICERONE diventa presso Plutarco illucus asyli, e presso Paolo Diacono il titolo dignitario e il nome topico si trasformano in una persona, in Lucero re di Ardea. Queste va rianti attestano per se stesse la mal ferma base su cui riposa co desta tradizione. Livio se la sbriga, dicendo il nome dei Luceri di incerta origine. Ma se lo storico maggiore di Roma qualifica d'in certezza l'origine dei Luceri , la filologia dichiara impossibile la derivazione dei Ramni da Romolo, avendo questi due nomi radicali affatto diverse. Pure la origine dei nomi sarebbe cosa di poco interesse, quando ad essi non si annettesse la origine della nazionalità. Il Lucumone o il re Lucero da cui si è derivato il nome della terza tribù ro mana, si è prodotto come testimonio della origine etrusca di questa tribù, e da ciò si trasse la conclusione, che la nazione romana uscisse fuori da tre elementi etnici, il latino, il sabino e l'etrusco, e fosse quindi una nazione mista. Diciamo subito che questa opinione è oggi abbandonata, e che la critica moderna, dopo di avere impugnato la provenienza etrusca deiLuceri,non arrestandosiaquestoresultamentonegativo,hapur risoluto positivamente la questione, dimostrando che iLuceri devono essere tenutiincontodiunaschiattalatina;ondelanazionero mana sarebbe stata composta di due elementi etnici omogenei , il latino e il sabino, ramificazioni entrambi del gran ceppo italico,chePrima della pubblicazione della Storia Romana di SCHWEGLER ,l'origine etrusca dei Luceri era ammessa dalla maggior parte degli storici. Tra i fautori di essa vanno ricordati: Feodor Eago, Untergang der Naturstaaton,WACHSMUTH, Aeltere Geschichte des römischen Staats, GÖTTLING, Geschichte der römischen Staatsverfassung, USCHOLD, Geschichte des trojanischen Krieges. KORTÜm,Römische Geschichte, BECKER, Handbuch der römischen alterthümer, WALTER, Geschichte des römischen Rechts, SCHÖMANN, De Tullo Hostilio,PUCCELLI, Altreviste sugl’antichi popoli italiani, Cortona, VANNUCCI, Storia dell'Italia antica, Fir., L'origine latina, anzi albana, dei Luceri è ammessa da Niebun, Römische Geschichte, da SCHWEOLER, Römische Geschichte, –da NIEMEYER, De equitibus romanis, BREDA, Centurie-Verfassung des Servius Tullius da KLAUSEN, Aeneas und die Penaten dal Römische Alterthümer, Mommsen si limita ad osservare, non esseircvhinailcchutns ostacolo ad ammettere la origine latina dei Luceri (Ueber die Herkunft der Lucerer lässtzu erklären), sagen,als das nichts in Wege steht die gleich den Ramnern für eine latinischeque Glelmaeidnidaendare in cerca Röm. Gesch. Ihne invece è scettico, e dice che è fatica sprecata dall'ag del vero su una questione nella quale le fonti ci lasciano al buio, e che non si gu2a0d.agna nulla giugnere un'opinione nuova a quella degl’antichi, Röm. Gesch., Leipzig, dal LANGE, parer nostro, che Ihne non ha bene studiato la quistione, altrimenti troverebbe che si guadagna qualche cosa da questa aggiunta. Il primo guadagno che si fa è quello di avere chiarito il significato del nome di questa terza tribù. Lucere vuol dire risplendere; Luceri equivarrebbe adunque ad illustres. E questo appellativo ben si addice alla nobiltà di Alba, la quale, dopo la distruzione della loro patria, fu trasferita nel Settimonzio ed ebbe per sua stanza il Celio. Cid dimostra,a  immigro in Italia dopo iljapigicoe prima dei Raseni. Noi diremo gli argomenti coi quali si impugna la origine etrusca dei Luceri ; indi ci faremo a dire quelli coi quali si dimostró la loro origine latina, e la loro provenienza da Alba Longa. Prima di tutto, vuolsi avere presente, che la origine etrusca dei Luceri non è che una mera presunzione, mancante di una tradizione positiva, e desunta da dati estrinseci ed accidentali, che pas sati sotto il crogiuolo della critica, non danno alcun frutto. L'uno di questi dati fu somministrato da certa analogia che si riscontra fra il nome della terza tribù e quello di Lucumone , che è titolo gentilizio e dignitario presso gl’etruschi. E come il nome del colle Celio si è voluto spiegare derivandolo da un duce etrusco per nome Cele Vibenna,ilquale,secondo alcuni (Varrone),altempo di Romolo, secondo altri (Tacito), al tempo di Tarquinio Prisco, sarebbesi sta bilito con una grossa schiera dei suoi connazionali nel Settimonzio; cosi il nome Luceri che portavano gli abitanti del Celio si spiego per mezzo del titolo di Lucumone che portava il Vibenna. L'altro dato è ancor più arbitrario, in quanto che fu desunto dalla ubicazione geografica di Roma,quasicheilfattodeltrovarsiRoma in mezzo a tre schiatte diverse, generar dovesse necessariamente l'ef fetto, che essa componesse la sua cittadinanza con ciascuna delle tre schiatte, per modo che esse vi fossero rappresentate tutte pro porzionalmente. A questo concetto subbiettivo si contrappone vitto riosamente per ciò che riguarda il contingente etrusco, il famoso motto del trans Tiberim vendere, e del senso latissimo che esso acquisto e mantenne per lungo volgere di secoli, anche dopo che gli Etruschi erano caduti sotto la dipendenza di Roma, ed il Tevere cessa di essere un confine politico. In verità,che se gli Etruschi avessero dato a Roma un contingente proporzionale della sua cittadinanza, quel motto diverrebbe uno strano enimma. Perchè esso non si riferisce tanto alla divisione politica dei due stati, romano ed etrusco, quanto alla differenza di nazionalità, avvertita e vivamente sentita nella lingua, nelle istituzioni politiche e civili, e nei costumi dei Romani. Ma se i dati estrinseci su cui fu eretta l'ipotesi della origine etrusca dei Luceri non giustificano siffatta conghiettura, le prove intrinseche dimostrano addirittura la sua falsità. Queste prove si de sumono dalla lingua e dalla religione dei Romani. È ovvio,che se gli Etruschi avessero dato un proprio contributo alla formazione del popolo romano, in tal caso la lingua latina dovrebbe somministrare la chiave per decifrare le inscrizioni etrusche, ed essa stessado vrebbe contenere tale copia di voci etrusche da assumere il carat tere di una lingua mista, ossia, di una lingua formata di due diversi organismi ; ma nè il latino aiuta a spiegare l'etrusco, nè nella co stituzione organica della lingua del Lazio apparisce alcun vestigio di miscele eterogenee;chè,anzi,la caratteristica peculiare della lingua latina è la straordinaria uniformità della sua struttura; lo che attesta la uniformità della sua formazione. Alla stessa conclusione conduce l'esame delle istituzioni religiose di Roma. Se i Luceri fosserostatiunatribù etrusca,lareligione romana conterrebbe traccie di divinità e di culti etruschi,come ne presenta di divinità sabine. Imperocchè il pareggiamento successivo della terza tribù alle due prime dovesse avere per effetto la mutua comunicazione dei rispettivi culti, come cið era avvenuto prima fra i Ramni e i Tizii, ossia fra Latini e Sabini. Ora, la religione ro mana non presenta una sola divinità e un solo culto che vesta un carattere etrusco. Anche lo stato d'inferiorità, in che,rispetto alla tribù dei ramni e dei tizii, trovasi la tribù dei Luceri,portato al grado da tenere costoro fino al tempo di Tarquinio Prisco esclusi dal Senato, contraddice alla ipotesi che i Luceri entrassero fin dal l'origine di Roma a formar parte del primo popolo, e compissero di questo la compagine etnica recando nel suo seno l'elemento etrusco. Questo stato d'inferiorità si spiega invece in modo semplice e na turale, quando ammettasi che la tribù dei Luceri fosse costituita dai nobili d'Alba tramutati a Roma, e che quindi entrasse più tardi a formar parte del primo popolo. Alla posteriore aggregazione dei Luceri alle due primitive tribù, e allo stato d'inferiorità dei primi rispetto alle seconde accenna il verso di Properzio. Hinc Taties Ramnesque viri, Luceresque coloni. Non mancano poi le prove dirette, dimostranti che i Luceri , oltre ad essere e n trati posteriormente nel consorzio dei Romani e dei Tizii,sono pure di origine albana. Tito Livio (II, 33), parlando degli stanziamenti condotti dal re Anco Marcio sul colle Aventino, osserva che egli assegn ai vinti Latini per sede quel colle, perché gli altri quattro, il Palatino, il Capitolino, il Quirinale e il Celio (il Viminale e l'Esquilino furono aggiunti alla città solo dal tempo di Servio Tullio) erano già popolati ; e cioè, il colle Palatino dai Romani primitivi, ossia dai Ramni. E il Capitolino e il Quirinale dai Sabini, e il Celio dagl’Albani. Ora, se questi ultimi ebbero per loro stanza il Celio, non saprebbesi davvero dove collocare iLuceri,quando non siammettesse che i Luceri e gli Albani fossero la stessa cosa. La critica adunque negando la origine etrusca dei Luceri, ha messo in sodo il fatto che la nazione romana venne composta di due elementi etnici,anzichè di tre,il latino,cioè,e ilsabino.Questa composizione spiega il carattere che distingue la nazione romana dalle altre na zioni italiche. Questo carattere è il prodotto della fusione di due stirpi che parevano fatte apposta per completarsi a vicenda. Dall'e lemento sabino il popolo romano riceverà la frugalità, lo spirito religioso, la severità dei costumi, il principio della patriapotestas lasciata senza freno dalle leggi. Sono la base di granito e il duro cemento che i sabini apportano all'edifizio romano (1). Se nel sabino prevale lo spirito di conservazione, nel latino predomina lo spirito di sviluppo. Ma come il primo non è inflessibile, così il se condo non è radicale. E dal contrasto fra la mobilità latina e la stabilità sabina derivò quel lento, ma pur continuo e sicuro sviluppo della costituzione romana, che formd di essa la più grande creazione politica della civiltà antica. Ma le tribù dei Ramni, dei Tizii e dei Luceri non formano tutto il popolo romano. Accanto a loro comparisce, come parte costitutiva di esso popolo,la plebe,la quale,dopo di essere rimasta a lungo in uno stato di semi-dipendenza dal primo popolo , ossia dal patriziato, fini col prevalere su di esso, ed obbligarlo a seguire la sua via. Ora, come sorse questo ceto sociale? Ecco il terzo problema che ci proponiamo di risolvere in questo breve nostro lavoro. I Romani non erano ignari di questo prezioso patrimonio che avevano ricevuto dai Sabini. Ce lo attesta Catone per bocca di SERVIO. Sabinorum mores populum romanum secutum CANOTE dici SERVIO ad En. Vedi Devaux, Études politiquessur les principaux événements del'histoire romaine, Paris. La quistione dell'origine della plebe e studiata particolarmente da STRESSER,Versuch über die römischen Plebejer der ältesten Zeit, Elberfeld, PELLEGRINO, Ueber den ursprünglichen Religionsunterschiedder Patricier und Plebejer, Leipzig, lune, Forschungen auf dem Gebieteder römischen Verfassungsgeschichte, Frankfurta. KRUSZYNSKI, Die römische Plebs in ihrer politischen Entwickelung vom Ursprunge bis zur völligen Gleichstellunng mit den Patriciern, Lemberg, SCHWEGLER, Römische Geschichte. TOPHOFF, De plebe romana, Essen. WALLINDER, De statu plebejorum Romanorum ante primam inmontem sacrum secessionem quaestiones, Upsaliae. Lange, Verbindung der plebs mit dem patricischen Staate nei Römische Alterthümer, Berlin. Gli storici antichi erano affatto all'oscuro intorno il fatto della origine del ceto plebeo di Roma. La sola cosa che essi sapessero era che la plebe erasi trovata sempre in uno stato d'antagonismo verso il patriziato. Da ciò la definizione negativa che essi davano della plebe, chiamandola il ceto in cui gentes civium patriciae non insunt.Perqualviapoil'antagonismo fossenato,oinaltriter mini, come la plebe avesse avuto origine,ciò essi riguardavano come una quistione oziosa, imperocchè a loro paresse assurda l'idea che fossemai esistito uno Stato romano senza plebe;onde per loro era un assioma, che patriziato e plebe fossero nati e cresciuti insieme collo Stato romano. Contro questa presunzione stava però il fatto, non considerato, della condizione giuridica diversa in che trovavansi due ceti sociali all'infuori del patriziato, la quale attestava che essi non erano nati insieme nè allo stesso modo. Accanto alla plebe,trovasi, cioè, nei primi tempi dello Stato romano, la clientela, caratterizzata e distinta dalla plebe dalla forma speciale della sua dipendenza. Mentre la dipendenza della plebe avea un carattere impersonale e comprendeva ilceto nella sua generalità,quelladellaclientelaimpe gnava giuridicamente l'individuo come persona e non come consorte, ed appunto perciò esso nomavasi “cliente” -- da cluere, klúeiv, dipendere -- in quanto che fosse ascritto alla gente di un patrono,e da questo dipendesse. Che se nel giure politico plebei e clienti trovansi originariamente costituiti nella stessa condizione negative. Nel giure privato, la condizione loro era assai diversa. Il cliente nè possedeva del proprio, nè poteva stare in giudizio; mentre ilplebeo possedeva su questo campo piena personalità giuridica (civitas sine suffragio); di guisa che, quando per la costituzione di Servio Tullio, il censo divenne il fattore del diritto di suffragio,questo diritto iplebei conseguirono, mentre i clienti ne rimasero orbi come per il passato. Ora, questa differenza esistente fra i due ceti inferiori non si pud altrimente spiegare fuorché ritenendo,che l'origine loro fosse,rispetto al tempo e al modo, diversa. La clientela deve certamente avere preceduto la plebe, e l'inferiorità della prima rispetto alla seconda dimostra che la forza, che creò la sottomissione dei due ceti, eser citò sui vinti ridotti in clientela un impero più assoluto che su quelli ridotti in istato di plebeità. Perchè il cliente conseguire potesse iljus suffragii faceva mestieri che il dominium ,che egli te nevacome peculium,glifosse assegnatocomeliberaproprietàexjure Quiritium.Ilqualeattoequiva leva in certo modo ad una manumissio censu. Ora, se l'istituzione della clientela è più antica che quella della plebe, è forza cercarne l'origine nella prima conquista che frutto ai Ramni edaiTiziiil dominio del Settimonzio. Gli abitanti primitivi di quella regione devono avere formato il nucleo della clientela romana, che le ulteriori conquiste vennero via via ingrossando. Ma tra la prima e le ulteriori conquiste, corse, rispetto agli ef fetti sociali, forte differenza. Se la prima non produsse che dei clienti e degli schiavi, le successive produssero particolarmente dei plebei. Già l'interesse politico consigliava i conquistatori a tempe rare verso i nuovi vinti il rigore dell'antico jus gentium ; e noi non abbiamo memoria della piena applicazione di quel diritto che verso la città di Collazia. E se alle famiglie imperanti fosse pur piaciuto di partire i novelli sudditi fra le genti romane, traducen dole sotto la loro clientela, la monarchia dovea opporsi a questo uso della conquista che avrebbe con pregiudizio della regia potestà accresciuto in modo esorbitante la potenza dell'aristocrazia. E chi erano poi questi vinti? Erano Latini : appartenevano, cioè, a quella stirpe che avea coi ramni formato il nucleo della cittadi nanza romana ; erano dunque connazionali dei Romani. Che se co storo aveano avuto pei vinti Albani tale riguardo, da ammetterli nel loro consorzio religioso e politico, perchè vorrassi ammettere che verso gl’altri popoli latini, sottomessi pure colle armi, applicassero in tutto il suo rigore il diritto della guerra? E ove pure si ammettesse che questo rigore fosse usato, come ci renderemmo ra gione del sorgere di questa plebe e della importanza sociale che venne improvvisamente acquistando, così da presentarsi come un potente appoggio della monarchia, e da ricevere da questa servigi e beneficî che schiuderanno all'avvenir suo il più vasto orizzonte? Non dimentichiamo che questi plebei son Latini. La tradizione stessa ci dice quando e per opera di chi i popoli del Lazio caddero sotto ladizionediRoma.La distruzionediAlbaLonga,eiltramuta mento dei nobili Albani nel Settimonzio , portarono per effetto lo scoppio di ostilità fra le città latine, erettesi a vindici della loro antica metropoli, e Roma che pretende, come conquistatrice di Alba Longa, di essere riconosciuta anche come erede della sua [Livio ci ha trasmessa la formula deditionis di Collazio, che egli attinse verisimilmente dai C o m mentarii Pontificum : « Rex interrogavit: dedistisne vos populumque Con latinum, urbem, agros, aquam, terminos, delubra, utensilia, divina humanaque omnia in meam populique romani dicionem? Dedimus ». Livio, I, 38. La domanda del re è rivolta ai deputati di Collazia. Rivista di Storia Italiana.] egemonia sulla confederazione latina. La grossa guerra scoppia sotto Anco Marcio. Non è dubbio che questi, prima di scendere in campo, approfittasse delle gelosie esistenti fra l'una e l'altra città latina, e che sono effetto di ogni confederazione a base ristretta, per rompere il fascio con promesse e lusinghe date a tempo e a luogo. Senza ciò, non potremmo avere ragione della sua facile e completa vittoria.Ora che cosa fece Anco Marcio di questi nuovi vinti? Gli storici antichi ce lo apprendono in modo chiaro : « Ancus Marcius, dice CICERONE, quum Latinos bello devicisset, adscivit eos in ci vitatem. E LIVIO, completando il racconto di CICERONE, osserva che Anco segui rispetto ai vinti Latini il costume regum priorum , onde anche allora parecchie migliaia di Latini furono introdotti nellacittadinanzaromana: «tum quoque multis millibus Latinorum in civitatem acceptis. Non cicuriamo del racconto tradizionale , che fa materialmente introdurredaAncoinRoma questivinti, eas segnare ad essi per sede il colle Aventino e la valle Murcia . In questo racconto, la prolessi storica è manifesta: che sappiamo in modo in contestabile, chefinoallafinedelIII°secolodiRoma,l'Aventino fu disabitato. Ma lasciando da parte questo particolare, ciò che va considerato nel racconto tradizionale è il fatto della cittadinanza concessa d’Anco Marcio ai vinti Latini. E perchè, nè questa era la prima guerra combattuta vittoriosamente da Roma contro i Latini, e nemmeno era la prima volta che della vittoria fosse fatto quest'uso; ne emerge,e Livio avvalora l'induzione nostra,che se la conquista d’Anco da il maggior contingente al ceto plebeo, essa non ne inizio la formazione, come suppone Niebuhr, seguito in cio da Schwegler, da Lange e d’altri. Bonghi, per ora si limita a dire, che non credechela plebedovesse lasuaorigine adAnco,e promette, che procurerà altrove di esporre donde sia nata l'opinione di una condotta rispetto a'vintinei re di Roma, cosi diversa da quella che per molto tempo appare propria della città nel seguito della sua storia ».E perchè insin d'ora egli dichiara esposta a molti e gravi dubbii cosi larga concessione di cittadinanza, il desiderio di sapere quale opinione l'insigne storico porti sul gravissimo tema della ori [Lo fece abitare la “les Icilia de Aventino publicando”. Il tenore di questa legge ci è dato da Dionisio, il quale attesta di aver letto il testo originale di essa inciso in una colonna di bronzo che sorgeva nel tempio di Diana sull'Aventino. Drox ., X , DeRep., Liv.] gine della plebe romana rimane più fortemente sentito.Comunque sia perd dell'opinione del Bonghi su ciò, noi rimaniamo saldi nella nostra, laquale, oltre ad avere il suffragio delle fonti, ha pure in suo favore la condizione sociale da cui la romana plebe fu costituita. Il plebeo romano è agricoltore. Egli non è nè commerciante nè indu striale;queste arti,che nell'antichità erano assai meno considerate dell'agricoltura, sono professate in Roma peculiarmente daiclientie dai liberti. Codesta condizione sociale della plebe romana è attestata dalla tradizione in più modi. Ora, essa ci dice che Servio Tullio, per poter avere l'appoggio della plebe alla sua esaltazione al trono, chiamòincittà i rurali, e per bocca di CATONE ci dice che gl’agricoltori formavano il nerbo della fanteria romana.. Ma un testi monio che serve per tutti, è l'antica istituzione che le adunanze plebee, ossia i comizii tributi,non sipotessero tenere cheneigiorni di mercato (nundines), e che ogni proposta di legge dovesse pubbli carsi tre giorni di mercato (trinundines) prima di essere messa a partito Anche la condotta tenuta dalla plebe nella sua lotta col patriziato conferma questa condizione sua. Gli storici qualificano siffatta condotta colle parole modestia, verecundia e patientia. Sono doti codeste che appariscono più proprie di coloro che attendono alla col tura dei campi, che di coloro che praticano l'industria e il commercio. E se le contese sociali di Roma non degenerarono in « Ex agricolis viri fortissimi et milites strenuissi migignuntur -- Catone, De re rustica , Praef., MACROBIO TEODOSIO, Saturnalia. Rutilius scribit Romanos instituisse nundinas, ut octo quidem diebus in agris rustici opus facerent,nono autem die intermisso rure ad mercatum legesque acci piendas Romam venirent,et ut scita atque consultafrequentiore populo referrentur,quae trinundino die proposito a singulis atque universis facile poscebantur. Ci sia permesso di riportare su l'influenza educativa dell'agricoltura un brano di una conferenza che tenemmo all'Esposizione Nazionale di Milano, col titolo : L'industria nei suoi rapporti colla civilta. Gli economisti, dicevamo, sogliono distinguere due specie di lavoro. Quello che agisce sulle cose, e quello che agisce sugl’uomini. Questa distinzione non è esatta. Se tolgasi il lavoro puramente intellet tuale,ogni altro agisce ad un tempo su gli uomini e su le cose. Questa duplice azione viene esercitata sopratutto dall'agricoltura e dall'industria. Dal raffronto fra queste due arti ritrarremo la ragione psicologica del nesso intimo che esiste fra l'industria e la libertà. « L'agricoltore riguarda la terra come fonte unica della ricchezza ; essa è per lui una provvidenza e un mistero ad un tempo. Perciò noi lo vediamo affezionato al suo suolo, ivi fissato in istabile sede, ed unito in pacifico consorzio co' suoi conterranei. Da questo legame contratto dall'uomo colla terra che lo nutre nacque ilprimo concetto di patria,come dai consorziigeneratidall'agricolturaebberooriginoiprimi stati. Ma la terra non è per l'agricoltore solo una provvidenza, essa è per lui anche un mistero. E questo lato misterioso sarà una sorgente feconda di superstizioni, che egli porterà facilmente anche nei negozi civili, o nelle maggiori contingenze della vita pubblica. Quei soldati di Nicia e Demostene, che una notte ricusarono di levare il campo da Siracusaerifugiarsia  [Livio, CICERONE, de Rep. Riassumendo pertanto le cose dette intorno la formazione della plebe romana, diremo,che sebbene la genesi di quel ceto non possa essere chiarita in tutti i suoi particolari, tuttavia hannosi dati positivi, I quali rilevano di che elementi fosse formato, e la ragione po litica che indusse i vincitori a trattare i vinti con una generosità di cui non si ha esempio nella storia dell'antichità. Questi dati ci dimostrano ancora che la istituzione della clientela precedette quella della plebe, e ci spiegano il diverso trattamento avuto dai primi vinti rispetto ai secondi. Catania, perchè quella notte comparve in cielo un ecclisse lunare, erano agricoltori dell'Attica. E l'es sere essi rimasti in quel luogo portò per effetto lo sterminio della flotta e dell'esercito ateniese, e la ro vina di Atene. Del resto, non è da meravigliarsi che l'agricoltore sia superstizioso. Quel grano che egli consegna alla terra per riceverlo moltiplicato, non gli dice come sia avvenuto il fatto della moltiplicazione sua mentre questo evento che ogni anno si rinnova gli stordisce l'intelletto, altri fenomeni del mondo fisico, dinaturadeleteria, gli riempiono l'animo disgomento e di terrore. L'uragano cheglidevastailcampo; la grandine che gli distrugge le messi, gli appariscono mandatarii di forze arcane che gli fanno la dallo stesso principio che aveva dato nascimento alle gerarchie ipercosiniche ebbero origine le gerarchie sociali, trasformate ben presto in tirannidi. Il despota non è un uomo come un altro. Egli è il mandatario di un ente superiore che gli affida l'incarico d'imperare in suo nome. E l'agricoltore subisce rassegnato il suo imperio, e comprende nel suo culto mandatario e mandante, dai quali altro non impetra che la sua pace.Quanto diverso è il magistero civile che si consegue dall'industria ! Anche l'industriale ritrae dalla natura fisica la materia del suo lavoro. Ma questa materia in luogo di essere per luiunmistero,èinvece una rivelazione. Essa gli rivela che egli coll'opera della sua intelligenza non solo può trasformare i pro dotti della natura e adattarli a'suoi bisogni,ma può anche sorprendere i segreti di essa e svelarli. Si, l'intelligenza gl'insegna ch'egli può perfino combattere contro la natura,ora congiungendo mari da lei divisi, ora atterrando baluardi da lei inalzati fra l'una e l'altra regione, ora sopprimendo colla vaporiera e coll'elettrico le distanze. Se l'agricoltore può chiamarsi servo della natura, l'industriale può dirsi suo ribelle. Ed è mai possibile che quest'uomo, al quale l'impero della natura è troppo grave, possa rassegnarsi a sopportare l'impero di un suo simile ? »  guerre civili, come avvenne in tutti gli altri Stati dell'antichità conjattura della loro libertà, cio e particolarmente dovuto al carattere longanimeepaziente della plebe romana, la quale, convinta del suo diritto, lascia che il tempo ne facesse maturare la coscienza anche nei suoi avversarii, e transigette sopra uno scacco patito oggi per essere più sicura della vittoria domani. guerra , e contro le quali egli non sa difendersi. Da ciò il suo ricorso ad una tutela che lo educherà alla sommes sione per prepararlo alla servitù. In questi misteri del mondo fisico è riposta quindi la genesi tanto delle religioni, quanto delle teocrazie. Le due specie divine, l'una delle quali risiede in cielo in mezzo alla luce, l'altra negli abissi del tartaro, sono emanazioni antropomorfe delle forze benefiche e malefiche della na tura.Createlespecie, e facile creare una simbolica, per mezzo della quale spiegare i diversi fenomeni e momenti della natura fisica. In questa simbolica vediamo attribuita una importanza affatto speciale al fenomeno della fecondazione terrestre. I latini simboleggiarono quel fenomeno in una festa nuziale divina chesirinnovava ognianno nel mese di dicembre, quando la natura si raccoglie in sè, e serba in istato latente le sue forze per ispiegarle rigogliose tra poco. Così ebbero origine in Roma i saturnali, la più popolare delle feste romane, durante la quale era concesso anche agli schiavi di ricordarsi di essere uomini. La chiesa cristiana sostituì ai Saturnali la nascita del Cristo, e non poteva collocare in migliore luogo la comparsa dell'uomo che veniva ad insegnare, essere tutti gli uomini eguali davanti a Dio. La clientela sorse colla conquista del Settimonzio, ossia, colla for mazione del primo stato. E clienti diventarono i prischi abitatori di quella contrada. La plebe surse invece col primo sviluppo che con seguì lo stato romano fuori del Settimonzio, nelle altre contrade del Lazio. Una eccezione fu fatta cogli Albani, e fu eccezione di privilegio dovuta al primato che Alba Longa possedeva verso le città della lega latina. Sia la riverenza che tributar si volle all'antica metropoli; sial'interesse político,che consigliavalalarghezzaverso i vinti Albani, per poter più facilmente ridurre le città latine ad accomodarsi alla nuova padronanza. E l'una e l'altra ragione portano per effetto, che gli Albani venissero dai vincitori accolti nel loro consorzio religioso e politico,e costituiti in una nuova tribù. Questa larghezza non poteva essere usata verso le altre città la tine, e cið per più ragioni. Prima di tutto, va considerato il carattere d'inferiorità che, rispetto alla loro importanza, si manifesta fra esse città e Roma. Se eccettuisi Alba Longa, che ha una posi zione privilegiata rispetto alle città latine confederate, queste son tutte sul piede di una piena eguaglianza vicendevole. E però, nessuna di esse puo invocare dal vincitore un trattamento eccezio nale accampando privilegi anteriori che non erano stati posseduti. Però, se la eguaglianza delle città vinte fra loro non dava luogo a sperare che iljus gentium non sarebbe stato applicato verso di esse in tutto il suo rigore, vi erano altre ragioni che creavano questa speranza, la quale ebbe poi nel fatto sua piena conferma. L'una di queste ragioni era riposta nella connazionalità esistente tra vinti e vincitori, Roma, dovesse la sua origine all'atto geniale di un fondatore, o alla deliberazione di un'assemblea, non poteva dimenticare che dal Lazio erano partiti i suoi primi fondatori, i Ramni; e che dal Lazio , essa avea tolto i suoi costumi e le sue primitive istituzioni. Dopo il tramutamento in Roma dei vinti Albani, la latinità di Roma ebbe rafforzato il suo contingente, onde avvenne che i rapporti morali fra lei ed il Lazio si facessero più forti e più sentiti. I quali rapporti non poterono rimanere senza influenza il giorno in cui la vittoria trasse le città latine sotto la dipendenza di Roma. Anche l'interesse monarchico concorse a mitigare la sorte dei vinti. Importa ai re di rivolgere a loro profitto questa novella forza che ora introducevasi nello Stato, per potere col mezzo di essa mettere un freno alle tendenze invaditrici del patriziato. Cosi, pel concorso di due circostanze, che apparentemente contraddiceansi, i vinti Latini ebbero pur essi da Roma un trattamento eccezionale. Non furono ascritti nel consorzio gentilizio come i nobili Albani , ma non vennero nemmeno degradati allo stato di clientela. Diven tarono invece plebe, che vuol dire massa disorganizzata (da pleo, plenus). Ma non e lontano il giorno, che essa conseguirà pure un organismo suo ; e allora il nome non rappresentando più la cosa, non le rimarrà che come ricordo storico. E sarà il giorno, in cui, per opera di Servio Tullio, al principio teocratico che cinge in nome del diritto divino di una cerchia di ferro i privilegi del patriziato, si sostituirà il principio timocratico, che aprirà quella cerchia per attribuire il privilegio al censo. Fu questa la prima breccia aperta nella cittadella del patriziato; dopo di essa,la espugnazione della fortezza diventava quistione di arte strategica, che è a dire, qui stione di tempo. Bologna, giugno. Ma se la plebe nel suo nascere non avesse posseduta la persona litàgiuridicacheimplicavailjus commercii,essanonavrebbe po tuto pervenire per mezzo del diritto di proprietà a quello del suf fragio, e la riforma di Servio Tullio sarebbe rimasta sterile per lei, come sarebbe mancata la ragione politica di crearla.Rino Genovese. Genovese. Keywords: tribù, attribution, self-ascription, ascription, labelling, power, language, illuminism, critical illuminism, critical theory, critica della ragione impura; tribu occidentale; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Genovese” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Genovesi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della logica pei giovanetti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Castiglione del Genovese). Filosofo. Grice: “I like Genovesi.” Grice: “Genovesi is a good’un – he reminds me of Oxford – his treatise on logic he called ‘per gli giovenetti,’ which is, as Piaget would say, as it would.” Grice: “Genovesi reminds me of Strawson, or rather of myself teaching logic to Strawson back in that infamous term of 1938!” – Grice: “I like Genovesi; I don’t think Socrates taught logic to Alcebiades; he couldn’t teach since the ‘dialogue’ is hardly the way to do it; and then Socrates did not teach logic to Plato; Plato did not teach logic to Aristotle, since the dialogue is not the way to go – so it is possibly Aristotle who first ‘taught’ logic to Alexander – this would indicate that he felt the need to change the form from silly dialogical exchanges to actual propositions that Alexander could swallow – “Sign” is what stands for something – a word is the sign of an idea – the idea is the sign for a thing.” – and so on. “Some things imply others; others IMPLICATE others.” – Grice: “Genovesi has an interesting bunch of things to say about logic, but then any writer of a ‘tractatulus’ in logic would: so he explores the natural/conventional distinction as applied to signs, and then the affirmation and negation, and pragmatic concerns with obscurity and ambiguity – and sophismata – and complex ‘causal’ propositions, -- quite a genius – and if a palaeo-Griceian, if I may myself say so!” Il padre lo indirizza in tenera età verso gli studi. E affidato agli insegnamenti di Niccolò G., un congiunto, medico tornato da Napoli, il quale lo istruì in filosofia peripatetica – del LIZIO -- e quella cartesiana. Nel corso degli studi filosofici, si innamora di Angela Dragone. Questo amore non trovò l'approvazione del severissimo genitore il quale condusse immediatamente il figlio a Buccino, dove abitavano alcuni parenti, presso il convento dei Padri Agostiniani dove segue gli insegnamenti filosofici d’Abbamonte, appassionandosi al latino di Catone e Varrone. Insegna retorica a Salerno dove incontra Doti, dal quale riceve lezioni di perfezionamento nel latino.Si trasfere a Napoli, dove intraprese dapprima la carriera forense, che lascia presto. Fonda una scuola privata di metafisica e teologia. A Napoli e in contatto con VICO e ottenne la cattedra di metafisica. Alcune sue posizione contenute in “Elementa Metaphysicae” furono dai suoi nemici considerate eretiche, e dovette servirsi dell'intervento dell'arcivescovo di Taranto Galiani, e di Benedetto XIV per conservare l'abito talare. In seguito a queste denunce lascia l'insegnamento della metafisica a Napoli, per passare all'etica, cattedra tenuta in passato da VICO.  L'evoluzione dalla metafisica- all'etica prosegue con il passaggio all' “economia” quando si compì la trasformazione 'da metafisico a mercante', come egli stesso ebbe a scrivere nella sua autobiografia. Insegna'commercio e meccanica, con fondi privati da Intieri, la prima cattedra di economia di cui si abbia traccia in Europa, se non consideriamo cattedre di economia quelle istituite negli anni venti Professorei n Prussia nell'ambito della tradizione camerale. Il suo lavoro come economista è stato quello più fecondo, tanto che G. divenne un autore fondamentale. Si diffondevano in quel tempo i primi accenni di rivolta allo spirito e al costume della Contro-Riforma: gli spunti di polemica antigesuitica e anticlericale, la ripresa della lotta in difesa dell'autonomia di un sato laico contro ogni interferenza del cattolicesimo, ai primi elementi di una teoria delle monarchie illuminate e del regime paternalistico, nonché, sul piano letterario, l'avvento di una poetica e di una critica più aperte e coraggiose.  In pratica, fu l'inizio della vera rivoluzione culturale che si attuò nella seconda metà del Settecento sotto il segno dell'Illuminismo caratterizzata dalla necessità di trasformare integralmente i cardini dciviltà in tutte le sue manifestazioni. In questo ambito, la filosofia politica di G.e decisamente di tipo riformatore, un anglofilo sotto spoglie francesi. Nella sua filosofia, persegue un compromesso tra idealismo ed empirismo, cercando ad ogni costo di salvare gli essenziali valori religiosi della filosofia cristiana. Riceve l'influenza del nuovo panorama culturale italiano, con la voglia di cercare con studi ed esperimenti il concetto della pubblica felicità, consistente nel far uscire l'uomo dallo stato d’oscurità (Illuminismo, che in Francia era già in atto: Les Lumières). Prese coscienza della decadenza culturale, materiale e spirituale dopo il periodo d'oro del Napoletano e, quindi, si rese conto della necessità di intervenire per riportare le arti, il commercio e l'agricoltura a nuovi splendori. “Io, che era cominciato a tediarmi di questi intrighi teologici e che cominciava ad avere in orrore studi si turbolenti, e spesso sanguinosi, feci di più: mi ripresi i miei manoscritti, e deliberai permanentemente di non pensare più a queste materie. Per tale motivo, abbandona la metafisica e si dedica all’economia affermando tra le altre cose, che l’economia deve servire ai governi per alimentare la ricchezza e la potenza del stato. Ritiene che per favorire il benessere “sociale” sia necessario promuovere la cultura e la civiltà, per questo motivo è il primo cattedratico ad impartire le sue lezioni in italiano. Docente di economia politica, occupa una cattedra istituita appositamente per lui di commercio e meccanica a Napoli da Intieri. Soggiorna più volte nel palazzo proprio di Intieri a Massaquano per lunghi periodi dove si rifugiava per trovare "la musa ispiratrice" e lì infatti scrisse alcune sue opere. Sostiene che anche le donne e i contadini abbiano diritti alla cultura poiché questa è uno strumento fondamentale per realizzare l'ordine e l'economia nelle famiglie, e di conseguenza nella società, è inoltre importante anche l'educazione degli uomini e in particolar modo lo sviluppo delle arti e delle scienze, contrapponendosi all'idea di Rousseau per il quale il progresso costituisce la fonte di tutti i mali. Denuncia anche la presenza di un numero eccessivo di persone che vivono esclusivamente di rendita e affronta tematiche importanti come problemi di debito pubblico, inflazione e circolazione monetaria.  Il suo pensiero economico è espresso in Lezioni di commercio o sia di economia civile  e considerate una delle prime opere di filosofia economica. Cerca, così, di indicare la via per alcune riforme fondamentali: dell'istruzione, dell'agricoltura, della proprietà fondiaria, del protezionismo governativo su commerci e industrie.  Tenne sempre le sue lezioni in italiano grazie alla sua passione per il civile: viene ricordato per essere stato il primo docente a esprimersi in italiano durante i suoi corsi e per essere stato tra i primi a scrivere trattati di metafisica e di logica in italiano. Così operò, anche e soprattutto, per diffondere lo studio dell'Economia e delle scienze nel popolo: in questo atteggiamento Genovesi è ancora una volta in piena continuità con gli umanisti, giudicando anche questo un mezzo di incivilimento. Altre opera: Lezioni di commercio (Milano, Fondazione Mansutti). Altre opera: Elementa metaphysicae mathematicum in morem adornata, Napoli; Elementorum artis logicae-criticae libri quinque Gli elementi dell'arto logico-critica, Venezia) Meditazioni filosofiche; Lettere filosofiche;  Lettere Accademiche; Memorie Autobiografiche; Lezioni di commercio o sia d'economia civile; Della diceosina o sia della Filosofia del Giusto e dell'Onesto; Delle Scienze Metafisiche per li giovanetti; Altre opere da ricordare sono La logica per i giovanetti, Istituzioni di Metafisica per Principianti e Lettere familiari, che testimoniano l'intensa corrispondenza epistolare tra l'abate e il letterato dell'epoca Ferrante de Gemmis, uno dei pochi testimoni dell'illuminismo pugliese. Corpaci, G.; note sul pensiero politico, Giuffrè, Peter Jones, Reception of David Hume in Europe, Continuum, Palatano, Rosario; Genovesi, Antonio. Antonio Genovesi: teoria del commercio, LUISS University Press,.Antonio Genovesi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 10 maggio.  Lucio Villari, Il pensiero economico di G., Le Monnier, Chines, Loredana. Su alcuni aspetti linguistici degli scritti di G., Pensiero politico, Davide Alessandra, Antonio Genovesi: uno dei padri dell'illuminismo meridionale, su historiaiuris.com,. M. Bonomelli (a cura di, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, Fondazione Mansutti, schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano: Electa, Luigino Bruni, Voce "Antonio Genovesi" in Il Pensiero Economico Italiano, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani. Bruni e Zamagni, Economia civile, Il Mulino, Bologna,. A. M. Fusco, G. e il suo mercantilismo rinnovato, in A. M. Fusco, Visite in soffitta. Saggi di storia del pensiero economico, Napoli, Editoriale Scientifica, Galasso, Il pensiero religioso di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, G. Genovese, Contro le "Penelopi della filosofia". Note sulle Lettere accademiche di Antonio Genovesi, L'acropoli, G. Genovese, Tra Vico e Rousseau: le autobiografie di G. L'acropoli, D. Ippolito, G. lettore di BECCARIA, Materiali per una storia della cultura giuridica, C. Passetti, Una fragile armonia: felicità e sapere nel pensiero di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, M.L.Perna, Eluggero Pii e l'edizione delle opere di Antonio Genovesi Dialoghi e altri scritti. Intorno alle Lezioni di Commercio, Il pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali, A. M. Rao, Etica e commercio: i Dialoghi di G.  nell'edizione di Eluggero Pii, Il pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali,  Wolfgang Rother, Antonio Genovesi, in Rohbeck, Rother: Grundriss der Geschichte der Philosophie, Die Philosophie des 18. Jahrhunderts, Italien. Schwabe, Basel, Villari, G. e la ricerca delle forze motrici dello sviluppo sociale, «Studi Storici», E. Zagari, Il metodo, il progetto e il contributo analitico di G., Studi economici, Gleijeses, Napoli nostra e le sue storie, Società Editrice Napoletana, Napoli, Pietro Napoli Signorelli, Treccani, Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Antonio Genovesi, sConferenza Episcopale Italiana.  Opere di Antonio Genovesi / Antonio Genovesi (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Genovesi,.  Luigino Bruni, Genovesi, Antonio, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,  Saverio Ricci, G. in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Barbagallo, G., Estratto da: Rassegna Storica Salernitana.  G. 1 2 non è uno di quei filosofi, che  fanno compiere un passo innanzi al pensiero filosofico.  A paragone del grande Vico, che si gloria di  aver avuto maestro e la cui Scienza Nuova cita nelle sue  opere con profondo rispetto, G. apparisce come  uno di quei mille ammiratori, più o meno sinceri, che VICO ha tra i suoi contemporanei e tra gli uomini più  illuminati delle generazioni successive; i quali ebbero un  certo sentore di alcune teorie di lui, concordanti o no  con dottrine congeneri di altri pensatori e da annoverare  tra le parti accessorie del suo sistema, ma pei quali i  problemi originali posti e risoluti dal Vico, si può dire,  non ebbero senso. Se pertanto nella storia del pensiero  il Vico rappresenta quello che egli rappresenta a’ nostri  occhi di storici che han penetrato il significato di quei  problemi, il Genovesi dopo di lui è un arresto o una de¬  viazione. Quella vena speculativa altissima nello scolaro Discorso tenuto al Teatro Verdi di Salern,  ì n occasione del monumento inaugurato lo stesso giorno a Castiglione  del Genovesi. L’illustre VICO, uno de’ fu miei maestri, uomo  d’immortai fama per la sua Scienza Nuova » (Lez. di Comm.,  Napoli, Il nostro Vico nella  Scienza Nuova, libro maraviglioso e uno dei pochi che in queste ma¬  terie [su Omero] facciano onore all’ Italia » (Logica e Metafisica, Milano, Classici italiani, ALBORI DELLA NUOVA ITALIA è inaridita. Il pensiero ha cambiato strada, abbandonando  gli ardui argomenti con cui s’era cimentato.   Ma il paragone col Vico storicamente non è giusto. I due pensatori in verità appartengono a due piani  storici, da uno dei quali non si passa all’altro direttamente.  Se il G. non ebbe occhi per vedere i problemi del  Vico, neanche il Vico, dalla parte sua, ebbe occhi per  vedere quelli di G.. Uomini di tempra diversa,  con diversi interessi spirituali, si può dire che il maestro  abbia pensato sempre al cielo, e lo scolaro alla terra.  L’uno non si guarda mai attorno se non come uomo  privato, che, quando dai pensieri ordinari si rivolge alla  sua scienza e alle cure più nobili del suo intelletto, vi si  assorbe tutto, estraniandosi affatto dai pensieri, dalle  gioie e dai dolori della vita quotidiana. Dove non sono  in verità gli attori del dramma che egli ama studiare e  nel cui studio concentra infatti le energie più potenti  della sua intelligenza. Passa perciò tra i suoi e tra i coetanei come l’uomo astratto, il filosofo, l’uomo che non  è di questo mondo. Quantunque il suo animo, propria¬  mente, sia a questo mondo legato così strettamente come  nessun altro mai, e di questo mondo, scrutato con sguardo  penetrante fino al profondo, aspiri appassionatamente  a intendere il significato, e in questo mondo appunto  agogni con titanico sforzo a conquistarsi razionalmente,  col pensiero, un suo posto. Ma questo mondo egli vuol  vederlo sub specie aeterni, come mondo che è sempre lo  stesso, in ogni luogo e tempo; e che assume bensì aspetti  sempre diversi, ma per l’interna virtù che lo muove con  immutabile legge.   L’altro invece è tutto occhi pel mondo che si agita  intorno a lui, nella scuola e fuori della scuola; nelle città  e nelle campagne; nello Stato e nella Chiesa; a Napoli,  per tutta Italia, e di là dalle Alpi. L’istruzione del  popolo e l’educazione dei giovani; l’agricoltura e il commercio; l’economia del Regno, e i problemi della feudalità  e della manomorta; il problema della moltitudine degli  ecclesiastici eccessiva in rapporto alla popolazione; e poi  la questione giurisdizionale e l’ardente lotta anticuria-  lista in difesa dei diritti dello Stato; e via via tutte le  questioni che erano all’ordine del giorno nella Napoli del  tempo, o che uno spirito alacre ricavava da quelle a cui  la pubblica opinione s’interessava. E poiché i paesi  allora alla testa della cultura europea erano insieme  Inghilterra e Francia, e i libri che si pubblicavano in  quelle lingue i più letti, celebrati e discussi, ecco quelle  lingue, insieme con le classiche, a cui Vico si era limitato,  studiate e possedute con animo pronto a seguire il movimento della letteratura straniera in ogni campo di ricerche filosofiche e sociali. Allargato quindi enormemente  l’orizzonte. Non più quel carattere antiquato e accademico della scienza tradizionale, nel cui cerchio si muove  ancora il Vico, modernissimo per la sostanza de’ suoi  problemi, arcaico per la forma (lingua ed erudizione)  E la modernità segna la fine di quel chiuso provincialismo, onde lo scrittore napoletano si era sentito sempre  cittadino di Napoli. G. guarda più in là del  Garigliano e del Tronto. Egli si sente italiano; e come  italiano, partecipe dell’unica società europea della cultura.  Italiano e moderno, si lascia alle spalle il vecchio mondo  tradizionale dell’accademia fratesca e teologizzante e  dell’angusta provincia, e respira largo, apre le finestre  della scuola della letteratura e del pensiero, e vive nel  tempo suo e si sforza d’interessare gli uomini, tutti, al  sapere e al lavoro dell’ intelligenza.   Siamo, come dicevo, in un piano diverso da quello  della pura filosofia. Qui si può dire che la filosofia ri-  nunzii alla sua propria forma, e quasi si annulli per  risorgere in forma più adeguata alle sue esigenze più  profonde. Ciò che è tante volte avvenuto nella storia; e avviene continuamente nella vita. Il pensiero sale, sale,  si purifica, si libera dal rappresentare fantastico e corpulento, e si libra da ultimo in un’astrazione diafana,  per ridiscendere tosto al concreto della realtà che con  quell’astrazione ha cercato di definire e più perfettamente possedere: alla realtà che è corpo e fantasma,  e passione e sentire, e quell’oscuro misterioso impeto  dell’essere che tende a realizzarsi, scaturigine ascosa di  ogni esistenza e di ogni luce. Il progresso è pur sempre  in certo modo regresso; e se si volesse andare avanti,  avanti sempre, si finirebbe col precipitare nel vuoto. Bisogna a volta a volta rifarsi da capo. Bisogna toccare  la terra per rialzarsi. Toccare la terra, s’intende, come  l’Anteo della favola, da gigante che ha già la forza per  rialzarsi: che ha, in altri termini, un certo grado di coscienza filosofica.  Vogliamo sentire dallo stesso G. qual fosse il  suo ideale di cultura ? Basta leggere un suo Discorso sopra  il vero fine delle lettere e delle scienze, che pubblicò  innanzi a un Ragionamento sopra i mezzi più necessari  per far rifiorire Vagricoltura dell’abate Montelatici, quasi  per giustificare la nuova via per cui egli si metteva, dopo  aver anche lui pubblicato i suoi libri di Logica, di Metafisica e di Teologia in lingua latina. In questi stessi  libri, per altro non è difficile scorgere le tendenze innovatrici del G. e il carattere dominante del suo pen¬  siero filosofico, del quale ci proveremo qui appresso a  dare un sommario cenno ; ma ancora non è avvenuta la  radicale conversione per cui la mente dello scrittore, dopo  che ebbe trovato negli studi economici e sociali una ma¬  teria più adatta al suo genio, raggiunse la sua forma  storica, e ritrovò propriamente se stesso.   In questo Discorso G. propugna una sorta di  filosofia reale, com’egli dice, e cioè pratica ed applicativa: come dire una filosofia non propriamente speculativa e filosofica; e prende a partito tutti i più celebrati  filosofi della tradizione e le loro dottrine. Esalta bensì  la ragione come quella che più di tutte le nostre doti  ci rassomiglia a Dio », « la sola cosa, per cui l’uomo si  solleva sopra tutto ciò ch’è in terra»: la ragione, «arte  universale » governatrice di tutte le arti e strumenti onde  l’uman genere arricchisce la vita e viene ogni dì perfezionando il sistema dei mezzi diretti ad accrescerne il  benessere. Ma ne addita nelle astratte speculazioni e  schernisce i deviamenti già nell’antichità derivati appunto  dall’abuso che l’uomo fa della ragione in questioni oziose,  sottili, astruse e atte nondimeno a suscitare la stima e  l’ammirazione dei semplici e a procacciare una riputazione  fallace.   « Poiché gli uomini quanto son più semplici, tanto sogliono più stimare quel che meno intendono, i dialettici  ed i metafisici. I don Chisciotti della repubblica delle  lettere, combattenti con gli indistruttibili giganti delle  chimere, per la gloria vanissima di sottilissimo ingegno,  loro Dulcinea del Toboso, salirono in alta stima, ed usur¬  parono il premio doTTito al vero sapere; ciò che fu l’esca  fatale, che riempì ne’ vecchi tempi d’indiscreti sofisti  la Grecia, e ne’ secoli assai più vicini buona parte dell’Europa. Eppure, la prima e più antica filosofia era stata una  « filosofia tutta cose ». I più antichi filosofi erano stati i  legislatori, i padri, i sacerdoti delle nazioni, studiosi di  etica, economica, politica; persuasi anch’essi, al pari di  tutti i buoni cittadini, che, « come partecipavano a’ comodi  della società, così dovevano aver parte alle cure e alle  fatiche » pel bene pubblico e domestico. Vennero dopo i  tempi di corruzione, in cui prevalse la massima che l’ozio  fosse un nobile e onorato mestiere. E quindi la genia infi¬  nita di coloro che sono «peste del vero sapere e della virtù»; «i quali si credettero nati o per garrire inutilmente, o per disputare di cose inintelligibili, o per mettere empiamente in ridicolo le sante ed utili cognizioni,  le leggi ed i precetti della giustizia e dell’onestà ». Vennero i grammatici (oggi diremmo i critici) « interpreti  de’ sogni dei poeti, o mercanti de’ propri»; vennero i  metafisici, «Penelopi della filosofia, implicati in disciorre  quelle tele, che eransi tessute colle loro mani » ; verniero  i dialettici, che « tendevano indissolubili lacciuoli alla  ragione istessa per cui andavan fastosi, e come seppie  gittavan del negro, sotto cui il vero e il falso prendesse  un sol volto ». Socrate, — il gran Socrate, di cui fu detto  che richiamò la filosofia dal cielo in terra e a cui infatti  gli uomini devono di sapere che tutto quello che si vuole  intendere essi non lo possono cercare se non nel pensiero,  cioè in se medesimi, — dal G. non è ricordato qui  se non come colui che insegnò la più ricca e la più bella  possessione dell’uomo essere l’ozio. Dei suoi scolari non  gli giova menzionare altri che Aristippo e Diogene il  Cinico, corruttori del costume. Di Pitagora a scherno  ricorda la monade e il binario; e l’uno di Parmenide; e  l’omeomeria di Anassagora, e le astratte forme di Platone  e le entelechie di Aristotele; ed altre cosiffatte «bambole  di ragione » degli altri più celebrati filosofi.   Che dire poi della filosofia medievale ? Non si può  leggerne la storia « senza aver pietà della debolezza del-  l’ingegno umano ». Poveri scolastici ! «Vestono corazze  di carta, che stimano del più fino metallo; e combattono  con i mulini a vento, come con i Giganti distruttori dell’uman genere. Un estro ignoto gli rapisce fuor del nostro  mondo. Sembra che sieno i maestri di ogni altra cosa,  fuor che di ciò che ci appartiene o c’ interessa ».   In questa caricatura della storia della filosofia super¬  fluo avvertire lo strazio che G.  fa delle più importanti dottrine dei maggiori pensatori. Voglio solo riferire in proposito un altro periodo, tipico documento  degli stravolgimenti storici di questa invettiva, e insieme  dello spirito che la moveva:«La materia prima,  che Aristotele fantasticò, animata dal fuoco dagli Arabi,  fu di sì vivi e vaghi colori arricchita in mano di Abelardo,  e di alcuni altri, che divenne una Divinità, la quale poi  il più empio e il più freddo de’ filosofi del passato secolo,  si studiò di adornare con un sistema geometrico ». Allusione a Spinoza, che pure G. aveva studiato con  grande interesse. Alle quali cose quante volte io penso », conchiude il  nostro filosofo, « forte mi meraviglio, come gli agricoltori,  i pastori e tutti gli altri coltivatori delle arti per cui l'uman  genere si sostiene, abbian potuto tollerare in pace una  razza di uomini, i quali, lungi di dar loro il menomo ri¬  schiaramento e aiuto nel tempo medesimo che de’ frutti  della loro industria godevano, pare che si ridessero delle  loro fatighe, o che gli riguardassero come animali di  altra specie, fatti da Dio in forma umana per servire  a’ loro piaceri ».   Lode a Bacone, che proclamò la necessità di ristaura-  zione dalle fondamenta tutto il sapere, e dimostrò che  « si poteva essere filosofo con assai gloria, senza essere  peso inutile agli altri uomini ». Lo studio della natura,  l’esperienza, « gran maestra delle utili cognizioni », la  geometria « nutrice di tutte le arti » vennero in grande  onore. L’ Europa cambiò faccia. Ogni nazione ha il  suo Ercole, uccisore dei mostri che la infestano. L'Italia  ha GALILEI. Napoli, sì, rimase lungo tempo chiusa a  questa nuova scienza, forse perché con maggior vigore  questa potesse irrompervi a rendere più glorioso il rin-    1 Cfr. la sua lettera a Sterlich; dove racconta  come potè studiare 1 ’Etica di Spinoza: Leti,  fam., ed. Napoli, novamento che il Regno, ristaurato dal primo dei Borboni, doveva promuovere. G. ha qui un concetto  che rammenta l’hegeliano spirito del mondo. « Egli è  veramente un certo Genio, che discorre per le nazioni,  e che in dati intervalli le anima, e le raccende, quello  che o primamente mena, o estinte ravviva le lettere e  le belle arti ». Ma questo Genio, secondo G.,   « vuol essere sempre accarezzato, sollecitato e alimen¬  tato. Può dirsi che la curiosità, la più utile molla del-  l’animo umano, il dischiuda dal suo guscio, la gloria  l’animi e gli dia della grandezza, l’emulazione l’aguzzi  e ’l rinforzi: ma certamente il premio il sostiene e l’alimenta ». Insomma, il rinnovamento del pensiero richie¬  deva a Napoli le più propizie condizioni create dalla  nuova vita impressa allo Stato dal nuovo Regno.   Grande infatti il progresso già avvenuto in Napoli,  delle arti, delle scienze, della ragione che le alimenta.  Ma « un certo lezzo dell’antica barbarie » (prisci vestigia  ruris) è rimasto tuttavia attaccato agli scrittori. La  ragione non è pervenuta ancora alla sua maturità: è  ancora tutta nell’ intelletto, e deve passare nel cuore e  nelle mani. È bella, non è operatrice; adorna, non utile.  Bisogna che diventi pratica e realtà; come può solamente  quando « tutta si è così diffusa nel costume e nelle arti,  che noi l’adoperiamo come sovrana regola, quasi senza  accorgercene » : come accade alle bestie, in cui « la cognizione è tutta uso, perché è l’arte di Dio lavorante su la  materia, ed in Dio non ci sono Enti di ragione»:  cioè le astrattezze che si annidano nel cervello dei filosofi.  I dotti napoletani hanno bensì coltivato lo studio delle  leggi; ma vi hanno portato le argutezze dei dialettici:  questioni sottili, speciose, aliene dalla pratica e dalla vita.  Tutta una forma di sapere, in cui, insomma, secondo il  G., c’è forza bensì e intelligenza; ma non c’è cuore;  e c’è cattivo gusto. Manca, diremmo oggi, il senso scientifico; e gl'ingegni si credono più grandi quando sono  ammirati come incomprensibili, che quando stimati come  utili.   La pratica dell' insegnamento (insegnava già egli da  sedici anni) aveva dimostrato al G. che Napoli era  un semenzaio di nobili e glandi ingegni ; ma i migliori  ingoiavano avidamente la nuova filosofia prima di digerir la vecchia. Avvezzi alle sottigliezze vane e alla  « ciarleria », troppo ancora se ne compiacevano per fare  il debito onore alle scienze sode, feconde, che avevano  già trasformato la cultura inglese, francese, olandese.  Sacrifichiamo dunque « una volta la seduttrice e vana  gloria dell’astratta speculazione al giusto desiderio della  parte più grande degli uomini, i quali ci vogliono men  contemplanti e più attivi. Dio ha fatto a tutti il divin  dono della ragione perché intendiamo, che il vero sapere  non è di sì gelosa natura che voglia essere di pochi ». Esso  deve giungere al popolo. Il quale ha bisogno di essere illuminato, e non seguito nella sua naturale ritrosia alle  novità, ancorché utili, e nel suo attaccamento tenace  alla tradizione. Deve essere indotto a profittare delle  osservazioni e delle invenzioni dei dotti. Deve essere ingentilito, rianimato, spronato ad elevarsi. E si deve quindi  operare su di esso non con le leggi che non cambiano gli  uomini, sì con la « savia educazione e coltura di questa  sì preziosa derrata dell'uomo, da che egli comincia a  sbucciare dal suo guscio. Curare l'educazione. È uno degli articoli principali  dell’apostolato del G. 1 ; poiché i contemporanei,  a suo giudizio, curavano più i « testi di fiori » e le piante   Sulla educazione e istruzione popolare vedi Lez. di Comm., parte I,  cc. VI e Vili; e Logica, Senza educazione «oltre¬  ché non è possibile, che la popolazione si aumenti.... ma, pure dove  avviene che cresca, la repubblica si potrà ben dire aumentata di semi¬  uomini, ma non di forze» (Lez. di Comm., peregrine che avevano per avventura ne’ loro giardini,  che non i figli. E raccomandava la massima diligenza  nella scelta dei maestri, poiché molto, a suo giudizio,  mancava per questa parte il Regno di Napoli. Bisogna  sentire il ritratto vivo che ce ne ha lasciato:   « I maestri di scuola pongono poca cura a studiar l’urbanità e l’aria nobile, piena di verecondia e de’ tratti  d’onore: sovente i loro moti, gesti, tuono di voce e tutto  il lor volto, che suol esser lo specchio dei ragazzi, spira  tutt’altra cosa che gentilezza: la loro lingua è più fre¬  quentemente un gergo corrotto de’ vari dialetti del nostro  Regno, che la bella e nobile della pulitissima Italia: finalmente, dirò io che il lor costume sia sempre il più puro  e il più santo ? Inoltre, quasi tutti si studiano di coltivar  assai più la memoria de’ loro allievi che la ragione e il  cuore. Un solecismo o barbarismo in lingua latina è da  loro più severamente punito, che molti a’ gentiluomini  sconvenevoli barbarismi e irragionevolissimi solecismi di  ragione e di costume. Si adirano anche spesso, gridano  e fanno dei schiamazzi in testa a’ loro allievi; gli battono  senza misericordia, e gli trattano più da servi, che da  figli: tutte cose più atte a fare o stupidi o villani o zotici  e feroci i ragazzi, che ad allevargli nel sapere, nelle virtù,  nella nobiltà. Questi medesimi difetti trovansi ben anche  spesso ne’ padri o nelle madri di famiglia. Io ho sentito  dire a molti di coloro un proverbio, che fa disonore agli  esseri ragionevoli : che i fanciulli si curan  colle mazze».   3. — Un filosofo che parla questo linguaggio umano,  familiare, e che pensa come s’è veduto, dei filosofi e dei  loro sistemi, evidentemente non è un filosofo di professione.  Sarà un filosofo che avrà qualche cosa da dire più e meglio  dei filosofi di professione; ma non potrà facilmente an¬  dare d’accordo con questi. Così poco rispettoso di quelle  Si    che sono le idee e le maniere per loro più rispettabili e  venerande, con così scarso interesse, anzi con tanto fa¬  stidio verso le questioni che formano il nutrimento e il  vanto dei loro cervelli, certo potrà, per caso, trovarsi in  mezzo ad essi: ma vi starà a disagio, e se ne trarrà fuori,  spontaneamente o per necessità, appena se ne presenti  l’occasione. G., nato nella terra di Castiglione 1 ’ Ognissanti, fu avviato quattordicenne agli studi di  filosofia da un suo stretto congiunto, che gli insegnò per  due anni filosofia scolastica e per un terzo anno filosofìa  cartesiana (filosofìa di moda allora nel Napoletano);  quindi, poiché il padre lo volle ecclesiastico, obbligato ad  apprendere Canoni e Teologia, e ammesso agli ordini  minori, promosso suddiacono.  Chiamato questo anno a insegnar rettorica nel seminario  di Salerno, vi rimane due anni, studiando per suo conto  con gran fervore ; finché nel '37 sarà ordinato prete J'e  un’eredità allora conseguita gli consentirà di recarsi l’anno  appresso a Napoli, per appagare in quella Università e  nella consuetudine degli illustri letterati della metropoli  la sua sete ardentissima di sapere. A Napoli frequentò  molti corsi; tra gli altri, fino al *41, quello di Vico; di cui, ci racconta un anonimo biografo, aveva  già da un anno letta la Scienza Nuova : « Il perché corse  ad ascoltarlo; a cui avendo dedicato la sua servitù, ebbe  l’onore della sua amicizia » Insoddisfatto della filosofìa  che s’insegnava, disegnò programmi suoi, e aprì una sua  scuola privata; finché nel '41 il Cappellano Maggiore  monsignor Galiani, che era l’uomo che poteva intenderlo,  gli affidò l’incarico d’insegnare nell’ Università Metafìsica. Aveva letto Malebranche, Locke, studiato Spinoza    1 Note di A. Cutolo alle Memorie autobiogr. del G., in Ardi. stor.  nap.   2 Cutolo, Noie cit. e Leibniz; e dettava agli alunni, come volevano i rego¬  lamenti del tempo, le sue lezioni in latino. Ne nacquero gli  Elementi di Metafisica in lingua latina,  pel metodo geometrico  con cui la dottrina e esposta (metodo, si sussurra, caro  ai protestanti), per le novità che conteneva, per le concessioni che faceva al razionalismo, per quello scetticismo  moderato che vi dominava, procurò all’autore ire e per¬  secuzioni dei censori ecclesiastici, aprendo una serie di  contestazioni teologiche, che alienarono sempre più il  suo animo dagli studi che rimanevano in Italia, e sopratutto nel Mezzogiorno, monopolio quasi esclusivo dei  frati.   Ma ecco che nel '44 il Galiani gli viene in aiuto pas¬  sandolo dall’ incarico di Metafisica alla cattedra ordinaria  di Etica : insegnamento più conforme all’ ingegno del  Genovesi, e da lui infatti tenuto per un decennio con  grande efficacia per l’eloquenza delle sue lezioni, la mo¬  dernità della dottrina, la ricchezza e praticità delle que¬  stioni trattate. Pure alla Metafìsica nel '45 s’aggiungeva  in cinque libri un'Arte logico-critica, anch’essa in latino.  E queste opere si ristampavano e si diffondevano in  Italia e fuori d’Italia. Nondimeno l’autore nel '65 poteva  scrivere a un amico : « La Metafìsica (mia) fatta pei teo¬  logi e frati, non può piacere ai fìsici e ai matematici, come  neppure piace a me. E con tutto ciò, la Logica e la Metafìsica s’insegna in molti collegi di Francia, e in quasi  tutte le scuole di Germania» '. Avevano fortuna; poiché  questi libri rispondevano al bisogno delle scuole, e nel  loro andamento eclettico e largamente informativo ben  s’adattavano alla tendenza media degli studiosi non risolutamente moderni ma neppur ciecamente chiusi nella  tradizione, e disposti quindi a conciliare nova et vetera    1 Leti, jam., II, 67.  e farsi una filosofia senza compromettersi; ma, come  si vede, non finivano di contentare l’autore stesso. Anche  i due libri De iure et officiis eran nati dalla scuola  e per la scuola (in usum tironum) ; e del pari altri due  brevi compendii latini di Logica e di Metafisica. Ma quando al G. sarà possibile avere una scuola  a modo suo, intorno a materie nuove, indirizzate a pub¬  blica utilità, non contemplate nei vecchi quadri, egli non  scriverà più latino. Che gioia quando fu istituita per lui,  nell’ Università, la cattedra di « Commercio e Economia »,  fondata dal suo vecchio amico, facoltoso e autorevole,  il fiorentino Bartolomeo Intieri, studioso di macchine  agricole e di questioni economiche: ingegno pratico alla  toscana, avverso a ogni oziosità speculativa ! Allora il  G. si sentì davvero maestro, e veramente filosofo.   Grande l’attesa nel pubblico per il nuovo insegnamento ;  ma potente altresì l’estro del nuovo insegnante e l’im¬  peto e il calore della sua eloquenza. Quando tenne la sua prima lezione, fu un avvenimento  nella vita del G. e nella storia non soltanto della  cultura napoletana ma della scienza europea. Poiché questa del G. fu la prima cattedra istituita in Europa  di Economia politica: dovuta, s’intende, non al semplice  intuito d’un privato ma al movimento degli studi che la  situazione economica del Regno di Napoli aveva prodotto.  In una lettera dello stesso mese il Genovesi scriveva a  un amico 1 : « Nel dì 5 corrente feci il mio discorso preliminare, 0 sia l'apertura alla nuova Cattedra del Commercio con uno straordinario concorso, tuttoché io non  avessi fatto invito. Parlai un’ora, non solo senza niente  aver mandato a memoria, ma senza aver niente scritto  di quello che dissi. Con tutto ciò il discorso fu ricevuto  con applauso, e subito diffuso per tutta la città. È stata    Leu. falli., I, 108.     bella ! Alcuni volevano copiarselo, e io non ho potuto  lor dire, che dopo averlo letto n’aveva perduto anche  l’originale.... Il giorno seguente cominciai a dettare.  Grande fu la meraviglia in sentir dettare italiano ; sicché,  essendomene accorto, nello incominciare la spiegazione  dovetti cominciare dai pregi della lingua italiana, e urtar  di fronte il pregiudizio delle scuole d’Italia.... La scuola  è stata sempre piena in guisa che molti non ci hanno  trovato luogo ; ma la maggior parte sono uditori di barba,  e di vari ceti. Gli scriventi sono circa cento.... Gran moto  è nato da queste lezioni nella città, e tutti i ceti domanda¬  vano libri di economia, di commercio, di arti, di agricoltura ; e questo è buon principio ».   Da questo corso, che il G. proseguì finché le  forze gli bastarono (morì, ma un  anno prima per malattia aveva dovuto lasciare la cat¬  tedra), trassero origine le belle Lezioni di Commercio ossia  di Economia civile in due volumi, che rimarranno tra le opere classiche della nuova scienza: opera  riboccante d’ingegno, di erudizione, di brio e di amore  del pubblico interesse, dall’agricoltura alla pubblica istru¬  zione. Ma uscì prima la traduzione della Storia del com¬  mercio della Gran Bretagna di John Cary con un Ragionamento del Commercio in universale e lunghe e impor¬  tanti annotazioni del Genovesi sul commercio del Regno,  e altri scritti minori. In questi stessi anni il laborioso  scrittore riprese bensì in italiano gli argomenti delle sue  opere latine. Sono del '58 le sue Meditazioni filosofiche,  che arieggiano quelle di Cartesio; ed ebbero l’ammirazione del Baretti 1 ; e del '59 le Lettere filosofiche ; come    1 Da leggere l'articolo che gli dedicò nel 20 numero della Frusta  Letteraria: dove il Baretti giudica il libro con questi  termini di alto elogio (ed. Piccioni, Bari, Fra le tante migliaia e migliaia di libri scritti nella nostra lingua,  io non ne conosco assolutamente neppur uno, dopo quelli del Galileo, del '64 le Lettere accademiche. Imprende a scrivere  in italiano un Corso di filosofia. E volle scriverlo per i  giovani (com’egli stesso faceva sapere a un amico) « che  son curiosi di sapere se le scienze potessero così parlare  italiano come una volta parlarono greco e latino. Il mo¬  tivo che mi muove, è una massima, che può stare che  sia falsa, ma 1’ ho nondimeno per vera, cioè che ogni  nazione che non ha molti libri di scienze e di arti nella  sua lingua è barbara ». Perciò in Francia nell’età di  Luigi XIV s’era cominciato a scrivere di filosofia in  francese. Perciò aveva seguito l'esempio l’Inghilterra.  E altrettanto si cominciava a fare in Germania. Dove  non si scrive nella propria lingua, dice il Genovesi, si  accenderà magari mi lume grande e brillantissimo, ma  questo resterà « nondimeno sepolto in que’ lanternoni da  antiquari d’onde non tralucono che pochi tenebrosi  raggi. E nelle stesse Lezioni di Commercio inculcava come    che sia tanto pregno di pensamento e di vera scienza quanto è questo  primo tomo di questo nostro ampio, sublime ed aggiustatissimo filosofo G.».   A Baretti non andava lo stile di G., seguace della scuola  toscaneggiante del Di Capua: «Una cosa però disapprovo in lui assolutamente, e questo è lo stile suo.... perché troppo a studio intralciato  e rigirato si, che non poche volte abbuia il pensiero. Com' è possibile, ho detto tra me stesso mille volte leggendo queste sue tanto  stimabili meditazioni, — com’è possibile che un uomo il quale è una  aquila quando si tratta di pensare, si mostri poi un pollo quando si  tratta di esprimere i suoi pensieri? Come mai un G. ha potuto  avvilirsi tanto da seguire i meschini voli terra terra di certi secchi e  tisici uccellacci di Toscana ? Eh, G. mio, adopera gli abbindolati stili del Boccaccio, del Bembo e del Casa quando ti verrà ghiribizzo di scrivere qualche accademica diceria, qualche cicalata, qualche  insulsa tiritera al modo fiorentino antico e moderno; ma quando scrivi  le tue sublimi Meditazioni, lascia scorrere velocemente la penna....;  e lascia nelle Frammette e negli Asolani e ne’ Galatei, e in altri tali spre¬  gevolissimi libercoli i tuoi tanti conciossiacosacché e i perocché.... e tutte  quell’altre cacherie e smorfie di lingua, che tanti nostri muffati gram-  maticuzzi vorrebbero tuttavia far credere il non plus ultra dello scrivere ».   1 Cfr. la pref. alla Logica italiana. certissimo assioma politico che una nazione non sarà  mai perfettamente culta nelle scienze, nelle arti, nelle  maniere, « se non abbia le leggi, le scienze, le scuole e i  libri di arti parlanti la propria lingua; perché ella dovrà  dipendere da una lingua forestiera; la quale, non essendo  intesa che da una picciolissima parte del popolo, tutto  il resto sarà fuori della sfera del lume delle lettere. Le lingue sono come vasi, che contengono le nostre idee  e la nostra ragione. Or qual pazzia è pretendere di essere  in un paese uomini, e aver la ragione in un altro ? Finché in un paese le scienze saranno in un gergo stra¬  niero alla maggior parte del popolo, avremo sempre, dice  il G. -, « molte scuole inutili, molto tempo perduto,  molti cervelli stupiditi; e mancheremo delle necessarie,  né ha possibile di avere delle buone teste ».   Con questo ideale di una scienza che penetri il popolo  per svegliarne e metterne in moto tutte le forze morali  ed economiche, il G. voleva scuole e quando  furono da Napoli espulsi i Gesuiti e riordinata la pubblica  istruzione ed egli a tal fine invitato a scrivere un Piano  di riforme 3, non dimenticò nelle sue proposte le scuole  del popolo —; voleva metodi razionali e semplici perché  fossero efficaci gl’ insegnamenti accostati al popolo c ai  giovinetti; voleva accademie, che, abbandonando la vecchia letteratura e le discussioni vane della filosofia in¬  feconda, si rivolgessero alle ricerche sperimentali e alle  arti più necessarie alla vita; e voleva, come sè visto,  libri in italiano, attraenti e di facile lettura. Ma aveva  pure il suo ideale di una dottrina che, liberando il popolo  dalle superstizioni e dai pregiudizi, e rinvigorendo nelle  coscienze i convincimenti morali e la fede religiosa che ne  Per questo Piano, vedi gli appunti che ne pubblico G. M. galanti, Elogio stor. di A. G., Firenze, è sempre il fondamento, potesse aprire la strada a quel  rinnovamento che egli auspicava: potesse infondere negli  uomini e nelle nazioni la fede nella ragione, di cui egli  era l’apostolo. Tutto il suo sistema riformatore era in¬  somma ispirato a una filosofia.   Della qual filosofia nelle Meditazioni e nei trattati di  Logica e di Metafisica, che, bene accolti dai contemporanei e più volte ristampati (è almeno da ricordare 1 edizione che della Logica volle curare il Romagnosi), sono entrati a far parte della letteratura filosofica  nazionale, si scorgono i lineamenti anche da chi non ricerchi i ponderosi volumi latini, che li precedettero e  prepararono. G. è un empirista, ma non e un sensista, e  tanto meno un materialista. Combatte le idee innate,  ma cartesianamente mette il pensiero a capo di tutto,  e la ragione, che l’uomo che medita trova in se stesso  come attività sovrana, libera, signoreggiatrice, col suo  giudizio, dell’universo, vede conforme a una ragione  creatrice universale, divina L’uomo per essa è immor¬  tale. Per essa destinato a vincere il dolore, a superare  ogni difficoltà, a viver felice. Questa ragione infatti non  è fredda astratta intelligenza. Essa è energia ( energetico ,  dice G.) perché è anche passione, cuore i. Non    1 Come empirista, G., pur non ripudiando ogni metafisica,  insiste sempre sulla necessità di limitare le ricerche speculative alle  questioni essenziali per una concezione sana e morale della vita. Insi¬  stenza che ha fatto pensare al criticismo kantiano. Vedi Gentile,  Stona della filos. ital. da G. a Galluppi, Milano, Treves, ’ dov'è particolarmente studiata la dottrina della conoscenza  di G.. Oltre i luoghi ivi citati (voi. I, p. xm), e le frequenti di¬  chiarazioni che ricorrono nelle Lettere familiari circa 1 infecondità  delle più astruse ricerche metafisiche e teologiche, vedi Logica, Notevole in special modo la lett. a Saffiotti. Vedi Meditazioni filosofiche, Milano, Silvestri, Logica, Vedi Logica, distrugge la passione; una passione infatti si combatte  con un’altra passione. E poiché ogni essere è ragione, e  soffre e aspira a godere, essa, non essendo individuale,  ma comune e universale, stringe in un vincolo di amore  gli uomini.   Intuizione ottimistica, che s’inquadra in una concezione  leibnizianamente spiritualistica del mondo. Poiché anche  per G. i corpi, scomposti negli elementi semplici  di cui sono formati, si riducono a sostanze spirituali,  attive. E tutte le qualità sensibili dei corpi non sono  altro che fenomeni, nostre sensazioni.   Lo spirito è attività : è quella stessa forza che è in tutte  le cose che sono in natura, e che tende ad espandersi.  In noi questa forza si svela nella ragione, che è prima di  tutto coscienza, affermazione di sé. Questa forza è attiva  e tende perciò a svilupparsi, ad estendere il suo dominio,  a trionfare. Il mondo non è, infine, se non questo svolgimento della ragione, che nel suo progressivo prevalere  è cultura sempre più intensa e sempre più diffusa; è  benessere in cui lo spirito viene ritrovando e procuran¬  dosi le condizioni più favorevoli al suo sviluppo ; è amore  degli altri, insieme coi quali ogni uomo viene adempiendo  in comune il destino della sua natura, la libera vita della  ragione.   Questa la fede del G.. Questa la sorgente dell’entusiasmo col quale egli attese con ferventissimo zelo dalla  cattedra e cogli scritti, malgrado la sua malferma salute,  infaticabilmente alla sua opera di apostolato. Questo il  segreto della potente azione da lui esercitata sul suo  tempo, promovendo nuovi studi, animando i giovani alla  lotta contro il vecchio mondo: contro la feudalità in favore dei lavoratori della terra e della nascente borghesia;  contro la Curia per lo Stato autonomo e laico; contro il  pregiudizio per la critica; contro la superstizione per la  religione; contro tutto ciò che nel pensiero e nelle istituzioni impedisse 0 ostacolasse il libero sviluppo del  lavoro, della civiltà, della ragione.   G. non fu un rivoluzionario; ma fu  un educatore di rivoluzionari, che quando scoppierà  in Francia la grande Rivoluzione, o crederanno di obbe¬  dire alla voce del vecchio maestro accogliendone una  scintilla anche a Napoli, e quindi suscitando il glorioso  incendio della Repubblica Partenopea, celebrazione di  una grande fede idealistica ancorché astrattamente gia¬  cobina, santificata dal martirio 0, uomini di grande  accorgimento ed equilibrio, come Galanti e Cuoco, con  più profonda intelligenza dell’ insegnamento di G.,  ne trarranno argomento a una più realistica concezione  politica della libertà necessaria al popolo napoletano:  poiché vedranno come il maestro aveva veduto, che  questa libertà non poteva essere vitale, se non era forte  della forza di uno Stato ben ordinato e potente: di uno  Stato infine in cui tutta l’Italia, prima o poi, doveva  unirsi tutta in un corpo solo tra l’Alpi e il mare.   Questa idea di un’ Italia unificata dal Galanti, il più  fido dei discepoli del Genovesi, passò al Cuoco, e dal  Cuoco, come oggi sappiamo, passerà al Mazzini; ma era  stata preconizzata a Napoli dal Genovesi. La cui com¬  memorazione io non potrei meglio concludere che rileg¬  gendo una sua pagina del 1757, a proposito della sicurezza  necessaria al commercio, e impossibile senza una fiotta  militare adeguata. Impossibile perciò allo stesso Regno  di Napoli, che era tuttavia il maggiore e più potente  Stato d’Italia: «Vorrei io», scriveva nel detto anno il  G., «in questo luogo dire un pensiero, che ho  sempre meco d’intorno all’animo avuto, ed hollo tuttavia; ma io temo ch’egli non sia per incontrar male   1 Sulla scuola del G. e la sua importanza storica, A. Simioni,  Le origini del Risorgimento politico dell' Italia meridionale, voi. I, Messina, Principato, presso coloro, che niuno amore hanno e niun zelo nutriscono per l’Italia, come madre nostra. Ma il dirò pure  in qualunque parte sia per prendersi da chi non guarda  più in là del proprio utile.   « A voler considerare l’Italia nostra, e dalla parte del  suo sito, e da quella degl’ ingegni, e per quello che ha ella  altre volte fatto e fa eziandio, tuttoché divisa e come  dilacerata, si converrà di leggieri, ch'ella tra tutte le nazioni di Europa sia fatta a dominare; perocché il suo  clima non può esser più bello, né più acconcio il suo sito  rispetto alle terre e al mare che la circondano, né più  perspicaci e accorti e destri e capaci di scienze e di arti  e duranti di gran fatiche, e oltre a ciò più amanti della  vera gloria, i suoi popoli, di quel ch’essi sono. Ond’ è  dunque, ch’ella sia non solo rimasta tanto addietro al-  l’altre nazioni in tutto ciò, che par suo proprio, ma divenuta in certo modo serva di tutte quelle che il vogliono?  Ella non è stata di ciò causa la sola mollezza, che le conquiste de’ Romani v’apportarono; perocché questa morbidezza, che le ricchezze e la pace v’avevano introdotta,  non durò lungo tempo; ma la vera cagione del suo avvilimento è stata quell’averla i suoi figli medesimi in tante  e sì piccole parti smembrata, ch’ella n’ ha perduto il suo  primo nome e l’antico suo vigore. Gran cagione è questa della ruma delle nazioni. Pur  nondimeno, ella potrebbe meno nuocerci, se quei tanti  principati, deposta ormai la non necessaria gelosia, la  quale hanno spesse volte, e più ch’essi non vorrebbero,  sperimentata e al comune d’Italia e a se medesimi funesta, volessero meglio considerare i propri e i comuni  interessi, e in qualche forma di concordia e di unità ridursi. Questa sarebbe la sola maniera di veder rifiorire  il vigore degl’ Italiani. Potrebbe per questa via aver l’Italia nostra delle  formidabili armate navali, e di tante truppe terrestri.  che la facessero stimare e rispettare non che dalle potenze d’oltremare, che pure spesso l'infestano, ma dalle  più riguardevoli che sono in Europa. Ella non vorrebbe  ambire altro imperio, che quello che la natura le ha circoscritto: ma ella dovrebbe, e potrebbe difendersi il suo.  Potrebbe veder rinascere in tutti i suoi angoli le arti e  le industrie, dilatarsi il suo commercio, e tutte le sue parti  nuovo abito e la pristina bellezza prendere. Se questi  sensi s’ispirassero ai pastori di tutte le sue parti, forse  che non sarebbe questo un voto platonico. E mi pare che  i principati d’Italia non siano sì gli uni degli altri gelosi,  che per massime vecchie che son passate ai posteri più  per costume che per sode ragioni. Non son ora i tempi  ch'erano: e quelle cagioni di reciproci timori, che potevano una volta essere ragionevoli, sono ora non solo vane,  ma nocevoli e al tutto e alle parti, se ben si considerano.  Egli è per lo meno certo, ch’ella non può, come le cose  sono al presente, sperare altronde la sua salute, che dalla  concordia e dall’unione de' suoi principi. Il comune e  vero interesse suol riunire anche i nemici: non avrà egli  forza da riunire i gelosi ?   Rettor del Cielo, io chieggo  Che la pietà che ti condusse in terra.   Ti volga al tuo diletto almo paese » ».    Al Genovesi dunque, il più filosofo dei grandi riformatori italiani del Settecento, spetta il merito di essere stato  il più italiano di tutti. Egli scosse il petto dei giovani, e  vi infuse una fede nella civiltà che è scienza ed è libertà.  Egli indicò agl’ Italiani 1 * Italia, che non c’era, ma co-1 Carv, Storia del Comm. della Gran Bretagna, Napoli. Pagina celebre dacché il Carducci l’ebbe inclusa nelle sue Letture del  Risorgimento Italiano.minciava a presentirsi, ed egli l’annunziò, insegnando  come le si potesse preparare la via. E la sua voce si riper¬  cosse di generazione in generazione, finché l’Italia venne.  E venne per la via che egli aveva aperta: riavvicinando  la letteratura alla vita, la filosofia all'uomo, ammazzando l’accademia e l’ozio ancorché dotto ed elegante,  educando il popolo a credere nella cultura, a servire  l’ideale, andando incontro per esso anche alla morte.  Fulgido esempio i martiri. Stato laico e veramente  sovrano, religione tutta rivolta alla vita dello spirito,  libera da ogni cupidigia e pretesa mondana; libera la  ragione, rispettata come cosa sacra la scienza, e la scuola  che la promuove. E di là dal breve confine della provincia,  per l’Italiano, l’Italia grande, laboriosa, armata, consa¬  pevole di una sua missione civile. Questa la scuola del  G.. Perciò gl’ Italiani devono ricordare il suo nome;  perciò devono annoverare G., lui così  modesto, così riservato e chiuso tra la scuola e i libri, tra  i padri della patria. E nella scuola italiana particolar¬  mente deve esser ricordato come esempio ed ammonimento  contro la pseudoscienza astratta dalla vita sempre rina¬  scente. Poiché i frati, che punzecchiarono in vita Antonio  Genovesi e furono perseguitati dalla sua dialettica e dal  suo frizzo, hanno cambiato veste, e non natura. E contro  di essi bisogna ancora combattere, ancora difendersi.  Perciò Genovesi è vivo.  G. Nasce a Castiglione (ora Castiglione del Genovesi), piccolo paese dell'Appennino campano a pochi chilometri da Salerno, primogenito dei quattro figli di Salvatore e di Adriana Alfenito. La famiglia, un tempo benestante, era decaduta da "civile" in "basso" stato, e viveva con i modesti proventi del lavoro del padre calzolaio e di una piccola proprietà. Allo sforzo di recuperare una condizione economicamente più solida e socialmente più prestigiosa, nonché alle strategie familiari in uso nella società del tempo e della zona, si deve la precoce destinazione del G. alla carriera ecclesiastica, realisticamente accettata dal ragazzo come unica strada percorribile per accedere agli studi superiori e a una professione intellettuale, per la quale si sentiva particolarmente tagliato, poi vissuta sempre con autentica adesione a una religiosità profondamente sentita. Affidato a parenti membri del clero locale, il G. compì i primi studi nel paese natio, praticamente da autodidatta, completando il corso di lettere latine a tredici anni. Seguirono tre anni dedicati alla filosofia, dapprima quella scolastica, per la quale maturò un rapido rifiuto, poi quella cartesiana, sotto la guida di un medico suo parente, Niccolò Genovesi, a sua volta allievo del medico cartesiano napoletano N. Cirillo. Le due autobiografie redatte dal G. e rimaste incompiute e inedite in vita (la prima si ferma al 1748: Autobiografia I, in P. Zambelli, La formazione; la seconda al 1755: Vita di A. G., in Illuministi italiani) ci trasmettono il ritratto di un adolescente vivace, intelligente e ricettivo, fortemente motivato allo studio per curiosità intellettuale e desiderio di primeggiare, ambizioso e abile nella dialettica. Nello stesso tempo fu iniziato al gusto della letteratura dai consigli di un altro amico del luogo, S. Parrilli; gliene derivò una passione, che durò tutta la vita, per i poemi cavallereschi, per Dante e Petrarca, alla quale seguì il nascere di un altrettanto intenso interesse per la storia.  Ma il padre sorvegliava attentamente che il ragazzo non si concedesse distrazioni. La rigidezza paterna ebbe modo di manifestarsi più duramente quando il giovane si innamorò, ricambiato, di una giovane compaesana, Angela Dragone. Per impedire che questo amore cambiasse i programmi di vita del giovane, il padre gli impose il trasferimento a Buccino (sempre non lontano da Salerno), in casa di parenti, mentre la ragazza fu costretta al matrimonio con un pastore. Il G., pur profondamente addolorato e deluso, trovò conforto nella maggiore apertura e possibilità di contatti che il nuovo ambiente, sempre provinciale ma più aperto e animato, gli offriva, e nell'amicizia con l'arciprete G. Abbamonte, che migliorò la sua preparazione classica e stimolò l'interesse per la teologia e il diritto civile e canonico. Prende gli ordini minori. Nel frattempo, spinto dalla necessità di rendersi indipendente economicamente, con l'appoggio dell'arcivescovo di Salerno Capua, che ne aveva apprezzato le doti esaminandolo per il diaconato, ottenne l'insegnamento di retorica presso il seminario della città, dove rimase due anni. Ordinato sacerdote, l'anno seguente, fornito del modesto capitale di 600 ducati ereditato da uno zio materno, insieme con il fratello Pietro, destinato alla carriera forense, si trasferì nella capitale del Regno, dove avrebbe trascorso tutto il resto della vita, allontanandosene solo per brevi periodi di villeggiatura. Abbandonato rapidamente il progetto di intraprendere anche la professione forense, che gli parve avere "poca conformità […] con le massime del puro cristianesimo" (Vita), insofferente del formalismo giuridico e dell'ambiente del foro, scelse definitivamente gli studi filosofici. Frequentò le lezioni Martino e Vico - di cui già conosce la Scienza nuova -, conobbe DORIA (si veda), si legò di amicizia con BUONAFEDE, che lo descrive, in quei primi anni napoletani, in un acuto ed efficace profilo (Ritratti poetici, storici e critici di vari uomini di lettere, Venezia). Lasciò inattuato il progetto di un'opera ispirata a Platone, La repubblica divina, per rivolgersi avidamente alla cultura anglo-olandese, ai neoplatonici di Cambridge, a J. Le Clerc, a Newton, a Locke (progettando una traduzione dal francese del Cristianesimo ragionevole), al giusnaturalismo. Nel 1739 aprì una scuola privata, in cui insegnare i suoi "nuovi piani di filosofia e di teologia", in particolare il "piano di un'etica" (Vita), frutto delle riflessioni di quegli anni. Cominciò a maturare in quest'esperienza - che durerà tutta la vita - la vocazione pedagogica che caratterizzerà tutta l'attività del G. e che si realizzerà in un metodo d'insegnamento dinamico, in cui l'ampliarsi dell'orizzonte culturale del docente sollecitava e promuoveva l'apprendimento in interazione costante con i giovani. Il carattere innovativo e il successo della scuola gli procurarono l'amicizia e la protezione di M. Cusano, di G. Orlandi e, soprattutto, del cappellano maggiore C. Galiani, autentico iniziatore della nuova cultura newtoniana a Napoli, fondatore dell'Accademia delle scienze e promotore della riforma universitaria, da poco avviata.  Attraverso il Galiani, il G. ottenne il primo incarico universitario, come professore straordinario di materie metafisiche, e cominciò a insegnare nel novembre 1745. Era nel frattempo approdato a una visione filosofica fondata su un "eclettismo programmatico", che tendeva alla serena composizione di un costante atteggiamento apologetico con la più totale disponibilità verso i portati della cultura innovatrice, di cui si appropriava con onnivora curiosità. Ne dette la prima dimostrazione nel manuale degli Elementa metaphysicae (Napoli), prima tappa dell'ambizioso progetto di un corso completo di filosofia. Proprio per queste caratteristiche, nonostante la sostanziale ortodossia e l'approvazione del revisore regio Orlandi, l'opera e duramente attaccata dagli ambienti ecclesiastici. La protezione del Galiani e la disponibilità ad accettare di chiarire le proprie posizioni in una Appendix pubblicata salvarono  G. dalla denuncia al S. Uffizio. La polemica però accrebbe la sua notorietà a Napoli e fuori del Regno; divenne abituale frequentatore del salotto letterario di M. Di Sarno, bibliotecario di José Joaquín marchese di Montealegre (duca di Salas), primo segretario di Stato. Le tesi esposte nella Metafisica attirarono l'attenzione di Conti, con il quale il G. avviò uno scambio di lettere filosofiche sulla natura delle idee, stampate (poi in Letterefamiliari, Venezia. Passa alla cattedra di etica, con buon successo per la rinnovata affluenza di studenti. Nello stesso anno pubblicò, in collaborazione con G. Orlandi, cui si devono le note scientifiche, gli Elementa physicae di P. van Musschenbroek, ai quali premise una Disputatio physico-historica de rerum corporearum origine et constitutione, agile e precisa sintesi delle idee scientifiche dall'antichità al presente. La manifesta adesione al newtonismo si colloca tuttavia ancora all'interno di una visione spiritualizzante e ortodossa, che connette la visione del cosmo di Newton al vitalismo di Cardano e di Campanella e con la platonica anima mundi. L'opera ebbe grande fortuna, come pure il contemporaneo manuale di logica Elementorum artis logico-criticae libri V(Napoli), che gli procurò gli elogi di L.A. Muratori, con il quale avviò un carteggio, quasi totalmente perduto, destinato a durare fino alla morte del modenese. Ma altri e più pericolosi attacchi si andavano preparando nel clima di scontro determinatosi a Napoli a causa del tentativo, peraltro fallito, di introdurre il tribunale dell'Inquisizione, messo in atto dall'arcivescovo cardinale G. Spinelli.  Pubblica la seconda parte della Metafisica, dedicandola a Benedetto XIV con l'evidente scopo di garantirsi un'autorevole tutela, e nel contempo portava a compimento la stesura del manuale di teologia cui attendeva dai primi anni Quaranta: gli Universae theologiae elementa. Quando si rese vacante la cattedra di tale disciplina, G. ritenne di avere giusto titolo per concorrervi con buone probabilità di successo. Ma la sua candidatura provocò violente opposizioni. In base alla denuncia di un altro concorrente, l'abate I. Molinari, la Curia romana volle esaminare il manoscritto, mentre la corte di Napoli ne affida la revisione a Barba. Nonostante i suoi timori, anche questa volta G. riusce a evitare la denuncia per eresia, soprattutto in virtù dell'appoggio dei gesuiti, ostili all'arcivescovo Spinelli, della sua personale amicizia con il padre provinciale della Compagnia e del fatto che, sul piano dottrinale, si definiva mezzo molinista in materia di grazia. Ma in questa occasione fu assai tiepido l'appoggio del Galiani, che gli impose la rinuncia non solo alla cattedra, ma anche all'insegnamento privato della teologia e alla pubblicazione degli Universae theologiae elementa, provocando la decisione del G. di abbandonare "studi sì turbolenti e spesso sanguinosi" (Vita).  Il G. continuò a insegnare etica fino al 1753, mentre proseguiva il completamento della Metafisica con un quarto volume, dedicato al giusnaturalismo. Reinterpretando Grozio e soprattutto Pufendorf, G. vede nel giusnaturalismo le basi per rinnovare un'etica razionalmente e scientificamente fondabile, in grado di definire il quadro di valori di una società mercantile, i cui problemi si venivano ormai collocando al centro dei suoi interessi. La persecuzione di cui era stato oggetto, oltre ad allargare la cerchia delle sue frequentazioni amichevoli a personaggi come Raimondo di Sangro principe di Sansevero e Felice, gli aveva offerto infatti l'occasione di entrare a far parte del cenacolo che in quegli anni si era venuto a creare intorno a INTIERI. Ormai avanzato nell'età, questo abile e fortunato imprenditore toscano, amico di C. Galiani e cofondatore dell'Accademia delle scienze, ritiratosi a poco a poco dalle sue multiformi attività, aveva raccolto intorno a sé vecchi e soprattutto nuovi esponenti dell'intellettualità napoletana, come RINUCCINI, ORLANDI, GALIANI, con i quali aveva avviato una fruttuosa consuetudine di discussione, tesa a stimolare non solo la circolazione delle idee in rapporto con la cultura internazionale, ma anche l'attività di collaboratori più giovani e la loro concreta azione nel contesto politico e sociale del Regno. Il cenacolo dell'Intieri fu infatti tra i primi a leggere e commentare l'Esprit des loisdi Montesquieu. Dalle opere e dai carteggi di quegli anni emerge con chiarezza l'auto-rappresentazione di questo gruppo di intellettuali come forza operante nel nuovo contesto politico: la ritrovata indipendenza del Regno, che appare loro come conditio sine qua non per l'avvio di un processo di cambiamento e di modernizzazione.  Vero e proprio manifesto del programma riformatore del gruppo, incentrato sull'ineludibile nesso teoria-prassi, che ne costituì la novità immediatamente percepita dai contemporanei, fu il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, maturato durante la villeggiatura nella villa intieriana di Massa Equana, e pubblicato all'inizio dell'anno seguente a Napoli insieme con il Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura di U. Montelatici e con la Relazione dell'erba orobanche di P.A. Micheli. G. operava così la sua scelta di campo, presentandosi come l'interprete più convinto di quel programma e il più attivamente impegnato nella sua realizzazione.  Requisito indispensabile per il progetto di riforma era la diffusione di una nuova cultura scientifica, economica, tecnologica, posta al centro degli interessi di una intellettualità nuova. A essa, come campo di indagine, ma anche di azione, doveva rivolgersi la "studiosa gioventù" del Regno, distolta dagli studi forensi e da speculazioni astratte, e avviata da un lato a una conoscenza cosmopolita di idee e linguaggi, dall'altro a sviluppare capacità di osservazione e di studio dei fenomeni naturali e sociali della realtà in cui viveva.  A questa istanza della cultura intieriana corrispose il progetto che meglio ne rappresentò la realizzazione istituzionale: la costituzione presso l'Università di Napoli di una cattedra di meccanica e commercio- cioè la prima di economia politica in Europa -, che Intieri volle finanziare con un lascito di 7500 ducati che garantisse una rendita di 300 ducati annui, a condizione che essa venisse affidata al G., che l'insegnamento fosse svolto in lingua italiana e che anche in futuro ne fossero esclusi rappresentanti del clero regolare. La nuova cattedra e inaugurata con grande affluenza di pubblico. G. presentò il nuovo corso con una prolusione che avrebbe poi sviluppato nel ragionamento sul commercio in universale, pubblicato in estratto e poi in apertura della Storia del commercio della Gran Brettagna scritta da John Cary (Napoli).  Questo grosso centone in tre volumi conteneva pure la traduzione dell'Essai sur le commerce d'Angleterre di V. de Gournay e G.-M. Butel-Dumont (Paris), i quali avevano a loro volta tradotto e aggiornato l'Essay on the state of England di J. Cary (Bristol), e la traduzione-rifacimento genovesiana dell'England's treasure of commerce di T. Mun (London), corredate dalle ampie e ricche annotazioni dello stesso G. e da altri suoi saggi (Ragionamento filosofico sulle forze e gli effetti delle gran ricchezze e Ragionamento sulla fede pubblica) destinati a ricomparire negli Elementi del commercio e nelle posteriori Lezioni di commercio o sia di economia civile.  Contemporaneamente G. procedeva alla stesura del suo corso biennale di Elementi del commercio, che anche nel titolo riecheggiavano gli Eléments du commerce di F.-L. Véron de Fortbonnais.  Ambedue le opere avevano un palese carattere propedeutico, non solo per i destinatari, ma in certo modo per lo stesso autore, che nel suo sforzo di informazione e acquisizione di nuove competenze sembra lavorare in parallelo con i suoi allievi e lettori. Il discorso genovesiano assolveva a una duplice funzione: definire contenuti e linguaggi della nuova cultura economica; tracciare le linee di un programma di politica economica per il governo, nel quadro dell'assolutismo illuminato, che viene considerato come la garanzia istituzionale delle riforme. Esso si articola sulla polarizzazione tra il cosmopolitismo culturale, perseguito con la consueta ampiezza e tempestività di letture, e il patriottismo, consistente nell'attenzione alle specifiche condizioni del Regno, su cui misurare l'effettiva validità degli interventi. Sul primo versante i termini di confronto scelti da G. furono la Spagna e l'Inghilterra. L'una, studiata attraverso le opere di G. Uztáriz e B. de Ulloa, per le evidenti analogie con la situazione del Regno; l'altra, proposta come il modello più avanzato di economia mercantile, nel quale erano ormai operanti le strutture della moderna circolazione di merci, monete e idee. Su di essa G. si documentava con ostinata puntualità, trovando la referenza più significativa nei Political discourses di D. Hume. L'elemento di mediazione culturale, approdo dei riformatori napoletani alla koinè illuministica degli anni Sessanta, era costituito dalle opere e dai dibattiti francesi, da J.-F. Melon a Fortbonnais, a Plumard de Dangeul. Sull'altro versante, il G. articolava una serie di proposte operative per una conoscenza sperimentalmente e statisticamente fondata delle reali condizioni del Regno (andamento demografico, natura e produttività dei terreni, configurazione della proprietà attraverso il catasto, strade e comunicazioni ecc.), cui dovevano collaborare gentiluomini e parroci, intellettuali e proprietari, creando una rete di società agrarie e scientifiche diffuse sul territorio e radicate nella società provinciale. La politica economica di un paese povero di materie prime e del tutto marginale nel commercio internazionale doveva puntare allo sviluppo qualitativo e quantitativo della produzione agricola, destinata al mercato reso libero dai vincoli interni.  L'adesione piena del G. alla liberalizzazione del commercio interno dei grani si manifestò, in concomitanza con la grave carestia che colpì il Regno, attraverso la pubblicazione dell'Agricoltore sperimentato di TRINCI (Napoli) e delle Riflessioni sull'economia generale de' grani (Napoli; traduzione della Police des grains di C. Herbert, Berlin), da lui prefati e commentati. La fiducia nella possibilità di realizzare le riforme si scontrava, tuttavia, con la crescente consapevolezza della natura strutturale degli ostacoli che vi si opponevano. La concentrazione delle terre nelle mani di una nobiltà feudale ancora detentrice di poteri giurisdizionali e di un clero numericamente eccessivo, attaccato ai propri privilegi, impediva la formazione di una proprietà contadina, che ormai appariva a G. la condizione necessaria perché si sviluppasse non solo l'iniziativa economica, ma pure l'auspicata mobilità sociale. Sono quindi i problemi della società civile quelli cui il G. guarda con maggiore attenzione nell'ultimo quinquennio della sua vita, che rappresenta un'ulteriore scansione della sua attività. Il suo impegno politico e culturale si caratterizzava per una sempre più accentuata polivalenza di funzioni, legata alla sua ormai consolidata posizione di maître à penser. All'insegnamento universitario e privato si aggiunsero infatti le consulenze per Tanucci e per la giunta degli Abusi, sui problemi più scottanti del momento: dalla liberalizzazione del commercio dei grani ai trattati di commercio, dalla monetazione alla redazione dei nuovi piani di studio per le scuole ex gesuitiche (nel quadro di una vigorosa ripresa della battaglia giurisdizionalistica per l'abolizione della cattedra delle decretali); per l'istituzione di nuove cariche in difesa delle prerogative regie, per la lotta alla manomorta. Si intensificò soprattutto l'attività editoriale, relativa alla pubblicazione di opere proprie e altrui, che investì tutti gli aspetti della sua attività di studioso e di insegnante. Ne fece parte un corso completo di "istituzioni filosofiche per i giovanetti", in italiano, articolato nella Logica (Napoli), nella Diceosina, osia della filosofia del giusto e dell'onesto (Napoli), nelle Scienze metafisiche. Contemporaneamente, il G. stendeva i Dialoghi morali e le note all'Esprit des lois.  In questo contesto si collocano le tre edizioni delle Lezioni di commercio o sia di economia civile, cui il G. lavorò direttamente: le due napoletane, e quella intermedia, promossa a Milano dall'allievo T. Odazi. Alle Lezionifanno da contrappunto, su un tema specifico carissimo al G., le due edizioni delle Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gli scienziati o gl'ignoranti, in cui la ripresa della polemica con Rousseau si amplia a un riesame critico dello sviluppo delle società umana. I testi che nascono da questa attività multidisciplinare rappresentano l'espressione più compiuta di un modusoperandi già sperimentato, fondato su una memoria interna, attraverso la quale il G. riutilizza e riorganizza continuamente i materiali della sua riflessione, in uno sforzo onnicomprensivo che tende a coagulare in una sintesi complessa, pur se talvolta ridondante, tutte le tensioni intellettuali e politiche degli ultimi anni di vita. Le ampie varianti recepiscono anche le spinte di circostanze esterne: per queste caratteristiche, le Lezioni si presentano come l'autentica summa del pensiero genovesiano, un vero e proprio work in progress di letteratura militante.  Il G. colloca le problematiche dell'economia in un più ampio quadro di considerazioni sulla società, sulle sue dinamiche, esaminate negli aspetti antropologici e psicologici, secondo una linea storicizzante alla quale contribuisce con una sua versione della teoria stadiale, per approdare a un più ampio affresco della situazione del Regno. Il confronto tra gli Elementi e le tre edizioni delle Lezioni mette in luce l'evoluzione del suo pensiero sui temi più caratterizzanti, dalla popolazione al lusso alla tassazione, e l'intensificarsi della polemica antifeudale e anticuriale. Diventa centrale il problema della comunicazione, elemento caratterizzante della società e del vivere civile e di conseguenza della lingua, alla quale dedica anche una riflessione teorica nella Logica, e dei mezzi, delle sedi, delle modalità attraverso le quali essa può realizzarsi e costituire l'asse portante della formazione dell'opinione pubblica.   La morte lo colse a Napoli il 12 sett. 1769.  Negli anni seguenti la sua opera fu oggetto di aspri attacchi e di appassionate difese, culminate nell'elogio storico dedicatogli dall'allievo G.M. Galanti (Napoli). Larga ma diversificata fu l'eco della sua opera nelle altre aree d'Italia e di Europa. Nonostante la fortuna dell'edizione milanese delle Lezioni, sulla quale furono esemplate tutte le successive ristampe, in realtà l'opera genovesiana non venne apprezzata nella Lombardia asburgica, proiettata verso la fisiocrazia, perché considerata troppo farraginosa e legata ai problemi di una società sottosviluppata. In Francia l'annunciato progetto di PINGERON di tradurre le Lezioni non ebbe seguito. In Germania, invece, vennero tradotti sia la Storia del commercio (Leipzig), sia le Lezioni, a cura rispettivamente di A. Witzmann e di C.A. Wichmann. Molto più ampia fu invece la diffusione dell'opera genovesiana, sia filosofica sia economica, nella penisola iberica. In Spagna, infatti, apparve una traduzione in castigliano delle Lezioni, a cura di V. de Villava, mentre nei paesi di lingua portoghese i suoi corsi di filosofia costituirono la base dell'insegnamento universitario per tutto l'ottocento.  Edizioni: Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli; Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Milano 1962; Della Diceosina o sia della filosofia del giusto e dell'onesto, a cura di F. Arata, Milano 1973; Scritti, a cura di F. Venturi, Torino 1977; Delle lezioni di commercio o sia di economia civile, Varese 1977 (rist. anast. dell'ed. Milano 1768); Scritti economici, a cura di M.L. Perna, Napoli; Se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati. Lettere accademiche, a cura di G. Gaspari, Carnago; Lezioni di commercio o sia di economia civile con gli "Elementi del commercio", a cura di M.L. Perna, Napoli; Dialoghi e altri scritti. Intorno alle "Lezioni di commercio", a cura di E. Pii, Napoli. Fonti e Bibl.: Le carte genovesiane conservate si trovano a: Napoli, Biblioteca nazionale, ms. XIII.B.39; ms. XIII.B.92; ms. XIV.B.53; Arch. di Stato di Napoli, Casa reale antica. Diversi, f. 868; ibid., LII, Affari gesuitici, ff. Altamura, Archivio Biblioteca Museo civico, Fondo Serena, Carte Genovesi; Arch. di Stato di Milano, Piani di economia pubblica, Autografi, 164; Arch. segr. Vaticano, Nunziatura di Napoli, Arch. di Stato di Torino, Materie economiche. Zecche e monete, n. 9. Inoltre, copie manoscritte della Theologia sono conservate a Bari, Biblioteca nazionale, ms. III.16; Ibid., Biblioteca provinciale De Gemmis, Fondo De Gemmis; Fano, Biblioteca civica Federiciana, Fondo Collegio Nolfi, ms. 9; Macerata, Biblioteca comunale Mozzi Borgetti, ms.; Napoli, Biblioteca oratoriana dei gerolamini, ms. Varie lettere sono conservate a: Firenze, Arch. stor. dell'Accademia dei Georgofili, Carteggio, b. 23; Ibid., Biblioteca nazionale, Autografi Gonnelli; Forlì, Biblioteca comunale, Autografi Piancastelli; Milano, Biblioteca Ambrosiana, Mss. Beccaria, B.231; Modena, Biblioteca Estense, MC.103.1; Ibid., ArchivioMuratoriano, filza 65; Ibid., Autografoteca Campori; Torino, Biblioteca civica, Collezione Nomis di Cossilla; Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Mss. Lettere; Racioppi, A. G., Napoli; G.M. Monti, Due grandi riformatori del Settecento, A. G. e G.M. Galanti, Firenze 1926; Studi in onore di A. G., Napoli; Villari, Il pensiero economico di A. G., Firenze 1959; A. Potolicchio, Postille autografe inedite alla "Logica" di A. G., in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche della Società nazionale di scienze, lettere ed arti in Napoli, LXXIII (1962), pp. 1-67; F. Corpaci, A. G. note sul pensiero politico, Milano 1966; O. Nuccio, Un grande riformatore napoletano. A. G.: scienza economica e problemi di rinnovamento sociale a Napoli nella seconda metà del XVIII secolo, Roma; M. Agrimi, A. G. e l'Illuminismo riformatore del Mezzogiorno, in Belfagor, Badaloni, Antonio Conti, Milano 1968, ad indicem; M. De Luca, Gli economisti napoletani del Settecento e la politica di sviluppo, Napoli, passim; M.T. Marcialis, Note sulla "Disputatio physico-historica" di A. G., in Annali delle facoltà di lettere, filosofia e magistero dell'Università di Cagliari, XXXII (1969), pp. 301-333; F. Venturi, Settecento riformatore, I, Torino 1; M. De Luca, Scienza economica e politica sociale nel pensiero di A. G., Napoli,  Garin, A. G. storico della scienza, in Id., Dal Rinascimento all'Illuminismo, Pisa 1970, pp. 301-333; R. Villari, A. G. e la ricerca delle forze motrici dello sviluppo sociale, in Studi storici; E. De Mas, Montesquieu, G. e le edizioni italiane dello "Spirito delle leggi", Firenze 1971; P. Addante, A. G. e la polemica antibayliana nella filosofia del Settecento. Contributo di ricerche storico-filosofiche, Bari 1972; P. Zambelli, La formazione filosofica di A. G., Napoli; Economisti italiani del XVIII secolo, Roma Arata, A. G.:una proposta di morale illuminista, Padova 1978 (rec. di G. Imbriglia, in Boll. del Centro di studi vichiani, X [1980], pp. 225-232); P. Zambelli, A. G. and eighteenth-century empiricism in Italy, in Journal of the history of philosophy, Piscitelli, Il pensiero degli economisti italiani nel Settecento sull'agricoltura, la proprietà terriera e la condizione dei contadini, in Clio, XV (1979), pp. 245-292; D. Demarco, Il dibattito settecentesco sulla popolazione in Italia, in La popolazione italiana nel Settecento. Relazioni presentate al Convegno su: La ripresa demografica del Settecento, … 1979, Bologna 1980, pp. 539-590; A. Pennisi, Filosofia del linguaggio e filosofia civile nel pensiero di A. G., in Le forme e la storia, I (1980), pp. 321-380; V. Ferrone, Scienza, natura, religione, Napoli, Taranto, Il progetto di G. e l'economia civile di V.E. Sergio: un modello di sviluppo borghese, in Nuovi Quaderni del Meridione; Marcialis, G. tra Wolff e Locke. Metafisica ed empirismo nella "Ontosophia" genovesiana, Cagliari, Pii, A. G.: dalla politica economica alla politica "civile", Firenze, Battista, La storiografia su G. oggi, in Quaderni di storia dell'economia politica, III (1985), pp. 277-296; M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, Firenze 1986, pp. Garin, A. G. metafisico e storico, in Giorn. critico della filosofia italiana, Bellamy, Da "metafisico" a "mercatante". A. G. and the development of a new language of commerce in eighteenth-century Naples, in The languages of political theory in early-modern Europe, a cura di A. Pagden, Cambridge, Battista, Sul popolazionismo degli economisti meridionali prima di Malthus, in Le teorie della popolazione prima di Malthus, a cura di G. Gioli, Milano; Fatica, Il lavoro come mediazione tra l'uomo "civile" e la natura: alcuni problemi di "police" in G. e nei suoi referenti culturali, in Prospettive Settanta; M.T. Marcialis, Natura e sensibilità nell'opera manualistica di A. G., Cagliari 1987; A. Pennisi, Grammatici, metafisici, mercatanti. Riflessioni linguistiche sul Settecento meridionale, in Teorie e pratiche linguistiche, a cura di L. Formigari, Bologna 1987, pp. 83-107; Id., La linguistica dei mercatanti, Napoli 1987, pp. 137-198; V. Ferrone, I profeti dell'Illuminismo, Bari, Galasso, La filosofia in soccorso de' governi, Napoli, Pagden, La distruzione della fiducia e le sue conseguenze economiche a Napoli nel secolo XVIII, in Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della cooperazione, a cura di D. Gambetta, Torino; Marcialis, Legge di natura e calcolo della ragione nell'ultimo G., in Materiali per una storia della cultura giuridica, Robertson, The Enlightenment above national context: political economy in eighteenth-century Scotland and Naples, in The Historical Journal, Perna, L'universo comunicativo di A. G., in Atti del Convegno Editoria e cultura a Napoli nel XVIII secolo, Napoli. Antonio Genovesi. Genovesi. Keywords: logica per gli giovanetti, critica della ragione economica, scambio conversazionale --. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Genovesi: critica della ragione economica” --  per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Grice e Gentile: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Enea all’inferno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taggia). Filosofo italiano. Grice: “It seems every philosopher has a catabasis – as Eneas did!” “Falamonica spends a ‘stagione’ in hell, too!” -- “I do like Falamonica – the way he makes ‘Aristoteil’ rhyme! “E vidi alfin colui, che fra’ mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e batter l’ali; / dico Aristotil.” – Grice: Falamonica is interesting: there is Socrates teaching Alcibiades, and Socrates teaching Plato, and Plato teaching Aristotle, and Aristotle teaching Alexander!” Venne in contatto coll’astrologia. Compose i Canti, poema dottrinale in terzine di 42 canti, chiaramente derivato dalla Commedia di Dante. Grice: “It is a fun philosophical comedy: “E vidi alfin colui, che fra’ mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e batter l’ali; / dico Aristotil.” Opere: “Canti. Dizionario Biografico degli Italiani. Di antica famiglia genovese, che negli anni 1460-1480 entrò nell'"albergo" dei Gentile (e da qui è l'origine del doppio cognome con il quale è conosciuto: cfr. Grendi), nacque a Genova, nella contrada di S. Pancrazio, intorno al 1450, da Pancrazio e da Violantina Piccamiglio.  Nulla si sa intorno alla sua formazione ed ai suoi studi. Il primo documento nel quale è nominato è il testamento del padre. In una data incerta della fine del sec. XV si trasferì in Spagna, dove svolse attività mercantile. Durante il soggiorno spagnolo fu tra i protagonisti della rinascita del lullismo, partecipando alle attività della scuola di Jaume Janer a Valencia. Fu promotore di iniziative editoriali, fra le quali la pubblicazione del Liber artis metaphisicalisdello stesso Janer, una sorta di summaenciclopedica del lullismo, stampata a Valencia; dalla dedicatoria apprendiamo che il F. studiò le dottrine di R. Lullo con Janer. Da un'altra dedicatoria, quella di Alfonso Proaza, un altro importante membro della scuola lulliana di Valencia, alla Disputatio Remondi christiani et Homerii sarraceni del 1510, apprendiamo che il F. si era dedicato anche a studi di astronomia e di medicina, e che sollecitò Proaza a pubblicare testi di Lullo. Il F. fu inoltre in possesso di manoscritti di Lullo, del quale subì l'influenza anche nei testi letterari di cui fu autore.  Diciotto sonetti di argomento religioso, appartenenti alla tipica tradizione poetica catalana fra XV e XVI secolo e nei quali è anche rilevabile l'influenza delle opere poetiche di Lullo, furono pubblicati per la prima volta nell'edizione di Valencia del 1514 del Cancionero general. Nell'edizione del 1520 del Cancionero (quella da noi consultata) sono suddivisi in cinque sonetti "sobre ecce homo", un sonetto "in dialogo de Dio", un sonetto "de trinitate", un sonetto "a la verge Maria par les guerres dela sglesia", cinque sonetti "en llor del glorios nom de Iesus" e cinque sonetti "en llahor del nom dela gloriosa verge Maria".  Non si sa di preciso quando il F. rientrò a Genova, dove morì presumibilmente in una data compresa fra il primo e il secondo decennio del sec. XVI.  In vecchiaia ("Lasciando a dietro il sessagesim anno") si dedicò alla stesura di un poema, che ci è stato tramandato ed è stato pubblicato con il generico titolo di Canti. In quarantadue canti in terzine, di cui il primo ha la funzione di proemio, il F. costruisce un poema dottrinale secondo il modello dantesco del viaggio nei regni oltremondani. Ma la particolarità del testo del F., cui non manca una certa abilità nella costruzione del discorso in poesia, è data dall'aver scelto come guida del viaggio proprio Raimondo Lullo, il filosofo cui aveva dedicato molti dei suoi studi durante il soggiorno spagnolo. Nei quarantadue canti troviamo trattati i temi più caratteristici della filosofia lulliana. I primi canti sono dedicati alla divisione e descrizione dell'universo ("de' cieli, de' elementi, de' minerali, de' vegetali, degli animali, dell'uomo, de' morali"), cui seguono canti sulla divinità e sul messaggio cristiano ("pronostico della cristiana religione, della divina essenza, della generazione e spirazione eterna, della creazione del mondo, della natura angelica, della incarnazione, della concezione, della passione, de' sacramenti, della predestinazione"), sull'uomo e i suoi peccati ("del divino e mondano amore, dell'usura, del giuoco, dello scandalo e della fama"), e, in ultimo, i canti del vero e proprio viaggio nei regni dell'oltretomba ("dell'inferno, del purgatorio, del final giudizio, del paradiso"). La storia del testo dei Canti è stata piuttosto tormentata: ricordati negli Annali della Repubblica di Genova di Agostino Giustiniani, già Uberto Foglietta nei Clarorum Ligurum Elogia lamentava l'inaccessibilità del testo, che si credette perduto durante i secoli XVII e XVIII. Venne data la notizia del ritrovamento del poema, che venne descritto nella Storia letteraria della Liguria da Giambattista Spotorno. Dopo alcuni saggi di pubblicazione, i Canti vennero finalmente editi, in una veste non particolarmente curata, a cura di Giuseppe Gazzino (Genova 1877). In questa edizione i Canti sono accompagnati da un canto in terzine Alla Vergine e da tre sonetti In nome di Lei, che fanno parte di quelli già pubblicati nel Cancionero.  Fonti e Bibl.: R. Soprani, Li scrittori della Liguria, Genova 1687 (reprint, Bologna), p. 49; (segnalazione in G. Spotomo, Storia letteraria della Liguria, II, Genova 1824, pp. 189-204; Giorn. stor. della letteratura ital., XIV [1889], p. 333); S. Caramella, B. G. F. (contributo alla storia del lullismo nei primordi del Cinquecento), in Dante e la Liguria. Studi e ricerche, Milano 1925, pp. 127-176; E. Levi, Un poeta italo-catalano del Quattrocento, in Estudis Universitaris catalans, XXII (1936), pp. 681-685; M. Battlori, El lulismo, en Italia, in Revista de filosofia, II (1943), pp. 504 ss.; D.W. McPheeters, The Italian poet and lullist B. G. in XVIth century Valencia, in Symposium; Zambelli, Il De audito cabalistico e la tradizione lulliana nel Rinascimento, Firenze 1965, p. 127; L. Grillo, Seconda appendice ai tre volumi della raccolta degli Elogi di liguri illustri, Genova 1976, pp. 183 s.; M. Pereira, Bernardo Lavinheta e la diffusione del lullismo a Parigi nei primi anni del '500, in Interpres, V (1983-1984), p. 256; E. Grendi, Profilo storico degli alberghi genovesi, in Mélanges de l'Ecole Française de Rome, M.-A., - Temps modernes,CRIT ICA. SOPRA UN POEMA di Bartolommeo Falamonica. N o n sono che pochi anni dacchè si scopri un poema di B a r tolomeoGentile Falamonica,uomo ligure,daluiscritto tra il 1470 e il 1490. Il Giustiniani e qualche altro G e novese aveano parlato di quell'uomo con assai lode ; m a deploravano la perdita di quella Opera sua , che andava smarrita. Il sig. Spatorno nella recente sua Storia lette raria della Liguria dà un'analisi di quel Poema,che merita per,ognirispetto d'essere conosciuto.Il manoscritto oggi trovasi presso il marchese Giancarlo di Negro , p a trizio genovesc, amatore e cultore di ogni ottimo studio. Il poema del G. non ha titolo. La materia dice Giustiniani ė tutta filosofica, con interpretazione di leggi pontificie e cesaree. Lo stesso attesta Spatorno. L'A.incomincia dal favellare de'Cieli; e iprimi suoi versi sono questi: Nel tempo che s'inclina ilfiore e l'erba, 38 TARIETA': WY > Perdar lecarespoglieal'aspraterra, Partendo dalla età dolce e superba , Lasciando addietro il sessagesim ' anno ... Vedea che l'error m 'avea condotto 39 Aristotil ... Intanto gli apparve dalle parti occidentali una gran Stella in formadiromito,dinome Raimondo (Lullo) spiegò il suo desiderio di conoscere la verità , e di lasciare alcun vestigio di sè dopo morte ; e Raimondo disse:stasecuro. e lo condusse al Sole,acciò lo guidasse ne'Cieli. Per man mi prese  Tornava senza onor dallamia guerra Con tutte mie speranze sparse al vento , De'miei passati giorni indarno spesi, Ch'ogni piacere in me restava spento... 2 motor che mi costrinse il senso E mi condusse in una oscura valle. Iviilpoetaudìprimaun suonodiguerra;poiunaltro come di favelle che parlavano del Cielo e della Terra. e > Nel Il Canto vede Saturno, poi Marte, poiGiove; e il Sole gli dice : Già presso al fin che tutto il mondo atterra. Allor mi ritrovai tutto scontento A volgerealmioverobenlespalle... Ed eccouscir del Ciel, nonsosiofalle Un gran E vidi ch'eran Spirti in quel deserto Qual dicea in prosa, e qual cantava in versi. E conobbe tutti esser poeti , e in tanto numero E vedi alfin colui che fra'mortali Più degno par di tutto quel Collegio , Levarsi contra tutti e batter l'ali , Questa è la introduzione , e costituisce il primo Canto del Poema. Nel II Canto si trova in luogo , dal quale si vede sotto i piedi la Luna e i Pianeti; e sentiva il movimento delle sfere.VideilcerchiodelleStellefisse edaciòprende occasione di parlare degli Astronomi , il più moderno dei quali è il Regiomontano , morto nel 1476, ed afferma non essere possibile l'eternitàdel mondo. Ma qui conviene omai fermar le piante Ch'ionon potreidituttiinomidirti. Ne dice però una lunga lista di greci e latini: nd ram menta alcun italiano. "Ei li lasciò tutti per gire a' filosofi, tra i quali dà il primo luogo ad Aristotele, di cui dice   Perquellestradeluminose e.terse Ch'ionon potealasciarlavia serena. Il Sole dà al poeta un de'suoi rai, onde possa vedere gli oggetti terreni. E inquesto Canto, e nel VI parla dell'aria,!della dell? E la lussuria il buon smeraldo affrena; Vedi l'assenzio,ch'apre e scalda e sciolve: Che già della bell'arte han fatto vizio... Vacuando idenari,e non gli umori. Nel Canto IX ragiona della vitasensitiva degli animali e delleproprietà delle varie specie. E le cicogne d'empietà nemiche... ecc. d'onde prende occasione di parlare della empietà degli u o mini, Che gli uomini son fatti fere ed orsi: Qual strazia , qual uccide, qual graffigna. Cosi servate son le sacre norme. Le cose accennate formano la prima cantica del poema ; ed incomincia la seconda parlando dell'uomo. Alzato già del Ciel a tanto lume , acqua e del fuoco. Nel VII parla de minerali,e delle supposte aque? tempi meravigliose virtù delle pietre preziose ,dicendo terra , Stringel'acanto> e falevenesalde; Tempo era omai d'entrar nel mio volume : Dove trovai del mondo tanta parte· Finchè io ti mostri la mia casa propria. Nel Canto IV visita Venere, Mercurio, e la Luna ; e fa molte dimande di fisica, elerisolvecolla dottrinape= ripatetica che allora correva. Nel canto V parla degli elementi ; e vi s'introduce così: Era mia vista di luce si piena, Son gli ametisti incontro all'ebriopoto , Contra ilvenenoilgran giacinto è noto. Nel Canto VIII parla della vegetazione, e delle proprietà vereo immaginarie dellepiante. Torna l'altea la gran durezza in polve. cec. E contro i Medici. Falcon leale,eladralaperdice... Adulterate son le cose sante ... La genteritornatasimaligna, Come si mostra in le passate carte , Ch'io vidi in lui siccome linea al punto Quanto Dio crca , e quanto poi comparte ,   Ogni mondana ed immortal bellezza ... Nel Canto Il parla della immortalità e libertà dell'ani ma ,e delle idee e degli affetti. Ogni pensier, e quanto qui s'adopra opra In questa nostra carne per sua forina (l'anina) Il lume della vita è la scienza .. Questa partefilosoficaè chiusa con un pronostico della Religione cristiana. Il Genio del Sole lascia finalmente il poeta ;e come questi nell'accomiatarsi sentendo una voce terribile, abbraccia spaventato il suo duce , esso sdegnato Come uomo irato qui fra noi s' incende , si volge al'Eterno, e lo prega di far sentire l'indigna zionesuaalla Terra piena di tirannide, disimoniayd'inu gratitudine e di avarizia. Han fatto un altro Dio tutto mondano ; Creato per usanza un'altra legge; E posto in terraallorquando s'aggiorna  O somma vita, dove son raccolte Ligate qui col tempo , e là disciolte ; Eterno libro , in cui si nota e scrive E posto già il tuo nome tutto in vano. E commette al poeta di palesare queste cose a tutto il mondo escriverlealettered'oro;minacciandochese gliuomini non ritornano buoni, saranno preda dei Maomet tani,che alloraaveano presa Otranto.Questa secondaCan ticatermina coi seguenti versi. Che nulla per di fuora par si scopra. Nel I I I Canto espone il difetto delle virtù , e spezialmente della carità , onde l'anima va dannata. Chiudendo incrudel pianto sua giornata. 1. Canti I V , V e V I trattano di cose morali . Nobil naturà , in cui si trova giunto Le vitenostrepriache insesienvive, Per l'alme che lassù si fanno dive ; Fammi sentir sìcome dentro s' Mortal non è colui che mai non erra . Ch e per ricchezza l'uom non è giocondo : Un fonte di sospetti è signoria... Seguilipochi,e non lavolgargente... Da poimi vidituttii sensi presi: Con un gridar che uscia da que'paesi Oh ! mondo pravo , torna , tornia, torna.   Ed ecco allor m'apparve quel divino Miomastroantiquo (Lullo). I Canti I e II trattano della essenza divina secondo la dottrina e le sottigliezze degli Scolastici. Nel Canto III il poeta si sforza di mettere in versi la generazione del Verbo, e la spirazione eterna,giusta gli astrusi concetti delle scuole. NelIVragionadellacreazionedelMondo;nelV della natura angelica con tutte ledivisioni gerarchiche. Nel VI e VII tratta della incarnazione del Verbo. Poi dellaconcezione, seguendolanotasentenzadiScoto Più degno, più eccellente, più gentile , Di non veder la sua vision divina fermazione,dellaEucaristia, dela Penitenza,edelleIna dulgenze. Nel Codice autografo , dice il sig. Spatorno , è Jasciato in bianco ciò che apparteneva agli altritre Sacra menti.Favellaposciailpoeta dellapredestinazioneedel l'amore divino emondano. Quest'ultimo lo ispira contro Usura in pravi volentier s'annida ... E cresce questa piaga al mondo ognora. Quanto son pianegià le vie di morte ! Ne’susseguenticanti inveiscecontro ilgiuoco; indi ra. giona delloscandalo e della fama. La terza parte del Poema ha per soggetto ilMondo ir. visibile, e comincia dall'Inferno.  E più decente ancora all'Infinito. Della più mite dottrina poi si mostra seguace rispetto ai fanciulli morti senza battesimo. Che poco curan giàdiveder Dio Di quanto in sè contien filosofia. In due Canti espone la passione del Redentore ; nè pia. ceranno a tutti le disperazioni della Vergine a piè della croce.In duealtriCanti ragiona delBattesimo, dellaCon I La Cantica terza abbraccia la parte teologica ; e comin cia così. Eragià fattosicom'uom selvaggio. Non hanno danno alcun , se non quel bando Giocando insieme tutti e giubilando , Non hannopiù sospiro alcun,nè stento, E sono al lor parer si gloriosi Siccome fanno al mondo i più viziosi. E lisuppone occupati M Busura.   Secondo differenzia di peccati. A guardia de'superbistannoileoni,de'lasciviiporci; de'golosi gli orsi: Viensi poial Giudizio universale Così montaro inCiel disquadrein squadre. Ilpoema si chiude col Paradiso partito in seicapitoli. Nel I si parla della felicità de'Giusti. Nel IIsono ricor datituttiipiùcelebripersonaggi dell'anticaalleanza;fra quali ètaciuto diSaloinone,che secondo l'opinionedel b.Alessandro Sauli si teneva per dannato. NelIII si trattadegli Apostoli, dei Discepoli e degl'Innocenti, Nel IV parlandosi de' Martiri cosi dice di S . Lorenzo . Felice tu , mia Genoa , che l'onori , Eccelso cavalier di Cristo atleta. Giorgio chiamato, e vera insegna e duce Di nostra gran Liguria. Flegias,Cocito,furie d'Acheronte, Aletto con Megera e Tesifone. Lascio la Stige , e Lete , e Flegetonte, Ed ogni simulacro de Poeti Seguendo solo l'ortodossa fonte. Ne fu già l'occhio mio cotanto ardito Il Purgatorio delFalamonica ha forma di anfiteatro; le grotte che rinchiudono le anime , sono dispostesotto gli scaglioni, e sopra questistanno demonii in sembianza di animali. La valle tenebrosa ed ipfelice D'ogni ben priva,e d'ogni male carca E le corone d'uno e d'altro impero Correr fra l'onde , e naufragar con elle ... E come il balenar seconda il tuono. M a l'invito del Giudice eterno agli Eletti, dice il signor Spatorno,sa troppodiquellelicenzedantesche pena si perdonano all'Autoredella incomparabil Commedia. E Roma,ovefursparsiisuoidolori. E di S. Giorgio. > cheap Cerbero lascio , Minos e Plutone , Da riveder qual fosse quello e questo. Cið gli frutterà guerra presso gli adoratori d'ogni cosa di Dante. Venite a me del nome mio maacipio, Diletti e benedetti dal mio padre. Che come miei fratelliio vi recipio. Felice ancor la Spagna , dov'ei nacque ,   Nel V Canto si parla ancora de martiri. Nel VI de' dottori, monaci,ronitieconfessori,ediquesti l'ul timo è s. Bernardino di Siena. Di Bernardino parlo ,che a l'uscita Di questa schiera il più moderno parve , Fra tanta moltitudine infinita. E chiama s.Anna Ava del Figlio , e Socera del Padre Miserere di un cuor che in tes'adombra ! e dichiarando di sottomettere l'Opera sua al giudizio di Santa Chiesa. G. B.  Nostro celeste in Ciel... Chiude poi ilcapitolo e tutto il poema, volgendosi a Dio , e pregandolo Ch'io la rimetto a lisuoi santi piedi. Tale è l'analisi che ci ha data del poema del Fala monica ilsig.Spatorno.Non poteva questa essere più ampia dovendo costituire parte di un articolo della sua Opera. Ma egli ha lasciato maggior desiderio del medesimo, poi chè pare anoi, che altri passi, e forse più felici, dovreb b'essocontenere, se, comedicegli, questo poemadopola CommediadiDante,eprima dell'Orlandofuriosodee tenersi per la migliore composizione poetica che in quel l'intervallo l'Italia abbia avuta. Noi speriamo che il signor di Negro lo comunicherà al Pubblico colle stampe. E vidi alfin colui che fra’ mortali più degno par di tutto quell collegio levarsi contra tutti e batter l’ali. Dico Aristotil posto in sì gran pregio di lor filosofanti un lume acceso E pur dal ciel si trova dato in spregio si ch’io restai fra me tutto sospeso con l’alma or.  Falamonica. Bartolomeo Fallamonica Gentile. Gentile. Keywords: Enea all’inferno, parodies of the Divine Comedy, Raimondo Lullo, Bruno e Lullo, il libro dell’amante e dell’amato, ars amative. Commedia filosofica.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gentile: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale --  implicatura dell’atto conersazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Castelvetrano). Filosofo italiano. Grice: “Do not multiply the senses of ‘state’ (normative, prerogative) beyond necessity.” Grice: “It’s difficult to assess the philosophy of Gentile; he is a Peirceian, like me –. He ie into ‘conventional sign’ and ‘natural sign’ – and considers intersubjectivity as a way to suprass the type of Berkeleyan idealism – his tradition is Plathegel, mine is Ariskant!” Grice: “The roots of Gentile’s philosophy are in Hegel’s logic, as are Bradley’s, Bosanquet, and Collingwood’s! – and Croce’s!” -- idealist philosopher. He taught philosophy at Pisa. Gentile rejects Hegel’s dialectics as the process of an objectified thought. Gentile’s actualism or actual idealism claims that only the pure act of thinking or the transcendental subject can undergo a dialectical process. All reality, such as nature, God, good, and evil, is immanent in the dialectics of the transcendental subject, which is distinct from the empirical subject. Among his major works are “La teoria generale dello spirito come atto puro” and “Sistema di logica come teoria del conoscere.” Gentile sees conversation is a concerted act that overcomes the apparent difficulties of inter-subjectivity and realizes a unity within two transcendental subjects. Actualism was pretty influential. With Croce’s historicism, it influenced two Oxonian idealists discussed by H. P. Grice: Bernard Bosanquet and R. G. Collingwood (vide: H. P. Grice, “Metaphysics,” in D. F. Pears, The Nature of Metaphysics, London, Macmillan). Insieme a Croce uno dei maggiori esponenti del idealismo, nonché un importante protagonista della cultura, fonda L’Istituto dell'Enciclopedia Italiana e artifice della riforma della pubblica istruzione (Riforma Gentile). La sua filosofia è detta attualismo.  Inoltre fu figura di spicco del fascismo italiano. In seguito alla sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, fu assassinato durante la seconda guerra mondiale da alcuni partigiani comunisti dei GAP. «Era un omone che ispirava grande simpatia; con la pancia incontenibile, i bei capelli brizzolati sopra un faccione rosso acceso, di carnale cordialità. Tutto fuorché un filosofo: così mi apparve, benché fossi pieno di entusiasmo per i suoi Discorsi di religione, freschi di lettura. Bonario, familiare (paternalista), mi fece l'impressione di un vigoroso massaro siciliano, che fonda la sua autorità sull'indiscusso ruolo di patriarca” (Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie. Figlio di Giovanni e Teresa Curti. Frequenta il ginnasio/liceo "Ximenes" a Trapani. Vince quindi il concorso per posti di interno di Pisa, dove si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia. A Pisa ha come maestri, tra gli altri, Ancona, professore di letteratura, legato al metodo storico e al positivismo e di idee liberali, Crivellucci, professore di storia, e Jaja, hegeliano seguace di Spaventa, che influirono molto su Gentile. Dopo la laurea, con massimo dei voti e ottenimento del diritto di pubblicazione della tesi, ed un corso di perfezionamento a Firenze, ottiene una cattedra in filosofia presso il convitto nazionale Pagano di Campobasso. Si sposta a Napoli.  Sposa Erminia Nudi, conosciuta a Campobasso: dal loro matrimonio nasceranno Federico Gentile, i gemelli Gaetano Gentile e Giovanni Gentile junior, Giuseppe Gentile, e Tonino Gentile Ottiene la libera docenza in filosofia teoretica. Ottiene poi la cattedra a Palermo, dove frequenta il circolo di POJERO (si veda) e fonda “Nuovi Doveri.” A Pisa e Roma. Insegna a Palermo, Pisa, Roma e Milano. Durante gli studi a Pisa incontra Croce con cui intratterrà un carteggio continuo. Uniti dall'idealismo (su cui avevano comunque idee diverse), contrastarono assieme il positivismo e le degenerazioni dell'università italiana. Insieme fondano “La Critica”  al rinnovamento della cultura italiana. L'attualismo ha configurazione sistematica. Divenne membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione. All'inizio della prima guerra mondiale, tra i dubbi della non belligeranza, si schiera a favore della guerra come conclusione del Risorgimento. Rivela a sé stesso la passione politica che gli stava dentro e assunse una dimensione che non era più soltanto quella del filosofo che parla “ex cathedra”,  ma quella dell'"intellettuale" militante, che si rivela al pubblico. Partecipa attivamente al dibattito politico e culturale. E tra i firmatari del manifesto del “Gruppo Nazionale Liberale”, che, insieme ad altri gruppi nazionalisti e di ex combattenti forma l' “Alleanza” per le elezioni politiche, il cui programma politico prevede la rivendicazione di uno stato forte, anche se provvisto di larghe autonomie regionali e comunali, capace di combattere la metastasi burocratica, il protezionismo, le aperture democratiche alla Nitti, rivelatosi «inetto a tutelare i supremi interessi della Nazione, incapace di cogliere e tanto meno interpretare i sentimenti più schietti e nobili».  Fonda il “Giornale critico della filosofia italiana”.  Diviene consigliere comunale al Municipio di Roma, mentre l'anno successivo viene nominato anche assessore supplente alla X Ripartizione, A. B.A ., ovvero alle “Antichità” e alle “Belle Arti”, sempre del Municipio di Roma. Diviene socio dell'Accademia dei Lincei.  G. non mostra particolare interesse nel confronto del fascismo. Fu solo allora che prese posizione in merito, dichiarando di vedere in Mussolini un difensore di un “liberalismo” risorgimentale nel quale si riconosce.“Mi son dovuto persuadere che il ‘liberalismo’, com'io l'intendo e come lo intendeno gli uomini della gloriosa destra che guida l'Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge, e perciò nello stato forte, e nello stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato in Italia dai ‘liberali’, che sono più o meno apertamente contro di Lei, ma per l'appunto, da Lei.” (Lettera a Mussolini). All'insediamento del regime viene nominato ministro della Pubblica Istruzione, attuando La Riforma Gentile, fortemente innovativa rispetto alla precedente riforma basata sulla legge Casati di più di sessant'anni prima! Diviene senatore del Regno. Si iscrive al Partito Nazionale con l'intento di fornire un programma ideologico e culturale. Dopo la crisi Matteotti, date le dimissioni da ministro, Gentile viene chiamato a presiedere la Commissione dei Quindici per il progetto di riforma dello Statuto Albertino (poi divenuta dei Diciotto per la riforma dell'ordinamento giuridico dello stato). Resta fascista e pubblica il “Manifesto degli intellettuali” in cui vede la filosofia come un possibile motore della rigenerazione degli italiani e tenta di collegarlo direttamente al Risorgimento. Questo manifesto sancisce l'allontanamento di Gentile da Croce, che gli risponde con un tipico “contro-manifesto”. Promuove la nascita dell'Istituto di Cultura. Per le numerose cariche, esercita un forte influsso sulla cultura italiana, specialmente nel settore filosofico. È imembro dell'Istituto Treccani. A Gentile si devono in gran parte il livello culturale e l'ampiezza della visione dell'Enciclopedia Italiana. Invita infatti a collaborare alla nuova impresa 3.266 filosofi di diverso orientamento, poiché nell'opera si deve coinvolgere tutta la cultura italiana, compresi molti studiosi notoriamente anti-fascisti, che ebbero spesso da tale lavoro il loro unico sostentamento. Riesce in tal modo a mantenere una sostanziale autonomia, nella redazione dell'Enciclopedia Italiana, dalle interferenze del regime. È coinvolto nell'istituzione del Giuramento di fedeltà al regime che causerà l'allontanamento di alcuni dall'Università.  Inaugura a Genova l'Istituto mazziniano. Fonda il Centro nazionale di studi manzoniani. Fonda la Domus Galilaeana a Pisa.  Non mancano comunque i dissensi col regime. In particolare, la sua filosofia subisce un duro colpo alla firma dei Patti Lateranensi tra il cattolicesimo e lo stato. Sebbene riconosca il cattolicesimo come una forma della spiritualità, ritiene di non poter accettare uno stato NON laico. Questo evento segna una svolta nel suo impegno politico militante, è inoltre contrario all'insegnamento del cattolicesimo nel ginnasio e nel liceo. Il Sant'Uffizio mette all'”Indice” le sue opere a causa del loro riconoscimento, nel solco dell'idealismo, del cattolicesimo come una mera "forma dello spirito” -- totalmente inferiore alla filosofia: ‘theologia ancilla philosophiae.” “La mia religione, in cui vi sono anche alcune velate critiche al cattolicesimo e ispirata da Alighieri, Gioberti e Manzoni.” Degna di nota anche la sua difesa di Bruno, il filosofo eretico condannato al rogo dall'Inquisizione, al quale dedica una apologia, impegnandosi anche presso Mussolini perché la statua di Bruno in Campo de' Fiori e opera dello scultore anticlericale Ettore Ferrarinon fosse rimossa, come richiesto da alcuni cattolici. Comincia una lunga polemica contro Vecchi, che Gentile accusa di “inquinare la cultura”.“Roma non ebbe mai un'idea che fosse esclusiva e negatrice.”“Roma accolse sempre e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e popoli.” “Così poté attuare il suo programma di fare dell'urbe, l'orbe.” “La Roma antica volgendosi con accogliente simpatia e pronta e conciliatrice intelligenza a ogni persona a ogni forma di vivere civile, niente ritenendo alieno da sé che fosse umano.”“Sono i popoli – come i longobardi! -- piccoli e di scarse riserve quelli che si chiudono gelosamente in se stessi in un nazionalismo schivo e sterile.”In La mia religione dichiara di essere credente nello stato laico – ‘stato no laico e una contradictio in terminis’ --  Nel Discorso del Campidoglio esorta all'unità. Si ritira a Troghi, dove filosofa su la “Genesi e struttura della società” nel nel quale teorizza su la politica dell’umanesimo. Considera “Genesi e struttura della societa” il coronamento dei suoi studi speculativi tanto che mostrando il manoscritto, scherzando disse. "I vostri amici possono uccidermi ora se vogliono.”“Il mia missione nella vita è compietata.”La caduta di Mussolini non preoccupa particolarmente Gentile che intese il tutto come un avvicendamento al governo. Inoltre la nomina nel primo governo Badoglio di alcuni ministri che precedentemente erano stati suoi collaboratori lo conforta. In particolare la amicizia con Severi spinse Gentile ad inviargli una lettera di auguri per la nomina e a sottoporgli alcune questioni rimaste in sospeso con il governo precedente.  Severi rispose a G. lanciandogli un duro e inatteso attacco. Travisandone volontariamente i contenuti evitando però di renderli noti avvalorò l'idea che Gentile gli si fosse proposto come consigliere ponendolo quindi in obbligo a respingerne la proposta. G. replica a Severi e rassegna le dimissioni da Pisa. G. respinse in un primo tempo la proposta di Biggini di entrare al Governo, dopo un incontro con MUSSOLINI sul lago di Garda si convinse ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Divenne presidente della Reale Accademia d'Italia, con l'obiettivo di riformare L’Accademia dei Lincei che e assorbita dall'Accademia. Venne qui tempo fa un amico a cercarmi, ed io dissi francamente i motivi politici per cui desideravo restare in disparte. Ma egli mi assicura che io potevo benissimo restare in disparate. Ma dovevo fare una visita al mio amico che desidera vedermi ed era addolorato di certe manifestazioni recenti, ostili alla mia persona. Negare questa visita non e possibile. Feci comodamente il viaggio con Fortunato. Ebbi un colloquio di quasi due ore, che fu commoventissimo. Dissi tutto il mio pensiero, feci molte osservazioni, di cui comincio a vedere qualche benefico aspetto. Credo di aver fatto molto bene all’Italia. Non mi chiese nulla, non mi fece offerta. Il colloquio fu a quattr'occhi. La nomina fu poi combinata col ministro amico e portata qui da me da un Direttore generale. Non accettarla sarebbe stata suprema vigliaccheria e demolizione di tutta la mia vita. Sostenne la chiamata all’armi e la coscrizione militare nell'esercito della RSI, auspicando il ri-pristino dell'unità nazionale sotto la guida ancora una volta di Mussolini.  Intanto il figlio, Federico G., capitano d'artiglieria del Regio Esercito, e internato dai tedeschi in un campo di prigionia a Leopoli in condizioni particolarmente severe. F. G. e l'unico ufficiale italiano del campo a non ricevere la posta di ritorno. F. G. aveva aderito alla RSI, ma non aveva accettato l'arruolamento nell'Esercito Nazionale Repubblicano, preferendo tornare in Italia da civile. G. elogia pubblicamente al condottiero della grande Germania, e lodando l'alleanza italiana con le Potenze dell'Asse. Pochi giorni dopo, Federico G., venne trasferito in un campo meno duro. Infine, gli e permesso il ritorno. Per il suo appoggio dichiarato alla leva per la difesa della RSI, riceve  diverse missive contenenti minacce di morte. In una in particolare era riportato. Tu sei responsabile dell'assassinio dei cinque. L'accusa e riferita alla fucilazione di cinque renitenti alla leva rastrellati dai militi della R. S. I. -- fucilazione orchestrata da Carità, che detesta G., ricambiato. Ha infatti minacciato di denunciare le eccessive violenze del suo reparto allo stesso MUSSOLINI. G. non e assolutamente collegato con tale evento. Il governo repubblicano gli offre quindi una scorta armata che però G. declina. Non sono così importante, ma poi se hanno delle accuse da muovermi sono sempre disponibile. Considerato in ambito resistenziale come il filosofo del regime, apologo della repressione e di un regime ostaggio di un esercito occupante, è ucciso sulla soglia di Villa di Montalto al Salviatino, da gappisti di ispirazione comunista. Il commando si apposta circa nei pressi della villa. Appena giunse in auto, il gappista Fanciullacci si avvicina, tenendo sotto braccio un saggio di filosofia – “Apperance and Reality,” di Bradley -- per nascondere la rivoltella e farsi così credere un filosofo. Abbassa il vetro per prestare ascolto. E subito raggiunto dai colpi della rivoltella. Fuggito il gappista in bicicletta, l'autista si diresse all'ospedale Careggi per trasferirvi il filosofo moribondo. G., colpito direttamente al cuore e in pieno petto, in breve spira. E un episodio che divide lo stesso fronte di resistenza e che è al centro di polemiche non sopite, venendo infatti già all'epoca disapprovato dal CLN toscano con la sola esclusione del Partito Comunista, che ri-vendica l'esecuzione. E sepolto nella basilica di Santa Croce, il foscoliano tempio dell'itale glorie. Dopo l'attentato, le autorità della R. S. I.,  dopo aver sospettato all'inizio lo stesso Carità promisero mezzo milione di lire in cambio di informazioni su Fanciulacci.Venne disposto l'arresto di cinque, indicati da come i mandanti morali. Grazie al diretto intervento della famiglia, gl’arrestati sono rimessi in libertà. All'interno di Santa Croce si inaugura un convegno di studi gentiliani. La filosofia di G. e da lui denominata “attualismo” o idealismo attuale.L'unica vera realtà è un “atto” puro del «pensiero che pensa», cioè l'auto-coscienza, in cui si manifesta lo spirito che comprende tutto l'esistente.Solo quello che si realizza tramite lo spirito rappresenta la realtà in cui il filosofo si riconosce. Il Pensiero è attività perenne in cui all'origine non c'è distinzione tra “soggetto” e “oggetto” – dunque l’intersoggetivita e un pseudo-problema. Avversa pertanto ogni dualismo rivendicando il monismo e l'unità di natura (corpo, materia) e spirito (anima, forma) (monismo).Al'interno, assieme al primato, la auto-coscienza è vista come “sintesi” della tesi del soggeto e l’antitesi dell’oggetto.Questo e un atto in cui il primo, la tesi, il soggetto, pone se stesso e pone il secondo (auto-concetto).In ciò consiste l'”autoctisi” –Non hanno quindi senso un orientamento solo spiritualista o solo materialista (naturalista).Non ha senso la divisione netta tra spirito (l’astratto) e materia (astrazzione) del platonismo, in quanto la realtà è Una.Qui è evidente l'influsso dell’aristotelismo (hyle-morphe) e il panteismo rinascimentale e anche dell’ “immanentismo” (contro il transcendentalismo) più che dell'hegelismo.Di Hegel, a differenza di Croce, che era fautore di uno storicismo assoluto (o idealismo storicista), per cui tutta la realtà è “storia” e non “atto” in senso aristotelico (energeia/dunamis – actus – cf. Grice, “What is actual”), non apprezza tanto l'orizzonte storicista, quanto l'impianto idealistico relativo alla auto-coscienza.La auto-coscienza è considerata il fondamento del reale. Anche vi è un errore in Hegel nella formulazione della “dialettica”. Ma questo non consiste unicamente, come afferma Croce. Croce infatti sostiene che "tutto è Spirito". La critica di Croce non è sufficiente.Gentile sostiene che Hegel confunde la dialettica del “implicare” (‘impiegare”) (che ha individuato correttamente) con la dialettica dell’ “implicatum” ‘empiegato’. Lascia forti residui della dialettica dell’impiegato,cioè quella del determinato e delle scienze. Gentile inoltre non accetta la “dialettica dei distinti” (A distinto da B) che Croce, in base al adagio che "non ogni negazione è opposizione") introduce posto accanto alla “dialettica degli opposti" (A opposto B). Infatti G.  ritiene la ‘dialettica dei distinti’ un'aggiunta arbitraria, che snatura la dialettica propria.Questa invece si esplica in un “atto” in cui utilizza la dialettica (A opposto B, sintesi C) in un atto puro.Questa dialettica si esplica quindi nel rapporto dell’impiegare e l’impiegato.Recuperando La Dottrina della scienza di Fichte, Gentile afferma che lo spirito (anima, forma) è fondante in quanto unità di autocoscienza, atto; l'atto puro –, è il principio e la forma della realtà diveniente, non esistente (Gott im Werden – dall’divenire all’essere). La dialettica dell'atto puro e l’opposizione tra la soggettività (il soggeto) rappresentata dall'espressione --  intention-based semantics -- (tesi) e l'oggettività (oggeto) – cf. inter-soggetivo -- rappresentata dal positivism scientism. (antitesi), cui fa da soluzione nell’atto puro (sintesi). L'atto puro si fonda sull'opposizione della «logica del pensiero pensante» e la «logica del pensiero pensato” – cfr. implicans – implicatum. impiegatore – impiegante – impiegato --. La prima è una dialettica materiale– implicans/impiegante --, la seconda una logica formale – l’impiegato --.Gentile dedica la sua attenzione al tema della soggettività dell'espressione nel vivere del spirito. Se da un lato l'espressione è il prodotto di un sentimento soggettivo o una intenzione, dall'altro l’espressione è un atto puro “sintetico” – “composito” -- non analitico – or divisso -- che coglie tutti i momenti della vita dello spirito, acquistando dunque alcuni caratteri del questo che Grice chiama il discorso razionale o la conversazione come cooperazione razionale. Sviluppando fino in fondo la filosofia di Spaventa, la filosofia dell’atto puro, per il quale la realtà esiste solo nell'atto puro che pensa la realta.è stato interpretato come un idealismo soggettivo (una forma di soggettivismo – o intersoggetivismo), sebbene Gentile tende a respingere tale definizione, non essendo quell'atto preceduto né dal “soggetto” né tantomeno dall'”oggetto” -- bensì coincidente con l'Idea stessa, e a differenza di Fichte, in cui l'Infinito (come aveva già affermato Hegel) è un "cattivo infinito" è in realtà immanente (non trascendente) all'esperienza, proprio perché l’atto puro e creatore d una esperienza (datum). Gentile e un ideologo del regime.La filosofia politica di Gentile è  fortemente attivista e attualista (cioè trasponte l'attualismo del atto puro nel campo veramente inter-soggetivo dello scambio sociale.La politica coniughi «prassi e pensiero» (lo pratico e lo speculative) che sia insieme «una azione a cui è immanente una ‘dottrina’ condivisa.’”Essendo insoddisfatto di fronte alla realtà, in Gentile troviamo il primato del futuro, l’utopia, l’ideale regolativo. Ma, allo stesso tempo, un recupero della concezione romantica illuminsita di una Ragione intesa come Spirito universale che tutto pervade, avversa al materialismo e alla ragione meramente strumentale mezzo-fine. In questo, l’analogia con Grice e obvia. Per Gentile, ad esempio, il «modo generale di concepire la vita» proprio della sua dottrina è di tipo «spiritualistico». La dottrina non è la sola qualificazione politica che dà dello speculative.Gentile infatti e un ‘liberale’ -- nonostante sembri respingere quasi in toto il ‘liberalismo ottocentesco’ ne La dottrina del regime.Difatti la sua concezione politica riprende la concezione di Hege di un stato etico o morale -- per cui ‘libero’ (free) non è primariamente l'individuo o persona atomisticamente e materialisticamente inteso, ma soltanto lo stato stesso nel suo processo storico. Un individuo e  ‘libero’ se esplica la sua moralità nella forma istituzionale di suo stato libero -- come chiarisce nella 'Enciclopedia italiana. L'individuo esprime la sua libertà individuale personale solo all'interno di un stato libero ("libertà nella legge" – lo giuridico -- ), con ciò a dire in un contesto istituzionale organizzato (positivismo kelseniano). Un esempio di questa concezione lo si può trovare nella destra storica, la quale governa l'Unità d'Italia.Impone un governo autoritario (concezione ereditata poi dalla sinistra storica di Crispi) che riusce a moderare l'individualità dei singoli, quella che Gentile definisce come la spinta alla disgregazione.Questo modello di governo forte è giusto (lo giuridico) in quanto, per definizione, un stato libero e un stato etico, definito alla Mazzini come "stato educatore". Se Gentile voglia uno stato totalitario vero e proprio è questione invece incerta.Di certo nella sua fase prettamente del regime, Gentile fa riferimento a un ‘stato totale", l'organismo che accoglie tutto in sé.Con il regime si può avere vero "liberalismo" in quanto riporta al valore primigenio del Risorgimento. Gentile dimostra un forte approccio storicistico, secondo il quale il regime trade la sua legittimazione dalla storia, sarebbe appunto una vera fase storica, non una mera mistica o dottrina o ideologia. Il Risorgimento non e olo un'operazione politica, ma un "atto di fede".Il campione di suddetto atto di fede e Mazzini: anti-illuminista e romantico, anti-francese, spiritualista e nemico dei principi materialistici. Lo stato giolittiano rappresenta invece un tradimento dei valori risorgimentali.Per rompere questo “status quo” degenerativo del processo italiano e necessario una rivoluzione. Porta un nuovo assetto, ma anche statale, perché va a colmare una lacuna che vige nel sistema del stato. Insiste molto sulla novità di questa rivoluzione. è un modo nuovo di concepire una nazione, ha una consapevolezza mistica di ciò che sta compiendo. Un duce viene perciò dipinto come un vero eroe idealistico. La missione della rivoluzione è quella di creare l'Uomo nuovo: un uomo di fede, spirituale, anti-materialista, volto a grandi imprese. Questo nuovo tipo di uomo e anti-tetico al carattere che Giolitti tentò di imprimere a una nazione e che connota l'Italia come una nazione scettica, mediocre e furbastra. In quanto ideologo, Gentile sostiene che la dottrina revoluzionaria si deve istituzionalizzare: ciò avverrà nei fatti attraverso l'istituzione del Gran Consiglio. La dottrina si deve inoltre far assorbire dall'italianità (e non il contrario). Il fine è che nella società italiana non vi siano più contra-dizioni, nessuna differenza tra cultura italiana e cultura della dottrina. Bisogna arrivare ad una comunità omogenea e compatta anche in ambito lavorativo.  Attraverso l'istituzione della  cooperative e la corporazione, la quale deve sanare la frattura sindacati-datori di lavoro tramite la collaborazione o cooperazione di classe. Anche qua Gentile riprende le teorie di Mazzini, oltre che il distributismo. Il corporativismo (di cui le estreme realizzazioni saranno la democrazia organica e la “socializzazione” dell'economia, progettate nella R. S. I.) permette di giungere ad uno stato di fatto in cui i problemi economici si risolveranno all'interno della corporazione stessa, senza provocare fratture all'interno della società, ed evitando una lotta di classe (classe bassa, casse media, classe alta) grazie alla “terza via” della dottrina. Gentile sostenne, opponendosi all'ala estrema e intransigente l'idea una riconciliazione, la più ampia possibile, di tutti gli italiani.Pur riconoscendosi nella R. S. I., invita pubblicamente il “popolo sano” ad ascoltare “la voce della Patria”, esortandolo alla pacificazione e ad evitare una “lotta fratricida", di cui comunque non vedrà la fine.  Il gentilismo fu una delle cinque correnti culturali del regime, assieme alla sinistra "rivoluzionario" di Malaparte, Maccari, Bottai, e Marinetti; la dottrina clericale; la mistica di Giani, Arnaldo, e Mussolini; e il neo-ghibellinismo pagano di Evola. Per l'idealista Gentile, a differenza di Croce, che ritene il Marxismo solo "passione politica", causata da uno sdegno morale a causa delle ingiustizie sociali, il marxismo è una filosofia della storia derivata da Hegel. Gentile afferma infatti che la concezione materialistica della storia è costruita da Marx sostituendo la Materia -- la struttura economica -- allo Spirito. Per Hegel lo Spirito è l'essenza di tutta la realtà, che comprende la materia (all'interno della Filosofia della natura), come momento del suo sviluppo.Secondo Marx invece, avendo scambiato il relativo con l'assoluto, si finisce con l'attribuire a un mero momento (la materia, cioè, il fatto economico) la funzione dell'Assoluto che per Hegel si sviluppa dialetticamente ed è determinato a priori rendendo così determinato a priori l'empirico: la struttura economica. Nonostante che la filosofia della storia marxiana sia pertanto una errata filosofia della storia hegeliana "rovesciata", però la filosofia di Marx possiede ugualmente un pregio: è una "filosofia della prassi". Nelle Tesi su Feuerbach, che Gentile cura, il "Moro" infatti critica il materialismo volgare.Questo concepisce metafisicamente l'oggetto come dato e il soggetto come mero ricettore dell'essenza-oggetto. Nonostante ciò, secondo Gentile, Marx, attribuisce alla “prassi”, considerata come attività sensibile umana, la funzione di far derivare a torto il pensiero medesimo.I filosofo di Treviri infatti considera il pensiero una forma derivata dell'attività sensitiva e non un atto che ponga l'oggetto. Gentile sostiene invece (contro Marx e il Marxismo) come sia l'atto del pensiero,come atto puro a porre l'oggetto, e quindi, in ultima istanza, a crearlo.Gentile riflette a lungo sulla funzione pedagogica e unisce la pedagogia con la filosofia, avviando una rifondazione in senso idealistico della prima, negandone i nessi con la psicologia e con l'etica. L'educazione deve essere intesa come un attuarsi, uno svolgersi dello spirito stesso che realizza così la propria autonomia. L'insegnamento è spirito in atto, di cui non si possono fissare le fasi o prescrivere il metodo.Il metodo è il maestro o tutore, il quale non deve attenersi ad alcuna didattica programmata ma affrontare questo compito sulla scorta delle proprie risorse interiori. Programmare la didattica sarebbe come cristallizzare il fuoco creatore e diveniente dello spirito che è alla base dell'educazione. Al maestro o tutore è richiesta una vasta cultura e null'altro.Il metodo verrà da sé, perché il metodo risiede nella Cultura stessa che si forma continuamente da sé nel suo processo infinito di creazione e ri-creazione.Il dualismo scolaro-maestro (tutore/tutee) deve risolversi in unità – il dialogo socratico -- attraverso la comune partecipazione alla vita dello spirito che tramite la cultura muove l'educatore (tutore) verso l'educando (tutee – Gentile qui usa una forma romana, ‘educando’ – cfr. ‘implicandum’ -- e lo riassorbe nell'universalità dell'atto spirituale. «Il maestro è il sacerdote, l'interprete, il ministro dell'essere divino, dello spirito». Il maestro incarna lo spirito stesso, l'allievo (l’educando, il tutee, lo scolareo) deve allora entrare in sintonia nell'ascolto col maestro, proprio per partecipare anche lui dell'attuarsi dello spirito, per farsi libero ed autonomo, e in questa relazione arriva ad auto-educarsi (auto-diddatica), facendo del tutto propri i grandi contenuti presentati.Questi concetti ispirano la riforma scolastica attuata da Gentile in veste di ministro della Pubblica istruzione, anche se solo una parte furono applicati secondo i suoi desideri. Altri principi della filosofia di Gentile presenti nella riforma scolastica sono in particolare la concezione della scuola come membro fondamentale dello stato (viene infatti istituito un esame di stato che sancisce la fine di ogni ciclo scolastico, anche se gli studi sono effettuati in un istituto privato) e il predominio delle discipline del gruppo umanistico-filologico.Gentile fu ministro della pubblica istruzione e mise in atto la sua riforma scolastica, e definita da Mussolini "la più riformante delle riforme", in sostituzione della vecchia legge Casati. Essa era fortemente meritocratica e censitaria; dal punto di vista strutturale Gentile individua l'organizzazione della scuola secondo un ordinamento gerarchico e centralistico. Una scuola di tipo piramidale, cioè pensata e dedicata ai migliori e rigidamente suddivisa a livello secondario in un ramo classico-umanistico per i dirigenti e in un ramo ‘professionale’ per il popolo. I gradi più elevati erano riservati agli alunni più meritevoli, o comunque a quelli appartenenti ai ceti più abbienti. Furono istituite borse di studio perché gli studenti dotati di famiglia povera potessero proseguire gli studi (cf. Grice, a “Midlands scholarship boy bound to Corpus!”). La logica e messa in secondo piano, poiché e una materia priva  di valore universale, che ha la sua importanza solo a livello ‘professionale’.Difatti Giovanni Gentile, a differenza di Croce che sosteneva l'assoluta preponderanza sociale delle materie classiche sulla scienza, pur criticando gli eccessi del positivismo e considerando anch'egli le materie letterarie come superiori, intrattenne anche rapporti, improntati al dialogo, con matematici e fisici italiani (come Majorana, collaboratore di Enrico Fermi nel gruppo dei "ragazzi di via Panisperna", che divenne anche amico del figlio Giovanni Gentile jr., coetaneo del Majorana) e cercò di instaurare un confronto costruttivo con il scientism.L'”obbligo” scolastico fu innalzato a 14 anni e fu istituita la scuola elementare da sei ai dieci anni. L'allievo che termina la scuola elementare ha la possibilità di scegliere tra il ginnasio/liceo classico e la scuola scientifica oppure un istituto tecnico.Solo il ginnasio-liceo permette l'accesso alla faculta di filosofia nella universita di Bologna.In questo modo però viene mantenuta una profonda divisione tra classi – l’elite, la classe alta, la classe media, e la classe basssa (questo vincolo fu rimosso completamente). Ciò anda incontro alla visione patriarcale del Duce.Anche Gentile nel complesso mostrò posizioni poco ricettive verso il femminismo ("il femminismo è morto" dirà), sebbene più sfumate, sostenendo che i licei dovessero formare i "futuri capi" guerrieri.Nel triennio dell'istruzione classica viene poi introdotta, in sostituzione, la filosofia, adatta alla elite o classe dominanti e alla futura classe dirigente, ma non al popolo minuto. Gentile è un filosofo della secolarizzazione e della risoluzione della trascendenza in prassi in ciò accomunato a Marx -, determinante addirittura per lo stesso comunismo italiano attraverso la ripresa che ne fece Gramsci. Da sottolineare che già sulla rivista L'Ordine Nuovo, Gobetti nota sche Gentile «format la cultura filosofica italiana.”. Di tutt'altro avviso Sasso, secondo il quale a dover essere rivalutata non è affatto la disastrosa prassi politica di Gentile, la cui «passionale» adesione alla dottrina «fu filosofica, forse, a parole ma nelle cose no». Ciò che merita ancora di essere studiato, sostiene Sasso, è invece «la filosofia dell'atto in atto», e tra essa «e la dottrina non c'è, né ci può essere, alcun nesso». La filosofia di Gentile e la «fascistizzazione dell'attualismo» e pertanto una «deformazione dell'idealismo”. Al di là della sua appartenenza politica, si attribuisce comunque a Gentile un notevole spessore filosofico. Gentile fu fascista e pagò con la vita la sua fedeltà alla dottrina. Ma fu anche profondo pensatore. Lo riconobbero, nel primo dopoguerra, persino Gramsci e Togliatti. Per approfondire gli studi sull'opera di Gentile e create l' “Istituto di studi gentiliani” e la "Fondazione Giovanni Gentile" a Roma. La filosofia gentiliana è stimata anche dal Severino, che ravvisandovi una condivisione del sostrato filosofico tecno-scientifico del nostro tempo la considera uno dei tratti più decisivi della cultura mondiale. Gentile e certamente un romantico, forse l'ultima più vigorosa figura del Romanticismo europeo.Gli venne dedicato un francobollo delle Poste italiane, unico tra le personalità di primo piano del regime ad avere questa celebrazione da parte della Repubblica Italiana.  L'assassinio di Gentile fu una carognata ingiusta e vigliacca. Gentile non era fascista. Che gli antifascisti furono dei acasotto perché uccisero un grande e inerme filosofo mentre non ebbero il coraggio di sminare i ponti di Firenze che i tedeschi avevano minato.Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italianastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italia, Cavaliere di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania nazista)nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania). “L'atto del pensare come atto puro; La riforma della dialettica hegeliana” (Firenze, Sansoni); La filosofia della guerra; Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze, Sansoni); I fondamenti della filosofia del diritto; “Sistema di logica come teoria del conoscere; Guerra e fede (raccolta di articoli scritti durante la guerra) Dopo la vittoria (raccolta di articoli scritti durante la guerra) Discorsi di religione; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia; Frammenti di storia della filosofia”; “La filosofia dell'arte”; “Introduzione alla filosofia”; “Genesi e struttura della società” “L'attualismo V. Cicero e con introduzione di E. Severino, Bompiani, Milano  Di carattere storiografico Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca”; “Rosmini e Gioberti”; “Marx”; “Dal Genovesi al Galluppi”; “Telesio; “Studi vichiani” “Le origini della filosofia contemporanea in Italia”; “Il tramonto della cultura siciliana; Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento; Frammenti di estetica e letteratura; La cultura piemontese; Gino Capponi e la cultura toscana del secolo XIX; Studi sul Rinascimento; I profeti del Risorgimento italiano: Mazzini e Gioberti; Bertrando Spaventa; Manzoni e Leopardi; Economia ed etica; Giovanni Gentile un filosofo scomodo; L'insegnamento della filosofia nei licei; Scuola e filosofia; Sommario di pedagogia come scienza filosofica” “I problemi della scolastica e il pensiero italiano; Il problema scolastico del dopoguerra; La riforma dell'educazione, Bari, Laterza); Educazione e scuola laica; La nuova scuola media; La riforma della scuola in Italia; “Manifesto degli intellettuali”; Che cos'è la cultura? Origini e dottrina”; “La mia religione”; “Discorso agli Italiani”; “Essenza” la prima parte si trova nella Civiltà Fascista, Torino U.T.E.T.: la prima e la seconda si trovano in l’Essenza del Fascismo, Libreria del Littorio, Roma; un'altra opera in cui si trova questo testo è in Origini e dottrina del fascismo, istituto nazionale fascista di cultura, Roma; altro testo in cui si trova si intitola Lo stato etico corporativo). La filosofia del fascismo (Origini e dottrina del fascismo; si trova in Politica e Cultura, oppure lo si può trovare le libro intitolato L’Identità” un altro libro in cui si trova si chiama, Italia d’oggi, edizioni de Il libro italiano del mondo, Roma); Che cosa è il fascismo-discorsi e polemiche (Firenze, Vallecchi). Fascismo al governo della scuola; Giovanni Gentile Scritti per il Corriere. Note  Vi è chi attribuisce al neoidealismo di Gentile e Croce il motivo che avrebbe posto l'istruzione scientifica in un ruolo subordinato rispetto a quella filosofico letteraria (L'Italia della scienza negata, in Il Sole; altri invece respingono questa interpretazione, ricordando che durante l'egemonia gentiliana nacquero numerosi enti scientifici (Croce e Gentile amici della scienza, in Corriere della Sera. 10 giugno.).  Cit. di Geno Pampaloni tratta da Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Marcello Staglieno, Milano, Rizzoli. Manifesto cit. in Eugenio Di Rienzo, Storia d'Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, Cfr. Vito de Luca, Un consigliere comunale di nome Giovanni Gentile. Attività amministrativa a Roma e linguaggio politico, "Nuova Storia contemporanea", Dello stesso autore,cfr. "Giovanni Gentile. Al di là di destra e sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del ministro", Chieti, Solfanelli,,Scheda senatore GENTILE Giovanni  Paolo Simoncelli41.  Amedeo Benedetti, "L'Enciclopedia Italiana Treccani e la sua biblioteca", Biblioteche Oggi, Milano, Testo qui  Ripubblicato nel 1991 come Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, ed. Le Lettere, collana La nuova meridiana. S. saggi cult. cont.  Giordano Bruno. LE VICENDE DELLA STATUA  «De Vecchi, Cesare Maria», Treccani  Paolo Simoncelli207.  La scelta di campo, Marco Bertoncini, Giovanni Gentile, la razza e le bufale, l'Opinione, 30 marzo   Paolo Mieli, Gentile criticò in pubblico l'antisemitismo del regime. Uno sforzo vano  Paolo Simoncelli43.  Paolo Simoncelli40.  Paolo Simoncelli34.  Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo; "Giovanni Gentile" di Gabriele Turi; Giovanni Gentile in “Il Contributo italiano alla storia del PensieroFilosofia”Treccani  Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo23.  Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo24.  Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo, Luciano Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Palermo, Sellerio, Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo26.  Vettori, Giovanni G., Editrice Italiana, Roma, Simonetta Fiori, dirigere la casa editrice Sansoni esecondo la testimonianza dell'ex interermania.html Io, italiano prigioniero in Germania, in La Repubblica, Antonio Carioti, Quando Gentile s'inchinò a Hitler per salvare il figlio, in Corriere della Sera, Renzo Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi", "Historia", Raffaello Uboldi, Vigliacchi perché li uccidete?, Storia Illustrata; Arnoldo Mondadori Editore, Milano56: "Gentile, sdegnato, ha minacciato di denunciarlo a Mussolini"  Elio Chianesi, La Benvenuti non volle mai raccontare i precisi particolari, dal suo punto di vista: «Questa è una cosa che non dirò mai. Perché potrei fare rovesciare tutte le cose. Perché non è come è stato detto. Come è andata l’azione dei Gap io non lo voglio dire. Me l’hanno chiesto in tanti ma non l’ho rivelato mai a nessuno». Vedi un intervento della Benvenuti anche in M. C. Carratù ().  Paolo Paoletti, "Il Delitto Gentile" esecutori e mandanti, Ed. Le Lettere, L'omicidio raccontato da Giuseppe Martini "Paolo" uno dei due esecutori materiali"...Sicuramente (Fanciullacci l'altro esecutore) gli chiese se era il professore e subito dopo gli sparammo insieme dalla stessa parte, non attraverso i due finestrini posteriori..."  Resistenza: "Angela", la ragazza col fiore rosso  Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che Gentile doveva morire, in Corriere della Sera,  «Per fare in modo che i gappisti incaricati dell'agguato potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li accompagnai presso l'Accademia d'Italia della Rsi, che lui dirigeva. Mentre usciva lo indicai ai partigiani, poi lui mi scorse e mi salutò. Provai un terribile imbarazzo.»  (Teresa Mattei)  Luciano Canfora, "Giovanni Gentile nella RSI" in La Repubblica Sociale Italiana Poggio, Annali della Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che G. doveva morire, sul Corriere della Sera,: "L'omicidio di Gentile, anziano e inerme, suscitò una forte impressione e fu disapprovato dal CLN toscano, con l'astensione dei comunisti. Tristano Codignola, esponente del Partito d'Azione, scrisse un articolo per dissociarsi."  Maria Cristina Carratù, E dopo 70 anni nuovi scenari dietro l'esecuzione di Giovanni Gentile, La Repubblica, 24 aprile   Renzo Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi", articolo su "Historia", Ecco le carte che assolvono l'archeologo  Romano302.  Gabriele Turi, "Giovanni Gentile" Così Gaetano Gentile ricordò il suo intervento presso la prefettura: «Quella sera stessa, per desiderio di mia Madre, io mi recai dal capo della Provincia e gli parlai della voce [di rappresaglie] diffusasi in città, esprimendogli la ferma e calda preghiera di mia Madre che quel proposito, se effettivamente esisteva, venisse abbandonato e anzi gli arrestati rilasciati. Dissi anche, naturalmente, come a me sembrasse in fondo superfluo dover esprimere tale preghiera proprio in quella stanza in cui ancora quella mattina la voce di mio Padre si era levata a deplorare la tragica inutilità di un metodo, dal quale non poteva seguire che il ripetersi indefinito di una crudele successione di attentati e rappresaglie. Era ovvio poi che, indipendentemente dalla eventuale giustificazione politica o militare di atti simili, nulla del genere poteva aver luogo in occasione della morte di mio Padre, alla quale si doveva da parte del Governo e delle autorità fiorentine questo gesto di rispetto delle sue convinzioni e del suo costante atteggiamento».  Firenze: due consiglieri, via tomba Giovanni Gentile da Santa Croce, su liberoquotidiano. 15 novembre  16 novembre ).  «Attualismo», Enciclopedia Treccani  Diego Fusaro, Giovanni Gentile  Sull'importanza della riforma della dialettica idealista di matrice hegeliana in Gentile, si veda quest'intervista a Gennaro Sasso. L'intervista è compresa nell'Enciclopedia Multimediale delle Scienza Filosofiche.  Bruno Minozzi, Saggio di una teoria dell'essere come presenza pura, Il Mulino, Gentile quindi contestava a Fichte la trascendenza dell'Io assoluto rispetto al non-io, e di restare così in un dualismo,che non viene mai superato dall'attualità del pensiero, ma solo da un agire pratico dilatato all'infinito ("cattivo infinito"), fermo alla contrapposizione fra teoria e prassi, per la quale Fichte «s'irretisce in un idealismo soggettivo in cui invano l'Io si sforza di uscire da sé» (Discorsi di religione, Firenze, Sansoni).  Giovanni Gentile, Benito Mussolini, La dottrina del fascismo.  Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Marcello Staglieno, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli, Vito de Luca, Giovanni Gentile e il liberalismo, Mussolini, Gioacchino Volpe, Giovanni Gentile, Fascismo, Enciclopedia Italiana.  Augusto Del Noce, L'idea del Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni Gentile, in "Giornale Critico della Filosofia Italiana", G. Belardelli, Il fascismo e Giuseppe Mazzini  Giovanni Gentile, Manifesto degli intellettuali fascisti  Giovanni Gentile, "Ricostruire" in Corriere della Sera, Cfr. Libertà e liberalismo ("Conferenza tenuta all'Università  di Bologna"), in Scritti Politici, tratti da Politica e Cultura H.A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, Il pensiero pedagogico di Giovanni Gentile  La riforma Gentile, su pbmstoria. Si veda anche ne Il fascismo al governo della scuola, in Annali, Milano, Istituto Giangiacomo Feltrinelli,  «[Boffi:] Qual è il criterio su cui si è fondata Vostra Eccellenza nella limitazione delle iscrizioni? — Gentile: Questa limitazione non c'è nella scuola complementare come non ci sarà nella scuola d'arte e nelle scuole professionali; essa è propria delle scuole di cultura e risponde alla necessità di mantenere alto il livello di dette scuole chiudendole ai deboli e agli incapaci; dipende anche dalla riduzione del numero degli scolari nelle singole classi fatta per evidenti ragioni didattiche, quelle stesse che hanno consigliato l'abolizione delle classi aggiunte; ma soprattutto dalla necessità di consigliare agli italiani un diverso indirizzo nella loro attività.  Noi abbiamo troppi ed inutili, quando non son valenti, professionisti, ed abbiamo invece molto bisogno di industriali, di commercianti, di artieri, di minuti professionisti, che portino nella esplicazione delle loro arti e dei loro mestieri quello spirito fine della Nazione che finora li ha spinti a disertare le scuole industriali, commerciali e professionali per seguire la scuola umanistica.»  (R.Sandron, Il fascismo al governo della scuola, iscorsi e interviste, Ferruccio E. Boffi, Giuseppe Spadafora, Giovanni Gentile: la pedagogia, la scuola: atti del Convegno di pedagogia e altri studi, Armando Editore, 1997261.  Enrico Galavotti, La filosofia italiana e il neoidealismo di Croce e Gentile, Homolaicus.  Il mistero di Ettore Majorana  Eleonora Guglielman, Dalla scuola per signorine alla scuola delle padrone: il Liceo femminile della riforma Gentile e i suoi precedenti storici, in Da un secolo all'altro. Contributi per una "storia dell'insegnamento della storia" (M. Guspini), Roma, Anicia, Una parte del lavoro è stata in precedenza pubblicata, con alcune varianti, sulla rivista "Scuola e Città" con il titolo Il liceo femminile Manacorda D'Amico, Katia Romagnoli, Donne, la Resistenza "taciuta". L'esclusione delle donne nella società fascista  G. Gentile, La donna nella coscienza moderna, in La donna e il fanciullo. Due conferenze, Firenze, Sansoni, De Grazia, Le donne nel regime fascista,  G. Ricuperati, La scuola italiana e il fascismo, Bologna, Consorzio Provinciale Pubblica Lettura, De Grazia, Le donne nel regime Giovanni Gentile, La riforma della scuola in Italia, Milano citata in: Manacorda Le omissioni, qui tra parentesi tonde, sono nel testo di Manacorda. Noce, Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, il Mulino,  Giovanni Bedeschi, Il ritorno del maestro, sta in Il Sole 24 ore Domenica, 1Gennaro Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna, il Mulino,  Martin Beckstein, Giovanni Gentile und die 'Faschistisierung' des Aktualismus. Zur Deformation einer idealistischen Philosophie, in «Acta Universitatis Reginaehradecensis, Humanistica I» Filosofia: A Firenze Convegno Studi Gentiliani  Fondazione Gentile | Dipartimento di Filosofia | SapienzaRoma Liberiamo la filosofia di Giovanni Gentile dalla faziosità del '900  Emanuele Severino: Ecco perché la giovane Italia sta andando in malora, da Il Fatto Quotidiano  È Gentile il profeta del la civiltà tecnica.  «I nemici di Giovanni Gentile», puntata de Il tempo e la storia, documentario Rai  Emanuele Severino, dalla quarta di copertina de L'attualismo, Milano, Giunti,   Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli, "La partigiana Fallaci fa a pezzi l'antifascismo", pubblicato da Il Giornale.  Monografie principali Armando Carlini, Studi gentiliani,  VIII di Giovanni Gentile, la vita e il pensiero a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici, Firenze, Sansoni, Aldo Lo Schiavo, Introduzione a Gentile, Bari, Laterza, Sergio Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Milano, Bompiani, Luciano Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Palermo, Sellerio,Augusto del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione transpolitica della storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, Hervé A. Cavallera, Immagine e costruzione del reale nel pensiero di Giovanni Gentile, Roma, Fondazione Ugo Spirito, Gennaro Sasso, Filosofia e idealismo. IIGiovanni Gentile, Napoli, Bibliopolis, Hervé A. Cavallera, Riflessione e azione formativa: l'attualismo di Giovanni Gentile, Roma, Fondazione Ugo Spirito, Giorgio Brianese, Invito al pensiero di Gentile, Milano, Mursia, Gennaro Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna, il Mulino, 1998 Gennaro Sasso, La potenza e l'atto. Due saggi su Giovanni Gentile, Firenze, La Nuova Italia, 1998 Hervé a. Cavallera, Giovanni Gentile. 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Nella strada la gente ignara soffre, combatte, muore; alla .lìnestra il filosofo (che come tale deve essere puro pensiero) imperturbato, spiega, si rende conto e si frega le mani. Il vecchio ideale di Lucrezio, che è alla base della eterna leggenda del filosofo che si libera delle passioni e rinunzia all'azione per chiudersi nel pensiero: Suave, mari magno turbantibus aequora ventis e terra magnum alterius spectare laborem; non quia vexari qucmquam'st iucunda voluptas sed quibus ipse malis careas quia cernere suave'st: suavc ctiam belli certamiua magna tueri per campos instrncta tua sine parte perieli: sed nil dulcius est, bene quam munita tenere edita doctrina sapienlum tempia serena, despicere unde queas alios passimque videre errare atque viam palantis quaerere vita.e, certarc ingenio, contendere nobilitate, noctes atque dies niti praestante labore ad summas emergere opes rerumqne potiri. O miseras hominum mentes, o pectora caeca. L'etica come legge. Disciplina. Positivismo ed empirismo. Legge. Prammatismo. Prassi e teoria. -Oggetto del volere. Volontà- autoctisi. Praticità del conoscere. Unità cli teorico e pratico. L·atto. L'individuo. Senso realistico e senso idealistico della individualità. Individuo e società. Comunità immanente ali' individuo come sua legge. La comunità ideale e la gloria.  Vox populi. La concretezza dell'individuo. La conquista dei valori. li processo d<>IJa individualità. La parti­colarità dell'individuo nello spazio e nel tempo. Il carattere.Velleità, volere, carattere. Il carattere attraverso la condotta empirica. Critica del concetto della molteplicità degli atti o l'unità del volere. Presente ed estemporaneo nel carattere. Trascendentalità del carattere.Il coraggio civile. - i> La socialità origmaria.Società trascendentale o società in interiore homine. Alte" e socius. Dalla cosa al socio. Il dialogo intemo, o trascendentale. Il momento dell'alterità. La dialettica pratica. La crisi dell'Universo. sare più al clovere che ai doveri - 0. Il bene e il male. La categoria etica e l'esperienza. Dialettica dell'Io. - 3. li nulla. -Unicità della categoria logica. La legge dell'uomo: Pett.sa/ Intendere e amare. Intendere pratico. La categoria etica. Il senso morale e la sua inattualità. Dovere e doveri. - 8. Errore di metodo nell'etica. Necessità cli pen­ --Lo Stato. Concetto dello Stato. Nazione e Stato. Diritto. Governo e governati. Autorità e libertà. Il liberalismo. Etica e politica. Stato etico. Moralismo, Stato ed econoraia . Economicità dell'uomo e quincù dello Stato. - 2. Umanità dell'operare economico. - 3. Operare utilitario o utile? Umano e subumano. Il corpo e l'anima. Naturalità dell'utile. Le scienze della logica dell'astratto. Lo schema del naturalismo nella logica dell'astratto. La forma mate­ matica dell'economia. - ro. [L'utilitarismo. -L'edonismo. - 12. Moralità ed eudemonia.Natura e Spirito. Economia e politica. Stato e religione. Rapporto essenziale tra i due termiai. Laicità. Rel-igio 1nstntme111u,n regni. - 4. Immanenza della religione nello Stato. Stato e scienza. Scienza e filosofia; e rapporto di questa con lo Stato. - 2. Necessità cli questo rapporlo. Cultura. Scienze naturali. L'obbligo di critica della filosofia. Immanenza della filosofia nella politica dello Stato. Lo Stato e gli Stati. Libertà e infinità dello Stato. - 2. P!ui:alità degli Stati, unità dello Stato. - 3. Critica del punto di vista intellettualistico. Concreto punto di vista pratico.  Il riconoscimento degli altri Stati e il Diritto internazionale, - 6,_ )La guerra. -7.) La pace e la collaborazione umana. -fil Impero e ordine nuovo. Xl.-LaStoria. La Storia come storia dello Stato. Storia dell'uomo. Statolatria. Autocritica dello Stato. Rivoluzione. L'Unico.  Umansimo del lavoro. Famiglia. Categorie di lavoratori e rappresentanza politica.-LaPolitica. Definizione della politica. Etica e politica. Im­ possioilità cli un'etica apolitica. Il privato e il pubblico. La teoria dei limiti dello stato. Stato autoritario e demo­crazia. L'anarchismo e il Jiberalis1:no. Bellum omnium contra omnes. Guerra e pace.Ordine. Senti­ mento politico. Genio politico. La politica del fanciullo. La politica in ogni forma di attività umana. Politica dell'arte. Politica della scienza. Politica della lede. - 18. Chiesa e proselitismo. La dottrina della tolleranza. -La politica diritto e dovere. p. 93   l:).'DICE 19r XIII. - La Società trascendentale, la morte e l' im­ mortalità. 11 motivo della fede nell’immortalità. Immortalità e religione. L'equivoco. Illusioni. - 5. Fuga tn01-t1s. - 6. La difficoltà del problema e la soluzione. La morte. L'immanenza dell'azione.NUOVI INDIZI DI HEGELLOSIGKEIT ITALIANA Bollami dell' Università di Leida in un suo interessante opuscolo, qualche anno fa mettev a in, mostra una  lunga fdza di evidenti spropositi commessi da filosofi con¬  temporanei di ogni risma nel parlare di Hegel. E dopo  avere rilevato con 1 ’ Herbart, con l’Alexander, col Barth. col Taggart, che Hegel non concepì mai la follìa 4 Lde-  durre dal pensiero auro ciò che non è puro pensier o (realtà  naturale e realtà storica), ma volle solo sistemare logicamente, — comunque poi si giudichi questa sistemazion e e  la sua possibilità. — la cognizione necessariamente empirica della natura e della storia, soggiungeva: «Intanto  anche F. Paulsen in vólliger Hcgellosigkeit afferma (nel  suo Kant, p. 177) che Hegel deduce a priori la stessa  natura ».Di questa Hegellosigkeit, che non saprei davvero come  tradurre in italiano, di questo stato d' hegeliana innocenza,  cosi caro tuttavia agli studiosi di filosofia italiani, fu dato  recentemente dal Croce 2 qualche cenno' significativo dove  si mostrò con quanta competenza sia stato spesso giudi¬  cato in Italia 1 Hegel da quelli che volevano passare per    1 Alte I ernunft unii netto I’erstami, Leiden. Critica. Saggi critici. suoi avversari. Una prova recentissima ne ha avuta però  lo scrivente per aver curata una nuova ristampa degli Lh -  menti di filosofia 1 di Francesco Fiorentino secondo la pri¬  mitiva edizione del 1877, dall’autore più tardi parzialmente  rifatta e radicalmente mutata nell’ indirizzo dottrinale. Al¬  cuni (tra i quali uomini dotti nella storia della filosofia)  han rimproverato il nuovo editore di aver voluto dare un  Fiorentino hegeliano, laddove il Fiorentino dagli studi  degli ultimi anni della sua vita era stato costretto ad ab¬  bandonare le dottrine di Hegel per accostarsi al neokan¬  tismo. E un insegnante di liceo, a chi proponeva il libro  per testo scolastico, opponeva senz'altro ch’egli non po¬  teva adottare «un libro prettamente hegeliano!)).   Molto probabilmente l’unico fondamento di quest’as¬  serzione, che io denuncio soltanto per richiamare ancora  una volta l’attenzione sulla comune Hegellosigkeit, è in  ciò, che questo libro è stato ristampato per cura mia, e  da me consigliato ai colleghi dei nostri licei. Ma, trala¬  sciando i motivi che mi hanno indotto ad additare il ma¬  nuale del Fiorentino, nella sua forma originaria, come  l ’unico , fra quanti ne abbiamo in Italia, degna , ancoraci  es ser m esso nelle mani dei giov ani e tolto a base d’un  p j nmp~ìnsegnamento filosofico (motivi che credo di avere  sufficientemente accennati nella mia prefazione alla detta  ristampa), qui voglio solo annunziare, col debito  permesso dei colleglli accusatori, che il libro del Fioren¬  tino nella prima edizione non è punto hegeliano;  e che la differenza tra la prima e la seconda edizione non è  divario tra hegelismo e kantismo, ma tra kan¬  tismo ed empirismo spenceriano.   Poiché ne avevo l’occasione, a me parve opportuno to¬  gliere di mano ai giovani, che cominciano a riflettere su  cose filosofiche, un libro, — raccomandato al nome di  Francesco Fiorentino, per tanti titoli benemerito della cul¬  tura filosofica italiana, — nel quale s’insegnava a riflet¬  tere su verità di questo genere : « Kant intende • per a  priori soltanto ciò che non‘è derivato dalla sperienza, ma  che invece è condizione indispensabile, perchè la sperienza    1 Torino, Paravia, 1007: voi I: Psicologia e Logica  sia possibile. Egli non investiga, se questo a priori abbia  potuto originarsi da una associazione di esperienze ante¬  riori accumulate, trasmessa poi per eredità; nè poteva ai  suoi tempi, e prima del Darwin, porre il problema in questi  nuovi termini. L ’q trio ri kantiano è una funzione dell o  spinto , non già un dato : e questo ritenghiamo anche noi :  ma ciò non toglie, che pure di questa funzione si possa  cercare di spiegare la genesi», un libro, in cui si dichia¬  rava che l’d priori kantiano è una semplice fer¬  mata al concetto dell’ attività preformata a  compiere certe funzioni, senza di cui la  sperienza non si farebbe; e che « la filosofia  moderna.... domanda: come si è preformata ? E cerca di  trovar la risposta in due fattori: l’asso¬  ci a z i o n è e la eredità; la prima che accumula, la  seconda che trasmette. Per loro mezzo, l’a priori  dell’individuo sarebbe ciò ch’è poste¬  riori per la specie» (23* ed., pp. 30-31 n.).   E altrove : « Se il fine etico, che è la vita comune, è  stato il risultato di una lunga lotta per l’esistenza, è pur  sempre vero che cotesto primo acquisto viene  oggi trasmesso come eredità, che gl’in¬  dividui trovano, e non debbono più riacquistare »  tp. 288 n.). Proposizioni che si equivalgono nei due campi  della conoscenza e della pratica, e di cui lo stesso Fio¬  rentino. ci dice la fonte, dove avverte (p. 304) che «nella  filosofia dello Spencer ogni a priori è sbandito, e tutto è  spiegato con l’adattamento, o con la trasmissione eredita¬  ria ». E tutta la seconda edizione è ispirata a questo prin¬  cipio della negazione di ogni assoluto a priori: onde si  costruisce nèi primi capitoli una teoria psicologica della  conoscenza che non occorre qui valutare. Quello che non  ha bisogno certamente d’ulteriore schiarimento, è che tale  negazione dell'a priori e tale confusione del problema psi¬  cologico con lo gnoseologico, non può a niun patto ac¬  cettarsi come integrazione del kantismo.   C’era un Fiorentino, che pur poteva presentarsi ai gio¬  vani, e che io ho rimesso in luce; un Fiorentino che non  s’era lasciato sfuggire il vero punto di questa questione  fondamentale dell'a priori, che è pòi il problema di vita o di morte per Io spirito, e quindi della scienza e della  moralità Nella prima edizione lo stesso Fiorentino aveva  detto « Vuoisi avvertire, che l’o priori non si deve inten¬  dere come qualche cosa di preesistente, di preformato.... ma  come una funzione essenziale dello spirito » (nuova ediz.,  P 33 )- Aveva discusso, opponendole l’una all altra, le dot¬  trine di Kant e di Spencer intorno all’apriorità o aposterio¬  rità della coscienza, e aveva dimostrato che non se ne può  dare nessuna derivazione empirica perchè « la coscienza è un  rapporto tale, di cui nel mondo esterno non si trova il cor¬  rispondente; ed è un rapporto semplice, che non si può de¬  durre dalla risultante delle nostre rappresentazioni. L’Io, la  coscienza è originaria. 11 fondamento dell'esperienza  non può essere attinto mediante l’esperienza » (57). E questo fondamento è nella coscienza e nelle sue categorie.  « Se tutto derivasse davvero da dati sperimentali, nè l’idea  di sostanza, nè quella di causa, quali noi le concepiamo,  sarebbero ammissibili. Questo mi pare puro e schietto kantismo ; e se. il con¬  cetto d’una possibile integrazione di Kant per via delle  ricerche psicogenetiche è uno sproposito, che oggi non ha  più bisogno d'essere dimostrato tale, mi pare anche evi-,  dente che ricondurre il manuale del Fiorentino a’ suoi  principii fosse dovere imprescindibile d’ ogni nuovo edi¬  tore, hegeliano o non hegeliano. Perchè, dato e. non con¬  cesso che empiristi si possa essere per proprio conto,  certo per nessuno è più sostenibile una svista di questo  genere per cui, appunto a proposito dell interpretazione  di Kant, una questione gnoseologica si scambia con una  questione psicogenetica.   Hegel, dunque, non c’ è entrato proprio per nulla, be  ci fosse stata del Fiorentino un’edizione hegeliana ante¬  riore alla kantiana, chi sa!, avrei preferito il Fiorentino  hegeliano al kantiano. Ma gabellare per hegeliano quello  che ho dovuto e potuto scegliere, francamente, mi pare  indizio di Hegellosigkeit ! Pur troppo, anche nella prima  redazione del suo manuale il Fiorentino rende omaggio  al fantasma della materia opposta all’attività formale dello  spirito; e nell’etica, invece di correggere il timido forma¬  lismo kantiano col formalismo assoluto, crede di compierlo  con l’eudemonismo aristotelico. Non importa: sempre meglio, infinitamente meglio Kant, anche se non perfezio¬  nato, che Spencer!   Si sente, per esser sinceri, negli Elementi del Fiorentino un’eco lontana dei Principii di filosofia (1867) dello  Spaventa. Ma non più che un'eco, nel paragrafo sull’auto-coscienza. Ma, se Hegel s'avesse a rannicchiare  in quell'autoctisi della coscienza accordata con tutto  il formalismo astratto accettato e difeso dal Fiorentino,  io ritengo che potrebbero andare a braccetto con lui tutti  i kantiani più scrupolosi del mondo.Genovesi comincia a pubblicare in  Napoli i suoi Elemento, metaphysicae. Vico ha due profonde intuizioni fon¬  damentali: una intorno alla potenza costruttiva dello  spirito, per cui anticipò il principio di soggettivismo  kantiano; P altra intorno al concetto dell’ assoluto come  sviluppo nella natura e nel pensiero, per cui anticipò  il principio della nuova metafisica dimostrata dalla Lo-  >jica di Ucgel. Ne’ 6tioi Elementi di metafisica il Geno¬  vesi invece si mostra seguace di un incoerente sincre¬  tismo, in cui la monadologia leibniziana s’ accoppia con  l’empirismo di Locke. Così la tradizione del grande  pensiero di Vico è spenta sul nascere, e finita con  1’ uomo che nella solitaria meditazione del diritto, anzi  di tutto lo spirito come vive nella storia, aveva attinto  una forza speculativa che lo pose al di sopra e fuori  del tempo suo, episodio solenne nella storia del pen¬  siero italiano. Gl’ interpetri del pensiero di Vico non  furono nè i suoi coetanei, nè i suoi immediati successori  nella filosofia italiana in genere e napoletana in ispecie. La vera interpetrazione cominciò in Germania col Jacobi, 1  dopo Kant, e fu compiuta in Italia in quel fervore di  pensiero nuovo, che venne suscitato dall’ hegelismo, da  Bertrando Spaventa. Tra Vico e Spaventa — i cui primi scritti cadono  attorno al 1850, — per tutto un secolo, c’ è un’ inter¬  ruzione nello sviluppo dell’ idealismo iniziato dalle opere  di \ ico ; nella quale il pensiero napoletano si appropria ed  elabora per conto suo la moderna filosofia europea. Questo  movimento, che riempie tutto il secolo che va dalla  metà del secolo XVIII alla metà del XIX, può essere  designato dai nomi dei due pensatori che aprono e chiu¬  dono tale periodo, Dal Genovesi al Galluppi. E così  appunto s’intitola la monografia, nella quale ho cercatq  d’illustrare tutti gli studi speculativi più notevoli di  cotesto periodo. 3   Può recar meraviglia, che la ricerca sia così limitata  dentro i brevi confini di spazio accennati dai nomi stessi  del Genovesi e del Galluppi, e corrispondenti ai confini  del reame di Napoli, ila chi ponga mente alle condizioni  d Italia per tutto il tempo del dominio borbonico, alle  piofonde differenze civili e politiche e letterarie, in una  paiola, storiche, tra la parte meridionale e il resto della  penisola, troverà ovvia e storicamente esatta la linea  da me tracciata intorno ai pensatori che ho studiati e    Vedi lo scritto Voti den gòtlUchen Lìingen unii ihrer Offenbarung  (1811), in Werke, Leipzig. Sul kantismo vicinano cfr.  specialmente Tocco, Descartes jugé par Vico in Reme de métaphy-  sigue et de morale del luglio 1896, pp. 568-78, e gli scritti da me  citati nel Discorso premesso agli Scritti filosofici di B. Si’avknta Na-  poli, Vedi tfli Scritti Studi di letteratura , storia , filosofia , pubbi. da B. Crock, voi. I  (Napoli, Edizione della Critica). considerati come formanti una speciale serie storica  a sé.   3. Pel carattere generale della loro filosofia questi  pensatori costituiscono una continuata corrente di em¬  pirismo, a cominciare dal Genovesi stesso, in cui ben  presto il principio critico dominante nell’ empirismo  lockiano corrode ogni concetto metafisico, fino ad COLECCHI, filosofo abruzzese pochissimo noto  — benché i suoi scritti consacrati all’ interpretazione di  Kant, quelli specialmente relativi alla filosofia pratica,  possano ancora esser letti con profitto — il quale, pur  combattendo la «filosofia dell’esperienza» del Galluppi  dal punto ili vista del kantismo, insiste tuttavia su  talune correzioni eh’ ei vorrebbe apportare alla Critica  Mia ragion pura in un senso decisamente empirico¬  oggettivo.   Ma tutti quosti empiristi si potrebbero dividere in  due generazioni: 1 una di ideologi e l’altra di criiicisti;  e tra mezzo a queste un gruppo di seguaci della filosofia  scozzese e di eclettici. Tra gl’ ideologi scrittori come DELFICO, BORRELLI e BOZZELLI meritano  certamente di esser posti accanto agl’ ideologi contem¬  poranei francesi, ai Cabanis, ai Destutt de Tracy, coi  quali essi formano quasi una sola famiglia, rispecchian¬  done spesso il pensiero pur senza ripeterlo. Anzi il Bor-  relh e il Bozzelli stanno, 1’ uno per la sua genealogia del  pensiero (com’ ei chiamava la sua filosofia dello spirito) e  per la sua critica di Kant, e 1’ altro pel suo tentativo di  morale intellettualistico-utilitaria, al di sopra dei francesi;    di 8 ‘ ba,la a " a dala di P“*»bUM*lone delle opere   di quest! filosofi e al tempo (leir influenza da essi esercitata; giacché  per a nascita due degli ideologi furono più giovani dei criiicisti.        il cui valore nondimeno fu giustamente rivendicato nella  storia della filosofia dall’ ottima monografia del profes¬  sore F. Picavet su Les idéologues.  Una pari rivendicazione in prò dei confratelli italiani  vuol essere in parte il mio lavoro, mediante una larga  notizia e uno schiarimento delle loro dottrine. Onde ci  son rimasti documenti notevolissimi in libri ed opuscoli  estremamente rari, nelle riviste del tempo e in mano¬  scritti ancora inediti.   4. In mezzo alle due generazioni alcuni pensatori levano la voce contro le tendenze materialistiche, palesi   o nascoste, proprie del pensiero speculativo di questi  ideologi, traendo autorità e argomenti dalla filosofia del  senso comune del Reid o dall’ eclettico spiritualismo del  Cousin e della sua scuola. Non hanno nessuna origina¬  lità di dottrine : ma con le loro esposizioni e coi loro  commenti di molti libri francesi, eco, per quanto fioea,  di celebri filosofie europee, valgono a suscitare o pro¬  muovere un moto di studi e di partecipazione al lavoro  filosofico straniero, onde a poco a poco si ringagliardisce  la fibra del pensiero napoletano, e si prepara una scuola  di veramente alto e libero filosofare: da cui uscirà l’e¬  stetica di Francesco De Sanctis e la metafisica e la  storia della filosofia di Bertrando Spaventa. In questa  parte la mia monografia studia scrittori mediocri, testi¬  moni di cotesta preparazione al risveglio filosofico po¬  steriore.   5. Nella seconda generazione campeggiano due figure  principali: P. Galluppi e 0. Colecchi: due kantiani, di  cui si può dire che la vita speculativa si consumi tutta  nella meditazione del criticismo. Ed entrambi riescono  per due vie opposte al medesimo risultato, che è di  accettarlo sostanzialmente e di farne penetrare profonda¬  mente lo spirito nella filosofia del loro paese. Il Galluppi   À combatte sempre, o quasi sempre, un Kant immaginario  con le armi del Kant reale ; e il Colecchi combatte con  le armi stesse un immaginario Galluppi, o almeno un  Galluppi che non è il vero, poiché non vede di lui che  la dichiarata opposizione al kantismo, e non scorge mai  il valore intrinseco delle dottrine da lui professate. Dalla  curiosa situazione di questi due pensatori, che genera  altre false posizioni nella filosofia italiana successiva,  nascono, com’è agevole pensare, due conseguenze: 1°  che la scuola dei galluppiani continuerà a combattere  Kant e tutta la filosofia tedesca posteriore, sempre meglio  conosciuta in grazia dell’influsso francese già accennato;  2° che la scuola del Colecchi e dei tedescheggianti con¬  tinuerà per un pezzo a disconoscere il vero valore del  pensiero del Galluppi e di quella filosofia italiana, che  da lui prende le mosse : ossia della rosminiana e giobertiana.   6. Se da queste ricerche si sottrae la parte che con¬  cerne il Genovesi e il Galluppi, si può dire che esse  scoprano una regione presso che sconosciuta nel campo  della filosofia moderna. E poiché anche del Genovesi e  del Galluppi questo studio analitico della serie in cui  essi rientrano, pono sotto una luce in parte nuova e in  parte più chiara il significato e il valore, può pure af¬  fermarsi, che l’insieme di queste ricerche colmi una  lacuna nella storia della filosofia italiana, anzi della  europea. Vico, infatti, e l’interpetrazione di Vico, i due  termini al cui intervallo coleste ricerche si riferiscono,  non sono due capitoli della storia della filosofia italiana,  ma due capitoli della storia della filosofia europea: ed  è difetto gravissimo quello che può notarsi in proposito  in tutte le recenti storie straniere della filosofia moderna.  A. Genovesi, M. Delfico, P. Borrelli, F. P. Bozzelli,  P. Galluppi e 0. Colecchi sono nomi ai quali, una volta conosciuti gli scritti a cui sono legati, devesi pur  rovare un posto, e non degl’ infimi, nel quadro degli  u imi tentativi dell’empirismo naturalistico e materia¬  listico del secolo XVIII e delle feconde discussioni  suscitate dalle Critiche di Kant in ogni paese civile. « Il trionfo dell’ Idea » in Italia :   Antonio Tari e Floriano Del Zio   Fin dal 29 ottobre 1860 B. Spaventa era stato nomi¬  nato professore di Filosofìa nell’ Università di Napoli ;  e la sua nomina — scriveva a lui stesso il De Meis, da  Napoli — era stata accolta in questa città « con una  commovente impazienza dai giovani e dal pubblico ». Ma   10 Spaventa chiese ed ottenne di tornare e restare qualche  tempo a Bologna, dove nel maggio era passato, da Mo¬  dena, a insegnare Storia della filosofìa, per farvi almeno   11 primo corso semestrale e « non mancare al suo dovere  verso quella Università». A Napoli, dopo una rapida  corsa nel novembre, non andò se non negli ultimi  mesi dell’ anno appresso. Era a Torino dall’aprile, perchè  eletto deputato di Atessa (ma la sua elezione fu annul¬  lata il 25 giugno per eccedenza del numero legale di  deputati professori, * quando gli pervenne la seguente    1 Già pubblicato nella Critica del 1906; ma qui ristampato con  molte aggiunte.   * Vedi per questi particolari il mio B. Spaventa, Firenze, Vai-  lecchi, 1925, p. 109. lettera di Floriano Del Zio, che è un curioso documento  delle disposizioni degli animi verso 1’ hegelismo nella  gioventù colta di Napoli, da cui lo Spaventa era atteso :   Napoli, 30 giugno 61.   Amico carissimo,   Mi prendo licenza di togliervi con questa mia una piccola  parte del tempo che cosi lodevolmente sacrate alla scienza.   E per due ragioni. Per procurarmi il bene di aver vostre  novello, e per dirvi poi alcunché sul trionfo dell’ Idea, alla  qualo abbiamo data la nostra fede.   Sono pervenute qui in Napoli parecchie copie del nuovo  libro di Vera (V Hégélianisme et la Fhilosophie). T. lavoro  scritto con molta spiritosità, e che non solo porrà a dovere  1’ intelletto superficialissimo degli ecclettici francesi, ma farà  pure il suo buon effetto in mezzo al dilettantismo filosofico  de’ nostri dominatici. Si comincia a sentire come il Pensiero  sia P infinita misura e forza, che, battuto ogni positivismo  storico e morale, eleverà ad armonia vivente Essere e Spirito,  Natura ed Umanità. — Son persuaso p. es. che il signor Pes¬  ame, che tanto ride dell’ Jissere-per-si — e della Fila ridotta  a Pensiero da De Meis, cesserà di sparlarne così frequeu-  temeute, dopo che avrà contemplato il gaio spettacolo che ha  dato di sé Monsieur Jauet.   Come Hegel disse che ai tempi della Rivoluzione francese  una nuova vita, un nuovo sole sorgevano per risplendere in  mezzo agli uomini, noi possiamo dire che oggi il suo proprio  principio filosofico, l’Assoluto Spirito, è la forza che dovrà  consapevolmente invadere ogni cosa, e chiarificare le creature  tutte quante di un raggio della idealità infinita. Affrettatevi,  amico, a partecipare alla gran vittoria. Felice voi, che siete  sì bene apparecchiato a questa lotta, che chiude nel proprio  grembo 1’ adempimento della libertà assoluta dell’ Uomo, e  quel regno di giustizia e di amore, a cui tutte cose corrono  come al bacio dell’ Universo, giusta il bel dotto di Schiller:  Diesen Kur der ganzen IVelt !   Il punto però che nel libro del Vera avrei desiderato più  estesamente sviluppato, è quello della pluralità dei mondi. I,a  dottrina di Hegel su questa materia non può essere difesa  che movendo dal principio dell’ Unità della Coscienza di si dello Spirito, unità che, nel presupposto della pluralità de’  mondi, avrebbe fuori di sè i circoli della vita siderea oltre¬  tellurici ; e cesserebbe d’ essere in conseguenza la pieua ed  una Coscienza di sè. A questa è necessario che tutto 1* essere  sia suo sapere.   La dottrina poi dello Spirito assoluto, ne andrebbe, in quel  presupposto, interamente falsata. Noi non conosceremmo pili  l’Assoluto, come vuole Hegel, ma l’Assoluto umano. E, non  potendo darsi ripetizioni nello spirito, si dovrebbero porre,  post’ i mondi come innumerabili, intellezioni intinite, infinita¬  mente diverse, dell’ istesso Assoluto. E dove sarebbe l’idealità,  1’ unificamento di esse? Se si risponde: nell’Idea medesima  dell’Assoluto — , altri potrebbe osservare che quest’ idea ap¬  punto è quella che deve essere concreta nell’Umanità. L’U¬  nità della Rivelazione universale dello Spirito sarebbe sempre  un postulato. Krause immagina una sintesi superiore do’  pianeti e delle stelle; ma la comunione dell’Umanità terrestre  colla solare è sempre data da lui come un’ intuizione, come  un desiderio!   Anche il signor Tari, riconosce nella sua Lettera la necessità  della pluralità de’ mondi. Ma in questa ipotesi vedo sempre  che 1’ indeterminato piglia il Inogo del sistematico, e che il  fantastico si sostituisce alla scienza. Diventa oramai neces¬  sario di approfondire maggiormeute 1’ infinito matematico nel-  1’ influito filosofico, e sottomettere cosi 1’ astronomia al con¬  cetto della finalità assoluta, lo Spirito.   La lettera però del Tari appunto perchè, com’ ei dice,  tiene il germe del suo proprio sistema, avrebbe dovuto essere  più lunga e scritta più chiaramente.   Vi prego intanto mandarmi una copia della vostra prolu¬  sione alla storia della filosofia italiana, perché n’ ebbi ili dono  nell’anno scorso una copia dal vostro fratello D. Silvio; ma  quando scesi in Basilicata per 1’ insurrezione, la sperdei a  Potenza, e non ho potuto procurarmene un’ altra. Se poi con  questa mia preghiera dovessi riuscire indiscreto, allora usa¬  temi la cortesia dirmi presso chi è vendibile a Torino, perchè  sarà mia cura farla richiedere da librai napoletani.   Quando portate a stampa il vostro libro su Gioberti f Esso  dovrà levar grido straordinario, secondo che mi accennano i  comuni amici, e per quanto ancor io presagisco dal vostro  ingegno. Date presto ; e nel frattempo compiacetevi di tenermi di tanto in tanto consapevole de’ vostri stndii, e segnatemi •   quelle opere che possono concorrere all’ aumento vero della  scienza.   I miei ossequi a Tari ed all’ egregio De Sanctis. Se posso  attestarvi in alcunché la uiia devozione, comandatemi libe¬  ramente.   Vostro amico  Flokiano Dei. Zio.   AH’ Egregio Spaventa   Deputato al Parlamento Italiano in  Torino.   II libro, da cui il Del Zio prende le mosse, è 1 ’ Hé-  gélianisme et la Philosophie (Paris, Detken 1861), che il  Vera, allora professore di Storia della filosofia nell’Ac¬  cademia di Milano, aveva pubblicato poco innanzi per  ribattere le critiche mosse ali* hegelismo da Paul Janet  e da altri scolari del Cousin. — Enrico Pessima, già di¬  scepolo del Galluppi, dal Galluppi era passato al Gio¬  berti e dal Gioberti al Krause; e mormorava contro  Hegel e gli hegeliani 1 .   La lettera di Tari, a cui il Del Zio accenna,  è un articolo, uscito appunto nel fascicolo della torinese Rivista contemporanea, col titolo:   De’ rapporti del Kantismo collo stato della filosofia in  Alemagna, Lettera filosofica. Il difetto di chiarezza la¬  mentato in questo scritto dal Del Zio, e divenuto  poi sempre maggiore e sempre più caratteristico del-  P ingegno del Tari, — che ingegno ebbe e una certa  bizzarra genialità — aveva fatto dire allo Spaventa, in  una lettera a suo fratello Silvio, dell’8 marzo 1858:   «Ho letto molti mesi fa un articolo di Totonno... Un    1 Vedi il mio B. Spaventa, p. 114; Spaventa, La fllos. ital. in re¬  lazione con la fllos. europea,' p. 275 e una lettera dello stesso Pes-  sina nella Critica  articolo filosofico, come puoi immaginarti, sopra un  punto di estetica. Mi pare che abbia studiato finora per  imparare a non farsi capire. I tedeschi non sono facili  a comprendersi, e la colpa è un po’ anche loro. Ma i  più difficili tedeschi sono facilissimi di fronte a Totonno;  il quale mi pare che abbia preso da costoro più i di¬  fetti che i pregi. Ti dico, in confidenza, che sono ri¬  masto trasecolato; e che, dopo tanti anni e con tanto  ozio, mi aspettavo qualcosa di meglio da lui »*.   « Dopo tanti anni ! » S’erano conosciuti a Cassino, quando  Bertrando insegnava a Montecassino (tra il 1838 e il  1840); e il secondo giorno, seduti fraternamente sulla  sponda d’ un letto, Bertrando apriva così la conversa¬  zione: «Dunque, che ne pensate delle categorie kan¬  tiane?»-. Da lui lo Spaventa aveva appreso i rudimenti  del tedesco ; e, col suo aiuto, acquistato familiarità con  la letteratura filosofica tedesca. Nella quale il Tari,  chiuso dal 1849 al 18G0 nella solitudine di un villaggio  (Terelle, in provincia di Caserta), s’era sprofondato,  accumulando una meravigliosa erudizione. Questa però  non valse in verità a rischiarare il suo pensiero. Il  quale dall’assoluto idealismo di Hegel finì nell’agno¬  sticismo del suo cosidetto Innominabile ; in cui credette  si '_ lovesse fondere in una unità superiore lo spinozismo  e 1’hegelismo; in quanto il divenire della logica pre¬  suppone un principio, che, essendo fuori del divenire,  è fuori della logica; e non si può chiamare Volontà, nè  Monade, nè Inconscio, nè Noumeno, nè altro; poiché  ogni nome importerebbe conoscenza, quindi un movi¬  mento di pensiero, quindi il divenire. È un’ essenza    p 'ri SPAVBNTA ’ Dal 184i al i8G1 < leU < scruti e (toc., ed. Croce,» Cotuono, Le lettere di A. Tari in diresa dell’ « Innomina¬  bile», Iranl, Vecchi, non battezzata e non battezzatile, l’Innominabile. « An-  ch’ io, Bpecie di Lohengrin, difendo il santo Graal.  Sapete qual’ è? La dotta ignoranza, che Hegel chia¬  mava l’ignoranza dotta».   Non è questo il luogo di chiarire questo innominabi-  liBmo o limitiamo, — com’ egli anche lo chiamò, — del  Tari *. Giova piuttosto ricordare un aneddoto dello Spa¬  venta. Il quale, richiesto di consiglio da uno scolaro  del Tari per una dissertazione di laurea circa il diritto  di punire, il 29 settembre 1882, gli scriveva : « Ti vo¬  levo suggerire di chiedere consiglio al nostro caro Tari.  Chi sa, l’Innominabile! Ma come cavare da lui il di¬  ritto di punire? Mi ricordo di aver detto a Tari, quando  fu nominato professore ordinario (nel 1873), che la sua  nomina era in contradizione coll’ esistenza dell’Innomi¬  nabile, principio, essenza, natura, causa di ogni cosa  e avvenimento. Figurati il diritto di punire!» 1 . — Il  Tari, che di questa lettera doveva aver notizia dallo  scolaro, rispondeva a questo: « Par¬  liamo ora un pò del quesito, con cui mi tenta 1’ ami¬  cissimo Bertrando Spaventa. Eccolo: —Come concilie¬  remo il diritto di punire con la dottrina dell’ Innomi¬  nabile? — Se fossi profeta, o figlio di profeta, di  rimbecco direi : Vade retro, Satana. Noli tentare Tariiim  admiratorem tuum! —- Ma, non essendo Gesù, nè gesuita,  mi contento di rispondere con un tibi quoque. Ossia: —  Anche a te, o pensatore liberissimo, fa intoppo questa  pietra di giuridico scandalo? Anche a te metterebbe  conto salvar capra e cavolo ; cioè la capra della Feno¬  menalità di ogni fatto umano, ed il cavolo della pretesa    * V. le mie Orig. della / Uos. contemp. in Italia, III, pari. II,  pp. 28-37.   * COTI’GNO, Leu. cit M p. 43.        Giustizia Assoluta? Eppure ricordo che, disputando  con me di questo brocardico, uscisti in questa categorica  sentenza: — La pena non è che una valvola di sicu-  rezza che la società impiega a garentirsi di chi la in¬  sidia 1 . E di fatto, il voler costruire a priori un ma¬  nifesto modus rivendi essenziale, epperò cangevole etno-  crono-topograflcamente è marcia follia. La Idea Giustizia  Assoluta anzidetto, s’ ha a lasciare nel natio concavo  della luna, insieme al cervello dei tanti Astolfì dell’in¬  natismo. Chi ben pensa, riconosce la deplorevole povertà  di siffatte deduzioni... Diritti e doveri, Pene e ricom¬  pense non giacevano in seno a Giove, a mo’ delle uova  dell’aquila esopiana, ad aspettare che lo scarafaggio  umano le facesse rotolare nel basso mondo; ma si for¬  marono, con un quasi stillicidio psicologico, a poco a  poco scavandosi un bucherello nel naturale egoismo...   E tutta la giustificazione delle pene, da quella del ta¬  glione e quella penitenziaria, che è ancora in Werden  si riduce a formare la necessità di salvarsi al bosco  dalle belve accoppandole, ed alla città dai birboni ren¬  dendoli incapaci di nuocere. Ora quali sono i birboni?  ** U1 e 11 busil tis; e qui interviene P Innominabile a  comporre la gran lite, illuminando i legislatori sul da  fare in sullo sdrucciolo del dispotismo, dove si trovano  sempre... Il codice penale, non che un bene in sè, è un  necessario male, presso a poco simigliante alla chirurgica  estirpazione di un arto, il quale, se curabile, anche a  dilungo, l’operatore rispetta religiosamente... Un inno-    mi 'n^ 10 S , paventa avrà l )ure " sa[0 '(«està frase. Ma la valvola per  del delino, ! V ? Cbe neCessaria ' c °“>« necessaria era l'insidia   dello s r n e a,,a | S0Cie,A: d ’"' ,a necf8sUà Andata su"» natura  o spirito, ossia sul concetto concreto del bene. Il genuino pensiero  dello spaventa intorno all'assoluta giustificazione della pena é ne  suoi Principi di dica, ed. Gentile, p. 102 sgg.        minabilista può solo affermare, in barba a tutti i dot¬  trinari criminalisti del mondo, come qualmente il bar¬  baro Kedivè egiziano funzionerà legalmente, da par suo,  fucilando e forse impalando 1’ eroe Arabi pascià, reo di  non aver saputo nascere dove e quando dovea. Ed in-  neggerà al magnanimo Umberto, il quale, facendo grazia  all’abietto Passannante, confondeva molti tirannelli stra¬  nieri e mostravasi anche dappiù del Re Galantuomo  suo padre, cioè filantropo e progressista. In Oriente il  palo, in Occidente 35 legislazioni che aboliscono il car¬  nefice (v. ult. lett. di Victor Hugo): chi ha ragione?  Secondo l’illustre prof. Vera ha ragione il palo!... 1  Insomma, le cose anzidette tumultuariamente, a modo  mio, rispondono su per giù al caro mio tentatore Asmo-  deo Spaventa »*. — Avviatosi per la sua striida, il Tari,  dunque, negava coraggiosamente jT diritto come diritto.  Poeto-1’ assoluto di là dal divenire, nel divenire, ch’egli  vedeva indirizzato a un Nirvana iperindividualistico, non  poteva trovare niente d’ assoluto. Per lui il magnifico  proemio dello Spaventa ai Prineipii di etica (1869) in¬  torno al rapporto dell’assoluto col relativo, e quindi al  concetto dell’ assoluta relazione (per cui 1’ assoluta giu¬  stizia non solo comporta, ma richiede per la propria  realizzazione tutti i modi di esistema cangevoli etno-crono-  topouraficamentc), non era stato scritto. E come in quel  concetto è il segreto dell’ hegelismo, era naturale che  egli non riuscisse ad orientarsi e a vedere la nullità  del suo Innominabile in quanto tale, in quanto sostanza,  cioè di qua dallo spirito.   Il Tari fu insomma de’ tanti che girarono attorno a    1 A. Vbra nel 1883 pubblicò un opuscolo La pena iti morte (risi,  nel Sappi filosofici, Napoli, Morano, 1883. pp. 37-381, dove svolgeva le  ragioni del sistema hegeliano in sostegno della pena di morte.   * COTUONO, Hegel, ricevendone magari ispirazione e suggestioni fe¬  conde, senza scoprire il principio vero del suo pensiero.  Molti si ritrassero presto sconfortati dall’impresa; etra  questi il Del Zio, che con tanto entusiasmo nel ’61  studiava le opere e la letteratura hegeliana; e ansiosa¬  mente aspettava gli scritti dello Spaventa (la prolusione  letta a Modena sul Carattere e sviluppo della filosofia  italiana del secolo A VI sino al nostro tempo ‘ e la Filo¬  sofia di Gioberti, di cui il I» volume usci nel 1863) per  fede vaga che indi potesse venirgli la luce.   Il Del Zio allora si preparava a un corso di lezioni,  sulla Enciclopedia di Hegel. Al quale infatti proluse  alcuni mesi dopo con una enfatica lettura, la quale,  come documento aneli’ essa de’ tempi, merita d* essere  ricordata: Prolusione al corso di lezioni sulla Enciclopedia  delle scienze filosofiche di Hegel; letta in privato con¬  vegno ne’ dì 16 e 18 novembre 1861*: scritto pieno di  giovanile entusiasmo e di ardore filosofico. Oltre le opere  del Vera, fin allora pubblicate, l’Autore vi cita ed esalta  1 aurea operetta di Karl Werder (Logile, als Commentar  u. Ergdnzung zu Hegels ÌViss. der Logik, 1 Abili, Ber¬  lino Idèi) « restuta incompiuta con grave danno di co¬  loro che s’ iniziano alla filosofia hegeliana » (p. 22);  i Esquisse de logique di K. L. Michelet (Paris, 1866); e    1 Risi, in Scritti filosofici, ed. Gentile pp. 115 sgg. Giorgio Pallavi¬  cino, a una figliola del quale lo Spaventa aveva privatamente Im¬  partito qualche lezione, gii scriveva per questo opuscolo:   Amico pregiatissimo,   l.a ringrazio della sua Prolusione — un magnifico lavoro — il quale  rnfiìf. -u- l Sn me . *' (le ?. l . ller ‘° di vp| ter presto pubblicata la grande  Opera eli Ella sta meditando. Ammiratore di Vincenzo Giohprti. posso  io non ammirare il suo degno interprete: II. Spaventa? lo l’ammiro  e i amo!    Giorgio Palla vicino.   * Napoli, S. Marchese, IMI, di pp. 8-1 In 16». Reca quest'epigrafe:  « Essere, sapersi e volersi come la Personalità eterna dello Spirito,  ecco il line della lilosofla ». di questo le lezioni Ueber die Persònliehkeit Oottes u.  Unsterblichkeit der Seele, oder die ewige Persònliehkeit des  Geistes (Berlin, 1841) ; le quali « quando furono pub¬  blicate, tenevano aspetto di polemica negativa in rap¬  porto a certi donimi dell’ intelletto ; ma 1’ avanzato  sviluppo della scienza ha tolto loro il senso irreligioso,  che gli avversarti accaniti dell’ hegelianismo volevano  a forza vedervi dentro. E debbono così considerarsi come  la teorica potente della nuova sintesi dall’ umanità »  (p. 41): ciò che appare, nota il Del Zio, dell’opera  maggiore del Michelet, Die Epvphanie der ewigen Per-  sònlichkeit des Geistes (in tre diali., 1844, 47 e 52). A  proposito del problema hegeliano del punto di partenza  fenomenologico e logico della filosofia, l’Autore dichiarava  di sperare che le difficoltà sarebbero state da lui sciolte  più chiaramente nelle note a una sua traduzione del  System der Wissenschaft, ein philosophisches Eincheiridion  (Koenigsberg, 1850) del Rosenkranz : « che avrei di già  pubblicata senza la tirannide borbonica, o la guerra che  tutto il mondo ha fatto e fa presso noi al libero pensiero»  (p. 23). Un altro suo lavoro concerneva la filosofia di  Krause, la quale, specialmente per mezzo di Ahrens  (il cui Corso di diritto naturale , 1838, era molto letto  dagli avvocati di Napoli, ed era stato anche tradotto  già due volte in italiano, da Francesco Trincherà e da  Vincenzo De Castro 1 ) poteva dirsi « in qualche modo  popolare nelle nostre province ». « Le sue Lezioni sul  sistema della scienza (Vorlesungen nb. System der Philos.,  1828)», dice il Del Zio, « e 1’ampio sviluppo enciclo-    1 Corso Ul Diruto naturale o della ftlos. del dir. traci, da Fr. Trin¬  cherà, Napoli. 18-11, e Capolago, 1812. Nuova trad. eseguita sulla  quarta ed. dal prof. V. De Castro, 2. voli., Napoli, Stab. Tip. dell'An¬  cora, 1860. Più tardi la sesta ed. (uscita in ted., Vienna, 1870-71) fu Irad.  in italiano da A. Margllieri, Napoli pedico eh’ egli tentò dare a tutto lo scibile rivelano in  classico modo il fermento incommensurabile dal quale  era travagliata 1’ intera Allemagna alla vigilia dell’ ap¬  parizione d’ Hegel sul teatro della scienza. Ma in Krause  c’ è il presentimento della scoperta, che fu fatta invece  da Hegel »; e questo giudizio era il « risultamento di una  conveniente disamina » . « A tanto speriamo di adempiere  più tardi, pubblicando un nostro lavoro, che ha per ti¬  tolo: Studii sul rapporto del Sistema della scienza di  Krause a quello di Hegel » . Appunto per quella certa  popolarità che il Krausismo aveva acquistata anche nel  Napoletano, il Del Zio stimava opportuno che fosse di¬  scussa la sua teorica generale da’ cultori della filosofia.  « Se non cominciamo a disputare pubblicamente sulle  nostre convinzioni speculative, il trionfo della scienza  e il progresso della nazione non saranno nè liberi nè  universali » L’opuscolo era dedicato Alia gioventù napoletana con  parole di questo tono : « A voi dedico, o fratelli, questo  piccolo lavoro, il quale non è altro che il programma  dell andamento scientifico, a cui dovrebbe avviarsi, se¬  condo le mie convinzioni, il nostro paese, per essere  in armoniu coll’ indirizzo generale della scienza in Eu¬  ropa. Se vi parrà vero, Voi, più che me, potrete con¬  durlo ad atto, perchè 1’ amico vostro, comechè giovane,  è già percosso dai dolori dell’ animo e dalle sofferenze  lei corpo che 1’ opera dissolutrice della tirannide seppe  in molti generare negli anni scorsi». Continuava an¬  nunziando che, accettato il suo programma, tre fiamme  divine sarebbero venute ad accendere 1’ anima dei gio¬  vani napoletani : tre sedendovi d’ un unico sole, il libero  Pensiero ; le tre fiamme della Filosofia, della Rivoluzione,  dell’Amore. «Colla prima darete fine alla superstizione  del Papato, la più maligna fra quelle che ancora corrodono lo spirito moderno. Colla seconda scrollerete il  Dritto divino ed ogni altra specie d’irragionevole im¬  perio. E coll’ ultimo tramuterete le rovine in creazione  eterna di bellezza e di verità ; costituirete I* Italia, e  getterete il fondamento alla fratellanza democratica di  tutta Europa».   Svolto brevemente il concetto della Fenomenologia  dello spirilo, per mostrare come lo spirito sia necessa¬  riamente condotto dalla sua interna dialettica al punto  di vista del sapere assoluto, il Del Zio schizzava con  pochi tratti l ’ideale della scieina, a cui egli invitava  con molto calore : « Deliberando di seguirmi fraterna¬  mente nel mondo del sapere, renderete testimonianza  dell’ istinto divino che move lo spirito del nostro tempo,  e della vita novella d’Italia resa a sè stessa ed alla  sua naturale grandezza... Il nuovo metodo dell’insegna¬  mento filosofi co è il metodo della morte e dell’ amore  assoluto», della morte alle cose finite e a se stesso, e  dell’ amore per 1’ assoluto, in cui lo spirito deve rina¬  scere. Quindi combatteva le obbiezioni mosse all’ hege¬  lismo «dalla corta vista dell’intelletto 1 o del sentimen¬  talismo ipocrita della santocchieria » . Ai filosofi dell’ in¬  telletto, del pensare finito addebitava la loro incosciente  predilezione dello scetticismo e del nullismo: e dimo¬  strava che « non solo il sapere assoluto è possibile, ma  che esso è 1’ unicamente possibile » ; poiché ninna realtà  finita, naturale o spirituale, può dirsi conosciuta fuori  del sistema, in cui essa va concepita. Ai mistici di  buona o di mala fede, cercava d’ additare il carattere  intrinsecamente religioso della filosofia hegeliana, nella  quale la verità della religione non è negata, ma trasfi¬  gurata e fatta valere per la ragione, assolutamente. In-    1 Intelletto (Verstand), nel senso di Hegel.      fine, combattendo anche lui il pregiudizio, allora sal¬  dissimo tra i giobertiani di Napoli, del primato italico-  e della filosofia nazionale, sosteneva, a simiglianza dello  Spaventa, ohe « la grandezza del nostro spirito non è  tanto nel sapersi precursore di tutto l’incivilimento  occidentale, quanto nel prevedere che dev’ esserne il  successore eterno ». Si ammira Vico: ma egli « travagliò  por tutta la vita per provare che uno spirito solo regge  il mondo delle nazioni, che una è la mente dell’ Uma¬  nità, e che un piano ideale stringe in armonia assoluta  la totalità de’ fatti politici e le forme svariatissime del-  1’ intera vita sociale». «La storia della filosofia è dav¬  vero un’ opera unica, una sola attività produttrice...  Le frutta abbondanti di quei primi pensieri filosofici,  che gl’ italiani del XV e XVI secolo destarono nella  coscienza umana sono appunto i grandi sistemi della fi¬  losofia moderna... Nutricandoci del supere e della vita  europea, noi vendicheremo lo spirito de’ padri nostri,  celebreremo la festa di commemorazione a quel Risor¬  gimento, che il papato e l’Impero soffocarono nel sangue  di tutta la Penisola» : sopra tutto a Bruno, la cui vita  randagia per 1’ Europa, ma cominciata in Italia e in  Italia tragicamente finita, sembra al Del Zio il sim¬  bolo divino del corso storico della filosofia mo¬  derna nel mondo. E col ricordo della vita del Bruno e  un invito a vendicarne la morte facendo tornare in  Italia la sua filosofia arricchita nel suo secolare viaggio,  termina questa prolusione.   Cinque giorni dopo leggeva nell’ Università la prolu¬  sione al suo corso lo Spaventa, tornando a trattare il  tema : Della nazionalità nella filosofia. Fiorenti Waddingtoìi e D. Spaventa   Affrettando col desiderio la pubblicazione dell’ impor¬  tante carteggio della marchesa M. Fiorenti Waddington  tuttavia posseduto dalla famiglia di Francesco Fio¬  rentino, gioverà spigolare tra le carte dello Spaventa,  alcune lettere e ricordi di questa egregia donna, che  non ci paiono inutili alla storia della fortuna di  Hegel in Italia. Quando la Florenzi entrò in rela¬  zione con lo Spaventa aveva passata la sessantina,  essendo nata nel 1802: da Schelling era giunta fino a  Hegel : dall’ ammirazione del Mamiani, per la conver¬  sazione frequente col Fiorentino, che da Bologna andava  spesso a Perugia ospite suo, era potuta passare a quella  del critico severo della prefazione, che il Mamiani nel  1844 aveva premessa alla sua traduzione del Bruno di  Schelling 1 . Prefazione desiderata da lei, che ne caròla  promessa con un certo imperio di belletta che. ancor pos¬  siede, come il Mamiani scriveva al suo fratello Giuseppe  il 7 aprile 1844 ;* prefazione piaciuta già allo stesso  Schelling. 3 Ma ben presto la marchesa tedescheggiente  e libera pensatrice e il conte italianissimo e cantore dei  santi cattolici, s’ erano accorti di non potersi intendere.  Già in una lettera del 1846, 4 il Mamiani le rimprove-    ' Vedi B. Spaventa, Saggi di critica. Napoli, Gliio. 1867, pp. 366 sgg.  Intorno alla Florenzi v. le mie Origini della, fllos. contemp. in Italia  III, parte II, pp 37-50.   * Mamiani, Leti, dall’ esilio a cura di E. Viterbo. Roma, 1809. 1, 211.   * In una sua lettera a un suo amico, del 26 dicembre 1845, il Ma-  raiant scriveva: «Quantunque lo vi discorra della tllosolla tedesca  moderna con gran franchezza di giudicio, lo Schelling non se ne tiene  punto mal soddisfatto, e scrivendo alla traduttrice, che è la march.  Florenzi, ha detto di me parole onorevolissime » (op. cit. I, 320). Cfr.  il Bruno stesso, ed. I.e Monnier, 1859, p. 213.   * Leti, cit.. Il, -10. Cfr. la lett. al fratello rava di ragionare un po’ alla tedesca, e , non avendo alla  mano ragioni ferme ed evidenti, essersi rairolta della  nebbia del suo grande maestro, lo Schelling. L’ anno ap¬  presso le scriveva: « ìli congratulo molto con voi dello  studiare indefesso che fate e dello involgervi coraggiosa  tra le tenebre sacre della metafisica dello Schelling». 1  Era quasi un addio dalla spiaggia a chi si avventurava  per il rischioso viaggio!   Sul principio del 18GB, la Fiorenti aveva pubblicato  i suoi Filosofemi di Cosmologia e di Ontologia (Perugia,  V. Bartelli) ; e il Fiorentino, che doveva scriverne una  recensione, nella Rivista Italiana (o Effemeridi della P.  di Torino, del 20 aprile 1863, a. IV, pp. 250-52), la  incitò a mandarne un esemplare allo Spaventa. Quindi  la seguente lettera :   Signore,   Se un nostro amicissimo, e molto suo conoscente, non m’ in¬  coraggiasse a mandarle il mio libretto testé stampato, io non  oserei inviarglielo. Esporlo al giudizio d’ uno de’ più distinti  lilosofi è al certo temerità più die grande. Ma io mi affido  più assai all’ indulgenza di cui sono capaci i grandi uomini,  e temo maggiormente i piccoli. Ardisco ancora dimandare il  suo leale, franco giudizio e la sua severa censura; ed ancbo  la disapprovazione mi sarà più cara assai di qualsiasi com¬  plimento.   È dunque sotto l’egida del nostro amico che il mio libretto  vieue a cercarla. Mi abbia per iscusata s’ io l’incomodo por  cosa di sì poco valore; ma, le ripeto, io riposo nella indulgenza  sua. Me le offerisco e raccomando.   Perugia, li 20 marzo 1863.   Obb.ma   M. Marianna Florbnzi WAnDiNcroN.   Lo Spaventa in ricambio le mandò il suo volume  Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia, starn-    1 Lett., li, 314.      pato 1’ anno innanzi ; a cui la Florenzi fece gran festa,  diffondendolo nel circolo di letterati e filosofi, 1 che si  raccoglievano intorno a lei.   € Dono prezioso, scriveva all’ autore il 9 maggio  del '63, di cui mi valgo per miu istruzione e per  ammirare uno de’ più grandi filosofi (o il più grande),  che ora dia fama alla nostra nazione » .   Da altre lettere della colta gentildonna si rileva che  tra gli ammiratori guadagnati da lei allo Spaventa, de¬  siderosi di leggere i suoi scritti, v’ erano anche delle  donne. Tanto poteva 1’ esempio della Florenzi !   Il 25 maggio questa mandava allo Spaventa un suo  piccolo discorso sojrra l' Eleroyenia che doveva essere stam¬  pato coi Filosofemi. Era instancabile : quando, nel giugno  1864, lo Spaventa le ebbe mandata la memoria su Le  prime categorie della logica di Hegel, ella poteva annun¬  ziargli un suo nuovo lavoro, che avrebbe toccato anche  quell’argomento (Saggio di psicologia e di logica, Fi¬  renze, 1864): «Mi preme sempre di leggere le cose sue,  e per questo ho indugiato a dirmene grata e ricono¬  scente. Non ho parole per esprimerle quanto quella  lettura mi abbia soddisfatta. Un ingegno come il suo  non poteva a meno di escogitare fino al fondo l’argo¬  mento trattato, ed in vero non c’ è nessuno che abbia  penetrato tanto addentro la dottrina e le intenzioni di  llegel, il più formidabile dei tedeschi filosofi.   «Ella ha ragione: chi è mai entrato sì puramente  nella scienza del filosofo?   « Tanto più piacere mi ha recato il suo scritto in  quanto che io aveva già compiti due capitoli del libro  che scrivo ora : Il divenire e V essere e il non essere, pen-    1 Cfr. la Necrologia che scrisse di lei il Fiorentino, in Scritti vari,  Napoli, 1876, p. 410-1.        siero ed essere. Quanta istruzione io posso ricavare da  lei ! Dunque, per tutto il piacere e per tutto 1’ utile ri¬  cevuto io ne la ringrazio di cuore ed anima » (Lettera  del ló giugno ’64).   In una poscritta d’ una delle sue lettere la Florenzi  scriveva allo Spaventa: «Vi prego di fare il grande  sforzo di rispondermi al pili presto » . Lo Spaventa, in¬  fatti, era tardissimo a scrivere, anche se chi aspettava  era una dama così gentile. Il Fiorentino badava a fare  le sue scuse. Così, in una lettera allo Spaventa del 19  novembre 1804, gli scriveva : « Alla marchesa Florenzi  ho parecchie volte detto quale sia la vostra indole, perciò  non ho durato fatica a persuaderla della vostra trascu-  ranzn nello scrivere. Ella ha sotto i torchi due saggi,  uno di logica e 1’ altro di psicologia, ed aspetta di averli  in pronto per rispondervi. Credo che li avrà prima che  il mese finisca. Li ha composti con l’intendimento di  dare due lavoretti elementari, e mi sembrano molto giu¬  diziosi e precisi e chiari, da qualche capitolo almeno  che ho scorso, correggendo gli stamponi che le venivano  quando io ero colà. A proposito di lei, che cosa avete  fatto per l’Accademia, di cui mi parlaste costà? Io non  le ho detto nulla, com’ era vostro desiderio ; e sarebbe  cosa ben fatta se si potesse effettuare, perchè veramente  è una donna meravigliosa per 1’ ardore che ha per la  scienza » .   Lo Spaventa aveva pensato di premiare la nobilissima  operosità e il virile animo, onde la Florenzi proseguiva  gli studi filosofici, facendola ascrivere all’Accademia  delle scienze morali e politiche di Napoli. Nomina che  la scrittrice gradì molto, e ne fregiò il frontespizio  de’ suoi libri pubblicati dopo il 1865. Primo il Saggio  sulla natura (Firenze, 1866), che è dedicato appunto allo  Spaventa: non per orgoglio , ma soltanto perla fiducia...che gl’ ingegni, quanto più sono alti , tanto maggiore in¬  dulgenza tisano alle persone di buona volontà. Gliene chiese  licenza il 14 dicembre 1865 con una lettera molto mo¬  desta, dove sono espressi gli stessi sentimenti della de¬  dica a stampa, e da cui s’ apprende che il Saggio era  da tre mesi in tipografia.   Nell’aprile del ’G6 fu a Napoli il'cav. Evelino Wad-  dington, marito della marchesa, ed ebbe dallo Spaventa  liete accoglienze. «Egli se n’è tornato», scriveva il  Fiorentino, « contento di aver conosciuto un uomo  del vostro ingegno e con quella franca ed ingenua indole,  che è segno infallibile». E come a Napoli si prepa¬  rava, in occasione d’ una esposizione di cotone, un Con¬  gresso scientifico italiano, la Florenzi contava di venirci  anche lei; come infatti ci venne: «Ebbi la vostra me¬  moria 1 che ho letta con grande attenzione per racco¬  glierne quell’ utile che sogliono apportare i vostri scritti.  Evelino fu molto contento di conoscervi e lo sarò pur  io fra poco, perchè ai primi di agosto contiamo di essere  costì nuli’ ostante gli eventi del monito.   « Mi faceste dire di fare un qualche piccolo discorso  per 1’ occasione del Congresso; e 1’ ho tracciato alquanto,  e per distenderlo vorrei la certezza se si fa o no codesto  Congresso.   « Io presumo che no, stante 1’ imminenza della  guerra ; nulla di meno vi prego a scrivercene una riga ;  ed ancora più mi preme sapere se vi troverete in Na¬  poli a quell’epoca, o alla campagna, ed in quale cam¬  pagna, od in quale città ; infine, mi direte dove dimo¬  rerete » (15 giugno ’6G).    1 La dottrina della conoscema di G. Bruno, pubbl. negli Atti  dell'Acc. delle Se. mor. e poi. di Napoli del 1865; risi. In Saggi di cri¬  tica pp.  Un’ ultima lettera del 8 agosto 1867, ha un certo in¬  teresse, per l’accenno che vi si fa al discorso Della  immortalità dell’ anima umana, che la Florenzi pubblicò  nel maggio 1868 :   « Io mi preparo o mi sono già preparata a scrivere  un opuscolo sulla immortalità dell’anima: problema  scabroso! ma che voglio sostenere perchè sento 1’ im¬  mortalità dentro di me e voglio essere immortale a tutti  i costi. Sarà dolorosa ai feuerbachiani miei amici 1 la  mia assoluta opposizione».   Nè anche gli amici hegeliani, non feuerbachiani, d’ I-  talia fecero plauso all’ assunto della marchesa. E lo  Spaventa alluderà forse, con quell’ ironia che gli era  propria, al discorso poco persuasivo della Florenzi,  quando nello stesso maggio 1868, scrivendo al De Meis,  la chiamava: « la nostra immortale Marchesa, — immortale  almeno come, socia della Beale nostra Accademia » . !   L’intimo pensiero dello Spaventa sull’ immortalità  dell’ anima individuale apparisce dal principio d’ una  malinconica lettera da lui scritta al De Meis il 13  luglio 1880 ; dove ricorda la sua prima figliuola morta  a tre anni :   Napoli, 13 luglio 80.   Mio caro Camillo,   Spero che la festa di quel sant’ nomo del De Lellis, 3 tuo  omonimo concittadino e la tua, ti riconoilieranno cogli amici.  In particolare io conto sulla reminiscenza, anche involontaria,  di que’ maccheroni al pomidoro; di quella Irittata e di quelle  cocozzelle, oramai divenuti celebri no’ nostri annali domestici.  Via de’ Fiori a San Salvario, n... 4 . Il numero non lo ricordo    1 II Ff.ii* *riiach, coni' è noto, nel Gcdanhen iiber Tod und Sterb-  li chheil (183(1) sostenne la mortalità dell'anima.   J v. scritti filoio/lci. ed. Gentile, p. 303 n.   8 San Camillo De I.ellis, di Bucchianico, patria del De Meis.   • Recapito dello Spaventa a Torino. Il numero era 23. Isabella  Scano. moglie dello Spaventa, a lui sopravvissula, morta più, e non ho tempo (li consultare la signora Isabella, che  attende alle faccende di casa. Non lo ricordo; ma fa lo stesso:  ricordo il luogo, il prato, la soala, il piano, le stanze e il  mio tavolino da lavoro, e tutte le miuchionerie che scrivevo :  le cose futili e le serie; il mio chiodo Bolare e i misturi he¬  geliani svelati ; e te che venivi ogni giorno, angelo consola¬  tore, e le chiacchiere che facevamo insieme; e la mia povera  prima Mimi e lo sue ultime parole: — Papà lavorai — Papà  lavora! — Io non so so (|uella casa sia rimasta ancora in piedi;  oramai non vedo piti Torino da circa vent’ anni : ma ella sus¬  siste tuttora qui, come forse non ha mai meglio esistito iu  realtà, nel mio cervello, o, come (licevano una volta, nell’ a-  nima mia; o non si dileguerà se non quando questo cervello  (Papà lavora, Papà lavora), non ci sarà piti. E che ne sarà!  Che significa nou esserci pi fi i Diverrà proprio nullaf Eppure  è stato ed è. O ci è proprio uu modo di essere che non è  sussisterei E sussistere cos’ài 1/orgoglio e la balordaggine  umana ha trovato lo consolazione: — tutto nasce e perisce, è  vero, ma gli atomi restano, e son sempre quelli, non mutali  mai. — Bella scoperta! me li fo fritti gli atomi, io.   Troppo serio per la festa di San Camillo ; troppo malinco¬  nico, anzi. Ma va e freua la mia fantasia!...   Lo Spaventa, non occorre dirlo, non era materialista.  Ma nella concezione hegeliana della natura e dello spi¬  rito non trovava posto per lo spiritualismo astratto, e  quindi neppure per l’immortalità personale.   3.   Il primo scolaro (li B. Spaventa (F. Fiorentino).   Battaglie carducciane ancddote.   Nella nota polemica del 1876 con l’Acri il Fiorentino  dice di aver conosciuto tardi lo Spaventa, e poco prima  i suoi libri. « Letti i suoi libri, intravidi un altro  mondo, e mi parve rinascere. Allora ero  professore a Maddaloni, e stavo a Napoli. Tra i molti che si preparavano a combatterlo c’ero io; ma, lettolo,  mi sentii tirare verso lui, e capii che i suoi avversarii  non valevano neppure i suoi calzari. Quale fu la mia  maraviglia, quando dai più sinceri riseppi, ch’ei non  avevano lotto nulla di lui, e che lo combattevano,  perchè volevano combatterlo, senza sapere perchè! ». 1  Allora infatti egli si presentò allo Spaventa. Ma, quando,  sullo scorcio del ’62, andò a Bologna professore di Storia  della filosofia, non E aveva visto che due volte o tre. * *  L’ultima di queste ne ebbe consigli e suggerimenti  circa gli studi per cui la Biblioteca Universitaria di  Bologna avrebbe potuto offrirgli E opportunità. Giacché  dallo Spaventa egli fu stimolato a intraprendere quelle  ricerche sui nostri filosofi del Risorgimento, da cui pro¬  vennero le sue opere più importanti. E quando si di¬  visero, lo Spaventa dovette annunziargli il libro, che  allora stampava, Prolusione e introduzione alle lezioni  di filosofia , dove il Fiorentino avrebbe trovato uno  schema della storia della filosofia italiana. Glielo inviò  poi infatti con una lettera, della quale possediamo la  risposta :   Mio carissimo amico,   La vostra lettera e il vostro libro lungamente aspettati  mi sono arrivati carissimi. Mi son messo subito a leggerlo,  e posso dirvi di averne scorsa quasi la metà; se non che  intendo rifarmici sopra, come prima avrò satisfatto l'impa¬  ziente desiderio con questa prima lettura. Voi mi riuscite  sempre profondo e stringato ragionatore ; oogliete nel criticare  il nodo del sistema, c ne mostrate lo scioglimento cosi luci¬  damente che meglio non si può. lo vi ho sempre tenuto, e  vi tengo a ninno secondo nell’arto difficilissima della critica  filosofica, eh’ è quella appuuto, di cui noi Italiaui abbiamo    ' La fllos. contemp. in Italia, Napoli, specialmente bisogno, serondochè voi avete maestrevolmente  notato. Le considerazioni su la lìlosofia nazionale sono esatte,  e l’indole della filosofìa del Risorgimento, che io ho letta  fino al Bruno, è scolpita cou molta fiuezza, e contorni assai  rilevati. Le osservazioni su l’antichissima sapienza degl’i¬  taliani del Vico, e ricavate qunuto al fondo dalla Scienza  nuova, sono inappuntabili ; ed a rifiutarlo bisognerebbe di¬  sconoscere la teorica della parola dal Vico medesimo adottata.  Io mi rallegro di tutto cuore con voi, mio carissimo amico,  ed auguro all’ Italia molti uomini che vi rassomiglino.   Negli scrittori, come negli uomini, a me piace la lealtà del  manifestare le proprie convinzioni, quali che si fossero; la  coscienziosa ricerca nel formarsele, ed il saldo proposito del  sostenerle. Ora invece si scrivacchia e si cinguetta a spro¬  posito, e più ilei nomi e dell’autorità si fa caso, che non  della verità eterna ed immutabile. Voi siete molto opportuno  nelle condizioni poco prospero del nostro paese, e gran bene  potrete fare. Esperto come siete di gran parte delle nostre  città, dovete conoscere meglio di me, che cotesta o nessuna  può spingere e continuare il movimento della italiana filo*  sofìa. Qui se ne ha pochissima cura: alla mia scuola usano  pochi uditori, alle altre della mia facoltà meno che pochi,  o nessuno. Per buona ventura è venuto qua a continuare i  suoi studi filosofici un bravo giovane delle provincia meri¬  dionali, un tal Donato Jaja, quel medesimo che mi accom¬  pagnava, quando presi commiato da voi. Ila buon ingegno,  e buona volontà, eh’è ancora più rara no’ nostri giovani.  Altri vanno e vengono più per curiosità che per vaghezza ili  studio: sono le comete di tutte le cattedre.   Tra pochi altri giorni vi manderò la Prolusione che lessi  qui, e che ho fatta inserire sul Progresso che si stampa costà.  Me no aspètto vostro giudizio, che quanto so che sia com¬  petente, altrettanto voglio che sia ingenuo e franco. Voi  sapete che io non mi sdegno dell’essere appuntato e corrotto:  amo la verità più del mio amor proprio...   A libri filosofici qui si sta molto male, e sebbene mi sia  stato promesso che qualcheduno dei più necessari si farebbe  venire, pure io ci conto molto poco per la scarsezza dell’as¬  segnamento di cui gode questa Universitaria Biblioteca. Avrei  bisogno di buoni espositori di Platone e di Aristotile, perchè  questo anno mi occupo della filosofia greca, e intanto, tranne  alcuni commentatori antichi, non si trova altro. Ho fatto ve¬  nire «lei mio la esposizione della Logica aristotelica di Bar-  thólemy; ina a far venire tutto a proprie spese come si riescef  ìi questo per me un gran contrattempo, c, senza le vostre  prevenzioni, quasi inaspettato o iuusputtabile. Chi diamine  poteva credere che la dotta Bologna viveva ancora in pieno  Medio Evo»   pi Pomponazzi ci è il solo libro dell'Immortalità. I mano¬  scritti di Boccaferrato versano più su la tisica aristotelica, che  su la metafisica: ed oltre a ciò sono poco agevoli a leggere,  e a parer mio ili poco giovamento. Ho trovato pori» Scoto  Krigena, e Patrizzi, che costà non mi era riuscito avere. Oopo  che avrò letti questi, mi metterò a studiare la storia della  filosofia indiana del Colebrooke, che voi mi diceste buona. * 1  Mi dimenticai l’altra volta di dirvi, che Vittorio Cousin  scriveva alla Florenzi una lettera sn quel mio lavoretto in¬  torno al Bruno, dove sentenziava degl’italiani a modo suo.  È piuttosto una lunga lettera, di cui io ho copia, che vi  manderò, se vi aggrada leggerla. Parla altresì del Vera.®  Ecco quante ve no ho dette, e forse vi avrò annoiato: ma  io sentiva il bisogno di trattenermi con voi, e P ho fatto alla  mia usanza, e senza riserva. Io, oltre all’ammirarvi, vi amo  assai, e stimo che questo all’etto che vi porto renila più  scusabili le molte ciarle che faccio nello scrivervi. Quando  avrete tempo scrivetemi, perchò mi è caro comunicare con  qualche spirito privilegiato ed amico in tanta solitudine in  cui vivo. Se potessi in qualche cosa adoperarmi per voi, mi  terrei fortunatissimo di farlo. Addio, adunque, mio carissimo  amico, ed amate   Di Bologna, 12 del 1863.   Il tutto vostro  Francesco Fiorentino.    1 Enrico Tommaso Colebrooke (1765-1837), celebre indianista, pre¬  sidente della Società Asiatica londinese, autore degli Kssai/s on thè  Vedas and on thè phtlosophu of thè llindous nel I voi dei Miscclla-  neous Essaj/s (London, 1837, 3.» ediz., 1873); — e a parte: Essays on  thè relii/ion and phtlos. of thè Hlndous, 3.» ediz., London, 1858.   1 Tra la corrispondenza Inedita del Cousin ci sono lettere del  Fiorentino: vedi Gentile, Albori delta nuova Italia, I, 150.La Prolusione al corso di storia della filosofia (letta  il 25 novembre 1862) fu dal Fiorentino pubblicata nel  Progresso di Napoli (a. IL voi. II, 1863, pp. 22-33) ;  ma non venne più ristampata. È infatti ancora un do¬  cumento della fase giobertiana del pensiero del Fio¬  rentino, quantunque vi appariscano le prime tracce dei  nuovi studi e delle nuove tendenze dell’ autore. Giova  riferirne qualche brano:   Il pensiero, o signori, regola il mondo o lo riempie, perché  esso è la pienezza ed il vigore dell’ essere : è la sua compe¬  netrazione, e la sua identità. L’ essere senza il pensiero è spar¬  pagliato, disterminato, e però incompiuto e Unito. Imperocché  l’essere compie se medesimo geminandosi, vale a dire facen¬  dosi principio e fine; ed il mezzo, pel quale esso si pone e  conclude, è il pensiero, la relazione, l'identità suprema...  (p. 23).   Se non che esso nel mondo inorganico si occulta inconsa¬  pevole, eil in certo modo seppellito, comincia ad agitarsi  operoso nel vegetale, si va sempre pifi disimpacciando dal  grave involucro della materia nella forma dell’animale; e si  sveglia libero e padrone di sé filialmente nella coscienza  umana... Il pensiero divino che trasparisce attraverso tutto  il creato, si che ogui cosa, secondo la frase biblica, appaia  piena dello spirito di Dio, non parla poi e non si rivela am¬  piamente, se non nella coscienza dell’uomo. Il resto della  natura è parola scritta, rinchiusa, direi quasi cristallizzata:  l’uomo solo è parola viva e palpitante... (p. 24)   La dualità di natura e spirito non è insuperabile.  Essa inette capo « nell’ unità cosmica ». E in virtù di  questa la natura tende allo spirito; che comincia bensì  aneli’ esso come forza individua partecipante all’ uni¬  versità del cosmo ; ma esso si generalizza pensandosi.   ...Do spirito è l’attuazione compiuta dell’unità cosmica, e  ciò che questa è in potenza, ed esso è in atto. Or quando  lo spirito si abbia assimilato la natura e sé stesso per quella  serie di sviluppamenti che va spiegata nella Fenomenologia, egli, a rendere scientifico il suo processo spontaneo ed in-  cosoio di sé, si rifà sopra il cammino fatto. E può rifarsi in  tre modi. Quando rigira sè in sò, dà luogo a quel ripensa¬  mento che si dice riflessione psicologica; e quando si ripete  su la natura, partorisce la riflessione detta dal Gioberti ontolo¬  gica. Ma sopra eoteste due guise di riflettere, ve u’ ba una  terza, che lo vince di pregio e di amplitudine, vale a dire  la riflessione logica, nella quale lo spirito si rivolgo su la  sua azione medesima, sul proprio pensiero... su la natura e   10 stesso spirito è Dio, ossia l’unità vera, l’unità che non  è il moltiplico, ma lo fa. Se l’unità cosmica fosso tutto, 1’ ul¬  timo grado del pensiero sarebbe la riflessione psicologica e  l’ontologica, e la logica non sarebbe possibile. V’è logica,  perché v’ha un assoluto perfettamente uno; v’è la logica,  perchè v’è Dio... Da logica è dunque l’unità finale della  cosmologia e della psicologia, come la protologia n’ era stata  1’ unità primitiva. L’ unità assoluta, 1’ unità cosmica, 1' anima,   11 concetto; ecco le quattro gradazioni, per le quali passa il  pensiero speculativo, produceudo una scienza eh’è la prima  e la massima, e che comprende la protologia, la cosmologia,  la psicologia e la logica. . (p. 2fi)   Venendo alla storia della filosofia, il Fiorentino di¬  chiara che il disegno della storia si deve modellare  su quello della scienza : sicché la storia dev’ essere essa  medesima un sistema. « Una storia che non fosse un  sistema ma un’ imbastitura di fatti racimolati qua e là,  non sarebbe meritevole di tanto nome». Quindi la con¬  nessione da preferire tra i vari sistemi è quella logica.   So bene io essersi talvolta tenuto conto o della successione  cronologica, o della continuità etnografica; confesso che  queste maniere contengono qualche parte di vero ; che il  tempo maturi ed incalzi le deduzioni della logicn ; che la  scienza alcune volte si sviluppi come un dramma vivente in  una nazione: nondimeno il pensiero, essendo di natura estem¬  poranea ed eslraspaziale, mal si potrebbe acconciare tra questi  angusti cancelli... Egli è da maravigliaro intanto come fra  tanti che hanno trattato la storia della filosofia quasi uiuno  abbia fatto capo dellu genesi logica dei sistemi, salvo l’Hegel    in cui celesta legge si appalesa inflessibile come il fato; e  nelle cni mani la storia si trasforma in una geometria, dove  nulla viene lasciato all’arbitrio del pensatore. Hegel accorcia  e distende i sistemi come il Procuste della favola, affinché  tutti ripetessero costantemente il ritmo prescelto della trico¬  tomia. Il Richtor inchina per contrario a sostenere l’au¬  tonomia delle scuole e dei sistemi ; sminuzza, taglia i nervi,  e leva di mezzo ogni addentellato. Nel primo 1’ uniformità ò  monotona, nell’altro la varietà rimaue disordinata ed inor¬  ganica. Contemporaro però questi due estremi, badare alla  continuità del pensiero universale, senza disconoscere l'in¬  fluenza individuale, è proprio mettersi sul giusto mezzo, ed  in postura convenevole, onde si possa portar giudicio sopra  i sistemi. E qnando dico sistemi, io non guardo alla breccia (f),  ma alla radice: non all’aspetto subbiettivo, o nlla convinzione  del filosofo, ma alla materia, eli’ è stata fondamento della  sua opinione. Voglio vedere non quel ch’egli crede, ma quali  cause lo abbiano sforzato a questa credenza... (p. 29)   La storia della filosofia presuppone un sistema, che  sia come il regolo con cui conviene riscontrare e mi¬  surare le dottrine. E dalla maggiore o minore ampiezza  del criterio di una storia, dipende il valore di questa.   Hegel ha immedesimato la storia della filosofia col suo si¬  stema, affermando non essere tutti gli altri se non momenti del  suo, e (singolare ardimento!! egli non si è peritato di pian¬  tare le colonne di Ercole della filosofia ! L’avvenire giudicherà  di lui, provando coi fatti, se dopo la grande Enciclopedia  ancora allo spirito umano qualche cosa rimarrà da fare.   Infine il Fiorentino toccava la questione di una filo¬  sofia italiana contestata dagli storici stranieri.   Mettendo n rassegna le nazioni filosofiche di Europa, Hegel  tripartisce il mondo della filosofia moderna, maiorasco ina¬  lienabile, tra l’Inghilterra la Germania e la Francia... Il  Cousin di poi, n cui non tornava conto una terza nazione,  non avendo una tripartizione a fare, ridusse le partite, e  diede luogo a due nazioni soltanto, alla Germania ed alla  Francia... Il professore di Berlino e quello della Sorbona si  trovano peri» d’accordo nel diseredare l’Italia. E perchè 1  Forse Telesio e Galileo non parlarono mai del metodo spe¬  rimentale ? Giordano Bruno non mosse dall’unità della sostanza  prima ancora dello stesso Spinoza? Campanella non iniziò la  osservazione psicologica? K Vico non partì dalla conversione  del vero col fatto, statuendo il fondamento più solido cito  potesse avere la filosofia? Nulla di tutto questo, o signori;  tre termini bisognarono all’ Hegel, due al Consin, e per noi  non rimase luogo. L’Italia, se diamo retta alle divisioni di  oltremonte non ha fatto mai nulla, non ha pensato mai a  nuli», e sola, spogliata del comune retaggio dell’urnan go-  nero, ella è costretta a stare spettatrice stupida od ingloriosa  delle maraviglie altrui. Troppo beata, se il passato della Ger¬  mania o della Francia potesse diventare il suo presente;  troppo venturosa se, chiamata dalla straniera magnanimità, le  venisse consentito di spigolare nel campo, ove a si larghi  manipoli hanno gli altri mietuto.   Mi rincresce, o signori, di dover prorompere in parole  amare verso uomini al cui ingegno porto di cuore molta ri-  vegenza; me ne rincresce ancora più forte per dover rinfre¬  scare titoli lunga stagione abusati, quando la gloria dei padri  fu chiamata a coprire la riprovevolissima inerzia de’ figli. No,  io protesto, signori, die noi non vogliamo addormentarci sugli  allori dei nostri padri, che noi non vogliamo farci belli della  loro gloria, fragile schermo alle immeritate rampogne... (p. 31)   Il Fiorentino ricordava la « gran sollecitudine » che  a Napoli egli aveva visto « affaticare gl’ intelletti traen¬  done argomento a bene sperare e ad asserire che forse  la filosofìa era « deputata a maturare i fati della patria».  Faceva voti cho quel « desiderio ardentissimo » si dif¬  fondesse da Napoli per tutta Italia ; « lieto di poter  proseguire l’impresa, che qui (a Bologna) inaugurava il  suo illustre predecessore»; cioè lo Spaventa. Infine,  una patriottica perorazione :   Por gli altri, o signori, la scienza può essere forse un ad¬  dobbo ed un decoro, por noi italiani è desiderio di riscossa,  è condizione indispensabile di vita. Noi non sapremmo pas¬  sarcene senza tralignare dalla nostra antica fierezza, senza disconoscere la missione nostra nella storia. E poi grandi  cose ancora ne avanzano a fare, nè potremmo meglio allenarci,  che fortificandoci la mento di profondi studi. Nella infanzia  dei popoli era la fede che operava prodigi, e remica possibili  le Crociate; nella loro virilità non si possono aspettare altri  miracoli, che lineili della scienza... Un pensiero che non fosse  progenitore fecondo di magnanimi fatti, io lo disdegnerei;  ma esso avventurosamente non sarebbe nemmeno da dire  pensiero, si bene fantasma vano, e passeggero capriccio. Io  nel filosofo anzi tutto voglio guardare l’uomo coni’esso è, e  voglio trovarcelo vergine, schietto, maschio e vigoroso. Io  batto le mani a Socrate che combatte u Potidca, sento un cotal  orgoglio di coltivare la scienza elio mantenne serena la fronte  di Giordano Bruno avanti al rogo: applaudo a Kicbte che  lascia la cattedra di Jena e corre sui campi di Lipsia; e non  so rifinire di ridurmi nella memoria Sl’acteria, Mestre e Cur-  tatouo, ove siete caduti voi, Santarosa, Poerio e Pilla, va¬  lorosi ingegni, valorosissimi cittadini.   Sì, o giovani, di profondi veri e di magnanimi fatti noi  abbiamo bisogno, e 1’ Italia sarà. Addoppiate gli sforzi... Per¬  corriamo di conserva e con alacrità 1' arduo arringo della  scieuza, e siamo certi di cooperare in tal guisa potentemente  al riscatto della patria nostra. La scieuza lo iniziò, ed essa  indubitatamente lo coronerà, snebbiando le nienti, aprendo il  cuore a piò candidi alletti ed utlbrzando le braccia della no¬  vella ed adulta generazione. Un ultimo sforzo ancora, e quanto  prima il Ponte di Rialto risuouerà dell’ eco dell’ inno nazionale  cantato sulle serve lagune dell’Adriatico, e le piume dei nostri  bersaglieri si agiteranno al vento che spira dai sette colli  (pp. 32-33).   Dagli studi sulla filosofia greca pel corso universitario  annunziato nella lettera del 12 gennaio 1863, fatti sotto  l’ispirazione dello Spaventa, uscì il Saggio storico sulla  filosofia greca (Firenze, Le Monnier, 1864), dove il gio-  bertiuno di tre anni innanzi, autore dell’ opuscolo 11  Panteismo e G. Bruno, si palesava hegeliano e scolaro  dello Spaventa, di cui infatti metteva a proposito la  memoria su Le prime categoi'ie della Logica ili Hegel.   Così il Fiorentino si staccava coraggiosamente da’vecchi amici di Napoli : onde nella conclusione del Saggio  (p. 302) accennava: «Devoto alla verità, non mi ter¬  ranno del certo impastoiato nè vecchie preoccupazioni,  nè codarde paure». Non gli mancarono, infatti, silenzii  sdegnosi e tacite rampogne, seguite da una rottura,  che fu la prima origine della polemica scoppiata dodici  anni dopo con l’Acri e il Eornari. Nella seguente lettera  ne abbiamo il più antico documento:   Mio carissimo amico,   Vi so infinitamente grado di llo coso gentili che mi dito  del mio libro, o non vi nascondo che le vostro parole mi  sono valso di sprone efficacissimo a seguitare. Voi sapete di  quanto peso io tenga il vostro parere? o come lo anteponga  ad ogni nitro che potessi avere in Italia, o anche (V oltre¬  mente 5 onde me n* è venuta allegrezza o buona voglia da  non potersi misurare. Per me la filosofìa è stata sempre un  amore, e perciò mi vi sou messo in buona fede, e senza preoc¬  cupazione di partigiano. Non timido amico del vero, io  dirò sempre aperto il mio modo di vedere; ed in ciò debbo  confessare che voi mi siete stato esempio e conforto. Delle  altrui dicerie non mi brigo; conserverò P amicizia a chi me  la continua non ostante il dissidio delle opinioni, coni’ è mio  costume; uon mi dorrà di perdere amici, i quali pretendessero  d impormi un treno, e di vincolarmi con pastoie, che Panimo  mio, non che nou comportare, anzi disdegna.   Questo anno mi occuperò «Iella filosofìa tedesca, e epocial-  nmnte di Kant, lo cui opere ho già tutte, oltre ad altre espo¬  sizioni, tra le quali quella del Cousin. Sopra tutto ho in  pn.'gio il vostro lavoro su Kant e Rosmini, dove mi pare ve¬  dere il kantismo scolpito con tutP i suoi pregi e le sue la¬  cune.   Mi vo procacciando i nostri filosofi «lei Risorgimento, per  occuparmene in un lavoro che ho in animo di stendere que-  st’anuo medesimo. Ditemi voi se le biblioteche di Torino,  dove siete stato, ne hanno qualcuno, e quale; perchè potrei  chiedere al Ministro che fossero di mano in ninno mandati a  questa hibliot«^ca por studiarli...   Vi ricordo e rnccomando da ultimo l’affare della Metafisica  1-1 — Gentili:. Storia della filosofia.      Aristotile del Bonghi, avendo egli ora il tempo di de¬  dicarsi alla continuazione di quella stampa. Add.o, uno ca¬  rissimo amico, e ricordate ed amate    Di Bologna,   Il tutto rostro        £—5S-Svt*-- —   Addio.   Dal lavoro su Kant e Rosmini dello Spaventa ossia  La filosofia di Kant e la sua relazione con la filosofie  italiana (Torino, 1860, rist. in Scritti filos pp. 1- 9)  il Fiorentino aveva mostrato nel Saggio di avere ben  compreso il valore della categoria kantiana. Ma poco  vantaggio potè certo cavare dalla esposizione <  Cousifr^Li «fe filosofìa di Kano che - 18«  era stata pure tradotta in italiano da F. Irmctiera  eredità, probabilmente, dei primi studi di Napoli, avan  alla conoscenza dello Spaventa. Della tradurne della  Metafisica di Aristotele, di cui il Bonghi aveva pubblicati  i primi sei libri a Torino nel 1854, il Fiorent.no in¬  sieme col Bonatelli, che allora gli era collega a Bologna  procurava di rendere possibile, con una sottoscrizione .  resto della stampa, anzi la pubblicazione completa, con  hTristampa della prima parte; ed è a deplorare che non  ‘ S riusci», e che Jop» il Bonghi ne .1*» *»b.n.  donato il pensiero, quantunque la sua interpretazione   non sia senza difetti.   TTT^ale che allora pubblicavano a Napoli il De Sancii» e .1  Settembrini.  Il corso 1864-65 fu in effetti consacrato a Kant. Della  prolusione è notizia in quest’ altra lettera, dove il Fio¬  rentino torna a lagnarsi del silenzio del Fornari, dando  a divedere quanto pur ne soffriva il suo animo affettuoso':   Carissimo amico,   ...Io sono venuto qua a passarvi le feste, ed ieri, appena,  arrivato, vi ho trovato la vostra lettera rinviatami da Bologna.  Aspetto con premura la vostra lunga lettera, ora che le va¬  canze ve ne lasciano il tempo.   Ho letto a Bologna una prolusione su Kant, di cui questo  anno mi occupo precipuamente. Sarà stampata a Firenze in  un nuovo giornale scientifico, elio ha per titolo La civiltà  italiana, e eh’è diretto da De Gubernatis. Quando ne avrò  gli estratti, ve ne manderò uno subito. Se voi voleste scrivere  qualche rosetta, o in qualche modo valervi di questo nuovo  giornale, so che De Gnbernatis no sarebbe lietissimo, fc un  bravo giovane, che io ho conosciuto, e che vi ammira molto.   Sapete voi, che, avendo mandato il mio libro ad alcuni a  Napoli, non ne ho avuto neanche risposta! Che voglia dire,  non so ; ma mi par barbara usanza il voler imprigionare la  mente umana. La mia, non si lascia inceppare, e rinunzio vo¬  lentieri ad alcuno amicizie, quando queste non possono con¬  ciliarsi con l’amore della verità.   Por la soscrizione ili Bonghi vi rinnovo le premuro, perchè  egli sta aspettando che io gli rimandi i manifesti. So come  si vada incontro ad inconvenienti, ma noi non assumiamo  nessun obbligo personale. Addio, mio carissimo amico, ed  amate   Di Perugia, 26 dicembre 1861.   Il vostro afet.mo sempre  F. Fiorentino.   La Civiltà italiana pubblicò nei primi tre numeri (I  trimestre, gennaio 1865) il discorso del Fiorentino : Em-  manuele Kant ed il mondo moderno; come pubblicò di  lui stesso il 19 febbraio 1865 (n. 8) lo scritto su I dia-    1 Cfr. quello che se ne dice nella Filos. contemp., p. 139.        Ioghi di Rucellai; dall’aprile al giugno dello  stesso anno (II trimestre), le  lettere Stilla Scienza Nuova di Vico / e nel luglio, il  discorso Dell’armonia del concelto di Dante come filologo,  come storico, come statisla (II semestre, nn. 1 e 2): lavori  tutti ristampati più tardi dall’ autore, salvo il primo,  negli Scritti vari (1876).   Del discorso su Kant dimenticato conviene riferire  qualche pagina, la quale dimostra quanto il fiorentino  avesse profittato della lettura degli scritti dello Spaventa.   Ecco, per esempio, come poneva il problema kantiano :   jjji sperienzu prima di Kant era stata smaltita siccome il  fondamento più stallilo della scienza, o come le colonne di  Ercole, di là dalle quali non era dato allo spirito umano  travalicare senza pericolo d’imminente naufragio. Kant ri¬  flette, clic la sperieuza è tiu fatto, e ebe perciò non può  essere primitivo; essendo un risultamento, del quale si può  e si deve cercare la guisa e la ragione del nascimento. Egli  adunque propone una domanda nuova nella storia della tìlosoiìa.  coni’è possibile la sperienzat E più generalmente ancora:  coni’ è possibile il conoscerei Con la quale domanda 1 oriz¬  zonte della scienza si trova onninamente cangiato, e i vecchi  filosofi seriamente imbrogliati. Il Galluppi, che primo in Italia  giudicò convenevolmente il movimento kantiano, si accolse  di questa novità di problema, e con la Bolita sua semplicità  di linguaggio la espose così: — Prima di Kant la filosofia era  dommutio .1 o scettica: con lui comincia una nuova forma, la  critica. E prima, difatti, i filosofi o ammettevano la sperieuza,  o no; Kant uè l’nmmise, nè la rifiutò; ma disse: come si  formai II problema così mutato non versava più sull’esi¬  stenza del fatto, ma sul suo nascimento; e cotesto è la mu¬  tazione più sostanziale che Kant avesse recato in mezzo nella  scienza filosofica.   I.a Scolastica mutuava or dalla tradizione religiosa, or dalla  storia, or finalmente dalla filologia il contenuto della sua  scienza: presupponeva l’anima, il mondo, Dio, i loro attributi,  la loro origine, e vi attagliava una forma scientifica per pal¬  liare l’intrinseco difetto. Cartesio se ne sdegnò, e sopprimendo quel vuoto ingombro, fece capo alla coscienza, dove credette  trovare il punto stabile, sul quale puntellando la leva onni¬  potente del pensiero si mettesse in grado di smuovere il mondo  antico, e di sfasciarlo. La filosofia sperimentalo sotterra¬  tagli ridusse lo spirito a tavola rasa, e vi disegnò sopra le  prime linee della scienza nascente. Kant sorpassò l’uno e  l’altra, e soffiò su tutto il sapere precedente, perfino su la  coscienza di Cartesio, pertìuo su la sperienza di Locke ; es¬  sendoché entrambe contenevano degli elementi variabili,  ed egli, messo su l'avviso dalle rigide deduzioni di limile]  non voleva più far entrare nella scienza nulla elio avesse  sembianza di mutabilità.   Esposte rapidamente la unificazione del molteplice,  onde nell’esperienza kantiana s’intuisce il sensibile e  onde si giudica per mezzo delle categorie le intuizioni,  il fiorentino dimostra come la vera unificazione ancora  non sia compiuta, essendosi passati dall’ opposizione  della materia e della forma dell’intuizione a quella di  intuizione e categoria.   Il legame primitivo, ove si rannoda il multiplo sì della  sensibilità, come della intuizione, è l’unità trascendentale  della coscienza. E badiamo che non ci tragga in inganno il  nome medesimo di coscienza, di cui Kant si vale in due si¬  gnificazioni ben differenti. Questa coscienza trascendentale ò  primitiva ed originaria; producondo gli opposti, non può ella  essere un opposto; se no, si andrebbe all’infinito. L’altra  coscienza di soconda muno vien oontraseguata con la giunta  di empirica, ed è una fattura di quella primo, come ogni  altro fenomeno: va costruita con la forma del tempo, con le  categorie di possanza, di causa, di relazione, e via via. La  coscienza empirica, insomma, ò posteriore assai alla coscienza  trascendentale, la quale sola ò unità originaria e feconda.   L non è senza ragione se ho ribadito questa distinzione,  essendo capitalissima nel sistema che stiamo abbozzando, il  vero merito di Kant non è di avere trovato i concetti a priori,  ma di avere posto a capo della sintesi quella eli’ ei chiama  energia porlentota, vale a dire la unità sintetica originaria della  coscienza. L’illustre prof. Spaventa lia con molto aocorgimento messo in sodo questo punto, criticando la esposizione che il Ro-  smiui aveva fatto del Kant. Non è gii che gli opposti sieno  dati, e che lo spirito, trovandoli, se ne impadronisca e li  vada elaborando: questo processo ci era prima di Kant, ed  egli lo ha sorpassato, vedendone la insufficienza. Imperocché  quale conoscenza potessi avere, posto che i termini, ond ella  si compone, fossero stati accoppiati per caso e alla rinlusaf  Data da uua parte la intuizione, dall’altra la categoria, e  poi lo spirito che le sforza ad un’ unione innaturale, o per  lo meno arbitraria ; non si vede che il giudizio sarebbe  un’imbastitura come quella che descrive Orazio, e non già  un processo dello spirito, il cui carattere specialissimo è  l’intimità? Se lo spirito adunque unisce gli opposti, è perchè  entrambi scaturiscano da una sorgente comune, e perchè il  riunirli è per lui una scria necessità.   Ma Kant non fu coerente a questo concetto della sua  energia portentosa. Confusa la coscienza trascendentale  pura con l’empirica, ritenne impossibile la deduzione  logica delle categorie, che ripescò perciò empiricamente  attraverso i giudizi ; stralciò il pensiero dall’ essere, fa  cendo della sua attività una forma affatto vuota ; e finì  nel noumeno inconoscibile.   E la conseguenza è giusta, ogni volta che si ammetti' un  pensiero che non pensa nulla, e, di rincontro, un essere che  non può essere pensato. Se non che lo sbaglio sta appunto  in questa concessione. Un pensiero vuoto non è : un essere  non pensato non è: sono due astratti, ai quali voi accordate,  con soverchia larghezza, forma e persona. Che vuol dir mai  cotesta cosa in sè, che fatalmente sfugge al nostro intelletto?  Cotesto essere oscuro, che brilla per la sua mancanza, e dopo  balenato alla mente, si cela per sempre? Voi diti' di non co¬  noscerlo ed io vi replico con 1’ Hegel, chi' nulla è più Incile  a conoscere di questo punto oscuro. Esso è l’oggetto del  pensiero spogliato di ogni determinazione, vuotato di ogni  contenuto, ridotto alla mingherlina condizione il’ identità pu¬  ramente astratta. Or dunque non raffigurate in lui uuu crea¬  tura vostra?. Nè le altre due Critiche riescono a sanare pienamente  le conseguenze prodotte da questa opposizione risorta  tra pensiero ed essere nella Critica della ragion pura.   Nella stessa Civiltà italiana (II sem., n. 10, 17 set¬  tembre 1865) il Fiorentino inserì una recensione del  primo di quei tanti libri che poi Ruffaele Mariano venne  compilando sui libri altrui : Lassalle e il suo Eraclito,  € saggio di filosofia hegeliana » (Firenze, 1865). Recen¬  sione benevola verso il giovine autore, nella quale giova  rilevare due osservazioni, che mostrano già nel ’65 ben  determinate le due direzioni divergenti degli scolari del  Vera da una parte e di quelli dello Spaventa dall’ altra.  Una è questa : « Perchè chiamate rivoluzionaria, in senso  di... retriva la filosofia di Rosmini? Perchè dir filastrocca  quelln del Gioberti? Questo acerbo procedere verso due  illustri italiani, quando anche si fondasse sul vero, non  sarebbe certo modesto consiglio il tenerlo. Nè veggo che  l’essere hegeliano debba di necessità far avere in poco  conto le loro dottrine, perchè la critica imparziale e  seria, che P illustre prof. Spaventa ha fatto dell’ uno e  dell’altro, prova il contrario».   L’altra è anche più notevole: «Ammesso come pre¬  feribile [a quello di Lassalle] il giudicio di Hegel sopra  Eraclito, non v’ha proprio nulla a ridire, specialmente  su la relazione che P Hegel pone tra Eraclito e P ultimo  degli Eleatici? E forse vero che Eraclito segni un  progresso sopra Zenone? Pare che, Eraclito essendo stato  prima di Zenone, la dialettica obbiettiva di quello sa¬  rebbe apparsa alla coscienza speculativa prima della  dialettica zenoniana ; onde l’andamento storico, per lo  meno, sembra essere stato da Hegel capovolto. Dico ciò,  allinchè l’egregio Mariano si tenga in guardia inverso  la eccessiva fiducia nell’ autorità di maestri, per grandi  che fossero. Le colonne di Ercole dell’ ingegno umano. bisogna tenerle discoste più che si può ; e se si potesse  affondarle nell’Oceano, tanto meglio. Anche lo Spa¬  venta era di quest’avviso.   Nel 1865 il Fiorentino si accinse al suo lavoro sul  Pomponazzi, pur continuando all’Università i corsi sulla  filosofìa tedesca moderna. E scriveva allo Spaventa:    Mio carissimo amico,   È trascorso gran tempo che manco <li vostre nuovo, non  ostante die vi abbia scritto durante le vacanze, quando il  Settembrini mi fece sapere ch’oravate a diporto nella cam¬  pagna. Ora che il oholèra si sente a Napoli, io sono divenuto  inquieto per causa di qualche amico elle vi ho, e più d ogni  altro per causa vostra. Levatemi da questa iuquietitudine  scrivendomi due parole che m’informassero della vostra salute.   Io sono tornato qui prima della riapertura della Università,  e vi ho riprese le mie lozioni. Ho passate le vacanze qualche  giorno a Ravenna, un po’ a Firenze, un po’ a Perugia, e poi  il più del tempo in villa.   Sto esponendo la filosofìa tedesca da Kant in qua ; e ciò  alla Università. Sto preparando una biografia ilei Pomponazzi  ricavata dalle sue opero medesime, per leggerla nella Società  di Storia Patria, di cui faccio parte. Se questa prima non  dispiacerà, o non parrà inutile, ne farò qualche altra di  qualche pensatore più importante che abbia insegnato a Bo¬  logna. Oltre l’Acbillini, chi altro mi suggerireste voif Forse  potrei farla ancora del Cromonini, che, stato a Ferrara, può  dirsi delle stesse provinole di Emilia: del Zabarella no, eh’è  stato soltanto a Padova. Io poi a queste biografie, elle leggerò  nella Deputazione di Storia Patria, aggiungerò per conto mio  la esposizione e la critica del contenuto filosofico dei loro  libri, compiendo di ciascuno una monografia. Che ve ne  pare t   ...Col medesimo ordinario vi spedisco un libretto conte¬  nente alcune mie lettere su la Scienza Nuova. Le scrissi per  compiacere a De Gubernatis, che mi chiese qualcosa per la  sua Civiltà italiana. Non sapendo se abbiate o no avuto quel  periodico, ve le mando così radunato, come le feci estrarre;      e vi prego di accettarla come testimonianza della mia sincera  stima ed amicizia.   Addio adunque, datemi presto vostre nuove, e ricordate ed  amato   Di Bologna, 30 novembre 1865.   Il vostro afi.mo amico  P. Fiorentino.   E questo il primo disegno del Pomponazzi, la cui  biografìa fu prima inserita negli atti della Deputazione  di Storia Patria per le provincie di Romagna (1867), e  poi riprodotta in capo al volume pubblicato nel maggio  1868. Il 19 giugno 1867 il Fiorentino, che diventava  sempre più intrinseco dello Spaventa, tornava a darne  notizia all’ amico : « Io aspetto la nuova ristampa [della  tua memoria] sul Campanella, 1 perché essendomene  quest’ anno occupato nel corso scolastico, sono desideroso  di vedere come tu l’hai trattato. Ora sono attorno ad  una monografia sul Pomponazzi, attorno a cui raggrup¬  però i più celebri suoi contemporanei. Me lo stampa il Le  Monnier... Me ne dà cinquanta copie e 150 lire pei libri  che mi sono occorsi ». E il 26 aprile 1868: « La stampa  del mio libro è finita, e sono attorno a scrivere due  parole di conclusione, per le quali ho aspettato di ri¬  leggere tutto il libro, che non avevo riletto, nè ricopiato,  dopo scrittolo. A Firenze, nella Magliabechiana, trovai  di Pomponazzi un manoscritto inedito col titolo di Quae-  sliones ammostiate : * le chiesi al Napoli. 3 Mi promise di  spedirle subito, ed ancora non le vedo. Ciò mi turba  non poco, non potendo sbrigare subito la stampa. Ma¬  ledetta fiaccona degl’italiani! ».    1 III Saggi ili critica, Napoli, 1867.   5 Cfr. Fiorentino, Pomponazzi, p. 509.   «Federigo Napoli, allora segretario generale del Ministero della I. P.Uscito il libro, il Fiorentino, mandato che l’ebbe allo  Spaventa, ne attendeva con la solita ansietà un giudizio.  E giudice, in altro campo, era stato quell’anno lo Spa¬  venta a Bologna, tra ire, sospetti e timori, di cui un’eco  risuona anche nella lettera qui appresso riferita del  Fiorentino. Era stato col Brioschi e il Messedaglia a  fare quella ispezione alla Università, di cui parla il  Carducci in Ceneri c faville ; e aveva riferito lui al Mi¬  nistero.   Mio Carissimo amico,   Ilo ricevuto i manoscritti del Gatti, che ho consegnato  subito al Siciliani, uonchè lo due dispense che mi mancavano,  e di cui ti ringrazio vivamente... Non ho visto incora l>e  Meis, ma fari) di tutto per leggere la lettera di venti pagine: 1  ci dovrà essere una epopea intera.   Qui si fa un grati dir male di te per la famosa relazione: *  io uon l’ho letta, e se non la leggerò, non me ne sto al detto  di nessuno. Mi si è detto cose, alle quali, come puoi pensare,  non ho potuto dar credito: tra le altre cose che voi avete  dato una patente d’ignoranti a tutta l’università in massa,  e che in difetto di scienza, si va in cerca di popolarità nello  associazioni politiche, lo per me, se fosBe vero il detto, nou  protesterei per l’ignoranza, che sento di averne una grossa  dose in corpo, nm protesterei per la popolarità, perchè non  no ho avuto mai gran voglia ; e se si acquista nei cliilie, ci  vorrà un pezzo prima che me ne tocchi un briciolo. Manco  male se si acquistasse dormendo, perchè allora potrei averci  delle pretensioni. Fuori di scherzo, quello che si bucina qui,  e che ha prodotte molte ire, nò senza ragione se fosse vero,    1 La lettera al De Meis che fu pubblicala col titolo Paolotttsmo,  positivismo e raslonallsmo , c che é qui appresso citata.   « Si allude a una Relazione da lo Spaventa presentata al Ministero  della P. I. in seguito ad una inchiesta da lui fatta in commissione  col Brioschi e col Messedaglia, nell’ Università di Bologna, iter ragioni  d'ordine politico, nel 1868. Un articolo del Carducci su questa faccenda,  pubblicato Dell'Amico del popolo, di Bologna, del 29-H0 luglio iami. si  può vedere nel volume teneri e faville, serie I: Opere, è qnell’aver messo sotto nini tuie cntegorin, e tutti in un  fascio, i professori bolognesi, lo sono nn mezzo proscritto, perchè  sapendomi tuo amico, o si guardano di me, o mi tempestano  a tutta furia.   Lasciamo questa miseria. Ho letto i documenti che il Berti  lui stampato della vita di Bruno. Il processo veneto, se  non e stato adulterato il contenuto, fa mostra di poca fer¬  mezza, o non so persuadermene. Che cosa ne dici tu! Gli hai  visti! 1   Ho tra le mani pure la seconda edizione delle opere di  Comte, e voglio leggerla tutta, perchè ne ho Ietto soltanto  esposizioni, benché assai larghe.   Il mio libro è (inito, almeno le correzioni ultime le mandai  una settimana fa, ma ancora noi vedo. Appena uscirà, scriverò  a Firenze, che di là stesso te ne mandino mia copia, per far  più presto. Tu poi leggila col tuo comodo, e dimmene il tuo  parere, quando potrai. Capisco che hai molto da fare, o che  non puoi tutto quello che vuoi.   Mi prometto di avere qualcosa di tuo pel giornale; qualcosa  del Settembrini, fosse anche tuia pagina. Il Siciliani spesso  me ne fa premura... Io non solo non ti ammazzo, ma ti rin¬  grazio, e col vecchio adagio ti ripeto: meglio tardi che inai.  Non credo però a quel « subito », con cui vuoi darmi ad in¬  tendere che mi scriverai del lavoro di Labriola.* * Sii contenterei  che fosse tra nn mese.   Hai avuto il libro del De Meis! 3 Dopo il Don Chisciotte non  ho letto libro che mi avesse fatto rider tanto : le cause del  riso sono spesso gravide di grandi pensieri. Mi piace molto,  ma molto. Qui l’hanno con lui tutti, il dott. Rossi perchè  noi trova abbastanza filosofo, le donne per essere state chiamate  animali domestici, e portino i bambini per essere stati ingiuriati    1 II Fiorentino, esaminali più lardi gli atti del processo veneto,  si confermò Infatti nel sospetto che fossero adulterati. Vedi un suo  scritto nel Oiorn. napol. di fllos. e teli., luglio 1878.   * Non saprei dire a qual lavoro si alluda.   * Il Dopo la laurea del l)e Meis (1808-69).        per tignosetti. La contessa Gozzadiui 1 gli scrisse una lettera,  nella quale si firmava: « l’animale domestico di Gozzadini*.   Addio, mio carissimo Spaventa, veglimi bene come te ne  voglio io   Di Bologna, 19 maggio ’68.   Aff.mo tuo amico  F. Fiorentino.   Lo Spaventa dovette rassicurarlo sul contenuto della  famosa Relazione. Quindi quest’ altra lettera del Fio¬  rentino :   Mio carissimo amico,   Ero capacitato anche prima, che tu non potevi aver detto  tutta quella roba da chiodi di questa Università, che altri  diceva, ed i pih credevano, lo perù, come amico, mi tenui  in obbligo di informartene, non per conto mio, ma per tua  regola. Tu puoi già pensarti, che con gli altri ho detto, e  gridato, e asseverato, esser impossibile che tu avessi voluto,  e potuto dire quello che non era; e elio la verità poi non si  può, nè si dove tacere. La tua lunga lettera mi ha fatto bene,  perchè mi ha snebbiato adatto la meute: il cuore, già s’in¬  tendo, propendeva sempre a darti ragione, e non ci era bi¬  sogno di altri eccitamenti. Io dunque non solo non ti ammazzo,  ma neppure ti muovo un rimprovero, molto meno poi per  mie personali considerazioni, lo sono un misto di stoico, di  cinico, e di scettico, che di questi tre elementi non so quale  prevalga pih. Dal Ministero non voglio nastri, dagli studenti  non voglio applausi; dunque, mi sento in grado di resistere  ad ogni tentazione. Ad una sola cosa non resisto, ed è il  bisogno di voler bene agli amici, e di dir loro franca, ed  anche brusca la verità.   Tu avrai dovuto ricevere a quest’ ora una copia del mio  Pomponazti; perchè io, vedendo il ritardo di Le Monnier a  spedirmene le copie, commisi ad un mio amico di spedirne    1 Maria Teresa G., di cui scrisse la Vi la 11 marito, Giovanni Goz-  zadini (Bologna, Zanichelli, 1884), con pref. di G. Carducci. V. pure  Carducci, Opere, III, 369 ss.          una copia almeno a te ila Firenze stessa. Fa il tuo commotlo  nel leggerlo, ma poi dammene il piìl severo giudizio die tu  possa, perchè da nessuno me lo aspetto piìi aspro e più  istruttivo. Chi mi dica: bravo, non ini mancherà; ed anzi  più me lo dirà chi meno me ne crederà degno, nè io ho da  peccar contro la modestia per accettarli, o per pronunziarmeli  io stesso; ma chi mi mancherà di certo sarà chi mi dica: qui  hai sbagliato, là avresti dovuto pensar meglio: queste pagine  avresti dovuto bruciarle intere intere. Kbbene, voglio che  quest’uno non mi manchi, e dovrai essere tu. Mettiti al naso  l’inseparabile occhiale, aggrotta le ciglia, prendi quel cipiglio  mezzo tragico che hai nella fotografìa di Napoli ; e per dir  tutto in una parola, figurati di scrivere una pagina di quella  relazione, per la quale vivrai eterno tra gli archivi del Mi¬  nistero, e poi scrivimi un letterone quanto quello che scrivesti  a De Meis. Più male parole ci troverò, e più te ne renderò  grazie.   A proposito, quella tua lettera, con partito unanime, fu li¬  cenziata alla stampa, riseoandone certi nomi propri, e certe  espressioui che ricordavano il Candelaio di Brano... Io mi oc¬  cuperò in alcuni articoli successivi dei tuoi lavori. Vorrei  farne tre o quattro, o quanti me ne verranno, per far notare  lo sviluppo della filosofia italiana secondo la tua critica, che  a me pare una vera scoperta. Ma aspetto prima di finire le  lezioni, perchè tu sai che questa rivista non è tanto facile...  Addio, mio carissimo Spaventa, e veglimi bene come te no  voglio io   Di Bologna, 3 giugno 1868.   Ajff.mo tuo amico  F. Fiorentino.   La lettera dello Spaventa, stampata nella Rivisiti Bo¬  lognese, , che allora il Fiorentino pubblicava con l’Al-  bicini, il Siciliani e il Panzacchi, è quella al De Meis,  col titolo Paolottismo, positivismo e razionalismo (rist.  in Scritli filosofici, pp. 291 sg.). Gli articoli che il Fio¬  rentino aveva in animo di scrivere sulla scoperta dello  Spaventa, non furono più scritti. Ma egli se ne occupò  qualche anno più tardi in quello inserito nell’itoh'a  dell’ Hillebrand.  STORIA DELLA FILOSOFIA    E poiché abbiamo accennato alle brighe universitarie  bolognesi del 1868, di cui fu tanta parte il Carducci,  diamo pure un altro curioso brano di lettera del Fioren¬  tino, diretta allo Spaventa poco dopo la sua partenza  da Bologna, dove si serba il ricordo d’una polemica  del Carducci col De Meis e col Fiorentino:   « Io sono stato poco bene, parte per la stagione che  corre, parte ancora per una certa polemica, nella quale  ci siamo trovati De Meis ed io, e di cui non so se ti  è pervenuto rumore. Or dunque, hai da sapere, che il  Carducci, credendo dall’articolo di De Meis, intitolato  Il sovrano, 1 offesa la dignità del suo partito, gli scrisse  contro nell’-Amico del popolo parole aspre. Gli diede del-  l’imbecille, chiamò citrullerie le cose dette dal De Meis...  L’ articolo non era firmato ; ma io sapeva esserne stato  autore il Carducci, per aver questi scritto le stesse cose  in una lettera particolare al Siciliani. s Risposi io, di¬  cendo... potersi combattere le opinioni, senza insultare  le persone. Il Carducci si rivolse contro di me una prima  volta ; ed io lo avvertii privatamente, che lo avrei jHinto  sul vivo. Non si stette a questo avviso, e ripigliò da  capo una tirata contro di De Meis e di me ad un tempo »  (18 marzo 1868).   Il Fiorentino replicò, ed ebbe, a quel che sembra,  l’ultima parola. Ma, «tutto ciò mi ha irritato», egli  scriveva nella stessa lettera, « ed il povero De Meis  n’era rimasto seriamente afflitto : dopo avuta la rivincita,  che tutta Bologna ha approvato, si è rinfrancato ; ed ora    * Pubbl. nella Rivista bolognese del 1868.   * Documenti dell’amicizia del Carducci per P. Siciliani sono i  giudizi del primo sul Rinnovamento della filosofia positiva in Italia  del Siciliani, In Ceneri e faville, 8. II, Opere , VII, 362-68: e le af¬  fettuose parole Alla bara di P. Siciliani, in Ceneri e faville, s. Ili,  Opere, XI, 313-316.      è allegro e sta bene... Eccoti descritta la nostra battaglia,  eh’è finita con nostro decoro».   Quegli articoli il Carducci non li volle pili ristampati.  Ma insieme con quelli del Fiorentino sono stati rin¬  tracciati dal Croce, che ha così potuto tessere la storia  di questo aneddoto. 1   In un’altra lettera di due anni appresso (25 maggio  1870) del Fiorentino allo Spaventa si legge ancora: « Io  sono sul punto di rientrare in lizza col Carducci, che  mi ha provocato con una nuova lettera insolentissima.  Questa nuova contesa, alla quale non ho potuto sot¬  trarmi, mi fa crescere il desiderio di allontanarmi de¬  finitivamente da Bologna ». Nel novembre 1871 il Fio¬  rentino, infatti, si fece tramutare nell’ Università di  Napoli, come professore di Filosofia della storia.   Ma non aveva lasciato Bologna quando cominciò a  lavorare intorno al Telesio. Ecco infatti che cosa scriveva  allo Spaventa il 14 gennaio 1869:   Mio carissimo amico,   Sono passati sei lunglii mesi che uè ti ho piti visto, nò ho  avuto tue nuove, tranne questa che mi diede tuo fratello,  che tu eri stato a villeggiare negli Abruzzi. Ora è cominciato  un anno nuovo, e voglio ritentare se tu, chi sa, volessi pure  incominciare una vita nuova. Dalla parte mia non voglio  mancare di mandarti i miei augnrii, tra i quali non ultimo  quello di scrivere un poco più frequentemente agli amici. Vedi,  che non ho detto di pensare o di voler bene ad essi, perchè  so che per questo riguardo non ci è bisogno di miglioramenti.   Io quest’ anno mi occupo di Leibniz o di Spinoza princi¬  palmente, poi dei seguaci, e, se mi avanzerò il tempo, di Ma¬  lebranche. Mi servo, oltre alle opere loro, di varii espositori  e critici, tra i quali della stupenda storia di lCuiio Fischer.    1 Vedi B. Crocb, Documenti carducciani: una dimenticata potè-  mica tra II Carducci, F. Fiorentino e A. C. De Mele, nella Critica  vili (1910), pp. 401-421.       t    Avrei intenzione di scrivere quulclie cosa sul movimento  telesiano, ed ho scritto per avere alcuni manoscritti che ri¬  guardano Telesio, e che si trovano parte costà, parte a  Firenze. 1 lo aspetto sempre il tuo parere sul mio libro;  parere, che per essere più aspettato, e piìì pregiato di tutti,  si fa lungamente desiderare. Ma verràf Lo spero.   Hai letto che cosa ne scrisse Franti sul Centralblatt? Egli  stesso mandommi con molta cortesia un numero di quel gior¬  nale, dove ci era la sua rivista sul mio libro.   Con De Meis ci vediamo spesso, ma egli non è in grado di  darmi tue nuove, più che io non sia riguardo a lui. La  neve ieri si è fatta vedere la prima volta in città: tu però  quest’anno non verrai a goderne lo spettacolo. Io quasi quasi  sarei tentato di pregare che a qualche professore saltasse in  capo di tribuneggiare per la tassa del macinato, per vederti  comparire in commissione straordinaria. Ma non vorrei poi il  danno del prossimo: in questo sono cristiano.   Tra questi giorni scriverò a Vera per invitarlo a scrivere  qualche cosa su la nostra Rivista. 11 Siciliaui, con le suo  velleità ortodosse, n’ò uscito, come saprai, ed io e l’Albicini  vorremmo tenerla in piedi, anche uu po’ più decorosamente.  Con te non ci vogliono inviti; ma, lo so purtroppo, non c’è  neppure da far grande assegnamento.   Addio, mio carissimo, scrivimi qualche riga, anche per dire  a chi mi doumnda di te, che sei vivo o sano.   Di Bologna, 14 del 1869.   Aff.mo tuo amico  F. Fiokentino.   L’articolo del Franti sul Pomponazzi uscì nel Cen-  tralblait del 30 ottobre 1868, e fu tradotto dal Tocco e  pubblicato in Italia, in una difesa dell’opera del maestro  contro gli attacchi della Civiltà Cattolica (nella Rivista  contemporanea di Torino, a. 1860, voi. LVI, pp. 247 58).   Del Telesio si torna a parlare in una lettera del 9  novembre 1869 : « Tocco ti ha mandato la prima dispensa    1 Vedi L. Settembrini, Epistolario, con pref. e note di F. Fio¬  rentino, 3.* ed. Napoli.  delle sue Lezioni, * 1 e so che aspetta il tuo giudizio. Io  ho cominciato a scrivacchiare le prime pagine di un  lavoro sul Telosio, che non so come mi potrà riuscire.  Aspetto la tua memoria completa su P Etica di Hegel. 1  Quanti più ne conosco, tanto più ti stimo e ti voglio  bene. Dimmi ora una cosa; vorrei dedicare a te ed  a De Meis questo mio lavoruccio sul Telesio, quando'  sarà finito: accetteresti tu la dedica? Tra me e te non  ci sono timori di adulazione, o di altri secondi fini :  è una pubblica professione di stima e di amicizia, che  mi piacerebbe di fare...». Il primo volume del Telesio  (18<2) fu dedicato, infatti, allo Spaventa: non solo  come testimonianza di amicizia, ma come dovere di gra¬  titudine e di giustizia: di giustizia verso chi aveva  scritto i saggi sul Bruno e sul Campanella ; di grati¬  tudine per l 'insolita luce che scintillava da essi, e da  cui il I iorentino era rimasto colpito. In questi studi  storici sui filosofi italiani del risorgimento il Fiorentino  infatti non fu, come s’è detto, se non uno scolaro dello  Spaventa: da lui avviato e da lui guidato.   Ecco come cou lo Spaventa si consigliava per pre¬  pararsi al primo corso di Filosofia della storia da tenere  a Napoli :   Camerino, 26 luglio 1871.   Mio carissimo amico,   Ti Borivo da Camerino, per sapere come stai, poiché non  mi iti dato di rivederti a Bologna, dove sperava poter passare  qualche giornata cou te. Avevo anzi desiderio di discorrere    1 F. Tocco, Lezioni di filosofia ad uso de’ Licei, Bologna, R. Ti¬  pografia, 1889, con pref. del Fiorentino.   1 il proemio a gli Studi sull'mica di Hegel era uscito nel 1869 nella  Riv. bolognese; ma l’anno stesso fu ristampalo con gli Studi negli  Atti della R. Acc. delle se. mor. e poi. di Napoli; e il tutto fu ripub¬  blicato da me nel 190-1 col titolo di Principti di Elica (Napoli, Pierro). teco seriamente, per sapere che cosa avresti creduto meglio,  ch’io potessi insegnare nel corso dell’unno venturo in coleste  Università. Tu sai meglio di me i bisogni, i desideri!, ed  anche i gusti di costà, lo per me vorrei far poche chiacchiere  sui generali, e, detto quel tanto eli’è indispensabile come in¬  troduzione, entrare a dirittura nel tema, che sarebbe, salvo  tuo avviso in contrario, il mondo grimo. Dol mondo orientale  so poco: avrei bisogno di studiare prima; ed il tempo, per  questo anno almeno, mi manca. Della Grecia conosco qualche  cosa, e con questi tre mesi di studio mi preparerei suffiiiien-  temente. Che cosa ne dici tu? Quali libri mi consigli di leg¬  gere ? lo sto rileggendo gli storici greci ; e dopo averli riletti  testualmente, uii gioverò del Grote e del Curtius. Per la parte  letteraria ho il Milller (Ottofrodo); per le religioni, la Storia  di Alfredo Minirv; per la parte filosofica, il Zeller; per arte  greca forse mi gioverebbe il Winckelmann, ...a noi so, perchè  ancora non lMio lotto.   Da tutti questi potrei attingerò, si sa, i materiali; ma U  resto è da fare. Le poche linee di Hegel nella Filosofia Mia  storia mi servirebbero di traccia: sui tuoi consigli poi faccio  largo assegnamento. Intanto comincia dal darmene qualcuno,  e fa presto...   Tutto tuo  F. Fiorentino.    Aggiungo qui appresso un altro gruppetto di lettere  o frammenti di lettere dello stesso Fiorentino allo Spa¬  venta, di cui trassi copia alcuni anni fa dalla carte  dello Spaventa ora depositate presso la biblioteca della  Società napoletana di storia patria ; poiché anche queste  lettere e frammenti / gettano qualche luce sugli studi,  sulle passioni, sulle idee, che si agitavano in Italia in¬  torno allo Spaventa.   (Pisa). — Ieri sera parti di Pisa Silvio, ed  a quest’ora sarà a Milano, e domani parlerà a Bergamo. Si  trattenne con me la giornata d’ ieri, ed arrivò qni avantier-  sera. Sta benissimo, e me ne sono consolato tanto. Gli dissi   elle ti avrei scritto stamattina ed al solito ti mando queBta  lettera col liciti. 1   K la tna lunga lettera? 15 rimasta tra i pii desiderii, di  cui è lastricato, dicono, 1’ inferno.   Io ho scritto una risposta all' accademico linceo Pietro Hu-  cione. 1 Si sta stampando a Napoli, e vorrei che tu ne guardassi  le prove prima di pubblicarsi. Ne ho scritto al Zumbini,  perchè te la mostrasse. Gli ho fatta una lavata di capo delle  mie solite. La presunzione e P ignoranza nel Ferri si bilan¬  ciano tanto, che non so a quale delle due dare la preferenza.   Aspetto tua lettera dopo letto questo articolo: mi preme  sapere il tuo giudizio, e ti do piena facoltà di mutare, e di  cancellare anche qualche cosa, die non ti paia conveniente,  o inesatta.   (Portici, 9 settembre ’73). — Ieri tornai da Soma, dove la¬  sciai Silvio che stava benissimo. Ho trovato qui una lettera  dello Zeller, clic mi annunziava la sua venuta a Napoli. Oggi  P ho visto, ed ho insieme saputo dal Labriola, che tu sei a  Maddaloni. Vuoi vederlo? Oggi si è parlato di te, ed egli de¬  sidererebbe di conoscerti di persona, come ti conosce di fama.  Dimora questa settimana...   (Pisa, 31 dicembre ’7(i) — Prima che tramonti l’ultimo sole  ili questo anno, e sta già per tramontare, voglio scriverti. Il  tuo ostinato silenzio avrebbe scoraggiato ogni altro, non me,  ohe quando si tratta di te, il peggio che possa pensare è,  che il calamaio l'abbi o smarrito, o asciutto come la sabbia.  Kccoci ora intesi : tu taci, io scrivo.   Io sto bene, e tutti di casa pure, salvo la Tuta 3 eh’è un  po raffreddata. E tu? E donna Isabella? E Camillo e la  Mimi f 4 Speriamo che stiate bene, ed auguriamo che stiate  meglio.    Pisa 1501 ** 0 ’* malenla lico, che insegnava nella Università di   lll0R0, '° Luigi Ferri, cui era sialo tra gli amici dello Spaventa  applicato tale nomignolo dopo elle Vittorio Imbruni nel Olorn  Napol. di filo.,, e leu , aveva rilevato lo strafalcione dal  j ,, commesso nel trascrivere f.V. Antologia, voi. XX, 1872) l'epitrrafe  della tomba del Cusano in S. Pietro In Vincoli leggendo: Promise*  Pelei lìucionts [invece di retri — bucionisj non fefetut eum »   HestItuta Trebbi, moglie del Fiorentino.   * Isabella Scano moglie dello Spaventa; Camillo e Mimi tigli.   Ln disfatta del nostro partito mi ha commosso non por me,  che sai quanto io stimi il genere umano in massa; ma pe  miei amici, per tuo fratello specialmente, che non ha alte  vita, si può dire, che la politica. Ne sono stato costernato,  ancora è scemata l’impressione. Nicotor» è dunque 1 arbitro  dell’Italia, e tutti, o quasi, gli si curvano, gl. si prosternano  innanzi. Quanta viltà 1 Quanta corruzione! Vaie il pregio <  curarsi del prossimo! E una terribile domanda : piò si conosce  il moudo, e piti si devo disprezzare: Leopardi non aveva  torto. Ma... c’ è un ma; ed io ti confesso che non mi “ ,re “ do -  con tutte le ragioni in contrario. Mi sono chiuso, vivo tra.  miei ed i libri, non vedo nessuno, non conosco e “   conosciuto, e mi sento beato in questo silenzio ed in questa  oscurità. 11 mio Niuarello cresce eh’è una delizia, ad ha tonto  alletto e tanto accorgimento, che mi diverte e mi ristora,  tess’io vederlo giovane fatto come il tuo (.umilio   Non Io perchè, mi sento ora più legato alla vita, come non   Cì iTn povero 1 Settembrini f  A casa mia ci fu lutto come  se fosse morta persona nostra: lessi la notizia su la Gazze a  dell’Emilia, ed insieme appresi la scondita di bihio.  colpi in una volta. Ma Silvio tornerà alla Camera, e al Mi¬  nistero, se il senso dell’ onestà non sarà spento nel nostro  nomilo ; il povero Settembrini non tornerà piu .   • Penso di scrivere per lui un articolo sul Giornale napoletano;  è la sola cosa ch’io possa fare per lui. Ma lasciamo questo   tr Che3 U rfacendo t lo sto scrivendo certe lezioni di  filosofia pei Licei: il Morano mi è stato addosso, e finalmente  mi ci sono piegato. È cosa molto ardua, ed il noti poterti  allargare quante vorresti, toglie gran parte della scioltezza  del pensiero, ed anche dello stilo. Farò alla meglio e quel  eli’è peggio, in fretta. 11 Morano commise lo sbaglio di un   f..U, munirò ...» »». «,•«•*>   fogli, ora con la spada alle reni ni’...calza per la tonti   n u azione.   i n settembrini mori addi 3 novembre 1878. Il Fiorentino non   scrisse poi l'articolo di cui parla in questa lettera; del rimpianto  scrisse P°' ,, u Scriui va .u di tener, polii, ed atte   (Napoli, Morano. 1873; e V Epistolario (ivi, 1883), premettendo agl.   uni e all'altro belle e affettuose prelazioni. All’ Università faccio nu corso di Etica, ed lio riletto la  tua memoria su l’Etica di Hegel. Hai visto il giudizio  portato dal Berlini 1 su di te, o di Hegel f Ci ho avuto molto  gusto, perchè la sua autorità non è sospetta, come In mia,  appresso la filosofia italiana. Povero Bortini, spento anche lui 1   Scrivimi, se puoi, e se vuoi: lascio la cosa al tuo arbitrio ;  non cosi, il volormi bene che in mezzo a tanti disiugauni  mi preme e mi giova assai.   Alla tua famiglia di tanti augurii anche da parte della  mia, e tu credimi sempre, e non a parole.   S. — Vedi se puoi sorivere qualche cosa pel Giornale  napoletano.   (Samhinse, 25 agosto 1877). — Ed ora un’altra notizia.  L’arciprete Pompa mi perseguita per causa tua: ha scritto  su l' Eburino, giornale che si stampa ad Elicli, una recensione  di un uuovo capolavoro artistico dell’Acri, e dico che io sono vo¬  tato a te anima e corpo. Fin qui non erra : ma il reverendo, pos¬  sessore de’ documenti della storia antidiluviana, non sa farsi  capace della mia polemica contro il vice-gesh, ed il vice-  Fornari; cioè contro il Fornari, e l’Acri.   Quest'ultimo, dopo di aver ponzato altri 14 mesi, è venuto  fuori con un opuscolo su Spinoza ; non so che cosa dica, e  come c’entri coi giudizi su la filosofia italiana, ch’egli doveva  convalidare. Non ho nessuna intenzione di rispondere, qua¬  lunque sia il libro, che ancora non conosco, se non per la  receusione dell’arciprete noetico».    1 Su G. M. Berlini (1818-1876) v. lo mio Origini della fllos. contemp.  in Italia. 1,* 129-201. Il giudizio cui alludo 11 Fiorentino, é contenuto  in una lettera del Berlini al prof. P. Merlo, pubblicala nel Giornale  napoletano di fllos. e letl. (ottobre 1876) IV, 823, dov’é detto: « Vi ringra¬  zio di avermi mandato lo scritto dello Spaventa, che io considero corno  il più serio e il più chiaroveggente degli Hegeliani d'Italia. Volendo lo  terminare un corso di filosofia elementare ad uso de’ licei... mi sono  creduto in obbligo di tener conto delle dottrine di quel valentuomo,  tanto più che io sono sempre in questa persuasione, che II restringere  il vocabolo scienza a significare puramente i risultati dell'esperienza,  dell'osservazione e dell’induzione, come si fa oggidì, negando ogni  valore scientifico alle discipline speculative, sia non solo arbitrario,  ma contradittorio... Quindi io credo che sla salutare un ritorno ad  Hegel, o per dir meglio, al suo metodo, e a quella sua assoluta, e  direi quasi eroica fiducia nelle forze della ragione umana ».  STORIA DELLA FILOSOFIA    (Pisa). — Prima di scordarmi, ae hai por¬  tata la Vita di Giordano Urlino, 1 dalla al Betti che me la  porterà: se no, mandala a Domenico Morano, affinchè me  la l'accia pervenire.   li Bruno si sta copiando, e dentro questa settimana co-  mincerò a mandare il manoscritto. Spero che tu hai con¬  certato pei caratteri, pel formato, per la carta. Se non avessi  ancora stabilito niente, scrivo che aspettino Beuz’altro il tuo  ritorno.   Il Peipers mi ha risposto che a Gottinga si conserva sol¬  tanto il manoscritto delP Oratio coneolatona ; ma non mi dice  neppure s’è autografo. Quest’ orazione io la trovai a Roma  tra la collezione degli opuscoli del Cardinal Valenti, ed è  rarissima. Vale la pena di far veniro il manoscritto? Nota  che a Gottinga, la copia stampata non l’hanno neppure.   L’edizione del Gfrorer ! non si trova in commercio : il  Zeller uii ha mandato la sua, la quale però è mancante della  quinta dispensa. Ne ho data commissione, ma non so se mi  riuscirà pescarla.   Ho scritto per l’edizione del Tugiui, Ve Umbrie idearum.   Ho riscontrato il Buhle : non dice nulla di manoscritti : porta  un catalogo delle opere abbastanza esatto. Ho trovato qualche  altra notizia sul Bruno uelPAoidalio. 3   Dopo che tu partisti di Roma, riseppi che nell’archivio  della congregazione di San Giovanni decollato c’ era la no¬  tizia del giorno della esecuzione del Bruno, e che questa  data non corrisponde a quella generalmente ritenuta (17 Feb¬  braio 1600).* * Mi è stata promessa una copia, benché quei  fratacchioni non vogliano far supero nulla. La notizia ag¬  giunge, che a nessun patto si volle convertire. Come sai,  questa notizia è un documento autentico, perchè finora non  c’ è altro che la lettera di quel furfante dello Scioppio. I.a Vita scritta da D. Berti (Torino, Paravia, 1888).   * Ossia il volume degli Scritti latini del Bruno, pubblicati nel 1838  (frontespizio 1831) da A. Kr. Gfrorer a Stoccarda.   * Cfr. la pref. dello stesso Fiorentino alle Opere latine del Bruno,  ed. naz , I, p. XX.   * Il doc. pubbl. in facsimile nel voi. Ili delle Opere latine del  Bruno a cura di F. Tocco e G. Vitelli (Firenze. 1891).      Inoltre il cav. Podestà 1 * mi disse, che a lui orati venute sot-  t’occhio parecchie carte mauoscritte concernenti il Bruno: non  sapeva però dove. Cercai una giornata intera, ma ce ne vo¬  levano delle dozzine di giornate, ed io avevo fretta di tornare.  Il Podestà mi promise di continuare le ricerche: se no, ci  andrò io per lina settimana.   Mi ci sono messo, o voglio riuscire.   Tornato tjiti, trovai Nino ammalato di febbre gastrica: com¬  parvero lo macchie difteriche; in un giorno si pennellarono tre  volte; due altre volte il giorno appresso: disparvero. Ma come  fossi stato io d’animo, tu puoi pensarlo. I nervi mi ballano  ancor», o tra giorni andremo in campagna, in una villa che  ho trovata in iptel di Lucca.   Ilo avuto i titoli di Bàrbera, 5 quelli del Siciliani non ancora:  conosco gli uni e gli altri; ma r/itid agenduml Sono tra l’in¬  cudine e il martello, e non so a qual partito appigliarmi.   E tu dimorerai a Napoli? Ovvero andrai in campagna, e  dovei Vorrei saperlo.   Il Labriola mi ha mandato un suo articolo su la libertà; 3 * e  vorrebbe ne dicessi qualche parola: mi ci trovo imbrogliato.  Capisco il Labriola, quando parla, non lo capisco quando  Bcrive. Non ha stabilità di pensiero, ondeggia in aria, ed  ha la pretensione di parere elaborato, come egli mi scrive.  Capisco Herbart, non capisco lui. L’oscurità non è nelle  parole, o nello stile, è dentro la testa.   Ilo letto il discorso di Silvio, e poi Insita sdegnosa lettera  all’Opinione, tritai maturità ili pensiero nel primo, e qual forza  di carattere nella seconda! Il discorso appartiene al mondo  moderno, ma la lettera è di altri tempi, ed ora non tutti  possono gustarla.   Salutamelo tanto, anche da parte della mia famiglia, che  fa lo stesso con te.    1 11 bibliotecario Bartolomeo P. <m. noi 1910), allora nella Vltt.   Emanuele di Roma.   ’ Luigi Bàrbera, che fu professore di Filosofia morale nella R. Uni¬  versità di Bologna.   * Del concetto della libertà, studio psicologico, nell'Archivio di sta¬   tìstica del 1S78 (risi, in Lakkiola, Scritti cori, ed. Croce, M’ero dimenticato di raccomandarti il Persiani. È  impaurito, perché il relatore 1 non sei tn, ina un lombardo  (forse il Teneaf), e par che dalla Lombardia non si riprometta  gran che di bene. Son certo però che tn potrai njutarlo  sempre.   (Pisa, 22 marzo 1877). — Avantieri ti scrissi a Napoli,  ed ora avendo saputo che il Betti ò stato chiamato per tele¬  grafo, ti rescrivo da capo, e ti manderò questa lettera per mezzo  suo. Io non gliela posso portare di persona, perchè sono al¬  quanto infreddato a causa della lezione d’ieri.   Tu che sei la fenice dei Presidenti, specialmente quanto  a prudenza, vedi se non entra fra le attribuzioni presidenziali  quello che ti chiedo io.   Ho bisogno di venire a Roma, perchè il primo volume è  finito, e per continuare la stampa voglio esser certo che il  ministro non adduca cavilli : nel qual caso pianterei 11 la  baracca. Premesso ciò, e visto e considerato che il Ministero  ha premura pel Siciliani, e poca o punta premura pel concorso  di Torino, visto e considerato, che sta alla chiaroveggente  perspicacia del Presidente il decidere se necessiti la convo¬  cazione del concilio: io riproporrei che tu ci convocassi; che,  convocati nell’ interesse del pubblico erario, stimoli i padri  ecumenici di Roma a finir la eterna questione di Torino; e  son certo, come ogni dottor Pangloss, che tutto andrò per lo  meglio in questo perfettissimo mondo, tranne il mio raffreddore  che sempre piò s’ inasprisce.   Ed ora che ti ho detto il mio desiderio, tu con quell’occhio  critico che ti rende (che cosa dico!) che ti rende piuttosto  singolare che raro, farai quel che crederai.   Ed orn da capo, ma su di un altro argomento, una notizia.  Nell’ultima puntata (stile mamianico) della Filosofia delle  scuole italiane, il sullodato Conte scrivendo all’amico Ferri,  sai che cosa gli dico f Che in tutta Europa (le pelli rosse e gli  Zulus non ci vanno compresi) a parlare di Platouo e delle  idee non ci sono rimasti altri che loro due. Povero Platone !  Chi glielo avrebbe detto, che dopo tante feste, e tanti conviti,    1 Nel Consiglio Superiore della P. I., di cui Carlo Tenca, come lo  Spaventa, faceva parte, e da cui il Persiani aspettava 1’ abilitazione  all' insegnamento. tanti commensali (a 20 franchi l’uno) che lo ringiovanirono,  lo restaurarono, lo rinnovarono, oramai, finita la digestione del  pranzo, ognuno lift preso la sua via e di idee non ne vuol  sapere nessuno più? Chi avrebbe creduto che perfino quello  ragazze, tanto belline, tanto plutoniche, si son buttate anche  loro al materialismo 1 1 Ah ragazzo, ragazze: da voi me lo  aspettavo, che sareste rimaste platoniche lino ad aver  trovato un marito, o un facente funzione; ma il Finali, il  Monabrea, il Borgatti, tutta gente massiccia, chi avrebbe mai  creduto ohe avrebbero lasciato nelle peste il Conte ed il suo  illustre oommilitonef   Vista la brutta china, direbbe il Sella, io proporrei (il  raffreddore mi ha dato un diluvio di proposte) che il Ma-  miani ed il Ferri siano impagliati, e ben conservati nell’atrio  dell’Accademia de’ Licei con questa memore iscrizione:   QUESTI BIPEDI IMPLUMI  ULTIMI DELLA SPECIE ESTINTA  RIMASERO platonici,   ESSI SOLI IN EUROPA  DOPO IL PRANZO PLATONICO Dopo della qual cerimonia vorrei che l’Accademia prelodata  a voti unanimi incaricasse il poeta pindarico B. Spaventa  perchè ne celebrasse condegnamente l’eroismo. E diamine 1  Alle Termopili furono treceuto finalmente, eppure Simonide  s’incaricò di cantarne: qui si tratta di line soli, in Europa,  non contro schiere barbariche, ma contro eserciti di dotti, e non  ti paro che ci sia più materia di canto? Ridettici bene, e poi  dimmi il tuo avviso.   Tu duuque hai leggicchiato il mio amico Marino! 5 Beato te,    1 Scolare dell’ Istituto superiore di Magistero, allora fondato a  Roma: le quali — era la prima volta che si vedevano tante signorine  in una Università — frequentavano alla Sapienza le lezioni di D. Berti.   * Su questo pranzo v. le mie Orig. della fllos. contemp., I, 1 p. 117.   * Una critica che I.uigi Marino (che fu poi professore di Filosofia  morale nella Università di Catania) aveva pubblicata degli Elementi  di flloso/la del Fiorentino.        che hai tanto tempo da marineggiare. Io l’ho qui il suo  libro, ma non mi è avanzato un briciolo di tempo: ed ho una  sua lettera autografa, che impaglierò pure. Povero giovane!  Mi ha scritto con una ingenuità, ohe se mi fosse vicino, lo  abhraccerei. Abbracciarlo sì, ma leggere no. Non gli ho neppure  risposto, ed ho fatto male. Volevo leggere prima e poi scri¬  vere. La bestia che sono stato! Bisogna fare il rovescio: uè  senza un perchè i metodi moderni fanno precedere la scrittura  alla lettura. Berti, p. es., fondatore della moderna pedagogia  prima lm scritto lo suo opere, e solo da qualche mese iu qua,  a quanto mi assicurano, si sta esercitando nella lettura.   A proposito, vorrei venire a Berna per informarmi da lui,  perchè Camoeraceneie, che vuol «lire di Cambrai, egli l'ha  tradotto della Sorbona : facendo poi una dottn osservazione,  che cioè il Bruno or* saltato a piè pari dentro la rocca dol-  1’ aristotelismo eco.   E poi vorrei sapere, perchè dice che il De immenso, è un  libro, uno tA’ tanti in cui è divisa l’opera De monade, nu¬  mero et figura; quando il De immenso ole. contiene otto libri,  ed il De monade, che sarebbe il contenente, non contiene nè  otto, nè due, perchè è un libro solo, unico tiglio di madre  vedova.   Sono piccoli nèi, lo so, ma che dimostrano una piccolissima  cosa: il precetto pedagogico che testò avevo 1’onore di dirti,  cioè ch’egli prima scrisse, poi lesse ; o forse scrisse, e poi  spese, nello stampare, il tempo che doveva impiegare nella  lettura.   11 Barzelletti 1 però assicura eh’è il gran capolavoro della  critica italiana : così mi han dotto, perchè io, al solito, non  1’ ho visto ; e poiché 1’ articolo sarà tradotto certamente dnl-  l’inglese nella lingua degli Zulus, io mi tiguro la festa che  faranno quegli eruditi di laggiù.   A furia di scrivere, mi sono snebbiato un poco il capo,  ina temo forte di averlo annebbiato a te; legge di compen¬  sazione. Quando io mi trovavo a discorrere di lilosotia col  Berti, rimanevo muto: tu eri più fortunato di me, avevi il  pretesto di andare a fumare. Io che ho abborrito sempre il    1 Nell’ art. sulla Filoso/la in Italia pubbl. in una rivista inglese,  e poi tradotto nella Muova Antologia del 15 febbraio 187».tabacco, »e tornassi deputato, per non dovermi ingoiare quelle  forti dosi di filosofia scientifica, che mi somministrava il nostro  Berti, m’imparerei a fumare. Meglio lo stomaco sconvolto,  elle il cervello come un mulino. Spero bene però che non  sarò costretto a nessuno di questi tormenti. Non mi dicesti se Morano ti diede o no la prima parte  del Manuale ili moria della filosofia. Fattelo ilare, e leggic¬  chialo: invece di Marino, potresti dure un’ occhiata al libro  mio. Vorrei sapere se quel tanto è sullìciente per la coltura  generale, o s'ò dippiit, o di meno. Mi servirebbe di norma  per le altre duo parti (Portici). Ha lettera dal Zeller,  che ancora ò a Roma, e seppi del viaggio che faceste insieme  felicemente. M’incaricò pure di dirti tante cose per la lettera  che poi gli scrivesti da Napoli. Egli è in giro dalla mattina  nlla sera, e crede che noi ci vediamo quotidianamente, e non  che siamo a due poli opposti. Ha la ricetta : si è fatta la bobba, ma non li’ è venuta  fuori la storia delle prove dell’esistenza di Uio.   Per un concorso a una cattedra universitaria, della  cui commissione faceva parte il Fiorentino ed era presidente io Spaventa, questi lo aveva pregato di raccogliere gli appunti per una relazione sulla voluminosa  Storia delle prove dell! esistenza di Dio di Romualdo Bobba.  Il Fiorentino, il 19 aprile 1879, da Pisa gli rispondeva. Letto il tuo, piò volte espresso, desiderio, ho posto mano  alla lettura del Itobbu. Un corto estro maccaronico mi invase  alla prima pagina; ma ho lasciato il poema lutino ai primi  due versi e mezzo. Eccoteli:   Iufainem, liertrunde, iubes supportare laborcm,   Insipidimi scilicet putidumqiie ingoiare bobatam ;   Obediain tamen etc. Esto prendendo appunti; ma che diavolo vuoi appuntaret  Finirà prima la pazienza mia, che le sue sciocchezze. È un  pover’ uomo, e noi uccideremo un morto. (Pisa. — E poi c’è il secondo libro della  Legge morale di  Crescenzio: il titolo è Francesco Fiorentino. Te lo saresti sognato eh’ io dovessi diventare nn secondo libro  della legge morale! Neppure per idea: la Puglia fa miracoli.   Ma la cosa non Unisce qui : il terzo libro sarai tu. 1 u  in persona! con gli occhiali, con gli stivali alla prussiana,  tu sarai un libro di un’opera. Non so se l’opera avrà molti altri libri : a congetturare  dall’opera de intellectn dello stesso autore, ch’era divisa in  100 libri, par checi debbano entrare il mellifluo D’Èrcole, il veronese Bertinaria, ed il truculento Ferri, con parecchi altri  personaggi minori. Ogni libro costa 20 centesimi : ed io per  ora sono venduto a questo prozzo : tu iorse salirai a cinque  soldi ; o calerai a tre, secondo che P opera seguirà il processo  ascensivo o il discensivo.   Il bello consiste ne' documenti. Nella copertina 1 autore dimostra che io sono causa di parecchie depredazioni e grassazioni nei pressi di Casale. La mia influenza venefica s è  esercitata, per non so quale selezione, su la provincia di Ales¬  sandria: e la tua! Probabilmente verso Girgenti, o in quei  pressi. Che non ci sii stato non preme, l’etica hegeliana è come la filossera, si estende per salti di 70 chilometri la volta.   Delle stroncature, come oggi si direbbe, dei De Cre¬  scenzio ormai chi se ne ricorda più ? Ma c’ è sempre  qualche De Crescenzio in giro, pronto a dimostrare,  come quattro e quattro fanno otto, che il tal filosofo o  il tal altro sovverte la legge morale, il buon senso, o  le leggi fondamentali della logica ecc. Ma il filosofo può  accogliere siffatte dimostrazioni con lo stesso buon umore  del Fiorentino. Intorno al Fiorentino v. le mie Origini della filosofia contemporanea in Italia. Giovanni Gentile. Keywords: Reale Accademia d’Italia, what does ‘fascista’ applies to – philosophically? To ‘state’ – how is it defined philosophically? Opera complete frammenti di storia di filosofia 3 volls -- - Refs.: Luigi Speranza, The Swimming-Pool Library, Villa Grice – Luigi Speranza, “Grice e Gentile: implicatura conversazionale” -- Conversation and inter-subjectivity. – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Gentile.

 

Grice e Gentile: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo italiano. Grice: “I love Gentile; like me, he is interested in Aristotle’s immotum motor, and the idea of number in Plato – but he extends his views to all the rest of philosophy of language; if Vitters wrote a ‘trattato,’ so did Gentile!” – Si laurea a Pisa sotto Carlini. Insegna a Mantova, Vigevano, Padova e Trieste. Fonda il Bollettino filosofico. Considerato il fondatore della "scuola padovana" di metafisica neo-aristotelica.  Altre opera: “La dottrina platonica delle idee numeri e Aristotele” (Pisa: Tip. Pacini-Mariotti); “I fondamenti metafisici della morale di Seneca” (Milano: Vita e pensiero); “La metafisica presofistica; con un'appendice su Il valore classico della metafisica antica, Padova: MILANI); “La politica di Platone, Padova: MILANI); Institutio: sommario storico di filosofia dell'educazione, Verona: La Scaligera); “Umanesimo e tecnica, Verona: Arti grafiche Chiamenti); “Bacone, Brescia: La Scuola); “Didattica: testo ad uso degli istituti magistrali e dei giovani maestri, Milano: Marzorati); “Filosofia e umanesimo, Brescia: La scuola); “Il problema della filosofia moderna, Brescia: La scuola); “Come si pone il problema metafisico, Padova: Liviana); I grandi moralisti, Torino: Edizioni Radio Italiana); “La riforma silenziosa della scuola: il completamento dell'istruzione primaria ma inferiore, Bologna: G. Malipiero); “Se e come è possibile la storia della filosofia, Padova: Liviana); “Storia della filosofia -- Periodo antico e medioevale -- Dal Rinascimento fino a Kant -- La filosofia contemporanea -- Padova: RADAR); Saggi di una nuova storia della filosofia, Padova: MILANI); Breve trattato di filosofia, Padova: MILANI). Dizionario biografico degli italiani. G.occupa sicuramente un posto importan-te nella storia della filosofia del secolo scorso, ma – se fin dall’inizio non vogliamo avanzare discorsi di carattere celebrativo o commemorativo, quanto innanzitutto teoretico – forse dovremmo dire, più correttamente e semplicemente, che egli occupa un posto importante nella storia della filosofia. Il senso di questa affermazione, e la ragione per cui vale la pena di rinnovare, anche in questa sede, la riflessione sul maestro patavino, è che egli ci rimette davanti alla struttura essenziale del filosofare. La sua concezione della filosofia come “problematicità pura” si di-mostra infatti quale dice di essere, veramente “classica”, in quanto, evidenziando in tale problematicità quella che non può non essere con-siderata la caratteristica fondamentale e imprescindibile del filosofare, mostra di possedere essa stessa un valore permanente ed attuale.Ricordato come fondatore della scuola padovana della metafisica classica, Gentile, proprio in virtù del riconoscimento dell’attitudine problematica del filosofare, poté affrancarsi dalla sua formazione idealisti-co-attualista e aderire alla scoperta aristotelica dell’Atto puro quale princi-pio divino trascendente l’esperienza. Egli sviluppò così una posizione ori-ginale che, giunta a maturità speculativa negli scritti padovani del secondo dopoguerra, si distingueva, oltre che dalla corrente neoidealista, ancora attiva soprattutto nel pensiero di Spirito, anche dalle due filosofie di ispirazione cristiana allora prevalenti, la filosofia neotomistica, nelle sue va-rie declinazioni (Vanni Rovighi, Fabro, Giacon), e la filosofia neoclassica di Bontadini. Le sue opere più significative, in particolare  Come si pone il problema metafisico  (Padova),   Breve trattato di filosofia  (Padova) e  Trattato di filosofia  (Napoli), non sono tuttavia solo innovative per l’epoca in cui sono state concepite, ma, come si accennava, restano a tutt’oggi testi vivi e parlanti, che, nella radicalità del domandare su cui si fondano, appaiono in grado di raccordare la prospettiva metafisica anche alla sensibilità esigente e inquieta del nostro tempo   Sent from the all new AOL app for iOSLa fecondità della problematicità pura non è peraltro esaurita dai suoi esiti metafisici: il “domandare tutto che è un tutto domandare” è ben più che una formula descrittiva della natura della filosofia, è un vero e proprio “metodo”, che il maestro patavino dispiega nei più diversi ambiti del suo impegno teoretico. E che anche nel nuovo millennio merita attenzione. Di questo domandare filosofico vogliamo dunque continuare a va-gliare la profondità speculativa, a cominciare dai “saggi” qui raccolti, che intendono sviluppare i motivi di interesse riscontrati nel pensiero di Gentile da alcuni studiosi che lo hanno, direttamente o indiretta-mente, conosciuto. Questa stessa problematicità può del resto essere assunta anche come chiave di lettura dei contributi che presentiamo, essendo ravvi-sabile quale principio animatore, ora espressamente tematizzato, ora silenziosamente sottostante l’opportuno ripensamento dei vari aspetti dell’opera filosofica del nostro Autore. Il nesso risulta subito evidente nell’articolo di Berti, uno dei primi e forse il principale tra gli allievi, che in un saggio denso di ricordi, si sofferma su uno scritto apparentemente secondario tra gli ultimi pubblicati dal Maestro, forse l’ultimo, dedicato alla possibilità di pregare il Motore immoto. Si tratta infatti sicuramente di un’occasione per ripercorrere nei suoi tratti essenziali l’interpretazione gentiliana della metafisica aristotelica, per ripensare le due caratteristiche fondamentali del “Dio” dello Stagirita, la trascendenza e l’intelligenza, ma anche – ci sembra di poter aggiungere – per ritrovare in quel pregare l’espressione estrema, e forse più autentica, del “domandare tutto-tutto domanda-re”, che, di fronte alla Causa suprema ordinatrice del cosmo, poteva, e forse doveva, assumere connotazioni affettive e oranti. Il tema del domandare puro e integrale è ancor più pienamente al centro del saggio di Maria Cristina Bartolomei, che di tale domandare indaga le potenzialità, sia come ineludibile punto di partenza di ogni ricerca filosofica, sia come fulcro di “fruttuosi collegamenti” con alcu-ni pensatori contemporanei, evidenziandone, pur nella distanza e divergenza delle posizioni, la comunicabilità e l’inaspettata consonanza su punti fondamentali. È quanto si verifica con Adorno, a proposito della legittimità della problematica metafisica e delle caratteristiche di apertura e processualità che connotano la conoscenza dei suoi oggetti, i concetti; con Badiou, per la specifica intenzione di verità che distin-gue la filosofia dagli altri saperi; con Weischedel, sotto il profilo della necessaria radicalità dell’interrogare filosofico, che, anche laddove non giunga ad esiti metafisici o teologici, non può non avvertire la realtàdel mistero che lo sollecita. In tutti questi casi – conclude l’Autrice – la posizione di Gentile, interloquendo costruttivamente con linee di pensiero profondamente differenti da quella propria della metafisica classica, dimostra una inesausta vitalità filosofica.Il terzo saggio, redatto da Gabriele De Anna, affronta il problema del valore morale dell’azione cercandone la soluzione nelle pagine del  Trattato di filosofia , e rinvenendola nel ricorso all’uso pratico dell’intelli-genza che coglie il principio nell’esperienza, e quindi una normatività nel reale. In questa lettura l’importanza della problematicità gentiliana emerge specialmente nel farci intendere come il manifestarsi del principio, e quindi del “valore”, sia inseparabile dall’esperienza, intesa come atto che precede e trascende continuamente la distinzione soggetto-oggetto nella sua costitutiva tensione al sapere. Ma essa ci fa anche meglio compren-dere la prospettiva metafisica di Gentile, che si presenta come ripresa della concezione aristotelica, ma allo stesso tempo accoglie dal pensiero moderno l’attenzione al ruolo del soggetto, si dice “classica”, ma non è per questo “oggettivista”, come altre, più note, versioni della stessa. Una particolare declinazione dell’azione morale è costituita dalla pra-tica pedagogica, un altro dei grandi temi della riflessione filosofica gen-tiliana, cui è dedicato il quarto e ultimo saggio, frutto della riflessione comune di Carla Xodo e Mirca Benetton. La pedagogia di Gentile è una pedagogia umanista, poiché «l’umanesimo – egli scriveva – che è ricerca di classicità, si attua come   paideia , cioè come sforzo di realizzare nelle più diverse situazioni storiche l’essenza dell’uomo», e pertanto non è un si-stema compiuto, ma una sollecitazione a riprendere instancabilmente la ricerca speculativa sulla verità della persona, ulteriore espressione di quel domandare radicale in cui si traduce ogni serio impegno filosofico. Le Autrici sottolineano come in questa prospettiva, considerando l’essere umano nella sua integralità, l’umanesimo, anziché contrapporsi, si possa intrecciare fecondamente, anche in ambito scolastico, con la scienza, la tecnica, e le attività professionali, persino manuali. L’indicazione è di preziosa attualità e ci fornisce un’altra conferma della potenza del domandare filosofico, che percorre tutti questi testi. In essi possiamo infatti vedere tale domandare vigorosamente rinno-varsi tramite la voce di Gentile. D’altra parte, a sua volta, lo stesso Gentile, in un necessario scambio di ruoli, tramite questo domandare, persiste a interrogare e a interrogarci. Ci auguriamo che possa profi-cuamente interrogare anche l’attento lettore. Marino Gentile. Gentile. Keywords: storia della filosofia period antico – filosofia romana, la preghiera, segno dei romani – italici antici – pre-sofistica – pre-Georgia –l’uso di ‘classico’ in latino classico ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gentili: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia romana arcaica – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Valmontone). Filosofo. Grice: “I love Gentile, and Austin and Ryle do too – he is a classicist – from central Italy therefore he FEELS Roman – he has explored the beginnings of philosophical thinking in Lazio, as opposed to the old schools of Velia, Crotone, and Agrigento --.” Si laurea  a Roma sotto Mercati e Perrotta. Isegna a Urbino. Fonda Il Centro di studi sulla metrica latina. Figlio di Attilio e Giuseppina Cicciarelli. Frequent il Liceo Classico "Ovidio" di Sulmona. Studia a Roma sotto Romagnoli, laureandosi sotto Mercati con “Un Studio critico intorno alla storia di Agatia e alla sua tradizione manoscritta”. Insegna a Roma, al Liceo Classico "Virgilio" di Roma.  Quando Perrotta si avvicendò a Romagnoli a Roma, G. ne fu subito conquistato e Perrotta lo  volle come assistente.  Dal suo maestro Gentili apprese l'arte della filologia e la passione per la metrica latina (“Metrica e ritmica”). Influenza significativamente gli allora giovani della filologica latina capitolina, tra cui Rossi e Privitera che ricorda come quelle "lezioni non avevano il tono pacato delle lezioni ex cathedra. Come docente, Gentili era bifronte. Si può, anzi, dire che bifronte fosse sempre; secondo i casi poteva essere flessibile o intransigente, giocoso o severo". Le sue erano esercitazioni, erano seminari. Bbasava l'insegnamento sulle sue ricerche.  Gli anni non sono facili, sono anni di studio intensi e febbrili per lo studioso che culmineranno, insieme ai volumi sulla metrica, con una serie di lavori sui lirici: oltre alla già ricordata antologia Polinnia, il saggio Bacchilide. Studi e l'edizione di Ancreonte, Insegna a Lecce dove ebbe modo di frequentare Prato insieme al quale divenne coautore della teubneriana edizione dei Poetae elegiaci.La svolta decisiva, tuttavia, fu rappresentata dalla chiamata a Urbino dove nello stesso anno venne inaugurata la Facoltà di Lettere grazie all'impegno di Bo. Cura la Medea di Seneca (Istituto Nazionale del Dramma Antico, Mazara del Vallo). Altre opere: “Lo spettacolo nel mondo antico, Roma, Bulzoni); “Storia e biografia nel pensiero antico” Bari-Roma, Laterza. Cfr. G., Eric R. Dodds mentitore? “La idea della comunicazione nella tradizione classica" Treccani. La cultura e l’opinione pubblica: anche nel mondo romano il rapporto è stato difficile, spesso conflittuale. Le origini della filosofia a Roma lo testimoniano, e non solo in un dato momento storico. L’arco di tempo della difficoltà dei rapporti e non solo. Tensioni, incomprensioni e scontri non mancarono anche in epoche successive. Basta pensare alle poche voci di dissenso da NERONE, che sono le voci dei filosofi stoici, in contrasto anche con ciò che la mentalità comune pensa dell’imperatore: ma qui la nostra analisi si limita alla fase iniziale di questo rapporto. La filosofia per prima trova resistenze nella CONCRETEZZA tradizionale dei Romani. L’astrazione filosofica suscita sospetti diffusi, come se si tratta di un imbroglio, un raggiro. Non mancarono le espulsioni dei filosofi a partire almeno dal 190-180 a.C. Celebre la cacciata di Carneade, Critolao e Diogene., perché giudicati pericolosi per la società romana. Soprattutto tale appare quel Carneade sul quale si interroga don Abbondio nella notte degl’imbrogli. Ma insieme alla filosofia venne colpita la retorica, cioè la tecnica del parlare bene, che pure e d’importazione greca. Svetonio ci racconta delle difficoltà iniziali per questa disciplina e sappiamo che nel 161 a.C. un decreto del Senato bandisce dalla città insieme retori e filosofi non-romani. Ma la novità culturale non si arresta per decreto: e la tecnica retorica riprese fiato, poi un po’ di vigore, progressivamente apprezzata anche dai Romani, purché fosse rigorosamente controllata dall’aristocrazia. E così accadde che nel 93 a.C. venne aperta la prima scuola di retorica a Roma, per iniziativa di un personaggio non molto famoso: PLOZIO GALLO. E. la scuola dei rhetores Latini, della quale parla anche CICERONE, per testimoniarci dei successo che essa riscontrava presso i allievi di allora e del suo rammarico per non potervi accedere: Arpinate e infatti trattenuto da altri maestri, che lo indirizzavano allo studio della retorica SOLO IN GRECO, come una volta si fa. Ma per quali motivi questo allontamento dalla scuola di PLIOZIO GALLO? Oggi sappiamo dare una risposta alla domanda e possiamo affermare che i consiglieri di CICERONE agivano in tal senso per motivi non solo o non tanto didattici, quanto politici. La scuola dei retori latini rischia agl’occhi loro, e agl’occhi di altri benpensanti romani, di trasformarsi in un pericoloso centro di democratizzazione del sapere, e, quindi delle vie di accesso al potere sociale e politico. Sappiamo infatti dell’amicizia del maestro, cioè di PLOZIO GALLO col popolare MARIO, in anni di contrasti fortissimi in Roma, culminati nella guerra per il diritto di cittadinanza degli Italici. È sempre CICERONE a informarci, nel trattato intitolato “De oratore”, dell’esistenza di questi maestri e del loro insegnamento, e lo fa per bocca di LUCIO LICINIO CRASSO che, allora censore, li aveva colpiti con un editto di chiusura della scuola. E una scuola di impudenza e di perdita di tempo, agl’occhi di Crasso e dei suoi amici. Essi andano ripetendo che la mente divene ottusa e si rafforza la loro pericolosa sfacciatagggine, mentre i retori si proponeno esattamente il contrario: aprire la mente degli alunni, farli ragionare, spiegare il perché delle cose e dei problemi. Il genere di insegnamento consiste sostanzialmente in una sintesi di filosofia, in vista della formazione di un uomo di cultura completa. Si dove trattare quindi del superamento di una preparazione esclusivamente tecnica e precettistica, a vantaggio di una formazione globale dell’oratore. Questi divenne così il depositario di una cultura in grado di fargli reggere con competenza il timone della repubblica romana. È in questo contesto culturale e sociale pieno di fermenti e di stimoli nuovi che si forma CICERONE.  E. Badi?n, nella recensione al volume Gli storiografi latini tra mandati in frammenti, Atti del Convegno, Urbino, a cura di Boldrini, Lanciotti, Questa, Raffaelli (Studi Urb. n.s. B ), pubblicata in Am. Journ. Philol., una recensione per altro biliosa e insieme presuntuosa, nella stragrande maggioranza dei contributi, dedica al saggio 'Storiografia romana arcaica' appena due parole: "the long essay in unoriginal mediocrity, e.g. a potted survey by G.": un giudizio drasticamente negativo, non sorretto da un'ombra di argomentazione; diverso evidentemente il parre di Musti, che ne ha inserito un lungo brano nel reading, da lui curato, La storiografia greca. Guida storica e critica, Bari. Certamente ognuno, nel recensire un saggio, ha il diritto di giudicare come crede il saggio che recensisce. Ma ha il dovere di motivare con una qualche analisi il proprio punto di vista, se non altro per mettere in grado il lettore di comprendere il senso critico del discorso. Se il Badi?n si fosse soltanto limitato ad esprimere il suo dissenso o il suo scetticismo sulle mie tesi, non avrei ritenuto necessario que quale liquida molto perentoriamente la sto l’intervento. Ma quando egli definisce sic et simpliciter "non ad una "rassegna raffazzonata", il suo giudizio in uno stato originale" il mio discorso, debbo pensare che egli d'ira, provocato forse dal fatto che io non ho citato il suo saggio riducendolo abbia espresso 'The Early Historians', in Latin Historians, ed. Dorey, London, che, esso si, ? realmente una rassegna, certo ben informata e corretta ma senza alcuna pretesa di originalita. Egli stesso del resto lo presenta come un'esposizione panoramica intesa a riproporre alla storiografia una tem?tica da essa obliterata. Faccio notare, d'altra parte, che questo suo saggio stato da me citato, a proposito della cronaca pontificale, nel volume che ho scritto in collaborazione scorso storico nel pensiero greco e G. con Cerri, Le teorie del di Roma, ricerche la storiografia, e che rappresenta l’edizione arcaica, delle dettato infon certa ricon "prag definir? Dunque, giudizio dato mente dotta m?tica" "non sull’argomento. solo un risentimento che, prima ancora che a gl’effettivi contenuti di questo ingiusto, del mio tipo appare un rispetto sa che la studio. alla tecnica di tipo Come quella da nel soleo ? me allora ed tucidideo-polibiano. una nuova tesi, l’opera storiografia 'isocratea'? possibile proposta illustrata, indico come originale che riconduce di Che cosa io intenda quella che con questa storiografia degl’Annales di FABBIO PITTORE Pontificum di Fabio chiarito in un precedente saggio, sulla rivista II Verri, al quale di proposito avevo rinviato all’inizio dell’intervento nel Convegno di Urbino ora ripubblicato in Communication Arts in the Ancient World, ed. Havelock e Hershbell, New York. E avevo esaustivamente pubblicato frammento delle varie ancora: puo dirmi programma tico di il Badi?n se la mia Sempronio Asellione interpretazione del con una nuova A questo punto sarebbe doveroso da parte del Badi?n tornare sull’argomento per dimostrare, se ? in grado di farlo, che l’impostazione del mio discorso ? effettivamente priva di qualsiasi originalit? e non ? altro che una rassegna rabberciata di idee altrui. Universita di Urbino  Letteratura: addio al insigne studioso di metrica. Accademico dei Lincei e professore emerito ad Urbino Roma,  (Adnkronos). G., insigne studioso della letteratura classica e in particolare della metrica, e' morto a Roma. L'annuncio della scomparsa e' stato dato dall'Accademia dei Lincei di cui era socio. Nato a Valmontone (Roma). Professore dell'Universita' di Urbino, dove ha insegnato i classici, nella Facolta' di Lettere che insieme al rettore Bo ha contribuito a istituire. E' stato fondatore della rivista ''Quaderni urbinati di cultura classica', di cui e' stato a lungo direttore.  Filologo rigoroso, G. si e' dedicato allo studio della lirica e della metrica arcaica, curando anche edizioni critiche di testi di diversi poeti. Tra i suoi libri ''L'Iliuperside nelle figurazioni anteriori a Virgilio'', ''Metrica greca arcaica'', ''La metrica dei greci, l'edizione critica di Anacreonte, ''Bacchilide. Studi', ''Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca''; l'antologia ''Polinnia. Poesia greca arcaica'' (in collaborazione con G. Perrotta).  La vasta bibliografia di G. comprende anche ''Le teorie del discorso storico nel pensiero greco e la STORIOGRAFIA ROMANA ARCAICA' (in collaborazione con Cerri), ''Storia del mondo romano'' (in collaborazione con Pasoli e M. Simonetti), ''Lo spettacolo nel mondo antico. Teatro ellenistico e teatro romano arcaico'', ''Storia e biografia nella filosofia antica'' (in collab. conCerri) e ''Poesia e pubblico nella antichita”, che che e' valsa all'autore il Premio Viareggio-saggistica (Sin-Pam/Ct/Adnkronos) CLASSICITÀ E CONTEMPORANEITÀ: G. NEGLI STUDI CLASSICI ITALIANI DEL NOVECENTO «Kein Volk der Geschichte, auch das begabteste nicht, läßt sich isoliert betrachten. Ein jedes wird durch äußere Anstöße aus zuständlichem Dasein in geschichtliches Leben übergeführt. Weder seine äußere noch seine innere Geschichte kann verstanden werden, ohne die Fäden zu verfolgen, die es mit außen verbinden».(Usener). Il senso vero di una vita piena è quello che essa imprime di più anche sulla quotidianità: la ricerca. Ricerca. Ricerca. Ricerca. Il possesso che noi abbiamo di certi principi (che a loro modo sono verità) è labile e sfuggente – e non appena noi ci illudiamo di stringerlo, ecco scom-pare».(Anceschi). G.  ha visto comparire vari ampi e impegnati ricordi ad opera di alcuni tra i colleghi e allievi più vicini. Con attenzione e devozione vi sono evocati i momenti e i contributi più significativi nella carriera scientifica del grande classicista; nel riper-correrla si dà davvero la possibilità di posare lo sguardo sulla storia della filologia classica, via via italiana europea. A tutti comune è il riconoscimento del forte valore innovativo nell’incessante attività critica e filologica di G., con la fondazione dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», vera e propria officina intellettuale dove su impulso del fondatore e direttore la filologia classica, senza mai smarrire la dimensione tecnica e specialistica, si apre al confronto serrato non solo con l’archeologia, la storia e l’ermeneutica, ma anche con discipline emergenti quali l’antropologia, la semiotica, la linguistica e la sociologia della letteratura. A tale sensibilità può ben connettersi la visione che G.  elabora della traduzione, nella ricerca e nell’asserzione di una teorica eminentemente pragmatica -- Così Catenacci -- e quindi una poetica non astratta, non prefigurata su schemi di modelli già esperiti, così sempre tendendo a «una poetica aperta che si costrui- sca gli strumenti adeguati ad una maggiore portata di comunicazione»: il problema del tradurre è così definito nei termini «di quell’idea cui aspira l’antropologia contemporanea della traduzione come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche e sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo» 2 . Una prospettiva che nello studio e nella ‘traduzione’ dall’antico (e dell’antico) a G. certo si schiuse in relazio- ne e risposta alle sfide prodotte dai grandi mutamenti culturali e sociali, di rilievo antropologico appunto, degli ultimi quattro decenni del XX se-colo: una prospettiva di ‘apertura’ nell’analisi e negli strumenti applicati all’interpretazione dei testi antichi, e in particolare della Grecia di età ar-caica, che mi è sembrato potesse essere bene espressa dalla prima citazio-ne in esergo, di un altro grande innovatore degli studi classici al volgere di un secolo, Usener. Il passo proviene da un discorso rettorale bonnense riproposto in occasione del Congresso inter-nazionale della FIEC tenutosi a Bonn, e richiamato da Gentili nel famoso saggio   L’arte della filologia. A differenza della fortunata citazione nietzschiana d’incipit («filologia è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire lento»), il rimando a Usener è passato piuttosto inosservato. G. si rifà alla   Rede  bonnense, dal titolo   Philologie und Geschichts- wissenschaft  4 , discutendo della prevalente natura ‘storica’ o ‘scientifica’ della filologia classica e rinvenendo «una impostazione sostanzialmente corretta del problema» nella distinzione attribuita a Usener, «che delimitò i due campi specifici della ricerca, riservando alla filologia la critica e la ricostruzione del testo e all’indagine storica l’interpretazione globale del mondo antico» 5 . La prolusione di Usener si apre con un panorama della storia degli stu-di classici sin dal XVI secolo francese e ugonotto 6 , subito poi riservando  2  G. 1989, 61, dalla relazione presentata al convegno   La traduzione dei testi classici .  Teoria prassi storia  (Palermo 6-9 aprile 1988), nei cui Atti poi comparve (Gentili 1991).  3  All’interno della   Festschrift   per il convegno curata da W. Schmidt (Schmidt 1969, 13-36); al congresso bonnense Gentili presentò il fondamentale intervento   L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo. Sin-cronia e diacronia nello studio di una cultura orale  (Gentili). 4  Usener 1907.  5  Gentili, 299. 6  Che la riflessione sulla storia della filologia classica sia strettamente connessa ai temi trattati nella prolusione rettorale è ben chiarito nella postilla che la intro-duce: «Die Geschichte einer Wissenschaft verzeichnet nicht bloß Leistungen. In ihrer Geschichte entfaltet sich ihr Begriff, der nicht unberührt bleiben kann von dem Wandel der Generationen. Die wissenschaftliche Arbeit bedarf der Selbstbe-sinnung, will sie nicht ziellos in der Unendlichkeit des Einzelnen umhertreiben." grande rilievo al genio di Bentley («zur Grundlegung einer Wissenschaft […] die Wege dazu hat erst das Genie Rich. Bentleys gebahnt»), pur rico-noscendo solo alla cultura tedesca, nel fatale trapasso, la decisiva spinta perché lo studio dell’antichità classica si costituisse «zu einer geschlossenen philologischen Wissenschaft». Grazie soprattutto all’impegno di dotti come Melantone e Camerarius, la centralità della Pa-rola proclamata dalla Riforma si era rivelata determinante per assicurare la presenza dell’insegnamento del greco nelle nuove scuole volte primaria- mente alla formazione dei pastori evangelici, finché nei rifondatori della letteratura tedesca (Klopstock, Lessing, Hamann, Herder) «der gottergebene idealistische Sinn des norddeutschen Protestantismus», laicizzandosi, risultò fecondo per la rinascita della cultura e della scienza tedesca grazie a figure come Winckelmann, Reiske, Heyne 7 . L’organica sistematizzazione delle varie discipline volte al fine della   Rekonstruktion des Altertums  secondo l’intuizione dei grandi edificatori e teorizzatori dell’  Altertumswissenschaft  , Wolf e soprattutto Boeckh, nel corso del XIX secolo si fece altresì modello per le nuove filologie applicate alle varie letterature d’Europa, come pure per le discipline storico-filologiche volte allo studio del ben più antico patrimonio di cultura e civiltà delle lingue mesopotamiche, semitiche e arie. A fronte dell’enorme ampliarsi delle co-noscenze non solo all’interno dell’  Altertumswissenschaft  , con diretto rife-rimento al mondo classico nelle sue varie epoche e aspetti, ma soprattutto all’esterno, negli orizzonti aperti dalle antiche civiltà del Vicino Orien-te rivelate dall’archeologia, Usener riconosce l’impossibilità di isolare la civiltà greca dall’attenta considerazione di quegli influssi, certo determi-nanti nella genesi almeno dell’arte greca: «heute zeigen die Reste Babylons und Ninivehs verglichen mit den griechischen und italischen Gräberfunden  jedem, der Augen hat zu sehen, von wo jene hellenische Kunst […] ihre Anstöße und auf lange hin nachwirkenden Vorbilder empfangen hat». In realtà a Usener preme soprattutto mettere in rilievo che il concetto stesso di storia si è enormemente ampliato, al di là della tradizionale identificazio- ne nella «pragmatische Entwicklung der Haupt-und Staats-aktionen von Fürsten und Völkern», ormai annettendo territori ignoti, nati dall’indagine delle origini delle lingue, dei credi, dei costumi, dei miti («die unbegrenz-te Ferne einer vorgeschichtlichen Geschichte»). In tale condizione appare al professore bonnense ormai impossibile aderire a una costruzione della filologia quale quella boeckhiana. La filologia, egli afferma, non può più essere intesa come scienza storica, perché radicalmente mutata è la visione stessa della storia propria del tardo XIX secolo 8 . La filologia è piuttosto da  7  Onde se «la moderna poesia italiana e francese è figlia degli studi umanistici, la letteratura tedesca è invece legata alla nostra filologia in uno stretto rapporto di sorellanza» (Usener). 8  Usener è in proposito molto chiaro: «Es bleibt also dabei: eine geschichtlicheconsiderarsi «ein Studienkreis», un insieme di discipline che vertendo sulla parola scritta, e così assolvendo alla funzione di arte o metodo di decisivo valore nel fissare i contenuti della conoscenza storica, costituisce «die letzte Voraussetzung aller geschichtlichen Forschung» 9 : una filologia come tecnica dell’interpretazione che, potenziata dalla prospettiva comparatista, assunse forse agli occhi di Usener i tratti di «una sorta di antropologia» 10 . Ho indugiato sul saggio di Usener perché l’insieme della sua opera, spesso poco apprezzata dal mondo filologico tedesco contemporaneo, gode da anni di crescente attenzione 11 , anche in ragione degli interessi ‘trasversali’, comparativi e  religionsgeschichtlich  che l’attraversano e innervano, non privi di influssi sullo sviluppo della teologia dapprima protestante e poi cattolica nella Germania del XX secolo 12 , e forse anche sulle origini degli studi novecenteschi italiani di storia delle religioni e di storia del cristia-nesimo 13 . Notevole è, nelle pagine di Gentili sull’arte della filologia, il suo ri-farsi a Usener. Sin dal titolo, a Nietzsche esse intendono forse associare proprio il filologo bonnense, quasi provocatorio (in una prolusione rettorale) nel definire   Kunst   l’essenza dell’attività filologica 14 , pri- Wissenschaft ist die Philologie nicht. Sie konnte und mußte als solche erschei-nen zu der Zeit, als die Geschichtswissenschaft in ihrem heutigen Begriff noch nicht vorhanden war […]. Es war die Zeit, wo die moderne Geschichtswissenschaft zuerst ihre Blüten trieb. Alles hat seine Zeit». 9  «Wenn es also wahr ist, daß der Boden aller geschichtlichen Wissenschaft das geschriebene Wort ist, so folgt, daß die Kunst, welche dasselbe feststellt und deutet mittels ihres grammatischen Vermögens, die letzte Voraussetzung aller geschicht-lichen Forschung ist. Diese Kunst haben wir in der Philologie erkannt» (Usener). 10  Così Momigliano 1985, 166. 11  A partire soprattutto dal seminario del febbraio 1982 presso la Scuola Nor-male di Pisa coordinato da Arnaldo Momigliano e subito pubblicato come   Aspetti di Hermann Usener filologo della religione  (Arrighetti [et al.] 1982). Sono apparse negli ultimi anni edizioni italiane di varie opere di Usener, tra le quali Usener 1993; Usener 2008; Usener. ssai notevole e davvero anticipatrice, nonché oggi di particolare attualità, è la lettera del dicembre 1888 al teologo bavarese I. von Doellinger, nella quale Use-ner afferma che «lo scopo ultimo ed inespresso dei miei sforzi è quello di aiutare a preparare l’unità della Chiesa della nostra nazione», passo su cui attira l’attenzione Momigliano. È opportuno ricordare l’attenta, e assai poco nota, presentazione che del   Le-benswerk  di Usener, «grande maestro che l’Italia colta quasi ignora», diede Pesta-lozza 1909 (che cito dall’estratto), sulla rivista del modernismo cattolico milanese «Il Rinnovamento» cessata quello stesso anno: su Pestalozza, in quegli anni presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano primo libero docente e poi primo do-cente in Italia di Storia delle religioni, vd. i riferimenti in Benedetto 2008. 14  Non sorprende il dissenso, rispettoso ma chiaro, che subito espresse il trenta-quattrenne Wilamowitz circa la visione della filologia presente nella   Rektoratsre-de , prospettandone una ben diversa: «Die alte Poesie (und natürlich ebenso Rechtmariamente volta a fondare l’affidabilità della   parola scritta . La centralità del testo, oggi preferiamo dire: quel testo visto da Gentili come «struttura complessa di materiali linguistici, di implicazioni metrico-ritmiche, refe-renziali e pragmatiche» 15  nel cui processo interpretativo «una pluralità di discipline» è coinvolta (uno  Studienkreis , appunto) 16 . Senza qui proporsi di passare in rassegna l’ampia, varia, settantennale attività scientifica di Bruno Gentili 17 , si cercherà piuttosto di soffermarsi su alcuni aspetti, quali soprattutto il rapporto con la figura di Gennaro Perrotta e in genere con gli studi italiani di filologia classica nella prima metà del Novecento, la produzione degli anni ’50 e ’60, e la serie di saggi «di portata fondativa» 18  scritti da Gentili tra la metà degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, nei qua-li evidente è una svolta per gli studi sulla lirica greca, e notevole l’interesse verso temi e problemi della traduzione dall’antico.2. L’esordio di Gentili si ebbe nel pieno della Seconda guerra mondiale con un articolo nato dalla tesi di laurea con Silvio Giuseppe Mercati, dedi-cato soprattutto a passare in rassegna quattro inesplorati codici delle  Storie  di Agazia conservati in biblioteche italiane (tre Vaticani e un Marciano) 19 . In quegli anni drammatici il giovane studioso li collazionò in parte, avendo in animo di preparare una nuova edizione critica dell’opera 20 , in vista del-la quale non tace anzi l’intenzione di provvedere a «un nuova collazione accurata» di un manoscritto Vulcaniano conservato nell’allora inaccessibile Leida 21 . Il netto cambiamento di interessi e «una decisa virata ver- und Glaube und Geschichte) ist tot: unsere Aufgabe ist, sie zu beleben […] dann  empfinde ich, daß Philologie doch etwas für sich ist, oder wenigstens ihr τέλος  hat» (lett. in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder), e cfr. Sassi. G.  «Philologie in dieser Auffassung ist nicht eine Wissenschaft, sondern ein Stu-dienkreis» (Usener). 17  Sin d’ora rimando alle molte informazioni e osservazioni desumibili dal   Ri-cordo di G. di Angeli Bernardini; Catenacci; Cerri; Lomiento; G. A. Privitera, commemorazione lincea dell’11 aprile 2014, ac-cessibile on line presso lincei.it/ files/documenti/Privitera_commemorazio-ne_G. .pdf  ; Tedeschi. Cerri. Non si tratterà di Gentili editore e critico del testo, tema che di per sé richiederebbe apposita discussione. Gentili. Come chiaramente lascia intendere la chiusa dell’articolo: «Da quanto abbia-mo detto appare chiaro che la sola finora ad avere almeno l’aspetto di edizione cri-tica ed anche il metodo è quella del Niebuhr, in quanto si fonda sul valore effettivo di una parte della tradizione. Ma l’uso di tutto il materiale manoscritto, secondo gli intendimenti che ho esposto, trae con sé la necessità di una recensione del testo di Agatia, che si fondi su basi più complete e quindi più solide. E questo compito, se le forze non mi verranno meno, spero di poter assolvere». 21  Vd. in particolare p. 168: «occorrerebbe perciò una nuova collazione accurata  Sent from the all new AOL app for iOSso la poesia greca arcaica» 22  si legano all’incontro con Perrotta, dal 1938 sulla cattedra romana di Greco come successore di Romagnoli e impegnato nel rinnovamento su modello crociano dello studio della lirica greca ( Saffo e  Pindaro. Due saggi critici  uscì presso Laterza), ma attento altresì all’esegesi puntuale di frammenti e ritrovamenti papiracei, in particolare con interventi accolti nei pasqualiani «Studi italiani di filologia classica» (nota è in particolare la polemica intorno al ‘poeta degli epodi di Strasburgo’) 24 . Un’importante rassegna ad opera di Perrotta su   La filologia classica nell’ultimo ventennio , apparsa per il Natale di Roma in un volu-me promosso dal Ministero dell’Educazione Nazionale (Perrotta), se è priva non solo di elogi ma si può dire di qualsiasi menzione del morente Regime, è peraltro chiarissima sin dalle prime righe nell’affermare che il «vero progresso» segnato nel precedente ventennio dalla filologia classi-ca in Italia è spiegabile perché essa «ha sentito profondamente l’influsso dell’estetica moderna, anzi di tutto il pensiero moderno», con sicuro ri-ferimento al crocianesimo e in genere agli orientamenti antipositivistici: «superate le polemiche del periodo precedente, la filologia classica ha preso un nuovo indirizzo vivificata dalle correnti nuove della cultura moderna, è divenuta meno arida e pedantesca», e finanche «abbondano i saggi critici, che una volta avrebbero destato scandalo». Dopo un rapido ma attento ragguaglio di commenti, edizioni critiche ed edizioni di papiri pubblicati nel periodo considerato, l’articolo si conclude appunto notando che mentre «in qualunque campo la filologia classica italiana può sostene-re dignitosamente il confronto con quella delle altre Nazioni», proprio «nel campo della critica letteraria, essa supera di gran lunga la filologia classica di qualunque altro Paese del mondo» 25 . Cinque anni dopo, nell’Italia e nell’Europa, presentando ai let-tori insieme al condirettore Funaioli la nuova rivista «Maia» («nome caro a due grandi poeti, a Gabriele d’Annunzio e a John Keats»), in sostan-ziale continuità e coerenza con se stesso Perrotta indicherà la via della ripresa dello «studio della civiltà antica, per noi moderni» in un «rinnovato umanesimo», fondato sull’incontro tra l’eredità del classicismo europeo  del manoscritto, che mi propongo di fare quanto prima»; si tratta del Cod. Vulc. 54, usato da Bonaventura Vulcanius per l’ editio princeps  del testo greco del   De impe-rio et rebus gestis Iustiniani imperatoris libri quinque , uscita a Leida (cfr. Dewitte). B. Vulcanius (B. de Smet), e professore nella nuovissima università di Leida. Lomiento Su circostanze e contesto della successione illuminanti scorci in Canfora Sulla quale, e sulla persuasiva identificazione in Ipponatte sostenuta da Per-rotta, vd. Gamberale 1994, 75; Sisti 1994, 43-45; Morelli. Perrotta 1943  Sent from the all new AOL app for iOSdegli ultimi due secoli (la tradizione gloriosa di Goethe e di Humboldt, di Winckelmann e di Schlegel, di Shelley e di Keats, di Hölderlin e di Nietzsche, di Foscolo e di Leopardi, di Carducci e di Pasco-li») e una pratica filologica che, nutrita di adeguata consapevolezza critica e storica, trascendesse le mai del tutto sopite conseguenze delle polemiche, e dei connessi schieramenti, che avevano lacerato gli studi classici italiani d’inizio secolo: Il nostro ideale è il filologo che abbia l’abnegazione d’un grammatico alessandri-no e l’entusiasmo d’un umanista del Quattrocento, la tecnica filologica e il senso storico dei grandi filologi dell’Ottocento, il senso artistico e la coscienza critica dei migliori critici letterari dell’età nostra. L’ideale della nostra rivista è la storia senza lo storicismo, la filologia senza il filologismo, la critica estetica senza l’estetismo e il vacuo filosofismo. Non manca subito di séguito una citazione da Nietzsche, dalla qua-le risulta «la filologia nel suo senso più elevato rappresentata, come me- glio non si potrebbe, con alta fantasia poetica. Né manca un richiamo a Nietzsche, in quella stessa prima annata di «Maia», nell’ampia e intensa commemorazione che Perrotta dedicò nel decennale della morte a Ettore Romagnoli 28 , accostato a Nietzsche nell’accesa e ‘immaginifica’ giovinez- za di filologo 29 , quindi rievocato come professore universitario a Catania  26  Funaioli – Perrotta . Che punto nodale del «discorso sulla filologia» sia «la divisione o meno delle competenze tra filologia e critica letteraria in senso lato» rimarrà, con altra prospettiva, costante elemento di riflessione per Gentili: cfr. G.. L’ammirazione di Perrotta per Nietzsche filologo è messa in rilievo da Gigante, il quale anche suggerisce che mediatore per il filologo italiano della conoscenza di Nietzsche possa essere stato Croce; un’emendazione del giovane Nietzsche («oltre a giudicare il carme nel suo insieme con la finezza e la profondità ch’erano proprie del suo genio») è lodata e accolta in Perrotta. Un certo paradossale irrigidimento di Perrotta «negli ultimi tempi in cui poté ancora esercitare un sensibile influsso negli ambienti culturali», onde «egli affermò sempre più polemicamente e rigidamente la sua fedeltà al verbo crociano […] com-memorò entusiasticamente il Romagnoli, proclamò ripetutamente la indipendenza dei supremi valori poetici da ogni condizionamento ambientale e culturale» noterà Paratore (appunto a intendere «quella sopravvalutazione della critica let-teraria che è sembrata così singolare in un uomo di così severa formazione filolo-gica» è dedicata la commemorazione lincea di Paratore 1963a, in gran parte rifusa nel profilo Perrotta  in Grana). È utile citare il passo: «Federico Ritschl soleva dire che Nietzsche giovinetto concepiva una dissertazione filologica come un romanzo. Il grande filologo non intendeva certo, con queste parole, spregiare l’attività filologica di Nietzsche giovane, del quale egli presagì il genio. Ma un intuito profondo gli face-va scoprire in Nietzsche qualche cosa di singolare, di acceso e di appassionato, che non faceva assomigliare le sue dissertazioni, pur dottissime e condotte con metodo impeccabile, a quelle degli altri. Poichè un uomo dotato di molta immaginazione(attraverso la testimonianza del fraccaroliano e romagnoliano F. Gugliel-mino), in particolare quando  leggeva con predilezione i lirici greci, e, traducendoli, comunicava agli uditori con la scelta felice delle parole e delle espressioni, che potessero rendere con maggiore adesione il pensiero e il sentimento dell’antico poeta, e anche con l’inflessione della voce, quello che egli stesso sentiva. Il commento era sobrio, scevro d’in-gombrante erudizione: accennava a questioni controverse dibattute dai filologi solo quando avevano importanza innegabile per la retta interpretazione di un passo dub-bio, e in tal caso riduceva la questione all’essenziale 30 . Il 1948 fu anche l’anno in cui, a cura di Perrotta e del suo as-sistente G., uscì   Polinnia , antologia della lirica greca ad uso dei licei destinata a grande fortuna nella scuola italiana della seconda metà del Novecento, sino alla recente e rinnovata terza edizione del 2007. Non fu la prima antologia dei lirici greci destinata alla scuola e impostata con rigore scientifico. Dopo che i programmi del 1923, con la riforma Gentile, più decisamente aprirono ai lirici le porte dei licei, si diffusero antologie sco-lastiche «nate in un periodo di estetica esasperata, di olimpico dispregio per tutto quello che si chiamava (e la parola era oltraggio) filologia», come vollero osservare prefando i loro   Lirici greci scelti e commentati  (1940) Giuseppe Ugolini e Alessandro Setti che a quell’andazzo con efficacia e serietà reagirono, avendo per modello essenzialmente   Aglaia , la  nuova an-tologia della lirica greca da Callino a Bacchilide  pubblicata nel 1937 da Bruno Lavagnini (1898-1992) 31 . In sede di valutazione storica è giusto rilevare che «ad   Aglaia  si sono ispirate tutte le antologie successive che si  finirà sempre per mettere, anche senza averne affatto il proposito, perfino in una dissertazione filologica, un po’ della sua immaginazione. Questo avveniva spesso a Romagnoli giovane» (Perrotta 1948, 93). Le pagine di Perrotta sono in parte ripro-dotte nella sezione su Romagnoli in Grana 1969, II, 1448-1459. 30  Nel   Profilo di Bruno Gentili  premesso da Carlo Bo al I volume dei ricchissimi  Scritti in onore di Bruno Gentili , Romagnoli ricorre accanto a Perrotta come pre-senza utile a comprendere in Gentili l’«uomo dotato di spirito creativo, quale ge-neralmente posseggono soltanto gli scrittori e in modo più specifico i poeti. La sua straordinaria perizia filologica è strettamente collegata al suo gusto e alle sue doti di creatore. Tutte cose che si possono riscontrare nella storia della sua formazione, perché accanto a uno dei suoi primi maestri, Ettore Romagnoli, a un certo punto si è accostato uno studioso come Gennaro Perrotta» (in Pretagostini 1993b, I,  XXVIII ). 31  Nella   Prefazione  a Ugolini – Setti 1940 due sono «tra i lavori scolastici» quelli citati dai curatori perché risultati utili «per il loro carattere più spiccatamente scientifico»: oltre all’antologia di Lavagnini si fa cenno a un’opera di A. Taccone, in cui è da ravvisarsi l’  Antologia della melica greca  pubblicata nel 1904 con pre-fazione del maestro G. Fraccaroli, attenta e informatissima ma ormai invecchiata a fronte delle scoperte papiracee accumulatesi nei decenni successivi. Del libro di Ugolini e Setti oltre trent’anni dopo uscirà un’edizione ampliata e rinnovata, in seguito ristampata: Ugolini – Setti 1972 possono definire serie, a cominciare da   Polinnia » 32 , senza dimenticare che in pieni anni Trenta la volontà di chiarire agli alunni di liceo l’«enigma psicologico» di Saffo e della sua passione dettò all’antologia di Lavagnini toni ben più diretti 33  di quanto dieci anni dopo accadrà a Perrotta (cui si deve la sezione su Saffo in   Polinnia ), e più in linea con le posizioni cui Gentili espressamente approderà negli anni Sessanta. I cenni di Perrotta alle «gioie leggere del tiaso di Saffo» insieme a un certo riemergere delle preoccupazioni per la difesa della poetessa dalle accuse di immoralità   tor-nano a riflettere ambagi e premure proprie peraltro dei più noti studiosi di Saffo tra metà del XIX e metà del XX secolo, da Welcker a Valgimigli 34 : impostazione da Perrotta stesso a suo tempo esplicitamente confutata in  Saffo e Pindaro 35 . 32  Così Degani 1995, 30. 33  Nell’introduzione alla sezione su Saffo in Lavagnini 1937, 116, si dice che «Saffo visse facendo della sua casa un centro di culto ad Afrodite, alle Muse, e alle Cariti. Le più nobili e le più belle fanciulle di Lesbo e dell’Asia vicina venivano a lei per essere ammaestrate nella poesia e nel canto, ed essa vive tutta in questa compagnia di fanciulle. Anzi l’affetto per le scolare assume un trasporto così im-petuoso e sa trovare accenti così caldi da prendere i colori della passione di sesso, sicché la Lesbia resta ancora, almeno in parte, un enigma psicologico per noi, che siamo così lontani da quel suo mondo». Ivi è inoltre il rimando alla trattazione che del tema Lavagnini aveva dato nella sua precedente   Nuova antologia dei frammenti della lirica greca  (Lavagnini 1932, 171), dall’ incipit  e dalle tesi assai esplicite, e con esplicito rifarsi a Freud nell’individuare in Saffo «una  invertita : essa trasferì sopra creature del medesimo sesso il potenziale affettivo ( libido  secondo la termi-nologia di Freud) che avrebbe dovuto normalmente rivolgere su persone del sesso opposto». Al di là dell’interpretazione di Saffo, le pagine di Lavagnini meritano di essere particolarmente segnalate in relazione alla prima (s)fortuna italiana della psicanalisi, quando si pensi che la «Rivista italiana di psicoanalisi», diretta da E. Weiss, fu fondata in quello stesso 1932 e soppressa due anni dopo: ricco di infor-mazioni in proposito, benché talora disorganico e confuso, Zapperi 2013. 34  Per più ampi riferimenti su molti dei temi qui e di seguito trattati rimando a Benedetto 2012. 35  Cfr. Perrotta 1935, 28-31, in pagine non prive di sarcasmo e oggi dimenticate: «Infine, non giovano a nulla le discussioni, interminate e interminabili, sull’amo-re e sulla purezza di Saffo. I Welcker e i Wilamowitz hanno difeso la poetessa nobilmente, ma non si sono accorti che nel loro zelo appassionato essi stessi non erano troppo lontani dai grammatici dell’età romana, da quel Didimo che disser-tava dottamente  an Sappho publica fuerit   […] In realtà, Saffo non ha bisogno di essere giustificata: essa che, se potesse udire i suoi accusatori e i suoi difensori, non intenderebbe neppure i termini della questione. La soluzione dei Welcker e dei Wilamowitz non risolve nulla […] Quando per spiegare il tiaso amoroso di Saffo, si parla di un convento, di un pensionato di fanciulle, di un conservatorio di musica e di declamazione, e perfino d’un salotto letterario, e perfino d’un  club  estetico di donne, non si spiega nulla; e per giunta non si mostra né senso storico, né gusto irre-prensibile […]. E, ancora peggio, si è costretti a ridurre ad elemento secondario, ad ammettere a mala pena, facendo di tutto per togliergli ogni importanza, l’amore di Saffo per le amiche; ma per Saffo l’amore era tutto». Significativo il pieno consen   Sent from the all new AOL app for iOSLa parte curata da Gentili comprende tra gli altri Alceo, Anacreonte e Bacchilide, i tre autori di cui più egli si occupò tra la fine degli anni ’40 e la fine degli anni ’50. Nella difesa che Gentili fa (come già Coppola e Perrotta negli anni ’30) dell’allegoricità del famoso frammento alcaico ora 208a V. citato da Eraclito stoico («nella nave è rappresentato lo Stato, cioè la città di Mitilene, minacciata dalla rovina») 36 , tra affinità e differenze piace scorgere lo spunto delle future pagine sulla ‘pragmatica dell’allegoria della nave’ 37 . Superando i vincoli ancora operanti in   Polinnia  connessi al tradi-zionale confronto ‘estetico’ con Orazio, tramite l’approccio pragmatico-espressivo Gentili giungerà lì a riconoscere nell’allegoria lo strumento co-municativo strategicamente più idoneo e perciò scelto in varie occasioni da Alceo poeta e politico al fine di «trasmettere il messaggio in un linguaggio velato e allusivo  comprensibile solo  dall’uditorio dei compagni» 38 . Crocia- namente priva di introduzione sia generale, sia ai singoli poeti 39 ,   Polinnia  riserva particolare attenzione alle presentazioni dei singoli carmi. Spiccano lo spazio e il ruolo assegnati all’esposizione della metrica, «quelle sequenze di lunghe e di brevi, che avevano pari dignità grafica rispetto ai caratteri del testo, e apparivano ben in evidenza, non erano nascoste a fondo pagina, magari in una nota», sì da divenire per un liceale «il primo impatto reale con la metrica greca» 40 . Ciò appunto dovettero prefiggersi i curatori, con quella passione per gli studi metrici che la scarna premessa   Ai lettori  rivela: Riteniamo che l’accurata interpretazione metrica sarà accolta con favore. Essa ha per suo fine principale la lettura metrica, senza la quale non è possibile sentire e gustare un poeta greco. La metrica greca non è, come purtroppo credono ancora molti, né una scienza inesistente, né una scienza che permetta ad ognuno d’inter-pretare i versi come vuole, ma una scienza che è facile imparare, purché sia studiata sul serio. Per agevolare la lettura metrica, ci siamo presa la libertà di segnare gli  ictus  dei piedi, benché agli  ictus  non crediamo: certo i Greci non avevano l’accento dinamico, ma l’accento musicale. Poiché la lettura metrica è indispensabile: coloro che traggono, dalla giusta constatazione che la nostra lettura con gli  ictus  non corri-so riservato in nota alle posizioni esegetiche di Lavagnini: «Una pagina coraggiosa scrive, invece, nel senso contrario, il Lavagnini, col quale consento in tutto, benché abbia meno fiducia di lui nella psicanalisi».  36  Perrotta – Gentili 1948, 198-199. Sulle   Allegorie omeriche  del non altrimenti noto Eraclito nell’àmbito dell’esegesi antica di Alceo, e in particolare sul tema delle immagini marittime e il loro uso con significato politico da parte del poeta di Mitilene, rimando alla messa a punto di Porro 1994, 22-23, 55 sgg. e 105 sgg. 37  È il capitolo XI in Gentili Gentili Si ricordi per confronto la collana laterziana degli  Scrittori d’Italia , priva d’introduzione e di qualsiasi apparato interpretativo. Senza introduzione generale e ai singoli poeti sarà anche la successiva edizione del 1965: Perrotta – Gentili 1965. 40  Sono parole dalle pagine molto belle, di tono e sapore memorialistico, che alla metrica di   Polinnia  dedica Di Benedetto 2001, 141 sggsponde alla lettura degli antichi, la pessima conclusione dell’inutilità di ogni lettura metrica, fanno un’imperdonabile rinunzia, che generalmente tende a nascondere la pigrizia o l’ignoranza. Non diverse considerazioni, e non diversa passione didattica, animano la prefazione a   La metrica dei Greci  (1952), il libro che rappresentò «lo sdoganamento» di tale disciplina «nella scuola e, più in generale, negli studi classici italiani» 41 . Val la pena rileggere l’inizio di quella prefazione: È sentita in Italia la mancanza di un manuale di metrica ad uso dei non iniziati. Tale mancanza ha nociuto sino ad oggi all’insegnamento di questa disciplina soprattutto nelle scuole medie, poiché spesso i docenti, mossi da uno strano scetticismo considerano di scarso interesse la conoscenza della metrica greca, talora ritenen-dola del tutto estrinseca alla poesia, pura invenzione di alcuni studiosi moderni 42 anche perché già vi si rinvengono temi e motivi che ispireranno per decen-ni l’indefessa indagine metrica di Gentili: In realtà la metrica non è né estrinseca alla poesia, né invenzione dei moderni. Come ho già dimostrato nella mia   Metrica greca arcaica , alcune teorie metriche dei moderni, quelle più attendibili, sono già contenute nella migliore tradizione dei metricologi antichi. La metrica è necessaria, non solo ai fini della critica testuale, ma anche ad una più compiuta intelligenza del testo poetico. Poiché metrica e poe-sia furono nell’antica Grecia intimamente connesse, in funzione reciproca. È un errore avvicinarsi allo studio delle forme metriche con pregiudizi scolastici. Soltanto dimenticando gli schemi e seguendo i metri nel loro sviluppo storico, si può davvero intendere il valore e la necessità dello studio di questa disciplina. Notevoli sono il precoce apprezzamento per il valore dei metricisti antichi 43  e la visione non ancillare degli studi metrici, da intendersi non  41  Catenacci 2014, 448. 42  Gentili Circa venticinque anni dopo, tra le cause dell’isolamento in Italia dello studio della metrica greca «nel ghetto degli specialisti e guardato al pari di una disciplina esoterica con sospetto e diffidenza», Gentili tornerà a cita-re l’idea largamente diffusa «della impossibilità di costruire per la versificazione greca una teoria coerente ed univoca», inoltre aggiungendo l’influsso avuto dalla nostra cultura degli anni Trenta «che aveva reciso alla radice ogni altro impulso all’indagine critica che non procedesse nel solco della teoria estetica dell’arte»: cfr. Gentili 1979a, 681. 43  Sensibilità critica in cui Cerri 2014, 232 ravvisa l’indizio di una attitudine ‘an-tropologica’ già allora in qualche modo operante nella filologia di Gentili: «Contro l’orientamento che era invalso tra i metricisti di allora, non solo rivaluta le teorie e le analisi dei metricisti antichi, ma basa costantemente su di esse la propria trat-tazione […] è del tutto evidente che ciò avviene non solo e non tanto perché le ritenga ipotesi scientifiche acute e azzeccate, ma soprattutto perché le assume come testimonianza diretta di una sensibilità ritmico-musicale diversa dalla nostra, di un linguaggio fonico-gestuale specifico di quella civiltà e di quell’orizzonte mentalecome meramente funzionali o subordinati alla critica del testo, ma in-dispensabili innanzitutto per una piena comprensione dell’antica poesia, nella convinzione «che la metrica non sia un fatto esteriore, ma in funzio- ne della poesia stessa», come è poi ribadito all’inizio dell’  Introduzione . Lì è anche subito affermata l’unità ritmica del verso antico, la sua strutturale unione con la musica, onde «posta l’unità del verso greco, non sarà più legittimo parlare di piedi, ma soltanto di  cola » 44 . Rievo-cando di recente le lezioni di metrica tenute da Gentili alla Sapienza nell’immediato dopoguerra, G. A. Privitera ha colto nella «prospetti-va storica» l’aspetto che in quelle esercitazioni più colpiva, quando «a differenza dei trattatisti, che nei manuali si limitano ad esporre le loro interpretazioni, Gentili citava anche le opinioni dei metricisti antichi e dei metricisti moderni» 45 : come con ampiezza appunto avviene in   Me-trica greca arcaica , il volume del 1950 dedicato a Gennaro Perrotta, anch’esso aperto dalla rivendicazione della metrica come «una scienza al pari delle altre discipline classiche», tutta «nella migliore tradizione della filologia ellenistica» 46 . Conoscenze ampie sugli studi metrici degli ultimi centocinquant’anni attestano i primi due capitoli del libro, dove dapprima ( Studi metrici: brevi cenni ) Gentili delinea con ricchezza di esempi e osservazioni lo svolgersi delle principali analisi e teorie me- triche da Hermann (con cui «la scienza metrica nacque nel secolo scor-so» sulle orme di Bentley e di Porson) a Westphal 47 , a Usener 48 , a Wila- 44  Gentili 1952, 1-2. 45  G. A. Privitera, commemorazione lincea, cit.  supra , n. 17. 46  Gentili 1950. Ho consultato la copia conservata presso la biblioteca del Cen-tro di papirologia ‘Achille Vogliano’ (Dipartimento di studi letterari, filologici e linguistici dell’Università degli Studi di Milano), con  ex libris  dello stesso Voglia-no (segn. Vgl.II.B.61), in quegli ultimi anni di vita alle prese con lo studio rimasto incompiuto   La lirica eolica e Pindaro nella critica di Gottfried Hermann .  47  La cui «Entdeckung eines indogermanischen Urverses» già è lodata in Usener 1907, 15. 48  Di Usener è rammentato con interesse il trattato   Altgriechischer Versbau: ein Versuch vergleichender Metrik   (Usener 1887), con la sua «analisi comparativa del-la metrica greca con la metrica germanica». I capitoli IV e V dell’opera di Usener consistono di una rassegna, desultoria ma affascinante, volta a dimostrare la predi-lezione dei popoli indoeuropei per una struttura metrica base in otto sillabe ancor ravvisabile nei testi sanscriti, avestici, nelle più antiche ricostruibili forme metriche greche e latine, nei canti popolari germanici, slavi settentrionali e meridionali, li-tuani: nota è l’icastica reazione negativa di Wilamowitz alla lettura del libro («In metrischen Dingen vermag ich nicht in kurzem meine Differenz auszudrücken, weil sie zu tief geht […]. Ich kann überhaupt das einheitliche griechische Volk nirgends finden, also auch keine urgriechische Sprache und keinen urgriechischen Vers und keine urgriechische Religion», lett. del 13 ottobre 1887 in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder III 1994 2 , 46). Dal punto di vista della linguistica storica e della metrica comparativa indoeuropea severo giudizio sul lavoro di Use-ner dà Campanile 1982, cfr. anche Morelli 1996, 50 sgg. e 83-87   Sent from the all new AOL app for iOSmowitz, a Schroeder, a Maas 49 . Il successivo capitolo (  Metrica e musica ), prendendo spunto dai lavori di R. Westphal volti a «applicare le leggi dell’isocronia musicale ai metri greci», tentativo fallito ma assai noto in Italia per l’applicazione che ne diede Romagnoli nei suoi   Poeti lirici 50 , si segnala per la riflessione sulla centralità del rapporto metrica-musi-ca, cioè poesia e musica, e sulla necessità di considerarlo storicamen-te, alla luce delle svolte nella storia della cultura greca dall’arcaismo sino a Timoteo e poi all’età ellenistica, quando «il distacco della musica dalla poesia è definitivo; questa sarà destinata quasi sempre alla lettu-ra» 51 . Noti sono i meriti di Perrotta nella rinascita degli studi italiani di metrica antica 52 , nei quali «egli raggiunse una competenza che lo pose in una condizione di assoluto predominio in Italia». Così Ettore Para-tore all’indomani della morte del collega grecista nell’ateneo romano, rimarcandone la visione della metrica quale «premessa indispensabile per l’intelligenza di un altissimo testo poetico» e osservando la pro-fonda coerenza della «esemplare e severa scienza metrica del Perrotta» con l’intera sua concezione degli studi classici («nella metrologia del Perrotta veramente filologia e critica si dànno la mano in una sintesi tra le più feconde») 53 : nel timbro certo ‘romano’ ma già storiografica- 49  Cui già allora Gentili imputa gravi limiti metodologici, per la sopravvaluta-zione ‘empirica’ dell’ observatio metrorum  e il connesso «profondo scetticismo per tutti i problemi metrici di  Urgeschichte »: Gentili 1950, 20 sgg. 50  Particolarmente il secondo volume (  I Poeti Lirici. Terpandro, Alceo, Saffo , Bologna 1932) è costellato di «traduzioni in segnatura moderna della realizzazione sonora», cioè vere e proprie trascrizioni per musica dei frammenti dei tre antichi autori; almeno da un punto di vista storico non a torto Stella 1972, 171 indica come merito di Romagnoli «quello di avere richiamato l’attenzione fin dai primi anni del Novecento sul binomio   poesia-musica , in stretta interdipendenza di nota e parola, nei poeti greci fino all’età ellenistica», e di aver così dato «avvio ad una compren-sione profonda e meno letteraria di Saffo e di Pindaro, di Eschilo e Aristofane: indicava nuove strade per future ricerche». Le indagini sulla musica greca anche in età ellenistica cono-scono oggi nuovo impulso: vd. Martinelli 2009. 52  Messi in rilievo da Albini 1963, 111, il quale anche ricorda che «quando la morte lo sorprese, Perrotta stava ultimando un libro sul saturnio», sul contenuto del quale vd. la ricostruzione di Morelli 1996, 70 sgg. Resta il paradosso, segnalato da Morelli sin dall’inizio del suo studio, che «nella produzione di Gennaro Per-rotta, anche tenendo conto delle notazioni occasionali e delle scansioni fornite in   Polinnia , i contributi di carattere metrico risultano nel complesso piuttosto scarsi ed esigui, specie se rapportati all’importanza che egli annetteva notoriamente alla materia e agli anni spesi nelle relative ricerche fin dall’adolescenza». 53  Paratore 1963b, 7-8. È visione che si ritrova bene espressa anche nell’esordio del I capitolo di   Metrica greca arcaica : «Critica testuale, metrica, interpretazione estetica sono problemi che devono essere affrontati contemporaneamente dal fi-lologo classico; essi rappresentano una unità indissolubile, inscindibile. È merito grandissimo dei grammatici alessandrini se essi, unitamente all’esame critico delmente atteggiato della valutazione di Paratore, «la più grande scuola di metrologia classica fiorente in Italia», derivata da Perrotta, si ricapitola e si identifica nel nome di Bruno Gentili. L’esperienza di Perrotta me- tricista non può disgiungersi dal magistero pasqualiano 54 . Con il ricordo di conversazioni avute con Pasquali «su problemi importanti di metrica greca» Gentili scelse di aprire il suo contributo su Pasquali e la metrica nell’àmbito del convegno del 1985  Giorgio Pasquali e la filologia clas-sica del Novecento : Ricordo con perfetta lucidità l’esame metrico cui fui sottoposto al nostro primo incontro: mi chiese se ero in grado di scandire un carme di Bacchilide o di Pindaro; risposi affermativamente. Non ne fu del tutto convinto; mi porse il testo di Bacchi-lide e mi invitò a leggere metricamente il quinto epinicio, chiedendomi prima in quale metro fosse composto. Risposi: «Dattilo-epitriti» e lessi tutta intera la prima triade strofica. Ne fu sorpreso, forse perché dubitava che un giovane non formatosi alla sua scuola fosse in grado di superare questa difficile prova 55 . I colloqui con Pasquali, avvenuti a Firenze nell’immediato dopoguerra, si incentrarono (continua Gentili) quasi esclusivamente su un problema che particolarmente angustiava il grande filologo, quello cioè «delle re-sponsioni impure nei lirici corali e nei  cantica  della tragedia e della com-media del quinto secolo», in relazione soprattutto alla soluzione data da P. Maas in due articoli dove «egli crede di poter negare le responsioni impure in Bacchilide e in Pindaro, correggendo ar-bitrariamente il testo nei luoghi dove esse appaiono» 56 . Ciò che qui conta mettere in rilievo è la persuasione che Gentili trasse da quegli incontri dell’esigenza, in Pasquali riconoscibile, «di affrontare il tanto discusso problema delle libere responsioni fra strofe e antistrofe non più nella pro-spettiva astratta e schematica indicata da Paul Maas ma in una prospettiva più attenta alla fenomenologia del rapporto metro-ritmo melodico» 57 : che cioè, più in generale, Pasquali già avesse  testo, curarono nelle loro edizioni critiche la divisione in strofe, in στίχοι e in κῶλα  dei cori lirici, tragici e comici […]. Se oggi il filologo moderno dissentirà da essi nell’interpretazione, non potrà certo dissentire nel metodo. Conoscere, dunque, la metrica di un poeta significa poter intendere più profondamente la sua stessa poe-sia, significa poter penetrare nell’intima armonia e musicalità del verso».  54  «Tratto ereditato da Pasquali» lo dice Gamberale 1994, 77. 55  Gentili 1988, 79. Per la centralità nella ricerca metrica di Gentili dell’inter-pretazione dei dattilo-epitriti, «così denominati nel secolo scorso da R. Westphal», nella dialettica tra individuazione di  cola  unitari e sistematizzazione metrica otto-centesca di origine boeckhiana vd.  e. g.  Gentili – Giannini Così Gentili 1950, 21, in un passo e in un contesto che sembrano conservare qualche traccia delle conversazioni con Pasquali di quegli anni (la prefazione reca la data del 30 settembre 1949, ma Gentili informa il lettore che la prima parte del libro era già in bozze). Si ricordino le polemiche degli anni seguenti con Maas circa luoghi bacchi   Sent from the all new AOL app for iOSnetta e chiara l’idea che la poesia lirica sia essa monodica o corale e la musica erano i mezzi di comunicazione di una cultura che, attraverso il linguaggio poetico, i ritmi e le melodie, trasmetteva oralmente i suoi messaggi in pubbliche audizioni 58 . In parte riguardante l’àmbito delle responsioni, e in polemica con Maas, fu l’intervento di Gentili compreso nella raccolta di contributi in memoria del maestro («Maia» 15, 1963) 59 : «alcuni problemi qui discussi», è detto in apertura, «furono non di rado il tema preferito da Gennaro Perrotta nelle  conversazioni con i suoi allievi, i μετρικώτατοι», particolarmente negli  anni 1947-1951. L’articolo è interessante anche per l’attenzione che di-mostra, pur con vari dubbi, verso la colometria antica quale attestata dai pa-piri di Anacreonte e di Bacchilide, già in qualche modo preludendo a quel- lo che diverrà, soprattutto dagli anni Ottanta, uno degli àmbiti di studio più cari a Gentili e alla sua scuola 60 .3. Come per l’Italia e il mondo, così per Bruno Gentili gli anni Sessanta videro prepararsi e poi compiersi svolte decisive. Poco dopo la precoce scomparsa di Perrotta (settembre 1962), Gentili divenne all’Università di Urbino ordinario di Letteratura greca, insegnamento tenuto per incarico da alcuni anni, sin dall’istituzione della locale Facoltà di Lettere di cui fu subito «figura cardine» 61 . La prolusione urbinate del 18 giugno 1964, pub- blicata l’anno successivo con il titolo   Aspetti del rapporto poeta, commit- lidei in cui «la presunta corruttela del metro, per la responsione non perfetta» aveva condotto il filologo tedesco a ritenere corrotto il testo, difeso ammettendo la re-sponsione impura in Gentili Gentili Il racconto di Gentili va naturalmente letto tenendo pre-sente la frattura tra Pasquali e Perrotta su cui vd. Morelli; dal no-vembre 1948, su sollecitazione di Pasquali, erano ripresi i rapporti epistolari con il filologo tedesco: cfr. Bossina Gentili 1963 (poi nei monumentali  Studi in onore di Gennaro Perrotta ). Nella stessa  Gedenkschrift   non manca un breve contributo di P. Maas, una nota metrica di argomento ‘moderno’ datata Oxford, 31 ottobre 1962: Maas 1963. Anche per Maas metricologo molto si potrà trarre dall’esame delle carte segnalate in Lehnus 2010a e Lehnus 2010b. 60  Una quindicina d’anni dopo Gentili osserverà: «Si ritiene che la dottrina me-trica degli antichi sia di scarso valore e di nessuna utilità per noi […]. Ma, ch’io sappia, nessuno sino ad oggi ha realmente dimostrato la validità di questa asser-zione. Il disprezzo e il totale rifiuto delle teorie antiche è una moda invalsa negli studi metrici del Novecento» (Gentili 1979a, 688). Dello sviluppo degli studi sulla colometria antica guidati da Gentili negli anni successivi sono testimonianza molti contributi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica»: come sguardo d’assieme vd. Pretagostini, Gentili – Perusino 1997 e più di recente la  Tavola rotonda; breve consuntivo del dibattito in corso in García Novo Sugli studi classici a Urbino dapprima nella Facoltà di Magistero poi in quella di Lettere e Filosofia vd. il profilo di Colantonio – Bravi 2006tente, uditorio nella lirica corale greca , presenta un chiaro carattere pro-grammatico 62  e introduce quell’insieme di temi che «nel tempo si rivelerà più produttivo e tipicamente ‘gentiliano’» 63 . Fin dalle prime righe del sag-gio è messo in evidenza il valore di «strumento di conoscenza del reale» proprio della produzione poetica nella cultura greca del tardo arcaismo, il suo farsi «guida orientativa nell’evoluzione della società greca, nelle forme del linguaggio e dell’arte del poetare» per motivi non estrinseci ma stret-tamente connessi alla centralità del rapporto diretto tra il committente e il poeta che particolarmente connota la poesia corale. La funzione del mito, e dunque il tessuto dei contenuti stessi del carme, si svela quando ci si rifaccia al professionismo del poeta e alla funzione celebrativa costitutiva-mente propria della sua attività, volta a «scegliere una leggenda appropriata all’occasione», a trovare cioè e rendere intelligibile all’uditorio la relazio- ne tra racconto e celebrando, cosicché «il mito avesse un reale significato e un valore esemplare». Solo in tale contesto, a un tempo storicamente determinato e aperto alla necessità dell’interpretazione, possono corretta-mente configurarsi il rapporto mito-attualità e il rapporto mito-gnome, e può considerarsi superato «il problema dell’unità dell’epinicio e in genere del carme corale sul quale per più di un secolo dal Boeckh in poi la critica si è tormentata nella disperata ricerca di un’unità logica o estetica». Era, quello dell’unità dell’epinicio, il problema centrale della critica pindarica quale intuíto e sviscerato dalla grande filologia tedesca del XIX secolo, e che Perrotta aveva posto tematicamente al centro della sezione pindarica in  Saffo e Pindaro, dedicandovi una rilettura di oltre cento pagine attraverso l’intera produzione del poeta di Tebe, frammenti compresi, infi-ne giungendo alla constatazione dell’assenza di unità sia estetica sia logica nelle odi pindariche. Sostanzialmente riprendendo la visione romagnolia-na di Pindaro come «poeta del mito» 64 , l’interpretazione di quel «poeta puro, più che poeta-moralista o poeta-filosofo» 65  è infine da Perrotta per intero riportata all’interno della dicotomia crociana poesia/non poesia, senza arretrare dinanzi alle necessarie conseguenze di quella scelta critica: Non poeta dei giuochi, nè della gnome; non poeta dell’etica e della politica dorica; non poeta della saggezza di Apollo delfico. Ma poeta grandissimo del mito sentito religiosamente come miracoloso eroismo e miracoloso prodigio. Questa defini-zione dell’arte pindarica costringe a ripudiare come non poesia buona parte dei versi del poeta. Questo forse dispiacerà; e si dirà che Pindaro è ridotto ad essere, a questo modo, un poeta frammentario, e si deplorerà ch’egli è stato rimpicciolito e diminuito. Ma una più serena considerazione convincerà, che, anzi, il poeta è  62  «Una specie di manifesto per la Scuola urbinate» lo definisce Angeli Bernar-dini 2013, 16. 63  Catenacci 2014, 449. 64  La cui derivazione da Burckhardt sottolinea Paratore  Perrotta stato accresciuto, perchè l’unico modo di onorare un poeta è quello di esaltare la sua poesia. Isolare le parti impoetiche, non che fargli torto, è un servigio reso al poeta stesso 66 . Non a caso subito Perrotta richiama per confronto il caso della poesia dantesca («naturalmente continueranno ad esistere gli ammiratori dell’architettura, dell’unità, dell’armonia dell’epinicio pindarico, proprio come non mancano gli ammiratori dell’architettura, della struttura, della concezione del mondo dantesco») 67 , a proposito della quale con maggior valenza paradigmatica Croce aveva teorizzato e applicato la necessaria dis-tinzione – valida per ogni autore e opera letteraria – tra la dimensione pro-priamente ‘poetica’ e quella ‘allotria’, attinente «una varia interpretazio- ne filosofica e pratica» 68 .Trent’anni dopo, nel 1965, disegnando il percorso per un profondo rinnovamento degli studi italiani su Pindaro e i lirici che definitivamente li sottraesse alle ipoteche critiche della prima metà del secolo, Gentili in certo modo proietterà all’esterno il tema dell’unità dell’epinicio, rinvenen-dolo «nel mondo dei valori che il poeta in rapporto al suo pubblico e alla funzione sociale della poesia era portato a interpretare» 69 . Discernere nella orazione urbinate i fili di una nascosta dialettica con Perrotta è operazio-ne non priva di giustificazioni, quando si pensi che il saggio   Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca , nato da quella prolusione e poi pubblicato in più sedi, per la prima volta comparve nel volume di «Studi Urbinati» contenente gli  Scritti in onore di Genna-ro Perrotta 70  aperti da una pagina di presentazione di Gentili stesso, alla quale segue un inedito perrottiano, una nota critico-testuale a un passo di Lucano, in duello con una atetesi di Housman nel pasqualiano baluginare di «due varianti antiche» 71 . Significative le parole introduttive di Gentili, che indicano nel maestro un modello di «vivo impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi», mentre pur non si può tacere l’esigenza di porre nuove domande alla grecità arcaica e classica: 66  Perrotta E così prosegue: «gli uni e gli altri si riterranno i soli capaci d’intendere i poeti, pur essendo incapacissimi d’intendere qualunque poesia, perchè per poesia intendono l’allegoria, oppure la così detta ‘poesia d’idee’, oppure perfino una rac-colta di massime belle e utili». 68  Mi limito a rimandare in proposito, come testo esemplare, all’  Introduzione  di Croce 1921, che cito da una ristampa laterziana sostanzialmente immutata del 1943. 69  Saranno poi i temi fondamentali di molte, famose pagine di   Poesia e pubblico nella Grecia antica , soprattutto nel cap. VIII   Poeta-committente-pubblico, ovvero la norma del polipo . 70  Gentili 1965a. 71  Perrotta 1Chi gli fu vicino e poté, anche fuori della scuola, ascoltarlo nella conversazione abi-tuale, sempre viva e piena d’intelligenza umana, apprese, oltre che il rigore scien-tifico della ricerca, il vivo impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi, oggi, nelle prospettive del nostro tempo, diremo l’impegno a comprendere nell’inesauri-bile mondo della grecità arcaica e classica la problematicità dei rapporti di valore culturali e civili, quali uomo-scienza, uomo-natura, uomo-società, che sono alla base della nostra inquietudine e per i quali sentiamo l’urgenza di una soluzione se dobbiamo, tra i rottami inutilizzabili del vecchio umanesimo e tra gli automi della odierna civiltà industriale, riproporre una nuova dimensione dell’uomo, dell’uomo non come strumento ma come fine 72 . La seconda parte del saggio discute un buon numero di passi, perlopiù di Pindaro, anticipando traduzioni destinate all’antologia   Lirica corale greca. Pindaro Bacchilide Simonide , che uscì per Guanda nel 1965 73 ; il saggio originato dalla prolusione urbinate sarà lì riproposto in versione sostanzialmente immutata, a mo’ di introduzione dal titolo   Poeta e com-mittente . Nuovo è però l’avvio (ripreso nel retrocopertina), che intercetta le curiosità ‘d’avanguardia’ di quegli anni di profondi mutamenti, un po’ provocatoriamente invitandoli a una nuova lettura dei poeti della lirica co-rale greca: In un momento di crisi, oggi, della poesia, tra sperimentalismi d’avanguardia, giu-stificati, entro certi limiti, dalla buona intenzione di trovare linguaggi più idonei ad interpretare la realtà presente, ha forse un senso riproporre una nuova lettura dei poe- ti della lirica corale greca, Pindaro, Simonide, Bacchilide. La scelta non è casuale, ma ha un suo significato che sarebbe stato eluso se ci si fosse limitati a ripresentare i poeti della lirica monodica, troppo consunti dalla tradizione ermetica. Premeva invece offrire, nei limiti consentiti dall’indole della collana, un panorama delle op-poste tendenze ideologiche e artistiche che animarono la poesia del tardo arcaismo greco, cioè di un’epoca culturale caratterizzata da una profonda crisi evolutiva nella quale la poesia, come solo rare volte nella storia della cultura occidentale, divenne strumento di conoscenza del reale […] 74 . Si tratta dunque di una affermazione di ‘contemporaneità’ della lirica greca ancorata a solide e rinnovate basi filologiche e storiche, proposta in un’epoca di crisi e trasformazione tra le più incisive e impetuose del se-colo, come oggi sappiamo. Se può forse anche rimandare qualche eco dei  72  Parole che in parte torneranno trent’anni dopo nell’introduzione premessa da Gentili alle  Giornate di studio su Gennaro Perrotta . Si può aggiungere che nella premessa agli Scritti urbinati in onore del maestro, Gentili segnalava che alcuni di essi costituivano i primi contributi di collaboratori del neocostituito «Centro di studi sulla lirica greca e sulla metrica greca e latina» presso l’Università di Urbino. 73  Gentili 1965c. Ho consultato presso la Biblioteca centrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano una copia appartenuta a Luigi Alfonsi, con dedica manoscritta di Gentili datata «Urbino 18.11.1965». 74  Con l’ultimo periodo si apre il saggio in «Studi Urbinati» clamori suscitati dalla  beat generation  di A. Ginsberg, il cenno iniziale agli «sperimentalismi d’avanguardia» nell’àmbito della poesia contempora-nea, ai loro eccessi e alle loro ragioni, essenzialmente rinvia alla neoavan-guardia italiana di quegli anni, la cui fase preparatoria si suole riconoscere nel dibattito culturale sviluppato sulla rivista milanese «Il Verri», fondata nel 1956: sin dall’inizio diretta da Anceschi, se n’era avviata nel 1962 una seconda serie presso l’editore Feltrinelli, sedendo nel comitato di redazione letterati poeti e studiosi destinati a fama e fortu-na nei successivi decenni (Nanni Balestrini, Renato Barilli, Eco, Giuliani, Guglielmi, Porta, Sanguineti). I nomi appunto intorno a cui nel 1961 si era aggregata l’antologia poetica   I  Novissimi: poesie per gli anni Sessanta  (con testi di N. Balestrini, A. Giu- liani, E. Pagliarani, A. Porta, E. Sanguineti), con il successivo passaggio al Gruppo 63, più eterogenea e conflittuale formazione: intorno alla metà degli anni Sessanta poli entrambi di definizione e diffusione della neoa-vanguardia italiana,   poetae novi  avversi contemporaneamente a ermetismo e neorealismo 75 , volti (i più) alla destrutturazione sperimentale di lingua e forma come unica modalità di espressione di/in una realtà svuotata di sen-so e accettata come tale 76 . Presentando il primo numero della nuova serie de «Il Verri» (febbraio 1962), L. Anceschi salutava il determinarsi di un evidente mutamento nel panorama della poesia italiana contemporanea. A una maniera «che fu giustamente detta  anacoretica , o  ermetica , o  chiusa , non senza certe tentazioni di involuzione neoclassica» e che intendeva la poesia «come fuga o rifugio; come estrema voce del soggetto nascosto e introverso […] come sintesi illuminante, pregnante, e veloce nel rigore calcolato, coltivatissimo, e raro della parola», si sostituiva ora il diverso atteggiamento e sentimento «di una poesia dissacrata, estroversa, che si ritrova in un mondo di oggetti reali, affidata talora alla casualità del sin-tagma, talora ad un ritaglio significante dell’effimero, di modi analitici, a struttura complessa e multipolare, tale che […] può farsi capace di una critica di vita, di un’azione per la trasformazione dell’uomo»: egli avver-tiva insomma il farsi avanti di una poesia, e di una stagione di poesia, «come  accrescimento della vitalità , e nuove tecniche, e volontà di for-me aperte, e speranze di una maggior portata di comunicazione…» 77 . Il saggio già apparso in «Studi Urbinati» fu da Gentili subito ripubblicato  75  Nonché «uniti e avvinti (per impulso d’Anceschi) nel programma di approfit-tare della prima congiuntura economica favorevole dopo secoli – il famoso  boom »: così Alberto Arbasino in Anceschi – Campagna – Colombo, 338. 76  «Sganciato il linguaggio da intenti determinati e da precise responsabilità semantiche, lo scrittore appare attirato non tanto dalla mancanza di senso quanto piuttosto da ciò che sembra lecito chiamare il possibile verbale, ossia l’estrema libertà di invenzione linguistica. La parola comunica non dei significati, ma le pro-prie avventure e peripezie, percorre lo spazio senza fine del desiderio, del gioco e del godimento», come efficacemente sintetizza Curi 2014, 100.   Sent from the all new AOL app for iOS appunto su «Il Verri» 78 , all’interno di un numero monografico  Classicità e contemporaneità  contenente contributi anche di altri studiosi del mon-do antico 79 . Il fascicolo era introdotto da un intervento di Anceschi, da sempre attento a «scoprire in modi non fortuiti una zona antica e nuova della classicità» 80 , qui volto a riflessioni di singolare lucidità e preveggen-za, oggi certo più inoppugnabilmente attuali di cinquant’anni fa: Le infinite maniere con cui nel secolo son stati sentiti i classici testimoniano già esse di un continuo vivere dei classici al di fuori della astrazione, ormai incredibile, di eterne, immobili esemplarità. Che senso avrà la lettura dei classici in un mondo in cui l’Europa non sia più il “cervello del mondo” ma solo, se sarà possibile,  una  delle sue fibre,  una  delle voci di una cultura che si è aperta, aperta al riconoscimen-to delle ragioni di tutti i popoli, di tutte le tradizioni? La cultura europea in certi suoi esponenti della metà del secolo scorso sembra aver intuito la possibilità del determinarsi di una situazione di questo genere […]. Questa è la situazione in cui siamo, qui dobbiamo vivere, e in questo ordine recuperare i nostri antichi 81 . Particolarmente appropriati, nel contesto del numero de «Il Verri», ri-sultano dunque sin dall’inizio del saggio di Gentili i rilievi sulla ‘lontanan-za’ dal gusto moderno specialmente della lirica corale, tra le varie forme della poesia greca arcaica, e sull’almeno apparente maggiore accessibilità dei grandi poeti della lirica monodica (Saffo, Alceo, Anacreonte) anche se il loro volto è apparso spesso da noi alterato da un certo estetismo deca-dentistico che ha ancor più accentuato, a suo modo, quell’idea astratta e astorica della lirica greca che abbiamo ereditato dalla nostra cultura classicistica. Il culto della “poesia pura” idoleggiò in essi quella che fu ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poetica per eccellenza, o addirittura la “poesia del frammento” conden-sata in un’immagine di pochi versi superstiti. Il riferimento è qui alla importante, benché spesso indiretta presenza dei maggiori lirici monodici nella letteratura italiana dalla seconda metà  77  Anceschi 1962, in partic. 14 sgg.  78  Gentili 1965, 80-97. 79  C. Del Grande ( Grecità ); C. Diano (  Ritorno a Plutarco ); E. Pasoli (  Per una lettura dell’epistola di Orazio a Giulio Floro ); G. C. Giardina (  Note per l’esegesi di Orazio lirico ); A. Mele ( Orazio e il significato culturale del classicismo latino ). 80  Cit. in Nisticò 1997. 81  Anceschi 1965, 4-5. Quanto una ben diversa visione della Grecia come «anti-ca madre comune» fosse in àmbito filosofico italiano ancora viva pochi anni prima testimonia ad esempio il volume di Barié – Sini 1959, dove a fronte del «senso della crisi dei valori oggi tanto diffuso nella coscienza dei contemporanei, che nessuna generazione del passato potrebbe probabilmente reggerne il paragone», si propugna un ritorno alla Grecia, che «vagheggiata dall’Umanesimo al Romanticismo come il felice e radioso mattino della nostra storia, sembra non avere mai deluso chi ricerchi in essa i germi del modo occidentale di considerare e vivere la vita» (17dell’Ottocento, non solo e non primariamente nelle traduzioni 82 . A Car-ducci in particolare, e per vari aspetti già al Foscolo 83 , si deve «la riscoper-ta, nelle immagini e nei metri, dei lirici greci, di Alceo e Saffo, già di leo-pardiana memoria, e poi di Alcmane […] come modelli di poesia pura» 84 , all’origine di un ricco e complesso processo di ricezione, ancora non ade-guatamente studiato, che attraverso Pascoli 85  e D’Annunzio conduce sino ai   Lirici greci tradotti da Salvatore Quasimodo , usciti a Milano in prima edizione nella tragica primavera del 1940, introdotti da un saggio critico del ventinovenne Luciano Anceschi. A Milano Anceschi si era formato con Antonio Banfi, subito segnalandosi con il volume   Autonomia ed ete-ronomia dell’arte  (1936) 86 , radicale presa di distanza dall’intuizionismo estetico crociano e dalla sua incapacità di comprendere le poetiche del Novecento 87 . Come il coetaneo Carlo Bo (1911-2001) per la corrente ‘fio-  82  Tra le quali per più ragioni merita ricordare quella che Felice Cavallotti (1842-1898), allora già famoso deputato dell’  Estrema , dedicò a  Canti e frammenti di Tirteo. Versione letterale e poetica con testo e note preceduta da un’ode a Gio-suè Carducci , Milano 1878, con prefazione, interessante per il rifiuto della ‘metrica barbara’ («il tentativo – che non data da oggi – di ricondurre la poesia italiana alla esteriorità dei metri greci e latini, mal saprebbe giudicarsi alla stregua di alcune splendide ispirazioni di Enotrio»), e per l’attenzione alla fortuna di Tirteo anche fuori d’Italia, in particolare nel mondo tedesco (lingua che Cavallotti aveva appreso nell’ancor asburgico liceo milanese di Porta Nuova), finanche citando «la versione olandese in versi di Bilderdijk»: ma nella costituzione del testo adottando «per base la volgata di Enrico Stefano – del 1566 – che ancora oggi fra tutti i distillamenti di cervello della critica germanica rimane la guida del testo più fida e più sicura». 83  Del Foscolo si ricordi almeno la visione dei versi della  Coma  catulliano-calli-machea come   poesia lirica  sin dalla dedica a G. B. Niccolini («non credo che l’an-tichità ci abbia mandata poesia lirica che li sorpassi, e niuna abbiano le età nostre che li pareggi») della traduzione e commento de   La Chioma di Berenice poema di Callimaco tradotto da Valerio Catullo  (1803): ivi il   Discorso quarto. Della ragione  poetica di Callimaco  si chiude nel nome di Pindaro dopo aver esaltato Alceo e Saf-fo nei superstiti  rari vestigi  a fronte di Orazio e di Catullo. Sul ‘pindarismo’ fosco-liano dal commento alla  Chioma di Berenice  attraverso i  Sepolcri  sino alle  Grazie  come riflessione sul nesso che lega lirica antica e moderna vd. Benedetto 2006. 84  Nava 2007, 90; qualche utile elemento si trae da Tomasin 1997. 85  Fondamentali soprattutto i   Poemi Conviviali  (del 1904 la prima edizione in volume) sin dal liminare  Solon  (1895), su cui vd. le considerazioni introduttive e il dettagliato commento in Treves  Un àmbito di particolare interesse è quello della sperimentazione pascoliana ispirata ai metri della lirica greca, cfr. Giannini 2009 e ora Capone – Giannini 2015. 86  Lo stesso anno de   La poetica del decadentismo  di W. Binni, per il cui influs-so sugli studi pindarici degli anni Quaranta di M. Untersteiner vd. Lehnus 1989. 87  Sui fondamenti filosofici e critici del precocissimo anticrocianesimo di An-ceschi vd. Lisa 2007, cap. I (  La nuova fenomenologia e la nozione di poetica ); su Anceschi, la critica di ispirazione fenomenologica e la sua connessione con la neoavanguardia (come già con l’ermetismo critico) utile profilo in Orvieto 2003, 1090-1095 e 1104-1110rentina’ dell’ermetismo, sul versante ‘milanese’ Anceschi fu figura di spicco tra i giovani critici che si fecero interpreti e banditori della singolare intensità della parola nella poesia di Quasimodo: ‘poetica della parola’ sul-la cui centralità Anceschi torna nell’introduzione ai   Lirici greci  del 1940, dicendola erede dell’«esperienza complessa della poesia dopo Hölderlin, Poe, Baudelaire, e, per noi in special modo, Leopardi» e, soprattutto, scor-gendone l’antecedente nella «pura e libera voce dei lirici greci». Anceschi si mostra consapevole del fecondo lavoro filologico svoltosi per secoli intorno a quegli antichi poeti, ma del pari afferma che nella cultura euro-pea «non ci fu mai la felice e piena stagione dei lirici greci». Quella stagio- ne ora è giunta, cosicché «nella ricerca di una poesia veramente  nuova  e  contemporanea » e soprattutto «nella aspirazione al raggiungimento di una rigorosa   purezza lirica » l’‘ermetico’ Quasimodo può pienamente espri-mere se stesso traducendo Saffo Alceo Archiloco e Alcmane, ritrovando cioè «la purezza di quell’antica sensibilità in una condizione di linguaggio attuale della poesia». Senza sentimentalismi – va detto – ma nutrito di una chiara percezione della terribile crisi della civiltà europea 88 , risuona l’appello alla lirica greca come depositaria dell’assolutezza della parola, paradossalmente assicurata dalla condizione frammentaria di quella tra-dizione testuale: Questa aspirazione di purezza in un riconoscimento della relativa «brevità» di ogni composizione poetica, che, per raggiungere il suo scopo, deve presentarsi alla no-stra coscienza come  un tutto  è, appunto, la lirica – per la prima volta nata all’u-manità nella Grecia. Di essa solo la   parola  (qualche parola altissima, e interrotta) ci resta, là dove era anche danza e musica: parola, danza, musica in un’invisibile armonia unitaria di ritmi. E solo l’immaginazione più libera può darci un’approssi-mazione felice a quel segreto. Se pregevole appare la sottolineatura del concorrere di parola, danza e musica nel definire la particolare natura della lirica greca, è indubbio che il suggerire compatibilità o addirittura sovrapponibilità tra ‘poetica della parola’   cara agli ermetici novecenteschi e scarni testi dei lirici greci conservati   per fragmina  («qualche parola altissima, e interrotta») si risolve in una forzatura critica a danno del concetto e della realtà di ‘frammento’ propri della filologia classica: all’indomani della guerra pubblicamente lo segnalò Manara Valgimigli (1876-1965) 89 , peraltro con Quasimodo e  88  Consapevolezza che ad esempio si esprime nel richiamo a un’illuminante frase di P. Valéry: «… une civilisation a la même fragilité qu’une vie. Les cir-constances qui enverraient les oeuvres de Keats et celles de Baudelaire rejoindre les oeuvres de Ménandre ne sont plus du tout inconcevables: elles sont dans les  journaux» (22-23). 89  Valgimigli 1946 (1957). Dopo aver ricordato che dei lirici greci «per tra-dizione medioevale diretta, oltre la silloge teognidea e quella pseudofocilidea, e oltre i quattro libri degli Epinici di Pindaro […] tutto il resto lo abbiamo o per ciAnceschi in rapporti epistolari già in quel 1940, e da subito ben disposto verso l’impresa traduttoria del poeta ermetico e i suoi risultati 90 . Quan-do Gentili, nel saggio pubblicato nel 1965 su «Studi Urbinati» e su «Il Verri», polemicamente alludeva a quell’impresa nei termini su citati («il culto della “poesia pura” idoleggiò in essi [ scil . i grandi poeti della lirica monodica] quella che fu ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poe- tica per eccellenza, o addirittura la “poesia del frammento” condensata in un’immagine di pochi versi superstiti»), i   Lirici greci  di Quasimodo erano nel pieno della loro fortuna: mentre proprio nel 1965 era definita la for-ma  ne varietur  delle versioni dai lirici nell’edizione mondadoriana degli  Opera omnia  del poeta, tra vivaci polemiche di recente laureato dal Pre-mio Nobel (1959), quelli erano gli anni in cui se ne radicava e diffondeva la presenza nelle scuole italiane, particolarmente dopo l’istituzione della Scuola media unica. Soprattutto dai primi anni Sessanta e nel successivo decennio si può dire che in Italia nella percezione comune, anche gene-ricamente colta, la lirica greca coincise con i   Lirici greci  di Quasimodo, opera anzi che già all’indomani della morte del poeta (1968) si prese a riconoscere come la sua migliore 91 . La stessa scelta da parte di Gentili di  tazioni indirette, oppure, dove siamo stati più fortunati, per ritrovamenti papiracei; a ogni modo, per frammenti» e che in realtà anche la lirica era «tutta intessuta e ragionata nel mito», Valgimigli pienamente riconosce le ragioni storico-culturali di quell’equivoco, il ‘fascino singolare’ esercitato sui ‘lirici nuovi’ dagli antichi poeti in frammenti: «ora, se io penso a quelle che furono ai principi del Novecento le teoriche dell’intuizionismo, del futurismo, del frammentismo, non credo peccare di temerità né di irriverenza se tra le cause di questo incontro di poesia greca e poeti nuovi oso porre anche questa umile e strana combinazione, cioè del casuale stato frammentario e quindi, in certo senso, alogico, anticontenutista, antisintattico, e, vorrei aggiungere, anticantato di certa poesia lirica greca». 90  Quanto sopravvive dei carteggi Quasimodo-Valgimigli e Anceschi-Valgimi-gli è ora raccolto nel volume Benedetto – Greggi – Nuti 2012. Val la pena qui trascrivere almeno la breve missiva (da Padova, 6 giugno 1940, su carta intestata «R. Università di Padova/Seminario di Filologia Classica») con cui Valgimigli rin-graziava il poeta per l’invio di una copia degli appena pubblicati   Lirici greci : «Caro Quasimodo / Ho avuto il libro. Grazie. Certi versi mi hanno ridato la consolazione di un nuovo cantare. Sopra tutto, come già Le scrissi, c’è quel pudore schietto, quel pudore senza inganni, quella limpidezza liquida, che erano e sono qualità insolite e ignote. Di alcuni punti e modi, di alcuni suoni di parole, assai mi piacerebbe par-lare con Lei. Anche mi piacerebbe scrivere di questo suo libro. Ma dove, in questi giorni feroci? Addio, caro Quasimodo. E auguriamoci bene. E auguriamo bene al nostro paese e alla nostra civiltà. / M. Valgimigli» (in Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 100-101). 91  Così per primo E. Sanguineti, uno dei protagonisti della neoavanguardia, che in chiusura dell’  Introduzione  alla sua importante antologia einaudiana   Poesia italiana del Novecento  (1969) accomuna in iconoclastico dileggio antiermetico le versioni quasimodee al famoso saggio di Carlo Bo   Letteratura come vita  (1938); appunto perché gli antichi lirici risultano «volgarizzati, mediante il Quasimo-   Sent from the all new AOL app for iOSantologizzare e tradurre per Guanda i poeti della lirica corale (Pindaro, Bacchilide, Simonide) fu con ogni evidenza determinata dal fatto che si tratta appunto degli autori non presenti tra i   Lirici  di Quasimodo perché non compatibili con l’idea di lirica sottesavi, come peraltro Anceschi ave-va a suo tempo esplicitamente affermato: Entro i limiti di una pura (attuale e antica)  idea   della poesia  perciò fu osservata la scelta dei testi […]. Naturalmente è ben definito il senso anche delle esclusioni di poeti disposti a mettere a servizio della «celebrazione» la magnificenza di uno stile espertissimo, come Pindaro; o, come Bacchilide, abile e colto in una dolcezza di analisi descrittive. E sempre, poi, un rigore senza concessioni ha voluto la esclu-sione, o, almeno, la limitazione nella presenza di poeti «semi-lirici» (giambici o elegiaci, gnomici o politici) troppo disposti alla  sentenza , all’ esortazione  o alla  narrazione : a indubbie condizioni di prosa 92 . Venticinque anni dopo la comparsa dei   Lirici greci  prefati da Anceschi, Gentili propugnava e realizzava il rovesciamento di quella prospettiva cri-tica 93 ; ci si può quindi chiedere perché il grecista urbinate abbia scelto pro-prio la rivista diretta da Anceschi per ripubblicare e più ampiamente divul-gare il saggio   Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca . Quanto si è prima accennato circa i convincimenti maturati da Anceschi nel corso degli anni Cinquanta, e poi sempre più all’inizio dei Sessanta, rende chiara la risposta: «nemico di ogni posizione cristallizza-ta» 94 , Anceschi soprattutto con «Il Verri» individuò come primario compi-to del critico «quello di risolvere la situazione in cui si trova, e di cui sente l’ansia e l’instabilità» 95 . Non solo sin dai primi anni del dopoguerra egli si  do, con i tratti deformanti della poetica ermetica», su quindici poesie antologizzate da Sanguineti tredici sono tratte dai   Lirici greci , definiti «il suo più vero contribu-to originale alla poesia del nostro secolo» e «uno dei documenti più significativi dell’intiera stagione ermetica». 92  L. Anceschi,   Introduzione  in Quasimodo 1940, 22. 93  Con espressioni che sembrano anche direttamente rispondere a quelle di An-ceschi del 1940: «per questa via era difficile accostarsi ai lirici corali del tardo ar-caismo greco, particolarmente a Simonide, Pindaro e Bacchilide, più elaborati, più consapevoli delle loro possibilità espressive, più ricchi nei contenuti etici, politici e artistici, indissolubilmente legati a un particolare ambiente e ad una determinata occasione che stimolarono e condizionarono il loro canto» (Gentili 1965c, 15). 94  Anceschi – Campagna – Colombo 1998, 331: «Anceschi – si sa – era nemico di ogni posizione cristallizzata […]. Non sconfessava l’ermetismo, in cui si era riconosciuto e che lo aveva visto nascere come critico militante, ma non intendeva lasciarsi rinchiudere in esso. E magistrale […] era la sua capacità di muoversi in territori ambigui, d’incerta definizione, non ancora riconosciuti, e di porsi come punto di riferimento per chi cercava la sua strada». 95  Anceschi 1956, saggio con cui si apre il primo numero de «Il Verri» nell’au-tunno di quell’anno, riproposto nella nuova serie de «il verri» nel 1996; sulla con-dizione della letteratura italiana dopo la metà degli anni ’50, chiusa tra le ultimeera convinto (come Quasimodo del resto) dell’esaurimento della stagione ermetica, ma tornò ad affrontare i   Lirici greci  e la sua stessa introduzione dieci anni dopo, riscrivendola nel 1951 per una nuova edizione mondado-riana. Molte qui sono le novità, sin dall’avvio. Anceschi lascia intendere di essere all’origine dell’incontro di Quasimodo con la lirica greca (come peraltro già le pagine del 1940 lasciavano sospettare) 96 , prende atto del de-finitivo isterilirsi dell’ermetismo, contestualizza la traduzione quasimodea nel suo valore e nei suoi limiti storicamente determinati: Ma che cosa si son fatti i lirici greci nella lettura di Quasimodo? Essi furon letti, è evidente, nel gusto particolare di una certa tendenza alla poesia del tempo […]. Era un momento in cui la verità della poesia ci sembrava tutta compresa nella veloce intensità della lirica in una estrema lucidità di contatti tra oggetti lontanissimi e lon-tanissimi tempi della memoria; e gli antichi   frammenti  (la giustificazione della vali-dità del frammento è sempre la prova di resistenza delle estetiche) ci confermavano con la loro forza che la poesia  non  sta nella struttura,  non  sta nella «musica esterio-re»,  non  sta nel «contenuto morale» o nella «narrazione» e nel «discorso»…: tutto ciò può andar perduto, eppure una bellezza intensa e veloce resta, e ci commuove. 4. Importante novità rispetto all’introduzione del 1940 è il richiamo al saggio «incompiuto e bellissimo» di Renato Serra (1884-1915)   Intorno al modo di leggere i Greci , pubblicato postumo da Valgimigli nel 1924 su «La Critica». Ispirate dalle contradditorie reazioni che il primo volu-me della traduzione commentata dei   Lirici greci  del Fraccaroli (1910) gli avevano suscitato 97 , le pagine di Serra sono soprattutto una riflessione sulla fine del vecchio classicismo («il calco in gesso dell’Ellade serena, dell’Ellade perfetta, che aveva fatto le delizie di tante generazioni, dagli umanisti fino al Carducci, è andato in frantumi»), sul nuovo «desiderio di realtà» suscitato dall’incessante lavoro di filologi e archeologi, sulla inquie-  manifestazioni dell’ermetismo e il dogmatismo neo-realista, e sulla risposta libera-toria che la rivista trovò in una ‘fenomenologica’ concezione della letteratura «che rinnova continuamente la propria consapevolezza in rapporto al concreto mutare delle situazioni» torna ad esempio Anceschi 1967. 96  «Non dimenticherò certo facilmente il giorno – davvero molto lontano, or-mai – in cui, parlando con Quasimodo, mi venne fatto di associare, secondo certe ragioni, due idee familiari e carissime, che, in quel momento, sollecitavano in modo singolare la mia mente; voglio dire: l’idea della prima lirica greca, e quella della poesia italiana contemporanea. Fu, credo, un giorno dell’autunno 1938»: l’introdu-zione anceschiana del 1951 è ristampata in Quasimodo. Ho davanti a me i Lirici del Fraccaroli. Che cosa è dunque l’interesse di que-sto libro? L’intendimento nuovo di mettere sotto gli occhi dei lettori comuni questi avanzi venerabili della lirica greca, sì che ognuno possa vedere e giudicare senza scrupoli quel che sono sostanzialmente e quel che valgono. Con questo animo l’au-tore ha dato e il pubblico ha ricevuto, molto lietamente, come sapete, il libro. Per-ché dunque invece di partecipare a questa lietezza io resto malinconico e dubitoso  ad ascoltare l’eco beffardo di una ironia lontanissima. ὁρᾶς τὸν πόδα τοῦτον;»   Sent from the all new AOL app for iOSta grecità da loro rivelata, consentanea al gusto   fin de siècle  («coi prefidi-aci, con la civiltà micenea e con la cretese, con le fasce delle mummie e con gli ostraka dei monticoli egiziani, e insomma con l’insistenza su tutto ciò che la Grecia può dare di più crudo, barbaro, romantico, positivo, con-trastante col vecchio ideale gelato»), e soprattutto sulle opportunità svelate da questo diverso, modernissimo ‘bisogno di antico’: Realtà, come dicevo, di cose, e non di parole. Questa è la differenza profonda fra la nostra generazione e quelle che l’han preceduta. Le statue, le fotografie, le imma-gini, i processi, i costumi, in somma la vita nella sua indifferente nudità ha preso il posto degli aoristi del maestro di seminario e delle figure di Longino […]. Una cosa è chiara, direi quasi  a priori ; che con tanta voglia di appropriarsi solo il grosso e l’essenziale della grecità, i pensieri e i motivi e le immaginazioni piuttosto che le frasi e le formalità, quest’ora dev’essere propizia per i traduttori. I passi ora citati del saggio di Serra provengono dal fascicolo de «Il Verri» dedicato a  Classicità e contemporaneità , che si apre con estratti da   Intorno al modo di leggere i Greci 98 . Sugli appunti di Serra si sofferma il liminare   Intervento  di Anceschi. Nel giovane critico cesenate caduto sul Podgora, Anceschi indica colui che «intuì una crisi del modo di sentire e vivere i classici, in cui noi ancora siamo», la crisi di chi ha compreso «che non ha più alcuna utilità per noi una lettura  assoluta  dei classici», ma che esistono ancora molti modi, altri modi, con cui i classici ci possono rispon-dere, molti e diversi piani su cui essi vivono ancora per noi, e che molti e diversi possono essere i gesti del nostro rapporto con loro. E su questa fenomenologia va forse ormai posato l’accento. Sono evidenti le consonanze tra un così attento bisogno di fondare una diversa presenza dei classici in un futuro avvertito come totalmente ‘altro’, e l’attività di Gentili in quegli anni come filologo e come docente. Ne è conferma la scelta di continuare a pubblicare su «Il Verri» gli articoli di maggior impegno teorico e programmatico già apparsi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica»: in particolare i due saggi L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo  e   Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici . Il primo (Gentili 1970) 99  pienamente si presenta al lettore ‘nella dimensione del nostro tempo’, subito prospettando l’ineludibile «grosso problema di fon-do che è il problema stesso della sopravvivenza del mondo classico nella nostra cultura», letto all’interno del più radicale tema della ‘morte della storia’ nelle società a tecnologia avanzata e pervasiva degli ultimi decenni  98  Serra 1965. 99  Già in «QUCC», con il sottotitolo  Sincronia e diacronia nello studio di una cultura orale : Gentili 1969del XX secolo. Quaranta e più anni dopo, sono riflessioni che colpiscono per lungimiranza, e per estraneità agli ideologismi allora correnti come a qualsivoglia ‘umanistica’ retorica consolatoria o deprecatoria: In concreto, quale senso può avere la grecità arcaica nell’odierna civiltà tecnolo-gica che rifiuta la storia e s’impone come civiltà nuova, integrata e alienata come è definita dai sociologi, perché ha tolto al mondo, irrevocabilmente, le sue proprie dimensioni storiche? Il risultato di questa situazione irreversibile è a tutti noto: la grande crisi dei valori etici, politici, espressivi. Se volgiamo per un attimo lo sguardo alla cultura contemporanea e agli ultimi movimenti delle neoavanguardie europee, lo stato di crisi dell’espressione ha forse toccato i suoi limiti. L’articolo enuclea e propone con chiarezza i principali elementi caratte-rizzanti il rinnovamento a livello internazionale degli studi sulla lirica gre-ca arcaica, sulla spinta soprattutto dei lavori di E. A. Havelock, muovendo dal riconoscere che «dato comune alla lirica greca, e in generale alla poesia greca sino alla fine del V sec. fu il tipo di comunicazione cui fu affidata, comunicazione non scritta ma orale», e che una poesia orale «comporta modi di espressione e atteggiamenti mentali diversi dalla poesia di comu-nicazione scritta». Si è di fronte a una ‘tecnologia di scrittura’   rinvenibile «in contesti poetici di altre culture orali», solita affidarsi a periodi brevi e figurazioni paratattiche, estranea all’«uso dell’io idiosincratico», cioè appunto all’‘io lirico’ della poesia latina e poi moderna, connessa invece a una «psicologia della   performance  poetica che mira a pubblicizzare il personale e il soggettivo per renderlo immediatamente percepibile e coin-volgere emozionalmente l’uditorio» attraverso la ricca serie di immagini e metafore proprie del linguaggio della lirica arcaica. La presenza del mito ne riflette la funzione, «tessuto connettivo della cultura orale e strumento sociale di interazione tra passato e presente, fra tradizione e attualità, tra poeta e uditorio», sì da delineare un tipo di poesia prammatica per la sua funzione e i suoi scopi parenetici, didattici e celebrativi, sollecitata nella scelta dei temi dalle vicende della vita militare e politica, dalle reali situazioni della vita sociale, dei simposi, delle feste religiose e degli agoni atletici, vincolata alle richieste di un committente o a un uditorio di “amiche” e di “amici” di un thiaso di ragazze o di una consorteria politica di identico rango sociale. Si trovano qui compendiate e illustrate con efficace consapevolezza critica le linee guida che per mezzo secolo ispireranno l’amplissimo la-voro di Gentili e della sua scuola sulla lirica greca arcaica 100 . È opportu-no sottolineare la volontà di Gentili di legare l’interpretazione dei lirici greci, così rinnovata, a una prospettiva particolarmente ampia e ambizio- sa, protesa sul futuro e infatti più volte ribadita nei decenni successivi,  100  Esemplare l’esposizione in Gentili 1990   Sent from the all new AOL app for iOSl’idea cioè «cui aspira l’antropologia contemporanea, dell’interpretazione come comunicabilità fra culture diverse e distanti nel tempo». Il rifiuto, all’inizio dell’articolo, sia della «interpretazione umanistica tradizionale della poesia greca come eterna storia naturale del gusto e dell’arte» sia del ‘neoumanesimo etico’, e in definitiva la presa d’atto della «crisi profon-da dell’umanesimo tradizionale» in un contesto culturale dominato dalle nuove scienze dell’uomo, mira all’affermazione di un diverso paradigma (identificabile nei nomi diversi ma variamente concordanti di Dodds e di Finley, di Vernant e di Havelock) con «lo sforzo di capire in concreto la mentalità dell’uomo greco arcaico», secondo una linea critica attenta all’oggi e al domani: nella quale cioè «convergono le domande, le cate-gorie e gli strumenti delle moderne scienze dell’uomo: dalla lessicologia semantica alla psicologia sociale e alla psicologia della storia, dalla socio-logia all’antropologia», e il vero tema risulta infine «il problema concreto dell’uomo nella sua vita individuale e sociale» 101 .Allo scopo evidentemente di segnalare nell’attività critica ed esegetica la necessità di una costante riflessione concernente passato (dell’oggetto) e presente (dell’interprete), «contro il pericolo di arbitrari travestimenti» 102 , il saggio si chiude con una breve citazione da T. S. Eliot 103 , cara a Gentili, che la ripeterà in futuro. Si tratta di un passo proveniente da un saggio del 1920 (  Euripides and Professor Murray ), violento attacco dello scrittore contro le traduzioni euripidee approntate per la scena dal famoso grecista, accusato di adottare per le proprie versioni un obsoleto stile tardo-otto-centesco incapace di trasmettere la sostanza del testo greco e di renderlo comprensibile nel presente (opinione ben espressa dalla devastante frase finale: «è per il fatto che il professor Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì, proprio morto»): è giusto aggiungere che, quali siano stati moventi e intenti della stroncatura di Eliot, le traduzioni di Murray proposte  on the stage  furono grandemente popolari per decenni, e anzi «it was largely due to Murray that Greek tragedy established itself as a permanent feature of the theatrical landscape» 104 . L’intervento fu incluso  101  Sul significato di fondo dell’opera di Gentili da individuarsi nella «applica-zione alla filologia testuale dell’antropologia culturale», al fine di porre «la spiega-zione dei testi, della loro struttura e dei singoli passi, nel quadro illuminante della cultura complessiva cui furono funzionali» vd. soprattutto le osservazioni di Cerri 2014. 102  Con riferimento a quanto sembra alle interpretazioni idealistiche e estetiz-zanti della lirica greca contro cui più polemizza Gentili. 103  «Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite differenze dal presente e tuttavia in modo così vivo che esso sia tanto presente a noi come il presente». 104  Cfr. Garland 2004, in partic. 161-163. Su   Euripides and Professor Murray  vd. ora i rilievi di Morwood 2007, 139 sgg.; sui ben noti, profondi interessi di Eliot per le letterature classiche e soprattutto per Virgilio, e sull’importanza nella costru-zione e nell’autorappresentazione del poema  The Waste Land   (1922) del concetto   Sent from the all new AOL app for iOSda Eliot nella raccolta   Il bosco sacro  ( The Sacred Wood  ), rivelata nel 1946 alla cultura italiana dalla traduzione di Luciano Anceschi, che premise una lunga introduzione (datata marzo 1945!) 105  dove non manca di essere menzionato   Euripides and Professor Murray , da Anceschi accostato al saggio «incompiuto e bellissimo di Serra   Intorno al modo di leggere i Greci » per la comune avversione verso «quel tipo ambiguo di traduttore-poeta-filologo-professore che fu di moda nei primi anni del secolo e che […] non soddisfò né le ragioni pure della filologia, né tanto meno quelle, certo più rigorose, dell’arte» 106 . Bersaglio di Anceschi, subito dichiarato, è «il prof. Romagnoli», esempio più noto della «filologia poetica di fine secolo», appunto quella «  filologia poetica , che è riuscita a ridurre i liri-ci greci ad una farsa domenicale» a suo tempo già attaccata dallo stesso Anceschi (direttamente coinvolgendo Romagnoli, da poco scomparso) nell’introduzione ai   Lirici greci  del 1940 107 , priva invece di riferimenti al certo in Italia ancora ignoto intervento di Eliot contro Murray traduttore: lo si troverà poi citato, in chiusura, nella rielaborata, quasi palinodica pre-fazione anceschiana del 1951 108 . Il terzo ampio e importante contributo che Gentili in quegli anni ripropose sulla rivista di Anceschi (  Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici : Gentili 1972) è per intero dedicato a discutere i radicali mutamenti intervenuti tra la prima e la seconda metà del Novecento nel definire «l’orizzonte della critica sui lirici greci». Il saggio prima di tutto registra con soddisfazione il venir meno «dei miti e dei luoghi comuni della vecchia critica idealistica e delle sue estreme frange estetizzanti», particolarmente forti in Italia «per oltre un trentennio» proprio nell’àmbito degli studi sui lirici, e nelle tradu-zioni. Come traccia dell’estremo persistere della «critica del gusto» e in  di   fragment   («these fragments have I shored against my ruins») vd. il profilo di Martindale 1999. 105  Anceschi 1946. 106  Anceschi 1946, 32. 107  L. Anceschi,   Introduzione  in Quasimodo 1940, 24-25. Questo il passo: «Quasimodo sembra perciò essere veramente il più adatto – oggi – per una impresa così ardua – necessariamente – difficile […] in reazione a certa   filologia poetica , che è riuscita a ridurre i lirici greci ad una farsa domenicale (e si veda Romagnoli da un frammento bellissimo:  Tramontata è già Selene / e le Pleiadi: il ciel tiene /  Mezzanotte: l’ora vola; / io son qui sopita e sola )», dove il riferimento è natural-mente al famoso frammento saffico 94 D. =   168b V. 108  In Quasimodo 2004, 333, dove Eliot «nel saggio su Euripide» è menzionato accanto a pensieri sul tradurre di Leopardi e di Pound. Pochi mesi prima della comparsa in italiano de   Il bosco sacro , il richiamo al Murray di Eliot a proposito delle traduzioni dai lirici greci prodotte in Italia tra Ottocento e Novecento da «certi filologhi non so come invasati dal dio» era già in L. Anceschi,   Presentazione  in Anceschi – Porzio 1945, 15-16 (dove come traduttore di poeti antichi oltre a C. Sbarbaro, da Sofocle, compare in realtà il solo S. Quasimodo, con testi da Omero, Saffo, Alceo, Erinna, Eschilo, Virgilio, Ovidio, Catullo).generale di «quel gusto del lirismo novecentesco che ha dominato la cul-tura italiana tra il 1920 e il 1940» è indicata l’ancora presente «tendenza a ricondurre il testo originale al gusto del lettore e non viceversa a guidare il lettore verso il testo originale», così procedendo a un’operazione «che an-nulla le categorie del tempo e dello spazio in vista di una contemporaneità falsa ed artificiale». A rinforzo dell’osservazione e come monito «contro il pericolo di arbitrari travestimenti» in cui possano cadere le traduzioni, Gentili torna a menzionare il passo di Eliot  contra Murray  già citato al termine dell’articolo di due anni prima (  L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo ). È interessante notarlo, inte-ressante e paradossale. Originario intento del brano, e in genere di   Euri- pides and Professor Murray , era l’accusa dello scrittore Eliot al grecista Murray di essere privo dell’‘occhio creativo’ 109  capace di render vivo Euri-pide con una traduzione inglese adeguata ai tempi e alla perduta centralità dell’educazione classica 110 . Anceschi nel presentare la traduzione italiana ravvisò in Murray l’equivalente inglese di Romagnoli, cioè dell’esponente più illustre di quella ‘filologia poetica fine di secolo’   a lungo di voga in Italia, colpevole di aver travestito gli antichi poeti nelle  forme di un linguaggio che non sappiamo collocare né storicizzare: un inafferrabile linguaggio di Utopia che ci ha sempre meravigliato con certi moti di umore, e oggi ancor più ci meraviglia e diverte; solo in qualche caso si potrà parlare di uno sfatto e maldestro residuo di discepolato carducciano 111 . 109  È opportuno citare per intero nel contesto originario il brano, con cui il sag-gio di Eliot si conclude: «Abbiamo bisogno di una digestione che assimili insieme Omero e Flaubert; abbiamo bisogno (come ha incominciato Pound) di uno studio accurato degli umanisti e dei traduttori del Rinascimento. Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite differenze dal presente, e, tuttavia in modo così vivo, che esso sia tanto presente a noi come il presente. Questo è l’occhio creativo; ed è per il fatto che il professor Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì, proprio morto». 110  Eliot 1920 (1946), 142-143: «Negli ultimi anni del diciannovesimo secolo e fino ad oggi, i classici han perduto il loro posto di pilastri del sistema politico-socia-le […]. Se i classici devono sopravvivere e giustificare se stessi, come letteratura, come elementi del pensiero europeo, come fondamento per la letteratura che spe-riamo di creare, sono proprio sfortunati per il bisogno che hanno di persone capaci di chiarirli. Se di Aristotele si può dire che è stato un pilota morale dell’Europa, noi abbiamo bisogno di qualcuno […] che ci spieghi come sia materia vitale per noi il rinunciare o no a tale pilota. E abbiamo bisogno di un gruppo di poeti colti che abbiano, almeno, opinioni sul dramma greco, e se esso sia o no di qualche utilità per noi. Si deve dire che il professor Gilbert Murray non è l’uomo adatto per ciò. I poeti greci non avranno il più insignificante effetto di sollecitazione per la poesia inglese, se appariranno solamente travestiti in un volgare avvilimento dell’idioma troppo risentitamente personale di Swinburne». 111  Anceschi 1946, 32 n. 1: discorso che, Anceschi tiene a precisare, «non si rife-risce ad un letterato di bella educazione e di civilissimo spirito, come il Valgimigli»Per l’Anceschi del 1945, come per quello del 1940 e parimenti del 1951 (e poi sempre), la risposta alle illeggibili e a tratti grottesche traduzioni di Fraccaroli e di Romagnoli 112  venne dai   Lirici greci  di Quasimodo, frutto di «acuto, inatteso, e ormai da molti anni pressoché desueto contatto tra l’antico e il contemporaneo» 113 , fonte di poesia nuova e antica a un tempo: proprio l’opera cioè implicito (e di lì a poco esplicito) obiettivo polemi-co di Gentili, in quanto espressione più nota e fortunata di quel ‘lirismo novecentesco’ che indebitamente assimilò alle proprie categorie critiche ed estetiche la realtà incommensurabilmente altra della lirica greca, pie-gandola alle attese e ai gusti del moderno lettore. Riscoperto da Anceschi a sostegno di una resa dei classici antichi affine a quella operata da Quasi-modo con i lirici greci,   Euripides and Professor Murray  è invece evocato da Gentili come alleato contro gli «arbitrari travestimenti» realizzati da traduzioni quale quella di Quasimodo. Lo si nota non per ossessione ‘fon-tistica’ 114  o gusto della minuzia paradossale, ma come indizio – insieme a tanti altri più rilevanti – del ruolo che nei decenni centrali del Novecento la versione quasimodea dei   Lirici  ebbe, come presenza immanente e come termine di confronto positivo o negativo, non solo nel mondo letterario italiano, ma anche in quello filologico e accademico 115 . Nel caso di G. una tale presenza e un tale confronto dovettero sin da giovane caricarsi di più intense risonanze, quando si pensi che la prima (e pressoché unica) re-censione dei   Lirici greci  di Quasimodo ad opera di un grecista accademico fu di Perrotta, nell’ottobre 1940. Dimenticata dopo la guerra in  112  Ottime in proposito le osservazioni di U. Albini,   Prefazione , in Perrotta – Al-bini 1972,  V : «Le due traduzioni dei lirici greci che hanno contrassegnato la prima parte del Novecento sono opera di G. Fraccaroli ed E. Romagnoli, due studiosi di seria dottrina, impegnati nello sforzo di rievocare la bellezza e la grandezza dei classici antichi […]. Si voleva spalancare una grande finestra sul mondo antico, offrire le chiavi di un mondo paradigmatico, richiamare al passato come premessa e garanzia per l’avvenire. Se le riprendiamo in mano oggi, tali versioni si rivelano sconfortantemente indecifrabili. Lessico, movenze, stilemi ci sono estranei, ignoti, quasi…». 113  Dall’introduzione di Anceschi del 1951 ora in Quasimodo 2004, 324. 114  Pare certo che Gentili sia giunto al saggio di Eliot attraverso Anceschi, che lo propose al pubblico italiano, e di cui nel saggio poche righe più avanti è del resto citata l’introduzione all’edizione 1951 dei   Lirici greci . Ancora nella postuma   Premessa  di L. Anceschi,   Brevi parole, su un modo del tradurre  a Mariotti 2001, le versioni di Mariotti sono lodate come «ben lontane dalle effusioni floreali del prof. Murray, non meno che da quelle di certi nostri professori-poeti», e si ha un interessante ricordo personale delle «traduzioni dai   Frammenti dei tragici greci  [1925] che lessi ai tempi del liceo, lontane ormai, ma non dimenticate, di Mario Untersteiner, un traduttore che rimase esente dalle rumorose, eccitate, e un poco illusionistiche euforie degli esuberanti traduttori  liberty  del suo tempo». 115  Anche in questo senso non è fuori luogo osservare, come più volte fece Marcello Gigante, che «la traduzione dei   Lirici greci  ha conquistato un posto ben definito nella storia degli studi classici ragione della sede in cui fu pubblicata 116 , la recensione di Perrotta non si limitò a rilevare errori e spropositi della traduzione («Bella cosa, se Quasi-modo sapesse un po’ meglio il greco!»), ma soprattutto seppe cogliere nell’impresa di Quasimodo quella di «un poeta, un modernissimo poeta che vuol tradurre i lirici greci modernamente, e riesce così a conservare ad essi la semplicità antica»: da contemporaneo Perrotta comprese cioè il ‘novecentismo’ dei   Lirici greci , la loro pertinenza (come Anceschi dirà del «classicismo post-simbolista» di Eliot) a «una zona di dignità anticamente moderna, di classiche aspirazioni, che è movimento proprio a gran parte dell’Europa civile tra gli anni 1919-1939» 117 .Sono osservazioni utili, credo, a contestualizzare e meglio valutare l’attenzione, pur critica, che Gentili spesso manifestò verso i   Lirici greci  quasimodei nonché verso significato e influsso nella cultura italiana del Novecento di quella modalità di accesso alla poesia greca. Nel saggio di Gentili compreso nell’annata 1972 de «Il Verri» alle versioni di Quasimo-do dai lirici è accostato il   Pindaro  di Leone Traverso, cioè la traduzione delle odi e di una scelta di frammenti che il grecista e germanista L. Tra-verso (1910-1968) aveva pubblicato nel 1961 per Sansoni 118 . Va ricordato che sede originaria di   Prospettive critiche nell’interpretazione della cul-tura greca dell’età dei lirici  fu l’imponente numero in due tomi di «Studi Urbinati» (1971) per intero dedicato a ospitare  Studi in onore di Leone Traverso 119 , con   Dedica  di Carlo Bo, di cui è altresì presente il saggio   La cultura europea in Firenze negli anni ’30 . Vi si rievoca il clima degli anni di formazione fiorentina di Traverso, poi professore di Lingua e letteratura tedesca nell’Ateneo urbinate, tra i giovani poeti e scrittori (Bo, Bigongia-ri, Luzi, Macrí) che raccolti intorno a «Il Frontespizio» e a «Letteratura» diedero vita all’esperienza dell’ermetismo, prima di tutto come esigenza di apertura a una cultura di carattere europeo e organicamente volta perciò alla traduzione 120 : «anni lontanissimi dove la poesia era una sorta di religio-  116  Si tratta de «Il Bargello. Foglio d’ordini della Federazione fiorentina dei Fasci di combattimento», periodico cui collaborarono molti giovani intellettuali anche vicini all’ermetismo. La recensione ai   Lirici greci  è comunque segnalata nelle bibliografie di Perrotta in  Studi Perrotta  1964, 663 e in Perrotta 1978, 397; sul tema vd. Benedetto 2012,   40 sgg. e   passim . 117  Anceschi 1946, 21; ricordo in proposito il recente, ricco catalogo Mazzocca 2013.  118  Traverso – Grassi 1961. 119  Gentili 1971. 120  Cfr. Bo 1971 (in origine conferenza pronunciata a Firenze nel 1967); nel I tomo è l’ampio saggio di Macrí 1971, dove particolare attenzione è riservata alla rigorosa formazione filologica classica di Traverso («addetto, nella distribuzione dei nostri compiti generazionali, alla specula ellenico-germanica»), alla sua ammi-razione per Perrotta e alla intrinsichezza con Pasquali, alla lunga consuetudine con Pindaro, letto e tradotto «non con un rifacimento o rimpasto contemporaneizzante di tipo idealistico pseudostoricistico (poesia e non poesia, ciò che è vivo e ciò chene e la critica sposava le stesse passioni e le stesse ricerche dei poeti» 121 . Già coinvolto in una polemichetta con Quasimodo ( duce  Lavagnini) ancor prima dell’uscita dei   Lirici greci , intorno all’interpretazione di ὤρα come  giovinezza  nel famoso fr. 94 Diehl di Saffo ( Tramontata è la luna ) 122 , Tra-verso fu uno dei primi recensori dell’opera, su «Primato» dell’1 luglio 1940. Pur notando qualche «arbitrio» e «difetto» nella resa del greco, sin dall’ incipit  egli aderisce alla scelta effettuata sui lirici («perfettamente adeguata al gusto del nostro tempo»), alla sua modalità e ispirazione: Tralasciati i pezzi gnomici e oratorii o comunque ristretti al giro d’una polemica occasionale (Callino, Tirteo, Focilide,Teognide, Solone, Senofane, ecc.) e insieme le manifestazioni illustri – a prima vista un po’ estranee al nostro spirito – di poeti considerati, ma non sempre a ragione, come ufficiali quali Pindaro e Bacchilide  – egli isola di quella poesia una zona che più evidente offre il carattere di una «pu-rezza» rarissima in tutte le civiltà letterarie. (E l’ha aiutato efficacemente in questa selezione anzitutto lo stato in cui più di frequente furono tramandate quelle reliquie  – naturalmente per ragioni diversissime dalle sue: frammentario) 123 . Forse memore di quei lontani trascorsi, e certamente del retroterra erme-tico di Traverso, Gentili assimila   Lirici greci  di Salvatore Quasimodo e   Pin-daro  di Leone Traverso come «prove più rappresentative di un’esperienza letteraria intesa come problema d’immagini, d’invenzione linguistica, di ricerca di stile». Mentre in Quasimodo la «vera “fedeltà” di traduttore è nella libertà del movimento linguistico e ritmico» con il conseguente scarso valore attribuito al reale rapporto originale-traduzione 124 , l’assai più ricca  è morto, ecc.) ma di colpo, al centro e al cuore dell’assoluto e del sublime pindari-co, che fu operazione tipica della critica ermetica nel contatto con l’opera d’arte»: notandosi inoltre che «non diverso (pur computata la diversità della preparazione filologica) fu il possesso della lirica greca da parte di Quasimodo». In una vivace intervista del novembre 1981 O. Macrí ebbe a ricordare Traverso all’inizio degli anni Trenta come parte «del primissimo gruppo pre-ermetico al caffè San Marco […] infusi del demone delle letterature straniere», insieme naturalmente a Carlo Bo, che «venne alla Facoltà di Lettere fiorentina per seguire gli studi classici, poi ci ripensò e divertì sulla letteratura francese, maestro Luigi Foscolo Benedetto, anche di Luzi» (Tabanelli 1986, 65). 121  Sono parole a proposito di Quasimodo e degli anni Trenta da un articolo di Carlo Bo,   Ma dove va la poesia? , apparso sul «Corriere della Sera» dell’11 marzo 1987, ora in Bo 1994, 1610. 122  I testi della disputa, avvenuta su «Corrente di vita giovanile» del 29 febbraio 1940, sono ora disponibili in Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 138-140. 123  Traverso 1940; la recensione è ora ripubblicata in Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 143-144. Di fronte alle versioni di Quasimodo anche a Traverso, come a tutti i primi recensori, «preme anzitutto riconoscere la validità di poesia italiana, indipendente, che ne risulta». 124  E quindi, come da molti è stato osservato, «il tradurre diviene un momento essenziale del poetare   Sent from the all new AOL app for iOStrama letteraria e filologica sottesa, nonché l’influsso di Hölderlin traduttore di Pindaro e di Sofocle, ha come effetto in Traverso un maggiore rispetto «per gli usi della lingua greca che per lo spirito della propria lingua», con il paradossale scivolare «in una sorta di ermetismo di scrittura che rende inintelligibile il senso e in un preziosismo linguistico che tradisce l’impegno della trasparenza anche se il calco raggiunga in qualche caso la fedeltà auspicata» 125 . Pur tra loro sotto molti aspetti differenti, le versioni di Quasimodo e di Traverso sono agli occhi di Gentili accomunate dall’inadeguatezza a riproporre «la totalità umana e artistica dei lirici greci», vittime della loro stessa ricerca di una «fedeltà emotiva» incapace di rendere l’attuale lettore consapevole della distanza che lo separa da quegli antichi e frammenta-ri testi. Allora e per i successivi decenni della sua intensissima attività scientifica, di filologo e di traduttore, la risposta scelta da Gentili fu ri-nunciare a soffermarsi sul «problema teorico, e in un certo senso ozioso, della traducibilità o intraducibilità in assoluto», e invece, per così dire ‘fenomenologicamente’, «investire sul piano prammatico il problema del-la traducibilità» 126 . Si tratta di pagine di grande rilievo, dove sono indi-viduate priorità e finalità concernenti «il discorso della traducibilità dei lirici, dei modi e delle tecniche del tradurre», nel rifiuto dell’assunzione a modelli di specifiche poetiche del tradurre, affermando l’impossibilità di «prescindere dalle reali situazioni di cultura del mondo contemporaneo e dalle richieste che al traduttore pone il lettore moderno», e definendo esigenze di vasto e pur rigoroso valore comunicativo, destinate (come già si è visto) a essere ribadite e di continuo inverate nel lavoro di Gentili dei decenni a venire: Una poetica non astratta e irreale, non prefigurata su schemi di modelli già espe-riti, ma una poetica aperta del tradurre che si costruisca gli strumenti adeguati a una maggiore portata di comunicazione e riproponga il problema del tradurre dai  125  G. Le considerazioni a proposito di Traverso, e delle tra-duzioni di Hölderlin come «esempi mostruosi» di fedeltà all’originale, torneranno in B. G.,   Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2 ,  LXVIII . 126  Gentili richiama in nota «il pregevolissimo saggio» di Mattioli 1965, com-preso nel numero speciale  Classicità e contemporaneità , dove anche si aveva la fondamentale prolusione urbinate   Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca . Il saggio di Mattioli si conclude con alcune considera-zioni di tipo teorico, a partire dalla convinzione che «la soluzione univoca (tra-ducibilità assoluta o intraducibilità assoluta che sia) nega il concreto del vissuto», e che perciò risposta sul piano teorico non si può dare ma «il problema si risolve soltanto in un contesto prammatico», cioè sul piano delle molteplici risposte della storia. Alla tradizionale domanda ‘si può tradurre?’ Mattioli propone di sostituire domande quali ‘come si traduce?’ e ‘che senso ha il tradurre?’, cioè «sostituire alla domanda di tipo metafisico la domanda di tipo fenomenologico» greci non nei limiti dei vecchi modelli privilegiati della traduzione letteraria e della traduzione poetica, ma nella prospettiva più ampia di quella idea cui aspira l’et-nografia contemporanea della traduzione come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche, sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo […]. Poiché fedeltà alla poesia o fedeltà alla qualità letteraria è un problema che investe la comprensione totale del testo, non soltanto di tutte le sue connotazioni, dei suoi registri linguistici e metrici […] ma anche di tutta la realtà extralinguistica e situazionale dell’enunciato poetico 127 . Senza passare dettagliatamente in rassegna l’intero saggio, bastino al-cuni richiami a temi che in futuro variamente continueranno ad occupa-re Gentili. Così l’interrogarsi su una versificazione italiana adeguata alla complessa struttura metrica delle strofe di Pindaro e di Bacchilide conduce Gentili a sostenere la preferibilità del verso libero delle grandi odi dannun-ziane 128 , finanche segnalando le possibilità aperte dal «verso “dinamico” e “atonale” della poesia dei Novissimi», e in effetti nell’antologia   Lirica corale greca  del 1965 lo stesso Gentili aveva tentato «di risolvere il movi-mento dei metri simonidei con le tecniche metriche della poesia contem-poranea dei Novissimi» 129 : va detto che un profondo interesse per le strut-ture metriche della poesia italiana soprattutto ottocentesca e novecentesca sin dall’inizio caratterizzò i «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» 130 . La  127  G. Sono affermazioni che ritorneranno, insieme a parte dell’intero saggio, nell’  Appendice II. La traduzione dai lirici. Alcune osservazioni sul problema del tradurre  in Gentili1984 (2006 4 ), (e cfr. anche  supra  n. 2). 128  Si ricordi la scelta del verso libero per la traduzione delle   Pitiche , con l’os-servazione che «le grandi odi delle   Laudi  del D’Annunzio, particolarmente il verso libero della   Laus vitae , scandito da strofe di 21 versi, offrono sotto il profilo tecnico un modello esemplare di versificazione per l’esuberante dovizia delle forme ritmi-che, tali da riecheggiare […] i molteplici schemi della metrica pindarica» (Gentili,   Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2 ,  LXIX - LXX ); e si ricordi altresì la lunga citazione da   Maia , con l’apparizione del «monarca de-gli Inni», al principio dell’  Introduzione  alla postrema fatica Gentili – Catenacci  – Giannini – Lomiento 2013. 129  Lo rileva Bernardini 1966, 144. In àmbito diverso ma non estraneo si tenga presente, dello stesso Gentili, l’importante e innovativo lavoro  Cultura dell’im- provviso. Poesia orale colta nel Settecento italiano e poesia greca dell’età arcaica e classica  (Gentili 1980), poi riproposto in altre sedi: nella conclusione si esprime vivo interesse per esperienze contemporanee quali «l’affermarsi, in America, di un’avanguardia poetica, che si definisce “postmoderna” e trae il suo alimento dai contributi sulla poesia orale forniti, in questi ultimi decenni, non solo dall’antropo-logia culturale, ma anche e soprattutto dalla più autorevole filologia classica ameri-cana, rappresentata dagli studi del Parry, del Lord e dell’Havelock» (poi in Gentili 1984 [2006 4 ], 29-30). 130  Già nel primo numero si ha l’articolo di Pinchera 1966, 92-127, che si apre lamentando l’effetto negativo sulle «indagini critiche relative alla storia delle forme metriche» prodotto dalla «dittatura culturale esercitata per vari decenni in Italia da Benedetto Croce».riflessione sull’eclissarsi nel secondo dopoguerra del neoumanesimo di W. Jaeger è occasione per evocare il contemporaneo «crollo dell’esperienza critica crociana», la cui presenza più autorevole nel settore della classicità e più coerente con l’orientamento crociano è riconosciuta in G. Perrotta, particolarmente per  Saffo e Pindaro  (1935) 131 . Circa la più generale posi-zione critica del maestro, Gentili tiene a mettere in rilievo che «pur ade-rendo senza riserve al canone dell’interpretazione estetica dei lirici, aveva tuttavia saldissime basi filologiche e storiche, non era in altri termini una critica del gusto», giacché il crocianesimo operava in lui come una sorta di sovrastruttura, sul tronco più vi-tale di quella viva metodologia critica introdotta in Italia da Giorgio Pasquali, che portava in sé già latenti i fermenti di un approccio linguistico, psicologico e antro-pologico alla cultura classica: la ricerca filologica costituiva soltanto il momento preliminare e necessario di un’indagine il cui fine era l’intelligenza del mondo an-tico nella viva concretezza della sua cultura 132 . Nel prosieguo del contributo, Gentili brevemente si sofferma sull’innova- tivo apporto soprattutto degli indirizzi di Dodds e di Vernant allo studio della cultura greca arcaica, infine indicando il problema cardine della ricerca sulla cultura e la poesia di quell’età «nel corretto rapporto tra livello sincronico e livello diacronico della ricerca», il che è stimolo per accennare alle note riserve verso gli studi pindarici di E. L. Bundy, e poi di D. C. Young. Ad essi Gentili rimprovera un’analisi limitata ai soli aspetti sincronici delle strutture linguistiche e formali, tale da precludere «la possibilità di comprendere gli aspetti situazionali ed extralinguistici della   performance  della lirica pindarica». Alcuni anni dopo, più ampia- mente e duramente Gentili assocerà a questa nuova critica «il fastidio che suscita inevitabilmente un’analisi soltanto formale, intesa a repe-rire le costanti intertestuali, senza riguardo all’articolazione dei singoli contesti ed alla impostazione ideologica dei diversi autori» 133 : è per noi interessante il confronto lì istituito con «quella critica estetica che ebbe in Italia come suo massimo esponente G. Perrotta», a tutto vantaggio  131  In nota è menzionato il contemporaneo saggio su Saffo di M. Valgimigli (1933), «da noi la prova più rilevante di una critica del gusto permeata di evoca-zioni e suggestioni letterarie della cultura italiana fra i due secoli». Significativo è, nella stessa nota, il richiamo invece favorevole all’intonazione anticlassicistica dei frammenti dal saggio di Serra   Intorno al modo di leggere i Greci  pubblicati da E. Raimondi nel numero de «Il Verri» 1965 su  Classicità e contemporaneità ; si consi-deri anche che del 1965, in occasione del cinquantenario della morte, è il saggio di Carlo Bo   La religione di Serra , poi accolto nel volume   La religione di Serra e altre note di lettura , Firenze 1967. 132  Gentili 1972, 30. Su crocianesimo e Pasquali in Perrotta, analoghe espressio-ni vent’anni dopo in Gentili 1996, 12. 133  Su questi temi vd. poi almeno Gentili 1984 (2006 4 ), 156-157dell’approccio del maestro, «una critica estetica che non è puro estetismo impressionistico ed intuizionistico, ma una critica del gusto corroborata da un’acuta sensibilità storica» 134 . L’articolo del 1972 si chiude confer-mandosi come «proposta di una diversa lettura dei lirici, che recuperi nella storicità delle relazioni fra poeta e uditorio il significato originario del loro messaggio». Una proposta di cui si tiene a sottolineare il caratte-re antidogmatico, inteso a rispondere alle esigenze critiche del presente: «Ma, di là da una falsa pretesa di un equivoco oggettivismo metasto-rico, essa non presume di essere definitiva. Al contrario, consapevole del divenire storico della critica, si affianca alle precedenti proposte, già esperite, in una modalità di lettura più coerente con l’orizzonte culturale del nostro tempo» 135 .Assai più dei due precedenti interventi accolti su «Il Verri», nel 1965 e nel 1970,   Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici  è attento al tema della traduzione, e alle ricadute delle varie correnti critiche del Novecento su teoria e prassi delle traduzioni dai lirici greci. Al ‘piano prammatico’ e all’impostazione ‘aperta’ della traduzione, di taglio antropologico, Gentili rimarrà fedele, ulteriormente approfondendo la riflessione negli anni, sì da scorgere nel traduttore «uno “sciamano” che non conosce confini sino al punto da divenire un altro da sé e di cogliere il momento puntuale in cui significante e significato si compenetrano» 136 , nella fedeltà alla «norma dannunziana di avvicinare il lettore all’opera e non viceversa» 137 . La presenza di contributi di Gentili  134  Gentili 1979b; sul conflitto tra gli indirizzi di E. L. Bundy e della scuola ur-binate di B. Gentili, le considerazioni di Lehnus 1988. Ampia analisi delle posizioni di Bundy e di Young, con frequenti richiami a Perrotta e in nome (come noto) della riproposizione di una ‘lettura estetica’ degli epinici, è nel lavoro di Bonelli 1987, con ricca bibliografia. 135  Gentili 1972, 38. Analogamente, e fenomenologicamente, si concludeva il già citato Mattioli 1965, 128: «Altre risposte (traduzioni e idee del tradurre) segui-ranno in futuro per le quali sarebbe arbitrario stabilir regole o far previsioni come lo sarebbe per l’arte del futuro», e perciò «a questo punto si può fermare il discorso, non solo perché si presenta come abbozzo di una futura ricerca, ma anche perché i  discorsi conclusi  in questo àmbito di studi sono palesemente insensati». Si veda già Mattioli 1963 per la proposta di «una impostazione fenomenologica della ricer-ca», considerata particolarmente necessaria e opportuna nel campo dell’antichità classica proprio in ragione dello «scacco che ha ricevuto il tentativo, compiuto in Italia, di trasportare sic et simpliciter l’estetica crociana nella interpretazione delle letterature classiche». 136  Gentili,   Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2  ,  LXIV . 137  Così in Gentili 2002, dove anche è ricordato il giudizio di Perrotta 1935, 97, per il quale D’Annunzio fu «non solo il traduttore ideale di Pindaro, ma il poeta italiano che meglio di tutti ha saputo riecheggiarne l’arte, intendendola pienamen-te». Più positivo si fa nel citato articolo il giudizio sulla traduzione pindarica di L. Traversosu «Il Verri» non andrà oltre i primi anni ’70 138 , ma sino alla vigilia del-la morte di Anceschi (maggio 1995) durarono i rapporti epistolari, come oggi sappiamo grazie alla pubblicazione dei diari riferiti agli ultimi anni del professore bolognese 139 , che molte volte sino agli estremi suoi giorni continuò a tornare con il pensiero alla traduzione di Quasimodo dei   Lirici greci  e al suo significato storico e culturale 140 .A quella stessa seconda metà degli anni ‘60 fecondissima di idee e di propositi appartiene il numero d’avvio dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», come espressione del  Centro di studi sulla lirica greca e sulla metrica latina  diretto da G.  e connesso al CNR. Un effettivo riesame dell’attività scientifica di Gentili comportereb-be una sistematica rilettura non solo dei contributi e degli interventi del direttore dei  Quaderni  ma più in generale delle principali linee di ricerca espresse dalla rivista, del loro permanere, mutare ed evolvere nel corso di cinquant’anni. Mi limiterò a richiamare due contributi di Gentili su Saffo ospitati nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a distanza di oltre quarant’anni l’uno dall’altro, per così dire ai due poli cronologici dei  Qua-derni  di Bruno Gentili. Il primo è   La veneranda Saffo , del 1966 141 , che  138  Sino a Gentili – Cerri 1973: sull’importanza dell’articolo per successivi lavo-ri di Gentili sulla storiografia antica vd. Bernardini 2013, 16. 139  Oltre a un cenno in un’annotazione del 3-5 settembre 1989 («Eccellente scritto di G. sulla “Repubblica”. Lo riporto integralmente. Ancora una volta acu-te considerazioni sulla oralità – e sulla situazione degli studi umanistici», cfr.   Anceschi  2006, 109), si veda soprattutto quella del 2 gennaio 1993 («Lettera molto lusinghiera di G.. Conosco l’ironia, ed è tale da non accettare ambiguità. Ecco un uomo che dice quello che pensa», cfr.   Diari Anceschi/2  2006, 9). Nell’Ar-chivio Anceschi presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna sono conservate 26 lettere di Bruno Gentili: cfr. Campagna 1998, 513; si tratta della presenza più am-pia per un filologo classico, insieme a M. Barchiesi (parimenti 26 lettere), del quale sulla rivista anceschiana vd.   Plauto e il “metateatro” antico  (Barchiesi 1969), con la premessa: «sulla tentazione erudita […] prevalse l’idea di tenere aperto, in perfetta modestia, il discorso su quello che è più che mai il nostro tema cruciale, e che può designarsi con la formula stessa del “Verri”, “classicità e contemporaneità”». 140  Così l’11 marzo 1995, a meno di due mesi dalla morte: «Con Quasimodo ho avuto una frequentazione amichevole molto prolungata e, mi pare, serena aperta ai problemi con vivi impulsi di collaborazione e di conoscenza. Certo sono passati tanti anni; per altro, l’affetto del ricordo non diminuisce. Quale che sia la forza della mia vita letteraria, per me si è trattato di un risvolto capitale […]. La traduzione dei   Lirici Greci  fu una esperienza radicale alle origini, che ci portò a rivivere il proble-ma del tradurre come un problema fondamentale della poesia. Da quel momento la discussione è aperta, e mi pare con qualche frutto, mi pare anche che in questo senso l’impulso continui. Penso che questa esperienza nel mettere in rilievo tanti motivi della relazione complessa tra traduzione e poesia – sia, o almeno sia per quel che mi riguarda, costitutiva di un modo di vedere che continua ad operare» (  Diari  Anceschi/2  2006, 92). 141  Gentili 1966 (confluito in forma abbreviata nel cap. XII di Gentili 1984 [2006 4prende spunto dal famoso fr. 384 V. (verosimilmente) di Alceo ἰόπλοκ’ ἄγνα μελλιχόμειδε Σάπφοι, forse (si è supposto) «l’ incipit   di un car-me dedicato all’illustre concittadina» 142 . Era il frammento cui s’era volto Perrotta dopo aver espresso il proprio rifiuto verso «la soluzione dei Wel- cker e dei Wilamowitz» a difesa della ‘purezza’ di Saffo: Molto meglio, per chi voglia davvero intendere e onorare Saffo, ricordare il fram-mento di Alceo che dice (63 D.): «Saffo pura, dal dolce sorriso, dal crine di viola». L’omaggio devoto dell’insolente cavaliere di Lesbo basta a farci sicuri che né bia-simi né malignità aduggiarono mai la vita mortale di Saffo. Altro non è da ricercare: non si può pretendere di giudicare con le nostre idee moderne, né giudicare una donna di Lesbo con i pregiudizi di un Ateniese […]. Ognuno vede quanto sarebbe ingiusto rimproverare alla poetessa i suoi amori per le amiche, mentre nessuno rimprovererà al suo compatriota e contemporaneo Alceo gli amori per Lico. Ma più importa questo: Saffo è soprattutto una poetessa, anzi è soltanto una poetessa per noi; soltanto la sua poesia noi dobbiamo giudicare, e soltanto in essa noi possiamo trovare la sua immagine. Ora, alla sua poesia possiamo accostarci con animo puro: essa è pura, perché poesia, e altissima poesia 143 . Al passo, per molti aspetti paradigmatico dell’interpretazione perrottia-na di Saffo, Gentili non fa diretto riferimento, rifacendosi invece all’ultimo articolo di Walter Ferrari, l’allievo prediletto di Pasquali «inviato come as-sistente di Perrotta a Roma ma morto assai giovane nel 1940» 144 . Se merito dell’intervento di Ferrari era stato sottrarre l’interpretazione dell’epiteto  ἄγνα all’àmbito della «castità profana» 145 , caro a «tutte le mitiche specula-zioni sulla purezza degli amori di Saffo» e a tutte le «moderne idealizzazioni della sua poesia» 146 , dimostrandone invece il senso arcaico «limitato esclu-sivamente alla sfera del sacro», d’altra parte – rileva Gentili – l’indagine di Ferrari sfociava in una idealizzazione di Saffo sostanzialmente coerente «con l’orientamento critico di stretta osservanza crociana prevalente in quei tempi», rappresentato al meglio dal  Saffo e Pindaro  di Perrotta, «scritto appena cinque anni prima» 147 . Nel varare la fortunata avventura dei «Qua-derni Urbinati di Cultura Classica», dalla ‘purezza’ di Saffo Gentili decide  142  Degani – Burzacchini 2005, 241. 143  Perrotta 1935, 31. 144  Canfora 2005, 216. 145  L’articolo di Ferrari era ricordato a proposito del «significato di ἀγνός»  anche nella I edizione di   Polinnia , 202  ad loc . 146  «Questo verso famoso, che sarà da attribuire ad Alceo, è innocentemente responsabile di tutte le mitiche speculazioni (soprattutto da noi) sulla personalità di Saffo che poeti, critici e filologi ci hanno somministrato a partire dalla Saffo “dal riso morbido, dall’ondeggiante | crin di viola” del Carducci sino alla casta Saffo del Valgimigli»: così Gentili l’anno prima, in occasione del rifacimento della sezione su Alceo per l’edizione di   Polinnia  del 1965, 224 (anche in Gentili – Catenacci 2007a, 196). 147  Gentili 1966, 37-38di prendere le mosse: da quello stesso frammento, si può aggiungere, scelto ad introdurre la sezione su Saffo nei   Lirici greci  di Quasimodo («o coro-nata di viole, divina / dolce ridente Saffo»). In conformità ai principî deli-neati nel saggio dell’anno precedente   Aspetti del rapporto poeta, commit-tente, uditorio nella lirica corale greca , dove si poneva in primo piano la necessità per il moderno lettore di comprendere la funzione e il fine proprio del carme lirico, il senso dell’apostrofe è rintracciato attenendosi «al senso reale del contesto alcaico», così leggendo nel saluto di Alceo «un reverente omaggio alla dignità sacrale della poetessa quale ministra d’Afrodite», con precisa allusione «alla funzione religioso-sociale nell’ambito del tiaso» 148 . L’inveterato tema degli amori di Saffo è radicalmente riesaminato alla luce di carattere, aspetti, scopi del tiaso saffico «nelle sue giuste proporzioni storiche e sociali anche mediante l’apporto di analoghe esperienze di altre culture». Il riconoscimento dell’esistenza nella dinamica del tiaso di «pre-cise “unioni” per così dire ufficiali fra le ragazze» tali da non escludere «probabilmente un rapporto di tipo matrimoniale» è posto da Gentili in relazione a una testimonianza di Simone de Beauvoir circa la presenza a Singapore e a Canton ancora in anni recenti «di molte comunità femminili che nelle convenzioni e nelle pratiche di culto sembrano ripetere antichi modelli culturali molto simili a quelli delle comunità della Lesbo arcaica», e cioè «des lesbiennes reconnues […] se marient entre elles et adoptent des enfants». Gentili offre qui un geniale esempio di «interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo», come suonerà il ti-tolo dell’intervento al congresso di Bonn del settembre 1969: al di là di eventuali dubbi circa la sostenibilità del confronto, comunque verosimile, conta mettere in luce l’efficacissima reazione ermeneutica che lega antico e contemporaneo illuminando entrambi. Né manca l’apertura sul futuro, quando si pensi in che misura a distanza di pochi decenni in molti Paesi oc-cidentali quegli antichi modelli culturali si siano concretizzati nella rifles-sione giuridica, nella legislazione e nella prassi sociale. Esempio forse tra i più chiari di quanto i classici, e il rinnovamento della loro interpretazio- ne, abbiano contribuito a porre lontane, e meno lontane, basi della (post)moderna  sexual revolution 149 , con tutte le forzature e gli arbitrî propri di tali ardui e complessi intrecci di tempi e di culture. Dell’attenzione di Gen- 148  Gentili 1966, 46 sgg. Importanti in quest’àmbito anche i numerosi contributi ospitati nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a proposito di significato e contesto del partenio di Alcmane, a partire soprattutto da Gentili 1976 (poi rifuso nel cap. VI   Le vie di Eros nella poesia dei tiasi femminili e dei simposi  in Gentili 1984 [2006 4 ]); sul più ampio tema delle iniziazioni femminili l’assai più recente volume Gentili – Perusino 2002. 149  In luogo di rifarmi alla sovrabbondante bibliografia anglosassone in proposi-to, spesso ideologicamente determinata, ricordo il capitolo   Klassieken en seksuele vrijheid   nel bel libro di Veenman 2009, 273-291: con particolare riferimento a una cultura, quale quella dei Paesi Bassi, cui in differenti epoche, sino alle più recentitili a questi temi e alle loro ricadute e implicazioni, è infine testimonianza  Saffo ‘politicamente corretta’  , l’articolo del 2007 (in collaborazione con C. Catenacci) dove la ribadita posizione critica che ammette la presenza nei carmi saffici di elementi avvaloranti la pratica dell’omoerotismo in àmbito iniziatico e paideutico 150  è volta a contrastare «una nutrita serie di lavori ispirati ai  gender studies » di recente diffusisi soprattutto negli (e dagli) Stati Uniti, e intesi a sostenere che «Saffo non si rivolgeva a giovinette, ma a sue coetanee in una forma di libera attrazione omosessuale, e non svolgeva nessun ruolo né paideutico né religioso all’interno del gruppo». Un corag-gioso intervento, di grande valore metodologico e rilevanza storiografica, per il quale una tale Saffo   politically correct   va respinta, al pari della Saffo otto-novecentesca votata alla purezza, giacché «rappresentazione astorica e forgiata su istanze manifestamente attualizzanti» 151 .Nel quadro del crescente interesse nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» dell’ultimo ventennio per questioni di storia e metodologia degli studi classici, alcuni anni fa apparve un articolo di C. Miralles, dal titolo  The use of classics today , aperto dall’indubbia constatazione «the huma-nities are losing ground and classical studies are in retreat» 152 . Al di là dei suggerimenti proposti, e dell’enorme differenza di tempi e condizioni, torna in mente «il vigile e costante impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi» caro a Perrotta, da Gentili più volte ricordato nelle com-memorazioni del maestro. Nel salutare la recente rinnovata edizione di   Polinnia  è stato giustamente e autorevolmente rilevato che «in tanto rin-novamento, Gentili e la sua scuola non hanno dimenticato né che la poesia greca si può avvicinare solo attraverso la storia e la filologia, né che essa ha comunque uno straordinario valore estetico. G. non ha rinnegato le sue radici, semplicemente da esse è nato un albero capace di produrre fiori non prevedibili all’inizio – se Perrotta sarebbe contento di lui? Difficile dirlo» 153 . Forse, e per molti motivi, si può azzardare una risposta positiva. Benedetto si devono determinanti apporti nell’elaborazione di teoria e prassi della moderna sessualità liberata, Veenman mostra quanto soprattutto negli ultimi due secoli i classici hanno aiutato a capire e denominare l’omosessualità -- de klassieken hielpen homoseksualiteit te begrijpen en te benoemen. – Catenacci 2007b; circa la storia della fortuna e della ricezione di Saffo mi limito a rinviare alle incisive osservazioni di Most 1996. 151  Va detto che in generale la critica più recente sembra avvertire una quantità crescente di aporie circa il significato del contesto comunitario, il gruppo ristretto e omogeneo tradizionalmente attribuito a Saffo, il ‘tiaso’, e torna ad osservare che «mentre nel caso di Alceo la dimensione di gruppo ristretto è evidente e spiega ade-guatamente gran parte – se non la totalità – della sua poesia, nel caso di Saffo è più difficile da delineare senza rischiare attualizzazioni indebite» (Michelazzo 2007).  152  Miralles 2009, in partic. 23-24. 153  Bettini 2010, 336Albini 1963 = U. 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Keywords: implicature, il rettore latino – la chiasura della scuola di rettorica a Roma di Crasso e Plozio  – Cicerone – una perdita di tempo che chiude le teste dei Romani. G.: Apri!, la rettorica a roma: i primi e gl’ultimi semestri – Plozio – la guerra di Mario per l’apertura della cittadanza agl’italici --- la chiasura di la scuola di rettorica di Crasso. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentili” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice 

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