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Sunday, March 31, 2024

GRICE E NOVARO: IMPLICATURA CONVERSAZIONALE LIGURE -- L'INFINITO DEL PONENTE -- FILOSOFIA ITALIANA -- LUIGI SPERANZA

 

 

Grice e Novaro: implicatura conversazionale ligure -- l'infinito del ponente – filosofia italiana – Luigi Speranza (Diano Maria). Filosofo italiano. Grice: “Novaro comes from my favourite area in Italy, “La riviera ligure”!” Grice: “Novaro wrote a nice little treatise on the nature of the infinite – a concept which fascinates me!” --Fratello di Novaro, nacque da famiglia economicamente agiata e dopo aver condotto brillantemente gli studi liceali, ottenendo la laurea a Torino. Si stabilì a Oneglia dove fu assessore comunale per il partito socialista. Dopo avere per breve tempo insegnato nel locale liceo, con i fratelli si occupò dell'industria olearia intestata alla madre Paolina Sasso.  Pur dedito all'attività imprenditoriale fece parte attiva della vita letteraria dei primo anni del Novecento e fondò la rivista “La Riviera Ligure,” da lui diretta fino alla sua cessazione. Ospitò nel suo giornale filosofi come Pascoli, Roccatagliata, Jahier, Boine e Sbarbaro.  Scrisse saggi di carattere filosofico e raccolse tutte le sue poesie, che hanno come tema principale il bellissimo paesaggio ligure, in un volume intitolato Murmuri ed echi che vide le stampe. Fu anche il curatore dell'edizione delle opere di Boine che sentiva affine negli interessi soprattutto di carattere etico.  Saggi: “Finito ed iinfinito” (Roma, Balbi), “Murmuro ed echo” (Napoli, Ricciardi) – cf. Grice, “Implicatura ecoica” --; “All'insegna del pesce d'oro” (Genova, Devoto). Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La Riviera Ligure Nicolas Malebranche. Tra Diano Marina e Oneglia: i luoghi dei fratelli Novaro, su parchiculturali. Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione novaro. Scheda biografica nel sito della Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione novaro. Se il concetto di “infinito” è stato dal sorgere della filosofia italiana, uno degl’oggetti più costanti degl’uomini, il progresso verso una definitiva soluzione delle difficoltà che esso presenta non e tuttavia che straordinariamente lento. A ciò à sopratutto contribuito il rilegare, come a priori, l’infinito fuori del campo appunto della filosofia e si considera il regresso all’infinito una fallacia. Poiché quando si ammette senz’altro che, essendo l’uomo finite, non si può pretendere eh' esso arrivi a comprendere l’infinito. Hobbes, De corpore; Descartes, Principien, ediz. Kirclimann, GALILEI, Opere (Milano); Locke, Essay on humane Underslaning, ediz. Ward, World Library, Hume, Treatise, ediz. Selby-Bigge, cfr. anche Jevons, Principia of Science. S’è già troncata la questione senza neanche avei’la posta. S’è lasciato intatto il mistero che sembra  involgerla. Già tutti i concetti che in qualche modo ha una stretta attinenza con altri concetti ontologici dovettero per questo attendere a lungo prima di venir  trattati in corretto modo analitico. La oscurità misteriosa del concetto di “infinito” si ripercorse naturalmente negli oggetti nei quali esso poteva trovare applicazione, come il tempo, lo spazio, la materia, l’universo, l’essere. Anzi si comincia dapprima ad accorgersi delle difficoltà del concetto di “infinito” non cosi in astratto, ma nell’esame degli oggetti ai quali la infinitezza pare doversi attribuire. Tanti secoli prima della ripresa della questione per  Locke, trattarono il problema con sommo acume dialettico i veliani de Velia. Sugli veliani e la loro importanza, vedi specialmente la “Kritische Geschichte der Philosophie” di Dùhring. Le difficoltà che conduceno al veliano a negare la realtà dello spazio non sono punto illusori. Cantor, “Geschichte der Matematik”. Bei ihnen [i tropi  dei veliani] handelt es sich um Schwierigkeiten, denen in der That-wcder der Philosoph noch der Mathematiker in aller Strenge gerecht  werden Kann Zwei Jakrtausend und mehr haben an dieser zàhen Speise gekaut, und es ware unbillig von den Veliani des funften vorcbristlichen Iabrhunderts zu verlangen, dass sie in Klarbeit gewesen seien iiber Dinge, welche freilich anders ausgesprocben noch Streitigkeiten unserer Gegenwart bilden. Nò altre furono quelle che spinsero poi Kant ai risultati  della estetica trascendentale. Sebbene più d’uno storico della filosofia davanti ai tropi di quell’ acutissimo filosofo sentendo l’imbarazzo suo a confutarli, stima poterli chiamare sofismi o false sottigliezze che chi le esaminasse da vicino e colla necessaria acutezza non dovrebbe tardare a riconoscere evidentemente per tali. E più  d’uno nel confutarli à seguito, come Zeller, Aristotele che in questo se in altro mai fu infelicissimo. Aristotele crede di confutare il veliano (V. anche  Apelt, Beitrdge sur Geschichte der Grieschischen Philosophie, Leipzig) col dire che la dimostrazione data dal veliano riposa sulla falsa  &  i matematici, i quali spaventati dalle contraddizioni  svelate dai veliani avevano dovuto per forza rinunciare  a far uso del concetto di “infinito” e lasciar tanto tempo infruttuoso l’ardimento di Antifontem continuarono a  lungo ad aiutarsi altrimenti per non derogare alla rigorosa esattezza delle loro dimostrazioni, Cosi il concetto d’”infinito” non compare mai esplicitamente nella geometria degl’antichi. E Archimede ha seguaci anche dopo che il calcolo infinitesimale ha chiaramente mostrati i suoi  cosi fecondi vantaggi. Ragione principale di ciò e il non  avere l’autore stesso del concetto di “infinitesimo”, saputo mai nè pienamente giustificarlo, nè dargli  un denotato preciso, si che egli molte volte ha a espri supposizione che il tempo consti di singoli momenti (ex -J 5 v aio Èrtovi  come se la critica del velino non valesse indifferentemente tanto per  il continuo dello spazio che per quello del tempo stesso. Cfr. Cantor. Er (Aristotele) lòst das Paradoxon der Duschlaufung dieser unendlich vielen Raum-punkte in endlicher Zeit, durch das neue Paradoxon, dass innerhalb der endlichen Zeit unendlich viele Zeittheile von unendlich Kleiner Dauer anzunehmen seien. Sul concetto di “infinito” in Aristotele vedi specialmente “Phys.”, De Coelo, I, 5. Aristotele dà una divisione dei vari generi di infinito, che come sempre  0 spessissimo presso lui è più una spiegazione di parole che di concetti. Inoltre è la sua trattazione oscura e affatto manchevole. Aristotele non accetta che l’infinito *potenziale*, il quale nasce dal non trovar la  nostra immaginazione alcun limite così nel togliere come nell’aggiungere. Rifiuta l’infinito attuale. L’infinito, dice Aristotele, non è grandezza  nè à parti così, come il suono è per sò invisibile (Phya., Ili, 4 ). Non  esiste dunque in realtà, perchè non v’ è grandezza cui possa attribuirsi. Ma la contraddizione che Aristotele crede dover evitare rigettando il  concetto dell’infinito attuale è appunto nascosta invece in quello del continuo. Altrimenti Aristotele non avrebbe così leggermente creduto di aver superate le difficoltà dei veliani. li Montucla, Histoire cles recherches sur la quadrature du eercìe. Paris,  p. 44. (2) Hankel, Zur Geschickte der Matliematik ivi Alterthum und Mitelaltcr.  juersi sulla sua nozione in modo affatto contradittorio. E se i filosofi non riuscirono a chiarire i loro concetti  riguardanti l’infinito trascurando la maggior parte di  aiutarsi con un esame accurato dalle difficoltà che incontrano anche i matematici, questi dal canto loro si  sono del pari in grau parte appagati dei risultati, senza sentire troppo acuto il bisogno di rendersi conto esatto dei concetti dei quali hanno a fare un continuo uso. Che anzi per le difficoltà, oscurità o contraddizioni dell infinito tranquillamente si rimettevano Leibniz, anche quando si esprime più razionalmente intorno ai concetti infinitesimali, conserva pur sempre in fondo una evidente ambiguità sulla natura generale del concetto di “infinito”. Lascia infatti  alla ontologia, senza risolverla Leibniz stesso, la questione se si diano  propriamente degl’infinitamente piccoli rigorosi. E cosi tiene pure per indifferente considerare per tali gl’infinitesimi o soltanto per arbitrariamente piccoli. Leibniz inclina però più a tenere l’infinito rigoroso per una finzione. Leibniz, Opera omnia, ed. Dutens e Leibniz; il/af/iema</se/»e Schriften, Gerhardt  I' , dove Leibniz pare considerare gli infinitesimi come quantità finite variabili e cfr. Gerhardt, Erdmann, dove egli parrebbe ammettere l’infinitesimo *attuale*. In altri luoghi, Leibniz è affatto incerto; ed. Dutens, Gerhardt, III, e vedi specialmente un passo  ivi. Infatti dopo l’adottamento del calcolo, una delle prime accademie d Europa, quella di Berlino, presieduta  da uno dei più grandi matematici, da Lagrange, apriva un concorso sul concetto dell’infinito. Dice tra altro ai concorrenti. On demande […] une thdorie clairc et precise de ce qu’ on appelle ‘influì en mathcmati jue. On sait que la haute geometrie fait un usage  continuel des infiniment grands et des infiniinent petits. Cependant les  geomètres et meme les analystes anciens, ont eviti* soicneusement tòut  ce qui approche de l’infini, et des grands analystes modernes avouent  que les termes grawleur infmie sont contradictoires. L’Acad^mie sou-  haitc donc qu’ on explique comment on a déduit tant de theorèmes  vrais d une supposition contradictoire. Nouveaux Mémoires de l’Acad.  des Sciences. Berlin. come molti si rimettono tuttora, all’ongologia. L’unico filosofo dal quale si sarebbe potuto aspettare qualche  dilucidazione definitiva, Corate, il quale era tanto versato nelle matematiche e che di esse à dato una cosi  bella e tuttora insuperata sistematica trattazion generale,  non solo non fa fare un passo alla questione, ma neppure seppe bastantemente apprezzare i grandi meriti del lavoro di Carnot, il quale prepara la soluzione definitiva. Solo Locke e Kant sono cosi i filosofi che fecero verso di essa un passo decisive. Kant però si direbbè che lo fece in senso reazionario, chè se Locke avesse decisamente cangiato  li suo metodo empirico e psicologico con un metodo critico, come egli in realtà è qualche volta inconsapevolmente vicino a fare, avrebbe egli stesso còlto 1’ultimo futto della sua fine analisi. Ad ogni modo è merito di  Locke, oltre aver risolto l’infinitamente piccolo e grande  nel processo formale dell’animo, l’aver dimostrato come  un tale concetto sia solo propriamente applicabile a grandezze, al numero, al tempo ed allo spazio. Con ciò ogni  nebuloso abuso scolastico e metafisico di esso, era reso impossibile, e ogni sua applicazione ad altro che a concetti di grandezze diventava una pura metafora. Rilacendosi da Locke e approfittando della luce che Carnot getta sulla natura dell’infinitesimo, il  Duhnng à finalmente completata la razionalizzazione di  [ Leibniz, passo citato, Gerhardt e Montucla, Histo!re  des mathématiques. Quanto alle questioni che la ontologia può  sollevare sul concetto dell’infinito, il matematico “a droit de ne  s en pas plus embarasser que des disputes des physiciens sur la naure de 1 etendue et du movement.” Locke, On human Umlerst., questo concetto. L’infinito assoluto ha però Diihring  costantemente rifiutato come la più assurda contraddizione in tutti i suoi saggi filosofici. Soltanto-  nell’ultima suo saggio filosofico arriva egli ad una luminosa distinzione dell’infinito *assoluto* dal infinito relativo. La  sua dimostrazione è però geometrica, e non  insieme algebraica. Manca quindi di generalità. Cosi si  spiega come Diihring ritenga ancor ora inammissibile l’applicazione dell infinito al tempo, che egli à assurdamente e colla più gran forza di convinzione fatto finito nel passato (2). Diihring vide che ove il concetto di infinito  non viene dapprima reso chiaro e incontradittorio nella  matematica, la rocca in apparenza più forte rimarrebbe in piedi a difesa del mistificante concetto. La nozione di infinito non è però specificamente formale. Il concetto d’infinito appartiene a quel campo della filosofia ‘speziale’, in cui anno comuni le radici o i principi e la matematica e la logica. La. soluzione di un problema cosi universale non può esser diversa, ove esso venga formulato con la dovuta astrazione ed esattezza, sia che la si cerchi nel campo piu astratto dell’ontologia della concezione universale dell’*essere*, sia  che la si cerchi nel campo dell’algebra. Non   [Nat Uri iche Dialéktik -- questo libro d’oro di puro criticismo, la cui prima edizione è esaurita da molti anni senza che Diihring si decida a ri-pubblicarlo, malgrado il viro desiderio di molti  suoi ammiratori, quali per un esempio v. Gizicky e Riebl. Vedi  specialmente dello stesso, nei “ Xeue Grundmitteln u. Erfindungen zur  Analysis, ecc. „ il capitolo terzo. L’analisi critica dell’infinitesimo ivi  data riassumiamo noi brevemente nel numero seguente, modificandola  però nel senso della corretta legge del numero determinato. V. sotto. Cursus der Philosophie; Logik und KVssenschaftstheorie, 191 segg.  è un differente problema quello di Senone di Velia, da  quello che occupa a cosi grande distanza di tempo i matematici dal seicento in poi.   2. In tutti i problemi riguardanti il concetto di “infinito”, le difficoltà ànno la loro comune radice nella contraddizione fondamentale nascente dalla posizione di un infinito numericamente dato e compiuto nel *finite* stesso. Cosi l’infinitesimo, e già prima  l’indisivibile di CAVALIERI, e pensato assurdamente quale  risultato di una infinita divisione, o come l’elemento più  piccolo d’ogni grandezza assegnabile, di cui si integra  ogni grandezza finita. Più piccolo di qualunque quantità  data e pensato l’infinitamente piccolo, e maggior d’ogni  data grandezza l’infinitamente grande, arrivando anche  qui ad una infinità compiuta, come raggiungibile per via di una sintesi successiva. Tra lo zero e una comunque  piccola grandezza dovrebbe dunque esistere qualcosa di  intermedio. Questa ibrida quantità non dovrebbe esser zero ma neppure perù una determinata quantità per quanto arbitrariamente piccola. Essa dovrebbe esser minore d’ogni quantità assegnabile o qualcosa che esprima l’ultimo irraggiungibile grado di piccolezza immaginabile e prima dello zero (1). Minore d’ogni quantità assegna-  (1) Modificando la nozione di GALILEI di “momento”, già Ilobbes define il conatus (concetto che doveva poi diventare il fondamento  della teoria newtoniana), il moto lungo uno spazio minore di qualsiasi  assegnato. Hobbes conserva, però, malgrado l’equivoca definizione, come dell infinitamente grande (De Corpore) cosi dell’infinitesimo un giusto concetto. Di quest’ultimo haa intesa infatti  a essenziale relatività. V. De Corpore.  Delimemus CONATUM esse motum per spatium et tempus minus q’uam quarn  bile è però soltanto lo zero (1); una quantità non può venir immaginata oltre ogni assegnabile grandezza. Tra  la quantità e lo zero non vi è cotesta assurda finzione.  A meno che il dire “minor d’ogni data quantità” abbia quod datar, id est determinatur, sine expositione vel numero assignatur  ìaest per punctum. Ad eius definitiouis explicationem meminisse oportet  per punctum non intelligi id quod quantitatcm nullam habet, sive quod  nulla ratione potest dividi (niliil enim est eiusmodi in rerum natura)  sed id cuius quantità non consideratili-, hoc est cuius neque quantitas neque pars ulta inter demonstrandum computatur. Ita ut punctum non  habeatur prò IN-DIVISIBILI. Sed prò IN-DIVISO. Sicut edam instans sumendum est prò tempore IN-DIVISO non prò IN-DIVIS-IBILE. Similiter Conatus ita  mtelhgendus est, ut sit quidem motus sed ita ut neque tempori in quo fìt  neque lineai per quam fit quantitas, ullam comparationem habeat in demonstratione cum quantitate temporis vel line cuius ipsa est pars. Quanquam  sicut punctum cura puncto, ita conatus cum Canata comparaci potest et  unus altero maior vel minor reperiri.Poisson ammette invece nel modo più esplicito l’assurdo concetto dell infinitesimo di cui sopra è parola. Un infiniment petit est une grandeur moindre que toute grandcur donnée de  la meme nature. On est conduit naturellement a ridde des infiniment  petits, lorsqu’on considère les variations successives d’une grandeur  soumise à la loi de continuiti. Ainsi, le temps croit par des degrés  mo.ndres qu’ aucun intervalle qu’on puisse assigner, quelque petit  quii soit. Les espaces parcourus par le différents points d’un corps  croissent aussi par des infiniment petits, car chaque point ne peut  fi er d une posdion à une autre, sans traverser touts les positions  intermédiaires, et l’on ne saurait assigner aucune distance, aussi petite  qu on voudrn, entre deux positions successives. Les infiniment petits ont donc une existence rielle, et ne sont pus seulement un mo.ven d’investigation imagini par les giometres. Traile de mécanique, Bruxelles) l’er questa ragione non pochi matematici, quali Bernouille  “oto^amente Eulero, pensarono l’infinitesimo come assolutamente nullo. Anche GALILEI, sebbene con altro linguaggio, scompone il  continuo esteso in infiniti punti inestesi o nulli senza però trovar  poi il modo di farlo generare da quelli. V. GALILEI Opere. Sopra gli atomi non quanti di lui vedi Lasswitz, Galileis Thieorie der  Materie, 1 lerteljahrsschrift f wiss. Philosph. XIII,  a riferirsi non a qualcosa di effettivo o di dato, ma al nostro animo -- il nostro volere -- come ragione della infinita divisibilità, potendo noi sempre supporre una quantità più piccola di ogni qualunque piccola quantità data.  Come nella serie dei numeri noi possiamo (prova Peano) farci un concetto dell’infinito aggiungimento di unità a unità, cosi  possiamo farcene uno della possibile divisione dell'unità all’infinito. Un tal concetto non rimane tuttavia che il campo d’una operazione che non può per la sua natura venir mai compiuta. La infinita divisione come la infinita addizione non possono mai senza contraddizione considerarsi come eseguite. Non si può con un salto oltrepassare un’infinità di operazioni, ponendo l’ultima come già compiuta, che invece non può mai essere. Ciò che esiste o è dato numericamente quale totalità non può esser che in numero determinato. Un numero infinito come qualcosa di dato o compiuto nel finito medesimo è un CONCEPTO IMPOSSIBILE perchè vorrebbe porre ciò che insieme viene a negare. Ammesso dunque che abbia a dirsi di una quantità che essa è minore d’ogni possibile quantità data, ciò potrà solo razionalmente indicare che è pur sempre possibile suppor quella come ancor più pioti) È questa la legge formulata da Diihring sotto il nome di legge del numero determinato (Gesetz der bestimmten Anzahl). Cfr. Kant: Kritikd. reinen Vcrn.  edizione Kirchmann. Sohald etwas als quantum discretum  angenommen wird, so ist die Menge der Einheiten darin bestimmt,  daher auch jederzeit einer Zahl gleich. Diihring però, e qui sta  il grave errore della sua teoria dell’infinito, à tralasciato come iKant di aggiungere che tale legge à valore appunto, come diciamo  noi, solo in riguardo a grandezze che si lasciano concepire come totalità, ossia in riguardo a grandezze comprese tra limiti. cola di una qualunque data comunque già piccola per  sè. La illimitatezza riposa sul concetto della infinita  possibilità della ripetizione, non è dunque un concetto di effettività, ma di mera possibilità.  Il moto nevi realizza come si crederebbe l’assurdità di una infinita divisione o di una infinità di parti nel  finito. Moto non è che il concetto di ciò che la stessa cosa si trova seguentemente prima in un luogo e poi in un altro. Nostro APPARATO SENSORIALE non fa che abbracciare un dato numero di posizioni diverse, e l’animo non trova altro che il fatto ossia la cangiata posizione. Noi non possiamo formarci nè pretendere altro chiaro concetto che quello del passaggio da un punto all’altro. Possiamo solo, ove ce ne sia l’animo, INTER-POLARE delle posizioni intermedie a piacere senza limite alcuno. Ma effettivamente  nè la natura nè noi possiamo fis:arne altro che un numero determinato. È una illusione il credere che un punto, ad esempio, nel muoversi in linea retta vei’so un altro  punto fisso, e trascorrendo secondo il concetto comune di un movimento assolutamente continuo, per ogni posizione, trascorra con ciò effettivamente, se posso dir cosi, per ogni grado di piccolezza. La posizione di infiniti punti distinti in una determinata estensione è sempre e solo una possibilità ma non mai un fatto compiuto. Di due punti immediatamente aderenti NOI ABBIAMO ASSOLUTAMENTE CONCETTO ALCUNO. Punti inestesi o coincidono,  o hanno una posizione diversa, e allora anche una determinata distanza. 11 punte non può che passare da uno ad un altro punto, comunque noi idealmente possiamo astrarre da cotesti trapassi e considerare unicamente la infinita possibilità (li posizioni diverse. La stessa illusione  è nel dire che una quantità cresce per gradi minori di ogni comunque piccola grandezza data. E vero che m  matematica le quantità continue crescono per gradi e che  ogni nuovo incremento elementare possiamo immarginarcelo già per sè stesso composto di ancor più piccoli incrementi elementari all’infinito. Ma oltre che nella realtà  bisogni. Che esistano dei limiti a questa illimitatezza che  è solo della facoltà del nostro ANIMO, è anche vero che le  quantità non constano di elementi per sè esistenti, e che  invece noi solo distinguiamo in esse delle divisioni e stabiliamo dei limiti che per sè non sono dati. Il concetto di continuità ne involge uno infinitesimale che però inchiude solo la possibilità di un infinito porre di limiti,  ma non una infinità di limiti posti. Esso è quindi come  quello dell’infiuitamente piccolo un concetto di pura posibilità.  La illimitatezza nella scomponibilità in parti che possono in ogni caso venir fatte ancora più piccole che una  qualunque piccola grandezza data, e dunque ciò che di  razionale s’ à a sostituire al concetto nebuloso dell’ infinitamente piccolo. Con ciò viene evitata quella ipostasi o per cosi dire insostanziazione di un modo di azione  del nostro animo, o di una mera possibilità, la quale è inchiusa nel falso concetto della grandezza minore di  ogni altra assegnabile, come di qualcosa realmente esistente quasi mèta irraggiungibile ma pur reale di una  infinità di operazioni. Non esiste un ultimo piccolo o  infinitesimo, ma solo una infinita possibilità di rimpicciolimento.  1 Si deve dunque pensare che il differenziale è nel calcolo una grandezza finita relativamente piccola, la quale-  nel complesso delle operazioni può e deve rappresentare  ad arbitrio ogni grado di piccolezza. Si tratta per eempio, dice Diihring, di una lunghezza. Può questa, come  infinitamente piccolo, essere secondo le circostanze un  milionesimo di millimetro ovvero una distanza solare.  L’essenziale non istà in queste eventuali determinazioni,  ma nel pensiero che in luogo di quella grandezza, scelta in relazione a un tutto come parte insignificante, possano  nelle operazioni sostituirsi altre ed altre senza limite  alcuno sempre più piccole verso lo zero. L’ infinito  o la illimitatezza non è dunque ipostasiata nel differenziale, si bene sta nel nostro animo che questa grandezza rappresenta qualunque grado di piccolezza oltre il suo. Razionalizzato cosi il concetto fondamentale del  calcolo, non à più ragione quella ripugnanza che i migliori matematici anno sempre sentito per quella oscura ipotesi o idea falsa, come la chiama Lagrange, dell’infinitamente piccolo. L’analisi è dunque, dice Diihring, un calcolo d’ approssimazione, ma si noti bene-  non di semplice approssimazione, bensì di approssimazione infinita. I sensi trascurano nel piccolo le quantità  insignificanti che loro NON SONO più PERCETTIBILI, e se fatti  più acuti procederebbero del pari in analoghe proporzioni; cosi fa il calcolo nel trascurare quantità che nelle   [l'reyeinet: Étude sur la métaphysique du haul calcul. Cfr. Carnot : Reflexions sur la métaphysique du calcili infinitesima!, Comte: Cours de philosophie positive , I, 263. loro funzioni darebbero in ultimo per risultato una grandezza che per la sua ultima piccolezza non à importanza  alcuna. Accanto a quantità finite si trascura nel risultato  e con ragione, un infinitamente piccolo, poiché è nella  sna natura di poter venire senza fine rimpicciolito verso  lo zero. Idealmente c’ è dunque un abisso tra l’infinitesimo  e lo zero. Non quello ma questo è il limite dell’ infinito  rimpiccoliinento, e prima dello zero non vi sono che quantità in realtà sempre finite, comunque possano secondo il bisogno venir supposte sempre più piccole verso  di esso. D’altra parte nella direzione opposta dell’ infiniitamente grande si à analogamente a distinguere tra   [Non altro significava il luminoso concetto di Carnot delle equazioni imperfette. Tuttavia Carnot non arriva a dar l’ultima chiarezza alla  nozione dell’infinitesimo. Infatti non avrebbe altrimenti creduto vi fosse  bisogno (per dimostrare come i risultati del calcolo in apparenza soltanto approssimativi, siano in realtà esatti) oltre che della considerazione dell’arbitrarietà del differenziale, anche di una dimostrazione della compensazione degli errori. Comte poi frantese affatto ciò che  di veramente importante e duraturo conteneva lo scritto di Carnot,  e ravvisa così il merito di lui appunto nella dimostrazione della compensazione degli errori (V. Cours de philosophie positive), la  teoria invece dell’arbitrarietà del’infinitesimo la trova più sottile che solida (id. 2(57). l concetto della rigida uguaglianza degl’antichi venne definitivamente superato con Leibnitz e Newton. Ciò che però  non venne schiarito e rimase oggetto di tutte le lunghe innumerevoli  dispute a cui diede luogo il calcolo differenziale, e un giusto concetto di ciò che avesse a indicare la trascuranza, nelle equazioni, dell’infinitamente piccolo. Dopo Carnot la relatività del concetto del differenziale s’è sempre più fatta strada nelle menti dei matematici. Ma non  basta questo a razionalizzare l’infinitesimo. Dove colla relatività di  esso si ammette però ancora (v. ad es. Montucla : Histoire des maih.) che questo possa divenir minore d’ogni quantità assegnabile, s’è pur sempre lontani da una esatta concezione.  questo e 1’ infinito assoluto o transfinito (1). Qui come¬  ta si à una differenza qualitativa: nell’ un caso si à ancora a fare con delle grandezze, nell’ altro il concetto  proprio di grandezza è scomparso.  Il non aver distinto questi due concetti non à forse  meno contribuito della contraddizione di un infinito compiuto nel finito stesso, implicato nel falso concetto del  differenziale e del continuo, a rendere cosi pieno di supposte insolubili difficoltà il problema di cui ci occupiamo. All’infinitamente piccolo risponde perfettamente l’infinitamente grande. Abbiamo qui un accrescimento senza  fine come là un illimitato rimpicciolimento. In entrambi  i casi ci è data la norma di un’operazione che non deve poter mai venir considerata come compiuta, poiché essa  deve rispondere alla illimitata possibilità di ripetizione-  del nostro animo, con la quale dunque non c’è grandezza per quanto piccola o grande di cui non si possa  sempre raggiungere un’altra ancora più piccola o grande. Attribuito ad una data grandezza il concetto di infinitamente grande non indica quindi altro che essa, comunque già grande, può senza fine venir considerata  ancor sempre più grande secondo il bisogno. In ogni  aso non sarà però ella mai altro che finite. Come la  nostra sintesi benché non abbia limite, pure in fatti non può  -- Chiamo infinito assoluto o trans-finito – tras-finito, a distinzione dell't/t/unVo  relativo (infinitamente piccolo o grande), ciò che Diihring dice illimitato (Unbegrcnzt) [LIMITATO/NON-LIMITATO] e Cantor, e dietro lui Wundt e Lasswitz  chiamano appunto transfinito o tras-finito (<o ). Del resto una volta riconosciute queste differenze essenziali, nulla impedisce di adoperare anche solo e indifferentemente l’espressione “infinito”, lasciando al contesto conversazionale l’ulteriore  specificazione. mai esercitarsi che nel finito. Anche l’infinitamente grande  è un concetto di mera possibilità e non mai di effettività. Non è quindi propriamente applicabile ad alcuna grandezza determinata. La serie progressiva dei numeri nella sua illimitata addibilità è il più chiaro esempio dell’infinitamente grande. Noi non possiamo mai arrivare  ad un ultimo membro delle serie, perchè la possibilità  di aggiungerne altri riman sempre la medesima. E nella  natura dell’infinitamente grande di non poter venir mai compiuto. La illimitatezza non è neppur qui data oggettivamente, ma sta invece in questo che la grandezza infinitamente grande può rappresentare ad arbitrio una  grandezza sempre maggiore oltre la sua. Inteso cosi è senz’altro chiaro che rinfinitamente  grande non è un infinito in atto e non può senza contraddizione venir scambiato con questo. L’aver confuse l’infinito assoluto o transfinito o trasfinito o illimitato coll’infinitamente grande  è appunto la cagione che condusse chi mirava a un esatto   (1) Locke, On bum. Underst, pag. 148. [O]ur idea of infinity  being, as I tbink, an endless growing idea, biit the idea of any quantity our soul kas being at that tirae terminated in tbat idea (l'or be it  as great as it will, it can be no greater than it is), to join infinity to it, is to adjust a standing measure to a growing bulk. We can bave no more the positive idea of a body infinitely little than we have thè idea of a body infinitelv great. Our conception of infinity being, as I may so say, a growing and “fugitive” concept, stili in a boundless  progression that can stop nowhere. Our conception of the infinity [...] return at least to that of number always to be added. But  thereby never amounts to any distinct idea of actual infinite parts. We bave, it is true, a clear idea of division, as often as we will  think of it. But thereby we have no more a clear idea of infinite parts  in matter than we have a clear idea of an infinite number, by  being able still to add numbers to any assigned nember we have. E chiaro concetto di quest’ultimo a rifiutare risolutamente  il primo, dopo averlo trovato incompatibile colla nozione  di quello. Mentre l’infinitamente grande esprime una illimitata possibilità, il transfinito o trasfinito esprime invece una effettività compiuta cui l’infinitamente grande non arriva  mai. Nel transfinito o trasfinito ogni grado di ingrandimento è già  anticipatamente dato. Esso è realmente maggiore di ogni  assegnabile grandezza, e dal finito non c’è modo di farlo  originare, sebbene ogni finito sia in esso. La facile obbiezione che nessuna grandezza è la più grande perchè  le possono sempre venir aggiunte altre unità, non tocca. L’infinito assoluto, ma solo una NOZIONE IRRAZIONALE  dell’infinitamente grande, partendo ella da un falso concetto  del transfinito o tras-finito, secondo il quale si avrebbe questo a lasciar  pensare come un tutto, ossia, contrariamente all’assunto, come finito. Il concetto di totalità applicato al transfinito o tras-finito è trascendente, benché tale non sia il transfinito o tras-finito per sé. Se l’infinito assoluto non può venir esaurito dalla sintesi empirica di nostro animo, non è questa una ragione per rifiutarne  il concetto : la sua natura consiste infatti appunto in ciò di NON POTER VENIR RAPPRESENTATO come una totalità ossia esaurito per mezzo di una sintesi empirica di nostro animo -- successiva delle sue  parti. – Cf. Speranza, ‘mise-en-abime’ – come violazione del prinzipio conversazionale – be brief. Rifiutarlo perchè non si lascia trascorrere da un  capo all altro, è rifiutare il transfinito perchè appunto  tale, ossia perchè non è finito, o perchè non si trovano endless divisibility giving us no more a clear and distinct idea of actuallv infinite parts than endless addibility, if I may so speak, gives us a clear and distinct idea of an actually infinite number, both  being only in a power stili of increasing thè nuinber, be it already as great as it will” ia esso le proprietà che dal suo concetto sono precisanente escluse. Mentre nell’infinitamente grande la sintesi empirica di nostro animo è  quella che aggiunge membro a membro. Nell’infinito assoluto troviamo noi sempre ogni ulteriore membro come già innanzi esistente prima che la nostra sintesi lo abbia  raggiunto, indipendentemente da essa. È dato quindi così il numero infinito, se “numero” può questo ancora chiamarsi – “As far as I know there are infinitely many stars” --, che è in realtà la negazione di esso e con ciò  di ogni determinazione nel grande. Il “numero” infinito  non è più nè ‘pari’ nè ‘dispari’, e neppur quindi aumentabile più, nè diminuibile. Esso è dunque qualcosa di affatto compiuto, al contrario dell’infinitamente grande che è in un continuo'flusso; e sta a questo come all’infinitamente piccolo sta lo zero. Come nello zero non c’è più  possibilità di rimpicciolimento, cosi non ce n’è più di ingrandimento nel transfinito o tras-finito. Questo è la negazione della  grandezza misurata nel grande, e lo zero la negazione della grandezza in generale e con ciò della grandezza  nella direzione deH’infinitamente piccolo. Lo zero come l’infinito assoluto sono non tanto quantitativamente quanto per qualità diversi da ogni altra grandezza. L’infinitamente piccolo e grande sono in un continuo flusso,  lo zero e il transfinito sono invece forme fisse ; il prin¬  cipio generativo dei primi non è applicabile ai secondi.  DaH’infìnitamente piccolo allo zero e dall’infinitamente  grande all’infinito assoluto c’è, a dir proprio, un salto. Duhring: Neue Grundmlttel, ecc. Lo zero e l’infinito assoluto o trasfinito si fanno dunque riscontro. Ed erra  «quindi Lasswitz che nega esserci qualcosa di corrispondente a que-   Nel primo caso il passaggio sta non nel rimpiccilire all’infinito per successive divisioni la quantità piccola in modo che avanzi pur sempre un resto, ma nell’ultimo atto risolutivo col quale si sottrae interamente  il resto stesso. Nell’un caso si riman sempre nel campo dell’infinitamente piccolo, nell’altro si salta propriamente dalla quantità al nulla di essa. Una quantità non viene  mai esaurita col sottrarre ripetutamente anche all’infinito una nuova parte del sempre nuovo resto. Bsogna  togliere in ima volta l’intero resto altrimenti si avrà  una convergenza continua verso l’irraggiungibile zero, ma non mai propriamente lo zero. E solo in quest’ultimo caso sarebbe veramente esaurita la grandezza. Non  bisogna prender per esaustione reale una infinita approssimazione. Ciò che e l’ESAUSTIONE è solo tale fino ad un infinitamente piccolo. Ma  questo vien da essa lasciato inesaurito. L’saustione non à luogo che con un salto alla Peano, ossia con un vero  passaggio. La inter-polabilità infinita di posizioni tra  punto e punto non toglie che da posizione a posizione  il passaggio debba rimanere E come v’è un salto da un  punto a un altro in una linea, cosi v’è da un punto al  punto ultimo col quale la grandezza finisce. Solo col   st’ultimo. (Lasswitz: Zum Problem der Continuitdt, Philosoph. Monats -  hcfte); come pure e più erra Wundt che crede cadere nel differenziale ogni differenza essenziale tra l’infinito e il transfinito o trasfinito. Wundt: Kants Kosmologische Antinomien u. das Problem der  Unendlichke.it Philos. Studien II, 527: (che) das Intinitesimalsy.nhol ebenso gut in Siane einer unendlich zudenkenden Abnahme einer gegebener Grosse, wie im Sinne des bereits vollzogenen Processes-  dieser Abnahme gedacht werden kann. Hier fàllt niimlich ein wesen-  tlichcr Unterscbied des Infiniten und Transfiniten vollig hinweg. -- passaggio allo zero si à però un risultato differente non tanto per quantità quanto per qualità dagli altri. D’altra parte lo stesso risultato qualitativamente differente si à nel secondo caso del passaggio dall’infinitamente grande al transfinito o tras-finito. Praticamente si può concliiudere è vero dal caso dell’incoutro di due rette a distanza infinitamente grande al caso delle parallele, in quanto si astrae dallo sbaglio infinitamente piccolo, e si  pone come identico il risultato solo infinitamente approssimativo. In realtà però mentre il punto d'incontro si allontana infinitamente all’vvicinarsi delle due rette al  parallelismo senza raggiungerlo, raggiunto che questo sia, esso è scomparso, essendo per sè la infinita estensione della linea LA NEGAZIONE DELLA POSSIBILITa d'uu punto d’incontro, poiché questo le farebbe finite. Ed à luogo  allora quella illimitatezza od infinità assoluta della retta,  la quale è la negazione della grandezza misurata nel  grande, come lo zero è la negazione della grandezza in  generale. Un indubitabile significato si lascia dare al  transfinito o trasfinito, come vedremo in séguito soltanto nella serie infinita dei processi del tempo passato. Il nostro regresso che assume qui la forma dell’infinitamente grande, procede in base al transfinito o trasfinito della realtà, poiché esso trova  e suppone necessariamente come dati sempre piu membri  della serie di quelli che esso raggiunge. Se si fosse co¬stretti a pensare l’universo infinito in estensione si avrebbe una seconda applicazione reale del nostro conti) Diihring , luogo citato.       «etto ; ma rimanendo insolubile la questione se la natura o L’UNIVERSO  o il numero dei stelle sia o no infinita, non si à che l’applicazione di esso  allo spazio puro. Ed ecco la dimostrazione che dà di questa Dtihring, colla quale egli stabilisce appunto la distinzione dell’infinito relativo dall’infinito assoluto. La tangente di un angolo che differisce da 90°  di una infinitamente piccola differenza, è come la rispettiva secante infinitamente grande. Ad ogni grado di riin-piccioliinento della differenza risponde un grado di ingrandimento della tangente e della secante dell’angolo. Cosi il punto in cui le linee si tagliano si fa sempre più  lontano. Rimane però sempre dato un incontro reale delle  linee fin che sia data una per quanto piccola divergenza  da 90°. Se si à invece una differenza uguale a zero ossia se non se ne à alcuna, non si à nemmanco più  propriamente una SECANTE nè una propria TANGENTE. Entrambe le linee loro corrispondenti non si tagliano più. Nel caso dello zero o, ciò che sarebbe lo stesso, per la  CO-SECANTE e la CO-TANGENTE di 0 non esiste più alcuna  grandezza, allo stesso modo che nello zero medesimo. Intatti la illimitatezza di una linea non è già una quantità della stessa j ella è invece l’assenza d’ogni determinazione quantitativa. In tal modo allo zero dall’una parte  corrisponde dall'altra l’illimitato non quanto (das grossenlose Unbegrenzte). Il caso dell’infinitamente grande  si distingue da quello dell’infinito assoluto per questo, che  la possibilità (della illimitata estensibilità) non figura  come per sè data, ma vien 'riferita alla nostra attività. Vedi sotto n. 5.  Di pio quest’ultima possibilità vien sempre rappresentata coinè dipendente di un’altra, in modo che dall’infinito  rimpicciolimento e dal grado di questo dipende l’infinito  ingrandimento e rispettivo grado costantemente corrispondente Una distinzione simile a quella di Diihring à  fatto in riguardo all’infinito Cantor, seguito in ciò da Wundt e seguito pure, sebbene con qualche riserva,  da Lasswitz. Ad essa fa però assolutamente difetto quella spiccata razionalità che è la caratteristica della filosofia di Diihring. Crede Cantor che la serie dei  numeri si lasci pensare non solo come compiutamente- infinita, ma come compiuta totalità. Cantor stima che si  lasci pensar radunato in un tutto ogni numero intero positivo (3). L’aver sconosciuto l’inapplicabilità del concetto di totalità al transfinito o tras-finito è la cagione dell’assurda  nozione che s’è fatto Cantor di questo. Infatti perciò  à e Cantor potuto credere che il transfinito o trasfinito pnssa trovarsi  nel finito stesso quasi come suo sostrato, e servire cosi  alla spiegazione del continuo e del NUMERO IRRAZIONALE. Ma qui non si ferma Cantor : chè anzi la vera originalità della sua dottrina vede egli nelle differenze essenziali da lui trovate nel campo stesso dell’infinito assoluto. Si tratta infatti per lui sopratutto dell’ampliazione o proseguimento della reale serie dei numeri intieri  Duhrinq.   Logik. Cantor: Grundlagen einer Mannichfaltigkeitslehre;  Zur Lehre vom Transfinite.] oltre l’infinito medesimo. Egli non ottiene solo un unico  numero intiero infinito, si bene una infinita serie di tali  numeri come benissimo tra loro distinti. Vi sarebbero cosi infinite classi di numeri ; la l a classe sarebbe la  serie dei numeri finiti 1. 2. 3... v..., ad essa terrebbe die¬  tro la 2 a classe composta di successivi numeri intieri infiniti in ordine determinato. Dopo la 2 a si verrebbe alla  3 a e alla 4 a classe e cosi all’infinito. In tal modo naturalmente l'infinito propriamente detto (“das eigentlicbe  Unendliche”) non sarebbe ancora il vero infinito (“das walire Unendliche”) o l’assoluto. Chè anzi Cantor espressamente fa notare che in tal guisa non si arriverà  mai a un limite ultimo, e neppure a una sia pur soltanto approssimativa comprensione dell’assoluto, il quale solo  è un infinito non più oltre aumentabile. Con ciò il transfinito o trasfinito, quantunque determinato e maggiore d'ogni finito,  avrebbe assurdamente comune col finito il carattere della  illimitata aumentabilità. Cantor dà per esempio del transfinito o trasfinito la totalità dei numeri finiti, confessa però  non darsi, o almeno pel nostro animo, una totalità dei numeri transfiniti, ossia l’assoluto o il vero infinito  non poter venir concepito, quantunque necessariamente  postulato. Qui dunque ritorna la difficoltà del problema, e questa volta Cantor confessa di non saperla sciogliere. Con ciò dà Cantor stesso involontariamente la miglior critica della sua teoria dell'infinito. Il suo transfinito o trasfinito del resto non è in fondo altro che l’infinito dell’animo di Spinoza e BRUNO [ Grundlagen. Zur Lehre. Illusorie come la infinita totalità sono le altre proprietà clie Cantor crede dover attribuire ai suoi immaginari  numeri della nuova serie al  DI là DELL INFINITO. Cosi il non esser questi più soggetti alla LEGGE DI COMMUTAZIONE (p e q = q e p) (1)  è una evidente ASSURDITà che rivela una inesatta concezione dell'infinito assoluto. Questo infatti è indifferente  in riguardo al più e al meno. Ad esso non si può nè aggiungere nè togliere, come quello che non si lascia originare per via di operazioni. Per poter ad esso aggiungere qualche cosa converrebbe pensarlo dato quale compiuta totalità. Dia è falso che l'infinito si lasci concepire in tal guise. Cosicché invece di operare con esso si opera inavvedutamente con una quantità pur essa finita (2). Il concetto formulato da Diihriug dell’infinito assoluto non è nella storia dell’ONTOLOGIA del tutto senza precedenti, per quanto la critica da lui fatta dell’infinitesimo possa assai più facilmente rannodarsi a  quella del Locke e di Ivant da una parte, e dall’altra  a quella di Carnot, che non si lasci questa sua nuova  distinzione rannodare a’ suoi precedenti storici (3). Vera¬    ci) Cantor: Grundlagen. Bradwardinus distingue nel suo trattato “De Continuo”, come espone Cantor (Geschichte d. Mathematik), “ zwei Unendlichkeiten, die “kathetische” und die “synkathetische”. “Katlietisch” oder  einfach unendlich ist eine Grosse die kein Ende hat.” Syn-kathetisch”  unendlich ist eine Griisse der gegenùber es eine endliche Gròsse giebt  und ein andsres gròsseres Endliche, und wieder Eines gròsser als  jenes Gròssere, und so oline dass ein Letzes sicb fiinde, welckes den  Abschluss bildete; aucli dieses ist immer eine Gròsse, aber nickt wenn  es mit Gròsserem verglicken wird. Man erkennt leicht dass das kathe-  tisck Unendliclie Bradwardinus das Ueberendliche oder Transfinite     ‘mente l’INFINITO POSITIVO di Descartes, di GIORDANO BRUNO e di Spinoza è un concetto che tradisce un’origine quasi del tutto-  ancora scolastica. L’infinito inteso coinè attributi necessario dell’essere è una concezione comune a BRUNO, e mostra chiara la sua derivazione da un altro concetto. Quantunque esso non ha in BRUNO questa sola origine ‘divino’ (1).   unserer neuerer Philosophen ist, dem von Anfang an das Merkmal der Begrenztheit, welches deu endlichen Gròssen zukommt fehlt, wàhrcnd  das “synkathetisch” Unendliche mit den Endlosen oder Infinitcn ùbercin stimmt, welches aus der endlichen Grosse durcli unbegrenztes Wa-  chsen hervorgelit.   BRUNO capovolge la dottrina di Aristotele. Risolve arditamente e con grande acume il continuo ne’ minimi onde liberarsi dalle contraddizioni svelate da SENONE DI VELIA, come farà poi anche ma meno felicemente Hume, e accetta l’infinito nel grande: gli atomi e la infinità del mondo. (V. Acrotismus, art. XLII, citato dal TOCCO, Le opere di  BRUNO, p. liti: De Minimo). Devcsi però avvertire che il minimo è per BRUNO ancora una grandezza che ei pensa giustamente, come fa anche Hobbes, relativamente trascurabile nel calcolo. Il progresso infinito nelle divisioni è solo una continua possibilità  dell’animo, mai un’effettività. BRUNO non nega all’animo, all’immaginazione o alla ratio, a distinzione della mensì di poter ulteriormente suddividere il minimo all’infìnito, -- dum non promere subiectae credat con-  formia rei. — Intìnitae progressioni IMAGINATIONIS seu mathesis NATURA non respondet neque ullus usus ARTI-FICIALIS obsecundat.  De Min. I, 6, 7, 8. Tuttavia anche alla matematica vorrebbe BRUNO dare una base atomistica, facendo valere pel concetto del corpo  matematico ciò che vale per quello del corpo fisico. In questo anzi  non sa BRUNO liberarsi dalla influenza dell’aristotelismo, pel quale ciò che vale della materia doveva naturalmente valere dello spazio. Il suo strano tentativo ricorda l’antica dottrina delle linee indivisibili  o atomiche di Senocrate, anch’essa stabilita per evitare le stesse contraddizioni del continuo messe in chiaro dalla critica dei veliani (V. nello scritto -epì à-riuiov ypaujLùv Apelt, Beitrcige z. Geschichte d.  Griech. Philosoph. dove ne è anche data la traduzione, p. 271 e seg.)  Della dottrina atomistica di BRUNO riconosce giustamente il merito Lasswitz (“ Bruno und die Atomistik”, Viertelsjahrsschift f. icissensch. Tuttavia alcune importanti considerazioni sono comuni al Cusano (1) e a quest’ultimo sulla natura dell’infinito ossia sull’esistenza di un unico infinito in riguardo  al quale non possa esservi divisione possibile uè disuguaglianza se misurato immaginariamente da misure differenti (2). L’infinito assoluto considera poi Spinoza come dato nei noti due cerchi l’uno dei quali è dentro all’altro e che non si toccano nè sono concentrici, esempio  ricavato da Cartesio (Principii) e da Spinoza medesimo già illustrato nella esposizione dei principii cartesiani della filosofia. Ma come è impossibile che  la materia mossa tra due cerchi possa realmente dividersi all’infinito, cosi è impossibile farsi un concetto di una infinità assoluta di disuguaglianze come effettuata  dalla relazione di quelli. Poiché data questa infinità non  è nè può essere. Altrimenti la potremmo anche pensare effettuata in un qualunque segmento di linea da’suoi  punti infiniti. Una tale infinità non può cosi che venir riferita alla facoltà della nostra mente quale suo fondamento ; non può esser che un caso di infinita possibilità  come lo è quello dell'infinitamente grande. Philos. Vili, 33): “BRUNO hat darci» (lcn erkenntnisstheoretiscben Ausgangspunkt seiner Monadologie sicli das bleibendc Verdienst erworben,  den Atombegriff klar und wiederpruchslos dargestellt zu haben. So  lange das Atom nur als Letzes der Theilung gilt, blcibt es immer fraglich, ob man auf ein solches Kommen masse. Erst die Einsicht, dass  es ein Krfordcrniss dcs Erkennens istein Erstes der Znsammcnsetzung  zn liaben, macht den Atombegriff za einem nothwendigen.  Cusano, Dada ignoranza. Già Aristotele tiene per inapplicabile ad ogni grandezza l’intìnito attuale, ma perciò appunto ne aveva rifiutato  il concetto. Il caso (lei due cerchi si lascia ricondurre a quello d’ogni grandezza continua. Ora l’esame del continuo non  può per sè mai darci l’infinito assoluto ; il continuo riceve i termini che noi segniamo in esso senza lasciarsi  però mai esaurire da successive suddivisioni. Con ciò esso non ci dà che il campo di una regola d’operazioni infinite, rimanendo pur sempre finiti i risultati di queste. Che le parti del continuo non si lascino esprimere con alcun numero (nullo numero explicari possunt) indica solo che sarebbe, contradittorio pensare come raggiunto  il risultato d’una operazione infinita ossia da ripetersi senza fine. Il continuo non ci dà insomma che l’infinito  relativo. E così ciò che Spinoza distingue dall’infinitamente grande non è in realtà l’infinito assoluto. Esso è  soltanto lo stesso infinito relativo nella direzione opposta del primo, ossia nella direzione del piccolo (1). Ammette inoltre Spinoza che l’infinito propriamente detto può esser suscettibile di più e di meno. Ma non è esso allora cangiato nel finito? (2) e non dice egli altrove (3) che  (1) SPAVENTA, Saggi critici, p 256-7, seguendo Hegel trova la  distinzione dello Spinoza dell'infinito della immaginazione da quello dell’ANIMO veramente profonda, e ravvisava in questo ultimo fissato il concetto dell’infinito assoluto che trascende ogni determinazione. Infatti però esso non può rappresentare che lo stesso infinito della immaginazione. (2) Vedi lettera XXIX. In complesso questa importante lettera parmi mostrare molta incertezza malgrado il tono suo dommatico e tanto sicuro. I due unici esempi che Spinoza porta dei molti che ei dice  avrebbe potuto addurre dell’infinito dell’ANIMO, non sono omo-genei. La infinità dei moti che furono, e la infinità delle disuguaglianze dei due cerchi non cadono sotto uno stesso concetto. Lo stesso abbiamo  notato del transfinito o trasfinito di Cantor, il quale dovrebbe del pari esprimere appunto e l’intervallo ( 0.1) come totalità infinita, e il complesso della serie dei numeri intieri positivi. (3) Etica, I, prop. XV.  è un assurdo che un infinito possa essere il doppio di  un altro? A questo assurdo risultato arrivano tutti quelli che pensano potersi DARE L’INFINITO NEL FINITO medesimo. Di Locke s’è visto qual razionale concetto egli ha dell’infinitamente piccolo e grande. Locke non sa tuttavia considerare l’infinito altro che nella illimitata addibilità e divisibilità, per cui non intese l’infinito assoluto. Locke analizza con una grande acutezza soltanto  le funzioni dell’ANIMO in riguardo all’infinito, non però il riscontro loro oggettivo. Infatti e questo per Locke ancora Dio, il quale oltre i confini raggiungibili dal nostro ANIMO coll’illimitato progresso, riempiva  tanto l’infinito del tempo che quello dello spazio (1). Ed  è cosi che Locke puo pensare esser l’idea positiva di infinito troppo ampia per una capacità finita e angusta come la nostra (2). Kant scioglie trionfalmente tutte le difficoltà che incontra Locke nell’esame dello spazio (3), e fissa  l’idealità di questo. Una idealità che se è conseguenza  delle stesse ragioni che l’avevano fatta necessaria ai veliani, à però, un significato e una giustificazione scientifica di gran lunga superiore. Ma quanto al concetto  proprio di infinito Kant non fa un passo oltre Locke. E neppure Hume e andato più oltre sulle tracce di  quest’ultimo. E’ non sa anzi per il metodo suo empirico apprezzare la bella trattazione lockiana dell’infinito,  in cui la funzione SINTETICA dell’animo trovava una cosi    Locke : Essay on Human Under ai.  giusta e importante bencliè non del tutto consapevole  applicazione. Hume, senza esaminare particolarmente l’infinitamente grande, si volge in special modo a considerare  l’infinito nel piccolo. Ciò che più, come già GIORDANO BRUNO, imbarazza il grande scozzese è la considerazione della infinità nel continuo, ossia della infinita divisibilità, la quale egli non distingue dall’infinito esser diviso, ossia dalla infinita divisione effettuata (2). Il suo empirismo, confondendo il reale colla forma, lo porta a stabilire lo spazio come composto di punti visibili e sensibili (meno risolutamente però nella “Inquiry”) ; e il tempo della  somma dei minimi delle sensazioni. Come può, si domanda egli, un infinito numero di infinitamente piccoli  non dare una grandezza infinitamente grande? o, come  può un tal numero esser compreso allo stesso modo in  una data grandezza che in una doppia di quella? Come  può passare il tempo da un punto all’altro per un numero infinito di parti reali successivamente esaurientisi ? Sono in conclusione le stesse contraddizioni svelate dapprima da Senone di Velia, l’amato di Parmende. Senone conclude col negare lo spazio e il moto. Hume invece accusa L’ANIMO STESSO senza dare soluzione alcuna definitiva. L’aver confuso la forma col reale, e il non aver più acutamente  esaminate le funzioni sintetiche dell’ANIMO sono la ragione della infruttuosità delle sue ricerche sull’infinito. Locke è insomma l’unico tra’ filosofi moderni, o alti) Treaiise; Essays, edizione World Library. Exsai/s, pag. 379.   (4; Hume: Essai/s.  meno sino a Diiliring, che segna un notevolissimo progresso nella razionalizzazione del concetto di infinito. D’altra parte tra’ matematici, dopo le lunghe discussioni sulla  natura dell’infinitesimo, si fa strada, è vero, con Carnot,  e con Cauchy, in séguito, l’opinione della arbitrarietà del differenziale, ma riman pur sempre come sfondo oscuro l’infinito esatto, una sfinge che i matematici dichiarano spettare AL ONTOLOGO di interrogare. E con ciò la mente è  ben lontana ancora dal trovarsi appagata. Con Gauss  poi, e dietro a lui con Riemann e con Steiner e con  tutti i geometri anti-euclidèi, la nebbia che avvolgeva l’infinito s’è fatta ancora più fitta, e rimarrà cosi quale  indizio dello spirito mistico dell'epoca nostra, la quale  non sente quel bisogno vivo e quell’amore della chiarezza  che cosi grande aveva il secolo decimottavo Nfe i filosofi del nostro secolo sono certo fatti per confortarci della mistica incertezza dei matematici e sbugiardare così il notato  carattere generale dello spirito del decimonono dicontro al secolo  precedente. (V. più sotto di Hamilton e Spencer n. 8). Dove l’universo, come presso Democrito e gl’epicurei, o presso GIORDANO BRUNO e Spinoza si stabilisce dommaticamente infinito, l’ONTOLOGIA non s’è ancor spogliata di  tutti gli elementi puramente poetici. Col criticismo mo¬  derno la questione della reale estensione dell’universo si  è fatta essenzialmente empirica. La illimitatezza della no¬  stra concezione dello spazio non ci garantisce una infinità oggettiva materiale. Empiricamente non si lascia  dimostrare nè la finitezza nè la infinità dell'universo;  È chiaro che chi volesse supporre un riscontro materiale assolutamente completo della nostra concezione infinita dello spazio correrebbe dietro una chimera. La nostra rappresentazione dello spazio  il la sua spiegazione nella costante unità della coscienza e nella sua  libertà del porre e dell’oltrepassare continuamente il posto. Ora a  questa funzione de nostro ANIMO non si deve attribuire senz’altro un carattere oggettivo. Al contrario fa il Urtino infinito il mondo appunto perchè  è infinito lo spazio, ritenendo che la materia stia allo spazio come  questo a quella: “ e se non v’ha differenza tra spazio e spazio, non c’è nessuna ragione che solo quel breve tratto occupato dal nostro  sistema planetario sia pieno e tutto il resto dell’immenso spazio vuoto. „  Cfr. Schopenhauer (Die Welt als Wille ecc.). il quale commenta  gli argomenti affatto ineritici di BRUNO e vorrebbe farli servire a  dimostrare anche la infinità del tempo.  altro che il finito noi non possiamo raggiungere e non  possiamo mai giudicare se altro non vi sia più oltre da  raggiungere nella realtà. Se essa stessa abbia o no dei  limiti come gli à costantemente la nostra RAPPRESENTAZIONE. L’infinito COME TALE non può diventar oggetto DELLA NOSTRA ESPERIENZA. Ma se questa è per la sua natura limitata, non perciò dobbiamo pensar limitata la realta inconscia. Il concetto nostro dell’universo sarebbe dunque sempre solo comparativo. Certo è però che praticamente l'universo sarà per noi costantemente finito, poiché altro che in limiti finiti non può venir da noi conosciuto. Il principio della costanza della materia e della forza  non basta, come crede Rielil (1), a dimostrare la finitezza della massa dell'universo. Seia massa si fa infinita,  dice Riehl, verrebbe a mancarle con ciò ogni determinazione quantitativa, il che è incompatibile col concetto stesso di massa. Ogni determinazione le mancherebbe però naturalmente se considerata solo nella sua trascendente totalità, non mai invece nel finite. Nè d’altro che di  masse finite può aver ad occuparsi l’uomo. Il grande  principio della costanza della materia e della forza, nota ancora Riehl, diventerebbe una mera e inutile TAUTOLOGIA, data la infinità loro. Non potendo evidentemente l’infinito venir nè aumentato nè sminuito. Neppur questo è giusto. Il principio in discorso sarebbe tautologico se stabilisse appunto la costanza della materia infinita come  tale. Non se, come esso fa, stabilisce quella del finito in essa datoci. Infatti la conservazione costante del finito [Riehl, Ber pMosoph. Kriticismus.  non è (lata analiticamente colla inalterabilità quantitativa dell’infinito, poiché come l’infinito non è toccato da  addizione o sottrazione, cosi potrebbe, posta infinita la materia, il finito in essa assolutamente crearsi o annichilarsi senza contraddizione alcuna. G. Mentre la estensione e la massa dell’universo sono presumibilmente finite, ma nessuna necessità apriorica od empirica ci sforza a pensarle piuttosto finite che infinite. In riguardo al tempo concorrono invece necessità  dell’esperienza e dell’ANIMO a farlo nel REGRESSO assolutamente infinito. Il problema cosmologico del tempo non à tuttavia avuto sinora una soluzione definitiva. A il tempo reale mai avuto principio? Vi fu nell'universo o nell’essere un primo cangiamento? E se il tempo non à avuto principio, ed è nel passato infinito, come  può senza contraddizione venir pensata cotesta sua infinità? Che il cangiamento abbia una volta cominciato è, per  il principio di causalità, impossibile ammettere. La ausa  di un cangiamento deve cercarsi a priori in un cangiamento anteriore e cosi via all’infinito. Un cangiamento  assoluto è empiricamente impossibile e a priori inconcepibile. Vi sono nell’essere ultime ragioni dei processi, ma  non ultime cause. In ogni punto del tempo è esistita la  serie delle variazioni. Non che nel concetto di sostanza  si trovi unita necessariamente coll’esistenza l’azione, come  crede il Rielil, e che non lasciandosi quindi  disgiungere il fare dell’essere dalla sua esistenza, venga  ad esser perciò inconcepibile la sostanza scompagnata dal  cangiaménto. Inconcepibile sarebbe solo una esistenza vuota, ossia scompagnata dalla essenza. La forza potrebbe  però concepirsi ovunque come in equilibrio stabile, e con  ciò l’universo come privo di ogni mutamento. Vi è una condizione del divenire cbe non entra mai  come membro nella serie causale -- è questa il fondamento  ultimo d’ogni fenomeno, la ragione della loro possibilità. Un tal fondamento riman quindi come fuori del tempo ossia veramente ETERNO, senza origine nè fine. Non è cosi dei cangiamenti o degli stati momentanei dell’essere. Lo stato precedente a un DATO momento nella serie molteplice dei cangiamenti, se fosse sempre esistito, non avrebbe  mai prodotto un effetto cbe si origina solo nel tempo;  auche quello deve dunque aver avuto una causa, e cosi  all’infinito. Delle cause non ve ne può essere una cbe da  sè inizi assolutamente una serie; ogni causa di cangia¬  mento è essa stessa un cangiamento, e suppone con ciò  un’altra causa, un altro stato cbe la spieghi. Tutto è seguenza nella serie, e un principio assoluto è un assurdo. Una prima causa del cangiamento per cui avvenga qualcosa cbe anteriormente non era, non è in alcun modo a  connettersi coll’esperienza. La fine della primitiva quiete nell’ essere senza una causa che la faccia cessare è  un pensiero irrealizzabile. Esprimerebbe una spontaneità incomprensibile, anche formalmente, cbe noi non  possiamo accettare sensa derogare alle leggi della conoscenza e della natura. Come la legge della causalità non conduce fuori della causalità empirica (all’Assoluto), cosi non conduce fuori del cangiamento. Esenti da mutazione rimangono soltanto la sostanza  e le sue qualità originarie, ossia in generale gli elementi, per cui solo sou possibili le variazioni. La causalità è  applicabile unicamente ai cangiamenti, di modo che causa  di un cangiamento non può mai esser che un altro can¬  giamento, non una cosa come tale. E quindi unicamente  l’ideniico che sta a base del vario FENOMENICO che non  à nè causa nè ragione, se non quella almeno che con Schopenhauer potremmo chiamare la ragione dell’essere,  o di identita. La medesimezza con sè stesso è infatti la  ragione della sua eterna esistenza. Dove non c’è variazione non c’è causa da ricercare. Poiché causa non è  che la ragion reale del cangiamento. Una variazione che  non procedesse in base a qualcosa di stabile è un assurdo.  Degli elementi non si dà quindi nè generazione nè corruzione alcuna. L’essere non è mai causa; le cause che  la scienza rintraccia sono cangiamenti, e le leggi sono la  uniformità e costanza del loro succedersi. Tanto l’essere  universale quanto la materia e la forza sono fuori della  catena causale. Nn sono per sè causa, si bene la ragione  della connessione stessa causale. E cosi l’essere non si  può porre quale ultimo anello della causalità. Tanto il  più remoto fenomeno immaginabile quanto il presente  presupponendo l’essere, il fare dell’essere. Un sistema dinamico non può mai per sè stesso originarsi da un sistema STATICO, come neminanco può a  questo passare. Sempre le forze si son misurate a vicenda, ed elementi di esse si son fatti equilibrio ed altri ànno  prodotto dei cangiamenti col lavoro meccanico; ed equilibrio e lavoro sono sempre stati necessari da una parte  per conservare i cangiamenti lenti concretatisi, ossia in  generale le forme durevoli, e d’altra parte per alimentare la vicissitudine o la vita nell’essere. Il voler dunque tro¬  vare un principio della mutazione sarebbe lo stesso che  credere che la materia una volta non sia esistita. Il sor¬  gere della coscienza a un dato momento nell'universo,  che il momento innanzi noi possiamo immaginare come  affatto privo di vita conscia, non è uua creazione assoluta, nè rappresenta una infrazione alle nostre leggi della conoscenza dell’animo. Perchè quell’apparizione della vita conscia noi  non l’abbiamo a pensare che come una combinazione di elementi, nè di elementi v'è creazione, poiché essi esistono eterni. Pensare la combinazione come occasionata  dallo svolgersi delle variazioni non à nulla di sovrannaturale. Certo la coscienza nella sua natura generale  non à causa; ad essa come agli elementi ultimi d’ogni  realtà è applicabile soltanto ciò che s’è detta la ragione  dell’essere. Altra è però la questione della sua fenome¬  nologia- In questa come nella fenomenologia generale la  causalità à il suo regno. Se la coscienza al pensiero si  presenta come originata dal NULLA, gli è perchè le sue  cause, nella loro natura oggettiva materiale, non possono  in essa evidentemente comparire. Gli elementi di coscienza, o meglio le disposizioni alla coscienza nella realtà  inconscia sono ora come latenti o neutralizzate: una data  combinazione materiale ecco ne suscita la luce subitanea. Il sorgere del cangiamento in generale implicherebbe  invece una derogazione alla legge fondamentale dell’ANIMO; noi non lo possiamo in modo alcuno concepire, e la realtà empirica ci costringe ad ammettere il contrario. Il variabile non è per sè stesso intelligibile senza  un identico a sostrato. La identità dell’io come dà origine alla ragione logica cosi la dà a quella del cangiamento reale. Le diiferenze come tali non possono farsi  contenuto della coscienza. Per esserlo anno a venir riferite a una totalità identica. Ammesso che cangiamenti  potessero avvenire senza conseguire ad altri, verrebbe a mancare la connessione dei fenomeni secondo leggi costanti. Il concetto di natura perderebbe la sua unità e l’ONTOLOGIA con ciò ogni fondamento. Le leggi dell’animo si incontrano invece con quelle della realtà. È chiaro che come l’animo è la condizione inevitabile  della esperienza, e con ciò del nostro mondo fenomenico,  cosi le sue leggi o funzioni generali devono anche di  quello esser leggi a priori, o assolutamente valide indipendentemente da ogni esperienza. Ciò non toglie tuttavia che coteste leggi possano venir trovate, come vengono in realtà, consone alla natura propria delle cose, ossia  non imposte loro direi quasi arbitrariamente, perchè nelle  cose sono le stesse leggi quantunque impensate. Che anzi  in riguardo al fatto dell'esperienza, in riguardo alla unità sistematica dell’essere e dell’ontologia, potrà trovarsi  necessario di veder nelle leggi che la coscienza applica a priori alle cose nuli’altro che un riverbero o meglio  null’altro che l’espressione soggettiva delle determinazioni autonome della stessa realtà inconscia. Ponendo un principio del tempo reale e con ciò un  cominciamento delle causalità non si sfugge d’ altronde  alla domanda. E perchè non prima? Se il primo cangiamento non ebbe causa, o perchè è esso avvenuto solo, mettiamo,parecchi quadrilioni di secoli fa? È vero che non si ammette una causa che l’abbia chiamato all’esistenza, ma nemruanco si dice che qualche cosa l’abhia impedito di  nascere prima. Per questo, per quanto lo si allontani dal  presente, esso riesce sempre troppo vicino. Richiamarsi  alla originarietà dell'essere come fa Duliring, alla sua effettività indipendente da ogni pensiero e da ogni  ragione, richiamarsi alla natura della realtà inconscia, cui il pensiero non può mai ricevere completamente in  sè stesso, mai fondare in senso assoluto, ma soltanto ammettere come fatto, non è permesso quando intanto alla  stessa effettività della natura impensata dell’essere evidentemente si contraddice. Si contraddice, dico, poiché,  lasciando da parte l'analogia del pensiero che ammesso  il cangiamento non sa vedere come esso possa originarsi  in modo assoluto, noi non abbiamo in realtà conoscenza  alcuna di un cangiamento cui un altro non preceda, ogni cangiamento che apparentemente si presenta come  tale — il nuovo nell’evoluzione — noi lo riduciamo è  vero alle forze o forme, agli elementi costanti dell’essere de’ quali non c’è ragione a domandare. Ma il perchè della  loro manifestazione appunto in un tale momento e non  in altro, è nell’ininterrotto cangiamento collaterale, occasionai e in rapporto a quello. Ben possiamo invece richiamarci noi alla assoluta autonomia della realtà, che  nulla ammettiamo contro il suo reale manifestarsi, quando  diciamo che in senso assoluto non c’è una ragione del  perchè quest’oggi, poniamo, sia proprio ora e non sia  già stato in passato o non abbia piuttosto a venire in futuro, che v’è tanto poco ragione di questo suo essere  Logik. il, Wiscnschaftsftheorsie, presente che della esistenza stessa universale : dacché  come questa non à inai avuta fuori di sè la ragione del  suo essere, così nemmanco il suo fare, il suo divenire interno.   In qualunque punto del tempo noi fissiamo l’essere,  non lo troviamo mai privo di determinazioni, perchè queste sono autonome; e dal suo stato in dato momento dipende ogni sua ulteriore evoluzione ; come però non c’ è  un momento in cui l’essere non sia, nemmanco ve n’è uno  in cui esso non abbia un suo stato determinato. E cosi  che del divenire v’ è sempre la ragione in un divenire  anteriore, ma del divenire in senso assoluto, v’è tanto  poco un perchè quanto dei suoi durevoli elementi. In ciò che esiste è la ragione di ciò che esisterà ; in ciò  che à esistito la ragione di ciò che esiste. Nella origina¬  ria nebulosa è la ragione dell’attuale disposizione del sistema nostro solare, ed in altri processi cosmici ebbe  essa stessa la sua origine, i quali se la scienza non può  oggi rintracciare, non è però assolutamente impossibile  che un giorno ella trovi, e che ad ogni modo sono necessariamente avvenuti. Il cangiamento non à dunque avuto principio. Ed  ecco appunto dove sorgono specialmente gravi, e a molti  filosofi son parse insormontabili, le difficoltà del problema cosmologico del tempo. Si è sempre trovato, e  Cusanus, Opera, Complementura theologicum, Si  enim numerare possumus decem revolutiones praeteritas, et centum,  et mille, et omnes. Si quis dixerit non omnes esse numcrabiles, sed  practeriisse infinitas, et dixerit imam futuram revolutionem in futuro  anno, essent igitur tunc infinitae et una, quod est impossibile.  Bacone, Novum Organimi , odi/.. Fcllow, Ne-     Kant è il filosofo che più vi à attira’ o l'attenzione, che  ponendo la mancanza d’ogni principio nella serie regressiva delle cause, si viene conseguentemente ad ammettere che un’infinità di cause si sia esaurita, una infinità  di cangiamenti sia realmente tutta trascorsaci che contraddice al concetto di infinito, ed è quindi assurdo accettare. Non solo Kant, ma anche, tra gli altri, il più  acuto forse dei filosofi post-kantiani, Duliring (1) trova qui una insuperabile contraddizione, ed è stato da essa spinto a stabilire che il cangiamento nel mondo abbia ad un dato punto cosi casualmente senza ragione  alcuna avuto un assoluto principio nell’essere, cosa evi-   quc.cogitari potest quomodo seternitas dofluxerit ad lume diem; cum distinctio illa, quae recipi consuerit. quod sit infinitum a parte ante et a parte post, nullo modo constarò possit; quia  inde sequeretur quod sit unum infinitum alio infinito maius, atque ut consumetur infinitum et vergat ad finitum. Hobbes, il quale  dichiara insolubile la questione dell’ infinito in riguardo al problema  cosmologico, ammette tuttavia cautamente la infinità del tempo nel  passato e non si lascia ritenere dalla contraddizione di un infinito maggiore di un altro che sarebbe data dalla relazione dell’infinito passato a momenti diversi della serie temporale. Non sa però pensar l’infinito assoluto in modo razionale poiché crede di vincere quella supposta  contraddizione obbiettando: « similis demonstratio est siquis ex co  quod numerorum parinm numerus sit infinitus, totidem esse conclu-  deretur numeros pares quod sunt simpliciter numeri, id est pares  et impares simul sumpti ». De corpore La impossiblità del “regressus in infinitum in causis efficienticibus” REGRESSUS IN INFINITUM -- e un principio riconosciuto della scolastica. È vero però che gli scolastici lo facevano ancor più che a dimostrare un principio del tempo, o, secondo loro, del mondo, servire a dimostrare (seguendo Aristotele nella sua  dimostrazione del PRIMO MOTORE) la necessità di una prima causa assoluta. ossia ontologica. Cfr. il libro apocrifo Idella “Metafisica” di Aristotele, secondo il quale non solo la serie delle cause nel passato, ma anche quella del futuro sarebbe contraddittoria. Cursus der Philosophie, Logik. luoghi citati. dentemente assurda, e tanto più per chi come lui è sur  un terreno affatto critico e scientifico. Io trovo al contrario che la illimitatezza della serie regressiva dei cangiamenti si lascia senza contraddizione alcuna concepire infinita o, più propriamente, assolutamente infinita. Dtlliring, non à compreso come l’infinito assoluto possa attribuirsi anche a ciò che è per sé numerabile. E cosi  alla infinità dei cangiamenti nel tempo ritroso, che è l’unico caso dove una tale applicazione sia necessaria, egli  à fatto invece quella ingiustificata della sua manchevole legge del numero determinato. La difficoltà da me superata sta in questo, cui nessuno, per quanto io mi sappia, à mai badato sin’ora (I). I cangiamenti infiniti di cui si discorre non involgono contraddizione perchè essi non sono nè furono mai dati come totalità, ossia come complesso di una serie infinita. Acciò la contraddizione esistesse, bisognerebbe che s’ammettesse tacitamente un principio del cangiamento. Di  fatti altrimenti nell’assenza d’ ogni principio come si può dire. Ora, in questo momento si è esaurita uua serie infinita di cangiamenti ? Ma da quando dunque?  Si pensa con un tratto indefinito di tempo di avvicinarsi di più all’ infinito del passato, mentre in-   -- Questa soluzione è gù brevemente enunciata nella mia “Lettera  filosofica” a I Simirenko” (Torino, Roux). Schopenhauer, Parcrga u. Paralipomena: Wenn  cin erster Anfang nicht gewesen wure, so tornite die jetzige reale  Gegenwart nicht erst, jetzt seyn, sondern wiire schou liingst gewesen,  dcnn zwischen ihr und dem ersten Anfange miisscn mir irgend einen.  jedoch bestimmten und begriinzten Zeitraum annehmen, der min aber,  wenn wir den Anfung liiugnen, d. h. ihn ins Unendliclic hinaufruckén,  mit hinaufriickt, ecc. ecc. E vece noi ne rimangbiaino sempre alla medesima distanza.  Qualunque punto del tempo si scelga, anche milioni di  milioni di secoli addietro nel passato, noi siamo sempre tanto vicini lo stesso all’infinito di prima. Come noi  per quanto risalghiatno addietro non possiamo esaurire  l’infinito che fu, cosi non dobbiamo inavvertentemente  ammettere che l'essere sia ne’ suoi cangiamenti partito  da un punto per quanto distante da noi. Poiché in realtà  ogni e qualunque suo cangiamento ne à sempre avuti  dietro a sè una stessa infinità di altri. Non è che l’essere avendo dovuto compiere i cangiamenti in senso inverso di quello che noi tenghiamo nell’abbracciarli venga con ciò ad aver esaurito una infinità di variazioni. Il tempo nella sua durata bisogna considerarlo analogamente a una retta che in una direzione è assolutamente  infinita e nell’altra in ogni momento terminata, ma prolungabile a piacere all’infinito. Come non implica contraddizione far terminare a un punto una linea assolutamente infinita, cosi non la implica il passato assolutamente infinito che si termina nel presente e può prolungarsi senza limite nel futuro. L’errore di Kant e di Diiliring e di tanti altri sta  nel credere che posta la serie regressiva infinita si abbia con ciò una totalità infinita. L’infinito passato invece non è nè può essere un tutto, e non ammette quindi  alcuna determinazione numerica, pur contenendo in sè ogni  numero. Tale infinità non involge, come crede Diihring,  l'assurdo di una contata (o percorsa , come direbbe Kant) serie infinita (“den Widerspruch einer abgezàblten unendlicher Zalilenreihe”). In qual modo potrebbe una tal serie esser contata? Non s’accorge Diihring che con ciò  egli ammette già quello che ei vorrebbe dimostrare, ossia un principio del tempo reale? In verità è quella  serie non contata, ma innumerata e innumcrabile, ciò  che detto di un infinito non inchiude punto contraddizione. Il moto non à principio nel tempo, e: sino a un  punto qualunque del tempo è trascorsa una infinita serie di cangiamenti — non si equivalgono esattamente. Con  è trascorsa si vorrebbe tacitamente porre come dato ciò  che è impossibile a darsi. Di fatti la contraddizione  scompare subito che si dice: la serie dei cangiamenti nel passato è infinita. É trascorsa sembra rinchiudere l’idea di un punto iniziale della serie, dove (die  i cangiamenti non si possono considerare un tutto o come serie completa senza contraddire al concetto di ogni  assenza di principio. Una infinità di cangiamenti, una infinità  di momenti del tempo non è trascorsa, sibbene l’infinito  trascorre sempre, e in ogni momento è esistita la serie dei  processi. La successione perpetua è appunto la forma  della infinità del tempo. Se si dice che l’infinito è trascorso si scambia, a jiarlar esattamente, il suo concetto, ponendo  in vece sua quello del finito, o almeno si combinano insieme due concetti incongruenti. Poiché ammettendo che una infinità di movimenti è trascorsa o s’è esaurita nel  passato, noi raduniamo in un tutto ciò che per sua  natura non può mai venir radunato. Il concetto di infinito e quello di totalità sono incommensurabili.Una totalità è sempre raggiungibile con una sintesi successiva delle sue parti, non cosi l’infinito. Diciamo invece. Le serie dei cangiamenti del passato è infinita — quale  contraddizione nel pensare che ogni cangiamento avvenuto è stato preceduto da un altro? Dov’è qui l’assurdo  di un tatto infinito che avrebbe dietro a sè ogni momento del tempo? I fenomeni per sè non suppongono se non  i fenomeni che immediatamente li precedono ; e come non c’è qui contraddizione, cosi per quanto noi ci trasportiamo addietro nel tempo, mai la troveremo. Come à fatto il tempo reale a giungere all’ora  presente dall’infinito? È potuto giungere dall’ infinito  perchè non è mai partito. Se fosse a un dato punto partito non sarebbe potuto giungere. E tanto concepibile l’infinito verso il quale tende la serie che quello dal  quale essa procede. Nell’un caso e nell’altro si deve solo  avvertire di non fare un insieme o un complesso di ciò che non è mai dato come tale, ossia un insieme in cui ogni momento dell’ infinito fosse anticipatamente compreso. Kant nella prima ANTINOMIA spiega dapprima egli stesso che l’infinità di una serie consiste nel non poter questa venir mai compiuta per mezzo di una sintesi successiva  e che il CONCETTO di fatalità non è altro che la rappresi) Schopenhauer crede di sciogliere il sofisma Kantiano  con un altro sofisma, distinguendo tra assenza di principio e infinità  del tempo. Schopenhauer cosi infatti obbietta alla tesi della prima ANTINOMIA. Uebrigens besteht das Sophisma darin, dass statt der Anfangslosigkeit der  Reihe der Zustànde, ivovon zuerst die Rede, plutzlich die Endlosigkeit  (Unendliclikeit) derselben untergeschoben und nun bewiesen wird, was  Xiemand bezweifelt, dass dieser das Vollendetsein logisch widerspreclie  und dennocb jede Gegenwart das Ende de Vergangenheit sei. Das Ende  einer anfangslosen Reilic làsst sich aber immer denken, oline ihrer Anfangslosigkeit Abbruok zu tbun : wic sich aneli umgekehrt der Anfang einer endlosen Reihe denken làsst. “Die Welt als Wille” ecc. “Kritik der reinen Venunft”, ed.  Kirchmann p. 3G4, 3GG, 3G0. 4G  sentanone della sintesi completa delle sue parti. Dunque anche secondo lui dovrebbe il concetto di totalità  non esser applicabile ad una serie infinita. Tuttavia per  dimostrare che le cose coesistenti non possono essere infinite, alla loro infinita sostituisce egli appunto il concetto contradittorio di un tutto infinito. Ed à bel giuoco  nel rigettare quindi un tale assurdo. Ecco la sua dimostrazione . un tutto infinito per venir pensato tale dovrebbe  lasciarsi esaurire per mezzo di una sintesi successive. Ma l ’infinito non può mai venir cosi esaurito, dunque  una totalità infinita di cose coesistenti non può considerarsi come data. Insomma dice Kant : una infinità  non potrebbe venir numerata ossia non potrebbe esser  finita, dunque non può esser data; vien rigettato  l’infinito semplicemente perchè è altra cosa che il finito. Non l’nfinito per sè, solo l’infinito nel finito è realmente  un assurdo, poiché come tale dovrebbe esser necessaria¬  mente dato tutto. Ogni insieme di cose deve perciò con¬  tenere soltanto un numero finito di elementi numerabili. Ma  quanto al temilo non c’è ragione di negarne la infinità ;  numerabili sono i processi da un punto a un altro della  serie, non la serie stessa in senso assoluto, perchè ella  non è mai data come un tutto,   Is eli infinito assoluto o transfinito che è proprio del  tempo, non abbiamo più veramente una grandezza ma  1 assenza di essa, poiché è data la necessità della man¬  canza di un limite nel regrèsso, ed una tale mancanza  è oggettivamente mallevata come nello schema spaziale  della mente essa lo è soggettivamente. La ragione della  infinità dello schema spaziale, come di quella della serie dei numeri sta nel soggetto ; la infinità invece della serie causale à la sua ragione nell’ oggetto o nella realtà  estramentale. E appunto solo nell’infinito del tempo passato che si lascia necessariamente attuare un significato  reale del transfinito. Poiché una simile illimitatezza assoluta è bensi anche dello spazio, ma soltanto dello spazio ideale o matematico, in quanto questo viene ogget-  tivato e lo possibilità che realmente è solo nella funzione  mentale vien naturalmente considerata come oggettiva e  per sé esistente indipendentemente da noi. L’infinità del  passato non à, come tale, determinazione alcuna quantitativa, non si lascia esprimere col numero ; in essa è  invece ogni numero e può porsi ogni determinazione rimanendo ella assolutamente indeterminata. Cosi la distanza di due punti nel tempo, per quanto grande la si  immagini, se si à riguardo alla sua relazione all’infinito  del tempo anteriore, non significa nulla per questo appunto che l’infinito assoluto essendo propriamente la  negazione di ogni grandezza nel grande non può venir  posto in relazione con altre grandezze. La nostra fan¬  tasia non può correre che all’ infinitamente grande del  passato. SOLO L’ANIMO ne intende la infinità assoluta.  Della seriedel tempo non possiamo ottenere una assurda totalità ; per padroneggiare quella bisogna uscire  dal cangiamento e volgersi al fondamento della infinità  temporale, ossia all’essere come presente in ogni momento e come fonte d’ogni possibile.   Meravigliarsi che la più grande grandezza immaginabile non sia più vicina all’infinito assoluto che la più  piccola, è analogo al meravigliarsi che la più ampia conoscenza dei fenomeni non arrivi più vicino alla cosa in  sè che la conoscenza più limitata. Qui come là si tratta  di una differenza qualitativa che nou si lascia esaurire  pei aiiazioni di quantità. L’apparente paradosso che con una comunque grande grandezza non s’è mai più  vicini che con altra infinitamente minore al transfinito, riposa in questo, che le due grandezze vengono riferite  a quello senza mantenere di esso il giusto concetto, ma  consideiandolo invece come una quantità determinata;  nel qual caso sarebbe veramente un assurdo dire che da  esso disti ugualmente un dato punto e un altro che fosse  prima o dopo di questo. Come nel transfinito del passato  non c è assolutamente un termine, cosi esso non è raggiungibile in alcun modo; dunque tutte le grandezze  sono per riguardo ad esso insignificanti. Parimenti è un  assurdo credere di poter addizionare una unità al transfinito o trasfinito. Si può solo addizionarla al finito. L’accrescimento esisterà pertanto in riguai do ad un segmento finito di retta, ma non in riguardo alla retta stessa nella  sua infinità. In una retta infinita nelle due direzioni è  indifferente il far la divisione più in un punto che in un  altro da quello lontanissimo ; le due rette risultanti sono  sempre lo stesso transfinito e con ciò sempre uguali. Nella retta co’_a _b _m rx - A — Aoo e oo’B   ossia ( co’A-H AB ) — B oo uguale cioè (A oo — AB).  Si vede cosi contrariamente alla dottrina di Cantor. Dice Cantor. Zu einer unendlichen Zalil, wenn sie als  bestimmt und vollendet gedacht wird, selir «ohi cine endliche hinzu-  gelugt und mit ihr vereinigt werden kann, oline dass kierdurch eine  Aufhebung der letzeren bewirkt wird ; nur der umgekerte Vorgang, die  llinzufugung einer unendlicker Zahl zu einer en dlicbcn, wenn diese che oo-t-1 ( <> —J— 1 secondo la sua notazione) non è maggiore di <», nè 1-f-o è differente da essendo   co’A + A B = A B + oo. Non v’è infinito maggiore d'altro infinito: tanto sarebbe infinito il tempo ritroso se la  serie dei cangiamenti fosse terminata migliaia di secoli  fa, quanto se esso continui all’infinito a trascorrere an¬  cora. Il passato si può misurare tanto a minuti che a  secoli, e dirlo eguale, se fosse lecito così esprimersi, a  numero infinito di minuti o a uno infinito di secoli; non  pertanto sarebbe sempre lo stesso infinito nè più nè  meno. E la ragione di ciò è che la quantità transfinita  non è misurabile. La immensità supera ogni numero,  come direbbe Spinoza.   Nella infinita serie delle cause è da pensarsi un numero di esse (se tale può chiamarsi), maggiore di ogni  numero assegnabile ; oltre ogni raggiungibile anello la  natura ne offre costantemente altri ulteriori. Nella na¬  tura la contraddizione non può esistere ella non ef¬  fettua il passaggio che da un momento a un altro ; e  questo passaggio non può farsi attraverso l’infinito. Per  quanto noi risalghiamo all’indietro nella serie causale,  come non troviamo contraddizione pel pensiero, cosi non la troviamo nella realtà. Essa ci offre sempre e solo un   ziierst, gesetzt wird, bewickt die Anfhebung der letzeren, ohne dass eine  Modification der ersteren eintritt. (Grundlagen ecc.); e più oltre: “Ist co die erste Zalil der zweiten Zalilenelasse, so iiat man:  1+01=10, dagegen u> 4 .i-=(coq-l), wo (co- 1 - 1 ) eine von co durchaus verschiedene Zahl ist. Aiif die Stellung des Endliclien konmtes also alles an. Una tale inapplicabilità della LEGGE DI COMMUTAZIONE ai numeri transfiniti o trasfiniti dovrebbe per Cantor servire inoltre a dimostrare come tali numeri debbano poter essere e pari e dispari insieme o anche nè pari  nè dispari. . 5dato cangiamento e la sua causa. II fenomeno non richiede per la sua spiegazione la totalità della serie delle  cause anteriori, si bene soltanto la causa immediata¬  mente antecedente; e il principio di ragione domanda uni¬  camente la immediata condizione e non una totalità di  condizioni. In quanto la stessa richiesta si rivolge suc¬  cessivamente alla causa della causa e cosi via all’infi.  nito, si viene a domandare costantemente una nuova con¬  dizione e questa è un nuovo membro della serie e niente  di più. Al tempo è essenziale la posizione in atto di un  solo momento.   Fatta astrazione dai cangiamenti, e supposto l’essere  affatto immoto in una rigida stabilità assoluta, noi lo  poniamo però sempre in qualunque punto del tempo ideale  che noi fissiamo ; la sua esistenza la poniamo cosi necessariamente infinita nel passato. Or come può nascere  la contraddizione se noi in uno qualunque di questi punti  pensiamo invece l’essere universale nel flusso del cangiamento? Assurda è la posizione di un tutto infinito,  quale non può qui esser dato, poiché la successione perpetua è la forma dell’infinito del tempo; noi abbiamo  qui una serie che in riguardo al nostro procedere a ritroso nel tempo da fenomeno a fenomeno è infinitamente  grande, e per sé è transfinita come la tangente dell’angolo di 90° -- Wundt è condotto a credere (Philos., Stadie. Kant’s kosmologichen Antinonien n. das Problem des Unendl.) che l’applicazione  de concetto di transfinito non sia possibile nel problema cosmologico  del tempo. Egli crede un tal concetto trascendente, che invece non è  e cosi gli viene a mancare un concetto che esprima la infinità oggettiva ossìa 1 eternità del processo della natura. Il concetto limite del     in.   Kant crede che la sua dottrina della idealità  del tempo e dello spazio o della transcendentalità in  generale, spiegasse la supposta antinomia del problema  cosmologico, e rendesse con ciò inutile e vana la ricerca  di una soluzione. Ma appartenga o no il tempo e lo  spazio al reale in sè, riman sempre tuttavia la questione  se questo, che Kant non può a meno di accettare, si  abbia a pensai’e come fondamento di un mondo fenomenico finito ovvero di uno infinito. Non vale rispondere  che la serie regressiva delle percezioni nostre non può  essere realmente infinita perchè come tale impossibile, e  neppure finita perchè nessun limite dei fenomeni può venir  concepito come assoluto, e dichiarare con ciò insolubile  la questione. Dacché l’oggetto trascendentale condiziona  realmente, come egli ammette un determinato regresso  empirico, per un esempio nell’ordine dei corpi celesti ;  doveva Kant pur ammettere che rimaneva sempre a ve-  regresso infinito (o a dir proprio infinitamente grande) non è già un  concetto trascendente della creazione quale dovrebbe, secondo il  Wundt, accettare ogni spiegazione filosofica della natura (v. Wundt,  “Ueber das Kosmolog. Problm, Yiertelsjahrszeitscb.); quel suo  concetto limite nuli’ altro è invece appunto die l’infinito assoluto  del tempo oggettivo, in base al quale è possibile il nostro infinito (infinitamente grande) regresso. Il non aver considerato l’eternità  del fare della natura, e specialmente il non aver badato die l’infinito regresso è in realtà per la natura un perpetuo progresso, il cui concetto non può venir altrimenti pensato che per via del transfinito,stata la causa per cui Wundt concepì il tempo passato  sotto il concetto deH’intinitamente grande concordando in fondo col  Kant, come il Lasswitz si trova in questo d’accordo con lui. (Ein  Beitrag zum Kosmol. Proli. Viertels. Kritik der reinen Vermnft.  dere se l’oggetto trascendentale determinasse un possibile  regresso finito od infinito (11. Perchè se per lui tuttii  processi compiutisi da tempo remotissimo ad ora non significano altro che la possibilità deirallungamento della  catena dell’esperienza dalla percezione attuale indietro  alle condizioni che la determinano nel tempo; pure egli,  per ciò che s’è sopra citato, non può negare che il possibile regresso delle nostre percezioni secondo le sogget¬  tive leggi della mente, non supponga un regresso ogget¬  tivo determinato dalla realtà inconscia indipendente¬  mente da ogni esperienza. Trasportati a indefinita  distanza dal nostro sistema solare, avremmo noi sempre  ancora nuove percezioni? E cosi, trasportati indefinitamente addietro nel tempo vedremmo noi necessariamente  sempre nuovi cangiamenti? Poiché la nostra necessaria  produzione dello schema dello spazio e del tempo, non  potrebbe per sè far si che noi avessimo nuove percezioni  dove l’oggetto trascendentale non le condizionasse e si  mostrasse con ciò finito. Lo spazio e il tempo ideali non  sono per sè garanti di una corrispondente possibile PERCEZIONE. Non una necessità del nostro concetto a priori del  tempo, ma il principio di causalità richiede la infinità  della serie regressiva dei cangiamenti. Poiché non si  può conchiudere la mancanza di un principio del tempo -- Cfr. Schopenhauer, Parerga. Die wicklichen Dinge der vergangenen Zeit si nel in dm transcendentaien Gegenstand der Erfahnmg gegeben ; sie sind aber ftir mieli  nur Gegenstànde und in der vergangenen Zeit wicklich, sofern als  ich ecc.). Saranno però dunque sempre non null’altro, come dice Kant poco sotto, ma qualcosa di più della possibilità  dell’allungamento della catena dell’esperienza dalla presente percezione  indietro alle condizioni che la determinano nel tempo. ]da questo, che ogni limite è necessariamente da noi  pensato come relativo. La relazione di termine e terminante è infinita come quella di soggetto e oggetto ; perciò appunto vuota ; essa nulla può aggiungere al contenuto reale cui viene applicata. Come il pensiero dell’es¬  sere impensato, che è la forma in cui comprendiamo il  reale, nulla toglie alla realtà estraraentale od in sè della  cosa, allo stesso modo la relazione mentale di limite e  limitante non può evidentemente mettere nella realtà il  suo secondo termine se nella realtà non è dato. Questo  secondo termine, il limitante, rimane, se si astrae da  ogni altra considerazione, un puro complemento ideale. Riehl non seppe neppur egli superare o scio¬  gliere la falsa contraddizione che Kant e Dtihring, per  non dir che di loro, credettero inchiusa nella concezione  di una serie regressiva infinita di cangiamenti. Visto  che la contraddizione stava nel concetto di una infinità  la quale quei filosofi avevano pensato necessariamente   [Hamilton il quale (“Lectures un Metaphysics”, lettura; On logic) segue Kant nelle antinomie, non giunge che a questo risultato, di pensare in riguardo all’infinito del tempo e dello spazio,  che se la ragione non ci fa piegare necessariamente nè da una parte  nè dall’altra, pure in realtà il tempo e lo spazio dehban essere o  finiti o infiniti. (Cfr. del resto l’acume del Mill nella sua confutazione di Hamilton, La philosnphie de IL). Ho Spencer  poi, che à fatto la sua più alta educazione filosofica presso di Hamilton appunto e del suo scolare Mansel, professore di metafisica a OXFORD, seguendo il maestro dichiara questioni insolubili tanto quella riguardanti l’infinità del tempo e dello  spazio che quella della divisibilità della materia e altre ancora. Egli  pensa, cerne è noto, che i concetti di spazio, di tempo, di moto, di  materia e di forza si mostrino in ultima analisi inconcepibili e ci lascino sempre del pari nell’alternativa tra due opposte assurdità, “First Principles”, la quale io stimo  certo l’opera più infelice del filosofo inglese. 54data come totalità, egli pensò di sfuggirla col negare  la numerabilità o la reale distinzione e indipendenza numerica nella catena delle cause e delle variazioni.  Numerabili, dice egli, sono le cose, non i processi. In  quanto le cose sono od appaiono spazialmente divise,  deve è vero valere ciò die il Duhring à formulato come  legge del numero determinato; ma altrettanto, séguita Kiehl, è certo che quella presupposizione non vale per i  processi temporali. Questi non sono, secondo lui, per sé  stessi distinti numericamente : è solo per la nostra distinzione mentale che essi ottengono una tale determina¬  tezza. Un argomento dunque che vale per il numero non  può senz’altro venir applicato al tempo, poiché mancano  in questo per sé considerato e non riferito allo spazio,  degli effettivi processi indipendenti, separati l’uno dal¬  l’altro, o posti insomma come numerabili. Noi possiamo  distinguere dei processi nel tempo soltanto in determi¬  nato numero finito, nessun processo è però indipendente  [Il Itielil (Ber phUosopliischc Kriticismus) inclinava dapprima decisamente a porre con Duhring un principio del cangiamento. Soltanto nella seconda parte del secondo tomo, tormentato dalla necessità del principio di causalità cangiò opinione (quantunque non lo abbia fatto notare egli stesso esplicitamente);  ma per uscire dalla presunta contraddizione dell’ infinito regresso,  pensò, al contrario di prima, i processi come assolutamente, e con ciò  assurdamente continui. Si vede del resto evidentemente clic il Riehl oltre aver cangiato  di parere, non ò nemmanco ancor ora troppo certo della sua nuova teo¬  ria; poiché la tratta troppo brevemente e troppo alla larga, come se  gli scottasse di dover render più minuto conto di ragioni che a lui  stesso non possono parere troppo convincenti Ciononostante l'opera  sua e specialmente la seconda parte del secondo tomo è un lavoro  filosofico non solo di grande valore, ma anche molto attraente, il che  è una cosa assai rara.  1C  e distinto da quello che immediatamente lo precede o  segue. Rielil, non sapendo come uscire dalla supposta contraddizione à dunque rinunciato a concetti di  cui l’esatto pensiero scientifico non sa nè può lare a meno,  senza che ciò del resto gli abbia giovato per la elimi¬  nazione della temuta assurdità come più innanzi vedremo. La questione dell’infinito riguarda tanto il tempo che  lo spazio. Solo si à sempre a distinguere tra l’esistenza  loro ideale ; cioè il loro schema mentale, e la loro esi¬  stenza reale. Non numerabile possiamo noi solo pensare  lo spazio ideale, lo spazio o l’estensione materiale dobbiamo invece necessariamente porla numerabile. Poiché  estensione reale è coesistenza, e la continuità assoluta  non può essere reale ma soltanto ideale ; altrimenti essa  inchioderebbe la contraddizione dell’infinito compiuto nel  finito, chè senza parti è solo il continuo della rappresentazione. Porre la continuità assoluta come effettiva è  non spiegar nulla e mettere il mistero nella realtà, rinunciando a comprenderla. L’irriducibile noi lo dobbiamo  soltanto rilegare negli atomi sia dello spazio che del  tempo reali. I tropi degli Eleati non valgono meno contro il continuo del tempo che contro quello dello spazio;  non meno contro lo spazio percorso da un pendolo in  una oscillazione, che contro il tempo in questa impiegato. In parti ultime non si può dividere il tempo nè  lo spazio ideale, perchè essi nè sono composti nè si originano da una sintesi di parti, come in fatti non possono venire analiticamente scomposti in ultimi elementi  semplici, e sono conseguentemente l’uno e l’altro divisibili all’infinito ; ma non è cosi del tempo e dello spazio  leali, dove la natura viene necessariamente aH'atto. Dice Diehl che solo il nostro intelletto scompone  l’accadere temporale in singoli processi, e che questi solo  per ciò ci appaiono indipendenti, che partono da cose  spaziali e si trasmettono ad altre cose nello spazio. Un processo secondo lui può  aver indipendenza solo perchè vien riferito alle cose nello spazio e non al tempo unicamente. Ma è naturale  che tutti i processi siano nel mondo materiale (e non  vengano soltanto da noi) schematizzati per dir cosi nello  spazio, poiché essi non sono altro che cangiamenti della  realtà spaziale, e unicamente i processi della coscienza  in sè considerati possono venir riferiti al tempo come tale senza riguardo allo spazio. Difatti non pensa ora Rielil che sia concepibile una materia assolutamente  continua come lo spazio mentale, ossia non costituita  da atomi ? Anche  della materia allora si dovrebbe dire che gli elementi  distinti solo la nostra mente li pone. Come può egli dunque affermare ripetutamente che soltanto la riferenza dei  processi temporali allo spazio ci faccia considerar questi  come distinti e per sè numerabili? Voler negare la numerabilità nel tempo reale o ne’ suoi processi dovrebbe  al contrario anche secondo il Riehl esser lo stesso che  negare nello spazio gli atomi o le cose ossia gli aggruppamenti durevoli degli atomi.   Ogni grandezza nella realtà à parti elementari, non  esclusi i cangiamenti; un certo gi’ado di cangiamento è  una somma di successivi cangiamenti minimali. Ma il  pensiero come per istinto sembra rifuggire dalla concezione dell’atomo o minimo temporale, perchè colla determinatezza scompare quel che di vago e di nebuloso  E ir, rdie altrimenti conserva la concezione (lei tempo, e per  cui la mente non avverte o avverte assai meno la inin¬  telligibilità di quello. Colla posizione dell'atomo o minimo,  la natura non più oltre scrutabile del tempo si affaccia  bruscamente all’intelletto. Il tempo come rappresentazione rimane naturalmente strettamente continuo pur essendo discreti i processi reali, cliè la sua continuità assoluta ideale è una proprietà necessaria dipendente dalla  natura della coscienza, la quale tra due processi per  quanto infinitamente vicini interpola pur sempre la sua  unità. Non c’è un minimo concettuale del tempo come  c’è invece e si richiede il minimo reale. I n minimo nella  rappresentazione del tempo sarebbe un punto inesteso, e  considerarlo come elemento della durata tanto varrebbe  quanto rendere impossibile il concetto di questa.   Non deve più urtarci l’accettar gli atomi, o meglio  la concessione atomistica, per la materia, che accettarla  in riguardo alla forza e al cangiamento. Non crediamo  siano più intelligibili gli elementi materiali che quelli  del divenire. La facoltà nostra mentale di pensare gli Lo Schopenhauer trattando nella quadruplice radice del principio di ragione del tempo del cangiamento, mette in piena  e con ciò stridentissima luce il concetto ch’egli à della continuità  assoluta del tempo, quale egli trova acutamente espresso presso Aristotele. “ Come tra due punti v’ è ancor sempre una linea, dice egli,  così tra due ora vi è ancor sempre del tempo. È questo il tempo del  cangiamento ; esso è come ogni tempo divisibile all’ infinito e per conseguenza il cangiamento percorre in esso un numero infinito di gradi  per i quali dal primo stato nasce a poco a poco il secondo. Egli  conchiude con Aristotele dalla infinita divisibilità del tempo, che ogni  contenuto di esso e con ciò ogni cangiamento, o il passaggio da uno  stato all’altro deve essere infinitamente divisibile, e che dunque tutto-  ciò che diviene s’origina in fatti da punti infiniti.  atomi come ulteriormente divisibili vale per tutti e due  gli ordini senza diminuire perciò la necessità che à la  mente di ammetterli. Quel sentimento direi quasi di disagio  clic par darci questa necessità, non è in fondo che ca¬  gionato da quella nostra come ripugnanza a riconoscere  che l’analisi mentale della realtà deve a un dato punto  arrestarsi. La mente deve arrivare ed arriva, ad elementi  i quali non sono più oltre scomponibili, altrimenti il  reale potrebbe sciogliersi nel pensiero.La divisibilità ideale  non porta con sè una reale divisione. Solo il tempo ideale  può venir diviso a piacere all' infinito, e non à quindi  elementi numerabili, ma il tempo reale col suo vario contenuto fenomenico è di sua natura numerabile; quantunque noi, come ci accade per gli atomi della materia, non  arriviamo direttamente a’ suoi elementi. Non meno delle  cose o degli elementi delle cose sono anche i processi numericamente distinti. E se in astratto la grandezza non  à divisione, essa non può tuttavia nella realtà venir  esattamente concepita che come risultante di una immediata ripetizione numerica d’uno stesso identico. L’assenza  di elementi reali è solo nel nostro pensiero che può a-  strarre da ogni divisione nel considerare una grandezza,  ed è pienamente libero di dividerla o accrescerla all’ infinito, allo stesso modo che esso procede co’ numeri. Tanto la natura che il pensiero ànno del resto la possibilità dell’infinito accrescere e interpolare ; ma ne’ loro  prodotti non possono dare che il determinato : l’infinito  si riferisce solo al loro operare, non al loro operato. Il concetto del continuo assoluto applicato al tempo  reale sarebbe del resto affatto inutile anche quando fosse giustificato. Poiché empiricamente un tal continuo noi  non lo incontreremmo mai. Il fatto che noi della sintesi  della natura (come dice Diihring in qualche luogo della “Dialettica”), non abbiamo altro che rappresentazioni di  effettività, non ci dà il diritto di fare delle possibilità  del nostro pensiero la misura della realtà. Come in sé  sia fatto il passaggio da un punto del tempo all’ altro,  non può venir inteso. Tanto varrebbe domandare perché  esiste il tempo o magari l’essere stesso nella sua -effettiva natura Voler ancora spiegare gli elementi del tempo è uno sconoscere la natura del pensiero ; noi non li  possiamo ridurre ad altro perchè il tempo non è un prodotto della mente, è condizione anzi dell’esperienza, e  non à una natura puramente logica. Il passaggio è una  determinazione della realtà che noi non possiamo che  riflettere. Sarebbe lo stesso voler spiegare gli atomi della  materia; noi non possiamo che ammetterli o riconoscerli;  una pretesa spiegazione di essi è assurda poiché il pensiero non è tutta la realtà, ma vien confinato da qualcosa  che se pò dare ad esso un contenuto formale, non può  però dare il suo essere. Da un grado a un alti’O del cangiamento si fa il passaggio in quanto il cangia¬  mento stesso ci si mostra come fatto compiuto. Noi  non dobbiamo quindi illuderci col concetto misterioso del  continuo assoluto di penetrare più addentro nel fare della  natura, nel divenire dei fenomeni. Noi non possiamo mai  altro che constatare gli avvenuti cangiamenti, nuH’altro  possiamo. E cosi in realtà non conosciamo come il cangiamento, ma che il cangiamento s’è fatto. Tornando ora alla soluzione di Riehl, nemmanco col fare la serie dei cangiamenti assolutamente continua  sfugge egli, secondo crede, alla temuta e presunta contraddizione dell’infinito compiuto od esaurito. E 1' errore suo si fa più stridente e palese quando egli sostiene che la infinità del tempo si mostrerebbe esaurita  se si dovesse pensare ad un suo fine nel futuro. Ei  crede che solo in tal caso, per evitare la contraddizione, si dovrebbe ammettere un principio assoluto del  tempo. E così fa dipendere, cosa enorme, la infinità del  regresso dalla infinità del progresso nel futuro. Ma la fine  del tempo non è invece punto contradditoria. É questa  una questione di natura empirica; e cosi secondo lui non  dovrebbe esser allora inconcepibile e contraddittorio neppure un principio del tempo. Il tempo reale, ove fossero  date le condizioni di un equilibrio universale, potrebbe  finire ad ogni momento senza assurdità alcuna. Poiché  ad ogni modo nella natura ogni fine non è della serie  infinita ma dell’ultimo cangiamento. Del resto, sia pure,  ammettiamo che i processi non siano per sé distinti e  numerabili, ma siano invece assolutamente continui. Dice Riehl che le oscillazioni di un pendolo sono  senza dubbio determinate numericamente (id. Ili, 309). Ora come risponderebbe egli alla domanda — nè vi può  in modo alcuno sfuggire — se si debba pensare che insieme sommate le oscillazioni dei pendoli che possono  dall’eternità esser mai esistiti in infiniti mondi, possano  venir compresi da un numero finito ? E se no sotto quale  concetto una tale somma o regola di somma dovrà venir  pensata? A ciò non à egli risposta.  E più ancora come risponde Riehl a quest’altra, la domanda. Il numero delle terre dall'eternità ad ora nate e morte è egli infinito o finito ? Poiché qui manifestamente  abbiamo delle esistenze separate, indipendenti, numerabili  anche secondo lui. L’unica giusta risposta è che un tal  numero è necessarianente infinito, o, propriamente, transfinito. Nel corso perpetuo del tempo non solo non è contraddittorio, sibbene è necessario che un infinito numero di corpi celesti (dato che le moderne teorie cosmiche  siano, come pare, inevitabili) abbia gradatamente avuto  nascita e morte. Con ciò come non vi fu un primo cangiamento, nemmanco vi fu una prima terra. Il concetto dell’infinito assoluto o transfinito è applicabile solo alla serie regressiva dei cangiamenti, non  alla progressiva. La natura di questa consistendo appunto nel crescere suo continuo verso il futuro non può  cadere, se infinita, che sotto il concetto dell’infinitamenfe  grande. Poiché in nessun punto iminaginabi'e del futuro  non si sarà compiuta, a partire da un punto qualunque  del tempo precedente, una infinità assoluta di cangiamenti. E ciò che si avrà sarà solo la continua possibilità  di sempre nuove mutazioni. La questione però se realmente nella natura dell’essere sia la disposizione a qnes'.o infinito futuro è affatto empirica, non essendoci, come s’è visto sopra, alcuna difficoltà che a priori ci impedisca di pensare possibile un termine d’ogni cangiamento in un qualunque momento avvenire. Il concetto del tempo per sé non ci dà alcuna soluzione; la questione  è puramente di fatto. La soggettiva possibile anzi necessaria illimatezza dello schema spaziale non porta seco  necessariamente un infinito riscontro nella esistenza materiale oggettiva. Allo stesso modo neppure la illimitatezza del tempo ideale porta con sè quella del tempo  reale ossia una serie infinita di reali cangiamenti. Essa  non ci impedisce in modo alcuno di considerare come possibile un limite del mondo nel tempo. Se noi siamo sforzati di pensare ad un tempo vuoto non è però il pensiero  di esso che gli dà un contenuto reale in ogni suo momento. Essendo che per sè stesso la vuota durata tanto è  del reale come del nulla ; sebbene la durata non rimane  mai nel nostro pensiero priva adatto di contenuto, in quanto la permanenza dell’essere, indipendentemente dallo svolgersi o no esso in fenomeni, non può mai mancare di  farle riscontro. Ed è in questo una grandissima differenza tra la rappresentazione dello spazio e quella del  tempo. Mentre a niun punto arbitrario del tempo viene  a mancare il contenuto materiale, non così necessaria¬  mente ad ogni punto dello spazio. A parte i cangiamenti  in cui l’universo si svolge è evidente che non può ad.  esso venir applicato il concetto di una determinata durata. Come esso è sempre quello che è, cosi il tempo non  à a suo riguardo significato alcuno. In un qualunque  momento inesteso del tempo 1’ essere è completo, è  tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà. Se dunque nel futuro venisse realmente a mancare ogni mutazione nell’essere, questo potrebbe solo impropriamente  venir considerato come nel tempo; la durata dal punto  in cui il cangiamento sarebbe cessato à soltanto senso  perchè noi la immaginiamo misurata da quella piena di  cangiamenti della nostra coscienza.  Intanto la meccanica non ammette assolutamente la possibilità del passaggio di un sistema da uno stato dinamico ad uno statico. E cosi il tempo futuro è indubbiamente infinito nel senso di una progressione senza  fine – V. anche le considerazioni di Sleyer, “Mechanick iter l Verme”. Tra le due infinità del passato e del futuro sta il momento presente, il quale inchiude la realtà eterna,  la realtà che fu e che sarà. La pienezza dell’essere non  ci sfugge come parrebbe a considerarlo nella infinita sua  fenomenologia. L’essere è sempre tutto presente, non c’ è  elemento di cui possa dirsi che sia stato o che abbia a  originarsi. Certamente l’interesse nostro va al suo svolgersi ne’ cangiamenti per cui solo ci si svela la sua na¬  tura e per cui solo noi ci commoviamo e viviamo. Che  per la coscienza l’essere immoto in una rigida inerzia  non avrebbe valore alcuno. Tuttavia la infinita possibilità del cangiamento è tutta nell’essere in un qualunque  punto matematico del tempo. E cosi T importanza del  tempo finito non si perde di contro alla infinità passata  e futura del processso: ogni momento del tempo ci  dà l’essere sub specie aeternitacis, nè altra mai è stata  la esistenza della realtà che quella del momento.  Solo in questa considerazione della permanenza  eterna del reale possiamo noi comprenderne la infondata e infondabile natura sistematica. Lo sguardo alla incessante evoluzione può troppo facilmente far considerare le interne determinazioni dell’ essere come transitorie. Che l’evoluzione sia tale quale noi l’andiamo scoprendo non è altrimenti a intendersi. Giova quindi, per  la concezione universale dell’esistenza, oltre che aver  riguardo allo svolgimento di un sistema parziale nel  tempo considerare gli altri sistemi parziali del cosmo  nel loro coesistente diverso grado di svolgimento, per  cui si lascia forse quasi pensare come in ogni momento  attuata nello spazio la evoluzione temporale dei singoli  mondi. Nello spazio e nel tempo, da cosa a cosa, da processo  a processo, per il filo della causalità materiale spiega  l’essere la sua unità. Alla necessaria necessità logica rispondi la effettiva unità materiale della esistenza. L’unità dello spazio e del tempo nella rappresentazione non  basterebbero per sè a escludere una radicale disparità  nel reale. Se lo spazio e il tempo fossero puramente  forme ideali nascerebbe il problema del come la realtà  non possa dare origine a duplicità di sorta. E la questione si scioglie solo in quanto si riconosce che l’unità  stessa del reale è che crea quella dello spazio e del  tempo. Le proprietà dello spazio sono esse stesse di na¬  tura meccanica, nè altrimenti potrebbero le leggi della  natura esprimersi in relazioni di spazio ; nelle necessità  spaziali è la logica immanente delle forze della natura. Due spazi differenti sono un assurdo non solo avuto  riguardo al pensiero, ma anche in riguardo alla oggettiva realtà materiale. Il pensiero per sè non trova alcun  impedimento a riunire ogni spazio in uno spazio unico  nel vuoto schema spaziale e non può trovar quindi ragione di considerarlo come disuniforme. Nella realtà poi  la pluralità degli spazi vorrebbe dire pluralità di  esseri. Ora una tale pluralità non solo non può mai  venir oggetto del nostro pensiero e per noi non può quindi   assolutamente esistere, ma è dalla realtà smentita, perchè anche l’esperienza colla omogeneità universale della  materia mostra esser l’essere uno. Le posizioni delle  distanze nello spazio reale non sono che rapporti di  forza. Ogni elemento dell’ esistenza materiale è quindi  nello stesso unico spazio. Non esistendo cosi elemento alcuno fuori d’ogni relazione cogli altri. Analogamente è del tempo reale ; la sua unità suppone quella  dello spazio materiale e dipende insieme dalla universalità del cangiamento. Per la natura radicalmente omogenea delle cose e per la temporalità d’ogni cangiamento  è uno anche il tempo oggettivo. E cosi che i principii meccanici si estendono presumibilmente e con sempre maggior certezza ad ogni massa  dell’universo, a ogni sistema di stelle fisse e gruppo di sistemi. Poiché la base dell’esistenza è di natura meccanica. Solo la sensazione come tale o il campo della coscienza ne resta fuori e riceve dalla spiegazione meccanica una eterogenea sebbene costante e parallela illustrazione. L’unità dell’essere non à riscontro in una fantasticata e contraddittoria unità cosciente universale; rifrange invece per dir cosi la sua unità in quella di molteplici  coscienze individuali. L’unità oggettiva estramentale e la  unità della coscienza: due abissi del pari inscrutabili ma  rispondentisi. Albana e all’altra sta a base e direi quasi  a tergo quella che noi non possiamo concepire che col  concetto formale di ragione o di fondamento unitivo e  subfenomenico dei due fatti. Non è meno inscrutabile  l’una unità dell’altra, sebbene quella della coscienza implica per sé quella materiale oggettiva. Infatti che cosà  di meno oltre analizzabile dell’unità radicale che con la  mutazione si appalesa esistere negli elementi dell’essere? Come spiegare la effettiva comunione delle sostanze, il  fatto che lo stalo di un atomo porti seco un dato altro  stato di un altro? Queste riflessioni ci richiamano alla  infondata originarietà delle cose, e alla natura per così  dire superficiale della conoscenza e del pensiero. Quelli  sono resti refrattari ad ogni ulteriore analisi; nè già per difetto del nostro istrumento, ma per la necessaria natura stessa del conoscere, chè altrimenti la realtà dovrebbe cessare di esistere come distinta dal pensiero. La  analisi à necessariamente de’ limiti, i quali non anno  però bisogno d’esser limiti della conoscenza nel modo in  cui falsamente per lo più vengono intesi, quasi indizi di limitatezza di contro a una sia pur solo logicamente possibile conoscenza superiore. Come non è incondizionatamente applicabile al reale  il principio di ragione, tanto meno lo sono altri concetti  essenzialmente relativi quali quelli di grandezza e di  scopo. Se l’universo è infinito, non à evidentemente per  ciò stesso determinazione alcuna quantitativa; se finito  è vero però che in relazione ad una sua parte esso à  una grandezza determinata, sebbene nell’estenzione variabile da un momento all’altro. E che possiamo quindi  dirlo più piccolo di una grandezza posta mentalmente  superiore alla sua ; che anzi possiamo anche considerarlo  infinitamente piccolo in relazione all’infinito assoluto dello  spazio ideale. Ma in sè non si potrebbe dirlo propriamente nè grande nè piccolo, perchè fuori di esso non vi  è nulla che possa darci una unità di misura. E del pari  è affatto relativo il concetto di durata e inapplicabile  perciò in modo incondizionato all’essere. Questo non  dura nè tanto nè poco; e la ragione di ciò è che esso  non è nel tempo. Considerando però la serie dei cangiamenti, al contrario di quanto ci accade per lo spazio,  lo schema ideale del tempo riceve necessariamente un  contenuto reale perfettamente corrispondente. E sciogliendo la difficoltà che più che tale a molti filosofi è  parsa sinora una stridente contraddizione, abbiamo visto  che come per mezzo del tempo si fa possibile il cangia¬  mento, il quale altrimenti sarebbe contraddittorio, cosi  per il cangiamento trova una necessaria applicazione alla  realtà oggettiva l’infinito assoluto o trans-finito. Mario Novaro. Novaro. Keywords: implicatura ligure, ‘la riviera ligure’, Grice echoing Kant, echo, implicature ecoica, Strawson’s ditto-theory of truth, Strawson’s echoic theory of truth, Skinner on echo – ecoico, eco, implicature ecoica, infinito, Lucrezio – Luigi Speranza, “Grice e Novaro” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Riviera Ligure.

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